La Stella a Otto Punte di LyaStark (/viewuser.php?uid=860177)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XII ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** AVVISO! ***
Capitolo 1 *** I ***
CAPITOLO I
MARCUS
“Meno male che gli Assassini del Re
sono un gruppo d'élite!” pensai,
mentre correvo, inseguito da un gruppo di persone molto grosse, molto
armate e
soprattutto molto, molto arrabbiate.
Mi ero
fatto sorprendere come un pivello nel bel mezzo della mia missione, che
ovviamente non sono nemmeno riuscito a completare, e adesso rischiavo
pure il
capestro. Non un pensiero che mi riempisse di gioia, devo ammetterlo,
ma chi
cavolo avrebbe mai potuto pensare che un banale signorotto di un banale
paese
sul limitare della foresta avesse delle guardie del corpo
così attente e ligie
al dovere? Ero andato lì a Hale tranquillo, senza
preoccuparmi troppo di come
avrei ucciso Sir William, rilassato come per una scampagnata. Ero
entrato di
soppiatto nel piccolo castello, avevo trovato le stanze del padrone
della
baracca e avevo sguainato la spada. E lui a quel punto che ha fatto? Ha
tirato
un cordone appeso al muro. Sul momento devo aver persino riso. Insomma,
chi
cavolo tira un cordone quando sta per morire? E invece quel cordone era
un
sistema semplice ed efficace per richiamare le guardie, che si sono
precipitate
nella stanza per fare il loro dovere, ovvero uccidere me.
Quel Sir
William dei miei stivali doveva aver avuto il sentore che il suo
trattenere parte
delle tasse destinate al Re non fosse passato inosservato e quindi
doveva aver
assunto una cinquantina di mercenari per fare la festa a chiunque
avesse
cercato di farla a lui, la festa. Accidenti a me e alla mia arroganza!
Già mi
immaginavo le prese in giro dei miei amici, quando gli avrei raccontato
tutto,
sempre SE fossi sopravvissuto abbastanza per raccontargli tutto.
Ero
scappato dal primo piano di quel castello dalla finestra, saltando per
terra in
mezzo a pezzi di vetro e legno, senza pensare nemmeno a quante
probabilità
avrei avuto di rompermi qualcosa. Una volta toccata terra avevo
zigzagato per
le vie del mastio prima e della cittadina poi, saltando carri,
spingendo
persone e scavalcando muretti, il tutto ovviamente inseguito da un
mucchio di
tipi che volevano la mia testa. Ero uscito da Hale come un uragano,
correndo
come un forsennato verso il bosco. Ogni tanto il sibilo di qualche
freccia mi
arrivava all'orecchio e devo ringraziare la mia fortuna (o forse la
loro
scarsezza, non so) se non sono finito come un simpatico puntaspilli. Se
fossi
stato catturato niente mi avrebbe tirato fuori dai guai, e non avevo
nessuna
voglia di morire in una sudicia prigione in una città ancora
più sudicia.
Proprio non esisteva. E poi non sembra, ma sono affezionato al mio
collo, visto
che è l'unico che ho.
Smisi di
pensare alle mie disgrazie quando finalmente iniziai a intravedere i
tronchi
degli alberi, mentre i miei inseguitori erano a poco più di
quaranta metri da
me. Di ingaggiare battaglia non se ne parlava, visto che io ero uno e
loro
venti, e per quanto io sia bravo -e sono bravo- non avrei mai potuto
resistere
per più di quattro minuti. Quindi mi fiondai senza
esitazione nel bosco, nella
speranza di seminare i miei inseguitori, incurante di tutte le brutte
storie
che lo riguardavano e che comprendevano briganti, ribelli, fantasmi e
chi più
ne ha più ne metta. L'autunno è una stagione
bellissima, e notai distrattamente
i colori della foresta nella mia corsa. Le foglie erano scivolose sotto
le
suole dei miei stivali, e sperai con tutto me stesso di non fare una
caduta che
mi sarebbe stata fatale.
“Mai più missioni organizzate
così a caso”
mi ripetevo mentre continuavo a fare lo slalom tra i tronchi.
“Mai più nella vita.
D’ora in avanti almeno
due giorni buoni di programmazione, lo giuro!”.
Inutile dire che sapevo già
che il mio proposito non sarebbe mai stato mantenuto. Quando le
missioni sono,
o almeno sembrano, facili, trovo completamente inutile stare a perdere
tempo
quando farsi guidare dall'istinto è una soluzione molto
più comoda. È un mio
difetto, lo so, ma non trovo niente di stimolante nello studiare e
pensare e
riflettere su cose che anche uno scemo potrebbe progettare al volo.
Però a
volte va a finire così, o come quella volta a Imarilla
che... va beh, lasciamo
perdere. Basti sapere che non è stata una vicenda di cui
vado particolarmente
orgoglioso.
Finalmente
i rumori dei miei inseguitori si fecero distanti ed attenuati, e dopo
pochi
minuti ancora erano stati completamente coperti dai rumori della
foresta.
Rallentai il passo, sollevato, mantenendo comunque la corsa,
più per sicurezza
che per altro. Quando alla fine mi fermai avevo il fiatone ed ero
arrivato alla
riva di un fiumiciattolo. Riuscii a guardarmi intorno con attenzione:
la
foresta, mi ricordavo dallo studio delle mappe -ebbene sì,
quelle almeno le
avevo studiate- era la Foresta della Luce. Era grande parecchie
migliaia di
ettari, praticamente inesplorata, cosa che aveva dato origine alle
leggende che
venivano narrate su di essa. La luce del pomeriggio filtrava
leggermente dalle
chiome degli alberi, decine di metri sopra di me. Era una foresta molto
antica
e tra i vari racconti al riguardo uno narra di alberi che negli anni
avrebbero
preso vita. Sono sempre stato molto scettico su queste storie di magia
però,
una volta dentro al bosco, non sembravano poi così
insensate. Sarà stata l'aura
di maestosità, la luce, non lo so... fatto sta che per
coronare la giornata mi
mancava solo finire spiaccicato da una gigantesca quercia dotata di
vita propria.
Scacciai il
pensiero con un gesto della mano e preferii concentrarmi su altro. I
colori
dell'autunno, che non avevo potuto fare a meno di notare anche durante
la mia
rocambolesca fuga, erano splendidi. Giallo, arancione, rosso e marrone
erano
dappertutto, circondandomi e dando all'aria un colore dorato. Era senza
dubbio
un bellissimo posto. Il rumore cristallino dell'acqua non era
disturbato da
niente e non c'era la solita puzza delle città attorno a me,
ma l'odore di
terra smossa e di erba bagnata. Un paradiso insomma, se non fosse che
non
sapevo dove accidenti mi trovavo.
Avevo corso
a caso, cercando di inoltrarmi il più possibile nel folto
del bosco, e devo
dire che ci ero riuscito pienamente. Non sapevo dove fosse il nord e
fidatevi,
quella storia di guardare il muschio sui tronchi è una
cavolata. Il muschio
cresce dove gli pare, senza preferenze per uno dei punti cardinali, e
conosco
decine di persone che si sono perse a causa di questo trucchetto.
L'unica cosa
che potevo fare era sedermi, riposarmi un attimo, e poi pensare a come
tirarmi
fuori dalla foresta. Avrei anche dovuto cercare di capire come portare
a
termine la mia missione, perché altrimenti sarei stato
severamente punito una
volta tornato alla sede della Confraternita, e non è mai una
cosa piacevole. Ma
ogni cosa a suo tempo. In fondo ero stanco, avevo passato buona parte
della
notte precedente a cavallo per arrivare a Hale, e la giornata era stata
quasi
tutta occupata a scalare muri, ad abbattere porte e a scappare. Non
propriamente riposante. Quindi mi sedetti contro un albero, sguainai la
spada e
me la misi di traverso sulle ginocchia, poi chiusi finalmente gli
occhi. In
meno di tre secondi già dormivo.
Dopo quelli
che a me parvero pochi minuti, un rumore mi svegliò. Per
fortuna ho un orecchio
fino e mi risveglio di solito molto in fretta, capacità che
mi ha salvato la
vita in più di un'occasione. Girai la testa verso la fonte
del rumore e vidi un
gruppo di quattro guardie attorno a me. Quella alla mia destra aveva,
fortunatamente, pestato un rametto, che spezzandosi mi aveva svegliato.
Mi
tirai in piedi tranquillamente, con la spada nella mano.
– Volete
davvero farlo? – chiesi, cercando di sembrare il
più rilassato possibile. Cosa
che non mi venne neanche troppo difficile visto che io sono un
Assassino e mi
addestro da anni in vista di queste occasioni.
– Niente di
personale amico, ma Sir William vuole la tua testa. –
Feci un
sospiro. Non che non mi piaccia menare le mani, ma quel giorno
sinceramente
avrei voluto evitare. I quattro intanto continuavano a muoversi
lentamente
attorno a me e quello che aveva parlato mi stava davanti, la spada
risplendeva
debolmente nelle sue mani. Notai distrattamente che dovevo aver dormito
un paio
d'ore, visto come era calata la luce e come attorno a noi iniziasse a
farsi
scuro.
Mi misi in
guardia, con la spada davanti a me, perfettamente a mio agio. Gli altri
tre
inseguitori mi si avvicinarono ai lati, accerchiandomi. L'uomo di
fronte a me
si fece avanti e aveva appena iniziato a tirare su l'arma che sentii il
rumore
di una corda d'arco che veniva rilasciata.
Le frecce
volarono nell'aria e due si andarono a infilare nel petto della guardia
più
vicino a me, che cadde con un lamento e un'espressione esterrefatta sul
viso.
Gli arcieri dovevano essere tutto attorno a noi, perché gli
altri uomini
morirono colpiti da frecce che arrivavano da ogni direzione. Non
abbassai la
mia spada, nemmeno per un momento, e mi feci ancora più
guardingo quando una
quindicina di persone saltarono giù dagli alberi. Ognuno di
loro portava un
arco ed erano vestiti tutti di marrone e arancione, per mimetizzarsi
tra il
fogliame. Avevano un cappuccio in testa che non mi permetteva di vedere
chi
fossero. Ero sicuro che non fossero lì quando ero arrivato,
nel pomeriggio,
perché nonostante tutto mi ero guardato intorno con
attenzione. Dovevano avermi
raggiunto mentre dormivo.
– Grazie,
ma avevo tutto sotto controllo – dissi, rivolto a nessuno in
particolare. Gli
arcieri si avvicinarono a me, circondandomi.
– Così come
avevi tutto sotto controllo a Hale? – mi schernì
una voce.
Mi girai
dalla parte di chi aveva parlato, con aria offesa. Va bene che non era
stata
una missione molto discreta ma cavoli, di solito sono uno bravo.
– Direi che
questi non sono affari tuoi, – replicai stizzito. –
Ora, se per voi non è un
problema, io avrei delle cose da fare. Quindi, grazie del favore e
buona
giornata. –
Abbassai la
spada e feci per allontanarmi, ma all'improvviso mi ritrovai a fissare
quindici
frecce che puntavano esattamente verso di me.
– Si può
sapere cosa volete? – chiesi, improvvisamente guardingo. Il
tipo che mi aveva
parlato si tirò giù il cappuccio. Aveva una
faccia normale: occhi castani,
capelli lunghi raccolti in un codino, bocca sottile, quarant'anni
circa. Niente
di memorabile insomma, ma ero sicurissimo di non averlo mai visto prima
in vita
mia e di solito ho una buona memoria per le facce.
– Devi
venire con noi – ordinò freddamente.
So
riconoscere una causa persa quando la vedo e vi assicuro, quella lo
era.
Rinfoderai la spada e alzai le mani.
– Ricevuto
amico. Dove andiamo? – commentai, conciliante.
L’uomo mi si avvicinò con una
corda e mi legò le mani. Non opposi resistenza, non con
della gente attorno a
me armata.
– Dove
andiamo non deve interessarti. Non mi fido di te, Assassino. Fai un
solo
movimento che non mi convince e finirai i tuoi giorni in questa
foresta. E non
sono tuo amico. –
Insomma, un
omino simpatico e accattivante, ma decisi che lo odiavo veramente
quando mi
calò sulla testa un sacco di iuta. Mi presero la spada, poi
mi perquisirono e
trovarono tutti i miei pugnali, portandomeli via. Fantastico. Quella
schizzava
immediatamente tra le prime cinque giornate più schifose di
sempre, anche senza
essere stato calpestato da una quercia. Ma visto come stava andando,
per quello
c'era ancora tempo. Mai dire mai.
Come da
programma dopo poco iniziammo a muoverci. Il sacco che avevo in testa
puzzava
in modo terrificante e ipotizzai che in tempi migliori lo avessero
usato per
tenere il pesce, visto l'odore. Qualcuno poi doveva tenere in mano un
capo
della corda che mi legava le mani, perché ogni volta che mi
fermavo ero
obbligato a riprendere il cammino con uno strattone. Inciampavo
continuamente.
Quella foresta, come tutte le foreste d'altronde, era piena di radici
per terra
e sembrava che i miei rapitori facessero apposta a passare dove ce
n'erano di
più. Un paio di volte presi anche dei rami in faccia. Non
era decisamente uno
di quei viaggi che in genere si definisce piacevole.
Attorno a
me sentivo il bisbiglio degli uomini che mi avevano rapito, ma non
riuscii a
captare nulla di interessante. Decisi di sfruttare il tempo che mi era
stato
dato per ragionare. Non avevo mai visto quegli uomini prima d'ora, e
non capivo
cosa potessero volere da me. Se speravano in un riscatto, cascavano
decisamente
male. La Confraternita non ha soldi da sprecare per riavere uomini
talmente
incapaci da farsi catturare, cosa che per fortuna capita abbastanza
raramente.
Se volevano che compissi una missione per loro diciamo che non mi
stavano
mettendo nella migliore predisposizione d'animo possibile, e comunque
mi
sembravano tutti più che capaci di risolvere i propri
problemi da soli.
Decisamente
non capivo. È inusuale rapire un Assassino e il mio
probabilmente era un caso
più unico che raro. Cercai anche di orientarmi per un primo
periodo, ma poi
rinunciai. Potevo sentire da com'era il terreno sotto i miei stivali
che non stavamo
percorrendo un sentiero e di sicuro i miei rapitori stavano facendo
attenzione
a non fare una strada troppo lineare per rendermi ancora più
difficile capire
dov'ero. Non so quanto tempo camminammo, probabilmente un paio d'ore
abbondanti, quando finalmente ci fermammo e un urlo ruppe il silenzio
di quella
che ormai presumevo essere notte.
– Chi va
là? – urlò qualcuno.
– Sono
Thomas. Aprite – rispose il capo della nostra combriccola.
Dopo pochi secondi,
sentii il rumore di una porta che girava sui cardini. I miei rapitori
probabilmente decisero che ormai non ero più un pericolo per
loro, perché mi
tolsero il sacco dalla testa. Strizzai gli occhi un paio di volte e
rimasi
stupefatto. Eravamo in una radura, larghissima, che conteneva un
villaggio.
Case di legno, separate da sentieri puliti e ordinati, erano disposte a
formare
una griglia precisa. Dietro di noi un'alta palizzata sorvegliata teneva
lontani
i pericoli della foresta, fiaccole erano accese ad ogni incrocio per
permettere
di vedere bene anche nel buio più totale. Nonostante fosse
già calata la notte
persone camminavano ancora nel villaggio. Dei bambini giocavano a
rincorrersi e
dei ragazzi parlottavano e ridacchiavano vicino a una casa in un
angolo. Degli
uomini, e anche delle donne, armati facevano la ronda camminando vicino
alla
palizzata, osservando tutto quello che capitava con attenzione. Il mio
gruppo
avanzò all'interno del villaggio e Thomas ogni tanto faceva
un segno della mano
o del capo per salutare qualcuno. Sembrava decisamente benvoluto.
Arrivammo
dall'altra parte del villaggio, vicino a quelle che identificai come
stalle,
dove si trovava una casa solitaria con le sbarre alle finestre. Ahia.
Non mi
piacciono le prigioni, proprio per nulla. Per un folle istante sperai
che non
fosse quella la nostra meta finale, ma a quanto pare mi sbagliavo.
Thomas entrò
per primo, mentre altri due mi presero per le braccia e mi portarono
nella
casupola, che all'interno era divisa in due da una parete fatta di
sbarre. Da
un lato c'era una scrivania con un uomo seduto dietro, dall'altro un
materasso
mezzo rotto buttato per terra. Thomas iniziò a parlottare
con il mio
carceriere, che dopo poco alzò lo sguardo verso di me e mi
venne incontro.
– Benvenuto,
Assassino. Spero che ti godrai il soggiorno. –
Sogghignava,
il bastardo. Avrei tanto voluto rompergli tutti i denti e fargli
sparire quel
ghigno dalla faccia, ma purtroppo non mi avevano ancora slegato le
mani. Poi mi
prese, aprì con una chiave la porta della cella e mi ci
spinse dentro. Mi girai
a guardarli.
– Quando
uscirò di qui, verrò a cercarvi. Tutti quanti,
dal primo all'ultimo. È una
promessa. –
– Non fare
promesse che non puoi mantenere, ragazzo – mi disse Thomas,
voltandosi.
Dopodiché salutò il carceriere, che a quanto
pareva si chiamava Barry, prese i
suoi due compari con sé e uscì.
Dire che
ero arrabbiato probabilmente è riduttivo. Me ne rimasi in
piedi, muto, a
guardare fuori dalla finestra della mia cella per circa mezz'ora,
cercando di
sbollire. Non mi sarebbe servito a nulla urlare e fare confusione,
già lo
sapevo. Quando mi fui un po' calmato decisi di provare ad attaccare
bottone.
– Mi
potresti slegare le mani? – chiesi, porgendo a Barry i polsi
dalle sbarre. Non
avevo molte speranze in proposito ma, come si dice, tentar non nuoce.
Invece
l'uomo si avvicinò con un coltello in mano e
tagliò la corda. Si guadagnò un
bel po' di punti con il suo gesto. Forse non era poi così
male. Mi strofinai le
mani, che erano notevolmente indolenzite e formicolavano, e notai
distrattamente che mi sarebbero rimasti i lividi sui polsi per un po'.
Decisi
di continuare a sfruttare la momentanea disponibilità del
mio carceriere,
cercando di capirci qualcosa. Tornai alla finestra e mi rimisi a
guardare
fuori.
– Sembra un
bel posto qui. Dov'è che siamo precisamente? –
– Non
allargarti troppo, Assassino. Quelli come te mi fanno schifo. Mettiti
lì in un
angolo e fai quello che ti pare. Dormi, guarda il muro, impiccati se
vuoi, a me
non interessa. Basta che stai zitto, non voglio sentire una parola.
–
Mi
rimangiai tutto quello che avevo pensato prima: quell'uomo era
terribile. Però
aveva detto, incredibilmente, una cosa giusta: potevo dormire. Ero
stanco morto,
e forse un po' di sonno mi avrebbe permesso di capirci qualcosa in
più, la
mattina seguente. Quindi mi sdraiai sul materasso, cercai di non
pensare troppo
alle pulci e ai pidocchi che con ogni probabilità stavano
lì sopra, e chiusi
gli occhi.
Quando li riaprii
era giorno, ed ero finalmente riposato. Mi tirai a sedere e mi guardai
attorno,
notando che la cella era ancora più sudicia di quello che
sembrava la sera prima.
Macchie di muffa chiazzavano i muri e il terreno che fungeva da
pavimento
puzzava. Una parte del tetto avrebbe dovuto essere riparata,
perché l'acqua
gocciolava da lì sulla parete, lasciando strisce umide. Un
paio di scarafaggi
correvano per terra e in un angolo c'era una struttura che a quando
pareva era
il gabinetto. Sono un Assassino, va bene, e non è che di
solito noi dormiamo in
ville di marmo, però quella cella era davvero schifosa.
Unica nota positiva la
finestra, che faceva passare la luce del giorno e da cui potevo vedere
un pezzo
di strada e la palizzata.
Barry non
c'era più, se ne doveva essere andato durante la notte, e la
stanza adiacente
alla mia era vuota. Sul pavimento davanti alle sbarre c'era un piatto
con
dentro del cibo grigiastro non meglio identificato e, visto che avevo
fame,
mangiai. Presi il cucchiaio che mi avevano dato con il pasto e decisi
che
potevo provare ad usarlo per forzare la serratura. Mentre trafficavo,
pensai al
da farsi. Dovevo uscire da lì, assolutamente. Non potevo
passare la mia vita in
una schifosa prigione di un villaggio sperduto nella foresta e in
più dovevo
capire cosa volevano da me. Se magari fossi riuscito ad aiutarli mi
avrebbero
lasciato andare. Non potevo nemmeno sperare nel soccorso da parte dei
miei
amici, perché non mi avrebbero mai trovato. Non avevo mai
sentito parlare di
paesini in mezzo al bosco, ed ero sicuro che quello non fosse un
villaggio
segnato sulle mappe che avevo studiato prima della missione.
