Caleidoscopio

di HamletRedDiablo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno Scettro in mezzo al Cielo ***
Capitolo 2: *** Sangue sull'Argento ***
Capitolo 3: *** L'Auspicio ***
Capitolo 4: *** Il Custode dei Cancelli ***
Capitolo 5: *** Cuore d'Inverno ***
Capitolo 6: *** Prigione Caina ***
Capitolo 7: *** Hellsing ***
Capitolo 8: *** Belial ***
Capitolo 9: *** Il Confine del Mondo ***
Capitolo 10: *** Hispaňa ***
Capitolo 11: *** L'Accordatore ***
Capitolo 12: *** Il Mago dell'Ovest ***
Capitolo 13: *** Gunsmith ***
Capitolo 14: *** Le Mani del Diavolo ***
Capitolo 15: *** Il Portavoce del Sole ***
Capitolo 16: *** L'orfano ***
Capitolo 17: *** Heracles ***
Capitolo 18: *** L'Aquila ***
Capitolo 19: *** Rancori Passati ***
Capitolo 20: *** Il Demone ***
Capitolo 21: *** Le Stelle di Chugoku ***
Capitolo 22: *** L'ultima settimana del Vaticano ***
Capitolo 23: *** Ludwig ***
Capitolo 24: *** Guerra ***
Capitolo 25: *** La fine del Vaticano ***
Capitolo 26: *** Veglia ***
Capitolo 27: *** La Grande Partenza ***
Capitolo 28: *** La Nuova Confederazione ***



Capitolo 1
*** Uno Scettro in mezzo al Cielo ***


Prologo: A un passo dalla fine

 

 

«Un caleidoscopio è magico!»

«Per quale motivo?»

«La realtà è solo una, ma attraverso il caleidoscopio si fraziona in mille realtà diverse!»

Il fratello lo aveva guardato con un sopracciglio alzato.

Aveva passato una mano tra i capelli, scompigliandoli svogliato.

«Non è magia. È solo un’illusione.»

«Perché?»

«Perché…»

 

Le mura erano bianche, le mattonelle erano bianche, i tappeti erano bianchi.

Perfino la pelle del ragazzo era bianca, tanto da essere quasi impossibile distinguere tra il bordo inamidato della mantella candida e il collo niveo.

Ludwig osservò impassibile il ragazzo che terminava di infilare i guanti color neve. Sfregò distrattamente il braccio sinistro, dove i fori delle iniezioni prudevano ancora: proteggere l’Asse era un lavoro a tempo pieno, per cui assumeva giornalmente un farmaco che annullava il suo bisogno di riposo, in modo da poter vegliare su quel giovane anche durante la notte.

Sospirò mentalmente, ma le labbra rimasero sigillate. Il compito di Guardiano non era semplice: doveva sorvegliare quel ragazzo ogni giorno, ogni minuto, senza mai distrarsi e senza mai stancarsi. Ma il ruolo dell’Asse era certamente peggiore: Feliciano era condannato a una vita di solitudine, isolato nella torre più alta del Palazzo di Quarzo. Il ritiro più estremo era l’unico modo per mantenere quel giovane immacolato e incontaminato da qualunque sporcizia del mondo comune, poiché solo la purezza dell’Asse garantiva la stabilità della Confederazione.

Nonostante l’isolamento, un Guardiano era necessario: alcuni malavitosi particolarmente audaci avrebbero potuto cercare di rapire l’Asse per ottenere i suoi poteri e la sua funzione di controllo.

Ludwig posò i suoi occhi azzurri e freddi sul giovane di fronte a lui, che aveva appena terminato di calcarsi sulla testa il berretto latteo. Era ridicolo pensare che il destino della Confederazione gravasse su spalle così fragili: erano quasi più sottili della mantella che le ricopriva.

Feliciano terminò la vestizione e si girò con una piroetta su se stesso.

«Ho finito» trillò, prima di dirigersi verso l’inginocchiatoio di perla.

Ludwig si sistemò alle sue spalle, e lo spadone che portava appeso al fianco graffiò lievemente il pavimento iridescente. Un’altra mattinata di preghiere e solitudine. Come sempre.

Feliciano congiunse le mani guantate e, prima di salmodiare gli inni rituali, espresse un piccolo desiderio personale:

«Spero che mio fratello stia bene, ovunque egli sia.»

 

***

 

In un altro luogo, un altro biancore aveva preso vita.

Era il pallore spettrale sulle guance del capo delle guardie, che guardava sconvolto i suoi sottoposti.

«Avete imprigionato Lovino Belial?» tartagliò, sconvolto.

«È un pericoloso criminale, signore. Un pirata della peggior specie…»

«Siete completamente impazziti?» sberciò il capitano, di colpo paonazzo. «Un delinquente del suo calibro non può essere tenuto in una prigione modesta come la nostra!»

«Per quanto sia forte, non può fare molto se è legato dai ceppi…» notò una sentinella, subito zittita dal capo, ormai sull’orlo di una crisi di nervi e di coronarie:

«Quel ragazzo è la Mano Sinistra del Diavolo! Non vi dice niente?»

Quasi strappò a unghiate l’espressione ebete dei suoi uomini, e proseguì, sputacchiando saliva e isteria:

«Chiamate rinforzi o fatelo uscire! Non voglio che la mia prigione venga rasa al suolo per-»

«Temo che sia un po’ tardi per i ripensamenti».

Il capo toccò quasi il soffitto per lo spavento. Alle sue spalle era comparso improvvisamente il motivo della sua agitazione: un ragazzetto che pareva lo spettro di un essere umano, con i capelli ramati e la pelle smunta. I tanto declamati ceppi non erano riusciti a frenare quel giovane, che si sfregava i polsi arrossati con aria seccata.

«Che l’Asse ci protegga» si lasciò sfuggire una guardia.

Il cipiglio del ragazzo si accentuò, e ogni speranza residua di salvezza venne frantumata dalle parole del giovane:

«Non nominate l’Asse. Non dovrebbe nemmeno esistere.»

Non ebbero tempo di pensare ad altro: un boato fragoroso scosse le fondamenta della prigione e ne sbriciolò le mura: uno stormo di mattoni e frammenti di cemento sfrecciò nell’aria, riempiendola di una polvere densa e pruriginosa. Le urla delle guardie si spensero mentre si accasciavano a terra svenute, chi colpito da un brandello di muro e chi soffocato dal pulviscolo urticante.

Quando quel putiferio terminò, Lovino si ergeva nel cerchio formato dalle sentinelle prive di sensi, una mano impegnata a tenere premuta una piccola mascherina sul viso. Il capo delle guardie sentì i polsi tremare, poco prima che i suoi occhi si rabbuiassero su quella figura immobile: vedere un ragazzino così smilzo predominare su una folla di uomini armati e uscire illeso da un simile caos, come se un’entità maligna avesse steso il suo mantello protettivo su di lui, era qualcosa di spaventoso. Capiva perfettamente perché lo chiamassero la Mano Sinistra del Diavolo.

Il capo non riuscì a mantenere i suoi sensi vividi abbastanza a lungo da scorgere la persona che era venuta a riprendersi Lovino: non poté così vedere la Mano Destra del Diavolo scendere dalla passerella della sua Aeronave per atterrare con un balzo felino accanto al ragazzo.

Lovino osservò critico l’Aeronave – che era atterrata su quella prigione disintegrandone le mura – e il suo Capitano prima di sentenziare:

«Sei in ritardo. E sei un casinista, come sempre.»

«Sono arrivato al momento giusto, invece» lo contraddisse l’uomo, con un sorriso affabile sul volto. «Ti sei appena liberato dalle catene.»

«Credevo che avresti mosso quel tuo pesante sedere molto prima per liberarmi dalla cella» obiettò aspro Lovino.

Il sorriso dell’uomo migrò negli occhi verdi mentre si chinava per mormorare:

«Anche se sei il mio amante, Lovino, non significa che debba proteggerti come farei con una fanciulla indifesa.»

Il ragazzo lo raggiunse sul mento con una testata, e  guadagnò la passerella mentre l’uomo premeva le mani sull’osso dolorante.

«Andiamocene» decise, dispotico.

Antonio lo raggiunse con uno svolazzo, incurante del pessimo temperamento del suo compagno. I marinai salutarono entusiasti le Mani del Diavolo, e si mossero veloci per seguire gli ordini del loro capitano.

L’Aeronave mugghiò come il mare in tempesta mentre i suoi razzi azzurrognoli sfiatavano per farla sollevare. Ma il suo lamento venne coperto dal ruggito di guerra di una seconda Aeronave, che scese in picchiata verso di loro.

Antonio e Lovino sospirarono in sincronia, notando la bandiera che garriva al vento.

«Di nuovo Arthur» notò l’Ispanico. Lovino annuì, masticando le guance come per un boccone amaro.

L’Aeronave di Antonio si lanciò nello spazio, dando inizio a una turbolenta gara di velocità tra meteore e nebulose per sfuggire alla caccia del Britannico.

Nonostante la velocità supersonica, Lovino riuscì a lanciare un’occhiata feroce al Palazzo di Quarzo, nitido e perfetto contro lo spazio scuro. Digrignò i denti come un animale in gabbia e ringhiò:

«Ti farò sputare fuori mio fratello, bastardo.»

 

***

 

Un fruscio di seta accompagnò il movimento del cinese sul letto.

Raccolse la vestaglia rossa in modo che coprisse le sue nudità e si rialzò sul letto. Il suo sguardo onice venne catturato istantaneamente dalla spada che riposava poco lontano dal giaciglio.

Strinse le dita sull’elsa, e assorbì con avidità il celestiale sibilo della lama che abbandonava il fodero.

Era giunto il momento per Ivan di rispettare la parola data.

Insieme, avrebbero ucciso Kiku.

 

***

 

Il Fiammingo sorrise sopra il calice di vino, osservando l’espressione afflitta negli occhi sanguigni del suo compare.

«Dove pensi che ci condurrà tutto questo?» domandò istrionico.

L’uomo scosse la testa dai capelli argentati, e la sua risposta uscì con uno sbuffo irritato:

«Non lo so. Non lo so, maledizione! L’Universo potrebbe anche finire per colpa di questi stupidi battibecchi!»

Francis si bagnò le labbra nel sapore delizioso del nettare d’uva: i nati in terra Fiamminga come lui sapevano sempre apprezzare il buon vino, i piaceri dell’amore e le poesie ben narrate. Perfino quando la morte si trovava a non più di un passo di distanza.

«Ti ricordi come è iniziato tutto questo, Gilbert?»

«Che senso ha parlarne adesso?»

«Forse non cambierà il corso della storia, ma è sempre utile voltarsi indietro, quando si è a un passo dalla fine.»

«Per quale motivo?»

«Perché a volte il cammino è così lungo che ci si dimentica il motivo per cui ci si era messi in viaggio.»

Gilbert emise un suono a metà tra un ringhio e un conato, e sbottò:

«Non parlare in poesia con me. Se hai qualcosa da dire, dillo e basta.»

Francis sorrise, sorbì un sorso di vino e flautò:

«Non è nulla di importante. Avevo solo un po’ di nostalgia di tutte le persone che ci hanno abbandonato lungo il cammino.»

«Rimpianti» esacerbò Gilbert. «Ecco il motivo per cui non bisogna voltarsi indietro.»

«Hai la voce ferma, ma ti tremano le spalle.»

«Chiudi quel buco rumoroso che hai sotto il naso!»

Francis si zittì vuotando il calice.

E lasciò la memoria libera di galoppare ai primordi di quella storia.

 

 

Capitolo Uno: Uno Scettro in mezzo al Cielo

 

Nessuno sapeva cosa avesse pensato il signor Vargas quando l’ostetrica gli aveva comunicato che sua moglie aveva partorito due gemelli. Il suo viso era rimasto irrigidito come quello delle statue che affollavano la Villa Topazio. Ma tutti ricordavano le sue prime parole riguardo i figli appena nati:

«Solo uno diventerà l’Asse. L’altro è inutile.»

Da quando l’Universo aveva dato luce alla prima generazione di umani, la famiglia Vargas aveva sempre inviato i suoi primogeniti al Palazzo di Quarzo perché ricoprissero il ruolo di Asse. Ai secondogeniti era affidato il compito di dare una discendenza alla famiglia.

L’Asse di allora, lo zio del signor Vargas, era ormai prossimo alla tomba, e vi era urgenza di trovare un degno sostituto. E in quel momento sua moglie aveva dato alla luce i suoi primogeniti.

Ma i gemelli erano considerati qualcosa di malvagio, all’interno delle famiglie Vaticane, addette alla sovrintendenza degli affari religiosi della Confederazione; un’anima sola scissa in due corpi era qualcosa di maligno e innaturale, che avrebbe certamente portato disgrazie su tutti loro.

Avrebbe atteso di capire quale dei due figli fosse il più adatto a diventare il futuro Asse, e avrebbe eliminato l’altro per restituire al prescelto la sua metà mancante di anima.

In quell’esatto momento, i due gemelli avevano cominciato a piangere. E l’ostetrica non era riuscita a spiegarsi perché, all’improvviso, i due neonati avessero cominciato a disperarsi e a cercare il fratello come se temessero che gli fosse strappato via.

Il signor Vargas li aveva osservati con un cipiglio fosco in volto.

«Maleficio» aveva sibilato, abbandonando la stanza.

 

***

 

Dieci anni dopo, due fratelli si tenevano per mano, nell’oceano di lenzuola bianche che era il loro letto.

«Guarda!» aveva esclamato Feliciano, indicando fuori dal soffitto di vetro. Nella cupola nera della notte, il Palazzo di Quarzo emanava il suo placido candore. La magia delle famiglie Vaticane garantiva impeccabile stabilità a quella costruzione dalla forma simile a quella di un cristallo, che galleggiava serena nel bel mezzo del nulla, rischiarano i Mondi della Confederazione con la sua aura angelica.

Lovino aveva inclinato la testa, perplesso.

«Sembra uno scettro in mezzo al cielo» aveva commentato.

«Vorrei tanto vederlo» aveva cinguettato Feliciano.

«Io no» aveva brontolato Lovino.

«Perché?»

Lovino aveva storto la bocca, contrariato.

«Mi sembra… solo. Lì fermo in mezzo al nulla. È un cristallo che piange.»

La mano di Feliciano aveva stretto con più forza la sua.

«Tu non mi lascerai da solo, vero?» aveva quasi piagnucolato, rannicchiandosi contro di lui.

Lovino gli aveva scompigliato con forza i capelli e aveva sbottato:

«Siamo fratelli. È ovvio che non saremo mai soli.»

«E se dovessero dividerci?»

«Anche se dovessero dividerci, io sarei nel tuo sangue, nei tuoi sogni e nei tuoi ricordi. Siamo gemelli.»

Non era certo di essere risultato convincente, ma aveva sentito il sorriso di Feliciano disegnarsi sulla sua spalla. Anche se il Palazzo di Quarzo gravava su di loro con la sua luce, Feliciano sorrideva. Era sufficiente.

 

***

 

Il signor Vargas aveva avuto prova che i gemelli fossero qualcosa di demoniaco man mano che i suoi figli avanzavano nella crescita.

Era capitato più di una volta che uno dei due si ferisse, e l’altro avvertisse il dolore nel medesimo punto e nel medesimo istante. O che i due bambini si svegliassero di mattina e parlassero dello stesso sogno, come se avessero viaggiato insieme durante la notte. Episodi innocenti che riempivano i bambini di gioia e il padre di sospetto.

Poi, un giorno il Cielo aveva inviato un messaggio su chi dei due fosse il predestinato alla carica di Asse. Accadde, un giorno di primavera, che i due bambini si trovassero nei pressi di un bosco per giocare. Un lupo selvatico era uscito dalla foresta, e Feliciano aveva giunto le mani e mormorato una preghiera. Il suo piccolo corpo si era illuminato come una stella, mettendo in fuga la belva.

A quel punto, il signor Vargas non aveva più avuto dubbi.

L’ordine fu preciso e spietato: separare i due gemelli e portare Feliciano al Palazzo di Quarzo. E abbandonare Lovino sul pianeta più desolato della Confederazione.

 

***

 

«Non vuole mangiare?»

Il signor Vargas passò una mano tra i capelli, risentito.

Avevano trascinato Feliciano al Palazzo di Quarzo, e il bambino aveva inscenato uno spettacolo assai poco decoroso per un futuro Asse: aveva scalciato e si era ribellato con tutte le sue forze, mentre si tendeva disperatamente verso il fratello, trascinato via da spaventosi omaccioni in divisa. Ed era un’intera settimana, da quando aveva varcato il cancello del Palazzo, che rifiutava ostinatamente il cibo. Si limitava a respirare in un angolo della sua stanza, senza mangiare e senza parlare.

La sentinella gli suggerì di entrare e rincuorare il figlio, cosa che il signor Vargas fece con estrema riluttanza. Non capiva perché quel bambino si agitasse tanto: essere l’Asse era la massima onorificenza ottenibile all’interno della Confederazione.

Una vocetta essiccata si arrampicò a fatica nella gola riarsa del piccolo in uno strano saluto:

«Aspettavo che tu arrivassi.»

La bocca del signor Vargas si contorse in una smorfia risentita. Avrebbero dovuto cancellare quelle occhiaia, e fare qualcosa per le screpolature che spaccavano le labbra del piccolo. Non potevano permettere che l’immagine delle famiglie Vaticane venisse intaccata da quella grottesca caricatura di bambino.

«Dov’è mio fratello?»

Il padre incrociò le braccia al petto e mitragliò, secco:

«Tuo fratello non è più a questo mondo. Doveva restituirti la tua parte di anima, e l’ha fatto.»

Feliciano rovesciò la testa all’indietro, e nello sguardo che indirizzò al padre scintillò un bagliore raggelante.

«No. Non lo avete ucciso» si era rannicchiato nelle sue ginocchia spigolose e aveva proseguito: «Quando si feriva al gomito, sentivo male anche io. Quando cadeva, nemmeno io riuscivo a camminare. Se fosse morto, sarei morto anche io. Per questo so che è ancora vivo.»

«Non possiamo tollerare un Asse con solo metà spirito. Per questo è stato… epurato» replicò asciutto il signor Vargas. «E poi, i poteri che aveva mostrato erano immorali. Al contrario dei tuoi.»

Feliciano fece ciondolare la testa in un cenno di diniego, e allungò una mano verso il pranzo, ancora intoccato sul suo comodino bianco.

«Tornerà a prendermi. Me l’ha promesso. Non mi farà stare da solo nello scettro del Cielo. Non mi farà piangere con il cristallo» affondò il cucchiaio nella minestra, ma, prima di inghiottire il boccone, dichiarò: «Non mangio perché voglio diventare Asse. Mangio solo perché voglio rivedere mio fratello.»

Il signor Vargas uscì dalla camera, esasperato. I gemelli erano certamente le creature più problematiche del mondo: erano attaccate così morbosamente al proprio fratello da non comprendere quale fosse la giusta strada da percorrere, e quanto misericordiosi fossero gli adulti intorno a loro.

Lo avrebbe aspramente rimproverato, se lo stesso Feliciano testardo fosse uscito da quella stanza, il giorno dopo. Ma l’undicenne che venne rigurgitato dalla camera fu uno sconosciuto.

Un bambino impeccabilmente vestito con la complicata tunica da Asse Novizio si inchinò di fronte al signor Vargas, senza mai smettere di sorridere.

«Sono pronto a iniziare gli addestramenti, padre» gorgheggiò melodioso.

Il padre accettò di buon grado quella sua inspiegabile accondiscendenza, mentre le sentinelle che assistettero alla scena si sentirono gelare il sangue nelle vene: in quella settimana di digiuno, il piccolo Feliciano aveva cucito su di sé un travestimento con pazienza e metodo. Aveva rifinito i bordi e limato le smussature, ed eccolo emergere in un tripudio di luce e buoni sentimenti quando solo il giorno prima aveva rivolto la propria sfida al genitore.

Non si riusciva più a scorgere l’anima nascosta da quel sorriso fasullo, non si riuscivano a intuire i pensieri celati dietro quel galateo irreprensibile.

Deglutirono sonoramente, inquietati dalla facilità con cui quel bambino era riuscito a camuffare la sua anima. I gemelli erano davvero delle creature spaventose.

«Vieni, Feliciano» lo invitò il padre. «Dobbiamo presentarti il tuo Guardiano.»

Il sorriso con cui il bambino accettò la proposta del padre spaventò ulteriormente le sentinelle: non era l’espressione infantile di un innocente, era la recita di un giovane costretto a crescere in una sola settimana.

Cercarono di avvisare il signor Vargas, e come premio i loro corpi vennero bruciati in uno dei mondi meno controllati della Confederazione.

Messe a tacere quelle voci dissenzienti, il signor Vargas poté finalmente bearsi in un coro di lodi e incensamenti su Feliciano, i cui poteri superavano quelli degli Assi degli ultimi trecento anni.

 

***

 

La sabbia era rovente e ruvida, ma non quanto la sua gola desiderosa di acqua.

Lovino arrancò nella polvere del pianeta desertico su cui era stato abbandonato, ostinato a sopravvivere a quella calura e a quella desolazione.

Doveva essere eliminato, ma nessuno avrebbe mai osato sollevare la spada contro un sacro frutto delle famiglie Vaticane: avrebbe portato cento anni di sventure su tutta la discendenza dello sciagurato. Così lo avevano abbandonato sul pianeta Sahariano, in attesa che quell’impietoso deserto giustiziasse l’indesiderato Vargas.

Lovino si accasciò a terra, respirando polvere e aria arroventata. Non voleva morire in un modo così insensato, lasciando suo fratello solo nello scettro in mezzo al Cielo.

Batté le palpebre sugli occhi secchi, temendo che i suoi sensi abbrustoliti dal sole implacabile si stessero prendendo gioco di lui: nell’aria distorta dal caldo, gli parve di scorgere le figure tremolanti di alcuni uomini.

Mosse le labbra a vuoto alcune volte prima di raccogliere la saliva necessaria per sputare:

«C’è qualcuno?»

Le ombre indistinte barcollarono nella sua direzione, mentre stralci di conversazione raggiungevano le sue orecchie bollite.

«Che ci fa qui un bambino?»

«Da dove è venuto?»

Una mano callosa lo afferrò per il colletto, sollevandolo da terra come un gatto, e delle dita prive di gentilezza gli districarono i capelli sulla nuca. Il suo lignaggio splendette sotto i raggi cocenti del sole: il blasone delle famiglie Vaticane, un tatuaggio argenteo a forma di croce, lanciò barbigli sprezzanti alla plebe che lo circondava.

Una bestemmia come non ne aveva mai sentite pronunciare gli scartavetrò il collo: simili parole non erano nemmeno pensate, alla Villa Topazio.

«È un Vaticano!» rumoreggiò una voce aspra sopra di lui.

«Ammazziamolo prima che ci denunci!» abbaiò un altro.

«Non…» Lovino tossì e annaspò prima di riuscire ad articolare: «Non uccidete Feliciano. Ammazzate tutti gli altri, ma non Feliciano!»

Un’ombra imponente si distese su di lui, e una voce calda e beffarda si sorprese:

«Un Vaticano che incita dei pirati a uccidere la sua stessa famiglia? E lascialo andare, Garcia! Con quei badili che hai al posto delle mani potresti spezzargli quelle ossa da merlo.»

Lovino precipitò verso il suolo nel momento in cui l’energumeno rilasciò la presa, e fu salvato all’ultimo secondo dal possessore della voce ironica.

«Intendevo con un minimo di delicatezza, Garcia.»

«Dovete essere più specifico, Capitano.»

La testa del piccolo penzolò senza forze, mentre due braccia muscolose lo sollevavano da terra. Lovino colse solo un baluginio di iridi verdi con le sue pupille essiccate.

«Ti daremo da bere. E sentiremo che altro hai da dire sui Vaticani.»

Poi il mondo diventò troppo vorticoso e colorato per essere seguito dai suoi sensi disidratati.

 

***

 

Un ringhio gli fece vibrare i denti quando il boccale venne allontanato dalle sue mani.

«Devi bere con calma, o ti sentirai male.»

«Sono quasi morto. Non posso stare peggio.»

Lovino osservò con astio il suo salvatore mentre quest’ultimo gli restituiva il bicchiere.

Doveva la vita al capo dei pirati della Reina de la Oscuridad, Antonio Fernandez Carriedo, un Ispanico dagli occhi smeraldini e il sorriso derisorio. Un codino di riccioli scuri spuntava dal cappello a tre punte e si adagiava sul cappotto scarlatto da capitano. Su quell’ultimo dettaglio del suo abbigliamento si appuntò l’attenzione di Lovino: a sinistra della fila di bottoni dorati spiccava la decorazione con il simbolo della sua nave, mentre sulla destra erano allineate tutte le medaglie dei capitani sconfitti. Ed erano numerose quanto le stelle in cielo.

«Sei troppo piccolo per aver sconfitto tutta quella gente» lo accusò Lovino, prima di affondare le labbra nella tanto desiderata acqua.

«Sono comunque più grande di te» replicò Antonio. Passò un dito sulle placche metalliche, facendole tintinnare con orgoglio. «Voi Vaticani nascete con i poteri necessari a diventare uomini di Chiesa. Noi Carriedo nasciamo con… altri poteri. Per questo riesco a primeggiare anche su persone con più esperienza di me.»

Il piccoletto lo osservò dubbioso dal bordo del boccale. Antonio incrociò le dita sul ventre, e insinuò:

«Saresti davvero disposto a tradire la tua famiglia?»

Il boccale venne appoggiato con un tonfo secco sul tavolo.

«Voglio liberare mio fratello dal Palazzo. Non mi importa del resto.»

«E faresti qualunque cosa?»

«Qualunque cosa.»

Una punta del cappello sfiorò la spalla del capitano quando questo osservò il piccoletto da un’angolazione diversa.

«È un’affermazione molto crudele» Antonio marcò ogni singola parola, per far avvertire il loro peso al piccolo. «E poi, i tuoi poteri da chierico…»

I dubbi del capitano si dispersero assieme ai suoi libri: Lovino chiuse gli occhi per un attimo, e all’improvviso ogni oggetto all’interno della cabina, ad eccezione delle sedie da loro occupate, cominciò a vorticare per la stanza.

Antonio osservò con disarmante calma il delirio intorno a lui, finché il piccolo non vi pose fine aprendo gli occhi.

«Questi sono i miei poteri. Ma so fare di peggio» confessò Lovino. «Ed è anche per questo che mio padre mi odia.»

«Anche?»

Il ragazzino morse le labbra fino a farle sanguinare, e Antonio accettò il suo silenzio.

«Avremo modo di parlare ancora durante la navigazione.»

Una mano abbronzata sventolò sotto il suo naso, in una precisa offerta.

«Sei pronto a unirti alla mia ciurma?»

Lovino squadrò con sospetto quelle dita protese verso di lui. Non era sicuro di essere pronto a una vita di fughe, combattimenti e lavoro incessante. Ma, a parte il fuorilegge a capo della Reina de la Oscuridad, nessun altro in tutta la Confederazione sarebbe stato abbastanza pazzo da accompagnarlo in una crociata contro il Palazzo di Quarzo.

Strinse quella mano con decisione, e un sorriso sardonico spuntò sul volto bronzeo di Antonio.

Insieme, avrebbero fatto precipitare il cristallo dal Cielo.

 

«Non è magia. È solo un’illusione.»

«Perché?»

«Perché in realtà è sempre la stessa immagine ripetuta. Non cambia mai niente. È questa la cosa triste.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ed eccomi qui, in una nuova, travolgente avventura XD

Scherzi a parte, temo che questa longfic sarà MOLTO long. Il motivo è molto semplice: per ora i personaggi sono pochi, ma tra poco si aggiungeranno Francis, Arthur, Alfred, Kiku, Ivan, Yao, Gilbert, Matthew... insomma, tutto il circo al completo XD e le coppie... eh 8D leggere per scoprire<3

Grazie a tutti voi che avete letto fin qui e a tutti coloro che decideranno di imbarcarsi in quest'ennesima pazzia di una fanwriter iperattiva XD

Alla prossima<3

Red

Le immagini utilizzate nei banner non mi appartengono; tuttavia, avendole prese dai miei archivi, non ricordo gli autori ç_ç Se qualcuno dovesse riconoscere la fonte di qualche immagine, me lo faccia sapere e provvederò a metterei credits<3

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Capitolo 2
*** Sangue sull'Argento ***


Capitolo Due: Sangue sull’Argento

 

 

Le iridi verdi si specchiarono sulla lama lucida dello stiletto, per poi appuntarsi sul viso corrucciato del ragazzino.

«Dove hai preso questo pugnale?» volle sapere.

«In giro» borbogliò Lovino.

Antonio puntò i gomiti alle ginocchia e intrecciò le mani davanti alle labbra, strette in un’espressione grave.

«L’hai rubato sulla nave?»

«Me l’hanno dato gli uomini di mio padre» Lovino storse un angolo della bocca, disgustato dal sapore amarognolo dell’arrendevolezza. Lo stemma del Vaticano era visibile nelle intarsiature pompose dell’elsa, e l’affilatura impeccabile della lama rivelava l’arte di un fabbro di prima scelta.

Le sopracciglia scure del capitano si curvarono dubbiose.

«Non dovevano giustiziarti?»

«La Gehena reclamerebbe la loro anima, se permettessero a un Vaticano di morire senza avergli dato una minima possibilità di difendersi» salmodiò Lovino.

Antonio chiuse le palpebre e le massaggiò brevemente, esalando un sospiro esasperato. Dovevano ucciderlo, ma non potevano sporcarsi le mani; dovevano assicurarsi che morisse, ma non potevano lasciarlo totalmente inerme.

«Ecco perché mi sono fatto scomunicare» esalò tra i denti, prima di aprire nuovamente gli occhi. «Per quale motivo sei venuto nella mia stanza con un pugnale?»

Lovino girò su se stesso, sollevando i capelli per scoprire la base del collo. La lampada a olio della cabina del capitano ricamò baluginii zafferano sull’argento del tatuaggio.

«Voglio toglierlo» le dita si strinsero in un moto di rabbia sui capelli. «Non voglio più avere niente a che fare con il Vaticano. Ma da solo non ci riesco» una punta di risentimento inasprì la sua voce: avrebbe voluto chiudere il capitolo della sua vita come Vaticano con le sue stesse mani, ma quel maledetto stemma era troppo difficile da raggiungere.

Antonio esaminò i risultati dei feroci tentativi del giovane: le unghie avevano scavato la pelle ai lati del tatuaggio, e i bracci della croce erano annegati in una laguna di rivoli sanguigni. Tuttavia, per quanto il ragazzo si fosse scorticato il collo, il tatuaggio era ancora tremendamente visibile.

Il pugnale emise uno stridio argenteo, e il suono più delicato di un fazzoletto di stoffa frusciò nelle orecchie del giovane.

«Mordilo» ordinò Antonio, consegnandogli il quadrato di tessuto. «Nessuno riesce a rimanere in silenzio, mentre la sua carne viene tagliata.»

Lovino obbedì con insospettabile prontezza, ficcandosi la stoffa in bocca.

Il tremore che non aveva scosso la voce acerba del ragazzino scorreva sotterraneo nelle spalle, che il giovane manteneva ferme a fatica. Doveva essere spaventato a morte all’idea di un pugnale così vicino al suo collo. A dispetto del suo temperamento abrasivo, restava un rampollo di estrazione nobiliare: era stato cresciuto in un ambiente ovattato, in cui le noiose lezioni del precettore e le interminabili funzioni alla Abbazia erano i mali peggiori.

Antonio passò un dito sul dorso del pugnale.

Si chiedeva cosa potesse provare un ragazzino abituato agli agi dell’aristocrazia nell’essere scaraventato nello strato più basso del mondo comune, quello dei malviventi. Probabilmente, per la sua anima di vetro la vita di bordo era un inferno e loro una masnada di diavoli privi di controllo o decoro.

Accostò il filo della lama al collo del ragazzo, e vide la sua pelle accapponarsi per il timore. Avrebbe potuto offrirgli di sedersi sul letto, ma non lo aveva fatto: comprendeva quanto quel brusco cambio di vita potesse essere orribile per il piccoletto, ma non poteva dimenticare del tutto il suo risentimento per i nobili. Voleva vedere fino a che punto quel giovane avrebbe resistito prima di crollare a pezzi.

La filatura si inabissò senza alcuno sforzo nella carne tenera del giovane, e scavò con facilità sotto la pelle. Il fazzoletto smorzò un’esclamazione di dolore, e i pugni si strinsero fino a sbiancare le nocche per evitare che le mani corressero ad allontanare quello strumento di tortura.

Antonio apprezzò quegli sforzi di contenimento e seguitò a scavare. Con sua grande sorpresa, quello che credeva un tatuaggio non era una semplice pittura sulla pelle: era una sottilissima placchetta di metallo, arpionata al collo del giovane mediante un sistema di microscopici ganci. Questo lo costrinse a incidere più a fondo nei punti in cui il simbolo dei Vaticani si aggrappava alla pelle del giovane, e ogni volta una contrazione nervosa si scaricò lungo la schiena del piccoletto.

Furono i dieci minuti più lunghi della vita di Lovino, prima che il capitano vi mettesse termine annunciando:

«Ho finito.»

Le ginocchia del ragazzo cedettero per un istante, ma la sua testardaggine gli impedì di crollare al suolo proprio davanti all’Ispanico. Antonio scacciò il sorriso dalle proprie labbra quando Lovino si rialzò con l’equilibrio barcollante di un ubriaco.

«È una specie di targhetta di riconoscimento?» s’informò Antonio, facendo sfilare un’unghia sulla sottile scia di rune che correvano sul braccio più lungo della croce.

Lovino premette il fazzoletto che aveva morso fino a quel momento sulla ferita e rispose, seccato:

«È un lasciapassare per le Ville Vaticane.»

«E ti hanno lasciato scappare con una cosa così importante?»

«Nessuno mutilerebbe mai un Vaticano.»

Il rancore nel tono di Lovino era paragonabile allo scetticismo negli occhi di Antonio. L’ipocrisia che si nascondeva sotto l’oro e il bianco delle divise Vaticane avrebbe potuto tappezzare l’intero Palazzo di Quarzo.

«Qualcuno avrebbe potuto strapparlo al tuo cadavere» Antonio proferì quell’ipotesi con la brutale schiettezza di un uomo avvezzo alla morte. «Non hanno pensato a questa eventualità?»

«Probabilmente hanno disattivato il mio codice. Sono falsi, ma non sono stupidi» Lovino si gettò a sedere sulla poltrona del capitano, la mano ancora premuta sulla ferita.

Antoniò fissò la croce insanguinata adagiata sul suo palmo e il ragazzino spossato accasciato sul suo scranno.

«Perché hai voluto toglierlo?» domandò, mostrandogli la piastrina ancora gocciolante.

Lovino scostò il fazzoletto per esaminarlo: una stella irregolare di sangue sporcava il tessuto, e il giovane lo rimise a posto con un sospiro irritato.

«Non voglio un marchio di appartenenza. D’ora in poi, voglio essere libero» dichiarò. «Così potrò insegnare a mio fratello come si vive senza catene, quando lo incontrerò di nuovo.»

La croce roteò nell’aria, e venne afferrata al volo dal capitano, che la appoggiò sulla scrivania, esattamente a metà tra lui e il ragazzo.

«Fai attenzione, Lovino» lo redarguì. «Vivere senza legami non significa essere liberi. Significa essere soli.»

Il fazzoletto fu schiaffato sulla croce, e Lovino lo stese con un gesto secco, in modo che la macchia di sangue fosse bene in esposizione.

«Questo è il mio legame» sbottò Lovino, l’eco delle parole scambiate con il fratello che gli rimbombava nella mente.

Se anche dovessero dividerci, io sarei nel tuo sangue, nei tuoi sogni e nei tuoi ricordi. Siamo gemelli.

Antonio afferrò il fazzoletto usando solo l’indice e il medio, e lo sventolò con eleganza derisoria davanti al naso del giovane.

«E ti basta un unico legame per tutta la vita?»

Lovino raddrizzò la testa con orgoglio adamantino, e una goccia di sangue rotolò lungo il collo prima di morire sulla camicia in un fiore scarlatto.

«Fino alla morte» asserì, gli occhi e la voce di ferro.

Il capitano drappeggiò il fazzoletto sporco sulla croce, vagamente compiaciuto dalle reazioni del giovane. Non si era opposto al dolore del pugnale, e non lasciava impallidire le sue certezze.

Le mani erano troppo perfette per essere mai state impiegate in un qualche lavoro di fatica, e le spalle magre non avevano sopportato altri pesi al di fuori delle sfarzose vesti Vaticane; tuttavia doveva riconoscere al ragazzo una tenacia abbastanza lodevole. Pensava che i nobili nascessero con un pugno di piume al posto del fegato, ma il piccoletto stava dimostrando una discreta tempra, a dispetto delle ginocchia tremanti.

Antonio gli indicò la porta, serafico e inflessibile.

«Vai dal medico di bordo a farti bendare. Domani mattina devi essere pronto per lavorare.»

 

***

 

Era passata una settimana da quando il signor Vargas gli aveva presentato il protetto cui avrebbe dedicato la vita.

Era un onore difendere l’Asse e, con esso, l’equilibrio della Confederazione. Ma, qualche volta, Ludwig si sorprendeva a sperare che quel giovane smettesse di sorridere.

Il precedente Asse non scostava mai la sua espressione dalla distaccata serenità propria dei santi, e il suo sorriso pacifico avrebbe rasserenato all’istante perfino un toro inferocito. Il viso del suo successore, per contrasto, era artificiale come il ghigno delle maschere grottesche del Carnevale pagano; era perennemente spianato in un sorriso fittizio, ben cementato sulle labbra e sugli occhi.

Il precedente Asse sorrideva con il cuore di un angelo, il suo successore con l’abilità di un falsario. Non riusciva nemmeno a intuire quali pensieri affollassero la mente del giovane mentre stava chino sull’altare a pregare, o quando gli si rivolgeva con esagerata gentilezza. Perfino quando mangiava pareva che la sua mente non fosse rivolta al cibo ma a qualche luogo lontano migliaia di chilometri, la cui esatta ubicazione era ben nascosta da quel sorriso fasullo.

Ludwig sistemò distrattamente la cinghia dello spadone sulla spalla. Il suo lavoro era proteggere l’Asse, non di spremergli le meningi.

Nel momento esatto in cui prese questa solenne decisione con se stesso, qualcosa cambiò.

All’improvviso, l’imperituro sorriso si incrinò, e dalle sue crepe sgorgarono incredulità e gioia mentre una mano guantata di bianco correva a tastare lo stemma Vaticano sul collo.

Le labbra e le ciglia del giovane tremarono, così come le mani che percorrevano frenetiche la piccola placca d’argento.

«Mi fa male…» mugolò l’Asse.

Ludwig fu più veloce del lampo nel portarsi al suo fianco, ma Feliciano lo allontanò con garbo.

«È una cosa buona. Significa che mio fratello è vivo» il guanto di pelle bianca attutì l’applauso di gioia dell’Asse. «Non è successo niente per cui il mio stemma dovrebbe farmi male, giusto? Questo significa che fa male a mio fratello. E se gli fa male, significa che è vivo!»

«Non sapevo che voi aveste un fratello.»

Una nuova emozione ancora scorse sul volto del giovane, quella dell’incredulità indignata.

«Come è possibile?» pretese di sapere Feliciano, rialzandosi dall’inginocchiatoio.

«Vostro padre ha sempre detto di aver avuto un solo figlio. Non ne ha mai menzionato un secondo» notando l’espressione ferita sul volto del giovane, Ludwig si sentì in dovere di aggiungere: «Per qualche motivo, vostro padre non ha ritenuto necessario divulgare questa informazione…»

«È da così tanto tempo che desidera liberarsi di Lovino?»

Le parole di Feliciano non fecero più rumore del fruscio della sua veste mentre muoveva un passo verso la parete, ma Ludwig le udì ugualmente.

«È il nome di vostro fratello?» s’informò con garbo.

«È il nome del mio gemello» precisò Feliciano.

A Ludwig non furono necessarie ulteriori spiegazioni per comprendere. Le superstizioni narravano che i gemelli fossero di pessimo auspicio, poiché erano due corpi che condividevano un’unica anima. E un Asse, dominatore del destino della Confederazione, non poteva di certo sostenere una simile responsabilità con una sola metà del proprio spirito.

Feliciano sollevò il berretto, passò una mano tra i capelli ramati e trasse un profondo respiro prima di esordire:

«C’è qualcosa che vuoi proteggere, Ludwig?»

Il Guardiano sussultò interiormente. Non sapeva che l’Asse fosse a conoscenza del suo nome. Nell’ultima settimana avevano scambiato a malapena qualche parola, ed era convinto che quel giovane fosse talmente disinteressato a ciò che non riguardava lui stesso da rimuovere istantaneamente qualunque informazione a riguardo.

«Proteggo voi» rispose, marziale.

Una risata sgorgò dalle labbra di Feliciano e, quando questo si voltò, una curvatura del tutto inedita gli addolcì le labbra.

«Sei obbligato a proteggermi, è il tuo compito. Voglio sapere se c’è qualcosa che vuoi proteggere al di là del dovere» il ragazzo si avvicinò di nuovo all’inginocchiatoio e si sedette sul basso legno imbottito, passando un polpastrello foderato sul pavimento lindo. «Io devo preservare tutta la Confederazione, ma ciò che vorrei davvero difendere ha lo spirito di un leone e la lingua di un serpente» il giovane appoggiò il capo adornato dal cappello bianco sul bracciolo dell’inginocchiatoio, e lo guardò con una luce incuriosita negli occhi: «Non hai niente di simile?»

Il Guardiano dirottò lo sguardo verso il pavimento, alla ricerca di una risposta che potesse soddisfare l’Asse senza rivelare quella parte del suo passato che aveva giurato di mantenere segreta.

«Anche io ho un fratello fuori di qui» telegrafò infine.

Feliciano chinò piano la testa, compiaciuto.

«Ti manca?»

«Non vedo mio fratello da molto tempo.»

«E la cosa ti rattrista?»

«Voi siete rattristato dalla lontananza di vostro fratello?» Ludwig gli ritorse contro la sua stessa domanda, per evitare di dovervi rispondere.

Felicianò dondolò placidamente il capo un paio di volte prima di rispondere:

«Mi manca tantissimo. Ma spero che là fuori abbia trovato tanti motivi per sorridere. Così un riflesso dei suoi sorrisi arriverà fino a me, e ne sarò felice anche io» il mento affusolato del ragazzo venne appoggiato sulle ginocchia, raccolte al petto. «E nutro anche la speranza più egoista che non si sia scordato di me. Anche se il mio ricordo dovesse inquinare la sua gioia» Feliciano reclinò nuovamente il capo su una spalla e concluse: «Provi anche tu lo stesso?»

Trascorse qualche istante di immobilità prima che l’aria venisse scossa dalla replica seriosa del Guardiano:

«Io spero che mio fratello riesca a dormire bene.»

Una domanda incuriosita si affacciò dal sorriso del giovane, ma fu scacciata quando il ragazzo scosse la testa. L’Asse si ricompose nella posa cerimoniale e riprese a pregare.

Ludwig non distolse lo sguardo dalla sua figura inginocchiata. Non lo avrebbe mai ammesso, perché ogni buon Guardiano deve amare il proprio lavoro, ma detestava essere stato assegnato al Palazzo di Quarzo e all’Asse, per quanto quel compito fosse onorevole. Tuttavia, dopo quelle poche parole, sentiva di trovare meno insopportabile l’essere costretto al fianco di quel ragazzo.

Era riuscito a intravedere un’anima dietro la pantomima dell’Asse. Ed era uno spirito affamato di affetto che nutriva se stesso con l’illusione di rivedere il gemello, un giorno. Una povera anima sola, abbandonata negli immensi corridoi del Palazzo di Quarzo, che cercava di proteggersi da ulteriori ferite camuffandosi con un sorriso artificiale.

Sfiorò la custodia dello spadone, assorto.

Separato da un fratello scomodo e costretto a imparare un modo per difendersi da tutto e tutti. Le strade che avevano percorso lui e l’Asse erano parallele. Per questo poteva comprendere il suo dolore talmente a fondo da avvertire una spina conficcarsi nel suo cuore.

Batté le palpebre un’unica volta prima di appuntare di nuovo le sue iridi di ghiaccio sul ragazzo in preghiera.

Non esistono lupi cattivi, Ludwig. Solo lupi molto infelici.

La lezione di tanto tempo prima gli affiorò nella mente.

Come sempre, suo fratello aveva ragione.

 

***

 

«Se permettete una parola, Capitano, il nuovo mozzo non mi convince.»

Antonio fece stridere la pietra affilatrice sull’ascia con particolare veemenza, in modo che quell’ululato metallico sopperisse alla sua mancata risposta.

Poteva capire perché il tenente di vascello nutrisse dei dubbi riguardo l’utilità del trovatello che proprio in quel momento stava imprecando contro le corde che gli si erano aggrovigliate attorno alle caviglie, facendogli quasi rovesciare il barile che stava portando in braccio. Lo osservarono zampettare fuori dal roveto di cordame e traballare sotto il peso della botte.

«Potrebbe rivelarsi utile. È pur sempre un Vaticano» minimizzò Antonio.

«Un Vaticano ripudiato

«Potrebbe avere qualche potere» ipotizzò, in tono neutrale. Il discorso avuto con Lovino una settimana prima nella sua cabina lo aveva incuriosito enormemente: si chiedeva quali capacità avessero potuto bollarlo come gemello malefico, ma non aveva intenzione di lasciar intuire il suo interesse a tutto l’equipaggio. Inoltre, non aveva ancora visto quale fosse il limite ultimo cui quel ragazzino fosse disposto a spingersi pur di incontrare di nuovo il fratello.

«Ma non è mai stato in battaglia, è chiaro come il sole!» protestò il tenente. «In che modo…»

L’ascia tagliò l’aria e le obiezioni del subordinato, quando il capitano la fece scattare verso il suo volto. Il tenente deglutì lentamente, vedendo il suo stesso mento riflettersi sulla lama lucida. Il colore livido sulle sue guance rivelò la precipitosa ritirata del suo sangue nei piedi, il più lontano possibile dalla Aguja Paladar, la temutissima ascia del capitano Antonio Fernandez Carriedo.

«Apprezzo i consigli» scandì lento l’Ispanico, gli occhi aguzzi e freddi come il metallo dell’ascia. «Ma non dimenticarti chi è il capitano, tenente

«Chiedo scusa, signore.»

Il sangue osò affacciarsi di nuovo sulle gote smunte solo quando l’ascia tornò a essere appesa alla schiena del capitano.

«Avremo modo di testare la sua utilità tra poco» sancì Antonio. Calcò il cappello sulla testa prima di lanciare uno sguardo concentrato all’orizzonte. «Esistono ancora degli sprovveduti disposti ad attaccarci.»

Il tenente estrasse veloce il binocolo e scrutò a sua volta il cielo piatto intorno a loro: una nave puntava nella loro direzione, i razzi propulsori che fiammeggiavano alla massima potenza; avrebbero subito un arrembaggio entro pochi minuti. Ripose il binocolo, un brivido di ammirazione mista a timore per la capacità del capitano di prevedere l’arrivo dei nemici: una dote compresa nel forziere delle qualità dei Carriedo, che Antonio aveva accennato ma mai spiegato. Il capitano, da buon combattente, non rivelava mai la piena portata delle sue capacità.

«Tra pochi minuti, una nave nemica ci assalirà» comunicò autoritario, esaminando i suoi uomini. «Chi non vuole combattere è libero di ritirarsi sottocoperta. Non voglio codardi o incompetenti sul ponte» si fermò esattamente davanti a Lovino, e gettò un’occhiata al suo viso incupito. Il ragazzo rispose con un silenzio burrascoso e un’occhiata in cui si rimescolavano testardaggine, paura e orgoglio. Il capitano distolse lo sguardo dopo qualche secondo: non aveva tempo da sprecare con i novellini desiderosi di gettare al vento la loro vita.

«Sono visibili dieci uomini sul ponte, capitano» avvertì il tenente. «La nave è abbastanza grande da contenerne altri dieci sottocoperta.»

«Un gioco da ragazzi!» abbaiò un bucaniere con la gola essiccata dal tabacco.

«Posso farcela da solo.»

L’annunciò colò come una cascata di ghiaccio sui marinai, paralizzandoli nell’incredulità.

Una frase così prepotente, pronunciata dal membro dell’equipaggio che più di tutti avrebbe dovuto essere spaventato dalla prospettiva della battaglia, congelò gli animi dei presenti prima di farli esplodere in un poderoso coro di risate.

Gli angoli della bocca di Lovino tremarono per l’indignazione, ma non abbassò lo sguardo mentre i marinai deridevano con parole rudi la sua dichiarazione.

Il capitano fu l’unico a rimanere estraneo a quella deflagrazione di ilarità. Si avvicinò invece a Lovino e domandò:

«Come vorresti risolvere questa faccenda?»

Lovino sbocconcellò la risposta con rabbia, mentre arrotolava le maniche troppo lunghe della camicia che i mozzi gli avevano prestato:

«Sono un Vaticano. Vedrete» e aggiunse, a voce più alta: «Non vi costa nulla farmi andare per primo. Se avrò ragione io, vi avrò risparmiato uno scontro. Se avete ragione voi, vi libererete di me.»

Sapeva che non lo consideravano parte del loro gruppo. Lavorava sempre da solo, al contrario degli altri marinai, che venivano sempre raggiunti dai chiassosi compagni; nessuno gli aveva mai offerto di scambiare il cibo dal piatto, cosa che gli altri facevano con rumorosa allegria. Riservavano per lui gli interrogativi venati di disgusto, come se si chiedessero costantemente perché a un simile rospetto fosse stato permesso di mettere piede sulla Reina de la Oscuridad, l’Aeronave della temibile famiglia Carriedo. Era stanco di farsi invischiare nel loro disprezzo: si sarebbe scrollato di dosso quella fanghiglia umiliante una volta per tutte.

Nessuno mosse un dito per fermarlo mentre si avvicinava al parapetto. Stavano certamente pregando perché lui “tirasse le cuoia”, secondo il colorito vocabolario dei lupi di mare: sentiva le loro speranze premergli sulla schiena quasi cercassero di buttarlo giù dalla nave. Solo il capitano si limitava a fissarlo senza alcuna emozione apparente sul viso, semplicemente in attesa.

Lovino si riempì i polmoni con l’aria creata dall’atmosfera artificiale che inglobava l’Aereonave per permettere all’equipaggio di respirare anche nello spazio aperto. Antonio doveva amare molto il vero mare: aveva fatto in modo che il pungente odore salmastro dell’oceano scorresse libero all’interno dell’atmosfera artificiale.

I ciuffi ramati disegnarono una buffa ruota quando Lovino scosse la testa: non era il momento di pensare al capitano e ai suoi profumi preferiti.

Osservò la Aeronave nemica dirigersi in picchiata verso di loro. Chiuse gli occhi e congiunse le mani in preghiera. Morse appena le nocche intrecciate, mentre il ricordo delle parole del padre gli azzannava le viscere.

Speriamo che il suo potere blasfemo muoia con lui. Una simile propensione può portare solo disgrazie.

Torse la bocca in un ghigno amaro. Avrebbe usato le sue capacità per aiutare un branco di pirati a uccidere dei loro pari. Non poteva dare torto al padre, in fondo.

Perfino i marinai più consumati indietreggiarono alla vista della bestia richiamata da Lovino. Solo Antonio rimase fisso nella sua posizione: gli spettacoli di Gilbert e Francis in passato lo avevano immunizzato alla sorpresa per la magia. Tuttavia non riuscì a mascherare il suo stupore nel vedere un simile potere in un corpo così mingherlino.

La schiena di Lovino si aguzzò in una foresta di minuscole creste di oscurità, che poi si gonfiarono formando un torso animalesco, incurvato in una posizione di attacco. Dalla bocca del giovane si allungarono delle fauci tenebrose, e due occhi rossi si aprirono sulle sue palpebre chiuse. L’intero corpo della bestia d’ombra pulsò e si contorse, fino a che, con un guizzo delle zampe mostruose, un enorme lupo si distaccò dal corpo esile del giovane.

Lovino stese una mano, accarezzando per la prima volta il suo famiglio. Nella Villa non gli avevano mai concesso di sviluppare il suo dono, e non gli avevano mai permesso di evocare la bestia che il piccolo sentiva ringhiare nella sua testa. Era qualcosa di sacrilego, e andava soppresso. Ma Lovino aveva continuato a sentire l’uggiolio di quell’animale dentro di lui, per cui a volte aveva fatto emergere dalla sua pelle una zampa nera o una coda ispida per acquietarlo. Alcune volte, invece, gli parlava mentre il fratello dormiva e, durante una di quelle chiacchierate unilaterali notturne, aveva dato un nome a quella povera creatura intrappolata dentro di lui: Roma. Non aveva mai potuto lasciarlo in libertà, poiché non era sicuro di poterlo controllare, e non voleva che seminasse il panico nei sacrosanti corridoi della Villa; al contrario, il ponte di quell’Aeronave era lo scenario perfetto per permettergli finalmente di uscire all’esterno.

Roma si rivelò sorprendentemente docile al suo tocco: Lovino avvertì le creste d’ombra guizzanti appiattirsi sotto la sua mano, come se l’animale abbassasse le orecchie per essere accarezzato. Si chiedeva cosa avrebbe detto il signor Vargas, vedendolo accudire un lupo spettrale, composto di sole tenebre e fiamme. Forse lo avrebbe schedato come ulteriore conferma della malignità dei gemelli.

Lovino si chinò appena per bisbigliare sul capo chino del lupo:

«Sai cosa fare, Roma.»

La bestia fletté le zampe e partì all’attacco con un ululato infernale.

L’intero equipaggio osservò il lupo procedere a rapide falcate verso i nemici e avventarsi sul loro ponte spalancando le fauci diaboliche. Ma prima di toccare il legno dell’Aereonave, il corpo del lupo si disperse in una rete di rivoli di fumo plumbeo: prima le zampe, poi il torace muscoloso, quindi il collo, fino a che non rimasero solo due scintillanti occhi rubino sospesi nel vuoto.

E fu in quel momento che ebbe inizio il panico: bastò un solo tocco di quella foschia nefanda perché l’intera ciurma nemica impazzisse. I marinai strabuzzarono gli occhi e cominciarono a correre per il ponte creando un caos totale: alcuni si gettarono dal parapetto, spaventati a morte da allucinazioni infernali; altri, alla ricerca di una via di uscita inesistente dal sortilegio mentale, chiazzarono di sangue e liquidi cerebrali i muri di legno della nave fino ad accasciarsi al suolo con la testa fracassata; altri ancora imbracciarono le armi e cominciarono a falciare i loro compagni, urlando come ossessi fino a gettarsi loro stessi sulle proprie lame.

L’equipaggio di Antonio assistette ammutolito al suicidio violento dei rivali, e un silenzio tombale accolse la nave avversaria quando il suo pennone accarezzò quello della Reina dell’Oscuridad. Il ponte rivale era un cimitero di armi abbandonate, pozze di sangue e cadaveri che ancora fissavano con occhi allucinati la visione che li aveva portati alla morte.

Nessuno emise un fiato quando i tentacoli di nebbia di carbone avvolsero la piccola figura di Lovino, che li assorbì fino a farli scomparire di nuovo all’interno del suo corpo. E nessuno dimenticò la ferocia nelle pupille rosse che li fulminarono poco prima di sprofondare nelle palpebre chiuse.

Il giovane aprì lentamente gli occhi, e lo spettacolo della devastazione dei nemici gli accoltellò le pupille. Non era sufficiente conoscere il proprio potere per accettare le sue conseguenze: una scossa elettrica gli polverizzò le ginocchia, facendolo cadere sul ponte, e premette entrambe le mani sulla bocca nell’inutile tentativo di trattenere i conati di vomito.

Una mano forte gli si appoggiò sulla spalla tremante, mentre un mozzo gli posizionava un catino sotto il mento un secondo prima che gli argini di Lovino cedessero. Le dita sulla sua spalla si strinsero mentre il suo stomaco si rovesciava nel bacile.

«Uccidere una persona nella propria testa e ucciderla davvero non sono la stessa cosa» tuonò gentilmente una voce vicino al suo orecchio.

«Anche i Carriedo…» barbugliò Lovino, respirando con fatica tra gli spasmi. «Sono capaci di questo?»

La mano abbandonò la sua spalla e la risposta del capitano non sciolse i suoi dubbi:

«No. Sappiamo fare altre cose.»

La giacca dell’uomo gli schiaffeggiò la schiena quando Antonio si rialzò e declamò:

«Qualcuno ha ancora obiezioni sulla presenza di questo ragazzo nella ciurma?»

Non si sollevò nemmeno una contestazione, e Antonio annuì soddisfatto.

«Dagli qualche giorno per abituarsi ai tuoi poteri, e dopo ti adoreranno» bisbigliò, abbassandosi nuovamente sul ragazzino debilitato.

Lovino deglutì con fatica e annaspò:

«Ogni anima completa ha luce e ombra, ma i gemelli ne dividono una in due, per questo un gemello nasce ombra e uno nasce luce. E per questo mio fratello ha i poteri dell’Asse e dell’equilibrio mentre io ho quelli del Caos.»

La mano del capitano scese sulla sua testa, nell’imitazione ruvida di una carezza.

«Vai dal medico a farti dare un antiemetico prima di buttare fuori anche il fegato» consigliò.

Antonio comandò a due marinari di sorreggerlo fino alla cabina del dottore, e ordinò ad altri sette di saccheggiare la nave nemica. Dopodiché si godette lo spettacolo del ragazzino che arrancava a fatica sottocoperta con le sue stampelle umane, e il suo sguardo venne calamitato dalla benda che copriva la ferita con cui il ragazzo si era liberato della sua targhetta di riconoscimento.

Quel giovane era un’erbaccia cresciuta tra i gigli: conosceva i loro ritmi di vita, ma restava più forte e più tenace di tutti loro.

Appoggiò i gomiti al parapetto, osservando l’ostinata testa ramata del piccoletto sparire nel rettangolo della porta.

Sarebbe stato interessante vedere come la vita sull’Aereonave avrebbe cambiato quel rospetto.

E, se fosse cresciuto bene, non gli sarebbe dispiaciuto mettere il suo simbolo nel posto vuoto lasciato dalla croce d’argento.

«Estaremo a vedere» sospirò allo spazio intorno a lui.

Un buon capitano sapeva quando occorreva aspettare.

 

***

 

«Non riuscite a dormire?»

L’unico colore nella stanza era la chioma ramata del futuro Asse, strappata a malapena dalla notte grazie alla luce timida della luna. Tutto il resto soffocava in un preponderante bianco.

Feliciano si alzò sul letto, raccogliendo le lenzuola in grembo.

«Occorrono sette anni perché il potere del precedente Asse riesca a migrare nell’Asse successivo» appoggiò il capo sulla nuvola di lenzuola e considerò: «Le funzioni che svolgo ora sono un infinitesimo di quelle che mi spetteranno una volta assunto il ruolo di Asse.»

«E questo vi spaventa?» domandò Ludwig.

«Sarò incatenato a questo Palazzo» sprofondò il viso nelle coltri, come volesse nascondere la sua angoscia in quel tessuto soffice. «Non potrò più uscire.»

Ludwig preferì non scoraggiarlo ulteriormente facendogli notare che nemmeno durante quei sette anni avrebbe avuto la possibilità di allontanarsi da quelle mura: il Palazzo era sorvegliato giorno e notte, e solo il signor Vargas e pochi altri avevano il permesso di attraversare liberamente la soglia di entrata. E loro due non rientravano in quel gruppo elitario.

«Come era il posto in cui sei nato, Ludwig?»

Il Guardiano batté le palpebre due volte, confuso.

«Come mai questa domanda?» chiese in risposta.

Feliciano si lasciò cadere all’indietro, e le vaporose maniche della tunica da camera svolazzarono tutto intorno mentre precipitava dolcemente sul materasso.

«Ho visto solo l’interno della Villa, e qualche volta il suo boschetto, e questa stanza. Mi piacerebbe sapere come è il resto del mondo.»

Un silenzio lungo qualche secondo si estese tra di loro, mentre il Guardiano cercava le parole.

«Sono nato su un pianeta molto lontano da qui» cominciò a raccontare.

Feliciano chiuse gli occhi, e la terra descritta dal Ludwig prese gradualmente forma sotto il sipario delle palpebre: vide srotolarsi davanti a sé una landa di terra dura e ghiacciata fin dove l’occhio poteva arrivare, e sullo sfondo il fantasma delle montagne acuminate avvolte da una nebbia glaciale; sul cielo si stemperò una tinta argento, la stessa che si riflesse sul grande lago scuro al centro della valle. Sentì il richiamo dei rapaci delle montagne, e vide le loro ombre sfrecciare in cielo mentre cacciavano la preda. Avvertì il vento invernale accapponargli la pelle, e cercare inutilmente di abbattere le mura di una solida baita di legno, costruita vicino al lago.

Aprì le labbra in un sorriso prima di schiudere gli occhi.

«Mi piace il posto che mi hai descritto. Sembra molto bello.»

«Magari riuscirete a visitarlo, un giorno» cercò di rincuorarlo Ludwig.

Il giovane si girò su un fianco, il viso coperto dalla frangia rossiccia.

«Sì. Ora che me ne hai parlato, potrò vederlo nei sogni» sussurrò.

Trascorse una mezz’ora di immobilità prima che il giovane si assopisse.

Ludwig aveva sempre avuto l’assurda convinzione che i sogni dell’Asse fossero come il Palazzo: bianchi e privi di vita. Si chiese quali immagini popolassero il sonno dl ragazzo, quali voci si rincorressero nel suo riposo notturno.

Le ciglia del giovane tremarono, e tra di esse nacque una lacrima, che andò a morire gettandosi dalla punta del naso. Ludwig si avvicinò al letto quando la prima venne seguita da una seconda e una terza, e fu abbastanza delicato da asciugare la quarta senza che l’Asse si svegliasse. Feliciano sembrò tranquillizzarsi grazie al suo tocco, e la quinta lacrima, più piccola e debole delle altre, fu l’ultima che versò, quella notte.

Ludwig si sedette sul bordo del gigantesco letto per vegliarlo: così sarebbe potuto intervenire con più facilità se l’Asse avesse dovuto piangere ancora.

Osservò fuori dall’unica finestra di tutta la stanza, un piccolo lucernario posto al limitare del tetto.

Tutto lo spazio al di fuori di quelle mura si sarebbe appoggiato sulle spalle di quel giovane, una volta che i sette anni di apprendistato fossero terminati.

Credi davvero che un equilibrio basato sulla solitudine e l’infelicità di una persona sia un buon equilibrio?

Ancora una volta, suo fratello aveva ragione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ed eccoci qui con il secondo capitolo *w*

Solo una precisazione: la frase “Non esistono lupi cattivi, solo lupi molto infelici”, è tratta dal libro “L’importante è la rosa – piccole storie per l’anima”, un libro che straconsiglio a chiunque abbia la fortuna di trovarlo (purtroppo è abbastanza sconosciuto ç_ç). È una raccolta di aforismi e storie brevi con un potere mozzafiato.<3

Tornando alla storia, devo fare una seconda precisazione: i banner sono opera di Cla, l’infaticabile bannerista di questa fanfic<3 nello scorso capitolo mi sono scordata di specificarlo çAç<3

E tornando di nuovo alla storia… vi informo che sono ufficialmente in delirio creativo xD perché lo dico?... perché sono arrivata a finire il capitolo cinque xD e ho quasi finito il sette (sì, ho saltato il sei perché sarà abbastanza impegnativo, e ieri sera mi sono messa a scrivere tardi quindi non avevo la testa per farlo @_@), ergo, connessione permettendo, cercherò di aggiornare settimanalmente *w* anche perché questa storia si preannuncia davvero lunga, quindi non è il caso di farvi attendere degli anni XD insomma, ho scritto sette capitoli e mi sono accorta di aver scritto circa un quarto scarso della storia… circa. Scarso. *nods*

E, come sempre, un enorme grazie e uno spiedino di dango a tutti voi che siete arrivati a leggere fin qui e avete ancora voglia di proseguire questa strampalata avventura tra pianeti e pirati XD

A presto!

Red

Banner a opera di Claudia ^^
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Capitolo 3
*** L'Auspicio ***


Capitolo Tre:  l’Auspicio

 

Le ossa del precedente Asse scricchiolarono come rami secchi in autunno mentre prendeva posto sull’inginocchiatoio imbottito, assistito dall’instancabile Guardiano.

Mancava esattamente un anno all’ufficiale successione di Feliciano, ed era giunto il momento dell’Auspicio: come da tradizione millenaria, il vecchio Asse avrebbe incontrato quello nuovo per profetizzare gli avvenimenti che avrebbero segnato la sua reggenza futura. Ma nessuno degli Assi precedenti aveva mai dovuto vaticinare su un gemello. Si augurava che la superstizione su di loro fosse solo una voce infondata.

I suoi pensieri furono interrotti dall’apertura del maestoso portone intarsiato.

Il futuro della Confederazione gli sorrise dalla soglia dorata.

Il vecchio Asse si concesse qualche lungo secondo di analisi critica della coppia apparsa nella suntuosa sala.

Il Guardiano svettava sulla modesta statura del nuovo Asse di almeno una ventina di centimetri, solenne nella sua divisa scura. A un Guardiano degno del proprio titolo non occorrevano pesanti armature per essere protetto: erano sufficienti la sua destrezza e la sua resistenza fisica, superiori a quelle di qualunque essere umano e ottenute tramite sanguinosi allenamenti. Nemmeno l’uomo più robusto della galassia sarebbe mai riuscito a sollevare la pesante spada che Ludwig portava sulla schiena, e certamente nessuno, a parte il giovane dagli occhi di ghiaccio, sarebbe riuscito a sfruttare il potenziale delle tre Gemme Mistiche incastonate nell’elsa.

Spostò le pupille invecchiate sul suo successore. La tunica bianca drappeggiava attorno al suo corpo esile come una nuvola poteva coronare il sole, e il fine velo appeso al cappello immacolato nascondeva parzialmente il volto, steso in un sorriso amabile.

Nemmeno Feliciano aveva il diritto di guardare il vecchio Asse negli occhi, almeno finché non sarebbe diventato un suo pari.

L’anziano lo invitò a inginocchiarsi davanti a lui con un gesto della mano decrepita, e Feliciano prese posto con grazia, seguito dal Guardiano.

Il passato e il futuro della Confederazione intrecciarono le mani e salmodiarono con precisione le preghiere di inizio cerimonia.

I Guardiani assistettero in perfetto silenzio mentre Feliciano scostava il velo per permettere al vecchio Asse di appoggiare la fronte sulla sua esattamente dove si supponeva si trovasse il Terzo Occhio, l’organo destinato alla preveggenza.

Il vecchio Asse non avrebbe mai dimenticato gli avvenimenti di quel giorno.

Quando il Terzo Occhio si spalancò, la sua pupilla invisibile abbracciò l’orizzonte placido di un planetario in cui i vari mondi ruotavano attorno al Palazzo di Cristallo in perfetta armonia. Non vi era modo di travisare quella visione: i poteri del suo successore erano stati acclamati in passato, e chiaramente avrebbero garantito un impeccabile equilibrio in futuro.

Lo scenario della visione cambiò improvvisamente: nello spazio buio in cui galleggiavano i pianeti si aprirono due occhi brucianti, rossi come la lava della Fortezza di Efesto. Poi, una dopo l’altra, comparvero le zanne affilate di un muso ferino, che ringhiò facendo tremare tutti i mondi.

L’Asse sentì i polsi trasformarsi in acqua quando la bestia lanciò un cupo ululato che arrestò improvvisamente il moto di tutti i pianeti. Richiamate dal suo urlo animalesco, altre tre fiere emersero dallo spazio buio: un corvo gracchiò sepolcrale, un falco si librò in volo, e un’aquila sfrecciò verso il muso tenebroso del lupo.

Alla comparsa delle belve, i pianeti stessi parvero impazzire: il Chugoku perse la stella più splendente, e una spada di foggia orientale si conficcò nel cuore del pianeta, facendogli stillare sangue denso e brillante; da Britannia partirono dei fulmini crepitanti, che mandarono in frantumi mille pianeti circostanti; le sei Fortezze si sciolsero, liquefatte come una palla di cera gettata nel fuoco, e le loro lacrime viscose si persero nel vuoto della Galassia. Un’enorme onda dello stesso colore degli occhi scarlatti del lupo si gonfiò poco sopra il contorno frastagliato delle sue zanne, e si riversò feroce sulla Confederazione, tingendo ogni pianeta rimasto con il suo colore sanguigno e spezzando il Palazzo di Quarzo in un caos di frammenti vermigli.

Il vecchio Asse sbarrò gli occhi, chiudendo bruscamente il Terzo.

Gli occhi ramati del ragazzo lo fissarono in attesa, a una misera distanza dai suoi.

«La pace e la prosperità segneranno la tua reggenza» predicò il vecchio Asse. «Non ho mai avuto visione più felice: non vi sarà nulla che turberà il tuo equilibrio.»

Feliciano sistemò di nuovo il velo, bisbigliò la preghiera conclusiva e si rialzò con eleganza, inchinandosi al suo predecessore come da cerimoniale. Il Guardiano si genuflesse più profondamente di quanto non avesse fatto Feliciano, poiché la rigida gerarchia Vaticana lo prevedeva. Dopodiché si fece da parte per permettere al futuro Asse di calpestare per primo la soglia di uscita, e lo seguì subito dopo.

Il vecchio Asse attese che i due fossero spariti lungo i corridoi perlacei prima di impartire l’ordine al suo Guardiano:

«Porta questo messaggio all’attuale Capofamiglia Vargas il prima possibile.»

Il Guardiano non si chiese il significato del criptico messaggio di cui sarebbe stato ambasciatore: si limitò ad ascoltare e memorizzare.

Il Caos era stato scatenato dal lupo nero, per cui, una volta eliminata la bestia, il Caos non si sarebbe risvegliato. Doveva trovare quanto prima l’altro gemello, sfuggito alla morte con chissà quale trucco diabolico, e ucciderlo; solo così la Confederazione non sarebbe crollata.

La superstizione sui gemelli si stava rivelando esatta.

Erano davvero un presagio di malaugurio.

 

***

 

«Non possiamo andare più veloci?»

I capillari del capitano dell’Aereonave quasi esplosero per quell’urlo esagitato.

«I razzi sono al massimo» gridarono in risposta dalla sala comandi. «Non possiamo fare di meglio!»

Non gli fu dato modo di tentare ulteriori vie di fuga: il rumore di una scialuppa li fece voltare tutti con mortale lentezza.

La piccola imbarcazione cilindrica fluttuava serena sul ponte di prua, i propulsori che emettevano una ghirlanda di fiamme azzurrognole. Il suo carico era costituito da due sole persone, ma fu sufficiente un’occhiata ai loro volti perché ogni uomo sull’Aereonave sentisse l’anima fuggire dal corpo.

Il cappotto rosso del capitano della Reina de la Oscuridad assomigliava a una cascata di sangue, e il cimitero di medaglie strappate ai condottieri sconfitti scintillava su quel fiume vermiglio. La pesante ascia, più alta dello stesso capitano, stava appoggiata sulla spalla destra con la tesa aspettativa di un predatore pronto a sbranare la sua vittima.

Al suo fianco, più piccolo ma non meno spaventoso, un giovane li fissava torvo, un piede appoggiato sul bordo della barca.

Il comandante dell’Aereonave inghiottì un amaro boccone di saliva. Conosceva le leggende su quel ragazzino, apparso come per un sortilegio nella ciurma dalla Reina de la Oscuridad. Si diceva che da solo potesse indurre un intero equipaggio al suicidio, e che la belva che era in grado di evocare si cibasse unicamente di carne e sangue umani. Il sacrificio delle sue vittime era ricordato nella tinta scarlatta della sua giubba, meno decorata e più corta rispetto al cappotto del capitano.

Antonio Fernandez Carriedo era universalmente conosciuto come la Mano Destra del Diavolo, e quel ragazzino si era presto guadagnato il titolo di Mano Sinistra del Diavolo.

Gli occhi smeraldini lampeggiarono nell’ombra del cappello, e la voce di Antonio Fernandez Carriedo si modulò in un saluto:

«Perdonate l’intromissione. Abbiamo bisogno di alcune informazioni. Se ce le fornirete, sarete tutti in grado di vedere l’alba di domani.»

Il comandante cercò di mantenere le gambe ferme mentre annuiva grave.

«Siete parte della flotta Britannica, non è così?»

L’uomo annuì di nuovo, paralizzato. L’enorme stemma del Leone sulla vela maestra era più che esplicativo.

«Avete contatti con la Capitaneria Britannica?» insistette Antonio.

«Come è ovvio…» tartagliò il comandante.

«State andando splendidamente. Vi prego di non cadere proprio sul mio ultimo quesito» si complimentò il capitano impaludato di rosso, prima di incupire il viso in un’espressione di assoluta serietà: «Dove si trova l’ultimo Hellsing?»

Gli occhi dell’uomo si strabuzzarono fino al punto di esplodere. Le gambe, che fino a quel momento avevano mantenuto stoicamente una posizione eretta, fuggirono all’indietro, facendolo arretrare di qualche passo.

Ricordava spaventosamente bene i giorni in cui l’Hellsing era stato libero di scorrazzare per la Confederazione con la sua coorte mostruosa. E il ricordo di quei giorni lo spaventava ancora di più della coppia davanti a lui.

«Non siamo autorizzati a rivelarlo.»

Le dita del capitano tamburellarono sull’impugnatura dell’ascia.

«Sono sicuro che siete un uomo ragionevole. E capirete che un’informazione vale meno di una vita.»

«Non questa informazione. Se l’Hellsing dovesse svegliarsi, quei demoni mostruosi tornerebbero a infestare la Confederazione, e migliaia di persone potrebbero morire…»

L’ascia si fermò a un millimetro dalla sua giugulare, ma sarebbe bastato lo sguardo furibondo del capitano a ucciderlo: le iridi verdi ardevano con una rabbia così totale che avrebbe potuto polverizzargli il cuore.

«Stai dicendo che l’Hellsing è un assassino?» sibilò.

«Quante persone sono morte, per colpa dei suoi famigli demoniaci?» esalò il comandante, preoccupato che una parola pronunciata troppo forte potesse spingere la sua gola verso la lama affilata dell’ascia. «È stato scomunicato dalle famiglie Vaticane al completo in quanto eretico!»

«Le famiglie Vaticane hanno il brutto vizio di distorcere la realtà a loro piacimento» intervenne il giovane, scendendo dalla barca con un balzo felino. «Secondo loro, io sono morto sei anni fa.»

«Lovino» chiese Antonio, impietoso del terrore che leggeva negli occhi iniettati di sangue del suo avversario. «Pensi di riuscire a estrarre qualcosa dalla sua testa?»

Il ragazzo inclinò il capo meditabondo, e i capelli ramati solleticarono le spalle cremisi della giubba.

«Posso fare un tentativo» concesse. «Non permettere a nessuno di avvicinarsi.»

L’ascia del comandante si scostò dalla sua gola solo per essere sostituita dalle mani del ragazzo; la gamba del giovane lo colpì dietro le ginocchia, facendolo rovinare a terra. Il comandate si ritrovò con la schiena schiacciata sul ponte dal peso del ragazzo a cavalcioni su di lui, le sue dita serrate contro la gola, e una voce di pece che gli colava nelle orecchie:

«Devi dormire per un po’, o non riuscirò a fare il mio lavoro.»

Antonio analizzò la scena, appagato dei progressi del ragazzo. Non era più un bambino pronto a dare di stomaco al primo sentore di sangue: ormai si era assuefatto alla battaglia, e il suo cipiglio scontroso non mutava nemmeno quando la sua vittima guerreggiava per l’ossigeno, come in quel momento. Vide i muscoli del ragazzo tendersi sotto la giacca per resistere all’ultima e più disperata lotta del comandante, prima che quest’ultimo si accasciasse privo di sensi. La mano del giovane scese ad artiglio sulla sua faccia: indice e anulare andarono a puntarsi sugli occhi, il medio raggiunse la fronte, e pollice e mignolo fecero presa sulle guance mentre il giovane chiudeva gli occhi per concentrarsi.

Antonio fu distolto dalla sua osservazione da un sibilo alla sua sinistra: un membro dell’equipaggio aveva tentato di sparargli con il silenziatore. Vide lo sgomento e l’orrore spandersi sul volto dell’uomo come una macchia di petrolio nel mare quando il proiettile si fermò a pochi centimetri dalla sua tempia, quasi fosse sospeso in una soluzione acquosa, senza nemmeno sfiorare la pelle abbronzata del capitano.

«Bel tentativo» si congratulò Antonio. Appoggiò la lunga ascia alla spalla in modo da poter imbracciare il fucile a canne mozze che teneva appeso sul fianco sinistro. Staccò con tranquillità il proiettile che ancora fluttuava nell’aria e lo caricò nella sua arma, per poi puntarla verso il cielo.

Il colpo partì diretto alle stelle sopra di loro, ogni mozzo poté vederlo. Così come lo videro scendere in picchiata verso il ponte, e schivarli uno per uno alla velocità della luce fino a conficcarsi nella fronte dello sventato che aveva tentato di sparargli. Uno schizzo di sangue investì le facce dei suoi colleghi mentre lo sciagurato cadeva a terra con un tonfo sordo.

«Sono questi i poteri… della Mano Destra dl Diavolo?» farfugliò un bucaniere, il viso imbrattato di sangue.

Antoniò sistemò di nuovo il fucile al suo posto e dichiarò, scuotendo lievemente l’ascia che gli stava facendo indolenzire una spalla:

«Impedire ai proiettili di colpirci e decidere la traiettoria dei nostri colpi… ogni Carriedo lo sa fare. Ma non è l’unica cosa che…»

La sua arringa fu interrotta dai mugolii sofferenti di Lovino, che lo portarono a dirigere di nuovo l’attenzione sul giovane.

Un groviglio di piccole saette verdi si propagava dalla testa del capitano e percorreva tutto il corpo del giovane, effondendo un odore nauseante di stoffa e carne bruciata. Lovino aveva bloccato il proprio polso con la mano libera, per impedire a se stesso di lasciare andare la presa proprio ora che era così vicino alla sua meta. La guerra del ragazzo contro l’incanto che proteggeva le memorie del comandante durò qualche secondo ancora, prima che Lovino venisse sbalzato via dal corpo supino dell’uomo.

Nonostante le pesanti armi, Antonio fu lesto ad afferrare il ragazzo prima che precipitasse al suolo.

«Il Mago dell’Ovest è davvero potente» imprecò Lovino, scuotendo la mano bruciata. «I suoi incantesimi di protezione sui ricordi dei suoi uomini sono difficili da ingannare.»

«Non sei riuscito a ottenere informazioni neanche questa volta?» lo interrogò Antonio.

Lovino lo scalciò con rabbia, offeso da quella mancanza di fiducia nelle sue capacità.

«Ho ottenuto qualcosa, invece! Il Mago dell’Ovest è potente, ma non infallibile!» sbottò.

Antonio posò gli occhi sull’uomo svenuto e sulla sua ciurma atterrita.

«Possiamo andarcene, allora.»

«Ci rimane solo una cosa da fare» gli ricordò Lovino.

Antonio annuì, e afferrò con entrambe le mani la sua ascia.

L’equipaggio osservò terrificato la lama che aumentava di dimensioni, fino a diventare grande come la scialuppa che ancora attendeva i suoi passeggeri. Ad Antonio bastò un gioco di polsi e braccia per far roteare la gigantesca arma, che divelse il tetto delle cabine della ciurma in un sol colpo.

«Dobbiamo ripulirvi la memoria» Lovino congiunse le mani, e una caligine scura sfiatò dalle sue spalle, formando due cupe palpebre che si aprirono in un paio di occhi sanguigni.

«Non possiamo permetterci il rischio che qualcuno riveli informazioni sul nostro conto» confermò Antonio.

«Purtroppo per voi, l’unico modo che conosco per impedirvi di parlare…» gli occhi rossi baluginarono di una follia animalesca, che fece piombare al suolo anche i più coraggiosi dell’equipaggio. «… è sprofondare le vostre menti nel Caos. Spero che il vostro soggiorno nella sanità mentale sia stato piacevole.»

L’ultima immagine che ebbero del mondo normale furono un paio di pupille rubino che si abbattevano su di loro. Poi la loro mente si lacerò, e l’universo vorticò intorno a loro, scomponendosi in mille pezzi che non si sarebbero mai più ricompattati.

La scialuppa abbandonò velocemente la nave su cui ormai regnava la pazzia.

 

***

 

«Dunque Lovino è ancora vivo.»

Il vecchio Guardiano chinò il capo imbiancato in un cenno di assenso.

«Ma non è l’unica raccomandazione che l’Asse intende rivolgervi riguardo ai vostri figli. Sono stato incaricato di riportarvi un secondo messaggio.»

Un sopracciglio del signor Vargas si incurvò a esternare un irritato interrogativo, e il Guardiano proseguì:

«Il bianco è stato scelto come colore rappresentativo dell’Asse, poiché riflette tutti i colori senza assorbirne nemmeno uno. Così deve essere anche per l’Asse: riflettere il mondo senza restarne toccato. Ma il bianco è anche il colore più facile da sporcare, per questo l’Asse deve restare lontano dalla lordura. Dunque, fate attenzione a colui che è stato scelto per ricoprire questo ruolo.»

«Per quale motivo?» il signor Vargas quasi ringhiò.

Il Guardiano rafforzò ulteriormente la sua posa marziale e scandì:

«Perché il suo bianco pare ansioso di essere sporcato. E la Confederazione non può ruotare su un cardine immondo.»

Ciò riferito, il Guardiano si inchinò e sparì a larghe falcate lungo il corridoio, lasciando il signor Vargas solo con le sue meditazioni.

Avrebbe inviato le sue milizie seduta stante per stanare Lovino e giustiziarlo. Per quanto riguardava Feliciano, non doveva preoccuparsi: ormai era totalmente sottomesso, e probabilmente si era perfino scordato di aver mai avuto un fratello.

L’unico problema era Lovino, come sempre.

Intinse il pennino nella boccetta di inchiostro e si preparò a stilare un mandato di cattura.

Non avrebbe permesso a quel gemello indesiderato di sbriciolare il loro Universo.

 

***

 

«C’è qualcosa che vi turba?»

Feliciano non aveva proferito verbo da quando se ne erano andati dalla sala dell’Auspicio: si era tolto il cappello e il velo, li aveva appoggiati su un angolo del letto e si era seduto sulla poltrona, rigorosamente lattea.

«Oh… te ne sei accorto?»

Le labbra si tirarono in un sorriso stanco, e Feliciano sprofondò nella poltrona con aria esausta.

«Non è stato onesto con me» rivelò.

«Come fate a saperlo?» domandò austero Ludwig.

Feliciano si coprì con una mano gli occhi, come se volesse nascondere il suo peccato sotto le dita.

«Perché i miei poteri sono più forti dei suoi. “Il migliore Asse degli ultimi trecento anni”. È così che vengo vantato, no?» di nuovo, quel sorriso figlio dell’amarezza affiorò sulle sue labbra. «Pare che i miei poteri siano davvero smisurati. Nemmeno io me ne ero reso pienamente conto fino… fino ad oggi. Ho visto quello che lui ha visto.»

«E cosa avete visto?»

Feliciano ritrasse le gambe sulla poltrona, appallottolandosi su se stesso. Quando la testa fu nascosta dalle ginocchia, fu quasi impossibile distinguere tra il candore delle sue vesti e la tinta nivea della poltrona.

«Se Lovino sopravvive, la Confederazione verrà stravolta. E, se ci riuniremo, l’Universo potrebbe smettere di esistere.»

Le spalle del giovane sobbalzarono per i brividi che cercavano disperatamente di trattenere, e Ludwig si avvicinò alla poltrona, preoccupato per le condizioni dell’Asse.

«So che un’Asse dovrebbe avere a cuore il bene della Confederazione» dalla gola otturata di lacrime uscì qualcosa di simile ad un miagolio, più che ad una voce umana. «Quindi dovrei lasciare che Lovino muoia e accettare il mio destino di solitudine…» la testa si infossò ulteriormente nelle gambe contratte, tanto che rimasero visibili solo alcuni ciuffi ramati. «Ma non voglio.»

Feliciano sollevò bruscamente il capo: il rosso delle guance infiammate, il colore trasparente delle lacrime e il castano infuocato degli occhi erano quasi violenti in confronto al predominante bianco.

«I miei poteri saranno superiori a quelli degli altri Assi, ma il mio spirito non è altrettanto forte! Non possono chiedermi di gettare i miei sentimenti fuori da questo Palazzo e diventare una bambola senza cuore! Non possono chiedermi di uccidere mio fratello!»

«Forse la vostra interpretazione è sbagliata…»

«Non è sbagliata! Quello era Roma!»

Vi fu un attimo di immobilità innaturale prima che Feliciano portasse una mano a coprire la sua bocca sfrontata.

«Scusami… ho urlato…» mormorò, mordendo le parole per non scoppiare in lacrime. «Ma per me mio fratello è più importante della Confederazione… proteggere un Universo in cui lui non c’è, per me non ha senso…» alzò sul Guardiano un paio di occhi imploranti e traballò: «Ludwig, se ti chiedessero di scegliere tra tuo fratello e la Confederazione, chi sceglieresti?»

Per un attimo, le spalle del Guardiano si contrassero. Poi si rilassarono di nuovo nella posizione di riposo militare mentre il giovane rispondeva:

«Mi è capitata una cosa simile, in passato. E non ho potuto fare nulla perché ero troppo debole.»

Feliciano si appoggiò a un bracciolo paffuto, completamente ammutolito. Ludwig si mise in ginocchio di fronte a lui, in modo da poterlo fissare negli occhi mentre affermava:

«Al contrario del me stesso di allora, voi siete forte, e anche io lo sono. Se combiniamo le nostre forze, potremmo fare in modo di rivedere i nostri cari senza che per questo la Confederazione debba cessare di esistere.»

Le ciglia del giovane, imperlate di lacrime, fremettero di speranza a quella prospettiva.

«Ne sei certo?» azzardò Feliciano.

«Non posso esserne sicuro. Ma possiamo cercare una via di uscita.»

Feliciano asciugò gli occhi sull’ampia manica, annuendo soddisfatto.

«Devo chiederti due favori» annunciò l’Asse. «Il primo è di non usare il “voi”, quando siamo da soli. Sembra che tu voglia tenermi a distanza, e non mi piace.»

«È per mostrarvi rispetto.»

«Me lo dimostri standomi al fianco ogni giorno e ogni ora. Non c’è bisogno di questa formalità.»

«Come… preferisci» Ludwig inciampò un attimo nello spezzare il muro della ritualità.

Il sorriso di Feliciano diventò finalmente più genuino, ma si infranse per l’incertezza nel pronunciare la seconda richiesta: 

«Potresti… abbracciarmi?»

Il ragazzo dirottò gli occhi sul bracciolo della poltrona, e si giustificò, imbarazzato:

«Quando c’era mio fratello… ero abituato ad abbracciarlo in continuazione, anche se ogni tanto mi spingeva via. Invece adesso…» strinse il pugno su alcune ciocche ramate, stringendo gli occhi per la nostalgia. «Sono sei anni che non abbraccio nessuno… o che nessuno mi tocca. Ed è così… triste… sembra che a nessuno importi che io sia vivo o meno, basta che stia al mio posto come una statua…»

Udì il fruscio della divisa, ma fu comunque sorpreso quando le braccia del suo Guardiano gli circondarono il capo.

«Non sei solo» furono le uniche cose che Ludwig disse, mentre lo teneva stretto a sé.

Feliciano morse le labbra e serrò gli occhi, ricambiando l’abbraccio del giovane. Pensava che Ludwig fosse gelido come la sua terra natale, o come i suoi occhi glaciali; invece sentiva il cuore del Guardiano battere nel petto su cui poggiava la sua guancia, e avvertiva il calore del giovane trapelare dalla divisa scura e avvolgerlo assieme alle sue braccia.

Strinse più forte la presa sulle spalle massicce, nascondendo il viso nel torace del giovane.

Aveva dimenticato che esisteva del tepore nel mondo, al di là del caminetto che riscaldava la sua stanza in inverno. E riscoprirlo gli diede una gioia che non sapeva di poter ancora provare.

 

***

 

Lovino esaminò corrucciato il disegno schizzato dal loro navigatore.

«Era qualcosa di simile» asserì infine, appoggiando il foglio sul tavolo in modo che tutti potessero vederlo.

«Sei assolutamente sicuro di aver visto questo, nella mente del comandante?» si sincerò Antonio, per l’ennesima volta.

Lovino picchiettò l’unghia sul paesaggio abbozzato.

«Ne sono certo. Qui c’era l’Hellsing, incatenato» spiegò, indicando un ponte sottile ricoperto di ghiaccio. «E lo stavano conducendo qui» concluse, indicando un nugolo di torri simili a una piantagione di stalattiti.

Un brusio preoccupato si levò dalla ciurma. Antonio sciolse il laccio che tratteneva la coda di riccioli sulla nuca, e legò nuovamente i capelli prima di pronosticare:

«Allora è stato portato alla Prigione Caina.»

Non vi fu bisogno di aggiungere altro.

La Prigione Caina era una delle Sei Fortezze e, in quanto tale, godeva della protezione di alcuni tra i migliori guerrieri di tutta la Confederazione: nessuno era vissuto abbastanza a lungo da raccontare il suo incontro con i Golem di Ghiaccio. Inoltre, il clima stesso del mondo in cui era stata edificata la Prigione scoraggiava qualunque avventuriero: nessuno poteva sopravvivere alla temperatura polare o alle asperità del terreno. In tutto il pianeta, l’unico edificio esistente era, per l’appunto, la Fortezza.

«Non c’è modo di coglierli di sorpresa» valutò ad alta voce un consumato bucaniere. «In quella maledetta terra non c’è nemmeno una montagna per nascondersi. Solo una schifosa lastra di ghiaccio.»

«Lovino, tu non potresti renderci invisibili?» tentò Antonio, ma il giovane scosse la testa.

«Potrebbe fare impazzire i prigionieri. Questo occuperebbe i Golem per un po’» propose un altro marinaio, ma questa volta fu Antonio a dissentire:

«Anche se li facesse impazzire, i prigionieri della Caina sono tutti addormentati e intrappolati nel ghiaccio. Non potrebbero fare scompiglio nemmeno volendo.»

Nessuno aggiunse altro, notando la tensione spasmodica con cui il capitano stava stringendo i pugni. La Prigione Caina era famosa non solo per la sua ubicazione impervia, ma anche per la pena riservata ai criminali chiusi nelle sue celle. I carcerati venivano immersi in un globo di ghiaccio e in un sonno profondo, in cui avrebbero rivissuto tutte le loro peggiori paure fino alla fine dei tempi. La sola immagine di Gilbert immobile in una bara congelata e tormentato da visioni fasulle gli faceva ruggire il sangue nel cervello.

«Esiste una persona che può avvicinarsi alle Fortezze senza essere fermato» rischiò un mozzo con la pezza sull’occhio. «Il Custode dei Cancelli.»

«Ma certo. Vuoi essere tu la prima testa che si fracasserà contro la sua mazza ferrata?» lo riprese aspramente un altro marinaio. «Per lui siamo nemici.»

«È l’unico modo per raggiungere l’Hellsing! Una volta in prigione potremo cavarcela in qualche modo, grazie ai poteri del capitano e del suo vice, ma dobbiamo arrivare interi!» protestò vivacemente il primo.

«E come pensi di…»

«È davvero l’unico modo?»

La domanda di Lovino sferzò la conversazione, spezzandola a metà. Tutti volsero lo sguardo verso il ragazzo che a sua volta fissava Antonio, in attesa di risposta.

«Il Mago dell’Ovest potrebbe fare qualcosa, ma dopo che gli abbiamo fatto impazzire un intero equipaggio dubito che avrà voglia di ascoltarci… no, potremo contare su di lui solo per ritrovare il Marauder. Forse» specificò Antonio. «Per quanto impossibile, il Custode è l’unica opzione.»

«Così sia. Se avete troppa paura, non preoccupatevi: andrò da solo.»

Lovino non lasciò tempo a nessuno di contestare la sua decisione: si alzò dal tavolo e si diresse veloce verso la sua cabina.

Si tolse la giacca amaranto e la dispiegò sulla gruccia. Un barbiglio di luce venne catturato dalla nuova medaglia: aveva raccolto lo stemma del capitano della nave di Britannia e lo aveva appuntato sul petto, assieme alle medaglie degli altri capitani che aveva sconfitto. Ma erano ancora insufficienti per rivaleggiare con Antonio.

Cominciò a slacciare i bottoni della camicia, ed era a metà strada quando la porta della sua cabina si spalancò.

«Dovresti ascoltare i discorsi altrui fino in fondo-» un cuscino lanciato con una permalosità scarlatta si abbatté sul viso del capitano, zittendolo.

«Dovresti imparare a bussare, dannazione!» esacerbò Lovino, riallacciando rapido la camicia.

«Non puoi biasimarli, se hanno paura del Custode dei Cancelli. Tu non hai visto cosa è capace di fare, ma loro sì» continuò imperterrito Antonio, scavalcando il guanciale che era rovinato al suolo.

«Infatti ho detto che andrò da solo. Così nessuno verrà ferito» replicò asciutto Lovino.

Si girò bruscamente quando Antonio lo afferrò per il polso con tanta forza da fargli quasi male.

«Questo» sillabò Antonio, sollevando la mano fasciata di Lovino. «Ustioni di secondo grado, e non era nemmeno uno scontro diretto con il Mago dell’Ovest. Pensi davvero che sopravvivresti a una lotta con il Custode dei Cancelli?»

«Me la caverò in qualche modo» contestò Lovino, cercando di liberare il polso.  Per tutta risposta, Antonio accentuò la presa e l’enfasi del rimprovero:

«Queste parole circolano solo nelle bocche degli stupidi. E tutti gli stupidi finiscono uccisi in qualche modo assurdo. Vuoi essere ammazzato anche tu, e lasciare tuo fratello a piangere col Cristallo?»

La pupilla di Lovino si dilatò, colpita a morte da quella previsione nefanda. L’ira di Antonio si acquietò un poco, vedendo la testardaggine del giovane ritirarsi dal suo viso per lasciare spazio all’ansia. Allentò la stretta sul suo polso, senza però lasciarlo andare, e consigliò, adamantino:

«Se vuoi rivedere tuo fratello, abbi più cura della tua vita.»

Approfittò della momentanea sottomissione di Lovino per aggiungere:

«Caleremo una scialuppa di sei persone per raggiungere la Fortezza Errante del Custode. Cercheremo di negoziare, non di combattere. Chiaro?»

«E se loro ci attaccassero?»

«Allora ci ritireremo. E cercheremo un altro modo per liberare l’Hellsing.»

Lovino portò le iridi, di nuovo ferme nella consueta espressione guardinga, sul volto del capitano e indagò:

«Sei davvero sicuro che, se risvegliamo l’Hellsing e il Marauder, potremo aprire una breccia nel Palazzo di Quarzo?»

«Loro sono le uniche persone che conosco in grado di accompagnarci in questa pazzia. Nonché le più potenti» confermò Antonio.

Lovino lasciò passare qualche secondo prima di porre la seconda domanda:

«Perché vuoi distruggere il Palazzo di Quarzo? Io lo faccio per mio fratello, ma tu…»

«Ho visto cosa si cela dietro la giustizia propagandata dalle famiglie Vaticane. E non credo che una simile ipocrisia possa mantenere questa Confederazione stabile ancora a lungo.»

La replica fu talmente immediata da lasciarlo quasi stordito. Antonio lo confuse ulteriormente estraendo un sorriso sornione del tutto inadatto all’argomento trattato.

«Un giorno te ne parlerò» promise.

«Mi basta che tu mi aiuti a liberare mio fratello. Non mi importa delle tue motivazioni» scalpitò Lovino, facendo un ulteriore tentativo per liberare il polso.

Le dita del capitano non gli permisero di fuggire, anzi, avvicinarono la mano bendata al viso dell’uomo. Il palmo venne accarezzato dalle iridi verdi di Antonio, calamitate da esso come se cercassero di scorgervi un percorso invisibile, prima che le labbra scendessero a lambire le fasciature.

Lovino si agitò come un luccio appena pescato, e le sue proteste verbali aumentarono di tono quando la mano libera del capitano fece pressione sulla sua schiena. Le esclamazioni di Lovino si strozzarono contro il cappotto del comandante. Le insinuazioni di Antonio si infiltrarono nelle sue ciocche ramate, accapponandogli i capelli sulla nuca.

«È ammirevole che tu desideri rivedere tuo fratello con tanta intensità. Ma ogni tanto dovresti renderti conto che lui non sarà l’unica persona che incontrerai nel tuo cammino. E perderai moltissime occasioni lungo il viaggio, se concentrerai tutto te stesso solo sulla meta.»

Antonio lo rilasciò all’improvviso, evitando di un soffio il calcio diretto ai suoi stinchi.

«Ci metteremo sulle tracce della Fortezza Errante da questo preciso momento. Se vuoi unirti a noi, sai dove trovarci» si accomiatò.

Lovino si gettò la giacca sulle spalle e infilò le maniche con una collera imbarazzata che gli colorava le guance.

Era sbagliato pensare solo al fratello? Doveva prestare attenzione anche alle altre occasioni?

«E quali sarebbero queste occasioni? Tu?» sberciò, abbassando la maniglia con veemenza. «Non farmi ridere, bastardo!»

E chiuse le sciocchezze del capitano dietro quella porta prima di recarsi di nuovo nella sala comune.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ed eccomi qui con il terzo capitolo<3

Uhm, non ho molto da dichiarare/annunciare, questa volta XD

Solo, per le fan di Ivan: il fanciullo è in direttura di arrivo 8D

E, beh, non ho altri da aggiungere *che tristezza di postille finali XD*

Un bacione da questa scrittrice derelitta<3

A presto!

Red

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Capitolo 4
*** Il Custode dei Cancelli ***


Capitolo Quattro: il Custode dei Cancelli

 

La vedetta sentì la gola attorcigliarsi quando avvistarono la sagoma della dimora del Custode.

Un’enorme piattaforma reggeva un castello le cui pareti erano formate da meccanismi dall’aria estremamente complessa, e le cui torrette sbuffavano fumo a intervalli precisi. Ogni cosa nel castello era regolata in modo da perpetrare il moto della Fortezza: non vi era porta, finestra o parete che non fosse ricoperta da ingranaggi in movimento; il castello era un unico muscolo pulsante.

Quattro enormi pinne si allungavano e si muovevano pigre come quelle delle testuggini marine, orientando la direzione della Fortezza.

«Obiettivo avvistato» avvisò con un urlo. «Siete pronti?»

Dalla scialuppa, sei teste risposero con un cenno affermativo.

«In bocca al lupo, capitano» augurò il marinaio. «Vice» aggiunse, chinando la testa con umiltà. «Tornate vittoriosi.»

Lovino, Antonio e i quattro mozzi armeggiarono con le corde per calare la scialuppa; i razzi rombarono potenti, facendo librare l’imbarcazione verso la Fortezza.

«Chiediamo il permesso di atterrare» gridò un mozzo, sporgendosi dal parapetto ma senza uscire dall’atmosfera artificiale. «Non veniamo con intenzioni bellicose.»

Lo spazio rimase silenzioso e fermo attorno a loro.

«Dite che non mi hanno sentito?» balbettò, impaurito da quella stasi innaturale.

«Torniamo» decise Antonio. «Adesso.»

Lovino avrebbe voluto fermarlo, ma l’espressione livida del capitano lo ammutolì. Se Antonio aveva motivo di temere quel castello fluttuante, lo avrebbero seguito nella sua ritirata.

Il marinaio addetto si piazzò nella postazione di controllo per girare la scialuppa, ma fu interrotto dal grido terrorizzato di un suo collega.

«Che diavolo è quello

Lovino si sporse dalla barca, e il sangue gli si raggelò nelle vene.

Un uomo, circondato da una sfera di atmosfera artificiale, avanzava verso di loro con la spietatezza di un lupo siberiano. Il pesante cappotto e la sciarpa volteggiavano intorno a lui come drappi funebri, e le mani guantate erano strattonate all’indietro dalla pesante mazza ferrata che reggevano.

«I comandi non rispondono, capitano!» sberciò il marinaio, preda del panico.

Antonio impugnò l’ascia e Lovino congiunse le mani per richiamare Roma, mentre il gigante d’uomo divorava lo spazio con la sua corsa animalesca.

La scialuppa quasi si rovesciò quando il Custode atterrò al suo interno con un pesante balzo; Antonio si parò davanti a Lovino e intercettò il primo colpo di mazza ferrata con la sua ascia.

Uno strano ghigno si dipinse negli occhi dell’uomo, semi nascosti dalla sciarpa.

«Antonio Fernandez Carriedo» lo riconobbe il gigante. Fece pressione sull’arma, costringendo il capitano a piegarsi sulle ginocchia. «La Mano Destra del Diavolo. E dite venire in pace?»

Un marinaio estrasse il pugnale dallo stivale e tentò di colpire il Custode. Il gigante risolse la questione con due movimenti di polso: la mazza ferrata precipitò sulla testa del mozzo, facendola esplodere come un melograno maturo, per poi tornare a bloccare l’ascia del capitano. Lo stomaco di Antonio si rivoltò quando il sangue misto a materia cerebrale del suo sottoposto gli colò sul viso dagli spuntoni dell’arma dell’uomo.

«Non mi sembrate pacifici» notò il gigante.

«Non muovetevi!» comandò Antonio, bloccando i suoi uomini pronti ad aiutarlo: non avrebbero fatto che suicidarsi contro quella mazza ferrata implacabile.

Roma si sollevò dalle spalle di Lovino e si lanciò contro il Custode con un ringhio. L’uomo evitò la fiera spostandosi di lato di un passo, e abbatté la sua arma anche su di lei. Roma si dissolse sotto l’impatto con la mazza ferrata, e si riformò di fianco al suo padrone.

«Sei un mago?» si sorprese con calma il gigante, avvicinandosi al ragazzo.

Lovino poggiò una mano sul collo di Roma, pronto a incitarlo all’attacco, ma uno scudo migliore del lupo si parò davanti a lui: la figura del capitano si stagliò davanti ai suoi occhi, l’ascia spianata contro il Custode.

Il gigante non si fece scoraggiare da quell’imprevisto: roteò la mazza, costringendo il capitano a pararla con l’ascia, e lo colpì crudelmente alla caviglia con il pesante stivale. Il rumore dell’osso spezzato schioccò tremendo all’interno dell’atmosfera artificiale, e Antonio cadde a terra con un grido di dolore, aggrappato alla sua arma.

«Prima ordinate ai vostri uomini di stare fermi e poi mi attaccate» lo biasimò l’uomo, dall’alto della sua statura imponente. La reazione del capitano lo colse di sprovvista: il manico dell’ascia si allungò improvvisamente, e la lama si espanse fino a tagliargli la sciarpa e la guancia. L’uomo si abbassò un secondo prima che quell’arma potesse dividergli la testa a metà.

«Non voglio che i miei uomini muoiano inutilmente» decretò Antonio, un velo di lacrime nell’angolo degli occhi per la caviglia spezzata. «Ma anche io ho delle cose che voglio proteggere.»

La mazza ferrata dell’uomo svettò nel cielo, e gli astri circostanti gettarono una luce macabra sulle chiazze scure incrostate su quell’arma.

«Dunque sarete disposto a morire, per difenderle.»

L’uomo caricò il braccio all’indietro; Antonio si preparò a parare il colpo con l’ascia; Lovino si gettò in avanti, cercando inutilmente di frenare quella degenerazione di eventi.

Il tempo sembrò cristallizzarsi in quell’unico istante in cui il gigante si fermò come se lo avessero ibernato, e inclinò il capo di lato per ascoltare un sussurro udibile solo a lui.

L’uomo depose la mazza sulla propria spalla e proclamò, rivolto a Lovino:

«Pare che tu sia prezioso. Sei autorizzato a scendere nella Fortezza Errante. Ma tu solamente.»

Lo sgomento atrofizzò l’anima dei marinai, e lasciò Lovino completamente attonito. Con chi aveva parlato il gigante, per cambiare idea in modo così repentino?

«Vuoi scendere?» lo incalzò l’uomo.

Lovino si riscosse con un tremito. Era terrorizzato dalla forza spaventosa di quell’uomo, e non osava pensare cosa sarebbe stato capace di fare una volta raggiunto il suo castello. Ma era l’unico modo per liberare l’Hellsing, e per avvicinarsi di un passo alla liberazione del fratello.

Antonio non gli permise di scendere dalla barca da solo: lo afferrò in vita con un braccio e lo strattonò violentemente contro di sé.

«Che accidenti fai?» si ribellò Lovino, prima che il capitano contrattasse:

«Questo ragazzo è prezioso anche per noi. Non possiamo lasciarlo andare da solo. Capisco che tu non voglia intrusi nel tuo castello, ma dovrai accettare perlomeno la mia presenza, se vuoi che lui ti segua.»

Gli occhi del gigante lo fissarono dall’alto, con una sicurezza venata di disprezzo.

«Come preferite. Vi avrei sconfitto mentre eravate al pieno delle forze. Dubito che possiate infastidirmi, ora che siete azzoppato.»

«Capitano…» cercarono di dissuaderlo i suoi uomini, ma Antonio fu irremovibile:

«Aspettateci sull’Aereonave. Torneremo sicuramente. Entrambi.»

E i quattro marinai non poterono fare altro che osservare impotenti, mentre Lovino si autopromuoveva a stampella di Antonio e insieme seguivano il gigante nella sua tana.

 

***

 

Feliciano osservò annoiato il disegno sulla lavagna di fronte a lui.

I vertici di due triangoli stesi in orizzontale si toccavano al centro di una forma a cristallo, il tutto inscritto in un cerchio. Era il simbolo della Confederazione Siderale, e un buon Asse doveva conoscerne l’esatta simbologia.

«Cosa rappresenta questo triangolo?» lo interrogò Ludwig, puntando il dito sulla figura di sinistra.

«Sono le Tre Spade» recitò Feliciano e procedette a elencare: «Il Mago dell’Ovest, il Samurai e il Guardiano. L’altro triangolo, invece, rappresenta i Tre Scudi: il Custode dei Cancelli, il Figlio del Cielo e l’Asse» indicò il punto in cui le due figure si congiungevano al centro del cristallo e terminò: «In questo punto i due triangoli si incontrano poiché il Guardiano e l’Asse sono indivisibili all’interno del Palazzo di Quarzo.»

«Molto bene» si complimentò Ludwig. «E ti ricordi la provenienza di queste persone?»

«Il Mago dell’Ovest protegge la Compagnia di Britannia, il Samurai difende il Sistema Asean assieme al Figlio del Cielo, e il Custode dei Cancelli vaga per la Confederazione sulla sua Fortezza Errante» salmodiò flemmatico Feliciano.

«E i sei punti in cui i triangoli e i vertici del cristallo toccano il cerchio?»

«Rappresentano le sei Fortezze. Tre prigioni, un tribunale e due avamposti di polizia.»

Il volto di Feliciano cambiò bruscamente espressione quando Ludwig pose la domanda finale:

«Quali sono le forze non presenti in questo schema?»

Anche suo fratello era tra i ripudiati da una gerarchia che non aveva pietà per i diversi. Feliciano pettinò all’indietro la frangia ramata e mormorò, il ricordo del gemello conficcato come una spina nel cuore:

«Sono i Tre Sparvieri. La Mano Destra del Diavolo, il Marauder e l’Hellsing. La Mano Destra del Diavolo è ancora in circolazione, il Marauder è scomparso misteriosamente e l’Hellsing è rinchiuso nella Prigione Caina…» l’Asse si fermò, sbigottito dall’espressione di Ludwig: non aveva mosso un muscolo ma all’improvviso tutto, in lui, era diventato l’emblema della sofferenza.

«Ludwig?» lo chiamò Feliciano, e il Guardiano si riappropriò in un secondo della sua compostezza.

«Non è nulla» cercò di sorvolare, ma Feliciano non gli permise di fuggire:

«Conoscevi l’Hellsing?»

Ludwig si asserragliò in un mutismo cupo. Feliciano si sentì quasi ferito dal riserbo del giovane e protestò:

«Sai che non lo dirò a nessuno. Abbiamo stretto un patto: uscire da qui insieme. E sai che non lo tradirò. Però tu conosci i miei motivi, ma io non conosco i tuoi. Non è giusto.»

Gli occhi azzurri si posarono su di lui e Feliciano vi lesse tutta la spietata bellezza delle lande gelide in cui era cresciuto il giovane.

«Non lo dico perché non mi fido di te. Ma è qualcosa che… brucia, ancora» Ludwig aggrottò le sopracciglia e ammise in un ruggito stanco: «Gli devo la vita. Gli devo tutto. E non l’ho mai ricambiato.»

«È tuo fratello?»

Prima delle parole lo raggiunse il tocco gentile della mano dell’Asse, che si adagiò delicata sul suo bicipite. Ludwig fissò quelle dita, così piccole in confronto al suo braccio. Un tempo, quella mano era stata la sua, e il braccio quello dell’Hellsing. Si chiedeva se anche allo sterminatore di demoni quelle dita fossero sembrate così minuscole e fragili.

«Era tutto quello che avevo» rispose Ludwig, con una tetra malinconia ad appesantirgli la voce.

Feliciano abbassò gli occhi, troppo vergognoso per pronunciare quell’invito fissando il volto del suo Guardiano.

«Puoi abbracciarmi, se vuoi.»

La pendola scandì qualche rintocco prima che Ludwig spezzasse quella stasi avvolgendo con le braccia muscolose il corpo minuto di Feliciano. Non era un fisico adatto a sostenere un intero Universo: quella schiena esile si sarebbe spezzata, e le spalle strette sarebbero state polverizzate dal peso della Confederazione.

L’affermazione dell’Asse scivolò sulla divisa e lo accarezzò sulla guancia con la dolcezza di una carezza materna.

«Non sei solo, Ludwig.»

Il Guardiano cinse più forte quel fisico di giunco, e le vaporose maniche dell’Asse calarono sulla sua schiena quando il giovane alzò le braccia per ricambiare la stretta. Lo tenne avvinto a sé nel ricordargli la loro promessa:

«Nemmeno tu sei solo.»

E le braccia sottili dell’Asse si strinsero con più forza attorno al suo dorso.

 

***

 

Antonio era seduto su una poltrona ricavata dall’incastro di complessi marchingegni, e Lovino stava appollaiato sul bracciolo, le braccia che circondavano il capo di Antonio. Quello stupido si era fatto azzoppare, quindi era suo compito proteggerlo.

Lanciò un’occhiata in tralice al gigante in piedi in fondo alla sala dalle pareti meccaniche piene di stantuffi, pompe e ingranaggi in movimento.

Il cappotto che indossava scendeva dritto e pesante fino a scoprire gli stivali rinforzati di metallo, e i guanti sembravano ricavati da pelle di drago tanto il loro tessuto era spesso. L’unico dettaglio leggero del suo abbigliamento era la sciarpa color crema, su cui spiccavano i grandi occhi violacei dell’omone. Le ciglia che contornavano quelle iridi distaccate erano color paglia delle steppe, come la corta chioma dell’uomo. Non aveva abbandonato la mazza ferrata, che pendeva leziosa dalla sua spalla, con il sangue del loro compagno che pian piano si raggrumava sulla sua superficie.

«Qual è il tuo nome, ragazzo?» domandò il gigante, con la placidità di chi sa di essere obbedito.

«Lovino» rispose l’interpellato, con voce ferma.

«Il tuo nome completo» esigette l’uomo.

Antonio sentì le mani del giovane fremere per uno scatto nervoso nel pronunciare il suo odiato cognome.

«Lovino Vargas.»

Le sopracciglia del gigante si alzarono appena, esprimendo una moderata meraviglia.

«Vargas è il nome della famiglia Vaticana che offre i suoi primogeniti al Palazzo di Quarzo» recitò l’uomo. «Come mai un Vaticano fa parte della ciurma di Carriedo?»

«Non sono più un Vaticano» eruppe Lovino, e sollevò i capelli mostrando la nuca al gigante. La ferita si era rimarginata, ma la cicatrice a forma di croce era ancora ben visibile sul suo collo. «I miei poteri erano immorali, e dovevo restituire la mia metà di anima a mio fratello. Per questo mi hanno gettato su un pianeta desertico a morire.»

«Non sapevo che il ragazzo destinato a diventare Asse avesse un fratello.»

«Non siete il primo a dirmelo.»

Il gigante appoggiò la mazza ferrata al muro, abbastanza vicino da poterla recuperare semplicemente stendendo il braccio, e seguitò:

«Perché siete venuti qui?»

«Abbiamo bisogno del vostro aiuto per arrivare alla Prigione Caina. Solo per arrivare. Il resto spetta a noi» affermò Antonio, trattenendo a stento un gemito per la caviglia sconquassata.

Gli occhi dell’uomo rimasero freddi come gli inverni del pianeta Siberia mentre li interrogava:

«Avete intenzione di risvegliare lo Sparviero vostro compare?»

«Esattamente» avvalorò Antonio.

«A quale scopo?»

«È necessario per infrangere le barriere del Palazzo di Quarzo e liberare mio fratello» s’infervorò Lovino.

«Avete intenzione di attaccare il Vaticano e lo ammettete con tanta leggerezza?»

«Non ci servirebbero a molto le menzogne, contro di voi» sogghignò amaro Antonio.

Ivan annuì, tuffando il viso nella sciarpa.

«Cosa ne pensi?» chiese, rivolto apparentemente al nulla.

Due grosse ruote dentate emisero un rantolo metallico, permettendo a una porta nascosta di aprirsi.

Antonio sentì Lovino trasalire per lo stupore, e la cosa non lo sorprese: perfino lui aveva sentito il sangue gridare per la sorpresa, alla vista del nuovo arrivato.

La nascita nella parte orientale della Confederazione aveva modellato i suoi occhi scuri nella particolare forma a mandorla delle popolazioni del Sistema Asean, allo stesso modo in cui anche il fisico e i lineamenti del viso ricalcavano l’ideale asiatico. Una lunga coda di capelli mogano scendeva sinuosa sulla tunica orientale dalle tinte infuocate, stretta in vita da una fascia dorata e completata da un paio di larghi pantaloni bianchi.

Ma non furono tutti quei dettagli esotici a far sussultare i due pirati: entrambi riconobbero il medaglione di rubino a forma di drago che pendeva dal collo del giovane.

«Yao Wang, il Figlio del Cielo!» esclamò Lovino. «Cosa ci fate qui?»

«È una storia lunga quanto la vostra. E temo che dovrà aspettare» l’orientale nascose i polsi nelle ampie maniche della tunica e si rivolse al gigante: «È come ti ho detto, Ivan: noi siamo il terremoto che scuoterà la Confederazione.»

«Siete stato voi a fermarlo, prima?» indagò Antonio.

L’orientale chinò il capo in un assenso, portando i suoi occhi dal taglio obliquo su di lui.

«Perché? Non potevate lasciare che ci ammazzasse, come ha fatto con il nostro collega?» il ricordo dell’esplosione della testa del suo sottoposto gli incendiò le parole sulla lingua, che si conficcarono come dardi di fuoco nel petto del Figlio del Cielo.

«Sono spiacente per la vostra perdita» si rammaricò Yao. «Ma è il nostro modo di difenderci, per quanto brutale. Anche voi avete ucciso numerose persone sul vostro cammino, ed eravate disposto ad attaccare Ivan, se avesse cercato di rubarvi quel ragazzo.»

Antonio conosceva la dura legge del più forte, così a fondo che non poté replicare. E nel suo silenzio si inserì Ivan:

«La Confederazione sta andando incontro alla sua distruzione. Il Figlio del Cielo è stato detronizzato, gli Sparvieri sono prossimi al risveglio, e nella famiglia Vargas sono nati dei gemelli.»

«Come potete sapere che gli Sparvieri sono prossimi al risveglio?»

«Come sapevate che sono un Vaticano?» domandarono in sincrono Antonio e Lovino.

Yao rispose ai loro quesiti con eleganza e tranquillità:

«Se anche voi non risvegliaste l’Hellsing, il Mago dell’Ovest cercherà il Marauder, prima o poi. L’ho visto nella sua aura, durante l’ultimo incontro ufficiale. E non sapevo che voi foste un Vaticano: ho semplicemente avvertito l’energia Yang particolarmente forte dentro di voi.»

«Yang?» gli fece eco Lovino.

« La forza dell’opposto» Yao optò per una spiegazione più elementare: «In questo mondo esistono varie forze: la luce, la gentilezza, il fuoco e così via. Ognuna di queste cose ha il suo contrario e, senza di esso, nulla esisterebbe. Non si può conoscere il caldo se prima non si sperimenta il freddo.»

«In altre parole, io sono qualcosa di malvagio.»

L’orientale gli si accostò lentamente, in modo che le sue parole potessero raggiungerlo meglio:

«Voi avete semplicemente il potere del contrario. E non sottovalutatelo, è una risorsa enorme. Se ben sfruttato, potreste annullare i poteri dei vostri nemici attaccandoli con il loro opposto. Se un nemico vi attaccasse con il fuoco, potreste subito opporvi l’acqua e così via.»

Il corpo di Lovino si irrigidì per la sorpresa, e la replica si trascinò a fatica sulla sua lingua intorpidita:

«Mi hanno sempre detto che il mio potere era l’ombra…»

«Questo unicamente perché il vostro gemello ha ereditato i poteri di luce, e voi, per riflesso, avete ereditato l’opposto. Ma in realtà, il vostro potenziale è molto più vasto, così come lo è quello del vostro gemello. E vi rivelerò un altro segreto: nella massima ombra, esiste sempre una punta di luce così come nella massima luce sopravvive uno spicchio d’ombra.»

Lasciò il ragazzo a squagliarsi in quella rivelazione sconvolgente e raccontò, rivolto al capitano:

«Vi è anche un altro motivo per cui riteniamo che la Confederazione sia prossima allo sfacelo. Sono nato sotto la benedizione dell’astro del Fuoco. E un regnante sotto questo segno compare solo quando è necessario bruciare il mondo e farne partire uno nuovo dalle ceneri.»

«E voi basate le vostre azioni su auspici e predizioni?» li screditò Antonio.

Gli occhi dell’orientale si assottigliarono in una calma che affondava le sue radici nella spietatezza, e non nella seraficità mostrata fino a quel momento dal giovane.

«È bastata una superstizione perché un padre abbandonasse un figlio, una diceria per imprigionare l’Hellsing e una maledizione per scagliarmi lontano dal mio trono» Yao ricostruì velocemente la sua facciata aristocratica e terminò: «Se preferite una motivazione più razionale, posso fornirvela: il marcio che la Confederazione si è sforzata di nascondere la sta corrodendo nelle fondamenta. È questione di tempo prima che tracolli. Per cui, è meglio rinnovarla con le nostre stesse mani prima che si corrompa del tutto.»

Il gigante si portò alle spalle di Yao e tuonò:

«Vi accompagneremo alla Prigione Caina. Partiremo domani mattina. Potete tornare dal vostro equipaggio.»

I due pirati restarono mineralizzati dall’incredulità, e non si mossero finché Ivan non ripeté il suo invito.

Lovino si appostò di nuovo al fianco di Antonio per aiutarlo a camminare con la sua caviglia fracassata, e uscirono prima che quel gigante capriccioso cambiasse di nuovo opinione.

«Perché ti sei messo in mezzo?» lo incalzò Lovino, quando furono soli.

«Potevi morire. È normale» limitò Antonio.

«Perché hai insistito per venire fin qui?» il giovane gli pizzicò il fianco, come sostituto della testata che non poteva dargli per pietà dal suo claudicare.

«Non volevo lasciarti da solo.»

«Ma perché?»

Le dita del capitano lo solleticarono sotto il mento, e Antonio ammise:

«Perché continuo a sperare di riuscire a distrarti dalla tua unica meta, Lovino. Non voglio distoglierti totalmente. Ma una deviazione momentanea sarebbe gradita.»

Le guance del ragazzo diventarono rosse, ma il suo tono di voce fu scarlatto:

«E ti saresti quasi fatto ammazzare per…»

«Per proteggerti. Ti sembra un motivo così deprecabile?»

Lovino capì di aver perso vedendo l’espressione deliziata del capitano e cambiò argomento, rimbrottando:

«Il Figlio del Cielo ha detto che anche in me… c’è un po’ di luce.»

«Onestamente, Lovino… credo che tu sia l’unico a non aver visto la luce dentro di te.»

«Come fai a dirlo?»

Antonio lasciò che fossero i fatti a parlare: raggiunsero la porta, e un boato di esclamazioni gioiose li investì.

«Guardali» lo incitò il capitano. «Credi che sarebbero così contenti di rivederti, se non avessero scorto qualcosa di buono in te?»

«Sono contenti perché ci sei tu con me…»

«Lovino» si impose Antonio. «Cerca di fidarti delle persone, qualche volta.»

La scialuppa si accostò al bordo della Fortezza Errante, e i mozzi aiutarono Lovino a caricare il capitano ferito a bordo.

Il ragazzo si sedette di fianco al capitano e lo fissò di sottecchi, mentre i marinai cominciavano le manovre per risalire sull’Aereonave.

Fidarsi degli altri. Erano anni che non lo faceva.

Forse, una persona pronta a rischiare la vita per proteggerlo meritava un’opportunità. Anche se trovava tremendamente irritante che il primo individuo a meritarsi la possibilità di ottenere la sua fiducia fosse quel capitano.

 

***

 

Yao si alzò sulle punte dei piedi e Ivan fletté lievemente le ginocchia per permettergli di controllare le condizioni della sua sciarpa.

«È solo un taglietto. Si può ricucire facilmente» decretò, stendendo la striscia di tessuto sul letto con la cura con cui avrebbe fatto adagiare un malato. Fu così che la frecciata di Ivan lo colpì alle spalle:

«Loro si occuperanno di far crollare il Vaticano. Sarai davvero pronto a uccidere Kiku, quando verrà il momento?»

«Hai promesso di aiutarmi» minimizzò Yao, concentrandosi con fin troppa convinzione sullo sfregio della sciarpa.

Il corpo dell’uomo calò con delicatezza sul suo, piegato sul materasso a valutare i danni della stoffa, e la domanda successiva di Ivan gli pugnalò direttamente l’orecchio:

«Sei ancora affezionato a Kiku, nonostante tutto quello che ti ha fatto?»

Lo schiaffo fu tremendamente veloce e centrò la sua guancia con tanta forza da fargli voltare la faccia.

«Non pronunciare il suo nome davanti a me» impose Yao, con il tono che usava per farsi obbedire nel Tempio del Cielo. Tuttavia, Ivan non era uno dei suoi servitori di allora: lo scaraventò senza troppa gentilezza sul letto, e lo bloccò sul materasso premendogli una mano di acciaio sulla spalla.

«Se provi ancora dei sentimenti, devi reprimerli prima di trovarti di fronte a lui, o esiterai nel momento meno opportuno, e tutti i nostri sforzi saranno vani» gli ricordò brutale, accentuando la presa fino a che non divenne dolorosa. «Se vuoi rovesciare la Confederazione, è l’unica via.»

Anche se la sua forza fisica era inutile contro Ivan, come un gatto che cerca di vincere contro un orso, Yao conficcò le unghie nella giacca spessa del compagno, e sbottò:

«Non mi sottovalutare! Ho vissuto molti più anni di te, so su quali regole gira questo Universo malato! Solo…» l’orientale prese fiato per gettare contro l’uomo la sua invettiva: «Ho visto crescere quel ragazzo dal giorno in cui è venuto al mondo. Per cui non ho intenzione di ucciderlo come farei con un estraneo.»

Yao tolse le dita dal polso dell’uomo e concluse, voltando la testa:

«Il risultato non cambia, è questo l’importante.»

La mano di Ivan smise di inchiodarlo al materasso, e la voce stessa dell’uomo suonò indistintamente più delicata nell’avvertirlo:

«Io non ricordo come sia uccidere provando dei sentimenti. Ma immagino che sia come attraversare l’Inferno mille volte.»

Yao non aveva intenzione di protrarre quella discussione, lo comprese nel momento in cui le iridi dell’orientale dirottarono sulla sua gota gonfia, visibile nonostante il collo alto del cappotto.

«Non farmi arrabbiare di nuovo. Non mi piace schiaffeggiarti» lo redarguì Yao.

La mano affusolata del cinese salì cauta a slacciare la cerniera del cappotto, quel tanto che bastava per vedere la bocca di Ivan emergere dai bordi rialzati del colletto.

A volte, Ivan era sorprendentemente facile da prevedere, come un bambino troppo cresciuto e troppo viziato. Anche allora, non indugiò ulteriormente per congiungere le labbra a quelle dell’orientale disteso sotto di lui. La lingua di Yao era calda, al contrario della sua, e il corpo dell’Asean rabbrividì sotto le sue dita gelide, spogliate dei guanti.

«Sei ancora freddo…» soffiò Yao nella sua bocca.

Non si ribellò quando il petto artico dell’uomo si appoggiò sul suo; allargò le braccia e lo strinse a sé finché parte del suo calore non trasmigrò sulla pelle del compagno.

Ivan poggiò una guancia sullo sterno bollente dell’orientale, una mano appoggiata al suo petto e gli occhi chiusi come un bambino per gustare interamente il tepore dell’amante.

Erano passati tanti anni dalla prima volta in cui aveva visto il Figlio del Cielo. E, ancora più degli anni, mille avvenimenti avevano diviso quel lontano passato dal presente.

Accarezzò la pelle morbida di Yao, respirando il suo profumo esotico.

Quando lo aveva visto la prima volta, era rimasto stregato dal Figlio del Cielo. E non avrebbe mai immaginato che gli eventi lo avrebbero portato a precipitare nella sua Fortezza.

 

 

 

 

 

 

Ed eccoci qui con il quarto capitolo XD

Solo una precisazione: “ASEAN” è l’acronimo di Association of South East Asian Nations. Ah, a cosa non servono le lezioni di storia delle relazioni internazionali XD

Il prossimo capitolo sarà interamente incentrato su Ivan, e dal sesto riprenderà la spedizione a Caina<3

E, beh, sto gongolando non poco per la RoChu poiché, assieme alla Spamano, è la mia OTP XD

Tralasciando la tristezza di una scrittrice che fangirla le sue stesse creazioni, vi saluto e vi do appuntamento alla prossima settimana<3

A presto!

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Capitolo 5
*** Cuore d'Inverno ***


 

Capitolo Cinque: Cuore d’Inverno

 

Era nato il giorno più freddo del mese più gelido sul pianeta più artico.

Del suo pianeta natale ricordava lo spesso tappeto di neve e il pungente mantello dell’inverno perenne. Ivan Braginski aveva visto la luce su Siberia, uno dei mondi all’estrema periferia della Confederazione, quindi uno dei più lontani dalla calda luce del Palazzo di Quarzo.

Aveva trascorso l’infanzia lavorando nelle steppe di ghiaccio assieme alle due sorelle. Avrebbe dimenticato quel periodo, se non fosse stato per i calli scolpiti dal lavoro sulle sue dita. Avrebbe scordato anche le sorelle, se non gli avessero regalato la sciarpa che ancora gli riscaldava il collo. La maggiore l’aveva sferruzzata, e la minore l’aveva ricamata con un motivo a forma di cristalli di neve.

Tuttavia, ad eccezione dei rari ricordi che spuntavano fragili come i primi bucaneve dalla coltre dicembrina, il suo passato era un lago ghiacciato: freddo e cupo, senza possibilità di scorgerne il fondo.

L’ultima memoria che conservava della sua famiglia, era il nonno che si chinava su di lui, porgendogli una mazza ferrata grande quattro volte il nipote ormai adolescente. Rammentava la mano ruvida che gli premeva uno strano marchingegno sul petto, e le ultime parole del nonno: “Diventa di ghiaccio, Ivan. E uccidi il tuo passato”.

Poi la puntura di mille aghi che si infiggevano nel suo cuore, e subito dopo un gelo doloroso gli aveva azzannato il petto con la brutalità di un orso delle montagne; aveva sentito il muscolo cedere, spaccarsi in un diluvio di sangue, e lo aveva sentito battere qualche secondo dopo, ottenebrato dal gelo incastrato nel suo petto.

Era caduto in ginocchio, le mani tremanti appoggiate sulla mazza ferrata. Aveva stretto le dita sull’impugnatura e, con una forza che non sapeva di possedere, l’aveva fatta roteare sulla testa.

Poi, solo una sensazione viscosa sulle dita. Tra le onde scure del lago che era la sua memoria, alcune erano sporcate di rosso. Aveva ucciso qualcuno, quel giorno. Era una sensazione indelebile nella sua anima, anche se non ricordava chi. Ma non aveva più visto né il nonno e né le sorelle da allora.

Era salito sulla Fortezza Errante e aveva cominciato il suo viaggio come Custode dei Cancelli. Forse glielo aveva detto il nonno, forse era predestinato a quella carica, ma, anche se non ricordava chi gli avesse dato il permesso di salire su quel palazzo sbuffante, sapeva di essere nel giusto. Conosceva l’esatta ubicazione delle stanze, anche se nessuno gliela aveva mai spiegata. E sapeva di essere solo. Non si era sorpreso dell’eco tombale dei suoi passi su quelle pareti di metallo in movimento. Si era recato in bagno e lì aveva aperto il cappotto, orrendamente macchiato di sangue. E lo aveva visto. Immobile, aggrappato al suo petto come un ragno di zaffiro e ferro, il misterioso marchingegno spandeva le sue zampette metalliche sulle sue costole, facendo riposare il suo ventre di vetro sullo sterno del giovane. Ivan aveva fissato quella pietra luminescente e l’aveva sfiorata, ritraendo le dita subito dopo: era così gelata da far male, e aveva sentito scorrere sotto i suoi polpastrelli l’ululato del vento di Siberia.

Aveva battuto le palpebre, perplesso, e si era stupito del colore dei suoi occhi. Fino a quella mattina erano azzurri, eredità e vanto della famiglia Braginski. Ma quelle che lo fissavano immote erano due iridi violacee come le punte terminali dell’aurora boreale.

Ivan aveva lavato velocemente il cappotto e, con molta più cura, la sciarpa: riusciva ancora a vedere le dita delle sorelle graffiate dal lungo lavoro di cucito e i loro volti incavati dalla gioia, ed erano l’unico barlume di calore in quella fortezza fredda come il cristallo sul suo cuore.

Si era gettato sulle spalle il cappotto ancora bagnato, e si era avvolto il viso con la sciarpa per poi accomodarsi su una strana poltrona frutto del lavoro di un ingegnere e non di un arredatore.

Aveva squadrato il soffitto alto, le finestre in movimento, la porta chiusa e il camino spento.

Non c’erano voci a riempire la stanza, non c’era nessuno da salutare dalla balaustra, e non vi era essere che potesse aprire la porta e chiedergli se era triste.

Si era rintanato nei suoi stessi vestiti, fissando il camino che non si sarebbe acceso da solo.

«Fa freddo…» si era lamentato.

 

***

 

Lo vide durante il suo terzo mese di viaggio.

Aveva smesso di chiedersi perché certe azioni gli venissero spontanee, o perché avesse sempre freddo nonostante il vestiario pesante, o, ancora, perché ogni giorno fosse sempre più difficile ricordare i volti dei suoi familiari.

Il ragno che succhiava avido il tepore dal suo corpo aveva tutte le risposte, ma non le avrebbe condivise con lui.