Dall'occhiata
rapida che avevo potuto dare la sera prima mi sembrava troppo ben
organizzato
per essere un paese comune. Le palizzate, la ronda, le guardie al
cancello...
decisamente non un villaggio normale, dove di solito è
già tanto se ti notano
quando entri. Anche le precauzioni che avevano preso con me Thomas e la
sua
banda. Sembrava avessero paura che potessi in qualche modo rivelare la
posizione di questa radura. Va bene che sono un Assassino, ma in linea
di
massima non uccido persone a caso e tanto meno denuncio villaggi che
non dovrebbero
esistere alle autorità, sebbene questo più per
una mia predisposizione
personale che per altro.
Intanto,
quella dannata serratura non voleva saperne di cedere. Dovevano
decisamente
avere dei bravi fabbri lì. Se mai fossi riuscito ad uscire,
avrei rubato
qualche spada: se erano di altrettanta buona fattura, sarebbero state
delle
ottime armi. “Quando torno alla
Confraternita mi faccio insegnare da Jared a fare lo scassinatore”
pensai.
Ecco un altro buon proposito da aggiungere alla mia lista. Lui era un
mago con
le serrature, forse per il suo passato da ladro. Ci fosse stato lui con
me
saremmo usciti da lì in quattro secondi netti. E dire che da
quando ci
conosciamo si è offerto di insegnarmi più di una
volta, ma io gli ho sempre
detto “non ne ho bisogno”. Certo. Fosse qui si
starebbe tenendo la pancia dalle
risate.
Mentre
imprecavo, sentii che la porta di ingresso veniva aperta. Tolsi in
fretta
l'inutile cucchiaino dalla serratura e me lo misi in tasca mentre mi
alzavo in
piedi. Quando la porta si aprì, mi bloccai riconoscendo la
persona che era
entrata.
Era
cresciuta dall'ultima volta che l'avevo vista e devo dire che all'epoca
non
avrei mai pensato che sarebbe potuta sopravvivere per così
tanto tempo da sola.
I capelli rossi che ricordavo erano stati tinti di un più
discreto castano, ma
gli occhi verdi erano rimasti gli stessi, grandi e luminosi. I
lineamenti si
erano fatti più precisi e decisi, il fisico si era modellato
e rafforzato. Da
ragazza che era, era diventata una donna. Una donna molto bella,
aggiungerei.
Era vestita da uomo, con pantaloni, stivali, camicia e un corpetto di
cuoio a
proteggerle il torace. Mi stupii di vedere che portava una spada al
fianco.
Sorrisi mio malgrado e mi
scoprii felice di rivederla viva.
– Ciao,
Camille. –
Lei mi
sorrise di rimando.
– Ciao,
Marcus. –
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Capitolo 2 *** II ***
CAPITOLO
II
MARCUS
Mi chiamo
Marcus, ho 20 anni e sono un Assassino al servizio del re. Non ho casa,
né
moglie, né famiglia. Ho rinnegato il mio vecchio nome da
quando, a sette anni,
sono entrato nella Corporazione e me ne hanno assegnato uno nuovo.
Vorrei poter
dire che tutto questo sia stata una mia scelta, ma purtroppo non
è così. Sono
nato in una famiglia povera, nella campagna del mio paese, Viride.
Ero il più
piccolo di una famiglia numerosa, e i miei hanno deciso che ero
solamente una
bocca in più da sfamare. Ho pochi ricordi dei miei genitori
e non tutti sono
piacevoli. Mio padre era un uomo grosso, piegato dalla fatica di
lavorare nei
campi tutto il giorno, tutti i giorni. Raramente aveva per noi parole
gentili e
non credo di averlo mai visto sorridere, nemmeno una volta. Mia madre
aveva in
sé una vena dolce, probabilmente mascherata dalla
disagevolezza della sua vita.
Ogni tanto ci prendeva in braccio e ci abbracciava, oppure ci lasciava
un
boccone in più di cibo, togliendoselo dal piatto. Niente di
eccezionale, ma
quando capitava era davvero un evento eccezionale.
Quella però
che mi ricordo di più è mia sorella, Laure.
Tecnicamente non è nemmeno più mia
sorella, ma non importa. Era gentile e dolce, e quando i nostri
genitori
uscivano di casa all'alba era lei a prendersi cura di me per il resto
della
giornata. Era lei che mi consolava quando piangevo.
Ero il più
piccolo della famiglia e lei era di poco più grande di me,
ma è stata come una
madre per quei pochi anni che abbiamo passato insieme. Ancora adesso,
quando
sto per fare qualcosa di molto stupido, è sua la voce che
sento dentro la mia
testa, che mi dice di pensarci bene. Ogni tanto risulta essere
terribilmente
fastidiosa. Immagino che di tutta la nostra famiglia sia stata lei a
esserci
rimasta peggio quando i miei genitori mi vendettero.
Ebbene sì,
gli Assassini hanno così bisogno di nuovi accoliti che,
oltre a rastrellare il
paese alla ricerca di orfani, e ce ne sono davvero tanti, sono disposti
a
pagare un buon prezzo per dei bambini che altrimenti sarebbero solo un
peso per
le famiglie. Devo ammettere che a me è andata male. Fossi
nato femmina tutto
questo non sarebbe successo. Oppure mio padre mi avrebbe abbandonato
ugualmente, senza ricevere soldi in cambio e senza che mi fosse
garantita una vita
sicura, ed è inutile dire che in quest'ultimo caso sarei
morto di fame e di
stenti a un angolo della strada. Non c'è pietà
per nessuno da queste parti e
ognuno pensa solo a se stesso.
Della notte
in cui avvenne il mio cambio, per così dire, di domicilio,
ricordo poco. Erano
giorni che sentivo la mamma litigare con mio padre, ma non mi ero
preoccupato
di capire, visto che comunque era una cosa che capitava spesso e anche
se
avessi voluto dubito che sarei riuscito a comprendere tutto. So solo
che quando
mi svegliavo per i rumori scivolavo piano nel lettino di Laure e
accoccolandomi
vicino a lei tornavo a dormire. Un giorno infine mi svegliarono nel
cuore della
notte e prima di uscire mia madre, cosa insolita, mi salutò
piangendo e
abbracciandomi. Fossi stato un po' più grande forse mi sarei
insospettito, ma a
sette anni si ha una grande fiducia negli adulti e ancora di
più nei propri
genitori.
Camminammo
per quella che mi sembrò un'eternità, senza che
mio padre proferisse parola,
cosa invece tutt'altro che insolita. Non so se dentro di lui ci fosse
una lotta
di coscienza, mi piacerebbe pensare di sì, ma più
probabilmente stava pensando
a quanti soldi avrebbe guadagnato dalla mia vendita, come se fossi
stato un
sacco di grano.
Arrivammo
poco prima dell'alba nella piazza di un villaggio vicino a casa, dove
ci
aspettava un uomo vestito di scuro. Pochi minuti dopo, mio padre si
stava
allontanando senza figlio e con un bel gruzzolo di monete mentre io ero
tenuto
dall'uomo in una presa ferrea, per evitare che scappassi. Niente saluti
per me,
niente spiegazioni, niente di niente. Mio padre mi diede a quell'uomo,
prese i
soldi e si allontanò, come se non avesse appena lasciato il
suo ultimo figlio.
Piansi molto quel giorno, e non rividi mai più la mia
famiglia. Ogni tanto mi
chiedo come stiano e come sarebbe stata la mia vita se non fossi mai
stato
cacciato. Diversa? Sicuramente. Più felice? Non lo so, ma ne
dubito fortemente.
In ogni caso adesso ho una mia famiglia, un po' diversa da quelle
solite forse,
ma anche se rischio la pelle un giorno sì e l'altro pure
sono contento così.
La
Corporazione degli Assassini si trova ad Elea, capitale di Viride, da
sempre.
La sede è nascosta agli occhi della popolazione comune,
infatti da fuori ha le
sembianze di un tempio dedicato a Polemos, l'Unico, Dio della Guerra.
Il fatto
che i suoi monaci siano vestiti completamente di nero, come noi,
contribuisce
solo a rendere più credibile il tutto. Diciamo che volendo
si potrebbero notare
delle discrepanze, come il fatto che noi Assassini siamo sempre armati
fino ai
denti, ma si sa, la gente vede solo quello che vuole vedere.
All'interno
del tempio si apre un palazzo vero e proprio, con le camere, i cortili,
le stalle
e le uscite verso l'entroterra e verso il castello dei Coverano, la
famiglia
reale. La Corporazione degli Assassini, da quando è stata
costituita anni fa, è
agli ordini del Re di Viride, l'unico oltre all'Alto Comando che
può decidere
le nostre missioni, ed è questo il motivo della vicinanza
con il Palazzo Reale.
Il nostro compito è garantire la sicurezza del Regno e
quando ci viene
assegnato un incarico questo comprende di solito una parte prettamente
investigativa, per capire se il nostro bersaglio ha effettivamente
commesso
quello di cui è accusato. Dopodiché, se e quando
siamo sicuri della
colpevolezza, uccidiamo. Siamo implicati fondamentalmente in quei casi
in cui
trovare delle prove concrete per allestire un processo sarebbe molto
difficile
e soprattutto quando è realmente in pericolo la sicurezza
del Regno. Siamo
guerrieri d'élite, non ci usano a caso. Per tutto il resto
ci sono quegli
imbecilli della Guarnigione di Stato, che sarebbero in grado di
perdersi anche
nelle loro case.
Sfortunatamente
da un po' di tempo a questa parte le cose sono cambiate a causa del
decesso di
re Jerome Coverano, pace all'anima sua. I suoi figli sono troppo
piccoli per
regnare e quindi il compito spetta alla Regina Reggente, Celia Moreau,
che a
parer mio è leggermente paranoica. Le nostre mansioni sono
state modificate e
ormai abbiamo più che altro il compito di reprimere il
dissenso nei confronti
della Regina, uccidendo a destra e a sinistra, senza motivazione nella
maggioranza dei casi, solo perché Sua Altezza Reale ha
sentito delle brutte
voci sulla vittima.
La parte
delle missioni che riguardava le indagini e la decisione della
colpevolezza è
stata eliminata, riducendo noi Assassini a sicari. Duecento anni di
regolamenti
mandati al rogo, ma chi sono io per giudicare? Nessuno. Quindi mi
adeguo, anche
perché l'alternativa sarebbe con ogni probabilità
la morte per tradimento e
ritengo di essere troppo giovane e troppo intelligente per morire
così.
Nonostante ciò attuo la mia piccola e personale ribellione
dando a ogni mia
vittima la possibilità di difendersi, forse per mettere a
tacere la mia
coscienza turbolenta. Non che la cosa sia di così grande
rilevanza dal punto di
vista del risultato, visto che io mi alleno ad uccidere da tutta la
vita mentre
le mie vittime di solito sono nobili o signorotti imbolsiti dai troppi
pranzi e
dal troppo vino. E quando dico da tutta la vita intendo dire che, da
quando a
sette anni sono stato portato come un fagotto urlante nella
Corporazione, mi
sono stati dati un mantello e una coperta, insieme al consiglio di
cercare di
sopravvivere anche a costo di uccidere. In questo consiste la tecnica
di
“scrematura” degli Assassini: dopo aver raccattato
almeno duecento orfani in
giro per il paese li mettono tutti nello stesso posto e ogni giorno
consegnano
cibo sufficiente per la metà di essi. Il tutto almeno per
sei mesi. Originano
così una grande rissa mortale, in cui vince il
più forte e il più adatto a
sopravvivere. Nemmeno il sonno era sicuro
e ho imparato molto in fretta a
dormire con un occhio aperto, per controllare le mie poche e preziose
cose.
Tutte le giornate venivano consumate all'aperto e nemmeno durante le
rigide
notti invernali ci era concesso avere un tetto sopra la testa. Io sarei
con
ogni probabilità morto al secondo giorno se non avessi
incontrato chi mi ha
aiutato.
Ero
magrolino, emaciato e denutrito, incapace anche solo di guardare in
maniera
aggressiva gli altri bambini, che in linea di massima erano grossi e
ben
abituati a lottare per sopravvivere. Quando avevo la fortuna di
riuscire a
prendere un pezzo di pane per mangiare venivo subito picchiato a sangue
da
quelli più grandi di me, che poi inevitabilmente mi rubavano
il cibo. Dopo un
po' di giorni che questa storia andava avanti un altro ragazzo mi si
avvicinò.
Si chiamava Jared, ed è diventato il mio migliore amico,
anche se nel primo
periodo ho avuto paura che potesse strangolarmi nel sonno. Anche
all'epoca
sembrava troppo delicato per il mestiere di Assassino, con i suoi
capelli
argentati, i lineamenti cesellati e gli occhi color del mare, ma a
quanto pare
mi sbagliavo. È sempre stato un tipo molto agitato,
scherzoso e rumoroso, e
soprattutto con un talento per i furti del tutto fuori dal comune, che
gli
aveva permesso di rubacchiare cibo qua e là all'interno del
cortile. L'avevo
già notato, avevo visto di come una volta fosse stato
beccato a fregare del
pane a un tipo, e beh, il trattamento che aveva ricevuto in cambio non
doveva
essere stato per niente piacevole.
In sintesi,
mi si avvicinò, parlammo un po' e poi decidemmo di
cooperare, per avere
speranze di vita migliori (io), e per avere qualcuno che potesse
evitargli
altre botte nel caso in cui fosse stato pizzicato di nuovo a rubare
(lui).
Mettemmo su insieme un piano rapido e semplice, che si
rivelò essere anche
molto efficace. Quando veniva dato il cibo non ci gettavamo nella
mischia, ma
aspettavamo qualche minuto. Poi, io andavo a distrarre un tipo a caso,
che però
fosse riuscito a prendersi da mangiare -e con distrazione intendo che
molte
volte ho rischiato di farmi ammazzare- mentre Jared gli rubava tutto
quello che
aveva. Poi fuga e arrampicata sugli alberi, dove ci concedevamo
finalmente il
lusso di mettere qualcosa sotto i denti. Parecchio pericoloso e non
sempre ci
andava bene, ma iniziammo comunque a migliorare le nostre condizioni di
vita là
dentro.
Avere un
amico poi permetteva di riposarsi, visto che durante la notte facevamo
dei
turni per controllare che non ci capitasse nulla di male. Ci occorse un
po’ per
imparare a fidarsi l'uno dell'altro, ma quella fiducia guadagnata in un
posto
così terribile non è mai sparita. Stando con
Jared tutto il giorno scoprii
molte cose della sua vita. Imparai che veniva da Ange, una grande
città poco
lontana da Elea, sul fiume.
I suoi
genitori lo avevano sbattuto fuori di casa a cinque anni
perchè, un giorno
d'inverno in cui doveva badare al fratello più piccolo,
questo morì in un
incidente. Non mi spiegò mai di precisò che cosa
capitò e io non ho mai
chiesto. Comunque, dopo aver rischiato l'assideramento implorando fuori
dalla
porta i suoi genitori di riaccoglierlo a casa, divenne un ladruncolo di
strada,
con strabilianti risultati. Un giorno poi cercò di rubare un
pugnale ad un
Assassino, senza riuscirci ovviamente, e questo lo prese con
sé e lo portò alla
Corporazione. Jared non ne parla mai volentieri e credo di aver sentito
la
storia da lui solo una volta, ma ogni anno, nella notte del 13
dicembre, si
inginocchia ovunque si trovi e rimane così, dal tramonto
all'alba. Negli anni
in molti hanno provato a farlo smettere, con parole gentili o persino
con le
percosse, ma senza risultati. Passata la notte Jared ritorna poi il
solito
ragazzo di sempre, allegro e pieno di vita, e, da un po' di tempo a
questa
parte, anche pieno di donne.
Un giorno, quando ormai noi
riuscivamo a mangiare quasi con costanza e quindi eravamo anche di buon
umore,
vedemmo un bambino come noi, solo molto più pallido e magro,
seduto con aria
sconsolata su un muretto. Ci avvicinammo e, non so perché,
gli allungai un
pezzo del mio pane. Non l'avevo mai fatto con nessuno prima, e dire che
di
bambini mezzi morti di fame ce n'erano parecchi, ma forse mi lasciai
convincere
dai suoi occhi, di un colore molto simile a quello dell'ambra, uguali a
quelli
di mia sorella Laure.
Fu così che Andreas
entrò nelle nostre vite e da allora non ci siamo separati
praticamente mai. Lui
è il più tranquillo e pacato del gruppo, sempre
disposto a parlare e a
negoziare, a portarci via trascinandoci dalle risse, a evitare i
pericoli.
Inutile dire che è anche il più intelligente tra
tutti noi. Se hai un problema
meglio che prima ne parli con lui, molto spesso tira fuori una
soluzione che tu
non ti eri nemmeno immaginato, e a volte la cosa è
decisamente frustrante.
Scoprimmo
abbastanza in fretta che era un orfano di Armilla, una città
sul mare. Non si
ricorda nulla dei suoi genitore, che devono averlo abbandonato alla
nascita. È
sopravvissuto per la carità che gli è stata fatta
dai monaci, che l'hanno
trovano davanti al portone del loro tempio quando era ancora un neonato
e lo
fecero entrare nel loro orfanotrofio. Avrebbe potuto diventare un prete
a sua
volta, ma quando gli Assassini andarono al tempio a reclutare decise di
seguirli. Forse il suo temperamento dolce deriva dalla vita vissuta tra
uomini
di fede, e anche se non gliel'ho mai detto lo vedrei bene a pregare
tutto il
giorno. Credo che sia il più umano di tutti noi, sempre
pronto a giustificare e
a perdonare. Quando è tra la gente quasi non lo si nota
talmente è silenzioso e
timido, ma quando è con noi si lascia andare e si unisce
alla nostra
cafonaggine, facendo rumore e scherzando tanto quanto noi. Una
trasformazione
insomma.
L'ultimo
arrivato nella nostra piccola combriccola è stato Mel.
Arrivò alla
Confraternita tardi, aveva già otto anni ci disse, ma non
sapeva fare
assolutamente nulla. Mi stupii in effetti che riuscisse anche solo a
mettersi
gli stivali, visto che era completamente inetto. Però a suo
discapito c'è da
dire che è sempre stato uno che impara molto in fretta e
già dopo poco era in
grado di fare tutto quello che facevamo noi. Non so come mai si
unì a noi, ma
ci aveva praticamente adottati. Dove eravamo noi c'era anche lui e un
giorno
salvò Andreas da un pestaggio. Il nostro amico non era stato
abbastanza rapido
a scappare e stava per pagare tutti i nostri piccoli furtarelli. Io e
Jared
avremmo voluto andare a dargli una mano, ma eravamo rimasti bloccati su
un
albero da alcuni bimbi allegri che ci avrebbero volentieri fatto la
festa.
Allora Mel, piccolo, magro, serio, si buttò nella mischia a
fianco di Andreas e
cacciò chiunque volesse fargli del male. Mi ricordo che quel
giorno mi fece
paura. Sembrava posseduto, con una furia inusuale negli occhi verdi. Da
allora
però, divenne parte del nostro gruppo e, strano a dirsi, non
venimmo più
importunati. Mel incute un certo timore riverenziale negli altri, ma
con noi è
sempre stato normale, il migliore amico che avremmo mai potuto trovare.
È il
più colto di tutti noi e ogni tanto sa delle cose di cui io
non ho mai sentito
parlare, ma di questo non c'è da stupirsi vista la mia
proverbiale ignoranza.
Sopravvivemmo quindi in
quattro ai primi sei mesi di selezione e poi finalmente cominciammo
l'addestramento vero e proprio. Orari massacranti, con sveglie nel
pieno della
notte e turni di guardia al freddo, anche in pieno inverno. A quanto
pare è
servito per temprarci, ma io ho i miei seri dubbi visto che l'unica
cosa che ho
imparato è stato di avere sempre con me un mantello in
più, per qualunque
evenienza. Imparammo ad usare
ogni tipo di
armi, dallo spadone a due mani ai pugnali, dalle sciabole all'arco, nel
cui uso
Mel è bravissimo ma in cui io faccio decisamente schifo.
Imparammo a preparare
veleni e, modestamente parlando, risultai essere particolarmente
portato.
Studiammo le lingue straniere, per prepararci all'evenienza di missioni
all'estero. Studiammo la storia, per conoscere i legami dei diversi
paesi, le
loro tradizioni e modi di vivere. Mi stupii notevolmente quando, ad
esempio,
scoprii che nello stato di Semele, separato da noi da una catena
montuosa, il
trono passa di madre in figlia, in una struttura matriarcale. Da noi le
donne non
godono di così tanti favori e nei miei numerosi anni alla
Corporazione non ho
mai visto nemmeno una ragazza nella sede, visto che si ritiene che la
vita di
Assassino non faccia per loro.
I nostri
maestri ci addestrarono ad usare l'astuzia per evitare i combattimenti,
e a
vincerli quando questi erano necessari. Ci dissero che un Assassino
porta la
morte, ma proprio per questo stima la vita molto di più di
un uomo comune,
onorandola e godendola in ogni suo istante, come se questo fosse
l'ultimo. Diventammo
degli Assassini perfetti e sopravvivemmo uniti come fratelli a dieci
anni di
addestramento, in cui seppellimmo numerosi nostri compagni.
Io e gli
altri tre ci facemmo riconoscere in fretta come il gruppo peggiore,
più indisciplinato
e anche unito di tutto il gruppo reclutato nel 1620, soprattutto dopo
che
sparimmo per una notte intera saltando il contrappello al mattino. Alla
Corporazione è infatti severamente vietato alle reclute
uscire in generale e
comunque mai dopo la chiusura dei cancelli, pena punizioni pesanti. Noi
una
sera decidemmo che, visto che nessuno tranne Andreas aveva mai visto il
mare,
era assolutamente fondamentale andarci il prima possibile.
Usciti
dalla Corporazione passando dai tetti, rubammo quattro cavalli nella
città e ci
dirigemmo a Imarilla, città portuale poco distante da Elea.
Arrivammo in riva
al mare in piena notte e siamo stati lì a parlare e guardare
e sguazzare
nell'acqua per tanto tempo, fino a che infreddoliti e affamati ci
spostammo in
una locanda. Qua ci addormentammo sfiniti sul tavolo dopo aver mangiato
e
bevuto e poi, al risveglio, ci accorgemmo che Jared era sparito.
Ricomparve
sulle scale della locanda un'ora dopo, con i vestiti in mano e
inseguito
dall'oste, che lo aveva scoperto a letto con l'unica figlia. Scappammo
con i
nostri cavalli ridendo come matti, ascoltando i racconti di Jared sulla
prima
delle sue numerose avventure sentimentali, prendendolo in giro e non
preoccupandoci più di tanto di aver saltato il contrappello.
Tornati
alla Corporazione pulimmo le stalle per un mese. Sembra una cavolata,
ma
abbiamo più di duecento cavalli, che sporcano tantissimo e
che decisamente non
hanno un buon odore. Non mi ricordo di aver mai faticato
così tanto, ma insieme
riuscimmo a rendere divertente persino una cosa così
terribile. Ah, ci diedero
anche dieci frustate a testa, davanti a tutti, ma per me quello
è stato il
minimo. Odio le stalle, odio la puzza e odio lo sporco.
La nostra
prova di iniziazione si concluse nel 1631, quando da soli riuscimmo a
portare a
termine la missione che ci era stata assegnata. Per festeggiare, oltre
ad
ubriacarci, andammo a farci tatuare il nome di un vento, scelto tra i
quattro
principali. Io ho scelto Noto, il vento del Sud che porta pioggia
benefica o aria
rovente. Jared ha Zefiro, il vento dell'Ovest, per il suo essere il
più
vanitoso dei quattro. Ad Andreas corrisponde Apeliote, il dolce vento
dell'Est,
adorato dai contadini perchè porta la pioggia che permette
ai campi di
crescere. Mel infine ha tatuato Borea, il vento del Nord, pericoloso e
gelido
quando soffia. Sono loro la famiglia che non ho mai avuto, e per loro
credo che
potrei fare qualunque cosa. Sono i miei fratelli e non solo
perché siamo tutti
Assassini, ma per il rapporto che si è stabilito tra noi e
che è più forte di
qualunque legame di sangue. Crescere e sopravvivere e uccidere insieme
genera
qualcosa che non è così facile da spezzare, non
importa quale litigio o
situazione si affronti. Non abbiamo mai dimenticato le sofferenze
patite insieme
all'inizio e tanto meno quei bambini, ormai cresciuti, che per tempo ci
avevano
picchiato e fatto patire la fame. Con molti ci siamo vendicati nel
tempo, molti
sono anche morti durante l'addestramento e sarei un bugiardo se dicessi
che ne
sono stato dispiaciuto. È così che la
Confraternita riesce a rendere difficile
la formazione di legami all'interno di un gruppo, mettendoci gli uni
contro gli
altri, facendoci scegliere tra la nostra vita e quella altrui.
Un esempio
è la missione per l'iniziazione che viene assegnata uguale a
due membri, ma
solo uno dei due può portarla a termine e concludere la
prova. Non ho mai
dimenticato l'uccisione del mio compagno e avversario, il mio primo
omicidio, e
devo dire che a volte lo sogno ancora.
Quando
miracolosamente arrivammo tutti vivi dopo l'iniziazione ci fecero
scegliere
l'Ouroboros, il simbolo della Corporazione, che ha delle
caratteristiche uniche
per ogni membro, con solo pochi dettagli fissati. La cerimonia di
ingresso come
membri effettivi fu rapida ma comunque maestosa, al cospetto del Re e
della sua
famiglia, e di tutte le più alte cariche. Da duecento e
più che avevamo
iniziato dieci anni prima, eravamo ormai una quindicina. Giurammo
lealtà e
obbedienza al Re e alla sua famiglia sotto lo stemma dei Coverano,
rosso e nero
con una stella a otto punte incoronata. Una volta usciti dal Palazzo
Reale,
dopo pochi minuti di cerimonia, eravamo finalmente degli Assassini.
Non so dire
come mi sentissi al momento. Orgoglioso, di sicuro. Spaventato,
probabilmente.
Ma ero anche assurdamente felice visto che avevo finalmente realizzato
qualcosa
nella mia vita. I miei amici erano con me e ci sentivamo invincibili,
intoccabili.
Negli anni
a seguire abbiamo completato tutti numerose missioni, alcune in
solitaria,
alcune insieme. Abbiamo ucciso tante persone, dentro al nostro stato e
fuori.
Molti incarichi erano nelle nazioni adiacenti, per uccidere uomini che
mettevano in pericolo la sicurezza del nostro Regno. Tutto questo in
modo
assolutamente segreto, perchè tra il nostro paese e Dimina,
al nord, e Semele,
Cesia ed Albis, al sud, esiste un unico patto di non belligeranza,
fragile ma
pur sempre presente. Non bisogna interferire per nessun motivo nella
politica
degli altri stati, e di sicuro l'uccisione di un cittadino potrebbe
essere
visto come un affronto rimediabile anche con una dichiarazione di
guerra.
Viviamo in
un'enorme polveriera e tutti speriamo che il patto duri e ci protegga,
e
sappiamo quanto questa tregua possa essere fragile. Fortunatamente i
sovrani di
questo periodo sono abbastanza illuminati da capire che una guerra
sarebbe la
distruzione, mentre è di gran lunga migliore una pace dove
ci siano commerci e
scambi tra gli stati.
Re Jerome
Coverano, sotto il quale ho iniziato la mia carriera di Assassino,
è stato un
bravo sovrano. Sfortunatamente con la sua morte ha lasciato il principe
Daniel
di soli quattordici anni e non pronto per regnare. La regina reggente
Celia
invece è una completa incapace. L'unica cosa positiva che ha
fatto è stata
stipulare una serie di patti matrimoniali con la famiglia reale di
Dimina, gli
Auremore, con il progetto di rendere la pace più forte e
duratura.
Il mondo in
cui viviamo noi Assassini è quindi questo, pieno di morte e
di sangue versato,
dove siamo disprezzati da tutti ma necessari comunque
affinché la pace venga
mantenuta nei regni.
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Capitolo 3 *** III ***
CAPITOLO
III
MARCUS
Tutto andò
liscio per circa un anno, tra allenamenti, incontri e ovviamente
omicidi. Poi,
come ho già detto e ripetuto, il 14 luglio del 1632 re
Jerome Coverano passò a
miglior vita. Era una delle giornate più afose che avessi
mai visto e non mi stupirei
se il nostro beneamato sovrano fosse effettivamente crepato per il
caldo. La
città e la nazione si stavano preparando ad affrontare i
sette giorni di lutto
imposti quando un'altra notizia, forse peggiore, si sparse tra la
gente: la
principessa e primogenita, Camille Coverano, era scomparsa.
Le voci che
giravano, come tutte le voci, raccontavano storie diverse a seconda del
momento
e della persona a cui le chiedevi. Secondo alcuni la Principessa era
stata
rapita dal suo letto, secondo altri era scappata per sposare il suo
vero amore.
Poteva essere fuggita per il troppo dolore della morte del padre,
oppure per
trovare un esercito che le permettesse di diventare Regina nonostante
l'erede
al trono fosse il fratello. Ognuno assicurava che la sua versione fosse
quella
ufficiale visto che gliela aveva raccontata il fratello del padre di un
amico
di un cugino di uno dei domestici di servizio a corte. Insomma si
sentiva più o
meno la qualunque e tutto senza che una notizia ufficiale fosse uscita
dal
palazzo, che rimase agli occhi dei più stranamente
silenzioso.
Ci si
sarebbe aspettati fuoco e fiamme dalla Regina reggente, che non
è mai stato un
tipetto tranquillo, figurarsi dopo essere appena diventata vedova e con
una
figlia in fuga. E dei movimenti, anche se non ufficiali, in effetti ci
furono.
Noi
Assassini venimmo richiamati dalle missioni in corso, in gran segreto,
che ci
trovassimo in patria o fuori. I corpi di guarnigione e gruppi di
soldati scelti
dell'esercito iniziarono a pattugliare le città
più grandi, ponendo domande in
giro, e a vagolare per le campagne, guardandosi intorno con aria
inquisitoria.
“Per la sicurezza comune” dicevano a chi aveva il
coraggio di chiedere, ma la
voce che si sussurrava per le vie era ben diversa.
Dopo un
paio di giorni anche a noi Assassini arrivò il nuovo
incarico ufficiale:
trovare ad ogni costo la fuggitiva principessa Camille e riportarla a
corte,
illesa. Facilissimo insomma. Come trovare un ago in un pagliaio, e
precisamente
un piccolo ago molto riottoso in un pagliaio enorme. Ognuno dei membri
della
Corporazione e, mirabile visu,
persino l'Alto Comando ebbero in sorte un pezzetto di Viride da
rivoltare come
un calzino, il tutto ovviamente senza destare sospetti.
La
preoccupazione comunque serpeggiava tra l'Ordine, visto che un tipo
come la Principessa,
viziata e abituata a vivere nella sua meravigliosa casa delle bambole,
difficilmente sarebbe riuscita a sopravvivere a lungo nel mondo reale.
Mondo
reale costituito, purtroppo, da ladri, truffatori, stupratori e
poveracci,
pronti a tutto anche solo per lo spettro di una paga. Non che la brava
gente
non esista, per carità, ma diciamo che in questi casi essere
troppo ottimisti
non è mai consigliato. Il fatto poi di non avere la minima
idea del perchè la
ragazzina fosse scappata, visto che di fuga si trattava e non di
rapimento, non
ci permetteva nemmeno di avere una sorta di traccia da seguire.
Eppure gli
ordini sono ordini, quindi partimmo tutti, nessuno escluso, come cani
contro la
preda, lasciando Elea per la prima volta completamente sguarnita e alla
mercè
dei soldati della guarnigione. Tanto di peggio non sarebbe mai potuto
capitare.
A me toccò
in sorte una pidocchiosa cittadina al confine con Albis, Anadea. Era
stata una
grande ed imponente città fortificata all'epoca dell'Ultima
Guerra, ma con la
firma del trattato di pace aveva lentamente perso la sua importanza ed
era
diventata il fantasma di quella che era un tempo. Risultato? Decine e
decine di
edifici vuoti e mezzo crollati da controllare, un castello diroccato
memoria
degli antichi splendori da perlustrare e il confine a pochi chilometri
da
tenere sott'occhio. Bellissimo. Grazie alla mia solita sfortuna avevo
guadagnato un lavoraccio, mentre quei dementi dei miei tre amici
avevano delle
zone inutili da pattugliare, tipo i campi attorno alle
città. Come se la
principessa Camille Coverano potesse travestirsi da contadino e
mettersi a
zappare così, tanto per confondere le acque.
Una mattina
quindi mi misi a cavallo, diretto verso Anadea, con l'illusione di
andare,
controllare e tornare, possibilmente in un paio di giorni, con la
speranza che
la Principessa sarebbe spuntata fuori da qualche altra parte. Arrivato
in città
mi accorsi di quanto brutta fosse la situazione: mendicanti
praticamente a ogni
angolo, strade deserte e brutte facce sospettose ovunque guardassi. Mi
diressi
subito verso la locanda, sia nella speranza di trovare qualche
informazione
interessante, sia per togliermi dalla gola tutta la polvere ingurgitata
nella
cavalcata fino a lì.
Dire che il
locale era squallido è probabilmente un eufemismo. C'erano
quattro sedie che
ospitavano altrettante anime perse con in mano boccali di birra, mentre
l'oste,
magro e scavato, puliva con uno straccio sudicio un ancora
più sudicio
bicchiere. Visto che i quattro avventori non sembravano nelle
condizioni di
parlare mi diressi verso il bancone, iniziando già a fare
mentalmente il conto
di quanto mi sarebbe costato tirare fuori qualche parola da quell'uomo.
Ordinai
rapidamente una birra e poi mi misi a giochicchiare con una moneta
d'argento,
nella speranza di attirare l'attenzione dell'oste. Manovra eseguita con
successo dal momento che i suoi occhi si accesero di una luce avida.
– Sei nuovo
qui. Da dove arrivi? – l'uomo aveva una voce raschiante,
sgradevole. Continuò a
pulire il suo bicchiere, ma notai che da sotto le ciglia continuava a
fissare
la mia moneta, che facevo molto elegantemente scorrere tra le dita e
saltare
per aria.
– Da Elea.
È stata una lunga cavalcata fin qui. –
– Ah, dalla
capitale! E com'è la vita lì? –
– Ultimamente,
molto agitata. Avrete sentito della morte del Re, pace all'anima sua
– dissi,
mentre prendevo un sorso di birra. Dio, era veramente terribile. Mi
dovetti
sforzare per prenderne un altro e non avere un'aria troppo schifata.
– Sì, la
notizia si è diffusa rapidamente, persino fin
quaggiù. –
– Immaginavo.
Però la cosa davvero sconvolgente è un'altra
– mi avvicinai all'oste con aria
cospiratoria, guardandomi a destra e sinistra come se avessi paura di
essere
ascoltato. Tre clienti continuavano a fissare il fondo del loro boccale
con
aria sconsolata, il quarto si era addormentato e russava con la testa
sul
tavolo.
– Si dice
che la principessa Camille sia scappata – sussurrai. Gli
occhi dell'uomo si
dilatarono per lo stupore. A quanto pare la notizia era di dominio
pubblico
solo a Elea.
– E si dice
che sia diretta ad Albis – aggiunsi, con noncuranza.
– È un bel
problema, – ammise l'uomo. – Ma non è un
mio problema. Qui in città non ce la
passiamo troppo bene, come avrai potuto notare. Però una
cosa te la posso dire:
questa è una tappa obbligata per chi vuole andare ad Albis e
se la Principessa
fosse passata di qui, l'avremmo vista. Mi sa che le voci che girano
sono
sbagliate. –
– Probabile – presi
il boccale in mano e lo rigirai, nella
speranza di trovare il coraggio di bere un altro sorso di quella cosa.
Rimasi
in silenzio per un po', guardandomi intorno e riflettendo.
– Una volta
questa città doveva essere una grande città.
–
– È vero,
–
l'oste tirò su la testa e si aprì in un sorriso
orgoglioso, nemmeno avesse
costruito lui in persona Anadea. – Una volta potevamo
competere in splendore
con Elea. Ma ormai da decenni le cose sono cambiate: le persone se ne
sono
andate, le case sono in rovina. Perfino il castello si sta sgretolando.
–
– In
effetti assomiglia molto a quello dei Coverano, nella capitale
– commentai.
L'avevo
notato passandoci vicino, prima di entrare nella città,
anche se questo era
mezzo crollato mentre quello ad Elea era ancora ben messo. La
somiglianza però
era innegabile.
– Sì,
l'architetto è lo stesso. Si dice che sia morto cadendo da
una torre durante la
costruzione, portando una maledizione sul castello. Noi non ci andiamo
mai. –
– Mai? –
domandai incuriosito, appoggiando i gomiti sul bancone.
– Mai. C'è
persino una diceria secondo la quale la sventura è caduta
sulla città a causa
di quella costruzione – rivelò l’oste,
con aria mesta.
– Sono solo
dicerie, come hai detto tu – mi alzai dal mio sgabello,
finendo la birra con un
solo sorso cercando di non badare troppo al sapore. Lanciai la moneta
d'argento
all'oste che la prese al volo, rigirandosela tra le mani.
– Grazie
per la birra, forse tornerò per una stanza –
probabilmente non mi sentì
nemmeno, impegnato com'era a rimirare il suo tesoro. Credo che
equivalesse a
quanto guadagnava in un intero anno.
Uscito
dalla locanda pensai al da farsi. La giornata era ancora lunga e avevo
molto
tempo. L'oste mi era sembrato sincero quando aveva detto di non aver
sentito
notizie della Principessa e sono abbastanza bravo a capire quando una
persona
mente. Questo però non implicava il fatto che la ragazza non
fosse stata presa
da qualcuno con cattive intenzioni. Decisi di iniziare controllando le
case
vuote attorno al piccolo nucleo abitato, poi mi sarei dedicato al
castello e
per ultimo, se non avessi trovato niente, avrei ancora chiesto in giro
informazioni, anche se probabilmente la Principessa non era mai stata
lì.
***
Numerose
ore dopo era già notte e io non avevo cavato un ragno dal
buco. Avevo visto
decine di case, tutte uguali e tutte vuote, senza nemmeno una traccia
di vita
che non fosse un gatto o cacca di topo. Ero abbastanza inferocito, sia
con la
mia sfortuna che con quella deficiente della Principessa. Doveva
proprio
scappare di casa? Cosa di così terribile poteva mai esserle
successo per
convincerla a fuggire? Per me era solo un'alzata di ingegno di una
bambina
viziata, che così facendo faceva perdere tempo a persone
decisamente più impegnate
di lei. Se fosse mai tornata a casa e soprattutto se fossi stato al
posto della
Regina l'avrei messa in punizione a vita.
Mi diressi
verso la locanda per prendere una stanza e dormirci su, continuando la
mia
inutile e infruttuosa ricerca il giorno dopo. Da dove mi trovavo dovevo
per
forza passare vicino al castello per arrivare nel centro della
città, ignorando
le dicerie che mi aveva riferito il mio amico oste. Effettivamente era
abbastanza inquietante, soprattutto di notte, con parti di travi
annerite che
spuntavano come monconi di ossa dalle pietre. Una sola torre era
integra, anche
se palesemente abbandonata, con edera ed erbacce che salivano sulle
pareti e si
perdevano in alto.
Passai
quindi lì vicino e lanciai un'occhiata distratta a tutto,
quando un odore
inconfondibile mi colpì le narici. Legna bruciata. Qualcuno
stava facendo un
falò, ma visto che l'oste mi aveva detto che nessuno di
Anadea andava mai lì,
era decisamente molto strano. Nessuna luce si notava nella sera, di
sicuro chi
aveva messo su il bivacco non voleva essere notato e l'unico posto in
cui
poteva trovarsi era all'interno della torre, che non aveva praticamente
finestre.
Mi ci
diressi quindi furtivamente, infilandomi sotto l'arco in pietra della
porta
d'ingresso, sguainando un pugnale e tenendolo alzato davanti a me.
Salii le scale
a chiocciola che mi trovai davanti, unica via possibile, e che
portavano ai
piani superiori. Ogni tanto dei pianerottoli di pietra si aprivano
nella torre,
larghi e abbastanza confortevoli, completamente vuoti eccetto per delle
sedie
rovesciate e marcite. Tracce di arazzi si trovavano sulle pareti.
Maledizione o
no delle persone dovevano essere andate a razziare il castello nel
corso del
tempo, sperando di trovare qualcosa di valore e portando via
praticamente ogni
cosa.
Poco prima
del terzo piano l'odore di legna bruciata si fece più forte
e un tenue bagliore
aranciato si dipinse sulle pareti. Arrivai vicino al pianerottolo, mi
sporsi
leggermente oltre il muro di pietra e la vidi. La Principessa se ne
stava
accovacciata vicino al fuoco, con i capelli ramati che risplendevano
alle
fiamme, guardando nel fuoco. Sospirai e misi via il pugnale. Finalmente
la
ricerca era conclusa, e forse avrei anche ricevuto qualche onorificenza
visto
che avrei riportato la Principessa a corte. Feci un sorriso e con due
passi
entrai nella stanza.
– Principessa
Camille Coverano. Sono venuto per riportarti a casa. –
La ragazza
sussultò, alzandosi in piedi di scatto e mettendosi con le
spalle al muro, il falò
tra me e lei. Era pallida e sporca e aveva il viso smagrito nonostante
fosse
scappata da soli quattro giorni, facendo sembrare i suoi occhi verdi
enormi.
Notai distrattamente che aveva dei solchi sulle guance. Probabilmente
aveva
pianto. I vestiti, palesemente da nobile, erano tutti strappati e
laceri. Dopo
qualche secondo di immobilità prese un pezzo di ferro dalla
cintura,
puntandomelo contro.
– Vattene.
Ti ordino di andare via. –
Anche se la
voce era salda, la mano che teneva quell’arma improvvisata
tremava. Strano, di
solito non sono poi così spaventoso. Mi avvicinai ancora di
più, con le mani
sollevate.