Dopo qualche settimana, Ivan si era stancato di quello stillicidio: il marchingegno non avrebbe parlato, e nessuno poteva fornirgli le risposte che cercava. Con il passare dei giorni, era diventato sempre più accondiscendente verso gli impulsi che improvvisamente muovevano il suo corpo e sempre più distaccato nei confronti del mondo esterno. Perfino i banditi che uccideva per impedire di portare scompiglio nella Confederazione non gli apparivano più come esseri umani. Ai suoi occhi, erano solo bambole incapaci di scalfirlo: non provava il minimo rimorso o pietà quando calava la mazza ferrata su di loro. Al contrario, avvertiva una punta di soddisfazione, perché il marchingegno sapeva che quello era il suo compito, per il bene della Confederazione.

Accadde il giorno in cui i serbatoi della fortezza si svuotarono completamente, e costrinsero Ivan a fare scalo a Chugoku, il pianeta dominante del Sistema Asean. Era un mondo piuttosto florido, grazie all’ottimo clima e alle abbondanti risorse naturali, per cui non sarebbe stato un problema trovare del carburante.

Manovrò la Fortezza in modo da attraccare a Beijin, la capitale, dove sicuramente avrebbe trovato più fornitori.

Il destino, o semplicemente la casualità, volle che in quell’esatto momento per la via principale sfilasse la processione imperiale. Ivan non aveva mai visto nulla di simile, quindi non capì perché la gente si fosse improvvisamente divisa ai due lati della strada, o per quale motivo tutti i negozianti si fossero precipitati sui marciapiedi già gremiti, ritardando la sua partenza: non poteva chiedere rifornimenti a un negozio vuoto.

Si abbassò dunque su un nativo e gli domandò cosa stesse succedendo. La sua notevole altezza e l’imponente mazza ferrata appoggiata sulla sua spalla sciolsero la lingua dell’uomo a una velocità pazzesca.

«Il Figlio del Cielo scende a fare visita alla città, signore. Accade solo una volta all’anno» farfugliò l’Asean.

Ivan tamburellò le dita sull’impugnatura della mazza, contrariato. Il marchingegno sapeva che il Figlio del Cielo rappresentava per il Sistema Asean ciò che l’Asse era per la Confederazione: il portatore di equilibrio, nonché la persona più dotata in quanto a magia. Tuttavia, l’Asse si limitava a pregare e vivere da eremita, mentre il Figlio del Cielo svolgeva anche le funzioni di un regnante, occupandosi del suo popolo e del suo impero.

I suoi occhi viola si dirottarono verso la volta celeste. Non era del tutto impari: in fondo, il Figlio del Cielo doveva occuparsi di una rete di pianeti, mentre l’Asse era responsabile dell’intera Confederazione. Era giusto che il primo svolgesse qualche altro ruolo.

Riappoggiò le sue iridi ametista sulla strada quando avvertì la gente inchinarsi in tutta fretta come se la testa fosse diventata un peso troppo grande da sostenere.

Il ragno sul suo petto inviò una seconda informazione al suo cervello: il Figlio del Cielo era considerato il Sole del Sistema Asean e, allo stesso modo con cui un uomo non poteva fissare l’astro diurno a occhi nudi, così ai civili non era concesso ammirare il volto del Figlio del Cielo. Ma lui non era atterrato a Chugoku per inchinarsi: era venuto solo per ottenere benzina, e non aveva intenzione di umiliarsi per un regnante straniero.

Fu così che vide da una prospettiva agevolata la portantina di legno di ciliegio rosso avanzare maestosa lungo la via. Man mano che la processione avanzava, i dettagli della parata diventavano sempre più nitidi: i draghi scarlatti che si attorcigliavano in ricami preziosi sulle tuniche dei ragazzi che reggevano sulle spalle il peso esiguo del sovrano; le insegne militari sulla divisa del Samurai che marciava a lato della portantina, e l’occhio di rubino incastonato sull’estremità dell’elsa della sua spada; i fiori amaranto sparsi sui cuscini vermigli che costituivano il giaciglio del sovrano.

Poi, Ivan aveva alzato lo sguardo sull’uomo colpevole del suo ritardo. Aveva immaginato un vecchio saggio ricurvo e nodoso, piegato dagli anni e deformato dal tempo. Invece la realtà gli aveva regalato un viso privo di rughe, appartenente a un ragazzo della sua stessa età. Un giovane estremamente bello, sebbene non avesse metri di paragone attendibili a causa della sua memoria inesistente.

La stoffa rossa dell’elaborata veste imperiale sembrava nata per fasciare quel corpo minuto, le cui forme erano distinguibili a malapena nel mare di tessuto vermiglio, e per arrampicarsi sulla gola snella nella forma rigida dei vestiti cerimoniali di Asean. Perfino quel buffo copricapo, che avrebbe ridicolizzato qualunque altra persona, non riusciva a sminuire il viso ben modellato del Figlio del Cielo. Ma non era solo la bellezza delle forme a incantarlo: il sovrano era permeato da un’aura ancestrale, come se migliaia di anni di storia giudicassero il presente guardandolo attraverso quegli occhi scuri. Di nuovo, il marchingegno lo soccorse: il corpo del regnante aveva più o meno la sua stessa età, ma la sua anima era millenaria. Quando il futuro sovrano nasceva, nel suo corpo veniva impiantata la cosiddetta “anima generazionale”, costituita dai ricordi dei precedenti Figli del Cielo, in modo che il fanciullo possedesse una saggezza e una padronanza dei sistemi di governo ineccepibile nonostante la giovane età. Avrebbe potuto raccontare avvenimenti di secoli addietro vedendoli scorrere davanti ai propri occhi. L’esatto opposto di lui, che faticava a ricordare il nome delle sorelle.

Non prestò attenzione al primo richiamo delle guardie, e nemmeno al secondo, finché non furono tanto rumorose da destare lo sconcerto del Figlio del Cielo. I loro sguardi si incrociarono a metà di quella strada affollata, e, per un attimo, Ivan non sentì freddo.

Avvertì in lontananza una guardia che gli intimava di inchinarsi, e vide il Samurai poggiare la mano sull’elsa della spada, ma un gesto del Figlio del Cielo bloccò tutti. Un secondo cenno convinse la processione a proseguire, nonostante l’enorme Siberiano che svettava in mezzo alla calca prostrata.

Rimase immobile finché la portantina non fu sparita, e anche dopo, mentre la gente tornava alle proprie mansioni.

Un’altra informazione gli fu concessa dal ragno.

Il Figlio del Cielo era nato sotto la benedizione del Fuoco. Ecco perché, per un momento, non aveva sofferto il gelo.

 

***

 

Marchiato nella mente dalle fiamme che avevano segnato la sua nascita, il viso del Figlio del Cielo non scompariva.

I mentecatti che era costretto a polverizzare non resistevano al potere dell’oblio del ragno, ma il volto di quell’Asean era intagliato nella sua mente.

Avrebbe voluto rivedere quell’orientale, avrebbe voluto parlare con lui. Avrebbe voluto qualcuno con cui condividere la solitudine estrema di quella fortezza in perenne movimento. Avrebbe voluto capire cosa si provava a essere dominati dalle fiamme e non dal ghiaccio, ad avere una memoria millenaria e non dei fossili sbiaditi di ricordi. Ma sapeva anche che quel desiderio non poteva diventare realtà: il Figlio del Cielo era vincolato al suo mondo, mentre lui doveva sopportare una vita senza legami.

Si rassegnò quindi a pensare all’Asean nei suoi momenti liberi, immaginando come sarebbe stato passare del tempo con lui. Fino alla sera in cui il cielo fece cadere suo figlio.

Era passato circa un anno dal loro primo incontro a Beijin. Ivan stava manovrando la fortezza in modo da uscire dal Sistema Asean senza urtare la costellazione di asteroidi dell’arcipelago Nihon, quando all’improvviso il sensore della sala macchine lanciò il suo allarme: un corpo estraneo stava per entrare in collisione con il palazzo.

Ivan attivò il sistema di telecamere piazzato sul tetto, e lo puntò in direzione della fonte del movimento. Lo schermo fu invaso da un fascio di luce così violento da accecarlo per qualche istante. Quando finalmente le sue pupille incendiate si furono abituate a quella luminescenza esagerata, riuscì a scorgere qualcosa: immerso in un vortice di fiamme ruggenti, una persona teneva le braccia spalancate come una fenice in volo.

Lo avrebbe schivato se, in quel momento, lo sconosciuto non avesse alzato il volto, quello stesso volto che lo aveva accompagnato durante tanti pomeriggi di solitudine. Aveva quindi virato in modo che la fortezza divenisse lo scomodo materasso di atterraggio del giovane.

Ivan si affrettò a raggiungere il lato destro del palazzo, cui il regnante si era aggrappato dopo un impatto brutale. Le fiamme irradiate dal suo corpo frustavano furiosamente l’aria, gonfiate dal vento dell’atmosfera artificiale e dallo spavento del Figlio del Cielo. Il Custode dei Cancelli quasi sfondò la finestra per sporsi fuori e porgere la mano al ragazzo. L’Asean allungò le dita tremanti verso di lui, e Ivan sentì quelle membra affusolate scricchiolare nella sua presa mentre lo attirava a sé. Gli bastò un braccio solo per trascinare quel giovane dal fisico di seta all’intero della fortezza e a chiudere la finestra.

Gli occhi di ebano del sovrano, ancora frementi per il terrore, cercarono i suoi e un ringraziamento vibrò in quelle iridi sfinite prima che il Figlio del Cielo perdesse i sensi tra le sue braccia.

Ivan non ebbe alcuna difficoltà nel trasportare il peso irrisorio dell’Asean nella stanza padronale, e lo adagiò sul letto.

Il fisico del giovane appariva magro e delicato perfino quando era affogato nelle ali pompose dell’abito cerimoniale; la semplice tunica bianca non possedeva strati di seta con cui dissimulare la finezza degli arti, e i pantaloni largi non erano lunghi abbastanza per nascondere la caviglia, sottile come quella di una donna. Alcune ciocche mogano erano evase dal nastro di seta durante la fuga precipitosa, ed erano svenute in un groviglio disordinato sulla pelle eburnea. I ciuffi sparsi non erano l’unico dettaglio fuori posto nel vestiario del giovane: gli squarci sulla pelle e sulla tunica del regnante rivelavano il trascorso di un’aspra lotta, aggravato da una selva di orribili ecchimosi.

Dai bordi martoriati della divisa trapelò una luce calda, dello stesso colore delle stoffe imperiali. Ivan scostò appena i lembi dell’apertura sul tessuto con le dita guantate, e la stoffa lacerata gli rivelò la fonte di quel bagliore: nel petto del giovane ardeva una sorta di piccolo sole. Dallo sterno era visibile una forma vagamente sferica dal cuore incandescente, come se un astro di fuoco avesse trovato il suo centro gravitazionale tra le costole del giovane.

Il Custode dei Cancelli portò istintivamente una mano al suo petto, e sfiorò il profilo duro del metallo. Erano opposti in moltissime cose, loro due: nella memoria infinita contrapposta ai ricordi di cenere, nel potere del fuoco che trovava il suo avversario nella forza del ghiaccio, in un bulbo artificiale che divampava dentro il petto dell’Asean e in un marchingegno meccanico che pasteggiava sullo sterno del Siberiano.

Non poté trattenere la curiosità e sfiorò quel fuoco sotto pelle: un calore piacevole gli riscaldò i guanti e, per conseguenza, le mani. Era un fuoco che bruciava senza scottare.

Ritirò la mano, che divenne gelida l’istante successivo, e rimosse il guanto per poter sfiorare la guancia liscia dell’Asean. Le palpebre del giovane sussultarono per il freddo improvviso, e il Figlio del Cielo si rannicchiò sul fianco in cerca di calore.

Ivan continuò a sfiorarlo piano sul viso, sebbene le sue carezze facessero agitare il giovane nel suo sonno tormentato.

Si chiedeva se il sole del Figlio del Cielo sarebbe riuscito a sciogliere il ghiaccio che lo opprimeva, o se sarebbe stato il suo gelo a spegnere il fuoco dell’Asean.

 

***

 

«Ti ringrazio per avermi salvato, Ivan Braginski.»

Il Custode dei Cancelli si sorprese internamente delle prime parole del Figlio del Cielo. Credeva che si sarebbe spaventato, trovandosi all’improvviso in un posto estraneo; al contrario, l’Asean si era seduto composto sul materasso e gli aveva offerto i suoi ringraziamenti formali. Poi si ricordò della memoria ancestrale del giovane: anche se il suo corpo non aveva mai messo piede in quella fortezza, i suoi antenati lo avevano fatto. Per quel motivo il ragazzo non si era spaventato.

«Come sai il mio nome?» lo interrogò Ivan.

«Sei uno dei Tre Scudi, come me e l’Asse. È normale che io sappia il tuo nome» replicò educato l’Asean.

Yao Wang. Il suggerimento del ragno giunse repentino e perentorio; anche loro erano a conoscenza del nome del Figlio del Cielo.

Ivan si sedette sul bordo del letto e si prese qualche secondo prima di porre la successiva domanda. Le luci dello spazio disegnarono un reticolato di riflessi iridescenti sulla chioma scura del giovane, e bagnarono di luce argentea il profilo alto degli zigomi. Era stato solo così a lungo che ogni cosa, in quel ragazzo, gli appariva esotica e misteriosa, perfino il sottile profumo di spezie che emanavano i suoi vestiti, totalmente diverso dall’odore ferroso della fortezza.

«Cosa è successo, ieri notte?»

La bocca di Yao si contrasse per un attimo, e le ciglia tremarono; tuttavia, la voce risuonò neutra quando parlò:

«Sono stato tradito e il mio trono è stato usurpato.»

L’Asean alzò su di lui gli occhi taglienti come le scimitarre prodotte nel suo paese.

«Non posso riprendere il mio posto da solo. Saresti disposto ad aiutarmi?»

Ivan sollevò la sciarpa per coprirsi fino al naso. Non riusciva a capire del tutto quell’orientale: gli sembrava troppo composto, troppo altero… troppo freddo, per essere una persona con il fuoco nelle vene.

«Perché lo chiedi a me?»

«Perché sei l’unico essere umano presente in questo posto. E perché so quanto siano straordinarie le tue abilità in combattimento.»

«Vuoi scatenare una guerra?»

«Solo l’omicidio del mio usurpatore e del traditore. E di chiunque si metterà sulla mia strada.»

Troppo rigido. Troppo gelido per essere davvero l’erede del sole.

Il Custode dei Cancelli lasciò intercorrere qualche secondo tra quella proposta e la sua controfferta.

«Dovrai rimanere qui, fino all’omicidio. Senza uscire.»

Yao accettò con un cenno del capo, che fece scivolare i capelli lucidi sul petto.

«E dovrai toglierti quella maschera.»

«Quale maschera?»

«Come è possibile che il fuoco sia così quieto?»

L’Asean sbarrò i suoi occhi a mandorla, portando una mano a scudo del petto. Le dita gli trasmisero la sensazione della stoffa sbrindellata, e realizzò in un istante come il Custode dei Cancelli avesse potuto vedere cosa avvampava nel suo sterno.

«Questa non è una maschera» asserì Yao, con un ghigno furbo sulle labbra pallide. «È una protezione. Dovrai convincermi a toglierla, se vuoi vedere cosa si nasconde sotto di essa.»

Ivan accettò il rilancio dell’Asean, e risistemò la sciarpa attorno al viso.

Aveva tutto il tempo necessario per scardinare gli scudi del giovane.

 

***

 

Nella Fortezza Errante, il tempo scorreva più denso rispetto al resto della Confederazione.

Non avrebbe saputo contare le settimane e i mesi che avevano passato da soli nel palazzo, ma i ricordi di quel periodo erano incredibilmente vividi nella sua mente. Rispetto al solito, perlomeno.

Aveva reminescenze del giorno in cui avevano comprato dei vestiti di ricambio per Yao, e dello stesso pomeriggio in cui l’Asean aveva cercato di cucirli secondo la moda del suo paese di origine. Riusciva ancora a raschiare dalla memoria il momento in cui Yao si era punto con l’ago per l’ennesima volta, e aveva cominciato a imprecare nella sua lingua madre.

L’orientale non lo aiutava mai, quando Ivan usciva per punire i criminali. L’Asean aveva insistito, adducendo l’utilità dei suoi poteri di fuoco, ma il Custode era stato categorico, e non gli aveva mai permesso di mettere piede fuori dal palazzo. Yao era l’unica persona che avesse incontrato negli ultimi anni, e non aveva intenzione di condividerlo con nessuno. Non voleva che quei malfattori potessero anche solo poggiare gli occhi su di lui: lo avrebbero sporcato. E lui aveva desiderato quel bellissimo giovane per troppo tempo per permettere a un criminale qualunque di infangarlo.

Inoltre, l’orientale pareva essersi abituato alla sua ingombrante presenza. Yao si adattava alle sue regole, e non aveva mai avanzato pretese esagerate: accettava tutto con un garbo regale che Ivan talvolta ammirava e talvolta detestava.

Rispetto ai primi giorni, il Siberiano riusciva a discernere tra il costume da Figlio del Cielo e la naturalezza di Yao. Non era sempre facile distinguere le due facce dell’orientale: alcune volte la differenza stava in una curvatura più spontanea delle labbra, o in un gesto di scherno della mano.

La parte più contorta di lui avrebbe voluto vedere un pizzico di sconvolgimento su quel volto elegante, come la sera in cui lo aveva salvato: il ricordo del panico che guizzava negli occhi e nelle membra del giovane era terribile e nostalgico al contempo. Non pretendeva un’emozione così violenta, ma avrebbe voluto vedere Yao perdere la sua compostezza aristocratica.

Forse fu per soddisfare quella sua brama che, una sera, aveva fatto la confessione più strana che si fosse mai udita in tutta la Confederazione.

Entrò nella stanza dell’orientale quando quest’ultimo aveva appena finito di cambiarsi per la notte: la camicia che gli aveva prestato il Custode scendeva in pieghe sconnesse attorno al suo corpo troppo esile, e i capelli scuri, lasciati liberi di ricadere sul petto, si intrecciavano ai bottoni di madreperla.

«Di cosa hai bisogno?» si sorprese l’Asean, pettinando la chioma su una spalla.

Yao si sedette sul letto lasciando spazio accanto a sé, immaginando che l’uomo avrebbe voluto accomodarsi a sua volta sul materasso. A dispetto delle sue previsioni, Ivan si inginocchiò a terra, esattamente di fronte a lui.

Il Custode si sporse nella sua direzione e gli cinse la vita sottile con le braccia, poggiando il viso sull’unica fonte di calore di tutta la fortezza, il petto dell’orientale. L’Asean si irrigidì quando le sue gambe furono costrette ad aprirsi per accogliere il torace massiccio dell’uomo, premuto sul suo bacino.

Ivan sentì il cuore del sovrano agitarsi come i fusibili del castello quando si surriscaldavano, e sussurrò su quel cuore ribollente le sue parole artiche:

«Ho ucciso.»

Un sospiro ingorgò il petto dell’orientale, e venne rilasciato nel momento in cui le dita del giovane sfiorarono i capelli di brina del Siberiano.

«Quante volte hai ucciso?» domandò calmo Yao.

Ivan strinse più forte la presa sulla schiena filiforme del Figlio del Cielo, fino a fargli male. L’orientale strinse i denti, mordendo un singulto di dolore. Senza ricordi e senza legami, l’uomo ancorato al suo ventre era al livello emotivo di un bambino: una possessività totale, con cui gli impediva di lasciare la fortezza anche solo per un istante, e un’empatia in stato embrionale. Ivan non riusciva ancora a capire quale fosse il limite oltre il quale l’altro provava dolore.

Yao immerse una mano nella chioma color paglia dell’uomo, e con l’altra accarezzò piano la sua schiena colossale: come un bambino, quell’omone aveva bisogno di essere rincuorato.

«Non me lo ricordo. Forse ho ucciso anche i miei familiari.»

Le parole franarono come una slavina su di loro. Le dita di Yao si immobilizzarono per un attimo prima di ricominciare a vezzeggiare la zazzera e il pesante cappotto dell’uomo.

«Non ricordi nemmeno questo?» flautò delicato.

«Ricordo solo che le mie sorelle mi hanno regalato questa sciarpa. E che mio nonno è stato l’ultima persona con cui ho parlato. Il resto è come questa fortezza. Vuoto.»

Yao scostò la mano dalla sua schiena per sistemare un ciuffo di capelli lucenti dietro l’orecchio, e confidò:

«La prima volta che ti ho visto, durante la processione, mi sono stupito di molte cose. E una di queste è stata che, mentre sul tuo cappotto erano chiaramente visibili i segni dei tuoi scontri, la tua sciarpa era in perfette condizioni. E anche adesso, è la prima cosa che lavi non appena rientri nella fortezza» il dorso della mano di Yao scese a lambirgli una guancia, mentre le parole gli accarezzavano la testa: «Anche se non hai ricordi, tieni a quel regalo sopra ogni altra cosa. Forse, anche se la tua mente l’ha rimosso, da qualche parte sai di aver avuto una buona famiglia. Per questo fai in modo di non sporcare mai la sciarpa: per non lordare anche la loro memoria.»

Un paio di occhi ametista lo fissarono dalle pieghe della camicia.

«Non ricordo nemmeno le loro facce» lo contraddisse Ivan.

«E allora perché non butti questa sciarpa?»

Ivan lanciò un’occhiata alla lana che si srotolava lungo la sua spalla. Quella striscia color crema era l’unica cosa che lo collegava al suo passato: ogni volta che la sfiorava, il ghiaccio sul suo cuore si scioglieva per un istante, ricordandogli la gioia del giorno in cui l’aveva ricevuta. Poi, tutto tornava arido e gelido. La sciarpa era l’unica cosa che gli ricordasse che anche lui, un tempo, era stato umano.

«Tu sai perché non riesco a ricordare nulla?» indagò Ivan.

Yao fece per scostarsi, ma l’uomo strinse ostinatamente la presa sulla sua vita di giunco. Si rassegnò quindi a restare nell’abbraccio del gigante mentre narrava:

«So che il Custode dei Cancelli deve essere una macchina da guerra, e, per esserlo, deve disfarsi di ogni suppellettile umano, come i sentimenti e i ricordi. Deve essere l’arma inanimata della Fortezza Errante. Per questo gli viene applicato il “Cuore d’Inverno”.»

Il respiro di Yao ebbe un brusco sobbalzo quando la mano guantata dell’uomo si fece largo tra i bottoni della camicia per toccare il sole nel suo sterno.

«Anche a te hanno installato un marchingegno?» chiese Ivan.

«Questo è il nucleo del mio potere di fuoco» smentì l’Asean. «E il luogo in cui mi è stata impiantata l’anima dei miei antenati.»

Ivan slacciò i bottoni che gli impedivano di vedere il cuore di fiamme, e l’orientale non poté sottrarsi per via dell’abbraccio di ferro che lo imprigionava. Appoggiò la guancia sulla pelle incandescente del Figlio del Cielo, e un sorriso beato si dipinse sul suo viso: gli piaceva quel calore che non ustionava.

«Cosa si prova ad avere una memoria generazionale?» sospirò Ivan sul suo petto.

Yao poggiò la mani sulle spalle dell’uomo, come volesse spingerlo via, ma non fece la minima pressione su di esse.

«Non è bello come molta gente può pensare. Mille vite di gente che non hai mai conosciuto interferiscono continuamente con il tuo percorso e la tua memoria. Non sempre è piacevole. A volte, si ha la sensazione di essere solo un vaso vuoto riempito per l’occasione.»

«Anche il Cuore d’Inverno» notificò Ivan, lieto di sapere quale fosse il nome del ragno di zaffiro. «Cancella la memoria, e saltuariamente invia qualche informazione utile. È così che ho saputo che eri il Figlio del Cielo.»

Le braccia dell’Asean, dopo un istante si esitazione, scivolarono attorno alle spalle dell’uomo, e il mento affilato si appuntò sulla sua testa.

«Hai detto di non riuscire a mantenere vive le tue memorie… eppure ti ricordavi del nostro primo incontro, perché non ti sei stupito, quando te ne ho parlato.»

Gli occhi di Ivan abbandonarono la sua camicia per appuntarsi sul viso liscio dell’orientale.

«Quello è un ricordo che non svanisce» comunicò il Custode.

Non capì il motivo della successiva azione del Figlio del Cielo: vide le sue pupille tremare come i laghi di montagna al disgelo, e non staccò gli occhi dal volto del giovane mentre questo si avvicinava.

Le labbra roventi di Yao quasi incenerirono le sue, ma il contatto durò solo qualche istante: l’orientale si allontanò bruscamente, premendo una mano sulla bocca.

«Sei… freddissimo» ansò.

Ivan ritrasse le labbra per gustare il tepore che ancora aleggiava su esse. Il calore del Figlio del Cielo aveva un buon sapore.

«È per colpa del Cuore d’Inverno?» s’informò Yao.

«È sempre colpa sua.»

L’Asean avvicinò la mano alla sua sciarpa, con la lentezza di chi domanda il permesso a ogni centimetro guadagnato. Il Custode non si adirò quando Yao toccò la stoffa preziosa e la arrotolò sulla sua spalla robusta, in modo da poter accedere ai bottoni del cappotto.

Liberò le asole necessarie per aprire anche la camicia sottostante, e liberare finalmente il livido bagliore del Cuore d’Inverno.

I polpastrelli di Yao non sostennero più di qualche secondo il contatto con quella massa glaciale, e si ritrassero dolenti.

La successiva concatenazione di eventi fu improvvisa ed energica come i capricci di un bambino. Ivan sollevò il corpo magro di Yao, si sedette sul letto e fece adagiare l’Asean sulle proprie ginocchia. Non gli permise di protestare, e lo strinse a sé in modo che il Cuore d’Inverno e il suo nucleo di fiamme collidessero, amalgamando le loro emanazioni in un intreccio di raggi di sole e brividi di ghiaccio.

Sentì l’orientale tremare per il freddo, tra le sue braccia, e avvertì la stretta di quelle mani sottili sulle spalle. La sciarpa scivolò quasi spontaneamente ad avvolgere il collo dell’Asean, legandolo a quello del Siberiano.

«Fallo di nuovo» ordinò bisognoso Ivan, abbracciando stretto quel fisico d’erba. «Quello che hai fatto prima. Era bello.»

Le dita di Yao, ancora intirizzite per il gelo, lo attirarono verso di lui con una presa instabile, fino a che le loro bocche si congiunsero nuovamente. L’orientale deglutì e fece un profondo sforzo per abituarsi a quelle labbra artiche; aspettò, rabbrividendo, che un poco del suo calore migrasse in quella bocca ferma sulla sua. Solo quando i tremori nel suo corpo si furono placati osò dischiudere le labbra.

Ivan si sorprese di come l’Asean tenesse gli occhi chiusi, e del modo in cui muoveva la lingua nella sua bocca. Non aveva mai visto due persone fare la stessa cosa, per cui non capiva quale fosse il significato di quel gesto. L’unica cosa che comprendeva era che quelle movenze erano piacevoli, e sembravano scaldarlo come il nucleo che palpitava contro il suo petto.

Cercò di imitare Yao, esplorando a sua volta la bocca del compagno con la lingua. L’Asean emise un respiro strozzato, e Ivan capì di essersi spinto troppo a fondo. Riprovò una seconda volta, e una terza, mentre chiudeva gli occhi.

Con le palpebre abbassate, il mondo si limitava improvvisamente ai loro corpi avvinghiati in un bacio. E Ivan comprese perché il Figlio del Cielo tenesse gli occhi serrati: ogni profumo, ogni sensazione erano amplificate e rafforzate, dietro il sipario buio delle palpebre.

Le loro labbra si staccarono con uno schiocco acquoso, e Ivan provò la subitanea urgenza di cibarsi di nuovo della bocca dell’orientale, resa rossa e tumida dal bacio prolungato.

«Sei diventato… più caldo…» biascicò l’Asean, su quelle labbra che cercavano le sue.

Ivan non rispose, esigendo di nuovo le effusioni dell’orientale.

Era ancora freddo, troppo freddo.

Aveva bisogno che Yao continuasse a scaldarlo.

 

***

 

Erano passati due anni da quel giorno.

Ivan fissò le spalle nude dell’amante, che spuntavano dalle lenzuola. I capelli aggrovigliati scompostamente sul cuscino lasciavano scoperto il collo levigato.

Il custode si avvicinò per poggiare un bacio sulle spalle morbide e un secondo sulla gola scoperta.

Non voleva che Yao li seguisse alla Prigione Caina, e non voleva che degli estranei potessero rubare anche solo una molecola della sua bellezza. Tuttavia, aveva capito che non avrebbe potuto fermarlo in nessun modo: per qualche motivo, Yao era fermamente determinato a liberare l’Hellsing. Si chiedeva se avesse a che fare con la predizione del Caos nella Confederazione, o se ci fossero altre ragioni.

«Ivan?» il sonno impastò il richiamo dell’Asean, che si girò per osservarlo. «Che cos’hai?»

Il Custode tuffò il visto nell’incavo del suo collo, stringendo con tutte le proprie forze le spalle tenere dell’amante.

Yao accarezzò la sua schiena svestita, senza porgli ulteriori domande.

Non era solo per gelosia che Ivan voleva tenerlo rinchiuso nel castello. Temeva che, se avesse visto di nuovo il mondo esterno, Yao avrebbe abbandonato immediatamente quella fortezza di spettri e ombre. E non voleva affogare di nuovo in quella solitudine gelida.

«Fino a che non uccideremo Kiku, devi restare qui» gli ricordò.

«Lo so» confermò ovvio Yao. «È la nostra promessa.»

Ivan sigillò quel giuramento sulle labbra dell’orientale.

In quel castello, l’Asean era solo suo. Sperava che il mondo esterno non allungasse i suoi tentacoli malefici anche su quel suo unico possedimento. Sul suo solo ricordo.

 

 

 

 

 

Capitolo in ritardo >_> Chiedo scusa, ma il ritorno per il Giappone e la stesura della tesi di laurea hanno tenuto le mie mani ben lontane dalla tastiera, anche solo per aggiornare >_>

Comunque, eccoci qui<3

E vorrei tornare a postare un capitolo alla settimana, come all’inizio<3

Mi impegnerò al massimo<3

Nel prossimo capitolo si ritorna al presente… e alla Prigione Caina 8D

A presto<3

Red

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Capitolo 6
*** Prigione Caina ***


Capitolo Sei: Prigione Caina

 

Udiva il sottilissimo strascico del sangue lungo le vene, rallentato e affaticato.

Era ancora vivo. Ma non riusciva a muovere le braccia o le gambe. Non poteva nemmeno aprire le palpebre.

Si chiedeva perché quella cosa non lo sconvolgesse. Una parte della sua coscienza sapeva che ogni persona normale sarebbe andata nel panico, in una simile situazione. Ma lui si sentiva totalmente estraneo a qualunque senso di ansietà o timore. Sapeva di aver portato a termine il suo compito, per questo voleva riposare. E sapeva di aver fatto qualcosa di tremendamente ingiusto, per questo non voleva aprire gli occhi.

Non vi era motivo di aprire le palpebre. Il mondo non aveva più sorprese per lui.

Una lacrima si ghiacciò all’interno dei suoi occhi chiusi.

E l’Hellsing continuò a dormire.

 

***

 

La Prigione Caina era imponente e devastante.

Sorgeva nel punto più a nord di tutto il pianeta, in cui la spietatezza del vento e del gelo raggiungeva il suo picco.

Un ponte lastricato di ghiaccio costituiva l’ultimo miglio di libertà dei carcerati, prima di essere inglobati nei tormenti della Prigione.

Le celle erano interrate nei sotterranei dell’enorme grotta che costituiva il corpo centrale dell’edificio. Ivan si sarebbe sentito in soggezione di fronte alle maestose stalagmiti di ghiaccio o alla possente entrata sbarrata da scheletri di ferro e brina, ma il suo cuore freddo non ebbe nemmeno un tremito. Le cose che lo spaventavano di più - i fantasmi che non riusciva ad afferrare di un passato che non ricordava - non erano visibili. Una fortezza di tristezza e gelo non poteva impaurirlo: non era che la riproduzione gigante del Cuore d’Inverno.

Sollevò la sciarpa e si voltò verso il gruppetto alle sue spalle.

«Pare che non si siano accorti di noi» notificò.

La previsione di Yao si era rivelata corretta: i Golem si risvegliavano solo quando percepivano una fonte di calore su quel pianeta privo di vita. La temperatura corporea di Ivan era mantenuta vicino allo zero grazie al Cuore d’Inverno, e gli altri si erano serviti della strategia dell’Asean per camuffare il loro calore.

L’orientale aveva trascorso tutta la mattina ad allenarsi con Lovino per sincronizzare i loro poteri. Yao possedeva l’energia delle fiamme, che sarebbe stata essenziale per liberare l’Hellsing, ma che non li avrebbe aiutati a infiltrarsi nella Prigione. Fortunatamente, Lovino era permeato dal potere dell’opposto: nel momento in cui l’orientale aveva creato una barriera di fiamme intorno a loro, il ragazzo ne aveva invertito la natura: il fuoco era improvvisamente diventato gelido e azzurro, come una lingua di ghiaccio danzante.

Ivan osservò i componenti della spedizione: Yao, Lovino, e il capitano Antonio, ancora zoppicante con la sua gamba fasciata. Sperava che sarebbe arrivato presto il giorno in cui avrebbe potuto provare di nuovo ad aprirgli la testa con la mazza ferrata: sarebbe stato molto interessante.

Antonio manteneva una mano sull’impugnatura dell’ascia, pronto all’azione; Yao aveva portato l’indice e il medio, perfettamente stesi, davanti alle labbra, e salmodiava a mezza voce la litania che manteneva lo scudo di fuoco vivo; Lovino aveva le mani congiunte all’altezza del viso, un’espressione quasi arrabbiata che gli corrugava la fronte.

Tra di loro, era certamente il ragazzo a soffrire di più: aveva avuto pochissimo tempo per gestire quel lato dei suoi poteri che non aveva mai scoperto, e lo sforzo di concentrazione doveva essere enorme.

Ivan distolse lo sguardo dai tre: i patimenti del Vaticano non erano un suo problema. La sua unica preoccupazione era ritornare alla Fortezza Errante con Yao il prima possibile.

«Entriamo» comandò Ivan, prima di spalancare la porta con un solo calcio.

«Non potevamo essere più discreti?» protestò Antonio.

«So che non succederà nulla, anche se facciamo rumore. L’importante è non emettere calore» minimizzò Ivan, privo di particolari inflessioni nella voce. Il Cuore d’Inverno lo aveva rassicurato: anche se non aveva memoria di quel posto, sapeva quali azioni fossero permesse e quali proibite.

«Continuate a camminare al centro del corridoio. Non toccate in alcun modo le pareti o le celle» li istruì perentorio il Custode dei Cancelli. «Non toccate nulla finché non arriveremo di fronte all’Hellsing.»

Lovino schiuse gli occhi che aveva tenuto serrati fino a quel momento - la mano di Antonio sulla schiena lo aveva condotto lungo il cammino – e analizzò la prigione.

Era più spoglia e vuota di quanto pensasse, e proprio l’assenza di qualunque attrezzo umano era così desolante da dare uno spasmo al cuore.

Non vi era nulla, a parte il corridoio serpentino che si snodava attraverso una foresta di massicci blocchi di ghiaccio e la sottile foschia di brina che rendeva l’aria difficile da respirare. Lovino trattenne un conato alla vista di quelle tombe artiche: i prigionieri all’interno erano rimasti congelati con espressioni di puro orrore sul viso, peggiori perfino di quelle indotte da Roma. Di altri era visibile solo la posa ritorta, poiché non rimaneva altro che lo scheletro: dovevano essere i primi ospiti di Caina, inglobati nel ghiaccio da più di due secoli.

La descrizione fornita da Yao dei patimenti di Caina non era fallace: un sonno eterno nella morsa ferrea del ghiaccio, in balia dei propri incubi peggiori.

«La barriera sta per cedere» lo avvertì l’Asean, una vena di urgenza nella voce.

Lovino chiuse nuovamente gli occhi e si concentrò sull’inversione dell’energia irradiata dall’orientale: le lingue di fuoco, che avevano riacquistato una sottile corona dorata, tornarono ad appiattirsi in uno sterile azzurro.

«Dovresti prendere più seriamente questo compito» lo rimproverò istantaneamente Ivan.

Lovino sentì una risposta sbocciargli sulla punta più acida della lingua, ma Antonio lo prevenne:

«Invertire costantemente la natura di un’energia, specie se potente come quella del Figlio del Cielo, non è semplice. E ha avuto solo una mattina per prepararsi.»

«Se l’inversione si interrompe, i Golem si sveglieranno, e voi sarete morti. Se non vi interessa uscire vivi da qui, potete continuare a fare errori di questo genere» replicò Ivan, con la forza dell’inverno Siberiano nelle sue parole.

«Non abbiamo tempo di fermarci per discutere» ricordò loro con regale pacatezza Yao.

Il ragazzo sentì la mano del capitano premergli in mezzo alle scapole nel momento in cui ricominciarono a muoversi.

«Non preoccuparti» bisbigliò Antonio nel suo orecchio. «Se i Golem dovessero svegliarsi, lotteremo insieme fino a uscire da qui. Anche se quel gigante non dovesse aiutarci» i denti del capitano sfregarono tra di loro mentre l’uomo parlava: il Custode aveva chiarito con fin troppa brutalità che non nutriva il minimo interesse nei loro confronti. L’unica persona di cui davvero aveva cura era l’Asean. Ma il Siberiano era libero di comportarsi come riteneva più opportuno: ci sarebbe stato sempre lui a difendere il ragazzo con la cicatrice a forma di croce sul collo.

Lovino scrollò le spalle, troppo preso dal suo incantesimo per rispondergli.

Antonio si portò al suo fianco, protettivo. Le nocche del giovane erano sbiancate, e sulla sua pelle sbocciavano perle di sudore; il suo sforzo doveva essere immane. Dovevano sbrigarsi a raggiungere l’Hellsing, o Lovino non avrebbe sostenuto quella pressione. Antonio fece quindi scivolare un braccio attorno alla vita del giovane; probabilmente, una volta tornati sulla nave, il ragazzo avrebbe esternato tutto il suo disappunto per quella confidenza non richiesta, ma gli avrebbe spiegato con calma e razionalità che quello era il modo più semplice per guidarlo mentre teneva gli occhi chiusi. E avrebbe occultato il fatto che toccare i fianchi spigolosi del giovane era insospettabilmente piacevole.

«L’Hellsing è imprigionato nel Terzo Girone» mormorò Yao, dietro le dita poggiate sulle sue labbra. «Dobbiamo trovare due rampe di scale e scenderle, per arrivare a lui.»

Impiegarono qualche minuto a trovare la prima discesa, e poco meno per scorgere la seconda.

Antonio avvertì il tremore del giovane aumentare di intensità con il trascorrere del tempo: il respiro del ragazzo usciva in ansiti affaticati dalla sua bocca, le mani tremavano, ormai esauste in quella posizione contratta, e tutta la sua figura pareva scheggiata da una ragnatela di crepe e pronta ad andare in pezzi da un momento all’altro. Il capitano strinse la presa sul corpo del giovane, tentando di trasmettergli un po’ della sua forza.

Lovino squittì indispettito quando le dita dell’uomo si arpionarono nervosamente al suo bacino.

«Gilbert…» la voce di Antonio oscillò a tal punto sotto il peso dell’emozione che il ragazzo aprì timidamente un occhio.

Fiero nella sua divisa di notte e sangue, l’Hellsing riposava in un blocco di ghiaccio a parte, più spesso e più maestoso rispetto a quelli degli altri carcerati.

La sua posa e il suo viso non erano contorti come quelli dei suoi compagni di sventura: l’uomo che era stato il più temuto sterminatore di demoni di tutta la Confederazione attendeva il proprio risveglio con la schiena impeccabilmente dritta e il collo steso, le braccia conserte e un ghigno indelebile sul volto, come se stesse attendendo un vecchio compagno di avventure meditando uno scherzo. Non appariva sofferente o terrorizzato come gli altri: era semplicemente immobilizzato nel ghiaccio, in un sonno apparentemente quieto.

Yao si avvicinò e picchiò delicatamente con il pugno sulla parete polare.

«Impiegherò circa mezzo minuto a scioglierlo» quantificò. «Potrebbe essere sufficiente ai Golem per raggiungerci.»

«Ma dove si trovano questi Golem, esattamente?» lo sfidò Antonio. «Non li abbiamo visti da nessuna parte, in questa prigione!»

«Solo i Golem lo sanno» la gravità nelle parole dell’Asean fu tale che avrebbe potuto uccidere una persona, con quel tono di voce. «È uno dei segreti meglio custoditi all’interno della Confederazione. Non sapendo l’ubicazione del nemico, nemmeno le persone più potenti della Galassia oserebbero entrare qui dentro.»

«A meno che non siano abbastanza sconsiderate» lo corresse Antonio con un sogghigno.

«O abbastanza disperate» sorrise amaramente Yao.

L’Asean raccolse le ampie maniche della veste sui polsi efebi, e avvertì:

«Nel momento in cui appoggerò le dita alla parete, l’incantesimo di protezione si scioglierà. Fate molta attenzione.»

Non passò più di un secondo tra il suo avviso e la successiva azione: posò i polpastrelli sul ghiaccio, aprendoli a raggiera, e richiamò il potere di fuoco racchiuso nel suo petto; il sole interno del Figlio del Cielo raddoppiò la sua energia, squarciandogli quasi lo sterno con una scarica di luce bollente.

Antonio sorresse Lovino quando le ginocchia del giovane traballarono: lo sforzo protratto lo aveva prosciugato, lasciandolo debilitato come il giorno in cui lo avevano trovato nel deserto.

Ivan, del tutto estraneo alla stanchezza del giovane e alla preoccupazione del capitano, fu il primo ad accorgersi della sottile crepa sulla superficie della cella artica. La vide allungarsi e dividersi in diramazioni più modeste, sbriciolando finissimi cristalli di ghiaccio. Capì che quel fenomeno non era dovuto all’incantesimo di Yao nel momento in cui vide un occhio inumano spalancarsi e fissarli con odio dal centro del roveto di crepe.

«Sono qui!» gridò, impugnando la mazza ferrata.

Antonio e Lovino ebbero appena il tempo di alzare lo sguardo prima che un enorme pugno polare infrangesse la parete di ghiaccio dall’interno. Ripararono gli occhi dietro il braccio, per evitare che i frammenti affilati come rasoi li accecassero.

«Dobbiamo proteggere il Figlio del Cielo, o non riuscirà a risvegliare Gilbert!» vociò Antonio, preparandosi a sua volta a combattere.

Accasciato a terra e privo di forze, Lovino esaminò la situazione con occhi vibranti di paura. Il Golem emerso dalla fenditura nel ghiaccio era alto due volte il Custode dei Cancelli, e quattro volte più grosso; la spietatezza nei suoi occhi avrebbe fatto impallidire quelli di Roma, e non aveva la minima idea di come si potesse affrontare un mostro del genere.

Morirò qui? pensò Lovino. Lontano da mio fratello, e senza aver potuto fare niente per aiutarlo?

Alla sua destra, un sinistro scricchiolio lo avvisò che un altro nido di crepe si stava formando, e presto ne sarebbe emerso un secondo Golem. Nessuno sapeva dove essi si nascondessero perché potevano apparire in qualunque punto della Fortezza, anzi, erano la Fortezza. Si erano gettati nello stomaco del nemico senza nemmeno saperlo.

Un secondo crepitio si aggiunse al primo, e un altro ancora.

Lovino cercò di ricongiungere le mani, tremanti di freddo e di terrore, per richiamare Roma.

Non aveva mai visto esseri così spaventosi, ma aveva attraversato mille battaglie sulla Reina de la Oscuridad, e aveva imparato che anche il nemico più forte possedeva un punto debole.

Il tuono di un castello che si infrange fece vibrare l’aria quando il pugno del primo Golem si sfasciò contro la mazza ferrata di Ivan. La testa del secondo Golem rotolò a terra non appena fuoriuscita dal ghiaccio, falciata dall’ascia di Antonio. In quei secondi, Roma si materializzò al fianco di Lovino.

«Ho bisogno che tu faccia una cosa per me» ansimò il giovane, premendo una mano sul petto in cui il cuore affaticato tambureggiava a un ritmo folle. «Ho bisogno che tu diventi una creatura di ghiaccio. In questo modo, potrò convertirti in un essere di fuoco. Riesci a farlo?»

Il muso umbratile del lupo gli sfiorò il dorso della mano, e la bestia si lanciò a capofitto in un blocco di gelo.

Una pozza di acqua calda si allargava sotto i piedi dell’Asean, man mano che le sue mani incandescenti affondavano nella cella artica; il primo Golem aveva ripristinato il pugno frantumato dal Custode semplicemente immergendolo nel ghiaccio circostante, e aveva tentato nuovamente di abbatterlo sull’uomo; allo stesso modo, la testa del secondo Golem si era riformata sul suo torso mostruoso, e Antonio aveva avvertito un fulmine di dolore alla caviglia infortunata quando la sua ascia aveva parato l’attacco del Golem.

Troppo impegnati nella battaglia, nessuno si accorse che il lupo riemerso dal ghiaccio aveva il pelo lucido e iridescente come l’aurora boreale, e che i suoi occhi diabolici si erano cristallizzati in un azzurro vetroso. Nessuno vide le mani del giovane congiungersi e la sua fronte imperlarsi mentre si stremava di nuovo nell’inversione di energia, ma tutti si voltarono quando il manto del lupo si infiammò in una selva di creste ardenti.

Roma si lanciò contro i Golem ululando, e strappò un braccio al mostro che combatteva contro Antonio. L’arto del custode della prigione si liquefece all’istante, e il mostro parve perplesso e tradito quando si accorse di non poter richiamare un nuovo braccio. Il lupo danzò tra i guardiani, attaccando, schivando e colpendo ancora, instancabile nonostante nuovi Golem accorressero a sostituire quelli sciolti da Roma e feriti da Ivan e Antonio.

Lovino era troppo assorbito dall’incantesimo, e non si accorse della mano mostruosa che, lenta e silenziosa, si stava formando sopra la sua testa. Antonio vide quella scena da incubo riflessa sulla sua ascia, e si voltò all’istante per correre in aiuto del giovane, ma poté solo vedere con brutale nitidezza il pugno che si schiantava sul ragazzo in uno spruzzo di sangue.

All’improvviso, la prigione diventò rossa e puzzolente di sale e metallo. Roma uggiolò e si appallottolò su se stesso, come se gli avessero sparato al cuore, mentre le sue fiamme scemavano fino a ritornare al solito colore nebuloso, che si ritirò funereo nel corpo fracassato del ragazzo.

Antonio non si rese conto dei Golem che mutilò per raggiungere il suo vice: il suo mondo grondava sangue, e giaceva al suolo ritorto come una bambola spezzata.

Si inginocchiò di fianco a Lovino, le mani irrigidite dall’urgenza di aiutarlo e dalla consapevolezza di non conoscere la corretta procedura. Su di lui, immensa e terribile, incombeva l’assoluta certezza che il ragazzo sarebbe morto: il cranio era irrimediabilmente fratturato, e solo il potere enorme del giovane o la sua altrettanto sconfinata testardaggine gli permettevano di tenere ancora gli occhi aperti.

Inasprite come se dovessero farsi strada in un lago di acido solforico, le parole di Lovino grattarono le labbra esauste:

«Non posso… morire qui…»

Ebbe la sensazione di un lampo azzurro su di lui, intercettato da uno scudo argentato. Antonio aveva deviato con l’ascia l’attacco di un altro Golem.

Perché quello stupido capitano era sempre pronto a gettarsi nella burrasca pur di aiutarlo? Anche quando era inutile come in quel momento, quando la morte aveva già steso il sudario su di lui.

Udì il cappotto del pirata frusciare nella pazza coreografia della lotta, e la sua ascia stridere contro la pelle adamantina dei Golem.

Avvertì una sottile fitta al petto, e il dolore di una lacrima infissa nella pupilla. Gli sarebbe dispiaciuto non vederlo più, nel posto in cui stava per dirigersi.

Voleva aiutarli. Voleva dimostrare che anche lui poteva essere al loro livello. Ma sentiva la testa svuotarsi, e le forze evaporare, ed era così buio…

Avrebbe voluto incontrare di nuovo il fratello, prima di morire.

 

***

 

Ludwig si spaventò a morte quando all’improvviso, nel bel mezzo della vestizione, Feliciano cominciò a urlare ossessivamente, graffiandosi la testa come se il cuoio capelluto stesse andando a fuoco.

«Mio fratello!» strillò acuto, contorcendo tutto il corpo in un dolore atroce e immotivato. «Mio fratello!»

«Cosa è successo?» il Guardiano cercò di calmarlo, ma Feliciano sfuggì alla sua presa e continuò a gridare:

«Mio fratello!»

La schiena si incurvò a tal punto che Ludwig temette si sarebbe spezzata come un ramoscello in autunno quando il giovane esacerbò:

«Sta morendo!»

Di nuovo, Ludwig cercò di acquietarlo e di nuovo Feliciano gli sfuggì, urlando e agitandosi come se lo avessero gettato su una graticola.

«Devo aiutarlo!» fu l’ultima cosa che strillò, prima di perdere i sensi.

Il Guardiano si affrettò ad afferrarlo prima che si ferisse cadendo al suolo, e lo sollevò tra le braccia per appoggiarlo sul letto.

Nel momento in cui lo sollevò, tuttavia, si accorse che il giovane non era semplicemente svenuto: il suo spirito aveva abbandonato il corpo per volare in soccorso del fratello.

«Un viaggio astrale, dunque…» rifletté tranquillo, adagiando il ragazzo sulle lenzuola.

Non poteva biasimarlo. Se avesse avuto i suoi stessi poteri, anche lui sarebbe corso in aiuto del proprio consanguineo.

Si posizionò a lato del letto, pronto a vegliare sull’Asse, come sempre.

Un buon Guardiano poteva fare solo quello.

 

***

 

Una luce celestiale trapelò dalla fessura tra le sue palpebre.

Sono in Paradiso? si stupì Lovino. Con tutto il vociare che si era fatto su di lui, era convinto che sarebbe stato spedito all’Inferno.

Poi, un ruggito orgoglioso si insinuò nelle sue orecchie agonizzanti, e il giovane si costrinse a sollevare una palpebra per capire cosa stesse succedendo.

Attoniti quanto lui, Antonio e Ivan fissavano l’enorme leone, irradiante una luce ineffabile, che ruggiva fiero ai Golem, inginocchiati e con i palmi tesi verso di lui, come servi che si umiliano per chiedere scusa al loro re.

«Ve…» raschiarono i denti di Lovino. «Venezia?»

Nonostante la patina torbida che appannava i suoi occhi, non faticò a riconoscere il tanto lodato famiglio di Feliciano: al contrario suo, il fratello aveva potuto addestrare liberamente il suo gregario, elogiato da tutti per la sua nobiltà e la sua purezza.

Venezia voltò il capo, la criniera che garriva al vento. Un’ondata di compassione inondò gli occhi dell’animale, che si diresse con passo felpato verso di lui.

Il contorno del leone apparve indistinto e acquoso ai suoi occhi, e un incombente buio gravava tutto intorno, rischiarato a malapena dalla luminescenza della criniera regale.

Il leone accostò il muso al suo viso e leccò la testa ferita con delicatezza. Quel gesto parve portare via con sé parte della confusione e del dolore del giovane: il mondo riacquistò parzialmente i suoi colori, e i suoi sensi parvero riconquistare la propria precisione. Forse era solo un attimo di lucidità estrema prima della fine.

Fratello.

Il corpo del ragazzo, anche se ancorato al suolo dalla stanchezza, ebbe un guizzo interno nel sentirsi chiamare a quel modo.

Hai promesso che saresti venuto a prendermi, fratello.

Lovino riaprì con fatica un occhio, che venne sommerso di lacrime non appena mise a fuoco la creatura di luce davanti a lui. Non era più Venezia a osservarlo con dignità: era un volto speculare al suo, che lo fissava con un oceano di lacrime trattenuto negli occhi disperati.

Antonio era rimasto basito alla comparsa del leone, annichilito dalla sua trasformazione in essere umano e trasecolato dalla somiglianza di quel fantasma di luce con il suo vice. Non avrebbe mai immaginato che il legame tra i gemelli potesse essere forte al punto da portare lo spirito di uno dei due in soccorso dell’altro.

«Lo farò…» spinse fuori a forza Lovino, tentando di avvicinare una mano al profilo del fratello.

Le lacrime presero a scorrere irrefrenabili sulle guance di Feliciano, che scosse la testa piangendo:

Stai morendo. Come puoi venire a prendermi, se muori?

Lovino non riuscì a replicare, schiacciato dalla verità di quelle parole.

La luce si fece quasi insostenibile quando l’Asse si chinò su di lui per avvolgerlo con il suo corpo evanescente.

Sono egoista, fratello, singhiozzò Feliciano. Non mi importa del futuro della Confederazione. Non voglio che tu muoia. Non adesso. Non prima di averti riabbracciato.

La luce irradiata dal corpo del giovane fu così accecante che nessuno riuscì a vedere quale incanto avesse utilizzato il futuro Asse per salvare il suo gemello. Quando i raggi abbaglianti si diradarono e le loro pupille furono di nuovo in grado di scorgere la realtà, Lovino era seduto, il cranio intatto e il sangue sparito. E gli occhi colmi di emozione che assorbivano assetati l’immagine agognata del fratello.

Le mani insicure di Lovino cercarono di raggiungere Feliciano, ma strinsero solo aria, distorcendo per un attimo la figura del gemello. I due fratelli si guardarono con una tristezza infinita: anche se potevano vedersi, non erano ancora insieme.

Ti ricordi quando abbiamo visto il Palazzo di Quarzo?

La manica della tunica di Feliciano salì ad asciugare le gote mentre questo continuava, la voce scossa dai singhiozzi e dall’emozione troppo forte. Avevi ragione tu, fratello, il cristallo piange. Ma non piange per se stesso. Sono le lacrime che tutti gli Assi non hanno potuto versare, mentre erano prigionieri. E il cristallo le ha piante per loro. È un cristallo generoso, fratello, ma è anche tremendamente triste.

«Allora ti assomiglia» mormorò Lovino, circondando la figura del gemello con uno sguardo colmo di affetto.

No, lo smentì l’altro, illuminandosi con un sorriso a cuore aperto. Io non sono triste. Non adesso.

Feliciano tese le mani verso di lui, e Lovino posizionò le proprie sotto quelle del fratello. Non potevano abbracciarsi, ma il cuore minacciò comunque di esplodere per la gioia nell’aver finalmente rivisto il gemello.

«Siamo venuti fin qui per aiutarti. Faremo tremare l’intero Vaticano pur di salvarti, fratello» giurò il giovane pirata.

Feliciano sorrise, incommensurabilmente contento, e la luce da lui sprigionata aumentò ulteriormente.

E io cercherò di proteggervi nel vostro percorso. Infrangerò il Palazzo di Quarzo, se sarà necessario.

Improvvisamente, Feliciano si piegò su se stesso, guaendo ferito. Lovino si alzò bruscamente in piedi, spinto da un irrazionale desiderio di aiutare il gemello.

I viaggi astrali sono molto faticosi, fratello, boccheggiò Feliciano, con un sorriso amaro sul viso dolce. Pare che io abbia raggiunto il mio limite.

«Aspetta!» proruppe Lovino, stringendo inutilmente il vuoto luminescente di cui era composto il gemello. Era crudele, era troppo crudele: si erano visti alcuni istanti, solo per rendere ancora più intollerabile la loro separazione.

Feliciano lo avvolse con la sua aura calda e luminosa, e gli bisbigliò amorevole:

Ti sto già aspettando, fratello. Non smetterò mai di aspettarti.

Lovino tenne gli occhi ben aperti, senza nemmeno battere le palpebre per cibarsi fino all’ultimo istante dell’immagine del consanguineo: Feliciano continuò a sorridergli, sempre più triste man mano che il suo corpo si dissolveva in minuscole briciole di luce. Un’ultima lacrima, fulgente come le particelle dell’Asse, si dissolse nell’aria prima che Feliciano sparisse completamente.

E solo quando fu sicuro che il fratello non potesse più vederlo né sentirlo, Lovino lasciò i singhiozzi liberi di fracassargli il petto e le lacrime di inondargli il viso.

«Quello era l’Asse?» domandò atono Ivan.

Antonio non rispose, accostandosi al giovane per sincerarsi del miracolo avvenuto. Affogato in un mare di lacrime, Lovino era lì, disperato e singhiozzante, ma vivo. E il capitano non si accorse quasi delle sue braccia che correvano a stringere il corpo del ragazzo, sobbalzante nel pianto. L’idea di averlo perso lo aveva annichilito, lasciando solo un rametto essiccato dell’albero che era la sua anima, e la gioia di averlo di nuovo vivo grazie ai poteri del gemello lo aveva sopraffatto completamente.

Si riscossero da quella strana stasi emotiva solo quando Ivan annunciò, neutro:

«L’Hellsing…»

 

***

 

Ludwig appoggiò una mano sugli occhi di Feliciano, e consigliò:

«Non hai bisogno di alzarti adesso. Devi essere stremato.»

L’Asse mosse a malapena la testa, i muscoli ruggenti di dolore per la fatica.

«Sei riuscito a vederlo? Muovi il dito una volta per confermare, altrimenti resta fermo» patteggiò Ludwig.

L’indice di Feliciano raspò con enorme sacrificio il lenzuolo. Il Guardiano registrò l’informazione e proseguì:

«Sei riuscito a salvarlo?»

Se anche non avesse mosso il dito, Ludwig avrebbe comunque capito la risposta dalla luce che improvvisamente si propagò da tutto il corpo sfiancato del giovane.

«Ne sono lieto. Ora riposati. Elaborerò una scusa per giustificare la tua assenza alle funzioni» fece per alzarsi, ma un cinguettio strozzato lo trattenne.

«As… aspet…»

Ludwig afferrò la mano che si agitava con la forza sfinita di un animale nella tagliola e la portò al cuore.

«Non sei solo. Non lo sei mai stato» gli ricordò, garbato. «Tuo fratello è sempre stato con te, non è forse così?»

Gli occhi di Feliciano si schiusero appena, una fessura di gioia e lacrime sul volto spossato.

«Nel mio sangue…» esalò, prima di far crollare il capo sul cuscino e le palpebre sugli occhi.

Ludwig appoggiò la piccola mano del giovane sul materasso, e coprì il suo corpo minuto con il lenzuolo.

Non aveva mai visto Feliciano usare i suoi poteri. Dovevano essere strabilianti per permettergli di salvare una persona con il solo spirito. In quel fisico così esile abitava un’anima più grande della Confederazione stessa.

Fissò la sua mano, poggiata su quella del futuro Asse. Era così grande che riusciva a coprirgli perfino il polso. Lo sguardo gli cadde sulle vene visibili sotto la pelle eburnea; il sangue che lì scorreva li legava ai loro familiari.

Ludwig scrutò il suo polso, assorto.

Anche il suo sangue lo legava al fratello?

Scosse il capo, sospirando. Lui e Gilbert avevano un rapporto molto più complicato. Non era propriamente il sangue a legarli. Ma l’Hellsing era stato tutto il suo mondo, e lui gli aveva voluto bene con tutto il cuore e tutta l’anima.

Stava rievocando con la mente i ricordi del passato quando all’improvviso un tuono scosse il suo petto. Ludwig portò una mano al cuore, paralizzato dallo stupore. Il tuono si ripeté, seguito da un fulmine.

Istintivamente, puntò lo sguardo verso il lucernario, spiazzato.

«Gilbert…?» balbettò.

Ma il cielo restò muto.

 

 

 

 

Sesto capitolo, Prigione Caina e ricongiungimento fraterno<3

Spero vi sia piaciuto (^O^)

E il protagonista del prossimo sarà Gilbert-Ore-sama!-Hellsing<3

E i banner sono sempre opera di Clau-tan<3 se riconoscete gli autori delle immagini avvisatemi che inserirò i credits<3

Al prossimo lunedì<3

Red

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Capitolo 7
*** Hellsing ***


Capitolo Sette: Hellsing

 

Assassino!

Il sangue del demone disegnò un cerchio nero nell’aria pesante di fumo.

Gilbert ricaricò velocemente l’archibugio, prima di conficcarlo nelle fauci spalancate di un altro diavolo e fargli saltare il cervello con un colpo.

Assassino!

Estrasse le sciabole il più rumorosamente possibile, per soffocare la voce del suo incubo che ancora gli attraversava la memoria.

Assassino!

Era stato quello strillo nei suoi sogni a farlo svegliare di soprassalto, quella mattina. Aveva passato una mano sulla fronte sudata, e delle dita più piccole e paffute delle sue si erano appoggiate sul suo braccio.

«Hai dormito male?» aveva chiesto una vocina infantile.

Gilbert aveva sorriso, accarezzando i capelli soffici del bambino rannicchiato al suo fianco.

«Il tuo meraviglioso fratellone stava solo pensando alla pesante giornata di lavoro che gli si para davanti» lo aveva rassicurato, per poi alzarsi dal letto.

«Ucciderai i demoni anche oggi?» aveva gorgheggiato il bambino, sporgendosi dal letto.

«Come sempre» aveva confermato Gilbert. Aveva afferrato le sue armi e aveva cominciato la consueta ispezione: sarebbe stato un vero problema se si fossero inceppate durante il lavoro.

«Sei considerato un eroe, per quello che fai?»

L’Hellsing si era voltato, e non era riuscito a dire la verità a quegli occhi azzurri che lo guardavano adoranti. Per il piccolo Ludwig, il fratellone rappresentava la meta irraggiungibile di perfezione, il modello ideale cui ispirarsi. E non poteva far crollare il sogno meraviglioso che vedeva nelle iridi cerulee del piccolo.

«Ovviamente!» aveva riso Gilbert, gonfiando il petto. «Il tuo fantastico fratello è ammirato, adorato e imitato in tutta la Confederazione!»

Il viso raggiante di Ludwig era stato una ricompensa più che onorevole per quella bugia. Aveva appoggiato la mano sulla testa del piccino e aveva accarezzato la sua chioma soffice.

«Mi raccomando, chiudi a chiave la porta e non aprire a nessuno fino a che il tuo meraviglioso fratello non sarà tornato, d’accordo?»

Assassino!

Si lodava in quel modo per convincere il piccolo Ludwig che lui era davvero l’eroe della Galassia. E per ricordare a se stesso che non doveva ascoltare le grida di tutte le donnette fuorviate dalle fandonie delle famiglie Vaticane.

Un movimento alla sua destra risvegliò la sua attenzione. Raggiunse la fonte dello spostamento con un balzo felino, e ciò che trovò lo lasciò quasi trasecolato.

Era convinto che gli abitanti di quel villaggio fossero tutti morti o fuggiti; invece un giovane tremante e tramortito dal terrore lo fissava con occhi allucinati da dietro lo scudo di una porta crollata.

«Tutto bene, laggiù?» s’informò Gilbert, sporgendosi verso di lui.

Il giovane arretrò strozzandosi con il suo stesso fiato. L’Hellsing intuì il motivo della sua paura: vedere il proprio villaggio distrutto dai demoni per poi trovarsi davanti uno sconosciuto armato e coperto di sangue nero doveva essere troppo per la psiche di una persona normale.

Un’ombra gigantesca oscurò il sole, e i due si trovarono immersi in una notte innaturale.

L’Hellsing torse il collo per scrutare il mostro alle proprie spalle: un gigantesco Ciclope lo fissava dall’alto, con un filo di bava che pendeva dalla bocca disgustosa.

«Per un ammasso di sporcizia della tua portata una pallottola non sarebbe sufficiente» calcolò. «E nemmeno un colpo di sciabola.»

Il giovane lo fissò sbigottito mentre lo sterminatore afferrava con la mano sinistra il fermaglio a forma di corvo sul suo petto. Punse il pollice con il becco del volatile di metallo, e lasciò che alcune gocce stillassero sul suo capo nero.

«Coraggio Gilbird. È ora di svegliarsi!» chiamò, lanciando la spilla in aria.

Il ghigno dell’Helsing si ampliò a dismisura quando la metamorfosi del suo orpello si completò: il ferro da cui era stato plasmato il fermaglio si sciolse di sua spontanea volontà, andando a delineare un’iride di ebano. Dall’occhio tenebroso si aprì un ventaglio di piume, che si moltiplicarono e ingrossarono fino a ricoprire tutto il corpo di un corvo mastodontico.

Il volatile si gettò in picchiata sul Ciclope, conficcandogli il becco nell’occhio deforme. Il mostro portò entrambe le mani al bulbo oculare zampillante sangue, e il corvo sfruttò quell’occasione per tempestargli il petto di beccate.

«Distrailo ancora un po’, Gilbird» lo incitò Gilbert, ricaricando l’archibugio. Tracciò uno strano simbolo con le dita sulla pallottola, prima di chiudere l’arma e puntarla al cuore del Ciclope.

Premette il grilletto, e, come previsto, la magia infusa nel bossolo funzionò: il proiettile si ingrandì durante la sua corsa, e si rivestì di un manto di fiamme violacee prima di infiggersi nello sterno dell’abominio. Il Ciclope lanciò un grido aberrante, il petto squarciato da un enorme foro, le fiamme di ametista che ancora bruciavano i bordi.

L’Hellsing non si preoccupò nemmeno di assistere alla caduta del mostro: aveva visto quello spettacolo così tante volte che ormai era diventato noioso. Voltò le spalle al Ciclope morente e si rivolse al giovane ancora paralizzato:

«Riesci a muoverti?»

Il ragazzo scosse la testa, e indicò con un indice traballante la porta. Dunque non l’aveva usata come scudo volontariamente: l’uscio gli era semplicemente crollato addosso, bloccandogli una gamba al terreno.

«Gilbird, puoi fare qualcosa per questo?» lo interpellò l’Hellsing.

Il corvo planò sulla porta e la sbriciolò senza fatica con il suo becco d’acciaio, facendo mancare non pochi battiti del cuore al giovane, che minacciò di scoppiare di paura quando l’Hellsing si chinò su di lui e se lo caricò in spalla come se quasi non avesse peso.

«Sei originario di questo paese?» domandò Gilbert.

Al ragazzo occorsero alcuni secondi per recuperare le parole, sprofondate in fondo ai piedi.

«…no» sussurrò, flebile.

«Eri qui in viaggio?» proseguì Gilbert.

«… non lo so» esalò l’altro.

«Come fai a non saperlo?» lo incalzò l’Hellsing.

Il corpo del ragazzo tremò contro di lui come per un terremoto interno, e infine il giovane cedette:

«Non ricordo nulla prima dell’attacco dei demoni.»

«Quindi non ti ricordi nemmeno da dove vieni. Ah, questo è un problema.» valutò velocemente le opzioni che si aprivano sul destino di quel giovane: sarebbe sicuramente morto, se lo avesse lasciato solo e ferito su quel pianeta carbonizzato. Ma non poteva nemmeno riportarlo alla sua famiglia, poiché il ragazzo non ricordava dove fosse.

«Gilbird, riesci a portarci entrambi?»

Il corvo volò a pochi centimetri dal suolo, permettendo al padrone di raggiungere la sua schiena con un salto.

«Tra poco saremo a casa!» manifestò spavaldo l’Hellsing.

Per tutto il tempo del volo, il giovane si domandò angosciato cosa intendesse quell’uomo assurdo per “casa”: sicuramente si riferiva a un castello gotico in marmo nero, circondato da lava e protetto da draghi sputa fiamme.

La realtà lo colpì con un’immagine quasi banale: una tranquilla baita nel mezzo di una pianura completamente brulla, vicino all’unico lago rintracciabile nel raggio di chilometri.

Gilbert smontò dalla cavalcatura alata senza perdere la presa sul ragazzo arpionato alle sue spalle, e, a un suo fischio, il gigantesco corvo ripiegò le piume e chinò la testa, iniziando il processo di rimpicciolimento che lo portò in pochi secondi ad assumere nuovamente la forma di una spilla di metallo.

Gilbert la raccolse da terra e, trovandosi con entrambe le mani occupate, bussò alla porta di casa con la punta di metallo dello stivale.

Quello che fece capolino dallo stipite non fu un servo demoniaco rigurgitato dalle fosse tartaree, ma un bambino biondo incredibilmente grazioso.

«Questo signore è Matthew, e sarà nostro ospite per un po’. Salutalo, Ludwig» lo presentò Gilbert.

«Salve signor Matthew» gorgheggiò il piccolo, studiandolo con gli occhioni cerulei. «È ferito.»

«Ha una frattura alla tibia e al perone. Mi servono delle stecche e delle bende» diagnosticò l’Hellsing.

Il bambino annuì e trotterellò sul pavimento di legno fino a raggiungere una sedia, che posizionò sotto una smisurata credenza di legno di ciliegio. Gilbert vigilò su di lui finché non lo vide scendere dallo scranno sano e salvo, e barcollare verso i loro con le medicazioni richieste.

«È sempre così ubbidiente?» si sorprese pacato Matthew.

«L’ho cresciuto bene. È un bravo bambino» si vantò Gilbert, carezzando la zazzera morbida del piccolo, che arrossì contento per i complimenti del fratello maggiore.

Il giovane si sarebbe potuto commuovere per quel quadretto familiare, se solo l’Hellsing non fosse stato coperto di sangue nero e non avesse tenuto in mano un’inquietante stecca che aveva intenzione di conficcargli nella gamba.

«Abbiamo finito l’anestetico» si rammaricò Ludwig. «Però abbiamo della grappa.»

«Bravo. Vai a prenderla» lo lusingò Gilbert, prima che il piccolo scalpicciasse in direzione della cantina.

«Siete… attrezzati» notò con un filo di voce Matthew.

«Siamo gli unici esseri viventi su questo pianeta, dobbiamo essere attrezzati» sminuì  l’Hellsing.

«Perché mi avete presentato come Matthew?»

La spiegazione di Gilbert fu semplice e pratica.

«Non hai ricordi precedenti all’attacco dei demoni, quindi suppongo che tu non ricordi nemmeno il tuo nome. Matthew ti si addice, hai la faccia da Matthew.»

Il giovane non indagò su quali fossero gli attributi di una “faccia da Matthew”, e permise allo stravagante uomo di adagiarlo sul letto in mezzo alla stanza.

Il bambino ritornò portando con aria trionfale la bottiglia di alcolico.

Una mano imbrattata di sangue gli schiaffò l’imboccatura sotto il naso, e l’Hellsing consigliò:

«Bevi più che puoi. E spero che tu non sia uno di quelli che danno di stomaco durante la sbornia.»

«Lo spero anche io» si augurò spaventato Matthew, prima di accostare le labbra al collo della bottiglia.

Si era svegliato in mezzo a un parapiglia di demoni e fuoco, aveva volato su un corvo gigantesco e un bizzarro individuo coperto di sangue nero lo esortava a bere fino a perdere i sensi.

Pregò che, al suo risveglio, il mondo fosse tornato normale e tutto quello che era successo fino a quel momento si rivelasse essere un incoerente incubo.

 

***

 

Non volevo che lo scoprissi così.

Ma non volevo darti ulteriori fastidi.

So che sei un uomo generoso, so che ti preoccupi per gli altri.

So che avresti sofferto troppo. Per questo ho agito in prima persona.

 

La luce del sole mattutino scivolò nella fenditura tra le palpebre e gli ferì la pupilla, facendolo svegliare con un mugolio.

La prima cosa a dolere fu la testa, ancora impantanata nei fumi dell’alcol. La seconda fu la gamba immobilizzata da un’intelaiatura di stecche e bendaggi.

Confuso dal sonno e dai postumi della sbornia, Matthew si guardò intorno, e riconobbe con fatica la casa dell’Hellsing. Quando era entrato non vi aveva fatto caso, ma l’abitazione era concentrata in un’unica grande stanza: nell’angolo a sud era stato incastrato un esercito di credenze e un fornello a gas per cucinare, il tutto completato da tavolo e sedie di legno; al limitare della cucina si apriva la porta che dava accesso alla cantina, e sulla parete limitrofa l’arredamento comprendeva una libreria, un angolo giochi per il piccolo Ludwig e il mobile da cui il bambino aveva estratto le medicazioni. Lungo la parete di fronte alla cucina erano stati allineati il letto dell’Hellsing, su cui adesso di trovava, e il giaciglio più piccolo del bambino. Poco distante da quest’ultimo, una scala a pioli si arrampicava allo sconosciuto piano superiore.

«Ben svegliato, signor Matthew.»

Il giovane fece quasi saltare la steccatura alla gamba per lo spavento: non aveva minimamente notato il piccolo abbarbicato a lato del letto.

«Bu-buongiorno» balbettò senza voce.

«Avete riposato bene?» domandarono i due occhi zaffiro, l’unica cosa visibile dal bordo del materasso, assieme a una manina paffuta che reggeva i suoi occhiali, malamente accomodati dopo lo schianto che li aveva scheggiati.

«Sì… ho dormito bene…» Matthew attorcigliò il lenzuolo tra le dita, imbarazzato per la sua richiesta. «Dove… dove è il bagno?»

«La latrina è qui fuori» il piccolo indicò la porta di casa, esplicativo.

«No, dovrei lavarmi…»

«Usiamo il lago.»

Matthew si convinse che l’alcol che ancora gli circolava in corpo avesse distorto la reale risposta del piccolo: i flutti di quella distesa d’acqua dovevano essere ghiacciati, vista la temperatura esterna.

«Il lago» ripeté Ludwig, notando la reticenza del giovane.

«Il… lago…»

Le mani tenere del bambino afferrarono la sua, e lo strattonarono ostinate finché il giovane non scese dal letto, pur con le difficoltà arrecate dalla gamba immobilizzata.

Avanzò zoppicando e saltellando, appoggiandosi come meglio poteva al marmocchio, fino a raggiungere la sponda del lago.

Matthew non riconobbe subito l’uomo seduto sulla sponda, impegnato a rimuovere l’amo dalla sua preda. Senza l’uniforme degli Hellsing e il sangue di demone colato addosso, Gilbert sembrava un uomo normale, perfino bello. Le sfumature rosse dei suoi occhi apparivano affascinanti e non inquietanti, e i capelli d’argento, se baciati dal sole di ghiaccio di quel luogo e non dalle fiamme della battaglia, assomigliavano a pacifici raggi lunari. La camicia di tessuto pesante e i pantaloni di fustagno conferivano un’aria di casalinga rilassatezza al tutto, diradando l’immagine fosca di sterminatore. Ma era destino che l’Hellsing non potesse farsi vedere in condizioni del tutto comuni: il pesce che aveva appena pescato aveva le dimensioni di un cucciolo di viverna.

«Guarda cosa si è procurato il tuo meraviglioso fratello!» proclamò soddisfatto. «Ci basterà per almeno tre giorni!»

Matthew arretrò con il cuore, non potendolo fare con la gamba malata: l’occhio morto di quel pesce abnorme che lo fissava gli metteva i brividi.

«Come mai siete venuti al lago, voi due?» Gilbert estrasse finalmente l’amo dalla bocca del dinosauro, lo ripulì e lo infilò nel tascapane appeso in vita.

«Dovrei lavarmi» tentennò Matthew.

«Spogliati, allora.»

Il giovane rimase spiazzato e imbarazzato da quell’ordine.

«Spogliarmi?»

«È il primo passo, se ci si vuole lavare» sottolineò ovvio l’Hellsing, per poi rivolgersi al piccolo: «Ludwig, ti dispiace mettere questo animale sotto sale?»

Il bimbo tese le braccia tozze e si caricò il pesce sulla testa, per poi ondeggiare verso casa.

«Nel lago vivono… pesci di quelle dimensioni?»

«Sì» mitragliò Gilbert, senza la minima premura per lo spavento dell’altro. «Ma non preoccuparti: basta stare dove l’acqua è bassa, e non si avvicineranno» portò di nuovo lo sguardo sul ragazzo e commentò: «Hai intenzione di farti il bagno con i vestiti?»

Matthew torse il bordo della camicia con le mani e le parole con la lingua nel patteggiare:

«Posso… avere un secchio?»

L’Hellsing non sbuffò e non protestò, e gli porse il catino con relativa gentilezza. Matthew fu piacevolmente sorpreso dal trovarvi dentro anche il sapone e un panno con cui strofinarsi. Procedette a spogliarsi, sebbene rallentato dalla steccatura nel togliersi i pantaloni, ma non rimosse la biancheria: anche se voltato di spalle, l’Hellsing non lo aveva lasciato solo.

Aveva appena cominciato a insaponarsi un braccio quando l’uomo gli chiese a bruciapelo:

«Sai qual è il mio ruolo?»

«Siete… l’Hellsing» incespicò Matthew.

 «Non ricordi niente di te, eppure sai quale sia la mia carica» notò Gilbert. «Davvero inconsueto.»

«Non so perché mi ricordi questa…» la lingua del ragazzo si pietrificò: l’Hellsing aveva tirato fuori da chissà quale luogo nascosto un coltellaccio a serramanico lungo quanto il suo avambraccio.

Gilbert fece roteare il pugnale nell’aria come un bambino avrebbe giocato con un areoplanino di carta, e chiese:

«Sai anche quali voci girino su di me?»

Matthew si coprì il cuore con l’asciugamano, la sua unica ed esigua difesa contro quella lama assassina.

«So che siete… ricercato…»

Il giovane si ritrasse sul sasso viscoso, il più lontano possibile da quel coltello vorticante.

«E sai anche il motivo?»

«Si dice che sia la vostra famiglia a richiamare i demoni.»

Matthew quasi si rovesciò sulla schiena come una tartaruga quando l’Hellsing arrestò improvvisamente il pugnale, con un’espressione furibonda sul viso. Mille scenari raccapriccianti di quel coltellaccio conficcato nel suo corpo gli si pararono davanti agli occhi, prima che Gilbert riprendesse a giocarci, facendolo dondolare sull’indice.

«Una bugia del Vaticano» decretò infine, tetro. «Vuoi sapere la verità?» non attese risposta e continuò, spedito come una slavina di montagna: «La mia famiglia ha sempre sterminato i demoni che minacciavano gli esseri umani, ma per farlo avevano bisogno di un aiuto. Per questo ci siamo specializzati nel combattimento magico e nel richiamo dei famigli, come Gilbird. Un uomo con armi comuni avrebbe poche speranze contro i mostri di ieri, non trovi?»

Matthew annuì, deglutendo a fatica.

«E il Vaticano deve aver avuto paura che potessimo rubare i loro fedeli, o qualcosa del genere. Hanno distrutto il nostro nome e plagiato l’opinione pubblica. Hanno fatto credere a tutti che fossimo noi stessi a richiamare i demoni e, poiché molte persone ci avevano visto evocare i nostri famigli… la paura fa credere a molte idiozie.»

«Ma vi avranno visto combattere contro i demoni…»

Gilbert gli indirizzò uno sguardo più tagliente della lama che faceva penzolare tra le dita.

«Se ieri, prima che io ti portassi a casa mia e ti curassi, ti avessero detto che ero stato io a evocare i diavoli… ci avresti creduto?»

Matthew avrebbe voluto rispondere che no, non avrebbe mai prestato fede a una simile menzogna, ma l’ipocrisia di quell’affermazione gli legò la lingua. Lo aveva visto apparire con la divisa nera e gli occhi fiammeggianti, i capelli argentei raggrumati di sangue, e lo aveva visto evocare una bestia spaventosa come i demoni che lo circondavano. Capiva perché la gente spaventata avesse potuto credere a quella versione.

Gilbert accettò il suo silenzio colpevole senza nemmeno battere le palpebre, e seguitò, rivolto al coltello:

«Non mi sorprenderebbe scoprire che sono stati loro ad aprire i cancelli ai demoni, diciassette anni fa.»

«Ai demoni…?»

Il pugnale scivolò tra le dita dell’Helsing, e gli tracciò i polpastrelli con una sottile riga scarlatta. Gilbert sfregò il pollice sulle ferite, seccato. Quella puntura non era nulla, in confronto ai ricordi di tanto tempo prima.

«Potrai non crederci, ma questo posto, una volta, era un giardino. Era tutto coperto di erba e boschi, ed era una gioia vederli cambiare con il ritmo delle stagioni. E c’erano case, animali… c’era vita» le iridi rosse divennero torbide come il lago poco distante, e l’Hellsing proseguì: «Poi, diciassette anni fa, un portale si è aperto inspiegabilmente su questo pianeta. Orde e orde di demoni si sono rovesciate su di noi. E anche il migliore sterminatore non può resistere a un attacco di massa.»

La punta del pugnale pizzicò l’unghia dell’Hellsing, e il suo tono fu marmoreo nel terminare:

«Misteriosamente, la maggior parte dei demoni non si sono mai mossi da questo pianeta. Proprio come se fossero stati evocati esattamente per la distruzione di questo mondo» un sorriso di amaro sarcasmo contorse le labbra pallide dell’uomo. «Sono fuggiti solo alcuni gruppi sporadici, come quello di ieri.»

Matthew inforcò gli occhiali, malamente storti e con una fastidiosa crepa su tutta la lente destra, e indossò la sua espressione più seria nel chiedere:

«Non avete mai provato a smentire le menzogne del Vaticano?»

«Da soli non si può fare tanta strada.»

«Da… soli?»

Le labbra ruvide di Gilbert si appoggiarono sull’elsa di legno del pugnale, e le allontanò per rispondere:

«Quel giorno, ero l’unico a non trovarsi su questo pianeta. Ero in giro con due miei vecchi amici. E al ritorno, ho scoperto di essere l’unico Hellsing rimasto» strinse le nocche sul pugnale e digrignò i denti nel dichiarare: «Per cinque anni ho vissuto su un asteroide qui vicino, e sono sceso sistematicamente a distruggere i demoni, finché non ho riconquistato il pianeta. I miei due amici di cui sopra mi hanno molto aiutato» un sorriso appena stemperato di affetto sorse sulle labbra dell’uomo, per tramontare subito dopo: «Poi ho costruito questa casa. E dopo ho cominciato a cacciare i demoni fuggiti, anche se sapevo che questo avrebbe aggravato l’immagine pessima degli Hellsing.»

«Perché lo avete fatto, allora?»

Il pugnale ciondolò pigro tra le mani di Gilbert, che sbottò, malinconico e petulante al contempo:

«Se non lo faccio io, chi è in grado di farlo? Sono l’unica persona all’interno della Confederazione capace di fronteggiare quei demoni senza bagnarsi i pantaloni. E poi, non voglio che altra gente torni a casa sua e trovi solo macerie fumanti. O che veda il suo pianeta ridotto a una distesa brulla. Quindi, anche se mi attirerò le ire del Vaticano, continuerò a combattere finché non avrò eliminato anche l’ultimo demone.»

La schiuma sul corpo di Matthew si era seccata in una strana fantasia di mezzelune bianche sulla sua pelle, che il ragazzo rimosse distrattamente mentre bofonchiava:

«Avete detto di essere il solo rimasto… quindi Ludwig è stato adottato?»

«L’ho creato io.»

L’espressione vacua di Matthew esigeva spiegazioni, per cui Gilbert specificò:

«Non è un essere umano. È un costrutto. La mia magia è abbastanza potente da permettermi simili giochetti, una volta nella vita. Adesso ha circa sedici anni.»

«Sedici…?»

«Per una qualche strana ragione, non vuole saperne di crescere. Ma credo che sia colpa mia: lo vizio così tanto che si trova più che bene a fare la parte del bambino.»

La mente ripescò le immagini del piccolo che si arrampicava alla ricerca dei medicinali, che accorreva al capezzale con una bottiglia di grappa e che barcollava sotto il peso del mastodontico pesce. Non era sicuro che l’Hellsing fosse del tutto consapevole del significato della parola “viziare”.

Il pugnale compì un’ultima rotazione nell’aria, prima di essere afferrato al volo e riposto in tasca.

«Vado a tagliare il girino» annunciò, avviandosi verso casa.

Non si aspettava che, circa dieci minuti dopo, la porta di legno sarebbe stata aperta da un’apparizione con gli occhiali storti e i capelli fradici, che gonfiò il petto mingherlino in un’altisonante dichiarazione d’intenti:

«Qualunque cosa accada, crederò sempre in voi.»

L’assurdità di quella situazione raggelò entrambi nelle rispettive posizioni: Gilbert osservava Matthew, ritenendo che simili annunci non avrebbero dovuto essere fatti da persone bagnate, parzialmente insaponate e con un paio di lenti pendule che si reggevano sul naso per miracolo divino; Matthew fissava Gilbert, in particolare le sue mani ricoperte di interiora di pesce e la carcassa sventrata della bestia sul tavolo, chiedendosi perché quell’uomo fosse sempre circondato da un alone di anormalità.

«Se non ti asciughi in fretta, ti prenderai un malanno» lo redarguì Gilbert.

«Dico sul serio. Se anche tutta la Confederazione dovesse esservi contro, io continuerò a credervi.»

Gilert appoggiò le budella del cucciolo di viverna sul tavolo, e si avvicinò al ragazzo con le mani ancora grondanti di sangue e liquidi intestinali.

«Ti ingrazio, Matthew» esclamò, porgendogli una mano lorda.

Il giovane cercò di convincersi che le cose viscide e flaccide che sentiva sotto le sue dita fossero bacche di bosco mentre ricambiava il gesto dell’Helsing.

«Smettila di darmi del voi» lo avvertì Gilbert, tornando al suo posto sul tavolo. «E dobbiamo trovare un rimedio per i tuoi occhiali.»

Matthew annuì vigorosamente e corse ad asciugarsi, come precedentemente consigliato dall’Hellsing.

Non sarebbe stato d’aiuto durante una battaglia, e sicuramente il Vaticano non avrebbe ascoltato la difesa di un giovane che non ricordava nemmeno la sua provenienza esatta. Ma l’Hellsing sembrava rincuorato; aveva scorto il barlume di un sorriso, nei recessi amaranto dei suoi occhi da sterminatore.

 

***

 

Sei uno sterminatore di demoni, ma credo che sia giunto il momento in cui le tue armi rimangano silenziose.

Ludwig ti aiuterà ad accettare il mio tradimento. E spero che un giorno troverai la forza di perdonarmi e di guardare di nuovo al domani.

Sono sicuro che ce la farai.

Perché, a questo mondo, non esiste nessuno più meraviglioso di te.

 

Da quel giorno in poi, i ricordi si erano accumulati come tante fotografie nella memoria dell’Hellsing, avvezza solo alle lotte da tempo immemore.

Il pomeriggio stesso di quel giorno, quando tutti e tre insieme avevano costruito una buffa imbragatura di stecchi e pelle per raddrizzare gli occhiali di Matthew, ma nessuno era riuscito a fare nulla per la crepa che spaccava la lente destra, e il ragazzo si era rassegnato a vedere il mondo diviso a metà.

A marzo, quando era tornato da una spedizione contro i demoni, e aveva trovato Matthew e Ludwig affaccendati con il bulbo di una pianta ignota; il piccolino era corso da lui agitando le braccia come un gabbiano impazzito, strepitando qualcosa su come volessero restituire al fratellone il pianeta dei suoi ricordi.

Ad aprile, quando era tornato con una ferita al braccio, e Matthew si era occupato di lui insieme a Ludwig. E, durante la convalescenza, gli aveva parlato delle ultime due persone che lo avevano visitato, tanti anni prima. Uno dei due aveva i capelli più lunghi e il seno più pronunciato di quello di Matthew, e quando lui gli aveva chiesto se si trattasse di una donna, gli aveva risposto che no, si trattava di un uomo molto grasso. Si era guadagnato un’occhiata molto peculiare dal giovane e la risata irrefrenabile del fratellino minore.

A maggio, quando avevano approfittato del disgelo per nuotare nel lago, e Matthew si era spaventato a morte quando un’alga gli aveva afferrato la caviglia, credendo che fosse chissà quale mostro inenarrabile.

A giugno, quando si era accorto di includere spontaneamente anche quel ragazzo con gli occhiali sbilenchi nella ristretta cornice della sua famiglia. Lo aveva capito una sera, quando aveva visto Matthew dormire con il piccolo Ludwig adagiato sulla pancia. Gli era sembrata una scena tremendamente perfetta, qualcosa di così innocente da fare quasi male.

Allo stesso tempo, il giovane si era abituato alla sua divisa oscura da sterminatore, al colore improbabile dei suoi occhi e dei suoi capelli, e al suo carattere che oscillava paurosamente tra il vanesio e il magnetico.

Ogni passo compiuto in direzione dell’altro li aveva portati a incontrarsi nel discorso di luglio.

«Ho pensato… che anche se non recupero la memoria… va bene lo stesso.»

Gilbert aveva alzato lo sguardo dal fucile che stava pulendo per indirizzarlo a Matthew.

«E se tu avessi una famiglia che ti aspetta?» lo aveva contraddetto l’uomo.

«Potrebbe essere morta nell’attacco al villaggio. Non posso esserne certo. E poi ora… siete voi la mia famiglia.»

Quell’ultima frase gli costò un enorme sforzo e tutto il suo coraggio, per essere pronunciata.

L’archibugio incontrò il pavimento con un suono legnoso, e le gambe della sedia stridettero sulle assi quando l’Hellsing si alzò.

«Hai scelto una famiglia piuttosto bizzarra… due fratelli e nessuna donna» considerò Gilbert.

Matthew aveva scosso la chioma bionda, e perfino i denti avevano tremato quando aveva buttato fuori a forza:

«Mi piace stare qui. Adoro Ludwig e... sono innamorato di te» pronunciò l’ultima frase al doppio della velocità normale, e rallentò di nuovo stridendo: «E non mi viene in mente nessun mondo che possa valere la vostra perdita.»

Le braccia dell’Helsing, dure come l’acciaio, gli strinsero lo stomaco, e la voce dell’uomo gli lambì i capelli:

«Resta con noi, allora.»

Matthew poggiò una mano sui polsi di Gibert, le cui ossa ispessite dalle lotte quasi foravano la pelle.

Aveva capito perché l’Hellsing avesse creato Ludwig. Completamente solo su un asteroide, a contemplare pieno di rancore il suo pianeta mentre veniva fagocitato dai demoni. Lo aveva fatto nascere per non soccombere alla solitudine e all’odio: l’affetto di Ludwig aveva stemperato quell’isolamento pieno di ombre. Ma ora non c’erano più demoni su quel pianeta, e ne erano rimasti pochissimi in giro per la Galassia. Era giusto che anche l’Hellsing potesse godersi una vita tranquilla.

«Ehm… hai capito… quello che ti ho detto prima?» azzardò Matthew, quando non poté più sostenere quel silenzio teso.

«Certo che ho sentito» confermò tranquillo Gilbert, accentuando l’abbraccio. «E la mia risposta è stata: “resta con noi”.»

Matthew si voltò verso di lui, e si scontrò con l’espressione irrigidita dall’imbarazzo dell’Helsing. Per quanto fosse forte in battaglia e spavaldo nella vita quotidiana, si era quasi disabituato ai rapporti umani: per anni, l’unica persona con cui aveva parlato era stato il fratellino minore.

Il giovane sorrise, appoggiandosi al petto dell’uomo.

Nemmeno lui ricordava bene come funzionassero i rapporti tra le persone, ma non c’era fretta. Avevano una vita per riscoprirlo insieme.

 

***

 

Arriva per tutti il tempo di svegliarsi, Gilbert.

Il mio è arrivato qualche mese fa. Perdonami se ho taciuto.

Ma anche io volevo viaggiare insieme a te, volevo vivere insieme a te. E ho voluto, egoisticamente, che questo sogno durasse il più possibile. Ho esteso la notte per non fare mai arrivare il mattino.

Non odiare i raggi del sole, quando arriveranno: la colpa è solo mia, che ti ho tenuto nell’ombra più del dovuto e ora i tuoi occhi si sono disabituati alla luce.

 

Erano passati altri mesi, e altri ricordi si erano accumulati.

Gli abbracci di Gilbert erano come il ferro e i suoi baci ricordavano una guerra. Avevano impiegato un po’ di tempo a trovare una sintonia in modo che le ossa di Matthew non scricchiolassero per le sue strette e che la sua bocca potesse muoversi nel bacio senza essere monopolizzata.

Il piccolo Ludwig aveva intuito che qualcosa stava cambiando, ma non dava segno di gelosia infantile; al contrario, sembrava contento di aver trovato una persona cui affidare il ruolo di madre, anche se era meno femminile di come se l’era immaginata.

Per fortuna non si era accorto di nulla, la sera in cui Matthew e Gilbert avevano diviso il letto per la prima volta.

«Aspetta» bisbigliò Matthew sotto la caverna delle coltri, preoccupato. «Ludwig…»

«Oh, quando dorme non lo svegliano nemmeno le cannonate» e ne diede la prova pratica uscendo con la testa dalle coperte e urlando: «Ehi, Ludwig, sei sveglio?»

In risposta, un ronfare associabile a un orso e non a un bambino di un metro e venti si levò dal giaciglio del piccolo.

«L’unico problema è che non potremo accendere neanche una candela» mormorò Gilbert, tirando di nuovo le coperte sopra la testa. «Mi sarebbe piaciuto vederti meglio.»

Matthew trattenne il respiro e i battiti del cuore quando le labbra ruvide dell’Helsing calarono a violare le sue. Si erano già baciati altre volte, ma in quel frangente il contatto delle loro bocche sembrava ancora più intimo, e Matthew rabbrividì per ogni singolo sfioramento della lingua del compagno.

Gilbert masticò in silenzio qualche imprecazione quando le sue dita inciamparono sui bottoni della camicia e sulla fibbia della cintura del giovane per via di quel maledetto buio. Sopperì alle momentanee lacune della vista con il tatto; gli occhi gli permettevano di vedere solo un bordo grigio cupo in un oceano nero, mentre la pelle gli restituì sensazioni molto più appaganti: appoggiò la guancia a quella del giovane per poter sentire i suoi ansiti soffocati mentre le sue dita esploravano il corpo timido sotto di lui. I pettorali magri sussultarono e gli addominali si contrassero quando ne ripassò i contorni, e il bacino si alzò istintivamente contro di lui mentre lo attraversava per arrivare alle natiche del ragazzo.

Una mano tremante si insinuò nei bordi allargati della sua camicia, e si interruppe basita non appena venne a contatto con la sua pelle frastagliata.

«Non si esce illesi da una vita di scontri contro i demoni» sussurrò Gilbert.

Matthew toccò quel corpo sfregiato senza proferire verbo. Anche senza l’ausilio delle pupille, le dita furono più che sufficienti per fargli comprendere l’entità di quelle cicatrici: la pelle che lambiva era increspata così vistosamente che lo spirito di raggrinziva al pensiero di quali battaglie avessero portato quelle deturpazioni.

«Non è proprio… quel che si dice meraviglioso» screditò Gilbert, e il suo ghigno amareggiato scintillò pallido nelle tenebre.

Fu il turno dell’Hellsing per trasalire quando le labbra del giovane baciarono quelle cicatrici raggrinzite. Non si limitarono a sfiorarne una, ma percorsero tutta la ragnatela di sfregi tratteggiata sul petto dell’uomo da mille guerre consecutive.

Anche nell’oscurità, gli fu possibile capire quanto le gote del giovane fossero diventate rosse dal calore che emanavano.

Gilbert gli sollevò il mento per strappargli un altro bacio prima di farlo stendere sul materasso. Matthew contenne i primi gemiti premendosi le mani sulla bocca prima che l’Hellsing le sostituisse con le proprie labbra. Gilbert sentì le sue guance bagnarsi con le lacrime del compagno quando cominciò a spingere in lui, ma le braccia di Matthew si strinsero con forza sulla sua schiena quando cercò di allontanarsi.

Lo aveva abbracciato a quel modo, quasi avesse paura che sparisse, ogni volta che avevano condiviso l’intimità del letto insieme. Gilbert lo accarezzava sulla schiena, come per rincuorarlo con la sua presenza: era lì, era con lui, e non sarebbe fuggito.

Lo attendeva assieme a Ludwig quando partiva per le sue crociate contro i demoni, e lo rinfrancava la notte.

«Sei più agitato, ultimamente» notò una sera Gilbert, il suo amante steso su di lui, ancora sudato per l’amplesso.

Matthew aveva stretto i pugni contro il suo petto, rannicchiandosi su di lui. Una vocina flebile era risalita fino alle sue orecchie:

«Ti manca solo un demone. Cosa farai, dopo averlo ucciso?»

Gilbert rovesciò le loro posizioni per trovarsi sopra di lui nel dichiarare, sicuro di sé:

«Tornerò qui per vivere con te e Ludwig. Potremo piantare altri alberi, oltre al bulbo dietro la casa. Magari i prossimi che coltiveremo daranno anche frutti» aggiunse, acido, poiché il seme piantato mesi e mesi prima non aveva ancora fatto sbocciare nemmeno una foglia. «Potremo girare per la Galassia. Antonio potrebbe farci fare qualche viaggio sulla sua Aereonave, se glielo chiediamo, e quel perdigiorno di Francis non aspetta altro che l’occasione di fare festa…»

Il buio coprì le lacrime, ma non il suono strangolato del singhiozzo. Gilbert passò una mano sulla guancia del suo compagno e la ritirò bagnata.

«Anche io vorrei che tutte queste cose si realizzassero» Matthew si aggrappò a lui, più disperatamente di quanto non avesse fatto tutte le volte precedenti. «Ma non è più possibile, Gilbert.»

«Che intendi dire? Finché siamo vivi, è ovvio che è possibile…»

Un ricordo improvviso gli sbranò la memoria. E il suo cumulo di immagini felici ne fu carbonizzato.

«Non è più possibile…» ripeté Gilnbert, scostandosi da Matthew. «Perché tu sei morto, dieci anni fa.»

Il ragazzo accese la candela appoggiata sul comodino, e rischiarò il suo corpo nudo. La luce si incuneò crudelmente nel buco aperto sul suo polmone.

«Adesso ricordi, Gilbert?» la voce tremò come la luce della candela, e gli occhi fremettero a loro volta per le lacrime bloccate.

L’Hellsing portò una mano alla fronte, mentre i ricordi si accavallavano impietosi.

Quel giorno in cui era arrivato a casa e non aveva trovato Matthew, ed era corso a cercarlo, preda di un’inspiegabile agitazione.

E lo aveva trovato, ore e ore dopo, un corpo lordato di sangue abbandonato vicino a un fucile, il suo fucile, quello con cui aveva ucciso tanti diavoli.

Io sono l’ultimo demone rimasto.

Quel giorno un diavolo, per sfuggirti, si è incarnato nel corpo di un umano morente. Per questo non avevo ricordi del mio passato, ma sapevo esattamente chi eri. Possedevo solo i ricordi del demone.

Ma penso che nemmeno il diavolo avesse previsto che l’umano si sarebbe svegliato con una coscienza nuova, né che si sarebbe innamorato di te.

So che non controllerò questo demone per sempre: un giorno si disfarà di questo corpo e verrà a tormentarti. Già allo stato attuale delle cose, a volte faccio fatica a controllarlo. Non voglio che tu sia costretto a uccidermi, e non voglio correre il rischio di ucciderti io. Per questo vado per primo.

Incurante del sangue, Gilbert aveva sollevato quel cadavere da terra. La testa del ragazzo aveva ciondolato all’indietro, priva di forze e di vita, e gli occhiali, ancora malamente accomodati, erano caduti sul suolo duro di gelo.

Ma sappi comunque che non dimenticherò mai, nemmeno nella prossima vita, il tempo che abbiamo passato insieme. Matthew ha vissuto poco, ma è stato più felice di quanto tante persone non lo siano state durante una vita centenaria.

Per questo ti saluto con un sorriso, Gilbert.

L’Hellsing aveva scrollato quelle membra frigide, lo aveva chiamato, aveva pianto sul suo petto squarciato come se le sue lacrime potessero sanarlo. Lo aveva stretto finché la sua stessa camicia non era diventata rossa, finché il suo cuore non si era prosciugato.

Solo quando il dolore era deflagrato dentro di lui, polverizzandogli mente e spirito, Gilbert era riuscito a ruotare gli occhi spiritati verso il foglio che giaceva poco lontano, infilato sotto una pietra.

L’ultima lettera di Matthew terminava così:

Ti aspetterò nel Walhalla, il paradiso degli eroi di cui mi hai tanto parlato. Spero che mi faranno entrare, anche se non ho fatto nulla di particolarmente audace nella mia breve vita.

Ma è la mia unica speranza di incontrarti ancora.

Perché non importa quello che diranno gli altri, Gilbert.

Tu sei, e sarai per sempre…

«… il più grande eroe della Galassia.»

La frase conclusiva fu salata da una lacrima, che rotolò furtiva sulla guancia dell’Hellsing per poi infrangersi sulle sue labbra.

La tristezza avvelenò il sorriso sforzato del giovane, quando asserì:

«Hai ricordato.»

Gilbert non si mosse mentre la realtà intorno a loro assumeva gradualmente una consistenza nebbiosa fino a svanire nell’etere. Quasi non si accorse di essere sospeso nel bel mezzo del bianco assieme al giovane, entrambi vestiti come l’ultimo giorno in cui si erano visti.

«Sono morto anche io?»

Matthew scosse il capo, sistemandosi sul naso un paio di occhiali finalmente integri.

«Sei addormentato. Poco dopo la mia morte, sei stato catturato dalle forze di Britannia, e sei stato condannato alla Prigione Caina.»

Le sopracciglia argentate dell’uomo si incontrarono in un interrogativo.

«Ma so che a Caina i prigionieri sono tormentati dagli incubi…» protestò.

Il sorriso di Matthew si addolcì in una nuova luminosità, e il giovane spiegò:

«Non gli avrei permesso di farti questo. Non dopo l’inferno che ti hanno costretto a subire per tanti anni. Pare che il mio desiderio di aspettarti e di proteggerti mi abbia in qualche modo legato alla terra…»

«Non sei riuscito a raggiungere l’aldilà?»

Matthew cercò di addobbarsi il viso con l’espressione più rassicurante che conosceva, per placare lo sconforto che leggeva negli occhi dell’uomo.

«Non potevo lasciarti solo. Mi sono sostituito ai loro incubi fasulli, e ti ho fatto rivivere i nostri giorni insieme fino ad ora» il giovane mosse la mano come per scostare una tenda e, all’improvviso, un volto conosciuto apparve dal nulla.

«Antonio?» si sbigottì Gilbert.

«È venuto a salvarti. Insieme ad altre persone che avrai il piacere di conoscere non appena ti sveglierai» espose Matthew.

«E quando mi sveglierò?»

«Non appena lo desidererai per davvero. I tuoi poteri da Hellsing possono sconfiggere la stregoneria di Caina, con l’aiuto degli altri.»

Un silenzio denso come piombo colò tra di loro.

«Quando mi risveglierò, non potrò vederti mai più» il tono di Gilbert ricalcò quello dei Vaticani durante le funzioni funebri.

Matthew nascose le lacrime battendo le palpebre e confermò:

«Io non appartengo più a questo mondo. È tempo che vada nel posto che è stato preparato per me.»

Il giovane allargò le braccia e liberò le lacrime quando l’Hellsing lo strinse in un abbraccio poderoso.

«Non importa se non sarà il paradiso degli eroi» la voce di Gilbert risuonò dura come l’acciaio: era la sua ultima difesa contro il pianto. «In qualunque posto ti troverai, aspettami. Quando la mia vita avrà termine, ti raggiungerò.»

Le mani di Matthew si strinsero sulle sue spalle, mentre la fronte sfregava sulla sua divisa in un assenso disperato.

«Nel frattempo, non invaghirti di altri uomini. Anche se è impossibile che tu possa trovare qualcuno meraviglioso come me.»

Una risata gli solleticò il petto. La baldanza di Gilbert era un punto fermo come la Stella Polare per i marinai. E Matthew fu grato di avere un elemento fisso che gli ricordasse quella che era stata la sua casa.

L’Hellsing sentì il corpo del suo amante scomporsi tra le sue braccia, avvertì una corda legarsi al suo cuore e strattonarlo verso la terra. Sollevò velocemente il viso del suo compagno per unire le loro labbra un’ultima volta, prima dell’estremo saluto.

E in quel bacio entrambi rividero una tundra inospitale, un lago la cui acqua era così ghiacciata da essere quasi tagliente, e una casa in cui una strana famiglia aveva trascorso un tempo bizzarro e felice come il sogno di un ubriaco…

Ti aspetterò, Gilbert.

Ti aspetterò per sempre

 

***

 

Si risvegliò con le spalle ancora incastrate nel ghiaccio e una fortissima emanazione di calore di fronte a sé. I suoi capelli e i suoi vestiti erano incollati al viso e al corpo dalla cascata di ghiaccio sciolto che si era riversata su di lui.

Non sapeva a chi dovesse la sua parziale libertà, ma lo avrebbe ringraziato in seguito.

Strinse le mani un paio di volte a vuoto, prima di concentrare la sua energia in esse e fare forza per uscire da quel globo gelido.

Il ghiaccio intorno a lui scricchiolò e crepitò orribilmente, mentre il potere dell’Hellsing lo faceva a pezzi senza alcuna pietà.

Si scrollò le gocce artiche dagli occhi appena in tempo per valutare la distanza dal suolo, e ammortizzare con le ginocchia l’impatto con il pavimento.

Udì il proprio respiro grattare l’immobilità attonita calata tutto intorno. La cascata polare continuava imperterrita dai suoi capelli fradici. Gilbert fu grato a quei rivoli gelidi: le sue lacrime, anche se più salate, più calde e più sofferenti, si sarebbero ben amalgamante a quelle gocce indifferenti.

Scostò la frangia grondante dal viso, e i suoi occhi scarlatti si aprirono di nuovo sul mondo reale, dopo tanti anni di sopore.

Il ghigno che la Confederazione considerava maligno e che i suoi amici ritenevano semplicemente tipico di quell’uomo stravagante solcò le labbra dell’Hellsing, ancora violacee per il freddo.

La voce, raschiata dal gelo di quel luogo, risuonò comunque forte e chiara nell’annuncio di Gilbert:

«Ehilà, gentaglia. Il più grande eroe della Galassia è tornato.»


 

 

 

E bentornato, eroe della Galassia<3

Ho aggiornato con un giorno di ritardo ç_ç Chiedo scusa, ma alcuni impegni mi hanno impedito di aggiornare ieri .-.

Piccola comunicazione: causa Lucca Comics e laurea in spaventosa concomitanza, temo che dovrò saltare l’aggiornamento della settimana prossima, e posticipare quello della successiva al 13 novembre ç_ç

Vi chiedo scusa .-.

Per farmi perdonare, vi do un piccolo anticipo: nel prossimo capitolo… Spamano. Spamano senza pietà 8D

Al 13 novembre<3

Red

P.S. Come sempre, il banner è di Cla<3 Se riconoscete le immagini, avvisatemi e metterò i credits<3

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Capitolo 8
*** Belial ***




Capitolo Otto: Belial

 

Il messaggero sussultò da capo a piedi, il viso imperlato da vistose gocce di sudore.

Il signor Vargas gli lanciò uno sguardo che avrebbe ucciso perfino un drago.

«Cosa hai appena detto?»

L’ambasciatore passò la lingua secca sulle labbra disidratate e pronunciò nuovamente:

«La Prigione Caina necessita di ristrutturazione. Vi è un’enorme breccia aperta sul lato nord dell’edificio, come se un gigantesco fuoco l’avesse sciolta. E molti Golem sono stati uccisi…»

«Da chi? Chi può uccidere dei Golem in quel modo?»

«Abbiamo ragione di ritenere, signore…» la voce tremò assieme al cuore, mentre l’uomo comunicava l’ultima e peggiore notizia: «Che sia stato l’Hellsing. La sua cella è l’unica a essere stata aperta, e non abbiamo ancora trovato il suo corpo…»

«Chi ha liberato l’Hellsing?»

«C’era del sangue sul luogo, signore!» esacerbò il messaggero, impazzito di paura: «Lo abbiamo analizzato, e appartiene a vostro figlio!»

Avvertì l’aria spezzarsi come un ramo secco in autunno. Il signor Vargas lo fissò con occhi ribollenti e proferì, con voce di fuoco:

«La tua testa sarà su una picca, domani mattina.»

L’uomo tentò inutilmente di liberarsi dalla presa erculea delle guardie che si materializzarono alle sue spalle.

«Ho solo riferito un messaggio!» si discolpò, gridando mentre veniva trascinato fuori dalla stanza.

«Hai detto una bestemmia» sibilò il signor Vargas alle porte chiuse. «Quell’abominio non è mai stato mio figlio.»

Si lasciò cadere sullo scranno imbottito, congiungendo le dita a ponte davanti al volto.

Lovino era ancora vivo, e chiaramente invischiato in affari illegali. Sapeva che quel bambino non desiderato avrebbe portato solo sciagure. Ma era giunto il momento di porre fine alla sua esistenza blasfema.

Avrebbe chiamato l’Accordatore. Era il solo in grado di correggere Lovino, l’unica nota stonata nella sinfonia perfetta della Confederazione.

 

***

 

«Vorrei vedere di nuovo la mia casa.»

Era stata la prima cosa che Gilbert aveva chiesto, una volta che gli entusiasmi della truppa di Antonio si erano parzialmente placati: erano bucanieri, e il modo più diretto per dimostrare la loro gioia per il ritorno dell’Hellsing era brindare alla sua salute il più rumorosamente possibile.

«Mi accompagnerai?» aveva poi domandato, rivolto al suo vecchio compagno d’armi.

E Antonio aveva annuito, come sempre.

Così si erano ritrovati su quel pianeta brullo e inospitale, a fissare un orizzonte di nebbia e desolazione. Gilbet li aveva guidati fino alla sua casa, ma era entrato da solo, forzando il legno logorato da anni di incuria. Nessuno si era affacciato per sbirciare all’interno, rispettando l’intimità dell’Hellsing. In quel modo, solo Gilbert aveva contato quante lacrime si erano infrante sul pavimento mentre guardava il giaciglio di Ludwig con la paglia marcita, o mentre ricordava i momenti passati con Matthew su quel letto che ormai era un cadavere di molle arrugginite. Un denso strato di polvere copriva ogni cosa come un triste sipario, e Gilbert non era riuscito a scendere in cantina: non era sicuro che avrebbe tollerato l’assenza di due enormi occhi azzurri che lo fissavano e gli chiedevano cosa occorreva portare di sopra. Era salito invece per la piccola scala a pioli che portava alla soffitta. Le armi che aveva lasciato riposavano sotto una spessa coperta di polvere e sporcizia, e Gilbert sollevò un nuvolone irrespirabile quando soffiò su una di esse. Recuperò un fucile arrugginito e una sciabola bisognosa di affilatura, e lasciò i loro compagni di metallo a giacere nei detriti del passato.

Si affacciò di nuovo alla porta di casa con il volto e la divisa appannati dai sedimenti.

«Credo di aver bisogno di un bagno» notò, scrollandosi dai capelli un intero deserto di polvere.

«Potrai farlo nella Fortezza Errante» consigliò Yao.

L’Hellsing abbracciò con lo sguardo quel posto impervio, quasi volesse cullarlo.

«No, grazie. Non sono il tipo da rilassarsi in una vasca. Preferisco il mio lago» declinò l’invito, senza smettere di lambire la sua casa con gli occhi.

«Allora credo che vi precederemo nella Fortezza» annunciò l’Asean, afferrando Lovino a tradimento e conducendolo all’interno del palazzo prima che avesse il tempo di replicare.

Gilbert attese che il portellone della Fortezza Errante si fosse chiuso dietro di loro prima di asserire, dando una gomitata ad Antonio:

«Secondo te, quanto scompiglio abbiamo creato ai piani alti?»

«Con l’Hellsing in libertà e la Prigione Caina violata? Sarà venuto un infarto a tutti» decretò Antonio, baldanzoso.

«Scuotiamo le sottane di quei benpensanti come ai vecchi tempi!» esclamò Gilbert.

Poi, entrambi divennero seri. Il passato era un peso troppo grande da sopportare, anche per due paia di spalle robuste come le loro: avevano troppe tombe da portare sulla schiena.

«Come ai vecchi tempi…» ripeté Gilbert al lago che occhieggiava muto. «Ma questi non sono più i “vecchi tempi”.»

Antonio non replicò. Non vi era nulla da aggiungere a quella verità.

Gilbert tamburellò le dita sul calcio del fucile e sospirò:

«Ho dormito nove anni. Per un attimo ho sperato che, svegliandomi, avrei scoperto che era stato tutto un incubo.»

«Invece è la realtà.»

«Incredibile come quella meretrice riesca sempre a essere peggio delle peggiori fantasie, vero?» scherzò amaramente Gilbert, acredine e risentimento mescolati in una risata senza gioia. «Mi sono risvegliato in un mondo in cui la nostra battaglia con il Vaticano non è ancora finita. Pare che quel vampiro pasteggi sul sangue dei nostri compagni, per mantenersi così in forma nonostante la sua età secolare.»

L’Hellsing mosse qualche passo verso il retro della casa, e si chinò a scavare con le mani in un punto preciso. Dopo qualche secondo, sollevò il suo misero bottino: lo scheletro raggrinzito di un bulbo.

«Lo avevano piantato Ludwig e Matthew, per ridare un po’ di verde a questo posto» Gilbert lasciò le armi appoggiate alla parete, e si inginocchiò sulla riva del lago. Portò le mani a coppa sulla sua superficie gelida, in modo che le onde glaciali potessero bagnare quel seme rinsecchito.

«Non basta piantare i semi» salmodiò l’Hellsing, la voce appesantita dai ricordi del passato: davanti ai suoi occhi, continuava a vedere Ludwig e Matthew che lo salutavano festosi, mostrandogli il risultato del loro duro lavoro. Dovette pugnalarsi gli occhi con la realtà per scacciare quel frammento di passato: il bulbo che avevano piantato era morto, come il tempo che avevano passato insieme. «Non basta. Bisogna prendersene cura perché cresca davvero qualcosa» Gilbert allargò le mani: le onde si impadronirono gentilmente del bulbo, portandolo a riposare nelle loro profondità senza luce. «Per questo, se vogliamo cambiare la Confederazione, non possiamo aspettare che qualcuno lo faccia per noi» l’Hellsing si rialzò, afferrò la sciabola e la puntò verso l’amico: «E per questo il vostro gruppo ha appena guadagnato il più meraviglioso combattente di tutta la Galassia.»

«Per il momento, sei solo il più impolverato» lo smontò Antonio.

Un ghigno sardonico si allargò sul volto di Gilbert quando questo infierì:

«Non sono di certo un virgulto tenero come il tuo vice. Da quando ti piacciono i ragazzini pelle e ossa?»

L’Hellsing si godette l’espressione impagabile di Antonio e peggiorò, scuotendo la sciabola:

«Anche se ho dormito per tanto tempo, non mi sono svegliato rimbecillito. Ho visto come lo guardavi, ieri sera. E ho visto anche come lo tenevi stretto a te quando siamo usciti da Caina.»

«Lovino è un aiuto prezioso. È il gemello dell’Asse, e ha dei poteri forti quanto i suoi» razionalizzò Antonio.

Gilbert conficcò la scimitarra a terra, appoggiandosi sull’elsa come a un bastone.

«So che sei un capitano che si preoccupa dei suoi uomini, per quanto le dicerie di popolo possano dire il contrario. Ma non ti ho mai visto condividere la loro pena. Ed è giusto che un capitano non empatizzi con tutto il suo equipaggio, o impazzirebbe: soffrire per ognuno di loro è inconcepibile» l’Hellsing gli assegnò uno sguardo a metà tra lo speculativo e il derisorio:

«Come mai con lui non riesci a mantenerti neutrale?»

«Dovevi essere proprio a digiuno di pettegolezzi per metterti a fare la comare appena uscito dal ghiaccio» lo rimproverò Antonio.

«Nove anni di mutismo creano scompensi» concesse con eleganza beffarda Gilbert. «Ho anche notato come ti guardava lui.»

La replica si ritirò tempestivamente nella gola del capitano, improvvisamente curioso di conoscere il resto.

«Aveva un sacco di parole che gli ribollivano tra le labbra. Sembrava un vulcano sul punto di esplodere. Peccato che non gliene sia sfuggita nemmeno una.»

Gilbert calciò la scimitarra tenendola per l’elsa, in modo che si appoggiasse sulla sua spalla dopo aver disegnato un semicerchio nell’aria.

«Hai detto che è il gemello dell’Asse, quindi è un Vargas» constatò l’Hellsing.

«Lo era. Ha rimosso il loro stemma molto tempo fa. E, da allora, si fa chiamare solo Lovino» spiegò Antonio.

La sciabola picchiettò pigramente la spalla dell’Hellsing prima che questo decretasse:

«Belial» e aggiunse, per sciogliere il quesito sul viso di Antonio: «È il nome di un diavolo di cui mi ricordo in modo particolare. Con i demoni era sempre una lotta in mischia; con lui, invece, ho quasi duellato. Ha atteso che i suoi simili fossero stati uccisi, e solo dopo è sceso sul campo di battaglia. Abbiamo lottato per un’intera notte e non ha chiuso gli occhi, quando l’ho infilzato la mattina seguente. La sua testardaggine mi ricorda quella del tuo amato vice.»

Antonio sorvolò sulla frecciatina finale e commentò:

«Belial. Suona bene. Credo che gli piacerà.»

«Ne sono certo» Gilbert soffocò le lacrime nella sua voce, mentre le immagini di un ragazzo senza ricordi e di un bambino che non cresceva emergevano nel suo cuore. «Sono molto bravo nel dare i nomi alla gente.»

Antonio restò in silenzio, non osando introdursi nel dolore che aveva improvvisamente incupito i lineamenti dell’amico.

«Sei sicuro che sia stata una buona idea venire qui?» si preoccupò, quando il mutismo del collega si fece insostenibile.

Gilbert chinò la testa, una luce mesta negli occhi rossi.

«Ogni sterminatore lo sa: devi affrontare il diavolo più grande, per non aver più paura dei demoni» gettò il suo sguardo oltre il lago, fino ai rimasugli di bosco in cui aveva seppellito il corpo senza vita di Matthew. «Allo stesso modo, se vuoi superare un lutto non lo devi scansare: devi immergerti dentro di esso fino a quando non ti sembra che la tua sanità mentale stia per sbriciolarsi. Solo dopo puoi tornare in superficie» Gilbert permise al sole di ferirgli le pupille mentre concludeva: «Solo dopo averlo conosciuto fino in fondo puoi lasciartelo alle spalle.»

«Sei voluto venire qui per soffrire fino al punto estremo?» domandò Antonio.

«Sarebbe un bel problema se mi facessi prendere dallo sconforto nel bel mezzo di una battaglia, non credi?» controbatté pratico Gilbert. Inspirò a fondo l’aria gelida di quel luogo, sentendola conficcarsi come una tempesta di aghi di ghiaccio nei suoi polmoni. «Oggi terminerò quello che non sono riuscito a concludere nove anni fa. E poi dirò addio a questo posto.»

L’indice dell’Hellsing andò a puntare gli alberi striminziti oltre il lago.

«Devo andare là» annunciò. «Poi tornerò indietro, mi farò il bagno e ce ne andremo da questo posto. E cominceremo di nuovo la nostra guerra.»

«Sarò qui, se avrai bisogno di me» lo rincuorò Antonio, guadagnandosi un sorriso grato.

«So che ci sarai.»

L’Hellsing gli diede le spalle, e assunse la posa più pomposa che riuscì a inventarsi per coprire l’incertezza della sua voce:

«Ludwig… mi chiedo dove sia.»

Fu come se i raggi del sole avessero veicolato fino a lui il disagio nell’animo del compare: nonostante fosse rigido nella sua postura da grande uomo, percepì sulla propria pelle il suo timore. E si sentì in dovere di alleviarlo:

«Lo hai istruito bene. Sicuramente, avrà trovato un modo per sopravvivere. Possiamo chiedere al Figlio del Cielo di localizzarlo.»

Gilbert rovesciò il viso verso l’alto, nella speranza che il sole di ghiaccio bruciasse le sue incertezze. Chissà come era cambiato Ludwig, durante quei nove anni. Era cresciuto, almeno un poco, o era rimasto il bambino goffo dei suoi ricordi? Lo aveva odiato per averlo lasciato solo, o aveva pensato a lui con l’affetto che gli aveva sempre dimostrato?

Gilbert inghiottì una boccata di aria invernale: era inutile e dannoso arrostire in domande che non potevano trovare una risposta, almeno finché non si fosse ricongiunto con il fratello. Scacciò quegli interrogativi con un’altra domanda, che pose al capitano:

«E tu, Antonio? Sei riuscito a tornare a casa?»

«Mai.»

«E non desideri tornare?»

«Sempre.»

Gilbert si voltò e vide un’ombra scura protendersi sul viso contratto del suo amico. Le vecchie ferite non guarivano mai: lasciavano sempre una cicatrice dietro di sé.

«Un giorno riuscirai a fare ritorno.»

«Ma quel giorno non è oggi» Antonio rialzò verso di lui un viso inamidato da un ottimismo forzato: «Oggi tocca a te esorcizzare i tuoi fantasmi.»

«Esorcizzare?» sogghignò sarcastico Gilbert, avviandosi per la sua strada. «Per una cosa del genere, servirebbe quel beone di Francis…»

Antonio osservò l’amico sparire nella sparuta boscaglia, e ripensò a quanto appena detto.

Sarebbe tornato sul suo pianeta, un giorno. Avrebbe parlato a Lovino del suo passato, un giorno.

E tremava all’idea che quel giorno sarebbe arrivato davvero.

«Madre de Dios» si rinfacciò, critico. «Questo capitano è vergognosamente debole.»

 

***

 

Aveva accettato volentieri la proposta del Figlio del Cielo di fare un bagno: sulla nave di Antonio, le possibilità di avere acqua calda erano minime, e di vedere una vasca praticamente nulle.

Ma non aveva capito che l’Asean intendeva immergersi insieme a lui.

Si spogliò con rapidità quasi militaresca e si tuffò nella vasca il prima possibile, ringraziando l’acqua scura che celava le sue nudità.

Yao, al contrario, non provò il minimo imbarazzo nello spogliarsi e nell’entrare assieme a lui. Lovino ricordava che, durante una lezione di storia e società, il maestro aveva detto qualcosa riguardo al fatto che nel Sistema Asean era piuttosto comune farsi il bagno tutti insieme, e che esistevano addirittura bagni pubblici in cui la gente di un’intera città poteva ristorarsi in contemporanea.

Trascorse qualche secondo di imbarazzo totale prima che Lovino trovasse la forza di alzare lo sguardo sull’orientale.

Non aveva mai visto un uomo come lui nella ciurma di Antonio. I bucanieri, di solito, erano uomini cui lo scorbuto aveva annerito qualche dente, e che la dura vita sulla nave aveva forgiato in fasci di muscoli e nervi d’acciaio. Lui e Antonio erano tra le poche persone, all’interno dell’equipaggio, a possedere fisici più gentili.

Tuttavia, nessun uomo visto fino a quel momento aveva la benché minima caratteristica in comune con l’Asean. Il profilo del viso e i lineamenti del corpo erano chiaramente maschili, ma possedevano una delicatezza che li rendeva quasi fluenti, come se scivolassero nello spazio anziché occuparlo. La pelle stessa sembrava liscia al pari della seta che indossava di solito, e non riusciva a scorgere nemmeno la più piccola ombra di un pelo. C’erano poi gli occhi, di quella forma così stravagante, e i capelli, lunghi e lucidi come non li aveva mai visti su di un uomo.

Non possedeva una bellezza scultorea e perfetta, ma un carisma sconosciuto permeava la sua figura aristocratica. Si chiedeva se fossero i suoi poteri ancestrali a conferirgli quell’aura di irraggiungibilità o se semplicemente l’orientale fosse nato con il dono di affascinare le persone.

Yao si voltò nella sua direzione, e Lovino distolse frettolosamente lo sguardo.

«Non avevi mai visto un’orientale, prima?» s’informò garbato l’Asean.

«Non sono mai uscito dalla Villa Topazio» liquidò Lovino, nuotando un po’ più lontano nella vasca.

Yao inclinò la testa, e i capelli tracciarono un disegno ondulato sulla superficie dell’acqua.

«Nemmeno io avevo mai visto un uomo nudo, prima di Ivan» rivelò placido l’Asean.

Lovino quasi annegò per la sorpresa. Sputacchiò acqua e incredulità, domandandosi come fosse possibile che un uomo aggraziato come Yao potesse trovare attraente un gigante malvagio come Ivan.

«La notizia di stupisce così tanto?» l’Asean stese la schiena nell’acqua tiepida, perfettamente a proprio agio.

Lovino faticò a racimolare le parole nella sua gola traumatizzata.

«Pensavo che voi foste… alleati.»

Yao percorse con le dita tutta la lunghezza dei suoi capelli prima di proferire:

«Siamo alleati, ma prima di tutto siamo amanti» l’Asean si divertì a vedere l’imbarazzo fiorire sulle guance del giovane. «Pensi che Ivan non sia capace di provare sentimenti?»

Il ragazzo si strinse nelle spalle, pensando che fosse troppo crudele confermare brutalmente.

L’Asean reclinò la testa in modo che l’acqua calda potesse accarezzargli la nuca. Ivan era come un forziere nascosto nel ghiaccio: occorreva sciogliere la coltre gelida per poter finalmente scoprire quanto fosse meraviglioso il tesoro lì nascosto.

Nascose il suo sorriso nell’acqua. Quel lato di Ivan non gli dispiaceva: in quel modo, solo lui sapeva cosa l’uomo serbasse nel suo Cuore d’Inverno.

«Cerchiamo di goderci il tempo che abbiamo insieme» disse invece Yao, riaffiorando dall’acqua con il viso. «Questi giorni non dureranno per sempre.»

Lasciò che una domanda inespressa circolasse per la mente di Lovino per qualche secondo prima di spiegare:

«Io sono il Figlio del Cielo, lui è il Custode dei Cancelli. Se riuscirò a tornare sul mio trono, il mio ruolo mi impedirà di vederlo ancora. E, se non riuscissi a riottenere il mio posto… sarebbe solo perché sarei morto prima in battaglia» Yao portò le mani a coppa sulla fronte, e riversò sul viso la piccola cascata contenuta nei palmi. «Per noi che nuotiamo contro la corrente della Confederazione, il futuro ha solo due vie di uscita: il successo, o la morte. E, in ogni caso, dovrei separarmi da Ivan.»

Le spalle del giovane si incurvarono, e all’Asean bastò quel movimento per intuire i pensieri del giovane.

«Non ci avevi ancora pensato, vero?»

Lovino scosse il capo, gli occhi sbarrati a cercare di afferrare le immagini di un futuro che non riusciva a figurarsi: era inconcepibile l’idea di morire durante una missione, ma non sapeva nemmeno cosa aspettarsi in caso di successo. Passò un po’ di acqua calda sulle spalle quando queste rabbrividirono, ricordando le orride sensazioni provate a Caina: la testa che si apriva e il sangue che colava, le forze che svanivano e il buio che incombeva… non aveva intenzione di lasciare il mondo in un modo così orribile. E se si fosse ricongiunto al fratello, cosa sarebbe successo? Sarebbero fuggiti dal Palazzo e dalle Ville Vaticane. Ma Antonio sarebbe stato disposto ad accoglierli entrambi nella sua ciurma?

«Cosa hai intenzione di fare, riguardo al capitano?»

La domanda dell’orientale si conficcò come una freccia nel suo collo, facendolo trasalire.

«Cosa?» Lovino si appiattì contro una parete della vasca quasi volesse sfuggire agli occhi indagatori del Figlio del Cielo.

«Nella Prigione Caina, non si è comportato come un capitano si comporterebbe con un suo subalterno» esemplificò Yao. «Pareva piuttosto un uomo che proteggeva il suo amante.»

«Io e lui non abbiamo quel tipo di rapporto» sbottò Lovino, arrampicandosi sulla vasca per uscire. La successiva annotazione dell’Asean gli fece scivolare la mano per la sorpresa:

«Perché no? È così palese che siete innamorati. Per quale motivo sprecate del tempo prezioso?»

«Mi strozzerei con le mie stesse mani piuttosto che innamorarmi di quel…»

«Ti ha mai fatto del male?»

La domanda di Yao interruppe il flusso della sua invettiva, lasciandolo spiazzato.

«Non ti ha mai fatto del male. Altrimenti avresti risposto subito» si compiacque raffinatamente l’Asean. «Ma ti ha protetto. Ha sacrificato una caviglia per te, e ha affrontato i Golem pur di difenderti. E questo solo negli ultimi due giorni.»

«Non è niente di eccezionale.»

«Non dovresti essere così testardo. L’ostinazione fa guardare in una sola direzione, perdendo i frutti che crescono ai lati della strada.»

Lovino passò una mano nei capelli fradici come un animale selvatico.

«Una persona mi ha detto la stessa cosa, in passato.»

Yao attese che il giovane fosse uscito dalla vasca e si fosse avvolto nell’asciugamano prima di richiamarlo. Si assicurò di avere la sua completa attenzione prima di passarsi un dito sulle labbra con dissimulata lascivia e sussurrare:

«Baciare ed essere baciati dalla persona di cui si è innamorati è molto piacevole, lo sai?»

Lovino si affrettò a uscire, le orecchie infuocate.

Al contrario, Yao incrociò le braccia sul bordo della vasca e vi appoggiò la guancia, in attesa che i passi a lui familiari facessero tremare il pavimento. Dovette attendere solo qualche secondo prima che quel suono si fermasse sulla soglia del bagno.

Il Figlio del Cielo sollevò i suoi occhi scuri sull’uomo che lo attendeva sulla porta, avvolto nel cappotto e nascosto dalla sciarpa.

Yao risalì il bordo lentamente e afferrò la vestaglia con calma. Come aveva previsto, due mani guantate si appoggiarono sulle sue, impedendogli di rivestirsi.

«Non fare più il bagno insieme ad altre persone» lo redarguì. Le braccia si strinsero sulla sua vita sottile, e alcune gocce si lanciarono dai suoi capelli per finire sul pesante cappotto.

L’Asean accarezzò quei muscoli d’acciaio che lo stringevano. Ivan non tollerava l’acqua calda: il Cuore d’Inverno sembrava impazzire, a contatto con il calore. L’unico tepore che riusciva a sopportare era quello emanato dal Figlio del Cielo.

«Non preoccuparti» lo tranquillizzò Yao, voltandosi nel suo abbraccio per poterlo vedere in viso. «È innamorato del capitano. Ed era talmente imbarazzato che non è riuscito nemmeno a sollevare lo sguardo.»

Ivan lo strinse ulteriormente, e sentenziò:

«Non voglio che gli altri ti vedano.»

Yao si arrampicò su di lui per potergli abbassare la sciarpa e baciarlo. C’erano momenti in cui Ivan pareva non comprendere le parole degli altri, e aveva bisogno di altre vie per essere rassicurato, come un bambino che chiede costantemente una prova tangibile dell’affetto altrui.

Si sentì sollevare dalle braccia dell’uomo, e la porta dentata a lato del bagno si aprì. Non si sorprese nel sentire il materasso dare ospitalità alla sua schiena, e il corpo dell’uomo coprire il suo.

Dischiuse le braccia e le gambe per accogliere il suo amante.

Anche quello era del tempo prezioso che non doveva essere sprecato.

 

***

 

Era ombroso come la via di cipressi prima del cimitero di Villa Topazio.

Qualunque possibile invettiva si rintanò nel punto più lontano della sua gola quando i suoi occhi scorsero Antonio.

Stava appoggiato alla balaustra semovente della Fortezza, lo sguardo perso su un minuscolo punto che pian piano si rimpiccioliva nel cosmo. La serietà degli occhi aveva raddrizzato le labbra in una riga rigida, e le spalle erano tese a contenere le emozioni che si agitavano nel petto del capitano.

«Non sapevo foste già tornati» si annunciò Lovino, entrando sul balcone.