– Purtroppo
non posso. Tua madre, che si dà il caso sia anche la Regina,
ci ha ordinato di
riportarti a corte. –
Ormai ero a
pochi metri da lei. Feci un balzo e le presi la mano, strappandole la
sbarra metallica
dalle mani. Lei si dimenò e urlò, mi
schiaffeggiò, mi diede anche una
ginocchiata, facendomi abbastanza male. I segni delle sue unghie sulla
guancia
me li sarei portati dietro per qualche giorno. Decisamente non era il
comportamento di chi vuole essere riportato a casa propria. La tenni
stretta
per qualche minuto, fino a quando non smise di muoversi. Incredibile
quanto
fosse minuta. Mi ricordavo che più o meno avevamo la stessa
età, ma io in
confronto ero un gigante. Quando si rilassò la lasciai
andare, continuando però
a tenerla per i polsi.
– Qual è il
problema? Hai capito che non voglio farti del male ma riportarti a
casa? –
Lei mi
guardò altera, una smorfia sofferente sul viso.
– Non posso.
Non posso tornare a casa. –
– Sì che
puoi. Ci sono qui io apposta. –
– Mi vuoi
ascoltare quando parlo? Ti ho detto che non posso! –
urlò, con gli occhi verdi
che sembravano spiritati.
– Stai
scherzando? Sei la Principessa! Cosa ci sarà di
così terribile a casa tua?! –
urlai anche io, abbastanza scocciato dal suo tono. Alla faccia del
protocollo
nei confronti dei membri della famiglia reale, ma quella ragazza mi
stava
facendo davvero arrabbiare. Alla mia frase Camille si fermò,
smettendo di
urlare, squadrandomi. Fantastico. Mi sedetti vicino al fuoco, irritato.
– Quando ti
calmi partiamo. Arriveremo ad Elea in mattinata. –
Tirai fuori
dalla mia bisaccia della carne salata e mi misi lentamente a masticare.
Non
avevo messo niente sotto i denti dall’ora di pranzo e avevo
fame. In più era un
buon modo per passare il tempo. Dopo poco mi accorsi che la Principessa
osservava il mio cibo con bramosia, troppo orgogliosa per chiedermene
un po’.
Gliene porsi una, forse con la speranza di calmarla un po', e lei ci si
avventò
praticamente sopra. Era abbastanza palese che non mangiava da
più tempo di me.
– Mi vuoi
spiegare cosa succede? – le chiesi, dopo che si era
praticamente divorata tutte
le mie scorte. Non era tanto grossa ma mangiava come un lupo.
Mi fissò
per capire se potesse fidarsi di me. Non so cosa vide, ma chiuse gli
occhi e
iniziò a parlare. C’era una smorfia di sofferenza
sul suo viso.
– Se torno
a corte mi uccideranno. –
Risi. A
crepapelle, e la cosa non mi fa onore. Ma quando smisi lei mi stava
ancora fissando,
con quegli occhi seri e un sopracciglio alzato, palesemente irritata.
– Hai
finito? – mi domandò, ironica.
– Stai
scherzando? –
– No. Mia
madre mi odia. –
– Possibile,
ora come ora ti odio anche io. Ma non mi sembra un buon motivo per
ucciderti. –
– Lei... –
sospirò, prendendo fiato. – Lei ha ucciso mio
papà. Che si dà il caso sia anche
il tuo Re – mi canzonò.
Impossibile.
Decisamente impossibile. Quella ragazza doveva essere matta.
– Tua
madre, la regina Celia, avrebbe ucciso re Jerome. Certo. E io posso
volare. –
–Devi
credermi! – Mi
urlò contro, gli occhi
dilatati. – Quando ho cercato di dirlo a corte ha quasi
ucciso anche me. Sono
scappata appena in tempo. –
Mi presi la
testa tra le mani.
– Senti, a
me tutta questa storia non interessa. Non ti credo. Ho l'ordine di
riportarti a
corte, ed è esattamente quello che farò.
–
– Se mi
riporti a corte morirò. Non hai una coscienza? –
– Senti principessina,
sono un Assassino. Se ho mai avuto una coscienza l'ho persa tempo fa.
–
Silenzio.
Camille non disse più niente ma si guardò
intorno, come per trovare una via di
fuga. All’improvviso si girò verso di me, come un
cane che ha puntato la preda.
– Un Assassino... voi giurate
fedeltà al re. –
– Vedo che
sei informata – un ghigno sarcastico mi si dipinse sul viso.
– So molte
cose, – sorrise, e fu il primo vero sorriso che vidi farle da
quando ero
entrato nella torre. – E visto che io sono la figlia del Re,
mi devi
proteggere. Mi devi proteggere anche se chi mi vuole fare del male
è la stessa
Regina. Tu mi devi lealtà. –
Sospirai.
– Si, è
tutto vero. Però c'è un piccolo particolare: io
non ti credo. Secondo me hai
deciso improvvisamente che avevi bisogno di libertà, che
volevi vedere il mondo
e che il palazzo era troppo piccolo per te, e quindi sei scappata.
Forse anche
il dolore per la morte di tuo padre ha contribuito, non lo so e in
fondo non mi
interessa. Ma ora ti devo portare a casa, hai finito di vagabondare.
–
– Posso
provare a convincerti che ho ragione? –
Sbuffai, a
braccia incrociate, guardando il suo viso determinato dall'altra parte
del
fuoco.
– Si, puoi
provarci. –
***
Due ore
dopo mi aveva convinto. Accidenti a lei. Però, se tutto era
vero, allora la
questione era abbastanza spinosa. La Regina era una spietata assassina,
pronta
a tutto per il potere, persino ad uccidere il marito e la figlia. Non
sapevo
più cosa pensare. Da un lato i ragionamenti di Camille erano
perfettamente
logici, dall'altra chi mai può pensare che una madre sia
capace di uccidere un
figlio? A questo punto una vocina scomoda nella mia testa mi
ricordò che io ero
stato venduto come una capra dal mio stesso padre, e ciò
bastò a convincermi.
La Principessa ormai si era addormentata vicino al fuoco morente e,
dopo aver
rimuginato ancora un po' decisi di imitarla, sdraiandomi vicino a lei.
Il sonno
fortunatamente arrivò in fretta.
La mattina dopo fui il primo a
svegliarmi. Camille continuava a ronfare vicino a me, russando
leggermente. Nel
sonno aveva perso l'aria afflitta della sera prima e sembrava serena,
dimostrando tutti i suoi 16 anni. I capelli ramati circondavano
l’ovale del
volto, sul quale le ciglia lunghe disegnavano ombre delicate. La bocca
era
socchiusa, e il fiato che ne usciva faceva muovere le ciocche rossicce.
L’ossatura
delicata si intravedeva dalla scollatura del vestito, da dove facevano
capolino
le due clavicole. Mi stiracchiai, dopo di che la svegliai. In breve ero
diretto
verso la città, per comprare dei viveri e dei vestiti da
dare alla fuggiasca,
nella speranza di renderla meno appariscente, e le avevo anche
consigliato di
tingere i capelli, troppo riconoscibili. Dopo aver preso tutto il
necessario
tornai alla torre, dove Camille mi aspettava.
Avevo
temuto che fuggisse nel frattempo, ma a quanto pare non mi temeva
più.
Cavalcammo in due fino al confine con Albis e lo superammo, dirigendoci
verso
Engana, città portuale dello stato vicino. La ragazza mi
aveva spiegato che intendeva
dirigersi a Dimina, al Nord, per raggiungere il fratello Daniel che si
trovava
là in qualità di protetto dagli Auremore.
La
accompagnai fino al porto e le diedi abbastanza soldi per comprare un
passaggio
su una nave mercantile e sopravvivere per almeno una settimana. Era
riuscita a
scappare dal Palazzo Reale senza niente, incredibile.
– Starai
bene? – le chiesi, quando ormai dovevo lasciarla andare via.
Incredibile a
dirsi, ma ero preoccupato.
– Sì, –
mi
sorrise e le si illuminò tutto il volto. – Da mio
fratello starò bene. Grazie
Marcus, non ti dimenticherò. –
Sorrisi
anche io. Lei si girò e fece per andarsene, ma la bloccai.
Mi tolsi un pugnale
dalla cintura e glielo porsi.
– Prendi
questo, per tenerti al sicuro. –
Lei non disse niente e lo
prese, ma il suo sorriso si allargò. Si voltò e
dopo poco si perse nella folla
del porto. Sorrisi tra me e me, pensando che non l'avrei più
rivista. Gli dei
solo sapevano quanto mi sbagliavo.
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Capitolo 4 *** IV ***
CAPITOLO IV
MARCUS
Camille finalmente -e
comunque
sempre troppo tardi- mi liberò da quella schifosa cella in
cui i suoi compari
abitanti del bosco mi avevano rinchiuso. Ero contento di vedere come la
ragazzina terrorizzata che avevo trovato nella torre di Anadea, due
anni prima,
fosse diventata una donna sicura di sé, e quando glielo
dissi un tenue sorriso
le si accese sul volto.
Mi portò
poi fuori dalla prigione e ci dirigemmo verso il centro del villaggio.
Notai
che mentre camminavamo più di una persona la
salutò educatamente e in maniera
rispettosa, saluti a cui lei rispondeva con un delicato cenno del capo.
Inutile
dire che io invece collezionai un gran numero di occhiatacce
camminandole al
fianco, ma non importa. Ci ero abituato.
Ci fermammo
finalmente in una piccola locanda e ci accomodammo ad un tavolone di
legno,
mezzo vuoto. La luce del mattino entrava dalle finestre e l'aria
autunnale era
frizzante attorno a noi. Ordinai da mangiare e da bere, e solo quando
mi fui
rilassato, dissetato e sfamato decidi di iniziare a parlare di cose
serie.
– Mi fa
davvero piacere vederti – le dissi, ed era vero. Quando, poco
tempo prima,
avevo ricevuto un messaggio che mi chiedeva un incontro, firmato
Camille, non
ero molto sicuro che provenisse davvero da lei. Ci eravamo dati
appuntamento ad
Hale per quando io avessi finito la missione, ma anziché la
principessa mi
aspettavo più di incontrare qualcuno che avesse scoperto che
avevo fatto
scappare la primogenita del Re, due anni prima. Poi la fuga,
l'inseguimento, il
bosco e tutto il resto mi avevano momentaneamente distratto e non mi
ero nemmeno
più preoccupato di presentarmi a quell’incontro.
– Anche io
sono felice di vederti Marcus – mi rispose, e sembrava
davvero sincera.
Incredibile che io possa piacere a qualcuno.
– Ti trovo
bene. –
– Sì, sto
bene. Qua mi hanno accolta come una di famiglia. –
– Vedo.
Diciamo però che i tuoi ospiti non sono trattati ugualmente
bene. –
Un
sorrisetto imbarazzato le si dipinse in viso.
– Ehm, sì.
Forse la colpa è mia. Mi aspettavo di incontrarti ad Hale ed
ero lì l'altra
mattina quando ti ho visto scappare come un disperato da... –
– Non ero
disperato, – la interruppi, un po' offeso, anche se
effettivamente sì, era
stata una fuga da disperato. – Quella fuga faceva parte del
mio piano. –
– Sì,
immagino proprio. Comunque quando ho capito che forse avevi cose
più, diciamo,
urgenti, a cui pensare ho contattato Thomas e gli ho chiesto di
scortarti fino
a qui. –
– Potevi venire
a prendermi tu, comunque. –
– Sicuramente.
Mi cercano ancora praticamente in tutto il paese e io mi faccio vedere
con un
Assassino ricercato. Sarebbe una mossa davvero intelligente, non trovi?
–
Era
decisamente cambiata. Due anni fa non mi avrebbe risposto con tutta
questa
sicurezza, sembrava più una con paura persino della sua
ombra, e ora ero io a
trovarla sicura di sé in un modo perfino leggermente
inquietante. Sarà che a me
piace il tipo “donzella in pericolo” e Camille
decisamente non lo era. Almeno
non più.
– Sì,
sì,
va bene, ricevuto il messaggio. Ciò però non
spiega perché sono stato legato,
imbavagliato e sbattuto in cella. E poi, che posto è questo?
–
– Siamo in
un villaggio costruito da un gruppo di oppositori della Regina. Si sono
ritirati qui per cercare di sopravvivere. Non so se ne sei a
conoscenza, ma il
nostro paese non se la passa molto bene. Le tasse sono aumentate in
modo vertiginoso
e sempre più giovani vengono reclutati per l'esercito. Nelle
campagne la gente
si ammazza di lavoro e si vede portare via più di due terzi
del raccolto che
vanno a finire nelle scorte della casata reale. Puoi immaginare che ci
sia un
po' di malcontento e in molti hanno deciso di scappare e rifugiarsi
qui, per
poter vivere in maniera più tranquilla oppure per opporsi al
dominio della
Regina. –
Le notizie
non mi stupirono. Anche a Elea le cose non andavano così
bene come si potrebbe
pensare. Gli accattoni e i disperati nella città erano
aumentati
vertiginosamente, così come anche i crimini e le opposizioni
alla monarchia,
tutte represse con ferocia. Il clima era abbastanza teso e sembrava che
la
situazione potesse esplodere da un momento all'altro.
– Sì, lo so,
– commentai. – Immagino anche che
l’ultima cosa che vogliono qui sia un Assassino
che possa denunciarli alla Regina. –
– Esatto.
Ed è per questo che, nonostante le mie raccomandazioni,
Thomas ha preferito
andare sul sicuro e metterti in condizioni di non nuocere. –
– Io sono
sempre in condizioni di nuocere, ricordatelo – dissi,
ridacchiando. Scoprii che
mi piaceva parlare con lei, c'erano una libertà e una
tranquillità che ho
davvero con poche persone, forse solo con i miei tre amici. Fu poi il
suo turno
di ridere, scuotendo la testa alla mia arroganza. Rimanemmo in silenzio
per un
po', lei osservando il suo boccale immersa nei suoi pensieri, io
guardandomi intorno
incuriosito. Quello in cui
eravamo era un
villaggio del tutto normale. Tranne, ovviamente, per il fatto che fosse
pieno
di dissidenti armati fino ai denti e si trovasse nel bel mezzo di una
foresta.
Bambini correvano per le strade, da un angolo veniva l'odore di pane
appena
sfornato, la locanda dove ci trovavamo stava lentamente riempiendosi di
gente.
Tutti avevano un'aria rilassata, felice, e si salutavano con
cordialità fino a
che non guardavano me, e allora tutti i sorrisi sparivano. Se le
occhiate
potessero uccidere sarei già stato ammazzato almeno un paio
di volte. Non potei
fare a meno di chiedermi quanti loro amici, parenti o conoscenti
fossero stati
uccisi dai miei confratelli. Immagino molti e non ne andavo fiero.
Riportai il
mio sguardo su Camille e fui io, dopo un po', a riprendere il discorso
che
avevamo lasciato interrotto.
– Immagino
però che tu non mi abbia fatto venire qui per parlare di
attualità. Spiegami
che succede. –
Lei esitò,
guardandomi negli occhi. Non so cosa ci vide, ma iniziò a
parlare.
– Due anni
fa quando mi hai lasciata andare mi sono diretta a Dimina, come da
programma.
Pensavo di poter essere al sicuro lì, protetta dagli
Auremore e soprattutto da mio
fratello. Credevo che finché fossi stata con loro mia madre
non avrebbe potuto
farmi del male, non di fronte alla famiglia reale di un altro paese.
Evidentemente mi sbagliavo – iniziò, con un
sospiro pesante.
– Quando
sono sbarcata a Dimina -dopo un viaggio eterno e terribile, per inciso-
notai
che anche lì molti soldati passeggiavano nel porto facendo
domande e
controllando chiunque gli passasse vicino. Non essendo mai stata in
quel regno
prima non mi stupii molto, pensando che fosse una procedura standard,
soprattutto
se in prossimità di un porto – mi
raccontò con lo sguardo perso nel vuoto, come
se potesse dissociarsi da quello che mi stava raccontando.
– Mi
avvicinai a un gruppo di guardie con tranquillità e
sicurezza, senza paura, –
continuò. – Pensavo di dire loro chi ero, che
desideravo vedere mio fratello e
che allora mi avrebbero scortato al Palazzo d'Estate residenza degli
Auremore,
a Melusine, poco lontano dal porto. Quando dissi che ero Camille
Coverano mi
guardarono sorprese e furono molto gentili con me. Il capo del
gruppetto era un
uomo inquietante e mi ricordo di aver pensato distintamente che
più che
ispirare fiducia mi terrorizzava. Aveva una lunga cicatrice su un lato
del viso
e gli occhi avevano una luce maligna, ma forse lo dico solo
perchè so quello
che è successo dopo, visto che sul momento mi fidai
ciecamente di lui e dei suoi
compari – disse con tono amaro.
– Partimmo
subito, a cavallo, e visto che era sera dopo poco ci fermammo per
dormire ai
lati della strada per Melusine. Smontai da cavallo, mi sdraiai e devo
ringraziare l'agitazione che avevo al pensiero di aver quasi raggiunto
mio
fratello se non mi sono addormentata subito. Rimasi quindi sdraiata per
terra,
ad occhi chiusi, cercando di prendere sonno mentre le quattro guardie
stavano
accanto al fuoco che avevano acceso, a chiacchierare – fece
una pausa ma
aspettai che continuasse da sola. Non volevo forzarla a raccontare se
non era
quello che voleva.
– Dopo un
po' iniziai a sentire dei discorsi strani, riguardo a quanto io fossi
un'illusa
a fidarmi così di loro. Dissero che mi avrebbero portato
sì al Palazzo Reale,
ma che avrei fatto una fine molto diversa da quella che mi immaginavo.
Ridacchiavano, i bastardi. Parlarono della fortuna che avevano avuto
visto che
mi ero presentata da loro così, senza fargli fare nemmeno la
fatica di
cercarmi, e del fatto che di sicuro avrebbero avuto una promozione,
soprattutto
perché, anche se gli ordini erano di portarmi a palazzo viva
o morta, loro
sarebbero riusciti a portarmi fino li sana e salva, pronta per il boia
di corte
– scosse la testa, come per scacciare il pensiero.
– Io che ascoltavo
gelai, ero terrorizzata, – continuò. –
Non avrei trovato salvezza a Dimina e a
questo punto non sapevo fin dove si sarebbe spinta la lunga mano di mia
madre.
Era ovvio che se mi cercavano anche lì era perché
la Regina li aveva avvisati e
gli aveva detto che potevano uccidermi, che ero sacrificabile
– la sua bocca si
piegò in un sorriso ironico.
– Uno solo
degli uomini si fece qualche scrupolo, dicendo che era una colpa molto
grave
uccidere un membro della famiglia reale, sia agli occhi degli dei che
degli
uomini. Il suo capitano gli rispose ridendo. Gli disse che loro mi
stavano
scortando a corte e che poi quello che mi sarebbe capitato
lì non era affar
loro. In più aggiunse che non ero la prima dei Coverano che
moriva per mano sua
e che nonostante ciò era ancora vivo e soprattutto molto
benvoluto alla corte
degli Auremore, da cui provenivano tutti i suoi ordini. –
La
interruppi, non riuscendo a credere a quello che avevo appena
ascoltato. Era
tutto troppo, sia da pensare che da ascoltare e da concepire.
– Aspetta,
Camille. Altri membri della famiglia reale uccisi? Come... come
è possibile che
non si sappia niente? Chi sono? –
Lei aveva una faccia stanca,
tirata. Immaginai che anche solo ripetermi quelle cose le fosse costata
un'enorme fatica.
– Ci ho
pensato a lungo quella notte, mentre aspettavo il momento adeguato per
scappare.
Alla fine è la mia famiglia e di cose su di essa ne conosco.
L'unico che mi è
venuto in mente è stato, oltre a mio nonno re Daniel, morto
di vecchiaia nel
suo letto, mio zio Adrien, il fratello maggiore di mio padre ed erede
al trono.
Ero piccola, ma ricordo che era stata una vicenda molto dolorosa. C'era
stato
un incidente in nave mentre si dirigeva con i due figli, Ian e
Nathaniel, a
Dimina. Doveva essere una sorta di missione diplomatica o qualcosa del
genere,
non mi ricordo. So solo che nessuno di loro è sopravvissuto.
La moglie di
Adrien, Helen, si è tolta la vita poco dopo. È
stato un episodio molto doloroso
e mio nonno, che era già malato, non sopravvisse ancora a
lungo. –
Lo
ricordavo anche io. Il lutto aveva colpito per tre volte in poco tempo
il
paese, prima con la morte del principe ereditario Adrien e dei suoi due
figli,
poi per il suicidio della principessa Helen e infine per la morte
dell'anziano
Re. All'epoca i Coverano erano molto ben voluti, soprattutto il
principe
Adrien, che era benevolo, saggio e giusto. Sarebbe stato un ottimo
sovrano. Si
diceva che persino il fratello, il futuro re Jerome, fosse stato preso
dalla
disperazione alla notizia perchè riteneva che il trono
sarebbe dovuto spettare
ad Adrien, mai a lui, nemmeno in quel caso. Non si sentiva pronto a
essere Re,
tanto meno dovendo camminare sopra i cadaveri del fratello e dei nipoti
per
arrivare al trono. Ero piccolo anche io, solo di poco più
grande di Camille, ma
mi ricordo che alla Corporazione la notizia era stata traumatizzante.
Erano
tutti molto fedeli e incredibilmente legati al sovrano e alla sua
famiglia,
soprattutto nelle alte sfere.
Un solo
dubbio mi rimaneva e lo esposi.
– Però è
stata una morte per mare, non c'è la sicurezza che sia stato
davvero un
omicidio. Forse quell'uomo mentiva ed è stato davvero un
incidente. –
Camille
sospirò.
– Vorrei
che fosse così Marcus, non sai quanto. Ma quell'uomo ha
detto la verità, ne
sono sicura. Non ne dubiteresti nemmeno tu se lo avessi visto.
–
– Va bene,
ho capito. Anche se spero che non sia vero. E poi cos'è
successo? –
– Ho
aspettato che si addormentassero, facendo finta di dormire. Quando
ormai
russavano e l'uomo di guardia sembrava essersi momentaneamente
appisolato mi sono
alzata in silenzio e gli sono andata alle spalle. Dopodiché
ho estratto il
pugnale che mi avevi dato e l'ho sgozzato. –
Lo disse
con una tranquillità spaventosa, ma dentro di me sapevo che
all'epoca doveva
essere rimasta molto scossa. Non è una cosa che si dimentica
il primo omicidio,
e io lo so molto bene. Quella ragazzina di sedici anni spaventata e
fragile
aveva scoperto nel peggiore dei modi che dentro di sé c'era
l'acciaio. Mi
rattristai al pensiero che Camille, dolce com'era due anni fa, fosse
stata
costretta a uccidere, sporcandosi di questo crimine anche se per
salvarsi la
vita.
– Poi? –
– Poi sono
scappata, portandomi dietro tutti i loro cavalli. Ci hanno messo un
po', credo,
prima di accorgersi che ero fuggita, non si aspettavano una cosa del
genere da
una ragazzina come me. –
Lo disse
con una sorta di ironia amara. Probabilmente nemmeno lei stessa si
aspettava di
essere in grado di uccidere un uomo.
– Ma il
punto non è questo – continuò.
– E qual è?
–
– Quello
che ho visto nei miei anni di fuga. Per un po' sono rimasta a Dimina,
avevo
troppa paura ad avvicinarmi al porto e alle città,
così mi sono nascosta dove
capitava senza poter tornare a Viride. Gli Auremore sono ricchi e a
sentirli
parlare il loro regno è il paradiso in terra, ma non
è così. Stanno allestendo
un grande esercito, ovunque vengono reclutati giovani. Per la sicurezza
del
regno dicono, ma io non ci credo. I fabbri, i falegnami e i genieri
sono ormai
tutti nelle quattro città principali, a fare non si sa cosa.
Solo osservando
con attenzione e parlando con la gente sono stata in grado di capire
che
qualcosa non andava, ma agli occhi di chiunque vada lì per
una semplice visita
è tutto normale. Un giorno poi sono riuscita ad intrufolarmi
in una base
dell'esercito e ho visto cosa stanno costruendo: armi da guerra.
–
Sempre
peggio, davvero. Ogni volta che vedevo quella ragazza venivo a
conoscenza di
cose deliranti. Una volta sarei stato tentato di non crederle, ma ormai
mi
fidavo di lei, stranamente.
– C'è il
Patto, Camille, te ne dimentichi. Gli Auremore lo faranno per tenere
occupata
la popolazione – dissi, ma non lo pensavo nemmeno io.
– Conosco
il Patto, Marcus, meglio di te credo. Ma cosa capiterebbe se una
nazione lo
infrangesse così di colpo? –
– La
guerra, lo sai. Molto rapida anche. I nemici verrebbero sbaragliati
senza la
possibilità di difendersi. Non si allestisce un esercito in
qualche giorno. –
Improvvisamente
mi sembrò che l'aria fosse più fredda. La guerra
che sarebbe scoppiata sarebbe
stata devastante e incredibilmente facile da vincere per i diminiani se
avessero preso di sorpresa gli altri regni.
– Esatto.
Quindi ho pensato di tornare qui, di cercare di avvisare qualcuno, di
difendere
il mio paese anche se da fuggitiva. Sono pur sempre la Principessa,
è un mio
dovere. Però quando sono tornata ho notato che molte cose
sono cambiate. Come a
Dimina, sempre più persone vengono reclutate nell'esercito,
per “forgiare
uomini forti e al servizio del regno” recitano i bandi. Le
esercitazioni
militari sono innumerevoli, indette per non mantenere i soldati oziosi,
o
almeno così si dice. Le tasse sono esagerate e posso
assicurarti che il tesoro
reale dei Coverano è abbastanza cospicuo da non dover venire
rimpinguato in
continuazione dai soldi della popolazione. In breve, si stanno
preparando a una
guerra anche qui e mia madre, la regina Celia, lo sa benissimo. Sono
sicura che
c'è lei dietro a tutto questo progetto, è
abbastanza ambiziosa da poter
architettare un piano del genere. Ci saranno dei piani di alleanza tra
Dimina e
Viride, e scommetto che verranno sigillati il giorno dei matrimoni tra
i miei
fratelli e i figli degli Auremore. Le due nazioni saranno alleate in
questa
guerra devastante. –
– Quello
che mi dici ha senso, Camille, ma nemmeno io posso fermare una guerra.
–
Lei sorrise
in una maniera feroce, come se fosse una belva davanti alla preda.
– Ma io non
voglio interrompere la guerra, o almeno, non è quello il mio
interesse principale.
–
– Ah no? –
mi stupì, devo essere sincero. La guerra non è
una cosa particolarmente
desiderabile e positiva, e lo dico io che ho fatto della morte il mio
mestiere.
– No. Io
voglio quello che è mio di diritto. Sono una Coverano e sono
la primogenita.
Mia madre mi ha fatto diventare una ricercata e ha cercato di
uccidermi, ma ora
è tempo di smettere di scappare. Tutta questa storia della
guerra mi ha aperto
gli occhi, mi ha fatto rendere conto di quanto sia inadeguato il
governo di mia
madre, che ci trascinerà tutti nel baratro. Mio padre non
avrebbe mai permesso
una cosa simile e ora capisco perchè lei l'abbia ucciso: non
voleva che
interferisse con i suoi piani. Voglio impedire questa follia. Ma
soprattutto
voglio la mia vendetta verso Celia e verso tutti coloro che mi hanno
tradita. –
– Tutto
molto corretto Camille. Ma perchè non aspettare che tuo
fratello Daniel cresca
e prenda il potere? Risolverai tutto così. Lui
riaccoglierebbe di sicuro a
braccia aperte sua sorella. –
– Mio
fratello è piccolo, troppo, e si ritroverà con un
regno in guerra prima di
raggiungere la maggiore età, ne sono sicura. Bisogna
togliere il trono alla
Regina, e anche in fretta. Per farlo posso sfruttare questa guerra che
sta per
scoppiare, per avere l'appoggio che normalmente non avrei. Inoltre
conosco i
suoi crimini, tutti, e non sono perdonabili, da nessun uomo.
Diventerò io reggente
e poi, quando sarà il tempo, lascerò tutto a mio
fratello, come sarebbe dovuto
essere. –
C'era
sicurezza nelle sue parole e il discorso non faceva una piega. Ero
anche sicuro
che avrebbe lasciato il trono a Daniel Coverano, perchè,
dopo tutto quello che
lei stessa aveva patito, non avrebbe mai privato suo fratello di
ciò che gli
spettava. C'era una sorta di giustizia in tutto questo, e mi piaceva.
– Perché
hai chiamato me? – le chiesi e mi interessava davvero saperlo.
– Perché mi fido di
te. Due
anni fa mi hai salvato la vita, lasciandomi libera. Non eri tenuto a
farlo né
tanto meno a credermi quando ti ho raccontato cosa mi era successo.
Avresti
potuto riportarmi a Elea e lavartene le mani, mettendo rapidamente a
tacere la
tua coscienza. C'è in te più di quello che si
veda in un primo momento, Marcus
e so che se trovi giuste le mie idee mi aiuterai. Ho davvero molto
bisogno di
aiuto. –
Cavolo,
quanti complimenti. Sarei potuto arrossire persino. E di nuovo quella
ragazza
aveva ragione. Mi piaceva quello che mi stava proponendo. Inoltre
Camille era
la Principessa, membro della famiglia reale, e come mi aveva ricordato
due anni
prima la mia lealtà andava anche a lei. Se poi c'era da
scegliere tra lei e la
regina Celia, beh, non avevo dubbi. La Regina reggente aveva infangato
l'onore
della nostra Corporazione e governava come se fosse un tiranno, cose
che non mi
tiravano precisamente dalla sua parte. In più Camille mi
piaceva, inutile
negarlo. Le sorrisi, nel modo più smagliante che riuscii.
– Va bene,
mi dico convinto. Diciamo che la sviolinata potevi risparmiartela.
–
Lei
ridacchiò piano, tirandosi indietro i capelli. L'atmosfera
si rilassò.
– Qual è il
piano? – le chiesi.
– Non lo
so. Devo trovare delle prove di tutto questo da presentare agli altri
regni e
al Consiglio di Viride. C'è bisogno che almeno uno dei
trenta nobili che lo
costituiscono appoggi la mia richiesta, altrimenti sarà
tutto inutile. –
– A questo
penseremo dopo. Però Camille non possiamo fare tutto da
soli, abbiamo bisogno
di aiuto. –
Lei scosse
la testa e aprì le braccia, indicando il villaggio attorno a
sé.
– Loro mi
aiuterebbero, ma non sono sicura che sarebbe una cosa furba. Sono leali
e
coraggiosi, e mi hanno salvato la vita, ma non sono ciò di
cui abbiamo bisogno.
Molti poi hanno famiglie e non posso permettere che muoiano per me,
anche se lo
farebbero se glielo chiedessi. Hanno già patito tanto.
–
– Sì, lo
so. Infatti non pensavo a loro, – un ghigno mi si dipinse in
viso. Era venuto
il momento di rincontrare i miei amici. – Hai mai conosciuto
Jared, Andreas e
Mel? –
|
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Capitolo 5 *** V ***
CAPITOLO
V
CAMILLE
Rimasi ferma a guardare Marcus
che scriveva un biglietto da inviare ai suoi amici, mentre restavamo
seduti al
tavolo della locanda. Ferma e pensierosa. Aveva ascoltato tutta la mia
storia
senza stupirsi, con una tranquillità che non avrei mai
pensato di vedere in uno
come lui. Già due anni prima mi era sembrato un tipo
abbastanza esagitato e
rumoroso, pronto a esplodere alla prima occasione, e prima della nostra
“chiacchierata” avevo avuto la stessa impressione,
tant'è che avevo pensato di
tenermi tutto per me e di chiedere aiuto a qualcun altro. A chi, ci
avrei
pensato poi in seguito. E invece appena il discorso era divenuto
più serio
aveva cambiato espressione e atteggiamento, ascoltando attentamente e
senza
sproloquiare a caso, senza che la cosa sembrasse costargli troppa
fatica. Una
trasformazione stupefacente. Forse è questo che intende la
gente quando dice
che gli Assassini sono professionali: appena avevamo iniziato a parlare
di
“lavoro” era diventato praticamente un'altra
persona.
Mi presi il
mio tempo per guardarlo bene, come non avevo ancora potuto fare, e mi
accorsi
che non ero l'unica dei due a essere cresciuta in quei due anni. Si
era, come
dire, inspessito. Si vedevano i muscoli guizzare da sotto gli abiti, e
anche da
seduto e rilassato dava un'idea di quieta forza, come se potesse
bastare un
niente per farlo scattare. I capelli scuri cadevano su un volto che non
aveva
più il minimo segno di innocenza ma che era quasi severo
nella sua calma. Si
era fatto crescere la barba e ora un pizzetto curato gli stava sul
mento e
attorno alle labbra, donandogli un'aria più matura. Due anni
prima quando ci
eravamo conosciuti eravamo ancora dei bambini, ma non era
più così, e si
vedeva. I suoi occhi neri erano sempre canzonatori come al solito, ma
quando mi
guardavano mentre gli spiegavo tutte le mie scoperte e i miei piani
erano anche
seri e attenti, intenti ad analizzare ogni mia parola, per capire
verità e
bugie. E io gli avevo detto tutta la verità,
incredibilmente.
Mi ero
detta che non avrei dovuto, che avrei dovuto dirgli solo le cose
sufficienti
per tirarlo dalla mia parte ed obbligarlo ad aiutarmi, ma sotto quello
sguardo
non c'ero riuscita. Continuavo a vedere in lui il ragazzo che mi aveva
salvata,
e a lui non avrei mai potuto mentire. Dovevo solo sperare che la cosa
fosse
reciproca e che lui non osasse mentire a me. In tutto questo non mi
accorsi di
aver inclinato la testa, un gesto che faccio sempre quando sono molto
attenta a
qualcosa o quando sto pensando.
– A che
pensi? – mi chiese Marcus, senza alzare gli occhi dal foglio.
Mi riscossi e mi
guardai attorno, spostando la mia attenzione sulla foresta colpita dai
raggi
del sole di quella mattina.
– A niente
di particolare in verità – mi alzai e mi diressi
verso la finestra,
appoggiandomi poi con i gomiti al davanzale di legno, senza smettere di
guardare Marcus. Fu inevitabile iniziare a chiedermi quale fosse stata
la sua
vita fino a quel giorno. Io, in fondo, di lui non sapevo niente mentre
lui
sapeva tutto di me. Le mie conoscenze si limitavano al fatto che fosse
un
Assassino e che avesse, nonostante tutto, un animo onesto e gentile.
Non
pensavo che tutto ciò fosse esattamente il presupposto per
iniziare
un'avventura come quella in cui ci stavamo lanciando, e non sapevo
nemmeno se
“avventura” fosse il termine giusto per definirlo,
visto che questa parola mi
aveva sempre ispirato idee di nobiltà e onore, di
correttezza e giustizia. Non
precisamente quello che ci apprestavamo a fare, visto che la vendetta
non è
nobile, né tanto meno giusta o onorevole, ma è
terribile e crudele e non lascia
altro che vuoto dietro di sé. Ma la volevo comunque, e la
desideravo come un
assetato può desiderare l'acqua. Avrei ottenuto vendetta,
l'avevo giurato sul
sole e sulla luna, e su tutto ciò che avevo caro.
Chissà cosa
avrebbe pensato di me la me stessa bambina. Mi scappò una
risatina al pensiero
e mi guadagnai un'occhiata strana da Marcus, che ignorai
deliberatamente. Da
bimba avevo grandi progetti, pensavo che da grande avrei sposato un
uomo
bellissimo, sicuramente Principe di qualche regno lontano, che mi
avrebbe
portato via sul suo cavallo per farmi diventare Regina. Sarei stata
gentile,
educata, modesta, giusta, saggia e amorevole. La mia corte mi avrebbe
adorato e
avrei vestito abiti stupendi, con gioielli da fare invidia a qualunque
donna,
persino a mia madre. Avrei avuto tanti figli e avrei passato una vita
felice al
fianco dell'uomo che amavo.
Non avevo
mai pensato che tutto sarebbe andato storto, che avrei dovuto imparare
a
combattere e che mi sarei vestita da uomo; che avrei dovuto tingere e
tagliare
i miei capelli, i miei bellissimi capelli che erano il mio orgoglio e
il mio
vanto e che avevo ereditato da mia madre; che non avrei mai conosciuto
il mio
cavaliere dalla scintillante armatura e che sarei dovuta scappare da
casa mia
per salvarmi la vita; che avrei dovuto uccidere per riuscire a rimanere
viva.
Tutto a causa della mia incapacità di farmi gli affari miei,
come mi ripetevo
nei momenti più tristi. Forse se fossi stata un po' meno
curiosa e un po' più
docile tutto sarebbe andato bene e sarei rimasta a palazzo, immersa
negli agi,
al caldo e al sicuro. Peccato che né il fregarmene degli
avvenimenti né
l'essere docile rientrino nel mio carattere. Sono stata, se
così si può dire,
una vittima degli eventi, e la mia situazione era nient'altro che una
diretta
conseguenza di tutto quello che era accaduto due anni prima.
All'improvviso, e
nonostante tutti i miei sforzi per evitarlo, i miei ricordi tornarono
con
violenza, e di colpo non ero più in una locanda in mezzo
alla foresta con
Marcus ma ero a palazzo, sedicenne e felice della mia vita.
***
Due anni e mezzo prima, estate del 1632
Quella era
l'estate in assoluto più afosa che avessi mai vissuto. A
sedici anni non potevo più comportarmi come i miei fratelli
più piccoli che
correvano in cortile e schiamazzavano lanciandosi nelle fontane, anche
se avrei
molto molto volentieri fatto a cambio. In quel momento seguivo una
noiosissima
lezione di cucito e sentivo l'ago scivolare tra le mie dita sudate.
Anche la
mia istruttrice stava morendo di caldo, si vedeva, e quando finalmente
mi disse
che probabilmente era il caso di fermarsi un attimo per prendere un po'
d'aria
non trattenni un sospiro di sollievo.
Posai il
cerchio di legno con dentro il mio
ignobile lavoro e mi alzai contenta, correndo verso il giardino dai
miei
fratelli. Sapevo che ci sarebbe stato anche Alec, figlio di uno dei
nobili che
componeva il consiglio, che era venuto lì per controllare la
sorellina Sophie,
migliore amica di mia sorella Ottavia. Mi piaceva pensare che avrebbe
potuto
mandare un uomo qualunque della servitù ma che avesse scelto
di venire per
vedere me, e si dà il caso che Alec fosse un ragazzo
veramente molto carino.
Mi precipitai
verso il giardino e poco prima
di uscire dalle grandi porte a vetri mi rimisi a posto il vestito, per
non dare
l'idea di aver corso fino li. Non c'era niente che Alec odiasse di
più delle
persone di fretta visto che lui era pigro e indolente, e io non volevo
assolutamente
fare una brutta figura.
Uscita
all'aperto la luce del sole mi ferì
gli occhi abituati alla penombra leggermente più fresca del
palazzo. Il caldo
era terrificante, sembrava quasi di dover nuotare per
l'umidità e la mia prima
preoccupazione furono i miei capelli. Si sarebbero sicuramente
increspati
tantissimo! In pochi secondi, mentre mi passavo le dita tra le ciocche
per
darmi una parvenza di ordine, vidi Alec seduto sotto un albero. Ignorai
completamente i tre bimbi che si schizzavano poco distanti da me e gli
andai
incontro, tutta felice. Una volta che lo raggiunsi scambiammo due
chiacchiere
innocenti, ma dopo poco cadde un silenzio imbarazzante, rotto solo
dagli urli
dei nostri fratelli. Un urlo più forte del solito
richiamò la nostra attenzione
e, inevitabilmente, anche quella dei domestici di palazzo. Una donna
che avevo
visto qualche volta lavare i pavimenti degli appartamenti di mia madre
uscì di
corsa, trafelata.
–
Principessa Ottavia, principe William,
milady Sophie, vi prego, non urlate! La Regina mi ha detto di dirvi di
fare silenzio,
o sveglierete il Re vostro padre. Sta finalmente riposando ed
è molto provato
dalla notte trascorsa.”
Le bambine si
tranquillizzarono
immediatamente, chiedendo gentilmente scusa. Alec invece si
girò verso di me,
con la solita calma in viso. Pensai per un istante che più
che rilassato
sembrasse fortemente disinteressato e che mi parlasse solo per
cortesia, ma
scacciai il pensiero.
– Re
Jerome sta male? –
–
Sì, non hai sentito? Ieri non ha
presenziato a corte, era a letto. Non è nulla di grave,
almeno così dicono i
medici, e dovrebbe rimettersi in pochi giorni. –
Alec
annuì e la conversazione, di nuovo, terminò
lì. Io continuai a
guardarmi le scarpe, mentre lui faceva vagare lo sguardo sul giardino
con aria
annoiata e passammo la giornata così, a ignorarci nell'afa.
***
I giorni seguenti si succedettero sempre
uguali uno all'altro nel grande
caldo che assediava la città e purtroppo in quel periodo mio
padre non
migliorò. Io andavo a trovarlo tutti i giorni, accompagnata
da mia madre e dai
miei fratelli. All'inizio era lucido, capiva cosa dicevamo e
rispondeva. Poi,
piano piano, la situazione peggiorò. Iniziò a
diventare sempre più sensibile
alla luce, tant'è che nelle sue stanze tutte le tende erano
tirate e non era
permesso portare nemmeno una candela per vedere nel buio. Gli venne la
febbre,
alta, che non scendeva con nessun rimedio. Medici da ogni parte del
paese si
succedettero per cercare di risolvere la malattia e dargli la
guarigione, ma
nessuno ebbe ragione del suo male sconosciuto.
Mia madre in
persona, che mai si sarebbe
abbassata a fare un qualunque lavoro che non fosse fare la Regina, gli
dava da
mangiare ogni giorno, preoccupata per lui. Poi vennero la confusione,
le
convulsioni e le allucinazioni, il delirio. Ci scambiava per persone
morte anni
prima, ci diceva che eravamo noi ad ucciderlo, che insetti si
nascondevano
nelle sue coperte e lo pungevano di notte. Urlava, sbraitava parole
senza
senso, e un giorno, nonostante la debolezza, prese per il collo un
domestico
dicendo che il suo male era colpa sua, che lo aveva maledetto. Aveva
gli occhi
rossi, iniettati di sangue, le pupille dilatate. I miei due fratelli
più
piccoli smisero di andarlo a trovare, su ordine di nostra madre, dopo
che
Ottavia si mise a piangere durante una esplosione di collera di mio
padre. Quel
giorno dovettero legarlo per impedirgli di fare del male a
sé stesso o a noi.