Antonio non riuscì a ricomporre totalmente una maschera di affabile disinteresse; il suo camuffamento presentava qualche crepa, da cui strisciava fuori la tristezza inscritta nelle iridi.

«Siamo arrivati qualche minuto fa. Gilbert doveva trovare una persona.»

«E questa persona sta bene?»

«Auspicalmente sì.»

Antonio gli lanciò un’occhiata vagamente sorpresa quando Lovino si accostò a lui, appoggiandosi alla balaustra. Riportò gli occhi sul pianeta, ormai uno spillo di luce in lontananza.

«Gilbert ha scelto un cognome per te. Belial» annunciò. «È il nome di un demone particolarmente tenace con cui ha combattuto una volta.»

«Belial» annuì Lovino. «Suona meglio di Vargas.»

Antonio si piegò sulle sue stesse braccia, per osservare il giovane da un’angolatura insolita.

«Lovino, cosa c’è che non va?»

«Te lo dico solo se tu prima mi dirai perché sei così depresso» contrattò spicciolo il ragazzo.

Se fu stupito dal suo improvviso slancio, Antonio non lo diede a vedere; raddrizzò la schiena, appoggiò i gomiti alla balaustra e raccontò:

«Rivedere Gilbert e il suo pianeta dopo tanto tempo… mi ha fatto pensare a molte cose» Antonio passò una mano tra i capelli, disfacendo il codino. Le ciocche ondulate ricaddero scomposte sul viso abbronzato. «E mi sono chiesto: quando tutto questo sarà finito, cosa succederà? Gilbert, ad esempio… non ha più un posto cui tornare. Il suo pianeta, che si è sforzato tanto di liberare dai demoni, ormai è un sepolcro freddo. Non c’è più nessuno ad aspettarlo, se non brutti ricordi.»

Il capitano ristette un secondo, reimpostando la voce per assicurarsi che non tremasse.

«Mi sono chiesto se anche io accumulerò ricordi così spiacevoli da non permettermi di risalire sulla Reina de la Oscuridad

«Consideri la nave la tua casa?» si lasciò sfuggire Lovino. Un’espressione dolorosa come una pugnalata al fianco trapassò il viso di Antonio, che fu costretto a reimpostare la voce per farle assumere un tono normale:

«La mia vera casa è un inferno, Lovino. Se mai ci tornerò, sarà solo per tagliare i ponti con il passato» alzò il viso verso il cielo, quasi cercasse una brezza che potesse spazzare via quella tristezza dal suo volto. «Così non avrò più catene.»

Sorrise amaro, mentre chinava la testa, gli occhi dardeggianti attraverso le ciocche ondulate:

«Ci vuole una grande forza per sopportare questa immensa libertà, vero, Lovino?»

Il giovane non rispose subito: il suo cuore aveva bisogno di tempo per intrecciare i fili dell’arazzo sempre più complicato che stava diventando la loro vita. Lui e il capitano erano mostruosamente simili: nessuno di loro poteva tornare a casa, e lo avrebbero fatto solo per ghigliottinare i loro ultimi legami. E nessuno di loro sapeva cosa aspettarsi dal futuro, ma entrambi lo temevano: temevano che il domani potesse portargli via anche le briciole cui si stavano aggrappando per sopravvivere.

Lovino voltò la testa, quasi a discolparsi dei movimenti della sua mano, che scivolò ad appoggiarsi sul braccio dell’uomo.

«Il Figlio del Cielo mi ha chiesto cosa conto di fare in futuro, quando tutto sarà finito. E mi sono accorto che non ne ho la più pallida idea.»

Antonio fissò quella mano imbarazzata, arpionata al suo braccio, e un sorrisetto divertito solcò le sue labbra.

«E vuoi che io sia il tuo punto fermo?» insinuò, mellifluo.

«Non inventarti cose che non ho detto!» scalciò Lovino, ma Antonio gli impedì di ritrarre la mano imprigionandola tra le proprie dita.

«Voltati» lo invitò dolcemente.

«Non voglio!» Lovino quasi si slogò l’articolazione della spalla per evitare di fissare l’uomo in viso.

Antonio lo chiamò un altro paio di volte, prima di optare per un metodo più diretto.

Lo trascinò a sé tirandolo per il braccio, incurante delle sue proteste fasulle, e, non appena fu abbastanza vicino, lo costrinse ad alzare il volto afferrandogli il mento con le dita.

Lo spettacolo offerto dalle guance in fiamme di Lovino andava oltre ogni sua previsione, e il capitano rimase senza parole per qualche istante. Una lacrima di umiliazione spuntò all’angolo dell’occhio del giovane, e i suoi denti stridettero in un ringhio:

«È colpa del Figlio del Cielo. Ha continuato a dire cose strane per tutto il tempo.»

«Che tipo di cose strane?» investigò gentile Antonio.

Le gote del giovane quasi esplosero, ricordando l’ultima frecciatina di Yao riguardo ai baci.

«Sei troppo protettivo nei miei confronti!» deflagrò Lovino.

Il giovane approfittò dello spiazzamento del capitano per sottrarre il mento alla sua presa e ricominciare a guardare in basso.

«Non è normale che un capitano si preoccupi così tanto per un suo sottoposto» rimbrottò.

«È quello che dice il Figlio del Cielo o è quello che pensi tu?»

«Me l’ha detto il Figlio del Cielo, ma, effettivamente, ha ragione!» proruppe Lovino. «Non hai mai protetto gli altri marinai nel modo in cui proteggi me!»

«Perché non penso a loro nel modo in cui penso a te.»

La presa del capitano sul suo polso divenne quasi rovente, così come il suo sguardo. Il giovane cercò di sottrarsi a entrambi, senza successo.

«Ieri, nella Prigione Caina, sei quasi morto» gli ricordò il capitano, con un tono greve come il piombo. «Mentre ero sul pianeta di Gilbert ho pensato a quanto debba soffrire, non potendo più vedere la persona di cui era innamorato. E, subito dopo, ho pensato a quanto sarei stato stupido io, se avessi sprecato altro tempo.»

«Anche il Figlio del Ciel ha parlato di tempo sprecato…» barbugliò Lovino, completamente confuso dall’atteggiamento del capitano.

«Il Figlio del Cielo è davvero saggio come dicono» le sue labbra si piegarono in un ghigno furfante, prima di appiattirsi di nuovo nella serietà: «Lovino, non voglio più che il tempo passi mentre io sto a osservare le occasioni che sfumano. Voglio viverle insieme a te.»

Lovino sentì i muscoli diventare nebbia. Aveva intuito dove il ragionamento del capitano sarebbe terminato, ma non credeva che avrebbe davvero avuto il coraggio di confessarsi.

«Che razza di discorsi sono… nel bel mezzo di una guerra» si risentì, ma Antonio replicò all’istante:

«Proprio perché siamo nel bel mezzo di una guerra. Non sono certo nemmeno del mio prossimo respiro, Lovino, ma so che voglio esalare insieme a te tutti i respiri che il Cielo ha calcolato per me.»

Il giovane non staccò gli occhi dal pavimento, controbattendo:

«Non è strano che tu preferisca un uomo a una donna?»

Antonio non rispose con le parole: lo avvolse con le sue braccia, comunicandogli la solidità della sua scelta con la stretta attorno alla sua vita.

«Se non vuoi, Lovino, respingimi ora» lo consigliò Antonio. Lovino si ritrasse, sentendo il respiro dell’uomo solleticargli l’orecchio, e si ostinò a fissare in basso mentre masticava:

«Non credo di odiarti.»

«Quindi?» lo incalzò dolcemente Antonio. Il giovane restò muto, e il capitano lo soccorse: «Non sei sicuro dei tuoi sentimenti verso di me?»

Lovino fece un cenno vago con la testa. La mano dell’uomo gli accarezzò il collo, prima di adagiarsi sulla mascella e guidarlo verso l’alto. L’imbarazzo aveva dipinto sul volto di Lovino un bel colore purpureo, e Antonio concluse il discorso su quelle gote rosse:

«Mi farò bastare il dubbio, per ora.»

Il giovane rimase completamente paralizzato dalla successiva azione del capitano; le parole dell’Asean gli rimbombarono nelle orecchie assieme al sangue mentre il viso dell’uomo si avvicinava tanto da permettergli di vedere il proprio riflesso irrigidito nelle iridi di Antonio.

«Devi chiudere gli occhi» il mormorio dell’uomo si riverberò sul suo viso, e le membra di Lovino divennero ancora più simili a sassi per il timore imbarazzato.

Antonio avrebbe voluto essere un gentiluomo e lasciarlo andare: Lovino aveva appena realizzato di provare qualcosa per lui, ed era chiaramente confuso e spaventato sia dai suoi sentimenti sia da quello che potevano implicare. Ma aveva aspettato per un tempo incalcolabile il giorno in cui finalmente il giovane avrebbe accettato, anche se solo parzialmente, le sue attenzioni. E poi, lui non era un gentiluomo: era un pirata, la Mano Destra del Diavolo.

Lovino non comprese subito il motivo per cui il mondo divenne buio all’improvviso: Antonio gli coprì gli occhi con la propria mano, prima di premere le labbra sulle sue.

Il corpo del ragazzo guizzò e si intirizzì a quel contatto, le dita che affondavano nelle sue spalle in un misto di stupore e rifiuto. Antonio spostò con garbo la mano solo quando sentì il fisico di Lovino rilassarsi impercettibilmente tra le sue braccia. Le ciglia del giovane fremettero sullo zigomo del capitano, e le sue labbra mugolarono un verso di disapprovazione quando la sua schiena sbatté contro il parapetto.

Antonio infilò le dita tra i capelli di Lovino, irrequieti come il loro padrone, premendo il suo viso con ulteriore forza mentre dischiudeva la sua bocca. Il ragazzo trasalì quando la lingua del compagno si fece strada tra le sue labbra: la sensazione di un corpo estraneo che si muoveva nella sua bocca fu così strana che tentò immediatamente di fuggire, ma fu bloccato dalla balaustra che pressava sulla sua schiena e dalle mani dell’uomo che imprigionavano il suo viso.

Inghiottì a stento la saliva, sforzandosi di adattarsi a quello strano ritmo dettato da un’altra persona. Il tocco di Antonio era gentile, per quanto energico, e Lovino cercò di rispondere a quei movimenti sconosciuti. Il capitano lo strinse con ulteriore passione quando sentì le mani del compagno aggrapparsi alle sue spalle per trattenerlo, e non per respingerlo, e quando la lingua del giovane rispose ai suoi stimoli, tremolando goffamente.

La manica di Lovino fu strofinata senza alcun riguardo sulla saliva appiccicata alle sue labbra.

«Mi hai quasi soffocato» lo rimproverò il ragazzo.

«Perdonami» soffiò Antonio sulla sua chioma ramata.

Il suo stomaco dovette incassare un pugno prima che le orecchie potessero deliziarsi del bubbolio del giovane:

«La prossima volta cerca di essere più delicato, idiota!»

Antonio si chinò su di lui, le mani a circondargli il viso e un ghigno inequivocabile a incurvargli le labbra.

«Sarò più delicato, allora» patteggiò, abbassandosi su di lui. Ma fu preceduto dal giovane che lo avvertì:

«Sarà meglio che tu lo sia davvero, bastardo!» prima di schiantare le sue labbra su quelle del capitano, in quello che fu più simile a uno scontro di denti che a un bacio.

Antonio abbracciò quel corpo magro allungato su di lui, e viziò con calma la bocca del compagno, che diventava più rossa e calda a ogni nuovo bacio. E Lovino pensò che, forse, il Figlio del Cielo dava davvero dei buoni consigli.

 

***

 

Gilbert si allontanò dal balcone con un sorriso contento e un aculeo nel cuore.

Era felice che finalmente Antonio avesse trovato qualcuno disposto a stare al suo fianco, ma non poteva fare a meno di pensare a quel rettangolo di terra brulla sul suo pianeta.

Aveva parlato a lungo con quei sassi pigiati insieme per dare una sepoltura a Matthew: aveva riversato su di loro tutta la sua rabbia, tutto il suo dolore e tutte le sue lacrime. Nessuno lo aveva visto, nessuno avrebbe mai saputo quante cose disgustose fossero sgorgate dalle sue labbra e dai suoi occhi; Antonio avrebbe immaginato, ma non ne avrebbe fatto parola.

Sfregò la spilla a forma di corvo, rimuovendo un’invisibile macchia. Avrebbe voluto vedere Matthew una volta ancora, prima di raggiungerlo nel regno dell’aldilà.

«Siete inquieto, Hellsing?»

Anche se improvvisa, la voce dell’Asean si srotolò come seta nel corridoio semibuio; per questo Gilbert non sobbalzò nell’udirla.

L’orientale era avvolto in una veste da camera di foggia orientale, la spalla sinistra e il petto impreziositi dai capelli lucidi, lasciati liberi da qualunque laccio. La luce che trapelava dal tessuto ricamato e gli occhi pregni di secoli di storia conferivano all’uomo un magnetismo non comune. Gilbert dovette ammettere che la diceria secondo cui al passaggio del Figlio del Cielo perfino le montagne si sarebbero inchinate gli sembrò vagamente verosimile.

«Sono stato rinchiuso nel ghiaccio per nove anni. Ho bisogno di sgranchirmi un po’ le ossa. E suggerisco di evitare quella balconata» aggiunse, indicando alle sue spalle.

Yao non ebbe reazioni visibili, se non un angolo della bocca sollevato a esprimere la sua approvazione. Le sue parole non erano state usate invano, dopotutto.

«Vi stavo cercando per chiedervi un parere» rivelò l’Asean.

Gilbert incrociò le braccia al petto, pronto a ricevere la richiesta dell’uomo.

«Antonio è venuto a salvarmi per amicizia, Lovino perché vuole che lo aiuti a entrare nel Palazzo di Quarzo. Mi stavo appunto chiedendo cosa avesse spinto il Figlio del Cielo e il Custode dei Cancelli a scendere fino alla Prigione Caina.»

«Ivan ha assecondato un mio desiderio» spiegò Yao. «Mentre io ho una motivazione personale.»

Gilbert gli fece cenno di andare avanti, e l’Asean proferì, con tono e sguardo fermi:

«Siete in grado di sradicare un demone da una persona?»

L’Hellsing vide per un attimo il mondo perdere nitidezza, mentre le immagini del passato si rovesciavano a cascata su di lui: gli occhiali rotti, l’ultima lettera, il bagno al lago, il corpo insanguinato, le sere passate insieme e quel rettangolo di terra pressata.

«Perché me lo chiedete?» domandò.

Una vena di malinconia attraversò il corpo dell’orientale quando espresse i suoi intenti:

«Una persona che ho cresciuto come un figlio è stata posseduta da un demone. Voglio sapere se esiste un modo per separarli e riavere indietro il giovane che conoscevo. In caso contrario, porrò fine alla sua vita con le mie stesse mani.»

 

 

 

 

 

Perdonate il ritardo ç_ç

Avevo detto che avrei aggiornato il 13, poi, a causa di alcuni inconvenienti, sono riuscita ad aggiornare solo oggi .-.

Comunque… ecco a voi un po’ di Spamano, dopo un’attesa lunga otto capitoli 8D Proseguirà nel prossimo capitolo, ovviamente 8D Ormai che hanno preso il ritmo… <3

E per i sostenitori di Arthur in ascolto: il burbero inglese farà la sua apparizione nel capitolo dieci, attualmente in fase di scrittura<3

Il capitolo nove uscirà lunedì<3

Grazie per la vostra pazienza e la vostra costanza<3

A presto!

Red

P.S. Il banner, come sempre, è opera di Clau-tan ^^ Se qualcuno di voi dovesse riconoscere le immagini utilizzate, mi avvisi e procederò a mettere i credits<3

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Capitolo 9
*** Il Confine del Mondo ***


Capitolo Nove: il Confine del Mondo

 

La canna del fucile annaspò in un attacco di tosse pieno di polvere e di ruggine, prima di spirare con un crepitio patetico.

L’espressione di Gilbert rimase orgogliosamente statuaria, mentre si appoggiava il rottame alla spalla.

«Credo che sia meglio fargli dare una revisionata» sentenziò, un angolo della bocca che tremava per l’umiliazione. «Nove anni di inedie non sono pochi…»

«Hai intenzione di andare dai Gunsmith?» s’informò Antonio, quasi glorioso dietro la sua scrivania. Da quando erano tornati su la Reina de la Oscuridad, una nuova pace era discesa su tutti loro. Ivan e Yao li avevano trattati con riguardo durante la loro permanenza nella Fortezza Errante, ma respirare di nuovo il legno e la salsedine dell’Aereonave li aveva fatti rinascere, come una crisalide che emerge dal bozzolo: si erano liberati del guscio di ansia e sangue di quei giorni, finalmente liberi di tornare ai loro soliti ruoli.

Lovino si sistemò inquieto sul ripiano della scrivania. Avrebbe voluto godersi appieno quei momenti, ma erano troppo effimeri per caricarli con le sue speranze. Procedeva guardingo come chi si siede a un banchetto sapendo che c’è un piatto guasto: riusciva comunque a godere il sapore delle pietanze, ma era sempre in allarme per la minaccia del boccone infetto.

«Chi meglio di loro?» enfatizzò Gilbert, apparentemente incosciente dell’irrequietezza di Lovino. «Hanno sistemato tutto il mio equipaggiamento. E poi, sono in debito con me.»

«In debito? Per cosa?»

«Questo è un segreto» replicò Gilbert, con uno sguardo malizioso spolverato di cattiveria amichevole.

Antonio preferì stendere la mappa sul piano della scrivania, ignorando il collega.

«I Gunsmith si trovano qui, tra Siberia e Britannia» notificò, puntando il dito su un punto viola nella mappa. «Possiamo accompagnarti, ma non possiamo scortarti fino al pianeta.»

«Non c’è problema» Gilbert accarezzò la spilla sul petto, tronfio. «Gilbird non vede l’ora di sgranchirsi un po’ le ali.»

«Te lo sconsiglio» lo freddò Antonio. «La Confederazione è in allerta per la tua fuga. E una tua traversata su Gilbird sarebbe un tantino… appariscente.»

L’Hellsing si dondolò sulla sedia di frassino, incrociando i piedi sul bordo della scrivania.

«In altre parole, firmerei il mio biglietto di ritorno per Caina» sintetizzò.

«Potresti firmare il tuo biglietto per il patibolo. Sei evaso una volta. Se ti catturassero di nuovo, potrebbero decidere di essere più drastici» recise Antonio.

Gilbert incrociò le braccia al petto e strinse la testa nelle spalle. Quando l’ombra scura del comando scendeva sul viso di Antonio, nessuna ribellione sarebbe stata tollerata, nemmeno quella di un vecchio amico; degno del capitano del tanto temuto vascello pirata. Gilbert sciolse le braccia, alzandole in segno di resa.  

«D’accordo. Mi farò accompagnare dal Custode dei Cancelli e dal Figlio del Cielo. La Fortezza Errante dovrebbe sollevare meno curiosità di Gilbird» patteggiò.

Antonio annuì velocemente, e puntò di nuovo il dito sulla mappa.

«Noi, invece, ci dirigeremo a Britannia.»

Il boccone marcio era appena giunto. Lovino trasalì sulla scrivania, e Gilbert quasi si rovesciò sulla sedia.

«Britannia?» esclamarono all’unisono.

«Vuoi suicidarti, idiota?»

«Sei impazzito del tutto, Antonio?» rimbombarono poi separatamente.

Il capitano non si scompose. Intrecciò le dita davanti al viso, come era solito fare quando doveva fornire una spiegazione che non sarebbe stata accettata di buon grado dai suoi sottoposti.

«Le nostre forze sono insufficienti per far cadere il Vaticano. Abbiamo bisogno di Francis. E l’unico modo per trovarlo e liberarlo è chiedere aiuto al Mago dell’Ovest» volse i suoi occhi verdi verso Gilbert e pronunciò, conciso e brutale: «Hai detto anche tu che hai bisogno di Francis per soddisfare la richiesta del Figlio del Cielo, giusto?»

«Che c’entra il Figlio del Cielo, adesso?» esplose Lovino. La sua impulsività aumentava esponenzialmente quando non capiva cosa stesse accadendo intorno a lui.

L’Hellsing staccò la spilla dal suo petto e prese a giocherellare nervosamente con le punte delle piume ferrose di Gilbird.

«Mi ha chiesto se è possibile sradicare un demone dall’anima di una persona» raccontò Gilbert, gli occhi e le labbra guizzanti per la tensione. «Tuttavia, io mi occupo dell’eliminazione di demoni fisici. Non so come si possa far uscire uno spirito da un corpo umano. Avrei bisogno di Francis, per un’operazione del genere» le dita arrestarono bruscamente i loro movimenti, e due occhi duri come la tundra del suo pianeta fulminarono Antonio: «Ma possiamo trovare un altro modo per recuperare Francis! Quello che stai proponendo tu è un suicidio!»

«È la via più diretta.»

«Certo. Per il camposanto» il capitano non sobbalzò quando Gilbert salì con un piede sulla scrivania e si sporse verso di lui. «Lascia che ti faccia una breve previsione sul tuo incontro con il Mago dell’Ovest: tu metterai piede su Britannia, lui ti staccherà la testa, la userà come sputacchiera e poi ti userà per concimare i campi. E tanti saluti al più grande capitano della Confederazione. Non è necessario avere i poteri dell’Asse per prevedere qualcosa di così ovvio.»

«Ho i miei motivi per credere che il Mago dell’Ovest mi ascolterà» replicò adamantino Antonio.

«Gli abbiamo fatto impazzire un intero equipaggio, non molto tempo fa» gli ricordò acido Lovino.

«Oh, questo è davvero un ottimo biglietto da visita» Gilbert si schiaffò una mano sulla testa per sottolineare il concetto.

Antonio stese la spina dorsale contro lo schienale della sedia e contestò, semplice e inamovibile:

«Possiamo discutere per il prossimo anno, se volete. Ma non cambierò la mia decisione.»

Lovino fu bloccato dalla mano di Gilbert, che gli picchiettò appena il ginocchio per convincerlo a stare fermo. Il giovane si morse le labbra, notando il velo di ombra calato sul volto dell’uomo, lo stesso che avvolgeva quello del suo compagno. Una bestia oscura li stava divorando entrambi, e lui non sapeva nemmeno quale fosse la sua forma.

«Non è detto che il Mago dell’Ovest ti risparmi solo per via di quella vecchia storia…» tentò ancora Gilbert, ma Antonio scosse la testa.

«Non preoccuparti. Se non dovesse ascoltarmi, troverò il modo di scappare. Non sono così stupido da farmi catturare.»

«Lo pensavo anche io» lo pugnalò Gilbert, con una lama di acredine.

Il silenzio durò qualche istante, prima che il capitano lo lacerasse con decisione.

«Questa sera raggiungeremo i Gunsmith, e domani approderemo a Britannia. Farò preparare una scialuppa per portarti alla Fortezza Errante.»

L’Hellsing non riuscì nemmeno a muovere le labbra: lo stesso ghiaccio che lo aveva imprigionato per nove anni stava ora indurendo la voce del suo amico.

Scrollò le spalle e sbuffò: «Cerca solo di non farti ammazzare. Vi raggiungerò il prima possibile con le nuove armi». Prima di uscire dalla porta, si accostò a Lovino e gli bisbigliò: «Cerca di ficcargli un po’ di buon senso in quella testaccia dura!»

«Non è dura, è di granito» ringhiò Lovino, voltandosi verso il capitano. Antonio lo ignorò con snervante scioltezza prima di degnarlo di uno sguardo serio.

«Abbiamo bisogno di Francis. E non possiamo passare altri anni a girovagare a caso in cerca di informazioni» sintetizzò Antonio. «Il risveglio dell’Hellsing ha messo il Vaticano in allarme, e non dimentichiamoci che il Figlio del Cielo è stato spodestato. Inoltre, ormai sapranno anche che tu sei vivo. Il che è un miracolo, considerando gli avvenimenti di Caina…» le dita del capitano sfiorarono la frangia ribelle del giovane con una gentilezza che lo fece imbestialire.

«Possiamo trovare un altro modo, che non preveda che tu ti consegni al Mago dell’Ovest» sbuffò, scendendo bruscamente dalla scrivania per sottrarsi al tocco dell’uomo.

«Non mi sto consegnando. Sto andando a trattare…» Antonio emise un sospiro, scoraggiato dal cipiglio di ferro con cui il giovane lo stava trafiggendo. «Non mi credi, vero?»

«Dammi una singola ragione per non credere che stai andando a suicidarti» lo sfidò Lovino.

Il capitano fece slittare la sedia all’indietro, e batté le mani sulle proprie cosce per invitare il giovane a sedersi. Testardo come sempre, Lovino si avvicinò, ma tornò ad appollaiarsi sulla scrivania, declinando crudelmente l’offerta del capitano.

Antonio si limitò a spostare nuovamente lo scranno prima di iniziare.

«Forse tu non eri ancora nato» rifletté, lanciandogli uno sguardo carico di delicata nostalgia. Lovino scrollò le spalle, come per togliersi di dosso quel sentimento appiccicoso. Il capitano proseguì: «Un tempo, i Carriedo erano mercenari al servizio delle Famiglie Vaticane. Così come gli Hellsing erano sterminatori di demoni approvati dall’Asse.»

Lovino attese che l’ombra di amaro disgusto sparisse dal volto dell’uomo; quando quest’ultimo riprese a parlare, le sue parole trasudavano acido:

«Poi, un giorno, il Vaticano decise che non poteva tollerare forze potenzialmente insidiose. Cosa sarebbe accaduto se la gente avesse cominciato ad adorare gli Hellsing come salvatori, o ad affidarsi all’abilità guerresca dei Carriedo?» l’angolo della bocca si contrasse nell’aborto di un sorriso quando l’uomo sputò fuori: «Cosa è successo agli Hellsing lo sai, lo hai visto sul pianeta di Gilbert.»

Antonio rovesciò la testa e mitragliò, senza nemmeno una pausa per respirare:

«Siamo stati ricompensati per la nostra lealtà. Ci hanno offerto un funerale degno di un re: tutto il mio pianeta è diventato una palla di fuoco. Come gli Hellsing, siamo spariti nel giro di una notte. Come Gilbert, io sono l’ultimo rimasto.»

Gli occhi del capitano fissavano indistintamente il soffitto, coperti dalla foschia del passato. Lovino afferrò il volto dell’uomo tra le mani e lo costrinse a voltarsi verso di lui per scacciare quella nebbia infame: le correnti del passato non sarebbero riuscite a risucchiare il suo compagno.

Avrebbe voluto sapere altri dettagli sui trascorsi del capitano – come si era salvato, come era il suo pianeta prima di bruciare, che aspetto avevano i suoi genitori – ma preferì non inferire: non voleva vedere Antonio sprofondare di nuovo nelle sabbie mobili della memoria.

«Questo cosa ha a che fare con il Mago dell’Ovest?» domandò tra i denti.

Antonio avvolse le mani del ragazzo con le sue, come ad assicurarsi che fosse davvero presente; respirò il profumo della pelle dura sui suoi palmi, e respirò sul suo polso:

«Nessun mago comune sarebbe stato in grado di fare una cosa del genere. Nessuno, a parte il Mago dell’Ovest» le dita dell’uomo si strinsero attorno al suo polso e le parole si fecero mortalmente dure: «L’ho visto. Non potrà mai espiare abbastanza, per quello che ha fatto. Un’informazione mi sembra un prezzo accettabile.»

Il capitano fu piacevolmente sorpreso dalla reazione del giovane: Lovino slittò dalla scrivania alle sue ginocchia, gli perforò la spalla con il mento e gli gettò scompostamente le braccia attorno alle spalle.

«A cosa devo questa manifestazione di affetto?» flautò, carezzando la schiena imbufalita del giovane.

«Stai zitto» sibilò il ragazzo.

Le braccia di Lovino scesero lentamente, un centimetro per volta, per stringersi attorno alla schiena dell’uomo in un abbraccio più consono. Antonio carezzò quella testa turbolenta appoggiata alla sua clavicola finché dalle labbra del giovane non ruzzolò fuori una replica:

«Sei sicuro di riuscire ad affrontare il Mago dell’Ovest?»

«Non ho intenzione di battermi con lui…»

«Riuscirai a parlargli senza perdere la testa?»

Lovino incavò ancora di più il capo nella sua spalla, e per l’uomo fu impossibile vederlo in volto mentre lo rassicurava:

«Non lo perdonerò mai per quello che ha fatto. Ma riuscirò a contrattare con lui. Non sono più un bambino spaventato a morte.»

«Sei un adulto assetato di vendetta» Lovino inghiottì orgoglio e amarezza nel bofonchiare: «Io non riuscirei a stare calmo in presenza di mio padre.»

Erano tremendamente simili, loro due. Avevano perso entrambi la famiglia per colpa di un unico aguzzino. E non passava giorno in cui non perfezionassero il loro piano di rivalsa.

Antonio strinse a sé quel corpo improvvisamente fragile e mormorò sulla sua nuca:

«Non preoccuparti per me, Lovino. Saprò gestire la situazione. E avrò bisogno che tu resti sulla nave» trattenne la testa del giovane sul suo petto per evitare che si inalberasse in una protesta mentre concludeva: «Non posso attraccare a Britannia con tutta la Reina de la Oscuridad, e non posso nemmeno lasciare la nave senza una guida. Ho bisogno che tu controlli la situazione finché non sarò tornato. Puoi farlo?»

Interpretò il successivo mugugno adirato e incomprensibile come un assenso.

Posò un bacio poco sopra l’orecchio del giovane, dove i suoi capelli erano più corti, e sussurrò:

«Non sono accadute solo cose spiacevoli, in passato. Prima di quel giorno, la mia infanzia era piena di bei ricordi.»

Lovino alzò finalmente gli occhi ramati e contrattò: «Quando tornerai, mi racconterai tutte le cose belle che ti sono successe quando eri piccolo. E lo stesso farò io.»

«Perché?» sorrise Antonio.

«Perché non siamo solo la Mano Destra e la Mano Sinistra del Diavolo.»

Il sorriso di Antonio si punteggiò di malinconia mentre accarezzava la testa incassata sul suo petto.

Si chinò sul viso del giovane e lo sollevò per mordicchiare le sue labbra indispettite. La lingua del ragazzo entrò veloce nella sua bocca, come se non potesse tollerare la lontananza dalla compagna. Antonio non esitò a rispondere all’inaspettata passionalità del ragazzo: non dovette lottare a lungo per estrarre la camicia dalla stretta tirannica della cintura, e poté finalmente lambire con le dita la pelle nuda del suo amante. Il contatto durò solo pochi secondi: Lovino si rialzò di scatto, sottraendosi al suo abbraccio.

Sul suo volto non passarono né rabbia né scandalo, mentre sistemava nuovamente la camicia al suo posto. Antonio capì il motivo di quel rifiuto solo quando Lovino, le guance rosse quanto i capelli, lo ricattò goffamente.

«Anche questo è da rimandare a quando tornerai da Britannia.»

Il capitano soffocò a forza una risata, temendo che il suo vice l’avrebbe male interpretata. Quel ragazzo era veramente una benedizione dal Cielo, con il suo carattere scarlatto e la sua gentilezza spinosa. Allargò le braccia, esortandolo a prendere nuovamente posto nella loro stretta.

«Dovrò aspettare fino al mio ritorno per avere un bacio?» la testa si reclinò di lato, nel porgere quell’invito: i riccioli increspati dalla salsedine dell’atmosfera artificiale rimbalzarono sul cappotto cremisi, e la lampada a olio incastonò un riflesso ambrato negli occhi verdi che attendevano la sua risposta.

Lovino ciondolò imbronciato verso di lui, e gli scaricò il suo peso sulle ginocchia senza alcun riguardo.

Antonio chiuse gli occhi mentre il respiro del giovane tornava a intrecciarsi al suo, e abbracciò stretto quel corpo asciutto, mai cresciuto in robustezza.

«Non ti preoccupare, Lovino» lo rassicurò sulle labbra umide, intuendo il motivo per cui le spalle strette del giovane non riuscivano a rilasciare la loro postura contratta. «Non ti abbandonerò.»

Il ragazzo non volle proseguire quella discussione, e tornò a impegnare la bocca del capitano con la propria.

C’era un solo fuoco che poteva ardere dentro Antonio, ed era quello del suo stesso orgoglio da pirata. E non si sarebbe fatto inglobare dalle fiamme di Britannia.

Era quello che il bacio del capitano gli suggeriva. Lovino ci credette con tutto se stesso.

 

***

 

La mano forte di Ludwig lo sostenne, quando le sue gambe vacillarono.

Feliciano lo ringraziò con un impercettibile cenno del capo, appuntando di nuovo la sua attenzione sull’uomo al centro dell’enorme atrio. Gli occhi gli trasmettevano la sensazione di un minuscolo essere umano in uno spazio troppo grande, mentre il cuore tremava per l’aura di quello stesso uomo, che pareva riempire la stanza fino a far esplodere i muri.

«Vi sentite in forze, Feliciano Vargas?» esordì lo sconosciuto. «Mi è stato riferito che avete avuto una sorta di collasso, qualche giorno fa.»

Ludwig apprezzò la maestria con cui il futuro Asse dissimulò il proprio stupore: il suo viso rimase immobile come l’aria del Palazzo di Quarzo.

«Mi sono ripreso completamente. Vi ringrazio per la vostra premura» assicurò dolcemente Feliciano.

Lo sconosciuto non parve minimamente toccato dalla sua simulata gentilezza.

Il Guardiano strinse i denti, sicuro di aver già visto quell’uomo, in passato. Conosceva il ricamo nobiliare di quella divisa color malva, e le iridi violacee che esaminavano il mondo dietro la cornice scura degli occhiali. Perfino la pettinatura, curata fino alla minima curvatura delle ciocche mogano, aveva un sentore familiare.

L’uomo estrasse le mani dalle tasche di velluto viola, e, finalmente, Ludwig lo riconobbe. C’era un solo individuo in tutta la Galassia con i palmi martoriati da stigmate simili: un artista a metà tra lo scultore e il chirurgo aveva fatto colare dell’argento purissimo in quelle ferite, intarsiando per sempre una chiave di violino e una chiave di basso rispettivamente sulla mano destra e sinistra dell’uomo.

«L’Accordatore» lo presentò Ludwig.

Lo sconosciuto spostò appena gli occhiali sul naso, fissandolo sconcertato. Mosse con grazia le dita della mano sinistra, come se stesse carezzando le corde di un liuto invisibile, senza staccare i suoi occhi inquisitori dal Guardiano.

«La vostra struttura molecolare risponde in un modo assai curioso» stabilì al termine della sua bizzarra analisi. «Come se voi non foste un essere umano.»

«Non sono un essere umano comune» convalidò Ludwig, portandosi al fianco di Feliciano. «Altrimenti non sarei stato scelto per difendere il futuro Asse.»

«Ovviamente» concesse l’Accordatore. «Il signor Vargas mi ha affidato due missioni piuttosto complicate quest’oggi, quindi permettetemi di svolgere la prima.»

Una vena di sospetto attraversò il sorriso impeccabile dell’Asse, ma non fermò l’Accordatore: dispose le mani nell’aria come se sotto di esse si trovasse la tastiera di un pianoforte e mosse le dita in una melodia udibile al solo esecutore.

Feliciano si avvicinò istintivamente a Ludwig quando le pareti della stanza cominciarono a raggrinzirsi in pieghe flaccide, come cera esposta al fuoco.

«Non abbiate timore» li avvertì neutro l’Accordatore. «Non si tratta di un viaggio astrale.»

Il Guardiano impietrì il viso, impedendo alla sorpresa di trapelare. Sperava che l’allusione al viaggio dello spirito fuori dal corpo fosse solo un’infelice coincidenza. Feliciano aveva agito impulsivamente, ma il suo potere superava quello di qualunque altro incantatore, nella Galassia: nessuno avrebbe dovuto scoprirlo. Era quello che si augurava, perlomeno.

Le bianche pareti appassirono in un nero cupo, che pian piano stillò un intreccio di stelle. L’Accordatore stava ricreando con la magia lo spazio esterno al Palazzo.

«Vi invito a prestare particolare attenzione» li esortò atono l’Accordatore, senza smettere di muovere le dita. Le stigmate argentate sui dorsi delle sue mani mandarono sinistri bagliori mentre l’inudibile sinfonia arrivava al suo crescendo.

Feliciano nascose le mani sotto le larghe maniche della tunica, stringendole convulsamente: non voleva che il suo sgomento fosse visibile a quell’uomo.

«Dove siamo?» domandò, una volta che fu certo che la sua voce non l’avrebbe tradito.

Anche se era conscio di trovarsi nel mezzo di un’illusione, Ludwig non poté fare a meno di portare una mano all’elsa dello spadone.

Lo spazio intorno a loro si popolò improvvisamente di tutti i peggiori aborti degli incubi umani: esseri con la mandibola orribilmente penzolante dal cranio e gli occhi appesi alle orbite da una vena sanguinolenta; creature per metà serpenti e per metà a pantere; abomini simili a esseri umani crudelmente distorti, con gli arti disposti in ordine casuale ed espressioni animalesche. Quelli e mille altri orrori si accalcarono attorno al cerchio di pace sorretto dall’Accordatore.

«Questo è il Confine del Mondo» scandì l’uomo.

«Perché siamo qui?» chiese ancora Feliciano, trattenendo qualunque esternazione di disgusto o paura.

«Per rendervi chiaro il vostro ruolo futuro» spiegò con freddezza l’Accordatore. «Questo ammasso di degenerazioni si affolla tutto intorno ai confini della Confederazione. E i confini sono sorretti dall’Asse. Se l’Asse non dovesse adempire il proprio compito… la barriera che li trattiene al di fuori della nostra Galassia crollerebbe, e questi esseri sarebbero liberi di divorare il nostro universo.»

«Divorare?» gli fece eco Feliciano, ipnotizzato dalle fauci spropositate di un essere alla sua sinistra, talmente lunghe da perforargli le guance.

«Queste creature paiono avere una predilezione per la carne umana» specificò l’Accordatore. «In passato, alcuni di loro sono riusciti a perforare la protezione. Interi pianeti sono andati distrutti, a quel tempo.»

L’uomo sollevò con grazia le mani dal suo pianoforte invisibile e, all’improvviso, il Palazzo tornò a circondarli. Il ritorno del candore delle sue mura fu così repentino che quasi ferì i loro occhi.

«Ho una seconda melodia da correggere» si congedò l’Accordatore, per poi sparire con andatura nobiliare lungo i corridoi.

Nonostante i pomposi drappeggi della tunica, il Guardiano riuscì a intravedere il tremore delle sottili membra dell’Asse.

«Feliciano…» cercò di riscuoterlo Ludwig, ma il ragazzo era ancora stregato dalla visione da incubo di poco prima: un’intera bolgia di orrori, pressati contro i Confini che lui era stato chiamato a proteggere.

«Feliciano» lo chiamò con più forza Ludwig, scuotendolo per un braccio.

Il giovane lo fissò con occhi sbarrati dai residui dell’illusione dell’Accordatore.

«Se non divento Asse verranno tutti divorati…» mormorò, flebile. Aveva ribadito più volte di essere pronto a gettare la Confederazione nel Caos, pur di rivedere il fratello, ma non avrebbe mai immaginato uno scempio simile.

«Non sei ancora Asse. Abbiamo tempo» Ludwig si inginocchiò di fronte a lui, gli occhi azzurri che scintillavano a ogni palpito di cuore. «Ascoltami, Feliciano. Non sei ancora Asse, non hai ancora tutto il peso della Galassia sulle spalle. Abbiamo ancora un po’ di tempo per pensare a una via alternativa.»

«Una via… alternativa?» tentennò Feliciano.

«Ci deve essere un modo per impedire a quei mostri di fagocitare la Confederazione, e impedire a tuo padre di incatenarti per sempre a questo posto» continuò Ludwig. «Mio fratello mi ha insegnato che i demoni sono invincibili solo quando pensi che lo siano. Possiamo combatterli, possiamo trovare un altro modo.»

«Tuo fratello era così forte?»

«Mio fratello era l’ultimo Hellsing.»

Feliciano non mosse un muscolo del viso, a quella rivelazione: rimase immobile, un mezzo sorriso incollato alle labbra.

«Tuo fratello è l’ultimo Hellsing. Quando ho aiutato il mio gemello… lo stavano liberando» rivelò Feliciano.

Non aveva mai visto un’espressione così sorpresa, quasi innocente, sul volto del Guardiano: per un attimo, era tornato il bambino che oscillava sotto il peso delle cassette mediche.

«Gilbert… è libero?» balbettò, attonito. Feliciano annuì.

«Non c’è solo lui. C’è anche il Figlio del Cielo, con loro. E il Custode dei Cancelli. E la Mano Destra del Diavolo» elencò, con sempre maggiore entusiasmo. Si rabbuiò subito dopo, concentrato nella stesura di un piano: «Se riuscissi a parlare con gli altri due Scudi… potremmo decidere quale sia il metodo migliore per difendere la Confederazione.»

Feliciano rialzò la testa, sfavillando nell’ardore dimostrato durante la prima settimana di ribellione nei confronti del padre.

«Devo mettermi in contatto con loro. Ma non posso fare come la scorsa volta… è troppo faticoso, e mio padre potrebbe insospettirsi, se fossi di nuovo così debilitato…»

Ludwig chinò la testa, nella genuflessione rituale davanti all’Asse.

«Usami come messaggero. Se mio fratello è libero, so come contattarlo» sorrise, una spina di furbizia a lampeggiare nell’angolo della bocca. «Sono certo che abbia ancora Gilbird appuntato al petto.»

Feliciano cadde sulle ginocchia per abbracciare il suo Guardiano, in quello che per loro ormai era diventato un contatto normale.

Ludwig strinse quelle spalle fragili, il naso immerso nei capelli profumati del giovane.

Il suo ruolo di Guardiano non avrebbe potuto essere più azzeccato.

Voleva proteggere quel ragazzo, voleva difendere la sua felicità.

Avrebbe lottato contro i suoi stessi voti, per garantire la serenità di Feliciano.

 

***

 

Le dita anchilosate del vecchio Asse scricchiolarono, quando l’anziano le intrecciò sul ventre scavato.

Quei gemelli erano troppo pericolosi. Non potevano affidare il futuro dell’Asse a una mina vagante e a una bomba a orologeria, entrambe pronte a esplodere da un momento all’altro.

Tuttavia, il potere di Feliciano era innegabilmente smisurato, ed era ciò di cui la Confederazione aveva bisogno.

«Se ci fosse modo di staccare il suo potere dal corpo…» mormorò.

Richiamò il proprio Guardiano, imperioso.

«Chiama il capofamiglia Vargas. Devo proporgli un’idea.»

 

 

 

 

 

 

E nel prossimo capitolo, signore e signori… arriva Arthur 8D

A lunedì<3

Red

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Capitolo 10
*** Hispaňa ***


Capitolo Dieci: Hispaňa

 

Lovino si staccò dalla balaustra, tetro.

Antonio era sceso su Britannia qualche minuto prima. Gilbert era sparito assieme alla Fortezza Errante per approdare sul pianeta dei Gunsmith.

Anche se era circondato dalla ciurma si sentiva solo, su quel galeone tenebroso. Scrollò le spalle, irrigidite dal peso della responsabilità.

Doveva solo aspettare un altro poco. Presto Antonio sarebbe tornato. E lui avrebbe dovuto comportarsi come se non avesse sentito minimamente la sua mancanza.

Le medaglie appuntate sul suo petto tintinnarono, come a canzonarlo: erano ancora poche per gareggiare con l’altra Mano del Diavolo.

Artigliò la balaustra, osservando la Compagnia di Britannia, il pianeta principale e i satelliti minori, opacizzati dall’atmosfera artificiale dell’Aeronave. Trasse un respiro profondo: i suoi polmoni sembravano aver disimparato il loro mestiere. Antonio era la vera anima di quel vascello, che aveva costruito e condotto alla gloria contraddittoria dei pirati con le sue stesse mani: senza, l’aria stessa pareva una fanghiglia irrespirabile.

«Bastardo» ringhiò. «Sbrigati a tornare.»

«Vicecomandante!» latrò improvvisamente la vedetta. «Un corpo sconosciuto si dirige verso di noi!»

Lovino non perse più di un secondo per localizzare la meteora viola che mirava ad abbattersi sul loro ponte.

«Innalzate le barriere e preparate i cannoni!» ordinò, piazzandosi sul ponte, pronto a richiamare Roma. «Lo accoglieremo con la polvere da sparo!»

La ciurma ragliò un boato di approvazione, e, fortunatamente, nessuno notò il tremore che scuoteva le ginocchia del giovane.

«Torna presto, bastardo!» sibilò di nuovo, prima di evocare Roma.

 

***

 

Un branco di gattini impauriti che mostravano le zanne da latte per sembrare minacciosi.

Quella fu l’impressione che ebbe della ciurma Britannica che lo accolse.

Fucili e sciabole erano spianate come una parata di metallo tutto intorno a lui, ma il pallore sui volti dei marinai cantava un ritornello differente: avrebbero preferito morire piuttosto che attaccarlo.

I rapporti su quanto avvenuto nelle navi che avevano incrociato la Reina de la Oscuridad si erano sparsi velocemente: tutti sapevano che i gloriosi marinai di Britannia erano stati rinchiusi nei manicomi di massima sicurezza, preda di incubi violenti e rabbiosi. Quelli che non si erano uccisi lacerando la carotide con le unghie, o fracassando la testa contro le pareti, perlomeno.

Un marinaio deglutì rumorosamente, il fucile che ballava tra le mani. Un suo conoscente aveva prestato servizio su una di quelle navi: si era cavato gli occhi da solo, gridando che stavano diventando due tizzoni ardenti e che presto gli avrebbero incenerito il cervello.

La ciurma trasalì quando Antonio sollevò le mani.

«Non sono qui per battermi» annunciò, solenne. «Voglio solo parlare con il Mago dell’Ovest. So che si trova qui.»

Una lucerna imbullonata all’entrata che dava accesso alle cabine degli ufficiali si accese improvvisamente, con una fiammata così potente che debordò dal vetro. Le lingue di fuoco si ingrossarono ruggendo e attorcigliandosi tra di loro come un nido di serpenti. La ciurma si aprì a quel fenomeno sovrannaturale, permettendo il passaggio delle fiamme, che si fermarono esattamente di fronte al capitano. Come per una burla male architettata, il globo di fuoco prese pian piano forma umanoide imitando quella del pirata.

Antonio batté le palpebre, illuminate dalla luce delle fiamme e abbrustolite dal loro calore.

«Voi maghi siete proprio degli esibizionisti» commentò, asciutto.

«Era solo un ammonimento. Per ricordarti con chi hai a che fare, Antonio Fernandez Carriedo» rimbombò la voce gutturale del fuoco. L’umano di fiamme fece un passo indietro, mentre la sua figura si spegneva nella forma più tranquilla della carne umana.

Le lingue di fuoco sulla sommità della corporatura si curvarono in una miriade di ciocche color paglia, e due fiamme più sottili delinearono la forma del viso squadrato. Un suono simile allo sfiato della legna quando viene spenta con l’acqua accompagnò la formazione del fisico robusto dell’uomo, e la sua vestizione con i pantaloni e la giacca blu, simboli dei nobili di Britannia. Il fuoco rimase acceso nelle iridi verdi del Mago dell’Ovest, e il suo colore restò immutato nel lungo cappotto scarlatto che contraddistingueva i capitani di galeone. Altro segno distintivo dei comandanti era il cappello tricorno, dalle punte più morbide rispetto a quello del pirata, e ornato con un assurdo esubero di piume.

Antonio abbassò le mani, incrociando le braccia al petto.

Lo sguardo inflessibile, l’espressione dura, il vestiario che seguiva impeccabilmente ogni dettame di Britannia, sia nei colori che nelle forme: il Mago dell’Ovest era esattamente come lo ricordava.

«So bene con chi ho a che fare, Arthur Kirkland» replicò freddo il pirata.

La scimitarra che dondolava al fianco del Mago venne estratta con una rapidità serpentina, e puntata alla gola del rivale.

«Allora saprai che su di te gravano accuse abbastanza pesanti da permettermi di giustiziarti qui, seduta stante» decretò Arthur, solleticandogli la giugulare con la punta della spada. «Tradimento nei confronti della Confederazione, pirateria, omicidio. Ed è solo una piccola parte della tua fedina penale, Carriedo. Perfino il diavolo si scandalizzerebbe, leggendola.»

La ciurma quasi svenne al completo quando Antonio impugnò la sua ascia e vibrò un colpo micidiale in direzione del Mago: l’arma fendette l’aria e la carne dell’uomo, dividendolo in due parti esatte.

«Detesto avere una lama puntata alla gola» si giustificò, rimettendo a posto l’ascia.

«Omicidio del Mago dell’Ovest. Questo ti costerà molto caro» le due metà della bocca del corsaro crearono un’eco bizzarra prima che l’uomo facesse pressione sui propri fianchi e ricongiungesse il suo corpo come se nulla fosse successo; un suono colloso accompagnò il processo. «O meglio, ti costerebbe caro. Prima devi riuscire a uccidermi. Ma penso che un tentato omicidio sia ugualmente grave.»

«E il genocidio di un’intera popolazione? Questo quanto è grave?»

Satana in persona doveva aver prestato una delle sue espressioni più spaventose al capitano: il suo viso era diventato cupo e spietato come le paludi dell’ultimo girone infernale.

La voce del Mago dell’Ovest fu affilata come lo stridio della scimitarra mentre veniva riposta.

«Ritiratevi sottocoperta» ordinò.

La ciurma non osò protestare, anzi, eseguì l’ordine quasi con gioia: nessuno sapeva quando la Mano Sinistra del Diavolo sarebbe arrivata per farli impazzire tutti.

I due uomini restarono a squadrarsi in silenzio, come due leoni che cercano il punto debole dell’avversario.

«I disgraziati che hanno incrociato il tuo cammino si stanno consumando nelle celle dei manicomi» lo informò Arthur, voce e sguardo gelidi. «Con che coraggio ti presenti su questa nave?»

«Con che coraggio ti presenti al mondo?» lo sferzò crudelmente Antonio. «Un intero pianeta ha versato il suo sangue su di te.»

Nessuno dei due indietreggiò, nonostante le parole dell’avversario fossero pesanti come macigni. Mossero entrambi un passo come se stessero danzando in cerchio, i cappotti vermigli che frusciavano contro i loro stivali.

«Erano ordini superiori. Non potevo ignorarli» si discolpò Arthur.

«Riesci a dormire la notte ripetendoti questo? Che non è stata colpa tua?» infierì Antonio.

«E tu come riesci a dormire, mentre le tue vittime strillano dall’Acheronte?»

«Non ascolto le loro grida. Come tu non hai ascoltato le nostre, mentre Hispaňa bruciava.»

Gli stivali del Mago stridettero sul legno del ponte, frenando, e lo stesso fecero quelli del pirata.

«Britannia sarebbe stata distrutta, se non avessi accettato di portare a termine quel compito. E non provare a dire che avrei dovuto sacrificare il mio paese per il tuo: se tu ti fossi trovato nella mia posizione, avresti fatto lo stesso» lo incenerì Arthur.

Antonio batté le palpebre solo una volta, prima di rincarare:

«Avrei fatto lo stesso, come chiunque altro. Non ti sto chiedendo perché non ci hai risparmiati tutti. Ti sto chiedendo perché non hai salvato nessuno

Arthur tolse il cappello tricorno, per evitare che una qualunque ombra potesse allungarsi sul suo viso mentre dichiarava:

«L’ho fatto per il bene di Britannia e della Confederazione. Voi Carriedo eravate una minaccia. E tu, Mano Destra del Diavolo, non smentisci questa voce.»

Anche Antonio si tolse il cappello, e sussurrò la seguente frase fissando il suo interno bombato, come se fosse un interlocutore più ragionevole del capitano.

«Lo sai, Kirkland? Sono proprio questi pregiudizi che mi hanno reso un criminale. Credi che io sia nato con l’intento di diventare un pirata?» Antonio sollevò uno sguardo cremisi come il suo cappotto e sillabò, la voce assottigliata dal rancore: «Oh, no! Volevo rendere orgogliosi i miei genitori combattendo per il Vaticano, quello stesso Vaticano che ci ha fatti bruciare come non si farebbe nemmeno con delle bestie! Il mio sogno altruista è stato ridotto in cenere assieme alla mia famiglia» il pirata rimise il cappello al suo posto: perfino nell’ombra triangolare del copricapo i suoi occhi scintillarono feroci come quelli di un felino: «E anche dopo… credi che non abbia cercato un altro mestiere? Ho bussato a tante botteghe quante sono le stelle in cielo. Ma ti rivelerò un segreto: la gente crede sempre di sapere chi tu sia perfino meglio di te. Ero un Carriedo, quindi ero un criminale: vedevano solo il mio cognome, e non la fame che mi aveva reso uno scheletro vivente. Che senso aveva continuare a lottare per la compassione, se tutti erano convinti di conoscere meglio di me la mia vera natura?» si concesse un istante di silenzio, in cui scrollò dell’inesistente polvere dal cappotto. «Credo di aver superato le loro aspettative, comunque. Nessuno aveva previsto che sarei diventato la Mano Destra del Diavolo, il primo dei Tre Sparvieri.»

«Non dovresti andare fiero del tuo titolo.»

«Perché no? È tutto quello che mi è rimasto, oltre al mio vascello» seguitò imperterrito Antonio, gli occhi divenuti duri come sassi. «Voglio farti un altro esempio ancora. Lovino. Un bambino di dieci anni che chiedeva solo di poter rimanere con il fratello. Ma il Vaticano, dopo averlo bollato come satanico, lo ha abbandonato a morire di stenti su un pianeta desertico.»

«Ma la tua ciurma lo ha raccolto.»

Un sorriso figlio del dolore sorse sul viso di Antonio.

«Credi che sia sufficiente? Non basta un piatto caldo e dell’acqua per salvare una vita. Puoi ristorare il suo corpo, ma per salvarle l’anima ci vuole molto più tempo. Non hai idea degli incubi che l’hanno tormentato per mesi, o degli attacchi di panico improvvisi, o di quanto piangesse durante la notte, quando pensava che tutti dormissero. E perfino adesso, ha uno sguardo che non dovrebbe mai stare negli occhi di un ragazzo così giovane: ha lo sguardo di chi ormai non pretende nulla dal mondo, se non continue guerriglie con la malvagità della gente. E tutto quello che chiedeva era restare con il suo gemello. Era davvero una richiesta così insensata? E anche Gilbert ha assaporato la vostra giustizia!» Antonio si bloccò per un attimo, ripensando al ghigno irriverente dell’amico. «Forse lui è l’unico che è riuscito a resistere alla vostra cupidigia. Anche se gli avete distrutto la casa e la famiglia, non ha mai smesso di fare il suo lavoro: ha ripulito la Confederazione da tutti i demoni. Non ha mai ferito un essere umano, nonostante voi abbiate provato in ogni modo a farlo diventare un assassino. Lui è davvero… una persona meravigliosa.»

Arthur si fermò davanti a lui, alzando il mento.

«Cosa pretendi da me? Delle scuse? O un duello per staccarmi la testa dal busto?»

«No. Voglio che tu mi riveli dove è stato rinchiuso il Marauder. Una singola informazione per rimediare a tutte le colpe che ti ho elencato prima. Mi sembra piuttosto vantaggioso, non trovi?»

L’espressione di Arthur non concordò.

«Non posso darti questa informazione. Metterebbe a rischio tutta la Confederazione» sentenziò.

«Le voci su Francis sono false, come lo erano quelle su di me, su Lovino e su Gilbert!» s’infuocò Antonio. «Ancora non hai capito cosa sta facendo il Vaticano? Si sta servendo di voi per eliminare le personalità scomode!»

«Credi che non l’abbia capito?» lo freddò il Mago dell’Ovest. «Credi di essere l’unico con un cervello, Antonio? Ho capito da tempo cosa sta facendo il Vaticano. Ma è vero che la Confederazione ha bisogno dell’Asse, ed è vero che il Vaticano è l’unico in grado di garantire la sua presenza.»

«Ed è abbastanza forte da spazzar via Britannia con un solo ordine» completò Antonio.

«Il mio compito è difendere Britannia e il suo sovrano. Anche se questo implica doversi sporcare le mani, non posso tradire il mio popolo.»

«E per la somma Britannia è giusto sacrificare ben tre popoli…»

«Non puoi capire cosa significhi prendere decisioni per tutta la Compagnia. Quando milioni di vite sono nelle tue mani, pochissime scelte sono semplici» si difese velenoso Arthur.

«Ma non hai avuto problemi a schiacciarne altrettante con quelle stesse mani.»

«Come tu non hai avuto problemi a sacrificare migliaia dei miei uomini per il bene del tuo pupillo» lo pugnalò il Britanno.

Antonio congiunse le mani, apparentemente tranquillo nonostante la stoccata.

«Aggiungerò un’ulteriore condizione al nostro patto: Lovino riporterà alla sanità mentale tutti i tuoi uomini. Ovviamente non possiamo fare niente per i morti… ma questo lo sai meglio di me, non è vero, Arthur?»

«Non posso comunque rivelarvi dove si trova il Marauder.»

Le pupille di Antonio si restrinsero per la sorpresa. Non pensava che il Mago dell’Ovest avrebbe rifiutato perfino quell’offerta.

«Stai dicendo che non hai la minima intenzione di fare ammenda per le tue colpe? Nemmeno se questo dovesse portare un beneficio per la stessa Britannia?»

«Tu non sai cosa stai chiedendo, Antonio» lo redarguì freddamente Arthur.

Il pirata calcò di nuovo il tricorno sul viso. Aveva un’ultima carta da giocare, dopodiché la partita sarebbe stata conclusa con un insuccesso.

«Tu sei uno dei discendenti di Avalon, e per questo tutti ti rispettano. Ma non puoi mai pensare ai tuoi reali affetti, e per questo tutti ti abbandonano» Antonio non distolse lo sguardo dalle iridi di pietra del capitano mentre elencava: «Quante persone hai perso, sotto la tirannia del Vaticano?»

Arthur rimase in silenzio, e in quel silenzio Antonio lesse la propria sconfitta.

Risistemò il tricorno e il cappotto con un sospiro, e si preparò ad abbandonare la nave.

«Prima riporta i miei uomini alla normalità. Solo dopo parleremo ancora» concesse in un sibilo irato Arthur.

Il pirata accettò quella decisione con un cenno del capo: non avevano ancora la collaborazione del Mago dell’Ovest, ma era un inizio. Stava per lasciare il vascello, ma fu di nuovo interrotto dal Britanno.

«Carriedo… non è stato facile accettare la morte del tuo popolo.»

«Lo so» recise il pirata. «Non lo è stato per nessuno.»

E abbandonò anche lui il Mago dell’Ovest, risalendo sulla scialuppa che lo aveva portato fin lì.

Antonio batté le palpebre, combattendo l’imbarazzante urgenza di piangere.

Credeva di aver versato tutte le sue lacrime quel giorno, tanti anni prima.

Lui, Gilbert e Francis erano ancora dei bambini a quel tempo.

 

***

 

I Carriedo, gli Hellsing e i Marauder ritennero opportuno che i tre bambini destinati a divenire le successive guide dei rispettivi popoli stringessero amicizia fin dalla più tenera età. Nessuno aveva però previsto una simile sintonia tra i tre, specie dopo il loro disastroso incontro iniziale.

Avevano dei poteri enormi, ma, essendo ancora infanti, non erano per nulla in grado di controllarli; quella fu la causa principale dei disordini di quel giorno.

Antonio si stupì enormemente degli occhi rossi e dei capelli d’argento di Gilbert, e gli chiese se fossero diventati così per il sortilegio di un demone. Al solo udire la parola “demone”, il piccolo Hellsing richiamò istintivamente Gilbird; un enorme pennuto cominciò così a scorrazzare per il giardino dei Carriedo, con un bambino attaccato alle piume che gli intimava di fermarsi e tornare nella spilla. In risposta, Francis evocò Jeanne, il suo spirito guida che, vedendolo così atterrito, richiamò a sua volta un nugolo di spettri protettori, e al volatile mastodontico si aggiunse uno sciame di spiriti che saettarono da una parte all’altra alla ricerca del nemico. Aizzato da quella confusione, Antonio usò i suoi poteri; sfortunatamente, focalizzò l’albero di mele come sua arma e non il bastone di legno ai suoi piedi: l’albero si ingigantì improvvisamente, tramortendo Gilbird, che stava trotterellando in quella direzione. Privo di sensi, il famiglio dell’Hellsing diventò nuovamente una spilla, facendo precipitare il bambino al suolo. Mentre Gilbert si massaggiava il coccige dolente, Francis riuscì a imporre la calma sul gregge di spiriti, dissolvendoli. Ad Antonio occorse qualche secondo ancora per far tornare l’albero di mele a dimensioni normali.

Gli adulti presenti temettero che quell’incidente potesse compromettere per sempre i buoni rapporti tra i tre popoli, ma tutto si risolse con la semplicità innocente dell’infanzia: Antonio recuperò le mele cadute per l’impatto con Gilbird, e le offrì ai due bambini che lo osservavano.

«Sono Antonio Fernandez Carriedo» si presentò il piccolo. «E voi?»

«Francis Bonnefoy» il Fiammingo si rialzò, prima di afferrare la mela che gli veniva tesa.

«Gilbert Beilschmidt» contraccambiò l’Hellsing, senza alzarsi per ricevere il frutto: il fondoschiena gli faceva ancora un male tremendo.

«Beescmit?» storpiò Francis; la sua dizione fu compromessa ulteriormente dal boccone di mela che stava masticando.

«Beilschmidt» sillabò Gilbert.

«Che cognome strano» commentò il Fiammingo.

«Ma se tu ti chiami Bunefà!» protestò l’Hellsing.

«Bonnefoy» lo riprese con eleganza Francis.

«Il mio cognome riuscite a pronunciarlo?» si intromise Antonio.

Entrambi si sforzarono di scandirlo correttamente; in bocca all’Hellsing la “c” assumeva un suono assai più duro, e la “d” veniva inquinata da una punta di “t”. Il Fiammingo, invece, lo pronunciava come se il suo cognome fosse una grossa caramella rotonda, ammorbidendo tutte le lettere. Antonio non speculò su quelle differenze.

«Come hai fatto?» chiese Francis, additando con la mela l’albero.

Antonio si strinse nelle spalle.

«Tutti ci riescono, nella mia famiglia. Anche se di solito lo facciamo con le armi.»

Francis era ancora troppo piccolo per insinuare quale particolare spada avrebbe potuto ingrandire – cosa che fece profusamente negli anni a venire, quando la malizia divenne la sua caratteristica distintiva. Si limitò ad accogliere con sincera ammirazione quella verità.

«A cosa vi serve?» insistette Francis, curioso.

«In battaglia è piuttosto utile» spiegò Antonio.

Il Fiammingo annuì, accondiscendente.

«La mia famiglia scende in campo in modo diverso» considerò, pulendosi con la mano un rivolo di succo di mela sul mento paffuto. «Noi siamo medium. Le lotte con gli spiriti sono un po’ diverse da quelle con gli umani» si voltò verso Gilbert, lo sguardo scintillante: «E tu?»

«Ammazzo demoni» telegrafò lui.

«Sembra interessante» gorgheggiò Francis.

«Non lo è. Fa una paura del diavolo.»

«Quindi hai paura quando combatti?»

«Non ho detto che ho paura. Ho detto che fa paura.»

«Quanti demoni hai ammazzato, finora?»

«Che t’importa?» si ribellò Gilbert, che non era bravo a sostenere interrogatori serrati.

Antonio ricordava gli anni a seguire come tra i più divertenti della sua vita: imparava a diventare un combattente capace sotto la guida dei genitori, e giocava spesso con Gilbert e Francis.

I tre ragazzi si raccontavano i loro progressi e si mostravano le nuove magie apprese. Era una rivalità scherzosa a chi riusciva a stupire di più gli altri. Ma, per la sua indole teatrale, era sempre Francis a emozionarli più di tutti, con i suoi numeri sui fantasmi e sugli spiriti.

Un giorno, suo padre lo prese sulle ginocchia e commentò:

«Voi tre sembrate proprio tre sparvieri.»

«Perché?» domandò Antonio, senza capire.

«Perché gli sparvieri, anche se sono più piccoli degli altri rapaci, non sono secondi a nessuno per le abilità di caccia. Inoltre, sono in grado di cambiare direzione di volo in maniera imprevedibile e repentina. Voi siete proprio così: anche se siete dei bambini, siete potenti quasi quanto i vostri vecchi genitori» Antonio aveva brontolato che il padre non era affatto vecchio, e il genitore proseguì, compiaciuto dell’affetto del figlio: «E riuscite a cambiare direzione in maniera inaspettata. Come al vostro primo incontro: tutti credevano che vi sareste odiati, invece siete diventati amici come poche persone che conosco.»

Antonio aveva riferito quel pensiero paterno ai suoi compari e, da quel momento, avevano adottato quell’epiteto: i Tre Sparvieri. O il Trio Malefico, come correggeva ogni tanto Francis, con una vena canzonatoria.

Era stato proprio un bel periodo: il giardino della sua casa era animato continuamente dai suoi allenamenti o dai giochi con i suoi amici.

Anche l’inferno era partito dal giardino.

Stava aiutando sua madre ad apparecchiare la tavola, mentre il padre controllava che il pranzo non bruciasse. Non si resero subito conto di cosa stava accadendo: all’inizio, fu solo una piccola scossa del terreno, e tutti pensarono che fosse un lieve terremoto di assestamento. Ma al primo tremito se ne succedette un secondo: tutte le ceramiche della casa vibrarono, e tutti e tre alzarono il volto come i segugi che fiutano un pericolo.

Per qualche secondo, nulla si mosse. Erano quasi tornati alle loro mansioni – mancavano ancora le forchette e un pizzico di sale nella zuppa – quando tutto il mondo ballò.

Antonio ricordava solo un vorticare frenetico in cui pavimento e soffitto continuavano a susseguirsi, la danza selvaggia dei mobili e la nevicata di piatti e bicchieri, che sparsero un delirio di schegge appuntite tutto intorno. Strisciò a quattro zampe fino ad aggrapparsi allo stipite della porta, e, così arpionato, portò uno sguardo febbricitante sul mondo impazzito.

I mobili della cucina erano completamente stravolti: il tavolo si era rovesciato, le sedie assomigliavano a dei reduci di guerra con le gambe spezzate e la pesante credenza era franata a terra. Ad Antonio occorse qualche istante per identificare la ciocca di capelli scuri che spuntava sotto l’angolo del mobile di faggio. Suo padre lo raggiunse e gli coprì gli occhi prima che il piccolo potesse vedere la pozza di sangue e liquido cerebrale che si allargava sul pavimento.

«Dobbiamo uscire» gridò, sentendo il figlio tremare tra le sue braccia come se tutte le sue ossa avessero deciso di uscire dal corpo. Non era stato abbastanza veloce: aveva riconosciuto quella chioma. Era il castano fondente che aveva ereditato da sua madre. Erano i capelli di sua madre quelli che si stavano raggrumando in un miscuglio di sangue e cervella.

In seguito, le sue memorie si limitavano al buio del palmo di suo padre e agli scossoni dovuti alla frenetica conquista del tetto. E il caldo, quel caldo infernale.

Quando suo padre gli tolse la mano dagli occhi, Antonio si rifugiò con la testa sul suo petto: era troppo piccolo per sopportare quello spettacolo. Il suo mondo non esisteva più: le strade erano diventate lunghissimi serpenti di lava ruggente, le case delle pire di fuoco e le persone delle lingue di fiamma che guizzavano per un attimo, con un urlo tremendo, prima di sprofondare in quell’abisso di calore letale.

Antonio si rintanò contro il padre, terrorizzato. Sentiva i mattoni della loro casa cedere sotto la presa della lava, e il caldo micidiale avvicinarsi sempre di più. Ben presto la morte avrebbe toccato anche loro con la sua falce ardente.

«Una cosa del genere non è normale…» balbettò suo padre. Lo strinse a sé, pur sapendo di non essere una protezione efficace contro quel marasma. «Questo è un incantesimo che solo un mago esperto potrebbe fare… solo il Mago dell’Ovest… ma perché… siamo alleati…»

«Stiamo per morire qui?»

Il miagolio del bambino risalì il collo e bussò spaventato all’orecchio del genitore.

Sentì quelle braccia tanto più grandi delle sue stringersi sulla sua schiena.

«Non so come salvarti, piccolo mio. Le Aeronavi sono andate distrutte. E, anche se non lo fossero, non c’è modo di raggiungerle da qui. Mi dispiace.»

Antonio protese le sue braccia minute verso l’alto, cingendo il collo del papà. Non avendo il coraggio di alzare gli occhi sull’inferno intorno a loro, mormorò la sua preghiera contro la clavicola del genitore:

«Andiamo dalla mamma, papà.»

Fu in quel momento che lo udirono: un frullio d’ali gigantesco, e delle urla accorate.

«Antonio! Cos’è successo?»

La voce di Gilbert superò il ruggito delle fiamme, e il piccolo Carriedo sollevò il viso annerito dal fumo sui suoi amici. Erano venuti per giocare con lui, come sempre; non si aspettavano di trovare un tale rogo di distruzione, al loro arrivo.

Gilbird compì svariati giri su di loro, cercando il modo per avvicinarsi senza essere trascinato in quello che sembrava il ventre squarciato di un vulcano.

I polsi del padre fremettero su di lui. Antonio pensò che fosse per disperazione, perché avevano la salvezza a un passo e non potevano aggrapparvisi: Gilbird non riusciva a trovare modo di avvicinarsi senza compromettere l’incolumità di Gilbert e Francis. Non fu disperazione. O meglio, non era la disperazione di un padre che sta per morire con il figlio.

«Antonio» annaspò sui suoi capelli, accarezzandoli con un bacio ruvido. «Tu sei forte, più forte di tutti noi. Ce la farai. So che ce la farai.»

«Papà?» lo aveva chiamato, senza capire.

Le lacrime del padre caddero sul suo viso sollevato, più bollenti della lava che rombava intorno a loro. Non lo aveva mai visto piangere, prima di allora.

«Non sarò con te quando diventerai grande, non potrò essere con te se avrai bisogno di me. Ma posso fare qualcosa per te.»

Prima ancora di poter capire il significato delle parole del padre, il mondo di Antonio venne sconvolto di nuovo: d’improvviso non ci furono più le braccia del genitore a stringerlo, ma solo mille dita di vento che lo spingevano verso l’alto. Il genitore lo aveva lanciato in aria, in modo che fosse finalmente alla portata di Gilbird.

Il volatile lo afferrò con le possenti zampe, e batté veloce le ali per allontanarsi da quella lava ribollente.

Antonio si protese in direzione del padre con tutte le sue forze, sfuggendo quasi alla presa del famiglio dell’Hellsing. Urlò così tanto che avvertì quel fuoco assassino carbonizzargli la gola, e non si fermò nemmeno quando alle sua grida si mescolò il sale delle lacrime.

Era la disperazione di un padre che sa di morire lasciando solo il proprio figlio, quella che aleggiò sul volto del genitore per un secondo. Sostituita prontamente con un sorriso e un cenno della mano, come faceva quando tornava a casa la sera. Ma la farsa non gli riuscì completamente: le lacrime che bagnarono copiose quel sorriso finto e che gli contrassero le labbra in spasmi contriti rovinarono la sua messinscena.

Gilbird non volò abbastanza veloce da impedirgli di sentire l’urlo del padre, quando la lava lo trascinò a fondo. E Antonio svuotò i polmoni, come se potesse alleviare il patimento del genitore gridando forte quanto lui.

In seguito, gli avevano detto di essere volati nel pianeta Fiammingo, a casa di Francis. Non aveva memorie precise di quel periodo, solo alcune immagini sconnesse a cui non avrebbe saputo dare un ordine temporale.

Francis lo aveva ospitato per qualche tempo. Ricordava una successione di giorni tutti uguali per colori, sapori, emozioni. Era sprofondato nella più totale apatia, senza parlare e senza mangiare.

Si rendeva conto di far preoccupare enormemente i suoi amici con il suo comportamento – Gilbert passava ogni singolo giorno per sincerarsi che il piccolo Carriedo stesse bene – ma non riusciva a uscire da quel circolo: bastava un granello di cibo, e sentiva l’impulso di vomitare; perfino bere un bicchiere d’acqua era un’agonia. Aveva cercato di aprire le labbra per parlare con i suoi amici, ma ne aveva ricavato solo un singulto secco e l’orrenda sensazione che i suoi polmoni stessero cercando di uscire tramite l’esofago. E non riusciva a liberarsi dall’eco del grido del padre che risuonava macabro nelle sue orecchie.

Non ricordava il giorno, ma ricordava l’attimo: Francis gli aveva appoggiato una mano sulla spalla e aveva detto, fissandolo con il cuore negli occhi blu:

«Le lacrime non sono un disonore, Antonio. Sono il simbolo di un’anima che soffre. E se un’anima soffre, ha dei sentimenti. E avere dei sentimenti è la cosa più nobile che esista.»

Fu come se l’amico avesse girato la chiave della serratura che tratteneva le sue emozioni: all’improvviso, sentì il dolore agguantarlo per la gola, e sgorgare in un torrente di lacrime, che sfogò sulla spalla dell’amico. Avrebbe voluto dire tantissime cose, ma la sua gola espulse solo singhiozzi inarticolati e suoni strozzati. Francis lo trattenne gentilmente contro di sé, mentre Gilbert gli appoggiava una mano in mezzo alle scapole.

Nei primi giorni, il ricordo della morte dei genitori era stato costante: qualunque cosa facesse, o non facesse, sentiva una vocina maligna bisbigliare nella sua testa che lui non meritava nulla; era un figlio deprecabile che sopravviveva nonostante sua madre e suo padre fossero morti. Poi, era subentrata una seconda fase di elaborazione del lutto, assai più spaventosa: il distacco. Si era accorto di non ricordare più con chiarezza il volto della madre o del padre, o il suono esatto della loro voce; si era reso conto di non sapere più cosa si provava ad avere una famiglia, ad avere una casa con dei genitori in attesa. Aveva ancora una vaga memoria di quelle cose, ma non riusciva a viverle sulla sua pelle, come se qualcuno gli avesse raccontato una favola: ne era stato deliziato, ma non riusciva a immergersi fino in fondo in quel mondo fantastico. La sua famiglia era diventata lo spettro di un ricordo che non riusciva più a comprendere; e soffriva ogni volta che le sue dita cercavano di afferrare quel vuoto incolmabile. In quel momento aveva davvero capito di essere rimasto orfano: avere una famiglia gli sembrava qualcosa di alieno come un’utopia irrealizzabile.

Non era riuscito ad articolare nemmeno uno di quei pensieri; aveva atteso che le lacrime trovassero un po’ di quiete, e si era staccato piano dai suoi amici.

«Scusa per la camicia» aveva bofonchiato. Francis gli aveva dato uno scappellotto.

«Bentornato» lo avevano accolto gli Sparvieri.

 

***

 

Antonio sorrise di un ghigno amato.

Il suo mondo puzzava di polvere da sparo, ed era pregno di sangue. Chissà se era quello che suo padre aveva immaginato per lui, nel suo ultimo istante di vita.

Avrebbe voluto chiederglielo. Tuttavia, non aveva mai domandato a Francis di usare i suoi poteri da medium per parlare con i defunti. Aveva vissuto il lutto in maniera così atroce, da piccolo, che non desiderava passarvi attraverso un’altra volta: temeva che, rivedendo il padre e la madre, si sarebbe legato nuovamente a loro, e non sarebbe più riuscito a lasciarli andare.

Non ricordava più con precisione le loro facce, o i loro modi di dire, ma non aveva importanza. Loro erano comunque con lui. Sua madre gli aveva insegnato a camminare, a mangiare, a vestirsi: era con lui in ogni passo, ogni cucchiaiata, ogni bottone allacciato. E il padre, che gli aveva insegnato a combattere, guerreggiava insieme a lui sul ponte della Reina de la Oscuridad; e gli aveva donato due volte la vita, la prima volta facendolo nascere e la seconda lanciandolo verso la salvezza. Era con lui a ogni respiro e battito di cuore.

Quella conclusione non era sorta spontanea: erano occorsi anni di lotte con se stesso e di sofferenze indicibili per accettare fino in fondo la morte dei genitori ed elaborare un nuovo stile di vita.

E poi, qualche anno dopo, aveva incontrato Lovino: un bambino indesiderato che era stato rifiutato dal suo stesso padre. In quel momento, si era sentito estremamente fortunato: li aveva persi entrambi, ma i suoi erano stati genitori degni della loro carica.

All’inizio, aveva solo intenzione di raccogliere quel mucchio d’ossa per indispettire il Vaticano, l’orco che aveva trangugiato il suo pianeta. Il ghigno si addolcì in un sorriso. Ora non lo avrebbe lasciato andare nemmeno se si fosse scatenata l’Apocalisse.

Accelerò il ritmo della scialuppa, desideroso di tornare sulla sua nave al più presto.

Voleva abbracciare il suo Lovino. Sperava che l’attesa non lo avesse fatto imbestialire troppo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scusate per il ritardo .-.

Ieri ho avuto alcuni problemi, e non sono riuscita ad aggiornare .-.

Anyway, Arthur fece infine la sua comparsa<3 Assieme al sanguinoso passato di Antonio u.u

Nel prossimo capitolo… si parlerà dell’Accordatore. E del Marauder 8D

A lunedì<3

Red

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Capitolo 11
*** L'Accordatore ***


Capitolo Undici: l’Accordatore

 

Feliciano sapeva di trovarsi in un sogno.

L’atmosfera quasi nebulosa e lo scorrere irregolare del tempo erano inconfondibili: era entrato nel reame onirico. Ed era altrettanto sicuro che quel sogno non fosse suo: non riconosceva il posto in cui si trovava, e non gli erano familiari nemmeno i vestiti che indossava.

Osservò con più calma l’ambiente caldo della taverna intorno a lui: era un locale di classe medio-alta, abbastanza elegante da scoraggiare gli accattoni ma non sufficientemente altolocato da evitare gli ubriachi, che cantavano a squarciagola in un angolo. I tavoli, circondati da gente abbigliata con strane divise scure, erano affollati da grossi boccali pieni di liquido giallo paglierino.

«Non hai mai assaggiato la birra?»

La proposta venne dalla sua sinistra, dove una giovane donna si era appena materializzata. Feliciano inclinò la testa, valutando la sua età: l’adolescenza era fiorita pienamente sul corpo, nascosto dalla divisa maschile, e sul viso svezzato dalle battaglie. Doveva essere un po’ più grande di lui.

«No. E temo che dovrò aspettare ancora. Non posso assaggiare la vera… birra» tentennò appena su quella nuova parola. «… in un sogno, giusto?»

La ragazza sfoggiò un gran sorriso, e fece la cosa meno femminile che Feliciano avesse mai visto fare da una donna: reclinò la sedia all’indietro e piazzò gli stivali sul tavolo.

«L’hai capito subito. Sei sveglio. Come un bravo Asse dovrebbe essere» lo lusingò.

«Sai chi sono, ma io non so nulla di te» contraccambiò gentile il ragazzo.

La giovane raddrizzò di colpo la sua posa, fissandolo sconcertata.

«Ma come?» si stupì. «La birra, le divise… non ti ricordano nulla?»

I lunghi capelli nocciola della ragazza presentavano una specie di solco appena sotto la nuca, segno che erano stati legati strettamente fino a poco prima; i grandi occhi verdi erano appena adombrati da un alone di occhiaie, e le mani non erano morbide e perfette come quelle di una nobile: le unghie erano scheggiate, e la porzione di pelle tra le nocche era arrossata e screpolata. Era una donna d’azione e non di moine, come testimoniava la divisa guerresca che indossava. Su quel dettaglio si focalizzò Feliciano: era sicuro di aver già visto quell’uniforme. La spilla a forma di falco, con due smeraldi al posto degli occhi, la spada dall’elsa rifinita a guisa di drago e la divisa nera con i bottoni d’argento. Su di essi si focalizzò Feliciano, finché non riuscì a distinguere il fine intarsio che li decorava: un corvo, simbolo della casata più potente di quel pianeta.

«Sei un’Hellsing» concluse l’Asse.

Aveva trovato molte immagini sui libri di storia, e ricordava che la caratteristica distintiva del vestiario di quel popolo erano la spilla a forma di volatile, che variava in base al gregario del guerriero, e i bottoni su cui era inciso il corvo della famiglia Belschmidt. Avevano libertà di scegliere la pietra da incastonare negli occhi della spilla e di decidere il colore della propria uniforme. Quella della giovane donna era di un verde opacizzato dal campo di battaglia, quasi sporco in confronto allo smeraldo degli occhi.

«Esatto. O meglio, lo ero» la ragazza stese la spina dorsale contro lo schienale, sospirando a labbra chiuse. «Questo è il pianeta degli Hellsing come era ventisei anni fa. Prima che il nostro mondo fosse mangiato dai demoni» la giovane girò la sedia verso di lui e gli tese la mano: «Non mi sono ancora presentata. Elizabeta Hédervàry.»

Feliciano strinse quella mano, e quasi si vergognò di quanto i suoi palmi fossero teneri in confronto a quelli duri e callosi della giovane: era una creatura assuefatta alla battaglia e al duro lavoro, al contrario di lui.

«Perché mi hai portato qui, Elizabeta?» domandò Feliciano.

«Volevo a raccontare al futuro Asse una favola della buonanotte» il suo sguardo si illanguidì nell’affetto, e il ragazzo si permise di farle un appunto gentile:

«Non è una favola. È un ricordo, vero?»

L’indice della donna lo picchiettò in mezzo agli occhi, spostandogli la testa all’indietro.

«Sei un po’ troppo furbo, Asse.»

«Mi chiamo Feliciano» la corresse con un sorriso stanco: preferiva il suo nome alla sua carica. Lo faceva sentire umano, e non un pezzo innominato di un’enorme scacchiera.

«D’accordo, Feliciano» concesse la giovane, e bevve un generoso sorso di birra prima di continuare: «Ti ho chiamato qui per raccontarti la storia del più strano degli Hellsing che sia mai nato. Si pensò addirittura che fosse un bambino proveniente da un altro pianeta: non dimostrava la minima propensione al combattimento, ed era del tutto inetto nella lotta contro i demoni» le onde dei capelli saltellarono quando Elizabeta scosse la testa: «Poverino, lo hanno bulleggiato in tutti i modi… finché non ha preso in mano un violino. Oh, allora le cose sono cambiate.»

«Un violino?» ripeté Feliciano, senza capire.

«Strano, vero?» una risata zampillò sulle labbra della giovane, rischiarandole tutto il volto. «Non doveva combattere con le armi, ma con la musica: le sue note non erano in grado di uccidere i demoni, ma potevano bloccarli, potevano stordirli. E dare così modo a noi sterminatori di eliminarli. Ma non era quella la cosa più straordinaria che sapeva fare con il violino» Elizabeta annuì alle sue stesse parole, e accarezzò con gli occhi l’aria davanti a sé. «Era un ragazzo molto schivo. Probabilmente, è diventato così per via degli anni in cui è stato preso in giro da tutti quanti. Non l’ho mai visto sprecare una parola o un sorriso più del dovuto; li centellinava come un avaro farebbe con le sue monete. Ma quando sfiorava le corde del violino…» Elizabeta chiuse gli occhi e un’espressione deliziata si dipinse sul suo volto. «Il mondo assumeva i suoi colori: ed erano colori così brillanti, così intensi che ti lasciavano senza fiato. Era la musica il canale della sua anima, non le parole.»

«Era così bravo?» in risposta alla sua domanda, la giovane gli indicò il palco improvvisato.

«Lo sentirai tu stesso. Sta per suonare.»

Feliciano quasi si rovesciò dalla sedia quando il misterioso Hellsing poggiò i suoi stivali sul legno del proscenio.

«L’Accordatore!» sibilò.

«Già, quello è il titolo con cui è famoso adesso» ruminò amara Elizabeta.

Feliciano si domandava quale musica potesse mai produrre quell’uomo senza pietà, quando l’archetto strofinò le corde. Fu come se il suo potere di creare visioni mediante la musica non fosse cambiato, ma la metamorfosi fu molto più dolce: la melodia era udibile a tutti gli ascoltatori, non solo all’esecutore, e le note sembravano trascendere la dimensione del pentagramma per dipingere pennellate di nuove emozioni. Il mondo stesso sembrava acquistare una luce nuova e più vivida, come aveva detto Elizabeta.

Feliciano sentì il lamento del violino usare non l’aria, ma il suo sterno come conduttore: le note gli punsero il cuore, una dopo l’altra, con una trafittura che non portava dolore. La melodia risvegliò una miriade di ricordi sopiti in lui, come se l’archetto stesse sfiorando le corde della sua anima e non quelle dello strumento: rivide il volto del fratello, quello del suo Guardiano, il cuore pompò l’affetto per il suo custode dagli occhi di ghiaccio, e le narici respirarono la nostalgia del tempo trascorso con Lovino.

La musica gli invase tutto il corpo: gli riempì i polmoni, diventando la sua aria, risalì sugli occhi, velandoli di lacrime, e scese ad occupare ogni centimetro di lui, dalla punta delle dita a quelle dei piedi, rendendolo parte di quella sinfonia evocativa.

Si riscosse lentamente da quella catarsi quando il violino ammutolì: all’improvviso, il mondo tornò scialbo e arido come sempre.

«È quasi magico, non trovi?» lo punzecchiò Elizabeta, riconoscendo nello stupore del giovane la sua stessa sorpresa, quando aveva udito il violinista suonare per la prima volta.

Feliciano annuì, incapace di articolare verbo nel fragore degli applausi che scrosciavano da ogni parte. Non era possibile che la persona che stava scendendo dal palco con l’aria soddisfatta di chi vive per suonare fosse lo stesso uomo che lo aveva trascinato ai Confini del Mondo qualche ora prima. Ma non aveva ancora visto la cosa più sconvolgente: un piccoletto con i capelli argentati e gli occhi rossi si schiantò contro la tibia del musico, reclamando attenzione. E l’uomo lo sollevò con un sorriso che non avrebbe mai immaginato possibile per quelle labbra tetre.

«Chi è quel bambino?» immaginava già la risposta, per cui l’affermazione della donna non lo sorprese:

«Gilbert Belschmidt. Attualmente, l’ultimo Hellsing rimasto in vita.»

«Sembra molto amico dell’Accordatore» notò, neutro.

Elizabeta sbuffò un sorriso amaro e mormorò:

«Gilbert ha perso i genitori poco dopo la nascita. Essere i più potenti tra gli Hellsing significa essere sempre in prima linea. Quel giorno… ci fu un terribile incidente» la ragazza strinse le mani come per un improvviso brivido di freddo. «Gilbert aveva forse un anno o due. Non ha nessun ricordo dei suoi genitori» tamburellò il tavolo con le dita, cercando di afferrare di nuovo le redini della conversazione: «Fu deciso che sarebbe stato affidato a qualcuno che potesse prendersi cura di lui per tutta la vita. E chi, meglio del più incapace tra tutti gli Hellsing, avrebbe potuto rivestire quel ruolo?»

«È stato il suo padre adottivo?»

Elizabeta annuì con la testa alla sua domanda.

«Guardali» la voce le si incrinò, e la giovane la affogò con un sorso di birra. «Guardali» ripeté, con tono più fermo.

Feliciano li osservò, e vide esattamente ciò che un padre e un figlio avrebbero dovuto essere, anche se il genitore era un po’ troppo giovane per risultare credibile: l’Accordatore che ascoltava con espressione seria i discorsi megalomani del piccoletto, e gli occhi di Gilbert che scintillavano come se stessero osservando una stella. L’Asse spostò lo sguardo sul tavolo di legno grezzo: lui e suo padre non avevano mai avuto quella complicità.

«Non aveva anche una madre adottiva?» cambiò discorso Felciano.

«Ce l’hai davanti agli occhi» mitragliò Elizabeta.

L’Asse preferì serbare per sé le perplessità che avrebbero potuto risultare scortesi, e ascoltò il seguito.

«Eravamo una famiglia piuttosto scalcinata, non lo nego. Ma stavamo bene insieme, eravamo felici. Poi sono arrivati i messi del Vaticano.»

I sensi di Feliciano scattarono a quel nome, come quelli di una preda che riconosce i passi del cacciatore.

«Non avevano mai visto prima un potere come quello di Roderich. E hanno pensato di usarlo per loro. Hanno sradicato e deviato la sua anima» quasi sputò, nel pronunciare l’ultima frase.

«Cosa è successo?» domandò Feliciano.

Elizabeta lo guardò con gli occhi sanguinanti dolore:

«Tu hai un potere enorme, Feliciano. Ma per te è relativamente facile controllarlo: sei nato con quel potere, fa parte di te. È come muovere una gamba o una mano. Ma Roderich… lui era nato con un potenziale modesto, per quanto particolare. E la sua portata non era sufficiente per quegli avvoltoi: gli hanno impiantato a forza altro potere, in quelle maledette stigmate che gli hanno scavato sulle mani. E quando una forza così grande non nasce con te ma ti viene imposta, ti consuma come un parassita. Anche per il Custode dei Cancelli è così: in cambio del potere, deve cedere la sua memoria, ogni singola goccia. Roderich ha dovuto cedere i suoi ricordi e le sue emozioni. Non ricorda più nulla, a parte un tedio infinito e un’apatia totale» le palpebre scacciarono le lacrime con un battito, ed Elizabeta concluse: «Non è triste che il suo violino non possa più cantare?»

Feliciano deglutì, cercando di far combaciare l’immagine inflessibile dell’Accordatore con quella dell’uomo di fronte a lui: per quanto serio, era palese l’affetto che provava per quel fagotto che si arpionava costantemente alle sue caviglie per farlo cadere.

«È identico a come l’ho visto io. Per lui, non è passato un giorno…» notò.

«Perché non è più un essere umano. È preda del potere. E il potere ha bisogno che lui sia in perfetta forma fisica, quindi lo conserva al pieno delle sue forze. Quando avrà finito di sfruttarlo, lo abbandonerà, e lui diventerà un mucchio di cenere in pochi secondi. Recupererà i ricordi solo all’ultimo istante… non avrà nemmeno tempo per chiedere perdono per tutti i suoi peccati.»

«A quali peccati ti riferisci?»

Un’ombra scura calò sul volto della giovane donna.

«Volevano essere sicuri che eseguisse i loro ordini alla lettera. Volevano essere sicuri che fosse diventato davvero una macchina. Ero con lui, il giorno in cui l’hanno trasformato» i denti di Elizabeta affondarono nelle labbra. «Un Hellsing non attacca mai un altro essere umano: le nostre armi devono essere rivolte solo ai demoni. Quindi non ci ha neppure sfiorato l’idea di difenderci, quando abbiamo visto quegli sconosciuti: erano uomini come noi, e, per di più, messaggeri del Vaticano. Chissà quanto hanno sbeffeggiato la potenza degli Hellsing, mentre ci rendevano inoffensivi» le mani sciupate della donna corsero alle orecchie, tappandole. «L’ho sentito mentre gli perforavano la carne e gli colavano l’argento bollente nelle mani. Ha urlato, Feliciano, ha urlato così tanto che credevo che l’anima stessa gli sarebbe uscita dai polmoni. Poi le grida si sono spente. Tutto si è spento: ho fissato una marionetta, quando lui ha voltato lo sguardo verso di me. Quando gli hanno ordinato di ammazzarmi, l’ha fatto senza battere ciglio.»

Feliciano trasalì a quella confessione, e non riuscì a proferire verbo mentre la giovane continuava:

«E poi gli hanno ordinato di sterminare tutto il suo popolo. Con la musica senza strumento che hai visto anche tu, ha aperto il portale per i demoni. Solo Gilbert è sopravvissuto.»

«Perché mi hai raccontato questa storia?» annaspò Feliciano. Più la donna parlava, più le sue parole stillavano sangue, più lui si sentiva soffocare, come se la sofferenza degli Hellsing lo stesse affogando.

I calli della giovane sfregarono il dorso delicato delle sue mani: Elizabeta lo trattenne così, mentre lo pregava:

«Tu sei il futuro Asse, sei stato eletto per salvare le persone. E ti chiedo di salvare lui.»

«Perché? Ti ha uccisa, e ha ucciso il suo popolo.»

«Perché è troppo crudele che i suoi occhi restino freddi e il suo violino muto. E poi… sono convinta che l’Accordatore non abbia ancora sopraffatto Roderich. Non del tutto» la donna prese fiato e buttò fuori un fiume di parole assieme al respiro: «Quando ha suonato per uccidermi… non stava suonando il violino, ma io l’ho sentita comunque: anche se stava pizzicando corde d’aria, ho sentito la melodia che aveva composto in onore della mia prima battaglia. “Il diamante della guerra”, così l’aveva chiamata. Un titolo piuttosto pomposo, non trovi?» la donna si riscosse, riallacciando il discorso: «Lo hai sentito anche tu: adesso non usa più la musica. Ma con me lo fece. E usò proprio quella canzone. E poi… ha visto Gilbert che faceva ritorno al pianeta, ma non ha ordinato ai demoni di sbranarlo. Gli ha permesso di fuggire. È per quella canzone, per quell’esitazione che io credo ancora in lui» Elizabeta allontanò il boccale di birra, e si stese con il busto e le braccia sul tavolo: «È disumano che una vita debba soccombere al potere. Tu dovresti capirlo meglio di chiunque altro.»

Feliciano si sentì trafiggere al petto. Lui sapeva più che bene cosa significava vedere tutta la propria esistenza scorrere su un binario predefinito dai potenti.

«Come dovrei salvarlo?» chiese.

«Fagli recuperare la memoria.»

«Per quale motivo?» obiettò Feliciano. «Ricorderebbe tutte le cose atroci che ha fatto.»

«Non puoi annullare i suoi poteri senza annullare anche il sortilegio che blocca le sue memorie» rivelò Elizabeta. Un sorriso creato per metà dalla speranza e per metà dalla disperazione fiorì sulle labbra pallide della giovane. «Ricordando, potrà chiedere perdono per quello che ha fatto. E noi Hellsing lo perdoneremo: si odia l’assassino, non il suo pugnale. Così potrà unirsi a noi nei banchetti del Walhalla, un giorno» sprimacciò il volto e forzò un’espressione allegra mentre gorgheggiava: «E poi, non posso più essere lì a dirgli quanto la sua musica sia bella, quanto lui sia importante… ma, se si ricorderà di me, potrò continuare a dirglielo attraverso la memoria. Si ricorderà delle volte in cui gli ho messo il violino in mano a forza, spronandolo a suonare. Si ricorderà delle volte in cui gli ho detto di amarlo. E spero che, quando lo farà, tra le lacrime gli spunterà un sorriso» gli indicò il duetto poco più avanti, dove Gilbert era finalmente riuscito a far sorgere un incurvamento di labbra sul volto del padre adottivo. «Mi piacevano tanto, quei suoi sorriso così rari…»

Feliciano abbassò la testa, schiacciato dal peso dei sentimenti della donna.

«Non posso più essere vicino a lui, anche se lo desidero. Ma vorrei almeno essere la voce che lo consola dalle nebbie del ricordo. Non voglio che sia solo, Feliciano. Un’eco è sempre meglio della solitudine.»

«Lo farò» bisbigliò il ragazzo.

La mano della donna gli sfiorò una guancia, e le sue braccia scivolarono a circondarlo con affetto.

«Non lo dimenticherò, Feliciano» lo coccolò materna.

Lo lasciò andare qualche secondo dopo, quando il legno del palco scricchiolò di nuovo sotto il peso del musicista.

«Ascolta» lo incitò. «Roderich sta per suonare il pezzo di chiusura.»

Feliciano pianse con il cuore, mentre le note dell’ultima sinfonia del suonatore si libravano nell’aria.

“Il diamante della battaglia” risuonò chiaro e nitido nell’aria improvvisamente immobile.

 

***

 

I tacchi degli stivali ametista schioccarono perentori sul ponte della Reina.

Lovino poté udire chiaramente quel suono derisorio: attorno a lui, tutto era immoto. I marinai si erano cristallizzati nelle loro posizioni: perfino le fiamme sulle fiaccole erano fossilizzate. Non un suono, un movimento o un respiro: tutto era immobile come se il tempo si fosse fermato.

Lovino fissò con odio l’uomo di fronte a lui, che ricambiò lo sguardo con disprezzo altero. Reggeva in una mano un metronomo, uno strumento dal ticchettio insopportabile, usato dai musicisti per scandire il tempo durante gli esercizi stilistici; la lancetta di quel metronomo era rigida, muta, come tutta la nave. Con l’altra mano innalzava un diapason, la forcella di metallo impostata in “la” per aiutare durante l’accordatura di uno strumento.

Bastarono quei due elementi, sommati alle stigmate argentee e all’aria inflessibile, per permettere a Lovino di riconoscerlo.

«Ho fermato la vostra ciurma» annunciò l’Accordatore, appoggiando metronomo e diapason a terra; quest’ultimo, inspiegabilmente, riuscì a mantenersi dritto sulla sua estremità tondeggiante, continuando a vibrare. «E bloccato il vostro famiglio diabolico.»

Il giovane si allontanò di un passo; le medaglie sulla sua giubba tintinnarono nell’aria sepolcrale, fissata dal metronomo, e sentì Roma dimenarsi all’interno delle sue scapole, quasi impazzito per l’impossibilità di uscire. Ruotò le spalle, intirizzite dagli sforzi del suo gregario, e rifletté: se il tempo era immobile per qualunque cosa al di fuori di se stesso e dell’Accordatore, probabilmente anche i proiettili si sarebbero fermati a metà strada. Non avrebbe avuto alcun senso tentare di sparare a quell’uomo. 

Senza staccare gli occhi da quel militare in viola, portò una mano al fianco: Gilbert e Antonio lo avevano praticamente forzato ad accettare quella scimitarra, come estrema misura di sicurezza. Si chiedeva perché il destino fosse così accanito contro di loro da trasformare ogni ipotetica situazione di emergenza in realtà.

L’Accordatore non fece attendere la sua mossa: mosse le dita come per pizzicare un’arpa e, sotto il suo tocco, il nulla assunse gradualmente la forma e la consistenza di un lungo fioretto.

Lovino lo scrutò guardingo. Era diverso dagli strumenti che aveva visto in mano ai maestri di scherma: quell’arma assomigliava al fioretto per forma, ma non sembrava studiata per una competizione sportiva. La sua forma affusolata rivelava una lama più dura del diamante, venata di diramazioni violacee; l’elsa che avvolgeva la mano dell’uomo era un intreccio artistico di argento e ametista e, in qualche modo, appariva più pericolosa della lama stessa. Quell’arma emanava un’aura implacabile, la stessa che permeava le asce dei boia.

«Spero non vi offenderete se ho utilizzato questo stratagemma» salmodiò l’uomo, vibrando un colpo nell’aria: la lama guizzò come un airone sul fiume, e tornò fissa e terribile l’istante successivo. «Volevo sfidarvi in duello. Ma sarebbe stato impossibile, con tutta la vostra ciurma intorno.»

Lovino inalberò la spada nello spazio vuoto tra di loro, e accusò:

«Ti manda mio padre, vero?»

«Ciò è irrilevante» dichiarò l’uomo, stendendo il fioretto in direzione del giovane. «In quanto Accordatore, devo sistemare le note stonate della Confederazione. E voi, Lovino Vargas, siete una delle peggiori deviazioni che siano mai esistite». Poi, fu il turno delle spade per fraseggiare.

Lovino ringraziò quei pomeriggi di bonaccia in cui i marinai gli avevano insegnato a impugnare un’arma, e quelle lunghe serate in cui Antonio lo aveva addestrato al lume di candela. Aveva lottato tantissime volte con il capitano, ma erano stai scontri fittizi, al solo scopo di allenarsi; in battaglia, era abituato ad affidarsi a Roma, ai suoi poteri e alle pistole. Tutte cose ridotte a un’inutile inedia dai marchingegni dell’Accordatore.

Parò il primo colpo di fioretto mettendo la spada in orizzontale. Le due lame si scontrarono, e un’onda d’urto sonica si propagò nelle sue ossa, facendole vibrare come la cassa armonica di un organo.

Lovino allontanò il suo avversario con furia per poi afferrarsi il braccio destro con una mano: la carne era quasi lacerata dalle ossa stesse, che si scuotevano come se volessero perforargli la pelle.

«L’ennesima prova che siete una nota stonata, Lovino Vargas» lo riprese con fredda eleganza l’uomo, carezzando con cautela la stigmate a forma di chiave di violino con il dorso dello stiletto. «Non risuonate come un corpo puro.»

Il pirata arretrò, le dita che quasi affondavano nella carne per fermare l’osso danzante. Doveva evitare il contatto diretto con quella lama: era incantata in modo da far riportare danni al nemico anche quando veniva bloccata.

Fece passare la spada nell’altra mano, e le sopracciglia dell’Accordatore si sollevarono, emanando una gelida disapprovazione.

«Mancino. La mano dei malvagi» biasimò.

«Ambidestro» una luce sinistra brillò nel ghigno di Lovino. «Il male dilaga.»

Scartò di lato per evitare l’affondo aggraziato dell’uomo, e si piegò per schivarlo quando ruotò il torso nella sua direzione con la spada spianata. Si mosse a sua volta per cercare di colpire il rivale sul fianco scoperto, ma non fu in grado di prevedere la sua difesa: l’Accordatore piegò le dita davanti alla bocca come se stesse suonando un’ocarina, e fischiò una nota diretta alle sue gambe.

All’improvviso, le tibie del pirata furono percosse da una scarica sonica che minacciò di spezzarle, e Lovino crollò al suolo. Fu abbastanza pronto di riflessi da girare sul dorso e parare davanti a sé la sciabola prima che l’Accordatore affondasse il fioretto nel suo corpo.

Le sue ossa parvero impazzire, dalle falangi alla spalla, sbatacchiando tra di loro come se un tornado le stesse facendo mulinare all’interno dei muscoli. Morse le labbra, mentre un paio di lacrime scintillavano nei suoi occhi e le braccia tremavano per lo sforzo di mantenere la lama salda di fronte a sé.

L’Accordatore aggrottò le sopracciglia, perplesso: un corpo così piccolo non avrebbe dovuto contenere tutta quella rabbia e quella forza. Non dopo che il suo famiglio diabolico era stato bloccato. Premette ulteriormente il fioretto contro la sua sciabola, e lo vide rabbrividire mentre le ossa gli trafiggevano il cervello con fulmini di dolore, ma la sua resistenza non vacillò: il fioretto restò lontano dal suo corpo.

«Per il bene della Confederazione, Lovino Vargas, dovete sparire» ingiunse l’Accordatore.

Gli occhi del ragazzo s’infiammarono di dolore e collera, poco prima che il giovane lo scaraventasse lontano da sé con la forza di una bestia selvatica. L’Accordatore si rialzò con leggiadria, fissando disgustato quel rifiuto di galeone che si sollevava scalcinato, gambe e braccia tremanti, le mani che ancora si aggrappavano all’elsa della spada.

«Allora siamo fortunati» ansò il pirata. «Lovino Vargas è morto, sei anni fa.»

Il ragazzo mosse un passo da ubriaco, rialzando con fatica le spalle e ondeggiando la sciabola davanti a sé.

«Mi dispiace che tu non l’abbia conosciuto. Era un bambino che covava l’assurdo sogno di essere l’orgoglio del Vaticano assieme al fratello» il rancore gli graffiò un ghigno sul viso. «Poi fu abbandonato in un deserto, e quella speranza avvizzì. Lovino Vargas morì qualche giorno dopo, strappandosi con le sue stesse mani il simbolo della famiglia che lo aveva ucciso» dicendo questo, toccò la base del collo: le creste irregolari della cicatrice bianchissima gli sfregarono contro le dita. Il pirata scostò la frangia dagli occhi: due iridi in cui ribolliva una tenacia infernale dardeggiarono turbolente. Il loro fuoco si rinvigorì a ogni frase che il giovane pronunciò:

«Quello che hai davanti è un ragazzo cresciuto senza genitori, allevato dalle battaglie secondo il credo dei pirati, alleato fino alla morte di Antonio Fernandez Carriedo e unico vice comandante della Reina de la Oscuridad» il giovane sollevò di nuovo spada e sguardo contro di lui, uno più affilato dell’altro, e proclamò: «Io sono Lovino Belial, la Mano Sinistra del Diavolo!»

Il giovane innalzò la sciabola verso il cielo, come gli angeli esecutori del giudizio divino nei dipinti sull’Apocalisse; i suoi occhi e la sua voce infuocarono l’aria circostante, gridando:

«E sarò la rivoluzione che scuoterà la Confederazione!»

L’Accordatore gli lanciò uno sguardo impassibile ombreggiato di disprezzo, e pronunciò:

«E per questo dovete essere eliminato.»

Lovino non lo vide arrivare: ebbe solo l’impressione di un bagliore viola alla sua destra, prima che la lama ametista dell’uomo gli trapassasse il fianco. L’Accordatore mosse un passo di lato, estraendo il fioretto ed evitando la spada dell’avversario. Il pirata cadde rumorosamente sulle ginocchia, una mano premuta sulla ferita che stava facendo impazzire i suoi organi interni: i polmoni in spasmo gli impedivano di respirare correttamente, e il cuore in fibrillazione rendeva ombroso e distorto il mondo intorno a lui. Il rombo del sangue gli occupò le orecchie, e la sentenza dell’Accordatore strisciò a fatica attraverso quel frastuono.

«Siete piuttosto arrogante, a dispetto delle vostre discutibili abilità» lo riprese gelido. Il fioretto salì in cielo, pronto a infilzare il collo sussultante del giovane.

La sciabola intercettò il colpo mortale, fermandolo a metà strada: con gli occhi annebbiati da una cupa foschia, le orecchie otturate dalla risacca del sangue e il cuore impegnato a non collassare, Lovino sollevò la sua ultima difesa. L’Accordatore vide quel braccio esausto trasalire sotto la sua forza, ma non lo vide cedere: testardo come il suo padrone.

«Dove… sei… bastardo» ringhiò Lovino, la lama dell’uomo che si avvicinava sempre più alla sua gola.

Ebbero solo il tempo di udire il grido di un rapace, prima che la loro visuale fosse occupata da un turbinio di piume nere. L’Accordatore fu costretto ad abbandonare Lovino, scacciato dalle furiose beccate di un gigantesco corvo.

«E poi dicono che non sono il più grande eroe della Galassia» ghignò una voce poco distante. «Salvato all’ultimo secondo. Pretenderò un premio.»

Lovino riuscì a scacciare la caligine dagli occhi abbastanza da riconoscere una figura dai capelli argentati al suo fianco.

«Gilbert!» lo salutò, felice come non mai di vedere il sogghigno dell’uomo.

«Hellsing» lo riconobbe con tremenda freddezza l’Accordatore. «Dovresti essere a Caina.»

«Golem, ghiaccio e solitudine: quel posto diventa noioso, dopo il primo anno e mezzo» Gilbert accarezzò lentamente l’ala lucida del suo famiglio, mentre sdrammatizzava. «Ho deciso di fare un giro qui intorno.»

Il ghigno gli morì sulle labbra alle parole dell’Accordatore.

«La tua decisione ha avuto forti ripercussioni sull’ultimo Sparviero imprigionato.»

Lovino batté le palpebre, riuscendo finalmente a mettere di nuovo a fuoco il mondo. E la prima cosa che vide fu il volto tirato e livido di Gilbert, come se l’anima fosse evaporata dal corpo.

«Cosa avete fatto a Francis?» sillabò minaccioso, più cupo del suo famiglio.

«Ti interessa questa informazione?»

«Ovviamente.»

«Allora fatti da parte, Hellsing. Devo concludere il mio compito per quanto concerne Lovino Vargas. Se non creerai ulteriori fastidi, ti rivelerò l’informazione che desideri.»

Le parole di Gilbert commossero l’irritabile pirata e scatenarono il ribrezzo dell’altero Accordatore.

«Non ho avuto il piacere di conoscere Lovino Vargas, ma sai una cosa?» l’Hellsing si voltò, spavaldo, e porse una mano al giovane per aiutarlo ad alzarsi. «Anche se fosse stato il miglior ragazzo del mondo, preferisco Lovino Belial. È più adatto a stare con gli Sparvieri.»

Il giovane non fece in tempo a fingere di non essere toccato da quelle parole che Gilbert gli si accostò all’orecchio, bisbigliando:

«Cerca di rompere il diapason, e poi evoca Roma. Quel damerino in viola non è un avversario semplice.»

Si voltò di nuovo, gonfiando il petto nella sua divisa oscura in una posa pomposa.

«Dovari sconfiggermi, prima di poter attaccare questo ragazzo.»

L’Accordatore sospirò, annoiato come chi deve sopportare una vespa fastidiosa.

«Da solo e disarmato non rappresenti nemmeno una sfida degna» si rammaricò.

«Oh. Davvero sembravo solo e disarmato?»

Il ghigno dell’uomo si allargò a dismisura mentre l’ombra di Gilbird si stendeva su di lui; la scimitarra appena forgiata quasi cantò di gioia, uscendo dal fodero.

«Certo, il mio archibugio è ancora sotto i ferri. Ma questa spada è meravigliosa, come me» le fece compiere qualche giro nell’aria per godersi il suono netto della lama affilata. La appoggiò alla spalla con espressione arrogante, e invitò a sé l’Accordatore con il dito indice, flautando: «Vuoi essere il primo a provarla?»

«Quanto tempo sprecato…» soffiò l’uomo, prima di scagliarsi aggraziatamente contro di lui.

Lovino restò per qualche istante immobile, incantato da quel combattimento. Aveva visto molte battaglie, ma nessuna era paragonabile a quella davanti ai suoi occhi: l’Accordatore affondava e schivava come se stesse danzando, quasi annoiato da quel duello; Gilbert, al contrario, attaccava come se in ogni colpo vibrasse la sua stessa vita, lasciando spazio al suo famiglio con una coordinazione spaventosa. Ma ancor di più lo sorprese la tranquillità con cui l’Hellsing parava i colpi del rivale: pareva quasi che le onde soniche non avessero effetto su di lui, che respingeva ogni affondo senza perdere il suo ghigno sardonico. Così come l’Accordatore non scomponeva la sua espressione marmorea mentre ballava su quella musica bellicosa.

Si riscosse quando le due lame si incontrarono in un clangore di metallo, sprizzando scintille. Lovino corse veloce verso il diapason, e afferrò lo strumento. Vide un interrogativo baluginare nelle iridi fredde dell’uomo, quando percepì che il suo strumento era stato infranto da una volgare spada piratesca.

Lovino evocò Roma l’istante successivo, e lo aizzò contro l’Accordatore.

Gilbert si scostò per evitare la belva, e si voltò verso Lovino con un grido di vittoria sulle labbra, ma il pallore del giovane gli strangolò l’entusiasmo in gola. Roma balzò nuovamente al fianco del suo padrone, mentre un regalmente indispettito Accordatore sistemava il suo cappotto violaceo.

Lovino, smarrito e spaventato, indicò l’uomo di fronte a lui, sibilando a Gilbert:

«Non ha ricordi. Non ha emozioni. Non ha nemmeno pensieri. È come se fosse morto!»

L’Hellsing si parò davanti a lui, proteggendolo dall’Accordatore. Lovino inalberò la spada a sua volta, pronto a combattere, Roma che ringhiava al suo fianco e Gilbird che strideva alle sue spalle. I poteri psichici del lupo erano inutili, se quell’uomo non aveva un’anima.

«Mira alle mani, Lovino» bisbigliò Gilbert; le suole dei suoi stivali stridettero sul legno della nave, preparandosi all’assalto. «È l’unico modo per farlo tornare uomo.»

Il giovane non comprese fino in fondo il senso delle parole dell’Hellsing, ma ubbidì comunque: quando l’Accordatore mosse un nuovo affondo verso di loro, scartò di lato e mirò alle sue stigmate. L’uomo ruotò verso di lui, parando il suo colpo; ma quella mossa non gli permise di vedere l’attacco di Gilbert. Preciso e implacabile come era sempre stato con i demoni, l’Hellsing vibrò un tremendo colpo al suo polso: la lama forgiata per trapassare le squame dei diavoli recise pelle, carne e ossa, e la mano mozzata cadde a terra con un rumore flaccido e un violento spruzzo scarlatto.

L’Accordatore si schiantò sulle ginocchia con un urlo disumano, contorcendosi sul moncherino che vomitava sangue. Gilbert scostò Lovino per sottrarlo a quella vista raccapricciante: mille sfumature di dolore e sofferenza distorsero il volto dell’uomo, rendendolo quasi irriconoscibile; gli occhi si strabuzzarono dietro le lenti, e gli occhiali vennero scaraventati lontano dalla violenza con cui l’Accordatore scosse la testa, preda di atroci tormenti.

Il metronomo ricominciò a scandire il tempo, e i marinai, sciolti dall’incantesimo, si trovarono circondati dallo strazio del loro nemico. Alcuni di loro indietreggiarono, altri si sporsero incuriositi, altri ancora si portarono alle spalle del vice comandante, in attesa di ordini.

Quel supplizio durò per il minuto più lungo della loro vita. Quando finalmente il grido dell’uomo si spense in un rantolo svociato e il suo corpo smise di ritorcersi, Gilbert recuperò i suoi occhiali e si chinò su di lui, porgendoglieli.

«Roderich» quando fu chiaro che l’Accordatore non era sufficientemente in sé da rimettere le lenti al loro posto, l’Hellsing stese le stecche e gliele appoggiò delicatamente sulle orecchie. «Roderich» ripeté. «Ricordi a chi appartiene questo nome?»

Gli occhi ametista lo fissarono senza capire, dilatati, terrorizzati; poi, gradualmente, riacquistarono una dimensione normale e una lucidità umana.

«Sono io. È il mio nome» gli chiese aiuto con le iridi vibranti di sconcerto e paura, ed esalò: «Gilbert… dimmi che non l’ho fatto…»

La mano dell’Hellsing si appoggiò sulla sua testa, senza giudicarlo, senza criticarlo.

«Non eri in te. Non è stata colpa tua» mormorò, carezzevole.

Roderich trasalì quando un ruggito di razzi propulsori si gonfiò a lato della nave; Antonio scavalcò il bordo del vascello, e un silenzio teso ed elettrico fu il suo benvenuto.

«Che succede?» tentennò, osservando perplesso Gilbert, Lovino e l’uomo sanguinante ai loro piedi.

Il giovane pirata fu il primo ad avere la forza di muoversi: raggiunse il capitano e gli assestò un poderoso pugno allo stomaco; quando fu piegato in due per il dolore, gli stritolò la testa in un abbraccio rude e ringhiò, i denti che tremavano per trattenere le lacrime:

«Dove diavolo eri, bastardo…»

Antonio poggiò amorevolmente una mano tra le scapole frementi di Lovino, e, in quell’istante, Gilbert sussurrò a Roderich:

«Ricordi cosa stavi dicendo prima su Francis?»

Il volto dell’uomo sbiancò, e non solo per il sangue che continuava a scorrere a fiumi fuori dal suo polso tranciato. La risposta dell’Accordatore non fu più forte di un soffio di vento, ma risuonò comunque chiara e terribile sul ponte dell’Aereonave.

«Quando sei evaso da Caina, è stato deciso che la Confederazione non poteva lasciar scappare un altro Sparviero. Francis Bonnefoy, l’ultimo Marauder, è stato giustiziato il giorno seguente.»

Solo il suono del corpo di Roderich che sveniva sul pavimento insanguinato echeggiò in quel silenzio irreale che aveva ucciso l’animo della Reina de la Oscuridad.

 

 

 

 

 

 

 

Buonasera<3

E in questo capitolo abbiamo parlato dell’Accordatore… nel prossimo, si parlerà del Mago dell’Ovest e del suo passato. E del Marauder 8D

A lunedì<3

Red

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Capitolo 12
*** Il Mago dell'Ovest ***


Capitolo Dodici: il Mago dell’Ovest

 

Arthur si appoggiò alla poltrona come se le sue ossa fossero diventate d’acqua.

Carriedo aveva portato Lovino Belial, quella mattina, perché rispettasse gli accordi: aveva ricondotto alla sanità mentale tutti i marinai che si trovavano internati a causa sua. Poi, la notizia: Francis era stato giustiziato.

Arthur premette le dita sulle tempie, accigliato. Perché il Vaticano non gli aveva parlato di quell’esecuzione? Temeva che avrebbe fatto qualcosa per sabotarli?

Il Mago dell’Ovest strinse un pugno e lo abbatté sul bracciolo della poltrona.

Avevano sempre usato i suoi poteri ricattandolo con la salvezza della sua patria. E lo avevano ingannato, facendogli credere che il Marauder fosse ancora in vita.

Non poteva mettere in pericolo Britannia, ma poteva restituire il tradimento al Vaticano. Aiutando l’ultimo Carriedo, avrebbe fatto in qualche modo ammenda per l’eccidio del suo popolo.

Si diresse verso la cassaforte, nascosta dietro il quadro del Leone Incoronato. Vi passò sopra la mano in modo che le pietre incastonate riconoscessero la sua aura, e, quando la porta d’acciaio si schiuse, afferrò con cura l’unico monile lì conservato: un non ti scordar di me di cristallo, sottile come un fiocco di neve. Lo avvolse in un panno, badando di non incrinare nemmeno un petalo, e si preparò al successivo incantesimo. Pronunciò una litania secca, e si portò esattamente davanti allo specchio; allungò la mano verso il suo riflesso, che fece lo stesso. Strattonò le dita della creatura al di là dello specchio, e un secondo se stesso ruzzolò fuori dalla superficie riflettente.

«Che maniere!» si lamentò il secondo Arthur, rialzandosi stizzito.

«Non abbiamo tempo da perdere. Cambiati» lo spronò bruscamente l’originale, e gli indicò un paravento spartano in un angolo della camera. La sua copia si avviò fumando indignazione, e obiettò:

«Cos’è questa palandrana antidiluviana?»

«Una palandrana antidiluviana» confermò Arthur. «È l’unico indumento di Avalon che mi resta.»

«Un magnifico esemplare di muffa su tessuto» commentò l’altro, spostando il mantello grezzo con la punta del piede.

«Non è ammuffito» il Mago dell’Ovest gli gettò addosso una casacca e un paio di pantaloni. «Non puoi stare con l’uniforme da capitano.»

«Creerebbe confusione negli uomini?» la copia si tolse bruscamente i vestiti dalla testa e si nascose dietro il paravento per infilarseli.

«No. Ti renderebbe troppo riconoscibile. Stai per salpare con la Reina de la Oscuridad.»

Una testa color paglia sbucò dal paravento, inviperita.

«Come sarebbe a dire?»

«Non posso abbandonare Britannia, ma non sopporto di essere in debito con un pirata: andrai con lui e lo aiuterai a ritrovare il Marauder.»

La copia stava per reclamare, ma la sua bocca rimase aperta a metà.

«Il Marauder non può morire» recitò in un soffio.

«Oh, finalmente la condivisione di pensiero si sta completando» si complimentò Arthur. «Saresti stato un doppio molto scarso se fossi rimasto con la testa vuota.»

«Questo mi avrebbe reso solo più simile all’originale» replicò piccato l’altro, stringendo la cintura dei calzoni.

«Riconosco il mio sarcasmo spietato» notò il Mago dell’Ovest. «Sei una copia ben riuscita, se non altro.»

Il secondo Arthur uscì dal paravento, completamente vestito. L’originale approvò con un cenno del capo: gli abiti da boscaiolo nascondevano a dovere le loro somiglianze, e il largo cappuccio della palandrana di Avalon celava il viso identico a quello del Britanno.

«Vai» comandò Arthur, e gli porse il minuscolo orpello, ben fasciato nel panno soffice. «Non voglio che quel pirata avanzi altre pretese assurde, in futuro.»

La sua copia sollevò il cappuccio ombroso, e due occhi uguali ai suoi lo scandagliarono mentre l’altro lo accusava amaramente:

«La condivisione di pensieri si è completata. Non è per non avere un debito con il pirata che mi stai mandando» soppesò il fiore di cristallo e intonò: «“Mi riconoscerai in qualunque forma?”»

«Vai» tagliò corto Arthur. La sua copia non aggiunse altro, e lasciò la stanza.

Nelle menti di due maghi si affollarono le stesse memorie.

Il dolore e la dolcezza non furono dimezzati, anche se passarono per due cuori diversi.

 

***

 

Arthur aveva appena compiuto la maggiore età, a quell’epoca.

Merlino, suo nonno, lo prendeva in giro dicendo che gli erano cresciute solo le ossa, e non il resto: non aveva un grammo di carne su quelle membra rachitiche. Ma la sua gracile forma fisica non aveva compromesso i suoi poteri: accorrevano da tutta Faerie per acclamare i successi dell’ultimo rampollo degli Avalon. Era il gran cerimoniere nelle feste di paese, dove faceva comparire dal nulla suntuosi banchetti e strumenti musicali che suonavano da soli. La gente si divertiva, e Arthur rideva con loro.

Avrebbe dovuto essere così anche Beltaine.

Il nonno Merlino lo prese sulle gambe, e gli comunicò il loro progetto: erano convinti che esistessero altri mondi, oltre a Faerie, e avevano intenzione di inviare lui, Arthur, ad esplorarli. Sarebbe stato un enorme passo avanti per il loro mondo: avrebbero potuto studiare nuovi popoli, forse nuove razze, e avrebbero potuto intrattenere proficui scambi commerciali.

Arthur aveva accettato: essere il primo Avalon esploratore era un onore come non avrebbe mai sperato di riceverne. Avevano poi deciso il giorno della sua partenza: Beltaine, quando l’ultimo fuoco si fosse spento.

Avevano festeggiato e banchettato, come sempre: il Mago dell’Ovest ricordava ancora il calore del fuoco scoppiettante nei falò e quello del sidro giù per la gola, le musiche celtiche e le danze, il tappeto di fiori caduti dalle ghirlande con cui le giovani si erano addobbate i capelli e l’odore turbinante di dozzine di portate servite sullo stesso tavolo.

Merlino gli aveva drappeggiato quella vecchia palandrana addosso, cimelio del capostipite degli Avalon; l’unico decoro di quella mantella era il simbolo del melo, l’albero sacro per la loro famiglia, ricamato in oro all’interno del tessuto, in modo che non fosse visibile all’esterno.

Arthur aveva salutato tutti con un plateale gesto della mano, ed era saltato nel portale aperto per lui dal nonno.

Se avesse saputo cosa lo aspettava, non avrebbe mai intrapreso quel viaggio.

Si era trovato in un mondo folle e tenebroso, pieno di gente troppo indaffarata per parlare con il ragazzino straniero, un pianeta pieno di odori strani e pungenti, di rumori striduli e di cieli carichi di nuvole. Su Faerie non era così: il cielo non era mai sprovvisto di un raggio di sole, e sul volto della gente non mancava mai il sorriso.

Arthur girò per le strade per giorni e giorni, in cerca di una minima cosa che potesse piacergli in quel posto, ma non riusciva a trovare un solo dettaglio gradevole: gli pareva di vivere in un mondo soffocato da un manto di polvere. I cibi gli parevano insipidi se non disgustosi, i rumori troppo forti, gli odori troppo penetranti, la gente troppo gretta e il cielo troppo triste.

Estrasse dunque dalla tasca la verga che il nonno gli aveva dato, e la spezzò come era stato istruito. Non c’era nulla che quel pianeta potesse insegnare o offrire a Faerie.

Ma le estremità della verga rimasero immobili nelle sue mani: niente fumo, niente scintille. Niente casa.

In quel giorno, gli Avalon scoprirono che si poteva approdare in un mondo parallelo, ma non si poteva fare ritorno.

 

***

 

Lo incontrò cinquant’anni dopo, quando si era abituato a quel mondo come ci si abitua al dolore di un dente guasto.

La sua divisa sfarzosa fendeva l’aria grigia come un faro, con il blu intenso della giacca di sartoria e il rosso infuocato dei pantaloni alla zuava. Procedeva con un’andatura indolente ed elegante, come se non volesse affaticare gli stivali scuri. Esaminava lentamente il mondo con gli astuti occhi azzurri, e un accenno di sorriso aleggiava sulle sue labbra. Di tanto in tanto portava dietro le orecchie i capelli biondi, lievemente ondulati, e accarezzava la barba curata.

Arthur non si sentì intimorito quando quelle iridi furbe si posarono su di lui.

Agli occhi dell’umano, doveva apparire come un normale ragazzo prossimo a uscire dall’adolescenza. Aveva scoperto, tempo addietro, che i suoi ritmi di crescita erano molto diversi rispetto a quelli degli abitanti di quel mondo: occorrevano tre generazioni umane perché il suo viso apparisse invecchiato di un paio di anni. Era stato costretto a trasferirsi ogni volta in cui la sua età immobile avrebbe potuto tradire le sue origini aliene.

«Non sei di qui, vero, ragazzo?» domandò l’uomo, con un accento arrotondato.

«No signore» confermò neutro Arthur. «Abito qui solo da qualche anno.»

Lo sconosciuto puntò una mano sul muro alle sue spalle, e insinuò con un ghigno malizioso:

«E da quanto hai abbandonato il tuo mondo?»

Rise dello sguardo spinoso che gli lanciarono quegli occhi verdi, e si pizzicò la barba bionda mentre lo rassicurava:

«Non agitarti, piccolo. Sono un Marauder: sono abituato a vedere cose che gli altri non vedono. In particolare, sono bravo a riconoscere le creature che non sono di questo mondo.»

Il viso dell’uomo si avvicinò al suo a tal punto che Arthur lo respinse schiaffandogli una mano in faccia.

«Non sei di questo mondo, ma sei troppo materiale per essere un fantasma» lo sconosciuto si allontanò sorridendo. «Sei un alieno?»

«Bada ai tuoi affari» replicò secco lui, voltandosi.

«Oh, posso anche farlo» l’uomo gli appoggiò una mano sulla spalla, che il giovane si scrollò di dosso bruscamente. «Ma dopo tu rimarresti da solo. Di nuovo» c’era il veleno di chi sa di pungolare un tasto dolente nelle sue parole. «Non credo che molte persone ti abbiano rivolto la parola, negli ultimi cinquant’anni.»

Prima che il ragazzo potesse chiedergli come faceva a sapere che era lì da cinque decadi, l’uomo stese il braccio con gesto teatrale e indicò l’acciottolato.

«In fondo a questa strada c’è un albero di melo. Mi troverai lì nei prossimi giorni. Nel caso avessi voglia di parlare con qualcuno. Sempre che la tua lingua non si sia atrofizzata, in tutto questo tempo» aggiunse, con un ghigno che il giovane trovò semplicemente insopportabile.

«Puoi anche mummificarti, sotto quell’albero di mele» tranciò la conversazione Arthur, voltandogli le spalle.

L’uomo lo osservò placido mentre spariva lungo la strada. Voltò il viso come se stesse parlando con una persona alle sue spalle e mormorò, raffinato:

«Lo so, Jeanne. Verrà. Nemmeno un alieno è fatto per vivere da solo per sempre.»

 

***

 

La previsione dell’uomo si rivelò corretta: occorse una settimana intera perché Arthur vincesse la lotta contro il suo orgoglio e riuscisse a trascinarsi sotto l’albero di mele.

Lo sconosciuto lo aveva invitato a prendere posto vicino a lui; Arthur si era seduto a tre metri di distanza.

E avevano cominciato a parlare.

Dopo molti giorni e un’incalcolabile dose di pazienza da parte dell’uomo, l’Avalon aveva rivelato le sue origini e descritto il suo mondo.

Lo sconosciuto aveva così scoperto un luogo chiamato Faerie, che corrispondeva ai racconti mitologici dell’età dell’oro: un paese che non conosceva carestia o grigiore, che non sapeva cosa fossero malattia e morte.

Arthur strappò un filo d’erba quando gli fece quella confessione.

«Non sapevo che gli umani potessero morire.»

«Nel tuo mondo le persone non muoiono?» si sorprese l’uomo.

Il giovane chiuse gli occhi, cercando di isolarsi dalle brutture che aveva visto nella dimensione degli uomini. Li riaprì con un sospiro sconfortato, e paragonò:

«Quando un abitante di Faerie sente che il suo tempo sta per finire, si avvicina al lago di Vivien… e le onde lo conducono alla sua nuova dimora. È un abbandono dolce, è come… tornare a casa» le dita del ragazzo corsero a intrecciarsi con l’erba sotto di lui, senza pace. «Qui invece ho visto gente morire urlando… soffrendo… non pensavo che la morte potesse essere così orribile.»

L’uomo gli lasciò il tempo per riassorbire il colpo che quelle orribili memorie avevano assestato al suo animo delicato. Quando Arthur parlò di nuovo, il suo tono trasudava l’ostinazione di chi non vuole cedere al male.

«E poi… qui ho imparato cosa vuol dire “ammalarsi”. A Faerie nessuno si ammala. Invece qui… ho visto cose atroci annidarsi nei corpi delle persone e portarle alla morte.»

«Non è un mondo in cui è facile vivere, il nostro» il tono dolce dell’uomo sembrò in qualche modo rendere le sue affermazioni vellutate. «Ti offre mille motivi, mille ostacoli per tirarti a fondo. Devi avere una ragione per vivere e aggrapparti a quella con tutte le tue forze, se non vuoi soccombere» gli occhi dal colore dei fiordalisi si appuntarono sfacciati sul suo viso, e lo interrogarono assieme alle parole:

«Sembra un bel posto, la tua Faerie. Niente malattie, un addio gentile… perché l’hai abbandonata?»

«Volevamo conoscere altri mondi» le labbra di Arthur si contrassero, rimpiangendo la sua terra natia. «Ma non sapevamo che non si potesse fare ritorno.»

L’uomo colmò la distanza tra loro e gli appoggiò una mano sui capelli stopposi. Il giovane, annegato nei suoi ricordi, impiegò qualche secondo per accorgersi che l’altro lo stava toccando.

«I viaggi interdimensionali funzionano in una sola direzione» ritrasse la mano prima che Arthur lo graffiasse come un gatto selvatico. «Questo vale per tutti i mondi. Morendo, si entra in un’altra dimensione, e non è possibile fare ritorno. Per questo esistiamo noi Marauder: traghettiamo le anime che non hanno trovato la strada dopo il grande salto. Ma, purtroppo, non posso fare nulla per te» l’uomo avvertì una stretta al cuore, quando lo sfavillio speranzoso appena acceso negli occhi del giovane si spense miseramente. «Tu non sei uno spirito. Non posso traghettare un essere vivente. E poi, come ti ho già detto, i viaggi di questo tipo funzionano in una sola direzione.»

«Quindi non c’è nulla che io possa fare?»

Quella domanda che sapeva di preghiera doveva essere costata un enorme sforzo a quella bocca orgogliosa. L’uomo gli circondò le spalle con un braccio, incurante della sua ritrosia, ed espose:

«Non puoi fare nulla per tornare a casa, ma puoi fare qualcosa per rendere questo posto la tua nuova casa.»

Arthur lo spinse via con poca grazia, e si alzò in piedi irritato.

«Non vedo come.»

«Per la via più semplice: trova qualcosa da proteggere» l’altro si alzò a sua volta, adombrandolo con i suoi centimetri in più. «Hai visto la morte, hai visto la malattia… ma tutto questo non ti ha provocato solo paura e delusione, giusto? Non hai sentito qualcosa di diverso, più o meno qui?» si appoggiò una mano sulla pancia, e l’espressione del giovane fu una conferma sufficiente. «Quella è empatia. Hai visto il loro dolore, e ti è sembrato di sentirlo sulla pelle. Per questo hai odiato la morte e la malattia di questo mondo: non portano sofferenza solo al malato o al defunto, ma la estendono a tutti i presenti. Non vorresti fare qualcosa per fermare questa epidemia?»

Arthur si morse le labbra: non capiva in che modo lui potesse operare una simile trasformazione, ma non voleva abbassarsi a elemosinare spiegazioni dal Fiammingo.

L’uomo lo liberò da quel conflitto, annunciando:

«Per aver affrontato un viaggio del genere, devi avere dei poteri eccezionali. Usali per il bene della gente e presto il tuo talento verrà riconosciuto.»

L’uomo gli scompigliò i capelli, e saltellò via prima che il ragazzo potesse colpirlo.

«Non ti lascerò solo. Questo mondo è troppo efferato per affrontarlo senza un po’ di compagnia.»

«Non so nemmeno il tuo nome» gli fece notare Arthur. Quel ragazzo aveva un modo davvero grazioso di ottenere le informazioni evitando il fastidio di domandare e mostrare interesse.

«Francis Bonnefoy» si presentò, con un inchino aristocratico. «Finalmente me l’hai chiesto.»

«Sei tu ad avermelo detto.»

«Ma certo» concedette il Fiammingo, prima di voltarsi verso la strada che conduceva al cuore della città. «Ora andiamo: abbiamo del lavoro da fare.»

«Ma tu non sai il mio nome!»

Il sorriso dell’uomo mutò la sua fonte: dall’astuzia migrò alla saggezza.

«Lo so già, Arthur Kirkland, della dinastia degli Avalon. Così come sapevo che saresti venuto sotto il melo, perché è il simbolo della tua famiglia, ricamato nel tuo mantello.»

Il giovane indietreggiò, fissando guardingo quell’uomo.

«Come sai tutte queste cose?» un globo di fuoco si gonfiò rombando nel palmo di Arthur. Provò quasi una punta di nostalgia nel sentire le fiamme vorticare contro le sue dita: erano decenni che non utilizzava la magia, temendo le ire e i giudizi degli umani.

Francis si inginocchiò, quasi volesse annullare il suo vantaggio di altezza sul giovane.

«Essere un Marauder non significa solo essere un traghettatore. Come ti ho detto, noi vediamo cose che gli altri non vedono, sentiamo cose che gli altri non sentono.»

«Sei un sensitivo?»

«In un certo senso.»

«E grazie ai tuoi poteri riesci a leggere il passato altrui?»

«Oh, no, quello è merito di Jeanne. Lei vede molto più lontano di me.»

«Jeanne?»

L’uomo gli porse una mano senza reali speranze, sorridendo.

«Ci sono molte cose di me che non sai. Ma sarò felice di rivelartele, se vorrai camminare sulla mia stessa strada.»

Nemmeno Francis lo aveva previsto: Arthur afferrò quella mano.

 

***

 

Aveva trovato la sua strada.

Lo capì quando il sole di Faerie sorse sui volti dei familiari dell’ammalato, che si rialzò dal letto sulle proprie gambe. Gli avevano dato pochi giorni di vita, ed era bastato il tocco di quel ragazzo dagli insondabili occhi verdi per riportarlo in perfetta salute.

Quel mondo gli parve meno ostile, mentre tutta la famiglia si accalcava intorno a lui in lacrime. Erano delle lacrime belle da vedere: erano scaldate dai raggi della gioia, e scorrevano negli argini dei sorrisi.

Continuò a seminare lacrime tiepide e felicità in ogni provincia del paese. Poiché se ne andava sempre al tramonto, la gente prese a chiamarlo “Il Mago che va dove il sole muore”, presto abbreviato in “Il Mago dell’Ovest”. Arthur sobbalzò la prima volta che sentì un bambino appiccicargli addosso quel nomignolo; con il tempo, cominciò a trovarlo piacevole: la gente lo pronunciava sempre con la speranza negli occhi. Era una specie di mantra della gioia, ed era stato lui ad averlo portato.

«Hai ottenuto una popolarità enorme in soli due anni» lo lodò una sera Francis. «Il tuo nome è conosciuto in tutta la Compagnia di Britannia, ormai.»

«Il mio appellativo, non il mio vero nome.»

«Come sei pignolo.»

Arthur studiò l’uomo seduto sul suo letto con le gambe accavallate. Lui non aveva più una casa, quindi non soffriva particolarmente nel cambiare continuamente città; ma si chiedeva per quale motivo il Marauder lo seguisse costantemente, senza mai esprimere il desiderio di tornare a casa.

«È strano» sbuffò, girando la poltrona in modo da poter fronteggiare direttamente il Fiammingo.

«Cosa è strano?»

«Non hai una famiglia? Una casa a cui fare ritorno? Ormai sono due anni che viaggi con me» storse il naso, e aggiunse: «E hai anche una camera tua, in questo albergo, eppure continui a invadere la mia.»

Francis incrociò le braccia dietro la testa e si lasciò cadere di schiena sul materasso.

«Invado la tua camera perché mi piace la tua compagnia. Mi piace quando mi racconti di Faerie, e trovo interessanti i discorsi che imbastiamo su questo mondo» fissò il soffitto con quel suo sguardo speculativo, come se vedesse molto più di una semplice parete imbiancata. «Ma non è tempo di tornare a casa. Non in questa vita.»

«Spiegati meglio» lo spronò Arthur.

Le dita del Marauder si mossero nell’aria come se stessero salendo una piccolissima scala a pioli, e l’uomo raccontò:

«Non sono l’unico Marauder. Anzi, per essere precisi, “Marauder” è il nome di tutti i nati in terra Fiamminga che dimostrino poteri paranormali diretti alla comunicazione e al traghettamento degli spiriti. Tuttavia, io sono il Marauder. Sono stato il primo Fiammingo in cui si siano manifestati i poteri che ci hanno resi famosi. Circa trecento anni fa.»

Le sopracciglia dell’alieno si incontrarono con sospetto, e l’uomo sciolse la loro tensione proseguendo:

«Sono un umano, come ogni altro abitante della Confederazione. Ma, forse per via dei miei poteri, sono immortale. Al tuo contrario, però, non riesco a mantenere lo stesso corpo per sempre: quando le mie vesti materiali sono troppo sciupate, devo cambiarle. Così fingo di morire: la mia anima trasmigra in un altro corpo, e io continuo a vivere con le mie memorie e il mio spirito inalterati.»

«Io non sono immortale. Vivo solo molto più a lungo degli esseri umani.»

«Nemmeno io sono sicuro di essere immortale. So solo che, fino a questo momento, la mia anima ha scelto volontariamente quando abbandonare un corpo e quando possederne un altro» sorrise bonario, e teatralizzò: «Il Marauder non muore mai. Si prende solo una breve vacanza.»

«Funziona così per tutti i Marauder?»

«No, solo per me. Con il mio popolo condivido i poteri, non il destino.»

«E perché adesso non sei a guidare il tuo popolo?»

Francis sospirò, scuotendo la testa.

«È difficile, per gli esterni, comprendere lo stile di vita dei Marauder: noi vediamo il mondo e lo scorrere del tempo in modo totalmente differente rispetto agli altri. Non sempre il ruolo di un comandante è quello di guidare il suo popolo tramite la politica. Ogni tanto, deve allontanarsi per accendere la miccia di cambiamenti epocali.»

«Io sarei un cambiamento epocale?»

Francis si rimise a sedere con uno scatto, e si voltò verso di lui con l’espressione del gatto che caccia il topo.

«Sei un alieno proveniente da una terra incantata, sei quasi immortale e i tuoi poteri hanno salvato in due anni metà delle persone presenti nella Compagnia di Britannia. Sei uno sconvolgimento abbastanza vistoso, Arthur.»

Il ragazzo si alzò dalla poltrona, e si drappeggiò sul viso la sua espressione più seria mentre proclamava:

«Non sono un fenomeno da studiare.»

«Lo so. È per questo che ti sto accompagnando.»

«Se è solo per divertirti, puoi fare ritorno a casa» replicò asciutto il giovane, voltandogli le spalle. La premessa addolorata dell’uomo lo accarezzò tra le scapole.

«Non sono qui per divertirmi, ma per aiutarti.»

Francis sapeva che quelle spalle orgogliose non si sarebbero voltate, quindi si rassegnò alla prospettiva di parlare con la sua nuca.

«Non ci siamo incontrati per caso, due anni fa. Ti stavo cercando, Arthur degli Avalon. Jeanne mi aveva parlato di te, mi aveva detto dove trovarti.»

«Chi sarebbe questa Jeanne che nomini sempre?» lo interruppe bruscamente il giovane.

Francis si portò una mano al cuore e accostò l’altra alle labbra, come per un baciamano cavalleresco.

«È la coraggiosa pulzella che ha deciso di essere il mio spirito guida. Lei non ha limiti fisici, capisci? È per questo che può vedere nel futuro, che può rivelarmi ciò che si trova nel passato o nella mente degli altri.»

«Perché Jeanne ti avrebbe parlato di me?»

Il Marauder prese fiato, grave. Sperava di affrontare quel discorso con uno spirito più sereno. Ma era colpa sua e del suo continuo temporeggiare se quell’alieno era tanto infuriato con lui: aveva promesso due anni prima di rivelargli ogni cosa e non lo aveva mai fatto. Era tempo di mantenere quel giuramento.

«Verranno tempi molto duri. Arthur, tutto quello che hai sempre detestato in questo mondo... l’odio, il sangue, la morte… ti avvolgeranno, un giorno. Io sono qui… per guidarti lungo quella strada di oscurità.»

Arthur si voltò come se fosse stato morso da una vipera, e Francis alzò il tono di voce per impedirgli di interromperlo: doveva finire il discorso prima che il ragazzo si arrabbiasse ancora di più con lui.

«È inevitabile. Lo hai detto anche tu: questo mondo è diversissimo dalla bellezza di Faerie. Questo mondo è marcio. Jeanne ha visto nel futuro, e avrà luogo un’enorme rivoluzione: ci sarà un’epoca nuova, più luminosa e pacifica. Ma, per ottenere quella beatitudine, dobbiamo prima sporcarci le mani con il fango di questo mondo ed eliminare il marciume» mille interrogativi si agitavano dietro le iridi acquamarina dell’alieno, e Francis continuò, senza sosta: «Il Vaticano creerà da solo i demoni che lo annienteranno. E tu, Arthur, contribuirai alla creazione di uno di essi. Ma non lo farai per malvagità: lo farai per il popolo che giurerai di proteggere.»

«Jeanne potrebbe sbagliarsi!» esplose Arthur.

«No. Jeanne non può rivelarmi i nomi di coloro che sopravvivranno, e non può dirmi in che modo il Vaticano verrà annientato, se con la distruzione fisica o se con una riforma dall’interno. L’unica cosa che so, è che molto sangue verrà versato. E parte di quel sangue colerà sulle tue mani» si inginocchiò, come aveva fatto due anni prima quando gli aveva rivelato di essere un sensitivo: «Io non ti giudicherò. Mai. Ma altri lo faranno. Dovrai essere molto forte per affrontare tutto questo.»

«O molto insensibile, come la maggior parte degli umani» Arthur trasse un profondo respiro, e lo accusò: «Perché non me lo hai detto prima?»

«Non volevo caricarti di questo fardello.»

«E perché me lo dici ora?»

«Perché ho visto la tua espressione, la prima volta che mi hai parlato della malattia e della morte in questo mondo, e ho visto come si illumina il tuo viso ogni volta che riesci a salvare qualcuno. So che ami la vita e non la distruzione. Ma queste cose devono succedere. E voglio che, quando accadranno, tu sappia che non è colpa tua: sono eventi necessari al rinnovamento» l’uomo afferrò delicatamente la mano del giovane, e la portò vicino al suo viso. «Io sarò con te, Arthur. Ma, forse, non in questa forma.»

«Che intendi dire?»

«Come ti ho detto, questo corpo si usura: probabilmente sarò costretto a cambiarlo, prima che tutto ciò accada» sollevò gli occhi dal colore dei fiordalisi su di lui e mormorò: «Ma non scomparirò; cambierò solo forma. Mi riconoscerai, Arthur? Anche nelle mie prossime incarnazioni?»

«Non vedo come» il giovane si riappropriò della sua mano con uno scrollone, e tornò a sprofondarsi in poltrona, immerso in una caligine di rabbia e depressione. Aveva trovato finalmente un motivo per vivere in quel mondo, e Francis, con le sue previsioni, lo aveva appena disintegrato. Un giorno, avrebbe infranto quegli stessi sorrisi che stava facendo sorgere. Che senso aveva continuare quel cammino, se poi avrebbe annientato ciò che lui stesso aveva creato?

La mano del Marauder si librò di fronte al suo viso, reggendo un delicato fiore di cristallo.

«Utilizzerò di nuovo questo nome, quando verrà il tempo di incontrarsi ancora. “Francis Bonnefoy”. E, se non sapessi dove trovarmi, usa questo fiore: ti indicherà la strada.»

«Che razza di fiore è?» sbuffò Arthur, senza afferrare il monile.

«È un non ti scordar di me» lo presentò Francis, con un sorrisetto enigmatico.

L’alieno fissò quell’orpello di cristallo incantato e gli occhi blu che lo osservavano dal bracciolo della poltrona. Artigliò con le dita il tessuto imbottito, e digrignò i denti, sibilando:

«Non c’è alternativa? Tutte queste cose… devono succedere per forza?»

La mano del Marauder salì delicata a lambirgli il viso. Era calda e gentile, e Arthur non la respinse: anche se il suo orgoglio ruggiva, in quel momento aveva bisogno di essere consolato. Non aveva mai desiderato un mondo simile. La sua Faerie, la sua amata Faerie non conosceva tutte quelle sofferenze; si era trovato circondato da quelle brutture sconosciute, e un giorno sarebbe diventato la forza motrice di una di esse. Non era giusto: lui era venuto in quel mondo per amore di conoscenza, non per sete di sangue.

«Mi dispiace» la voce del Marauder lo accarezzò insieme alle sue dita gentili. «So quanto odi la corruzione di questo mondo. So quanto vuoi tornare a Faerie. Ma purtroppo sei qui, e non puoi tornare indietro. Devi imparare a ballare sulla melodia stonata di questo mondo.»

«Odio quella melodia» ringhiò Arthur.

Il fiore emise un tintinnio fragile quando venne appoggiato sul cassettone, e le braccia del Marauder lo avvolsero dolcemente con un fruscio caldo.

«Lo so. Tutti noi la odiamo. Per questo ognuno di noi urla per sovrastarla.»

«Anche io dovrò urlare.»

«Purtroppo sì.»

Arthur sciolse il suo abbraccio con decisione, ma senza scortesia. Puntò gli occhi acquamarina sul viso del Marauder e la sua voce devastata vibrò:

«Così sia.»

La ricompensa per la sua fermezza fu il sorriso serafico che sbocciò sul viso del Marauder.

«Sei davvero coraggioso. Molto più di noi umani. Forse tu riuscirai davvero a cambiare questo mondo.»

«Non da solo» patteggiò brusco Arthur.

«Ovviamente» confermò Francis, facendo tintinnare un petalo del fiore. «Né in questa, né nelle prossime reincarnazioni.»

«Sarà meglio per te. Sei tu ad avermi trascinato in questo uragano» lo rimproverò Arthur.

«E sarò io ad accompagnarti fino alla fine.»

Non poteva fare molto per alleviare il destino truculento che aspettava quel giovane. Ma anche l’Inferno poteva sembrare una taverna troppo riscaldata, se la compagnia era buona.

 

***

 

Cinque anni dopo, il Leone Incoronato lo aveva chiamato al suo cospetto.

Arthur si era sentito improvvisamente fuori posto, con la sua palandrana sdrucita in mezzo ad una profusione di vestiti di broccato, titoli altisonanti e gioielli preziosi.

Si era inchinato di fronte al re mentre la gente bisbigliava sulle sue origini misteriose. Il Leone Incoronato, quello era l’appellativo formale per il sovrano, aveva storto il naso di fronte alla modestia del suo vestiario, ma l’eccezionale portata dei suoi poteri aveva sopperito a quella lieve pecca stilistica.

Gli eventi si erano succeduti con una rapidità da capogiro, come nelle fantasie di un ubriaco: la Compagnia di Britannia necessitava di un incantatore che fosse paragonabile all’Asse e al Figlio del Cielo per competere con il Vaticano e il Sistema Asean; per questo lo avevano velocemente investito della carica di Mago di Corte, presto cambiata in Mago dell’Ovest poiché il popolo sembrava reagire con più passione a quell’epiteto nato nei sobborghi.

Arthur era presto diventato la stella guida della stregoneria nella Compagnia di Britannia e non solo: i corsari reali avevano richiesto la sua presenza durante i trasporti più importanti per scongiurare il pericolo della pirateria spaziale.

La notorietà del Mago dell’Ovest si era così sparsa nei pianeti della Confederazione, portando, nella primavera di sette anni dopo, alla firma del trattato siglato dall’Asse e dal Figlio del Cielo, in cui il Mago dell’Ovest veniva riconosciuto come incantatore di livello superiore; durante quello stesso inverno fu stipulato un ulteriore riconoscimento da parte del Samurai e del Guardiano, che accettavano ufficialmente il Mago dell’Ovest come Terza Spada.

Arthur aveva rivelato al sovrano la sua peculiarità: era un alieno in grado di vivere molto più a lungo degli esseri umani. Il Leone Incoronato aveva così tenuto un discorso in cui, omettendo la sua nascita aliena, aveva annunciato al popolo che i grandiosi poteri del loro incantatore gli avrebbero consentito di vivere per secoli e di proteggere la loro amata Britannia. La folla era esplosa in un boato di felicità.

E, a ogni suo successo, Francis era con lui.

Lo accompagnò in tutti quegli anni irrefrenabili, finché nei suoi capelli non cominciarono a scorrere alcune ciocche argentate.

«Sei invecchiato» Arthur sottolineò con lo sguardo le lievi rughe a lato degli occhi blu e la chioma ingrigita.

«Quando rinascerò, sarò molto più giovane di te» il Marauder trasse un profondo respiro, passando una mano sul volto non più perfettamente liscio. Aspettò qualche secondo prima di racimolare la forza necessaria ad annunciare: «Temo che sia arrivato il momento di salutarci.»

Arthur aveva contenuto lo spavento tra le spalle irrigidite. Temeva la solitudine, ed era colpa del Fiammingo: se non avesse riscoperto quanto era bello avere qualcuno su cui contare, non avrebbe risentito così tanto della sua perdita.

«Chiedi al fiore. E ricordati: quando sarà tempo di incontrarsi di nuovo, avrò questo nome.»

«Francis Bonnefoy.»

Il Marauder annuì.

«Al prossimo incontro, Arthur degli Avalon» ghignò, malizioso. «O dovrei chiamarti con il cognome che ti ha donato il re?»

«Kirkland è un bel cognome» si difese il Mago dell’Ovest.

«Ma è il tuo vero cognome a ricordarti le tue radici.»

Il sorriso di Francis si accentuò ulteriormente mentre gli scoccava la sua ultima frecciatina:

«Jeanne dice che, forse, quando ci incontreremo di nuovo, sarai abbastanza maturo da dirmi ciò che ora ti vergogni di confessare.»

«Non ho proprio niente da confessare!»

«Hai negato troppo velocemente per essere credibile.»

«Non te ne stavi andando?»

«Hai ragione.»

Le labbra del Marauder si appoggiarono alla sua nuca, e le parole gli scorsero sul collo.

«Sii forte, Arthur degli Avalon.»

Il Mago dell’Ovest si voltò di scatto, ma non vi era più nulla, in quella stanza svuotata dalla presenza del Fiammingo.

Strinse i denti e raddrizzò lo sguardo.

I tempi duri non erano nemmeno cominciati.

 

***

 

Passarono cento anni prima che dalle terre Fiamminghe giungesse la notizia: era nato un bambino con gli occhi color fiordaliso e i capelli biondi. Era destinato a diventare la guida di Marauder. Il suo nome era Francis Bonnefoy.

Trascorsero nove anni prima che potessero incontrarsi di nuovo.

Lo trovò nel suo studio, beatamente adagiato sulla poltrona dietro la scrivania; l’espressione dispettosa di un bambino pronto a vendicarsi si dipinse su quel volto paffuto.

«Sei invecchiato» Francis gli restituì le parole di più di cento anni prima.

«E tu sei un marmocchio» replicò Arthur.

«Touché» ammise il Fiammingo.

«Come sei arrivato qui?» lo interrogò il Mago dell’Ovest, con tono stanco.

«Non hai cambiato la serratura, in tutti questi anni» fu la risposta evasiva di Francis.

Arthur lo fece scendere dalla poltrona e occupò il suo posto con uno sbuffo esausto. Voltò il viso, perché il Marauder non leggesse nella curvatura amara delle sue labbra ciò che stava cercando di dimenticare. Francis lesse comunque il suo segreto nella linea rigida delle spalle.

Le mani morbide del bambino si poggiarono sul suo braccio, e vi rimasero anche quando lui provò a scrollarlo senza troppa convinzione.

«“Sarò lì per tamponare le ferite”. Te l’ho promesso. Per questo sono qui: tu stai sanguinando, Arthur.»

Il Mago dell’Ovest non rispose.

Gli eventi terribili che il Marauder aveva annunciato un secolo prima erano avvenuti: per salvare Britannia e tutta la sua gente, aveva dato alle fiamme un intero pianeta.

Arthur aveva appoggiato il mento sul pugno chiuso, e Francis li vide tremare entrambi; lo stesso terremoto scuoteva le iridi del mago, che parevano sul punto di spezzarsi come una diga troppo colma.

Il Marauder provò un’enorme compassione per quel povero uomo. Era un alieno che non avrebbe mai dovuto vedere simili orrori, nella sua Faerie incantata; invece era stato trascinato nel loro mondo di fango e sangue, ed era stato costretto ad affondarvi fino ad annegare. Ed era stato lui a spingerlo nella palude che lo avrebbe affogato. Per un bene superiore, per rispettare i dettami del destino che Jeanne aveva predetto, ma nessuna di queste giustificazioni sarebbe servita a farlo sentire meno in colpa: aveva contribuito a spegnere la fiamma della gentilezza in quell’uomo che non comprendeva il senso della malattia e della morte. Niente avrebbe cancellato la sua colpa.

Si arrampicò sulla poltrona, maledicendo il suo corpo troppo piccolo, e si lanciò contro il petto del Mago dell’Ovest. Strinse con le braccia tozze quel busto tanto più largo del suo e singhiozzò:

«Non è colpa tua, Arthur. Non sei stato tu a volerlo, non l’hai mai voluto. Non è colpa tua.»

Uno scappellotto gli fece rimbalzare la testa dentro le spalle.

«Sciocco, sono io che dovrei piangere» la stessa mano che lo aveva colpito si appoggiò sulla sua testa, e gli accarezzò i capelli soffici come lui aveva fatto con il Mago dell’Ovest un secolo addietro. A quel tempo, era lui il più grande dei due. «Assumi i comportamenti di un bambino, quando rinasci» la voce era dura, ma le dita che lo rassicuravano erano gentili. «Ma non è male. È meglio quando piagnucoli di quando molesti gli altri.»

«Parlo sul serio» aveva raddrizzato il viso tondeggiante, asciugandosi rapidamente gli occhi sulla manica della giacchetta blu. «Arthur, non è colpa tua.»

«E il tuo amico cosa ne pensa?» la bocca del Mago dell’Ovest si contrasse in un ghigno pregno di acredine. Lo aveva visto arrivare a cavallo di un enorme corvo con il suo amico Hellsing, e li aveva visti mentre salvavano il piccolo Carriedo. Aveva immaginato che fosse lui il demone che doveva far nascere: i suoi occhi pieni di tristezza, fuoco e odio suggerivano così.

Francis non riuscì a rincuorarlo, e Arthur si fece bastare quel silenzio. L’ultimo Carriedo lo avrebbe odiato fino alla tomba, e lui non avrebbe potuto biasimarlo in alcun modo.

«Jeanne ti ha rivelato altro, sul nostro futuro?» domandò in un sospiro.

Il Marauder si sedette sulle sue ginocchia, e rovesciò la testa all’indietro per fissarlo negli occhi.

«Contribuirai all’incarcerazione dell’Hellsing. E alla mia. Ma è giusto così» lo bloccò, prima che Arthur potesse ribellarsi. «Ci libereremo. Entrambi. E lotteremo al tuo fianco fino alla fine. Anche tu prenderai parte al grande sconvolgimento finale.»

«Cosa ti fa pensare che sia pronto a gettarmi nella fucina della guerra?»

Il sorriso di Francis gli trapassò il cuore quando il bimbo gorgheggiò:

«Lo farai affinché ci si possa vedere ancora. Con il mio popolo condivido i poteri, non il destino. Con te, invece, condivido il destino, e non i poteri.»

Arthur lo fece rigirare bruscamente sulle sue gambe, in modo che il Marauder non fosse costretto a storcersi il collo per parlare con lui.

«Che intendi dire?» pretese di sapere.

E Francis gli rivelò tutto. Lo stupore aumentò nelle iridi acquamarina del Mago dell’Ovest fino a quando gli occhi non minacciarono di uscirgli dalle orbite.

«Ora comprendi?» domandò il Fiammingo, alla fine.

Arthur annuì, stordito dalla notizia. Francis si alzò in piedi sulla poltrona, e poggiò le labbra morbide come un petalo di rosa sulla fronte corrugata del Britanno.

«Sei un grande uomo. Non dubitare mai di questo.»

Il Fiammingo sorrise triste e rispose dolcemente alla stretta del Mago dell’Ovest: le braccia dell’uomo lo strinsero con urgenza, aggrappandosi a lui come alla sua ultima speranza.

Francis non ebbe bisogno di ricorrere ai suoi poteri da sensitivo per capire quali pensieri si agitassero in quella testa dai capelli crespi. Il fuoco di Hispaňa aveva marchiato i suoi occhi con immagini indelebili: non sarebbe mai riuscito a scacciarle, come le sue orecchie non avrebbero mai dimenticato le urla dei feriti.

Arthur non pianse: su Faerie non esisteva la tristezza, per cui non sapeva come si facesse a sfogarla nelle lacrime. Francis accarezzò quella chioma ispida, posando dei baci sulle ciocche pungenti.

«Quando avrai bisogno di me, Arthur, chiedi al fiore che ti ho lasciato. Lui saprà dove trovarmi.»

 

***

 

Era quello stesso fiore che la copia del Mago dell’Ovest stava mostrando al capitano della Reina de la Oscuridad e a tutto l’equipaggio riunito sul ponte.

«Francis è vivo?» fu Gilbert a spezzare quel silenzio ultraterreno, esprimendo la speranza che nessun osava pronunciare.

«Non esattamente» confutò Arthur. «Di solito, sceglieva volontariamente quando abbandonare il corpo e quando reincarnarsi. L’esecuzione improvvisa potrebbe avere sconvolto i suoi piani: potrebbe non ricordarsi più chi è, anche se il suo spirito ha assunto una nuova forma materiale. E potrebbe non assomigliare per nulla al Marauder che conosciamo. Ma questo fiore ci porterà da lui, qualunque sia la sua condizione attuale.»

Antonio fissò quei petali di cristallo, fragili come le loro possibilità di successo.

«Non abbiamo alternative» sentenziò. «Mostraci la strada.»

Arthur avvicinò il fiore alle labbra, e bisbigliò qualcosa sui suoi petali di brina.

Un cuore di luce blu tinse la corolla del non ti scordar di me, che scoccò una freccia color lapislazzulo nel cielo. Tutti i marinai sollevarono il viso per osservare quella sottile riga blu che divideva lo spazio a metà.

«Avvisate il Custode dei Cancelli e il Figlio del Cielo che stiamo per fare rotta verso Chugoku» ordinò Antonio, dopo aver valutato la direzione della minuscola via incantata. «E faremo una breve sosta sul pianeta dei Gunsmith: Gilbert deve ancora recuperare le sue armi. Ed è il caso che anche noi facciamo dare una revisionata ai nostri ferri vecchi.»

«Ma la situazione di Chugoku non è turbolenta, non dovremmo avere bisogno di combattere…» obiettò un marinaio, immediatamente zittito dal capitano.

«Il Figlio del Cielo è stato detronizzato. Non so cosa stia accadendo su quel pianeta, ma dubito che sia pacifico come fa credere.»

I pirati non discussero ulteriormente i comandi della Mano Destra del Diavolo e corsero ad accendere i motori.

Il Mago dell’Ovest non prese parte ai loro preparativi.

Strinse delicatamente il fiore. Aveva parlato abbastanza piano; nessuno aveva sentito la frase che aveva utilizzato per azionare l’incanto del non ti scordar di me.

Sono pronto a gettarmi nella fucina della guerra, affinché ci si possa incontrare ancora.

 

 

 

 

 

E il dodicesimo capitolo è giunto, insieme ad Arthur<3

Solo alcune note: per scrivere questo capitolo, mi sono ispirata alla cultura celtica e al ciclo arturiano (Avalon, Vivien e Merlino). Il simbolo della casata di Arthur è un melo: questo perché, nella cultura druidica, il melo era l’albero sacro, come per il cristianesimo può esserlo l’uva (da cui si ricava il vino usato durante la messa). Si ritiene (ma questa è solo una delle tante teorie) che la mela sia stata scelta in epoca romana come “frutto demoniaco” proprio per screditare le culture “estere”, che invece la adoravano.

Breve parentesi storica conclusa<3

E con questo… vi do appuntamento a lunedì<3 Un capitolo sui Gunsmith e sul perché sono in debito con Gilbert 8D

A presto<3

Red

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Capitolo 13
*** Gunsmith ***


Capitolo Tredici: Gunsmith

 

 

Ogni Hellsing deve avere un famiglio.

Per essere più precisi, ogni Hellsing creava il suo famiglio. Il primo degli sterminatori aveva tramandato quella tecnica, che richiedeva concentrazione, pazienza e, soprattutto, costanza: occorreva un mese intero per dare vita a un gregario degno. Quando un Hellsing riusciva a plasmare il proprio compagno di battaglia, passava dal grado di semplice cadetto a quello di sterminatore effettivo: dimostrando di essere in grado di padroneggiare la propria creatura, un combattente guadagnava il diritto di scendere sul campo di battaglia.

Lui era nato dalle mani di un Hellsing piuttosto bizzarro: usava uno strano strumento a forma di otto, per combattere. Quell’arma sembrava difettosa: era fatta di legno, e si lamentava ogni volta che l’archetto scivolava sulle sue corde. Tuttavia, il suo padrone era buono e gentile: aveva creato una superba spilla con la sua immagine, in cui lui riposava e da cui poteva sentire il suono di quella bizzarria di legno che chiamavano violino.

Un famiglio esiste per servire l’Hellsing che l’ha creato; nel momento in cui un Hellsing muore, muore anche il suo famiglio.

Il suo padrone non era propriamente morto, ma aveva tradito tutto il suo popolo: pur continuando a respirare, lo sterminatore gentile si era estinto. E lui non aveva più senso di esistere, senza un padrone.

Avevano cominciato a cadergli le piume, delle spesse graffiature gli facevano sanguinare il becco, e non riusciva più a mantenere dritto l’assetto di volo. Era atterrato malamente su un asteroide poco distante dal pianeta, in attesa della morte. E lì li aveva incontrati: altri cinque famigli che, come lui, avevano perso il loro Hellsing. Avevano combattuto a fianco del loro sterminatore finché i demoni non li avevano divorati tutti; poi, presi dal panico, erano fuggiti anziché seguire i loro padroni nel loro destino. Avevano solo posticipato l’inevitabile: senza un Hellsing da seguire, sarebbero avvizziti come una pianta senza nutrimento.

Non aveva intenzione di giudicarli per aver abbandonato il pianeta anziché farsi mangiare dai diavoli; si spostò in modo che i suoi cinque colleghi potessero accostarsi a lui, e si accovacciarono tutti insieme in silenzio, aspettando che la nera signora li falciasse uno per uno.

Passarono tre giorni prima che la speranza bussasse di nuovo alla loro porta.

Le piume erano cadute quasi completamente, lasciando scoperta la pelle desquamata; il becco era ingrigito e indebolito, come se un batterio sconosciuto lo avesse spolpato. Non avevano più la forza di alzarsi sulle zampe o di stendere le ali: ormai non mancava molto.

Un improperio troppo colorito per una bocca troppo giovane li scrollò dal loro torpore.

Il piccolo Hellsing, che un giorno sarebbe diventato la guida del loro popolo, stava prendendo a calci i sassi di quel pianeta, imprecando a gola spiegata. Un torrente di lacrime scorreva sulle sue guance da bambino, mentre malediceva tutti i demoni che si erano mangiati la sua gente.

Aprì il becco, e il suo gracchiare rauco fece voltare il bimbo che, in un moto di orgoglio infantile, sfregò la manica impolverata della camicia sulle lacrime; la polvere portata dal tessuto e il lungo pianto resero la cornea rossa quanto le sue iridi.

«Siete rimasti senza padrone?» si avvicinò fino a raggiungere la sua testa esausta, riversa a terra. Il famiglio annuì anche a nome degli altri.

Sul volto del bambino si lesse una rassegnazione terribile. Aveva assistito al massacro della sua gente, per questo non si era preso nemmeno il disturbo di chiedere se i loro padroni fossero da qualche parte. Il luogo in cui riposavano gli Hellsing erano gli stomaci dei demoni che li avevano divorati. Gilbert strinse i piccoli pugni, a quel pensiero.

Inoltre, le condizioni di quel sestetto di gregari erano troppo scalcinate per lasciare spazio ai dubbi: erano rimasti senza padrone, pronti a intraprendere una lenta discesa verso la morte.

Gilbert stese la mano e la appoggiò sul capo spiumato del più vicino dei famigli, un enorme gufo delle vette; dedusse la sua provenienza dalle poche piume ancora attaccate, candide come la neve.

«Voi siete gli unici sopravvissuti, insieme a me» rifletté, passando ad accarezzare la gigantesca civetta poco distante. «Ma non avete più un padrone…»

Il piccolo si rialzò, con una decisione ferrea a illuminargli il viso paffuto.

«So come si creano le spille. Mio padre me l’ha insegnato. Ma non posso lasciarvi in questa forma… senza padrone, siete destinati a morire» Gilbert passeggiò in cerchio, rimuginando elucubrazioni e teorie, finché la scintilla di un’idea non gli rischiarò la mente.

«Aspettatemi qui» si raccomandò, inutilmente: in quelle condizioni, non potevano muoversi in alcun modo. «Sarò di ritorno tra due giorni. Ve lo prometto.»

Richiamò Gilbird, gli montò in groppa e sparì nel cielo. Come promesso, due giorni dopo si ripresentò sull’asteroide, con uno zaino più grande di lui sulle spalle. Le sue gambette traballarono paurosamente, quando oscillò verso di loro sotto il peso del suo bagaglio.

«Sono stato dal fabbro del pianeta più vicino. Avevo bisogno della sua officina. E poi sono stato dal sarto» i famigli non compresero il senso delle sue parole finché non lo videro estrarre il contenuto dello zaino: stoffe, stoffe e ancora stoffe, tagliate e cucite in modo piuttosto spartano, e sei spille a forma di essere umano. Si vedeva la mano infantile, in quelle forme troppo tonde e con la testa sproporzionata rispetto al corpo.

Non si mosse, quando il piccolo gli avvicinò la punta della spilla al collo rinsecchito; emise appena un gracidio, quando lo punse. Poi, all’improvviso, tutto cambiò: dal collo partì una scarica elettrica che lo fece tremare in tutto il corpo; le membra si allungarono in forme a lui del tutto sconosciute, il becco si ritirò nella faccia, il piumaggio migrò tutto in cima alla testa.

La prima cosa che i suoi occhi nuovi misero a fuoco furono un paio di strane appendici dotate di dieci diramazioni secondarie.

«Ha funzionato!» festeggiò il bambino, lanciandogli addosso uno dei vestiti più grandi. «Sei diventato un essere umano!»

Aveva vissuto in mezzo agli Hellsing abbastanza a lungo da sapere come si infilavano quegli abiti, per cui riuscì a fare uscire testa, braccia e gambe dai buchi giusti. Gilbert osservò quel gigante d’uomo fasciato dai vestiti lievemente troppo stretti per lui: era alto e grosso come un orso, con un paio di spaesati occhi azzurri e un’irsuta chioma bionda.

«Ti ricordi il tuo nome?» domandò Gilbert, mentre si chinava sulla civetta per pungerla con la seconda spilla.

L’omone batté le palpebre sugli occhi sgranati, due volte, e boccheggiò, tre volte, prima di raspare, con voce cavernosa:

«Mi chiamo…»

 

***

 

«Mathias!»

L’uomo si alzò di soprassalto dal divanetto su cui non si era accorto di essersi appisolato.

Norge lo stava chiamando, con un’impazienza collerica negli occhi violacei.

«Che succede?» sbadigliò l’omone.

Il ragazzo gli assestò uno scappellotto sulla testa dura, e sparò:

«Oggi torna Gilbert! Hai finito di preparare le sue armi?»

Norge sistemò nervosamente la zazzera platino sotto il cappellino blu che indossava ogni giorno: era stata l’ultima cosa che Gilbert gli aveva messo addosso, quando si era trasformato in essere umano.

Mathias annuì mollemente con il testone, slogandosi la mascella in uno sbadiglio.

«Ho finito ieri, non appena Vash mi ha passato il fucile» si stiracchiò, mentre tranquillizzava il suo compagno.

Tra i Gunsmith, loro due erano la coppia addetta all’incantamento delle armi; Vash e Lily erano i fabbri, mentre Berwald e Tino si occupavano delle protesti.

L’Hellsing li aveva trasformati e vestiti, e li aveva accompagnati durante i primi mesi, in cui avevano faticato di più ad abituarsi a quel nuovo corpo: si muovevano come burattini cui erano stati tagliati i fili, tremendamente goffi, con le estremità che sfuggivano al loro controllo quasi avessero volontà propria. Gilbert li aveva aiutati ad acquistare confidenza con il loro nuovo corpo. La cosa che aveva loro creato più problemi era stato adattarsi ai nuovi occhi umani: le pupille riflettevano il mondo in un modo del tutto diverso, con una gamma di colori mai vista prima. Faticarono ad abituarsi ai nuovi colori del mondo, così come trasalirono tutti insieme nell’assaggiare il cibo umano: nella loro forma di famigli non avvertivano mai i morsi della fame. Avevano creduto che quel nuovo corpo fosse difettoso, quando avevano sentito i gorgoglii dello stomaco: poi Gilbert aveva portato un canestro pieno di leccornie, e avevano scoperto quanto appagare la fame potesse essere soddisfacente.

Ma nemmeno Gilbert era riuscito a consigliarli quando avevano avvertito una pulsione sconosciuta fargli tremare il cuore. E un’altra parte del corpo, aveva ammesso vergognosamente Mathias con se stesso. L’Hellsing era troppo piccolo per sapere cosa volesse dire innamorarsi, ma i sei famigli erano nell’età giusta; tuttavia, non avevano idea di cosa quei batticuori potessero significare: Tino aveva disseminato involontariamente il panico, quando aveva candidamente suggerito che forse erano l’anticamera dell’infarto. Erano state creature asessuate fino a poco tempo prima, e pensavano che le cose che avevano in mezzo alle gambe servissero solo come canale di scolo per le scorie.

Berwald aveva preso la questione di petto: un bel giorno, aveva afferrato Tino per le spalle e, dopo averlo mostrato a tutti, aveva dichiarato che, da quel momento, quel dolce ragazzo sarebbe stato sua moglie. La pelle bianca di Tino era esplosa in un rosso congestionato e, nei primi tempi, aveva protestato, pur mantenendo il suo atteggiamento docile - venato di timore per quel colosso con gli occhiali. Poi le lamentele cortesi si erano smorzate fino a spegnersi del tutto. Nessuno aveva indagato sul motivo, così come nessuno aveva chiesto perché alcune volte i due sparissero fino alla mattina.

Dopo era venuto il turno di Vash e Lily: l’unica femmina del gruppo aveva sempre avuto un debole per quel ragazzo con la fronte perennemente corrugata che chiamava “fratellone”. Non avevano dichiarato nulla di plateale come Berwald, ma Vash aveva cominciato a dormire vicino a Lily, e a cacciare furiosamente chiunque si avvicinasse a loro. Infine, Mathias aveva iniziato a interessarsi a Norge; era stato un corteggiamento lungo e sofferto, specie perché il colosso, con il suo modo di fare da sempliciotto burlone, riusciva sempre a rovinare ogni momento potenzialmente romantico.

Gilbert aveva assistito con serenità alla realizzazione di quelle coppie; e quando anche Mathias e Norge erano diventati ufficiali, Gilbert gli aveva fatto un ultimo dono.

Li aveva portati su un pianeta inabitato, e lì li aveva aiutati, insieme a Gilbird, a costruire una casa. Poi, aveva annunciato il suo progetto: sarebbe tornato nel suo mondo per liberarlo da tutti i demoni.

Mathias lo aveva placcato, impedendogli fisicamente di muoversi, e gli aveva strappato un accordo: non avrebbe lasciato quel pianeta finché non avessero trovato un modo per ripagarlo, almeno un poco. Aveva dato loro la vita, li aveva assistiti nella crescita, e gli aveva trovato un nuovo posto in cui abitare.

Gilbert aveva così atteso, coccolato da Lily – entusiasta per la scoperta dell’istinto materno, sentimento sconosciuto a un famiglio creato artificialmente – e assistito dai maschietti. Non avevano impiegato molto tempo per imparare il loro nuovo mestiere: erano creature nate due volte dalla magia, i loro ritmi di apprendimento per le arti erano accelerati rispetto agli esseri umani. In pochi anni Vash e Lily avevano imparato a forgiare armi, Berwald e Tino a creare protesi, e Mathias e Norge a incantare i prodotti delle altre coppie. Avevano creato armi magiche per proteggere il loro angelo salvatore, e avevano salutato un Gilbert quattordicenne mentre partiva per la liberazione del suo pianeta.

«Un giorno ripagheremo il nostro debito» aveva proclamato Mathias.

«Questo è sicuro» aveva avvalorato Berwald, con la sua voce da lupo delle montagne.

«Fai attenzione, Gilbert» si raccomandò Lily, tormentando un fazzoletto.

L’Hellsing era sparito con il suo ghigno caratteristico, ed era ricomparso solo qualche giorno prima. Gli occhi erano più stanchi e il corpo era maturato in quello di un uomo, ma la furbizia che si annidava dietro il suo sorrisetto era rimasta immutata.

Mathias sentì Lily trafficare nella cucina, in balia del suo istinto materno che le imponeva di cucinare qualcosa per il loro pupillo. Tino stava spazzando per terra, Berwald e Vash osservavano quel delirio domestico a metà tra lo sconcertato e il timoroso, Norge aspettava ancora che lui schiodasse il coccige dal divano.

Mathias si alzò per accontentare il compagno, e batté le mani quando sentì bussare alla porta.

«Gilbert è arrivato!»

Lily arrotolò il grembiule e lo gettò su una sedia in cucina, Tino nascose la scopa e si mise in posizione vicino alla porta; gli altri quattro li raggiunsero e si prepararono ad accogliere il loro salvatore.

Il saluto si atrofizzò nell’aria, quando lo videro varcare la soglia assieme all’uomo responsabile della distruzione degli Hellsing. Tutti fecero un passo indietro, istintivamente, nel riconoscere l’assassino della loro specie; solo Mathias non si mosse, e fissò il compositore che avanzava faticosamente, sorretto da Gilbert.

«Roderich?» lo identificò.

L’uomo sollevò lentamente il volto su di lui, e una confusione totale vagò nelle iridi ametista.

«Ero il tuo famiglio. Mathias» svelò.

Il disorientamento tinse per qualche altro secondo gli occhi del violinista, prima che questi si spalancassero in una sorpresa morigerata.

«Mathias? Come è possibile? Un famiglio non sopravvive senza il suo Hellsing…» obiettò, garbato ed esausto.

«Gilbert l’ha salvato» telegrafò Vash.

«Ci ha salvati tutti» sottolineò Lily.

Gilbert mordicchiò il labbro inferiore. Stava per chiedere un favore enorme ai suoi vecchi amici: guardando Roderich, loro vedevano solo l’uomo responsabile dell’eccidio degli Hellsing. Ma sperava di cuore che accettassero comunque la sua richiesta: non aveva tempo di spiegare loro la situazione, la ferita di Roderich era troppo grave.

«Potete aiutarlo?» domandò, indicando con gli occhi il moncherino dell’uomo, malamente fasciato dai pirati.

I due Gunsmith responsabili delle protesi si fissarono per un attimo in silenzio – Berwald con gelida ostilità e Tino con allarme – prima di chinare entrambi il capo in un assenso: odiavano quell’uomo, ma la stima che nutrivano per Gilbert era troppo profonda. Doveva esserci una spiegazione a quella situazione, ed erano sicuri che l’Hellsing gliel’avrebbe fornita. Per il momento, dovevano solo fare il loro dovere.

 

***

 

Berwald e Tino si dimostrarono professionali e precisi come sempre, sebbene il loro paziente fosse una persona sgradita: il più piccolo dei due analizzò la lesione dell’Accordatore, e spiegò al collega che tipo di protesi occorresse. Berwald si ritirò in uno stanzino – la cui entrata era coperta da una pesante tenda di velluto blu – per alcuni minuti, durante i quali i presenti furono allietati dai suoni di seghe elettriche, tonfi e allacciature meccaniche.

L’omone riemerse esibendo un’impeccabile riproduzione di una mano umana: le giunture erano state ricreate con molle avvolte da una pasta di gomma morbida, le ossa di metallo e gli ingranaggi installati per permettere alle dita artificiali di muoversi correvano sotto il rivestimento di pelle sintetica, per evitare che i meccanismi prendessero polvere o ruggine.

«L’allacciamento farà male» avvertì Berwald con la sua voce baritonale, e sistemò gli occhiali prima di procedere alla congiunzione. Roderich contrasse tutto il volto quando gli aghi della protesi gli penetrarono la carne per allacciarsi ai muscoli e alle ossa.

Il Gunsmith lanciò un’occhiata eloquente al binomio addetto ai traffici magici: la protesi non era nulla, senza i loro pasticci sovrannaturali. Mathias accettò quell’onere: la nuvola scura scesa sul volto di Norge non prometteva nulla di buono, e non avrebbe costretto il suo compagno a lavorare controvoglia.

Si inginocchiò di fianco al suo ex-padrone, estrasse una fiala di liquido iridescente dal tascapane e la versò con dovizia sul punto di congiunzione: un sottile sfrigolio si propagò nell’aria, mentre la carne di fondeva completamente alla nuova appendice meccanica.

Roderich non emise un suono per tutto il tempo. Nel lungo svenimento seguito alla sua mutilazione, aveva rivissuto tutti i crimini perpetrati nel nome del Vaticano: l’Accordatore lo aveva fatto senza scrupolo e senza rimorso, ma l’Hellsing aveva sofferto per ogni singola goccia di sangue. Il ricordo che più lo tormentava, era quello della sua gente che si dibatteva nelle bocche dei demoni. E il viso di Elizabeta, che lo guardava con l’ombra di un sorriso nonostante lui le avesse appena squarciato il petto con la sua musica, come se fosse sicura che un giorno Roderich sarebbe tornato.

Quel giorno era venuto. Ma non c’era più nessuno ad aspettarlo.

«Come stai?»

Roderich testò la mobilità del nuovo arto per dissimulare un sorriso. No, qualcuno c’era. Il più tenace e testardo di tutti gli Hellsing.

«Mi occorrerà qualche giorno per imparare a muoverla correttamente» valutò, atono.

Gli occhi dei Gunsmith saettavano dall’Accordatore a Gilbert ai loro colleghi, incerti sul da farsi. Avevano compiuto il loro dovere, ma erano restii all’idea di permettere a quell’individuo di lasciare la loro casa. Caina era il giusto posto per quell’essere, o una delle altre due Prigioni.

La stigmate di argento, che si stava ossidando man mano che il potere dell’Accordatore scemava, bruciava sulla sua mano sinistra. Roderich la nascose con il nuovo arto, e pronunciò il duo discorso con enorme fatica.

«Anche se mi rendo conto che le scuse non sono sufficienti per rimediare a quanto ho fatto… mi dispiace profondamente di avervi arrecato tanto dolore» ogni vita che aveva strappato sembrava gravargli come uno spettro sulle spalle, opprimendogli il respiro. Prese un lungo fiato prima di proseguire: «Sono stato manipolato dal Vaticano. Mi hanno impiantato un potere che non era mio e che… non sono riuscito a controllare.»

I Gunsmith dirottarono la loro attenzione verso Gilbert, che confermò:

«Non era in lui quando ha liberato i demoni sul nostro pianeta. È tornato cosciente solo quando gli ho tagliato la mano, sul ponte della Reina de la Oscuridad

I Gunsmith annuirono all’unisono, e si fissarono un’ultima volta prima di emettere il loro verdetto.

«Il peso di ciò che hai fatto ti perseguiterà per tutta la vita» sentenziò Norge.

«E questa sarà la tua punizione» avvalorò Berwald.

«Non c’è bisogno di infleggertene un’altra» placò Mathias.

«Hai il nostro perdono» lo rincuorò Lily.

«Ma vedi di rigare dritto» ringhiò Vash.

Gilbert sembrò sollevato quanto Roderich nell’udire quella dichiarazione di clemenza. Era certo che fosse dovuta più alla venerazione che i Gunsmith nutrivano per lui che alla sincera volontà di perdonare il colpevole, ma non aveva importanza.

L’Hellsing si grattò la nuca e domandò all’unica donna presente:

«Lily… hai ancora quella cosa che ti avevo lasciato?»

Lei annuì, e sparì dietro una tenda di colore rosa. I Gunsmith attesero in silenzio che la donna facesse ritorno; Roderich non articolò una parola, anche se la sua bocca si spalancò per la sorpresa.

Lily aprì la custodia dalla forma inconfondibile, e l’uomo ringraziò di essere già seduto, altrimenti le sue ginocchia sarebbero venute meno.

Le dita della mano sana tremarono visibilmente nell’accarezzare le corde e il legno dello strumento. Le sue forme erano ancora levigate, e le corde perfettamente tese: quella donna si era presa cura del suo violino come si conveniva.

«Dove lo hai trovato?» riuscì a buttare fuori, quando ottenne di nuovo il controllo delle parole.

«Dove lo avevi lasciato» Gilbert evitò di specificare che lo aveva trovato vicino al corpo di Elizabeta, dove l’Accordatore lo aveva fatto cadere quasi si trattasse di pattume.

Roderich accarezzò lo strumento con devozione, prima di sollevarlo dalla custodia imbottita. Lo girò delicatamente, ed ebbe conferma che si trattava proprio del suo violino; in caratteri arabescati, era stato inciso un titolo: “Il diamante della battaglia”.

«Cosa hai fatto, in tutti questi anni?» chiese Lily a Gilbert, cercando di distogliere l’attenzione generale dal musicista troppo commosso per parlare.

L’Hellsing prese fiato e coraggio prima di rispondere:

«Mi sono ripreso il pianeta, anche se adesso è solo una landa gelata. Ho creato il mio fratellino minore. Sono stato rinchiuso a Caina nove anni. E…» Gilbert esitò prima di aggiungere l’ultima parte. «Ho incontrato una persona.»

Roderich ingoiò le lacrime per prestare attenzione al racconto del suo figlio adottivo, e i Gunsmith si sistemarono a semicerchio intorno a lui.

«E questa persona dov’è, adesso?» lo spronò dolcemente Lily.

Una saetta di dolore trafisse il volto spavaldo dell’Hellsing, che annunciò:

«Non so dove sia.»

I presenti lessero nell’espressione contrita dell’uomo il significato sottinteso di quelle parole: la persona da lui amata era morta.

Prima che Lily o chiunque altro potesse provare a consolarlo in qualche modo, Gilbert sfoderò il suo ghigno più plateale e proclamò:

«Ma so cosa sta facendo. Mi aspetta. Non è ovvio? Quando gli ricapita di trovare una persona meravigliosa come me?» il suo sorriso assunse una sfumatura più seria mentre concludeva: «Mi aspetta sempre. E un giorno lo ritroverò. Ma prima… devo fare il mio mestiere.»

«Ma i demoni si sono estinti. Tu li hai fatti estinguere» gli ricordò Norge.

«Sono rimasti i peggiori: uomini con il cuore da diavolo» Gilbert fece scivolare appena la scimitarra fuori dal fodero, in modo che emettesse un sottilissimo stridio metallico. «Solo dopo averli estirpati potrò andare da lui.»

Il suo discorso sarebbe stato commovente, se solo non fosse stato troncato sul finale da un tremendo frastuono di fronte al portone.

«Oh, ho dimenticato di avvisarvi» si ricordò Gilbert. «Anche Antonio e la sua ciurma hanno bisogno di farsi dare una revisionata alle armi.»

Vash chiuse gli occhi per evitare di rotearli al cielo: avrebbero passato la notte in officina per sistemare l’equipaggiamento di tutta la Reina.

I Gunsmith si diressero velocemente all’entrata per accogliere i nuovi visitatori; solo Norge rimase, e si accostò all’Hellsing, bisbigliandogli:

«Quando attaccherete il Vaticano, avvisateci. Combatteremo insieme a voi.»

«Non siete guerrieri.»

«No, ma siamo armaioli. E credimi, Gilbert, quando sferrerete il vostro attacco, vorrete avere l’Elfo al vostro fianco.»

«L’Elfo?»

«È il nome in codice» Norge se ne andò senza ulteriori spiegazioni.

Gilbert scosse la testa: quel giovane con i capelli di platino era sempre stato enigmatico. Solo Mathias riusciva a strappargli qualche parola in più.

Si mise a sedere di fianco al padre adottivo, che esordì pacato:

«Non ho molto da raccontare di questi anni in cui siamo stati separati. Ma sembra che tu abbia molto da narrare, invece.»

Roderich si appoggiò il violino sulle gambe e lo invitò, con la riservatezza cortese che lo aveva sempre distinto.

«Ti ascolto.»

Gilbert nascose un sorriso dietro uno sbuffo irriverente. La gentilezza di suo padre, a distanza di tanto tempo, era talmente bella da far male.

«C’era questo ragazzo…» cominciò.

«Come si chiamava?»

«Matthew. O, almeno, io lo chiamavo così…»

E decenni di lontananza si srotolarono nel lunghissimo racconto di Gilbert.

 

***

 

Ivan fissò con odio l’angolo del corridoio.

L’Hellsing era sceso nella Fortezza Errante quella mattina, per avvisarli che si sarebbero fermati sul pianeta dei Gunsmith. Il Custode aveva accettato la cosa con un silenzio tombale: la sua mazza ferrata non aveva bisogno di essere revisionata, e lui non sentiva la mancanza dei suoi ospiti.

Gilbert gli aveva indirizzato un’occhiata critica, e aveva commentato:

«Non permetti mai a Yao di uscire?»

Gli occhi ametista si erano abbattuti sull’Hellsing, mentre il gigante tuonava:

«Non ha bisogno di uscire.»

Le sopracciglia argentate di Gilbert si erano curvate nel biasimo, mentre la bocca arrogante lo accusava:

«Sembra più un tuo prigioniero che un tuo ospite.»

«Non preoccuparti di cose che non ti competono, Hellsing.»

L’ammonimento di Ivan risuonò cupo tra le mura mobili della Fortezza, e Gilbert alzò le braccia in segno di resa.

«Come vuoi. Ricordati solo che i prigionieri, prima o poi, scappano. Io sono la prova vivente.»

Non sapeva cosa avesse spinto l’Hellsing a fargli quel discorso. Forse era convinto che tutti dovessero vivere un amore come il suo, fatto di libertà e fiducia. Non gli pareva che lo sterminatore avesse ottenuto un gran risultato: il suo amato era morto suicida.

Preferiva tenere Yao segregato anziché perderlo. Inoltre, aveva fiducia nell’Asean, ma non nel resto del mondo: ci sarebbe stato sicuramente qualcuno pronto a rubarglielo o a sporcarlo, là fuori. Non lo avrebbe permesso: Yao era il suo sole personale. Suo soltanto.

Come evocato dai suoi pensieri, il Figlio del Cielo emerse dalla sua camera, e lo chiamò:

«Ivan. C’è qualcosa che ti turba?»

Il Custode non aveva ancora capito come Yao riuscisse a indovinare le sue espressioni anche quando erano impaludate dalla sciarpa. Non rispose alla sua domanda: si avvicinò a lui e strinse quel corpo tanto più piccolo del suo con le braccia forti.

L’Asean rimase qualche istante fermo, prima di circondargli il collo con le braccia.

«Va tutto bene?» domandò, allarmato dal gelo insolitamente pungente che trapelava dal cappotto dell’uomo.

«Tra pochi giorni approderemo a Chugoku» gli ricordò Ivan. «Come ti fa sentire? Tornare a casa, intendo.»

Sentì le braccia di Yao scivolare lungo le sue finché le mani affusolate gli circondarono i gomiti.

«C’è una cosa che devo raccontarti, Ivan» ammise il Figlio del Cielo. «Voglio che tu sappia esattamente chi dovremo affrontare.»

Il Custode dei Cancelli gli fece cenno di proseguire. Il racconto di Yao cominciò così:

«C’è stato un ragazzo, un tempo, che consideravo come un figlio…»

 

***

 

Il signor Vargas tamburellò le dita sulla scrivania, indeciso.

Era orgoglioso di Feliciano, il suo figlio perfetto che a breve sarebbe diventato il perno della Confederazione. Tuttavia, non poteva ignorare le ansietà del precedente Asse riguardo al suo successore.

Fissò di nuovo il biglietto su cui il vecchio aveva scritto la sua proposta.

Gli occhi si appuntarono sulla frase terminale.

E se il suo potere potesse essere staccato dal corpo?

 

Buonsalve a tutti<3

Ed eccoci arrivati ai Gunsmith… dovevo inserire i Nordici&Co., in qualche modo XD

E il prossimo capitolo… Spamano 8D Prima di tuffarsi nell’arco asiatico<3

Il prossimo capitolo sarà aggiornato di domenica, anziché lunedì, poi si tornerà all’aggiornamento canonico nel giorno della luna<3

A presto<3

Red

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Capitolo 14
*** Le Mani del Diavolo ***



Capitolo Quattordici: le Mani del Diavolo

 

 

La candela aveva quasi esaurito la cera.

Antonio la spense definitivamente, smorzando la fiamma con due dita, e continuò le sue riflessioni nel buio.

Il Figlio del Cielo li aveva riuniti sul ponte di comando, non appena erano rientrati dal pianeta dei Gunsmith. Se volevano approdare a Chugoku e tornarne vivi, avrebbero dovuto ascoltare i suoi avvertimenti.

Yao aveva sconsigliato a chiunque fosse sprovvisto di magia di mettere piede nel suo mondo. Gli incantatori orientali avevano una caratteristica non comune agli stregoni occidentali. I maghi nati al di fuori del Sistema Asean tendevano a plasmare il mondo con la propria magia, modificando cose esterne; al contrario, gli incantatori orientali preferivano agire all’interno della persona, sfruttando i suoi punti deboli per annientarla. Era una specie di ipnotismo, aveva semplificato Yao.

Solo chi possedeva a sua volta la magia era in grado di erigere uno scudo mentale sufficiente per difendersi dagli attacchi psichici degli stregoni Asean; per questo i normali marinai sarebbero rimasti sul vascello.

Il Figlio del Cielo aveva poi aggiunto una postilla al suo discorso:

«Se doveste incontrare il Samurai… non toccatelo. Devo affrontarlo io.»

«Perché?» aveva chiesto Gilbert.

«Non è un avversario semplice. È stato molto ben addestrato e non so se riuscireste a tenergli testa» aveva stimato con elegante spietatezza l’orientale. E aveva aggiunto, con una punta di rancore: «E poi, devo essere io a porre fine a questa faccenda.»

Nessuno aveva obiettato: ognuno di loro aveva un obiettivo simile. Lovino voleva essere la persona che avrebbe posto fine al delirio del padre, Antonio desiderava vendicare la sua gente e Gilbert il suo popolo divorato, Roderich chiedeva al Cielo la possibilità di disfare ciò che aveva fatto.

«Ognuno di noi ha un obiettivo in cui non sono previste interferenze» l’Accordatore esordì con garbo raffinato, in sintonia con il contegno regale dell’Asean. «E noi non ci intrometteremo nel vostro piano. Ma dovete metterci al corrente della vostra strategia, o non vi saremo di alcun aiuto.»

Il Figlio del Cielo aveva annuito e gli aveva esposto la sua tattica. I punti essenziali erano pochi: trovare il Marauder, chiedere il suo parere sull’estrazione e l’eliminazione di un demone da un corpo vivo, trovare il Samurai e sistemare i conti del passato; i dettagli da tenere a mente, in compenso, erano moltissimi. Fu tremendamente chiaro perché Chugoku fosse il caposaldo del sistema Asean: grazie alla memoria generazionale, il Figlio del Cielo aveva velocemente ripercorso tutti gli sbagli degli strateghi precedenti, ed elaborato nuove tattiche per evitare i loro errori. Era come sentir parlare un arsenale di generali militari nello stesso istante.

Antonio si stropicciò le palpebre chiuse con le dita ruvide, sminuzzando un sospiro con i denti. Non era sicuro di essere adatto alle Terre d’Oriente; sperava solo che la loro permanenza fosse breve e il meno dolorosa possibile. E poi…

La mente del capitano si paralizzò per un istante. Aveva passato tantissimi anni inseguendo il suo sogno di vendetta, e ora che era a un passo da lui gli sembrava quasi di essersi immerso in una fantasia troppo reale. Eppure, una volta conclusasi quella campagna a Chugoku, che li avrebbe portati – auspicabilmente – a riunirsi con Francis, gli Sparvieri avrebbero spiccato il volo per distruggere il Vaticano. E per liberare il fratello di Lovino.

La sua memoria si accoccolò sul volto del suo vice. Aveva osservato Lovino, durante tutti quegli anni: aveva visto il bambino spaurito diventare un adolescente fiero, e aveva aspettato che il ragazzo ignaro diventasse pian piano consapevole dei propri sentimenti per lui.

Lo aveva visto sbocciare e mutare, ma si chiedeva se sarebbe rimasto ancora con lui, una volta riunito al fratello. Non sarebbero tornati al Vaticano, questo era certo: un Asse fuggitivo e la Mano Sinistra del Diavolo non erano le persone più adatte per svolgere le funzioni clericali. Tuttavia, avrebbero potuto scegliere di ritirarsi su un pianeta remoto della Confederazione, dove nessuno li avrebbe cercati, e lì recuperare gli anni perduti. Lovino non aveva mai nascosto come ricongiungersi al fratello fosse il suo unico obiettivo.

Proprio in quel momento, la porta della sua stanza si aprì.

Antonio non ebbe bisogno di voltarsi: avrebbe riconosciuto quel passo tra mille, anche se quella sera era più cadenzato del solito.

«Lovi…» lo chiamò, ma il nome del giovane si ritorse sulla sua lingua e gli otturò la gola. Il passo del ragazzo era risuonato più ovattato perché era senza scarpe. E senza pantaloni: dalla camicia sporgevano solo un paio di gambe magre, rese ben visibili dalla luce della luna che le lambiva. O forse era solo la sua mente esagitata a focalizzarsi con troppa frenesia sulle cosce scoperte del giovane.

«Avevamo detto che avremmo parlato» annunciò brusco Lovino, togliendosi dalla traiettoria del suo sguardo allibito. Si arrampicò sul letto del capitano, e arruffò le lenzuola in modo che gli coprissero le gambe nude.

“Parlare”. Antonio sentì il suo autocontrollo ridere fragorosamente a quella prospettiva. “Parlare”; sarebbe stata sicuramente la sua prima intenzione con il ragazzo amato nella sua stanza. Nel suo letto. Seminudo.

«Ti ha visto qualcuno?» quella domanda gli costò un cuscino, implacabilmente diretto alla sua faccia.

«Ovviamente no. La mia cabina è qui di fianco» protestò Lovino, ritraendosi con la schiena al muro.

Antonio si avvicinò al letto - per risistemare il guanciale, solo per risistemare il guanciale – e si sedette sul materasso, di fianco al giovane.

«Di cosa volevi parlare?» domandò il capitano, inghiottendo saliva tra una parola e l’altra.

Lovino si abbracciò le gambe, stringendo le coperte su di esse, e ciondolò la testa prima di esordire:

«Volevo chiederti una cosa. Per quando torneremo da Chugoku.»

Antonio avvertì le sue previsioni di poco prima graffiargli il cervello. Si impose la calma e concesse, con voce ferma:

«Chiedi pure.»

Lovino tamburellò le dita sulle ginocchia, incerto, poi rovesciò fuori in un sol fiato:

«Quando il Marauder sarà con noi e sferreremo l’attacco al Vaticano e libereremo mio fratello… potrebbe rimanere anche lui sulla Reina

Lovino interpretò male il silenzio sbalordito del capitano, e fece piovere una cascata di giustificazioni:

«Non te lo sto chiedendo solo perché è mio fratello. È destinato a diventare Asse, i suoi poteri sono eccezionali. Non farebbero di certo male a questa ciurma. E poi, a Caina hai visto anche tu quanto sia bravo come guaritore, e…» le dita del capitano si appoggiarono sulle sue labbra, zittendolo.

«Perfetto» si congratulò Antonio. Il suo sorriso fendette la penombra della camera. «Ci sarà sempre spazio per il tuo gemello.»

«Cerca di non confonderci quando sarà qui, bastardo» Lovino schiaffò via la sua mano e si ritirò con la testa tra le spalle, come una tartaruga arrabbiata.

Antonio fece migrare le dita sulla testa del giovane, e gli accarezzò i capelli crespi. Non lo avrebbe mai scambiato per nessun altro: la sua scontrosità, e il suo modo bellicoso di arrendersi, erano inconfondibili. Il suo Lovino era unico.

«E poi» sbuffò il ragazzo. «Avevi promesso che mi avresti parlato della tua infanzia.»

«Era una promessa reciproca» gli ricordò il capitano. Se le gambe del giovane fossero rimaste coperte dalle lenzuola, sarebbe stato in grado di conversare normalmente. «Coraggio.»

Lovino attorcigliò quel suo unico ciuffo ribelle con le dita, ripescando nella memoria i ricordi più belli.

«Quando avevamo quattro anni» cominciò. «Ero contento perché avevo fatto un bel sogno. Non ti dirò di che sogno si trattava!» inveì improvvisamente, diventando paonazzo. Per un bambino era la quintessenza del Paradiso, ma la Mano Sinistra del Diavolo non poteva ammettere di aver sognato un paese di cioccolato e biscotti. «Sappi che c’era mio fratello e che eravamo contenti. Comunque, la mattina mi sono subito girato verso Feliciano e gliel’ho raccontato… e abbiamo scoperto di aver fatto lo stesso sogno. E da allora ne abbiamo fatti tantissimi insieme.»

«Ti piaceva fare questi sogni condivisi?»

Lovino annuì e avvalorò:

«Era confortante. Era come… non essere mai soli.»

«E non li hai più fatti?»

Il ragazzo si rabbuiò, sparendo quasi nella penombra.

«Il Palazzo di Quarzo lo isola totalmente» si voltò verso di lui e cambiò discorso: «Tu non avevi fratelli o sorelle?»

«Ero figlio unico» raccontò Antonio. «Ma non mi sono mai sentito incompleto, per questo. La casa era riempita da mio padre e da mia madre, e il giardino da Gilbert e Francis.»

«Siete amici da così tanto tempo?»

«Da quando Gilbird si è schiantato contro il nostro melo» un punto interrogativo galleggiò nelle iridi di Lovino, e Antonio fu costretto a raccontargli del loro primo, disastroso incontro.

«E voi dovevate essere le guide del vostro popolo?» fu il commento sarcastico di Lovino al termine.

«Siamo migliorati molto, negli anni a venire» si difese Antonio e deviò: «Non hai altri ricordi con tuo fratello?»

«Tantissimi» calcolò Lovino. «Passavamo insieme ogni giorno… abbiamo anche litigato, alcune volte. Non eravamo sempre gli angelici pueri del Vaticano. Però, anche litigare con Feliciano non era brutto: se litighi con una persona, vuol dire che ci tieni a lei. E se dopo le chiedi scusa, significa che la consideri più importante del tuo orgoglio. E se lei ti perdona, vuol dire che la cosa è reciproca.»

«Vuoi davvero un mondo di bene a tuo fratello» un pugno lo raggiunse alla spalla, e Lovino inabissò la faccia nelle ginocchia.

«Non dirlo in questo modo melenso! Che schifo!»

Lovino rimase immobile per qualche secondo, poi una domanda si fece strada oltre le sue ginocchia.

«Com’è… avere dei genitori che tengono a te sul serio?»

Antonio sentì una spina di tristezza pungergli il cuore. Nessuna sorpresa che Lovino avesse così caro il suo gemello: la madre era stata per lo più assente, e il padre non faceva che giudicarli per capire quale dei due fosse adatto a divenire Asse. Erano stati un tribunale, più che una famiglia. E Lovino aveva riversato sul fratello l’affetto che avrebbe provato anche per i genitori, se fossero stati più presenti: il suo gemello era tutta la sua famiglia. 

«Era come non essere mai soli» Antonio riutilizzò le parole del giovane per fargli comprendere cosa si provasse. «E anche quando mi sono ritrovato senza di loro… non ero solo. Loro mi avevano insegnato a vivere e, vivendo, sarebbero stati con me. E poi c’erano Gilbert e Francis; con due casinisti come loro, è impossibile sentirsi abbandonati.»

Lovino distese le gambe e il lenzuolo si mosse con esse, scoprendogli le cosce. Antonio dirottò lo sguardo verso il pavimento.

«Ho avuto una seconda famiglia piuttosto bizzarra, non trovi? Un acchiappa fantasmi e uno sterminatore di demoni…» sciorinò il capitano, tentando di focalizzarsi sulla conversazione. «Siamo andati fino a Caina per recuperare Gilbert, e adesso ci stiamo dirigendo a Chugoku per ritrovare Francis… non ci risparmieremo nemmeno per tuo fratello.»

«Voglio vedere il Vaticano tremare» asserì Lovino.

Antonio giocherellò per un po’ con le proprie dita, poi, con un sospiro che sapeva di sconfitta, confessò:

«Lovino… temo di non essere nelle condizioni ideali per parlare.»

«Perché no? Stai facendo dei discorsi più sensati del solito.»

Antonio scartò immediatamente l’ipotesi del candore: Lovino sapeva benissimo di mettere a dura prova il suo autocontrollo, con quell’abbigliamento succinto. Era una tortura intenzionale e premeditata.

Il capitano decise di essere ancora più chiaro:

«Tu sei mezzo nudo, nel mio letto, a un passo da me. E, per quanto mi piaccia parlare con te, ti assicuro che la conversazione è l’ultimo dei miei pensieri, adesso.»

Il ragazzo non si ritirò a riccio nelle coperte, gridandogli improperi come “maniaco” e sinonimi. Fece uscire le gambe dalle lenzuola, le incrociò e puntò le mani sulle caviglie. A dispetto della sua apparente arroganza, le parole incespicarono un poco mentre dichiarava:

«Te lo avevo promesso. Dopo il tuo ritorno da Britannia.»

La bocca si corrucciò nella solita smorfia indispettita, mentre le guance si coloravano di rosso.

Dovevano riconquistare il trono del Figlio del Cielo, trovare lo spirito reincarnato del Marauder e sconfiggere il Vaticano; gli pareva assurdo che, con una lista così altisonante di impegni, lui avesse trovato il tempo per interessarsi al sesso. Eppure, più diventava cosciente dei suoi sentimenti per Antonio, più si incuriosiva all’arte amatoria. All’inizio aveva scacciato a suon di scappellotti quei pensieri poco consoni; poi li aveva gradualmente accettati, notando che il pensiero dell’intimità lo ripugnava, se non era contemplato il capitano.

Era testardo, ma non era stupido. Aveva dovuto accettare quel desiderio di unirsi al suo compagno, per quanto la cosa lo facesse sentire umiliato: l’idea di essere la parte passiva non lo riempiva d’orgoglio.

Il capitano dovette aspettare qualche secondo prima che quelle parole fossero scomposte, analizzate e accettate dalle sue orecchie sorprese.

«Lovino… sei sicuro?» Antonio preferì sondare il terreno, prima di avvicinarsi al giovane. «Perché dubito che riuscirò a fermarmi, dopo…»

«Perché sei un animale» Lovino raccolse le ginocchia al petto, coprendole con le braccia.

«Perché sono innamorato di te. E ti ho aspettato così a lungo…» lo corresse con dolcezza l’altro.

Il ragazzo gli lanciò un’occhiata furiosa. Non capiva come quelle labbra che gridavano ordini e respiravano la polvere da sparo fossero in grado di srotolare discorsi simili. Pronunciati da chiunque altro lo avrebbero fatto ridere, ma non riusciva a ironizzare su quegli occhi verdi che lo fissavano come se fosse il tesoro più prezioso esistente al mondo.

Le mani dell’uomo scivolarono gentili a sciogliere la muraglia di braccia intorno alle sue ginocchia. Lovino guardò verso il materasso mentre i suoi polsi venivano portati ai lati dal viso e il corpo dell’uomo si avvicinava alle sue gambe, costringendolo ad aprirle per accoglierlo sul suo ventre.

Il giovane si morse il labbro inferiore. Non avrebbe mai immaginato che avere l’uomo così vicino a lui, petto contro petto e bacino contro bacino, sarebbe stato tanto imbarazzante. Strinse istintivamente i pugni quando sentì le labbra del compagno lambirgli la mascella, nel punto più vicino all’orecchio.

La bocca di Antonio percorse la linea del viso, risalendo il mento e fermandosi a pochi millimetri dalle sue labbra serrate.

La fronte dell’amante toccò la sua, e Lovino riaprì gli occhi che aveva chiuso quasi senza rendersene conto. C’era qualcosa, in quelle iridi verdi, che lo pungolava dritto al cuore: non aveva capito se fosse il loro vissuto comune – l’assenza di una famiglia, la solitudine, la vita da reietti – a farlo sentire così partecipe delle emozioni del compagno. O se fosse semplicemente lo smisurato affetto che permeava quegli occhi a far breccia nelle sue barriere.

Strinse le ginocchia contro il bacino del compagno, in un tentativo inutile di chiudere le gambe, quando la bocca del capitano si appoggiò sulla sua. Antonio attese che il giovane smettesse di mordersi le labbra, che deglutisse nervosamente un paio di volte e che chiudesse gli occhi prima di schiudere la sua bocca.

Lovino interruppe il bacio per strattonare i suoi polsi fuori dalla presa dell’uomo, e cingere il collo del compagno con le braccia. Ringhiò un “non sono un prigioniero, idiota” prima di ricominciare a baciarlo.

Sussultò così vistosamente da bloccare le mani che si stavano intrufolando sotto la sua camicia, accarezzandogli le cosce. Aveva immaginato quello che sarebbe successo assieme al capitano, ma sentire le dita dell’amante esplorarlo dove nessuno lo aveva mai toccato prima gli aveva iniettato una scarica elettrica nelle vene, facendolo trasalire.

«Hai le mani fredde» protestò, come scusa.

«Non sarà per molto» lo tranquillizzò Antonio, posandogli un bacio sullo zigomo.

Le unghie del ragazzo artigliarono le spalle del capitano quando le mani del compagno salirono, accorciando la camicia in un accatastamento di pieghe sui suoi polsi. Lovino si lasciò sfuggire un singulto di sorpresa, quando le dita del capitano lo pizzicarono dove il petto era più sensibile. Antonio sorrise della spontaneità del giovane, che cercò di spintonarlo via per l’imbarazzo.

L’uomo non si lasciò spostare, e intensificò quello strano attacco. Lovino si appiattì contro il muro quasi volesse fondersi con esso quando Antonio slacciò la sua camicia per viziare con le labbra quegli stessi punti che poco prima erano stati stimolati dalle sue dita. Il giovane si agitò senza sosta sotto quella dolce tortura: si sentiva un essere osceno a godere dei movimenti della lingua del capitano. Si tappò la bocca mordendosi il dorso della mano, cercando di contenere i versi vergognosi che zampillavano nella sua gola. Sapeva come funzionava il sesso tra uomini: i marinai glielo avevano spiegato tempo addietro, in modo piuttosto volgare, utilizzando anche la verdura in stiva per esemplificare. Ma nessuno gli aveva mai detto che ci fossero altri modi di appagare il compagno, oltre alla penetrazione.

Il segno dei denti rimase, rosso e visibile, quando rilasciò la morsa sulla sua mano. Antonio si staccò da lui, gli afferrò il polso e contemplò il danno.

«Non devi contenerti così tanto» lo rimproverò carezzevole.

«Devo!» obiettò inviperito Lovino. «Vuoi che senta tutto l’equipaggio?»

La bocca di Antonio si poggiò sul marchio dei denti, lambendo la pelle lesa. Lovino avvertì un brivido, e portò un lembo della camicia a coprire il petto ancora umido di saliva.

«Hai avuto… molte esperienze, prima?» volle sapere, serrando le dita sul tessuto. Circolavano innumerevoli voci sulle amanti – o gli amanti – che la Mano Destra del Diavolo aveva avuto. Il giovane le aveva sempre ascoltate senza troppa attenzione, consapevole che molte dicerie erano state gonfiate volando di bocca in bocca. Tuttavia, vedere Antonio così sicuro di sé mentre lui era sul punto di morire dall’imbarazzo gli aveva fatto ribollire la mente con mille interrogativi, uno più sgradevole dell’altro. Quali altre persone aveva preso allo stesso modo? Su quale corpo sconosciuto aveva già praticato le stesse cose che stava per fare a lui?

La risposta dell’uomo non lo tranquillizzò del tutto.

«C’è stata molta gente disposta a tenermi compagnia durante la notte.»

La stoffa si spiegazzò ulteriormente sotto la sua presa. Anche lui sarebbe stato un amante da dimenticare al mattino?

«Ma non ho mai aspettato una “compagnia” per quattro anni. Né ho sfidato il Custode dei Cancelli per lei. Né le ho mai chiesto di condividere le occasioni future. Né gli ho mai detto di essere innamorato di lei» posò un nuovo bacio sul dorso martoriato del giovane, quasi cavalleresco. «L’ho fatto solo per te.»

Lovino si aggrappò all’unica parte criticabile di quel discorso: non poteva permettersi di dare troppa soddisfazione a quel pirata lasciandogli intendere quanto quelle parole lo avessero lusingato.

«Quattro anni fa ero un bambino! Pervertito!»

«Eri meno bambino di quando sei arrivato.»

«Tu sei malato

«Ovvio. Altrimenti non potrei essere una delle due Mani del Diavolo, no?»

«Non…» Lovino brontolò, corrucciato. «Non siamo solo quello… siamo uomini, prima di tutto.»

Il sorriso di Antonio gli accarezzò il viso, e il capitano articolò sulla sua tempia:

«Hai ragione, Lovino…» si allontanò, come colpito da un pensiero improvviso: «Non sei scomodo, contro la paratia?»

«È colpa tua! Mi sei saltato addosso come una bestia!»

«Hai ragione…» concesse il capitano, senza perdere altro tempo. Abbracciò stretto il giovane, in modo che cadessero in sincrono sul materasso.

Lovino aprì le labbra per innalzare una protesta, ma le richiuse presto, fingendosi offeso. I suoi dubbi non erano spariti del tutto: avrebbe continuato a chiedersi quanti amanti avesse avuto il capitano, quanto lo avessero appagato, se pensasse ancora a loro. Ma non poteva farlo mentre quegli occhi verdi lo fissavano così da vicino: Antonio gli stava riversando addosso così tanto amore, con il solo sguardo, che il giovane avrebbe potuto affogarci dentro.

Gettò da un lato il lembo della camicia trattenuto fino a quel momento, per dichiarare la propria resa momentanea. Morse il polsino anziché la mano, quando la bocca dell’uomo scese di nuovo su di lui. Sobbalzò quando i denti si strinsero sul suo petto, e fremette quando il compagno gli segnò la pelle chiara con i marchi rossi dei succhiotti.

Antonio si adagiò sul suo ventre nudo, le mani infilate nei suoi capelli e la guancia contro la sua.

«Lovino…» c’era una nota di vergogna nella sua voce. «Volevo darti più tempo, ma… temo di aver raggiunto il mio limite.»

Il giovane appoggiò le mani sulla schiena dell’uomo, infilandole sotto la camicia aperta, e sentì i muscoli del compagno tremare sotto i suoi polpastrelli. Lo strinse a sé, guardando altrove per la vergogna. Si stava trattenendo con enorme sforzo, tanto da fremere come se fosse sul punto di spezzarsi, solo per non spaventarlo. Per fargli capire che lui non era la compagnia di una notte.

«Se mi fai male, ti ammazzo» fu il modo rude di Lovino per dargli il permesso di proseguire.

Antonio lo baciò di nuovo sulle labbra, lentamente, premendo con più forza nell’ultimo bacio prima che la sua mano scendesse verso il basso.

Lovino gli artigliò la schiena e serrò le ginocchia quando l’uomo lo sfiorò in mezzo alle natiche. Si contrasse su se stesso sentendo il suo interno violato dal dito del compagno. Antonio gli accarezzò le spalle, la schiena, la nuca e lo strinse forte a sé mentre aggiungeva un secondo dito, e lo baciò sul tutto il viso inserendo il terzo.

Si sollevò su di lui, lasciandogli un attimo per riprendere fiato. Lovino lo fissò dal basso, gli occhi liquidi e le labbra rosse per i morsi usati per contenersi, il corpo scomposto sul materasso. Il suo autocontrollo fu pugnalato al cuore dall’immagine intimorita e lasciva del giovane. Aveva desiderato per così tanto tempo di accarezzarlo in quel modo, prima che chiunque altro potesse farlo… ma la realtà non era paragonabile alla fantasia. Lambì con le mani quel corpo tanto bramato, sentendolo reagire al suo tocco ogni volta che sfiorava le zone più sensibili.

Gli solleticò l’interno coscia prima di divaricargli le gambe in modo da poter entrare in lui.

Lovino non riuscì a trattenere il gemito di dolore quando sentì il capitano farsi strada dentro il suo corpo. L’ansito gli scoppiò sulle labbra, che il giovane premette contro la spalla del capitano per evitare ulteriori fughe. L’uomo si fermò e gli baciò il viso: il petto di Lovino si sollevava contro il suo con un ritmo troppo frenetico.

«Respira a fondo» lo consigliò Antonio, quando assaporò il sale di una lacrima sulla guancia del giovane.

«Non sei tu ad avere…» quelle poche parole si trascinarono faticosamente nella gola ingolfata dal respiro spasmodico, e si acutizzarono improvvisamente in un insulto: «Idiota!»

Il capitano gli diede tempo per regolarizzare il respiro, e per guardarlo male dal basso.

«Dopo ti ammazzo» lo minacciò, prima di schiudere la bocca al bacio dell’amante.

Antonio fu delicato, per quanto il suo desiderio gli permise: cercò di rallentare le spinte, di tranquillizzare quel corpo vergine sotto di lui, di non essere troppo violento nel prenderlo fino in fondo.

Lovino morsicò tutti i gemiti, e si maledisse quando gliene sfuggì qualcuno. Razionalmente sapeva che quegli ansiti erano normali, in una situazione del genere, come gli scatti del suo bacino verso quello del capitano, quasi volessero spronarlo a continuare. Tuttavia, trovava vergognosa la distorsione della sua voce sotto il piacere, così come lo imbarazzavano i movimenti incontrollabili del suo corpo in risposta alle stimolazioni dell’amante.

Strinse gli occhi con tutte le sue forze, e un suono inarticolato trapelò dalle labbra contratte quando il proprio seme gli macchiò il ventre. Antonio chiamò il suo nome con voce rovente prima di liberarsi dentro di lui.

L’aria fu riempita solo dal loro ansimare, mentre i corpi sudati si adagiavano sulle lenzuola, ancora allacciati tra di loro.

Antonio scostò alcuni riccioli dalla fronte imperlata, per osservare meglio il suo amante: l’imbarazzo e il piacere avevano spruzzato di rosso le sue guance ansimanti, e le labbra vermiglie ancora tremavano per il loro primo orgasmo.

«Stai bene?» domandò, accostando le dita alla sua gota per accarezzarlo.

Lovino affossò la faccia nel cuscino e bofonchiò:

«Mi fa malissimo dall’ombelico in giù, imbecille» rialzò di scatto la testa, ordinando: «Dammi un asciugamano o qualcosa di simile. Ho bisogno di pulirmi. E non posso alzarmi per andare a prenderlo da solo.»

Antonio si risistemò i pantaloni prima di sedersi sul letto e allungarsi per raggiungere la brocca, il catino e il panno grezzo che usava per lavarsi alla mattina. Strizzò per bene l’asciugamano rudimentale prima di passarlo sull’addome del suo amante. Lovino provò a obiettare che poteva farlo da solo, i problemi motori interessavano solo la parte inferiore del suo corpo, ma Antonio non lo ascoltò nemmeno: lo ripulì con cura, bagnando e strizzando il panno più volte, finché non fu certo che il giovane non avrebbe avuto di che lamentarsi.

Lovino perforò con lo sguardo la paratia. Trovava quelle effusioni quasi più imbarazzanti di quello che avevano fatto prima. Vedere quanto il capitano si preoccupasse per lui lo faceva sentire quasi a disagio: era abituato a essere il gemello deludente, il figlio maledetto e la mano più debole del Diavolo. Essere la priorità assoluta del suo amante lo inorgogliva in un modo vergognoso.

Antonio si stese di fianco a lui, e lo trascinò amorevolmente contro di sé.

«Lovino» lo avvolse completamente con il suo abbraccio, e mormorò: «Sono felice di essermi innamorato di te.»

Il fronte del giovane si abbatté sulle sue clavicole, e ci fu un istante di immobilità prima che il ragazzo ringhiasse:

«Io invece detesto questa cosa» le spalle salirono fino alle orecchie, mentre il ragazzo inveiva a bassa voce: «Con tutte le persone che ci sono nella Confederazione… la più stupida, la più scellerata, la più sconsiderata…» Lovino si rannicchiò ulteriormente, masticando: «Perché dovevi essere proprio tu…»

Antonio non resistette all’impellenza di baciarlo; il giovane mugugnò qualcosa di adirato, ma il capitano continuò a vezzeggiare la sua bocca finché non sentì quella del compagno arrendersi alla sua insistenza.

Era una dichiarazione. Per quando scontrosa e irriverente, il ragazzo aveva appena ammesso di essere innamorato di lui. A modo suo, certo, e senza dirlo direttamente, ma lo aveva fatto. E gli aveva perfino donato la sua verginità, per farglielo capire.

Antonio sigillò quella felicità schioccandogli un ultimo bacio sulle labbra.

Rimase sveglio il più possibile, per osservare il viso del suo amato mentre le palpebre cedevano pian piano al sonno fino a chiudersi completamente, il respiro si appesantiva e le labbra si dischiudevano con una piega deliziosa.

Posò le labbra alla radice dei capelli del giovane, inspirando l’odore selvatico di quella chioma ramata. Aveva aspettato per così tanto tempo che arrivasse una persona capace di cancellare la sua solitudine, che vedesse Antonio al di là della Mano Destra del Diavolo…

«Non andartene mai più, Lovino.»

 

 

 

 

 

Innanzitutto… spero che abbiate passato un buon Natale<3<3<3 E che il signor Babbo Natale vi abbia portato un sacco di cose belle<3

E poi… wow… penso che questa sia una delle lemon più lunghe e più dettagliate che abbia mai scritto XD

E con questa scena d’amore Spamano si conclude quest’arco narrativo. Dal prossimo si va nel Sistema Asean<3

Ci rivediamo il prossimo anno, precisamente lunedì 6 gennaio<3

Passate delle buone feste e sbancate il cenone di Capodanno<3

Red

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Capitolo 15
*** Il Portavoce del Sole ***


Capitolo Quindici: Il Portavoce del Sole
 

Una persona sa di essere a casa quando ogni ciottolo è ricollegabile a un ricordo.

Così si sentì Yao, quando calpestò il suolo di Chugoku per la prima volta dopo un intero anno di esilio.

Erano scesi sul pianeta solo lui e il Mago dell’Ovest, entrambi camuffati grazie alla magia di quest’ultimo. Non sapevano quale fosse la situazione politica su Chugoku, e avevano ritenuto più prudente scendere in pochi per ottenere informazioni: un gruppo troppo numeroso di stranieri, anche se un incantesimo avesse loro donato fattezze orientali, avrebbe potuto destare sospetti. Così erano scesi solo loro due, l’unico a conoscere a fondo quel pianeta esotico e l’unico a sapere dove poter trovare il Marauder. Arthur teneva il non ti scordar di me in un borsello da polso che nascondeva con le maniche larghe tipiche dell’abbigliamento Asean.

Il Mago dell’Ovest rispettò i secondi di immobilità del Figlio del Cielo: poteva capire cose significasse essere stato separato dalla propria casa.

Yao chiuse gli occhi per sentirsi sommergere dall’ambiente a lui tanto caro: le strade erano riempite dal suono musicale della lingua asiatica e dalle spezie della cucina locale; nel paesaggio si spandeva il colore delle risaie e quello delle case di legno, e nell’aria si libravano le volute serpentine degli incensi, lasciati a bruciare sulle finestre per scacciare gli spiriti malevoli.

Il giovane orientale strinse una mano sul petto, dove il nucleo di fuoco bruciava: quel sapore familiare che aleggiava nell’aria sembrava rinvigorirlo ad ogni passo. Aveva scelto una tunica di tessuto pesante e nero affinché trattenesse al meglio i raggi del suo cuore di fiamme, ma temeva che la luce sarebbe trapelata ugualmente, se non fosse riuscito a calmarsi.

Inspirò a fondo prima di addentrarsi in una stretta via.

«Dove stiamo andando?» domandò il Mago dell’Ovest alle sue spalle. Il Figlio del Cielo si complimentò interiormente per le capacità magiche del Britanno: i capelli neri, gli occhi a mandorla, i lineamenti e l’accento erano perfetti. Sembrava originario delle terre Asean.

«C’è una locanda frequentata dai militari, in fondo a questa strada. È la più lontana dal palazzo» semplificò Yao, continuando a camminare. «I soldati hanno sempre voglia di chiacchierare, quando terminano le loro mansioni al castello. Chiederemo a loro.»

Fu grato ad Arthur per non addentrarsi oltre in quella conversazione.

La mole del Palazzo Imperiale incombeva su tutta la capitale, e la sua presenza maestosa soffocava il Figlio del Cielo: troppi ricordi in quei corridoi, troppi dolori in quelle stanze.

Il castello era situato sulla collina più alta, in modo da sovrastare la gente comune ed essere più vicino al Cielo, considerato il padre di tutti i regnanti. Il Mago dell’Ovest aveva sentito parlare molte volte della bellezza di quella costruzione, ma le parole non rendevano giustizia alla splendida laccatura cremisi delle pareti, al legno intarsiato in un connubio di architettura e arte, all’attenzione maniacale per ogni dettaglio e decorazione. Sapeva che il castello contava oltre un centinaio di statue di dragoni, sparsi su tutte le mura, e ognuno di essi aveva due enormi gemme per occhi, che a loro volta portavano il marchio della dinastia scolpito in oro al loro interno. Yao gli aveva spiegato che la tecnica dell’incisione aurea all’interno di una pietra preziosa era un’arte che prevedeva il lavoro in simultanea di un orafo e di un mago, entrambi di altissimo livello. Quei dragoni erano ritenuti i protettori del Figlio del Cielo e della sua famiglia, per cui dovevano essere semplicemente impeccabili.

Yao gli aveva anche raccontato che il colore del palazzo variava al variare del sovrano. Poiché lui era nato sotto la benedizione del fuoco, le mura, le piume dei draghi e l’arredamento interno erano stati convertiti in un nobile cremisi. Perfino i vestiti dei servitori, i gioielli e le sete dei nobili e le armi dei militari seguivano quella moda, e tra i popolani era considerato di buon auspicio portare almeno un orpello del colore del sovrano.

Arthur fece una valutazione molto più pratica e meno culturale: se il colore di Yao addobbava ancora il Palazzo Imperiale, significava che il suo potere non era stato del tutto spodestato. Oppure il suo successore era nato sotto lo stesso astro.

Yao osservò di sfuggita il castello, prima di concentrarsi di nuovo sulla strada. Era bastata un’occhiata, ma l’aveva riconosciuta subito. L’Ala Est, quella dell’alba. Quella in cui era cresciuto e in cui era stato detronizzato.

 

***

 

Era nato nel giorno più caldo del mese più torrido nella regione più assolata.

Sua madre era considerata la moglie più bella tra tutte quelle che il precedente Figlio del Cielo avesse mai avuto. Si diceva che, al suo passaggio, i pesci affogassero poiché si dimenticavano di nuotare, troppo rapiti dal suo fascino.

Quel giorno era stata chiamata per benedire con la sua voce argentina i campi a sud del paese, che mal tolleravano l’estate tremendamente afosa di quel periodo.

Le doglie l’avevano colta a metà del viaggio, e aveva passato un pomeriggio in travaglio per darlo alla luce nella casa di un coltivatore locale. Il piccolo sole che palpitava nel petto del neonato non aveva lasciato spazio a dubbi: lui sarebbe diventato il Figlio del Cielo, un giorno.

Il padre era morto quando lui aveva dodici anni, lasciandogli in eredità il peso di un trono troppo vasto per un bambino così piccolo.

Non appena il padre era passato a miglior vita, i consiglieri gli avevano impiantato la memoria generazionale. Yao ricordava di aver creduto di impazzire, in quel periodo: sentiva mille voci risuonargli nelle orecchie, e mille ricordi che non conosceva gli affollavano la testa. Aveva passato una settimana intera a letto, febbricitante, finché non era riuscito a zittire quel caos e a discernere tra i suoi pensieri e quelli dei suoi predecessori. I consiglieri si erano congratulati a lungo con lui, quando era uscito dalla camera dopo soli sette giorni: gli altri regnanti ne avevano impiegati almeno una dozzina, per sopportare quel fardello.

In seguito, tutto il palazzo era stato rivoluzionato: suo padre aveva regnato sotto il segno della Terra, e occorreva sostituire tutti i paramenti gialli del palazzo. Il Figlio del Cielo aveva dato prova dei suoi poteri cambiando con la magia ogni ornamento del castello. I consiglieri e i servitori avevano applaudito a ogni trasformazione, più suntuosa e maestosa di quelle del precedente sovrano; erano orgogliosi di quel potere debordante che avrebbe certamente portato una grande prosperità al Sistema Asean.

Il ricordo più vivido che Yao aveva di quel giorno, era stato quando si era voltato per chiedere dove fossero sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle. Uno dei consiglieri si era inchinato profondamente, in modo che il bambino fosse più alto di lui, mentre gli comunicava la triste verità: la sua famiglia era stata esiliata dal castello. Avrebbero mantenuto il loro status di reali e avrebbero condotto una vita adeguata al loro rango, ma non avrebbero mai più potuto mettere piede nel Palazzo, salvo in occasioni del tutto eccezionali. Il castello era riservato al Figlio del Cielo attuale, e alla sua futura famiglia. Ogni vestigia del passato doveva essere allontanata, familiari compresi.

Quella sera, mentre il sole pugnalava l’orizzonte con una violenta tinta carminio, Yao aveva fissato l’acciottolato che conduceva fuori dalla capitale. Sua madre era solita prenderlo sulle ginocchia, di fronte a quella stessa finestra, per raccontargli del luogo in cui era nato, un posto dove il sole bruciava ogni cosa, tranne la gentilezza delle persone.

Il bambino si era toccato le guance, perplesso.

«Dovrei piangere…» aveva convenuto, tastando le gote alla ricerca delle lacrime. «Perché non piango?»

Poi, comprese: la saggezza di tutti i suoi predecessori gli permetteva di accettare quel distacco come avrebbe fatto un uomo di profonda sapienza, e non come un bambino di dodici anni.

Per la prima volta, Yao si sentì estremamente vecchio. E tremendamente solo.

 

***

 

Esistevano molti modi per conoscere una persona.

Yao aveva incontrato Im Young Soo quando quest’ultimo gli aveva rovesciato l’intera ciotola di zuppa addosso.

Il Figlio del Cielo aveva osservato quel servitore, forse di qualche anno più piccolo di lui, mentre barcollava fissandosi le mani come se temesse che potessero diventare due serpenti velenosi. Aveva prestato troppa attenzione alle sue dita, coperte da alcuni panni per evitare di bruciarsi con la pentola bollente, e troppa poca ai suoi piedi.

I consiglieri scattarono all’istante e lo stesso fecero le guardie, che afferrarono quel servitore imprudente e lo costrinsero a mettersi in ginocchio. Yao si fece largo tra di loro come una falce in mezzo al grano, e osservò il bambino rannicchiato a terra, con le mani chiuse a pugno contro il petto.

Ordinò alla sua corte di abbandonare la stanza e lasciarlo da solo con il piccolo. Si inginocchiò davanti a lui – le vesti di seta inzuppata fecero un buffo rumore quando si chinò – e scostò gentilmente quei pugni contratti dal petto sussultante di paura del bimbo.

Yao non mutò espressione, quando portò alla luce le dita del piccolo: a volte, pareva più la porcellana di un bambino che la sua copia originale in carne ed ossa.

Tra le sue mani, lisce e bianche, la deformità di quelle dell’altro risaltava con una chiarezza crudele: le dita erano ritorte e gonfie come i rami tumorali degli alberi, e le unghie erano talmente scure, scheggiate e ruvide da sembrare corteccia.

Il servitore ritrasse le mani quasi temesse di poter scottare il regnante, e biascicò una scusa a occhi bassi:

«Non sono degne di essere viste da un reale.»

La memoria generazionale gli permise di identificare immediatamente quella malformazione: era la caratteristica distintiva dei maghi neri del Sistema Asean. La deformità degli arti era il prezzo da pagare per esercitare le arti oscure.

«Qual è il tuo nome?» pretese di sapere Yao.

«Im Young Soo» rispose il piccolo, rattrappendosi ancora di più su se stesso.

Il Figlio del Cielo gli impose di rialzare la testa afferrandogli il mento e tirandolo verso l’alto. I capelli erano corvini e gli occhi castani, ma le fattezze differivano lievemente da quelle degli abitanti di Chugoku e il nome non era associabile a nessuna famiglia di quel pianeta; quel bambino doveva essere originario di Kankoku, uno dei loro satelliti vassalli.

«Come sei arrivato qui?» lo interrogò, altero.

Young Soo si torturò le mani deformi, e masticò con vergogna:

«Sono stato venduto dalla mia famiglia. Avevano… paura di me.»

«Che motivano avevano, per temerti?»

Il bambino occhieggiò timoroso dalla lunga frangia che gli copriva gli occhi e tormentò un ciuffo di capelli tra le dita mentre mormorava:

«Avete visto le mie mani. Sapete cosa significano.»

«Hai mai fatto del male a qualcuno?»

Young Soo saltò a quattro zampe come se gli avessero marchiato a fuoco le ginocchia; quasi rotolò su se stesso, annaspando:

«Mai, signore! Glielo posso giurare, non ho mai, mai, mai, mai ferito nessuno!»

«Non sprecare giuramenti» lo redarguì Yao. «E cosa li ha spaventati tanto, allora?»

«Queste!» esclamò il piccolo, mostrando le sue mani ritorte. Le richiuse subito dopo, pentendosi di aver mostrato una cosa tanto orribile. «Questo… morbo?» non vedendo disapprovazione sul volto del sovrano, Young Soo continuò: «Questo morbo non colpisce solo chi pratica la magia oscura. Colpisce anche chi usa la magia senza sapere come utilizzarla.»

«Continua» ordinò il Figlio del Cielo.

Young Soo inghiottì un boccone di saliva e si mise a sedere sui talloni, in un buffo tentativo di darsi un contegno.

«Le arti oscure vanno contro le regole della magia, per questo gli stregoni sono deformi. A meno che non trovino degli espedienti per dirottare su qualcun altro gli effetti negativi degli incantesimi.»

Yao annuì; uno dei suoi predecessori aveva visto uno stregone veicolare su una bambina il prezzo di un suo incanto. La piccola era letteralmente esplosa.

«Ma vale anche per chi infrange le regole senza volerlo. Chi usa la magia senza sapere come fare…» Young Soo sospirò, e proseguì: «Non so se mi crederete, ma io non sapevo di essere un mago. Stavo giocando con i miei fratelli in riva al fiume, quando la mia sorellina più piccola ci è caduta dentro. In quel momento ho pensato solo che volevo salvarla, non importava come. Le acque si sono divise, e lei è uscita di corsa dal fiume. Non appena è arrivata da me, l’acqua si è richiusa e ho sentito un dolore fortissimo alle mani. I miei genitori si sono spaventati a morte, e mi hanno venduto. Credevano che fossi stato io a spingere mia sorella nel fiume» il piccolo sorrise debolmente, appiattendosi la frangia sul viso con le mani nodose. «Erano contadini, non sapevano che anche un mago normale può avere questo morbo, se non sa come usare la magia. Io stesso l’ho saputo solo quando sono arrivato qui, e una signora gentile me lo ha spiegato» le dita dal colore ligneo aprirono la frangia come una tenda, e la richiusero un secondo dopo. «Voi le assomigliate molto.»

Yao cercò di non mostrare il suo stupore per quelle parole. C’era solo una donna che poteva assomigliargli, in tutto il pianeta.

«Questa signora ti ha detto perché ti ha fatto entrare nel palazzo, anche se eri sospettato di praticare le arti oscure?»

Il servitore piegò la testa in strane angolazioni, come se dovesse far rotolare i pensieri da una parte all’altra del cranio per poter rispondere.

«Ha detto che avrei fatto compagnia a suo figlio, quando lei fosse andata via» le labbra del bambino si corrucciarono in una piega comica, esprimendo disappunto. «Non ne sono sicuro. Ero appena arrivato e non capivo bene la lingua di qui… lei mi ha insegnato alcune cose, prima di sparire. Stavo imparando a leggere e scrivere... Mi chiedo dove sia adesso.»

Il piccolo non vide gli occhi scuri del regnante arenarsi sulle pieghe del suo abito imperiale per dissimulare l’emozione. Capiva cosa sua madre avesse visto, in quello straniero goffo e impacciato: una persona libera dalle convenzioni e dell’etichetta soffocante del Palazzo Imperiale. Una persona sola come lui, privata della propria famiglia.

Gli aveva donato un amico che potesse capire il suo isolamento e che fosse slegato dalle catene della formalità.

«Hai mai praticato la magia, da allora?» domandò, quando fu certo che la sua voce sarebbe risuonata ferma e nobile.

La frangia troppo lunga si aprì come un ventaglio scomposto in un cenno di diniego.

«Mai.»

«Penso che dovresti ricominciare.»

Gli occhi gli lanciarono un’occhiata sconcertata, da sotto la cortina di capelli.

«Cosa avete detto?»

«Hai detto tu stesso di non essere mai stato un mago oscuro. È stato un incidente. Penso che sia un peccato sprecare il tuo talento.»

Young Soo si raddrizzò carponi e si allontanò da lui di qualche passo.

«E voi dareste lezioni di magia a un completo sconosciuto che potrebbe diventare uno stregone nero?»

Il Figlio del Cielo si rialzò in piedi, e millenni si storia scintillarono nel suo viso e nelle sue parole mentre annunciava:

«Non sopravvalutarti troppo, Im Young Soo. Anche se tu ricevessi nozioni magiche, non diventerai mai più potente di me. Se tu dovessi diventare una minaccia, ti ucciderei senza troppo sforzo.»

Sentì il piccolo deglutire rumorosamente a quella prospettiva.

«E poi, la persona che per prima ti ha dato fiducia è… la persona di cui mi fido di più in tutto il mondo. Non posso mettere in discussione il suo giudizio.»

«Cosa dovrei fare?»

Una debole stretta di dolore strizzò il cuore di Yao. Quel ragazzo era stato abituato a servire, obbedire e umiliarsi fin dalla più tenera età: c’era la paura di chi non può abbandonarsi alle illusioni in quegli occhi sgranati che lo fissavano, il panico di sperare in qualcosa e il terrore di vedere quella stessa speranza frantumata.

Il Figlio del Cielo inspirò a fondo, e proclamò:

«Sarai istruito come si conviene. Imparerai a leggere e a scrivere. E imparerai a usare la magia per proteggere il regno.»

«Ma ho il mio lavoro nelle cucine…»

«Non sarai più uno sguattero. Sarai un mago.»

Il terrore della speranza raggiunse i massimi livelli in quelle iridi castane.

«Ma io non merito tanto…»

«Allora dovrai fare del tuo meglio per meritarlo. Studia. Diventa il miglior mago che si sia mai visto. E metti la tua magia al mio servizio, al servizio di tutto il Sistema Asean.»

Young Soo gattonò fino a lui, e afferrò un lembo della sua veste rubino con le dita tremanti. Portò il tessuto vermiglio alle labbra per baciarlo, e si rialzò di scatto per non bagnarlo con le lacrime che avevano improvvisamente cominciato a scorrere sul suo viso.

Cercò di fermarle contro le maniche ruvide della tunica servile, ma sembravano aumentare a ogni sfregamento.

«Scusatemi…» singhiozzò. «Non è questo il modo giusto… di rispondere alla vostra proposta…»

Yao si chinò per vedere le sue lacrime più da vicino. Quella era la reazione normale di un bambino: piangere come se i condotti lacrimali si fossero rotti. Non la gelida accettazione che gli aveva asciugato gli occhi, mesi prima.

«Scusate…»

«A volte è bello saper ancora piangere» il suo mormorio non fu più forte del fruscio della seta, quando si sporse per abbracciare il suo coetaneo singhiozzante.

Young Soo aprì le braccia per ricambiare, ma rimase in quella posa senza avvicinare le sue dita indegne alla schiena del sovrano.

«Farò del mio meglio» garantì, le mani che ciondolavano nel vuoto come quelle degli spaventapasseri. «Non vi pentirete di aver scelto me! Ve lo giuro!»

Quella volta, Yao non lo rimproverò di non sprecare giuramenti.

 

***

 

Young Soo mantenne la parola.

Nei mesi successivi si dedicò allo studio con tanto zelo che i servi cominciarono a sospettare che si nutrisse di libri e non di cibo.

Yao osservò la sua metamorfosi con un sorrisetto compiaciuto.

Il servo goffo diventò uno studente brillante, anche se il precettore si lamentava spesso del suo carattere troppo vivace e chiassoso per un uomo di cultura. E lo studente mutò in mago principiante, che saettava dal Figlio del Cielo per mostrargli i suoi progressi, scatenando un coro di proteste da tutti i servitori che rischiava di investire con la sua corsa folle per i corridoi.

Yao aveva dovuto sopportare lunghe riunioni e interminabili discussioni con i consiglieri perché accettassero la sua decisione di far diventare quel campagnolo un mago reale. E, nonostante fossero passati mesi dalla formalizzazione della sua scelta, alcuni consiglieri ancora borbottavano.

«Dovreste istituire una carica solo per lui. In questo modo, nessuno potrà più contestare alcunché» gli suggerì un giorno il più anziano.

Yao, a quell’epoca tredicenne, si era voltato verso di lui con un sopracciglio arcuato dalla sorpresa.

«Credevo che fosse poco etico, fare una cosa del genere. È come calpestare la volontà di tutto il consiglio.»

«Siete il sovrano, siete nato per far finta di ascoltare le opinioni altrui e poi procedere per la vostra strada. È il vostro lavoro» il vecchio gli aveva sorriso in un delinearsi di rughe ai lati degli occhi e della bocca. «Ma, per la giusta decisione, vale la pena calpestare l’opinione di qualche brontolone.»

Yao lo aveva fissato socchiudendo gli occhi e inclinando la testa, esattamente come la madre era solita fare.

«Mi stupisce che approviate Im Young Soo.»

«Oh, io non approvo che un servo possa scalare in questo modo la piramide sociale. Per questo, sono conservatore» lo smentì il vecchio. «Ma quel giovane sta dimostrando un talento non comune per la magia, e una dedizione che oserei definire famelica per lo studio. Penso che Chugoku trarrebbe giovamento dai suoi servigi, se guidati dalla vostra saggezza. E ammetto di trovare piacevole la distensione sul vostro volto, da quando avete quel piccolo straniero intorno.»

Il Figlio del Cielo sorrise, scendendo dal trono tramite la scaletta d’oro. Non vedeva l’ora di crescere abbastanza da rimuovere quell’aggeggio avvilente.

«Eri il consigliere cui mia madre era più affezionata» rifletté Yao, passandogli vicino.

«E lei era la sovrana cui ero più devoto» contraccambiò l’uomo.

La calma della sala fu sgretolata dall’entrata del tifone di Kankoku; Young Soo irruppe all’interno e si fiondò contro Yao.

«Fratellone! Guarda cosa ho imparato a fare!» esultò, prima di battere le mani per richiamare un minuscolo drago di fuoco sul palmo. La bestiola compì qualche spirale nell’aria, prima di sparire in una piccola nuvola di fumo contro le dita ricurve del piccolo.

«“Fratellone”?» disapprovò il consigliere.

Solo in quel momento Young Soo registrò la presenza di un’altra persona nella stanza. Si voltò di scatto, raddrizzò la schiena e recitò come un automa:

«Consigliere, giungo qui per mostrare al Figlio del Cielo i miei progressi negli studi…»

«Non serve recuperare adesso» lo smontò severamente l’uomo. «Cerca di tenere a mente il galateo, e non solo le formule magiche.»

Young Soo si girò verso Yao con espressione colpevole, non appena rimasero soli nella sala.

«L’ho fatto arrabbiare?»

«No. Ma dovresti davvero prestare più attenzione al luogo e al momento.»

Il piccolo infossò la testa tra le spalle, depresso.

«Allora non posso più chiamarti “fratellone” e darti del tu?»

«Puoi farlo, ma solo quando siamo da soli.»

«Quando ci sono altri servi?»

«No.»

«Quando ci sono i consiglieri?»

«Assolutamente no.»

«E davanti a un kappa

«Per quale motivo dovremmo mai trovarci davanti a un kappa

«Se dovesse farci visita.»

«I kappa vivono solo negli stagni, per ricaricare di acqua la pozza che hanno sulla fronte.»

«Ma se ci fosse un kappa

«Forse.»

Young Soo emise un gridolino felice, e saltellò di fronte al sovrano.

«Fratellone, quanti anni hai, esattamente?»

Yao chiuse gli occhi, rassegnato. L’ingenuità di quel bambino non conosceva confini: non sapeva neppure che il Figlio del Cielo era venuto alla luce tredici anni prima.

«Tredici» rispose infatti.

«Sei più grande di me di due anni» meditò ad alta voce Young Soo. «Però hai gli occhi degli adulti.»

«Gli occhi degli adulti?» gli fece eco Yao.

«Sì. Gli occhi annoiati, come se avessero già visto tutto… e come se quel tutto non gli fosse piaciuto.»

Il nucleo di fuoco pulsò nel suo petto. Era colpa sua se aveva già sperimentato tutte le brutture del mondo, a soli tredici anni: aveva visto il tradimento, l’invidia e l’ipocrisia. Aveva visto battaglie, sangue e guerre, colpi di stato e rivoluzioni. L’infanzia non era solo una questione di anni: era una condizione mentale, e la sua era stata spazzata via dalla memoria generazionale. Invidiava quasi i bambini i cui massimi problemi erano mangiare le verdure troppo amare e finire i compiti per la scuola pubblica.

«Ti fa male il cuore, fratellone?»

Young Soo dovette ripetere la domanda prima che Yao potesse evadere la risposta.

«Un po’. Nulla di grave.»

Il mago non si lasciò scoraggiare da quel bubbolio; si piazzò davanti al coetaneo e mosse le dita come per accarezzargli il petto, salmodiando:

«Non fa male, non fa male… non fa più male!» e batté le mani per concludere l’incanto.

«Ti hanno insegnato anche questo, a lezione di magia?» domandò pacato Yao.

«No» Young Soo sfregò il naso con un dito, confessando: «Me lo faceva mia sorella minore, quando mi facevo male. Non sapeva come fare per curarmi, così “mandava via il male”, diceva lei» scostò appena la frangia per sbatacchiare le ciglia, mentre chiedeva: «Ha funzionato?»

«Temo che la tua formula debba essere revisionata» il Figlio del Cielo cominciò con una lamentela, ma terminò con un complimento: «Ma apprezzo lo sforzo.»

Yao tossì con eleganza prima di noare:

«I miei occhi sono antichi, ma per quanto riguarda i tuoi… sarebbe bello vederli, ogni tanto.»

«A che scopo? Non hanno nulla di particolare.»

«Come puoi dirlo, se li tieni sempre sotto la frangia?»

«Lo so…?»

Incurante della recalcitranza dell’amico, Yao scostò i capelli dal viso di Young Soo pettinandoglieli all’indietro con una mano. Le ciglia erano corte e scurissime, spalancate su un paio di iridi che avevano il colore del legno a dicembre, quando l’umidità lo rende più spesso e scuro.

«Hai dei begli occhi. Dovresti scoprirli.»

«Ma io…»

«Scoprili. È un ordine.»

E Yao aggiunse un secondo comando: si sarebbe dovuto recare in camera sua la mattina seguente, affinché il regnante potesse assicurarsi che il nuovo taglio fosse di suo gusto. Quando Young Soo gli chiese a quale taglio di riferisse, il Figlio del Cielo rispose con sicurezza: «Quello che andrai a fare questa sera stessa per non contrariare il tuo sovrano.»

Gli appartenenti alla razza reale si distinguevano soprattutto per quella particolare abilità di imporre con estrema naturalezza il proprio volere agli altri, dando l’obbedienza per scontata.

Young Soo si presentò puntuale all’appuntamento con l’amico, tastandosi continuamente la fronte scoperta. Il barbiere di corte gli aveva pettinato i capelli ai lati del viso senza alcuna pietà, dopo averli accorciati abbastanza da assicurargli una fronte nuda per almeno due mesi.

Yao lo fece entrare, e si congratulò per il risultato. Young Soo avrebbe voluto che il palazzo si sollevasse e lo schiacciasse con la sua mole: non aveva una grande opinione del suo viso, specie se paragonato a quello del regnante, che aveva ereditato la fine bellezza della madre.

«Ho fatto preparare una cosa per te» lo informò aristocratico Yao, indicandogli un manichino piazzato in mezzo alla stanza.

Young Soo lo circumnavigò lentamente, gli occhi fissi sul vestito in esposizione. Non ricordava di aver mai visto un abito simile a corte: un paio di calzini bianchi contenevano la parte terminale dei pantaloni candidi, su cui ricadeva una lunga tunica color neve. Lo scollo ricalcava la moda di Chugoku, incrociato sul petto, così come le maniche, lievemente più lunghe di quanto fosse necessario. Un bizzarro gilet blu, fermato sul petto da una spilla carminio, completava il tutto.

«È un abito piuttosto strano» commentò alla fine. «Però è bello.»

«Sono lieto che ti piaccia. Perché, d’ora in poi, sarà la tua divisa ufficiale» Yao aggiunse, per essere ulteriormente chiaro: «Il Portavoce del Sole deve avere un’uniforme distintiva.»

«Non ho mai sentito nominare questa carica» notò serafico Young Soo.

Non c’era limite alla semplicità di quel ragazzo. Non sapeva se invidiare o maledire tanta ingenuità.

«Tu sarai il Portavoce del Sole. È una carica nuova, che ho creato io, e designa il mago di corte» preferì essere elementare, nella successiva spiegazione. «I consiglieri non approvano la nostra differenza di status, non approvano l’opportunità che ti ho dato. Ma, se accetti questa carica, non potranno più ribattere nulla. E tu sarai libero di continuare a studiare.»

Young Soo non si voltò; le mani rimasero sospese di fianco al vestito, come se anelasse di toccarlo ma temessero di sporcarlo. Non aveva perso il suo terrore per la speranza.

«Stai andando contro il volere dei consiglieri per me?»

«Solo alcuni di loro.»

«Perché?»

«Ritengo che sia la cosa giusta da fare. In pochi mesi hai fatto progressi che normalmente richiedono anni. Sarebbe sciocco non concederti l’occasione di servire il Sistema Asean solo perché sei nato da una famiglia di contadini.»

«Non ti creerà dei problemi, aver scelto me?»

«Mi creerebbe più problemi non avere un mago capace al mio fianco.»

Young Soo rimase in silenzio, e Yao lo incalzò gentilmente:

«Accetterai?»

Vide le mani deformi del giovane stringersi fino a tremare, e sentì la voce strisciare a fatica attraverso una gola otturata di lacrime.

«Fratellone, devi smettere di decidere le cose alle mie spalle. E, soprattutto…» un singhiozzo lo fece interrompere, e la manica corse a sfregarsi contro gli occhi come un anno prima. «Devi smettere di farmi piangere perché decidi troppo bene.»

Come un anno prima, Yao lo raggiunse per abbracciarlo.

«E se non fossi capace?» pianse Young Soo, premendo inutilmente gli occhi con le mani.

«Hai dimostrato di avere una volontà di ferro, e delle ottime capacità magiche. Saprai fare il tuo dovere.»

«E se ti dovessi deludere?»

«Mi deluderesti solo se mi abbandonassi.»

Le dita contorte si appoggiarono su quelle affusolate di Yao. Un anno prima, non era degno di toccare un reale: adesso era il Portavoce del Sole.

«Non abbandonerò mai il fratellone» giurò. «E troverò un modo per ripagare la tua gentilezza, un giorno.»

«Sarà sufficiente che tu protegga il nostro Sistema» minimizzò Yao, lasciandolo andare.

Young Soo sfiorò la stoffa bianca delle maniche. Erano più lunghe del normale, e adesso aveva capito il motivo: avrebbe potuto nascondere le sue mani sotto quel tessuto, così non avrebbe più dovuto vergognarsi della sua deformità.

Portò la stoffa al viso, annusandola per rapire il sentore di bucato.

Era uno dei più giovani, tra i suoi fratelli, e l’unico che contava davvero all’interno della famiglia era il figlio primogenito; non aveva mai sperato di ricoprire un ruolo importante all’interno del nucleo domestico. Poi era stato spedito tra i servi, dove i sogni erano banditi. Nella sua breve vita, era stato rassegnato fin dalla nascita a vivere nella mediocrità.

Aveva ottenuto la benedizione del Figlio del Cielo, aveva ricevuto un’istruzione più che adeguata e stava per diventare una figura portante della nobiltà di Chugoku.

Yao non aveva idea di quanto profondamente lo avesse salvato: la miseria materiale era un cancro che si diffondeva anche nell’anima, lasciando lo spirito spoglio e affamato. Sarebbe diventato uno dei tanti servitori con gli occhi spenti. Il Figlio del Cielo lo aveva sottratto a quel destino e stava stendendo una strada lastricata d’oro davanti a lui.

Aveva quasi paura di quella fortuna insperata: temeva che qualcuno potesse strappargliela via da un momento all’altro. Soprattutto, temeva che potessero strappargli Yao.

«Diventerò forte» promise al vestito che lo fissava. «Così forte che il fratellone non avrà nulla da temere» accarezzò il gilet blu, e avvalorò: «Prima di Chugoku, servirò il fratellone. Finché non avrò ripagato il mio debito.»

Si voltò, e sorrise alla stanza vuota: Yao si era dovuto recare alla consueta riunione mattutina.

«E anche dopo, quando non ci saranno più debiti a legarmi. Perché ho giurato di non abbandonare mai il fratellone. E non era un giuramento sprecato.»

Portò quel vestito in camera sua e lo ammirò come un trofeo per tutto il giorno prima di decidersi a indossarlo.

Fu rivestito della carica di Portavoce del Sole tre mesi dopo.

Fu in quel periodo che conobbero Kiku.

 

 

 

 

Buonasera a tutti<3

All’inizio la storia di Im Young Soo e quella di Kiku dovevano essere insieme… poi ho deciso di spezzarle, altrimenti non sarei mai riuscita ad aggiornare in tempo, e il capitolo sarebbe stato un papiro egizio XD

Nel prossimo capitolo comparirà Kiku<3 E si spiegherà un po’ come, quando e perché è entrato in contatto con il Figlio del Cielo<3

Dunque… ci rivediamo il 13!

Red

P.S. Per la metafora sui pesci che affogano per la troppa bellezza della sovrana… è una metafora realmente esistente, utilizzata per descrivere la bellezza di Da Chao, una delle donne più belle di tutta la Cina dei Tre Regni.

P.P.S. Per chi fosse interessato: “Chugoku” è “Cina” in giapponese, e “Kankoku” è “Corea”, sempre in giapponese. Visto che conosco poco di cinese e niente di coreano, ho preferito usare una lingua in cui sono cosciente di quello che scrivo, per evitare di buttar giù delle fesserie XD

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Capitolo 16
*** L'orfano ***




Capitolo Sedici: l’orfano

 

Il sole era infagottato in un banco di nubi, e l’aria era più fredda del previsto.

La giornata ideale per un’esecuzione.

Kiku, che a quel tempo aveva tredici anni, lottò inutilmente contro le corde grezze che gli stringevano i polsi. Prese un profondo respiro e stese la schiena contro il palo cui era stato legato. Non aveva davvero intenzione di liberarsi, ma l’istinto di sopravvivenza era difficile da sopprimere.

Stava facendo la cosa giusta, lo sapeva.

Chiuse le palpebre sugli occhi di pece, immaginando come gli Shinigami avrebbero potuto giudicarlo, una volta attraversato lo Stige.

Era stato abbandonato, quando era piccolo. Forse proveniva da una famiglia troppo povera, che non poteva permettersi una nuova bocca da sfamare, oppure era un figlio indesiderato, magari nato da una relazione clandestina. Non lo aveva mai saputo: non avevano lasciato niente su di lui, a parte uno straccio raffazzonato.

Era stato accolto dall’orfanotrofio della zona, che aveva fatto in modo che i ricordi più vividi della sua infanzia fossero il lavoro nei campi e nelle risaie. Non c’erano molti altri impieghi, per i bambini non desiderati. Molti di loro morivano, sfiancati dalla fatica o dalla malnutrizione, e non c’era nessuno che sprecasse una lacrima in loro ricordo: i figli scordati dai genitori perdevano il loro diritto di essere persone e diventavano oggetti da sfruttare finché non andavano in pezzi.

Non si era mai lamentato delle lunghe giornate passate a raccogliere riso e zappare la terra: alcuni di loro erano stati venduti alle miniere, dove erano richiesti dei “piccoli animali da sguinzagliare nei cunicoli più stretti”. Aveva sentito delle storie da brivido sugli spettri dei bambini morti in quegli anfratti, e ogni sera ringraziava gli dei per averlo assegnato ai campi.

Tuttavia, nemmeno la vita dei piccoli agricoltori era facile: dovevano svegliarsi quando il sole ancora dormiva per recarsi nei poderi, trascinandosi dietro gli attrezzi più grandi di loro. Seguiva una giornata all’insegna del sudore e della fame, perché le razioni del pasto erano molto scarse: il raccolto veniva venduto al mercato dai loro tutori, che non avevano alcuna intenzione di spendere una moneta di troppo per la loro nutrizione. In fondo, in pochi anni il lavoro massacrante li avrebbe condotti alla fossa comune, e sarebbe stato uno spreco farli ingrassare nel frattempo.

Non si era mai lamentato, nemmeno una volta, non aveva mai pianto, anche se avrebbe avuto tanti motivi quante erano le stelle in cielo; sperava che il suo spirito di sopportazione avrebbe avuto qualche valore, agli occhi degli dei.

Aveva trovato modo di svagarsi, perfino all’orfanotrofio. Gli bastava trovare un ramoscello nel giardino e poteva immaginare di avere in mano una katana raffinata e di essere uno dei soldati imperiali; muoveva quell’arma improvvisata come se volesse tagliare l’aria in piccoli coriandoli, guadagnandosi le lodi dei suoi più sgraziati compagni.

Heracles era quello che lo incoraggiava più di tutti, affascinato dai suoi movimenti.

Quel bambino era stato abbandonato perché frutto di uno stupro. Gli occhi olivastri e i capelli castani erano troppo simili a quelli dell’uomo che la madre cercava di dimenticare, e il piccolo era stato abbandonato insieme alle memorie sgradevoli.

Kiku era stato attirato dalla sua aria serena, che spiccava tra le espressioni infossate degli altri bambini come un diamante in mezzo al carbone. Avevano stretto amicizia quando il gatto randagio con cui Heracles giocava era schizzato improvvisamente in braccio a Kiku, che si era quasi rovesciato per la sorpresa.

Heracles trovava incantevole la fierezza di Kiku, che a sua volta pensava che la calma dell’amico fosse rincuorante. Andavano d’accordo, anche se ogni tanto Heracles faceva battute piuttosto strane su quanto Kiku dovesse essere bello senza vestiti; l’amico aveva sempre fatto finta di non sentire, oppure aveva negato con decisione.

Avevano passato anni a rincorrere i gatti randagi, a fingere che i bastoncelli striminziti trovati in giardino fossero spade aristocratiche e ad aiutare l’altro a rialzarsi in piedi, quando il lavoro fiaccava loro le ginocchia.

Era crollato tutto quando il proprietario dell’orfanotrofio aveva cercato di spegnere il suo unico raggio di sole. Erano in giardino quando l’uomo li aveva raggiunti, infuriato come non mai: il gatto di Heracles era entrato nei magazzini, e aveva rovinato un’intera partita di verdure.

Il bambino aveva provato a dire qualcosa in sua difesa, ma lo schiaffo che lo aveva raggiunto sulle labbra lo aveva zittito all’istante. Gli occhi di Kiku si erano sbarrati di fronte alla violenza del proprietario di quel posto: al primo schiaffo ne era seguito un secondo, e un altro, e un altro ancora. Heracles aveva cercato di proteggersi con le braccia, e quella sua resistenza aveva infiammato ulteriormente l’uomo: i calci avevano arginato lo scudo degli avambracci, e avevano raggiunto il piccolo al ventre. Kiku scoprì di essere caduto quando toccò l’erba con le mani: quello spettacolo gli aveva mozzato fiato e ginocchia.

«Così lo ammazza!» aveva gridato un bambino.

Quell’urlo aveva fatto scattare qualcosa, dentro di lui: aveva sentito una marea rossa risalire dalle viscere fino a stendere un velo carminio sulla realtà.

La sua mano si era stretta attorno a una pietra, e le gambe erano scattate in un balzo. Aveva calato quel ciottolo mille volte, senza sentire i rantoli dell’uomo e nemmeno gli strilli dei bambini, finché non era più riuscito a tenere il sasso in mano: il sangue lo aveva reso troppo scivoloso per essere trattenuto.

Tutto era diventato rosso.

Le guardie erano arrivate poco dopo, e lui aveva dichiarato immediatamente la sua colpevolezza: non voleva che i suoi amici rimanessero coinvolti in quell’omicidio. La sua confessione fu superflua, anche se altruista: le macchie di sangue che chiazzavano i suoi vestiti e il suo viso erano sufficienti ad accusarlo.

E ora attendeva di essere giustiziato sulla pubblica piazza.

Kiku si adagiò contro il palo, inclinando la testa di lato. Quell’incidente aveva portato alla luce la triste realtà degli orfanotrofi, troppo spesso ignorata: le guardie e i funzionari non potevano eludere le denunce di maltrattamenti e sevizie dei bambini, né potevano dissimulare i lividi e i chiari segni di malattie sui loro corpi denutriti.

Non aveva la presunzione di diventare un eroe nazionale: ci sarebbero stati sicuramente altri orfanotrofi con le loro stesse condizioni, se non peggiori. Ma, almeno per i suoi amici, le cose sarebbero cambiate: aveva visto molte persone accalcarsi per scrutare quei fantasmi di bambini. Magari alcuni di loro sarebbero stati adottati; magari Heracles avrebbe trovato una famiglia.

«Ho avuto una fine onorevole, almeno» stimò in un bisbiglio, quando la porta della capanna in cui era recluso si aprì.

Faticò a mettere a fuoco la figura che si stagliò nel rettangolo della porta: la luce improvvisa gli ferì gli occhi, abituati all’oscurità di quel posto. Ma anche quando le sue pupille si adattarono, non riuscì a riconoscere immediatamente il ragazzo che lo scrutava dalla soglia. Il suo fisico e il suo volto erano disegnati con tratti estremamente delicati e, finché non aprì bocca, non avrebbe saputo dire se fosse un maschio androgino o una femmina mascolina.

«Sei tu ad aver ucciso il proprietario dell’orfanotrofio?» domandò una voce cristallina.

Kiku annuì, lievemente turbato dal tono del giovane: doveva avere all’incirca la sua età, ma il mondo stesso pareva inchinarsi al suo volere, quasi fosse una creatura divina.

«Perché lo hai fatto?» lo sconosciuto chiuse la porta e si avvicinò a lui. Kiku lo fissò guardingo, non riuscendo a capire l’obiettivo di quel ragazzo.

«L’ho fatto. Alle autorità interessa solo questo» proclamò, e distolse lo sguardo da quegli occhi scuri che lo trapassavano, come se la sua pelle fosse un foglio di carta di riso.

Le labbra fini del giovane si arcuarono in un sorriso cortese, e una delle sue mani si protese per toccargli lo sterno.

Kiku trasalì ma non poté sfuggire a quelle dita: le corde che lo legavano erano troppo strette.

Lo sconosciuto chiuse gli occhi, e alzò il mento come se stesse ascoltando una melodia lontana. Increspò le labbra e le sopracciglia un paio di volte prima di mormorare:

«Capisco…»

Si rialzò fluidamente e lo osservò dall’alto mentre lo giudicava:

«Hai ucciso un tiranno perché stava ammazzando un tuo amico. E ti sei dichiarato colpevole per evitare che i tuoi compagni subissero il tuo stesso destino. Se avessi detto queste cose alle guardie, la tua pena sarebbe stata più lieve.»

«La voce di un orfano non conta quanto il sangue di un adulto» notò Kiku, senza alcuna particolare sfumatura. «Nessuno mi avrebbe creduto.»

L’altro fece un lieve cenno con il capo, riconoscendo la veridicità del suo discorso.

«Comunque, è davvero incredibile che tu sia riuscito a sopraffare un adulto» valutò il giovane, portando dietro le spalle la lunga coda mogano che gli ricadeva sul petto. «Il tuo tutore era più robusto di te, e meglio nutrito. Eppure, tu sei stato abbastanza forte da abbatterlo.»

«Si fanno molte cose, quando si è disperati» replicò neutro Kiku.

«E parli piuttosto bene, per essere analfabeta» lo elogiò l’altro.

«Non so leggere, ma so ascoltare. E ascolto molto.»

«Ascolti bene. E memorizzi ancora meglio.»

Kiku lanciò uno sguardo carico di sospetto sull’altro giovane: non riusciva a capire perché un signorino di buona famiglia fosse venuto in quel tugurio per parlare con un assassino. La sua origine nobile era visibile nel vestiario curato e nella perfetta salute di pelle e capelli, ed era ancor più nitida nel suo portamento impeccabile e nel suo modo di parlare come se un gradino lo distanziasse dal resto del mondo.

«Dove hai imparato a combattere?»

«Non so combattere.»

«Devo dedurne che hai un grande istinto. Hai colpito quell’uomo solo in punti vitali.»

«Tutti sanno che un sasso diretto alla testa può uccidere.»

«Ma non tutti sanno colpire lo stesso punto ripetutamente, specie se attaccano in uno scatto di rabbia» il giovane lo sondò con gli occhi e con le parole: «Sei sicuro di non aver mai combattuto?»

Kiku scosse la testa in cenno di diniego.

«No. Ogni tanto fingevo di essere un soldato, insieme ai miei amici. Ma nessuno ci ha mai insegnato.»

L’orfano lanciò uno sguardo obliquo, affilato dalla provocazione.

«Dovresti temermi. Sono un mostro che è riuscito a massacrare un adulto.»