Poi, dopo un
paio di giorni di questa
terribile agonia, mio padre si addormentò e non si
svegliò più. Le campane
suonarono per tutto il giorno, dando inizio al periodo di lutto e
applaudendo
il nuovo Sovrano. Mio fratello, il principe Daniel, era diventato
improvvisamente re Daniel e padrone di tutta Viride. Il funerale fu
lungo e
triste. Il caldo continuava a essere atroce e i vestiti neri di certo
non
aiutavano. Seppellimmo nostro padre nella Cripta dei Re, sotto il
castello, e
improvvisamente realizzai che era davvero scomparso per sempre. Non mi
avrebbe
più spettinato i capelli né chiamato la
“sua Principessa”. Non mi sarei più
sentita dire che avevo ereditato la sua intelligenza e la bellezza di
mia
madre, e che sarei stata una Regina perfetta. Non mi avrebbe
più detto che mi
voleva bene. Quel giorno e quella notte
piansi molto.
Poi, pochi
giorni dopo la cerimonia di
incoronazione di mio fratello, i medici che non avevano curato mio
padre furono
condannati a morte. I decreti presentavano la firma di re Daniel, ma
era chiaro
agli occhi di tutti che era la Regina colei che aveva preso la
decisione. Tutti
imputarono il fatto all'estremo dolore di aver perso il compagno di una
vita e
di essere diventata vedova, senza contare che l'incompetenza di quei
dottori
andava punita, quindi nessuno mosse ciglio. Questo episodio non mi
stupì più di
tanto: conoscevo mia madre e sapevo che poteva essere molto crudele.
L'avevo
sperimentato su me stessa più di una volta, durante i nostri
litigi. Quando
capitava correvo da mio padre e lui mi consolava, difendendomi davanti
alla
moglie e dandomi segretamente ragione. Ormai però lui non
c'era più e nessuno
avrebbe più difeso né me né il paese
dalle stravaganze della Regina.
***
Era ormai il
luglio del 1632, un mese era
passato dalla morte di mio padre. Mio fratello era partito alla volta
di Dimina
per conoscere Nerissa Auremore, sua futura sposa e figlia dei sovrani
di quella
regione. Io invece aspettavo che Edward Auremore, primogenito ed erede
al trono
di Dimina, si degnasse di venire a Viride per conoscermi, visto che
sarei
dovuta diventare sua moglie. Conoscevo di vista il principe Edward e
diciamo
che non mi aveva mai entusiasmato, avendo sempre di gran lunga
preferito Alec a
lui. Tutto questo, unito alla perdita di mio padre, mi aveva reso
sempre più
irrequieta e continuavo a fare pasticci a palazzo.
Quel giorno
avevo lanciato il mio telo da
cucito in faccia alla mia istruttrice e poi ero scappata: non mi
fregava
assolutamente nulla di imparare a ricamare e volevo che mia madre lo
sapesse.
Ebbene, lei lo seppe e il risultato non fu che smisi le lezioni di
cucito, ma
che fui messa in punizione e per quella sera non ebbi la cena. Mi
aggiravo
quindi come un'anima in pena per le stanze, mezza morta di fame, quando
finii
negli appartamenti di mia madre. Lei non c'era, era andata a messa
nella
cappella di famiglia portandosi dietro servi e gli altri figli, quindi
nelle
stanze non c'era nessuno e mi stupii non poco di trovare la porta
aperta, visto
che di solito in questi casi veniva chiusa a chiave.
Era inusuale
per me trovarmi in quegli
appartamenti, c'ero stata davvero poche volte e sempre accompagnata. Mi
guardai
intorno incuriosita osservando il letto, i vestiti preziosi e ordinati,
i
gioielli posati sulle cassapanche, i pettini d'avorio e i fermacapelli
d'argento. Mi spostai poi in un'altra stanza, che capii essere il luogo
dove
mia madre si faceva truccare e acconciare. Mi sedetti alla toeletta,
guardando
il mio riflesso nel grosso specchio davanti a me e frugando nei trucchi
di mia
madre. C'erano rossetti, polveri pregiate da mettere sugli occhi e
altre cose
che non avevo mai visto prima dato che non mi era stato ancora permesso
truccarmi: tutti pensavano che fossi ancora troppo piccola.
Notai, mentre
frugavo in un cassettino, un
paio di bacche sul ripiano, vicino a una boccetta piena di un liquido
rossastro. Le presi in mano e le osservai. Sembravano mirtilli, e
pensai che
fossero caduti lì magari durante la colazione di mia madre,
mentre si stava
facendo truccare e pettinare. Li misi in bocca senza pensare visto che
stavo
morendo di fame. Curiosai ancora un po', poi misi tutto a posto e me ne
andai,
tornando nei miei appartamenti.
Durante il
tragitto iniziai a sentirmi
strana, la bocca mi si fece più secca, la luce tenue delle
torce iniziò a darmi
fastidio. Pensai che fossero dolori e sensazioni passeggere, quindi non
mi
preoccupai più di tanto. Mentre camminavo mi cadde lo
sguardo su uno specchio e
vidi due pupille enormi e lucentissime, quasi stralunate, che mi
fissavano dal
vetro.
Corsi a letto
iniziando a essere leggermente
spaventata, sperando che con una buona dormita il problema si sarebbe
risolto,
quando invece peggiorò solo. Sentivo i battiti del cuore
aumentare e pensai che
non avrebbe potuto continuare a battere così tanto ancora
per molto, che mi
sarebbe uscito dal petto o che sarebbe esploso. La pelle era bollente,
mi
sembrava di stare andando a fuoco. Provai a chiamare aiuto ma non c'era
nessuno
che potesse ascoltarmi e la voce faceva fatica a uscire, quindi rimasi
a letto,
terrorizzata, senza capire cosa mi stesse succedendo.
Più
tardi nella notte iniziai a vedere cose
irreali, inquietanti: ombre passavano vicino al mio letto e fuori dalla
finestra,
serpenti strisciavano sul pavimento, insetti mi camminavano sulle
braccia. Non
chiusi occhio e il delirio mi accompagnò per tutte le ore di
buio fino a che
finalmente, quando ormai una timida alba colorava il cielo, mi
addormentai.
Mi svegliarono
al mattino e mi accorsi in
fretta che il letto era bagnato del mio sudore, però non
sentivo più il battere
furioso del cuore, né la sensazione di bruciore alla pelle,
né vedevo cose
strane per la stanza. Mi alzai in fretta e andai allo specchio
guardandomi gli
occhi in modo frenetico: le pupille erano tornate normali, alla
dimensione e al
colore abituali. Poi fu come se un lampo di luce mi accendesse la
mente,
illuminando ogni cosa con una luminosità feroce. I miei
occhi erano sempre
stati gli occhi di mia madre, di un verde smeraldo scintillante. La
somiglianza
si notava poco e il motivo risiedeva nel fatto che le pupille della
Regina
erano sempre molto grandi, nere e profonde, e limitavano il verde
dell'iride in
un piccolo circolo attorno ad esse. In un momento di confidenza, anni
prima, mi
aveva detto che nell'est, da dove veniva lei, le dame ricorrevano a
numerosi
espedienti per guadagnare quello sguardo, che le era valso il titolo di
“regina
dallo sguardo luminoso”.
Riflettei poi
su quello che avevo passato
quella notte, a come ero stata e a cosa avevo visto. Era tutto molto
simile a
quello che aveva avuto mio padre nei giorni precedenti la sua morte: il
bruciore alla pelle, la secchezza della bocca, la dilatazione delle
pupille, il
delirio, le allucinazioni. Realizzai che qualcuno aveva avvelenato mio
padre
probabilmente con le bacche -che sicuramente non erano mirtilli- che
avevo
mangiato la sera prima e, mentre pensavo queste parole, mi ricordai che
mia
madre aveva insistito per dare da mangiare personalmente al Re durante
la
malattia. Era sembrato solo un gesto premuroso ma in realtà
non era così, lo
stava avvelenando. Anche l'impiccagione dei medici non era casuale:
bisognava
impedire che qualcuno di loro riuscisse a sommare gli indizi e a capire
di chi
fosse la colpa. Nessuno lo aveva capito perché mia madre
aveva mascherato il
tutto con il suo dolore da vedova.
“Mia
madre ha ucciso mio padre” pensai
sedendomi sul letto di schianto, paralizzata. Le mani mi tremavano e il
viso
che vedevo nello specchio in fondo alla stanza era mortalmente pallido.
Cosa
potevo fare? Scappare? Era fuori questione. Se la regina Celia era
stata capace
di organizzare l'assassinio del marito senza nessuna
difficoltà allora anche i
miei fratelli erano in pericolo. C'ero solo io a proteggerli, non avrei
mai
potuto abbandonarli in balia di quella fredda calcolatrice che mia
madre si era
rivelata essere e che, in fondo, sapevo fosse sempre stata. Il filo
terribile
dei miei pensieri venne interrotto dai domestici, che mi chiamarono
nuovamente
per la colazione. Mi vestirono e mi pettinarono, ma quando la servetta
stava
per andarsene per lasciarmi sola la fermai.
–
Lina, avrei piacere di truccarmi – le
dissi, sperando di sembrare sicura di me e disinvolta, quando invece
ero solo
sconvolta.
– Ma
principessa, è presto per lei! Sua
madre la regina non sarebbe d'accordo, ne sono sicura. –
Scossi la
testa, sperando di sembrare
sconsolata.
– Lo
so, ogni volta che glielo chiedo la
risposta è sempre la stessa. Però lei
è così bella! Vorrei avere degli occhi
come i suoi. –
Lina mi venne
vicina appoggiandomi la mano
sulla spalla, nella speranza di consolarmi e sorridendo. Come se
potesse
importarmi della sua accondiscendenza o dei trucchi di mia madre. Il
mio scopo
era un altro visto che lei era la domestica che si dedicava spesso al
trucco e
all'acconciatura della Regina.
–
Principessa Camille, se posso dirlo lei ha
già gli occhi di sua madre, sono esattamente dello stesso
splendido verde.
Vedrà che anche per lei arriverà il momento di
potersi truccare. –
Con aria
disinvolta continuai il discorso.
– Non
dire bugie Lina. Conosco gli occhi di
mia madre. Sono diversi dai miei. Sono più, come dire,
luminosi e grandi. Tu sicuramente
sai di che cosa parlo – dissi, nella speranza che Lina non mi
dicesse quello
che immaginavo.
–
Avete
ragione, sono occhi particolari. Quello però è un
segreto che solo la Regina
possiede. Ogni giorno prima di presentarsi a corte si mette un collirio
particolare: è talmente prezioso per lei che nemmeno a me
è permesso toccarlo e
quando vostra madre decide di usarlo è lei stessa a
metterselo negli occhi. Si
dice che sia fatto con un'erba tipica del suo regno d'origine, che
permette di
dilatare le pupille e rendere gli occhi più profondi e
luminosi, ed è vostra
madre in persona a produrlo, con delle bacche che si fa mandare
appositamente
dal padre. –
Annuii in
silenzio e poi la congedai. Avevo
sentito quello che temevo ed ero ormai sicura che mia madre avesse
sfruttato le
proprietà di quelle bacche per uccidere mio padre il re,
approfittando del
fatto che qui fossero praticamente sconosciute. Ero angosciata. Cosa
avrei
potuto fare? A chi potevo chiedere aiuto? La Regina era una pericolosa
assassina e non si poteva sapere chi sarebbe stata la sua prossima
vittima. Mi
alzai dal mio tavolo della toeletta con questi pensieri in testa, e fu
con la
morte nel cuore che scesi nella sala della colazione dove avrei
incontrato la
regina Celia, mia madre e assassina.
***
Passarono due
settimane terribili di incubi
e angosce. Non mangiavo praticamente più nel terrore che il
mio cibo potesse
essere avvelenato e che avrei potuto fare la stessa fine di mio padre.
Perché
mia madre avrebbe dovuto fare una cosa del genere non lo sapevo, ma non
mi
fidavo comunque a mettere cibo in bocca.
Decisi che avrei dovuto prendere una
decisione e denunciare mia madre. Aveva ucciso mio padre e, oltre al
terrore
per la mia vita e quella dei miei fratelli un altro sentimento si fece
rapidamente strada dentro di me: l'odio.
Odiavo i suoi
falsi sorrisi, le sue movenze,
il suo profumo, ma soprattutto odiavo i suoi occhi. Erano sempre
lì a fissarmi,
così simili ai miei ma allo stesso tempo così
diversi, dilatati e
innaturalmente profondi, come a volermi ricordare che erano gli occhi
di
un'assassina. Non riuscivo più a vivere. Ogni ombra era una
minaccia, ogni suo
gesto o parola nascondeva per me un pericolo. Non ero mai andata
d'accordo con
lei, litigavamo molto spesso soprattutto da quando non ero
più una bambina, ed
era molto difficile che ci rivolgessimo la parola o ci considerassimo.
Mai però
avrei potuto pensare che fosse capace di un gesto simile.
Il mio problema
più grande era capire a chi
denunciarla. Nonostante tutto, era pur sempre mia madre. Per il
regicidio la
pena era la morte per decapitazione davanti alla gente di Elea e per
nulla al
mondo avrei voluto che le capitasse una cosa del genere. La soluzione
migliore
per lei era l'esilio: dal suo paese natio non sarebbe più
stata in grado di nuocere.
Pensai molto a come fare e una notte ebbi un'illuminazione. L'avrei
denunciata
al padre di Alec, Lord Arand, membro del Consiglio e fedele al Re. Un
giorno
quindi che era stato ricevuto a corte lo fermai e, in una stanza
privata, lo
misi al corrente delle mie scoperte, delle mie paure e soprattutto
della
soluzione che avevo escogitato: lui avrebbe dovuto prendere la Regina
mia madre
di sorpresa con dei soldati scelti e portarla fuori dalla
città il prima
possibile, per evitare che altro male venisse fatto.
Lord Arand fu
cortese, comprensivo e
notevolmente stupito. Mi disse che avrebbe cercato di capire se i miei
sospetti
erano fondati e che solo allora avrebbe agito. Fino a quel momento
avrei dovuto
starmene tranquilla, comportandomi come al solito. Me ne tornai nei
miei
appartamenti convinta di aver fatto la cosa giusta. Quella notte
però, successe
l'irreparabile.
Ho sempre avuto
la mania di vedere le stelle
prima di addormentarmi, soprattutto d'estate. Dalla mia camera ero
solita
uscire dalla finestra e arrampicarmi sul tetto, cosa che aveva sempre
terrorizzato
le mie domestiche. Ero lassù quando sentii il rumore
inconfondibile di una
spada sguainata che proveniva dalla mia camera. Mi immobilizzai,
rendendomi
conto del pericolo. Ci furono rumori concitati e riconobbi la voce di
Lord
Arand quando ordinò, probabilmente ai suoi uomini, che
avrebbero dovuto
trovarmi e portarmi dalla Regina madre. Aggiunse che se avessi cercato
di
lottare potevano costringermi con le cattive e che se mi fosse successo
qualcosa non sarebbe stato un problema, visto che gli ordini
provenivano
direttamente dalla regina Celia.
Dopo aver
sentito queste ultime parole
scappai. Corsi per i tetti, scalza, un po' piangendo e un po'
singhiozzando, ed
è un miracolo che non mi sia sfracellata cadendo per terra.
Ero sconvolta oltre
che dal tradimento di Lord Arand, dal tradimento di mia madre. Era
così
spregevole da voler sacrificare alla sua sete di potere oltre che il
marito
anche la figlia.
Avevo paura,
tanta, e l'unica soluzione che
avevo per sfuggire al controllo della Regina era la fuga. Non sarei
dovuta
tornare mai più e mi sarei dovuta nascondere per tutta la
vita, perchè ero
sicura che non avrebbero mai smesso di cercarmi. Corsi più
veloce che potei
fino alle stalle, dove presi un cavallo a caso e dei vestiti che non
fossero la
vestaglia che indossavo. Scappai fuori dal palazzo, approfittando del
fatto che
non erano ancora stati dati allarmi e che, in periodi di pace come
quelli in
cui vivevamo, i cancelli rimanessero sempre aperti e le guardie non
fossero
troppo attente a chi passava per la via.
Cavalcai per
tutta la notte, sentendomi come
un animale braccato. Il mio programma era di raggiungere Dimina, dove
mio
fratello era stato mandato da poco. Fuggii per giorni fino a che
finalmente
raggiunsi la città di Anadea, prima del confine, ed
è lì che avrei incontrato
il ragazzo che mi avrebbe salvato la vita.
***
– Camille,
tutto bene? –
Una voce mi riscosse dai miei
pensieri e quando scossi la testa per snebbiarmi la mente Marcus era
davanti a
me, guardandomi come se fossi improvvisamente uscita di testa. Non so
dove,
trovai la forza di sorridergli. Non mi piaceva ricordare tutto quello
che mi
era capitato.
– Sì, tutto
bene. Hai finito con la tua lettera? –
– Finito,
adesso devo solo spedirla. Che tu sappia c'è un posto qui da
dove posso farlo?
–
Gli dissi
di seguirmi, e uscimmo nel sole fuori dalla locanda. Feci un bel
respiro,
riempiendomi i polmoni di aria pulita e calmandomi. Ci incamminammo e,
mentre
mi seguiva, iniziò a parlarmi del più e del meno,
come se non fossi una Principessa
ma semplicemente una sua vecchia amica. Mentre lo ascoltavo sorrisi di
nuovo,
questa volta spontaneamente, felice che nel mondo ci fosse almeno una
persona
di cui potessi fidarmi.
|
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Capitolo 6 *** VI ***
CAPITOLO VI
CAMILLE
Dopo aver spedito la
lettera
io e Marcus aspettammo. All'alba del terzo giorno decidemmo di
allontanarci dal
villaggio sepolto nella foresta per dirigerci verso il punto di
incontro con
gli altri Assassini. In tutto questo tempo mi stupii di quanto bene mi
trovassi
con Marcus. Parlammo di molte cose: del passato, del futuro, dei nostri
sogni e
dei nostri desideri, e mai con nessun altro avevo avuto un'intesa del
genere.
La cosa oltre a meravigliarmi mi fece preoccupare non poco,
perché di tutto
avevo bisogno tranne che di prendermi una cottarella per un Assassino
del Re,
non importava quando bello, intelligente e simpatico fosse.
Decisi
quindi in pochi momenti di tenere a bada i miei pensieri e di uccidere,
se così
si poteva dire, le farfalle che da un paio di giorni a quella parte
sentivo
ronzarmi fastidiosamente nello stomaco. Arrivai ad un punto in cui mi
arrabbiai
persino con me stessa: come cavolo era possibile iniziare a provare
qualcosa
per qualcuno in così poco tempo? Non sono mai stata una
ragazza “leggera” e gli
ultimi sentimenti che non fossero di indifferenza o di mera
curiosità che mi
ricordavo di aver provato per un individuo del sesso opposto erano
stati
rivolti ad Alec. Quello stesso Alec il cui padre mi aveva tradita in
maniera
così brutale e inaspettata.
Nei due
anni passati avevo avuto problemi di tutt'altro tipo. Decisi quindi di
ignorare
le mie emozioni e di farmi passare al più presto quella
inutile sensazione, che
non serviva a nulla se non a complicarmi ulteriormente la vita. Come se
ne
avessi bisogno. E poi avevo cose più importanti a cui
pensare che non alla mia
vita amorosa.
Cavalcammo
per una giornata fino ai confini della Foresta della Luce e ci fermammo
per
dormire all'addiaccio fuori da una piccola cittadina al limitare del
bosco.
Proposi di fare dei turni di guardia visto che c'erano ancora persone,
sebbene
poche, che mi cercavano, e come si dice la prudenza non è
mai troppa. Marcus si
dichiarò d'accordo e, anche se non lo disse, sapevo
benissimo che aveva la
sensazione che i cavalieri di Sir William di Hale lo stessero ancora
cercando
per fargli la pelle.
La notte
passò tranquilla e il mattino seguente ci dirigemmo verso il
paesino, più
precisamente verso la piazza principale, sempre che piazza la si
potesse
chiamare. Era più un piccolo spiazzo di terra battuta al cui
centro stavano
delle recinzioni che ospitavano mucche e pecore, e sia il rumore che
l'odore
erano terribili. Aspettammo lì per buona parte del
pomeriggio, senza che
nessuno si facesse vivo.
Tornammo il
mattino dopo e di nuovo aspettammo fino a che, dopo un paio d'ore, tre
persone
si avvicinarono a noi dalla via principale, rilassate e portando i
cavalli per
la briglia. Mi voltai a guardare Marcus e vidi che aveva un ghigno
stampato sul
viso, da che capii che si trattava finalmente dei suoi amici. Se
l'erano presa
abbastanza comoda.
– Ehilà
Marcus, qual buon vento! Anche tu qui? – disse uno dei tre,
quando furono
abbastanza vicini da sovrastare i muggiti e i rumori dei campanacci che
provenivano dal recinto dietro di noi.