Lo sconosciuto ricambiò con un’occhiata colma di saggezza e sfida.

«Se i nostri antenati avessero temuto le piene del Fiume Drago, il limo non avrebbe mai potuto depositarsi sulle valli e fertilizzarle, e le società arcaiche non avrebbero prosperato. Tuttavia, se non fossero stati in grado di creare una canalizzazione adeguata per i campi, le piene avrebbero sommerso anche i villaggi. Non temo la forza, ma ritengo che debba essere controllata e condotta sulla giusta via» il ragazzo si inginocchiò di fronte a lui: «Vorresti avere la possibilità di domare il tuo potere?»

«Non vedo come. Sto per morire» ribatté ovvio Kiku.

«Non è ciò che ti ho chiesto» gli ricordò serafico l’altro.

L’orfano si morse le labbra prima di ammettere:

«Sì. La vorrei.»

«Allora la morte dovrà aspettare.»

Quando il ragazzo allentò lo scollo e il sole di fuoco baluginò dai bordi slacciati, Kiku temette di essere impazzito completamente: la sua mente, terrorizzata all’idea della morte imminente, doveva essersi inventata un’assurda storia in cui il Figlio del Cielo si era scomodato per venire a salvarlo.

«Quelle corde sembrano scomode» a Yao bastò schioccare le dita perché le funi che grattavano i polsi del giovane bruciassero senza scottare la pelle del ragazzo. Kiku quasi non badò a quel prodigio, troppo stupito dalla presenza del sovrano in quel bugigattolo.

«Perché siete venuto qui?» domandò, incapace di alzarsi.

«Non sono venuto appositamente per salvarti» ammise Yao. «Sei stato fortunato, Kiku: stavo visitando questo villaggio quando ho sentito parlare del tuo caso, e mi sono incuriosito» il regnante gli porse una mano con eleganza: «Le vie del fato sono misteriose, anche per me.»

L’orfano rifiutò con garbo quella mano troppo preziosa per essere toccata dalla sua, e si rialzò in piedi appoggiandosi al palo.

«Non riesco a credere che vogliate un assassino… nella vostra corte» le parole tremarono appena: Kiku era troppo orgoglioso per balbettare apertamente.

«Ho anche un mago nero, nella mia corte» elencò a mezza voce il Figlio del Cielo. Usò un tono stentoreo nel ricordargli: «La mia decisione non cancella la tua colpa. Ti viene data una seconda possibilità, ma non la redenzione incondizionata. Dovrai guadagnarti il perdono diventando un soldato capace e, soprattutto, fedele.»

«Non è il duro lavoro a spaventarmi» asserì deciso Kiku. «Ma, se permettete, temo che voi siate troppo avventato.»

Il sorriso parve accarezzare le labbra ben disegnate del giovane, e una punta di dolcezza gli illuminò gli occhi a mandorla.

«Una persona a me molto cara mi ha mosso questa stessa accusa, circa un anno fa» ricordò. «Come dissi allora: se tu dovessi rivoltarti contro di me, ti incenerirei come ho fatto con le tue corde.»

Il sovrano non smise di sorridere, ma un fuoco terribile fece scintillare le iridi scure quando consigliò, mellifluo:

«Non darmi modo di ripensare alla mia scelta, Kiku.»

 

***

 

Yao e Arthur si voltarono di colpo, quando l’immenso gong del Palazzo Imperiale fece vibrare l’aria.

«Che succede?» chiese il Mago dell’Ovest, irritato per lo spavento.

«Stanno per fare una comunicazione ufficiale» il fiato del Figlio del Cielo si troncò di colpo quando il Samurai comparve sulla balconata del castello.

Il bianco della tunica si fondeva con il candore della pelle, e contrastava con la tinta d’ebano di occhi e capelli. Il rubino incastonato sull’elsa della katana e le insegne militari scarlatte ricordavano la sua fedeltà al sovrano.

Yao infilò le mani nelle maniche, e artigliò gli avambracci. Kiku non era cambiato per nulla, come se quell’anno non fosse mai trascorso.

Il guerriero attese un istante, con la sua espressione impossibile da scalfire ben saldata sul volto. La sua impassibilità era leggendaria.

Tuttavia, perfino a quella distanza, Yao poté immaginare con estrema chiarezza il lieve tremore del sopracciglio sinistro e il singolo battito di palpebre, che contraddistinguevano gli stati di ansietà di quel giovane. Conosceva bene quel ragazzo, troppo bene.

«Il Figlio del Cielo» annunciò, scandendo ogni parola. «Non ha ancora vinto la sua lotta con il coma. Le condizioni del Portavoce del Sole restano immutate. Preghiamo gli dei di restituirli a queste terre il prima possibile» e scomparve all’interno, prima che una lacrima potesse affacciarsi dai suoi occhi.

Arthur sentì il suo cuore mancare un colpo. Il Figlio del Cielo in coma? Che assurdo trucco avevano inventato per mantenere quella bugia per un anno intero?

«Ma cosa…» cercò di chiedere, ma richiuse la bocca subito dopo.

Il colorito terreo delle gote di Yao era un chiaro segnale del suo stato d’animo. Era angosciato fino all’ultima fibra del suo essere: per il suo amico, le cui condizioni non erano state specificate, per il suo regno. E per il Samurai.

Arthur osservò l’acciottolato meditando un intervento intelligente. Tutto ciò che riuscì a dire fu:

«Sembrava sinceramente preoccupato.»

«Lo so» ghigliottinò il Figlio del Cielo.

Kiku non lo aveva mai tradito. Era colpa del demone, di quel maledetto demone.

«Dobbiamo trovare un modo di entrare nel Palazzo il prima possibile» sentenziò Yao.

Doveva sapere cosa era successo a Young Soo. E doveva cercare di salvare Kiku. Anche se ciò avrebbe implicato uccidere quel bambino che aveva salvato tanti anni prima, e che era vissuto fino ad allora solo per servirlo.

 

 

 

 

 

 

Scusate il ritardo dell’aggiornamento ç_ç

Ho avuto una brutta influenza, e non sono riuscita ad aggiornare prima di oggi .-. E, sempre per via dell'influenza, il capitolo è venuto più corto del previsto ç_ç MI rifarò con il prossimo<3

Per impegni che sono sorti negli ultimi tempi, d’ora in poi l’aggiornamento sarà bisettimanale. Mi dispiace moltissimo ç_ç Quando sarò più libera, gli aggiornamenti torneranno settimanali<3

Come sempre, grazie per aver letto fin qui e per seguire questa storia<3

Nel prossimo capitolo saranno svelate altre cose sul Samurai :)

Ci vediamo tra due settimane, sempre di lunedì<3

A presto<3

Red

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Capitolo 17
*** Heracles ***




Capitolo Diciassette: Heracles

 

Il giovane orfano fece in modo che il sovrano non dovesse mai rimpiangere la sua decisione.

Raggiunse il castello la settimana successiva, con un fagotto contenente i suoi pochi averi.

Si era concesso qualche giorno per separarsi dal suo migliore amico: lui e Heracles erano scappati al mare, e si erano divertiti con le onde, la sabbia e la pesca.

«Così te ne andrai nella capitale» ansò Heracles, quando si stesero sulla spiaggia assolata dopo una lunga immersione. «È molto lontana da qui?»

«Circa tre giorni a piedi, uno a cavallo» calcolò rapido Kiku.

«Non ci vedremo più?»

«Troverò un sistema.»

Heracles sorrise, socchiudendo gli occhi nella luce abbagliante del sole. Kiku trovava sempre una via di uscita; era riuscito perfino a tirarli fuori dall’orfanotrofio.

Il ragazzo rabbrividì, nonostante la temperatura mite. I calci del maestro gli avevano lasciato dei lividi scuri sulla pancia, e il labbro spaccato era ancora gonfio e gli pizzicava ogni volta che si immergeva nell’acqua salata del mare. Ma era libero, e lo doveva solo a Kiku, che non aveva avuto paura di sporcarsi le mani per salvarlo.

Stava perfino per essere adottato dal fabbro del villaggio, che si era impietosito ascoltando la sua storia. Pareva assurdo che, fino a pochi giorni prima, il suo futuro finisse con il tramontare del sole: non era mai sicuro che sarebbe sopravvissuto fino all’alba.

«Sono orgoglioso di te» gongolò Heracles. «Lavorerai nel Palazzo Imperiale… sarà fantastico.»

Kiku aspirò le labbra nella bocca, per assaggiare il sale marino lì imprigionato.

Aveva temuto che Heracles lo avrebbe guardato come gli altri loro compagni: erano contenti di essere stati salvati, ma avevano visto la sua furia mentre spaccava il cranio del tutore. Avevano paura di lui, anche se volevano essergli grati. Heracles era troppo candido o troppo stupido per spaventarsi: il suo comportamento non era cambiato minimamente, come se Kiku li avesse liberati con uno slancio eroico e non con un omicidio.

Lo avrebbe fatto diventare ancora più orgoglioso di lui, e avrebbe fatto in modo che potessero continuare a sentirsi.

Una volta raggiunto il castello, chiese a Yao se esistesse un modo per comunicare con una persona che non sapesse né leggere né scrivere, e il Figlio del Cielo gli aveva proposto un usignolo meccanico, in grado di registrare messaggi vocali e riprodurli all’interessato, una volta impostata la destinazione. Ma quell’oggetto aveva un prezzo: Kiku avrebbe dovuto superare l’esame per entrare nell’accademia militare.

Il ragazzo soddisfò quella richiesta la settimana successiva, e l’usignolo partì per raggiungere Heracles. Tornò indietro quattro giorni dopo con la risposta dell’amico, e ripartì il giorno successivo con la replica di Kiku.

Trovava sempre tempo per registrare un messaggio per Heracles, nonostante la vita nell’accademia fosse molto impegnativa.

Appena arrivato, gli avevano rasato i capelli fino alla radice, e Kiku era stato contento di quel taglio drastico: era stato un ottimo rimedio per i pidocchi, congiunto alla lozione che il Figlio del Cielo gli aveva fatto avere.

I maestri avevano notato in lui un’enorme determinazione, e uno spiccato talento per le spade: le lame stesse sembravano sforzarsi per armonizzarsi alle sue inesperte movenze, goffe come quelle di tutti i novellini. La posizione delle gambe poteva essere scorretta o il movimento troppo veloce, ma vi era una sintonia particolare tra quel giovane e le spade, come se cercassero insieme il modo migliore di scivolare nell’aria. All’interno dell’accademia, fu il primo a impadronirsi di una destrezza sufficiente per accedere al secondo livello degli allenamenti. Quella promozione fu approvata anche dai medici militari responsabili della salute degli allievi: gli arti scheletrici del giovane si erano finalmente gonfiati in una parvenza di muscolo e carne, e gli allenamenti successivi, abbinati a una giusta dieta, avrebbero certamente irrobustito il suo fisico.

Kiku si sottopose agli addestramenti più duri, con una dedizione tale da risultare sconcertante: sembrava che il giovane mettesse in ogni colpo la sua stessa vita, tanto era concentrato nel far vibrare la spada.

«Hai mai pensato di concorrere per la carica di Samurai?» gli domandò un giorno il suo maestro di spada.

Kiku si passò un panno bagnato sul volto: non era decoroso parlare con i propri superiori con il viso congestionato.

«Non ci ho mai pensato, signore» asserì il giovane, neutro. «Non appartengo a un rango sociale sufficientemente elevato.»

«Ma ti esprimi molto bene, per essere un orfano.»

«I kami mi hanno fornito due buone orecchie, signore, e una memoria abbastanza capiente.»

«E una retorica invidiabile, per una persona che non ha mai aperto un libro» il maestro rinfoderò la spada e considerò: «Sarebbe difficile diventare Samurai, ma non impossibile. Dovresti superare un esame di cultura generale. Solo le persone colte possono stare al cospetto del Figlio del Cielo.»

«E dovrei sfidare e sconfiggere i guerrieri più forti del Sistema Asean» aggiunse Kiku.

«Ma questo non sarebbe un problema. Raramente ho visto un talento smisurato come il tuo» l’insegnante gli si piazzò davanti, e pretese l’attenzione dei suoi occhi neri: «Posso trovarti un maestro che ti aiuti con gli studi culturali. E posso trovare un nobile che ti faccia da garante per permetterti di accedere alle selezioni.»

Kiku si sedette sul terreno sabbioso dell’arena in ginocchio, con la schiena perfettamente dritta e la katana stretta in pugno, perpendicolare al suo fianco. Il maestro lo osservò mentre il giovane chiudeva gli occhi, sprofondando nelle sue meditazioni. Sembrava una delle statue di bronzo raffiguranti i Samurai delle leggende; quel ragazzo sarebbe sicuramente entrato nella mitologia dei guerrieri.

Kiku sollevò il suo sguardo d’ebano dopo qualche secondo, si rialzò in piedi e scandì, marziale:

«Sono pronto ad accettare questa prova, signore.»

Il maestro sorrise e si sminuì, alzando una mano come per frenare il ragazzo:

«Oh, ma non sarò io a occuparmi della tua istruzione. Qualcun altro si è già offerto per questo ruolo.»

Come evocata dalle sue parole, una figura impaludata di rosso si materializzò nel rettangolo grezzo dello stipite.

Riconobbe istantaneamente quei lineamenti regali, anche se erano passati mesi dall’ultima volta che li aveva ammirati di persona. Non riconobbe invece il ragazzino che trotterellava festante di fianco al nobile, vestito con uno strano abito bianco e blu.

«Ti presento i tuoi garanti e i tuoi istruttori» li introdusse il maestro, con un gesto cerimonioso.

Per quanto Kiku vantasse un volto di granito, non riuscì ad arginare del tutto la sua commozione. Era convinto che il sovrano lo avesse salvato per capriccio, e che si fosse scordato di lui dopo averlo lasciato in accademia. Lui non avrebbe mai dimenticato la gentilezza del regnante, che lo aveva strappato alla morte, ma sapeva che per il Figlio del Cielo lui sarebbe rimasto insignificante come la ghiaia che calpestava nel suo giardino. Un simile interessamento era qualcosa che un povero orfano non avrebbe mai potuto sperare, nemmeno in cento anni. Era la prima volta, in tutta la sua vita, che Kiku si sentiva indispensabile e accettato, come se avesse trovato il posto in cui cucire il suo piccolo ricamo nell’immenso arazzo del Sistema Asean.

Si inginocchiò, porgendo la spada al sovrano e chinando la testa, in modo da celare i suoi occhi lucidi.

«Mio signore» recitò, come da cerimoniale. «La mia forza e le mie armi sono al vostro servizio.»

Yao sollevò la spada dalle sue mani e la strinse al petto. Accettando quella lama, aveva formalmente riconosciuto quel giovane come guerriero reale.

«Alza il viso, Kiku» lo invitò con garbo il regnante, restituendogli la spada. «Non è possibile studiare a capo chino.»

«Concedetemi qualche istante. Vi prego.»

Il Figlio del Cielo e il Portavoce del Sole si scambiarono un’occhiata complice: l’orgoglioso guerriero non voleva mostrare le sue lacrime. Finsero entrambi di non aver intuito il motivo dell’esitazione del giovane, e attesero che il ragazzo sollevasse spontaneamente il capo.

«Abbiamo molto da insegnarti, Kiku» lo spronò Yao, regalandogli uno dei suoi sorrisi che strappavano la luce al sole.

 

***

 

Heracles si era divertito un mondo ad ascoltare i resoconti di Kiku su quel periodo.

Pensava che i nobili fossero rigidi come le statue d’oro dei loro palazzi. Rise di gusto mentre l’usignolo gli raccontava con la voce di Kiku come Young Soo fosse esuberante: a dispetto del suo titolo altisonante, quel ragazzino era una forza della natura irrefrenabile, che rimbalzava da una parte all’altra della stanza snocciolando precetti ed eseguendo numeri di magia. Young Soo si occupava della sua istruzione militare, evocando mostri con cui Kiku combatteva per abituarsi a lottare in ogni situazione e contro ogni avversario. Aveva sconfitto dragoni, golem e costrutti d’argilla; talvolta, Young Soo gli lanciava degli incantesimi durante il combattimento, per abituarlo a prestare attenzione anche a eventuali avversari secondari.

La prima volta che lo aveva fatto, Kiku si era infuriato a morte: non aveva urlato, ma il suo volto era diventato livido in una rabbia silenziosa. Quello era stato l’unico momento in cui anche Young Soo aveva parlato con serietà.

«Se diventerai Samurai, sarai incaricato della sicurezza del sovrano. E i tuoi nemici non osserveranno i turni, per combattere: ti arriveranno tutti addosso in un solo momento. E devo assicurarmi che tu non permetterai a nessuno di loro, per nessun motivo, di far del male al fratellone.»

La furia di Kiku si era spenta in comprensione. Il ruolo che mirava a ricoprire non era un gioco: se non fosse riuscito a proteggere il Figlio del Cielo, Chugoku avrebbe rischiato il tracollo, e il Sistema Asean con lui.

Raddrizzò le spalle e si inchinò con il capo.

«Sono pronto a riprendere l’allenamento» aveva annunciato.

Kiku aveva impiegato qualche settimana per accettare il carattere turbolento di Young Soo. Parlare con lui era come costruire un fuoco di artificio: bastava la minima disattenzione per farlo scoppiare.

Il Portavoce del Sole era più morigerato durante le lezioni di Yao, in cui entrambi venivano istruiti nella scrittura, nella lettura e nei classici del loro popolo. Nemmeno Young Soo aveva avuto mai frequentato una scuola.

Yao era un ottimo insegnante: aveva la capacità di stimolare interesse per la materia spiegata, e la pazienza necessaria a rispondere a tutte le loro domande e correggere tutti i loro errori.

Si prendeva cura di loro, li istruiva e gli voleva bene: Kiku sapeva che quelle caratteristiche erano proprie di un padre. Non aveva esperienza di rapporti familiari, ma lui, il Figlio del Cielo e il Portavoce del Sole sembravano proprio un bizzarro nido domestico: Yao era il padre di entrambi e Young Soo il suo inarrestabile fratello maggiore.

Il Figlio del Cielo si complimentò quando i loro progressi furono visibili: riuscivano a leggere fluidamente, a scrivere sbagliando pochissimi tratti negli ideogrammi e a rispondere a domande di cultura generale.

Heracles lo incoraggiava a dare del suo meglio, dopo avergli riassunto le sue giornate nell’officina.

Kiku ascoltava quelle favole della buonanotte dopo essersi fatto il bagno serale, steso nel letto con le luci spente, in modo che solo la voce di Heracles riempisse la stanza.

Si chiedeva se anche il suo amico provasse quella punta di nostalgia, nel sentire i suoi racconti. Erano stati abituati a condividere la stessa porzione di mondo, per quanto piccola e infame. Era così strano non riuscire ad associare una faccia alle persone di cui Heracles gli raccontava, a non avere una mappa mentale dei luoghi in cui viveva.

Una volta che gli esami fossero finiti, avrebbe chiesto a Yao il permesso di recarsi in visita al paese dove l’amico abitava.

Ruotò lo sguardo verso la finestra, mentre progettava il suo viaggio verso il sud del paese. Si rialzò sulla branda, osservando sconcertato il cielo. Era nero, completamente nero, senza nemmeno uno spillo di luna. Non ci avrebbe fatto caso, se non avesse letto in tanti trattati militari come i comandanti si orientassero di notte grazie alle stelle. Aveva chiesto a Yao cosa fosse una “stella” e il Figlio del Cielo gli aveva risposto che era una goccia di sole incastrata nel cielo notturno.

Ma la volta celeste era scura come un pezzo di carbone. Non si era mai soffermato su quel fatto, all’orfanotrofio: al termine della giornata di lavoro, crollavano tutti in pochi secondi sui loro pagliericci. Non avrebbero avuto nemmeno il tempo di guardare il cielo; e poi, nessuno di loro sapeva dell’esistenza delle “stelle”.

«Da quando il cielo di Chugoku è diventato così nero?» chiese il giorno dopo a lezione.

Young Soo aveva appoggiato il libro che stava leggendo per rivolgere uno sguardo preoccupato a Yao, quasi temesse che potesse cominciare a sanguinare da un momento all’altro: sapeva che per il fratellone sarebbe stato tremendamente doloroso rivivere i ricordi di uno dei suoi avi. Nonostante ciò, il Figlio del Cielo rispose con ineffabile compostezza a quella domanda:

«Circa quattrocento anni fa, la flotta della Compagnia di Britannia cercò di conquistare le nostre terre. Per alcuni anni, Chugoku fu una loro colonia. Riuscimmo a riconquistare il nostro pianeta e la nostra libertà, ma il prezzo fu il sacrificio di innumerevoli vite. Da allora, Chugoku e i pianeti maggiori del Sistema Asean hanno eretto uno schermo magico per dirottare gli attacchi nemici. Ovviamente, è stato creato in modo da non impedire ai raggi solari del Palazzo di Quarzo di filtrare, o il pianeta sarebbe avvizzito in pochi giorni. Tuttavia, la luce delle stelle e della luna fu considerata un orpello inutile.»

Yao appoggiò i suoi occhi scuri sul lussureggiante giardino imperiale, al di là della finestra.

«Abbiamo pagato la nostra libertà con il sangue, e abbiamo ottenuto la sicurezza sacrificando la luna e le stelle.»

Il Figlio del Cielo li fissò di nuovo con la sua espressione più affabile e gli ricordò, indulgente:

«Abbiamo interrotto la lezione. Riprendiamo.»

Young Soo e Kiku annuirono, ma a nessuno dei due era sfuggita l’amarezza con cui il sovrano aveva ricordato quegli avvenimenti. Sacrificare la luce per la sicurezza non era una scelta priva di ripensamenti.

Young Soo scribacchiò qualcosa su un foglio di carta, che gli passò furtivamente poco dopo.

Kiku lo aprì dietro il libro e lesse: “Riportiamo le stelle a Chugoku?”.

Il guerriero asserì, e il Portavoce sorrise. Una nuova alleanza era appena nata.

 

***

 

Young Soo evocò un enorme drago di fiamme, che volò in cielo con un ruggito e deflagrò in un gigantesco fuoco d’artificio.

«Per il nostro Kiku, che oggi ha passato l’esame di cultura generale!» esultò, battendo una sonora pacca sulle spalle d’acciaio del guerriero.

«È presto per congratularsi» minimizzò il soldato. «Non sono ancora diventato Samurai.»

«Ma ogni passo è una vittoria» celebrò Yao, alzando la piccola tazza di sakè. «E, come tale, va festeggiato.»

Young Soo riempì il bicchierino di Kiku, versandogli metà della bottiglia sulle mani per la troppa baldanza.

«Hai recuperato in pochi mesi interi anni di studio» si congratulò il Portavoce del Sole. «Sii fiero di te stesso!»

Il guerriero avrebbe voluto replicare che la strada da percorrere era ancora lunga, ma nessuno dei due sembrava disposto ad ascoltarlo: Young Soo era troppo impegnato a riempirgli il bicchiere, e Yao era intenzionato a festeggiare, sebbene in modo più serafico.

Kiku, il soldato d’acciaio, scoprì di tollerare assai poco l’alcol: il primo sorso gli incendiò la gola, e rischiò quasi di sputarlo addosso al Figlio del Cielo. Strabuzzò gli occhi e gonfiò le guance, prima di ingoiare la malefica boccata.

«Abbiamo trovato il tuo punto debole» sorrise angelico Yao, sorbendo il suo sakè.

Un frastuono terribile sopraggiunse dall’entrata principale, interrompendo il loro festeggiamento. Kiku fece loro cenno di non muoversi, sguainò la katana e corse al massimo della sua velocità verso i cancelli del palazzo. Si bloccò di botto non appena vide il responsabile di tutta quella confusione. Le guardie stavano trattenendo uno spaesato ragazzo di campagna, che reggeva tra le mani un lungo fagotto avvolto da stracci e cordoncini.

I lineamenti squadrati e l’espressione smarrita erano inconfondibili: il suo amico non era cambiato, in quegli anni.

«Heracles?» lo chiamò, calmo a dispetto del marasma tutto intorno.

Le sentinelle si voltarono verso Kiku, e domandarono:

«Lo conoscete?»

Il giovane rinfoderò la spada per dare il buon esempio alle guardie, che a loro volta abbassarono le armi.

«Sì. Non farà del male a nessuno. Lasciatelo entrare» garantì.

Heracles si fece largo con titubanza tra i vigilanti, come se temesse di essere infilzato da un momento all’altro. Sapeva che Kiku era una specie di leggenda nel Palazzo Imperiale, ma non riusciva a scrollarsi di dosso il loro primo, traumatico imprinting con l’autorità: all’orfanotrofio, nessuno avrebbe ascoltato le preghiere di un bambino abbandonato.

Heracles si affrettò a raggiungerlo, e Kiku lo condusse velocemente verso la sua stanza: il suo amico non era abituato al fasto del Palazzo Imperiale, e camminava come se le mura stesse giudicassero le sue azioni. Il suo volto si rilassò non appena furono da soli in camera, nascosti agli occhi inquisitori del Palazzo.

«Non mi avevi detto che saresti venuto a trovarmi» lo salutò Kiku, sedendosi a terra.

Heracles lo imitò, impacciato. Il suo amico si era evoluto enormemente, negli ultimi anni. Non era più un orfano sporco e analfabeta: era diventato un guerriero colto, che concorreva per il titolo di Samurai, e che si muoveva con naturalezza nel lusso della corte imperiale. Al contrario, lui pareva un sasso gettato tra le pietre preziose.

«Volevo farti una sorpresa» spiegò flemmatico. «Era come avevi detto tu: tre giorni a piedi.»

Kiku gli regalò quel suo sorriso particolare, che non curvava le labbra ma illuminava gli occhi.

«Te ne ricordavi?» le sue sopracciglia di pece si incontrarono in un interrogativo, fissando il suo bizzarro bagaglio. «Cos’è quello?»

Heracles spacchettò veloce il suo dono. Gonfiò il petto con orgoglio quando la luce colò senza impedimenti sulla lama perfettamente affilata.

Kiku poggiò gli occhi sulla spada più bella che avesse mai visto. L’amico la tenne in equilibrio sul polso, per fargli ammirare il bilanciamento impeccabile tra elsa e lama.

Il guerriero allungò le mani quasi con reverenza, e il giovane fabbro gli permise di afferrare quella meraviglia di acciaio. Kiku contemplò la lucida perfezione della lama, la cura maniacale negli intarsi dell’elsa, raffigurante un dragone, e il prezioso rubino incastrato tra le fauci del rettile.

Si rialzò in piedi per farla roteare in una serie di figure: la lama quasi cantò, serpeggiando nell’aria come fosse dotata di vita propria.

Heracles ammirò le movenze dell’amico. Era davvero maturato, da quando giocavano ai guerrieri con dei bastoncini ritorti: sembrava quasi che lo spazio stesso si trasformasse per assecondare le sue figure di combattimento.

«Hai fatto un lavoro encomiabile» si congratulò Kiku. Heracles rifiutò la spada che l’amico stava tentando di restituirgli e dichiarò:

«È il mio regalo per te. Hai superato un esame tremendo.»

Kiku lo osservò, confuso.

«L’esito dell’esame è stato rivelato solo oggi. Non potevi saperlo, tre giorni fa» contestò.

«Non conoscevo l’esito dell’esame, ma conosco te. Sapevo che ce l’avresti fatta» dichiarò sicuro l’altro.

Il guerriero portò nuovamente i suoi occhi di ossidiana sulla spada: quel capolavoro di officina era suo. Il suo amico l’aveva creato appositamente per lui.

«Quanto hai impiegato a forgiarla?» domandò, senza alzare gli occhi dalla lama.

Heracles impiegò qualche istante per capire cosa l’amico gli avesse chiesto: la sua istruzione non era progredita più di tanto, nell’officina del fabbro, e faticava a capire i vocaboli forbiti dell’amico. Era decisamente passato molto tempo dall’ultima volta in cui si erano visti.

«Un mese, più o meno» quantificò velocemente.

Trenta giorni in cui il suo amico si era alzato con il progetto della spada in mente, vi aveva lavorato tutto il tempo e si era addormentato con la speranza di perfezionarla il giorno successivo.

La fatica del giovane fabbro sembrò trafiggerlo da quella lama perfetta. Lui non aveva fatto niente di altrettanto grandioso, per ricambiarlo.

«Grazie» fu tutto ciò che la sua bocca filtrò dal groviglio di sentimenti che gli attanagliavano il petto.

Heracles sorrise, lieto che gli anni trascorsi nel Palazzo non avessero cancellato l’imbarazzo timido di Kiku, che spuntava quando doveva ringraziare per qualcosa.

Fece per alzarsi, ma una mano indurita dagli allenamenti lo bloccò.

«Allevi ancora i gatti?» chiese Kiku.

«Sì…»

«Quanti?»

«Quattro.»

«Di che colore sono?»

Lo trattenne con le dita e con le domande, finché il suo amico non si rimise a sedere e cominciarono a parlare come ai vecchi tempi, quando scorrazzavano nel giardino dell’orfanotrofio.

Erano cambiate molte cose, in quegli anni, ma non la loro amicizia. E la assaporarono appieno quel pomeriggio, quando finalmente poterono vedere le reazioni dell’altro alle proprie parole senza limitarsi a immaginarle.

Heracles fu molto felice di scoprire che Kiku arrossiva ancora, quando si facevano supposizioni sulla sua bellezza nuda.

 

***

 

«Kiku non si vede più» si lamentò Young Soo. «Chissà cos’è successo all’entrata…»

«Oh, io sono convinto che sia stato un incontro piacevole» insinuò con eleganza Yao, prima di terminare il suo bicchiere di sakè.

 

***

 

Il Figlio del Cielo non fece commenti diretti sulla sua assenza ai festeggiamenti. Lo colpì a tradimento con una frecciatina casuale qualche giorno dopo, durante una lezione di storia.

«Dovrò far circolare un ritratto del tuo amico tra le guardie. Così non lo attaccheranno, la prossima volta che verrà a trovarti. O, forse, preferirai fargli visita tu stesso.»

Young Soo li aveva fissati alternativamente al di sopra del libro di storia, senza capire a chi si riferissero. Kiku fu sul punto di alzarsi, tanta fu la veemenza con cui esclamò:

«Io non intendevo mancare di rispetto…»

Yao alzò una mano, quieto, invitandolo a sedersi di nuovo.

«Non hai mancato di rispetto a nessuno. Anzi, trovo che sia meraviglioso che la vostra amicizia sia così forte a distanza di anni. Il tempo ha la fastidiosa abitudine di sciupare le cose» un’ombra di tristezza passò in quegli occhi secolari, e un battito di palpebre la spazzò via. «Solo, chiedigli di annunciarsi, la prossima volta: il Palazzo non può essere messo in allarme per una visita confidenziale.»

«Sarà fatto» garantì Kiku.

«Molto bene» approvò Yao. «Riprendiamo la lezione.»

Young Soo non aveva ancora capito quale fosse l’oggetto della discussione, ma tornò sulle pagine fitte di date senza fare storie.

Il Figlio del Cielo non diede voce al suo successivo pensiero: Kiku si infiammava molto, quando si parlava del suo amico. La cosa lo rendeva molto felice: per lui, che era stato benedetto dall’astro del fuoco, era sempre un piacere vedere le fiamme divampare in quelle iridi nere.

Le giornate successive trascorsero in sintonia con il programma stilato: allenamenti e scontri si susseguirono rapidamente, portando Kiku alle selezioni finali per la carica di Samurai.

Yao e Young Soo non potevano esprimere simpatie personali, mentre assistevano agli scontri dalla balconata imperiale, ma gioivano intimamente ogni volta che il loro lottatore preferito atterrava il suo avversario, e l’arbitro lo dichiarava vincitore. I festeggiamenti si svolgevano a sera tra le mura riservate delle loro stanze, dove nessun occhio esterno avrebbe potuto interferire. Young Soo era sempre il più chiassoso, nonché il più goloso di sakè. Kiku spediva l’usignolo a Heracles con il resoconto della battaglia solo dopo che i fumi dell’alcol avevano abbandonato la sua lingua: non voleva che l’amico lo prendesse in giro per i suoi discorsi sbiascicati dalla sbornia.

La notizia giunse mentre il medico di corte stava ricucendo un taglio sulla spalla del giovane combattente. Aveva appena finito di fasciare la ferita suturata, quando Yao entrò nella stanza.

La sua andatura non era cambiata, sempre elegante e ben bilanciata, ma il fuoco del sovrano era stato smorzato da una colata di cenere. Kiku si sentì quasi minacciato da quell’aurea funerea.

Il dottore abbandonò la stanza dopo essersi inchinato al sovrano, che si avvicinò al suo protetto.

Kiku si appoggiò la giacca militare sulle spalle, per non ricevere il suo regnante a torso nudo. Il soldato analizzò la tristezza che incupiva il volto del sovrano, la lieve incurvatura della schiena e la cautela con cui si muoveva, quasi temesse di spezzare l’aria; sommò tutti quei dettagli e trasse la sua conclusione. C’era solo un motivo per cui il regnante avrebbe potuto avere tante riserve nei suoi confronti.

«È successo qualcosa a Heracles?» domandò.

Yao si congratulò interiormente per la perspicacia del guerriero: sarebbe diventato un ottimo Samurai, se fosse riuscito a superare anche le ultime prove.

«È arrivato un messaggero adesso…» Kiku non gli diede modo di terminare il suo commiato; l’arguzia del soldato anticipò ogni sua premura.

«Se hanno inviato addirittura un ambasciatore, deve essere successo qualcosa di molto grave. È morto?»

Il corpo, la voce e il viso di Kiku rimasero immobili, marmorei. I suoi occhi si fecero piatti, come se i sentimenti fossero stati risucchiati all’interno. Kiku stava ritirando ogni possibile emozione per non esporla al mondo esterno; era il suo sistema difensivo da sempre.

Yao lo sapeva, ma si sentì intimamente ferito da quella levata di scudi: non credeva che il suo figlioccio lo ritenesse così poco degno di fiducia.

«Nessuno sa come sia successo» rivelò il Figlio del Cielo, con il massimo tatto possibile. «Lo ha trovato il fabbro, riverso a terra. Non ha ferite o contusioni sul corpo, non sono state trovate tracce di veleno. Kiku…»

«Se parto ora, sarò di ritorno in una settimana» il giovane infilò la giacca e la richiuse velocemente, per poi riappropriarsi della sua spada e avviarsi verso l’uscita. «Tra otto giorni avrò il prossimo scontro. Farò in tempo» e scomparve nel corridoio.

Poche ore dopo, il guerriero abbandonò il Palazzo a dorso di cavallo.

Young Soo entrò in punta di piedi nella stanza di Yao; il Figlio del Sole era adagiato sul suo trono, abbracciato dalla penombra del tramonto.

«Come è andata?» domandò, accucciandosi ai piedi del sovrano, con i gomiti appoggiati sullo scranno. Yao gli accarezzò la testa pettinandogli all’indietro la frangia, e riassunse:

«Non ha pianto, non ha urlato. È corso al villaggio per assistere ai funerali.»

«Kiku è proprio forte, se non ha nemmeno pianto» considerò Young Soo. Le dita del Figlio del Cielo si fermarono sulla sua testa, raggelate.

«No. È l’opposto» Yao ritirò la mano all’interno dell’ampia manica. «È così fragile che non può permettere alle lacrime di scorrere: una diga corrosa può andare in pezzi, se consente a una goccia d’acqua di passare tra le sue crepe.»

Il Portavoce del Sole scattò in piedi, allarmato.

«Non voglio che Kiku vada in pezzi!» esclamò. «Cosa possiamo fare?»

Il Figlio del Cielo raccolse le pieghe di seta del suo abito in grembo. La sua risposta fu un’unica parola.

«Aspettare.»

 

***

 

Kiku tornò allo scadere del settimo giorno, come promesso.

Attraversò l’entrata principale silenzioso come uno spettro. Si imbatté in Young Soo al primo angolo del corridoio.

«Kiku…» balbettò il Portavoce del Sole.

Il guerriero scrutò adamantino il piccolo mago mentre questo boccheggiava e gesticolava, senza riuscire a emettere suono; gli occhi del Portavoce si riempirono di lacrime, che ruppero gli argini poco dopo. Prima che Kiku potesse dire o fare qualunque cosa, Young Soo gli gettò le braccia al collo e gli bagnò la giacca con il suo pianto.

«Non andare in pezzi, …» fu tutto quello che il soldato riuscì a comprendere dal suo farfugliare. Il guerriero gli batté alcune pacche sulle spalle per tranquillizzarlo e, una volta che si fu calmato, si discostò da lui per poi imboccare il corridoio che conduceva alla sua stanza.

«Le dighe crepate si riparano» gli gridò dietro Young Soo, asciugando le ultime lacrime sulle maniche troppo lunghe. «E si riparano meglio insieme!»

Kiku non si fermò al richiamo del Portavoce del Sole. Temeva che, se si fosse voltato, tutte le barriere che aveva eretto per contenere il suo dolore sarebbero crollate. Non aveva previsto che un avversario molto più ostico del ragazzo di Kankoku lo stesse aspettando nella sua stanza.

«Bentornato» lo salutò Yao, finemente seduto sul bordo del suo letto.

Kiku rimase per un attimo congelato sulla soglia della camera. Raggiunse il letto a passi marziali, e si mise a sedere su di esso in una posa rigida, fissando la porta e non il Figlio del Cielo.

I loro respiri scandirono lo scorrere di alcuni minuti, prima che Yao esordisse, con voce vellutata:

«Soffrire non è un disonore, Kiku. Nemmeno le lacrime lo sono. Significano che non sei così egoista da pensare solo a te stesso.»

Il guerriero rimase immobile e muto come una statua di terracotta. Yao proseguì, morbido:

«Il lutto è un cancro: se non lo asporti in modo appropriato, si diffonderà in tutto il corpo. A volte, il bisturi migliore è l’orecchio di un compagno.»

Kiku non rispose nemmeno a quell’appello. Il Figlio del Cielo abbassò il capo, sebbene gli fosse difficile accettare il silenzio dell’altro. Lui avrebbe affidato la vita a Kiku, e lo feriva profondamente pensare che lui non gli avrebbe consegnato nemmeno una confidenza.

Stava per abbandonare la camera quando le parole del guerriero lo trafissero in mezzo alle spalle.

La testa era chinata e le mani strette tra di loro, e le parole si trascinarono faticosamente fuori dalle sue labbra contratte.

«Quando sono arrivato là…» cominciò. «… non ho riconosciuto nulla. Ero abituato a conoscere tutti i posti in cui Heracles stava. All’orfanotrofio, il nostro mondo era piccolo; quella città era immensa e…» Kiku scrollò la testa, ma tenne lo sguardo piantato a terra. «Sono arrivato dove si teneva il funerale. Il fabbro mi ha guardato e mi ha chiesto: “Lo conoscevi?”»

Quelle parole caddero come macigni nel silenzio improvviso. Yao si avvicinò di nuovo a lui, mentre il soldato confessava:

«All’orfanotrofio tutti sapevano che eravamo amici. Nessuno mi avrebbe chiesto se lo conoscevo. In quel momento ho capito quanto fossimo stati lontani in questi anni.»

Il Figlio del Cielo raccolse le pieghe del suo abito con una mano per inginocchiarsi di fronte a lui.

«Rimpiangi di aver scelto la via della spada?» domandò garbato Yao.

Kiku scosse la testa. Le mani del Figlio del Cielo si appoggiarono delicate sui suoi capelli corvini, come avrebbero fatto quelle di un padre.

«Spesso la vita ci mette davanti a dei bivi. Chiedersi troppo insistentemente cosa avremmo ottenuto se avessimo imboccato la via opposta può distruggerci.»

Kiku negò nuovamente con il capo. Gli occorse qualche secondo per riuscire ad articolare:

«Non rimpiango la mia scelta. Ma avrei voluto avere tempo di ripagare la sua gentilezza.»

Si sottrasse alle carezze del Figlio del Cielo, sempre a occhi bassi, ed estrasse da sotto il letto un fagotto di stracci e cordoncini. Yao si stupì enormemente quando una stupenda spada emerse da quell’involto di tessuto grezzo.

«Te l’ha regalata lui?» chiese, apprezzando la mirabile fattura dell’arma.

«L’ha creata lui.»

Yao schiuse le labbra in una moderata sorpresa: l’amicizia profonda che li legava era impressa in ogni centimetro di quel ferro magnifico.

«E tu non gli hai regalato nulla in cambio?»

Il Figlio del Cielo trasse le sue conclusioni dal silenzio di piombo che colò su di lui. Il sovrano poggiò di nuovo le sue mani setose sulla testa del giovane, in ginocchio davanti a lui.

«Sai, Kiku, credo che le cose che pesano di più, tra noi e i morti, siano le occasioni perdute. Tu non rimpiangi la tua scelta. Ma sono rimaste tante cose che avresti voluto dire e fare, e la morte ti ha strappato l’opportunità di metterle in pratica.»

«È una situazione senza rimedio.»

«Sbagliato. Il rimedio esiste. Dentro di noi.»

Yao accarezzò con più dolcezza quei capelli morbidi, e continuò:

«Tu ora stai guardando solo alle cose che non hai potuto fare. Ma pensa a quello che hai fatto: lo hai liberato, Kiku. Se non ci fossi stato tu, sarebbe morto sotto la sferza del suo maestro. Tu lo hai salvato…»

«È morto ugualmente.»

«È il destino dei mortali, è inevitabile. Ma è morto da uomo libero. E quella libertà gliel’hai donata tu. Quindi non pensare di non essere riuscito a ricambiare: questa spada meravigliosa è stata il suo modo di ringraziarti per il regalo inestimabile che gli hai fatto.»

Lo sguardo di Kiku continuò a evitare quello di Yao, e il Figlio del Cielo appoggiò le dita sulle sue, strette a pugno.

«Te l’ho detto. Soffrire non è un disonore.»

Finalmente, le spalle del guerriero si sciolsero nei singhiozzi trattenuti per tutti quei giorni. Le maniche del Figlio del Cielo si stesero sulla sua schiena curva, mentre il sovrano lo stringeva in un abbraccio paterno.

Heracles non avrebbe mai più rincorso i gatti, non avrebbe più forgiato spade, non avrebbe più gettato tutto il Palazzo nello scompiglio per una gita non annunciata. Non riusciva ad accettare che il suo migliore amico se ne fosse andato in un modo tanto assurdo. Doveva fare qualcosa per ricordarlo e strapparlo a quella morte così insensata.

Si staccò dal Figlio del Cielo con gli occhi ancora gonfi di lacrime, afferrò la spada e la fece scintillare nella luce del crepuscolo.

«Diventerò il Samurai» la sua voce era intrisa di pianto, ma tremendamente ferma. «Heracles mi condurrà alla vittoria.»

Yao accettò la sua decisione con condiscendenza, e confermò:

«È un bel nome per una spada» il Figlio del Cielo condusse la sua arma verso il basso, e lo accolse di nuovo tra le sue braccia. «Ma adesso non è tempo di combattere. Adesso devi sfogarti.»

Le mani forti del guerriero si strinsero sulle sue spalle sottili, mentre le sue lacrime gli bagnavano il petto.

Young Soo si trattenne dal bussare alla porta, sentendo i singhiozzi di Kiku all’interno. Non aveva voluto condividere il suo dolore con lui, ma lo aveva fatto con il fratellone.

Si allontanò, scalpicciando festoso nei corridoi.

Il Portavoce era una persona troppo semplice per offendersi per una cosa del genere: era semplicemente felice che quel suo fratello dalla testa dura fosse riuscito a piangere, alla fine.

 

***

 

Heracles svettò vittoriosa nel cielo il giorno successivo.

Kiku si candidò ufficialmente alla sfida finale per la carica di Samurai.

 

 

 

Ed eccoci qui con il capitolo su Kiku<3

Ma la sua storia non è finita: ci sarà ancora qualche capitolo (due, all’incirca) sul passato degli orientali, e poi si tornerà al presente e al piano per riportare Yao sul suo trono u.u E, nei prossimi capitoli, verrà ripreso il discorso sulle stelle, quindi tenetelo a mente 8D

E tra poco… un certo eroe di nostra conoscenza farà la sua apparizione XD Anche se questa volta sarà senza hamburger e bibitoni xD

Grazie per seguire questa storia<3<3<3

Ci rivediamo il diciassette!

Red<3

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Capitolo 18
*** L'Aquila ***


Capitolo Diciotto:  l’Aquila

 

Il volto marmoreo di Kiku rimase immobile mentre la tempesta rabbiosa vomitata dal consigliere si abbatteva su di lui. Le parole sferzanti dell’uomo non riuscirono graffiare il suo viso di porcellana, né a incrinare il suo sguardo di onice.

Il consigliere infilò seccamente le mani nelle maniche, mettendo fine all’inutile conversazione.

«Non conosciamo la malattia che affligge il nostro sovrano, e non sappiamo come risvegliare il Portavoce del Sole dal suo torpore. Questo fa di te l’unico sopravvissuto tra i vertici del potere, e l’ultima immagine carismatica per il popolo. Ma questa situazione non è stata volontaria, Kiku della Settima Prefettura. Se solo uno di loro fosse cosciente, saresti immediatamente bandito dal castello. La tua incompetenza è intollerabile: hai permesso che l’incolumità del nostro regnante fosse compromessa e, con essa, quella di Chugoku. Tuttavia…» l’uomo gli lanciò lo sguardo che avrebbe riservato a un cumulo di sporcizia da stalla. «… sei l’unico in grado di ispirare fiducia nel popolo. È solo per questo che non sei stato rimosso dalla tua carica. Né tu né la... Stella Polare.»

Il consigliere gli voltò le spalle, senza nemmeno aspettare la replica che non era intenzionato ad ascoltare: qualunque cosa potesse dire quel deprecabile Samurai, non era degna del suo tempo e della sua attenzione.

La katana cantò, scivolando fuori dal fodero e solleticando la preziosa stoffa della tunica del consigliere.

«È Honda» la voce del guerriero risuonò fredda e affilata come la spada che sfiorava delicata la schiena dell’uomo. «Il nostro sovrano mi ha regalato un cognome, il giorno in cui sono stato nominato Samurai. Per rispetto al Figlio del Cielo, vi prego di usarlo, quando vi rivolgete a me.»

Il consigliere fece un passo avanti per distanziarsi dalla lama, e raddrizzò la schiena per sovrastare in altezza il soldato, il cui fisico non era cresciuto quanto le sue leggendarie capacità in battaglia; gli anni di malnutrizione all’orfanotrofio avevano lasciato la loro impronta su quelle membra acerbe.

«Il Figlio del Cielo ti aveva anche assegnato una missione, assieme al titolo e al cognome: proteggerlo. E adesso è preda di un morbo sconosciuto, contratto durante un attacco che il suo guerriero personale non è riuscito a gestire. Oserei dire che non hai rispettato i voleri del nostro sovrano fino in fondo.»

Le labbra di Kiku si asserragliarono in una linea stretta, mentre la spada tornava al suo posto. Il soldato abbandonò il consigliere senza sprecare una sola parola, e si diresse verso la stanza del Portavoce del Sole.

L’uomo scrollò la testa con disapprovazione, e fece per imboccare il corridoio quando un metro e ottanta di guerriero ben addestrato gli sbarrò la via.

Le sopracciglia brizzolate del consigliere si incontrarono in un cruccio sdegnoso. Quello straniero era un’altra delle bizzarrie apportare dal Figlio del Cielo. Lui e tutti gli altri nobili lo avrebbero volentieri raschiato via dal palazzo se non fosse stato tanto popolare tra il volgo.

Il popolo lo acclamava come “l’Aquila”. Nessuno aveva mai capito come fosse nato quell’epiteto. Alcuni ritenevano che fosse un modo per elogiare la sua capacità di arrivare sempre al momento giusto e nel posto giusto, come un’aquila che scansiona il mondo dall’alto per planare solo sulle prede più succulente. Altri ritenevano che fosse un modo per sminuire indirettamente quello che, fondamentalmente, rimaneva uno straniero: il paragone al rapace dalla vista formidabile risultava sarcastico, se associato agli occhiali che sellavano il naso del giovane.

Il consigliere lo superò in fretta, ma non abbastanza da non sentire l’affronto dell’uomo, pronunciato con quel suo accento sbiascicante.

«Il sovrano non è ancora morto. Finché il Figlio del Cielo avrà respiro, il Samurai combatterà per salvarlo. E lo farà. Vedrete.»

L’uomo esalò tra i denti un respiro tremendamente simile a “selvaggi” prima di sparire nei corridoi tortuosi del palazzo.

Una nebbia di compatimento appannò gli occhi dell’Aquila, e fu costretto a battere le palpebre per scacciarla. Provava pena per quei nobili abituati a snocciolare sentenze senza avere la minima esperienza del mondo al di fuori delle loro suntuose tuniche. Gli davano l’impressione di essere dei pesci da acquario, convinti che la loro misera boccia di vetro fosse l’oceano.

Si appoggiò allo stipite cremisi, contemplando in silenzio la scena fraterna all’interno della stanza del ragazzo di Kankoku. Il Portavoce del Sole giaceva dinoccolato sul suo trono, come una marionetta senza fili dimenticata su uno scranno troppo grande, gli occhi spaventosamente fissi e l’espressione tragicamente assente. Kiku era inginocchiato davanti a lui, le palpebre chiuse e le mani insensibili del fratello poggiate alle labbra. Le uniche cose realmente esistenti per il Samurai, in quel momento, erano le nocche ghiacciate premute sulla sua bocca e il bisogno viscerale di vedere di nuovo il sorriso spensierato del giovane. I ricordi dei bei tempi passati insieme diventavano angoscianti come fantasmi, quando si rimaneva soli. Kiku aveva paura di quegli spettri: lo avevano tormentato quando Heracles era morto, e non voleva cadere di nuovo tra le loro grinfie. Aveva tremendamente bisogno che suo fratello gli dicesse che tutto sarebbe andato bene come se fosse davvero possibile che tutto andasse bene.

«Young Soo, se solo tu potessi consigliarmi…»

L’affetto che scorreva in quelle parole non riscosse il Portavoce dalla sua immobilità; il calore dimostrato dal Samurai scivolò a fatica sulle sue membra raggelate, come una goccia d’acqua su una lastra di ghiaccio.

Kiku sussultò a malapena quando l’Aquila gli appoggiò una mano sul capo.

«La Stella Polare attende ordini» comunicò.

Il Samurai si rialzò velocemente, ricompose la sua posa militare e si preparò a una nuova giornata di lavoro. Il giovane straniero lo afferrò per una spalla, trattenendolo vicino al proprio petto.

«Posso sostituirti io, per un giorno» si offrì.

Kiku mosse pochi passi per sottrarsi a quella stretta accorata e recitò, veloce e inflessibile come una scarica di frecce:

«Hai sentito il consigliere: sono l’unica figura autorevole rimasta al momento. Chugoku non può fermarsi. E lo stesso vale per me.»

Il Samurai guadagnò velocemente l’uscita, lasciando dietro di sé solo l’eco dei suoi passi dal ritmo militare.

L’Aquila lo seguì, il cuore pesante come il piombo.

Il consigliere non avrebbe mai estrapolato la sofferenza seminata nelle profondità di quegli occhi di pietra. Nemmeno lui ci sarebbe riuscito, se il loro passato non fosse stato così simile.

Solo chi aveva udito il proprio mondo crollare in pezzi poteva riconoscere lo stridio di un’anima in frantumi.

 

***

 

Il ricordo della sua prima missione era vivido nella sua mente come se il suo cuore lo irrorasse di nuova vita a ogni battito

Ricordava le divise tutte uguali, le facce tutte uguali, le espressioni tutte uguali. Tutto era grigio e senza vita, come se i soldati fossero morti nel momento stesso in cui avevano indossato la propria uniforme. Solo uno era diverso da tutti gli altri: un soldato che si sentiva ancora vivo, e aveva voglia di dimostrarlo sorridendo contro il grigiore del mondo.

Lo stomaco di Alfred si era contratto in modo bizzarro: guardare quell’uomo era come vedere il proprio riflesso allo specchio - un riflesso rivestito di carne, con un nome diverso dal suo e i capelli lievemente più lunghi-, entrambi intrepidi soldati di Britannia che non avevano ancora voglia di dichiararsi concime per le margherite.

Si era immediatamente avvicinato a lui, e avevano fatto amicizia in poco tempo. Si chiamava Matt, e si era arruolato qualche anno prima.

Il ricordo più intenso che aveva di quell’uomo era il discorso che avevano fatto insieme sull’eroismo.

«Come mai sei entrato nell’esercito?» gli aveva chiesto una volta Alfred.

La striscia di carne conficcata sul suo spiedino rudimentale si era quasi carbonizzata mentre Matt pensava a una risposta convincente.

«So sparare, so combattere. E ci sono tanti demoni, là fuori, pronti a divorare chiunque non sappia fare altrettanto. Penso che sia giusto che io li sconfigga per proteggere chi non è in grado di difendersi da solo.»

«Quindi ti sei arruolato per salvare le persone.»

La faccia di Alfred aveva scintillato più del fuoco lì vicino, mentre elogiava il collega più anziano. Matt aveva sgonfiato le spalle in un sospiro greve, e aveva ammesso, con una certa vergogna:

«No. Mi sono arruolato per uccidere i demoni.»

«Ma tu hai detto…»

«Non riusciamo a salvare tutti, Alfred. Anzi, raramente riusciamo davvero a salvare la gente. La maggior parte delle volte arriviamo troppo tardi, o i nostri sforzi non sono sufficienti.»

«Ma, allora, qual è lo scopo di un soldato?»

Matt aveva osservato con tenerezza quel ragazzino che fissava il suo grezzo spiedino con un cruccio quasi comico. Invidiava la prima fase dell’adolescenza, in cui si aveva ancora la sensazione di poter afferrare i sogni. Ben presto anche quel piccoletto dal labbro imbronciato avrebbe scoperto che le utopie non crescevano sull’albero della vita, e, se lo facevano, erano su rami troppo lati per essere raggiunti dagli esseri umani.

«I soldati uccidono i demoni. E cercano di prevenire altri massacri» aveva cercato di calibrare Matt.

Alfred non era parso per nulla soddisfatto da quella risposta approssimativa. L’altro aveva spostato la carne – che ormai aveva assunto il colore e la consistenza della suola di uno scarpone – dal fuoco, e aveva tentennato, sperando di soddisfare la sete di speranza del giovane:

«Gli eroi. Gli eroi salvano la gente.»

Gli occhi blu di Alfred tornarono a gareggiare con il fuoco per luminosità. Il ragazzo si era spostato verso di lui, curioso come un animale che sente l’odore di una traccia inesplorata.

«E come si diventa eroi?»

«Oh, devi fare molte cose difficili» Matt aveva agitato vagamente lo spiedino nell’aria, mentre elencava: «Devi salvare tutti, nessuna esclusione. Devi perdonare chiunque ti faccia un torto, e difendere i deboli anche quando la situazione appare disperata. E, soprattutto, devi mantenere un cuore puro e rimanergli sempre fedele.»

«Questo è facile!» aveva declamato Alfred, gonfiando il petto con orgoglio.

Matt aveva scosso mestamente la testa.

«No. Quella è la parte più difficile. Il mondo conosce mille modi per contaminarti il cuore.»

Ipocrisia, invidia, opportunismo. Matt aveva visto i lati peggiori degli esseri umani durante tutti quegli anni. Non riusciva più a credere che le persone di cuore esistessero ancora.

La risposta di Alfred fu di quanto più lontano dall’umano e vicino all’eroico avesse mai udito.

«Il mio cuore è solo mio. E solo io posso decidere se voglio che sia inquinato o no» Alfred aveva strappato un pezzo di carne stopposa e l’aveva masticata con forza, come per rimarcare le sue parole. «Vedrai» biascicò a bocca piena.

A Matt sarebbe piaciuto vederlo scintillare nelle sfere degli eroi, ma non poté farlo. I demoni attaccarono a sorpresa il villaggio in cui erano alloggiati, e le strade si tinsero di sangue e di morte.

Urla, scoppi, ruggiti, mescolati in un vortice nauseante. E, in quella confusione polverosa, la cruda immagine del corpo di Matt, e della porta che gli inchiodava una gamba al suolo. I suoi compagni correvano veloci di fianco a lui, senza nemmeno guardarlo. Se si fossero fermati ad aiutarlo, i demoni li avrebbero divorati, e ogni soldato sapeva che dieci vite valevano più di una. Ma per un eroe ogni vita valeva più della propria: Alfred si fermò, e cercò di liberare il suo amico.

Le sue orecchie non recepirono le urla accorate di Matt, le sue mani non si accorsero di come le schegge della porta divelta le stessero martoriando. Le uniche cose che ricordava di quell’inferno di caos e panico erano il braccio che lo aveva afferrato per lo stomaco, trascinandolo via, e le labbra di Matt che si muovevano a formare un ringraziamento.

Matt non versò nemmeno una lacrima, nel vedersi abbandonato al proprio destino. Alfred lo fece per lui; pianse finché i suoi occhi non diventarono rossi come i suoi palmi feriti e sanguinanti.

«Era il suo primo giorno» sentì un soldato vicino a lui che lo giustificava con un superiore. «Prima o poi si abituerà a queste cose.»

Alfred inghiottì un boccone di muco e amarezza, disgustato. Le labbra tremarono in un respiro malfermo, frustato dalla rabbia che gli incendiò le parole.

«No. Io non mi abituerò.»

L’intera divisione si voltò, sconvolta da quell’ammutinamento solitario. Alfred inalberò il mento, tremante di un’emozione sconosciuta e potente: la sentiva propagarsi dal midollo alle ossa, avvertiva il cuore che la pompava frenetico nelle vene, facendogli ribollire il sangue. La sua anima entrò in risonanza con quella vibrazione terribile, che fece fremere le sue parole con una furia maestosa:

«Nessuno può ammaestrarmi il cuore. Io non voglio diventare un soldato che uccide i demoni. Voglio diventare un eroe che salva la gente.»

Per quanto lodevole, per le orecchie di ferro dell’esercito quella dichiarazione equivaleva a un atto di tradimento.

Il giovane Alfred fu quindi allontanato con disonore e abbandonato su Chugoku, il primo pianeta sulla loro rotta, e le navi Britanniche ripartirono senza di lui.

Sistemò gli occhiali, rimboccò le maniche e inghiottì le lacrime. Non si fece intimidire dal terrore che vide serpeggiare negli occhi della gente al suo passaggio: i suoi lineamenti, su quella terra, erano stampati sui libri di storia di fianco alla scritta “oppressori”.

Erano trascorsi secoli dalla guerra sino-britannica, ma gli orrori di quelle battaglie erano passati dalla bocca dei superstiti alle orecchie dei successori, che le avevano poi impresse su carta e cantate nelle ballate belliche.

Alfred non abbassò mai le spalle nonostante i continui bisbigli che strisciavano sulla sua schiena, e non piegò la testa sotto la pressione del pregiudizio. Era un eroe, e glielo avrebbe dimostrato.

Cominciò salvando la piccola Lin. La madre lo guardò carica di sospetto, come se lo avesse visto gettarla dentro il pozzo e non tirarla fuori da esso. La bambina provò di avere il cuore più grande di tutti gli adulti presenti: si sporse verso il giovane dalle braccia della madre e appoggiò un bacino su quelle guance ancora sporche di acqua limacciosa.

Poi aveva salvato un adolescente da una carrozza in corsa, aveva messo in fuga un pericoloso lupo, aveva contribuito alla costruzione di un sistema per l’irrigazione dei campi, aveva consegnato innumerevoli criminali alla giustizia.

Aveva scalzato il mosaico di preconcetti che gli avevano fissato addosso un tassello per volta, finché la gente non era finalmente riuscita a vedere Albert, e non lo “straniero di Britannia”.

Tutto il suo corpo era diventato una papilla gustativa quando per la prima volta una signora gli aveva portato degli onigiri in segno di ringraziamento: quei chicchi di riso gli erano sembrati la cosa più gustosa che avesse mai assaggiato. Era la spezia della vittoria a renderli così squisiti.

Quegli anni erano stati un susseguirsi di piccoli e grandi successi, e poteva vantarsi giustamente di aver rispettato i canoni dell’eroe: aveva mantenuto un cuore puro ed era rimasto fedele ai suoi principi, perseguitando i malfattori e salvando gli innocenti.

L’appellativo “l’Aquila” era sorto spontaneamente: non si sapeva chi fosse stato il primo a pronunciarlo ma tutti lo conoscevano, come fosse se stato generato dalle strade della città. L’ex-soldato di Britannia si era inorgoglito per quell’epiteto: essere paragonato a un rapace così nobile era un grande onore, e si sarebbe impegnato affinché l’Aquila volasse sempre più in alto.

Il pallido sole di marzo osservò Alfred mentre si imbatteva nel suo destino. Alcuni pericolosi criminali erano stati condotti alla loro città per essere giustiziati tramite impiccagione. Erano i fautori della strage nella Piazza della Pace, in cui avevano perso la vita numerosi innocenti, per la maggior parte studenti. I familiari delle vittime erano in prima fila, vestiti di bianco e con una furia cieca negli occhi affogati di lacrime: bramavano di vedere quegli uomini penzolare dai cappi, e allo stesso tempo sapevano che la loro morte non gli avrebbe restituito i loro figli.

Perfino il Figlio del Cielo era presente: per quella tragedia era stato dichiarato il lutto nazionale, e i drappeggi del Palazzo erano stati incupiti in un nero funereo dal Portavoce del Sole in segno di cordoglio.

I criminali sfilarono lungo la stretta passatoia che li avrebbe portati alla loro ultima meta. Il tempo sgroppò come un cavallo imbizzarrito quando quella stasi si ruppe: i polsi nerboruti dei criminali furono improvvisamente liberi dalle catene, e spalarono brutalmente la folla per guadagnare la libertà.

L’Aquila non fece in tempo a spiccare il volo che un guizzo bianco pose fine a quel putiferio. La folla ebbe solo l’impressione di una piuma di luce che fluttuava con una grazia spietata tra la folla, aprendo eruzioni di sangue con un sibilo argentato. Quell’apparizione durò solo pochi secondi. Quando finalmente il tempo riprese a scorrere normalmente, la piazza si rese conto che l’esecuzione non sarebbe più stata necessaria: i criminali giacevano al suolo, esangui, ognuno colpito una sola volta in un unico punto vitale. Heracles gocciolava sangue per terra, e qualche spruzzo cremisi aveva insozzato la divisa immacolata del Samurai e il suo viso latteo.

Alfred aveva sentito i polsi tremare, a quella vista. Quell’uomo, più piccolo di lui di tutta la testa, era la personificazione della dignità guerresca: aveva il volto fermo, ma non assente, gli occhi solidi eppure in movimento, l’animo saldo e vibrante al contempo. Era la bellezza contraddittoria e terribile della battaglia che riviveva in quei lineamenti d’acciaio.

«Mi dispiace per non aver permesso al boia di fare il suo dovere» si scusò cortesemente il giovane, scrollando la katana prima di pulirla velocemente su un panno e tornare al fianco del sovrano.

I più malevoli avrebbero detto che aveva pedinato il Samurai tutto il giorno finché non lo aveva finalmente trovato da solo; Alfred preferiva dire che aveva fatto un appostamento mirato per non perderlo d’occhio.

Seguire assiduamente l’incaricato ufficiale alla sicurezza del regnante e pensare di non essere scoperti era come pretendere di guadare un fiume e uscirne asciutti. Alfred avvertì le spade che il guerriero aveva per occhi trafiggerlo non appena mise piede nella sala da the. Il Samurai era seduto a un tavolo, schiena dritta, gomiti stretti e la testa appena inclinata in un’esternazione di aspettativa. Alfred impiegò qualche secondo per capire di essere l’oggetto di quell’attesa.

«Ho notato il suo inseguimento» il soldato parlò con calma adamantina, mentre gli indicava la sedia di fronte a sé. «Ma non ho notato intenti bellicosi. Deduco quindi che non mi stai seguendo per uccidermi o per ferire il sovrano. Tuttavia, i miei sensi deduttivi non sono abbastanza affinati da permettermi di capire cosa tu voglia da me, nello specifico.»

Alfred si sentì improvvisamente fuori posto di fronte a quella scultura umana. Il Samurai sedeva con una compostezza impeccabile, come se fosse nato in quella posizione austera, e lo fissava con la calma di chi sa di poter sistemare qualunque inconveniente con la propria superiorità fisica e intellettuale. Al contrario, Alfred non riusciva a stare fermo su quella sedia troppo rigida o ad avere la stessa aura affascinante e intimidatoria. In fondo, erano un mito forgiato dalle sfere regali e un eroe sorto dai fanghi popolari.

Nonostante l’abissale divario tra loro, Alfred racimolò la sfrontatezza necessaria per chiedere al Samurai:

«Mi alleni, per favore.»

Un sopracciglio si arcuò, indeciso se deriderlo con discrezione o valutare seriamente quella richiesta. Si livellò di nuovo in un’espressione neutra quando le labbra si aprirono per formulare:

«Per quale motivo?»

«Vorrei combattere anche io come lei.»

«Cioè in che modo?»

«Con la stessa velocità, con la stessa precisione. Colpendo solo i colpevoli e salvando gli innocenti…»

La parte finale della frase sfumò nel delicato scroscio del the versato nelle due tazze. Il Samurai appoggiò il corpo panciuto della teiera sul tavolo, si servì di un lungo sorso e rispose.

«Lo stai già facendo, mi risulta. Ti chiamano l’Aquila, non è così?»

«Voglio fare di più!» Alfred quasi si morse la lingua; non aveva alzato la voce più di tanto ma, se paragonato al tono pacato dell’altro, aveva praticamente urlato. Rimase qualche secondo in silenzio mentre le parole udite per la prima volta tanti anni prima si cristallizzavano sulla sua lingua.

«Voglio diventare un eroe che salva le persone.»

«Perché?»

Non si aspettava una domanda così diretta, né così immediata.

Alfred fissò il liquido scuro nella sua tazza. Il passato si ripresentò come un’allucinazione sulla superficie nera del the: la porta crollata sulle gambe di Matt, e la terribile rassegnazione con cui lo aveva guardato mentre lo portavano via, sapendo che non si sarebbero visti mai più…

«Perché nessuno dovrebbe morire senza poter dire addio.»

Quell’ultima frase sembrò destare l’interesse del Samurai; una minuscola scintilla crepitò per un istante all’interno delle sue iridi d’ebano. Il giovane sorbì di nuovo il suo the, appoggiò la tazza e lo fissò con un sottile velo di curiosità sul viso.

«Questo è un buon motivo.»

Si alzò dal tavolo con eleganza marziale, e Alfred si sentì di nuovo inadeguato per il modo grossolano in cui si separò dalla sedia. Per essere un eroe non importava essere aggraziati, per cui non aveva mai dato troppa importanza ai suoi gomiti che atterravano puntualmente sul tavolo durante il pranzo o al modo in cui colava sulla sedia quasi fosse senza ossa. Cominciava a pentirsi di quella sua disattenzione all’etichetta: accostato al Samurai, pareva un sacco di tela che tentava di assomigliare a un drappo di seta.

Il giovane lo aspettò finché non ruzzolò fuori dal locale.

«Cosa vedi?» fu l’inaspettata domanda che gli rivolse.

Alfred equilibrò gli occhiali sul naso, e osservò lo spazio intorno alla ricerca di una risposta soddisfacente. I negozi effondevano un piccante odore di cibo e spezie, l’acciottolato schioccava sotto le scarpe della gente, il vociare delle famiglie scrosciava dalle finestre semiaperte delle case. Ma non trovò la risposta nel profumo di cucina, e nemmeno nel marciare sulle strade; seguì lo sguardo del soldato, appuntato su un cielo nero come le sue iridi.

«Non ci sono stelle» notò.

«Su Britannia ci sono?» Kiku non distolse lo sguardo dalla volta celeste inanimata, mentre lo interrogava.

«Sì» confermò Alfred, disturbato da quella cappa di carbone. Era la prima volta che fissava il cielo di Chugoku così intensamente, e non vedere nemmeno una capocchia di luce era quasi soffocante. «La più importante di tutte è la Stella Polare, per orientarsi durante le navigazioni.»

Alfred scostò gli occhi da quel cielo perturbante, e quasi trasalì nel vedere due iridi ancora più nere che lo scrutavano, pronte a giudicare le sue successive parole.

«Sei disposto a lottare per riportare le stelle nel cielo di Chugoku?»

L’Aquila non comprese quella domanda, ma annuì comunque. Voleva diventare forte e temibile come quel piccolo combattente. Avrebbe sparso una manciata di stelle in cielo, se fosse servito a raggiungere il suo obiettivo.

Kiku inclinò il capo, accondiscendente.

«Allora seguimi, Aquila.»

 

***

 

Con suo enorme disappunto, Alfred scoprì di non essere il solo privilegiato scelto dal Samurai. Il giovane aveva allestito una specie di accampamento fuori dalle mura del Palazzo, dove tutti coloro disposti a lottare per le stelle di Chugoku erano stati riuniti.

In onore della conversazione avuta la sera prima, quell’esercito anonimo di volontari assunse il titolo di “Stella Polare”, poiché sarebbe divenuto l’astro guida per il sogno di Chugoku.

Il Samurai aveva imposto una ferrea disciplina ai suoi uomini: la loro giornata iniziava col sorgere del sole e finiva dopo il tramonto. I loro allenamenti non riguardavano solo il fisico: Kiku aveva stilato un rigido codice di comportamento, con pene estremamente severe in caso di trasgressione.

«Un buon guerriero deve avere muscoli di ferro e spirito d’acciaio, altrimenti è solo un animale forzuto» aveva spiegato, quando Alfred gli aveva chiesto il motivo di quella disciplina inflessibile.

Erano inoltre incaricati della pulizia delle proprie armi e divise, che venivano meticolosamente ispezionate ogni giorno.

Alfred sapeva che esistevano camerate e cucine comuni per aumentare lo spirito fraterno tra le reclute, ma non ne faceva parte: era il solo cui era stato concesso l’onore di risiedere a Palazzo.

«Il mio spirito di squadra non ne risentirà?» aveva commentato scanzonato.

«Non farai parte di una squadra. Ne comanderai una» Kiku lo aveva inchiodato con quel suo sguardo quieto e temibile, articolando con calma: «Se te ne dimostrerai degno.»

«Perché io?» la sorpresa fece ammuffire la mente di Alfred in un pantano colloso, e quello fu l’unico pensiero coerente che riuscì a pescare.

«Perché nessuno dovrebbe morire senza poter dire addio.»

Fu tutto ciò che il Samurai gli consegnò prima di sparire, lasciandolo basito e confuso nell’enorme corridoio del Palazzo.

Alfred tolse gli occhiali, li pulì sulla maglia, li posizionò di nuovo sul naso e sospirò:

«Beh, Aquila, non ti resta che volare alto. Le stelle non si raggiungono stando a terra.»

 

***

 

No, le stelle non erano facili da raggiungere. Il cielo era ancora più nero degli incubi di un assassino.

Alfred tolse gli occhiali e li appoggiò sul comodino.

Era passato qualche anno dalla prima volta che aveva messo piede nel Palazzo.

Kiku gli aveva fatto sputare sangue e anima prima di assegnargli finalmente il ruolo di Caposquadra. L’Aquila aveva condotto i suoi sottoposti in mille imprese eroiche, accrescendo la fama della Stella Polare in tutto il Paese. Il Figlio del Cielo aveva riconosciuto la loro organizzazione come esercito di sostegno paramilitare; Chugoku aveva festeggiato un’intera giornata per quella dichiarazione.

Era abbastanza soddisfatto, in fondo: quello che era partito come un piccolo gruppo di volontari era diventato uno stendardo di speranza per la capitale e per tutte le città del pianeta. Tuttavia, non erano riusciti ad avanzare di un solo passo nella loro missione principale: il cielo di Chugoku era ancora un pezzo di carbone.

Sospirò e si lasciò cadere sul futon, badando di non schiacciare la persona stesa su un lato.

Alfred si girò veloce sul fianco per accarezzare quelle spalle, coperte appena dal kimono che il giovane indossava per la notte. La seta scorse sul braccio niveo, lambito dalle labbra dell’Aquila.

Kiku non emise suono; si voltò di lato e gli porse la bocca, che Alfred coprì con la sua.

Da qualche mese, il suo rapporto con il Samurai era cambiato.

Aveva capito perché il giovane lo avesse preferito agli altri nel momento in cui aveva scoperto il nome della sua spada: Heracles. Sapeva che molti guerrieri davano un titolo alla propria arma preferita, ma mai dei nomi propri. Doveva essere collegato a quel qualcuno che aveva estinto il fuoco delle iridi scure del Samurai, spegnendole in una cenere mesta.

Alfred aveva fatto il primo passo parlandogli di Matt, il suo mentore, l’uomo che aveva abbandonato in pasto ai demoni e che aveva rafforzato il suo desiderio di diventare un eroe e non un soldato. Kiku aveva telegrafato il nome del suo migliore amico, accennando al fatto che erano stati all’orfanotrofio insieme. Il Samurai centellinava le informazioni, e ad Alfred erano occorse settimane per costruire un quadro approssimativo del rapporto tra il guerriero e l’orfano straniero.

Si sollevò sui palmi per fissare il giovane steso sotto di lui. I bordi del kimono erano allentati sul petto, e gettavano penombre lascive sulle linee dei muscoli non del tutto denudati. Alfred risalì con gli occhi il profilo eburneo del guerriero finché non approdò in quelle iridi che lo facevano sempre sentire inadeguato.

Non gli era occorso molto tempo per capire di essersi innamorato del Samurai, e aveva accettato la propria omosessualità con un enorme sorriso, come era solito fare per la maggior parte delle sorprese che la vita gli proponeva. E si era dichiarato in un modo forse troppo spregiudicato, per i canoni forbiti del Palazzo. Nonostante tutto, Kiku aveva accettato.

A volte, però, Alfred faticava a capire perché il Samurai gli concedesse il corpo, se non era disposto a fare altrettanto con il cuore. Le emozioni di Kiku erano sempre fossilizzate negli occhi o barricate nella gola, e non trapelavano nemmeno nei momenti di intimità con il suo amante. Questa sua tendenza si era acuita quando era rimasto orfano di nuovo, senza padre e senza fratello.

Alfred strinse i pugni sul materasso sottile. Che senso aveva essere amanti, se aveva accesso solo al suo fisico e non alla sua anima? Che razza di eroe non era in grado di salvare nemmeno la persona di cui era innamorato?

Si domandava con quali sentimenti Kiku giacesse con lui. L’Aquila si sentiva ogni volta travolto dalle emozioni, con gli organi scombinati tra di loro: il cuore nelle orecchie, lo stomaco in gola, i polmoni nel naso. Si univa a lui per amore, e non aveva nemmeno bisogno di dimostrarlo: il suo battito forsennato parlava per lui. Al contrario, Kiku sembrava più sollevato che partecipe, come una persona che spalma un balsamo su un’ustione.

Alfred morse un sospiro sulle labbra. Non voleva essere un rimedio conveniente; voleva essere l’unica persona indispensabile per il Samurai. Voleva essere… Heracles.

Forzò un sorriso mentre accarezzava il volto liscio del suo compagno, cercando di esiliare quei pensieri tortuosi.

«Kiku» lo chiamò, ostentando allegria. «Dimmi qualcosa.»

Il giovane volse il viso all’interno del suo palmo, solleticandogli il polso con le labbra morbide.

«Non fermarti» sussurrò.

Una risatina incespicò sulla bocca dell’Aquila. Non era quello che sperava. Avrebbe preferito sentirsi dire “non lasciarmi solo” oppure “ho bisogno di te”. Ma Kiku non chiedeva mai aiuto, nemmeno agli eroi che esistevano appositamente per salvare gli altri.

Sciolse la cintura del kimono del giovane, e le mani scivolarono automaticamente sul corpo nudo che tanto desideravano. Sapeva che il Samurai non provava i suoi stessi sentimenti, e sapeva che avrebbe dovuto rifiutare e aspettare che le loro emozioni fossero reciproche. Ma sapeva altrettanto bene che non avrebbe sopportato di vedere Kiku scivolare in un baratro di solitudine da solo, asserragliato nel silenzio.

Non poteva ancora essere un appiglio per prevenire la sua caduta, ma poteva essere almeno la medicina che avrebbe lenito la ferita.

Cercò di fare del suo meglio, mentre si impossessava di quel corpo tanto amato, che si inarcava contro di lui.

L’Aquila avrebbe dovuto volare ancora più in alto, per salvare la sua unica stella dal cielo nero in cui si era avvolta…

 

 

 

 

 

 

 

 

Troppo veloce? Volete saperne di più sull’Aquila e sulla Stella Polare, sui dovecomequandoperché? I prossimi capitoli spiegheranno ogni cosa<3 E ciò che non spiegheranno loro sarà spiegato negli spin-off.

Sì, ormai è ufficiale: quando Caleidoscopio avrà termine, partiranno gli spin-off XD Saranno una serie di one-shot o brevi long (tre o quattro capitoli massimo) sull’infanzia dei fratelli Vargas, sugli Hellsing, i Marauder, i Carriedo e così via. E approfitto per lanciarvi un appello riguardo gli spin-off: se c’è qualcosa su cui desiderate ulteriori informazioni, o un pezzo che vi piacerebbe leggere, fate richiesta<3 Segnerò tutto su un foglio di Word e vi accontenterò un capitolo per volta *yep*.

E ora, qualche piccola precisazione storica<3 Gli avvenimenti della Piazza della Pace Celeste sono un riferimento al massacro di piazza Tienanmen (1989, conosciuta anche come “l’incidente del quattro giugno”), in cui studenti e civili protestarono contro la classe politica cinese; questa rivolta pacifica venne soppressa nel sangue. Il governo cinese proibì qualunque fuga di notizie su questo incidente, per cui i dettagli sulle vittime o sulle modalità dell’attacco militare sono tutt’oggi piuttosto confuse.

In Caleidoscopio ho rimaneggiato la storia in modo che il massacro fosse opera di un gruppo di terroristi; tuttavia, per rispetto alle vittime, mi è sembrato giusto mantenere simile il nome della piazza (in originale: “il Cancello della Pace Celeste”), e ricordare che la maggior parte delle vittime furono studenti.

Altra nota: il codice ferreo imposto da Kiku è ispirato al kyokuchuu hatto di Hijikata Toshizo, ossia il rigido codice di comportamento della Shinsengumi, che prevedeva il seppuku (suicidio rituale mediante sventramento e decapitazione) come punizione per chi trasgrediva le regole. Il nostro Kiku non è così estremista, ma la fonte storica è questa<3

Ultima nota, la più leggera di tutte: gli onigiri sono le palline di riso<3

E dopo questo papiro, vi saluto e vi do appuntamento tra due settimane, senza ritardi questa volta<3

E ricordate: se avete richieste per gli spin-off, non siate timidi<3

A presto!

Red P.S. Quasi dimenticavo... nel prossimo capitolo finalmente si scoprirà COSA è successo la sera in cui Yao è stato detronizzato XD

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Capitolo 19
*** Rancori Passati ***


Capitolo Diciannove: Rancori Passati

 

La riunione fu veloce e concisa, una volta che Yao e Arthur ebbero riassunto le loro scoperte all’equipaggio della Reina.

Il popolo era convinto che il Figlio del Cielo fosse in coma, le condizioni del Portavoce del Sole erano misteriose e il Samurai sembrava all’oscuro della catastrofe di cui era stato artefice. Il non ti scordar di me aveva indicato il Palazzo, per cui le istruzioni erano semplici: il giorno dopo si sarebbero introdotti nel castello, avrebbero trovato il Marauder e avrebbero combattuto contro il demone. Si sarebbero intrufolati solo Yao, che conosceva il posto, Arthur, che custodiva il fiore di cristallo, e Gilbert, l’unico in grado di fronteggiare degnamente i demoni. Gli altri avrebbero atteso in alcuni punti strategici per poi fare irruzione nel Palazzo al momento della battaglia.

Yao aprì le mani a guisa di calice: sottili scie di luce partirono dalle sue dita e si rincorsero nell’aria, creando un modello impalpabile del Palazzo Imperiale. Alcuni globi di fuoco si accesero lungo il perimetro, indicando le esatte posizioni in cui si sarebbero dovuti trovare il giorno dopo.

«Dobbiamo agire il più velocemente possibile» concluse Yao, dissolvendo la costruzione evanescente con un soffio gentile: le lingue di luce si dispersero in una polvere dorata che svanì prima di toccare il suolo. «Il demone non deve accorgersi di noi.»

Gilbert fece trasalire tutti i presenti quando calò bruscamente gli stivali sul tavolo. Si dondolò torvo sulla pesante sedia di legno, gli occhi rossi incupiti come se tutto il suo sangue si fosse riversato nelle sue iridi guerresche.

«“Un demone” è una descrizione un po’ vaga» sbottò alla fine, incrociando le caviglie. «Non sai quale sia il suo elemento costitutivo? Ti ha ridotto in fin di vita, da quel poco che ci hai detto. Non hai notato niente, mentre ti massacrava?»

Il respiro si ritirò nei polmoni dei presenti; nessuno osò fiatare, nessuno osò battere le palpebre, nessuno osò muoversi. Per un attimo, Gilbert vide di nuovo l’immobilità gelida di Caina in quelle facce pietrificate dall’orrore.

Si trattenne dallo sputare a terra solo perché quella era la nave di Antonio. Il Figlio del Cielo non poteva continuare a temporeggiare su quella questione: avevano atteso anche troppo per sapere cosa fosse realmente successo la notte in cui era stato spodestato. Si rendeva conto che non fosse piacevole rivivere il ricordo di una sconfitta e di una perdita, ma non gli interessava: aveva il dovere di farli uscire sani e salvi dalle grinfie del demone, in quanto unico Hellsing presente, e, per farlo, aveva bisogno di conoscere il suo nemico.

Yao lo fissò con i suoi occhi d’inchiostro, batté un’unica volta le palpebre e si sedette al tavolo in un frusciare di seta.

«Non è un demone nato da un elemento» la voce regale srotolò quel racconto di sangue come se stesse svolgendo un velo di seta. «È un demone nato da un’emozione.»

Le ciglia del Figlio del Cielo tremarono per un istante, ma la sua voce rimase ferma.

«La guerra sino-britannica. Quella che ci ha privato delle stelle. Moltissimi uomini sono morti, da entrambe le parti. Moltissime mogli, figli, fratelli, amici li hanno pianti. Quel demone è nato dalle loro lacrime e dal loro sangue.»

«Non è corretto» Gilbert irruppe di nuovo nella conversazione con la brutalità di una frana. «Quei demoni sono spiriti inferiori, incapaci di ottenere un corpo materiale. Si cibano delle emozioni più forti e più basse delle persone per acquisire potere. Certo, di solito riescono solo a sbocconcellare qualche ventata d’odio occasionale, ma in questo caso…» l’Hellsing tolse i piedi dal tavolo e vi abbatté sopra un pugno che fece trasalire i presenti. «Un demone di questo tipo, che si è nutrito degli ultimi pensieri di migliaia di morti, e ha avuto centinaia di anni per assimilarli, deve avere raggiunto un potere non indifferente» una risata senza gioia contorse le labbra di Gilbert, e una nuova ondata di panico torse lo stomaco dei presenti alla sua successiva invettiva: «Questi demoni si cibano solo delle emozioni peggiori, Figlio del Cielo. Tutti quei soldati devono aver maledetto i tuoi predecessori, prima di morire.»

«È probabile. Anzi, direi che è certo. In fondo, sono stati loro a mandarli in guerra» confermò quieto Yao.

 La reazione del sovrano atterrì ulteriormente i presenti. La sua calma imperitura assomigliava troppo alla finta serenità che precedeva i più turbolenti tifoni marini.

«Ma questi demoni di solito non si impossessano delle persone» obiettò Gilbert. «Di solito si stabiliscono dentro oggetti inanimati. Ma, per farlo, hanno bisogno di uccidere qualcuno, per sfruttare l’energia dell’anima che lascia il corpo e cingersi all’oggetto scelto…»

«In che modo uccidono?»

Una vena di allarme palpitò nella voce armoniosa del sovrano. Gilbert si strinse nelle spalle.

«Non lasciano segni. Il soggetto è in piena salute e il giorno dopo…» questa volta fu il palmo dell’Hellsing a schiantarsi sul tavolo. «Auf Wiedersehen

Yao trasse un profondo respiro, come se improvvisamente i suoi polmoni fossero diventati troppo stretti per raccogliere il fiato necessario.

«Si è verificato un episodio simile» le parole uscirono a tratti dalle sue labbra, quasi avessero paura di avventurarsi nel mondo esterno. «Un amico di Kiku è morto senza alcuna spiegazione apparente. Nessun segno di lotta, o di malattia, o di avvelenamento. Semplicemente morto. E Kiku, da allora, non si è mai separato dalla katana che Heracles aveva forgiato…»

«Quando dici “da allora” quanto tempo intendi, esattamente?»

«Degli anni.»

Il palmo si sollevò dal tavolo e si abbatté sulla faccia di Gilbert.

«Anni. È un miracolo che il tuo pupillo sia rimasto in sé così a lungo» commentò caustico l’Hellsing.

«Avevi detto che questi demoni non possono impossessarsi…»

«Ma possono controllare un essere umano. Prendere possesso di un altro corpo è un procedimento complicato perché bisogna mettere a tacere per sempre l’anima dell’ospitante. Ma controllarlo dall’esterno, come una marionetta, è molto più semplice: basta zittire l’anima per qualche istante e poi ritirarsi, e il controllato non avrà alcuna memoria di quanto successo» Gilbert incrociò le braccia, ringhiando amaro: «I demoni sanno sempre qual è la via più diretta per il successo.»

Il viso del Figlio del Cielo si fece terreo, a dispetto dell’espressione inalterata, come se quelle notizie gli stessero assorbendo il sangue una goccia dopo l’altra.

Gilbert passò una mano nei capelli argentati, calcolando a denti stretti: «Se è così, allora forse abbiamo qualche speranza. Però, dopo tutto questo tempo, probabilmente sarà già riuscito a creare dei contatti, come i fili della marionetta… questo complicherebbe le cose.»

L’Hellsing schioccò le dita, giungendo a una soluzione.

«È possibile che il tuo figlioccio esca indenne da questa situazione, ma le possibilità sono molto basse» Yao apprezzò la schiettezza cruda con cui Gilbert gli concesse una speranza spogliandola di ogni illusione. «Kiku è l’ancora che tiene questo demone sul nostro piano di esistenza; se uccidiamo il demone mentre è ancora legato a lui, moriranno entrambi. Dobbiamo riuscire a tagliare i fili che li legano, e poi potrò ammazzare il demone.»

«E chi meglio di un Marauder, per individuare dei fili invisibili?» Antonio spezzò l’attenzione con quella domanda che aveva un retrogusto di risata.

Arthur, Gilbert e il capitano portarono in contemporanea gli occhi sul non ti scordar di me. Già, chi meglio di Francis poteva risolvere una situazione impossibile?

Una spolverata di riflessi ramati si spezzò sulla chioma argentea dell’Hellsing, quando questo scosse il capo sotto il lume della lampada a olio.

«Ha resistito così tanto tempo e continua a resistere senza sapere nemmeno di avere un demone sulle spalle. Questo tuo figlioccio deve avere dei nervi d’acciaio.» Sebbene il tono fosse aspro e la curva delle labbra fosse più simile a un ghigno che a un sorriso, il Figlio del Cielo accettò quel commento come un complimento.

«Kiku ha la forza del giunco. Riesce sempre a rialzarsi, anche quando è abbattuto» scacciò la malinconia con un battito di palpebre e aggiunse: «C’è ancora una questione di cui vorrei discutere con voi.»

Yao attese un istante, per essere sicuro di aver ottenuto l’attenzione di tutti i presenti, e annunciò:

«Sappiamo tutti che, una volta sconfitto questo demone, la meta successiva sarà il Vaticano. Voglio invitarvi a riflettere su cosa avverrà dopo.»

«In che senso?» borbottò un marinaio.

Roderich, che fino a quel momento era rimasto immobile e impassibile sulla sua sedia, sistemò gli occhiali e la voce prima di lanciare l’annuncio che fece di nuovo calare un silenzio mortale.

«È una notizia che il Vaticano tiene riservata. Al confine della Confederazione sono ammassati mille demoni. Demoni che trovano irresistibile la carne umana. Lo scopo dell’Asse non è solo quello di proteggere l’armonia delle Galassie; il suo compito principale è quello di mantenere intatto lo scudo che ci separa da loro.»

Tutti si voltarono verso Lovino, che restituì lo sguardo senza davvero vedere nessuno di loro. Non gli avevano mai accennato a nulla del genere, nelle Ville Vaticane. Mai.

Sentì come lo schiocco di una frusta sul cuore, e il suo mondo crollò in mille pezzi. Per anni non aveva fatto altro che pensare a portare via suo fratello dal Palazzo di Quarzo, e a trovare un pianeta remoto su cui vivere insieme. Se pensava al suo futuro, lo vedeva come una strada con una destinazione precisa, ma quella stessa via si stava ritorcendo su se stessa come un serpente, scaraventandolo in un precipizio buio.

Se avesse strappato suo fratello al Palazzo, l’intera Confederazione sarebbe stata devastata dai demoni. Sapeva che senza l’Asse il benessere della Galassie sarebbe stato fortemente colpito, ma uno sterminio di massa andava ben oltre quello che aveva previsto. E i demoni non avrebbero fatto distinzioni tra innocenti e colpevoli.

«C’è un modo per risolvere tutto questo.»

L’affermazione del Figlio del Cielo suonò ovattata ai suoi sensi affogati in un oceano di pensieri. Gli occorse qualche istante per scomporre quelle parole, ricavarne il senso e accendere di nuovo il lume della speranza.

«Il Mago dell’Ovest proviene da un’altra dimensione. È la prova vivente che è possibile uscire indenni da un viaggio oltre lo spazio e la materia» proseguì sicuro Yao. Non diede tempo ai marinai di sorprendersi o ad Arthur di protestare per quella rivelazione indesiderata. «Se l’Asse, Lovino, il Mago dell’Ovest e io sincronizzassimo le nostre energie, probabilmente riusciremmo ad aprire più portali per permettere alle persone di fuggire, prima che lo spazio collassi.»

«Ciò che state suggerendo è…»

«La distruzione della Confederazione» Yao tagliò alla radice l’intrusione del marinaio. «E della sua ipocrisia. Una volta per tutte.»

«Bisogna fare molta attenzione con i viaggi dimensionali» li ammonì severo Arthur. «Bisogna avere un’idea abbastanza chiara del tipo di luogo in cui si vuole approdare. Quando sono partito, ricordo che avevo pensato a un posto che avesse delle cose nuove da insegnarmi…» il resto della frase si spense. Morte, malattia e ipocrisia: in un certo senso, aveva imparato cose che a Faerie non avrebbe mai nemmeno immaginato. «Dobbiamo essere molto attenti.»

«Un nuovo inizio in una nuova dimensione» la risata grezza di Gilbert raschiò l’aria. «Non sembra male.»

«Ho sempre pensato di distruggere il Vaticano» dichiarò Antonio, con una tranquillità agghiacciante. «Una piccola deviazione non mi disturba.»

«Dobbiamo studiare con accortezza il piano!» ricordò brusco Arthur. «Non si viaggia in un’altra dimensione senza essere preparati!»

«Facciamoli a pezzi.» Un ghigno intorbidò lo sguardo che Lovino rivolse a Yao. Il Figlio del Cielo non rispose apertamente, ma tutto il suo corpo si trasformò in un sogghigno soddisfatto. Il loro fuoco avrebbe distrutto la Galassia, e una nuova era sarebbe sorta da quelle ceneri.

«Prima la liberazione di Chugoku» decretò infine il Figlio del Cielo. «E poi quella della Confederazione.»

 

***

 

Gilbert non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi: riconosceva quel passo spavaldo.

«Sei venuto a farmi la ramanzina, Antonio?» domandò, laconico.

La riunione era stata sciolta, e l’Hellsing si era diretto al ponte di poppa, da cui era possibile vedere in lontananza un minuscolo pianeta con una casa vicino al lago e una tomba poco lontano.

«Non sei un moccioso, non mi disturberò a farti la predica» Antonio si appoggiò alla balaustra, di fianco a lui. Lo sguardo dell’Hellsing si inabissò di nuovo tra le stelle, e il capitano non cercò di dirottarlo su di sé. «Volevo solo farti notare che sei stato molto scortese con il Figlio del Cielo.»

«Gli ho detto la verità.»

«L’hai detta in modo che gli facesse più male possibile. Almeno all’inizio. Riconosco che dopo sei stato più moderato» Antonio seguì la traiettoria dello sguardo di Gilbert, e il petto gli si ingorgò con un sospiro.

La testa dell’Hellsing crollò con una risata graffiante, mentre l’uomo si scompigliava i capelli.

«Avevo detto che me lo sarei lasciato alle spalle, Antonio, ed è vero. Ho accettato la sua morte, ho accettato il fatto che non c’è più» i pugni si strinsero finché le nocche non assunsero quasi lo stesso colore opalescente della sua chioma. «Ma lui si è ucciso perché pensava di essere l’ultimo demone. Pensava di liberarmi dal mio ruolo maledetto dal Vaticano. E adesso… scopro che c’è un altro bastardo senza guinzaglio. È come se la morte di Matthew non fosse servita a niente.»

Gilbert sollevò il suo sguardo sanguigno, fissando quel minuscolo punto di luce. I lati del suo campo visivo diventarono scuri e indistinti, man mano che si focalizzava solo su quello spillo luminoso. Poi, dopo che la nave si fu allontanata ulteriormente, anche quella capocchia scintillante sparì. Una risata amara gli corrose il petto. Eccola lì, l’allegoria della sua vita: un buio infinito rischiarato da una singola particella di luce, improvvisamente inghiottita dalle ombre circostanti.

«Eri davvero innamorato di questo ragazzo» il calore nella voce di Antonio lenì per un attimo il freddo che aveva attanagliato l’Hellsing.

«Così è riduttivo» sbottò Gilbert. Il capitano vide i ricordi di una vita scorrere sotto le iridi amaranto dell’amico. «Matthew era qualcosa per cui valeva davvero la pena di respirare ancora. Ho perso la famiglia, ho perso la mia gente. Ho visto il mio nome preso e gettato nel fango dal Vaticano» le dita dell’uomo tambureggiarono sul legno come per aiutare le parole a uscire. «Poi guardavo Matthew e tutto quello che avevo passato acquistava senso, se era servito a portarmi fino a lui.»

Gilbert si zittì, e Antonio non fece pressioni. Entrambi avevano perso la casa, la famiglia, e tutti i loro conoscenti. Ma lui era più fortunato: lui aveva Lovino. L’Hellsing non aveva nessuno.

Gilbert gli rivolse uno sguardo sornione, prima di piegare le labbra in una frecciatina:

«E il tuo vice, invece? Riesce a spazzare via tutte le brutture, con il suo angelico sorriso

Antonio trattenne a stento una risata. Il suo amico aveva davvero uno spirito di ferro: perfino dopo essersi spezzato l’anima nei ricordi di Matthew riusciva a fare una battuta a tradimento. Sperava davvero che Gilbert non cambiasse mai.

«No, non riesce a cancellare il mondo» lo smentì Antonio. «Ma riesce a diventare il mondo. Non dimentico il mio passato, e non dimentico la battaglia che ci aspetta…» le dita del capitano si strinsero impercettibilmente sulla balaustra. «Ma Lovino è più importante di tutti loro. Li annienta, in un certo senso.»

Gilbert annuì: poteva quasi vedere il ragazzo che cacciava a calci gli altri pensieri dal cervello di Antonio.

L’Hellsing sgranchì le spalle e trasse un profondo respiro prima di buttare fuori:

«Quando troveremo Francis, gli chiederò dove si trova Matthew.»

Antonio lo fissò senza capire; una goccia di malinconia si spanse nella voce rauca di Gilbert.

«Ho promesso che andrò da lui, quando morirò. Ma vorrei almeno un indizio sul luogo preciso. Credo che l’aldilà sia molto più vasto di quanto immaginiamo.»

«Hai intenzione di ucciderti in questa guerra?»

La gomitata dell’Hellsing lo colpì dritto in mezzo alle costole, facendogli sputare l’aria.

«Non fare il melodrammatico, Antonio! Non siamo in un’opera lirica dove tutti si ammazzano per i motivi più assurdi» lo sbeffeggiò Gilbert, per poi tornare serio. «Ma siamo in guerra. È possibile che succeda. Farò del mio meglio per sopravvivere, ma se non dovessi riuscirci… voglio sapere dove devo andare, esattamente. Non voglio perdermi nel prossimo mondo e farlo aspettare ancora» di nuovo, la testa argentata dell’Hellsing franò tra le sue spalle.

Antonio attese finché l’amico non sollevò di nuovo gli occhi, che vagarono alla ricerca del loro punto di luce svanito.

«Vai da Lovino, Antonio. La notte prima della battaglia è meglio passarla con le persone che amiamo» lo consigliò Gilbert, l’eco di un ghigno vetroso nelle sue parole.

«E tu?»

«Io farò lo stesso» l’Hellsing scrollò le spalle, sogghignando. La rabbia, l’amarezza, il rimpianto li aveva già versati su quella tomba ghiacciata, una lacrima dopo l’altra; rimanevano solo il dolce tormento della nostalgia e dell’amore perduto.

Le nocche di Antonio lo colpirono sulle costole, e Gilbert lo guardò confuso, una mano premuta sul busto.

«Per il tuo pugno di prima» sentenziò il capitano, prima di dirigersi verso la sua cabina.

L’Hellsing scrollò la testa, ridendo a denti stretti.

Sperava davvero che Antonio non cambiasse mai.

 

***

 

Le dita passarono tra i capelli mogano, pensierose.

Non era riuscito a raccontare tutti gli avvenimenti di quella sera. Erano troppo grandi, troppo pregni di emozioni per passare attraverso il filtro delle parole: la sua gola sarebbe andata in pezzi, se ci avesse provato.

Tuttavia, quelle immagini erano più vivide che mai dentro di lui, come se si nutrissero di tutti i suoi discorsi inghiottiti. Gli bastava chiudere gli occhi, per rivivere quei momenti di panico.

 

Gli ultimi vapori del bagno serale indugiarono sulla sua pelle, accarezzandolo con un calore profumato. Le pagine del libro frusciarono delicate, mentre il sovrano le sfogliava. Il cielo di Chugoku era nero come sempre.

Niente, in quella serata, avrebbe lasciato presagire gli eventi che si sarebbero scatenati in seguito.

Yao non aveva quasi mosso lo sguardo dal racconto, quando Kiku era entrato nella stanza. Aveva semplicemente alzato la mano per fargli segno di venire più vicino, per accovacciarsi di fianco a lui e leggere insieme, come facevano sempre.

Fu la memoria generazionale a salvarlo: il predecessore responsabile della guerra sino-britannica gli aveva improvvisamente urlato di spostarsi. L’istinto di Yao aveva raccolto immediatamente il suggerimento, facendolo scartare di lato. La katana gli graffiò la spalla anziché recidergli la gola, e si infisse nell’imbottitura della poltrona.

Kiku inclinò appena la testa, le sopracciglia aggrottate in un lieve disappunto. Le iridi del Samurai erano piatte e vuote come un vetro sporco di fuliggine, e Yao rabbrividì interiormente quando quegli occhi senz’anima lo squadrarono.

«Kiku?» lo chiamò, sconcertato.

Il giovane ritrasse lentamente la spada, senza dire una parola. Nello stesso terrificante mutismo sferrò il secondo attacco, e di nuovo Yao lo schivò per un soffio: la stoffa si tinse di un cremisi ancora più intenso quando fu bagnata dal sangue del sovrano.

Le dita del Figlio del Cielo guizzarono impazienti, e si richiusero a pugno subito dopo. La magia delle fiamme bruciava nei suoi palmi, pronta a neutralizzare il nemico, ma Yao la ricondusse a forza nello sterno di fuoco. Non era un nemico, era Kiku, l’orfano che aveva salvato da morte certa e che si era votato al bene di Chugoku e del suo regnante. E non avrebbe mai potuto fare del male al suo figlioccio.

Un ghigno terribile, fratello dell’inferno e figlio della crudeltà, si dispiegò sulle labbra pallide del Samurai.

«Si dice che il potere del Figlio del Cielo possa ridurre in cenere un intero pianeta. Per quale motivo non riesci a distruggere un singolo uomo?»

Yao arretrò di un passo, assottigliando gli occhi. Non era la voce di Kiku: poteva a malapena udire il familiare tono adamantino come tintinnio di sottofondo. Pareva che le labbra del giovane fossero riempite dall’ululato del vento in mezzo alle tombe.

Il Samurai schioccò le labbra, nauseato.

«Questi sono i “sentimenti”. Troppo dolci, troppo nauseanti» la katana cantò di nuovo, aprendo uno squarcio sottile sul busto del sovrano. Di nuovo, Yao indietreggiò senza reagire. Se avesse scatenato il suo potere, per Kiku non ci sarebbe stato scampo. Se il suo figlioccio lo avesse tradito, per quanto a malincuore, lo avrebbe giustiziato; ma quello non era lui, era qualcosa di spaventoso vestito con la carne del suo Samurai. E doveva capire cosa fosse.

«Preferisco il sapore della morte» il suono delle unghie su una bara riempì l’aria: l’essere aveva riso.

«Sei uno shinigami?» domandò Yao.

Di nuovo, rumore di artigli sul legno di un catafalco.

«Oh, no, gli shinigami sono legati da mille regole… io sono uno spirito libero» l’essere reclinò la testa di lato, e i capelli corvini di Kiku sfiorarono la spalla. «Anzi, possiamo dire che io sono la personificazione del karma: cattive azioni portano a cattive conseguenze.»

La spada saettò una terza volta nella sua direzione, e un terzo squarcio si aprì sulla sua tunica. Ma Yao non reagì. Non poteva costringersi a ferire Kiku. L’essere rimase fermo nella posizione allungata dell’affondo, e girò solo la testa, meccanicamente, fino a puntare i suoi occhi vetrosi su di lui. Il Figlio del Cielo sentì un brivido scuotergli la spina dorsale: in quella posa, con il collo che si muoveva a scatti, il Samurai assomigliava tremendamente a una marionetta.

«I tuoi antenati hanno decretato la tua morte, Figlio del Cielo» salmodiò con calma spietata l’essere. «Tutta Chugoku era loro devota, e loro non hanno avuto pietà di lei: hanno mandato a morire tutti quei giovani soldati, raccontando alle loro famiglie che erano morti da eroi» Kiku si raddrizzò partendo dalle spalle, come se lo stessero tirando per un filo collegato alle scapole. «Dimmi, Figlio del Cielo, credi che una medaglia al valore possa raccontare la favola della buonanotte ai suoi figli, o abbracciare la propria moglie? Perché, se non ricordo male, è così che li avete ripagati: un pezzo di ferro in cambio di un marito, di un padre o di un fratello. Non mi pare uno scambio equo…»

«Sei venuto fin qui per vendicarli?» lo interruppe bruscamente Yao. Un demone. Un demone nato da sentimenti negativi. Aveva letto qualcosa a riguardo, ma solo cronache molto vaghe: i veri esperti erano gli Hellsing, e l’ultimo di loro era stato imprigionato a Caina anni prima. E lui non sapeva come estirpare quello spirito senza danneggiare Kiku.

Lo stupro di un sorriso aveva torto le labbra del Samurai.

«Vendetta? Oh, no, io sono felice che voi li abbiate spediti al massacro, altrimenti non sarei mai riuscito a diventare così forte… forte come nessun demone della mia razza è mai stato!»

L’essere alzò le braccia, e il mondo si capovolse. Yao sentì i piedi perdere aderenza con il terreno e il suo corpo fluttuare in un turbine violento. Fu come essere investito da una tempesta di sassi e da una tormenta di neve al contempo: un vento gelido lo tenne sollevato nell’aria, mentre mille mani invisibili lo colpivano su tutto il corpo.

Crollò a terra quando quel vortice terminò, ed ebbe appena tempo di tossire in cerca d’aria prima che un altro peso lo inchiodasse al suolo. Il Samurai lo fissò compiaciuto, a cavalcioni sul suo addome, e posizionò con estrema lentezza la lama sul collo niveo del sovrano. Yao cercò di respirare il più lentamente possibile: se avesse deglutito, la sua gola si sarebbe lacerata contro Heracles.

Le iridi vuote avvamparono improvvisamente con una luce cupa, e si appuntarono sul volto del sovrano come se volessero carbonizzarlo con la loro brama.

«Non è per vendetta, Figlio del Cielo. È perché posso farlo, perché sono l’unico demone della mia razza ad avere un potere abbastanza grande da sopraffare il tuo!»

«Se fosse così, non useresti il corpo di Kiku come nascondiglio» la voce di Yao suonò forte e chiara come quando teneva i discorsi ai consiglieri, nonostante la lama premuta sulla sua carotide.

L’essere si strinse nelle spalle, noncurante.

«Un corpo vale l’altro. Ma ammetto che questo è piuttosto utile, visto che tu non vuoi scalfirlo» il suono delle unghie sulla pietra tombale gli si rovesciò sul viso, quando l’essere rise di nuovo. «Il Figlio del Cielo ucciso dal suo Samurai. Mi chiedo cosa diranno i tuoi consiglieri…»

Il mondo impazzì di nuovo: un secondo turbine si agitò nella stanza, ma questa volta colpì l’essere seduto su di lui, scaraventandolo all’altro lato della stanza. Heracles cadde con un gemito metallico sul pavimento.

Yao si rialzò velocemente e vide Young Soo, le dita maledette stese nella magia di vento, la fronte corrugata e imperlata di gocce di sudore.

«Fratellone, da questa parte!» le maniche turbinarono intorno ai suoi polsi mentre manovrava il tornado in modo che tenesse l’essere il più lontano possibile.

Il sovrano si affrettò a raggiungere il mago di corte, che bisbigliò, furioso:

«Che diavolo è successo a Kiku? Ho sentito una vibrazione magica anomala e…»

«Quello non è Kiku. Un demone si è impossessato di lui.»

Un silenzio di ghiaccio li avvolse, sovrastato selvaggiamente dall’infuriare del vento.

«Non so come si sconfigge un demone» ammise a denti stretti Young Soo.

«Nemmeno io» confessò il Figlio del Cielo.

«Ma non possiamo uccidere Kiku…» il Portavoce del Sole dovette interrompersi per concentrarsi sulla magia: l’essere all’altro capo della stanza era riuscito in qualche modo a guadagnare una posizione stabile, e stava contraccambiando l’attacco con un incanto di vento.

«Gli Hellsing. Gli Hellsing sanno…»

«Vattene fratellone! Scappa!» eruppe all’improvviso Young Soo. Il Portavoce del Sole mantenne ferma la posa di battaglia, ma i piedi cominciarono a scivolare all’indietro come se un toro lo stesse spingendo.

«Non posso…» Yao cercò di adirarsi per quella proposta, ma Young Soo troncò ogni sua possibile protesta.

«È forte, fratellone, molto forte. E non sappiamo come combatterlo senza fare del male a Kiku» il Portavoce del Sole digrignò di nuovo i denti e caricò le braccia per poi lanciarle in avanti con uno schiocco: una folata improvvisa costrinse il demone a indietreggiare. «Trova gli Hellsing!»

«Gli Hellsing non esistono più, Youg Soo!»

«Sciogliere un pezzo di ghiaccio non è un problema per te!» il Portavoce del Sole si scorticò la gola per farsi udire sopra l’ululato del vento. «Non puoi stare qui, fratellone. Questo demone è troppo forte per le guardie, è troppo forte anche per me. Ti ucciderà, fratellone. Scappa!»

La spalla di Young Soo ruotò bruscamente all’indietro, come se un proiettile l’avesse colpita. Il Portavoce del Sole azzannò un grido di dolore, e mantenne vivo l’incantesimo puntando solo il braccio illeso. Yao non lo vide in faccia, ma il sorriso di Young Soo era visibile nelle sue parole.

«So che stai esitando per me, fratellone. E sono felice che tu non voglia lasciarmi qui. Ma devi farlo fratellone. E poi devi tornare. Io ti aspetterò.»

Young Soo voltò appena la testa. Il vento gonfiò gli strati vaporosi del suo vestito, e gli coprì il viso con i capelli scompigliati, ma, anche in mezzo a quella bufera, il sorriso e le lacrime del Portavoce del Sole scintillarono come le stelle che Chugoku aveva perduto.

«Ti aspetterò sempre, fratellone.»

Young Soo tese una mano verso di lui, come per chiedergli conforto. Yao si avvicinò e il Portavoce del Sole ne approfittò: aprì le dita, poggiandole sul suo sterno, e mormorò velocemente un incantesimo.

Il Figlio del Cielo trovò improvvisamente trasportato fuori dal Palazzo, fuori dall’atmosfera di Chugoku, e fece appena in tempo a spiegare le sue ali di fuoco prima di trovarsi nello spazio aperto.

Yao non sapeva cosa fosse accaduto dopo, ma la stanza che ne era stata testimone ricordava alla perfezione.

Se solo avesse potuto parlare avrebbe raccontato con quanto ardore il Portavoce del Sole avesse continuato a trattenere il demone, impedendogli di inseguire il Figlio del Cielo. Avrebbe narrato con quanta violenza l’essere avesse disintegrato le difese di Young Soo, scaraventandolo contro il muro in un impeto di rabbia.

Il Portavoce del Sole tossì per rinvigorire i polmoni, che si erano accartocciati dentro le costole dopo quell’impatto violento. La sua schiena diventò un campo di dolore bruciante, e poteva sentire delle crepe aprirsi nelle ossa delle scapole. Ma non si preoccupò di nessuna di quelle cose: il demone gli si avventò contro, sibilando come un nugolo di serpenti.

«L’hai fatto scappare!» inveì, con la sua voce di vento e morte.

Young Soo sorrise contento, il sapore salato del sangue che si spandeva sulle sue labbra.

«Sì. Non potrai raggiungerlo. Lui tornerà e ti distruggerà. Perché nessuno, in questa Confederazione, è forte quanto il fratellone!»

Il demone lo sbatté di nuovo contro il muro, e Young Soo sentì il cervello rimbalzare nella scatola cranica. Sperava solo che quell’essere lo uccidesse in fretta: era deciso a morire per il fratellone, ma non sopportava il dolore. Quando era stato un servo era abituato a soffrire, ma il fratellone lo aveva viziato troppo, in quegli anni. Era da tanto tempo che aveva disimparato il significato della sofferenza. Sorrise amaro, senza lo scudo della frangia, costantemente pettinata in modo da scoprirgli il viso: l’affetto del fratellone lo aveva reso un invertebrato.

Gli occhi del demone si restrinsero in due fessure piene d’odio.

«Tu parlerai» la sua voce risuonò affilata e fredda come lo stridio di un coltello sul marmo.

Il Portavoce del Sole sollevò il viso, trionfante. Forse sarebbe morto, anzi, quasi sicuramente sarebbe morto, ma almeno avrebbe trascinato in disgrazia anche quell’essere disgustoso.

«Anche se mi uccidessi, non risolveresti nulla. Non puoi nascondere la scomparsa del fratellone, così come non potresti nascondere la mia. Sarai l’essere più ricercato di tutta Chugoku, di tutto il Sistema Asean. E prima o poi ti cattureranno.»

La spavalderia di Young Soo si sgretolò con un brivido di terrore. Il demone non pareva spaventato, anzi: un compiacimento malevolo distorse i lineamenti di Kiku, mentre si chinava con eleganza a raccogliere Heracles.

«Oh, non pensavo di ucciderti. Creerebbe troppo scompiglio. Tuttavia, non posso nemmeno permetterti di parlare.»

La spada fu troppo veloce per essere vista: trapassò la gamba del Portavoce del Sole con la facilità con cui avrebbe lacerato un fazzoletto di seta. Young Soo fissò la sua coscia con un’espressione confusa, incapace di realizzare cosa fosse successo. Solo quando la prima scarica di dolore gli perforò il cervello riuscì a urlare a pieni polmoni. Ma sarebbe stato più saggio non concentrarsi sulla lama conficcata nel suo muscolo: se ne rese conto solo quando gli artigli del demone gli avvilupparono la testa. Le sue parole untuose gli scivolarono nelle orecchie come veleno.

«Pensavo a una paralisi totale. Il Portavoce del Sole non è riuscito ad accettare il coma del sovrano, e ha deciso di seguirlo nel suo triste destino. Questa sarà la versione ufficiale. Divertiti ad avvizzire come un vecchio albero, Portavoce del Sole.»

Young Soo non riuscì ad articolare il suo ultimo grido: una rigidità cadaverica discese su di lui, viscida e appiccicosa, solidificando i suoi muscoli come se fossero stati immersi nella resina. Il Portavoce del Sole avvertì il suo corpo abbandonarlo un arto per volta: prima la mascella si contrasse, chiudendosi per sempre sulle sue ultime parole; poi si immobilizzarono le spalle, coagulando anche braccia e mani in un unico blocco inamovibile. Il torso diventò un pezzo di legno e, infine, non riuscì più ad avvertire il dolore alla coscia lesa.

Udì il tonfo del suo stesso corpo mentre cadeva a terra, incapace di chiudere le palpebre fossilizzate sui suoi occhi. L’unica cosa ancora in movimento nel suo corpo di pietra era la mente, e il demone lo osservò dall’alto con un ghigno satanico impresso sul volto. Lo aveva premeditato: lo aveva lasciato cosciente in modo che potesse assaporare appieno la disperazione di non poter in alcun modo fermare quella catena di eventi.

Le sue pupille fisse osservarono il demone che si rialzava, che puliva Heracles. Videro il primo consigliere entrare nella stanza, e furono testimoni dell’incantesimo dell’essere infame: manipolò i ricordi dell’ignaro uomo in modo che credesse di essere entrato nelle stanze imperiali e di aver visto il sovrano giacere nel suo letto, vittima di un coma apparentemente irreversibile.

Vide il consigliere uscire di corsa per dare l’allarme, e vide il demone chinarsi su di lui, sogghignando diabolico.

«La mente degli esseri umani, quando non sono guerrieri o maghi, è così malleabile…» flautò, lezioso. Poggiò le dita sulle labbra e le impresse sulla fronte fredda del Portavoce del Sole, sghignazzando: «Sogni d’oro, piccolo schiavo.»

Kiku chiuse le palpebre, e gli occhi tremarono dietro di esse. Quando si sollevarono, le iridi di carbone del Samurai saettarono confuse sulla stanza in disordine. Poi si appoggiarono su di lui, e Young Soo scoprì che anche il suo cuore era in grado di muoversi: sprofondò in fondo ai piedi quando le iridi di Kiku si spalancarono nel notare il suo corpo riverso al suolo.

Una mano callosa e gentile gli sollevò la testa, mentre l’altra gli circondava il busto.

«Young Soo?» c’era un lieve allarme che guastava la fermezza della voce di Kiku. «Young Soo, che cos’hai?»

La sua bocca quasi esplose quando cercò di forzare le parole fuori da essa. Voleva avvisare il Samurai, voleva dirgli che il fratellone era lontano e al sicuro, voleva…

«Il cielo di Chugoku non ha ancora le stelle, Young Soo. Non puoi abbandonarci ora…»

Il cuore e l’anima si rattrappirono a quelle parole, si accartocciarono e poi esplosero con un boato al centro del suo petto. Sentì le lacrime pizzicargli gli occhi di pietra, e bruciare come lava dietro di essi. I sassi non potevano piangere.

La presa di Kiku si stinse gentilmente, premendolo contro di lui. La sua coscienza guizzò dietro i muscoli irrigiditi, cercando di uscire da quelle membra di granito e gridare la verità a tutto il Palazzo… Young Soo rimase immobile come una bambola nell’abbraccio di Kiku.

«Abbiamo bisogno di luce per il nostro cielo. Non puoi spegnerti, Young Soo, non puoi…» il mormorio accorato di Kiku crebbe bruscamente in un ordine, gridato verso la porta aperta: «Il Portavoce del Sole sta male! Chiamate il medico di corte, presto!»

Altre lacrime gli arroventarono gli occhi, e la sua anima stridette di nuovo, prigioniera di un corpo di fango.

Quel giorno Chugoku perse due delle sue stelle più luminose.

 

Yao riaprì gli occhi, terminando il suo viaggio nel passato.

Durante il suo esilio, aveva avuto modo di pensare con freddezza agli avvenimenti di quella sera e si era convinto che fosse giusto uccidere Kiku, se non vi fossero state altre vie: Chugoku non poteva cadere nelle mani di un demone. L’Hellsing aveva portato una scintilla di speranza, dicendo che forse il suo pupillo si sarebbe salvato, ma era troppo flebile perché il Figlio del Cielo potesse davvero contare su di essa. Era stanco di vedere i propri legami fatti a pezzi: prima l’allontanamento della sua famiglia all’epoca della sua incoronazione, il tradimento di Kiku, l’abbandono di Young Soo….

La porta della camera si aprì. Il cuore di Yao singhiozzò in uno spasmo quando Ivan entrò nella stanza.

Anche quel legame sarebbe svanito presto, come un cristallo di neve al disgelo.

«Non hai detto una parola alla riunione» notò l’orientale, avvicinandosi al Custode.

Ivan abbassò lentamente i suoi occhi violacei su di lui. Yao era abituato alla lentezza con cui il gigante faceva le cose; non doveva essere facile muoversi con le articolazioni congelate dal Cuore d’Inverno, e il Figlio del Cielo aveva accettato quella particolarità di Ivan. Come ne aveva accettate mille altre: la sua possessività asfissiante, la sua incapacità di comprendere le emozioni altrui, la sua incuria per la vita umana.

All’inizio, Yao aveva solo sfruttato Ivan: era finito nel castello di quel gigante che, per qualche arcano motivo, nutriva un interesse particolare nei suoi confronti. Il Figlio del Cielo aveva tratto vantaggio da questa piccola debolezza per riuscire a viaggiare nella Galassia ed entrare in contatto con chi lo avrebbe portato dall’Hellsing e dal Marauder. Il Custode doveva essere semplicemente un mezzo per tornare a Chugoku.

Poi una sera quell’uomo di ghiaccio si era accovacciato ai suoi piedi, aveva cercato il suo calore e gli aveva confessato di aver ucciso. E, quella volta, Yao aveva visto l’immensa voragine in cui il cuore dell’uomo era sprofondato. Ivan non stava solo confessando il suo crimine: stava cercando qualcuno che potesse scuoterlo dalla sua apatia, che potesse spiegarli perché la sua memoria era improvvisamente diventata un sepolcro vuoto. Qualcuno che mettesse a tacere il gelido ululato dei fantasmi e parlasse con il calore di un essere umano.

In quel momento, il Figlio del Cielo aveva capito che non era nelle intenzioni del Custode essere crudele: Ivan semplicemente non ricordava cosa significasse essere umani. Il ragno sul suo petto aveva risucchiato anche quello.

Era stato allora che Yao aveva cercato di consolarlo con un bacio, e aveva provato tutto il gelo che quell’uomo era costretto a sopportare ogni giorno. Poi quel gigante privo di empatia lo aveva preso sulle ginocchia, e lo aveva avvolto con la sua sciarpa, l’unica cosa che ritenesse davvero preziosa. E gli aveva chiesto di baciarlo ancora.

Quella sera tutto si era complicato.

Yao aveva cominciato a interessarsi a Ivan nello stesso modo in cui il gigante era affascinato da lui. Lo aveva studiato, nei mesi successivi, fino a riuscire a capire le emozioni che passavano sotto le lastre di ametista che l’uomo aveva come occhi.

Ivan non era un essere senza sentimenti: era un uomo che non ricordava più come esprimere quello che sentiva. Desiderava scoprirlo di nuovo e, allo stesso tempo, temeva che il Cuore d’Inverno avrebbe nuovamente inghiottito le sue emozioni, lasciando solo una distesa arida dietro di sé.

Yao non era più riuscito a staccarsi da lui: desiderava avvolgerlo con il suo calore, bandire l’inverno perenne in cui l’uomo era immerso e vedere il vero Ivan sbocciare di nuovo come gli anemoni in primavera.

Il Custode avvertiva un baratro dentro di sé, e non sapeva nemmeno di che cosa fosse stato svuotato perché il Cuore d’Inverno non gli permetteva di ricordare il tepore di una famiglia. Yao desiderava riempire quel vuoto fino a farlo debordare.

Un amore così folle e disperato non si addiceva all’eterea figura del Figlio del Cielo. Un sovrano avrebbe dovuto mettere il bene del proprio popolo sopra ogni cosa; Yao avrebbe abbandonato Chugoku, se solo Ivan glielo avesse chiesto.

Il Figlio del Cielo scosse il capo tra sé e sé. No, non lo avrebbe fatto: Young Soo e Kiku lo stavano aspettando. Ma sapeva che loro avrebbero accettato una sua eventuale partenza, anche se con il cuore gonfio di lacrime. Il suo trono, invece, non lo avrebbe fatto: lo avrebbe tenuto avvinto a sé con le catene che si nascondevano dietro gli abiti imperiali.

Non aveva mai pensato prima alle sue responsabilità come a un fardello, e non avrebbe mai immaginato di desiderare di lasciare il suo paese natale per un singolo uomo. Ivan aveva cancellato ogni cosa, come la neve che fagocitava il mondo durante gli inverni più implacabili.

Yao reclinò appena il capo, e i capelli ricaddero voluttuosi sul petto. Il Custode adorava la sua chioma sciolta, e anche quella sera sollevò la mano guantata per accarezzarla. Le dita si fermarono a mezz’aria, rigide, e si richiusero a pugno senza nemmeno sfiorarlo.

Ivan sollevò la sciarpa sul volto e gli voltò le spalle, raggiungendo a larghe falcate la rastrelliera.

«Ivan» lo chiamò pacato Yao, mentre l’altro appoggiava la mazza ferrata all’apposito sostegno. «È così penoso toccarmi?»

Il Custode si erse in tutta la sua statura, ma non si voltò. Il Figlio del Cielo ebbe l’impressione che fosse una montagna a rimbombare:

«Domani tornerai a Chugoku. Non sarai più Yao Wang. Sarai di nuovo il Figlio del Cielo.»

L’Asean raccolse quella provocazione e ribatté:

«Credevo che la nostra promessa avesse valore finché questo incidente non si fosse risolto.»

Il Custode rimase immobile. Yao si avvicinò di un passo.

«Hai intenzione di evitare di guardarmi fino a domani mattina?»

Ivan sollevò ulteriormente la sciarpa e si voltò verso di lui. Gli occhi ametista erano duri come sempre, ma Yao aveva imparato a distinguere le varie sfumature. Quella era la tonalità del dubbio. Ivan si stava chiedendo quanto sarebbe occorso al Cuore d’Inverno per divorare i ricordi del loro tempo insieme. Prima si sarebbe scordato il suo nome, poi il suo viso, il suo corpo, la sua voce, il suo calore… gli sarebbe rimasta solo la vaga impressione di un’ombra nella sua vita gelida.

Quegli interrogativi si infissero negli occhi di Yao e risuonarono nelle sue ossa. Anche lui sarebbe diventato un fantasma di quella Fortezza, come Ivan sarebbe diventato un cimelio da passare ai suoi successori?

La mano di Yao corse ad afferrare quella di Ivan. Passò i polpastrelli sulla pelle lucida del guanto, prima di pizzicare il medio sulla punta. Tirò con delicatezza, denudando pian piano la mano del Custode. Sentì un fremito scorrere nelle vene di Ivan quando si sporse per baciargli le nocche, e i suoi capelli ricaddero come una carezza setosa sul polso dell’uomo. Con delicata lentezza, Yao poggiò quella mano grande e fredda sul suo sterno, sotto la camicia, dove riposava la memoria dei suoi antenati.

«All’inizio pensavo che fossimo opposti» mormorò, vellutato. Quella sera era il suo turno per confessarsi. «Poi ho capito che siamo più simili di quanto non possa sembrare. Tu non hai ricordi, Ivan, mentre io ho una miriade di memorie che non mi appartengono. Sai a volte… non si riesce più a distinguere tra la propria vita e quelle degli altri.»

Yao chiuse gli occhi, mentre il segreto che aveva chiuso dentro di sé tanti anni prima affiorava. Il Figlio del Cielo, a volte, non riusciva a distinguere quale vita avesse vissuto davvero.

Gli occhi di Ivan si assottigliarono, cercando di comprendere cosa si provasse in una situazione simile. Yao sorrise dolcemente: anche quei tentativi rudi erano una prova dell’affetto sincero del Custode. Quell’uomo dimostrava un amore sconfinato, se solo si sapevano cogliere i segnali.

«So che la mia vita è quella in cui posso sentire la risata di mio fratello, in cui posso vedere il mio figlioccio allenarsi» Yao sollevò gentilmente la mano di Ivan al livello del suo viso e vi appoggiò la guancia. Il pollice dell’uomo si mosse quasi istantaneamente per accarezzare la sua pelle liscia. «So che ci sei tu, Ivan» il giovane orientale sfiorò con le dita le nocche dure del compagno. Il Figlio del Cielo era legato da troppe responsabilità e impegni per lasciarsi andare ai sentimenti, ma Yao Wang era libero di immergersi nell’intricato amore di Ivan fino ad affogare. «Non so cosa ci aspetta domani, se dovrò tornare sul trono o se cadrò combattendo. Ma stasera sono qui, Ivan. Con te.»

Il Custode gli fece sollevare il viso e lo trafisse con i suoi occhi violacei. Il suo volto, anche se nascosto dalla sciarpa, palesava un unico interrogativo: per quanto ancora le memorie di Yao sarebbero rimaste vivide nella sua memoria carnivora?

La mano di Ivan scivolò tra i suoi capelli, stringendosi a pugno sulla sua nuca e attirandolo bruscamente a sé.

«Tu sei mio» dichiarò, incatenandolo con il suo sguardo ghiacciato.

Era la massima confessione d’amore che quell’assurdo uomo potesse fare. Yao si allungò per srotolare la sciarpa e liberare il suo viso.

«Allora dimostralo» lo incoraggiò, lanciandogli uno sguardo obliquo da sotto le ciglia nere. Anche quello era un comportamento che non sarebbe stato accettato dal trono reale, ma lì era solo un giovane orientale innamorato del più incomprensibile uomo che fosse mai esistito all’interno della Confederazione.

Ivan si inginocchiò lentamente, e le sue grandi mani salirono a slacciare i bottoni della camicia che Yao indossava per la notte. Il sole al centro dello sterno venne messo a nudo e l’Asean immaginò che l’uomo vi avrebbe premuto contro il viso come faceva sempre. Invece le labbra del compagno gli sfiorarono la clavicola e risalirono sul collo, le mani ancora impegnate a spogliarlo. L’orientale rabbrividì quando la camicia raggiunse i suoi gomiti e le labbra di Ivan il suo orecchio.

«Yao.»

Il mondo affondò per un attimo su quell’unica parola. Ivan non lo aveva mai chiamato per nome nell’intimità. Forse temeva che il Cuore d’Inverno avrebbe sbriciolato quelle tre lettere se le avesse pronunciate apertamente. O forse mai come in quel momento, a un passo dalla loro separazione, Ivan aveva paura di dimenticarlo se lo avesse lasciato andare anche un solo istante.

Ripeté il suo nome mentre appoggiava le mani sui suoi fianchi, e lo fece scivolare lungo il suo busto mentre si inginocchiava davanti a lui.

Il desiderio di Ivan gli marchiò il petto a ogni bacio affamato che l’uomo vi depositò sopra. I baci di Ivan erano fratelli dei morsi, e lasciarono una pioggia di segni rossi sul loro passaggio.

Le mani di Yao circondarono quei lineamenti duri, e i suoi capelli scesero a creare un sipario setoso tra loro e il resto della Fortezza. Il tempo perse di senso, lo spazio di consistenza, e il mondo si restrinse ai loro occhi legati tra di loro.

Passò un istante e una vita prima che Yao conducesse Ivan sul letto alle loro spalle.

Curiosità e perplessità scivolarono nel viola immobile delle iridi del Custode mentre l’Asean lo faceva sedere e si issava ad arcioni su di lui. Il Figlio del Cielo abbassò lo sguardo sul suo cappotto per dissimulare un sorriso: Ivan aveva sempre un pizzico di meraviglia e confusione negli occhi, come un bambino che scopre il mondo e non sa bene come rapportarsi con esso. Anche dopo tutte le notti in cui avevano giaciuto insieme, il Custode non aveva perso quella sua espressione speculativa, quasi non avesse ancora capito cosa aspettarsi da Yao. Il Figlio del Cielo non poteva biasimarlo: nemmeno lui sapeva cosa aspettarsi da se stesso, quando era insieme a quell’uomo glaciale.

L’orientale si dilungò nello spogliare il suo amante: prima il guanto rimasto, poi il pesante cappotto, quindi la camicia, un bottone per volta. Il brivido ormai familiare si scaricò alla base della nuca per poi percorrergli tutta la spina dorsale; mettere a nudo il suo compagno un passo alla volta, lentamente, era il rituale preferito di Yao. Gli piaceva sentire il desiderio lievitare pian piano in quel punto poco sotto lo sterno, e trovava gradevole l’aspettativa palpitante che si spandeva nel suo corpo come un monsone. Ma più di tutto adorava osservare Ivan, il gigante di ghiaccio, ribollire nell’impazienza mentre le sue mani scendevano verso il basso per slacciargli la cintura.

Le dita artiche del Custode gli artigliarono i fianchi, spingendolo di colpo contro di sé. Le labbra di Yao si tinsero di un sorriso severo, rimproverandolo silenziosamente per quella brutalità indesiderata.

Il Cuore d’Inverno baciò lo sterno del Figlio del Cielo mentre i loro petti e i loro bacini nudi premevano gli uni contro gli altri.

Le dita di Yao si insinuarono nei capelli dell’uomo, iridescenti come la brina di dicembre, e le sue labbra sfiorarono quella fronte spianata da una totale assenza di emozioni.

Per la prima volta, sentì la pelle dell’uomo riscaldarsi alle sue sole parole, le più ardenti che l’Asean avesse mai pronunciato in tutta la sua vita.

«Avrei voluto essere abbastanza forte da spezzare il sortilegio del Cuore d’Inverno.»

Ivan lo stritolò quasi nel suo abbraccio di ferro, e tuffò il viso nel suo collo, coprendolo con i suoi baci violenti.

«Yao» lo chiamò di nuovo, stringendo la presa sui suoi fianchi fino a fare male. Dopo tutto quel tempo, Ivan ancora non aveva capito quale fosse il confine da non superare. «Il mio Yao.»

L’Asean sfiorò le labbra dell’uomo con le proprie, e la mano del Custode premette istantaneamente sulla sua nuca per spingerlo in un bacio più profondo. Yao si scostò bruscamene per liberare un gemito quando l’amante lo spinse su di sé senza alcun preavviso. Ivan non aveva ancora imparato cosa fosse la delicatezza, per sua sfortuna. Il respiro inciampò in ansiti spezzati attraverso le sue membra tremanti, e si aggrappò all’amante per recuperare il controllo. Respirò il suo odore freddo e pungente, immobilizzò la bocca contro quella pelle ghiacciata e affondò le dita nei capelli di brina del compagno.

I palmi di Ivan gli coprirono la schiena, stringendolo con più delicatezza. In qualche modo, aveva capito di avergli fatto male.

Yao riaprì gli occhi lucidi, e li appuntò sul viso del suo amante.

Non voleva che quei ricordi passassero nella memoria generazionale, dove un suo anonimo successore avrebbe potuto vederli. Chiunque fosse venuto dopo di lui non avrebbe mai provato sulla sua pelle l’ineffabile dolore di essere innamorato di un uomo senza memoria. Non avrebbe mai capito cosa lo avesse spinto a legarsi a un essere così privo di tenerezza. Non avrebbe mai compreso la bellezza nostalgica di una sciarpa, non avrebbe mai contato le sfumature delle iridi ametista, non avrebbe mai tratto gioia dalla primitiva gentilezza del Custode. Non avrebbe mai amato Ivan come lo amava lui. E quelle memorie non avevano senso, senza la sciarada di emozioni incontrollabili in sottofondo. Senza di esse, sarebbe rimasta solo l’immagine che tutta la Confederazione aveva del Custode: un gigante figlio dell’inverno, privo di emozioni e di pietà.

Non voleva passare quei ricordi così preziosi a chi non li avrebbe apprezzati. Il Figlio del Cielo desiderò potersi strappare quelle memorie dal petto, e metterle sottochiave dove solo lui avrebbe potuto consultarle.

Un bacio ruvido si impresse sulla sua tempia, per poi scivolare sulle sue labbra.

Si chiedeva se anche Ivan provasse lo stesso desiderio di poter salvare quei ricordi dalla sete del Cuore d’Inverno, e conservarli in una stanza di quella Fortezza desolata.

Le dita dell’uomo scorsero tra i suoi capelli, lo spogliarono dell’inutile camicia, lo afferrarono di nuovo per i fianchi e lo spinsero ancora verso il basso. Un’onda di calore sorse tra le sue cosce e salì violenta a inondargli il petto mentre si muoveva insieme all’amante. Quella cascata bollente trasmigrò su Ivan: la pelle dell’uomo diventò gradualmente più calda, incontrandosi ripetutamente con la sua.

«Non sei più freddo» notò Yao sulle sue labbra.

Ivan lo cinse in uno dei suoi abbracci opprimenti, e spinse più forte dentro di lui.

«Fa ancora freddo» protestò, arrampicandosi con la bocca sulla sua mascella.

Era il suo modo per chiedergli di restare con lui, di non abbandonarlo al gelo e alla solitudine di quel posto. Di essere il suo sole ancora per un po’.

Un roveto di spine gli frantumò il cuore, lasciandolo senza fiato.

Mosse le dita istintivamente sul petto sussultante, come Young Soo faceva ogni volta che lo vedeva angustiato.

Non fa male, non fa male… non fa più male!

Sarebbe bastata quella formula infantile per scacciare il dolore?

Fissò gli occhi di Ivan, la sua fronte sudata e le sue labbra dischiuse nell’affanno. Sfregò la bocca ansante su quella dell’uomo, come se quel bacio, quell’unione potesse dilatare il tempo e far durare quella notte per sempre.

No, quell’incanto puerile non sarebbe stato sufficiente per lasciare andare Ivan. Una vita intera non sarebbe bastata per liberarsi di quei ricordi dolcemente velenosi.

Erano il prezzo da pagare per il regnante che aveva deciso di innamorarsi dimenticandosi delle regole auree del Palazzo.

Lo avrebbe pagato ogni volta che avesse indugiato nel ricordo di due occhi violacei e freddi, di mani prive di dolcezza e di un’anima congelata. Lo avrebbe pagato, ma non lo avrebbe mai rimpianto; quelle memorie sarebbero diventate delle spine e poi delle spade infisse nel suo cuore, e Yao le avrebbe benedette. Perché, col dolore, sarebbero arrivati i ricordi di Ivan, e quelle immagini erano sufficienti per accettare qualunque supplizio.

L’Asean si inarcò su di lui, le mani nei suoi capelli e la bocca sulla sua. Le mani del Custode percorsero la sua schiena fremente, e scivolarono lungo la sua chioma scura, strattonandola appena con le loro carezze rudi.

Yao cercò di memorizzare e cancellare al contempo le sensazioni, il calore e i colori di quella notte insieme. Avrebbe voluto farne tesoro, ma non voleva incamerarli nel suo sterno di fiamme, che un giorno sarebbe passato a qualcuno che avrebbe guastato quei ricordi con il suo disgusto.

Se solo potessi essere davvero tuo, Ivan…

 

 

 

 

 

Buonasera a tutti<3

Dichiaro conclusa la parte introduttiva della saga orientale: nel prossimo capitolo si entra nel Palazzo<3 E si scoprirà che fine ha fatto il Marauder<3

A parte questo, nulla da dichiarare<3

Spero che vi sia piaciuta la parte RoChu (amo questa coppia, la amo da morire<3) e che abbiate patpattato il povero Gilbert, che meriterebbe tutto l’amore e la tenerezza che quella sadica dell’autrice gli ha brutalmente strappato.

Ci vediamo tra due settimane<3

Red

P.S. Casomani qualcuno di voi se lo stesse chiedendo, visto che un questo capitolo è rispuntato Roderich… sì, più avanti nei capitoli ci sarà un pezzo di “riunione familiare” tra lui e Gilbert, e anche tra lui e Mathias<3

P.P.S. Rinnovo l’annuncio di due settimane fa: se vi viene in mente qualcosa che volete vedere negli spin-off, chiedete pure<3

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Capitolo 20
*** Il Demone ***


Capitolo Venti: il Demone

 

Kiku era straordinariamente taciturno, quel giorno.

Non era mai particolarmente ciarliero, ma quella mattina una cappa di oscurità orbitava nei suoi occhi neri.

«Tutto bene?» domandò Alfred, con il suo sorriso che spazzava via le nuvole.

Non fu sufficiente per le nubi sul volto di Kiku: il Samurai rimase chiuso nel suo tetro grigiore. Annuì a malapena alla sua domanda.

«Precedimi» sancì infine. «Devo vedere il Portavoce del Sole.»

«Ti accompagno…»

«No. Qualcuno deve finire il giro di pattuglia.»

Kiku gli voltò le spalle senza nemmeno attendere una risposta.

Alfred si grattò la nuca e scosse la testa.

Avrebbe potuto dire che Kiku era villano, certe volte, se solo non fosse stato costantemente avvolto da quell’aura carismatica e nobile. Non poteva definirlo “maleducato”; al massimo “altero”.

«Quante cose dobbiamo sopportare noi eroi…» sospirò melodrammatico.

La katana sferragliò contro la pistola. Alfred era uno dei pochi, se non l’unico, a portare armi da fuoco: in quel paese esotico, preferivano affidarsi alle lame e agli incantesimi che li avevano resi celebri in tutta la Confederazione. Tuttavia, l’Aquila era stata addestrata tra le file di Britannia: non si sentiva a suo agio, senza una pistola. Una volta un suo collega gli aveva chiesto perché dovesse sempre portarsi in giro quel ferro vecchio, e Alfred gli aveva risposto che, senza, si sentiva indifeso come se lo avessero fatto girare in mutande. Si era guadagnato uno sguardo molto perplesso e una scrollata di spalle.

Quasi inciampò in una profusione di seta colorata stesa al suolo. Gli occhi di Alfred risalirono quelle pieghe elegantemente raccolte attorno a un corpo di donna, finché non incontrarono il viso più delicato che avessero mai visto, nonché il più simile a quello del loro sovrano.

Grazie a Kiku e al suo incarico all’interno della Stella Polare, aveva avuto qualche occasione di incontrare il Figlio del Cielo, ed era rimasto sorpreso dalla sua bellezza eterea. La stessa che aveva plasmato i lineamenti della donna, elegantemente seduta davanti al cancello di entrata.

Pareva adagiata su un trono, e non su un volgare sasso: la schiena dritta, il collo steso, lo sguardo fiero e la posa elegante delle mani, poggiate sulle ginocchia per trattenere le pieghe troppo lunghe che avrebbero altrimenti toccato il suolo. Non aveva bisogno di accessori appariscenti per imporre la sua presenza: la nobiltà le scorreva nel sangue.

«Posso aiutarla?» si informò Alfred, avvicinandosi di un passo.

La donna girò lentamente il collo da cigno e posò gli occhi di ebano su di lui. Si concesse una lunga analisi prima di decretare:

«Tu devi essere l’Aquila.»

«In carne e ossa, signora» si esibì Alfred, gonfiando il petto con orgoglio.

Le ciglia nere della donna tremarono appena, appuntandosi sul Palazzo.

«Dicono che sei un eroe. Faresti un piccolo miracolo per me?»

«I miracoli sono la mia specialità» si vantò lui.

«Devo vedere mio figlio.»

Il portamento della donna non cedette, ma la voce le tremò impercettibilmente. Alfred ammirava la compostezza dei nobili, anche se riteneva che sarebbe stato molto più salutare per loro essere più onesti con i propri sentimenti.

«So che è malato. Chi non sa del suo coma?» l’agonia di una risata torse le labbra della donna. «Sono mesi che chiedo di essere ammessa, ma pare che nessuno voglia ascoltarmi. Sono le regole: la famiglia precedente del Figlio del Cielo deve abbandonare il Palazzo… ma quale legge è superiore all’affetto di una madre?»

L’Aquila osservò quella donna, annuendo al suo discorso. Cominciava a capire da chi il Figlio del Cielo avesse ereditato il suo carattere deciso e aggraziato al contempo.

«Chiedo solo di vederlo. Se è grave come dicono, se non ci sono speranze per lui…» un minuscolo tremito le percorse le labbra chiare. La donna non riuscì a terminare la frase, quindi ne iniziò un’altra: «Voglio essere al suo fianco. Ho amato mio figlio dal momento in cui ha aperto gli occhi in questo mondo, e ogni giorno in cui sono stata lontana da lui è stato come ricevere una pugnalata in petto. Se questi sono gli ultimi giorni che gli è dato trascorrere insieme a noi…»

«La capisco» Alfred fermò la signora, prima che si addentrasse in un discorso che nessuno dei due voleva affrontare. Nonostante la sua posa impeccabile, gli occhi tremavano di un terrore sotterraneo, lo stesso che scorreva nelle vene di Kiku quando si parlava del futuro incerto del sovrano. E lui era stanco di vedere quella paura infettare l’anima di tutto il popolo di Chugoku.

Era un suo preciso compito sradicare quel panico alla radice. In fondo, gli eroi servivano a quello.

«La scorterò fino alle camere del sovrano» decise d’impulso, offrendo un braccio alla signora.

La nobile lo fissò, titubante. Non era sicura di potersi fidare della flebile speranza che quel giovane straniero le offriva.

«Ne sei sicuro?» domandò.

Alfred era certo che quella cosa fosse contro le regole, che avrebbe avuto un richiamo ufficiale e, nel peggiore dei casi, sarebbe stato bandito dal Palazzo. Ma aveva fatto una promessa a un soldato, tanti anni prima: nessuno gli avrebbe inquinato il cuore. E se avesse lasciato quella donna a languire davanti al cancello, sarebbe stato come dichiararsi sconfitto. Inoltre, Kiku non avrebbe permesso ai consiglieri di cacciarlo, e lui in primo luogo non si sarebbe fatto esiliare tanto facilmente.

«Mi segua» Alfred sfoggiò il sorriso che non aveva avuto effetto su Kiku, e che invece sembrò rasserenare la signora.

La donna si alzò e poggiò la mano delicata sul suo braccio, lasciandosi condurre nelle entrate secondarie e nei corridoi meno frequentati del Palazzo.

«Ho sentito molto parlare di te, Aquila» mormorò la signora, mentre si addentravano nel cuore del Palazzo.

«Scommetto che avete sentito solo storie positive» si inorgoglì Alfred.

«Non proprio» ammise in un bisbiglio ovattato la donna. «Alcuni ti acclamano come un eroe, altri ti additano come pazzo.»

Pazzo. Doveva immaginare che la sua tendenza a scavalcare le norme gli avrebbe procurato qualche nomignolo indesiderato. Ma non era certo colpa sua se le regole a volte erano così assurde: era come se chiedessero di essere infrante. Le uniche cui si era sempre attenuto scrupolosamente erano quelle che Kiku gli aveva chiesto di non dimenticare mai, per nessun motivo. Come la normativa sull’uso delle armi a Chugoku, e il fastidioso obbligo di portare sempre con sé quel fogliaccio che lo autorizzava ad avere una pistola.

«E lei cosa ne pensa?» domandò, incurvando un angolo della bocca in un sorriso amichevole.

La donna socchiuse appena gli occhi, scandagliando i dati in suo possesso.

«Sei una persona bizzarra, Aquila. Ma non sempre la diversità è un difetto. Se non ci fossi stato tu, sarei ancora davanti a quel cancello» sentenziò infine, con un tono morbido.

«Lei è molto acuta, signora» si complimentò Alfred.

La loro conversazione fu interrotta da un tremendo boato. Il pavimento trasalì sotto i loro piedi, e le travi del soffitto scricchiolarono sulle loro teste. Un’immobilità spettrale si stese su di loro come un sudario subito dopo.

Le dita della donna si strinsero sul suo braccio, e i suoi occhi si spalancarono per lo spavento.

«Cosa è stato?» chiese, atterrita.

Un secondo boato, seguito da schianti ripetuti; quella strana melodia crebbe di intensità, e acquistò un sottofondo di tonfi e colpi attutiti.

Una goccia di sudore scese sulla sua tempia quando Alfred realizzò la fonte di quei suoni. La stanza del Portavoce del Sole. Dove si trovava Kiku. Il Samurai stava affrontando da solo qualunque minaccia si fosse presentata in quella camera simile a un obitorio.

Alfred fece strada alla donna, conducendola sotto uno degli stipiti portanti dell’edificio: se anche le mura fossero crollate, quel pezzo di legno sarebbe rimasto in piedi.

«Attenda qui» le consigliò velocemente Alfred. «Chiamerò una guardia, verranno subito a prenderla e la porteranno al sicuro.»

«E tu?»

Alfred portò una mano all’elsa della spada, sfiorando anche l’impugnatura della pistola.

«Io mi occuperò della sicurezza di Chugoku» si incollò sulla faccia l’espressione più rassicurante del suo repertorio. «Sono un eroe, ricorda?»

La donna annuì, e congiunse le mani davanti al viso.

«Ti prego, fai in modo che non accada nulla di male a mio figlio. Eroe.»

Per la prima volta, sentì quell’appellativo pronunciato senza derisione. Il tono serio con cui la donna aveva formulato la richiesta lo fece sentire come se la nobile lo avesse appena nominato cavaliere. Alfred sorrise, inchinandosi alla donna: non era male avere un riconoscimento ufficiale, qualche volta.

«Questo è il compito degli eroi, signora.»

E poi corse, come non aveva mai fatto in vita sua.

Incrociò una guardia sul suo cammino, e gli indicò la posizione della donna, ignorando gli sberci del soldato su quanto fosse illegale quello che aveva appena fatto. Gli ordinò di andare a mettere al sicuro quella signora, se non voleva la sua vita sulla coscienza, e riprese la sua corsa.

Gli schianti si facevano più vicini a ogni passo.

L’eroe sta arrivando, Kiku. Tieni duro.

 

***

 

Arthur e Gilbert furono sorpresi dalla facilità con cui riuscirono a introdursi nel Palazzo.

«Credevo che la corte imperiale fosse difesa un tantino meglio» commentò l’Hellsing, mentre scivolavano senza difficoltà in un corridoio laterale.

«È difesa in modo ineccepibile» contestò in un sussurro garbato Yao. «Ma, ovviamente, le sue protezioni non funzionano sul regnante. E questo beneficio si estende a quanti lo accompagnano.»

Entrambi riconobbero che il Figlio del Cielo non aveva del tutto torto.

Athur svolse il fiore di cristallo dal suo panno, e una sottile scia azzurra si dipanò lungo i corridoi.

Una pennellata di delizia si dipinse sul volto del nobile quando vide dove quella scia fosse diretta.

«Che tipo era, il Marauder?» domandò in un mormorio, prima di guidarli lungo un altro dedalo di corridoi scarlatti.

«Sorrideva sempre» tratteggiò Gilbert. «E trovava sempre il modo di inquadrare un problema per poi trovare la soluzione.»

«Il suo ottimismo era snervante» precisò Arthur.

«Credo di aver capito perché ha scelto il Portavoce del Sole come tramite, allora» Yao non riuscì a reprimere un sorriso: erano quasi arrivati alle stanze di Young Soo, indicate dalla luce del non ti scordar di me. Non poteva più aspettare: voleva salutare suo fratello, abbracciarlo e rassicurarlo, e dirgli che tutto sarebbe andato bene, come Young Soo aveva sempre fatto con lui. Aprì velocemente la porta bisbigliando un incantesimo quando raggiunsero il legno intarsiato.

Yao si stupì di trovare la camera immersa nella penombra: Young Soo dormiva con le tende spalancate perché la stanza potesse essere inondata dai primi raggi dell’alba fino agli ultimi barbigli di tramonto. Dovettero aspettare che gli occhi si abituassero a quella lieve oscurità per individuare il giovane, afflosciato sul trono con una strana angolazione sbilenca.

Arthur batté le palpebre, perplesso: non si era aspettato di trovare un ragazzino immobile. Immaginava che la persona scelta da Francis fosse vivace, irrefrenabile e insopportabile come lui.

Gilbert deglutì, mentre un orribile presagio gli strisciava lungo la colonna vertebrale, accapponandogli la pelle. Aveva già visto quell’irrigidimento, prima.

Yao fu il primo ad accostarsi al trono, e si inginocchiò davanti ad esso. Il cuore gli martellò nelle orecchie tanta fu la gioia di rivedere il fratello; dopo tanto tempo, finalmente poteva riabbracciarlo.

«Young Soo, sono tornato, come promesso...» si era preparato un lungo discorso di benvenuto, ma la voce si affievolì di fronte all’immobilità del fratello. Il Portavoce del Sole non stava semplicemente riposando: aveva gli occhi spalancati e fissi, i lineamenti congelati come se qualcuno avesse sostituito il suo sangue con del cemento, i suoi muscoli e la sua pelle con della pietra.

«Young Soo…» lo chiamò flebilmente Yao, sollevando una mano per toccargli una guancia. La gota si rivelò ghiacciata come quella di un cadavere.

Il Figlio del Cielo non si rese conto che l’Hellsing lo aveva raggiunto; se ne accorse solo quando l’uomo emanò il suo verdetto:

«La Maledizione di Medusa.»

«Cosa significa?» domandò Yao, con il tono sonnolento di una persona sotto ipnosi. Non poteva essere vero, non dopo tutto quello che avevano passato…

«È una tecnica usata dai demoni di alto livello» spiegò l’Hellsing in un ringhio rabbioso. «Non uccide direttamente la vittima. La paralizza, lasciando la sua coscienza viva in modo che possa…» il Mago dell’Ovest gli lanciò uno sguardo ammonitore, e Gilbert alleggerì il peso della frase: «In sostanza, la vittima è pietrificata e muore di inedie.»

«Quindi Young Soo…»

«No. È ancora vivo» lo tranquillizzò aspramente l’Hellsing. «Credo che sia la sua magia a tenerlo in vita.»

Gilbert si morse le labbra per evitare un eccesso di improperi. Era stato imprigionato a Caina, ne era uscito, aveva combattuto contro il suo padre adottivo, aveva raggiunto Chugoku… e quell’idiota di Francis aveva deciso di incarnarsi in un corpo pietrificato. Il motivo della scelta del Marauder era da imputare al fatto che era più facile inserirsi in un corpo solo parzialmente cosciente rispetto a un soggetto pienamente in forze… ma come contava di aiutarli, con le membra di calce?

L’unica soluzione, a quel punto, era uccidere il figlioccio del sovrano; senza l’aiuto di Francis per individuare i fili da tagliare, non potevano fare altro. La cosa avrebbe devastato il Figlio del Cielo.

Non avrebbe nemmeno ottenuto risposta alla sua domanda: con la bocca immobilizzata, il Marauder non avrebbe potuto dirgli dove trovare Matthew. E non avrebbe potuto scherzare, e ridere con loro. Non avrebbe potuto vedere Francis, imprigionato com’era in un corpo cementificato. Uno dei motivi che con più forza lo aveva spinto ad arrivare fin lì era la prospettiva di poter parlare di nuovo con l’amico, e sentirgli snocciolare ottimismi di bassa lega con quel suo accento arrotondato… anche quella consolazione era andata in frantumi.

Sollevò lo sguardo sul Mago dell’Ovest, e vide le sue stesse emozioni riflesse su quel viso: rabbia per l’impossibilità di parlare con il Marauder, e sofferenza per aver perso Francis una seconda volta.

Il Figlio del Cielo non si rese conto del tumulto silenzioso alle sue spalle, ma alcuni di quei pensieri attraversarono anche la sua mente: senza il Marauder, Kiku era condannato. E se anche fossero riusciti a riscuotere Young Soo dal suo torpore, non sarebbe mai riuscito a sopravvivere: l’inedia gli aveva corroso i muscoli fino a lasciare le ossa quasi scoperte, le labbra erano parzialmente rientrate all’interno della bocca, e gli occhi erano infossati nelle orbite e cerchiati di nero.

Aveva perso il fratello e il figlio prima ancora di cominciare a combattere.

Lacrime arroventate gli bruciarono gli occhi, e il Figlio del Cielo riuscì a contenerle solo con enorme sforzo. Era tornato solo per Young Soo e Kiku, e stava per perderli entrambi.

Sollevò le mani tremanti e circondò dolcemente il viso screpolato del Portavoce del Sole. Riusciva a vedere ancora il sorriso del fratello su quelle labbra secche, poteva scorgere lo sguardo furfantesco nei pozzi vuoti dei suoi occhi. Il ricordo di Young Soo si sovrappose all’immagine presente, e il contrasto fu tale che Yao avvertì il cuore andare in pezzi. Il suo fratellino scoppiettante, ridotto a una statua di cenere.

«Mi dispiace…» accostò il viso a quello del giovane per mormorarlo direttamente sulla sua guancia. «Non avrei mai dovuto lasciarti indietro… mi dispiace così tanto…»

«Il demone è ancora in circolazione» gli ricordò Gilbert, incurante dei gesti ammonitori del Mago dell’Ovest.

Yao annuì, deglutendo le sue lacrime. Si alzò, ma riuscì appena a muovere un passo prima che la manica lo strattonasse indietro. Il braccio e il polso di Young Soo giacevano mollemente sul suo fianco, ma le dita avevano trovato la forza di stringersi attorno al vestito del sovrano.

Yao fissò frastornato il viso del fratello, in guerra contro quella prigionia: le guance fremettero e la mascella vibrò, mentre le labbra si increspavano impercettibilmente.

«… e… o’e…»

Uno spillo di luce fece capolino dall’angolo dell’occhio destro del giovane.

«… te… one…»

La lacrima appena nata rotolò sulla guancia scavata del giovane, per poi lanciarsi sul suo gilet blu.

Fu troppo per Yao: le ginocchia cedettero, così come gli argini in cui aveva confinato la propria tristezza. La tunica di Yong Soo si spiegazzò sotto le sue dita mentre lo abbracciava con foga, e la stoffa candida sulle spalle si infradiciò con il suo pianto. Young Soo… il suo vivace, prezioso, insostituibile fratellino…

«Sono qui, Young Soo» il sole nel suo petto ruggì, riscaldando il corpo di pietra tra le sue braccia. «Sono qui con te. Perdonami se non ci sono stato prima.»

Non ebbero tempo di commuoversi per quella riunione fraterna: un boato esplose nella stanza, scatenando un turbine di vento improvviso.

Gilbert piantò la scimitarra a terra per non essere trascinato via, Arthur invocò immediatamente uno scudo protettivo, e Yao si aggrappò con tutte le sue forze al trono e al fratello.

Quando il vortice si placò, la stanza contava un ospite in più.

Un ragazzo asiatico, in un’impeccabile uniforme bianca li fissava con il collo reclinato in un angolo innaturale.

«Non credevo saresti tornato, Figlio del Cielo» sghignazzò il demone. Ignorò completamente gli altri due incantatori, e si avvicinò al sovrano. «Pensavo fossi fuggito per salvarti la vita.»

«Me ne sono andato per chiamare rinforzi» Yao si rialzò lentamente, stendendo un muscolo per volta. Quando parlò, mille sovrani passati condannarono il demone con voce di ferro: «E questa volta ti distruggerò.»

Un’espressione di divertimento osceno sollevò le sopracciglia e aprì la bocca di Kiku.

«E uccideresti il tuo figlioccio, dopo aver perso tuo fratello?» il demone scoccò un’occhiata untuosa alla figura scomposta di Young Soo e valutò: «Se per miracolo doveste riuscire a riscuoterlo dalla maledizione, sarebbe troppo debole per sopravvivere. Lo svegliereste solo per farlo morire, che tragedia…»

«Taci» intimò Yao, irrigidendo le spalle.

Il demone non lo provocò ulteriormente, e indirizzò la sua invettiva contro gli altri presenti.

«Il famoso Mago dell’Ovest e il famigerato Hellsing, quale onore!» li salutò ironico, per poi assottigliare gli occhi in uno sguardo diabolico. «Certo, per me non siete che due persone immensamente tristi. Un povero alieno che rimpiange la sua dimensione natale e un paio di occhi blu, e un cacciatore decaduto che ha lasciato il cuore dentro una tomba gelida.»

La scimitarra di Gilbert stridette feroce, uscendo dal fodero e puntandosi contro il loro avversario.

«Sai cosa cacciano gli Hellsing?» ringhiò, minaccioso.

«Lo so. Come so che non hai mai affrontato un demone del mio calibro» tutto il viso si incurvò in un ghigno malefico, e la bestia infierì: «Anzi, uno lo hai incontrato, ma si è sparato prima che tu potessi affrontarlo…»

Il demone accompagnò il passo con una risata, schivando la scimitarra dell’Hellsing.

«Ma come?» si portò un dito alle labbra, fingendosi sorpreso. «Ero convinto che ti fossi lasciato tutto alle spalle. O almeno, così avevi detto al tuo amico Antonio…»

Fu costretto a interrompersi per evitare un’enorme palla di fuoco. Il Figlio del Cielo dimostrò un controllo dei suoi poteri totale e terribile, dissolvendo le lingue di fiamma prima che potessero incendiare la stanza.

«Adesso basta» sentenziò, gelido.

«Concordo, vostra altezza» il demone si leccò le labbra, come se già pregustasse il sangue. «Adesso basta.»

«Se ti arrendi, mostreremo clemenza» consigliò Arthur. «Uccidendoti senza farti soffrire troppo

La mascella del demone quasi crollò al suolo per le risate che la scossero. Gli occorsero alcuni istanti per ricomporsi.

«E per quale motivo dovrei arrendermi? Oh, siete degli ottimi avversari, nulla da eccepire... ma siete pieni di ombre. Voi e i vostri amici che vi aspettano qui fuori, con quei ridicoli incantesimi di camuffamento.»

Il Mago dell’Ovest sentì un brivido lungo la colonna vertebrale. Come aveva fatto a vedere attraverso le sue magie? Solo un incantatore di livello superiore poteva smascherare gli inganni di un mago di livello inferiore. Ciò significava che quel demone era più forte di lui?

Kiku si avvicinò a una finestra e inspirò a fondo, socchiudendo persino gli occhi, come preda di un’estasi suprema.

«Il giovane Vaticano che si strazia per il fratello, il corsaro senza genitori e senza popolo, un povero padre responsabile della miseria del figlio e della sua gente, un gigante senza memoria… e poi, voi» il demone fece schioccare la lingua, deliziato. «Siete così pieni di tenebre, di rimpianti…»

Una luce sepolcrale adombrò gli occhi scuri. La voce del demone fu simile allo stormire dei cipressi in un cimitero.

«E io mi nutro di ombre.»

Un secondo boato fece tremare l’intero Palazzo; le assi del soffitto scricchiolarono, e le pareti emisero un gemito terribile mentre quella forza violenta le scuoteva.

Una sostanza nera e viscosa si spalmò lasciva sulle finestre, e Arthur imprecò:

«Maledizione! È un incantesimo di isolamento!»

«Sei molto intelligente, Britanno» il demone ghignò, maligno. «O forse dovrei dire Faerie

Avevano portato le loro truppe per nulla: Antonio, Lovino, Roderich e Ivan non sarebbero potuti entrare, con quella melma a bloccare le porte. Forse la Mano Sinistra del Diavolo sarebbe riuscita a spezzare l’incanto, ma avrebbe impiegato interi minuti. E sarebbero stati sufficienti a quel demone per ucciderli.

«In nome del Palazzo di Quarzo!» sbottò Arthur, rivolto a Gilbert. «Quanto diavolo è forte questo demone?»

L’Hellsing rispose con un filo di voce e il viso terreo.

«Tra poco lo scopriremo» ripose la scimitarra per sfoderare l’archibugio. Non poteva richiamare Gilbird nel palazzo: la stanza era troppo stretta, non sarebbe riuscito a muoversi o a difendersi, e sarebbe stato come consegnarlo al demone su un piatto d’argento. «Sa dei Carriedo e degli Hellsing. Temo che questo demone non si sia nutrito solo del risentimento del tuo popolo, Figlio del Cielo.»

«Intendi dire…»

«Si è nutrito anche del dolore della mia gente e di quella di Antonio. Non c’è altra spiegazione. Non sarebbe mai diventato così forte, altrimenti» Gilbert stroncò la domanda di Arthur. Quella bestia schifosa aveva pasteggiato sulla sofferenza di sua madre adottiva, dei genitori di Antonio, di tutti i loro compatrioti…

Strinse le mani sull’archibugio. Gli avrebbe fatto sputare tutto quanto a forza.

Il demone applaudì, ironico.

«Sei davvero scaltro, Hellsing. Ora capisco perché sei sopravvissuto solo tu.»

Il diavolo alzò bruscamente le braccia al cielo, e un vento infernale si sollevò tutto intorno a loro.

«Fino ad oggi, almeno» sogghignò, tracciando una linea obliqua con la katana.

«Barriere! Subito!» gridò allarmato l’Hellsing.

Arthur si avvolse nel mantello salmodiando una litania, Yao portò indice e medio davanti alle labbra che recitavano una formula, e Gilbert mise l’archibugio in verticale, gridando un’unica parola nella lingua antica dei Nibelunghi.

Un suono metallico, come quello prodotto da una spada contro uno scudo, rimbalzò nell’aria tutto intorno.

«Lame di vento?» si sorprese Arthur. Non riuscì ad aggiungere altro: l’avventatezza del Figlio del Cielo gli tolse il fiato.

Yao si disfò dello scudo magico, e si lanciò nella selva di lame invisibili. Un filo di sangue uscì dalla sua guancia candida, uno spruzzo carminio dalla sua spalla, e un rumore di seta stracciata accompagnò il taglio dei suoi capelli: la lunga coda mogano del Figlio del Cielo cadde a terra senza emettere suono, mentre il suo proprietario invocava il potere delle fiamme.

Perfino Kiku indietreggiò di fronte alla ferocia del sovrano. Le braccia di Yao divennero due lunghe lingue di fuoco, che il regnante agitò come fruste in direzione del demone, costringendolo a indietreggiare.

«Come è possibile?» ruggì il Samurai, furibondo. «Tu non dovresti essere così…»

La mano destra del sovrano si sollevò, e si abbassò scagliando una sfera di magma. Il demone non riuscì a schivarla, e ne fu colpito in pieno.

Yao si avvicinò a quel contenitore bruciacchiato: il potere del diavolo aveva evitato la morte, ma non aveva potuto arginare del tutto i danni. Il piede del Figlio del Cielo si abbatté con forza sul suo sterno, bloccandolo al suolo.

I capelli scompigliati dal vento si agitavano in ciocche scomposte ai lati del suo viso marmoreo, e i movimenti fluttuanti della veste scarlatta ricordavano le ali della fenice. Arthur e Gilbert furono quasi atterriti da quella visione: il Figlio del Cielo non si era mai scomposto, non aveva mai perso la sua seraficità. La freddezza guerresca che lo pervadeva lo aveva trasfigurato, facendolo assomigliare pericolosamente al demone inchiodato al suolo.

«Ciò che davvero è da temere è l’ira dell’uomo calmo…» Arthur citò un vecchio detto popolare, incapace di articolare qualcosa di più complesso.

«Non eri così forte!» si ribellò il demone, sibilando come un nido di vipere.

Yao si chinò su di lui, e premette più forte sul suo sterno.

«No» le parole echeggiarono come frustate nell’aria scossa dal vento. «Ero forte anche allora. Ma ero spaventato: avevo paura di far del male al mio figlioccio, o a mio fratello. Ma grazie a te, demone, non ho più paura di niente» Yao chiuse i pugni, che furono immediatamente avvolti da ruggenti lingue di fiamme. «Mi hai strappato mio fratello. Mi stai costringendo a uccidere mio figlio. E, se non ti uccido, perderò la vita e il regno. Grazie a te, demone… non ho più nulla da perdere.»

Calò un pugno sull’essere sotto di lui, ma quello lo bloccò afferrandogli il polso con una forza sovrumana.

«Tu non hai nulla da perdere…» quella risata così simile a degli artigli sul legno di una bara gli graffiò le orecchie. «Ma io ho tutto da vincere!»

Yao fece appena in tempo a liberare il polso e scattare all’indietro prima che il demone vibrasse un colpo di katana nella sua direzione. La lama gli stracciò la tunica sul petto, aprendo un ghigno rosso di sangue sulla sua pelle nivea.

Il vento riprese a ululare, costringendo i tre maghi a erigere nuovamente le loro barriere.

«Accidenti» imprecò Arthur. Su Faerie, dove ognuno nasceva con poteri magici, non aveva mai combattuto; aveva guerreggiato sulle navi al soldo della corona Britannica, ma non aveva mai avuto rivali che sapessero duellare con la magia. Era abituato all’ignoranza dei soldati, e a essere l’unico dotato di poteri magici: non sapeva come reagire a un nemico di tale portata, che riusciva a immobilizzarli in posizione difensiva con un solo incantesimo

Gilbert, invece, aveva lottato con moltissimi demoni, ma pochissime volte con diavoli incantatori, e mai a quel livello.

Il Figlio del Cielo non aveva mai combattuto, pur essendo dotato di poteri immensi.

Nonostante le esperienze differenti, si trovavano tutti inesperti di fronte a quel demone micidiale.

Yao si circondò di fiamme per proteggersi, ma la cosa non sembrò scalfire Kiku, che avanzò inesorabile verso di lui.

In quel delirio, nessuno sentì la porta aprirsi.

«Come hai detto tu, Figlio del Cielo» Heracles svettò contro il soffitto, bellissima e terrificante. «Adesso basta

Un’esplosione di sangue sporcò l’aria e si disperse nel vento turbinante. Ma non fu il sangue del sovrano a essere versato.

Solo Yao riuscì a riconoscere l’uomo parato di fronte a lui: l’Aquila. L’eroe di Chugoku lo aveva salvato.

Alfred barcollò sulle gambe, fiaccato dal dolore lancinante. La spada gli aveva lacerato il busto dalla spalla al fianco, e una cascata di sangue colava dall’orrendo squarcio. Cercò febbricitante di premervi le mani sopra, ma ottenne solo due guanti di un vermiglio brillante.

Aprì la bocca per parlare, e un fiotto di sangue quasi lo soffocò.

Matt aveva provato le stesse cose, quando era morto? Quel dolore che risucchiava il respiro dai polmoni, quel freddo che avvolgeva il cuore, quel terrore opprimente…

Tossì bolle di sangue, mentre biascicava:

«Non so chi tu sia… ma non sei Kiku.»

«Complimenti» lo schernì crudelmente il demone. «Ti sei fatto ammazzare per questa illuminante constatazione?»

Alfred emise un suono strozzato, a metà tra il singulto e il conato, e un fiore cremisi gli scoppiò sulle labbra al successivo colpo di tosse.

«Kiku morirebbe… se risvegliandosi scoprisse… di aver ucciso il sovrano» si avvicinò di un passo barcollante. Doveva far sistemare gli occhiali, il mondo era così sfuocato e tremolante… o forse erano i suoi occhi. Aveva sentito dire che la morte si prendeva un senso per volta, prima di togliere la vita.

Dunque era vero. Stava morendo.

Il demone lo fissò disgustato, mentre l’uomo sanguinante gli appoggiava una mano sulla spalla.

«Che diavolo stai facendo?» domandò, schifato. Come si permetteva quella nullità senza il minimo potere magico, quell’essere così mediocre, di intromettersi tra lui e le sue prede?

Alfred scoprì i denti arrossati di sangue in un sorriso morente.

«L’unica cosa che so fare» rispose. «L’eroe.»

I presenti trasalirono allo schiocco secco dello sparo.

Il demone fissò l’uomo di fronte a sé, inebetito dalla sorpresa, prima di abbassare lo sguardo sul suo petto. Lenta e irrefrenabile, una macchia scura si allargava sulla sua divisa immacolata.

«Sembri un grande mago, ma il tuo corpo è umano» raspò Alfred. «A volte, la soluzione più semplice è… la più efficace.»

Sarebbe morto. Ma sarebbe morto da eroe.

Le labbra di Kiku si spalancarono in un grido agghiacciante, lo stesso delle anime che vengono gettate nell’Inferno per l’eternità. Si graffiò il collo, ululando selvaggiamente, e cadde sulle ginocchia.

Il vento cessò all’improvviso, e Gilbert emise un grido di gioia: la schiena del Samurai stava sussultando in un modo che conosceva bene. Era il primo avviso di un demone che lascia il corpo ospitante. Quel maledetto diavolo non era più così forte, una volta incrinato il suo legame con quel mondo.

«Dove credi di andare?» ghignò trionfante, puntando l’archibugio. Sparò non appena la prima cresta oscura spuntò dalla schiena incurvata del Samurai. Il corpo di Kiku si inarcò bruscamente, e si gettò a terra subito dopo, scosso da spasmi irrefrenabili.

«Avanti, esci, schifezza!» lo spronò barbaramente Gilbert. «Non eri ansioso di farci vedere il tuo potere?»

Di nuovo, l’aiuto venne da un lato insperato. Kiku, il vero Kiku, portò su di loro gli occhi velati da lacrime di dolore, una mano premuta al petto trafitto. Da vero guerriero, non elemosinò per la sua vita; li fissò sconcertato e domandò:

«Che cos’è… c’è qualcosa che… si agita sotto la mia pelle…»

«È un demone» Gilbert caricò il secondo colpo dell’archibugio: non c’era tempo per le spiegazioni complicate. «Ti sta usando per rimanere aggrappato a questo mondo.»

Kiku batté le palpebre sugli occhi lucidi. Non capiva cosa stava succedendo: ricordava solo di essersi infilato la divisa, e poi nulla fino al momento in cui si era ritrovato a terra con un foro di pallottola nel petto. Quando era successo? Quando gli avevano sparato? Chi era stato? Perché?

E Yao, con la tunica sbrindellata sul petto e i capelli più corti che lo fissava. Quando era guarito? Perché lo guardava come se stesse vedendo un fantasma?

E Alfred, accasciato in una pozza di sangue accanto a lui, che lo accarezzava con i suoi occhi cerulei.

«Bentornato, Kiku» le labbra tremarono per lo sforzo di incurvarsi in un sorriso stremato.

«Sono stato io?» il Samurai articolò la domanda in uno stridio: il demone aveva ricominciato a sgroppare dentro di lui. Non ricordava nulla di quanto fosse successo; e la dimenticanza era il primo segnale di colpevolezza, nel suo credo di ferro. «A fare tutto questo…?»

«Non tu. Il demone» la voce di Yao tremava. Non l’aveva mai sentita tremare prima di allora…

Il demone. Quella bestia che si agitava sotto la sua pelle. Da quanto era lì? Perché non se ne era mai accorto? Quali altri orrori aveva compiuto, servendosi del suo corpo?

Non aveva una risposta a quelle domande, e il dolore sordo che dal petto stava avviluppando tutto il suo corpo non gli permetteva di ragionare con chiarezza.

Un’unica verità si fece strada nella sua mente confusa: l’uomo con gli occhi rossi aveva detto che lui era l’ancora di quel demone. Se lui non ci fosse stato…

Aveva un pugnale, stretto in una fondina sulla tibia. Lo estrasse velocemente e, prima che il sovrano potesse fermarlo, lo conficcò nel suo ventre con forza.

Delle braccia familiari si strinsero sulle sue spalle ricurve, e Kiku avvertì delle lacrime di sollievo scaldargli gli occhi. Il sovrano gli era mancato da morire.

«Cosa stai facendo?» la voce di Yao vacillava sull’orlo del pianto. Di nuovo, non avrebbe saputo dire quando era stata l’ultima volta che lo aveva sentito così disperato.

Kiku voltò la testa verso di lui, malfermo.

«Quello che ho giurato di fare il giorno della mia nomina a Samurai» il guerriero contorse il viso in una smorfia, lottando per il fiato: non era facile parlare con una lama conficcata nella pancia. «Difendo Chugoku e il suo sovrano.» 

Le lacrime del Figlio del Cielo gli bagnarono il collo, e le sue braccia gli abbracciarono il capo con più forza mentre faceva passare la lama in orizzontale e poi in verticale sul suo busto, secondo il rituale dell’harakiri. Alfred stava morendo da eroe; lui sarebbe morto da Samurai.

Il demone non riuscì a rimanere oltre in quel corpo a pezzi: ne uscì bruscamente con un gemito innaturale, e Gilbert ne approfittò immediatamente.

Il secondo colpo di archibugio abbatté il diavolo al suolo, e l’Hellsing estrasse la scimitarra avvicinandosi a lui.

Osservò ciò che rimaneva dell’essere che li aveva bloccati poco prima: una poltiglia senza forma, di un nauseabondo colore scuro, che si contorceva sul pavimento.

«Tu» la spada indugiò su quella fanghiglia animata. Gilbert chiuse gli occhi un istante, e il volto che più aveva amato comparve dietro le palpebre. La storia dei demoni stava per finire: Matthew poteva riposare in pace. «Tu sei l’ultimo

Vibrò il colpo finale senza alcuna pietà: la massa pulsante emise un suono stridulo e inarticolato prima di dissolversi sotto la sua lama in un puzzo di carne bruciata.

Gilbert si voltò, ma non riuscì a inneggiare alla vittoria.

Il ragazzo piombato all’improvviso nella battaglia giaceva al suolo, tremendamente immobile, e Yao reggeva tra le braccia il suo figlioccio, ormai prossimo all’ultimo respiro.

La porta della camera si spalancò bruscamente, e delle guardie irruppero nella stanza. Fissarono inorridite il lago di sangue, allucinate gli stranieri e trasecolate il loro sovrano.

«Chiamate i medici» ordinò Yao.

«Signore…»

«Chiamate i medici adesso

Erano chiaramente desiderosi di sapere cosa fosse successo, perché il regnante fosse uscito all’improvviso dal coma, chi fossero quegli stranieri, ma il tono del Figlio del Cielo non ammetteva repliche: corsero nei corridoi chiamando a gran voce i dottori di corte.

Arthur si avvicinò ai feriti e offrì:

«Conosco alcuni incanti di guarigione.»

«Prima… lui…»

Il Mago dell’Ovest voltò la testa verso il giovane biondo, che sputacchiava le sue ultime parole nel suo stesso sangue.

«Non io… prima lui…»

Arthur gli appoggiò una mano sulla testa, per tranquillizzarlo nella sua agonia.

«D’accordo. Curerò prima lui. Non agitarti.»

Impose poi i palmi sul ventre squarciato di Kiku, e richiamò le sue energie taumaturgiche.

Yao si allontanò per permettere all’incantatore di lavorare e un gracidio flebile lo raggiunse alle spalle.

«Sei to… torna… to… fratel… lone…»

Morto il demone, anche la maledizione imposta sul Portavoce del Sole si era sciolta.

Il Figlio del Cielo si precipitò di fronte al trono su cui giaceva Young Soo. Nonostante le membra stremate e avvizzite nell’inedia, la luce negli occhi del fratello era quella che ricordava, più brillante del Sole di cui era il Portavoce.

Yao afferrò una delle sue mani nodose dal colore delle cortecce, e se la portò alle labbra.

«Sono qui. Perdonami se ci ho messo tanto.»

Young Soo mosse impercettibilmente il capo in un cenno di diniego.

«Non importa. Lui mi aveva detto… che saresti tornato…»

«Lui?»

Il respiro uscì in un raspare crepitante dalle labbra secche di Young Soo.

«Il Marauder…»

«Come hai fatto a parlarci? Non si era incarnato dentro di te?» obiettò Gilbert.

Il Portavoce del Sole chiuse le palpebre. Parlare era uno sforzo tremendo, dopo quasi un anno di immobilità.

«Io ero solo un passaggio… aspettava che il suo vero corpo arrivasse…»

La fatica fu troppa per quel corpo debilitato: Young Soo tacque, inclinandosi in avanti con il busto per cadere tra le braccia protese di Yao.

«Bentornato a casa, fratellone…» esalò, prima di perdere i sensi.

Un rombo di passi concitati si gonfiò nel corridoio; Antonio, Ivan, Lovino e Roderich si precipitarono nella sala, ancora avvolti dall’incantesimo di camuffamento.

«Cosa è successo? Non siamo riusciti a…»

La gravità della situazione li imbavagliò. Il Figlio del Cielo singhiozzava, reggendo tra le braccia una mummia respirante. Il Samurai giaceva al suolo, una magia di guarigione dorata che lavorava faticosamente sulla lacerazione che gli apriva l’addome, rosso come tutti i paramenti della stanza. Il Mago dell’Ovest era chino su un giovane sconosciuto, affondato in un mare di sangue.

L’Hellsing osservava la scena, immobile e cinereo.

«Abbiamo sconfitto il demone» annunciò.

Ma non aggiunse altro.

 

 

 

 

 

 

 

… in realtà il capitolo doveva essere molto più lungo XD

Ma ho avuto alcuni inconvenienti nonché problemi familiari, quindi ho dovuto dividerlo a metà .-. Ergo, la saga asiatica si concluderà nel prossimo capitolo (che in realtà era la seconda parte di questo… eh XD).

In ritardo di una settimana, per le motivazioni di cui sopra .-. è stato davvero un periodo duro .-.

 

Anyway, voglio ringraziarvi tutti per essere arrivati fino a questo punto della storia *-* Al termine della saga asiatica, si aprirà l’arco narrativo finale… la storia dovrebbe concludersi verso il capitolo trenta.

E un grazie di cuore a tutti voi che avete recensito lo scorso capitolo: domani risponderò alle vostre recensioni una per una<3 (oggi non faccio in tempo purtroppo .-.) Mi avete scaldato il cuore<3

 

Che altro aggiungere… una tazza di the verde a tutti voi che avete letto/recensito/speso una lacrimuccia per questa storia<3 Per restare in tema “Asia” XD

 

Ci vediamo tra due settimane<3

Red

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Capitolo 21
*** Le Stelle di Chugoku ***


Capitolo Ventuno: le Stelle di Chugoku

 

Arrivavano appena alle spalle. La chioma color mezzanotte che tanto amava era stata recisa brutalmente.

Lo avevano anche sfregiato in viso: un piccolo taglio rosso correva orizzontale sulla guancia pallida.

Ivan non degnò nemmeno di uno sguardo la mummia arenata sul letto. La sua attenzione, come sempre, era concentrata solo su Yao.

Il sovrano era rimasto tutta la notte al capezzale del fratello, mentre il Mago dell’Ovest cercava di restituire coscienza al Samurai e vita all’Aquila. Doveva essere crollato da poco: le ombre scure sotto i suoi occhi indicavano chiaramente la mancanza di sonno.

Ivan tolse il guanto, prima di far scorrere le sue dita d’inverno tra capelli mozzati del giovane. Yao tremò per quello spiffero gelido, ma non si svegliò: mosse le labbra e le spalle, prima di tornare immobile.

Ivan torse la bocca, seccato, quando il suo sguardo scese sulla tunica del sovrano. Lo scontro l’aveva ridotta a una misera ragnatela di seta aggrappata agli arti sottili del giovane. Per i suoi occhi gelosi, Yao era praticamente nudo.

Sbottonò il cappotto, e lo drappeggiò sull’amante, avendo cura di coprirlo il più possibile. Nessuno doveva vedere il suo torso sottile, o la sua vita stretta.

Le mani di Ivan si fermarono sulle spalle del giovane, pensierose. Aveva ancora senso proteggerlo? Yao non era più il ragazzo asiatico perso nella sua Fortezza; era il Figlio del Cielo, signore del Palazzo.

Un imperatore non poteva separarsi dal trono. Non per un castello fluttuante pieno di gelo e spettri, perlomeno. E nemmeno per il suo glaciale possessore.

Yao non era più suo.

«Il fratellone ti ama.»

La voce della mummia scricchiolò nell’aria immobile della stanza.

Il piccolo asiatico sorrise quando gli occhi duri del Custode si sollevarono su di lui.

«Non si è svegliato quando sei entrato. Non si è svegliato quando l’hai toccato o quando l’hai coperto. Significa che è abituato alla tua presenza e al tuo tocco. E se ti ha permesso di toccarlo, significa che ti ama.»

Il petto del piccoletto cigolò, sollevandosi in un pesante sospiro. Era il discorso più lungo che avesse tenuto nell’ultimo anno. Un tempo sarebbe occorsa una colata di cemento per farlo tacere.

Ivan indugiò di nuovo con lo sguardo su Yao. Innumerevoli altre persone lo avrebbero visto – sudditi, soldati, un giorno la sua futura moglie. Ma nessuno avrebbe amato come lui l’ombra che le ciglia stendevano sugli zigomi candidi, il neo quasi invisibile all’angolo sinistro delle labbra, o la scintilla che si accendeva nelle iridi scure del sovrano quando sorrideva. Nessuno avrebbe avuto lui soltanto come ricordo.

«Potrei essere un rapitore. Non sai che esistono i criminali, in questa Galassia?» replicò freddo Ivan.

«Non sai che il fratellone è uno degli incantatori più potenti di questa Galassia? Ti avrebbe incenerito, se gli avessi fatto qualcosa contro la sua volontà» gracidò l’altro.

La mummia sprofondò nei cuscini, esalando un altro dei suoi sospiri scricchiolanti.

«Non sopravvivrò fino all’alba» sentenziò Young Soo, con una calma serafica nella voce. Aveva avuto un anno di immobilità per accettare l’idea che sarebbe morto una volta liberato dalla maledizione. «Ed è un peccato. Avrei voluto accompagnare il fratellone fino all’ultimo atto…» una risata crepitò sulle sue labbra secche. «Invece, a quanto pare, sarà il fratellone ad accompagnarmi verso la fine…»

Young Soo chiuse gli occhi, e inalò a fondo. I polmoni stridettero mentre l’ossigeno li riempiva. C’era stato davvero un tempo in cui respirare non gli aveva fatto male?

«Nemmeno Kiku… riuscirà a vedere la fine di questa guerra» profetizzò. «Ti prenderai tu cura del fratellone, quando noi non ci saremo più?»

Ivan ripensò alla riunione della sera prima. Avevano parlato di distruggere la Confederazione, e scappare in una nuova dimensione.

«Quando questa guerra sarà finita, questo universo finirà con lei» sillabò tetro.

«Quale occasione migliore per ricominciare da zero? Niente più Figlio del Cielo né Custode dei Cancelli» le labbra del giovane si stropicciarono in un tentativo di sorriso. «E non devi preoccuparti del Cuore d’Inverno. Non distruggerà i ricordi del fratellone. Il fratellone ti darà ogni giorno un nuovo motivo per ricordarti di lui.»

Le sopracciglia argentee di Ivan si aggrottarono in un’espressione infastidita. Come faceva quel nanerottolo a sapere tante cose su di lui?

Il ragno sul suo petto rispose al suo posto: era un mago, e ai maghi piacevano un mondo quei trucchetti da tre soldi che chiamavano “telepatia”.

«Smettila di intrufolarti nelle menti altrui» lo avvertì.

«Non mi sto intrufolando. Sto solo deducendo» la mano scavata si appoggiò sul petto mingherlino. «Basta guardarvi per capire molto più di quanto qualunque incantesimo potrebbe mai rivelare.»

Ivan scrollò le spalle, e si diresse verso la porta. Con o senza incantesimi, detestava le persone che gli leggevano il cuore.

«Promettimi…» un accesso di tosse secca soffocò il Portavoce del Sole, prima che questo riuscisse a parlare di nuovo. «Promettimi che non permetterai che accada nulla di male al fratellone.»

Era la promessa cui aveva votato la sua vita. Aveva bisogno di qualcuno che la mantenesse al posto suo, una volta che i suoi polmoni si fossero stancati di respirare.

La sciarpa frusciò sulla camicia dell’uomo quando questo si voltò.

«Sono il Custode. Non sai cosa fanno i custodi?»

«Custodiscono, se non ricordo male» rise crepitando il piccoletto. «Però non ti sto chiedendo di custodire. Ti sto chiedendo di proteggerlo.»

Il sorriso debole del giovane si allargò impercettibilmente, notando il cappotto sulle spalle di Yao.

«Ma vedo che lo stai già facendo. È il tuo modo di schermarlo agli occhi altrui, vero?»

Ivan uscì dalla camera. Maghi. Ecco perché non li sopportava. Né loro né il loro vizio di predicare senza sosta.

Quasi si scontrò con il Samurai, che stava invece cercando di entrare nella stanza.

Il guerriero gli cedette il passo: non era di certo nelle condizioni per discutere con una montagna d’uomo alta tre volte più di lui.

Scivolò nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle. Un crepitio lo accolse.

«La mia vista è peggiorata ulteriormente o hai dei bendaggi sul petto?»

«Sei abbastanza furbo da conoscere la risposta da solo, Young Soo.»

«Non tutte le risposte. So che sei stato fasciato, ma non so cosa nascondono quelle bende.»

Kiku pensò a come dovevano rifletterlo le iridi stanche del fratello. Indossava ancora i pantaloni della divisa da Samurai, sebbene macchiati di sangue. Le fasce che coprivano lo squarcio e il foro di proiettile sul suo busto avevano sostituito l’elegante giacca bianca, che il giovane aveva appoggiato sulle spalle per proteggersi dagli spifferi.

Quasi rise per l’ironia di quel pensiero. Aveva due ferite mortali sul petto, e si era preoccupato dei colpi di vento. Era un riflesso condizionato che non poteva evitare: aveva perso il conto delle volte in cui Yao si era chinato su di lui per coprirlo con una sciarpa o un mantello, rimproverandolo di non prendersi cura della propria salute.

Kiku si avvicinò al letto, e restò in piedi, marziale, di fianco al sovrano addormentato.

«Incredibile» gracchiò Young Soo. «Di tutto il tuo vestiario, Kiku, le bende sono l’unica parte immacolata. Non dovrebbe essere il contrario?»

«Vedo che la tua mente è sempre affilata come un rasoio» notò pacato il Samurai. I pantaloni erano schizzati di sangue, così come la giacca. Le fasce, al contrario, erano linde e immacolate come se fossero appena uscite dalla valigia del medico. Quel candore significava solo una cosa: magia. Le garze non servivano a trattenere una ferita, ma solo a nascondere le rune che il Mago dell’Ovest aveva tracciato sul suo petto e sui suoi addominali, per dare una parvenza di normalità in quel Palazzo sprofondato nella follia: era stato ferito, era logico che fosse bendato.

Gli occhi di Young Soo luccicarono nella penombra della stanza.

«Il fratellone non si sveglierà: era esausto, e impiegherà ancora almeno venti minuti per svegliarsi.»

«Come fai a saperlo?»

«Sono un mago, ricordi?»

Kiku chinò il capo, comprensivo. Young Soo aveva quell’intonazione così calorosa, come se il mondo fosse un gigantesco parco divertimenti a sua disposizione. Perfino in quel momento, bloccato a letto con le membra fossilizzate e la morte nelle vene, riusciva a instillare nelle sue parole l’eco di una risata perpetua.

Il mondo non sarebbe più stato un gioco divertente, senza Young Soo.

«So che non vuoi che il fratellone senta cosa ti ha detto il Britanno, perciò parla adesso che non può sentirti.»

L’unico suono nella stanza fu la custodia della katana che sfregava contro i pantaloni del Samurai, mentre questo circumnavigava il letto per portarsi sul lato opposto al sovrano.

Infine, parlò.

«Uno sparo in pieno petto. L’harakiri. Sono troppe cose da sopportare, per un mortale.»

«Ma sei vivo…»

«Momentaneamente» Kiku portò una mano al petto. Prima che il Mago dell’Ovest potesse fasciarlo, aveva visto la carne rossa e viva dal bordo frastagliato delle ferite, era perfino riuscito a intravedere il cuore pulsare e il colore bollente delle interiora. L’unica cosa che il Britanno aveva potuto fare, per lui, era stata bloccare il tempo su quei lembi di pelle.

«Ero troppo oltre, Young Soo. Ero praticamente morto. Il Mago dell’Ovest non è riuscito a guarirmi. Nessun mago può interferire con la morte, quando è troppo vicina.»

Il Portavoce del Sole annuì. Lo sapeva. Era per quel preciso motivo che lui non poteva salvarsi: nemmeno la magia più potente poteva bloccare la nera signora, quando questa aveva già sollevato la falce.

Forse solo l’Asse sarebbe riuscito in un’impresa simile. Ma era a mille preghiere di distanza – troppe per aiutarli in tempo.

«Ha cristallizzato le ferite» proseguì Kiku. «In modo che rimangano bloccate e non possano degenerare.»

«Per quanto?» gracchiò Young Soo. Da mago qual era, sapeva bene che tutti gli incantesimi che interferivano con il tempo avevano una caratteristica comune: essere limitati nel tempo.

Il Samurai strinse i bordi della giacca appoggiata sulle sue spalle, coprendo i bendaggi.

«Se starò a riposo, un mese, forse due. Se andrò in battaglia…»

«Se andrai in battaglia, verrai presto a farmi compagnia» terminò per lui Young Soo.

I suoi fratelli erano un imperatore e un guerriero, ma lui era sempre stato quello più coraggioso nelle parole. Non aveva mai paura di afferrare quelle frasi che la gente lasciava sospese nell’aria, troppo grandi per essere racchiuse in un discorso. Young Soo aveva il dono di riuscire a catturarle e trasformarle in qualcosa di tremendamente vero e terribilmente affettuoso al contempo. C’era sempre un messaggio dietro alle sue parole e al suo sorriso infaticabile: “arriverà il peggio, ma lo affronteremo insieme”. Young Soo aveva sempre la premura di ricordare agli altri che non erano soli.

«Quindi che farai, Kiku?»

«Sono un guerriero» fu la risposta schietta del Samurai.

«Ma non combatterai solo perché sei un soldato»

Youg Soo reclinò il capo sul cuscino, attendendo che il fratello selezionasse le parole più adatte al suo discorso.

«Un uomo coraggioso un giorno mi disse che un vero eroe non deve mai tradire il proprio cuore. Penso che un vero guerriero debba fare altrettanto. Per questo difenderò mio padre fino alla fine.»

Young Soo sentì il suo viso rinsecchito sgretolarsi nel sorriso più aperto che avesse fatto da quando era stato liberato.

«Hai scelto un uomo poco saggio, come guida» rise, pensando all’assurdo eroe di Chugoku, l’Aquila.

«Una saggezza che nasce dal coraggio e fa nascere la speranza credo sia una saggezza che merita attenzione» replicò sereno il Samurai.

Young Soo rilasciò uno dei suoi respiri crepitanti, e una domanda scivolò sulle sue labbra screpolate:

«Come sta l’Aquila?»

Il silenzio colò come resina tra di loro. Kiku impiegò tutta la sua forza di volontà per districarsi da quel mutismo viscoso.

«Le ferite inflitte da un demone sono molto più complicate di quelle provocate da armi mortali. Il Mago dell’Ovest sta ancora lavorando…»

«L’Aquila non morirà. Cambierà, ma non morirà.»

La fronte candida di Kiku si aggrottò, confusa.

«Come puoi dirlo?»

«Me l’ha detto il signore che mi ha fatto compagnia nell’ultimo periodo» Young Soo lottò con le parole che faticavano a risalirgli la gola. «È un signore molto particolare. Ma non mente mai, e ha una conoscenza infinita su queste cose. Il passaggio tra la morte e la vita, sai. L’Aquila non morirà. Ma cambierà un po’ il piumaggio.»

Kiku preferì non indagare oltre. Avrebbe accettato il destino di Alfred quando fosse giunta l’ora. Per il momento, doveva capire in che modo dire addio al fratello morente.

Fu proprio Young Soo a dargli l’idea.

«Mi dispiace che il cielo di Chugoku sia ancora nero… avrei tanto voluto accendere le stelle insieme a voi…»

«Young Soo, sarò di ritorno tra pochi minuti. Perdonami» scattò, avviandosi veloce verso la porta.

Il Portavoce del Sole si limitò a sorridere, mentre il fratello usciva dalla stanza.

Kiku era sempre stato così: poche parole, molte azioni. Esattamente come ogni soldato doveva essere.

Era convinto che fosse riuscito a diventare un Samurai perché era un guerriero non solo sul campo di battaglia: lo era in ogni momento della sua vita, con le sue frasi impersonali e i suoi atteggiamenti marziali. Era l’incarnazione della via della spada.

«Per questo posso affidarti il fratellone senza problemi…» una risata gli arricciò le labbra, mentre osservava il pesante cappotto sulle spalle del sovrano.

«A te e al lupo siberiano» concluse, in un ansito tremante.

 

***

 

Dare ordini, assicurarsi che venissero eseguiti, darne altri, correre, scattare.

In quel modo, Kiku riuscì a non soccombere al senso di colpa, quando abbandonò la stanza.

Il demone aveva ucciso Heracles per avvicinarsi a lui, aveva detronizzato Yao e pietrificato Young Soo per mano sua, e aveva quasi ucciso l’Aquila.

Il pensiero di Alfred lo raggelò per un istante. “Quasi” ucciso. L’Aquila poteva essere già morta: quando aveva abbandonato la stanza in cui erano stati ricoverati insieme, il Mago dell’Ovest stava ancora lavorando su di lui. E le condizioni dell’eroe non erano delle migliori.

Dare ordini. Correre. Scattare.

Doveva assicurarsi che tutto fosse pronto prima del calar del sole: non avrebbero avuto una seconda occasione, così come Young Soo non avrebbe avuto un’altra notte da vivere.

Doveva fare ammenda per tutto il male che aveva causato, anche se era stato solo il canale di quella malvagità. Il suo modo per riscattare il suo onore sarebbe stato proteggere il Figlio del Cielo fino all’ultimo, e morire per lui. Morire per Chugoku e per la Confederazione.

Le bende sul suo petto sembrarono strangolarlo. In un certo senso, lo aveva già fatto: era un morto cui era stato permesso di soggiornare nel mondo dei vivi ancora per un breve periodo.

«Quanta frenesia. A cosa dobbiamo questi preparativi?»

Il tempo perse improvvisamente di significato: i secondi si allungarono collosi, rendendo tutto lo spazio circostante indistinto e sfuocato.

Riconosceva quella voce. Ma non pensava che l’avrebbe sentita di nuovo, non credeva…

Il Samurai si voltò solo quando fu sicuro di aver recuperato il suo contegno.

L’Aquila lo fissava, appoggiato alla parete con le braccia incrociate sul petto, un sorriso che indugiava sulle labbra.

Alfred armeggiò qualche secondo con gli occhiali, stranamente silenzioso. Trasse un respiro, e un secondo, e un terzo. Poi, finalmente, esordì:

«Non sarò qui a lungo. Mi è stato concesso solo qualche momento per… salutare.»

Lo squarcio dell’harakiri sembrò riaprirsi, ma il dolore non riuscì a distorcere la compostezza adamantina del guerriero.

«Il Mago dell’Ovest ha applicato anche su di te un incantesimo temporale?»

«No. Il mio caso era molto più complicato del tuo. Gli artigli di un demone lacerano più a fondo di una spada umana. O di una pistola.»

Le dita di Alfred tambureggiarono sui gomiti conserti, inquiete. Di nuovo, un silenzio quasi innaturale prese possesso di quella bocca sfrontata. Di nuovo, Alfred parlò con lentezza e rassegnazione:

«Vedere la fine di questa battaglia, Kiku… non è il mio destino. Ma, in un certo senso, ci sarò ugualmente.»

Le sopracciglia nere dell’orientale si aggrottarono perplesse, e si sollevarono nella comprensione. Young Soo aveva parlato di un uomo che gli aveva fatto compagnia, e di essere stato un contenitore momentaneo…

«Il mio tempo è scaduto» sentenziò Alfred, stropicciandosi la faccia con un sorriso sforzato. «Ma c’è un uomo che ha bisogno di un corpo vuoto per accompagnare i suoi amici fino alla fine di questa guerra.»

«Quindi ci sarà solo il tuo corpo» dedusse ferreo Kiku.

Alfred si grattò la nuca, il sorriso che si ritorceva inquieto sulla sua bocca.

«Non è così semplice. Pare che una parte della nostra essenza rimanga ancorata alla pelle, o una cosa del genere. In fondo, è logico che qualcosa di noi rimanga, in un corpo che abbiamo usato per tanti anni…» l’Aquila scrollò le spalle. «Dovrai chiedere a quell’altro una spiegazione più dettagliata.»

Kiku deglutì in silenzio, osservando la giacca attentamente abbottonata del giovane. Sicuramente anche lui era stato bendato, laddove gli artigli del demone gli avevano squarciato la cassa toracica. Ma aveva avuto la premura di abbottonare la giacca fino al collo, pur di non lasciar intravedere nemmeno un pezzettino dei bendaggi. Kiku si sarebbe sentito terribilmente in colpa, se avesse visto di nuovo cosa il demone era stato in grado di fare.

Il Samurai fissò intensamente l’uomo di fronte a lui. Gli era stato vicino per anni, nonostante lui non gli avesse mai riservato particolare gentilezza. Aveva dimostrato una fedeltà e una devozione che aveva visto solo in pochi soldati. E non gli aveva permesso di andare in pezzi, quando suo fratello e suo padre erano caduti nell’inganno del demone.

Meritava una ricompensa, in qualche modo. E Kiku decise che una briciola di sincerità sarebbe stata il dono migliore.

«Voglio essere onesto con te, Alfred. Te lo devo visto che… siamo entrambi in partenza» concluse a stento. Incamerò un profondo respiro nel petto malandato e confessò: «Hai sempre fatto un grosso sforzo per assomigliarmi: hai cercato di reprimere il tuo carattere euforico, quando eri con me. Quando eri con i tuoi uomini, invece… brillavi.»

Alfred sfolgorava con i suoi uomini, e spegneva a forza il suo fuoco per stare con lui. Come una gemma che si copre di polvere per essere degna di un sasso.

«Ho sempre preferito il tuo lato irrequieto a quello addomesticato.»

Una risata si spezzettò sulle labbra del soldato straniero, mentre spingeva gli occhiali sul naso.

«Avresti dovuto dirmelo prima, Kiku, ti avrei fatto vedere quanto posso essere scellerato…»

«È vero. Avrei dovuto essere sincero molto prima.»

Le parole del Samurai non si flessero sotto il peso delle emozioni: quella frase, che avrebbe potuto essere lorda di rimpianto, scattò fuori dalle sue labbra rigida come un comando militare.

Era il solo modo che Kiku conosceva per difendersi. Avrebbe sofferto troppo se avesse cominciato a contare tutte le occasioni sprecate e i minuti perduti. Lo aveva già fatto per Heracles, e non voleva passarci attraverso di nuovo.

Le braccia dell’Aquila lo circondarono prima che se ne rendesse conto, e lo strinsero con un affetto irruento.

«Spero di incontrarti anche nella prossima vita.»

La voce dell’Aquila traballò, e Kiku accarezzò distrattamente le sue spalle contratte. Alfred stava lottando con tutte le sue forze contro le lacrime. Piangere significava ammettere che qualcosa stava andando per il verso storto, e non era così: non era un addio, era solo un arrivederci, si sarebbero sicuramente visti in qualche mondo, in qualche modo. Lui era un eroe, poteva fare questo e altro.

«Spero che tu possa incontrare qualcuno che sappia amare» replicò sterile Kiku.

L’Aquila era una persona di cuore: meritava qualcuno che lo amasse con la passione che lui metteva in ogni respiro. Meritava più di un compagno occasionale, che gli apriva il corpo e non il cuore.

Alfred si scostò per prendergli il viso tra le mani e fissarlo in volto. Ora poteva vedere le lacrime scintillare dentro quegli occhi azzurri, come Alfred poteva leggere la tristezza incarcerata nei suoi.

«Tu sei l’unico a non rendersi conto di quanto profondamente tu riesca ad amare» il sorriso di Alfred brillò a discapito delle lacrime intrappolate negli occhi. «Hai liberato Heracles e tutti i tuoi compagni all’orfanotrofio, hai dato la vita per tuo padre e per tuo fratello, e mi hai dato fiducia quando per tutti ero uno straniero e basta. Hai un’anima grande come il cielo.»

L’Aquila lo abbracciò di nuovo, e accostò le labbra al suo orecchio per bisbigliare:

«E anche se tu non sapessi amare, non importa. Ti aspetterò nella prossima vita. O in quella dopo. Ti troverò, e ti insegnerò.»

«Perché?» proruppe con garbo Kiku, scostandosi da lui. «L’universo è pieno di persone.»

«Esatto. L’universo è pieno di persone. Proprio per questo, quando ne troviamo una diversa da tutte le altre, non credi che valga la pena fare qualche sacrificio per rimanerle accanto?»

Sacrificio. La gente pensava che l’amore vero fosse qualcosa di semplice, pieno di felicità. Un’immagine più sbagliata non esisteva: l’amore era una lotta continua, con pochissimi attimi di tregua. Aveva lottato per liberare Heracles, aveva combattuto per suo fratello e suo padre, e aveva ingaggiato una guerra personale con se stesso per il sentimento conflittuale che nutriva per l’Aquila. Allo stesso modo, il soldato di Britannia aveva guerreggiato ogni giorno per ottenere il suo affetto.

L’amore vero non era diverso dalla via della spada: entrambi richiedevano dedizione e impegno, e ricompensavano solo dopo immensi sacrifici.

Kiku strinse i pugni sui gomiti di Alfred, spiegazzandogli quella buffa giacca che si ostinava a indossare. L’Aquila gli indirizzò un sorriso malinconico.

«È quasi ora…»

Una cosa del genere esulava dal suo carattere, ma non ci sarebbero state altre occasioni.

Kiku si alzò sulle punte dei piedi, e unì le labbra a quelle dell’Aquila. Non aveva mai preso l’iniziativa, prima di allora.

I piedi persero aderenza con il terreno quando Alfred lo sollevò da terra in un abbraccio caloroso, approfondendo il bacio con foga.

Kiku si aggrappò alle sue spalle, e sentì le guance imporporarsi di imbarazzo. Quel bacio era osceno: si stavano divorando le labbra, e suoni acquosi sfuggivano dalle loro bocche in movimento. Ed erano in un corridoio, chiunque avrebbe potuto inciampare nella loro frenesia. Ma era l’ultimo bacio: avrebbe fatto un’eccezione.

Riaprì gli occhi solo quando i suoi piedi toccarono di nuovo il pavimento, e le labbra di Alfred lasciarono lentamente le sue.

Kiku sprofondò il viso nella camicia dell’Aquila, premendo sulla stoffa la bocca ancora calda. Su quell’indumento bisbigliò per la prima volta il nome del soldato:

«Alfred…»

«Se ne è andato.»

Il Samurai si staccò bruscamente, quasi volesse impugnare la katana e puntarla contro l’Aquila.

Ciò che vide lo pugnalò al cuore. Erano i capelli di Alfred, i suoi occhi, il suo corpo, i suoi vestiti. Ma non c’era più Alfred dentro: l’anima che abitava quelle spoglie umane era cambiata. Lo poteva vedere nella postura, nel modo di parlare, ma, soprattutto, nello sguardo.

Non erano più delle iridi innamorate a fissarlo; erano quelle piatte di uno sconosciuto.

L’uomo gli sorrise, e cercò di rincuorarlo.

«Ma ti ha sentito. Ti ha sentito sempre, Samurai.»

Kiku allentò la presa sull’elsa della spada, rilasciando la mano lungo il fianco.

«Vorrei che fosse Alfred a dirmelo» rispose, atono.

Lo sconosciuto gli sorrise di nuovo, come se gli importasse davvero di rasserenarlo.

«Lui c’è. Ho accompagnato mille e mille anime, Samurai, e posso garantirtelo: l’aldilà non è lontano a sufficienza per separare due persone che si amano.»

«È sufficiente per allontanarle.»

«Solo se le dimentichiamo.»

Poteva leggere una saggezza centenaria nelle parole di quell’uomo, ma non era ciò che voleva sentire in quel momento. A essere sincero, non voleva sentire nulla.

«Ho del lavoro da fare» recise.

Si allontanò svelto, e l’uomo non lo seguì. Alfred lo avrebbe rincorso in capo al mondo.

Dare ordini, correre, eseguire.

E poi, forse, avrebbe trovato un posto nascosto in cui poter finalmente piangere.

 

***

 

Yao e Young Soo erano seduti sul legno della veranda, bagnato dai raggi scarlatti del tramonto.

Il Portavoce del Sole era accasciato sul grembo del sovrano, che lo teneva saldamente contro di sé.

Yao aveva dato ordine a tutti i consiglieri e ai soldati di stare fuori da quella stanza. Erano i suoi ultimi istanti con il fratello, e non desiderava intrusi.

Young Soo gli strattonò scherzosamente il cappotto.

«Questo di chi è, Yao? Non l’ho mai visto prima…» insinuò, con una risata gracchiante.

Il viso del Figlio del Cielo si addolcì, e il Portavoce del Sole riuscì a prevedere la sua risposta prima ancora che la pronunciasse.

«È il ghiaccio che accende il mio fuoco.»

Lo sterno di fiamme del fratello bruciò teneramente, quando Young Soo vi premette la guancia sopra.

«Ti ama molto, fratellone.»

«Lo so.»

«Non lasciarlo andare, fratellone. Nemmeno se tutti i consiglieri si opponessero.»

«Non lo farò.»

«Ti voglio bene, fratellone.»

Yao rimase zitto e fermo qualche istante, stupito da quel cambio improvviso di discorso. Accarezzò i capelli del fratello, e sentì le lacrime bruciargli dietro gli occhi. Il suo cameriere goffo, il suo mago giocherellone…

«Ti voglio bene anche io» mormorò in un sussurro tremulo.

«Sai che questa cosa non cambierà, vero?» Young Soo reclinò il capo all’indietro per fissare il fratello in volto. «Anche quando ti sembrerà che non ci sarò più, in realtà ci sarò. Sarò sempre con te, qualunque cosa accada. Anche se non potrai vedermi.»

«E come farò a sapere che ci sei davvero?»

«Un mago non rivela mai i suoi trucchi, fratellone, dovresti saperlo. Dovrai fidarti sulla parola.»

Trassero entrambi un profondo respiro, e Young Soo proseguì in un gracidio:

«Non preoccuparti, fratellone. L’aldilà non è abbastanza lontano per separare chi si ama. Me l’ha detto un esperto.»

«Mi mancherai, Young Soo. Per quanto vicino tu possa essere, mi mancherai.»

Il Portavoce del Sole accartocciò le labbra in un sorriso.

«Allora dovrai ricordarti la formula magica che ti ho insegnato tanto tempo fa.»

Le dita color legno si avvicinarono al suo petto, mimando quel gesto infantile.

«Non fa male, non fa male… non fa più male!»

Avrebbe fatto male. Young Soo era una di quelle persone che lasciavano un baratro, quando se ne andavano. E avrebbe sofferto per quella mancanza. Ma sarebbero stati ricordi come quello a permettergli di sorridere anche nel pianto.

Poggiò le labbra sulla fronte del fratello, delicato.

«Credevo che tu fossi un mago serio…»

«Infatti. Questa è magia raffinata, fratellone!»

Furono entrambi distratti da una luce fluttuante: una lanterna volava solitaria nell’aria scura del crepuscolo inoltrato.

«Cos’è…» Young Soo non riuscì a finire la domanda: la sorpresa lo ammutolì.

Una seconda lanterna aveva seguito la prima, e mille altre avevano fatto lo stesso. Stormi di fiammelle galleggianti facevano a gara nel cielo, spintonandosi tra di loro durante la salita.

Una rete di luci si stese sulla veranda e sul cielo, danzando sui volti stupiti dell’imperatore e del Portavoce.

Si sporsero entrambi dalla balaustra, per quanto possibile, e videro gli artefici di quel gesto: sotto il comando di Kiku, la Stella Polare stava punteggiando il cielo di Chugoku con un milione di stelle artificiali.

Il Samurai li salutò marziale, vedendoli dalla balconata, e Young So rispose agitando la larga manica.

Poi, tutti e tre fissarono il cielo. Le lanterne erano diventate un fitto intreccio di perle di luce, disposte sul velluto nero del cielo notturno. Pareva che le ancelle del Palazzo Immortale avessero gettato i loro diamanti nella notte, come raccontava una leggenda popolare.

«È bellissimo…» mormorò Young Soo, affascinato. «Valeva la pena di lottare per riavere le stelle…» il Portavoce del Sole sorrise con più dolcezza: «Non dimenticarti mai di questa notte, Yao. Qualunque cosa accada, ricordati che anche l’ora più buia può essere migliorata dalla luce di chi ti vuole bene. Ricordatelo anche quando non ci sarò io a ricordartelo.»

Yao riuscì solo ad annuire e a stringere il fratello più forte. Young Soo tremò nel suo abbraccio.

«Devo andare anche io, fratellone. Tra le stelle. Anzi, ancora più lontano…»

Il sovrano lo abbracciò di nuovo, gli occhi puntati al cielo. La luce di quegli astri artificiali si rifletté sul velo di lacrime che gli imprigionava le iridi.

«Siamo stati fortunati ad averti incontrato, Young Soo.»

Le braccia essiccate del Portavoce del Sole si strinsero traballanti attorno alla sua vita.

«Sono felice, fratellone. Ti assicuro, poche persone sono state felici quanto me.»

Quando si scostò da lui, reggeva in una mano color corteccia una piccola palla di fuoco.

«Il mio ultimo incantesimo» sorrise, nostalgico. «Mi è rimasta l’energia sufficiente solo per questo…»

Yao fece appello a tutte le sue forze per non scoppiare in lacrime. L’ultimo regalo che poteva fare al fratello era lasciarlo partire sereno.

Appoggiò di nuovo le labbra alla sua fronte, e trattenne nella gola un singhiozzo.

«Vai tra le stelle, Young Soo. Alzerò lo sguardo al cielo, quando sentirò la tua mancanza.»

Le dita del Portavoce del Sole si dischiusero, e la sua piccola sfera di fuoco galleggiò nell’aria, andando a raggiungere le sue simili.

«Sarò là per te, fratellone» esalò. «Sarò sempre là per te…»

Le labbra del sovrano non abbandonarono la fronte di Young Soo, nemmeno quando questa divenne gradatamente fredda come il ghiaccio. Yao non si mosse finché non fu sicuro di poter sopportare di vedere il fratello immobile nonostante i suoi richiami.

Lo adagiò piano sulla veranda, poggiando con delicatezza la sua testa alla superficie lignea. Compose le mani sul suo petto, e si fermò a fissarlo.

Le luci volteggianti sopra e intorno a loro gettarono una sciarada di riflessi caldi su quel volto ghiacciato.

Young Soo sorrideva, come se fosse davvero soddisfatto della vita che aveva vissuto. Nemmeno la morte era riuscita a sconfiggerlo.

«Addio, Young Soo» si accomiatò Yao, carezzandogli una guancia. «Le stelle saranno sicuramente felici di accoglierti…»

 

***

 

I consiglieri si scostarono veloci dalla porta della camera.

Si aspettavano di vederne emergere un ragazzino spezzato, ma quello che si stagliò nel riquadro dello stipite, fiero e dignitoso, era il Figlio del Cielo, il legittimo sovrano di Chugoku.

Yao raddrizzò le spalle e sollevò il mento. Il cappotto di Ivan lo schermò da ogni possibile debolezza mentre scandiva:

«Confido che i miei ospiti vi abbiano spiegato cosa è successo. Che vi abbiano detto che un demone ha cercato di detronizzarmi. E dell’inganno con cui vi ha fatto credere che io fossi in coma.»

«Sì, vostra Altezza, ci hanno spiegato…»

«Dunque capirete che non abbiamo un secondo in più da attendere.»

I consiglieri lo fissarono allibiti, senza capire a cosa il sovrano si riferisse.

Yao utilizzò la sua autorità e quella di mille antenati per comandare:

«Preparate tutte le Aeronavi possibili, e fate in modo che possano accogliere tutta la popolazione. Lasceremo la Confederazione.»

«Per quale motivo?»

«I demoni banchetteranno con i nostri cadaveri, quando l’Asse non ci sarà più.»

«Ma l’Asse è attualmente…»

«Stiamo andando a liberarlo. Io e i miei ospiti.»

Il terrore puro invase i volti dei consiglieri, immobilizzandoli.

«Siete chiaramente sconvolto dalla perdita subita, Altezza, e…»

«Non confondere i miei ordini con le mie lacrime» le parole di Yao suonarono come una frustata nell’aria. «Questa Confederazione è marcia. È un miracolo che sia sopravvissuta fino ad oggi.»

«Ma signore…»

«Non fingete di non aver visto l’ipocrisia che serpeggia in questa Galassia» il segno sotto cui era nato si manifestò nei suoi occhi di fuoco e nelle sue parole incendiarie: «Il Vaticano ha gettato fango sul nome degli Hellsing, prima di distruggerli. Ha cancellato i Carriedo. Ha perseguitato i Marauder. E ci ha così privato di sterminatori di demoni, guerrieri e traghettatori. Credete davvero che l’abbia fatto per la nostra sicurezza? Oppure è stata solo una mossa per fare in modo di rimanere l’unico punto fermo di tutta la Confederazione?»

«Ma contro di noi non hanno…»

«Devo ricordarti la guerra sino-britannica?» lo incenerì Yao, imperterrito. «Chissà, magari pensavano che il Figlio del Cielo fosse un rivale troppo temibile per l’Asse. O magari volevano indebolire la flotta britannica. E abbiamo pagato sulla nostra pelle il prezzo della scelleratezza vaticana: un demone è nato da quella guerra, lo stesso che ha quasi ucciso il Samurai, l’Aquila e che ci ha privato del Portavoce del Sole. Il nostro regno è quasi crollato per la loro insaziabile sete di potere. In quanto sovrano, non ho intenzione di chiudere gli occhi e aspettare che divorino Chugoku.»

«E cosa avete intenzione di fare?» si azzardò a chiedere un consigliere.

Il sole nel suo petto ruggì, illuminando l’intero corridoio.

«Lotterò. In prima fila. E otterrò un nuovo regno per i miei sudditi. Anche se sarà in un’altra Galassia.»

Yao li osservò tutti, uno per uno, in modo che vedessero che non vi era nemmeno l’ombra di un’esitazione nei suoi occhi.

«Potete dirmi che siete contrari, potete opporvi. Ma non cambierà il fatto che, da questa sera stessa, dovrete dare disposizioni per i preparativi delle Aeronavi, e preparare il popolo alla partenza. Non vi sto chiedendo la vostra opinione: vi sto ordinando di seguirmi.»

Il sovrano strinse i lembi del cappotto, e rilasciò un sospiro.

«È una situazione di emergenza, purtroppo. Non abbiamo tempo per discutere.»

I consiglieri si lanciarono un’occhiata, prima che uno di loro esordisse:

«Il vostro corpo è giovane, signore, ma parlate con l’esperienza di mille sovrani. Una saggezza che noi non otterremo nemmeno in mille discussioni.»

«Come devono essere preparate le Aereonavi?»

 

***

 

Ivan si avvolse la sciarpa intorno al collo.

Anche senza cappotto, era pronto a tornare alla Fortezza Errante. Yao probabilmente era ancora incastrato a spiegare ai consiglieri il piano di fuga: non si sarebbe accorto della sua assenza.

Fece per uscire dalla stanza, ma si fermò con la mano sul legno della porta: un rumore di passi in corsa si gonfiò nel corridoio.

Ivan aspettò, sbuffando a denti stretti. Non voleva incontrare nessuno, prima della sua partenza.

I passi si fermarono davanti alla stanza, e delle mani affrettate aprirono la porta.

Yao irruppe nella camera, finendo addosso a Ivan.

«Sei ancora qui!» esultò. «Temevo che fossi già partito…»

«Stavo partendo» confermò il gigante.

Il suo cappotto sembrava enorme attorno al corpo minuto del sovrano; i centimetri finali spazzavano il pavimento come uno strascico.

Notò di nuovo tutti i particolari che aveva già visto nella stanza in penombra, ma lo colpirono maggiormente. Forse perché la luce li metteva a nudo con vivida chiarezza, forse perché Yao era a pochi centimetri da lui. Il graffio sulla guancia, i vestiti laceri e i capelli tagliati. Le mani guantate di Ivan solcarono le ciocche irregolari con rimpianto.

«I tuoi capelli…»

«Ricresceranno» le dita di Yao si strinsero sul polso di Ivan, fermando le sue carezze. Gli occhi di onice salirono a incontrare quelli di ametista, mentre il sovrano domandava: «Sarai con me quando ricresceranno? E anche dopo, quando diventeranno completamente bianchi?»

Il Custode lo fissò interdetto, e Yao sorrise della sua perplessità. Dopo tanto tempo, Ivan sembrava ancora sorprendersi che qualcuno potesse amarlo.

«Sono successe tante cose, oggi. Troppe per essere affrontate tutte insieme» il sovrano rabbrividì sotto il peso di quelle emozioni. La lotta con il demone e la perdita di Young Soo. Ma entrambe quelle esperienze gli avevano lasciato qualcosa: la convinzione che era necessario lottare, e che non bisognava farlo da soli. Che non bisognava vivere da soli.

«Tu sei il Figlio del Cielo» gli ricordò Ivan.

«Anche il Figlio del Cielo può innamorarsi» replicò Yao.

«E può abbandonare il trono?»

«Non ci sarà più un trono dove stiamo andando.»

Ivan torse le labbra. Quasi le stesse parole del Portavoce del Sole. Era chiaro che erano cresciuti insieme.

«Non voglio vivere lontano da te, Ivan. Non voglio perché ti amo. È così difficile credere alle mie parole?»

Ivan non riuscì a dirgli che lo amava. Sapeva di amarlo, ma sapeva anche che erano parole da pronunciare con un cuore vero, non con un ragno ghiacciato sul petto.

Come sempre, Ivan dimostrò ciò che non riusciva a esprimere con i suoi discorsi artici.

Sollevò il sovrano afferrandolo per i fianchi, in modo che non avesse altro sostegno al di fuori di lui. Il respiro di Yao si ritrasse nella gola quando Ivan prese possesso della sua bocca.

Il cappotto scivolò a terra mentre le braccia del sovrano cingevano il capo del Custode, e il cuore di fuoco si infiammava per la vicinanza dell’uomo di ghiaccio.

Ivan lo strinse a sé fino a fargli male, e lo baciò finché perfino le sue labbra divennero calde. Solo quando fu sicuro di aver risposto correttamente alla domanda di Yao gli permise di nuovo di toccare il suolo.

Si chinò per raccogliere il cappotto, e lo avvolse nuovamente sulle spalle esili del sovrano. Slacciò la sciarpa per avvolgerla attorno al collo di Yao, e lo abbracciò rudemente.

«Non ti ho mai visto così infreddolito» bisbigliò roco sui suoi capelli.

Il sovrano rabbrividì nelle sue braccia, e Ivan lo strinse più forte.

«Puoi piangere. Non ti sentirà nessuno.»

La risata del sovrano uscì strozzata dalle lacrime.

«Nessuno mi ha mai visto piangere…» brontolò Yao, mentre le spalle sussultavano per i singhiozzi.

Ivan lo serrò contro di sé, in modo che ogni lacrima del sovrano si infrangesse sulla sua camicia.

Non capiva perché una persona dal cuore e dalle lacrime calde come Yao potesse amare un figlio dell’inverno. Yao viveva le sue emozioni fino in fondo, le dichiarava a parole, le sfogava con le lacrime. Lui aveva bisogno delle azioni, perché né il suo volto né le sue parole lo avrebbero aiutato a esprimere quello che sentiva.

Si chiedeva perché Yao avesse scelto lui, ma non aveva davvero bisogno di rispondere alla domanda.

Yao lo aveva scelto. Sopra ogni cosa, Yao aveva scelto lui.

Aveva tutta una vita per capire il motivo.

 

***

 

Il messaggio non era riservato a lui, ma Lovino lo udì lo stesso.

L’ambasciatore imperiale era troppo agitato per tenere bassa la voce.

«Notizie dal Palazzo di Quarzo» tartagliò, frenetico. «La cerimonia per la nomina del nuovo Asse avverrà tra una settimana.»

 

 

 

 

 

 

 

Finalmente giungiamo al capitolo ventuno<3

E con questo si conclude ufficialmente la saga asiatica; dal nuovo capitolo si aprono le danze per l’apertura dell’arco narrativo finale<3

Nel prossimo capitolo ci sarà la Spamano<3 E, se farò in tempo a scrivere quanto voglio, anche la GerIta<3

E vi ringrazio di cuore per aver commentato lo scorso capitolo, davvero ç_ç Domani risponderò alle recensioni una per una<3 Perdonatemi se non lo faccio ora, ma rischiavo di rimandare il capitolo al duemila mai >_>

Grazie, grazie, grazie e ancora grazie<3

Una Confederazione di ringraziamenti a tutti voi<3

Red

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Capitolo 22
*** L'ultima settimana del Vaticano ***


Capitolo Ventidue: l’ultima settimana del Vaticano

 

Primo giorno

Non avevano eretto una tomba monumentale per Young Soo; non si addiceva al mago che aveva sempre preferito una stuoia di paglia a un letto a baldacchino.

Avevano bruciato il suo corpo, e le sue ceneri erano state raccolte nell’urna che il Figlio del Cielo stringeva tra le mani.

La sua anima era volata oltre le stelle; era giusto che il suo corpo danzasse assieme all’aria.

Non aveva permesso ai soldati di seguirlo; perfino Ivan lo stava aspettando al cancello del cimitero.

Yao raggiunse la piccola collina al centro del camposanto, ma non riuscì ad aprire l’urna; quella cenere era tutto ciò che rimaneva di Young Soo. Era così difficile disperderla…

«Non sei mai stato bravo con gli addii. Per questo non ti hanno permesso di vederci, quando abbiamo abbandonato il castello.»

Yao sentì il cuore martellargli in gola quando, voltandosi, vide un volto che non aveva mai dimenticato, nonostante gli anni di lontananza.

«Madre…» chiamò, con un filo di voce.

Le vesti e i capelli di seta della donna frusciarono elegantemente mentre questa avanzava verso di lui e portava una mano ad accarezzargli la chioma recisa.

Le dita morbide della madre percorsero il suo viso e gli scorsero tra i capelli più volte, come se la donna vedesse bene solo attraverso i polpastrelli.

Le lacrime le illuminarono gli occhi e il sorriso quando mormorò:

«Come sei diventato bello, Yao…»

Il sovrano afferrò la mano della madre con la sua, e baciò delicatamente il palmo soffice. Era reale: era tiepida, compatta, delicata, come la donna che vedeva nei propri lineamenti ogni volta che si guardava allo specchio.

Il sorriso della nobile aumentò a dismisura, prima che i suoi occhi scuri si posassero sull’urna.

«È il Portavoce del Sole?» domandò.

Il Figlio del Cielo annuì.

«Ti è stato vicino quando sei rimasto solo» sussurrò lenta la madre. «Avrei voluto incontrarlo e ringraziarlo di persona.»

«Ti sarebbe piaciuto. Young Soo aveva il dono di riuscire a entrare nel cuore degli altri con estrema facilità» lo descrisse il regnante.

«Ma entrare è facile. Riusciva a rimanerci?»

Yao accarezzò l’urna con estrema tenerezza.

«Per questa vita e per le prossime.»

«Allora era davvero una persona speciale» la donna inclinò la testa, gentile. «Posso unirmi alla tua preghiera? Vorrei parlare con lui, prima che tu gli permetta di andare.»

Yao scosse la testa, sorridendo mesto.

«Lui sarà sempre qui. Nemmeno l’aldilà è abbastanza lontano da separare chi si ama» l’eco delle parole del fratello risuonò nella sua bocca senza che se ne accorgesse, come se Young Soo gliele avesse bisbigliate all’orecchio. E Yao si sorprese rendendosi conto che, in quel momento, credeva davvero che lui e il piccolo mago non sarebbero mai stati realmente divisi: nemmeno la morte poteva cancellare l’affetto che li aveva sempre uniti.

Il Figlio del Cielo appoggiò l’urna a terra, ed entrambi congiunsero le mani, recitando silenziosamente la propria preghiera.

La donna ringraziò il Portavoce del Sole per aver protetto il figlio dalla solitudine; Yao si limitò a ricordare i momenti passati insieme a Young Soo. Quello che aveva da dire, lo aveva già detto; e quello che non aveva fatto in tempo a dire, il fratello lo aveva intuito. Young Soo riusciva a leggere il cuore delle persone anche nel silenzio più totale.

Yao si chinò lentamente, e strinse le dita attorno al coperchio dell’urna prima di aprirla di scatto e lanciare la cenere nel cielo. La polvere grigiastra disegnò bizzarre volute nel vento, quasi stessero giocando a rincorrersi, e disegnò una buffa corona intorno al sole prima di disperdersi nell’aria dorata del tramonto.

L’urna, ormai vuota, venne poggiata nuovamente a terra, e Yao si rialzò con il cuore gonfio di una gioia triste: Young Soo stava sorridendo, da qualche parte, anche se non poteva più vederlo.

La mano della madre si appoggiò con grazia sulla sua spalla.

«So che partirai in una missione contro il Vaticano» la nobile possedeva la delicata forza del giunco: non poteva opporsi agli eventi, quindi si piegava sotto il loro peso per rialzarsi rinvigorita subito dopo. In quel momento, lo dimostrò appieno: «Attenderò il tuo ritorno a Palazzo.»

Un modo molto raffinato per ordinargli di non morire. Yao portò nuovamente il palmo della madre contro le sue labbra.

«Tornerò» promise.

La donna sorrise un’ultima volta e si allontanò dalla parte opposta, permettendogli di tornare da solo dal suo custode di ghiaccio.

Ivan non disse una parola: come sempre, non riusciva a comprendere i sentimenti di chi ancora aveva un cuore caldo nel petto. Ma percepiva che qualcosa non andava: la dispersione di quelle ceneri aveva profondamente turbato il Figlio del Cielo.

In completo silenzio si avvicinò a lui e lo cinse tra le sue braccia. I pugni di Yao si strinsero sul suo cappotto, come se volessero ricaricarsi con l’energia del Siberiano.

«Andiamo, Ivan» bisbigliò poco dopo l’Asean. «Torniamo a casa.»

 

Secondo giorno

Il signor Vargas fissò la parete davanti a sé.

Dall’esterno non sembrava un muro particolarmente degno di nota, eccezion fatta per la struttura liscia e incurvata che lo faceva assomigliare a un utero di pietra.

Il vecchio Asse, però, gli aveva rivelato il segreto di quella parete: era stata costruita trecento anni prima, all’epoca del più splendido tra tutti gli Assi, in previsione di possibili incantatori troppo potenti e troppo difficili da controllare.

Era una parete in grado di staccare il potere dal corpo del mago.

Se Feliciano si fosse dimostrato in qualche modo un Asse immeritevole per la sua anima dimezzata, lo avrebbero legato a quel muro finché il suo potere non fosse stato totalmente assorbito.

In questo modo, la Confederazione avrebbe avuto l’energia necessaria per mantenere il proprio confine intatto, isolando i demoni all’esterno di esso. E loro non avrebbero avuto un gemello malefico di cui preoccuparsi.

Il signor Vargas scosse la testa, lasciando la stanza.

Feliciano era il suo figlio prediletto. Ma non gli avrebbe permesso di guastare l’equilibrio della Confederazione, se si fosse rivelato indegno.

 

Terzo giorno

«Mi stai spaccando una costola.»

Roderich non riuscì a rilasciare la presa: era passato troppo tempo dall’ultima volta che aveva cavalcato un famiglio, e la guida di Gilbert era decisamente spericolata.

«Come facevi, quando dovevi salire su Mathias?» lo prese in giro l’Hellsing.

«Andavo a velocità più ridotte» fu la replica strozzata dell’Accordatore.

Si stavano dirigendo sul pianeta dei Gunsmith per arruolare anche loro in quella folle missione. E per verificare che il tanto prodigioso “Elfo” fosse stato terminato.

Roderich fissò lo sguardo su quella chioma argentata, agitata dal volo senza controllo.

L’ultimo ricordo che aveva di Gilbert era un bambino che applaudiva alle sue sonate per violino. Quando aveva riaperto gli occhi, si era trovato davanti un uomo segnato da mille fatiche.

Aveva perso parte dell’infanzia di Gilbert. Non era stato con lui per scacciare i mostri immaginari da sotto il letto, non lo aveva tenuto per mano quando i tuoni lo spaventavano.

Aveva perso completamente la sua adolescenza. Non sapeva cosa avesse dovuto affrontare quel ragazzo, l’ultimo della sua stirpe. Né come lo avesse affrontato. Aveva trovato qualcuno con cui piangere, o aveva versato le lacrime in solitudine? C’era stato un amico a indicargli la via, o si era dovuto creare una mappa e una bussola con le sue sole forze?

Lui era il suo padre adottivo: avrebbe dovuto scacciare i fantasmi, rimetterlo in piedi e offrirgli conforto. Invece lo aveva abbandonato su un pianeta abitato da tombe, con la sola compagnia del suo famiglio.

Cinse con più forza il petto del figlioccio e buttò fuori in un fiato:

«Perdonami.»

Gilbert gli lanciò uno sguardo perplesso da sopra la spalla.

«Non c’è niente per cui scusarsi. Molte persone trovano difficile adattarsi al mio stile di volo e…»

« Mi hai parlato del fratello che ti sei creato e di quel ragazzo di nome Matthew, e non so nemmeno che faccia abbiano. Sei stato rinchiuso a Caina, e non sono stato io a liberarti. Perdonami per non esserci stato quando avresti avuto bisogno di me.»

Sentì il fiato uscire in uno sbuffo divertito quando Gilbert ghignò a quella frase.

«Non hai passato un periodo migliore del mio» minimizzò l’Hellsing. «E non mi hai abbandonato per tua volontà. Se non c’è volontà, non c’è colpevolezza.»

La zazzera argentata fu scossa dalla mano che grattò la nuca, pensosa.

«Sei tu a dovermi perdonare» la frase gli ruzzolò sulle labbra, con una docilità che non si addiceva a quell’uomo di sangue e acciaio.

«Per cosa?» domandò Roderich, genuinamente confuso.

L’Hellsing lo guardò di nuovo da sopra la spalla, e l’Accordatore poté vedere la malinconia addolcire quel ghigno arrogante.

«Avrei dovuto salvarti molto tempo fa, anziché cercare di liberare un pianeta vuoto» ammise, le parole appesantite da quegli anni di guerra. «Avremmo potuto riprenderci il nostro mondo insieme… ma non ce l’ho fatta. Sapevo che non sarei stato in grado di combattere contro di te. Avevo paura di essere ucciso, avevo paura di ucciderti, e avevo paura che tu mi guardassi senza riconoscermi. Piuttosto codardo, per essere l’eroe indiscusso della Galassia, non trovi?»

Le spalle di Gilbert sussultarono per una risata velenosa.

«Solo quando ho perso di nuovo la persona che più amavo… ho capito che non ha senso proteggere il passato se non c’è futuro. Ho lasciato mio fratello ad aspettarmi a casa, e sono corso a salvarti… ma le forze Vaticane erano troppe per un solo Hellsing. E sono finito a Caina.»

«Ti hanno scoperto perché stavi venendo a liberarmi?» Gilbert non gli aveva mai rivelato quel particolare.

L’Hellsing abbassò il capo, e una stella incastrò una punta di luce nel suo occhio rosso, riflettendosi su una lacrima.

«Non sono nemmeno riuscito a vederti» ricordò. «Avrei dovuto decidermi molto tempo prima, quando la difesa del Vaticano non era così stretta…»

Roderich accarezzò il capo dell’Hellsing. La testa di Giselbert era cresciuta rispetto a quando poteva racchiuderla quasi completamente nel proprio palmo, ma i pensieri che si agitavano all’interno erano quelli di sempre: un bambino che aveva troppa paura di rimanere solo, e che gli placcava le gambe quando lo vedeva uscire di casa.

«È tutto passato» cercò di tranquillizzare anche se stesso e i sensi di colpa che gi attanagliavano le viscere con quella risposta. «Tra quattro giorni combatteremo per il futuro. È questo ciò che conta.»

Gilbert annuì, e il ghigno prepotente tornò a impadronirsi delle sue labbra.

«Adesso fai più fatica ad accarezzarmi la testa, eh?» lo prese in giro. «Non sei più il più alto.»

«Guarda avanti. Siamo quasi arrivati» lo rimproverò Roderich, con la severità tipica dei padri che hanno a che fare con dei figli indisciplinati.

 

Quarto Giorno

Il panno passò silenzioso sulla katana, con devozione.

Kiku la esaminò a lungo, in ogni suo millimetro, prima di permetterle di tornare a riposare nel suo fodero.

La notte di Chugoku era buia, come sempre. Né le stelle né la luna poterono riflettersi sul suo braccio pallido, mentre questo si appoggiava sulla fasciatura.

Se fosse stato a riposo, due mesi di vita. Se avesse combattuto…

Kiku diresse gli occhi, neri come le ombre della camera, verso la porta scorrevole.

L’Aquila doveva aver raggiunto Britannia, ormai, per aiutare il Mago dell’Ovest a organizzare la flotta di assalto. Meglio così: non avrebbe sopportato di saperlo a Chugoku e non vederlo irrompere nella sua stanza per chiedergli perché fosse così cupo.

«Non voglio essere un eroe» annunciò in un sussurro alle tenebre. «Gli eroi muoiono combattendo battaglie che non gli appartengono, in nome di qualche ideale.»

Accarezzò l’elsa di Heracles, e massaggiò le bende sul suo busto. Poteva quasi avvertire l’incantesimo lottare per tenere chiusa la ferita al di sotto.

«Sono, e sarò sempre, un Samurai» dichiarò. «E morirò nella guerra che ho scelto, in nome del giuramento che ho fatto al Figlio del Cielo.»

Appoggiò la testa al muro ligneo, esalando un sospiro.

Alfred sarebbe venuto a prenderlo, quando fosse arrivato il suo momento.

Quello straniero si preoccupava sempre troppo per gli altri.

Ma era inevitabile.

Quello era il lavoro degli eroi, in fondo.

 

Quinto Giorno

«Entra pure.»

Maledizione, era stato notato. D’altronde, anche camminando in punta di piedi, era difficile celare più di ottanta chili sparsi su quasi due metri di altezza.

Varcò la soglia della stanza abbassando la testa come se stesse entrando in un luogo sacro, e il suo cuore batté più forte alla vista di quel quadro familiare.

L’Hellsing dormiva beato, coperto con attenzione fino al mento e cullato nel sonno dal violino dell’Accordatore. Non era difficile intuire che Roderich stesso aveva sistemato il lenzuolo su Gilbert: ricordava bene il modo scomposto di dormire dell’Hellsing, e il suo incorreggibile vizio di calciare le coperte.

Roderich gli diede il permesso di avvicinarsi con un impercettibile cenno del capo, senza smettere di muovere l’arco sulle corde del violino.

«Gli hai suonato la ninna nanna?» lo canzonò Mathias.

«Ho semplicemente iniziato a suonare» minimizzò Roderich, altero. «E questo insensibile senza gusto musicale si è addormentato di colpo.»

Gli occhi di Mathias scivolarono sull’Hellsing e poi sull’Accordatore. Un padre che suona per scacciare gli incubi dal sonno del figlio: era così che le cose sarebbero dovute andare. Non un genitore divenuto un’arma senza cuore e un bambino abbandonato in una guerra solitaria.

«Avreste meritato più momenti così» era certo di non averlo detto a voce troppo alta, ma fu sufficiente per bloccare l’archetto dell’Accordatore.

Roderich fece finta di sistemare gli occhiali, mentre in realtà si stava sforzando di controllare i condotti lacrimali.

«Avremmo meritato tutti una vita più tranquilla. Anche voi» decretò infine.

«Non mi lamento» Mathias si strinse nelle spalle larghe. «Abbiamo trovato un lavoro che ci piace, una persona da amare, e non siamo mai stati soli. Probabilmente, noi Gunsmith siamo tra le persone più felici della Confederazione.»

«Ma se Gilbert non vi avesse confezionato dei nuovi corpi, adesso di voi non rimarrebbero nemmeno le ossa.»

Si sarebbe offeso per un commento del genere, se non avesse capito che la vera sorgente di quelle parole era una tristezza così profonda da non poter essere sfogata né con le lacrime né con le urla.

«Il tempo è uguale per tutti, e non torna indietro per nessuno» la mano artificiale dell’Accordatore si strinse sul violino «Per questo non potrò mai colmare il vuoto che ho lasciato in tutti questi anni. Ho permesso a mio figlio di crescere da solo, e ho quasi cancellato i Gunsmith prima che esistessero.»

Roderich aggiustò di nuovo gli occhiali, traendo un profondo respiro.

«Sai perché ho deciso di combattere insieme a voi?» l’uomo lo trafisse con i suoi occhi violacei. «Perché voglio che, nella prossima dimensione, non ci sia più nessuno come me.»

«Come te?»

«Qualcuno che, guardandosi indietro, vede solo le voragini che la sua assenza ha creato. Vede che il tempo è passato per tutti, mentre per lui si è cristallizzato a una ventina di anni prima. Vede come le cose siano cambiate e si accorge di non sapere cosa le abbia fatte cambiare.»

Mathias non lo interruppe, mentre Roderich terminava:

«Se fosse stata una mia scelta, forse mi sarei sentito meglio. Almeno avrei potuto biasimare me stesso. Ma mi sento come se mi avessero rubato la possibilità di vivere il mio passato, e mi stessero togliendo la speranza di poter migliorare il futuro.»

Il Gunsmith fu quasi tentato di guardare altrove, mentre l’uomo accarezzava affettuosamente la frangia scomposta dell’Hellsing. Era una scena intima, che sarebbe dovuta rimanere tra padre e figlio senza interferenze esterne.

«Non voglio che ci siano altre persone senza tempo e senza scelte come me.»

Mathias si sentì trafitto dallo sguardo che Roderich gli rivolse subito dopo, e ancor di più dalla sua domanda.

«Mi hai mai odiato, in questi anni?»

Di nuovo, il Gunsmith si strinse nelle spalle.

«Gli altri ti hanno portato molto rancore, non lo nascondo. Però loro non ti avevano visto mentre crescevi Gilbert insieme a Elizabeta, non sapevano quanto amassi il tuo pianeta e la tua gente. Ma io sì: io sapevo che non eri stato davvero tu.»

Batté una pacca sulla spalla dell’uomo, e per poco non lo ribaltò. Cielo, quanto erano rachitici i musicisti!

«Non ho mai smesso di credere in te. E nemmeno tuo figlio l’ha mai fatto.»

Roderich inclinò vagamente il capo, fingendo di non essere toccato da quelle parole. Ma, come Mathias aveva già detto, lo conosceva troppo bene: sapeva che in realtà stava morendo per l’imbarazzo.

«Se è vero che non mi hai mai odiato, allora combatti insieme a me, quando saremo nel Vaticano» propose l’Accordatore, porgendogli la mano meccanica. «Come ben saprai, posso controllare vaste schiere di soldati con i miei poteri musicali, ma non posso farlo se devo preoccuparmi dei nemici che potrebbero pugnalarmi alle spalle.»

Il Gunsmith afferrò quella mano fredda e la scosse saldamente, trovandola più robusta delle ossa del musicista. Ovvio: i Gunsmith producevano solo merce di ottima qualità.

«Le tue spalle saranno protette» garantì. «Non c’è maggiore onore, per un famiglio, che lottare insieme al suo padrone.»

Le mani dei due uomini si separarono, ed entrambi sorrisero internamente.

Erano ancora famiglio e padrone, nonostante il tempo passato.

«La melodia di prima era molto bella. L’hai composta tu?» domandò, uscendo dalla camera.

«L’ho scritta per Gilbert. Era shockato dopo la morte dei genitori, e non riusciva mai a prendere sonno. Si addormentava solo ascoltando questa melodia.»

«Come si intitola?»

Il violino tornò a incastrarsi con grazia sotto il mento affusolato del musicista.

«“Non sei solo”.»

La sonata riempì la stanza con delicatezza, quasi avesse paura di disturbare.

Mathias abbandonò la camera, lasciando che la musica ricordasse a padre e figlio che la solitudine era finalmente finita.

 

Sesto Giorno - mattina

«Non mi hai rivolto la parola da quando siamo a Britannia.»

«Forse la cosa ti è sfuggita, ma è piuttosto impegnativo preparare una flotta per una guerra e un pianeta per l’espatrio al contempo.»

«Scommetto che il Figlio del Cielo parla con i suoi alleati.»

«E allora tornatene a Chugoku!»

Le sopracciglia bionde di Francis si incresparono, dietro gli occhiali di Alfred.

«Credo di notare un certo veleno nei miei confronti.»

«E non ingiustificato!» sbottò Arthur, voltandosi di colpo.

Il Mago dell’Ovest era stanco nell’anima. Francis era uno specialista di spiriti, poteva dirlo con certezza. Una vita pressoché eterna era un peso estremamente gravoso da portare, ed era un fardello da sopportare da soli: nessuno avrebbe mai capito cosa significasse, perché nessuno avrebbe mai vissuto così a lungo da sentire la propria anima diventare di piombo.

Arthur era di nuovo vestito con i suoi abiti di Avalon: se ne era riappropriato dopo che il suo riflesso aveva fatto ritorno allo specchio. Sembrava quasi che il mago volesse improvvisamente rimarcare il suo essere alieno.

Arthur lo fissò furente, e lo attaccò:

«Mi hai fatto diventare un mago conosciuto solo perché potessi seguire le previsioni di Jeanne sul futuro. Ho bruciato un pianeta, ero presente quando tu e l’Hellsing siete stati catturati, mi sono quasi fatto ammazzare da un demone!» il Mago si girò bruscamente, e Francis poté vedere le sue spalle contratte.

«Ti ho aspettato per cento anni. Da solo

«Eri insieme alla tua gente…»

«Sai bene quanto me che noi immortali siamo sempre soli. Se non c’è nessuno che ti comprenda davvero, allora sei solo» i pugni del mago si strinsero sotto il mantello di Avalon. «Ti ho aspettato fidandomi delle tue parole. E quando ti sei reincarnato, in un battito di ciglia eri morto di nuovo. E ora sei in un corpo che non riconosco come tuo.»

Il Mago si voltò di nuovo, gli occhi duri di rabbia e liquidi di lacrime trattenute.

«Eri l’unica persona che potesse davvero capire cosa significa avere sulle spalle più anni di quanti si desidera viverne. Avevi detto che condividevamo il destino, e mi sono fidato. Ma ero sempre solo. Quando ho dovuto bruciare Hispaňa, quando ho assistito all’incarcerazione dell’Hellsing… non c’era mai nessuno con me. Mi sono immerso nel sangue che odio, mi sono gettato in una guerra che detesto fidandomi delle tue vaghe promesse. Ma tu non c’eri mai, Francis. Credevi davvero che ti avrei gettato le braccia al collo piangendo, quando ci fossimo incontrati di nuovo?»

«Oh, no. Non sarebbe nel tuo carattere. Anzi, per essere onesti mi aspettavo una tua sfuriata – cosa che è avvenuta.»

Si ritrovò all’improvviso con le gambe all’aria, e impiegò qualche secondo per capire che il pavimento aveva sgroppato sotto di lui come un toro infuriato. Maghi: avevano sempre dei modi rudi di interrompere le conversazioni che non volevano ascoltare.

Francis si rialzò con fatica dal pavimento – doveva ancora sintonizzarsi con quel corpo nuovo.

«Mi dispiace di averti lasciato solo, Arthur.»

Il Mago dell’Ovest non gli rispose nemmeno, e non si mosse quando il Marauder gli si avvicinò.

«Ma, come ti ho già detto, certe cose dovevano avvenire, per quanto orribili. È necessario per la rinascita.»

«Lo so» la voce uscì pesante come una palla di cannone. «Ma speravo che ci sarebbe stato qualcuno ad accendere una luce, nelle ore buie.»

Il corpo del Mago si irrigidì completamente quando i palmi del Marauder si adagiarono sulle sue spalle.

«Mi dispiace davvero di averti lasciato solo» la sua voce era sincera, e questo fece arrabbiare ancora di più Arthur: se avesse letto anche solo l’ombra di una bugia, sarebbe stato molto più facile squartarlo a parole. «Ma adesso sono qui. Non isolarti, se davvero odi così tanto la solitudine.»

«Odio te molto più di quanto non odi la solitudine» sibilò il Mago, iroso.

«Il che è un vero peccato» le braccia del Marauder scivolarono a cingergli il busto. «Perché io ti adoro. Più di chiunque abbia incontrato in tutte le mie vite passate e di chiunque incontrerò in quelle che verranno.»

Il Mago si scrollò bruscamente di dosso l’uomo, e rincarò:

«Non sei stato perdonato. Cento anni: ti ho aspettato per cento anni. Non li cancellerai con una bella frase.»

Francis si portò alle labbra la mano che il Britanno aveva sollevato per ammonirlo.

«Farò ammenda per i prossimi cento.»

«Trecento» Arthur si riappropriò con stizza della sua mano. «Non hai calcolato gli interessi.»

Francis accettò accondiscendente.

Sapeva che quel Mago aveva intenzione di perdonarlo fin dall’inizio, e che quell’arrabbiatura era solo un modo per tutelare il suo orgoglio. E per sfogare l’amarezza accumulata per tutto quel tempo: Francis era l’unico a poter comprendere lo sconforto di sentirsi soli in mezzo a persone che sarebbero sbocciate e appassite con la velocità dei fiori di maggio.

«Jeanne mi dice che non hai ancora il coraggio di dirmi quella cosa che avresti dovuto dirmi un numero imprecisato di anni fa» lo punzecchiò Francis.

Il Mago rimase così immobile, per qualche istante, da ricordare i prigionieri di Caina. La velocità con cui si mosse subito dopo fu quasi incredibile: afferrò il colletto di quello stupido uomo, lo trascinò verso di sé e sfregò le labbra sulle sue.

«Dì alla tua pulzella di essere meno indiscreta» il brontolio si spense sulle parole finali, mentre Arthur abbandonava la stanza.

Francis attese che il Mago fosse a una distanza sufficiente per ridere di gusto.

«Buon cielo, è proprio vero che i Britanni non sanno baciare…»

Il pavimento lo ribaltò di nuovo.

Maghi. Davvero non avevano il senso dell’umorismo.

 

Sesto giorno - notte

«Dove state andando?»

«Capitano, stiamo per partire per una battaglia epocale. Se questa deve essere una delle mie ultime notti, voglio passarla navigando in mari femminili

Antonio concesse ai suoi uomini la libertà con un vago cenno della mano.

«Cercate di non fare troppa confusione» ricordò loro. «Siamo ospiti, su questo pianeta.»

«Ma anche questo pianeta ha dei bordelli, grazie al cielo!» rise rudemente un mozzo. «Mi sono sempre chiesto se le Asean abbiano la…»

«Andate e divertitevi, ma non eccedete» li congedò Antonio, richiudendo la porta della camera subito dopo. Apprezzava che i suoi uomini fossero venuti a chiedergli il permesso per abbandonare la pensione in cui li aveva alloggiati il Figlio del Cielo, ma avrebbe preferito che il loro tempismo non fosse stato così pessimo.

«Puoi uscire, se ne sono andati» esclamò in direzione dell’armadio a muro.

Lovino uscì dalle ante con i capelli scompigliati, il kimono da camera stropicciato e il viso fremente di rabbia.

«Questo stupido pianeta!» si lamentò, prendendo di nuovo posto sul futon. Quel materasso era troppo sottile e l’unico nascondiglio disponibile in tutta la stanza era l’armadio a muro.

La bocca di Antonio sul suo collo frenò ulteriori lagnanze. La cintura di stoffa frusciò leggera quando le mani del capitano sciolsero il suo nodo.

«Non ti hanno visto» lo rassicurò, insinuando le dita nei bordi aperti della veste. Un abito con una cintura facile da slacciare, e che permetteva di infilare le mani ovunque: gli orientali erano geniali.

Lovino tirò la manica del capitano in un gesto fintamente stizzito: il vero scopo era scoprire la spalla su cui appoggiò le labbra.

«E tu non vuoi navigare in mari femminili, questa sera?» indagò, piccato.

Quella stoffa era un intralcio, e Antonio la rimosse velocemente, rendendola un cumulo di pieghe affrettate sui fianchi del giovane. Afferrò la sua vita asciutta per tenerlo fermo mentre tracciava un percorso con la bocca dal suo collo fino agli addominali. Lovino si chiuse sul capo adagiato sul suo ventre, fremendo a ogni tocco della lingua del compagno: le parole dell’amante strisciarono a fatica tra i suoi sensi ottenebrati.

«Lovino» sussurrò rovente Antonio, appena sopra la curva pelvica. «Solo l’Apocalisse potrebbe convincermi a lasciare questa stanza.»

«Sei sempre esagerato…» con suo grande dispetto, le sue labbra lo tradirono, lasciando uscire un gemito vergognoso. La bocca del capitano era scesa ulteriormente, arrivando a baciare l’impazienza che pulsava tra le sue cosce esili. Un brivido elettrico gli percorse la schiena quando la lingua del capitano percorse il suo sesso, e una scarica di delusione lo attraversò quando l’uomo si rialzò subito dopo.

Era sicuro che una cosa del genere non fosse leale: non poteva dargli un tale piacere e staccarsi un secondo prima dell’estasi.

Antonio gli circondò il viso bollente di imbarazzo con le mani. Lovino era davvero bellissimo quando si lasciava trasportare dalla passione. Ed era ancora più bello quando restituiva l’attacco: il giovane lo spinse bruscamente contro il materasso, aprì il suo kimono con un gesto brusco e si portò a cavalcioni su di lui come se lo volesse schiacciare.

Osservò il viso del ragazzo farsi sempre più vicino, finché i suoi occhi non divennero una nebulosa sensazione di castano ramato davanti a sé.

«Non credere di poter avere sempre il controllo, capitano» Lovino gli morse il labbro inferiore, prima di distanziarsi di nuovo.

Aveva la conferma, ogni giorno di più, di quanto amasse quel ragazzo nella sua interezza. Adorava perfino quelle strane schermaglie che avevano tra le coltri, Lovino sempre più determinato a difendere il suo orgoglio e ad avere un ruolo attivo nel rapporto e Antonio felice di provocarlo e di scatenare le sue reazioni.

«Il controllo è l’ultimo dei miei pensieri, adesso…» replicò placido l’uomo.

Le spalle di Lovino si contrassero e si piegarono verso di lui quando la mano del capitano solleticò la curva delle natiche. Le braccia del giovane gli circondarono il capo e la bocca si premette sul suo collo mentre le dita dell’uomo si facevano strada dentro di lui.

Lovino si allontanò per guardarlo in viso, e i loro occhi si incatenarono. Antonio amava quei momenti di puro silenzio che intercorrevano tra di loro: era come se le parole fossero troppo strette per circondare i loro sentimenti, che venivano quindi lasciati liberi di fluire nell’aria. Gli pareva di immergersi nel cuore di Lovino, e di sentire la presenza del giovane per tutta l’estensione della sua anima.

Lo strinse a sé quasi freneticamente, baciando ogni centimetro di pelle che riusciva a raggiungere. Non sarebbe mai stato abbastanza, con Lovino: non sarebbe mai arrivato il giorno in cui si sarebbe stancato di lui.

Il giovane allargò le gambe, sentendo l’eccitazione dell’amante premere contro di esse, e rilasciò un suono inarticolato quando i suoi fianchi vennero abbassati con forza su quelli dell’altro.

Lovino si aggrappò al suo compagno, cercando un contatto sempre più profondo.

Il capitano probabilmente aveva intuito il motivo che lo aveva portato a introdursi in camera sua, quella sera. Il giorno dopo sarebbero partiti per la prima e ultima battaglia con il Vaticano. Sapevano entrambi che metà di loro non sarebbe sopravvissuta per raccontare di quella lotta. E se lui o Antonio erano destinati a far parte di quella triste porzione, allora non voleva sprecare nemmeno un istante a pensare: voleva amare, respirare, vivere il suo innamorato finché la notte gli avesse offerto riparo.

Si ricongiunsero in un bacio profondo con urgenza, e una sciarada di singulti di infransero sulla lingua del capitano, troppo impaziente per aspettare che il giovane seguisse il suo ritmo. Lovino riuscì a staccarsi solo un istante per respirare, prima che l’amante lo catturasse di nuovo. Non protestò, quella sera: strinse ancora di più le braccia attorno al collo del capitano, il respiro affaticato da quel bacio senza tregua e dalle spinte sempre più veloci, finché non lo sentì liberarsi dentro di lui.

Lovino quasi si gettò contro il suo compagno, il fiato che ruzzolava sulle sue labbra arrossate. I loro petti si baciavano a un ritmo frammezzato, seguendo la loro respirazione sfiancata.

La bocca dell’uomo si congiunse alla sua, una volta che i loro polmoni ebbero trovato di nuovo la pace. Fu un contatto più dolce del precedente, e Lovino inseguì quelle labbra quando si staccarono dalle sue, pretendendo un altro bacio.

Antonio lo adagiò sul letto, e accarezzò la sua pelle sudata senza trascurare nemmeno un centimetro; il capitano lo toccava sempre come se desiderasse superare il confine della pelle e diventare una cosa sola con lui.

Lovino alzò una mano, per sfiorare la palpebra sotto gli occhi verdi, improvvisamente incupiti. La frangia ramata fu scostata gentilmente da una carezza dell’uomo, affinché le iridi rossastre fossero totalmente libere di incontrare quelle dell’amante.

«Non dimenticarlo, Lovino» un bacio fu impresso sulla sua fronte corrugata. «Non dimenticare mai il tempo che passiamo insieme.»

Il ragazzo lo spintonò via senza preavviso, e si rialzò a sedere con la velocità di un gatto.

«Non fare questi discorsi malauguranti!» scattò. E, come ogni volta in cui la sua rabbia era dovuta a un motivo più profondo, Lovino si placò subito dopo l’esplosione. Afferrò un lembo del kimono aperto del capitano, e lo strinse nel pugno con tutte le sue forze.

«Credi di essere dentro di me solo nel momento in cui facciamo sesso?» sibilò. «Mi hai aiutato a controllare i miei poteri, mi hai insegnato a lottare… mi sei stato vicino ogni singolo giorno!» nemmeno la penombra della stanza riuscì a celare lo scintillio delle lacrime in quegli occhi orgogliosi. «Finché avrò la forza di richiamare Roma, finché avrò respiro tu sarai con me! Perciò non parlare come se dovessi scomparire!»

Antonio baciò le sue palpebre serrate, e sentì il salato delle lacrime sulle proprie labbra.

Lo trasse a sé con dolcezza, e lo accarezzò piano per tranquillizzarlo.

«Anche tu, Lovino» le parole scivolarono languide nel suo orecchio. «Anche tu non sparirai mai.»

 Il ragazzo si distanziò da lui a testa bassa, e Antonio credette che volesse lasciare la stanza.

«Se non vuoi che dimentichi» propose in un mormorio Lovino, troppo imbarazzato per sollevare lo sguardo. «Allora dammi qualcos’altro da ricordare…»

Il ragazzo si protese per accogliere Antonio tra le sue braccia, prima che questo lo stendesse delicatamente sul materasso mentre univa di nuovo le loro labbra.

Anche se il mondo fosse finito il giorno dopo, anche se la sua anima fosse stata fatta a pezzi, ci sarebbe sempre stato un brandello aggrappato ai ricordi di Lovino.

Quel giovane sarebbe sempre stato incancellabile.

Non gli sarebbe bastata l’eternità per far capire a Lovino quanto lo amasse.

E a Lovino non sarebbe bastata l’intera Confederazione per circoscrivere l’amore che provava per Antonio.

Ma lo compresero entrambi, amandosi per tutta la notte come se l’altro fosse l’unica cosa esistente nell’universo. Il che, per loro, era la pura realtà.

 

Settimo Giorno

Il cappello candido con la veletta bianca si appoggiò sul capo del futuro Asse, e la sua vestizione fu completa.

«Sei pronto, Ludwig?» domandò al suo Guardiano. Il giovane annuì, serio.

Feliciano sorrise, e una punta di malizia del tutto sconveniente scintillò nei suoi occhi.

«Oggi è il giorno della proclamazione» valutò. «Mi chiedo come reagiranno alla sorpresa

 

 

 

 

 

Ed eccoci qui con il capitolo ventidue<3

Perdonate la lunga assenza, ho avuto alcuni problemi che mi hanno distanziata dal pc -.-“

Coooomunque… eccoci ufficialmente giunti all’arco finale<3

Nel prossimo capitolo, signore e signori, torna la GerIta<3

E che la battaglia con il Vaticano abbia inizio<3

E grazie infinite a tutti voi che avete letto e recensito lo scorso capitolo *_* tra stasera e domani vi rispondo, promesso<3<3<3

Che la forza dell’Asse sia con voi<3

A presto<3

Red

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Capitolo 23
*** Ludwig ***


Capitolo Ventitré: Ludwig

 

Al contrario degli esseri umani, lui aveva un ricordo perfetto dei suoi primi attimi di vita.

Aveva aperto gli occhi su un volto giovane e provato, i capelli appiccicati dal sudore e occhi rossi vibranti di speranza.

Ricordava perfettamente anche la prima parola che le sue orecchie avevano udito, e la prima sensazione che la sua pelle aveva registrato. Dita callose che si appoggiavano sulle sue guance, sfregandole con la polvere che le insozzava, e una voce battagliera che esultava:

«Ludwig!»

Aveva alzato il braccio, e si era sorpreso della facilità con cui riusciva a muoverlo nell’aria.

Si era indicato il naso, sbatacchiando le ciglia sugli occhi.

«Ludwig?»

«Sì, Ludwig. Tu sei Ludwig!»

Non aveva capito perché quel giovane fosse così contento per un semplice nome, ma gli piaceva la luce che si spandeva sul viso guerresco quando lo diceva.

«Ludwig. Ludwig» continuò a ripetere, inspiegabilmente più felice ogni volta che il sorriso dell’altro si ampliava.

 

***

 

«Perché mi hai creato, fratellone?»

Gilbert era sempre stato sincero con lui. Il primo giorno, lo aveva messo davanti a uno specchio, in modo che il piccolo potesse vedere le differenze tra di loro. Ludwig aveva impiegato qualche istante per capire che il bambino nello specchio era lui, e l’uomo che lo reggeva sulle proprie ginocchia era l’Hellsing. Ludwig si era passato le mani nei capelli biondi: si era aspettato di vederli riempirsi di riflessi argentei, invece si erano agitati in un mare dorato. Aveva battuto le palpebre più volte, nella speranza che i suoi occhi blu diventassero più simili al vermiglio delle iridi dell’Hellsing.

«Non sei mio figlio» gli aveva spiegato Gilbert. «Non sei nato nel modo consueto, e non sei un essere umano» una mano dell’Hellsing aveva circondato le sue. Perfino i palmi callosi del giovane erano opposti alla sua pelle tenera e paffuta. «Ma ti ho fatto nascere perché desideravo averti con me. Sei un bambino che è stato voluto, Ludwig. Sei il mio prezioso e insostituibile fratellino.»

La sua prima settimana di vita era passata e, finalmente, quel dubbio che gli aveva grattato la nuca per sette giorni aveva assunto la forma di una domanda.

Gilbert lo osservò. In mano reggeva il suo archibugio, che stava pulendo mentre Ludwig gli passava gli attrezzi.

L’Hellsing assestò una pacca alla canna di metallo, e riassunse:

«Te l’ho detto quando sei nato. Ti ho creato perché ti volevo con me.»

«Perché mi volevi con te, fratellone?»

Uno sconosciuto si affacciò sulle labbra di Gilbert. Non era il ghigno con cui si proclamava l’Eroe della Galassia, e non era il sorriso che sorgeva quando lo chiamava “fratellone”. Era una strana curva, simile a quella della gioia, ma senza la sua luce. Era un’increspatura che piangeva.

«Spero che tu non lo capisca mai» fu l’enigmatica risposta del giovane.

 

***

 

Matthew gli assomigliava di più.

Aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, entrambi più scuri dei suoi.

Tremava, quando Gilbert gli si avvicinava, e fissava terrorizzato ogni suo movimento.

Poi aveva smesso di aver paura. Però non aveva smesso di tremare. E aveva cominciato ad arrossire.

Ludwig aveva osservato la situazione: lo spazio tra Gilbert e Matthew era progressivamente diminuito. Parlavano a una distanza quasi nulla l’uno dall’altro; forse le loro orecchie avevano qualche problema. Si separavano bruscamente quando lo vedevano arrivare – o meglio, Matthew ruzzolava lontano, l’Hellsing rimaneva immobile, come se parlare a quella distanza fosse la cosa più naturale del mondo. Però con lui non lo faceva. Forse Matthew aveva davvero qualche problema ai timpani.

Avevano piantato il bulbo sul retro del giardino. La terra era fredda e dura sotto le loro dita, ma avevano scavato con foga fino ad avere le guance scarlatte e il fiato corto, e avevano ricoperto il seme con cura, come per rincalzare le coperte a un neonato.

Gli piaceva Matthew. Aveva un buon profumo, era dolce e delicato come il pane appena sfornato, e aveva un mucchio di attenzioni per lui e per il suo fratellone.

Gli piaceva particolarmente quando gli pettinava i capelli. Gilbert non lo aveva mai fatto – lui stesso si pettinava raramente. Matthew aveva introdotto quella novità, imponendola a entrambi i fratelli.

Era seduto sulle sue ginocchia, la spazzola che veniva condotta gentilmente tra le sue ciocche color grano, quando alzò la testa.

«Il fratellone sta tornando» annunciò.

Matthew appoggiò il pettine sul comodino, e fece scendere il piccolo dalle sue gambe.

«Come fai a saperlo sempre in anticipo?» chiese Matthew, pacato.

«Perché io sono un costrutto, come Gilbird. Abbiamo una sorta di legame telepatico, perché siamo stati creati da lui. Adesso mi sta dicendo che stanno per arrivare.»

Matthew gli accarezzò la testa, teneramente.

«Sei un costrutto, ma Gilbert ti vuole un bene infinito. Sei un bambino molto fortunato» lo coccolò.

Ludwig sorrise, fiero.

«Lo so. Sono molto fortunato» ciò detto, corse verso la porta della cantina: doveva prendere un po’ di sidro per rinfrancare il fratellone dopo la missione di quel giorno.

Sentì la porta principale aprirsi mentre era in fondo alle scale, la bottiglia di mele fermentate tra le braccia. Risalì veloce, ma non riuscì a uscire e presentarsi al fratellone. Uno strano spettacolo si profilò dallo spiraglio della porta: il fratellone aveva poggiato sbrigativamente il fucile allo stipite, aveva legato le braccia attorno alla vita delicata di Matthew e aveva poggiato le labbra sulle sue.

Le mani del giovane erano salite, esitati, ad appoggiarsi sulle spalle del guerriero, che aveva stretto ulteriormente la presa sulla sua vita, intensificando i suoni acquosi che venivano dalle loro bocche unite. Sembrava una strana caccia, in cui la preda desiderava essere catturata dal predatore.

«Che state facendo?» domandò, decidendosi a uscire.

Matthew si era staccato bruscamente, ma, quella volta, Gilbert non gli aveva permesso di fuggire. Aveva premuto una mano sul suo osso sacro, spingendolo contro di sé e aumentando il rossore congestionato sulle guance del giovane.

«Ci stavamo baciando» annunciò l’Hellsing.

«È una cosa buona?»