– Anche io
sono felice di vedervi ragazzi – disse Marcus e nel contempo
portò una mano
sulla spalla di uno di loro, in un gesto amichevole. Passò
qualche minuto di
conversazione banale, in cui si presero in giro, si scambiarono battute
e parlarono
di amenità. In tutto ciò io stavo lì,
in silenzio, a braccia incrociate,
aspettando che Marcus decidesse di presentarmi o almeno desse segno di
ricordarsi della mia presenza. Ebbi
però
il tempo di osservarli bene e decisi che così, a prima
vista, quei ragazzi mi
piacevano. Non avevano alcun rispetto per gli orari, ma erano tutti
alti e ben
piazzati, con un fisico che ricordava molto quello di Marcus, e
sembravano
sicuri del fatto loro. Li guardai uno per uno.
Il primo,
quello che ci aveva salutati appena arrivato, aveva lucenti capelli
argentati e
intensi occhi blu. Sembrava sicuro di sé e aveva un viso con
dei lineamenti
molto delicati, come se fossero cesellati. Rideva ad alta voce ed era
decisamente rumoroso, noncurante del fatto che qualcuno avrebbe potuto
notarlo
facilmente visto che comunque sia io che, momentaneamente, Marcus,
eravamo
ricercati. Non propriamente il ritratto dell'Assassino che uno potrebbe
immaginarsi, mentre era più il tipo di ragazzo per cui una
ragazza avrebbe fatto
follie e devo ammettere che era davvero un piacere per gli occhi
guardarlo.
Di fianco a
lui c’era un ragazzo di poco più basso ma comunque
ben proporzionato, con
espressione contenta e un sorriso solare sul viso. Mi dava
l'impressione di
essere molto dolce, tranquillo e serio, e gli Dei solo sapevano quanto
bisogno
avevamo di serietà in quello che ci accingevamo a fare. In
qualche misura mi
ricordava il mio fratellino più piccolo, William, e un
sorriso mi si aprì sul
volto. I capelli castani erano raccolti in un codino, e gli occhi
ambrati
brillavano di intelligenza.
L'ultimo
ragazzo era un po' più indietro ed era l'unico che da quando
eravamo arrivati
mi aveva osservato con insistenza, analizzandomi. Sostenni il suo
sguardo senza
preoccuparmi, con baldanza, anche se devo ammettere che nel profondo
ero un po'
intimorita da tutta quella attenzione. Era molto serio e solo quando si
riunì
alla conversazione dei suoi amici si lasciò andare,
aprendosi in un sorriso che
ne ammorbidì i lineamenti. Solo allora mi resi conto di aver
trattenuto il
fiato e lasciai andare un sospiro mentre continuavo a osservarlo. I
capelli
biondi ricadevano sugli occhi verde scuro, quasi neri, e ogni tanto se
li
scostava con un colpo deciso delle mani. Aveva dei lineamenti molto
duri, ma
stranamente armoniosi e belli, anche se un poco inquietanti. Dei
quattro, mi
sembrava quello più spaventoso, uno che avrei avuto paura a
incontrare di notte
in un vicolo buio.
– Allora,
spiegaci. Perché ci hai fatto correre fino a qui con
così tanta urgenza? –
chiese a Marcus il ragazzo con gli occhi color ambra.
– E
soprattutto dicci chi è questa bella donna che ti porti
dietro – aggiunse
quello con i capelli argentati, guardandomi. Io alzai le sopracciglia e
incrociai le braccia, pensando che, Assassini o no, i maschi sono
sempre
uguali. Marcus rise di una risata leggera, indicandomi.
– Lei,
signori, è Camille Coverano, Principessa di Viride.
–
La prima
cosa che vidi nei loro occhi fu incredulità, seguita da
sgomento. Poi il
ragazzo dagli occhi blu si mise a ridere, guardandomi.
–
Sicuramente! – esplose. Smise di sghignazzare solo quando si
accorse che né
Marcus, né io e nemmeno gli altri due ci eravamo uniti alle
sue risate.
Il ragazzo
con i capelli castani invece chinò graziosamente la testa.
– Principessa
Camille, sono onorato di fare la vostra conoscenza. Il mio nome
è Andreas;
l'indelicato, qui, – e indicò il ragazzo che aveva
appena smesso di ridere e mi
guardava come se avesse visto un fantasma. – È
Jared, mentre lui, – disse,
mettendo una mano sulla spalla del ragazzo biondo e inquietante.
– È Mel. –
– Il
piacere è tutto mio, Andreas. Sono lieta di conoscervi,
Marcus mi ha parlato
tanto di voi. –
Ero stupita
da tanta cortesia. Da un gruppo di Assassini mi sarei più
che altro aspettata
battute volgari e pacche virili sulle spalle. Marcus in tutto questo
ridacchiava tra sé e sé, scuotendo la testa e
guardando Jared con l'espressione
di chi ha perso le speranze.
– Vi prego
però di chiamarmi solo Camille. E datemi pure del tu, direi
che in questo caso
non c'è bisogno di rispettare l'etichetta –
continuai.
– No, direi
di no. Però, Marcus, tralasciando lo stupore provocato
dall'apparizione di sua
Altezza Reale qui, spiegaci cosa sta succedendo per averci fatto
chiamare con
così tanta urgenza – precisò il ragazzo
biondo. Mel, mi ricordai, si chiamava
Mel. Era la prima volta che parlava e aveva un tono calmo, controllato,
serio,
molto diverso da quello che mi sarei aspettata da uno come lui. Mi
tranquillizzò enormemente e non saprei dire
perché. Notai distrattamente che
aveva una lunga cicatrice biancastra sul lato destro del collo, che
immaginai
essere stata provocata dal lavoro poco ortodosso che quei quattro
facevano da
quando erano ancora dei bambini.
– Sicuramente.
Ma questo forse non è il posto adatto. Spostiamoci fuori
dalla città, lontani
da occhi e orecchie indiscrete, che ne dite? – propose Marcus
e tutti
annuirono, me compresa. Avevamo rischiato molto entrando nella
cittadina visto
che di solito le persone non tendono a farsi gli affari propri,
soprattutto
quando cose strane accadono sotto i loro occhi. La curiosità
è una brutta
bestia. Dopo mesi passati al sicuro nella Foresta della Luce tutto
quello
spazio abitato da gente sconosciuta mi metteva poco a mio agio, una
sensazione
di pericolo imminente mi pesava sulle spalle.
Ci
dirigemmo quindi con mio enorme sollievo di nuovo verso il limitare del
bosco,
posto che di solito si tendeva a evitare per paura di briganti e
fantasmi. In
tutto questo il mattino si faceva sempre più inoltrato e la
calda luce dell'autunno
colorava gli alberi e i prati. Mentre pensavo ai miei problemi e agli
affari
miei, venni avvicinata dal ragazzo di nome Andreas, che
rallentò il passo per
distanziarsi dai suoi amici poco davanti a me. Solo dopo che qualche
minuto fu
passato si decise ad aprire la bocca, forse per interrompere il
silenzio
imbarazzato che si era venuto a creare. Non che a me i silenzi diano
fastidio,
anzi. Appartengo a quella categoria di persone che di solito li cercano
nelle
conversazioni per riposare la mente e organizzare le idee.
– E quindi
voi siete la principessa Camille, – si fermò,
guardandomi come alla ricerca di
qualcosa da dire. – Nei bandi per la vostra ricerca avevate i
capelli rossi. –
– Questo
non è il mio colore naturale, li ho tinti molto tempo fa, su
consiglio di Marcus.
E dammi del tu, davvero. –
– Sì,
scusami, la forza dell'abitudine. Hai fatto bene, sei meno
riconoscibile così.
–
– Lo so. Ma
dubito che tu sia qui per parlarmi del colore dei miei capelli, o
sbaglio? –
Ridacchiò e
la cosa gli fece onore. Poco distante da noi Marcus, Jared e Mel
chiacchieravano amabilmente, ridendo ogni tanto e portando a mano i
loro
cavalli.
– Hai
ragione. Voglio solo assicurarmi che tu non ci stia ingannando tutti.
Marcus è
intelligente, ma ha un debole per le belle ragazze, soprattutto se
queste sono
in difficoltà. Ha una sorta
di tendenza a fare l'eroe delle storielle
romantiche. Sai, tipo principe azzurro che salva la donzella dal mago
cattivo.
Non vorrei mai che tu ti stia approfittando del suo buon cuore.
–
Risi io questa volta, soprattutto
perché mi immaginai Marcus in calzamaglia azzurra che
cercava di scalare una
torre per salvare una damigella urlante. Però mi
stupì molto la sincerità di
Andreas, in un modo del tutto positivo. Non sono molti quelli che hanno
il
coraggio di venirmi a chiedere conferme quando affermo di essere la
primogenita
dei Coverano. Ma forse c'entra il fatto che le persone a cui lo abbia
detto si
contano sulle dita di una mano.
– Non mi ci
vedo nel ruolo di pulzella in pericolo. E mi dispiace, ma sono davvero
chi dico
di essere. Non fosse così vivrei con molta più
tranquillità la mia vita e di
sicuro non avrei il desiderio di mettermi in situazioni suicide,
fidati. –
Lui annuì,
accarezzando il muso del suo cavallo.
– Mi fido,
ma era una possibilità che dovevo verificare. Immaginavo
già da un po' che due
anni fa a Marcus fosse capitato qualcosa di strano, ma mai avrei
pensato una
cosa del genere. Incontrare, tra tutte le persone del mondo, proprio
te. E
decidere di lasciarti andare. Non mi stupisce il fatto che al suo
ritorno fosse
particolarmente silenzioso. Deve essere rimasto molto colpito dalla tua
storia,
visto che non ne ha fatto parola nemmeno con noi. E noi parliamo di
tutto. –
– Quindi non
sei particolarmente stupito? –
Lui rise.
Aveva davvero una bella risata, piena e solare, che ti faceva venire
voglia di
unirti a lui.
– Sì, sul
momento mi sono estremamente stupito. Ma pensandoci bene in fondo in
fondo mi
aspettavo qualcosa del genere. Mi sarebbe solo piaciuto sbagliarmi, per
una
volta. –
Lasciai correre la palese
arroganza dell'ultima frase e abbandonammo l'argomento, iniziando a
parlare del
più e del meno. Ero stranamente a mio agio e Andreas
sembrava interessarsi alle
mie idee e ai miei pensieri in un modo che mi invogliava a parlare con
lui e a
confidarmi. Gli dissi delle cose che difficilmente avrei raccontato ad
un
ragazzo conosciuto da nemmeno venti minuti e che nessuno oltre me
sapeva, ma mi
ispirava fiducia. Lui, invece, mi raccontò della sua vita
prima di diventare Assassino,
e apprezzai davvero molto che avesse deciso di parlarne con me. Avrebbe
benissimo potuto evitare. Continuammo quindi a chiacchierare
amabilmente fino a
che raggiungemmo il limitare del bosco.
Entrammo
nella foresta e, dopo aver cercato un posto adeguato, ci sedemmo su
alcuni
massi che stavano lì e che sembravano quasi messi apposta.
Lasciammo liberi i
cavalli di pascolare tranquilli poco distante da noi, brucando l'erba e
nitrendo piano.
– Allora,
adesso che siamo seduti e non c'è il rischio che nessuno ci
ascolti, ci volete
spiegare? – chiese Jared, guardando alternativamente me e
Marcus. L'Assassino
mi guardò e io annuii con il capo per dargli il permesso di
raccontare, anche
perché tutto volevo tranne che ripetere di nuovo la mia
storia. Preferivo
ascoltare.
Marcus
disse tutto quello che sapeva, non omettendo nulla, partendo dal nostro
primo
incontro due anni prima fino ad arrivare a quello che gli avevo detto
quando lo
avevo liberato dalla prigione del villaggio nascosto. Ogni tanto
intervenivo giusto
per precisare qualcosa o per aggiungere qualche dettaglio, ma in linea
di
massima se la cavò bene.
Nel
frattempo osservai le facce dei nostri interlocutori, le cui
espressioni
variavano da una curiosità moderata,
all'incredulità, all'orrore, allo sconvolto.
Potevo capire e comprendere ognuna di queste emozioni. Sentirsi franare
addosso
tutte le informazioni che Marcus gli stava dando non doveva essere una
cosa
troppo facile da gestire. Solo in quel momento mi resi conto di quanto
Marcus
stesso avesse dato prova di un autocontrollo non indifferente quando
gli avevo
raccontato ciò che sapevo, visto che aveva ascoltato tutto
senza alzarsi e
strepitare o dandomi della bugiarda.
Finito il
monologo ci fu silenzio. Un silenzio protratto, in cui si sentivano
solo il
rumore del vento tra gli alberi e dei cavalli poco distanti da noi.
Capii che
serviva loro un po' di tempo per pensare bene a tutto quello che
avevano appena
ascoltato, per metabolizzare, cercare di capire e, soprattutto,
decidere se
fidarsi. Non un affare da poco. Marcus mi aveva già
conosciuta e sapeva chi
ero, per loro invece ero semplicemente una ragazza che diceva di essere
Camille
Coverano e meditava un colpo di stato. Avrei potuto essere una pazza
con manie
di protagonismo che aveva deciso di approfittarsi di loro. Dopo minuti
spesi a
guardare i fili d'erba, mentre una sgradevole sensazione di ansia si
faceva
strada dentro di me, interruppi il silenzio.
– Allora,
mi aiuterete? –
Tre paia di
occhi si sollevarono, non per guardare me ma verso Marcus, in una muta
richiesta.
– Io mi
fido di lei e ho deciso che, per quanto sarà in mio potere,
la aiuterò. Voi
potete fare quello che volete, non c'è nessun obbligo. Se
decideste di non
aiutarci, amici come prima. Vi chiedo solo, in questo caso, di non
raccontare a
nessuno ciò che è stato detto qui. –
Jared
sbuffò.
– Se tu ti
fidi, noi ci fidiamo. Ci saremo dentro insieme, come sempre. –
Andreas
annuì, sogghignando e guardandomi. Persino Mel, che avevo
capito essere il più
laconico, si fece scappare un “come sempre”
convinto. Tirai un sospiro di
sollievo, rilassando i muscoli delle spalle. Non mi ero nemmeno resa
conto di
quanto fossi tesa. Avevo davvero bisogno del loro aiuto, più
di quanto mi
piacesse ammettere. Ma c'era ancora una
precisazione che andava fatta.
– Devo
dirvelo: quello che stiamo facendo è tradimento e la pena
per il tradimento è
la morte. Siete pronti a correre il rischio? –
Le mie
parole caddero come un sasso nell'acqua e solo quando i cerchi
immaginari
scomparvero fu, stranamente, Mel a rispondermi.
– È
tradimento solo se non otteniamo ciò che vogliamo.
–
Stupida io che avevo pensato
che lo spauracchio della pena capitale potesse far cambiare idea a
uomini come
loro. La morte era il loro mestiere, erano abituati ad affrontarla
senza eccessiva
preoccupazione da sempre.
– Allora,
qual è il piano? –
– Ecco,
bella domanda – dissi. Non sapevo nemmeno da che parte
iniziare. Mi ero
sforzata di dare l'immagine di una donna sicura di sé quando
invece non sapevo
niente ed ero anche piuttosto agitata. Sperai che questo non influisse
troppo
sull'idea che si erano fatti di me.
–
Ragioniamo, – iniziò Marcus. – Sappiamo
che qualcosa si sta muovendo tra qui e
Dimina. Mobilitazioni di eserciti, esercitazioni, genieri che vengono
richiamati e così via.
Sappiamo che molto probabilmente la Regina ha le mani in
pasta tutti questi affari. Dobbiamo trovare delle prove, convincere
qualcuno
del Consiglio che siamo in buona fede e che è tutto vero, e
tirarla giù dal
trono. A cui peraltro sembra attaccata come una cozza allo scoglio.
–
– Più
facile a dirsi che a farsi, – si intromise Jared. –
Se sono un minimo
intelligenti non ci saranno prove tangibili. Dovremo ottenere delle
confessioni, per forza, ma non saprei da chi poter incominciare.
Insomma, non
possiamo entrare a palazzo e prendere prigioniera la Regina, no?
–
– Direi di
no. Potrebbe essere un pochino difficoltoso – dissi
ironicamente, anche se il
pensiero di mia madre imprigionata e resa impotente mi rendeva
più felice del
dovuto.
– E poi
trovalo un nobile che non sia schierato dalla parte della regina. Sono
solo
trenta, se li sarà scelti bene. Probabilmente li paga
perché non siano di
troppo intralcio – aggiunsi.
– A quello
penseremo quando avremo trovato qualcosa che possa dimostrare
ciò che sta
succedendo. Una cosa per volta – si intromise Andreas.
Iniziammo
in fretta a discutere sul come avremmo fatto a trovare le prove che ci
servivano e per questo avevamo cinque opinioni diverse. I toni di voce
salirono
e iniziammo a parlare uno sopra l'altro per imporre la nostra idea e
per farci
ascoltare. Eravamo solo cinque e stavamo facendo un macello. Un inizio
così non
prometteva per niente bene.
– Aspettate.
Stiamo considerando la questione dal punto di vista sbagliato.
–
Andreas
aveva parlato e tutti si zittirono di colpo, così che quella
che stava urlando
come una disperata ero solo più io. Tacqui in fretta e
Marcus mi si avvicinò,
bisbigliandomi in un orecchio che quando Andreas aveva un'idea la cosa
migliore
da fare per tutti era ascoltare, perché di solito aveva le
soluzioni di tutti i
problemi.
– Non
possiamo prendere in considerazione di dimostrare a tutti che una
guerra sta
per scoppiare, sarebbe troppo complicato e troppo lungo. E poi, visto
che
Viride sarebbe dalla parte vincente, nessuno ci troverebbe nulla da
ridere.
Abbiamo bisogno di una soluzione tempestiva, – tacque per
qualche istante. – Secondo
me dobbiamo concentrarci sull'omicidio all'interno della famiglia
reale. È
l'unica cosa che possa scandalizzare a sufficienza da generare una
reazione. –
– Ma non
sappiamo se sia stato davvero organizzato dalla Regina –
obiettò Mel.
– Non ne
abbiamo la certezza ma io sono abbastanza sicuro che sia tutto opera
sua.
Pensateci! É l'unico membro della famiglia reale che era in
vita sia al momento
della morte improvvisa e sospettosa del Principe ereditario e dei due
figli,
sia quando re Jerome è stato, come provvidenzialmente
provato da Camille,
ucciso. E sempre Camille ha dimostrato che il Re è stato
senza dubbio
avvelenato da lei. Credete davvero che una donna in grado di uccidere
marito e
figlia non possa ordire l'omicidio del cognato? –
– Ah, io
non avevo dubbi su questo – commentai. Ero sicurissima che la
colpa di tutti
quegli assassini ricadesse su mia madre. Se fosse stato per me le avrei
anche
accollato il suicidio di Helen, di cui non era responsabile a livello
effettivo
mentre lo era sicuramente a livello morale.
– E poi, –
continuò Andreas. – Mi pare di aver capito che la
regina Celia sia molto molto
ambiziosa. Con la morte provvidenziale di Adrian Coverano e figli, il
cui nome
ora mi sfugge... –
– Ian e
Nathaniel – gli suggerì Mel, stupendomi molto
visto che mai avrei pensato che
conoscesse i nomi dei morti della mia famiglia. Non si parlava di loro
da anni,
né a corte né tanto meno nelle città,
e nessuno si cura particolarmente di
persone venute a mancare anni prima. I veri problemi erano altri, come
avevo
avuto modo di capire.
Andreas
zittì Mel con un cenno delle mani, continuando a parlare.
Aveva un sorriso
stampato sul volto e negli occhi una luce eccitata.
– Sì, va
bene, chi se ne frega. Il fatto è che con le loro morti
è salita al trono come
Regina. Mi sembra un fattore rilevante. E da allora ha cercato di
mantenerlo e
di estendere il proprio dominio. –
Ci fu un momento di silenzio
attonito, pensoso. Erano tutte cose a cui avevamo già
pensato, sia io che
Marcus.
– A questo
ci eravamo già arrivati, – sopraggiunse Marcus,
accigliato. – Non vedo dove sia
la grande soluzione. –
– Ma non capite? Dimostrando
che la Regina è la mandante di tutti quegli omicidi la
rendiamo colpevole di
uno dei crimini più odiosi che si possano commettere. Non
credo potremo mai
ottenere le prove dell'uccisione di re Jerome visto che i medici non
hanno
riscontrato nemmeno una traccia di avvelenamento e sono tutti diventati
cibo
per i corvi. È probabile che la regina abbia fatto tutto da
sola, senza aiuti,
e allora sarebbe la nostra parola contro la sua; ma forse possiamo
risalire a
chi sa qualcosa della morte di Adrian Coverano e famiglia. –
– Intendi
l'uomo di Dimina? La guardia che ha catturato Camille? –
– Proprio
lui. E c'è di più – continuò.
– Che c'è
di più? Sappiamo da dove iniziare, a me basta questo
– disse Jared ridendo e
dando ad Andreas una pacca sulla spalla.
– C'è di
più perché possiamo sfruttare il fatto che una
guerra stia per scoppiare.