«È una cosa ottima» sottolineò l’uomo. «Significa che Matthew resterà con noi per tutta la vita.»

Ludwig aveva quasi fatto cadere la bottiglia di sidro per la gioia.

«Davvero?» esultò.

Matthew si stava sistemando le ciocche intorno al viso come se volesse sotterrarsi dietro di esse, e annuì vergognoso dietro quella cortina bionda.

«Me lo fate rivedere?»

Gilbert rise di quella domanda candida, e lanciò un’occhiata predatoria al giovane tra le sue braccia.

«No» mormorò Matthew, flebile ma inflessibile. «È solo un bambino.»

«Ha sedici anni, si vede che il sangue adolescente comincia a…»

«Sembra un bambino.»

L’Hellsing sbuffò e lasciò il giovane libero di fuggire. Si chinò per raccogliere il piccolo da terra, e iniziò a spiegare:

«Ludwig, credo che sia il momento che io ti spieghi la storia dell’ape e del fiore…»

 

***

 

Non erano bastati tutti i baci del fratello per trattenere Matthew con loro.

Ludwig si era svegliato e si era sorpreso di vedere solo il fratellone nel letto centrale. Matthew non era l’unico scomparso: anche il fucile dell’Hellsing non si trovava.

Gilbert era uscito dalla casa come se tutti i demoni che aveva ucciso lo stessero inseguendo. Gli aveva urlato di aspettarlo, prima di sbattere la porta dietro di sé.

L’Hellsing era tornato a sera, ma Gilbert era sparito: Ludwig vide solo un guerriero distrutto, quando sollevò gli occhi su di lui.

«Fratellone…?»

Gli occhi dell’uomo lo fissarono, immobili come pietre. Occorsero alcuni secondi prima che Gilbert emergesse in quelle iridi di cenere.

L’Hellsing si inginocchiò scoordinato, come una marionetta cui venivano tagliati i fili uno a uno. Appoggiò le mani sulle sue spalle minute, e frammenti di voce che si accatastarono sulle sue labbra tremanti.

«Matthew… è andato lontano… molto lontano…»

«È arrabbiato con noi?»

«No, Ludwig. È… è stato costretto ad andarsene.»

«Possiamo andarlo a trovare?»

«Forse, tra molti anni. Ma non adesso.»

«Perché piangi, fratellone?»

Appoggiò i palmi sulle guance dell’uomo, più volte, ritirandole sempre più umide. Era la prima volta che vedeva Gilbert piangere.

«Perché mi mancherà da morire…» buttò fuori l’Hellsing, sfregando violentemente il dorso della mano contro gli occhi.

Ludwig si sporse per depositargli un bacino sul naso. Le lacrime di Gilbert si arrestarono, come colte alla sprovvista da quella piccola dimostrazione d’affetto.

«Non preoccuparti, fratellone» lo tranquillizzò Ludwig. «Rimango io con te finché Matthew non ritorna.»

Le lacrime sgorgarono di nuovo, ma un sorriso fendette quella cascata inesorabile.

«Lo so» Gilbert lo abbracciò con tutta la sua forza. «Sei un bravo bambino, Ludwig. Sei davvero un bravo bambino…»

 

***

 

Non pensava sarebbe arrivato anche il turno del fratellone.

Sapeva che tutti i demoni erano stati eliminati, per cui non capì perché Gilbert stesse lucidando le armi e indossando la sua divisa color notte.

L’Hellsing si inginocchiò davanti a lui e gli accarezzò i capelli, di nuovo aggrovigliati da quando Matthew era scomparso.

«Ascoltami, Ludwig» il tono del fratellone era pesante come piombo, e il piccolo provò l’impulso di scappare: non voleva essere schiacciato da quella pressione. «Ho una cosa da fare, lontano da qui.»

«Vai a uccidere dei demoni?»

«In un certo senso» concesse mestamente l’Hellsing. «Vado a ripulire la Confederazione. E a riprendere il papà.»

«Abbiamo un papà?»

«Sì. Delle persone molto cattive ce lo hanno portato via. Adesso vado a riprenderlo. Ma Ludwig…» le mani del fratello si erano appoggiate sulle sue guance, come se volessero frenare le lacrime che ancora non avevano cominciato a scorrere. «Se non dovessi tornare…»

«Che vuoi dire?»

«Se dovessi andare lontano, come Matthew… voglio che tu ti affidi ai Gunsmith, d’accordo? Loro avranno cura di te.»

«Avevi detto che avremmo rivisto Matthew solo tra molti anni…»

«È possibile che io lo raggiunga prima del tempo.»

«No! Avevamo detto che lo avremmo aspettato insieme!»

«Ludwig… a volte le cose non vanno come vorremmo…»

«Ma tu sei l’eroe della Galassia! Tu puoi sistemare tutto!»

«Ludwig» l’Hellsing lo afferrò per le spalle, e lo inchiodò con i suoi occhi amaranto. Il piccolo deglutì a vuoto, torchiato da quello sguardo duro.

Le lacrime irruppero sul suo viso, irrefrenabili. Non capiva cosa stava succedendo, l’unica cosa chiara era il terrore di vedere il suo fratellone partire. Lo aveva visto lasciare quella casa mille volte per cacciare i demoni, ma non lo aveva mai visto con quello sguardo. Anzi, lo aveva visto, una volta: il giorno in cui Matthew era sparito.

«Non voglio che tu vada, fratellone…» biascicò nel pianto.

Un sorriso stanco si fece largo su quelle labbra di acciaio, e le braccia dell’Hellsing lo cinsero gentilmente.

«Non vado via, Ludwig. Anche se le nostre strade dovessero separarsi, ci ritroveremo a un crocicchio. E sai perché?»

Ludwig scrollò la testa, facendo volare alcune lacrime nell’aria.

«Perché l’eroe della Galassia non lascerebbe mai da solo il suo fratellino in questo schifo di mondo.»

«Hai detto “schifo”» ridacchiò Ludwig. «È una brutta parola. Non si dice.»

«Hai ragione» l’Hellsing si rimise in piedi, e si avviò verso la porta.

Si fermò sulla soglia e si voltò.

Il sole del tramonto disegnò una bizzarra aureola rossa sui suoi capelli, come sangue sull’argento.

«A presto, Ludwig.»

«Ti aspetto qui, fratellone» il piccolo agitò la manina finché Gilbird non diventò un punto indistinto nel cielo carminio.

Il sole era sorto e tramontato tre volte, e il fratello ancora non era tornato. Ma poteva sentire Gilbird, sapeva che era ancora là, da qualche parte nell’universo.

Il messaggio era giunto il sesto giorno. Una sola parola.

Perdonami.

Ludwig sollevò lo sguardo dalla camicia che stava pulendo. Spazzò l’aria con gli occhi, alla ricerca del minimo segnale.

«Gilbird?» chiamò, in allarme. «Fratellone?»

Le lacrime sconvolsero di nuovo i suoi occhi quando, dopo interi minuti, non ricevette risposta.

«Fratellone!» saltò sul letto, scese in cantina, salì in soffitta, rovistò tra i mobili, chiamando, piangendo.

Uscì a precipizio in giardino, e si gettò a quattro zampe nel punto in cui avevano piantato il bulbo.

«Fratellone, il nostro primo albero è qui! Non vuoi vederlo crescere?»

Corse verso il lago, mise le mani a coppa intorno alla bocca e gridò di nuovo il suo nome sull’acqua scura. E poi corse ancora, senza una direzione, ovunque le gambe e il pianto lo portassero.

Crollò a terra, esausto, qualche ora dopo. Il terreno era duro e freddo, ma non quanto il suo cuore. Quasi non riconobbe come sua la mano che si trascinò a stringere un pugno di sterpaglie brulle.

Le montagne tutto intorno, che fino al giorno prima gli erano sembrate un cancello protettivo, d’improvviso diventarono le zanne di una prigione.

E quel vuoto silenzioso, il mutismo di un pianeta che era stato spogliato uno per uno dei suoi abitati fino ad avere solo un bambino spezzato ad agitarsi sulle sue zolle di fango…

All’improvviso, capì cosa avesse inteso il fratello, tanti anni prima.

Spero che tu non lo capisca mai.

«Mi hai creato perché… ti sentivi solo…» il mondo divenne di nuovo indistinto dietro la coltre delle lacrime. «Perché essere soli è peggio che essere morti…»

Si rialzò a fatica a quattro zampe, e gattonò nella direzione da cui gli sembrava di essere venuto.

«Mi hai creato perché fossi sempre al tuo fianco…» le braccia cedettero, facendolo cadere a faccia in giù nella polvere.

Faticò a respirare attraverso il naso otturato di terra e di lacrime.

«Sapevi quanto faceva male… allora perché mi hai lasciato solo, fratellone?»

Fece forza sui gomiti per sollevare il viso dal terreno, le lacrime che segnavano una scia lucida sulle guance impolverate.

«Matthew, ti scongiuro… non prenderti il fratellone adesso…» singhiozzò. «Non voglio rimanere solo… per favore…»

Un basso ringhio lo fece voltare. Un enorme lupo della tundra lo stava puntando, gli occhi fiammeggianti e le fauci spalancate, bramose della sua carne tenera.

«No…» tremò Ludwig, cercando di rimettersi in piedi. «Ho promesso al fratellone… che lo avrei aspettato…»

Il lupo si caricò sulle zampe possenti, pronto al balzo.

«Anche se lui dovesse dimenticarsi di me… io lo aspetterò sempre… perché io non esisto senza il fratellone…»

L’animale si scagliò su di lui, le zanne pronte ad affondare nella sua carotide.

«E se dovessero portarlo lontano…»

La bestia bloccò il suo assalto, arretrando spaventata.

Ludwig era finalmente riuscito ad alzarsi. La sua pelle bruciava, irradiando una luce dorata che aveva invaso tutta la pianura, accecando il lupo.

«… andrò a prenderlo con le mie stesse mani.»

Non si era mai sentito in quel modo: tutto il suo corpo pulsava, come se la pelle fosse troppo stretta per contenerlo. La sua anima stessa sembrava contrarsi e lamentarsi, rinchiusa in quel forziere di carne troppo piccolo.

«Perché lui è il mio prezioso fratellone, il mio insostituibile eroe…»

Il lupo fuggì nel bosco, guaendo. Ludwig non lo sentì nemmeno. Le parole sgorgavano dalla sua bocca, una dietro l’altra, senza esitazioni, mentre il suo corpo intero si trasfigurava.

«E non rimarrà mai solo finché ci sarò io a proteggerlo!»

Il suo cuore esplose in un fascio di luce. Lo sentì distintamente mentre si smembrava sotto quella pressione serafica, ma non avvertì dolore: tutto era luce, tutto era pace.

Per un attimo, vide con gli occhi delle montagne e parlò con la voce del vento: l’intero pianeta era dentro di lui, e lui era in ogni sasso, ogni foglia, ogni onda.

Fu un attimo di estasi, come se tutto il creato avesse trovato ordine e armonia grazie a lui. Durò un unico, meraviglioso istante, prima che Ludwig si trovasse di nuovo con la faccia a terra.

Non faticò a comprendere che qualcosa era effettivamente cambiato: non ricordava di occupare tanto spazio, prima. Quelle braccia lunghissime erano difficili da muovere, scivolavano da tutte le parti, per non parlare delle gambe. Il suo corpo era diventato più pesante, più spigoloso e più duro. Assomigliava di più a quello del fratellone, adesso: l’adipe che lo rendeva paffuto era svanito, lasciando posto a fasci di muscoli che mai avrebbe immaginato di poter sviluppare.

Cercò di rialzarsi per tre volte, e per tre volte si ritrovò a mordere la polvere.

«Lascia che ti aiutiamo noi, ragazzo. I primi giorni dopo la Cresima sono i peggiori.»

Ludwig faticò a girare il collo muscoloso per fissare i nuovi arrivati, un colosso con gli occhiali e un piccoletto dai capelli biondi. Il primo portava in spalla un fucile lungo quanto lui, che avrebbe potuto spazzare via un intero edificio con un singolo sparo.

«Cresima…?» raspò Ludwig, trasalendo al suono della sua voce improvvisamente bassa, quasi provenisse dalle profondità di un pozzo.

Il più piccolo si avvicinò a lui, e si chinò in modo da poterlo osservare in viso.

«Siamo i Gunsmith. Tuo fratello ti ha mai parlato di noi?» si presentò cortese.

Ludwig annuì vagamente, e il giovane proseguì.

«Eravamo famigli, una volta, e Gilbert ci ha fornito un nuovo corpo dopo… che i nostri padroni sono scomparsi» il piccoletto sfoderò un enorme sorriso, come a rincuorarlo che ormai il lutto era stato superato. «Quindi siamo anche noi suoi costrutti. Abbiamo sentito il tuo richiamo, e siamo corsi ad aiutarti.»

«Non vi ho chiamati…»

«Le emozioni molto forti fungono da richiamo. È un meccanismo di difesa di costrutti e famigli, in modo da poter sempre lanciare un segnale di emergenza» spiegò marmoreo il più grande.

Ludwig cominciava a capire: la sua disperazione aveva inviato una specie di allarme che quei due strani personaggi, essendo stati creati dalla medesima magia da cui era nato anche lui, avevano recepito.

«Avevi chiesto della Cresima» riprese il filo del discorso il più mingherlino. «Non è niente di grave, solo un processo di confermazione. Vedi, Ludwig, al contrario degli esseri umani normali, noi famigli e costrutti veniamo al mondo con un solo scopo. Per i famigli è sempre uguale: proteggere il proprio padrone. Noi costrutti, invece, dobbiamo cercarlo.»

«Il nostro è costruire protesi magiche» echeggiò il più grande.

«Il tuo è proteggere chi è solo» mormorò l’altro.

«Come fate a dirlo?»

«Abbiamo sentito il tuo giuramento, poco fa. E ti sei trasformato nell’attimo in cui hai detto “non rimarrà mai solo finché ci sarò io a proteggerlo”. Quello è lo scopo per cui vivrai.»

«Per voi è stato lo stesso?»

«No, la nostra trasformazione non è stata eclatante come la tua. Ma siamo diversi, Ludwig: per farci nascere, tuo fratello ha plasmato materia già esistente. Tu invece sei stato creato interamente da lui.»

«Mio fratello…»

La mano del piccoletto si appoggiò sulla sua guancia, e Ludwig si sorprese di sentirla ruvida e callosa, quasi come quella di Gilbert. Dato il suo aspetto delicato, si era aspettato una mano soffice e morbida. Quelle erano le dita di un lavoratore e di un combattente.

«Lo rivedrai, Ludwig. Non è morto: è stato imprigionato a Caina. Un giorno vi incontrerete di nuovo.»

Il gigante si chinò su di lui, si fece passare un suo braccio attorno alle spalle mastodontiche e lo sollevò quasi senza sforzo.

«Vieni» mormorò in un boato. «Prima di tutto dobbiamo curarti.»

Ludwig girò il collo con enorme fatica.

Dov’era la sua casa? E il lago dove facevano il bagno?

E il bulbo? Sarebbe morto da solo, dopo che lo avevano illuso di farlo nascere e crescere?

Quel cuore adulto faceva ancora più male, quando si contraeva per il dolore.

«Tornerò» bisbigliò, rivolto all’aria gelida intorno. «Tornerò…»

Perché anche se questo pianeta è artico e morto… è il luogo in cui il fratellone mi ha fatto nascere. È casa mia.

 

***

 

Aveva passato alcuni anni insieme ai Gunsmith.

Lo avevano allenato e istruito finché non era stato in grado di utilizzare tutte le armi che potevano fornirgli.

Aveva un bel ricordo di quegli anni: i Gunsmith erano stati molto gentili con lui, e lui aveva voluto bene a ognuno di loro, ma non riusciva a considerarli “casa”.

Vivevano in un edificio che avevano arredato con tutte le finezze tecnologiche che erano riusciti a produrre in quegli anni, come il riscaldamento che scorreva sotto il pavimento. Nella sua vecchia baita era sempre freddo, ma c’erano Gilbert e Matthew e una coperta in più per racchiuderli tutti e tre in un piccolo guscio di calore.

I Gunsmith non avevano mai preteso di prendere il posto di Gilbert o di quella piccola casa abbandonata in mezzo al nulla, e di questo Ludwig gli era sempre stato grato.

Li considerava degli alleati formidabili e degli amici fidati, ma non erano la sua famiglia. La sua famiglia riposava sotto uno strato di terra fredda e in un blocco di ghiaccio.

Vide la sua occasione per salvare il fratello quando il Vaticano annunciò aperte le selezioni per il nuovo Guardiano.

Anche quella volta, i Gunsmith erano stati accondiscendenti con lui, e gli avevano permesso di partire.

Mathias lo aveva abbracciato, Norge gli aveva stretto la mano, Berwald gli aveva assestato una poderosa pacca sulle spalle, Tino gli aveva regalato un portafortuna, Vash lo aveva convinto a portarsi dietro una pistola e Lily lo aveva baciato su entrambe le guance.

Non ricordava nemmeno i giorni delle selezioni: era stato talmente concentrato sul suo unico obiettivo – liberare il fratello – che non aveva memoria di facce o di nomi che aveva affrontato e sconfitto.

Si era risvegliato da quello strano stato di trance quando era stato ufficialmente presentato al futuro Asse.

Davanti a sé, l’incarnazione del marciume della Confederazione gli sorrideva: una finta cortesia che malcelava l’ipocrisia debordante.

Aveva finto di essere cieco, e aveva accettato l’incarico e quel ragazzo dal sorriso fasullo.

Non poteva negare di averlo odiato, all’inizio. Perché quella bambolina di bugie poteva vivere serena mentre suo fratello era incastrato in una tomba di ghiaccio?

Poi, la porcellana della bambola si era spezzata, e Ludwig aveva potuto scorgere l’interno.

Era anche lui un ragazzo solo alla disperata ricerca del fratello. Ricordava ancora quando gli aveva chiesto se anche lui avesse qualcuno che voleva davvero proteggere, o quando lo aveva implorato di parlargli del suo pianeta affinché potesse vederlo nei suoi sogni. E ancora, quando lo aveva pregato di abbracciarlo per non farlo diventare un fantasma di quel palazzo.

Durante la sua Cresima, aveva giurato che avrebbe protetto chiunque fosse stato solo. E, nell’intera Confederazione, non esisteva una persona più isolata di quel povero ragazzo.

Lui era rimasto senza famiglia, ma almeno aveva dei ricordi con cui cullarsi, quando la malinconia lo assaliva. Feliciano non aveva nemmeno quelli: il fratello gli era stato strappato quando erano ancora bambini, e i suoi genitori non si erano mai comportati come tali.

L’impressione che aveva avuto il primo giorno non era del tutto sbagliata: Feliciano era davvero una bambola, un burattino con la bocca dipinta che non poteva in alcun modo esprimere la sua opinione, costretto a muoversi per un burattinaio che detestava.

In quel momento, aveva fatto il suo vero giuramento come Guardiano: nessuno avrebbe mai più potuto ferire quel giovane, finché lui fosse rimasto al suo fianco.

Aveva cercato di riempire gli interminabili pomeriggi nel Palazzo di Quarzo raccontandogli tutti gli aneddoti più divertenti della sua vita familiare con Gilbert, e Feliciano gli aveva riassunto tutti i libri che aveva letto nella Villa Vaticana.

Ogni tanto, quando anche le parole diventavano ingombranti, Ludwig tendeva le braccia e Feliciano si tuffava tra di esse. Era strano, per il Guardiano, essere la forza portante: era abituato a essere lui quello che si gettava tra le braccia del fratello maggiore.

La crescita era uno strano fenomeno: lo aveva gettato improvvisamente nei panni di chi aveva sempre ammirato dal basso. Pensava che sarebbe stato un processo graduale, invece la realizzazione era stata improvvisa: non era più un bambino, era un adulto.

«Cosa pensi che sia un bacio, Ludwig?»

Anche la domanda di Feliciano era giunta improvvisa come un fulmine.

Il Guardiano attese un attimo, radunando i ricordi che aveva a riguardo: il fratellone che stringeva Matthew, e che muoveva le labbra sulle sue con l’espressione di chi non avrebbe voluto fare altro per il secolo successivo.

«È una promessa» decise infine, citando la spiegazione di Gilbert. «Significa che vuoi stare insieme a una certa persona per tutta la vita.»

Feliciano si alzò dalla poltrona color latte, e si affiancò al suo Guardiano. Sfilò il guanto prima di appoggiare la mano candida su quella del guerriero.

«E tu Ludwig… vuoi restare insieme a me per tutta la vita?»

Il combattente lo fissò in silenzio, la risposta che si assemblava nella sua testa. Poi parlò con la voce profonda che, il giorno della sua Cresima, lo aveva fatto trasalire.

«Feliciano, potresti pentirtene.»

«Perché?»

«Dovresti chiederlo a una persona speciale.»

«Una persona più speciale di te non esiste.»

«Come puoi dirlo? Sono l’unica persona che conosci.»

Ludwig non era stupido: si era accorto già da tempo di provare per quel giovane qualcosa che andava oltre il semplice attaccamento tra Guardiano e Asse. Era qualcosa di estremamente simile alla tenerezza con cui Gilbert guardava Matthew, o all’affetto nascosto in ogni parola che i Gusmith rivolgevano ai rispettivi compagni. Ma non aveva mai rivelato quei suoi sentimenti. Feliciano non aveva mai visto nessuno, oltre a lui. Se anche si fosse confessato, era altamente probabile che il giovane avrebbe accettato solo perché non conosceva alternative. Sarebbe stato come approfittare di un animale in gabbia, e lui non era caduto così in basso.

Feliciano sembrò intuire quei suoi pensieri. Scostò la veletta dal viso per colpirlo con tutta la luce del suo sorriso.

«Cosa cambierebbe, anche se conoscessi altre persone?» minimizzò. «Queste “altre persone” non mi hanno parlato di pianeti lontani e fratelli maggiori. Non mi hanno mai sorretto quando stavo per cadere, non mi hanno abbracciato quando stavo per spezzarmi. Non hanno giurato di proteggermi e non sono state al mio fianco per anni. Conosco solo una persona che ha fatto tutto questo.»

«Feliciano…»

«Forse è vero che non esiste un’anima gemella prestabilita, ma che esistono più persone a noi compatibili» ammise Feliciano, senza smettere di sorridere. «Ma il destino ti ha messo sulla mia strada. E sarebbe vuota in un modo intollerabile, se tu te ne andassi.»

«Feliciano, la tua è una scelta obbligata…»

«Potrei scegliere di stare da solo. Potrei decidere di aspettare di uscire da qui per avere un amante. Invece scelgo te, Ludwig. Oggi e domani, scelgo te.»

«Perché?»

Le mani di Feliciano salirono ad accarezzargli il viso.

«Perché tu tingi il bianco con mille colori. Perché fai viaggiare chi è bloccato in un palazzo. Perché non compatisci, perché ami» il futuro Asse sorrise di nuovo. «Ti servono degli altri motivi?»

Ludwig scosse la testa in cenno di diniego. Non era sicuro che Feliciano stesse davvero scegliendo ciò che era meglio per lui, ma il giovane pareva non nutrire il minimo dubbio a riguardo.

«E tu, Ludwig? Non vedi niente di buono in me?»

«Penso che tu saresti il migliore Asse che questa Confederazione potrebbe mai avere» elencò preciso il Guardiano. «Ed è proprio per questo che dobbiamo scappare prima della tua incoronazione: non ti lascerebbero più andare, e non potrei più farti vedere dove sono nato.»

«Né farmi incontrare tuo fratello maggiore.»

«E io non potrei conoscere tuo fratello gemello.»

«C’erano davvero dei pesci grandi come te, nel lago?»

«Anche più grossi.»

«Dovrò dire a Lovino di stare molto attento, allora.»

Le dita dell’Asse lo sospinsero dolcemente ad abbassare lo sguardo su di lui.

«Te lo chiedo di nuovo, Ludwig: vuoi restare insieme a me per tutta la vita?»

Ludwig si chinò su di lui e Feliciano si alzò sulle punte dei piedi per congiungere le loro labbra.

Il Guardiano si chiese se Gilbert provasse le stesse cose, quando baciava Matthew. Era morbido, tiepido, vivo, nuovo. Le labbra di Feliciano si muovevano curiose contro le sue, come a cercare l’angolazione perfetta per unirsi alle compagne.

Lo sentì sussultare timidamente quando insinuò la lingua ad accarezzargli le labbra socchiuse.

«Per tutta la vita» gli ricordò in un soffio caldo Feliciano, prima di allacciare le braccia al suo collo, schiudendo la bocca per lui.

Ludwig non si sarebbe mai scordato il loro primo bacio, né avrebbe mai dimenticato la loro prima volta, circa due settimane dopo.

Feliciano era steso sotto le lenzuola candide, avvolto nella sua camicia immacolata. Ludwig era seduto di fianco al suo giaciglio, come sempre.

Si baciarono lentamente, e il Guardiano tornò nella sua posizione di veglia.

Una mano eburnea si appoggiò sul suo braccio.

«Ludwig…» lo chiamò Feliciano.

Non ebbe bisogno di aggiungere altro: i suoi occhi e il suo tono basso parlavano con assoluta chiarezza.

Il Guardiano si irrigidì, come spaventato. Amava quel giovane, era innegabile, e Feliciano lo amava con l’amore spensierato e totale di cui solo un essere puro era capace. Adorava baciarlo, sentirlo giocare con le sue labbra e fremere quando le loro lingue si incontravano, e non avrebbe mai smesso di farlo. Ma c’era una regola ferrea che gli aveva impedito di unirsi al suo innamorato il giorno stesso in cui si erano dichiarati: un Asse doveva essere un canale senza macchia. Pertanto, l’Asse non poteva concedersi alla persona amata.

«Non possiamo» rifiutò Ludwig, cercando di suonare convincente.

Feliciano piegò la testa sul cuscino, i capelli ramati che formavano bizzarri intarsi sulla federa lattea.

«Non vuoi?» chiese, la mano ancora fissa sul suo braccio.

Ludwig chiuse gli occhi, imponendosi la calma.

«Un Asse non può…»

«Non sono l’Asse. Non ancora.»

«Lo sarai molto presto.»

«No. Non diventerò mai Asse. Non voglio diventare un fantasma di questo Palazzo triste» la mano salì sul suo gomito. «Vuoi che io diventi un fantasma?»

«Voglio che tu sia libero, Feliciano, e che tu sia felice.»

Il ragazzo gli sorrise, solare e disarmante.

«Allora lasciami libero di essere felice con te» lo invitò con un tono morbido.

Ludwig quasi non si rese conto di essersi portato sul letto, sopra il giovane. Si mosse come se una forza maggiore dettasse i suoi movimenti, allo stesso modo di una conchiglia trascinata dalle maree. Era Feliciano, il suo sorriso pieno di aspettativa e i suoi occhi colmi di amore a farlo muovere come intossicato. Non si accorgeva quasi delle sue mani che spogliavano il giovane, troppo catturato dal suo viso che arrossiva e dalle sue labbra che si torcevano per l’imbarazzo in un modo delizioso.

Pensava che il corpo di Feliciano fosse bianco e immobile come il marmo con cui era costruito il Palazzo. La pelle del ragazzo era pallida, velata di rosa, e rabbrividiva al suo tocco, e si scaldava ai suoi baci.

Un gemito soffice fuggì dalle labbra del giovane quando Ludwig depositò un bacio tra le cosce bianche che si aprivano per lui.

«Ludwig…» lo chiamò Feliciano, immergendo le dita nei suoi capelli biondi. «Un bacio significa stare insieme per tutta la vita, questo significa stare insieme per sempre.»

Il Guardiano si rialzò per fissare l’amante in volto.

Era ancora convinto che avrebbero pagato a caro prezzo la loro follia, che sporcare l’Asse fosse la cosa più sbagliata e blasfema da fare. Ma non riusciva a convincersi che amare Feliciano fosse una cosa deplorevole. Non si era mai sentito a casa con i Gunsmith, per quanto loro si fossero sempre dimostrati premurosi nei suoi confronti; bastavano le braccia magre di Feliciano che lo stringevano, invece, perché Ludwig potesse sentire di nuovo il profumo della tundra e il sapore ghiacciato del lago.

Stavano camminando sul ciglio di un burrone, sfidando a quel modo le regole del Vaticano. E Feliciano era l’unico motivo per cui si sarebbe gettato a capofitto dal precipizio. Solo Feliciano.

Intrecciò le loro dita e i loro sguardi.

«Per sempre» confermò.

Fu strano cercare insieme la giusta posizione e il giusto ritmo; strano, ma non spiacevole. Erano entrambi ugualmente inesperti e curiosi, e, soprattutto, desiderosi di sentire l’altro sopra e dentro di sé.

Le mani di Feliciarono tremarono nel togliere i vestiti a Ludwig, ma non si fermarono, nemmeno quando il tessuto incespicò sui suoi muscoli scolpiti.

Rimasero immobili un istante, guardandosi come affascinati. I loro corpi erano diversi come il giorno e la notte: massiccio e scolpito quello del Guardiano, tenero e magro quello dell’Asse.

Feliciano si aggrappò a quelle spalle forti quando gli addominali di Ludwig coprirono il suo ventre morbido.

Le gambe del giovane si strinsero spasmodicamente attorno alla sua vita quando il Guardiano iniziò a spingersi in lui. Ludwig cercò di ritrarsi, preoccupato di avergli fatto male, ma Feliciano scosse la testa e lo trattenne su di sé.

Il ragazzo inspirò a fondo, e cercò di rilassarsi prima che il Guardiano si portasse di nuovo dentro di lui.

Fu doloroso, all’inizio. Feliciano non pensava che avrebbe fatto così male, come se un coltello gli stesse lacerando la carne. Ma non voleva che Ludwig smettesse: voleva sentirlo dentro di sé e marchiarlo come suo, voleva essere sicuro che il suo Guardiano non avrebbe provato con nessun altro quello che stava provando con lui in quel momento.

Ludwig si fermò più volte, accarezzando e baciando quel ragazzo teso e irrigidito sotto di lui.

Finalmente, il suo corpo parve adattarsi a quell’esperienza: al posto del dolore, una sensazione bollente scaturì al centro delle sue cosce, e si scaricò come un fulmine in tutto il suo corpo.

Non si era mai sentito così caldo, quasi sul punto di sciogliersi. Sollevò gli occhi liquidi sulle iridi azzurre che lo accarezzavano adoranti. Avrebbe accettato di vedere la sua pelle e la sua carne liquefarsi come la cera di una candela, se avesse potuto diventare una cosa sola con Ludwig, in quel modo.

Era un peccato, anzi, era quasi un’eresia, ma esistevano cose più importanti della legge glaciale scandita dal Vaticano. L’amore era senz’altro una di queste cose: non poteva esserci nulla di più puro e perfetto del desiderio che entrambi nutrivano solo per l’altro, come se il resto del mondo si fosse ammutolito e spento.

Feliciano sentì mancare il fiato quando Ludwig si liberò dentro di lui. Finalmente era suo.

Il giovane si accoccolò sul suo petto, quando il Guardiano si stese sul letto.

«Abbiamo sbagliato qualcosa all’inizio, credo» notificò, appena gli ansiti si placarono.

«Ti ho fatto male?» le mani di Ludwig si posarono sulla sua schiena, trattenendolo gentilmente sul suo ventre.

«Non tanto» mentì Feliciano. «Ma credo che esista qualcosa per renderlo… sai… più agevole

Il sospiro di Ludwig inciampò in un accenno di risata.

«Mio fratello sarebbe stato molto contento di spiegarmelo. Si divertiva un mondo a mettere in imbarazzo gli altri.»

«Dovremmo chiederglielo, quando usciremo di qui.»

«Tu non conosci mio fratello.»

«Ma vorrei tanto conoscerlo.»

Feliciano poggiò il capo ramato sulla curva della sua clavicola, e bisbigliò sul suo petto:

«“Per sempre” significa che non potrai mai dirmi addio, né lasciarmi solo. Qualunque cosa succeda, non puoi abbandonarmi.»

Ludwig baciò quella chioma calda, e fece scorrere un dito sulla schiena delicata.

«Diventeremo dei criminali, se scopriranno cosa abbiamo fatto.»

«Il giudizio del Vaticano non mi spaventa, e nemmeno l’Inferno. Dicevano sempre che mio fratello era un diavolo, e che giacere con una persona senza aver intenzione di procreare è peccato. Se questo è l’Inferno, allora non è un brutto posto in cui stare per l’eternità.»

Ludwig lo abbracciò. Quel ragazzo era… indescrivibile.

«Per sempre» il Guardiano afferrò dolcemente l’anulare sinistro del giovane, che non sarebbe mai stato stretto da una fede nuziale, e lo baciò. «Anche se tu dovessi rinascere come una rosa, ti riconoscerei tra altre mille rose.»

Feliciano lo squadrò senza capire, e Ludwig spiegò:

«È una favola che mi raccontava Matthew. Parlava di due innamorati costretti a separarsi. Il loro amore era talmente forte che aveva fatto sbocciare una rosa di fianco alla casa di ognuno dei due, e loro avevano subito capito che quella rosa era nata grazie all’altro.»

«Non voglio che tu diventi una rosa» brontolò Feliciano. «Una rosa non può abbracciarmi.»

Le labbra del Guardiano si poggiarono sulla sua tempia.

«Non ho intenzione di diventare una rosa» lo rassicurò.

Non voleva smettere di abbracciare, baciare e amare Feliciano.

Nemmeno se quel peccato lo avrebbe portato davanti al tribunale del Vaticano.

 

***

 

 «Sei pronto, Ludwig?»

Il Guardiano strinse la sua mano, rivestita dal guanto bianco.

«Non sarà facile, ma andremo fino in fondo» scandì lui.

«Insieme» aggiunse Feliciano in un sorriso.

Le loro dita si separarono prima che le porte di marmo bianco si aprissero, e la piccola figura dell’Asse venisse proiettata in tutta la Confederazione.

Alcune Aeronavi fluttuavano intorno al Palazzo, gremite di fedeli plaudenti. Una ventina di globi erano stati fissati attorno alla terrazza, in modo da catturare l’immagine dell’Asse e trasmetterla in tutta la Confederazione. L’intera famiglia Vaticana era schierata sul pomposo terrazzo che correva lungo tutto il perimetro del Palazzo.

Feliciano sorrise dietro la veletta, e iniziò il suo discorso.

«Miei cari fedeli» esordì. «Vi accolgo con il cuore colmo di gioia in questo lieto giorno. È per me il massimo onore essere oggi investito della carica di Asse… e il peggiore fardello.»

La sorpresa serpeggiò in tutta la Confederazione a quelle parole, e l’intera famiglia Vaticana inorridì: un Asse doveva accettare il suo ruolo con serena condiscendenza, non lamentarsi del suo stato.

Il sorriso di Feliciano non si incrinò mentre sollevava la veletta scatenando una seconda ondata di sgomento: mai gli Assi avevano permesso ai fedeli di vedere il loro viso nudo.

«Un Asse deve essere immacolato» proseguì, mentre il coro di scontento si gonfiava sempre più tutto intorno. «Un Asse deve essere puro. Un Asse deve essere… vergine.»

La mano guantata afferrò il colletto della mantella, strattonandolo bruscamente verso il basso. La Confederazione trasalì, quando una costellazione di succhiotti venne alla luce sul collo niveo del giovane.

«Mi sono unito al mio Guardiano più volte» gridò, per sovrastare il trambusto della famiglia Vaticana intorno a lui. «Per cui sono un Asse corrotto. Il degno Asse per questa Galassia marcia.»

Quattro mani di ferro lo afferrarono per le spalle, e lo spinsero bruscamente all’interno del Palazzo.

Le guardie vaticane avevano circondato Ludwig, impedendogli qualunque movimento, e i membri più anziani della sua famiglia lo stavano squadrando con occhi iniettati di sangue.

«Tu sei diabolico come tuo fratello!» ululò il padre, dando ordine ad altri soldati di immobilizzare Feliciano e di chiudere la porta. «Ma adesso basta: questa maledetta storia finisce oggi!»

Le guardie non furono abbastanza rapide nel chiudere il portone. Feliciano poté scorgere, in lontananza, un’Aeronave la cui descrizione era nota in tutta la Galassia: la Reina de la Oscuridad. Un lupo nero come la notte si lanciò dall’albero maestro, correndo come un pazzo verso di lui.

«Lovino!» gridò Feliciano. «Lovino, sono qui!»

Le porte si chiusero sul suo ultimo richiamo.

 

 

 

 

 

Ed eccoci arrivati all’inizio della saga finale<3

Caleidoscopio terminerà in dieci capitoli massimo çwç

Ancora una volta, grazie a tutti voi che avete letto fin qui<3<3<3

A presto con l’inizio del marasma<3

Red

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Capitolo 24
*** Guerra ***



Capitolo Ventiquattro: Guerra

               

«Fratelli gemelli!»

Lo strepito del signor Vargas scricchiolò nell’utero di pietra.

Feliciano era stato fissato alla parete carnivora con pesanti catene. Il suo viso diventava sempre più stanco e spento man mano che il potere defluiva dal suo corpo.

«Ma adesso basta, questa follia termina oggi!»

«Oh, sì… la follia termina oggi.»

Il signor Vargas volse gli occhi allucinati sul figlio. Nonostante l’energia fosse stata gradualmente drenata dai suoi muscoli, il giovane trovò la forza di alzare il volto con aria di sfida.

«Il Vaticano ha creato i demoni che lo distruggeranno. E pagherà per le sue malefatte passate.»

«Taci! Abbiamo solo mantenuto l’ordine!»

«Avete mantenuto una dittatura basata sull’oppressione. Ma non potrete zittirli, oggi…»

«Di chi stai parlando?»

Gli occhi di Feliciano si chiusero, ma riuscì comunque a esalare, prima di piombare nell’oblio:

«Le vittime senza nome… urleranno…»

 

***

 

Antonio lanciò un’occhiata alla Reina, sotto di sé.

Stava cavalcando Gilbird insieme a Gilbert, mentre Lovino era salito su Mathias con Roderich. Al loro fianco, Yao fluttuava nella sua coltre di fiamme e Ivan attendeva, immobile nella sfera artificiale.

Avevano formato quel piccolo gruppo di attacco per infiltrarsi nel Palazzo, anche se il piano prevedeva che sarebbero entrati solo Antonio e Lovino: lo scopo degli altri era assicurarsi che varcassero le porte sani e salvi.

Aveva lasciato la Reina in mano a Francis, affiancata dalle truppe di Britannia, capitanate dal Mago dell’Ovest, e dalla flotta Asean, sotto la guida del Samurai. Lily e Tino avevano assunto nuovamente la loro forma di famigli, e portavano sulla schiena rispettivamente Vash e Berwald, armati di tutto punto. La piccola scialuppa di Norge si librava a poca distanza.

Erano avvolti da un manto di invisibilità, mantenuto vivo dagli sforzi congiunti di tutti gli incantatori presenti, per non scatenare il panico prima del previsto.

Avrebbero aspettato che Feliciano si affacciasse per il suo discorso, e lo avrebbero rapito prima che potesse finirlo.

Nessuno di loro si aspettava la dichiarazione sconvolgente del futuro Asse. Lo stupore fu così totale che non riuscirono a muoversi finché le guardie non afferrarono il giovane per le spalle, trascinandolo via.

«Feliciano!» gridò Lovino. Roma uscì violentemente dal suo corpo, richiamato dalla sua rabbia, e corse come un folle in direzione del Palazzo. Il lupo di ombra si bloccò quando vide le porte chiudersi, e si voltò verso Lovino in attesa di ordini.

«Andiamo a riprenderci Feliciano» ringhiò il ragazzo a denti stretti.

Gilbert e Mathias sfrecciarono veloci in direzione del Palazzo di Quarzo; Norge, Lily e Tino li seguirono, assieme a Ivan e Yao, mentre le navi rimasero in retroguardia.

In quel momento, sorsero.

Gilbert frenò bruscamente il suo famiglio, e lo stesso fece Roderich.

Le schiere dei Serafini e dei Cherubini si stesero ai lati del Palazzo, come le ali di un angelo della morte.

I marinai mormorarono preghiere scaramantiche nel vedere i Serafini, avvolti in tre delle loro sei ali piumate, le restanti spiegate nell’aria per permettere loro di volare. Gli Asean tremarono, inorriditi dalle quattro facce e dalle quattro ali membranose dei Cherubini.

Lovino li aveva istruiti su di loro, nei giorni precedenti; i Serafini erano incantatori di notevole potenza, trasmutati in quegli esseri meravigliosi e tremendi in seguito a un rito all’interno del Vaticano. I Cherubini, invece, erano combattenti che erano stati plasmati in quella forma bestiale dai Serafini stessi.

Furono Ivan e Yao a spezzare la calma surreale che si era creata: il Custode abbatté violentemente la sua mazza contro un Cherubino, fracassandogli due delle quattro teste, e le spire di fuoco del Figlio del Cielo avvolsero un Serafino, bruciandolo assieme alle sue sei ali.

Il Samurai si staccò immediatamente dalla flotta Asean e, avvolto da una bolla di atmosfera artificiale, affiancò il suo sovrano. Estrasse la katana, e falciò due Cherubini troppo audaci.

«Correte!» gridò il Mago dell’Ovest. «Noi li blocchiamo!»

La flotta di Britannia si diresse verso i Serafini, la Reina contro i Cherubini, mentre le navi Asean si divisero a metà tra le due fazioni.

Gilbird e Mathias saettarono verso le porte del Palazzo di Quarzo, evitando il più possibile la battaglia infuocata.

«Come diavolo si apre questo maledetto portone?» gridò Gilbert sopra il frastuono dello sparo con cui eliminò un Cherubino.

«Abbiamo la chiave» Antonio estrasse dal suo tascapane una croce argentata, lievemente arrugginita, e la passò a Lovino. Il giovane la strinse tra le dita per un istante, in guerra con se stesso.

Aveva strappato quel simbolo nel momento stesso in cui la sua famiglia lo aveva abbandonato. Ironico che proprio quell’oggetto potesse riportarlo da suo fratello.

Lovino lo applicò sulla porta, e concentrò tutta la sua magia per replicare l’incanto che permetteva agli edifici Vaticani di riconoscerlo come parte della famiglia. La magia scorse nelle sue vene, riconobbe il suo sangue come quello di un Vargas, e i bagliori argentati del simbolo trapelarono dalle sue dita.

Le porte perfette si aprirono senza un cigolio. Lovino e Antonio saltarono all’interno, poco prima che queste si chiudessero dietro di loro.

«È sicuro lasciarli andare da soli?» chiese Roderich, mentre Mathias si voltava per fronteggiare i Cherubini e i Serafini.

«Solo pochi eletti hanno il permesso di entrare in questo palazzo. Non troveranno troppe persone a sbarrargli la strada» spiegò Gilbert. L’archibugio cantò di nuovo, prima che la voce dell’Hellsing risuonasse nell’aria: «Le guardie e l’esercito, di solito, sostano all’esterno. Dobbiamo liberare l’uscita per quando avranno finito.»

Il calcio del fucile premette contro la spalla del guerriero, ma non poté sparare: Roderich e Mathias si pararono davanti a lui.

«Lascia fare a me» ordinò il musicista. «Interverrai solo in caso di necessità.»

«Sono un Hellsing anche io!» protestò Gilbert.

«Non ti farò andare in battaglia con      quello sguardo!» sentenziò ferreo, imbracciando il violino. «Sembra che tu attenda la morte a braccia aperte!»

L’Hellsing sbarrò gli occhi a quelle parole.

Era sicuro di non averne parlato, e nessuno se ne era accorto: erano tutti troppo focalizzati sulla battaglia. Roderich non gli aveva lanciato più di un’occhiata, eppure aveva capito. Doveva essere una specie di sesto senso sviluppato dai padri.

Aveva parlato con Francis, quella mattina. Poco prima di partire, gli si era avvicinato e gli aveva posto la fatidica domanda.

«Dove si trova Matthew adesso?»

Francis lo aveva guardato con quei suoi occhi nuovi. Gli aveva appoggiato una mano sulla spalla, e aveva mormorato, il più delicatamente possibile:

«Non è nel regno dei morti. Si è reincarnato.»

Il suo cuore, la sua anima, l’interno universo erano andati in pezzi. Gilbert era riuscito a malapena a tartagliare:

«Reincarnato?»

«Sì. Potreste incontrarvi di nuovo, un giorno…»

«A che scopo? Quando avrà dieci anni, io ne avrò più di quaranta. Che futuro può esistere?»

Francis aveva stretto con più decisione la sua spalla.

«Gilbert, lui non ha rotto il giuramento.»

«Che vuoi dire?»

«Sta facendo quello che ti ha promesso: ti sta aspettando. Non perdere la speranza, Gilbert.»

L’Hellsing stese le labbra in un ghigno.

Non perdere la speranza…

«Farò un tentativo…» concesse a mezza voce. «Anche se continuo a non capire come un neonato e un vecchio possano stare insieme…»

Gilbird saltò improvvisamente davanti a Mathias, e Roderich urlò un avvertimento all’Hellsing.

«Non preoccuparti!» gridò di rimando Gilbert. Si voltò, mostrando un viso sfolgorante di orgoglio barbaro. «Non ho intenzione di morire in questo posto schifoso, papà!»

L’archetto di Roderich si immobilizzò per un istante. Al contrario, il suo cuore batté furiosamente nel petto, risuonandogli fino alla gola.

«Hai sentito, Mathias?» sorrise l’uomo. «Erano anni che non mi sentivo chiamare così…»

La musica dell’Accordatore risuonò come sottofondo degli spari dell’Hellsing. Padre e figlio cominciarono a suonare quel concerto di guerra.

 

***

 

«Non ti fa impressione?»

«Cosa?»

«Se ne sta lì fermo senza fare niente…»

«Meglio così. Chi riuscirebbe a fermare quel bestione, se fosse agitato?»

Le guardie bisbigliavano appena, fuori dalla cella in cui era stato rinchiuso il Guardiano.

Sicuramente avrebbe lottato per salvare il giovane Vargas, per cui era stato immediatamente saldato a un pesante ceppo con robuste catene, e rinchiuso in una cella sigillata con simboli magici.

Le sentinelle si erano aspettate reazioni furiose, urla, combattimenti inutili contro la magia che lo bloccava.

Invece Ludwig era rimasto immobile e silente, profondamente assorto nei propri pensieri.

«Siamo fortunati che…»

Entrambi i militi trasalirono per un piccolo rumore alla loro sinistra. Fu l’ultima cosa che fecero: lo sconosciuto alzò una mano, ed entrambi crollarono a terra, addormentati.

Ludwig rialzò il capo, per nulla sconvolto.

«Sette minuti precisi» si complimentò, rigido.

«Stavi contando i secondi?»

«Dovevo pur impiegare il tempo in qualche modo.»

L’uomo sorrise, prima di alzare nuovamente la mano.

La magia che imprigionava Ludwig si dissolse con uno sfrigolio, lo stesso prodotto dall’acqua gettata su un masso rovente.

Il Guardiano si liberò velocemente dai ceppi e uscì dalla prigione, sotto l’occhio vigile dell’altro individuo.

«Questa è tua, a proposito» offrì quello, allungandogli la spada che gli avevano sottratto al momento del turbolento arresto.

Ludwig la sistemò sulle spalle con un unico movimento esperto, per poi portare i suoi occhi di ghiaccio sul suo interlocutore.

«Possiamo andare. Feliciano ci sta aspettando.»

L’altro annuì.

Il Palazzo inghiottì in pochi secondi l’eco dei loro passi.

 

***

 

La musica di Roderich rallentava i Cherubini, falciati da Ivan e Gilbert, con il supporto della Reina, guidata da Francis. Le fiamme del Figlio del Cielo trattenevano i Serafini, attaccati senza pietà dal Samurai e dalla flotta di Britannia, protetta dal Mago dell’Ovest contro gli incantesimi degli angeli con sei ali.

I Gunsmith volavano da una flotta all’altra, attaccando, schivando, uccidendo.

Norge aspettava, seduto nella sua scialuppa con le mani avviluppate alla scatola contenente l’Elfo, la loro ultima creazione.

Non dovette attendere a lungo: ben presto, le porte laterali del Palazzo si aprirono, e una cascata di soldati si rovesciò all’esterno, ognuno di loro protetto da un globo di atmosfera artificiale.

«È arrivato il tuo momento» sussurrò Norge alla scatola, prima di rimuovere il coperchio.

La carica furiosa delle truppe Vaticane si arrestò; i militi inciamparono nei loro stessi piedi, perplessi e spaventati.

L’Elfo li fissò dalla cima della sua altezza imponente, la pelle verde che riluceva fioca sotto le luci delle stelle. La sua forma umanoide confuse i soldati, incerti se quello fosse un uomo modificato con la magia o una creatura bestiale. Gli occhi gialli dell’essere, tuttavia, erano troppo vacui per appartenere a un essere senziente.

Norge stracciò la scatola, impadronendosi della tastiera di comando dell’Elfo. Premette i primi pulsanti e immediatamente le iridi topazio del costrutto si illuminarono di un’intelligenza feroce.

Comandato dal Gunsmith, l’Elfo sollevò i pugni giganteschi e spazzò via la prima fila delle schiere Vaticane.

Norge non si sorprese della facilità con cui l’Elfo seguiva i suoi comandi: i Gunsmith non producevano mai prodotti fallaci. Il costrutto si mosse esattamente come desiderava, e il giovane lo guidò contro l’esercito Vaticano.

Era troppo concentrato nel muovere l’Elfo, e non vide il Cherubino che lo puntava.

Se ne accorse solo quando un peso immane lo travolse, schiacciandolo contro il legno dell’imbarcazione. Il comando gli scivolò di mano, e ruzzolò dall’altro capo della scialuppa.

Gli artigli della bestia si conficcarono nelle sue spalle, passandole da parte a parte come rasoi. Norge non fece quasi in tempo a urlare: il Cherubino lo voltò bruscamente sulla schiena, e affondò le zanne di una delle sue quattro facce nella gola del giovane. Il suo grido si smorzò in un gorgoglio mentre il suo sangue inondava le fauci della belva.

Lo stridio bestiale di un falcone s’incuneò i suoi timpani otturati, e un vento improvviso gli schiaffeggiò il volto prima che il peso immane del Cherubino venisse scaraventato via dal suo petto.

Gli parve di sentire perfino il suono di un violino. Ma era assurdo: chi mai si sarebbe messo a suonare in mezzo a una battaglia?

«Norge!»

Conosceva quella voce, ne era quasi certo, anche se era distorta e offuscata. Gli faceva male al cuore, quella voce…

«Non mi riconosce!»

Roderich non smise di suonare, nemmeno quando Mathias, nella sua forma umana, gridò disperato; non poteva terminare la melodia, o l’effetto frenante su Cherubini e Serafiti sarebbe svanito.

Le mani si Mathias vagarono sul corpo sconquassato di Norge, frenetiche: le spalle erano state quasi divelte dal corpo, e dalla gola aperta uscivano copiosi ruscelli di sangue. Non poteva chiamare il Mago dell’Ovest: era troppo lontano, e troppo impegnato a impedire ai Serafini di trucidare i suoi uomini. Lovino era dentro il Palazzo, e lui non aveva conoscenze sufficienti per salvarlo.

Lo sguardo gli cadde sulla spilla al colletto di Norge.

Quando era stato solo un famiglio era quasi morto, ma nel momento in cui Gilbert lo aveva punto con la spilla era rinato come un essere umano in piena salute. Non era certo che avrebbe funzionato di nuovo, ma era la sua unica possibilità per salvare l’uomo che amava.

Si chinò su Norge, sui suoi occhi spenti e sulle sue labbra insanguinate. Depositò un bacio su di esse, e le sue parole ebbero il sapore del sangue.

«Non andare, Norge. Posso ancora salvarti. Ti amo.»

Se c’era anche una remotissima possibilità che il giovane potesse udirlo, voleva che quelle fossero le ultime parole a scivolare nelle sue orecchie. Non voleva vivere per sempre con il rimpianto di averlo fatto fuggire senza avergli ripetuto che l’amava.

Punse il collo delicato del ragazzo con la spilla.

Un piccolo vortice risucchiò le membra umane di Norge all’interno dell’orpello, facendolo sparire in un turbinare di spire smeraldine.

Mathias strinse freneticamente il ninnolo tra le dita. Era tiepido; poteva quasi sentire il cuore di Norge palpitare al suo interno. Il Gunsmith portò l’orpello al viso, e lo tempestò di baci.

Norge era vivo.

Avrebbe aspettato fino alla fine della battaglia, e lo avrebbe fatto uscire solo davanti al Mago dell’Ovest. Lui sarebbe riuscito a curarlo. Probabilmente.

Mathias scrollò la testa. La battaglia. Doveva concentrarsi sulla battaglia.

Si mise a quattro zampe per tastare il pavimento della scialuppa, e recuperò veloce il comando dell’Elfo.

Il loro gigante verde si rianimò solo quando Mathias cominciò a premere sulla tastiera.

«Roderich» gridò, manovrando l’Elfo. «Mi dispiace, avevo detto che ti avrei guardato le spalle…»

«Lo stai facendo.»

Mathias sentì la schiena dell’uomo premersi contro la sua. Le scapole del musicista si muovevano sotto le sue, seguendo i movimenti repentini dell’archetto.

«Per un famiglio non esiste onore maggiore che combattere con il proprio padrone. L’hai detto tu» gli ricordò Roderich. «Per un padrone, non c’è onore più grande che salvare il proprio famiglio, quando questo lotta per la persona che ama.»

Mathias sorrise, inghiottendo le lacrime.

Sapeva che la sua fiducia era ben riposta. Il suo padrone era un padre affezionato, e una persona dal cuore d’oro.

Cercò di non pensare ad altro, mentre muoveva l’Elfo al posto di Norge.

 

***

 

«Non puoi combattere in queste condizioni!»

«Non posso. Ma lo farò.»

«Perché?»

«Con che coraggio potrei presentarmi davanti a Young Soo, se non spenderò ogni goccia del mio sangue per difendere Yao?»

Il primo spasmo lo colse durante i primi minuti della battaglia.

Kiku non vi badò, e continuò a combattere sotto lo sguardo preoccupato dei suoi colleghi della Stella Polare, gli stessi che avevano espresso la loro preoccupazione quella mattina.

Il secondo giunse poco dopo, e Kiku faticò di più a nasconderlo. Fortunatamente, Yao stava lottando dandogli le spalle.

Il terzo lo costrinse in ginocchio, all’interno della sua sfera artificiale.

Lo spirito del Samurai gli impedì di arrendersi: la katana roteò, nonostante i muscoli preda di spasmi, stroncando i Serafini che miravano alle spalle del Figlio del Cielo.

Il guerriero strinse una mano al petto, e la stoffa bagnata di rosso emise un rumore acquoso, strizzata dalle sue dita. Le ferite si stavano riaprendo; il respiro usciva più corto e più affaticato a ogni nuova stilla di sangue versato.

Yao si voltò in quel momento, e lo vide spezzato, piegato su se stesso e sanguinante.

«Kiku!» esclamò.

Nemmeno la preoccupazione del Figlio del Cielo lo fermò: il Samurai spiccò un balzo e decapitò i Serafini alle spalle del sovrano prima che questi potessero ferirlo.

«Kiku, fermati!»

Il richiamo del regnante non sfiorò le orecchie del guerriero, otturate dal rombo della battaglia. Il Samurai tenne una mano stretta al ventre sanguinante, e fece piroettare la katana con l’altra.

Spezzò le ali e tagliò le gole di altri dieci Serafini, prima che Yao lo afferrasse per le spalle.

«Kiku! Sei ferito! Se continui così, morirai!»

«Sono già morto!»

Altri due fendenti, altri due Serafini caduti.

Il respiro si fece rovente nella sua bocca, impregnata del sapore ferrigno del sangue, ma il Samurai riuscì comunque ad articolare:

«Sono già morto contro il demone. Ho ottenuto una vita lunga qualche giorno. E voglio consacrarla al mio sovrano» un colpo di katana concluse il suo discorso, abbattendo un altro nemico.

«Io non voglio perdere anche te!» Yao urlò sopra il ruggito delle sue fiamme.

Kiku aprì la bocca per rispondere, ma un fiotto di sangue sostituì le parole.

Tossì e sputò, annaspando disperatamente per respirare. Due mani delicate ma decise lo afferrarono da sotto le ascelle, e il soldato si sentì trasportare verso il basso.

Si rese conto di dove si trovasse solo quando il legno della nave Asean si plasmò contro la sua schiena.

Inspirò a fondo, e i polmoni feriti quasi si carbonizzarono per quel respiro. Allungò la mano alla sua destra; non aveva bisogno di vedere per riconoscere l’aura ribollente del sovrano.

«Non ci perderai» riuscì finalmente a sputare fuori.

«Come puoi dirlo, proprio mentre mi stai lasciando?»

Yao faticò a spingere le parole fuori dalla gola gonfia di lacrime bollenti.

La guerra si spense, intorno a lui; il tempo perse consistenza, lo spazio svanì. C’erano solo Kiku e quel dolore lancinante al petto.

Le iridi di pece lo fissarono vacue, e una mano candida si alzò alla ricerca del suo viso. Il Figlio del Cielo la afferrò e se la premette sulla bocca, baciandogli il palmo.

«Questo mondo non è stato creato per quelli come me e come Young Soo» esalò, rauco. «Young Soo era un servo con le mani maledette, io ero un orfano assassino. Questo mondo ci ha calpestato dal giorno in cui siamo nati. Ma tu, Yao…» il pollice del Samurai gli accarezzò debolmente lo zigomo. «Tu hai creato un mondo a parte per noi. Io e Young Soo non abbiamo combattuto per la Confederazione; abbiamo combattuto per quel piccolo universo che hai cucito su di noi» le dita di Kiku si contrassero leggermente, avvertendo le lacrime di Yao scorrere sulle loro nocche. Circondò quella guancia liscia con la sua mano malferma, e stese un sorriso sulle labbra tremanti. «Tu sei un ottimo sovrano, perché, se il mondo non accetta i tuoi sudditi, ne crei un altro appositamente per loro. Non basterebbero mille vite per ringraziarti abbastanza.»

L’Aeronave sobbalzò sotto un violento attacco nemico. Un’orda di Cherubini si rovesciò sul ponte, e fiotti di sangue colorarono l’aria quando i loro artigli si abbatterono sui marinai inermi.

Yao si rialzò in piedi bruscamente, e richiamò a sé il potere delle fiamme. Il Cherubino che ebbe l’ardire di scagliarsi su di lui venne incenerito con un solo gesto da parte del sovrano.

Kiku sorrise stancamente, steso sul pavimento.

Nonostante il dolore, il suo regnante riusciva a recuperare la freddezza e la lucidità in un attimo. Sapeva che un’emozione fuori posto poteva compromettere l’esito di un’intera battaglia, e, qualunque fosse la sofferenza che lo affliggesse, non le avrebbe permesso di compromettere il futuro dei suoi sudditi.

Un sovrano che amava la sua gente; il popolo non avrebbe potuto chiedere di meglio.

Kiku strinse i denti, e fece un enorme sforzo per girarsi sul fianco. Le dita artigliarono il legno e le ginocchia sfregarono dolorosamente quando il Samurai tentò di rimettersi in piedi.

Era il Figlio del Cielo migliore che Chugoku avrebbe mai avuto; doveva combattere fino alla fine per quell’uomo dal cuore di fuoco.

Impugnò la katana e, ringhiando di dolore, la conficcò nel petto di un Cherubino. Il suo ventre sanguinò assieme a quello del nemico, l’incantesimo del Mago dell’Ovest che perdeva progressivamente efficacia.

Un vento gelido si abbatté sul ponte, e Kiku comprese che il Custode dei Cancelli si era appena aggiunto alle loro forze.

Si voltò leggermente, per catturare lo scorcio di Yao e Ivan, fuoco e ghiaccio, che combattevano in sincrono, il primo quasi danzando con le fiamme e il secondo colpendo con la forza di una valanga.

Fu così che vide anche il Cherubino avvicinarsi a Ivan senza essere visto. Il Samurai estrasse velocemente un pugnale da lancio dalla custodia sulla sua coscia, e lo fece sfrecciare in direzione del mostro.

La lama si infisse nella fronte del Cherubino con un secondo di ritardo: la bestia era riuscita ad artigliare il Cuore d’Inverno dell’uomo, e a strapparglielo barbaramente dal petto.

L’urlo del Custode frantumò l’aria. Yao si voltò con gli occhi sbarrati dal terrore, esattamente quando il gigante cadde pesantemente sulle ginocchia.

Ivan udì il tonfo del suo corpo che urtava il suolo come da un’enorme distanza.

Il sigillo del Cuore d’Inverno era stato infranto. Poté avvertire quasi fisicamente una ragnatela di crepe diramarsi nella sua anima di ghiaccio e, da quelle spaccature, il suo potere si disperse nel nulla.

La mazza ferrata divenne improvvisamente troppo pesante, e le dita non furono più in grado di sostenerla. Il manico di ferro rintoccò funereo contro il pavimento.

Ivan dischiuse le labbra per inalare l’aria sporca della battaglia; a ogni respiro, una nuova ondata di ricordi confluì in lui.

Tutte le memorie congelate dal Cuore d’Inverno eruppero come i fiumi durante il disgelo primaverile. Ricordi di infanzia e di famiglia si accatastarono senza ordine nella sua mente confusa, spingendo in un angolo le memorie fredde del Custode. Troppi colori, troppe emozioni, troppe cose cui non era più abituato. Di chi era quella vita che gli passava davanti? A chi sorridevano quelle due giovani ragazze, e quel vecchio signore dalla pelle rugosa come quella di una quercia?

E sangue, sangue, sangue… un mare rosso gli annegò gli occhi.

Facce sorridenti si frammentavano in bocche ritorte dall’agonia, un abbraccio diveniva un tentativo di strangolamento in un secondo: amore e odio combattevano una battaglia furiosa nella sua mente, cercando di decidere chi fosse realmente vivo, se Ivan o il Custode.

In mezzo a quella baraonda, solo una cosa era chiara.

Solo una persona era sempre stata il suo punto di riferimento inamovibile, il sole che splendeva sulla tundra gelata.

«Yao…» chiamò con un filo di voce, quando il volto amato si chinò su di lui, segnato da un torrente di lacrime.

Le belle labbra del sovrano si schiusero per rispondergli, ma Ivan non riuscì a sentirlo. Le memorie si erano affossate in un enorme pozzo nero. E aspettavano che lui le raggiungesse sul fondo di quel baratro. I raggi del sole di Yao sarebbero arrivati fin laggiù?

Gli occhi dell’uomo si chiusero, e quelli del sovrano si spalancarono.

Il Figlio del Cielo chiamò a pieni polmoni il compagno, scuotendolo per le spalle.

Aveva perso Yong Soo, stava per perdere Kiku. Non voleva perdere anche il suo gigante innamorato.

La katana sferragliò sul ponte: il Samurai aveva cercato di chinarsi con grazia, ma le ginocchia avevano ceduto. La fine era davvero vicina, se aveva già cominciato a perdere il controllo del suo corpo.

«Gli ha strappato il cuore» esalò Yao, come se non riuscisse a trovare abbastanza fiato per parlare a  un tono di voce normale. «Non può vivere senza cuore…»

Quasi non si accorse dalla mano che si strinse sul suo polso e lo diresse verso l’alto. Si voltò solo quando percepì il battito del Samurai sotto le sue dita.

«Allora è sufficiente fornirgliene uno nuovo» sentenziò calmo Kiku, e aggiunse, prima che il sovrano potesse protestare: «Io morirò comunque. Lo sai, lo hai visto con i tuoi occhi. Ma il mio cuore è illeso, ed è forte.»

«Kiku…»

«Mi hai fatto nascere come Samurai» il giovane chinò il capo, con la sua consueta eleganza. «Permettimi di morire onorando il mio ruolo.»

Le braccia calde del sovrano si strinsero con forza attorno alle sue spalle, e le sue lacrime roventi gli piovvero sul viso.

«Prima di tutto, tu sei Kiku Honda» asserì il regnante nel pianto. «E non ci saranno altri Samurai, dopo di te.»

«Ma il Figlio del Cielo…»

«Nessuno sarà mai degno di prendere il tuo posto. Kiku Honda, tu sarai l’ultimo e il più grande tra i Samurai» Yao si allontanò appena per sfiorare le gote lattee con affetto. «Young Soo sarà così felice di rivederti…»

«Mi assillerà di domande» sorrise mestamente il giovane.

«Se riuscirà a strapparti all’Aquila e a Heracles. Sei mancato molto anche a loro.»

Gli occhi di carbone si sollevarono su quelli del sovrano, e la mano del Samurai si premette su quella del regnante, appoggiata al suo sterno.

«Ti aspetteremo là, Yao. In un mondo in cui la notte è punteggiata di stelle, in cui non esistono orfani o schiavi. Heracles ti costruirà il trono più splendido che si sia mai visto, e ti aspetteremo. Vivi la tua vita e facci aspettare a lungo.»

Il sorriso del Figlio del Cielo inghiottì a fatica le lacrime, mentre il sovrano annuiva.

«Dovrete fare spazio, perché sarò in compagnia di un gigante…» mormorò in un sospiro.

Il mento di Kiku si appoggiò alla sua spalla. Il corpo del Samurai stava perdendo le energie e, con esse, la vita.

«Ti abbiamo amato con tutte le nostre forze, Yao. E l’aldilà non è abbastanza lontano per separare chi si ama.»

«Lo so» le dita del sovrano si strinsero sul suo sterno, in conflitto. «E lo sapeva anche Young Soo…»
La forza dell’incantesimo spinse all’indietro le scapole del Samurai, come per una forte onda d’urto. Il sovrano avvolse la schiena di Kiku con un braccio per impedirgli di cadere all’indietro.

Il battito del Samurai si trasferì dallo sterno del guerriero alle sue dita, che si chiusero a guisa di gabbia per impedire al palpito vitale di fuggire.

Il Samurai si accasciò tra le sue braccia, come un bambino contro il petto del genitore; la katana emise uno stridio legnoso, sfregando sul pavimento della nave, e la giacca sporca di sangue scivolò a terra.

Le ciglia di carbone tremarono, mentre le pupille si fermavano per l’ultima volta sul viso del sovrano.

Aspettava di dirlo da una vita intera. Le labbra esauste si stesero in un sorriso sfinito, e una sola parola fuggì da esse prima che si chiudessero per sempre.

«Padre…»

Il Samurai chiuse gli occhi. Non ricordava che il mondo dietro le palpebre fosse così luminoso, quasi dorato. Era il sole?

No, non era il sole. Era una chioma bionda, con due occhi azzurri e un sorriso abbagliante.

Sono venuto a prenderti.

Non eri obbligato.

Lo so. Ma gli eroi fanno così.

Due mani dure come la corteccia, coperte da maniche troppo larghe e troppo lunghe, gli strattonarono il polso.

Ben fatto, Kiku. Hai fatto sorridere anche le stelle.

In lontananza, un ragazzo muscoloso con i capelli mossi si stava sbracciando nella loro direzione.

Kiku si lasciò condurre lungo quella strada eterea. Non aveva paura.

Suo fratello, il suo eroe e il suo amico d’infanzia erano lì con lui. Tutto era bello, in quel giardino di luce.

Lo sapevi, no? L’aldilà non è abbastanza lontano per separare chi si ama…

 

***

 

Antonio e Lovino ruzzolarono sul pavimento perlaceo, un secondo prima che i portoni si chiudessero alle loro spalle.

Lovino fu il primo a rialzarsi in piedi, e si sarebbe lanciato a capofitto nel dedalo di corridoi se Antonio non lo avesse trattenuto per un gomito.

«Che diavolo fai?» scattò il giovane, inviperito. «Feliciano è qui!»

«Ma non è da solo» lo redarguì Antonio.

«Certo, c’è anche quel bastardo di nostro padre!» ruggì il ragazzo, cercando di liberarsi dalla stretta del pirata.

Antonio gli strinse il bicipite con tanta forza che Lovino uggiolò di dolore.

«Fermo» sibilò il pirata. «C’è qualcosa che non va, qui.»

«Che diavolo…»

L’uomo gli impose il silenzio, e socchiuse gli occhi, come in ascolto.

«Conosco questa energia…» valutò, assorto.

La sorpresa si stese sul volto del pirata, trasfigurandolo.

«Non è possibile… come ha fatto a entrare prima di noi?»

«Chi? Finisci una frase, maledizione!»

Antonio lo fissò stralunato.

«Eppure dovrebbe essere al comando della Reina, adesso…»

 

***

 

Un plotone di Serafini si abbatté sulla nave delle Mani del Diavolo.

Francis guidò i marinai in una lotta furiosa, per difendere la libertà della Reina.

Un Serafino colpì duramente il Marauder al volto, facendolo cadere a terra. Un marinaio al suo fianco svuotò l’archibugio sulla bestia, che precipitò fuori dalla nave ululando.

Il mozzo si inginocchiò di fianco all’uomo e tentò di chiedergli dove fosse stato colpito. Le parole divennero cenere sulle sue labbra quando vide il volto del Marauder liquefarsi e ricomporsi in un nuovo viso.

«Mago dell’Ovest?» ragliò il mozzo.

«Oh no!» sbuffò quello. «Io sono il riflesso. Il più bello tra i due.»

«Ma se voi siete qui…» balbettò il mozzo. «Dov’è il Marauder?»

La copia del Mago dell’Ovest diresse il suo sguardo acquamarina sul Palazzo di Quarzo.

«È andato a sistemare una faccenda di trecento anni fa…»

 

***

 

Il signor Vargas tambureggiò nervosamente le dita tra di loro.

Il Guardiano era imprigionato, suo figlio era saldato alla parete che ne avrebbe assorbito l’energia.

Aveva fatto in modo che tutto tornasse sulla retta via. Eppure non riusciva a cancellare quella sensazione acre nel suo stomaco…

«Stai provando dei sensi di colpa, Vargas?»

L’uomo trasalì e si voltò con occhi spiritati.

Uno sconosciuto con un paio di occhiali davanti ai grandi occhi blu lo fissava dalla porta, seguito dal Guardiano, inspiegabilmente libero e armato.

«Chi diavolo sei, tu?» esacerbò l’uomo, arretrando di un passo.

«Oh, forse non mi riconosci per via degli occhiali» teatralizzò lo sconosciuto. Liberò il viso dalle lenti, e diresse verso l’uomo terrorizzato uno sfolgorante sorriso, che divenne un ghigno diabolico l’istante successivo. «Forse non mi riconosci perché sono stato costretto a cambiare viso. Hai fatto rotolare la mia testa troppo lontano perché potessi riattaccarmela al collo…»

«Cosa?»

«Oh, hai ragione. Le tue mani sono sporche di talmente tanto sangue, che non puoi distinguere una goccia dall’altra» l’uomo portò una mano alla fronte con fare drammatico. «Ti darò un indizio: traghetto le anime verso l’aldilà.»

Il volto del signor Vargas si contorse in una terribile comprensione.

Ricordava il Fammingo di cui aveva ordinato la condanna a morte.

L’uomo lo aveva guardato, prima di appoggiare la testa sul ceppo. I suoi occhi non si erano colorati di terrore; al contrario, gli avevano lanciato una sfida.

«Alla prossima, Vargas» aveva salutato, per poi porgere il collo all’ascia del boia. «Non mi tagli i capelli troppo corti, per cortesia. Sono anni che li curo per farli crescere a dovere.»

«Non può essere…» tartagliò, annichilito.

«Sono spiacente, Vargas. Questa volta non potevo aspettare un intero ciclo di reincarnazione, per guidare la Confederazione verso la sua fine.»

Il Marauder scivolò vicino a Feliciano, inchiodato alla parete con gli occhi chiusi. Sfiorò appena la guancia, e le palpebre del giovane si sollevarono.

«Perdonami, Jeanne» sussurrò dolcemente Francis. «Ti ho fatta attendere a lungo…»

«No» rispose Feliciano, con voce febbricitante. «Dice che è lei ad aver fatto aspettare te…» il sorriso del giovane si ampliò quando vide il suo Guardiano poco distante. «Ludwig…»

«Tu sei quel maledetto ciarlatano?» l’urlo del signor Vargas ruppe quella riunione.

Francis si voltò lentamente, un sogghigno malevolo a distorcergli il viso.

«Nelle mie numerose vite ho cambiato nome svariate volte, ma il mio titolo è rimasto sempre lo stesso: Marauder» l’uomo inclinò la testa, sornione e maligno. «Ma se vuoi sapere chi sono stato durante la mia prima vita… ti dirò che tu mi conosci bene, Vargas. Tutti, nella Confederazione, mi conoscono.»

L’uomo allargò le braccia, come un prestigiatore che svela il suo trucco finale.

«Sono nato per la prima volta circa trecento anni fa. Ero l’Asse leggendario, il cui potere è rimasto imbattuto fino alla nascita di Feliciano.»

Gli occhi dell’uomo si assottigliarono come quelli di una volpe.

«Ed è da trecento anni che sto pianificando l’ultimo atto della Confederazione.»

 

 

 

 

 

Babababaaaaam!

E il terribile segreto di Francis è stato svelato 8D

Nel prossimo capitolo torneremo a trecento anni prima, per scoprire come esattamente sono andate le cose. E ci sarà l’epilogo di questa battaglia.

Direi che mancano circa sei capitoli prima della fine. OMG, non ci credo, mi sembra di aver scritto il prologo ieri ç_ç

Anyway, cercherò di aggiornare il prima possibile<3

A presto!

Red

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Capitolo 25
*** La fine del Vaticano ***




Capitolo Venticinque: la fine del Vaticano

 

Lovino e Feliciano non erano i primi gemelli della famiglia Vaticana.

Prima di loro, più di trecento anni prima, erano nati Francis e Jeanne.

Ritenuta la parte debole, Jeanne fu annegata all’età di due anni: la piccolina fu accidentalmente lasciata gattonare troppo vicino al torrente, e sfortunatamente nessuno udì la sua lotta con i flutti. Nessuno poteva uccidere un Vargas, se non la volontà divina; Jeanne era stata abbandonata al suo destino come Lovino era stato scaricato su un pianeta deserto. Un tragico incidente, recitavano le cronache Vaticane.

Francis divenne Asse non appena compiuta la maggiore età. Fu chiaro fin dai suoi primi anni di vita che sarebbe diventato uno degli astri più luminosi nella storia Vaticana: a soli dieci anni era in grado di sconfiggere i migliori maghi della Galassia; a dodici aveva vinto un duello privato con il Figlio del Cielo di allora.

Quello che la sua famiglia non sapeva, era che Francis non aveva mai perso di vista la sorella. I suoi enormi poteri gli avevano permesso di osare qualcosa che era condannato come tabù: parlare con i morti.

Jeanne chiacchierava con lui, cantava e si emozionava per i fiori, come qualunque altra ragazza della sua età. Ciò che la distingueva dalle altre era che solo il fratello la poteva vedere.

Francis fu davvero felice di poter contare sul supporto della sorella quando, al momento dell’Auspicio, aveva visto il futuro della Confederazione.

Sei pallido, aveva notato Jeanne, non appena il fratello aveva fatto ritorno.

«Ho visto il futuro» esalò Francis, abbandonandosi su una poltrona nivea. «La Confederazione scomparirà tra circa trecento anni.»

Cosa?

«Il Vaticano ha fatto molti errori» mormorò, carezzando la guancia inconsistente della sorella. «E continuerà a farne. Seminerà sangue e raccoglierà guerra. E tutto finirà in cenere e lacrime.»

Jeanne volò rasente al soffitto, il viso tra le mani.

Non si può fare niente per impedirlo?

«Una seconda visione si è sovrapposta alla prima» rivelò Francis. «Il Vaticano crollerebbe comunque, ma la maggior parte delle persone presenti nella Confederazione sopravvivrebbero.»

Cosa ti fa tentennare, fratello?

Francis si aggrappò ai braccioli della poltrona per issarsi a sedere.

«Dovrò spargere a mia volta molto sangue. Per diventare un ingranaggio del destino, bisogna sporcarsi le mani. Dovrò trascinare fin qui un alieno innocente perché possa spiegarci come effettuare un viaggio extradimensionale, dovrò convincerlo a distruggere un pianeta intero, dovrò osservare i miei amici che soffrono e aspettare, perché nulla muove il fato velocemente come il dolore…»

E…?

«E dovrò condannarmi a una vita di continue reincarnazioni. Questi eventi avranno bisogno di anni e secoli per avvenire. Sarò l’unico mostro eternamente vivo in una Galassia di fantasmi.»

Lo farai, fratello?

La schiena del giovane Asse si adagiò di nuovo contro la poltrona.

«Lo farò, sorella. Per il futuro. Perché la Galassia non può crollare per la mia codardia. Ma non lo farò sorridendo.»

Troverai la forza di sorridere, in qualche modo. Ti conosco.

Quasi a confermare le parole di Jeanne, le labbra di Francis si stesero naturalmente in una curva dolce.

«Due gemelli come noi. Loro saranno il tassello finale» annunciò l’Asse. «Ma non troveranno mai la strada da soli. Per questo ti chiedo un favore, Jeanne: accompagnali.»

In che modo?

«Diventa il loro animale guida, il loro gregario, quello che preferisci. Ma sarà un compito ingrato, Jeanne.»

Perché?

«Ho letto i testi sui gemelli. Sì, quelli che il Vaticano ha bollato come “letture eretiche”.»

Non voglio nemmeno chiederti come li hai ottenuti.

Un ghigno scaltro scintillò negli occhi color fiordaliso dell’Asse.

«Credimi, sorella, è meglio che tu non lo sappia. Comunque, ho finalmente capito perché i gemelli sono considerati portatori di sfortuna, all’interno della famiglia Vaticana. E non è per la presunta anima divisa a metà» Francis si alzò in piedi, e cominciò a misurare la stanza a larghe falcate. «Quello che i gemelli hanno in comune non è l’anima, ma il potenziale magico. Anzi, non l’hanno esattamente in comune…»

Spiegati meglio.

«È come se i gemelli fossero collegati da un sottilissimo filo di energia» Francis indicò l’ombelico. «Una specie di cordone ombelicale spirituale. E questo filo di energia mette in comunicazione le loro forze magiche. In un individuo singolo, il potenziale magico si divide in ombra e luce; per i gemelli è lo stesso, ma, per via di questo filo, se uno è luce, l’altro è ombra e viceversa.»

Non capisco.

«È complicato, in effetti» si scusò Francis, e mimò con le mani due piatti di bilancia per far comprendere meglio alla sorella. «Quando un individuo singolo usala sua energia positiva, quella negativa viene momentaneamente messa da parte per permettere alla luce di sfolgorare al massimo del suo potenziale» la mano sinistra calò verso il basso, mentre la destra si sollevò a livello del suo viso. «L’ombra viene momentaneamente accantonata all’interno dello stesso individuo. Ma per via del cordone ombelicale spirituale…»

Nei gemelli, quando uno dei due usa il potere della luce, scarica tutto il potere d’ombra sull’altro.

«Esattamente. Per questo i gemelli non sono ammessi nelle famiglie Vaticane. Pensa se uno dei due diventasse Asse e l’altro decidesse, anche solo per una volta, di usare l’energia bianca: un Asse insozzato sarebbe un vero disonore, non trovi?»

 È orribile…

Francis annuì, costernato. Le atrocità che il Vaticano era in grado di commettere in onore della purezza erano incredibili nella peggiore accezione della parola.

«I gemelli hanno anche una seconda caratteristica. Un singolo individuo ha solo un corpo, per contenere il suo potenziale magico. I gemelli, invece, ne hanno due» il sorriso che si stese sulle labbra di Francis quasi gli sgretolò la faccia. «Se pensano che io sia potente, immagina cosa potremmo fare insieme, sorella.»

Jeanne volò di nuovo vicino a lui, e lo fissò intensamente con i suoi occhi chiari.

Prima hai detto che sarebbe stato un compito ingrato occuparmi dei gemelli. Perché?

Il volto di Francis si rabbuiò.

«Poiché quei libri sono stati riconosciuti come immorali e distrutti quasi totalmente, solo noi due siamo a conoscenza di questa particolarità dei gemelli. Il resto della Confederazione è convinto che un gemello erediti la parte malvagia dell’anima e l’altro quella buona, e che quindi sia necessario uccidere il malvagio. Solo noi due sappiamo che entrambi i gemelli possono essere luce e ombra allo stesso tempo, che è una loro scelta» Francis prese un lungo respiro, prima di buttare fuori: «Dovrai scegliere il gemello più testardo, e fargli credere che sia lui il gemello maledetto. Dovrai fargli credere di essere del tutto oscuro.»

Jeanne fluttuò lontano da lui, inorridita.

«È necessario!» si giustificò Francis. «Sarà il desiderio di riunirsi al fratello a muoverlo in modo da decretare la fine della Confederazione per come la conosciamo.»

E non pensi a lui? Come si sentirà quel povero bambino?

«Potrà ancora abbracciare il fratello, e lo farà, alla fine. Credo che sia un bambino molto fortunato.»

Jeanne si fermò a mezz’aria, folgorata da quell’asserzione. Un bambino più fortunato di loro: loro non erano mai riusciti a scambiarsi un vero abbraccio. Avevano solo quelle carezze di vento che ogni tanto Jeanne gli faceva, come in quel momento.

Francis chiuse gli occhi, mentre la brezza della mano della sorella gli sfiorava la frangia bionda.

«Ho paura» confessò, flebile. «Diventeremo due ladri di vite, anche se per la salvezza della Confederazione. Dei predoni…»

Marauder.

«Come?»

Nella tua prossima incarnazione. Fatti chiamare Marauder, e conduci verso l’aldilà tutte le anime che non sei riuscito a salvare. Sarà il tuo modo per espiare.

Francis annuì dolcemente, senza aprire gli occhi.

«Marauder» ripeté. «Non suona male…»

Diventerò un lupo nero, continuò Jeanne, accarezzando gli zigomi del fratello. Un lupo nero per il fratello malvagio. E un leone dorato per quello buono.

«E io sarò la mano che li condurrà a te.»

E insieme condurremo tutti fuori dalla Confederazione.

«Prima c’è una cosa che dobbiamo fare.»

Che cosa, fratello?

Francis le assegnò il ghigno che percorreva sempre le sue labbra quando macchinava qualcosa.

«Ordinare la costruzione di un ventre di pietra in grado di assorbire le energie vitali.»

 

***

 

Francis passò le dita sulla concavità liscia, erosa dai secoli.

«Proprio questo» sussurrò, seguendo il filo dei suoi ricordi.

Il signor Vargas stava sbraitando qualcosa, ma nessuno dei presenti vi fece caso: il Marauder era troppo occupato a ispezionare il ventre cavernoso, e Ludwig stava concentrando tutte le sue energie nel liberare Feliciano senza fargli del male.

«La Confederazione crollerà, senza un Asse a reggerla!» sberciò l’uomo, le vene sporgenti sul collo cianotico.

Francis voltò la testa molto lentamente, a occhi chiusi, mostrando tutto il suo disappunto per quelle continue interruzioni.

«È ovvio che la Confederazione crollerà» comprovò. «Siamo qui per sbriciolarla fino all’ultimo frammento. Non può esserci rigenerazione, senza distruzione.»

«Se la Confederazione crolla, morirete anche voi!»

«Se fossimo all’interno della Confederazione, certo. Ma noi stiamo pianificando un lungo e rilassante viaggio extradimensionale.»

Gli occhi del signor Vargas si spalancarono tanto che per poco non esplosero.

«Voi siete pazzi…» sputacchiò.

«Noi pianifichiamo la salvezza di migliaia di persone, voi avete sterminato interi pianeti. Date le circostanze, sono lieto di essere pazzo.»

Uno schiocco secco annunciò l’avvenuta liberazione di Feliciano. Il suo Guardiano si chinò sulle ginocchia per impedirgli di cadere al suolo, e lo strinse gentilmente tra le braccia finché le gambe dell’Asse non gli permisero di alzarsi faticosamente in piedi.

Francis coccolò i suoi occhi stanchi con l’immagine di Ludwig che sorreggeva Feliciano, facendosi passare un suo braccio attorno alla vita e stringendogli le spalle con la mano forzuta. Era bello sapere che nella Confederazione c’era ancora un po’ di amore sincero.

Si rammaricò quando il signor Vargas rovinò anche quel momento magico.

«Il Vaticano non vi permetterà mai un esodo così blasfemo!»

Un sorriso sconosciuto torse le labbra del Marauder. Non aveva nulla in comune con la sua allegra malizia o con la scaltrezza lasciva che lo contraddistinguevano. Era il ghigno di chi aveva tessuto un filo alla volta l’arazzo della sua vendetta negli ultimi trecento anni.

«Ma il Vaticano crollerà molto prima della Confederazione.»

Il signor Vargas arretrò di fronte all’espressione del Marauder. Sembrava che la sua ombra si fosse improvvisamente espansa, avviluppando tutto lo spazio circostante in una notte innaturale.

«Quando ho detto che il Vaticano ha creato con le sue mani i demoni che lo avrebbero distrutto, dicevo sul serio» Francis ancheggiò lievemente, quasi volesse sedurre la parete al suo fianco. «Ho ordinato io la costruzione di questo posto, trecento anni fa. Un luogo in grado di inglobare l’energia, staccandola dal corpo. Nessuno di voi si è mai chiesto perché abbia dato un ordine simile, vero?»

Il Marauder appoggiò la schiena alla parete e incrociò braccia e gambe, perfettamente rilassato.

«Vuoi spiegarglielo tu, Feliciano?»

«Questa parete può inglobare le energie vitali quando queste abbandonano il corpo in seguito alla morte» ansò l’Asse.

«Esatto» Francis mimò una pistola con pollice e indice, e indirizzò l’immaginaria canna verso il signor Vargas. «”Energie vitali” o “anima”. Hai idea di quante anime desiderose di vendetta questa parete abbia inglobato, in tutti questi anni? Gli Hellsing, i Carriedo… e chissà quanti altri» Francis scrutò sopra la propria spalla, e si compiacque: «Oh… vedo che stanno già cominciando ad arrivare…»

Il signor Vargas rimase muto, quella volta: il terrore gli aveva congelato le parole nel cuore.

Pallide come i ricordi di un incubo, alcune storpiature di facce umane si erano materializzate contro la parete. Parevano una processione di fantasmi disegnati con la nebbia, che premevano i loro volti spettrali contro la pietra alla ricerca di una fenditura.

«Feliciano, vuoi avere tu l’onore?» lo invitò Francis.

L’Asse fece un breve cenno di assenso con il capo, e strinse più forte il fianco di Ludwig per sostenersi.

Serrò le palpebre, e richiamò il suo famiglio. Il respiro terrorizzato del padre graffiò l’aria, inciampando nei suoi denti digrignati.

Feliciano aprì gli occhi, e non si sorprese di vedere un manto di fumo nero di fianco a lui. Allungò la mano per accarezzare Roma sulla testa, prima di sollevarla per afferrare il cappello candido e gettarlo a terra.

«Non esiste un gemello completamente puro, e non esiste un gemello completamente malvagio» dichiarò, con voce spezzata dalla fatica. «Luce e ombra sono in ognuno di noi; il bene e il male sono solo una scelta.»

«E tu scegli la distruzione!» ragliò il signor Vargas.

«Io scelgo la rinascita» replicò Feliciano.

In quel momento, la pietra dietro di lui si spezzò.

Una grossa crepa si allargò con una specie di ululato lungo tutta la caverna, spezzandola a metà. Ludwig lo strinse più forte quando il vento gelido delle lande dei morti li investì, facendo danzare le loro vesti nell’aria turbinosa.

Feliciano chiuse agli occhi, abbracciando Ludwig con tutte le sue forze.

Sentì le urla di quella gente infuriata, ma non riuscì a sollevare lo sguardo per osservare i loro volti lividi di collera.

Non era la morte a spaventarlo, e nemmeno l’ira. Ma sapeva cosa sarebbe successo a suo padre: gli spiriti avrebbero ottenuto giustizia, e lui sarebbe morto in un modo atroce.

Per quanto fosse stato spietato con Lovino, per quanto lui stesso lo avesse odiato ogni singolo giorno, era pur sempre suo padre. Sprofondò il viso nel petto di Ludwig, cercando di sotterrare gli unici ricordi buoni che aveva del genitore: le volte in cui lo prendeva sulle ginocchia e gli diceva che era fiero di essere suo padre, quando si era ammalato e lui lo aveva vegliato…

«Andiamo via» il suo tono salì di urgenza quando il primo urlo del signor Vargas gli pugnalò le orecchie. «Andiamo via!»

«C’è sempre un prezzo da pagare, Feliciano…»

«Lo so» l’Asse stroncò la lezione di Francis. «Infatti non sto aiutando mio padre.»

«Dopo tutto quello che vi ha fatto, vorresti ancora salvarlo?»

«Vorrei che ci fosse un altro sistema. Non siamo diversi da loro, così…»

La mano del Marauder si posò sulla sua testa ramata.

«Tu piangi quando devi uccidere qualcuno, anche se lo odi. Sei deciso in quello che fai, ma non diventi arido. Questo ti rende diverso, Feliciano.»

«Andiamo via» ripeté l’Asse.

Roma sfregò il muso contro la sua veste candida, e Feliciano si strinse ancora di più a Ludwig.

Il Guardiano lo sollevò tra le braccia: le sue gambe cedettero definitivamente poco prima di uscire dalla stanza, quando l’ultimo grido agonizzante del signor Vargas gorgogliò e si spense nell’aria.

Feliciano conficcò il viso nella spalla del suo Guardiano con ancora più forza.

L’eliminazione del padre era necessaria per il rinnovo della Galassia. Lo sapeva, e lo aveva accettato quando aveva deciso di rivedere il fratello e devastare la Confederazione. Tuttavia, per quanti ricordi orribili avesse accumulato in quegli anni, le poche memorie affettuose che aveva del genitore non svanivano.

Le dita forti di Ludwig gli accarezzarono i capelli, dissipando i suoi pensieri.

«Digli addio» le parole del Guardiano gli riempirono le orecchie e il cuore, e Feliciano vi si aggrappò disperatamente. «Ogni azione ha le sue conseguenze, e lui sta pagando per il dolore che ha seminato. Non è colpa tua.»

Feliciano annuì contro il suon petto mentre Ludwig lo portava fuori.

 

***

 

Lovino trasalì quando il suo famiglio cominciò a contorcersi al suo fianco.

«Roma!» il giovane si gettò sulle ginocchia, le mani che vagavano incerte sul corpo nebuloso del lupo. «Che ti succede?»

Le zampe dell’animale rasparono l’aria, le fauci spalancate in latrati singhiozzanti, finché tutto il corpo della bestia si tese come una frusta.

Lovino si rovesciò all’indietro, ritrovandosi steso sulla schiena, quando il pelo di Roma si gonfiò improvvisamente in una nuvola di luce ed energia che deflagrò l’istante successivo.

Il capitano lo aiutò a rialzarsi in piedi, ed entrambi fissarono annichiliti l’animale di fronte a loro.

«Venezia…?» balbettò Lovino, la luce dorata del leone che si spandeva sul suo volto confuso.

«Che significa?»

«Non lo so…»

I loro farfuglii stupiti furono coperti da un tremendo schiocco e un terrificante urlo.

La perplessità abbandonò Lovino in un istante: il giovane si spinse lontano dal capitano e prese immediatamente a correre.

«Lovino, aspetta!» gridò Antonio dietro di lui. «Non sai dove stai andando!»

«Da Feliciano!» il ragazzo non si voltò nemmeno per urlare la sua risposta.

«Potrebbero esserci delle trappole! Fermati!»

Gli avvertimenti del capitano non riuscirono a farsi strada nella mente di Lovino, travolta da una valanga di emozioni.

Erano anni che non sentiva il fratello così vicino.

Gli pareva di percepire un secondo battito contro il suo sterno, come quando dormiva abbracciato con il gemello. Riusciva quasi a sentire il respiro tiepido di Feliciano sul suo collo, e la sua risata rimbombargli dolcemente contro le costole.

Non vide quasi i corridoi, mentre li imboccava: per lui, il Palazzo e i suoi labirinti si erano spianati in un’unica strada dritta. Una sorta di filo invisibile legato al suo cuore e collegato a quello di Feliciano lo tirava con sempre maggiore forza, conducendolo senza la minima ombra di dubbio in quei dedali rompicapo.

Frenò bruscamente dopo aver girato per l’ennesima volta, e Antonio per poco non gli finì addosso.

Il tempo e lo spazio si fermarono, fuori e dentro di lui; i colori sparirono, e tutto sfumò in una confusa nebbia bianca. I suoi polmoni si scordarono di respirare, il suo cuore di battere e il suo sangue di scorrere. Non sentì la presenza di Antonio dietro di lui, non vide il gigante biondo; non sentiva nemmeno l’aria sulla sua pelle o la luminosità di Venezia di fianco a lui.

Il mondo si era ristretto su quel viso identico al suo; tutto il resto era polvere e fumo.

I suoi polmoni si restrinsero vedendo Feliciano trattenere il respiro, e i suoi occhi si spalancarono in sincrono con quelli del fratello.

Feliciano vide i sei anni di separazione marcati sul viso del fratello, nella sua postura e nel suo vestiario. Davanti a lui c’era un pirata, la Mano Sinistra del Diavolo, un giovane che aveva terrorizzato la Confederazione sulla Reina de la Oscuridad e che non temeva di uccidere.

Poi vide quegli stessi sei anni rimpicciolirsi fino a sparire del tutto. E davanti a lui ci fu solo suo fratello, il bambino che gli prendeva la mano mentre riposavano insieme nel letto e poi lo sfidava a riconoscere più stelle di lui.

Nessuno osò dire nulla. La realtà sembrava diventata fragile e inconsistente come un velo di cristallo: il minimo urto poteva spezzarla per sempre.

«Lovino…?»

Il mormorio titubante di Feliciano ruppe dolcemente quell’immobilità vetrosa.

Lovino sentì le lacrime fiaccargli gola e ginocchia nello stesso istante. Dalle labbra gli uscì un misero rantolo e le gambe inciamparono nel primo passo che osò muovere in direzione del fratello. Le gambe di Feliciano non si dimostrarono più stabili: l’Asse scese goffamente dall’abbraccio del Guardiano, e incespicò nei suoi passi affaticati mentre correva verso il fratello.

Lovino poté avvertire ogni millimetro di aria che le sue mani attraversarono per abbracciare il gemello, e quella lentezza lo fece quasi impazzire.

Una nuvola di profumo fresco lo avvolse quando finalmente strinse le braccia attorno alle spalle magre del gemello. Sapeva di luce, di calore, di Feliciano.

L’Asse sentì le ossa scricchiolare sotto la presa del fratello. Si era davvero irrobustito in quegli anni, al contrario di lui: evidentemente i suoi muscoli non erano stati coccolati da poltrone lattee quanto i suoi.

«Feliciano!» la voce di Lovino s’infangò nel pianto trattenuto, ma riuscì a scrollarsi di dosso le lacrime quando lo chiamò di nuovo. «Feliciano!»

L’Asse sollevò il viso dal collo di Lovino per fissarlo in volto. Le mani affiancarono gli occhi nel percorrere i lineamenti del fratello, come per sincerarsi che quel volto non fosse una proiezione onirica. L’ultima volta che lo aveva visto aveva avuto le mani incorporee dell’apparizione astrale, e non aveva potuto toccarlo. Era stato bellissimo vedere il gemello e atroce non poterlo abbracciare.

Avevano sei anni da recuperare. Così tante cose da dire, così tanti ricordi da condividere. Come tutte le volte in cui il passato era troppo e l’emozione era incontenibile, nessuno dei due disse nulla.

Rimasero a fissarsi, a riconoscere cosa era rimasto dei bambini che erano stati in quei volti che si erano spogliati dell’infanzia.

La dolcezza negli occhi di Feliciano si era indurita da una punta di cinismo, come una spina nel miele. Nelle iridi di Lovino, invece, scorreva sotterraneo un filo di amore che un tempo non esisteva.

«Non hai la croce» notò l’Asse, quando le sue dita sfiorarono il collo del fratello.

«L’ho abbandonata insieme al mio cognome» confermò l’altro. «Sono Lovino Belial, adesso.»

Le ampie maniche della veste di Feliciano gli coprirono tutta la schiena, e le sue mani si strinsero sulle sue spalle.

«Ma non hai abbandonato me.»

«Avevo promesso che sarei venuto a prenderti.»

Feliciano sorrise con gli occhi, staccandosi affettuosamente da lui.

«Ma io non ho ancora mantenuto la mia promessa» stese le braccia lateralmente, e le lunghe maniche candide fluttuarono attorno ai suoi arti esili. «Ho detto che avrei spezzato il Palazzo di Quarzo, per voi.»

Lovino lo osservò con un sopracciglio alzato, a metà tra il divertito e il perplesso, esattamente come quando da piccoli programmavano qualche marachella alle spalle degli adulti.

«Il Vaticano deve crollare. Che crolli il suo massimo simbolo» decretò Feliciano.

Lovino lo imitò, allungando a sua volta le braccia.

E il loro potere ruggì contro le pareti.

 

***

 

«L’Elfo è stato abbattuto!»

Il grido di Mathias deflagrò nella scialuppa.

Il Gunsmith si sbarazzò del comando, ormai inutile: una schiera di Cherubini aveva accerchiato l’Elfo e, sistematicamente, avevano distrutto prima le gambe, poi le braccia, e solo alla fine gli avevano dato il colpo di grazia, sbranandogli la testa. La loro creatura si era dissolta in un nugolo di cenere verde, dispersa nel buio dello spazio.

Mathias indietreggiò, una mano ancorata al petto, dove aveva appuntato la spilla di Norge. Non poteva trasformarsi: rischiava di perdere il prezioso ninnolo contenente la vita del suo innamorato.

Trafficò per qualche secondo con le assi della barca: avevano creato un doppiofondo per le armi di emergenza, e Vash non dimenticava mai di rifornirlo.

Il Gunsmith si affiancò a Roderich, un grosso fucile a canne mozze spianato davanti a sé.

Il volto raffinato del musicista era adornato da una pioggia di gocce di sudore. Era passato molto tempo da quando le sue dita si erano mosse sul violino in quel modo, e lo sforzo di concentrazione lo stava sfinendo. I polpastrelli si stavano consumando contro le corde, che vibravano sotto l’archetto come impazzite, e la sua mente si stava logorando per la fatica di controllare l’energia magica e ricordare la melodia al contempo.

Le fiamme del Figlio del Cielo tuonavano intorno a loro, proteggendoli dai Serafini, mentre la Reina e la flotta di Britannia, comandate dal Mago dell’Ovest e dalla sua copia, sfrecciavano nell’aria combattendo con soldati e Cherubini.

«Servirebbe un miracolo» masticò a denti stretti.

Non furono gli dei ad ascoltare la sua preghiera rabbiosa, ma le legioni dei morti.

Entrambe le fazioni si paralizzarono alla vista dello sciame spettrale che si riversò su di loro attraversando le pareti del Palazzo di Quarzo come se non avessero consistenza.

Nessuno capì cosa stesse accadendo: un esercito di spettri di nebbia gonfiò le sue schiere davanti a loro, prima che quello stormo di spiriti si lanciasse in battaglia con un urlo.

I Cherubini e i Serafini si sbriciolarono sotto le armi sovrannaturali di quei fantasmi assetati di giustizia; le loro ali gloriose si sfaldarono in nebulose di cenere, e i loro corpi plasmati con la magia si sciolsero in un ululato bestiale.

I soldati Vaticani si gettarono sulle ginocchia, invocando pietà. Quei fantasmi erano tornati con l’intento di avere giustizia, non vendetta, e risparmiarono coloro che chiedevano clemenza.

Prima che chiunque potesse realizzarlo, il combattimento era terminato: i Cherubini e i Serafini erano ormai solo un ricordo, e i militi Vaticani giacevano sconfitti e prostrati nelle loro sfere di atmosfera artificiale.

Il Figlio del Cielo fu il primo a riconoscere qualcuno in quelle schiere d’oltretomba.

«Kiku!» gridò.

La katana del Samurai si sollevò dal Cherubino disintegrato, l’ultimo rimasto. Rinfoderò la spada e, con la grazia che lo aveva contraddistinto in vita, si inchinò di fronte al suo sovrano.

L’aldilà non è abbastanza lontano per separare chi si ama.

Le sue parole furono udite dal cuore, non dalle orecchie di Yao: scivolarono dolci nel suo sterno, accarezzandogli lo spirito con la loro vibrazione.

«Lo so» confermò Yao, gli occhi scintillanti di lacrime di gioia. «Ora ne ho la prova.»

Non fu l’unico a riconoscere qualcuno dei propri cari in quella coorte di spiriti. Un coro di esclamazioni si sollevò dalle Aeronavi, mentre gli spettri si dividevano come gli affluenti di un fiume tra i sassi di montagna.

Il violino quasi scivolò dalle mani del musicista quando un fantasma si avvicinò a lui.

Roderich pulì gli occhiali e batté le palpebre, come se non si fidasse delle sue iridi viola. Lo ricordava bene quel viso troppo gentile per una guerriera, e quei capelli assurdamente lunghi e inspiegabilmente soffici per una Hellsing: da quando non era più l’Accordatore e la sua memoria era tornata, li aveva visti ogni notte. Nei suoi sogni, li accarezzava tra le dita; nei suoi incubi, li vedeva raggrumati di sangue.

«Sto sognando?» esalò, così flebilmente che lui stesso faticò a udirsi.

Stupido, sorrise Elizabeta.

Roderich allungò la mano umana, non quella ricostruita dai Gunsmith, per accarezzare la guancia di vento della sua amata.

«Sei venuta per portarmi con te?» non c’era paura nella sua voce: l’Inferno l’aveva vissuto in quella Confederazione; riteneva di meritarsi qualche briciola di Paradiso da consumare con la sua Elizabeta.

Non ancora, lo disilluse lei. Gilbert ha ancora bisogno di te. Ma saremo insieme, Roderich. Presto saremo insieme.

Il musicista non era mai stato un uomo loquace: il violino aveva sempre parlato più di lui. Ma, nel momento in cui la guardò negli occhi, seppe che lei aveva capito. Lei aveva sempre capito i suoi silenzi.

L’aldilà non è abbastanza lontano per separare chi si ama, Elizabeta citò le parole del Marauder, che tanti anni prima l’aveva aiutata a entrare nella parete per aspettare il momento propizio.

Roderich allargò le braccia, e la donna fluttuò tra di esse. Il suo petto di aria gelida si appoggiò su quello tiepido dell’uomo quando lo abbracciò.

Ti procurerò un violino, quando mi raggiungerai, mormorò. Voglio sentire di nuovo la melodia che hai composto per me…

Il musicista accarezzò quelle spalle incorporee, inspirando a fondo. Ma non avvertì il profumo della donna: solo una nebbia gelida gli inumidì le narici.

«Il mio diamante della battaglia…»

In quell’attimo, un rumore tremendo, come l’esplosione di un pianeta, li travolse. I marinai furono costretti a gettarsi a terra e ad aggrapparsi con tutte le loro forze alle funi per non essere sbalzati fuori dalle imbarcazioni. Mathias afferrò con una mano il bordo della scialuppa e con l’altra Roderich, evitandogli un doloroso sbarco.

Quel turbine folle si placò veloce come si era sollevato. I marinai della Reina furono i primi a sollevare la testa per sbirciare al di là del parapetto, e furono i primi a gridare per la sorpresa.

Il Palazzo di Quarzo era sparito. Anzi, per essere più precisi, l’edificio che per tanti secoli aveva ospitato gli Asse offerti dal Vaticano era stato ridotto a una costellazione di frammenti vetrosi che fluttuavano pigri nell’aria.

Al centro di quella nuvola di detriti, si ergevano alcune figure ben conosciute, avvolte dal globo di atmosfera artificiale mantenuto vivo dai gemelli.

«Capitano!» gridarono i marinai della Regina.

«Lovino» sorrise Yao.

«Francis» sbuffò Arthur.

«L’Asse!» gridarono le truppe di Britannia.

«Ludwig?»

Il gigante biondo si voltò con cautela. Gli era sembrato di riconoscere quella voce, ma non voleva sperare troppo. Aveva pregato per il fratello giorno e notte, il desiderio di rivederlo lo aveva bruciato, e non avrebbe sopportato una delusione se voltandosi avesse visto un volto sconosciuto.

Le iridi scarlatte lo squadrarono stupefatte, quasi terrorizzate. La bocca irriverente era muta, aperta in un esclamativo senza parole, e i capelli argentei incorniciavano scompostamente quel viso bellicoso.

«Gilbert…»

Il suo primo impulso fu di schiantarsi sul suo petto come faceva quando era piccolo, aggrappandosi alle spalle con le braccia e al bacino con le gambe. Ma lo avrebbe scaraventato giù da Gilbird se ci avesse provato, così attese composto che il fratello fosse smontato dal suo famiglio e si fosse portato al suo fianco.

La mano callosa salì lentamente, quasi con fatica, fino ad appoggiarsi sul suo capo biondo.

La rassicurazione che il fratello era effettivamente lì, e non era un miraggio, colorò il ghigno dell’Hellsing con una punta della vecchia sfrontatezza.

«Una volta ero io il più alto…»

La frase si spense in uno sbuffo strozzato, quando il Guardiano si chinò fulmineamente per abbracciare il fratello.

«Anche se sei più basso, sei sempre il più grande eroe della Galassia, per me» scandì Ludwig, la voce profonda appena traballante per l’emozione.

Gilbert sorrise, accarezzandogli bonario la nuca. Anche se era cresciuto come un mastodonte, era pur sempre il suo fratellino.

«Non sono io a essere più basso. Sei tu che sei cresciuto troppo.»

«Tu devi essere l’Hellsing, il fratello di Ludwig.»

Il Guardiano si scostò per permettergli di vedere la figurina ammantata di bianco che gli si affiancò, e che si appoggiò immediatamente a lui per sostenere le gambe spossate.

Gli sembrava incredibile che tutti loro, briganti ed eroi, avessero rischiato tanto per un ragazzino così filiforme.

Tuttavia, doveva ammettere che, anche se non arrivava nemmeno alle loro spalle, pareva di dover alzare lo sguardo per incrociare i suoi occhi. Il potere magico che lo permeava era innegabile: lo spazio e le stelle stesse sembravano inchinarsi di fronte a lui.

«E tu devi essere l’Asse» Gilbert non poté trattenere una smorfia a metà tra il sarcastico e il malizioso. Se l’annuncio che aveva fatto qualche ora prima quel ragazzino era vero, lui e suo fratello avevano… Ludwig era davvero cresciuto. Anche se non capiva come avesse fatto a non spezzare quel ramoscello di ragazzo.

Feliciano si voltò, porgendo la mano a Lovino, che la afferrò istantaneamente.

«Diamo l’annuncio» lo spronò con garbo.

I due gemelli invocarono un semplice incanto per espandere le loro voci in modo che rimbombassero all’interno di ogni singola sfera artificiale.

«Il Vaticano è crollato» proclamarono. «Siamo liberi!»

Lo spazio quasi crollò per il boato di gioia che esplose dalla flotta di ribelli tutto intorno.

Lovino strinse la mano di Feliciano, e allungò l’altra verso il fianco di Antonio. Finalmente, aveva tra le dita i due motivi per cui aveva lottato: l’uomo che amava e il suo adorato fratello.

«Siamo liberi» ripeté ad Antonio.

Il capitano lo abbracciò in vita, stringendolo a sé.

«E siamo insieme» sottolineò l’uomo.

E si unirono all’urlo di trionfo del resto della ciurma.

 

 

 

 

OMGOMGOMGOMG!!!

Mancano tre capitoli ç_ç Tre intensi capitoli e sarà tutto finito ç_ç

OMG, non mi sembra vero ç_ç

Ma poi ci saranno gli spin-off *si massaggia le tempie*. Sì, dopo ci saranno gli spin-off. E la nuova long, sempre con i nostri beniamini, con richiami a “Il fantasma dell’opera”<3

Anyway… nulla da dichiarare, a parte che MANCANO SOLO TRE CAPITOLI AL FINALEOHGOD!!!!

Beh… grazie per essere arrivati fin qui<3

Che i ribelli al Vaticano siano con voi<3

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Capitolo 26
*** Veglia ***


 

Capitolo Ventisei: Veglia

 

Arthur si abbatté sulla sedia, schiantò i gomiti sulla scrivania e buttò la testa sulle braccia incrociate.

Quando aveva fatto il salto verso una nuova dimensione, aveva desiderato di approdare in un mondo che potesse insegnargli nuove cose. Ma era nauseato da quelle lezioni che sapevano di sangue e lacrime, perfino quando sembravano colorarsi di gioia.

Era rimasto a fianco del Leone Incoronato mentre questo ruggiva glorioso a tutto il popolo di Britannia la caduta del Vaticano. Quel giorno, l’uniforme non pesava come un sudario sulle sue spalle. La sentiva leggera, fiera e splendente: avevano combattuto, avevano vinto, stavano per partire verso una dimensione libera dalla dittatura. Si aspettava applausi ed entusiasmo.

E li aveva avuti. Ma non totali come aveva sperato.

I giovani, le famiglie e i forti avevano esultato, lanciando cappelli e fiori in aria; gli avevano ricordato le feste su Faerie.

Ma poi era giunto il momento degli anziani.

Il loro portavoce era un vecchio curvo e nodoso come un salice piangente, aggrappato a un bastone che svettava sopra la sua testa piegata.

«Noi resteremo, sire.»

La voce dell’anziano scricchiolava come le foglie autunnali sotto le suole delle scarpe. Arthur pensò di aver capito male, ma il vecchio seguitò nella sua cigolante arringa.

«Siamo troppo avanti con l’età per pensare di imbarcarci in un simile viaggio. La fatica potrebbe ucciderci. E, anche se sopravvivessimo, non ci resta molto da vivere. Vi rallenteremo, e ruberemo il cibo ai giovani, che hanno tutta la vita davanti a loro.»

Arthur aveva mantenuto le spalle dritte e la voce stentorea, anche se la sua anima era diventata sottile e fragile come un foglio di pergamena secca.

«Cosa state cercando di dirci?»

«Noi non verremo» le rughe del vecchio quasi gli sgretolarono la faccia in un sorriso incartapecorito. «Siamo nati su questo pianeta, mio signore. Amiamo ogni casa, ogni strada e ogni sasso. Non trovate che sia giusto che tutto finisca dove tutto è iniziato?» l’anziano si interruppe, sistemò la veste sul ventre scarno e terminò: «Non possiamo sopportare un viaggio così impegnativo, signore. E non vogliamo rallentarvi. Abbiamo aperto i nostri occhi su questo pianeta. Permetteteci di chiuderli qui.»

Arthur non era riuscito a pensare a nessun pretesto per convincerli a ripensarci: tutti quei volti solcati dal tempo lo guardavano con la serenità di chi ha scelto e accettato il proprio destino.

Aveva cercato di rendere i suoi occhi insensibili come pietre, mentre osservava le famiglie che si stringevano attorno agli anziani, li abbracciavano e piangevano sulle loro spalle ossute.

Erano troppi. Troppe persone che avrebbero salutato un membro della famiglia sapendo di lasciarlo per sempre, troppi nonni che non avrebbero visto crescere i propri nipotini. Avevano combattuto per proteggerli, ma non erano comunque riusciti a salvarli tutti.

«Non essere triste per loro. Sii triste per noi: saremo noi a dover ancora lottare.»

Arthur si rialzò così bruscamente che per poco non rovesciò lo scranno di legno. Il Marauder si era materializzato alle sue spalle, senza il minimo rumore.

Arthur si allontanò dalla scrivania, e la fretta lo fece quasi inciampare nei suoi stessi piedi. Doveva nascondere gli occhi rossi a Francis prima che cominciasse a ficcanasare come una comare.

«Non ricordo di averti invitato a entrare» sbottò, brusco.

«Non l’hai fatto. Ma io so quando sono necessario.»

«Ah, non farmi ridere! Se lo avessi saputo, non saresti sparito per cento anni!»

Credeva di aver spento la sua rabbia nei confronti del Marauder, invece era ancora lì, viva e bruciante, indissolubilmente legata all’affetto che provava per quell’uomo. Più si rendeva conto di amarlo, più si arrabbiava per il suo abbandono, e più si arrabbiava, più capiva di amarlo, in un circolo vizioso senza fine.

Arthur rimase voltato di spalle, passando nervosamente una mano sulla bocca. Ormai aveva aperto il vaso di Pandora, non poteva più tirarsi indietro.

«Cento anni, Francis… sapevi quanto odiassi l’amore malato di questa Galassia per il sangue, eppure non hai fatto niente per…»

«Sai che non posso interferire con il destino…»

«Non ti ho mai chiesto di cambiare il destino per me! Ma avresti potuto essere lì, Francis!» Arthur si sentì sopraffare, come se quel torrente di parole potesse slogargli la mascella con la sua intensità. «Ho visto Hispaňa bruciare, mi sono gettato nell’orrore della guerra mille volte, e tu non sei mai stato lì! Anche durante la lotta con il Vaticano… tu eri dentro il Palazzo di Quarzo!»

«Sei arrabbiato perché hai dovuto lottare da solo? I guerrieri lo fanno continuamente…»

«Ma io non sono un guerriero!» Arthur si strinse i gomiti con tanta forza che le nocche sbiancarono. Credeva di essere un contenitore di pietra, in grado di reggere qualunque cosa; invece aveva scoperto di essere un vaso di cristallo che qualcuno aveva cercato di riempire di piombo. «Che il sacro melo mi abbia in gloria, io sono un mago, Francis. Un mago che è stanco di raccogliere sangue anche quando cerca di seminare felicità.»

Francis si avvicinò a lui, ma Arthur lo bruciò prima che potesse tentare di abbracciarlo.

«Non ci provare. Sono furioso con te. E sono nauseato da questa dimensione.»

«Ma forse c’è ancora qualcosa che può rasserenarti. Seguimi.»

Arthur si voltò, pronto ad azzannarlo, ma Francis era già sulla porta, e muoveva la mano per invitarlo.

Il Mago dell’Ovest lo seguì suo malgrado, combattendo con l’impulso di prenderlo a calci lungo il corridoio. Un’ultima possibilità. Gli avrebbe dato solo quell’ultima possibilità, prima di mandarlo al diavolo.

Il Marauder si fermò davanti a un muro, e vi appoggiò le mani sopra.

«Non è molto carino fare i guardoni» premise. «Ma sarà solo per qualche istante.»

Alcuni mattoni divennero del colore dell’aria, permettendogli di sbirciare all’interno.

Nello squarcio magico sulla parete si profilarono due figure abbracciate, una stesa su un letto e l’altra seduta al suo fianco.

Arthur riconobbe quei due uomini: aveva curato Norge poche ore prima, dopo che Mathias gli aveva portato una spilla e lo aveva supplicato in lacrime di salvarlo. L’Hellsing lo aveva aiutato a sciogliere l’incanto sull’orpello, e l’Asse si era aggiunto a lui nella magia di guarigione.

Le ferite che spaccavano l’addome del Gunsmith si erano rimarginate in poco tempo, ma il giovane non era riuscito a risvegliarsi subito dal suo stato di incoscienza. Mathias non aveva lasciato il suo capezzale nemmeno per un istante; aveva temuto di essere l’ultima cosa che Norge avrebbe mai visto. Adesso voleva essere certo di essere la prima persona che avrebbe scorto al suo risveglio.

«Qui non c’è dolore» sottolineò dolcemente Francis.

«È una goccia nell’oceano» replicò Arthur, cercando di indurire il cuore.

«L’oceano è fatto di gocce» mormorò il Marauder. «E ci sono molte gocce piene di luce come questa. Antonio e Lovino. Il Guardiano e l’Asse. Noi due.»

Arthur passò una mano sulla parete, lasciando ai due Gunsmith la loro meritata intimità. Afferrò con un pugno la camicia del Marauder e lo mitragliò:

«Non passerò attraverso questo inferno una seconda volta, sappilo.»

Le mani di Francis gli percorsero le gote bollenti d’ira, e si fermarono sulle sue spalle contratte.

«Sono stato orribile.»

«Molto più che orribile.»

«E, nonostante questo, continui a cercarmi.»

«Io non ti cerco» sbuffò acre Arthur. «Sono i nostri destini a essere intrecciati.»

Francis lo circondò in un abbraccio affettuoso, e il Mago dell’Ovest rimase fermo come un tronco di albero tra le sue braccia.

«È finita, Arthur. La guerra cominciata trecento anni fa, la guerra che hai tanto odiato è finita» bisbigliò sui suoi capelli ispidi.

Il Mago dell’Ovest sbuffò qualcosa di incomprensibile, allacciando stizzosamente le braccia alla vita del Marauder.

Lo aveva quasi dimenticato.

Dietro tutti gli orrori, nel vaso di Pandora c’era sempre la speranza.

 

***

 

Le vesti di Yao ricoprirono elegantemente il trono, quando il sovrano vi si adagiò esausto.

Si domandava se anche il Mago dell’Ovest, l’Hellsing e tutti gli altri stessero faticando quanto lui.

Preparare interi pianeti al grande Esodo non era semplice. Ringraziava gli spiriti dei suoi antenati che, ormai, le Aeronavi erano pronte e stipate con le poche valigie che erano consentite per ogni famiglia. Se avessero permesso loro di portare di più, sarebbe occorsa una flotta di Aeronavi solo per i bagagli. Avrebbero ricominciato da zero. E lui avrebbe usato tutta la magia presente nel suo corpo per aiutare il suo popolo.

Ma non era solo stanchezza fisica, la sua. Era soprattutto stanchezza mentale: la tensione per la guerra lo aveva sfinito, dare l’ultimo congedo agli anziani che preferivano morire sul pianeta che li aveva visti nascere lo aveva straziato, e Ivan che giaceva in stato comatoso lo aveva distrutto.

Tuttavia, la sua maschera di regale serenità era rimasta intatta. Solo i suoi occhi raccontavano una diversa realtà.

Kiku e Young Soo avrebbero letto i veri sentimenti che si agitavano nelle sue iridi scure, ma loro non erano più con lui. Era tempo di imparare a camminare senza il loro silenzioso conforto.

Fece scorrere le dita nei capelli, sorprendendosi di nuovo di quanto fossero corti. Doveva ancora abituarsi a quella misura, dopo una vita di capelli lunghi fino ai fianchi.

Un consigliere si avvicinò, scalpicciando disordinatamente lungo il corridoio.

«Mio signore!» ansò quello, senza fiato. «Si è svegliato!»

Il suo cuore si fece di piombo e gli sprofondò nei piedi. Risalì con molta fatica, arrivando a strisciargli persino in gola, riempiendo le orecchie con un battito martellante.

Le labbra di Yao furono ferree nel pronunciare le parole che gli fecero tremare il cuore.

«Il Custode dei Cancelli… si è svegliato?»

«Venite, mio signore!» lo incitò il consigliere. «Vi conduco da lui.»

Non ve ne era alcun bisogno: negli ultimi giorni, Yao aveva visitato Ivan talmente tante volte che avrebbe trovato la sua camera perfino se l’avessero fatto camminare bendato.

Yao impose al consigliere di attenderlo fuori dalla porta. Appoggiò la mano sulla parete scorrevole e inspirò a fondo. L’uomo al di là di quella porta aveva perduto il Cuore d’Inverno. Chi avrebbe trovato, steso su quel letto? Il Custode? Ivan? O uno sconosciuto?

Aprì la porta con un movimento secco, per evitare qualunque tipo di ripensamento.

Il respiro si scordò di riempire i polmoni quando vide la schiena solida dell’uomo e la chioma argentata che raccoglievano gli ultimi raggi del sole in tramonto. Era così abituato alla sua figura immobile e inerte, che perfino vederlo seduto rasentava il miracolo.

L’uomo si voltò, sentendo la porta aprirsi.

Le ciglia e le labbra di Yao tremarono, stupite: gli occhi che lo fissavano dall’altra parte della stanza possedevano l’azzurro secco dei cieli estivi nella steppa. Non erano più due freddi gioielli di ametista. E lo fissavano perplessi, come se cercassero di ricavare dei suoi lineamenti un qualunque indizio sulla sua identità. Sul perché il sovrano di quel paese fosse venuto a visitarlo.

Yao chiuse la porta dietro di sé, cercando di non palesare il suo sconforto.

Il cuore era di nuovo sprofondato al suolo. I ricordi del loro tempo insieme dovevano essere evaporati assieme al ragno di zaffiro. Per ironia del destino, lui li avrebbe conservati per sempre, e così avrebbero fatto i suoi successori grazie alla memoria generazionale. Ma Ivan non si sarebbe ricordato nemmeno il suo nome…

«Yao?»

La voce si increspò a metà in una domanda.

L’Asean sollevò gli occhi onice su Ivan, allibito.

«Come mi hai chiamato?»

L’uomo batté le palpebre, quasi cercasse di leggere nell’aria il nome che aveva appena detto. Poi, il suo viso fu illuminato dai ricordi, e la confusione fu spazzata via come gli ultimi stralci di notte quando vengono cancellati dalla luce dell’alba.

Si voltò verso di lui, più sicuro, e allargò le braccia.

«Il mio Yao» rimarcò, possessivo.

L’orientale gettò alle fiamme i protocolli imperiali. Raccolse la veste con le mani e corse verso Ivan, lanciandosi nelle sue braccia.

Il petto che lo accolse era caldo, era vivo. Non c’era più traccia della tormenta che aveva congelato il cuore del Custode per tutta la sua vita.

Yao alzò il viso, e notò una piccola corona ametista sul bordo delle iridi cerulee. Un sottile monumento del passato.

«Come ti senti, Ivan?» domandò, senza allontanarsi.

L’uomo gli accarezzò i capelli, affascinato. Non aveva perso la passione per le sue ciocche mogano, anche se più corte.

«Come se avessi dormito per seicento anni» le parole si affacciarono lente sulle sue labbra, quasi che Ivan fosse incerto di ogni sillaba. «Come se qualcun altro avesse vissuto al posto mio.»

«Ricordi qualcosa?»

Ivan si bloccò, come raggelato. Quando parlò di nuovo, le parole attraversarono con fatica la sua lingua e si lanciarono titubanti dalle sue labbra.

«Le mie sorelle. Mio nonno. Li ha uccisi il Cuore di Inverno, prima di inchiodarsi nel mio petto. Quell’oggetto è un vampiro: ammazza chi non gli serve e sfrutta l’umano prescelto.»

Yao gli accarezzò le spalle, non potendo lenire materialmente il suo dolore.

«E ricordo la vita come custode. Ma non mi sembra di averla vissuta realmente: è come se l’avessi vista attraverso un vetro. Un vetro gelido» appoggiò gli occhi su di lui, e lo strinse con più forza. «E poi c’eri tu.»

Non aggiunse altro. Che potevano aggiungere le parole, quando lui aveva scelto Yao dal primo momento in cui lo aveva visto, lo aveva amato ai massimi gradi permessi dal vampiro sul suo petto ed era quasi morto per lui? Un’accozzaglia di lettere non sarebbe mai riuscita a circoscrivere quell’enormità.

Essere innamorato di Yao era stato bello perfino quando il ragno artico gli risucchiava le emozioni, ma viverlo con il suo vero cuore, senza il filtro invernale del vampiro, era meraviglioso. Era come apprezzare un fiore inglobato nel ghiaccio e assaporarlo invece in primavera, quando la calotta artica non poteva camuffare il colore e il profumo del bocciolo, o impedirgli di ondeggiare sotto le carezze del vento.

«Ti ho fatto aspettare a lungo» si scusò, accarezzando la schiena fine del sovrano.

Yao scosse la testa, abbracciandolo con più forza. Ivan. Il suo Ivan era vivo!

«Non mi hai fatto aspettare» lo contraddisse garbatamente l’Asean. «Ti ho sempre visto, dentro il Custode dei Cancelli. Ti ho sempre sentito lottare contro il Cuore d’Inverno.»

«Non ti mancherà il Custode?»

Yao si distanziò il minimo indispensabile per sentenziare, dolcemente:

«Il Custode era una parte di te, quella che serviva al Cuore d’Inverno per fare il suo dovere. Ho visto il tuo lato più gelido e spietato. E l’ho visto diventare più umano con me. E ti vedo ora, Ivan. E ho amato tutto quello che ho visto. Sarebbe davvero un amore insipido se amassi solo un lato di te.»

Ivan lo sollevò di slancio, in uno di quei suoi tipici momenti di irruenza, e lo appoggiò sulle sue ginocchia. Subito dopo, premette una mano sul petto, contorcendo il viso in una smorfia di dolore.

«Temo di essere ancora in convalescenza» valutò.

Yao lo aiutò a stendersi, e lo convinse a rimanere supino baciandolo lentamente sulla bocca.

«Riposati. Domani mattina ci aspetta un lungo viaggio.»

Il sovrano si distese al suo fianco, sopra le coperte, e fece passare una mano sul petto robusto dell’uomo. Ivan lo tenne vicino a sé passandoli un braccio attorno alle spalle.

Le sopracciglia argentee dell’uomo si sollevarono stupite, osservando fuori dalla finestra.

«Credevo che il cielo di Chugoku fosse completamente nero» ricordò.

Il sorriso di Yao si estese, diretto all’intreccio di stelle che trapuntava il cielo notturno.

«Lo dovevo a mio fratello e a mio figlio» bisbigliò.

Loro erano in quel cielo, adesso. Meritavano un prato di stelle, e non un oceano di pece, dove potersi allenare come facevano nelle sale del palazzo.

E dove, ne era certo, lo avrebbero aspettato finché non sarebbe arrivato il giorno in cui si sarebbero incontrati di nuovo.

 

***

 

L’odore dell’erba scura era cresciuto forte e umido con il calare della sera.

Lovino stringeva la mano di Feliciano, steso sul manto erboso assieme a lui.

Erano passati sei, lunghissimi anni dall’ultima volta che erano rimasti così, sereni e rilassati, a fissare il cielo.

Feliciano non aveva più quella veste assurdamente bianca: Lovino gli aveva prestato una camicia e un paio di pantaloni. Erano un po’ troppo larghi per il suo gemello mingherlino, ma nulla che una robusta cintura non potesse risolvere.

«Mi piacciono questi vestiti» mormorò Feliciano, muovendo il pollice sulle nocche del fratello.

«Non sono alta sartoria» minimizzò Lovino.

«Hanno il tuo odore» Feliciano lo disse serio, come se fosse il massimo complimento possibile per un abito, e Lovino rispose con una scrollata di spalle, imbarazzato.

I marinai li avevano fissati sconvolti, quando erano approdati sul ponte della Reina de la Oscuridad; sapevano che il vice del capitano e l’Asse erano consanguinei, ma non si sarebbero mai aspettati una tale somiglianza. All’inizio era facile distinguerli: quello senza tunica bianca era il loro vice. La faccenda si era complicata quando Lovino aveva rivestito il suo gemello. Grazie agli dei, il volto del vice non perdeva mai quell’accenno di broncio, e quello dell’Asse era costantemente permeato da un sorriso sotterraneo. Inoltre il vice si muoveva come un selvaggio, mentre l’Asse sembrava danzare in un’esposizione di cristalli.

«Non ci siamo ancora raccontati cosa è successo in questi sei anni» notò pacato Feliciano.

«È vero» confermò Lovino, gli occhi appuntati al cielo.

«Ma non ne sento il bisogno.»

Voltarono la testa nello stesso momento e sorrisero nell’istante in cui incrociarono gli occhi. Quanto gli era mancata quella sincronia che il padre riteneva sacrilega. Lovino sentiva una scintilla di luce sprizzare nel suo cuore quando vedeva il sorriso baluginare nelle iridi del fratello perché avevano entrambi capito a cosa stavano pensando, anche senza parlare.

«È come quando facevamo i sogni insieme» Feliciano giocherellò con le loro mani, facendole applaudire a mezz’aria. «Non c’era bisogno di chiedere; sapevamo cosa era successo.»

Lovino annuì. Ricordava con una nostalgia acidula le mattinate in cui si svegliavano, saltavano a sedere sul letto e scoppiavano a ridere, sapendo di aver sognato la stessa cosa. E ne parlavano come se fosse stata un’esperienza realmente vissuta insieme.

«Mi sento allo stesso modo» bisbigliò Feliciano. Inspirò a fondo, e l’aria della sera gli inumidì il palato. Non servivano le parole, quando tutto il corpo si trasformava nella cassa armonica dei ricordi del gemello: sentiva le battaglie della Reina rombargli nelle costole, l’ululato di Roma nelle orecchie, la paura di non rivedersi conficcata come una spina nel fegato, e il sapore asciutto della rabbia seccargli il palato. Ma, soprattutto, sentiva l’affetto sconfinato del fratello avvolgerlo come il mare durante un’immersione.

Si voltò di nuovo in sincrono con Lovino, e sorrisero entrambi. Sicuramente, la Mano Sinistra del Diavolo era appena rientrata da una breve escursione nel Palazzo di Quarzo e nei suoi lunghissimi pomeriggi di preghiere e purezza.

Lovino si girò su un fianco per poter fissare il fratello dritto negli occhi.

«Hai davvero fatto quelle cose con… la tua guardia del corpo?»

Feliciano assestò un buffetto sulla fronte corrucciata del fratello. Era bello vedere qualcuno geloso di lui in modo quasi infantile. Se avesse potuto, Lovino lo avrebbe messo sotto una teca di vetro e lo avrebbe sorvegliato giorno e notte, per mantenerlo innocente per sempre. Ma era contento che il fratello non potesse farlo, altrimenti non avrebbe mai potuto correre quel bellissimo rischio di nome Ludwig.

Feliciano attorcigliò un filo di erba con la mano libera. Si era quasi scordato le carezze ruvide dei prati, il massaggio umido dell’aria notturna, e l’odore selvatico del fratello. Era fantastico uscire nel mondo e innamorarsi di nuovo di ogni minimo particolare.

Entrambi i fratelli sollevarono il capo per fissare un’altra riunione di famiglia, poco più in là. Roderich teneva il violino tra le mani, seduto su un sasso, gli occhi viola che andavano da Gilbert a Ludwig con elegante curiosità; il Guardiano ritto in piedi come un faro in mezzo a quell’oceano verde, l’eco di un sorriso sulle labbra e una mano sulla spalla dell’Hellsing, seduto sullo stesso sasso dell’Accordatore.

Erano troppo lontani per sentire di cosa stessero parlando, ma non era difficile immaginarlo: avevano vissuto una lunga lontananza, e stavano cercando di colmarla come potevano con le parole e con piccoli gesti di affetto.

«È un po’ triste» Feliciano si stese sulla pancia, esalando un sospiro. «Per quanto le persone si amino, non possono costringere il tempo a tornare indietro. Sai, il tempo è come un uomo che sparge sale nella terra di un altro; il proprietario potrà avere di nuovo il suo giardino, ma solo lavorando con cura ogni giorno» Feliciano nascose il sorriso triste tra le labbra incrociate: il paragone era particolarmente calzante, considerando la storia che Ludwig gli aveva raccontato tempo prima sul bulbo che lui e Matthew avevano cercato di far germogliare. I tre Hellsing stavano cercando di ricostruire il loro giardino distrutto: avevano appena cominciato a piantare i semi.

Lovino gli picchiettò una tempia.

«Non mi hai risposto» gli ricordò, con il tono del prete di famiglia quando li costringeva a confessarsi settimanalmente.

Feliciano si girò di nuovo sulla schiena, e rivolse un sorriso compiaciuto al fratello.

«Siamo innamorati. Come te e il capitano.»

La bocca di Lovino disegnò un “o” indignato, e si richiuse in uno sbuffo soffocato. Non era riuscito a negarlo con il Figlio del Cielo, che possibilità poteva avere con suo fratello?

«Mi è stato vicino in questi anni» tagliò corto.

«Come Ludwig.»

Una risata sferragliante gli ruzzolò tra le labbra strette. Si augurava vivamente che quella montagna bionda non avesse fatto tutto quello che il capitano aveva fatto a lui, o avrebbe ordinato a Roma di inseguirlo per tutta la Confederazione.

Feliciano era l’unica persona in grado di pungolarlo con gli occhi: gli bastava uno sguardo obliquo con le iridi sfavillanti di aspettativa per convincerlo a sbottonare la lingua.

«Non ce l’avrei fatta, senza di lui.»

«Come Ludwig.»

«Non è come quel… crucco!»

«Crucco?» gli fece eco Feliciano, il tintinnio di una risata in quell’interrogativo. «Non esiste, come parola.»

«Gli calza a pennello.»

«Non puoi inventarti parole a caso, Lovino.»

«Posso, se nessuno si è mai preso la briga di inventarsene una che potesse descrivere quel crucco

Feliciano si arrese con una scrollata di spalle e un sorriso.

«Il loro pianeta di origine è stato distrutto, hanno perso la loro famiglia, sono cresciuti soli e si sono innamorati di un Vargas… sono incredibilmente simili, non trovi?»

«Io non sono più un Vargas» s’incaponì Lovino.

«Allora non sei mio fratello?»

«Se anche dovessero dividerci, sarei nel tuo sangue, nei tuoi sogni e nei tuoi ricordi. Non ricordi?»

Un brivido scese lungo la schiena di entrambi: nessuno dei due aveva scordato le ultime parole che si erano scambiati sei anni prima, sul letto della Villa Vaticana.

«Essere fratelli non ha niente a che fare con il cognome» Lovino afferrò la mano di Feliciano e la strinse con forza. «Ho gettato via i Vargas perché i Vargas hanno gettato via me. Ma non smetterò mai di essere tuo fratello.»

Lovino incrociò le braccia e increspò le labbra in una buffa smorfia.

«E, comunque, non sono simili. Antonio è più bello.»

«Potrei smentirti.»

«Non hai gusto estetico.»

«Sarebbe tragico se considerassi più bello il tuo uomo del mio, non trovi?»

Il respiro gli uscì dalla bocca contratta in una stramba pernacchia. Odiava non poter replicare. C’erano tre persone, in tutta la Confederazione, in grado di zittirlo: il Figlio del Cielo, la cui memoria generazionale e alterigia nobiliare mettevano a tacere chiunque; suo fratello, che lo acquietava con una logica affettuosa; e Antonio, che semplicemente gli toglieva il respiro.

«Antonio è oggettivamente più bello» la sua voce scese di un’ottava, impantanandosi in una lacrima trattenuta. «E non ha più una famiglia cui fare ritorno come Ludwig. O come noi. Non gli è rimasto nemmeno un brandello.»

Feliciano si sollevò a sedere e abbracciò le ginocchia contro il petto.

«C’è una legge che governa l’universo, Lovino. Sai qual è?» le stelle intarsiarono una rete di luccichii argentei nelle sue iridi ramate quando Feliciano sollevò gli occhi al cielo. «Tutto ciò che si distrugge, può essere ricostruito.»

«Ne conosco un’altra, Feliciano. I morti non ritornano in vita.»

«Ma le famiglie si possono ricostruire» il giovane rovesciò delicatamente la testa all’indietro, fissando il gemello. «Tu puoi essere la sua nuova famiglia. Anzi, ora che ci penso, è impossibile.»

«Perché?» scattò Lovino.

«Perché lo sei già» Feliciano gli sorrise con tutto il cuore. «Non puoi diventare la sua famiglia se sei già la sua famiglia, no?»

«Non sono un suo parente» fu la replica incoerente di Lovino.

«Non è una questione di cognome, l’hai detto tu» Feliciano aveva un modo dolce di ritorcere le parole contro il loro primo utilizzatore, come un pasticcere che nascondeva una punta di peperoncino nella crema: c’era tutto il tempo di assaporare lo zucchero prima di scottarsi la lingua col piccante.

Lovino si toccò il collo, vicino alla nuca. La cicatrice a forma di croce era ancora lì. Forse era tempo di sostituirla con qualche altro simbolo.

Il giovane si alzò, e il gemello non lo fermò: sapeva dove e da chi stava andando. E sapeva anche che, finalmente, erano liberi e pieni di tempo da trascorrere insieme: avrebbe passato altri giorni e altre notti insieme al fratello.

«Lovino» lo richiamò, dopo qualche passo. «Guarda.»

Il giovane sollevò lo sguardo sulla volta celeste.

Si sentì improvvisamente piccolo e inutile, come una formica messa di fronte a una montagna.

L’universo si stava sciogliendo in un intarsio di spirali di luce. Pareva che una serie di uragani avessero risucchiato uno sciame di fulmini: serpenti di luce saettavano tracciando cerchi nervosi, dipingendo un quadro astratto di luci e ombre nella trama dell’universo.

I gemelli rimasero immobili, Lovino ancora in piedi e Feliciano seduto, a fissare il cielo che si sgretolava in un gomitolo disordinato di saette.

«Il Confine sta cedendo» soffiò Lovino. L’Asse non occupava più il suo posto, e il muro che li divideva dai demoni stava lentamente andando in frantumi.

«È la fine» concordò sereno Feliciano. «Pensavo che avrei avuto paura. Invece è semplicemente… bello.»

Lovino annuì, attonito.

Il giorno dopo sarebbero salpati alla volta di una nuova dimensione. Non sapevano cosa li attendesse al di là di quel salto. Ma sarebbero stati insieme, finalmente.

Era la solitudine a spaventarli, non l’ignoto. L’ignoto poteva essere esplorato, quando c’erano più di due occhi a esaminarlo.

«È straordinario» esalò, mentre un altro pezzo di universo si sfaldava in un roveto di saette.

«Ne valeva la pena, Lovino» la mano del fratello strinse la sua, e le labbra di Feliciano si poggiarono sulle sue nocche. «Per te. Per Ludwig. Per tutte le persone che avranno il coraggio di salpare con noi.»

Lovino si piegò sulle ginocchia per poter abbracciare il gemello. Feliciano aveva ragione: ne era valsa la pena. Tutti i rischi che avevano corso e che ancora si stendevano davanti a loro sparivano se poteva stringere il fratello tra le braccia.

«Vai» lo incitò dolcemente Feliciano, quando si staccarono. «C’è un capitano molto solo che ti aspetta.»

Feliciano rimase qualche secondo a fissare il fratello che si allontanava. I serpenti di luce spezzavano ombre guizzanti sulla schiena del gemello, e disseminavano manciate di riflessi argentei nella chioma di rame.

La sua figura di spalle non era straziante come quando la vedeva nei suoi sogni. Al contrario dei suoi incubi, se lo avesse chiamato, Lovino si sarebbe voltato e, se avesse teso le braccia, sarebbe corso ad abbracciarlo.

Si alzò in piedi a sua volta, e si girò verso gli Hellsing. Ludwig gli fece cenno di avvicinarsi, e Feliciano fu lesto a portarsi al suo fianco.

Roderich chinò il capo, una punta di vergogna a intorbidare la sua glaciale raffinatezza: l’ultima volta che aveva visto l’Asse, era ancora lo spietato Accordatore. E non aveva idea che il Guardiano potesse essere il suo secondo figlio. Nonché l’amante del mago più potente della Galassia.

Ovviamente, tutti lo conoscevano come Asse, ma il giovane non vedeva l’ora di spogliarsi di quel titolo ingombrante come aveva fatto di quelle vesti troppo candide.

La faccia di Gilbert si aprì in un ghigno da galera quando il ragazzo si presentò:

«Sono Feliciano. Feliciano Belial.»

«Questo tipo ha capito tutto» si complimentò Gilbert, battendo una pacca cameratesca sul braccio nerboruto di Ludwig, lieto che il cognome da lui creato avesse tanto successo. «Belial è un bel cognome. Scelto con cura da una persona meravigliosa.»

Feliciano si sedette per terra e invitò Ludwig a fare lo stesso. Rimase appoggiato alla spalla del suo Guardiano, il braccio forte del giovane stretto sulla sua vita, mentre i tre Hellsing si scambiavano ricordi e aneddoti.

La felicità aveva un gusto più semplice di quanto si potesse immaginare: sapeva di famiglia, di baite in riva ai laghi e sonate di violino.

Feliciano socchiuse gli occhi, rigirandosi quella sensazione sulla lingua.

Era tutto lì, in quel sapore casereccio. Il motivo per cui avevano lottato.

Quel sapore ne valeva la pena.

 

***

 

Non li aveva visti.

Non aveva voluto vederli.

Appena i fantasmi avevano fatto la loro apparizione nell’utero di pietra, aveva chiuso gli occhi. Non voleva vedere i suoi genitori.

Aveva mille bei ricordi di loro; non gli serviva una loro immagine come spettri carichi di vendetta.

Emise un sospiro flebile e lungo, nella penombra delle tende di fortuna che avevano allestito di fianco al cantiere aeronavale.

Gilbert aveva ritrovato una parte della sua famiglia. Chissà che effetto faceva, ricongiungersi al proprio padre e al proprio fratello dopo tanto tempo. Doveva essere qualcosa di avvolgente, quasi schiacciante, come quando ci si tuffava in profondità troppo elevate. E bello come le parole non erano in grado di descrivere.

L’espressione che aveva attraversato il volto di Lovino quando aveva trovato Feliciano era qualcosa che aveva visto solo nelle Chiese Vaticane, sui volti degli angeli affrescati. Li aveva visti perché era entrato per rubare i tesori, non per recitare una preghiera come ogni fedele timorato.

Era stato belle assistere a quegli incontri. Bello, ma con una punta di invidia, perché a lui non sarebbe mai successo.

Allargò immediatamente le braccia quando uno scalpiccio di passi ben conosciuti si fece strada nella tenda, e il corpo di Lovino si sagomò contro il suo l’istante successivo.

«Credevo che fossi con tuo fratello» lo accolse, accarezzandogli la schiena.

«Non potevo lasciarti solo come un cane» il barbuglio del giovane gli solleticò il petto, e Antonio gli scompigliò con dolcezza i capelli ramati. «Tu non… non hai più una famiglia.»

Le braccia del capitano si immobilizzarono, strette sulla sua vita magra.

Il puzzo della sua casa che bruciava gli pizzicò nuovamente le narici, e l’uomo dovette scuotere il capo per scacciarlo.

«E quindi?» domandò, senza capire perché Lovino avesse voluto sollevare quell’argomento caustico.

La sua mano destra venne afferrata da quella del giovane, fatta scivolare lungo il fianco per poi essere condotta in alto, attraversando il petto fino ad approdare al collo. I polpastrelli del capitano saggiarono la cicatrice a forma di croce, frastagliata e in rilievo rispetto al resto della pelle.

Sentì Lovino prendere fiato e farlo uscire in un respiro tremulo, tipico di quando voleva dire qualcosa, ma una micidiale combinazione di orgoglio e vergogna gli impediva di esprimersi.

«Non sono una donna.»

«È abbastanza ovvio» la penombra gli impedì di schivare la testata, diretta al suo mento.

«Non mi interrompere!» sbottò Lovino, accecato dall’imbarazzo. «Quindi non… non puoi avere una famiglia, con me.»

«Lovino, abbiamo già affrontato questo…» riuscì a deviare la seconda testata, e il ragazzo si vendicò sferrandogli un colpo allo stomaco.

«Ti ho detto di non interrompere!» Lovino era quasi fluorescente nella penombra, tanto erano diventate paonazze le sue guance. Il giovane prese un altro respiro, bloccato dall’orgoglio che veniva ingoiato.

«Non… non posso portare anelli o sciocchezze simili» riuscì a brontolare, alla fine.

Antonio non capì subito cosa intendesse dire. Impiegò qualche secondo per ricordarsi che quella croce in rilievo, un tempo, era stata il simbolo dell’appartenenza alla famiglia Vaticana… e ora era diventata uno spazio vuoto per un nuovo marchio.

«Lovino» il capitano si avvicinò per parlare a un soffio dalle sue labbra. «Vuoi diventare un Carriedo?»

«Belial Carriedo» precisò piccato lui, allontanandosi con il viso.

Le dita del capitano tracciarono cerchi pensosi sul suo collo.

«Ma io non ho nessun marchio da metterti» rifletté, sornione, come un gatto che gioca con un topolino che tiene tra le zampe. «L’unico che potrei avere…»

Lovino si dimenò come una lince selvatica tra le sue braccia mentre lo faceva voltare. Antonio gli afferrò con forza la nuca, per evitare un’eventuale testata sul naso, mentre schiudeva le labbra sul suo collo.

Le mani di Lovino gli artigliarono la camicia, e un ansito sorpreso sfuggì alle labbra orgogliose. Antonio ghignò, ultimando il lavoro: se avesse saputo prima che quello era un suo punto sensibile, lo avrebbe stimolato molto tempo prima.

Un fiore scarlatto si apriva al centro di quella croce biancastra. Pareva quasi un’icona pagana.

«Sparirà entro pochi giorni, idiota!» Lovino cercò di assestargli una gomitata alle costole, ma Antonio lo abbracciò così forte da impedirgli qualunque mossa azzardata.

«Te lo rifarò finché non mi verrà in mente un simbolo adatto da tatuarti» contrattò il capitano.

«Non posso girare con un succhiotto per tutta la vita!» scalciò il ragazzo.

«Non ho detto per tutta la vita, solo finché non mi verrà in mente un bel tatuaggio» rimarcò Antonio.

«Allora datti una mossa a pensarci!»

«Mi è difficile pensare.»

«Non è una novità!»

«Intendo dire che mi è difficile mentre siamo soli.»

Lovino si immobilizzò per un attimo, prima di insultarlo di nuovo.

«Maniaco…» ma proferì l’improperio con un tono di voce così sommesso da cancellare quasi del tutto la vena di rabbia.

Le dita del capitano gli fecero voltare lentamente il viso, finché non fu a portata di bacio. Lovino si voltò nel suo abbraccio, per potersi arrampicare su di lui e spingersi più a fondo nella sua bocca.

Una mano di Antonio scivolò piano verso il basso, passeggiando oziosamente sulla cintura prima di scavalcarla e pizzicare la biancheria del giovane.

«Antonio! Tirati su le braghe e vieni fuori!»

Adorava Gilbert, gli voleva davvero un mondo di bene. Ma, in quel momento, avrebbe voluto sparargli.

Lovino si allontanò da lui con una spinta e sfregò con foga le labbra sulla manica, quasi temesse che la bocca di Antonio avesse lasciato una traccia indelebile su di esse.

Il capitano uscì, senza riuscire a dissimulare il suo malcontento.

«Spero che sia una questione di vita o di morte» minacciò, uscendo un secondo prima di Lovino.

«Oh» notò Gilbert, malizioso. «Allora l’avvertimento sulle braghe era lungimirante.»

«Cuciti la bocca, crucco» tagliò corto Lovino.

«Crucco?» gli fece eco Gilbert.

«A mio fratello piace inventare nuove parole» minimizzò Feliciano.

«Per cosa siamo stati chiamati?» domandò sbrigativo Antonio.

Roderich sfoderò il violino e lo posizionò sotto il mento con eleganza.

«Non abbiamo ancora reso omaggio a tutti coloro che sono caduti prima di vedere questo giorno» presentò il musicista. «Questa canzone è per loro.»

Gilbert sorrise, sentendo le prime note diffondersi nell’aria. “Non sei solo”. La sua ninna-nanna.

Lo sparuto pubblico si strinse in un abbraccio attorcigliato: Antonio avvolse le braccia attorno alla vita di Lovino, che poggiò una mano sui polsi incrociati dell’uomo e porse l’altra al fratello. Feliciano intrecciò le dita a quelle del gemello, e sorrise quando il palmo di Ludwig si appoggiò sul suo fianco. Il Guardiano allungò il braccio libero, appoggiandolo sulle spalle di Gilbert, che gli batté alcune pacche guerresche in mezzo alle scapole.

Un silenzio contemplativo colò gentilmente sulla piccola assemblea, mentre l’archetto scivolava sulle corde.

Le note parvero gonfiarsi, riempiendo dolcemente tutto lo spazio circostante. La musica cullò i cuori nei loro petti, e volò verso l’alto, dove perfino gli angeli l’avrebbero udita.

Ognuno, in quella melodia, rivide scene diverse.

Gilbert vide un viso biondo con un paio di occhiali e un sorriso goffo.

Ludwig sentì il gelo di un laghetto di fianco alla sola baita nella tundra brulla.

Antonio udì le voci dei suoi genitori rimbombare nei corridoi della sua memoria.

Feliciano vide suo padre, quando ancora si ricordava come si faceva a sorridere.

Lovino avvertì la morbidezza del letto nella Villa Vaticana, da cui fissava il cielo con il fratello.

Roderich continuò a suonare, finché perfino le stelle non si voltarono per ascoltare la sua melodia.

La stavano sentendo anche i combattenti incorporei che li avevano aiutati in quella guerra.

Poteva quasi vederli, affacciati dai loro seggi di nuvole.

E, tra loro, poteva scorgere con particolare chiarezza una donna fiera, dai lunghi capelli castani.

Una guerriera che sorrideva solo per lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

Più di dieci giorni senza wi-fi.

PIU’ DI DIECI GIORNI SENZA WI-FI E CON IL CAPITOLO PRONTO DA POSTARE!!!! AVEVO VOGLIA DI MANGIARMI LE MANI!!!!

Cooooomunque…. Eccoci qui gente, al terz’ultimo capitolo! Ebbene sì, ancora due capitoli e Caleidoscopio sarà concluso ç_ç Mi viene da piangere, come quando ho scritto la fine di Rosario Cuentas çAç

Questa storia mi ha coccolata per un anno circa, e spero abbia tenuto buona compagnia anche a voi<3e, se l’ha fatto, spero seguirete anche gli spin-off<3

Pensavo di cominciare dalla saga degli Hellsing, con il piccolo Gilbert e un Roderich non del tutto certo di voler allevare quello sgorbietto. Mi sono segnata tutte le vostre richieste su un foglio di word *_* Le elenco di seguito, se ne aveste qualcuna che volete aggiungere siete liberi di chiedere<3 (l’ordine è casuale<3)

 

1)      Breve divagazione sul “prima di Caleidoscopio”

HELLSING

1)      PruCan e piccolo Ludwig (i giorni felici prima che l’autrice sadica uccidesse il povero Matthew)

2)      Elizabeta, Roderich e Gilbert bambino

3)      Gunsmith: come si è formato il loro gruppo e le varie coppie

 

REINA DE LA OSCURIDAD

1)      Profferte fatte a Lovino da parte della ciurma (ebbene sì, qualcuno di voi ha chiesto anche questo<3)

2)      Come Lovino è diventato Mano Sinistra del Diavolo

 

ALTRO

1)      Lovino e Feliciano da piccoli: se Lovino anche in questa fic ama e invidia allo stesso tempo Felì, come hanno preso consapevolezza dei loro poteri e carica, il loro rapporto di gemelli ecc. 

2)      Kiku e Heracles nell’orfanotrofio

3)      Heracles; qualcosa sulla sua infanzia

4)      Giornata tipo di Alfred prima della morte di Matt, una volta diventato Aquila e Stella Polare

5)      Formazione stella polare

6)      Arthur e i suoi cento anni da solo; Francis e cosa ha fatto in quei cento anni

7)      Bad Touch Trio; qualche avventura che ha cementato l’amicizia, come si sono aiutati tra di loro quando Antonio e Gilbert hanno perso le loro famiglie, la reazione di Francis e Antonio quando Gilbert è stato catturato, cosa ha provato Antonio quando anche Francis è stato incatenato

8)      Come sono finiti gli Hellsing e i Carriedo

 

Wow, un bell’elenco direi XD<3

Se vi viene in mente altro, prego<3 Non c’è limite alla fantasia, qui<3

Ciò detto vi saluto e, se il wi-fi mi assiste, avrete presto mie notizie<3

Anche per la futura fanfic su Hetalia, dopo o contemporanea agli spin-off<3

Red

P.S. Non riesco a rispondere alle recensioni sempre per i problemi di wifi ;; appena avro’ la connessione per bene vi rispondero’<3 Grazie a tutti voi che siete arrivati a leggere fino a qui<3

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Capitolo 27
*** La Grande Partenza ***


Capitolo Ventisette: la Grande Partenza

 

Il sole stava ancora dormendo nella culla della notte.

Il cielo e gli astri erano le uniche creature in grado di riposare felici, quella sera. Il mattino avrebbe squarciato la notte e milioni di famiglie, il giorno successivo.

C’erano tanti figli in lacrime, ad assorbire con avidità le parole degli anziani genitori che avevano deciso di rimanere, cercando di imprimere quegli ultimi momenti nella memoria e maledicendosi per non aver fatto tesoro dei precedenti. Tanto tempo passato insieme, e così pochi ricordi messi nel forziere della memoria. Nessuno pensava mai di gioire per le giornate di vita quotidiana, credendo che quel tempo sarebbe durato per sempre. Ma niente era eterno, specialmente il tempo: scorreva incessante nella grande clessidra che era l’universo, e ormai non ne erano rimasti che pochi granelli.

E c’erano tre compagni che avevano deciso di sfruttare una di quelle ultime briciole per farsi una bevuta insieme.

Antonio, Gilbert e i loro compagni non si erano accampati troppo lontano da Britannia, e Francis era riuscito a trovare qualche minuto per loro, prima di tornare ai preparativi condotti dal Mago dell’Ovest. Gilbert si era assunto la responsabilità di trovare l’alcol ed era sparito nella sua tenda, lasciando Antonio e Francis seduti sull’erba umida.

«Ecco qua!» la tenda sputò fuori un Gilbert trionfante, armato di una fiasca di metallo dall’aria consumata. «La scorta di emergenza non tradisce mai!»

«Dimmi che non è quel liquoraccio insipido che ti porti sempre dietro» lo supplicò scherzosamente Francis. «È come bere fango. Dopo che è stato filtrato dall’alito di un drago.»

«Non rompere!» il ginocchio dell’Helsing si schiantò in mezzo alle sue scapole, preciso e micidiale, prima che Gilbert scaricasse tutto il suo peso in mezzo a loro. «Meglio di quell’acquetta d’uva che hai la pretesa di chiamare “vino”!»

«Il vino è come una poesia» decantò Francis, pomposo come sempre. «Richiede palati fini per essere apprezzato.»

«Palati da femminucce» lo corresse Gilbert, le parole sbocconcellate per via del tappo di metallo tra i suoi denti.

«Non hai portato dei bicchieri?»

L’Hellsing aveva un modo piuttosto fisico – in senso barbaro – di dimostrare amicizia. Lo spostò con una gomitata, raschiando:

«Cos’è, rinascere ti ha rammollito? Un sorso a testa e via.»

«Io non mi fido di bere dalla sua stessa bottiglia» Antonio cercò di protestare seriamente, ma un sorriso si stava già affacciando sulle sue labbra mentre indicava Francis. «Si è portato a letto mezza Confederazione, chissà che strane malattie potrebbe passarci!»

«Da che pulpito viene la predica!» il tentativo del Fiammingo di fingersi offeso fu ancora meno convincente: scoppiò a ridere a metà frase. «Come se tu avessi passato la tua vita a comportarti da uomo casto

«Ma adesso sono un uomo impegnato» annunciò Antonio con solennità, poggiando una mano sul cuore.

«Anche io» ricambiò Francis.

«E io non capisco come abbiate fatto a impegnarvi con persone del genere» Gilbert si rivolse ad Antonio, le sopracciglia quasi unite per la perplessità: «Lovino potrà essere un ragazzo attraente, quando non ha quel viso corrucciato…»

«Fa parte del suo fascino.»

«Ah, l’amore è come una lobotomia, ti rincretinisce completamente» Gilbert fissò mestamente il terreno, come se stesse esprimendo le sue condoglianze a un funerale. «Riparleremo del suo “fascino” quando sarà diventato un po’ più docile.»

Un lampo di malizia attraversò le iridi di smeraldo del capitano.

«Ma lui è docile. Solo che tu non puoi vedere quando

Gilbert gli schiaffò una mano sulla faccia, spingendolo all’indietro per prevenire qualunque dettaglio indesiderato sulle attività segrete dei due.

«Facciamo in modo che la conversazione non vada in quel verso, o il Fiammingo qui comincerà a straparlare per delle ore intere!»

«Credo di non avervi mai raccontato di quella ragazza Asean…»

«Al Mago dell’Ovest l’hai raccontato?» lo prevenne Gilbert, puntandogli contro il collo della fiaschetta come avrebbe fatto con una pistola. «E a proposito del mago, non hai visto le sue…» e indicò le proprie sopracciglia argentate, mentre le labbra si torcevano in una smorfia. «Sembrano due alieni che vivono di vita propria su una faccia umana.»

«L’amore non è una questione di sopracciglia. L’amore è…» Francis aveva già assunto una delle sue pose teatrali, ma la sgonfiò quasi immediatamente. «Sappiamo tutti che cos’è. Siamo in quella fortunata frangia di popolazione che ha sperimentato il vero amore.»

«Non mettetemi al vostro stesso livello, non ho un gusto deviato come il vostro! Matthew era bello sia dentro che fuori!»

Le dita callose di Gilbert si immobilizzarono attorno alla fiaschetta. Era. Matthew “era”. Non credeva che uno stupido verbo potesse fare così male.

Le ciglia argentee proiettarono un’ombra triste nei suoi occhi sanguigni, quando li diresse verso il Marauder. La voce uscì rugginosa, come la lama di una spada stanca di combattere.

«Lo rivedrò?» non osò aggiungere altro. Un Hellsing in lacrime sarebbe stato uno spettacolo assai gramo.

Gli occhi azzurri vennero liberati dagli occhiali, che Francis fece penzolare nel vuoto mentre rispondeva:

«Ti sta aspettando, Gilbert. Ti sta chiamando.»

«Allora perché non riesco a sentirlo?»

«Perché ascolti dalla parte sbagliata» Francis spostò gli occhi sul cielo trapuntato di stelle sopra di loro. «Ma ti sta chiamando, Gilbert. E lo ritroverai.»

«Come fai a esserne sicuro?»

Francis gli strappò la fiaschetta dalle mani e sparò la sua replica sul viso guerriero dell’Hellsing:

«Perché, se non lo troverai tu, ti prenderò per un orecchio e ti condurrò personalmente da lui, uomo dalla testa di pietra.»

Il liquore tanto insultato ebbe la sua vendetta non appena toccò la gola del Marauder: la scorticò quasi con il suo sapore violento, e il Fiammingo tossì fino a farsi lacrimare gli occhi.

«Voi Hellsing non avete mezze misure» annaspò, restituendo la fiaschetta.

«Voi Marauder siete delle donnicciole» Gilbert sorbì un lungo sorso, che inghiottì rumorosamente, per poi gonfiare il petto con orgoglio in direzione dell’amico agonizzante. «Visto? Nessun problema.»

«Tu devi avere il sistema digestivo di una viverna.»

«In che senso?»

«Le viverne mangiano sassi» semplificò il Marauder, sventagliandosi con la mano. Erano passati troppi anni dall’ultima volta che aveva bevuto il liquore casalingo degli Hellsing, e il suo palato da esteta si era disabituato a quel sapore barbaro.

Antonio si sporse oltre Gilbert per poter scrutare il Fiammingo.

«È strano» concluse alla fine della sua osservazione. «Parli come Francis, hai i ricordi di Francis, gesticoli come lui… ma sei in un corpo diverso. È strano parlare con un vecchio amico, quando questo ha una faccia nuova.»

«Potrei farmi ricrescere la barba. Dite che mi donerebbe?» il Marauder si massaggiò il mento, alla ricerca di peli inesistenti.

«Era ancora liscio come un bambino. Quanti anni avrà avuto, il ragazzo che ha dato forma a quel corpo?» Antonio rubò la fiaschetta a Gilbert, e si ricaricò con un goccio di liquore. «Non ti fa impressione stare nel corpo di un ragazzo morto così giovane?»

Francis si spalmò sulla faccia un sorriso forzato, voltandosi verso Antonio.

«Amico mio… stai cercando di farmi sentire un assassino?»

Il pirata si sollevò in piedi, e stese la schiena contro il velluto della notte. Le saette che crepitavano nel cielo strappavano frammenti della sua figura alle ombre. Visto in quel modo, il capitano sembrava quasi una creatura della notte pronta a tornare nel grembo materno.

«Forse per te è normale, Francis. Hai vissuto moltissimi anni più di noi» esordì Antonio. «Ma per noi non è facile accettare il fatto che tu sia morto e risorto in una settimana. Ovviamente siamo felici di averti con noi, è solo… complicato» la luna infranse uno specchio argentato nelle iridi del capitano, e così Francis capì che l’amico aveva gli occhi lucidi di lacrime. «Siamo solo umani, in fondo.»

Antonio inspirò rumorosamente, e mosse un passo di lato, verso il Marauder.

«E poi, Francis… non riesco a togliermi dalla testa una cosa. Quando Feliciano ci ha raccontato come avete scatenato gli spiriti, ha detto che tu avevi visto cosa sarebbe successo, trecento anni fa. Per trecento anni, hai saputo esattamente cosa sarebbe accaduto ai nostri pianeti. E hai lasciato che avvenisse.»

«Antonio…»

«Rivedo in continuazione il volto di mio padre, che mi guarda per l’ultima volta prima di bruciare con il resto del pianeta. E ho odiato il Mago dell’Ovest per così tanto tempo, senza sapere che i fuochi di Hispaňa lo tormentavano come tormentavano me… e c’eri tu, dietro a tutto questo. Tu che sapevi, e che non hai fatto niente per impedirlo.»

«Ascoltami, ci sono degli avvenimenti, nel corso del tempo, che devono restare immutabili, anche se atroci…» il capitano alzò una mano, imponendo silenzio.

«Ma poi» la voce si addolcì impercettibilmente. «Poi mi ricordo che tu eri sempre là. Non l’hai impedito, ma non ci hai mai abbandonato. Né me né Gilbert. Ogni volta, tu eri là.»

Il capitano si mise a sedere davanti a Francis, porgendogli di nuovo la fiaschetta.

«Non so quali grandi piani avesse il destino per questa Galassia, e quanto tu ne sia stato coinvolto. Ma non posso dimenticare che, ogni volta che tendevo la mano, c’era un Fiammingo pronto ad afferrarla.»

Un sorriso triste solcò le labbra del Marauder.

«Avrei voluto avvertirvi. Lo avrei voluto davvero. Ma non ho potuto. Alcune cose non devono essere impedite, per quanto spaventose. L’unica cosa che potevo fare era starvi vicino» afferrò la bottiglietta, ma non riuscì a portarla alle labbra finché Gilbert non biascicò:

«E non è esattamente quello che fanno gli amici? Non possono impedire che ci venga fatto del male, ma, diavolo! Se non ci sono loro andiamo in pezzi!» l’Hellsing gli assegnò un pugno e un sorriso sghembo. «Grazie per essere stato la nostra colla.»

«La vostra “colla”?» lo prese in giro Francis, accostando la fiaschetta alle labbra. «Dovresti spolverare la tua riserva di dichiarazioni a effetto, Gilbert. È piuttosto carente.»

«Le dichiarazioni a effetto erano riservate a Matthew, tu non ne vali la pena.»

Di nuovo, il Marauder quasi sputò un polmone dal naso sotto l’effetto del liquore.

«E dovresti rivedere anche la ricetta di questa sbobba. Ma che diavolo è, fuoco greco?»

«Ricetta segreta» dichiarò Giselbert con fare misterioso, prima di sorbire un sorso lungo il doppio di quello del collega. «E tu fatti revisionare lo stomaco, femminuccia. Devono averti dato per sbaglio quello di un canarino.»

I tre amici volsero lo sguardo verso il cielo.

Socchiusero gli occhi, accecati dal bagliore della tempesta di fulmini sopra di loro.

Nel cielo si erano aperti dei vortici crepitanti, e tra le loro spire si agitavano interi stormi di fulmini. Qualche serpente di luce arrivava fino al Confine del Mondo e ne azzannava un pezzo, e quello cadeva nell’aria, lento e leggero come un fazzoletto di seta, prima di sparire in una finissima polvere argentea.

«Avevano detto che avremo guidato i nostri popoli» mormorò Gilbert. «E guardateci ora. A guidare popoli stranieri verso un’altra dimensione. I nostri vecchi sarebbero fieri di noi.»

«Così è questa. La fine» Antonio contemplò lo spazio che si sgretolava, un atomo per volta. Era terribile, era magnetico, era magnifico. Ed era l’ultimo scenario che avrebbero visto della Confederazione in cui erano nati e cresciuti.

«Qualche rimpianto?» chiese Francis.

«Avrei dovuto avere più cura dei semi che avevo piantato» confessò l’Hellsing.

«Ho fatto molte cose di cui non vado fiero. Non mi chiamano “la Mano Destra del Diavolo” senza un valido motivo» Antonio sospirò, mentre un altro pezzo di universo di schiantava nel nulla. «Ma ogni passo, anche quello più insanguinato, mi ha portato qui. Ho dei rimorsi, ma non dei rimpianti.»

«Io ho sia rimorsi che rimpianti, in un numero che è quasi imbarazzante da elencare» Francis chiuse gli occhi, e una saetta disegnò un’ombra bianca sulle sue palpebre. «Trecento anni sono troppo lunghi per non averne. Ma il mio più grande rimpianto è…» Francis inforcò di nuovo gli occhiali, e un’espressione sorniona gli si accovacciò sulle labbra. «Non vi ho ancora raccontato di quella ragazza Asean.»

«E te lo terrai, questo rimpianto! Io non voglio sentire!» lo zittì Gilbert.

Rimasero tutti e tre in silenzio, mentre lo spazio che si sfasciava dipingeva bizzarri aloni di luce sui loro volti.

Antonio tese la mano. E quelle dei suoi amici l’afferrarono immediatamente, stringendola con tutta la loro forza.

Erano sempre stati lì. Anche quando erano stati separati, non si erano mai perduti.

«Eccoci qui. Alla fine» constatò l’Hellsing.

«Ti sbagli, Gilbert» lo contraddisse Antonio. «La nostra più grande avventura deve ancora cominciare. Da domani, avremo una nuova dimensione da esplorare.»

 

***

 

Il sole si stava affacciando all’orizzonte.

Feliciano osservava Ludwig, profondamente addormentato. Era buffo come riuscisse ad avere un’espressione seriosa perfino mentre dormiva.

Sfiorò delicato la curva pronunciata dello zigomo, e le palpebre del giovane fremettero prima di aprirsi.

«Feliciano?» lo chiamò, la voce appesantita dal sonno. «Che ore sono?»

«Tra poco partiremo» annunciò il ragazzo.

Ludwig si sollevò a sedere e scostò la frangia ramata del giovane per poterlo vedere meglio in viso.

«Feliciano? Che cos’hai?» chiese, circondando il volto del ragazzo con le mani.

I palmi di Ludwig erano ruvidi, gentili, e quando lo toccavano con tutta quella premura Feliciano aveva voglia di piangere e ridere di gioia al contempo.

Il giovane portò le mani su quelle di Ludwig. I suoi palmi, invece, erano morbidi e tremanti. Era il mago più potente della Galassia, e il più spaventato.

«Ho paura» ammise in un respiro tremulo.

«Il Mago dell’Ovest ha aperto un portale, in passato, è un processo sicuro…»

«Non ho paura di quello» Feliciano strinse forte i polsi del suo amante. Sapeva che dire una cosa del genere sarebbe stato crudele, ma come poteva lasciare Ludwig nell’ignoranza? «E se nella prossima dimensione non ci fosse la magia?»

Il Guardiano lo fissò senza capire, con i suoi occhi azzurri.

«Hai paura di perdere i tuoi poteri?» tentò.

«No. Ho paura di perdere te!» esclamò Feliciano, abbassando la voce subito dopo. Era un discorso sufficientemente difficile anche senza condirlo con urla insensate. «Per gli incantatori come me… sarebbe un duro colpo, ma riusciremmo ad abituarci, in qualche modo. I Gunsmith sono stati plasmati da della materia vivente, potrebbero al massimo cambiare forma, ma tu… tu, Ludwig, sei nato interamente dalla magia.»

Gli occhi del Guardiano si spalancarono, quando compresero il sottinteso di quelle parole.

«Se non ci fosse la magia… morirei.»

Feliciano annuì, storcendo le labbra per trattenere le lacrime.

«Non riesco a immaginarmi una dimensione senza di te. In questi anni, sono sopravvissuto al Palazzo di Quarzo solo perché c’eri tu. Tu, e il pensiero che dovevo vivere per rivedere mio fratello. Solo voi due. Voi due siete stati sufficienti per darmi ogni giorno la forza di sopportare il nulla e il vuoto di quel posto. Tu hai riempito quel nulla. E se tu dovessi sparire, io…»

«Feliciano. Feliciano, guardami.»

Le mani attorno al suo viso lo sospinsero gentilmente verso l’alto, e il giovane aprì gli occhi che aveva chiuso per impedire alle lacrime di uscire. Ludwig baciò le sue ciglia umide di pianto, prima di poggiare le labbra sulla sua fronte.

«”Per sempre” significa che non ti dirò mai addio, e non ti lascerò solo. Qualunque cosa succeda, non ti abbandonerò» le dita del Guardiano gli accarezzarono la nuca, con una gentilezza impossibile per le mani di un guerriero. «Questa è la nostra promessa, non ricordi?»

Feliciano lasciò le lacrime libere di scorrere.

«Sì! Sì, me lo ricordo!» e si sollevò per baciare le labbra del suo Guardiano.

«Perciò anche tu, Feliciano…» lo pregò Ludwig, scostandosi appena dalla sua bocca. «Non dirmi addio. Qualunque cosa succeda oggi, non puoi dirmi addio.»

Feliciano annuì, aggrappandosi al collo del giovane per avere un altro bacio.

Il muggito di un corno rimbombò nell’aria, e il giovane si staccò dal suo Guardiano. Ma non riuscì a lasciare la sua mano, come non riuscì a liberarsi della paura folle che Ludwig sarebbe volato in qualche luogo lontano, che lui non avrebbe potuto raggiungere.

La mano del Guardiano gli accarezzò di nuovo il viso con quella dolcezza insostenibile.

«Va tutto bene, Feliciano. Sarà come fare un salto, e saremo di nuovo insieme. In una nuova dimensione, una dimensione libera.»

Il giovane annuì, ma le sue dita rimasero serrate intorno alla mano del giovane.

L’ombra del dubbio passò nelle iridi cerulee di Ludwig.

«Vedi qualcosa?» domandò, cauto.

Le dita di Feliciano si strinsero come per uno spasmo attorno alle sue, e il Guardiano comprese. L’Asse era uno dei maghi più potenti di tutta la Galassia; ovviamente, anche i suoi poteri divinatori erano eccezionali. E precisi: le predizioni di un Asse erano sempre veritiere.

Ludwig si chinò per arrivare con gli occhi alla stessa altezza di quelli ramati del suo compagno, fissi al suolo.

«Cosa vedi?» chiese, con il massimo tatto possibile.

Feliciano prese fiato tre volte, i polmoni che sussultavano come se non ricordassero più come si faceva a inalare.

«Non vedo niente.»

«E non è una buona cosa?»

L’Asse rivolse verso di lui gli occhi ramati, infossati nelle lacrime.

«Sai qual è l’unica cosa che un indovino non può prevedere?»

«Ludwig!» il richiamo di Gilbert interruppe i loro discorsi. «Feliciano! Dobbiamo partire!»

Il Guardiano portò velocemente la mano dell’Asse alle labbra per baciarne il dorso.

«Ce la faremo» cercò di rassicurarlo, prima di uscire.

La chioma rossastra di Feliciano si chinò in un assenso, prima di raggiungere gli altri.

Il cielo era tappezzato di Aeronavi. Si distinguevano le imbarcazioni Asean, sottili e slanciate, contrapposte ai velivoli panciuti prodotti su Britannia. La bandiera piratesca della Reina sembrava farsi beffe delle vele bianche delle Aeronavi che avevano sottratto alla decaduta flotta Vaticana. Le buffe mongolfiere metalliche dei Gunsmith si incastravano negli spazi vuoti delle colleghe più imponenti.

Feliciano si affiancò a Lovino. A terra erano rimasti solo lui, il fratello, Ludwig e il Mago dell’Ovest, ossia gli incantatori che avrebbero aperto il portale e la loro guardia.

Il Britanno vestiva gli abiti di Faerie, e sul suo viso era sceso un velo di lutto.

Arthur non riusciva a scordarsi cosa era accaduto quanto le Aeronavi avevano lasciato il suolo di Britannia. I pianti dell’addio gli avrebbero torturato la coscienza per molti anni ancora.

Aveva scorto il Leone Incoronato, tra gli anziani che avevano deciso di restare.

Si era fatto da parte per permettere al sovrano di accedere al vascello, ma quello era rimasto fermo, a fissarlo con il sorriso sereno dei saggi.

«Vostra Altezza?» Arthur non aveva osato formulare la tremenda domanda che gli aveva azzannato il cuore.

«Vai, Mago dell’Ovest. Le Aeronavi hanno bisogno di un capitano.»

«Non posso salire prima di voi.»

«Io non salirò su quelle navi, Mago dell’Ovest.»

«Perché?» la domanda scivolò fuori dall’ombra del cappuccio: Arthur aveva abbassato impercettibilmente la testa in modo da essere completamente nascosto da essa.

Il Leone Incoronato aveva rivolto uno sguardo alle sue spalle, sereno.

«Perché anche loro sono il mio popolo, e hanno bisogno di una guida. Tu guiderai la nuova Britannia verso una nuova dimensione, io condurrò la vecchia Britannia a una fine pacifica.»

«Mio Sire…»

«E non potrei mai vivere in una nuova dimensione. Sono nato assieme a questo pianeta, e desidero andarmene assieme a lui.»

«Non c’è niente che possa farvi cambiare idea?»

Il Leone Incoronato gli sorrise compassionevole.

«No, Arthur. Ma non essere triste. Ogni cosa inizia, ogni cosa finisce. È nel ciclo naturale delle cose. Ed è giusto che sia così.»

Arthur raddrizzò le spalle: dovevano reggere il peso di una nazione, non poteva permettere loro di incurvarsi.

«Siete stato una guida meravigliosa, Leone Incoronato» si congedò, con un profondo inchino.

«E tu lo sarai, Mago dell’Ovest» rispose il sovrano. «Li affido a te. Conducili in un posto che sia bello come la tua Faerie.»

Li aveva osservati mentre si sollevavano in volo: piccoli corpi che diventavano piccoli punti che poi sparivano nel nulla. Tante persone che quel giorno sarebbero state cancellate.

«Dimmi che è l’ultima volta che devo vedere così tante persone…» non era riuscito a finire la frase, quando il Marauder gli si era accostato. «Dimmelo.»

Gli occhi di Francis erano rimasti fissi su Britannia, un punto sempre più piccolo e indistinto nello spazio.

«Dipenderà da noi» aveva risposto. «È sempre dipeso da noi.»

Scosse la testa, focalizzandosi di nuovo sul presente.

I due fratelli Vargas attendevano istruzioni.

Lovino lanciò un’occhiata fuggevole alle sue spalle, dove gravitava la Reina de la Oscuridad.

Anche lui era inquieto, e non solo perché nessuno di loro sapeva dove quella fuga li avrebbe condotti.

Antonio era tornato da lui, dopo aver trascorso un po’ di tempo con i suoi vecchi amici.

L’odore di alcol lo aveva subito messo in allarme, ma il capitano sembrava assolutamente sobrio. Il mattino avrebbe preteso la massima efficienza, e un ubriacone era l’ultima cosa di cui avevano bisogno. Fortunatamente, anche Antonio lo sapeva.

«Il liquore degli Hellsing ha un sapore tremendo» si era lamentato, dopo che il suo compagno lo aveva baciato.

«Dovresti dirlo a Francis, ne sarà felice.»

«Non voglio avere niente a che fare con quel tipo.»

Antonio aveva fissato la posa irrigidita di Lovino. Lui poteva perdonare Francis in nome della loro vecchia amicizia, di tutti i bei momenti passati insieme, ma, per il giovane, il Fiammingo era il diabolico burattinaio dietro quello sconvolgimento, sempre in mezzo a loro e senza aver mai avuto la decenza di avvisarli.

Antonio conosceva il vero Francis, Lovino aveva visto solo l’Asse di trecento anni prima. Era normale che provasse astio per la persona che aveva previsto tante sciagure e non aveva fatto niente per prevenirle. Anche lui aveva odiato a lungo il Mago dell’Ovest, prima di conoscere la verità.

«Un giorno capirai che anche Francis è una brava persona. Nonostante i suoi innumerevoli difetti.»

«Non voglio parlare di quel brutto ceffo, adesso.»

Lovino aveva raddrizzato la schiena, e la pelle di Antonio si era accapponata per il timore.

Non era mai un buon presagio, quando il giovane diventava serio in quel modo.

«E di cosa vuoi parlare?» lo aveva invitato il capitano.

«Domani» Lovino era partito alla massima velocità: se avesse rallentato, si sarebbe fermato, sarebbe scoppiato a piangere e si sarebbe precipitato tra le braccia di Antonio pregandolo di rimanere con lui, e non poteva permettersi una crisi di nervi, arrivato a quel punto. «Domani tu salirai sulla Reina.»

«Ma tu sarai ad aprire il portale, e Ludwig rimarrà come vostra guardia. E anche io…»

«Ludwig non deve pilotare un’Aeronave. Tu sì. Perciò, domani salirai sulla Reina.»

«E se dovesse succedere qualcosa?»

«Se dovesse succedere qualcosa, troverò comunque una strada per tornare sulla Reina.»

«Cosa ti fa essere così sicuro? Per via dei tuoi poteri?»

Lovino aveva appoggiato le mani sui suoi avambracci per avere un sostegno mentre si alzava sulle punte dei piedi e si avvicinava al suo orecchio.

«Perché ti amo, idiota.»

Era stato appena un mormorio. Se lo avesse detto più forte, sarebbe morto di imbarazzo.

Erano trascorsi alcuni istanti nel silenzio più totale prima che le dita di Antonio gli accarezzassero la testa abbassata, per poi scendere sulle spalle, percorrere le braccia e approdare alle mani.

«Stai tremando.»

Lovino aveva cercato di sottrarre le mani alla presa dell’uomo. Antonio le aveva lasciate libere, solo per afferrargli con rude delicatezza il viso e condurlo verso di sé.

«Ti chiamiamo la Mano Sinistra del Diavolo da così tanto tempo, Lovino, che ci scordiamo sempre quanto sei giovane» aveva bisbigliato sul suo viso. «Non posso prendere il tuo posto, domani?»

«Non essere stupido. Che poteri magici hai, tu?»

«Quasi nessuno» aveva confermato tristemente Antonio.

«Se lo sai, perché lo chiedi?»

«Perché ti amo, Lovino. E darei il mio braccio destro per poterti sostituire, domani.»

Lo aveva abbracciato e lo aveva baciato a lungo, come se avesse voluto strappargli quella magia che gli avrebbe permesso di prendere il suo posto.

Era giovane, era troppo giovane per sostenere quel peso. Nessuno, in quella Confederazione, aveva mai aperto un portale dimensionale, prima di allora. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo. E Lovino e Feliciano sarebbero stati nell’occhio del ciclone, assieme al Mago dell’Ovest, difesi unicamente dal guardiano perché tutti gli altri sarebbero stati troppo impegnati a fare i capitani e a salvarsi la vita.

Sarebbero stati da soli, nel bel mezzo di una Galassia che divorava se stessa.

Lovino scacciò a forza quei pensieri per concentrarsi sulle parole del Mago dell’Ovest.

Assunsero la posizione tracciata dal Britanno, e pronunciarono assieme la formula magica.

Arthur lanciò un’occhiata ansiosa alla sua flotta. Sarebbero stati gli ultimi a partire, per poterlo recuperare e fuggire prima che il portale si chiudesse. Sperava che questo non avrebbe compromesso la loro salvezza.

I tre incantatori si disposero a triangolo e tesero le mani verso il cielo.

Il rituale ebbe inizio.

 

***

 

Gli anziani rimasti su Britannia, nel sistema Asean e in tutti i pianeti della Confederazione alzarono gli occhi al cielo, e sorrisi rugosi incresparono i loro volti.

Uno squarcio di ombre e luci bluastre si era aperto nel centro del cielo, più rassicurante e più maestoso dei vortici impazziti che squassavano la volta celeste. Alcuni di loro salutarono le Aeronavi che, come tanti piccoli sciami ordinati, si affrettavano verso un nuovo mondo.

Un vecchio, su Chugoku, aveva appena acceso due incensi sulla tomba della defunta sposa, e si era seduto di fianco alla lapide, chiacchierando con il marmo.

«Stai parlando con Mei-Ling?» domandò un’anziana donna, seduta di fianco a una tomba poco distante.

«Le ho solo detto “aspettami”» sorrise, mostrando un chiostro di denti sgangherati. «Il resto glielo dirò di persona, più tardi.»

Il Leone Incoronato, su Britannia, stava leggendo alcuni passi del Testo Sacro.

«La gabbia della vita ti lascerà libero di volare nella terra dei Verdi Pascoli, che non conosce fame, freddo o dolore. Non accumulate i vostri tesori su questa terra di cenere, ma accumulateli sotto gli alberi in fiore di quel posto miracoloso, poiché il vostro cuore sarà dove sarà il vostro tesoro.»

«Leone Incoronato, maestà, ho un problema» annunciò un vecchio. «Il mio cuore è incatenato alla mia patria. Che posso fare?»

Il sovrano sorrise, chiudendo il libro.

«Sono sicuro che il Giudice Supremo farà un’eccezione. Abbiamo dato l’anima a questa nostra terra, e con essa l’abbiamo amata. E l’amore non è mai una cosa negativa.»

Fu proprio in quel momento che il cielo crollò.

Il terribile suono dello spazio lacerato si conficcò nel cuore di ogni pianeta, facendolo tremare con violenza. L’asse di rotazione dei satelliti più piccoli fu divelto da quella scossa apocalittica, e i vecchi più deboli si accasciarono al suolo, mortalmente trafitti da quel suono spaventoso.

«Non devi avere più paura, Mei-Ling» mormorò l’anziano Asean, tendendo la mano verso la pietra tombale. «Non sarai più sola. Perdonami se ti ho fatta aspettare» una lacrima si incastrò in una ruga a lato degli occhi, mentre il vecchio esalava l’ultimo respiro con un sorriso. «Sei sempre così bella…»

Il cielo si spezzò, e i suoi frammenti si schiantarono sui pianeti sottostanti, schiacciando case, colline, persone. Una piccola baita solitaria e un bulbo mai nato furono sbriciolati da uno dei pezzi più grossi.

I capitani delle Aeronavi quasi si bruciarono le dita per la forza con cui tirarono i timoni per evitare i frammenti fatali e mantenere l’assetto di bordo.

Feliciano, Lovino e Arthur invocarono una barriera, mentre Ludwig colpiva i pezzi di cielo con la sua spada, mandandoli in frantumi prima che potessero colpirli.

Gli incantatori lanciarono un’occhiata alle Aeronavi ancora dalla loro parte del portale: alcune mongolfiere dei Gunsmith erano rimaste indietro rispetto alle altre, e si affrettavano di fianco alle navi Asean e alla Reina, passata per metà. La flotta di Britannia attendeva il proprio mago.

Non mancava molto, ma era comunque troppo se la Confederazione aveva già cominciato a crollare.

Poi arrivarono.

Un’orda di incubi e abomini piovve dal cielo. I demoni erano finalmente pronti a divorare quella Galassia che per tanto tempo avevano solo potuto vedere dall’altra parte del Confine del Mondo.

Gli anziani sopravvissuti si strinsero tra loro, decisi a portare fino a termine il loro intento di morire assieme al loro pianeta. Ma molti di loro piansero, prima che i demoni li travolgessero.

Gilbert si sporse dalla balaustra della Reina per scrutare all’interno del portale appena attraversato.

«Io torno indietro» annunciò, caricandosi l’archibugio in spalla. «Non ce la faranno mai, senza un Hellsing.»

«Hai ragione» convenne Roderich, poggiandogli una mano sulla spalla. «Ma tu non sei l’unico Hellsing presente.»

Lo spinse prima che Gilbert potesse capire cosa stava succedendo. Le mani callose dei marinai lo afferrarono, trattenendolo sulla nave. Roderich doveva essersi accordato con loro in precedenza, in qualche modo.

Gilbert si dibatté, ma inutilmente: per quanto forte, era pur sempre uno contro sei.

«Fermo!» gridò, vedendo l’altro Hellsing scavalcare la balaustra.

Roderich si voltò verso di lui, l’espressione seria appena intaccata da un sorriso triste.

«Faccio quello che dovrebbe fare un padre. Vado a scacciare i mostri da sotto il letto.»

«Un padre dovrebbe stare insieme a suo figlio!»

Quelle parole lo colpirono come una freccia al cuore e, per un attimo, la sua compostezza venne meno.

«Non sono stato un buon padre» commentò amaro Roderich.

«Sei stato pessimo» rincarò Gilbert, proteso verso di lui con tutte le sue forze. «E se muori adesso, non avrai nemmeno la possibilità di dimostrare il contrario.»

Roderich sfiorò il violino con devozione prima di mostrarlo a Gilbert.

«Non sono mai stato in grado di uccidere i demoni, ma con questo posso creare una barriera per trattenerli. Non grande abbastanza per una Confederazione, ma sufficiente per cinque persone» portò il violino al petto e assegnò uno sguardo fiero e malinconico a Gilbert. «È sempre stata la mia peculiarità. L’unico Hellsing che non uccide i demoni ma li ferma» le dita passarono delicate sulle corde. «Mi chiedo se non fosse in qualche modo… stabilito fin dall’inizio…»

«Roderich…»

Non voleva perderlo di nuovo. Aveva passato anni a cercarlo, a tentare di capire perché suo padre li avesse traditi. E lo aveva trovato, aveva capito. Così tanto tempo, così tanto dolore che si sarebbe potuto evitare…

Roderich sollevò la mano in un saluto. Gilbert si sentì morire.

«Vivi la tua vita» l’Accordatore gli regalò un sorriso inquinato di lacrime trattenute. «E fai in modo che sia meravigliosa

Poi si lanciò nello spazio, avvolto da una bolla di atmosfera di artificiale, e corse più veloce che poté dove le grida di suo figlio non lo avrebbero raggiunto.

Attraversò il portale e atterrò in mezzo ai maghi prima che potessero farlo i demoni.

L’archetto passò furioso sulle corde, e la barriera bloccò quegli abomini prima che potessero abbattersi su di loro.

Un rombo di fiamme riscaldò l’aria intorno a loro: il Figlio del Cielo stava combattendo per salvare le Aeronavi restanti.

«Quanti ne mancano?» gridò Roderich, senza smettere di suonare.

«Solo due navi Asean» strillò di rimando Lovino, per farsi udire sopra i versi dei demoni e le fiamme del Figlio del Cielo. «E la flotta di Britannia.»

Le navi Asean attraversarono veloci il portale, e il loro sovrano si librò sopra le Aeronavi di Britannia per bruciare qualunque mostro troppo ardito.

«Il Figlio del Cielo è straordinario» si complimentò il Mago dell’Ovest. «Rischiare tanto per degli stranieri…»

«Non dire sciocchezze Vaticane» lo rimproverò Lovino. «Siamo tutti uguali. Siamo tutti fuggiaschi.»

Il giovane cercò di mascherare il tremito della voce, ma non riuscì a nascondere i brividi che si propagavano in tutto il suo corpo. Tenere aperto un portale dimensionale di quella grandezza era un’impresa estremamente faticosa, e il terrore che la barriera dell’Accordatore potesse fallire non aiutava a sopportare la stanchezza.

Era troppo. Un portale intero, i demoni, la paura… era troppo. Sentiva le lacrime bruciargli gli occhi e le ginocchia sul punto di crollare, ma si morse le labbra e si costrinse a continuare. Era troppo, ma non poteva cedere: non ci sarebbe stato nessuno a prendere il suo posto. E si erano spinti troppo lontano per fallire per un suo istante di debolezza.

La flotta di Britannia scorse veloce all’interno del portale, fino a che l’ultima nave lanciò una corda nella loro direzione.

«Dobbiamo aggrapparci tutti nello stesso momento» urlò il Mago dell’Ovest in direzione dell’Accordatore: lui, Lovino, Feliciano e Ludwig si erano accordati in precedenza, ma Roderich era nuovo. «Appena interromperemo la magia, il portale inizierà a chiudersi.»

«Io non attraverserò quel portale.»

Roderich non si voltò per vedere le espressioni dei suoi interlocutori. Doveva suonare. E poi, sapeva che non avrebbe sostenuto lo sguardo ferito e sconvolto di Ludwig. Era troppo simile a quello di Gilbert.

«Se smettessi di suonare, la barriera crollerebbe. E questi mostri ci divorerebbero in un attimo. Inoltre… non vogliamo che questi abomini ci seguano, giusto? Li tratterrò da questa parte finché il portale non si sarà chiuso completamente.»

«Ma non si sono avvicinati al portale, magari non gli interessa…» provò a dire Ludwig.

«Solo perché ci siamo noi, e noi siamo carne, il portale no. Ma quando avranno esaurito il cibo, lo cercheranno da qualche altra parte… magari una nuova dimensione.»

«Cosa dirò a Gilbert?»

Solo gli anni di assiduo studio dello strumento gli impedirono di interrompere la melodia e decretare la loro fine. Gilbert. Il bambino che lo pregava per un po’ di affetto e che all’improvviso era diventato un guerriero solitario. Che non aveva smesso di pregarlo.

«Non gli dirai nulla. Ho già detto tutto quello che volevo dirgli» questa volta, una lacrima riuscì a scivolare sul violino.

«Non c’è più tempo!» li avvertì il Mago dell’Ovest, prima di afferrare la corda. Lovino e Feliciano si attaccarono subito dopo, seguiti da Ludwig, tutti avvolti da bolle di atmosfera artificiale.

Roderich coprì la loro ritirata, ma quel giorno non aveva ancora esaurito le sgradevoli sorprese.

Ludwig lasciò andare la corda come se si fosse trasformata improvvisamente in un tizzone ardente, ritraendosi all’interno del portale.

Feliciano si dimenticò della corda e corse verso di lui, seguito da Lovino, che non aveva intenzione di lasciare il fratello da solo, ignorando le grida di avvertimento del Mago dell’Ovest.

«Che diavolo stanno facendo?» inveì Antonio, vedendo i tre bloccati davanti al portale. Gilbert seguiva la vicenda con la stessa espressione sconvolta incollata al viso.

Erano troppo lontani per sentire cosa i fratelli Vargas e uno degli ultimi Hellsing si stessero dicendo.

«Ludwig?» lo chiamò Feliciano, tendendo la mano. «Vieni. Dobbiamo andarcene.»

Ludwig lo guardò con la morte nelle iridi azzurre, e stese le dita verso di lui. Nel momento in cui queste attraversarono il portale si ricoprirono di crepe e la pelle divenne grigia e spenta come la sabbia su un fossile.

Il Guardiano ritrasse la mano prima che potesse diventare un pugno di sabbia.

«Era come avevi detto tu» masticò a fatica, il cuore gonfio di lacrime. «Non posso uscire da questa dimensione. Sono stato creato dal nulla. Se esco da questa dimensione, torno a essere nulla» un pezzo di portale si sfaldò in un lampo di luce. Sotto quel bagliore pallido, il viso di Ludwig apparve cereo come quello di un morto. «Mi dispiace…»

Feliciano quasi non sentì le mani del fratello poggiarsi sulle sue spalle. Doveva perdere anche Ludwig? Una delle due cose preziose della sua vita?

Tese di nuovo la mano all’interno del portale. I demoni impazzivano attorno alla barriera di Roderich, i motori delle navi ruggivano e i capitani urlavano loro si sbrigarsi. Feliciano non udì nessuna di quelle cose. Sentì solo il suo cuore rallentare i battiti e poi tacere, come se fosse morto. Ludwig, il suo Ludwig…

Il Guardiano afferrò la sua mano e la strinse al petto, per poi baciarne le dita.

«Non dirò addio. Te l’ho promesso.»

Lovino immaginava che Feliciano non avrebbe accettato facilmente la perdita di Ludwig. Ma non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato a tanto per il suo Guardiano.

Si gettò all’interno del portale, si portò dietro Ludwig e appoggiò una mano in mezzo alle sue scapole e l’altra al centro del proprio petto.

«Tu sei forte» lo salutò con un filo di voce. «Quindi trova la forza per perdonarmi» e lo spinse verso Lovino con un’onda d’urto.

Ludwig ruzzolò fuori dal portale, inebetito e dolorante. Tutto il suo corpo bruciava, come se un minuscolo incendio stesse divampando in ognuna delle sue cellule. Occorsero alcuni secondi di immobilità e respiri profondi per calmare quella sensazione e rendersi finalmente conto di cosa fosse successo.

Era all’esterno della sua dimensione, eppure la pelle era ancora pelle. Non si era sgretolato in una miriade di frammenti.

«Feliciano!» esultò, voltandosi. «Feliciano, ha funzionato! Qualunque cosa tu…» la voce rallentò tra le sue labbra fino a spegnersi del tutto. «Feliciano? Perché non esci?»

L’Asse stese tristemente la mano nella loro direzione, e la ritirò quando le dita iniziarono a sbriciolarsi.

«Feliciano!» il dolore nella voce di Lovino lacerò l’aria martoriata dai versi dei demoni. «Che cosa hai fatto?»

«Scambio di struttura molecolare» il sorriso gli squarciò il viso con una tristezza infinita. «Ora sono io… a essere nato dal nulla.»

Una saetta bianca portò con sé un pezzo di portale, nascondendo il corpo del giovane dalla vita in giù.

«Fammi tornare com’ero!» gridò il Guardiano. «Feliciano, ti prego… non ho mai voluto questo!»

«Ma il destino l’ha voluto, Ludwig.»

L’Asse si allontanò di un passo quando un fulmine azzurro strappò un altro frammento di portale. Ormai era visibile solo il suo volto a pezzi.

«L’unica cosa che un indovino non può vedere, Ludwig. Vuoi sapere qual è?» fu un lamento strozzato quello che abbandonò la gola di Feliciano, otturata di lacrime. Avrebbe voluto essere forte, sorridere e incoraggiarli fino alla fine, ma non ci riusciva: i suoi cari stavano per andarsene dove non li avrebbe mai raggiunti, e lui sarebbe stato divorato dai demoni, e tutto sarebbe finito e non ci sarebbe più stato ritorno. Aveva paura, e non sapeva come nasconderlo.

«Un indovino non può prevedere la sua morte» concluse per lui Lovino, quasi inudibile. La sua voce si alzò improvvisamente di tono quando urlò: «Perché non mi hai detto niente, Feliciano? Avremmo potuto trovare una soluzione!»

«E quale?» il pianto gli scosse le labbra, e l’Asse abbassò lo sguardo perché i due non vedessero lo spuntare delle prime lacrime sul suo viso. «Non avrei mai permesso a Ludwig di morire.»

«Sei anni» paura, rabbia e tristezza avevano conficcato i loro artigli nella gola di Lovino, e le parole uscirono livide e tremanti. «Ti ho cercato incessantemente per sei anni, Feliciano! E adesso dovrei perderti così?»

«Ti voglio bene, Lovino» cercò di deglutire, ma la gola era diventata un nodo stretto e amaro. «Ricordatelo, ovunque andrai. È l’unica cosa che conta.»

«Feliciano!»

«Ti voglio davvero bene, Lovino. Davvero… davvero tanto…»

Il portale si sbriciolò sotto una saetta argentata, e gli occhi ramati che li guardavano disperati furono tutto ciò che poterono vedere di Feliciano.

«Anche se dovessi rinascere come una rosa, ti troverei tra mille altre rose…» le parole inciamparono sulla lingua del Guardiano, che dovette interrompersi per trangugiare le lacrime. «Troverò la strada, Feliciano. Troverò la strada che mi riporterà da te.»

«La troveremo» si inserì Lovino, le spalle tremanti e gli occhi di fuoco. «Non dirò un addio. Non è un addio. Ci ritroveremo, da qualche parte, in una qualche piega dell’universo. Non è un addio. Ti ritroverò.»

Gli occhi di Feliciano annuirono, affogati dalle lacrime che continuavano a sgorgare.

Il portale lanciò il suo ultimo crepitio, e le iridi ramate iniziarono a sparire.

«Feliciano!» gridò Lovino, la bocca piena di collera e pianto, mentre le ultime brecce del portale si chiudevano. «Ti troverò! Lo giuro, ti ritroverò!»

«Fate presto» mugolò Feliciano, quando fu certo che il portale si fosse definitivamente chiuso, sigillandolo in quell’inferno di demoni. «Ho paura di rimanere da solo…»

«Non sei solo.»

L’affermazione del musicista lo sorprese alle spalle.

«È anche il titolo di questa sinfonia» annunciò Roderich, la schiena che si ergeva fiera contro i demoni che picchiavano sulla barriera. «Che, purtroppo, sta per finire.»

Feliciano non riuscì a dire nulla.

Si alzò e sollevò le braccia verso il cielo, invocando una barriera un istante prima che l’archetto abbandonasse le corde.

«Ho guadagnato solo un po’ di tempo» notificò Feliciano, un terrore gelido che gli scuoteva le ossa.

«È sempre stato l’Asse a proteggere la Confederazione dai demoni. Ma senza cibo e senza acqua… resisteremo al massimo tre giorni.»

«Vale davvero la pena sopravvivere per vedere… questo?» Roderich indicò lo scempio alle sue spalle: migliaia di demoni ammassati che premevano le loro fauci sui bordi invisibili della barriera.

La preghiera dell’Asse si inciampò nel pianto.

«Non voglio morire.»

Il musicista lo osservò con una compassione sconfinata.

«Nessuno lo vuole. Ma l’aldilà non è un brutto posto. Ci sono tutti gli Hellsing, e, anche se a volte sono rozzi, sono una buona compagnia. E se dovessi vedere una ragazza che combatte come un uomo, chiamami subito. Mi sta aspettando da anni, ormai.»

Un singhiozzo gli scosse il petto quando le braccia dell’uomo lo circondarono.

«Ti abbiamo ammantato con il titolo di Asse, e ci siamo scordati che c’è un ragazzo, dietro quel nome.»

L’Asse non poteva crollare, ma Feliciano sì. E stava andando a pezzi, in quel momento.

«Loro sono salvi» affermò, convincendo se stesso e Roderich al contempo. «Ne è valsa la pena.»

«Oh, sì» Roderich lo abbracciò più stretto. «Per loro, altre mille volte…»

Feliciano si aggrappò con tutte le sue forze alle spalle dell’uomo mentre annullava la barriera.

Il respiro scorreva mozzato nelle loro gole, i muscoli tremavano e i cuori battevano all’impazzata. La morte si stava avvicinando.

Feliciano sollevò improvvisamente il capo, stupido.

«Roderich» esclamò. «Qualcuno ci sta chiamando…»

Furono le sue ultime parole, prima che un demone si avventasse sul suo collo scoperto.

 

***

 

Era difficile correre quando tutto ciò che si desiderava era inginocchiarsi e piangere.

Se solo le lacrime avessero davvero potuto risolvere il problema, Ludwig e Lovino avrebbero pianto fino a disidratarsi. Ma un Guardiano sapeva che si vinceva solo combattendo e la Mano Sinistra del Diavolo sapeva che il destino si cambiava con le proprie mani, non con le lacrime.

Anche con il cuore di piombo e le gambe di marmo, i due si fecero strada verso le Aeronavi, chi con la tenacia del guerriero e chi con la rabbia del fuorilegge.

Si voltarono entrambi di scatto quando un fragore tremendo li scosse per le spalle.

La chiusura del portale, per contraccolpo, aveva generato un vortice dimensionale. Che ora stendeva le sue spire turbinanti verso di loro.

«Via!» gridò Ludwig, afferrando Lovino per un braccio.

La Mano Sinistra del Diavolo cercò di correre al massimo delle sue forze, ma il vortice non impiegò molto ad afferrare un lembo dei suoi pantaloni per poi ghermire la sua caviglia. La spira diede uno strappo, e le gambe di Lovino furono risucchiate fino alla coscia.

Il Guardiano lo tenne saldamente per i gomiti, cercando di tirarlo fuori da quelle sabbie mobili dimensionali. Lovino tentò di scalciare, poi provò a rimanere immobile, ma nessuna delle sue strategie ebbe successo: la melma dimensionale lo aveva inglobato fino alle anche.

La consapevolezza che quella era la sua fine gli inumidì le ciglia. Tutto quelle battaglie per nulla. La Mano Sinistra del Diavolo sarebbe stata mozzata da uno stupido contraccolpo magico.

L’invettiva uscì ruvida e rovente, per compensare il panico che gli stava gelando il cuore.

«Lasciami andare!» morse le lacrime che arrivarono a bagnargli le labbra e ruggì: «Lasciami andare! Mio fratello si è sacrificato per te, non azzardarti a morire qui!»

«Feliciano non ha salvato solo me» replicò Ludwig, la fronte imperlata di sudore per la lotta contro la presa ferrea del vortice.

Un frullio d’ali si levò in lontananza, e Lovino scorse l’Hellsing dirigersi verso di loro, una figura in lontananza sopra la spalla del Guardiano.

«Arrivano!» esultò la Mano Sinistra del Diavolo. «Arrivano a prenderci!»

La gioia durò un solo istante. Il vortice mugghiò, e diede un altro, tremendo strappo.

Il Guardiano fu sbalzato in avanti, e le sue braccia, legate a quelle di Lovino, sprofondarono lasciando visibili solo le spalle. Dalla melma scura spuntavano solo il viso e le mani della Mano Sinistra del Diavolo, aggrappate alle spalle di Ludwig.

Lovino chiuse le palpebre tremanti, e il suo cuore in tumulto gli spinse sulle labbra un’affermazione piena di amarezza.

«Non doveva finire così.»

«No» confermò Ludwig, la voce pesante come una pietra tombale. «Non doveva finire così» prese un respiro profondo sentendo il vortice ringhiare: un’altra scossa era in arrivo. L’ultima.

«Troveremo la strada. In un modo o nell’altro, in un mondo o nell’altro, troveremo la strada per tornare da Feliciano» pregò, prima che la melma assestasse il terzo strappo, più forte di tutti gli altri.

Ludwig chiuse gli occhi, per non vedere il vortice farsi sempre più vicino. La melma si strinse intorno a lui, stritolandolo con le sue spire. Le ossa del Guardiano scricchiolarono, le giunture minacciarono di spezzarsi e il cranio di esplodere in mille pezzi sotto quella pressione.

Il Guardiano strinse le palpebre con tutte le sue forze, cercando di trattenere gli occhi pulsanti nelle orbite. Il cuore aveva smesso di palpitare, e lanciava singulti agonizzanti a intervalli irregolari. I polmoni si erano ritirati come il mare durante la bassa marea, due sacchetti smilzi incapaci di trattenere una singola boccata di aria.

Ludwig non capì subito che la cosa che gli feriva gli occhi era la luce del giorno e gli schiaffi che riceveva sul viso erano vento.

Come se un drago l’avesse masticato e poi sputato di colpo, il Guardiano si trovò libero all’improvviso. Sbatté contro qualcosa di duro con tutto il corpo, e qualcos’altro gli grattò le narici.

Ludwig si girò bruscamente di schiena, sbarrando improvvisamente occhi e gola. L’aria fece irruzione nei suoi polmoni, e fu quasi doloroso sentirli tornare alla loro dimensione. Il cuore gli pulsò nelle orecchie e nella gola prima di ricordarsi il suo giusto posto al centro del petto.

Gli occhi erano rimasti aperti, ma solo in quel momento videro davvero cosa li circondava. Sopra di loro, un cielo azzurro; ai lati, una strada sterrata. La cosa che gli aveva pizzicato il naso era la polvere sollevata dal suo impatto con il suolo.

Si rialzò a sedere con uno scatto addominale, e lanciò occhiate frenetiche tutto intorno.

La Mano Sinistra del Diavolo era poco distante da lui, carponi, e stava tossendo anche l’anima fuori dal corpo.

«Che diavolo è successo?» sbottò, tra un colpo di tosse e l’altro. «Dove siamo finiti?»

Ludwig si rialzò faticosamente in piedi per portarsi di fianco al ragazzo.

«Siamo vivi» notificò il Guardiano, tendendo una mano al giovane. «Il vortice ci ha spediti in un’altra dimensione.»

Lovino rifiutò l’aiuto e si issò in piedi da solo.

«Una dimensione diversa da quella in cui sono approdate le Aeronavi» Lovino finse di scrollarsi la polvere dai vestiti per non dover incontrare lo sguardo del Guardiano.

Non avevano lottato solo per una nuova dimensione. Avevano lottato per una nuova dimensione da condividere con i loro cari. Erano riusciti a realizzare solo la prima parte del loro piano: le persone che amavano le avevano perse lungo la strada.

Ludwig sollevò improvvisamente il capo contro l’azzurro del cielo, in ascolto.

«Lovino» lo riscosse. «Qualcuno ci sta chiamando.»

«È impossibile. Qui non conosciamo nessuno.»

«Ascolta» Ludwig roteò il busto, socchiudendo gli occhi per concentrarsi meglio. «Viene da questa parte…» la sorpresa illuminò gli occhi cerulei, facendoli spalancare. «Non è possibile…»

«Cosa? Che sta succedendo adesso?»

Ludwig gli fece cenno di seguirlo e prese a correre lungo la strada sterrata.

«Da questa parte, Lovino!» lo incitò. «Forse… forse non tutto è perduto!»

«Che significa? Ehi, crucco, che diavolo significa?»

Dovette rassegnarsi a seguire quel gigante nella sua folle corsa.

Chiunque fosse a chiamarli, il Guardiano era abbastanza impaziente di incontrarlo da dimenticarsi perfino di rispondere.

 

 

 

 

Penultimo capitolo.

Non ci posso credere.

PENULTIMO *piange*.

Anyway… prometto che non vi farò aspettare troppo per l’ultimo capitolo! E anche per gli spin-off<3

Grazie, grazie, grazie di cuore a tutti voi che avete letto fin qui e che siete spiritualmente pronti ad affrontare il capitolo conclusivo<3

Come sempre, se avete richieste di spin-off, fatemi sapere :)

A presto!

Rred

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Capitolo 28
*** La Nuova Confederazione ***


Capitolo Ventotto: la Nuova Confederazione

             

La Reina era silenziosa come non lo era mai stata.

I marinai svolgevano le loro mansioni, ma non erano animati dal solito chiacchiericcio rude.

L’Hellsing era tornato con l’Inferno negli occhi, le mani vuote e l’anima a pezzi. Il loro capitano si era avvolto in un drappo di silenzio pesante, e nessuno era riuscito a svolgerlo dal suo bozzo.

Erano due anime che sanguinavano dentro due involucri perfettamente illesi.

Antonio osservò il suo amico, seduto scomposto contro la paratia. Aveva trascorso qualche momento con il suo padre adottivo e il suo fratellino solo per perderli di nuovo.

Gilbert sollevò i suoi occhi amaranto su di lui, che stava appoggiato alla balaustra con i gomiti. Il suo amico aveva ritrovato una famiglia in Lovino e, come la prima volta, gli era stata strappata senza che lui potesse fare nulla.

«Come stai?» la voce arrancò rugginosa sulle labbra dell’Hellsing.

«Come te» rispose atono il capitano.

Gilbert ragliò una risata.

«Allora ti senti uno schifo» le ciocche argento si appiattirono contro il legno della parete quando l’Hellsing reclinò il capo all’indietro.

«Passerà.»

«No, non passerà. Lo sai bene quanto me. Puoi fare finta che vada tutto bene, puoi fingere così bene da ingannare perfino te stesso. Ma, per stare davvero bene, loro dovrebbero tornare. E non torneranno. L’aldilà è un’Aeronave di sola andata.»

«Francis direbbe…»

«Oh, al diavolo le sue perle da Marauder!» sbottò Gilbert. «Sono stanco di consolarmi con la filosofia. Vorrei che fossero qui, ma non ci sono. E non c’è rimedio. Posso anche pensare che mi sentano da un qualche lontano aldilà, ma non mi importa, perché, anche se questo aldilà esiste, è troppo lontano. Non posso vederli, non posso toccarli, non posso andare da loro. Abbiamo lottato tutta la nostra vita, per loro. Non meritavamo un finale migliore?»

Antonio abbassò la testa, senza sapere cosa rispondere.

Voleva contraddire l’amico, dirgli che c’era ancora speranza, che sarebbe andato tutto bene, ma le sue labbra si rifiutavano di muoversi.

Anche se fosse andato tutto bene, che senso aveva quel “tutto” se non c’erano Lovino, Ludwig e gli altri?

L’apparizione di Francis fermò il suo sospiro a metà.

«Non ci crederete mai!» esordì, assestando una pacca sulle spalle di Antonio.

L’Hellsing e il capitano gli rifilarono un’occhiata molto cupa e molto scettica. Non avevano voglia di surriscaldarsi per le teatralità di Francis.

«Non siamo dell’umore» lo avvertì Gilbert. «Raccontala breve, senza i tuoi fronzoli melodrammatici.»

«Io non uso “fronzoli melodrammatici”, io rendo il racconto vivo!» Francis gonfiò il petto con orgoglio, e fece un passo in modo da trovarsi esattamente in mezzo ai suoi amici.

«Ma vi farò questo favore e sarò breve» mosse le mani come un prestigiatore, e due globi madreperla comparvero sui suoi palmi, fluttuando pigri nell’aria.

«Arthur, mi senti?»

Il globo sulla mano sinistra si illuminò di verde.

«Vorrei poter dire di no» si rammaricò la voce del Mago dell’Ovest.

«Figlio del Cielo, mi sente?»

La sfera opposta scintillò di rosso.

«Perfettamente» il tono del sovrano Asean risuonò argentino nell’aria.

«Francis, cosa…»

«Stamattina» iniziò il Marauder, stroncando la domanda dell’Hellsing. «I macchinari Asean, scandagliando lo spazio in cui ci troviamo, hanno fatto una scoperta interessante.»

«Hanno rilevato un’atmosfera identica alla nostra Confederazione» spiegò il globo scarlatto. «C’è una possibilità su un milione che una cosa del genere avvenga.»

«E, visto che nessuno di noi crede alla casualità, il Mago dell’Ovest e il Figlio del Cielo hanno compiuto un viaggio astrale e controllato.»

Gilbert e Antonio si scambiarono un’occhiata perplessa. Francis era quasi più difficile da seguire quando cercava di sintetizzare.

«Ci sono dei pianeti» continuò la sfera verde. «Abbiamo tracciato le loro posizioni e le abbiamo fatte controllare ai nostri astronomi.»

«Sono le stesse dei nostri pianeti nella Confederazione» concluse il Figlio del Cielo.

Francis si aspettava una reazione plateale, ma ottenne solo due occhiate sempre più perplesse.

«Ma non capite?» esultò. «Stessa atmosfera, stesse posizioni dei pianeti…»

«Stai dicendo che abbiamo attraversato un’intera dimensione per trovarci nella stessa, vecchia Confederazione? Se è così, non voglio capire» tagliò corto Gilbert.

«Non abbiamo rilevato tracce di vita demoniache, durante il nostro viaggio astrale» aggiunse pacato Yao. «I demoni devono essersi estinti, in qualche modo.»

«Forse sono morti di fame dopo aver mangiato tutti quelli che sono rimasti nella Confederazione» sputò velenoso Gilbert.

«Il punto è…» Francis cercò di farsi strada nel pessimismo degli amici. «Che, se si sono estinti, devono essere passati secoli…»

«Quindi ci stiamo dirigendo verso la stessa Confederazione, solo più vecchia» lo affossò Antonio.

«No, fatemi finire!» si spazientì Francis. «Non solo non ci sono demoni, ma c’è una specie di cordone di magia che protegge tutta la Confederazione, passando per il suo centro.»

A questa informazione, finalmente gli altri due Sparvieri diedero segni di vita.

«Per il centro? Come un…»

«Asse» Francis rubò la conclusione ad Antonio. «Non solo. C’è vita sul pianeta degli Hellsing. Pochi esemplari. Come una piccola famiglia.»

Il volto di Gilbert diventò bianco come se il sangue fosse improvvisamente precipitato nei piedi. Le labbra si aprirono senza emettere suono, e gli occhi si sbarrarono senza vedere realmente.

Poi l’uomo batté le palpebre, e sollevò una mano verso il Marauder.

«Francis, se è uno dei tuoi stupidi scherzi…»

«Non scherzerei mai su una cosa del genere» dichiarò serio l’altro. «Non abbiamo viaggiato nello spazio, abbiamo viaggiato nel tempo. Secoli e secoli nel futuro. E c’è una possibilità concreta che Lovino e Ludwig abbiano fatto altrettanto.»

«Ma come?» insistette Gilbert.

Francis mostrò i palmi come se volesse arrendersi.

«Questo non lo so. Dovremmo chiederlo a loro.»

L’Hellsing si rialzò in piedi, nonostante le gambe tremanti e le ginocchia sull’orlo del tracollo. Accarezzò distrattamente la spilla di Gilbird, inspirò a fondo e sillabò, lento:

«Puoi giurare che davanti a noi c’è la nostra Confederazione?»

«Sì.»

«E che ci siamo solo mossi nel tempo?»

«Abbiamo fatto i calcoli e confrontato le mappe più volte. Non c’è possibilità di errore» confermò il Figlio del Cielo.

«E c’è vita sul mio pianeta?»

«Sì.»

«Bene.»

Gilbert non finì nemmeno di parlare: strappò la spilla e la gettò in aria. Qualche piuma nera cadde sul ponte mentre Gilbird prendeva forma dal metallo.

«Scusate la fretta. Non sono mai stato un tipo paziente.»

Francis sorrise di riflesso al sogghigno di Gilbert. Eccolo, il vero Hellsing, e non il fantasma che aveva occupato il ponte negli ultimi giorni.

Gilbird scese in picchiata e l’uomo prese posto sulla sua schiena con un balzo felino, sfrecciando poi nel cielo notturno in direzione del suo pianeta. Casa, finalmente!

«Vuoi essere da meno?» Francis pungolò Antonio, indicando con gli occhi il loro amico che spariva nel velluto dello spazio.

«La Reina non sarà mai battuta da un pennuto» Antonio marciò deciso sul ponte di comando e gridò ai suoi uomini: «Preparate i razzi ausiliari e fate rotta verso il pianeta degli Hellsing!»

I marinai reagirono con un boato esultante.

Erano felici di avere una meta, ma, soprattutto, di avere di nuovo il loro capitano.

Era terribile, per un uomo di mare, vedere il proprio comandante fare rotta verso un paese in cui non lo si poteva raggiungere. Era un pianeta così strano e privato, quello del dolore.

Il ventre della Reina rombò all’accensione dei nuovi propulsori. L’Aeronave lasciò dietro di sé una sottile scia azzurrognola, mentre inseguiva il famiglio dell’Hellsing.

«Noi non ci affrettiamo?»

Il Mago dell’Ovest non si alzò nemmeno dal suo tavolo e dalle sue carte. Sapeva che Francis non aveva mai la decenza di teletrasportarsi fuori da una stanza e bussare.

«No. Non prima di aver finito questi progetti di ricostruzione di Britannia» e Arthur gli indicò la sedia, in un invito che non si poteva rifiutare. Il Marauder non si sarebbe mosso da quella stanza finché non avessero deciso la posizione dell’ultimo mattone della Nuova Compagnia di Britannia.

«E voi?» chiese Francis al globo rosso.

«Non abbiamo fretta» rispose il Figlio del Cielo, prima di chiudere la conversazione. Il colore cremisi si ritirò dal globo, lasciando un’anonima sfera madreperla.

«Anche il sistema Asean è da ricostruire» commentò Arthur.

«No, non credo sia quello» Francis prese posto sulla sedia di fronte alla scrivania del Mago dell’Ovest, un’espressione malinconica e comprensiva distesa sul viso. «Una volta dentro la Confederazione, saranno di nuovo il Figlio del Cielo e il Custode dei Cancelli.»

«E quindi?»

«Il Figlio del Cielo deve rimanere a guidare il suo popolo. Il Custode dei Cancelli deve controllare i confini e l’interno della Confederazione. Non ci sono molti punti di incontro, per due vite così.»

Le sopracciglia incolte di Arthur si sollevarono, increspando la fronte.

«Ti ricorda qualcosa?» lo stuzzicò Francis.

«Non credo che vada a tuo favore ricordarmi i cento anni che mi hai fatto passare da solo. Ora zitto e mettiti al lavoro» ordinò Arthur, lanciandogli dei fogli pieni di numeri e scritte.

Francis sospirò melodrammatico, prima di aprire le pergamene.

Rinfacciare e scendere a compromessi.

Immaginava che fosse un buon riassunto per il concetto di “matrimonio”.

 

***

 

In memoria di Roderich Edelstein e del suo diamante della battaglia.

Qualcuno aveva fatto colare dell’oro, in quelle lettere incise nella pietra.

Lo stesso qualcuno che l’aveva scolpita a forma di violino, e che aveva lasciato dei fiori ai suoi piedi.

Gilbert fissò quella lapide in silenzio. Un monumento su un pianeta fantasma.

Fece vagare lo sguardo sullo spazio intorno e trovò prati e alberi, dello stesso verde che ricopriva le montagne circostanti. Il suo mondo era simile a come era stato prima dei demoni, ma era vuoto. Tremendamente vuoto.

Eccetto per lo sconosciuto che aveva costruito quella lapide. Non doveva essere passato molto tempo dalla sua ultima visita: i fiori avevano qualche petalo avvizzito, ma non erano marciti. Quindi questo qualcuno li aveva portati di recente.

Gilbert flesse un ginocchio verso il terreno, in una riverenza guerresca.

«Mi mancherà il tuo violino» riconobbe il sapore d’acciaio delle lacrime: lo sentì risalirgli la gola, prima di pizzicargli gli occhi. Ma non avrebbe pianto: Roderich era con Elizabeta, e aveva ripagato con la vita il male che aveva fatto alla sua gente.

Lui era felice. Che senso aveva piangere?

Si rialzò e batté qualche pacca sui pantaloni color notte, per scuotere i fili d’erba aggrappati.

La mano fu velocissima a correre dal tessuto alla sciabola, quando un grido strozzato lo colse alle spalle.

«Gilbert?»

L’Hellsing aggrottò le sopracciglia, e tenne la mano sull’elsa mentre si voltava. Gli pareva di conoscere quella voce, ma era meglio essere prudenti.

Due occhi ramati lo fissarono come se avessero visto un miracolo vivente. Occorsero alcuni secondi prima che Gilbert riuscisse a trovare quella faccia nei suoi ricordi.

«Asse?»

Il ragazzo scosse il capo.

«Solo Feliciano.»

L’Hellsing sentì le tempie pulsare come se volessero spaccargli il cranio. Non era possibile: lo aveva visto rimanere intrappolato nella loro dimensione con Roderich e orde assassine di demoni. Com’era possibile che fosse davanti a lui, vivo?

«Sei cresciuto» riuscì a buttare fuori, quando lo stupore gli permise di nuovo di muovere le labbra.

Feliciano portò una ciocca di capelli dietro all’orecchio, quasi imbarazzato.

«Non so quanto tempo sia passato per voi, ma noi siamo qui da sei anni.»

Di nuovo, Gilbert dovette premersi le tempie per impedire loro di sfondargli il cervello.

Troppe informazioni tutte insieme.

L’Asse era riuscito a salvarsi, ed era nella Confederazione di secoli nel futuro da sei anni. Questo spiegava perché il suo fisico e il suo viso si erano induriti nelle spigolosità di un giovane uomo.

E c’era un altro punto fondamentale, nel discorso dell’Asse. Aveva detto “noi”.

Gilbert passò una mano sul viso, il respiro tremante che si infrangeva sul palmo.

«Come hai fatto a sopravvivere?»

Lo sguardo dell’Asse si fece più triste, e mosse un passo verso il monumento. Solo in quel momento l’Hellsing notò che aveva dei fiori in mano. Almeno aveva scoperto chi onorava la tomba di Roderich.

«Poco prima che i demoni ci assalissero, abbiamo sentito una voce chiamarci. E io ho fatto lo stupido errore di alzare la testa. Un demone mi ha quasi ucciso» Feliciano appoggiò i fiori freschi a lato della lapide e afferrò quelli vecchi. Ma la mano rimase ferma dov’era, i gambi umidi tra le dita. «Si è sacrificato per salvarmi.»

Feliciano estrasse i fiori dall’acqua stagna, e li depositò davanti alla lapide come avrebbe fatto con una salma.

«Mi dispiace, Gilbert. Mi dispiace davvero.»

Avrebbe mentito se avesse detto che era contento della piega presa dagli avvenimenti. Egoisticamente, avrebbe preferito avere suo padre con sé, anziché un ragazzino appena conosciuto.

Ma era stato Roderich a insegnargli il valore delle scelte individuali. Anche in quel momento, il violinista era stato libero: avrebbe potuto lasciar morire l’Asse e salvarsi, ma aveva preferito sacrificarsi per lui. Forse per fare ammenda per le sue colpe passate, forse per istinto. Comunque, aveva scelto. Non era niente che lui o Feliciano potessero cambiare.

«Ha potuto scegliere come morire» concluse Gilbert. Il dolore quasi gli sciolse gli occhi, quando lesse di nuovo l’iscrizione dorata. In memoria di Roderich. Un altro che spariva dal mondo reale per diventare un ricordo.

«C’è qualcun altro, con te?» Gilbert cercò di distrarsi dalla lapide, e si ricordò che l’Asse aveva parlato al plurale, poco prima.

Feliciano annuì, lieto di poter dare una buona notizia.

«Ludwig è andato a prendere l’acqua per i fiori.»

Gilbert barcollò all’indietro come se un demone lo avesse colpito al petto.

«Ludwig…?»

«Lui e Lovino sono stati i primi ad arrivare» spiegò Feliciano, lo sguardo addolcito al pensiero del fratello e dell’innamorato. «Sono stati loro ad aprire il portale che mi ha permesso di arrivare qui. Hanno impiegato due anni per trovare un modo.»

«Ma questo non ha senso!» l’Hellsing sentiva bordi della realtà strattonati e sul punto di lacerarsi, come il suo equilibrio nervoso. «Per lo scorso portale avete dovuto lavorare tu, il Mago dell’Ovest, Lovino e il Figlio del Cielo! Com’è possibile che loro due, da soli, ne abbiano aperto un altro? E come hanno fatto a salvarti, se ci hanno messo due anni a trovare un modo?»

«Ma questo era un portale per una sola persona. È molto più facile da realizzare, rispetto a un portale per pianeti interi» Feliciano stese un foglio di carta a terra, vi depositò sopra i fiori raggrinziti e li accartocciò con cura. «E, esattamente come il primo, non era un portale spaziale, ma temporale. Sapevano esattamente quando trovarmi.»

«Ma non sapevano che Roderich si era sacrificato.»

Il castano ramato degli occhi di Feliciano sembrò spegnersi a quelle parole.

«No. Non è stato facile accettare di aver sbagliato di pochi minuti, per salvare entrambi.»

Gilbert quasi trasalì quando una voce profonda, ben diversa da quella squillante dell’Asse, rispose in quel modo.

Il cuore si compresse nel suo petto per poi esplodere in battiti incontrollati.

Era cresciuto ancora. Era diventato un uomo. Ma l’affetto che bagnava quegli occhi azzurri non era cambiato: era rimasto sempre lo stesso, fin da quando era un bambino che ondeggiava sotto il peso di un pesce troppo grande.

Nessuno dei due disse niente. Gilbert lasciò cadere la spada e Ludwig il secchio d’acqua che reggeva tra le dita per correre ad abbracciarsi.

«Sei diventato ancora più alto» l’Hellsing gli sferrò un pugno allo stomaco, per avere il fratellino alla sua stessa altezza. «Se continui così, ti metteremo a spolverare le montagne.»

«Posso anche diventare alto come una montagna, ma dovrò sempre alzare gli occhi, per guardare verso di te.»

«Questa è una sviolinata gratuita.»

«Mi sei mancato, Gilbert» il naso era più appuntito e il mento più pronunciato, ma il modo di nascondere il viso nell’incavo del suo collo era lo stesso di quando abitavano insieme nella baita sul lago. «Speravo che un giorno saresti arrivato, ma non sapevo… non avevo la certezza…»

L’Hellsing carezzò le spalle del fratello. Cielo, erano così grandi che ci si sarebbe potuto apparecchiare!

«Sono qui, Ludwig. Non vado più via. Finalmente potremo vivere come una famiglia.»

Il giovane annuì contro la sua spalla.

«Ma non hai visto l’ultimo membro della nostra famiglia!» si ricordò Ludwig, staccandosi di colpo.

Gilbert lo guardò perplesso. Lui, Ludwig e l’Asse erano lì. Chi poteva mancare?

«Lovino?» collegò l’Hellsing.

«No. Cioè, sì, è qui, ma non intendevo lui» incespicò Ludwig.

Le sopracciglia argentee dell’Hellsing disegnarono un arco confuso. Ludwig non si inciampava mai nei suoi pensieri in quel modo, a meno che la notizia non fosse davvero sconvolgente.

«Chi è?» chiese Gilbert, non del tutto sicuro di volerlo sapere.

Il sorriso radioso di Ludwig quasi lo accecò.

«Lo troverai alla baita» esultò il giovane. Ma fu la frase successiva a far sentire di nuovo l’Hellsing come se la sua realtà fosse sul punto di stracciarsi in mille pezzi. «Ti ha sempre aspettato.»

Nei primi passi, le sue ginocchia tremarono come quelle di un ubriaco. Poi riacquistarono forza e stabilità divorando il terreno, portandolo sempre più vicino al profilo della casa in lontananza.

Il cuore e i polmoni si erano fusi in un unico ammasso di materia pulsante, e il respiro sembrava fuoco liquido in gola.

Francis aveva detto che si era reincarnato. Che lo stava aspettando.

Cercò di imporsi di non sperare troppo, mentre un raggio di sole si infrangeva sulla maniglia della porta, come a invitarlo a entrare.

 

***

 

Erano atterrati ad Asean senza problemi.

Le rovine del Palazzo Imperiale si ergevano crepate contro il cielo, serie e fiere come un regnante troppo vecchio per stare eretto e troppo venerato per essere dimenticato.

Yao appoggiò una mano sulla porta ammuffita. Il legno era lucido e splendente nei ricordi suoi e dei suoi antenati e, socchiudendo appena le palpebre, poteva ancora vedere il colore scarlatto del suo regno brillare sotto i raggi del sole.

Riaprì gli occhi su quello scheletro del passato, che lo fissava con le orbite vuote delle finestre. Ricordava un suo antenato, che era partito per un viaggio lungo tutta la Confederazione a scopo diplomatico, e aveva lasciato a casa il suo vecchio cane. Attraverso gli occhi dell’uomo, vedeva il cane alzare la testa, avendo sentito il passo del padrone scricchiolare sulla prima neve di dicembre. Si era drizzato sulle gambe ossute e gli era venuto incontro con una corsa sgangherata. Aveva aspettato che il padrone lo abbracciasse e lo accarezzasse per andarsene. Un fiocco di neve era caduto sul suo naso… e non si era sciolto.

Il Palazzo Imperiale gli ricordava quel cane. Aveva atteso troppo a lungo il suo padrone, ed era diventato vecchio ed esausto. Aspettava solo il permesso di andarsene.

«Grazie per aver vigilato su Asean in mia assenza» mormorò all’edificio. «Ti ricostruiremo. Diventerai più bello di quanto tu non sia mai stato. L’intera Asean tornerà a splendere insieme a te.»

Si voltò, e osservò indulgente i consiglieri, diligentemente in fila e in attesa. E, alla fine della linea, sua madre.

«Il Sistema Asean ha regalato il potere magico al Figlio del Cielo perché facesse prosperare il suo popolo» la veste di seta si aprì sul terreno brullo quando Yao si chinò al suolo. «Asean ha mantenuto la promessa. È tempo che il Figlio del Cielo faccia altrettanto.»

«Che intendete fare?» chiese un consigliere.

Il Figlio del Cielo sorrise. E c’era un raggio di sole in quel sorriso.

«Non conoscete la storia della fenice? Risorge dalle ceneri, più forte e splendente. Qui abbiamo le ceneri. Manca solo il fuoco.»

La terra arida fremette contro le sue mani, e il Figlio del Cielo conficcò le dita nel suolo selvatico.

Chiuse gli occhi, e il suo cuore di fuoco pulsò così forte che lo sentì rimbombare in ogni cellula del suo corpo.

Non sentì i richiami dei consiglieri e la preoccupazione della madre. Non sentì nemmeno il silenzio di Ivan, più lacerante di qualunque grido.

Il cuore di fuoco rilasciò il suo potere con il ruggito di un drago. Yao avvertì la pelle delle mani tendersi e lacerarsi sotto il flusso dell’energia, ma non bloccò la fuoriuscita di potere. Il suo corpo tremò interamente: muscoli, carne, ossa. Gli occhi e il cuore divennero incandescenti come lava. E, ancora, Yao non si fermò: la fenice non era ancora risorta.

Solo quando sentì l’erba sotto le sue dita staccò le mani dal suolo.

La sua schiena si curvò all’indietro, come una corda troppo tesa che viene improvvisamente spezzata. Rimase immobile per un istante, gli occhi spalancati fissi sul cielo, prima di crollare di lato.

Ma non toccò il terreno. Il suo viso incontrò una giacca ben conosciuta, non più gelida. Una mano che conosceva la gentilezza si posò sul suo capo.

«La fenice è risorta» mormorò Ivan. «Adesso lascia che ce ne occupiamo noi.»

Yao annuì, rubando un’immagine del suo pianeta prima di chiudere gli occhi.

L’erba era tornata. Poteva sentire lo scroscio dei fiumi intorno. E il Palazzo era di nuovo vermiglio.

Il sorriso non svanì dalle sue labbra quando svenne.

 

***

 

Era Britannia e, allo stesso tempo, non era lei.

Riconosceva l’aria umida, il colore ombroso della brughiera e il cielo affollato di nubi.

Tuttavia, era rimasto solo lo scheletro delle città che ricordava: qualche costola di muro, il cranio vuoto di una cupola spaccata, e le vene sbeccate delle strade.

I demoni e i secoli avevano fatto il loro dovere, nell’erodere la loro bella terra.

La vista della piazza in cui avevano abbandonato il Leone Incoronato e gli anziani su Britannia gli mozzò il respiro. Ormai, di loro non rimaneva nemmeno la polvere.

Eppure, avevano cenato insieme a loro solo qualche giorno prima…

«Come ti senti?»

Francis spuntò alle sue spalle, come sempre. Doveva avere qualche abitudine in comune con i folletti di Faerie, che non apparivano mai di fronte al loro interlocutore.

«Come se fossi rimasto l’unico sopravvissuto in un naufragio» rispose Arthur.

«Già» concordò Francis. «Ma, ormai, dovresti esserti abituato.»

«E tu? Tu ti sei abituato, a vedere la nave che affonda?»

Un sorriso malinconico torse le labbra di Francis.

«Sì, mi sono abituato. Ma ricordo ogni singola scheggia che ha composto quella nave. Credo che non sia male sopravvivere, se puoi contare su dei bei ricordi.»

Arthur sollevò lo sguardo sulla piazza, e la osservò mentre prendeva vita sotto i suoi occhi.

Le crepe nelle strade si ripararono da sole, mentre i bambini si rincorrevano sull’acciottolato e i loro genitori contrattavano con i mercanti delle bancarelle rionali. La campana dell’abazia cominciò a scandire i rintocchi del mezzogiorno, e tutto era euforico e indistinto, come nelle veglie passate in compagnia di amici, focolari e vino caldo.

Bastò un battito di ciglia perché il ricordo si sgretolasse e la realtà prendesse il sopravvento.

«Sai cosa credo, Francis?» dichiarò Arthur, raddrizzando il mantello degli Avalon sulle spalle. «Che noi non siamo i sopravvissuti. Siamo l’eredità di chi parte.»

«E cosa cambia?»

«Il legame» Arthur abbracciò con lo sguardo quella terra brulla e troppo avvezza alla guerra, ma che, nonostante tutto, era arrivato a considerare casa sua. «Se sopravvivi e basta, vuol dire che sei stato solo tutta la vita, e non ti importa di chi ti sei lasciato alle spalle. Se sei l’eredità di qualcosa, invece, non dimenticherai mai chi ti ha reso erede, e potrai lasciare il tuo tesoro a qualcun altro quando verrà il tuo momento.»

«Finalmente ci sei arrivato» concesse Francis, con un sorriso volpino. «L’immortalità non è una maledizione.»

Arthur lo superò con fare autoritario, per poi voltarsi e spronarlo.

«Muoviti, Marauder. Abbiamo un pianeta da costruire. Non vorremmo lasciare dei debiti come eredità alle generazioni future.»

«Non sia mai» concordò teatralmente Francis.

Quel giorno, nacque Nuova Britannia.

 

***

 

Il tramonto stava cedendo il passo al viola del crepuscolo quando Yao si risvegliò nel suo letto.

Il cuore di fuoco palpitava placido nel suo petto, e aveva una strana sensazione alle dita. Spostò lo sguardo verso il basso, e le vide completamente bendate, abbandonate senza forza sulle lenzuola.

«Il potere ti ha squarciato la pelle» lo avvertì una voce bassa accanto a lui. «Ma i medici dicono che non ci sono state lesioni alle ossa o ai muscoli.»

«Il mio potere cerca sempre di non farmi del male» la voce uscì in un gracidio, e Yao tossì prima di parlare di nuovo. «Non volontariamente, almeno.»

«Cosa intendi dire?»

«La memoria generazionale, Ivan. È un grande fardello. Come lo è sapere che, prima o poi, un mio successore potrà esplorare tutta la mia vita, dal primo all’ultimo istante. Non ci sarà un solo pensiero che rimarrà mio. E questo mi farà male.»

La mano dell’uomo si appoggiò sulla sua, coprendola completamente.

«Ma sono tuoi in questa vita. Perché preoccuparsi di quelle degli altri?»

Yao voltò il viso, e una ciocca di capelli gli ricadde sulla fronte. La scostò per guardare Ivan, il suo gigante con gli occhi azzurri e le mani gentili.

«E il tuo potere?»

«Il mio potere ha sempre cercato di farmi male, volontariamente. Ma ho vinto io» Ivan pronunciò la frase con assoluta indifferenza, come se riguardasse uno sconosciuto. Per lui, il Custode dei Cancelli era una storia raccontata da altri: il Cuore d’Inverno aveva divorato tutte le sue giornate passate come Custode, e le poche che non aveva fatto in tempo a cancellare erano svanite come neve al sole quando se ne era liberato. Solo i ricordi di Yao rimanevano impressi a fuoco nella sua memoria semivuota.

«Che farai adesso?» scostò la mano da quella del sovrano, nel porre la domanda.

Yao chiuse gli occhi, come i bambini che sperano che il mostro sotto il letto se ne vada se ignorato. Ma quel mostro era troppo grande, e si chiamava “trono”.

Riaprì gli occhi, e la sua risposta fu trascinata all’esterno da un respiro stanco.

«Chugoku ha bisogno del Figlio del Cielo.»

Il Custode conficcò le mani nelle tasche.

«Gli astri hanno già deciso la tua strada, non è così?» commentò Ivan. C’era dell’amaro in quelle parole, e Yao storse la bocca come se fosse stato costretto a ingoiare un cucchiaio di acido. «Dovrai rimanere qui e governare… poi dovrai avere un erede, quindi una moglie…»

«Io non mi sposerò. Adotterò il mio erede. Molti sovrani l’hanno fatto, prima di me.»

Ivan scosse la testa, allo stesso modo di un toro che cerca di togliersi inutilmente il giogo.

«Anche se questo non cambierà molto le cose tra noi» rifletté Yao, incrociando le mani sullo sterno. «Tu sei comunque il Custode dei Cancelli, e il Custode deve viaggiare nella Confederazione…» il petto si gonfiò, sotto le dita bendate, in un lento sospiro. «Quante volte riuscirai a fermarti a Chugoku?»

«Circa due all’anno.»

«Due volte all’anno…» ripeté Yao.

«Finché non troverò qualcuno che prenda il mio posto. Allora potrò fermarmi. Anche per tutta la vita.»

L’Asean allungò una mano e la appoggiò sul ginocchio di Ivan.

«Fai in modo che non avvenga troppo tardi. Non voglio passare con te solo gli anni del tramonto.»

«E tu aspettami. Non sposarti e non invaghirti di altre persone.»

«Aspetterò. Ma non farmi aspettare tutta la vita.»

L’uomo sollevò gentilmente la mano fasciata del compagno e impresse un flebile sorriso sulle nocche del sovrano.

«Immagino che sarebbe noioso, aspettarmi così a lungo.»

«Oh, lo sarebbe. Ma so che ti aspetterei.»

Le bende sfregarono sulle guance del Custode quando Yao gli accarezzò il viso.

«Potrei aspettarti per questa e per le prossime vite, Ivan.»

Le labbra del Custode si premettero sulle garze, per poi scendere a baciare la pelle del polso, sotto l’orlo dell’ampia manica. Yao si sollevò a sedere e si avvicinò a sua volta, per poggiare le labbra sul capo dell’uomo.

 «Quando partirai?» soffiò sulle ciocche argentate.

«Domani» sillabò lui sul suo polso.

Le maniche si arrotolarono con un fruscio languido sulle spalle del sovrano, quando questo fece scivolare le braccia attorno al collo di Ivan.

«Domani tornerai a essere il Custode dei Cancelli, e io il Figlio del Cielo. Ma, per stanotte, siamo solo Yao e Ivan» la veste sibilò vellutata, accompagnando il corpo del sovrano che si tendeva verso quello del suo compagno. «E questa notte dovrà bastarmi fino alla tua prossima visita.»

Le mani di Ivan risalirono la schiena del sovrano, cercando un passaggio sotto la veste, mentre la bocca si premeva sul collo steso verso di lui.

«Non ti farò aspettare troppo» sussurrò, stendendolo sul materasso.

Yao gli indirizzò il sorriso furbo di chi sapeva di avere il controllo della situazione.

«Lo so. Perché io riuscirei ad aspettare tutta la vita… ma tu no. Tu sei molto più impaziente di me.»

Ivan non si preoccupò di smentire l’affermazione del sovrano.

Si chinò su di lui per baciarlo, le sue mani che scendevano ad allentare la cintura di stoffa dell’Asean.

No, lui non avrebbe aspettato tutta la vita. Non sapendo cosa si provasse, a vivere insieme a Yao.

 

***

 

Come partorita dai suoi ricordi, la baita in riva al lago era là.

Era migliorata, rispetto al passato: l’aspetto era meno cupo, e qualcuno aveva ampliato la parte sul retro. Qualcuno che non aveva molte nozioni si architettura: più che allargata, la casa sembrava incinta. Quel qualcuno aveva però doti molto migliori nel giardinaggio: due file di alberi, accuratamente potate e innaffiate, correvano fino al lago.

Ma Gilbert non vide nulla, né la casa, né gli alberi, nemmeno le stanze in più che facevano assomigliare la casa a un rospo gravido.

La sua visione era ristretta alla porta di legno, che sbarrò con uno schianto.

Niente. La stanza era come la ricordava – il letto, il tavolo, tutto era disposto esattamente come il giorno in cui l’aveva lasciata. Ma non c’era nessuno.

Gilbert sentì un angolo della bocca tendersi in un sorriso sadico. Tutto ciò la rendeva ancora più simile ai suoi ricordi: una baita per un solo Hellsing. Una casa vuota.

«Ludwig? Sei tu?»

Gilbert si appoggiò deluso allo stipite della porta, mentre i passi dello sconosciuto risalivano dalla cantina.

Non conosceva quella voce. Doveva aver frainteso il discorso di Ludwig.

D’altronde, non era possibile che i morti tornassero in vita.

Si è reincarnato. Ti sta aspettando.

Le parole dell’amico gli risuonarono nella testa come uno sberleffo.

Poteva anche essersi reincarnato, ma, chiaramente, non era lì. Era stato stupido anche solo sperare una cosa del genere.

Il suono di cocci infranti sul pavimento lo strattonò fuori da quei pensieri.

Gilbert osservò perplesso il ragazzo che lo fissava con gli occhi sbarrati e le labbra pallide, le mani raggelate con le dita aperte, in piedi in una pozza di birra e frammenti di vasellame.

«Sei vero… Gilbert…» esalò quello, senza smettere di fissarlo, come ipnotizzato.

L’Hellsing si mosse inquieto sul posto. Quel giovane sembrava intenzionato a scansionargli perfino le viscere, e la cosa non gli faceva troppo piacere.

Non aveva mai visto prima quei capelli castani, quel fisico asciutto o quegli occhi bluastri. Non c’era un solo lineamento, in quel viso impietrito, che gli fosse familiare.

Ma, quando finalmente Gilbert si decise a degnare di un’occhiata più attenta il ragazzo, la nostalgia gli pizzicò lo stomaco. Conosceva quell’andatura con una punta di titubanza, quasi dovesse chiedere all’aria il permesso di attraversarla, e quel tono di voce, sommesso perfino nella rabbia. E quel modo di guardarlo come se fosse… il più grande eroe di tutta la Confederazione.

Si è reincarnato. Ti sta aspettando.

La voce di Francis gli martellò le tempie, e Gilbert scosse il capo per scacciarla.

Troppe cose. Troppe cose tutte insieme.

Avevano scoperto di aver viaggiato nel tempo, non nello spazio. Si erano riappropriati della loro Confederazione, e l’avrebbero ricostruita su altre basi da quel giorno in avanti. Ludwig, il suo amato fratellino, era vivo, ed era su quel pianeta.

Il suo cuore era già sul punto di esplodere. Non era sicuro di poter sopportare un’altra emozione troppo forte, che fosse gioia o delusione. Ma il suo sangue era quello bollente di un guerriero: la sua bocca si armò di parole prima ancora che se ne rendesse conto.

«Come fai a conoscermi?»

Il ragazzo boccheggiò un paio di volte a vuoto, in cerca di parole o di aria, prima di tastare ansiosamente i pantaloni. Dalla tasca destra emerse il suo trofeo, che inforcò con dita tremanti.

Il cuore di Gilbert fremette più delle mani del giovane, alla vista di quell’oggetto.

Un paio di occhiali, rammendati con mezzi di fortuna.

«Non… non ricordavo niente, all’inizio» tentennò il ragazzo, le mani ancora aggrappate alle stecche degli occhiali. Si sarebbe troncato le orecchie di netto, se non avesse smesso di premervi sopra. «Mi sono ritrovato solo, in una dimensione vuota. Poi sono arrivati i sogni. Sul… sul nostro passato. Poi sono arrivati Lovino e Ludwig, e insieme abbiamo salvato Feliciano…»

Le parole rimbombavano come se il giovane stesse parlando dentro una bolla d’acqua. Il loro significato gli scivolava addosso, così come ogni altro rumore: il vento fuori dalla porta, e le gocce della birra versata sulle scale della cantina.

I suoi sensi si erano ristretti per lasciare spazio solo alla vista. Ed era puntata sul giovane davanti a sé.

Gilbert non realizzò di essersi mosso verso il ragazzo, o di aver appoggiato le mani sulle sue guance.

Vide il suo volto farsi più vicino, e delle dita estranee accarezzargli gli zigomi, ma aveva perso sensibilità con il suo stesso corpo. Tutto era focalizzato su quegli occhi che lo fissavano con un misto di speranza e di ansia.

La bocca si mosse con lentezza e fatica, come se fosse rimasta ferma per millenni.

«Matthew…?»

Le lacrime si affacciarono sugli occhi del giovane, ma il ragazzo strinse le palpebre prima che potessero inondargli le guance. Poggiò le mani su quelle dell’Hellsing e le tenne ferme sul suo viso mentre annuiva.

«Sono io» la voce ruzzolò goffa sulle labbra tremanti.

«Da quanto… da quanto tempo hai ricordato?» non riconosceva nemmeno più la sua voce: tutto suonava strano e alieno, al di fuori del viso in lacrime che stringeva tra le dita.

«Dieci anni.»

«E cosa hai fatto in questi dieci anni?»

I sensi tornarono alla vita quando il ragazzo si gettò contro il suo petto: sentì il suo tepore mentre stringeva le braccia sulla schiena fragile, udì i singhiozzi soffocati e sentì l’odore del bosco e del lago intrappolati nei capelli che gli solleticavano il naso.

«Quello che avevo promesso» l’abbraccio del giovane si fece più stretto, e Gilbert rafforzò la sua presa di conseguenza. Se non lo avesse tenuto premuto contro di sé, quel giovane sarebbe andato in pezzi. «Ti ho aspettato, Gilbert. Ti ho aspettato sempre.»

Matthew rialzò il viso. Nemmeno le lenti spesse degli occhiali erano sufficienti per mascherare del tutto il pianto.

«Ho pensato tante volte che forse era tutto un sogno» le labbra tremavano come se temessero di ferirsi con le parole. «Ero da solo, e avevo questi strani ricordi di una vita passata. Poi sono arrivati Ludwig e Lovino, e ho capito che non era frutto della mia immaginazione. Ma, ogni tanto, temevo che sarebbe arrivato il giorno in cui mi sarei svegliato con i capelli bianchi e un sacco di anni sulle spalle, e mi sarei accorto di aver sprecato la vita ad aspettare un sogno…» le mani del giovane gli circondarono il viso, incerte, felici. «Ma sei qui, Gilbert… sei qui!»

L’Hellsing non aspettò un momento di più per dimostrare al ragazzo quanto fosse reale.

Si chinò su di lui in uno dei loro baci simili a una caccia, in cui Matthew esitava e Gilbert lo intrappolava.

Il giovane cinse il collo dell’Hellsing con le braccia, spingendosi sulle punte dei piedi per raggiungerlo meglio. Nonostante la reincarnazione, Gilbert era ancora il più alto.

Sentì Matthew mugolare nella sua bocca quando strinse troppo l’abbraccio, e si sforzò di rilasciare la presa quel tanto necessario da permettere al giovane di respirare.

Solo qualche anno prima, lo aveva seppellito con le stesse mani con cui gli stava accarezzando le spalle. Aveva scavato una buca e impilato sassi su di essa per evitare che gli animali selvatici potessero fare scempio del corpo, lo stesso corpo che si tendeva su di lui per prolungare il bacio.

La nostalgia gli mozzò il respiro, e dovette staccarsi per riprendere fiato.

Matthew. Era lì. Era talmente bello da fare paura. Temeva che, da un momento all’altro, si sarebbe svegliato nella Prigione Caina, scoprendo che era stata tutta un’illusione magica per torturarlo.

Ma era evaso da Caina, aveva combattuto e sconfitto il Vaticano insieme ai suoi compagni. E Matthew… lo aveva aspettato. Si era aggrappato a dei brandelli di sogno e lo aveva aspettato per tutti quegli anni.

 Era sicuramente l’eroe più grande della Galassia. Dopo di lui, ovviamente.

«Credevo che ti avrei rivisto solo nel Walhalla» bisbigliò l’Hellsing sulle labbra dischiuse del suo compagno.

Matthew gli regalò uno di quei sorrisi per cui Gilbert avrebbe attraversato un inferno di demoni.

«Invece mi hai trovato» il ragazzo lo abbracciò più forte, spingendo il viso nell’incavo del suo collo. «Avevo ragione.»

«Su cosa?»

Matthew rialzò gli occhi. Avevano una tonalità di blu nettamente più scura rispetto al passato – quasi viola. Ma si sarebbe abituato a essere guardato da quegli occhi nuovi: il loro sguardo era lo stesso dei suoi ricordi.

«Sei e sarai sempre il più grande eroe della Galassia» sorrise Matthew. «Chi altro avrebbe potuto trovarmi?»

«Chi altro avrebbe potuto aspettarmi?»

«Una persona che conosce il tuo valore» rispose prontamente l’altro.

La reincarnazione lo aveva reso più sciolto nelle parole, ma non aveva migliorato la sua tendenza ad arrossire: le guance avevano impiegato meno di un secondo a coprirsi di porpora.

Gilbert poggiò un bacio sulle gote in fiamme prima di riappropriarsi della bocca del giovane.

Meglio così. Non sarebbe stato il vero Matthew, senza il suo rossore.

E senza l’amore totale per lui.

Gilbert lo strinse più forte, respirando a fondo il suo profumo.

Finalmente, era tornato a casa.

 

***

 

«Lovino!»

Il cuore si fece di cenere quando il giovane si voltò.

Non era Lovino. Era il suo gemello.

«Antonio!» lo salutò Feliciano. «Ci siete tutti?»

Il capitano annuì.

«I miei uomini sono ancora sulla Reina. Sono sceso per vedere dove si era cacciato Gilbert.»

Un sorriso da volpe solcò le labbra del giovane.

«Gilbert sta bene. È con Matthew, adesso.»

Antonio lo guardò trasecolato. Con Matthew?

«È… morto?»

Feliciano si affrettò a scuotere la testa.

«No! Matthew si è reincarnato! È stato lui a chiamare qui Lovino e Ludwig, e poi loro sono venuti a prendere me… Antonio?»

Il capitano barcollò all’indietro.

Ricordava quella volta che uno dei suoi uomini aveva mangiato troppo a un banchetto di benvenuto, ed era rimasto steso immobile tutta la notte come un cobra che digerisce la preda.

Si sentiva allo stesso modo: troppe informazioni tutte insieme, e non riusciva a scomporle e digerirle.

Matthew si era reincarnato nella futura Confederazione e aveva aspettato Gilbert. Francis aveva detto qualcosa del genere, ma sapere che il compagno di Gilbert era vivo… aveva visto la sua tomba, aveva accompagnato l’Hellsing a piangerci sopra. Ma era vivo… e, grazie a lui, Ludwig e Lovino si erano salvati. E anche Feliciano.

«Lovino è qui?» domandò, quando non ebbe la sensazione di avere un deserto al posto del palato.

Feliciano annuì.

«Sarà di ritorno tra poco» confermò. «Immagino che avrai molte cose da chiederci.»

«Come avete fatto ad arrivare qui?»

«È stato merito di Matthew. Senza saperlo, ha lanciato una specie di richiamo che ha attirato qui Ludwig e Lovino, quando sono caduti nel risucchio del portale. E, insieme, sono tornati indietro a prendermi» Feliciano non fu abbastanza veloce a chiudere il colletto della camicia quando un soffio di vento lo aprì.

«Come hai fatto a sopravvivere, con una cicatrice del genere?» Antonio era abituato alle ferite, e riconosceva subito il segno lasciato da una particolarmente grave. E una di quelle proporzioni l’aveva vista solo sui cadaveri.

Feliciano pettinò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, quasi con vergogna.

«Roderich» sussurrò. «E Lovino.»

Antonio non indagò oltre, ma c’era un’altra cosa che voleva chiedere al ragazzo.

«Abbiamo visto una scia magica percorrere la Confederazione, prima di arrivare. Come se l’Asse fosse ancora al suo posto.»

«Infatti.»

«Ma tu sei qui.»

«Ma io sono solo Feliciano, adesso.»

Il ragazzo lanciò uno sguardo al cielo, e Antonio seguì la direzione dei suoi occhi.

Un cristallo biancastro dall’aria serena fluttuava al centro della Confederazione.

«Lo abbiamo ricostruito» spiegò Feliciano. «Ma, soprattutto, abbiamo ricostruito il muro progettato da Francis.»

Il capitano continuava a non capire.

«Il muro che assorbe i poteri» sottolineò il ragazzo. «Ha assorbito i miei e li sta propagando nella Confederazione. Abbiamo di nuovo un Asse, ma non ci sono più prigionieri nel Palazzo di Quarzo.»

«Quindi ora tu non hai più poteri magici?»

Feliciano gli regalò il sorriso ampio di chi non ha rimpianti.

«Solo alcuni. Non sono più potente come una volta, ma sono mille volte più felice.»

Antonio annuì automaticamente. Faceva ancora fatica a credere che tutto quello potesse essere reale.

Una nuova Confederazione da ricostruire, Gilbert che aveva riconquistato parte della sua famiglia, i gemelli Vargas insieme… era troppo, ma si sarebbe abituato.

Era bello, per una volta, doversi abituare a tanti miglioramenti tutti insieme.

Feliciano si schermò gli occhi con le mani per alzare lo sguardo.

«Oh» notò. «Mio fratello è tornato.»

Antonio si girò di scatto a quella frase, e vide un punto in lontananza ingigantirsi nella forma di un enorme volatile. Perfino le punte degli alberi si piegarono quando un’aquila di dimensioni ciclopiche atterrò in un frullio di vento e piume.

Il capitano rimase paralizzato, attendendo che la figura in groppa al volatile scendesse. Un misto di ansia e trepidazione gli torceva lo stomaco.

Avrebbe trovato lo stesso Lovino che ricordava, o avrebbe guardato uno sconosciuto?

«Feliciano?» chiamò il giovane, atterrando con un salto. «Feliciano, dove diavolo…»

Sentirono entrambi uno strappo, prima che il mondo si fermasse completamente.

Riconosceva quel viso bellicoso, ma non ricordava quando si fosse indurito in una forma più matura. Non aveva mai visto quella cicatrice obliqua sulle labbra che era abituato a baciare, e non era stato presente quando i capelli erano stati accorciati, scoprendo gli occhi ramati.

In quel giovane c’erano il Lovino dei suoi ricordi e il Lovino cresciuto senza di lui, in quella Confederazione nuova.

Il cuore si gonfiava di gioia alla vista del giovane, e si stringeva dolorosamente notando dettagli a lui sconosciuti. Era felice di rivederlo, ma ogni nuovo particolare era come un’accusa. Dove era stato, per tutto quel tempo? Per lui si era trattato solo di qualche giorno, ma per Lovino quanto tempo era passato?

«Da quanto sei qui?» le parole galleggiarono nell’aria densa.

Il giovane spostò il peso da una gamba all’altra, inquieto.

«Sei anni» rivelò alla fine.

Lo stesso tempo che avevano passato insieme. Il paragone era impressionante, se messo in quei termini.

Antonio passò una mano sulla fronte, incredulo. Lo aveva visto sprofondare davanti ai suoi occhi solo qualche giorno prima, e adesso era davanti a lui, i cambiamenti maturati in sei anni incisi su tutto il corpo.

«Hai intenzione di rimanertene lì impalato ancora per molto?»

Antonio non si rese conto dei movimenti del giovane finché non sentì le sue braccia chiudersi attorno al suo busto. Il ringhio del ragazzo gli grattò lo sterno.

«Sono passati sei anni e tutto quello che sai fare è startene fermo e zitto?» Lovino tuffò il viso nel suo petto, e la frangia disegnò un sole ramato sulla camicia del capitano. «Mi sei mancato, bastardo.»

Le braccia di Antonio rimasero ferme, come paralizzate, per un istante ancora. Avvolsero lentamente la schiena del giovane, come se temessero che Lovino fosse fatto di fumo.

Poi lo strinsero improvvisamente, facendo schiudere le labbra del ragazzo in un gemito di sorpresa.

«Lovino» lo chiamò Antonio. L’abbraccio si fece più forte, cancellando i sei anni di lontananza, cancellando la paura di non rivederlo, cancellando tutto. Tutto a parte il ragazzo che gli stava prendendo a pugni sulla schiena per fargli allentare la presa.

«Volevi ammazzarmi?» il ruggito di Lovino si smorzò sulle labbra del capitano, scese a premersi sulle sue.

«Mi sei mancato» il sussurro caldo del capitano scivolò sui suoi capelli come una carezza. «Che il diavolo mi fulmini, mi sei mancato così tanto…»

La bocca del giovane si contorse in quella smorfia che Lovino usava solo quando doveva trattenere le lacrime.

Sprofondò il viso nell’incavo del collo dell’uomo, abbracciandolo con amore maldestro.

«Bentornato, bastardo.»

Il capitano sorrise, e sollevò il volto del ragazzo per mormorargli sulle labbra:

«Sono a casa. Scusa se ti ho fatto aspettare.»

 

***

 

Il sole tardava ad alzarsi, quella mattina.

Yao sorrise mesto, apprezzando lo sforzo dell’astro.

Poteva indugiare nel giaciglio della notte quanto voleva. Ivan si stava comunque preparando per partire.

Il sovrano si sedette sul bordo del letto. Il movimento di quella nottata aveva disegnato un intrico di grinze sulla veste da camera dell’Asean, blandamente annodata da un nodo frettoloso.

Ivan stava finendo di allacciarsi il cappotto. Sistemò la sciarpa intorno al collo e si voltò verso di lui.

Nessuno dei due disse nulla.

Ivan rimase immobile, Yao continuò a pettinare i capelli con le dita fasciate, troppo scompigliati per la testa di un regnante.

Era come se tra loro si fosse steso una specie di incantesimo: se fossero rimasti entrambi muti, forse il tempo si sarebbe fermato e loro non si sarebbero dovuti separare.

Ivan chinò il capo, in un cenno di commiato.

Anche senza parlare, la magia era stata spezzata.

L’uomo fece un passo in direzione del compagno e si inginocchiò davanti a lui, il busto tra le sue ginocchia aperte. Appoggiò le mani sui suoi fianchi e lo baciò sul ventre, dove la veste scomposta lasciava intravedere la pelle nuda.

Yao si chinò su di lui, abbracciando il capo argentato.

La mano di Ivan gli accarezzò i capelli, trattenendone una ciocca.

«Prima che siano di nuovo lunghi come prima, Yao. Prima di allora, sarò con te.»

Il sovrano annuì, inclinando la testa per seguire le carezze dell’uomo. Trattenne il fiato quando la mano del compagno si allontanò da lui, e morse le labbra per impedirsi di chiedergli di rimanere ancora.

L’uomo si sollevò per baciarlo, e Yao gli accarezzò il viso con le dita bendate mentre muoveva le labbra sulle sue.

«Aspettami» mormorò Ivan sulla sua bocca.

«Non farmi aspettare.»

Il sovrano quasi rabbrividì quando Ivan si allontanò.

Lo fissò, mentre usciva dalla stanza. Ivan non si voltò. Si fermò sulla porta, indugiò, e lo vide stringere il pugno, ma non si voltò. Sapevano entrambi che, se si fossero voltati, non si sarebbero più mossi da quella camera.

Ivan oltrepassò la porta e sparì nel corridoio.

Yao scese veloce dal letto e si accostò alla finestra.

Attese qualche minuto, poi la vide. La Fortezza Errante si sollevò nel cielo come un dinosauro di metallo, e sparì in uno scintillio argenteo nel cielo di Chugoku.

Yao prese un lungo respiro.

Young Soo se ne era andato. Kiku se ne era andato. E, ora, anche Ivan.

Ma sapeva dove trovarli, se avesse sentito la loro mancanza.

Il cielo di Chugoku era trapuntato di stelle. Da qualche parte, tra quelle luci, c’era la Fortezza di Ivan, che si affrettava a compiere il giro della Confederazione per tornare da lui.

E, ancora più su, sulle stelle più lontane, c’erano Young Soo e Kiku. Sempre con lo sguardo fisso su di lui, come quando vivevano al Palazzo insieme. Solo che adesso era lui a dover sollevare lo sguardo per vederli.

«Vi rivedrò tutti, un giorno. Chi prima, chi dopo» sussurrò al cielo notturno. «Aspetterò. Sono una persona molto paziente.»

E diede le spalle al cielo e alle stelle, preparandosi per la giornata.

 

Puoi anche voltarti, fratellone, ma noi continueremo a brillare.

Che la nostra luce ti accarezzi il viso o le spalle, poco importa.

Siamo qui, fratellone.

Ricordatelo, d’accordo?

 

***

 

Antonio si guardò intorno.

Nemmeno nei suoi sogni aveva mai visto un quadro simile.

La casa di Gilbert, ampliata, costruita in un pianeta rifiorito.

Una cucina calda, dove ancora aleggiava l’odore della cena appena consumata. Il fuoco che tesseva strani giochi di luce sui piatti accatastati nel lavello.

Quella non era la serata per lavare le pentole.

Ludwig sedeva all’altro lato della tavola, su una pesante sedia di faggio. Feliciano, con la massima naturalezza possibile, era seduto sulle sue ginocchia, le braccia gentilmente allacciate al collo del compagno.

Lovino fissava Ludwig con l’odio tipico del fratello apprensivo, e stringeva a tratti la forchetta che si era rifiutato di mettere nel secchiaio assieme al resto, come se aspettasse il momento giusto per conficcarla nella mano del Guardiano senza essere notato.

Antonio avvicinò la sedia a quella di Lovino, e fece scivolare un braccio attorno alla sua vita.

Il giovane lo fulminò per un istante, prima di sospirare e ricambiare l’abbraccio del capitano. Aveva lasciato andare la forchetta: le ostilità erano cessate, per quella sera.

Gilbert si era accomodato sul divano scalcinato poco distante. Matthew era appoggiato a lui, la testa sulla spalla e una mano intrecciata a quella dell’Hellsing sul suo grembo.

«Non riesco a credere che tutto questo sia vero» bisbigliò Antonio. «Che siamo tutti qui… è un miracolo.»

«Non è un miracolo. È magia» rispose gentilmente Matthew.

«Non è magia, è un naso impiccione alla Fiamminga chiamato “Francis”» lo corresse Gilbert. «Ma è stato utile, questa volta. Gli offrirò una birra, appena lo vedo.»

«Ancora non capisco come siete arrivati qui. E come vi siete trovati» continuò Antonio, avvicinando a sé Lovino.

«Perché sei un idiota» ringhiò quest’ultimo.

«È difficile da comprendere, se non si sa tutta la storia» concesse Ludwig, più diplomatico. «Ma abbiamo un’intera serata, per raccontarla.»

Aspettarono che Gilbert tornasse dallo scantinato con una bottiglia di sidro – “potrebbe seccarvisi la gola, con tutto quel parlare” aveva detto – e che Feliciano disponesse i bicchieri sulla tavola.

Gilbert e Matthew presero posto assieme agli altri, e l’Hellsing iniziò a versare da bere.

«Credo che l’inizio spetti a me» annunciò Matthew, una volta che tutti ebbero il bicchiere colmo davanti.

 

Così finisce il racconto della vecchia Confederazione.

La storia della nuova Confederazione, invece, inizia da quella notte, da quella capanna su un piccolo pianeta sperduto in mezzo alla Galassia.

 

Fine

 

Oddio, ci siamo.

E’ finita!!! *piange lacrime amare*

Non ci credo… Caleidoscopio è finita T^T

Finale aperto? Avete ragione. C’è un motivo? Ovviamente<3

Gli spin-off partono da qui, e i primi saranno appunto su come Matthew sia arrivato nella nuova Confederazione, come abbia chiamato gli altri e tutto il resto *^*

Poi ci saranno i vari spin-off da voi richiesti sul passato dei vari personaggi!

Se guardate in alto, nella pagina, noterete che la fanfic non è completa; questo perché ho deciso di postare gli spin-off direttamente qui. Mi sembra meno complicato, e poi, in fondo, sono approfondimenti di questa storia *^*

 

Vi ringrazio infinitamente per aver aspettato con tanta pazienza il capitolo finale!

Spero che il finale non vi abbia deluso, e che i prossimi spin-off vi piaceranno *^*

Grazie ancora a tutti voi!!!

 

Ultimo annuncio prima di salutarvi: nuova fiction in cantiere, ma… con un sentore di “antico”.

Ricordate la serie “Rosa de los Vientos”? Ricordate cosa accadde al povero Feliciano?

E se le cose non fossero andate esattamente come Lovino pensa? 8D

Spero di ritrovarvi lì, di nuovo tra porti e navi *^*

 

E sto macchinando un’altra long<3 appena avrò deciso gli ultimi dettagli, inizierà<3 Rimanete sintonizzati<3

 

Con questo, vi saluto e vi do appuntamento al prossimo capitolo con l’apertura degli spin-off!

Grazie di nuovo<3<3<3

Red

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