Andando ad avvisare i regnanti di Cesia, Albis e Semele potremo
garantirci un
appoggio in caso di colpo di stato, che è, in effetti,
quello che stiamo
andando a fare. –
Il tutto
aveva molto senso, ed espressi ad alta voce la mia opinione. Ero
favorevolmente
stupita da quei quattro. Iniziai finalmente a sperare che forse sarei
riuscita
ad ottenere ciò che volevo ed era mio di diritto. Una
speranza, una sola, tenue
e fioca, ma pur sempre una speranza. Era più di quanto avevo
da molto tempo a
quella parte.
– Quindi...
Dimina? – chiesi, con un sorriso sul volto. Da preda, mi
stavo trasformando a
cacciatore.
– Dimina –
mi rispose Marcus, sorridendo.
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Capitolo 7 *** VII ***
Ciao
a tutti! Chiedo
perdono per il ritardo, ma purtroppo la sessione esami incombe e quindi
il
tempo da dedicare alla scrittura è diminuito. Spero
però che questo non abbia
rovinato il capitolo, che è venuto (stranamente)
più lungo del solito, anche se
non capisco tanto bene perché. Comunque, oltre tutte le mie
paranoie, non mi resta
che augurarvi buona lettura!
CAPITOLO VII
MARCUS
Dire che il viaggio per Dimina
è stato terribile è riduttivo. Dalla Foresta
della Luce ci spostammo a gruppi
di due verso Eleusi, città portuale, e fino a lì
le cose andarono bene. Nessuno
ci diede fastidio e non incontrammo troppi problemi, a parte un ferro
di
cavallo perduto da qualche parte; tutto sommato fummo anche abbastanza
rapidi.
Il tragico
iniziò quando prendemmo la nave. Il nostro capitano, un uomo
burbero, grasso e
anche abbastanza puzzolente, ci fece pagare il nostro peso in oro per
trasportarci. Ci dovemmo piegare a quel furto solo perché
sembrava un uomo
abbastanza privo di scrupoli da poterci dare un passaggio senza visto e
senza
crearci problemi, cose che, al giorno d’oggi, non devono
essere sottovalutate.
Il vero
inferno è stato per mare. Fortunatamente tra Viride e Dimina
ci sono solo un
paio di giorni di viaggio, ed era un tragitto che bene o male io e i
miei amici
avevamo già percorso. In autunno però il mare non
è calmo come d’estate, ma
anzi, sembra desideroso di sbatterti negli abissi e di lasciarti
lì. Ci siamo
fatti sballottare per due giorni da una parte all’altra
dell’indecente
bagnarola su cui ci trovavamo e stare in sottocoperta equivaleva a
voler morire
di nausea o, in alcuni casi, annegati nel proprio vomito.
Persino
alcuni membri dell’equipaggio ci dissero che, per il periodo
in cui eravamo,
trovare un mare così agitato era un evento eccezionale, ma
loro in una
situazione del genere ci sguazzavano. Noi cinque, invece, eravamo messi
un po’
peggio. Camille era di un colore verde decisamente malato e fissava con
occhi
stralunati il ponte, forse nella speranza di indurlo a rallentare il
suo ondeggiamento.
Ogni tanto faceva un respiro molto profondo, probabilmente per tenere a
bada la
nausea. Inutile dire che la sua regalità andò
tutta a farsi benedire –è
difficile farsi vedere come un dio sceso in terra quando il tuo vomito
ha lo
stesso colore del mio– ma questo contribuì solo a
farla vedere più umana. Il
suo colorito verdastro però non intaccava la sua bellezza,
almeno per me. Anche
se forse un incarnato più roseo le sarebbe stato meglio.
Jared, che soffre
i viaggi in mare persino quando questo è una tavola,
vomitava a getto continuo.
Giuro, non ho mai visto una cosa del genere e gradirei non vederla di
nuovo. Sembrava
inarrestabile. Dopo i primi momenti di sfottò abbiamo
persino iniziato a
preoccuparci e a provare pena per lui: ha passato due giorni
praticamente
appeso alla paratia, senza riuscire né a mangiare
né a bere. E a differenza di
Camille la sua bellezza ne risentiva eccome: dubito che qualche ragazza
avrebbe
potuto trovarlo affascinante in quelle condizioni.
Andreas
aveva perennemente in mano una cima per evitare di cadere fuori bordo,
e questo
la diceva lunga. Aveva persino assicurato Jared all’albero
maestro, per
impedire che in una delle sue acrobazie per evitare di vomitarsi
addosso non
finisse in mare con tutte le scarpe. Anche perché poi
trovarlo con un tempaccio
del genere sarebbe stata un’impresa non da poco.
Però in generale Andreas
sembrava sopportare bene, anche se non mangiò nulla per
tutto il tempo della
traversata.
Io, dal
canto mio, ero stato in situazioni migliori. Non ho mai patito
particolarmente
il mal di mare, ma in quelle condizioni sentivo lo stomaco in gola e un
gusto
amaro mi saliva in bocca. Vomitai un paio di volte, in silenzio e
orgogliosamente da parte, per evitare che qualcuno, o forse solo
Camille, mi
vedesse. Il tutto era reso ancora più fastidioso dal fatto
che i dannatissimi
marinai zompettavano sul ponte e saltavano da una cima
all’altra come se
fossero delle maledette scimmie. Nessuno di loro, a differenza nostra,
era
verdino, e sono sicuro di non averne visto nemmeno uno vomitare, anzi.
Bevevano
per tutto il tempo come delle spugne, asciugandosi poi la bocca sulle
maniche e
tornando a fare quello che stavano facendo con scioltezza. Il
comandante ogni
tanto usciva dalla sua cabina con in mano una bottiglia, osservava la
situazione, urlava qualche ordine e se ne tornava da dove era arrivato.
Di noi,
quello messo meglio invece era Mel. Se ne stava appoggiato davanti alle
cabine,
ondeggiando insieme alla barca, senza dare segni di disagio.
Parlò poco, quello
sì, ma non che Mel sia mai stato un grandissimo
chiacchierone. Guardava il mare
quasi con sprezzo, e si puliva le unghie con un coltello. Un paio di
volte
Jared gli disse di fare attenzione, che rischiava di perdere un dito,
ma fu
sempre interrotto da improvvisi conati di vomito. Non una cosa
bellissima da
vedere. Mel invece non perse nessun dito e riuscì persino a
mangiare; in più,
quando la bottiglia di rum dei marinai gli passava davanti, non
disdegnava di
darci un sorso. A me al solo pensiero si attorcigliava lo stomaco, ma
Mel ha
sempre avuto più stomaco di tutti noi messi assieme per
l’alcol.
Quando
finalmente iniziammo a intravedere in lontananza una parvenza di
città, tirammo
tutti un sospiro di sollievo. Jared riuscì a resistere un
paio di minuti senza
rimettere e andò quasi immediatamente a sdraiarsi un attimo,
per recuperare un
po’ di sonno. Andreas sciolse le cime che lo legavano e
andò a fare due
chiacchiere con i membri dell’equipaggio, e Camille si
accasciò su una panca
davanti alla cabina del capitano. Mentre io guardavo il panorama
–Dimina è
sempre stata una terra bellissima– Mel mi
si avvicinò.
– Lo sai
vero, quello che dobbiamo fare? –
–
Illuminami – gli dissi guardandolo, anche se sapevo
già cosa volevo dirmi.
– Bisogna
uccidere il capitano. –
Sospirai.
L’avevo già pensato nel momento in cui
l’avevamo pagato. Un uomo come quello,
che ci aveva trasportato in maniera illegale senza battere ciglio solo
grazie
al denaro, difficilmente si sarebbe fatto problemi a venderci per una
somma maggiore.
E oramai io e i miei amici eravamo sicuramente ricercati dalla
Corporazione,
visto che mancavamo all’appello da più di una
settimana e non c’erano state
assegnate missioni troppo difficili. Avrebbero iniziato a cercarci e
quando si
tratta di disertori l’Alto Comando non bada a spese.
– Dici che
ha capito che nascondiamo qualcosa? – domandai a Mel. Per
precauzione avevamo
dismesso i vestiti neri della Corporazione per qualcosa di
più sobrio e meno
riconoscibile, ma forse non era bastato.
– È brutto,
Marcus, ma non credo sia anche stupido. Appena gli arriverà
la notizia che
siamo ricercati, perché sai meglio di me che gli
arriverà, farà due più due. E
così noi saremo tutti morti mentre lui si godrà
bellamente i soldi nostri e
quelli del Comando. –
Chiusi gli
occhi. Non mi è mai piaciuto uccidere così a
caso, soprattutto innocenti. Per
quanto losco e imprevedibile potesse essere, il capitano si era
comportato
correttamente con noi e ci aveva portato a Dimina sani e salvi anche
se, almeno
nel caso di Jared, con un buon numero di liquidi in meno nel corpo.
Però sapevo
che Mel aveva ragione, non potevamo rischiare.
– E
immagino che debba farlo io il lavoro sporco, vero? – mi
uscì una voce più
lagnosa di quanto avrei voluto.
– Beh, ci
hai tirato tu in questa storia, – mi disse Mel, ridacchiando
e dandomi una
pacca sulla spalla. – Se hai bisogno di aiuto fai un fischio.
–
Sbuffai di
nuovo, incrociando le braccia e appoggiandomi alla paratia, guardando
il mare e
pensando. Avrei aspettato l’attracco e la discesa a terra
prima di agire. Non
mi piaceva l’idea di ucciderlo ancora sulla nave, i marinai
di sicuro si
sarebbero fatti domande. I marinai… chi ci garantiva nulla
sul loro conto?
Avrebbero potuto benissimo tradirci loro, senza passare tramite il
capitano.
Nessuno avrebbe potuto impedirglielo e io non potevo di sicuro fare una
carneficina. Non che non ne avremmo avuto le capacità se ci
fossimo messi tutti
e quattro, ma mi sembrava un tantino eccessivo. Potevamo solo contare
sul loro
silenzio, sperare che sarebbero stati grati che qualcuno gli togliesse
un
rognoso capitano dai piedi, e soprattutto pregare che non collegassero
mai i
nomi dei ricercati ai nostri. In effetti, loro non sapevano chi
eravamo. Non
eravamo quattro, come i ricercati dal Comando, ma cinque, con una
donna.
Ignoravano che non avessimo presentato documenti, quindi probabilmente
nelle
loro teste era tutto a posto. Non si sarebbero fatti troppe domande, ne
ero
abbastanza sicuro.
Questi
pensieri mi impegnarono tutto il tempo impiegato per avvicinarci al
porto. La
città di Melusine è la capitale
d’estate di Dimina e gli Auremore si
stabiliscono qui solo in quel periodo.
Il porto,
come tutti i porti, era pieno di persone di tutte le razze che
correvano da una
parte all’altra. C’erano uomini del nord, grandi e
barbuti; c’erano uomini e
donne dei paesi del sud, vestiti di sete sgargianti e con eleganti
portantine
dove sedersi; c’erano bambini vestiti di cenci che
scorrazzavano tra gli adulti
e di sicuro quella sera qualcuno si sarebbe trovato con il borsellino
alleggerito.
Tra i
pontili di legno alcuni venditori urlavano per pubblicizzare le proprie
mercanzie, fondamentalmente ostriche e frutti di mare. Appena prima
dell’inizio
delle case, guardie a cavallo controllavano i passanti. Donne portavano
vasi sulle
teste e il profumo del mare si mischiava all’odore della
città. Dietro al
bailamme del porto si intravedevano il rosso dei tetti e il bianco
delle case.
Alla nostra
sinistra, in lontananza, un ponte di pietra ad arcate portava ad un
isolotto su
cui sorgeva un palazzo enorme, che luccicava nel sole del pomeriggio e
mandava
il riflesso del marmo sull’acqua intorno. Guglie si
stagliavano verso il cielo
e un bagliore dorato mi ferì per un attimo la vista: era
l’enorme angelo
vendicatore che stava davanti al castello, simbolo della famiglia
reale. Si
diceva che facesse la guardia agli Auremore e che, quando
cadrà, allora lo
seguirà nelle tenebre anche la famiglia. Ce
n’è uno davanti a ogni loro palazzo
e tutti dicono che sia molto bello, anche se secondo me è un
po’ pacchiano. Chi
mai vorrebbe un angelo placcato in oro alto tre metri davanti alla
porta di
casa propria? C’è da dire però che non
l’ho mai visto da vicino: per superare
il ponte e accedere al castello c’è bisogno di un
permesso speciale e si è accuratamente
controllati da un branco di guardie molto incattivite. Noi Assassini
non ci
avviciniamo al palazzo: molto meglio che le beghe tra reali vengano
risolte da
loro, senza metterci in mezzo. Noi interveniamo in affari di minore
importanza.
In tutto ciò
Camille si avvicinò a me e fece una strana smorfia guardando
la città.
– Brutti
ricordi? – le chiesi.
– Un po’.
Ma soprattutto vorrei sapere come sta mio fratello. –
– Starà
bene con gli Auremore. Appena raggiungerà la maggiore
età sarà davvero re di Viride,
nessuno oserà fargli del male. –
– Hai
ragione, ma nemmeno in quella famiglia è tutto rose e fiori.
–
Mi girai
verso di lei, interessato. Mi sono sempre piaciuti gli intrighi di
palazzo.
– Davvero?
Dicono tutti che sia la famiglia perfetta. –
– Dicono,
ma non è così. Quella che si salva è
la regina, Gabrielle Arnal, che nel caso
tu non lo sappia è simpaticamente chiamata “La
Magnifica”. Ed è davvero
magnifica, e di buon cuore. Mi sembra davvero stranissimo che sia a
conoscenza
dei piani del marito e che li appoggi. Sai, lei si è sempre
occupata più di
andare in giro ad aiutare i poveri, ad organizzare balli, feste di
beneficienza, cose così. Il marito, re Alexander,
è molto intelligente e, con
rispetto parlando, anche un po’ stronzo. A mio padre non
piaceva più di tanto.
I due figli gemelli sono a posto, diversi come il giorno dalla notte ma
molto
uniti e soprattutto gentili. Il trono andrà a loro e mia
sorella Octavia dovrà
sposare Edward, maggiore anche se di pochi secondi. Avrei dovuto
sposarlo io ma,
sai, sono scappata e ho un po’ scombinato i piani di mia
madre. La peggiore
però è la figlia minore, Nerissa. Il popolo dice
che la sua anima è nera quanto
il suo nome. Ha solo 15 anni ma è terribile, ed è
lei che mio fratello dovrà
sposare, – Camille si interruppe un attimo e scosse la testa.
– Spero solo di
riuscire ad evitare questo scempio in tempo, o di mio fratello non
resteranno
che gli ossicini. –
– Se la
metti così in effetti sarei preoccupato anche io. –
Camille non
mi rispose nemmeno, probabilmente troppo immersa nei suoi pensieri. Nel
frattempo la nave si era avvicinata alla banchina. Il capitano,
incredibilmente
uscito dalla sua tana, sbraitava comandi e dimenava le mani mentre i
marinai
correvano da una parte all’altra del ponte, cercando di
portare la nave
all’attracco. Dopo pochi minuti, la passerella fu calata su
terreno diminiano.
Mi attardai
di proposito sul ponte e, mentre i miei amici scendevano a terra, Mel
mi scoccò
un’occhiata eloquente. Io annuii e mi diressi dal capitano.
Lo presi per un
braccio e lo portai in un angolo un po’ appartato della nave,
dove
difficilmente il resto della ciurma avrebbe potuto sentirci. Che poi
comunque
erano troppo impegnati a svuotare la stiva e a pensare a dove andare a
bere nel
pomeriggio. Di sicuro non avrebbero prestato attenzione a noi.
– Senta
Capitano, avrei un favore da chiederle – gli dissi, cercando
di essere il più
ossequioso possibile. L’uomo mi mostrò un sorriso
orrendo. Gli mancavano molti
denti e quei pochi che c’erano erano gialli e marci. Se
avessi avuto io una
dentatura del genere avrei cercato di tenerla più nascosta
possibile, ma non
tutti hanno la mia sensibilità.
– Dimmi
tutto figliolo. –
– Io e i
miei amici volevamo chiederle se potrebbe, come dire, dimenticare di
averci
fatto attraversare lo stretto di Eleusi. –
“ E
non sono tuo figlio” pensai, ma non lo
dissi. Invece feci leggermente tintinnare le due monete che poco prima
mi ero
messo in tasca. Vidi gli occhi dell’uomo illuminarsi un
attimo.
– Vedi,
ragazzo, già vi ho fatti imbarcare senza visti, non so se
posso fare anche
questo. Forse, se si potesse trovare un accordo… –
– La
capisco perfettamente, signore. Siamo disposti a pagare. –
– Quanto? –
“ Preso
all’amo.” Sorrisi.
–
Abbastanza. –
Lo convinsi
a scendere con me dalla nave, dicendogli che i nostri soldi erano per
lui, non
per tutto l’equipaggio, e che avremmo preferito che
l’affare venisse concluso
solo tra di noi. Lo condussi sulle banchine del porto, tra la gente.
Per
esperienza infatti sapevo che in mezzo alla folla si è molto
spesso più sicuri
che nell’angolo più buio della città:
nessuno fa caso a te. In effetti, quando
ci fermammo, la gente continuò a passarci attorno come se
fossimo un ostacolo
inanimato.
–
Allora ragazzo? Questi soldi? –
– Certo,
adesso li prendo. –
Mi misi la
mano in tasca, ma invece delle monete estrassi un pugnale. Feci tutto
molto in
fretta e silenziosamente, tanto che la mia vittima non fece nemmeno in
tempo a
chiamare aiuto. Con la mano destra lo pugnalai vicino
all’inguine, mentre con
la sinistra salii a tappargli la bocca. Una ferita del genere provoca
la morte
in pochi minuti in quanto si recide una grossa arteria
dell’organismo. Quando
vidi che il capitano stava ormai per perdere i sensi lo lasciai andare
e mi
allontanai tra la folla: nessuno mi aveva notato.
Dopo poco
raggiunsi i miei amici sulla via principale che si allontanava dal
porto.
– Allora?
Fatto tutto? – mi chiese Mel.
– Sì, e
grazie davvero per l’aiuto. Non so come avrei fatto senza di
te – gli dissi,
mentre pulivo il pugnale sugli stivali e lo rimettevo al suo posto.
Lui
ridacchiò.
– Mi
sembrava che te la stessi cavando benissimo. –
– L’hai
ucciso? – mi chiese Camille, guardandomi negli occhi. Era
ancora leggermente
bianca in viso, probabilmente per la traversata.
– Beh, sì.
Cos’altro avrei dovuto fare? –
– Non lo
so. Lasciarlo andare per esempio – mi disse la ragazza,
incrociando le mani e
guardandomi dall’alto del suo metro e sessanta con aria
sconvolta, incattivita
e anche leggermente schifata.
– Sì,
così
nel giro di due giorni avremmo avuto tutto l’Alto Comando
alle calcagna. Mi
sembra davvero un’idea geniale. –
– Magari
non ne avrebbe fatto parola con nessuno, non puoi saperlo! E ora hai
ucciso un
uomo innocente, che ci ha persino aiutato. –
Mi tirai
leggermente indietro, seriamente sconvolto. Davvero Camille mi stava
criticando
per un qualcosa che avrebbe potuto fare per noi la differenza tra la
vita e la
morte? Sentii una mosca cattiva saltarmi al naso e quando capita non mi
piace.
Sapevo che avrei detto delle cose di cui poi mi sarei potuto pentire.
– Senti un
po’, principessina. Ho dovuto scegliere se uccidere un uomo o
se passare i
giorni futuri nell’ansia che avrebbe potuto dire le cose
sbagliate alle persone
sbagliate. Ho scelto, molto facilmente, di uccidere il capitano di
quella
bagnarola piuttosto che rischiare l’osso del collo in futuro.
Così, siamo tutti
al sicuro, compresa tu. E se hai tanti sensi di colpa in proposito vai
pure a
costituirti, laggiù ci sono le guardie. –
Non alzai
la voce di nemmeno un tono ma anzi, forse la abbassai ulteriormente. Mi
uscì un
ringhio intimidatorio che fece sobbalzare leggermente Camille.
– Se non sei
pronta a sporcarti le mani forse è il caso che la smetti con
i tuoi sogni di
gloria e vendetta. Questa è la tua missione, non la nostra.
Noi stiamo solo
rischiando la pelle per qualcosa che, in fondo, non ci riguarda.
Avresti dovuto
ucciderlo tu quell’uomo, non io. Ti ho fatto un favore e
ancora vieni a farmi
la morale? Svegliati. Non sei più nel mezzo del bosco al
sicuro. Ora, se ti beccano,
sei morta. E noi con te. Solo che, a differenza tua, io non ho nessuna
intenzione di morire in modo stupido. –
Non aspettai
la risposta che mi incamminai verso una zona non precisata della
città, che tra
l’altro non conoscevo assolutamente. Passammo davanti alle
guardie senza che
queste ci fermassero, in tranquillità. Ero molto, molto
arrabbiato. Non pensavo
davvero che Camille avrebbe potuto farmi un discorso del genere. Doveva
capire
al più presto che alcune cose, per quanto spiacevoli, erano
necessarie,
altrimenti sarebbe stato tutto davvero inutile. E poi come si
permetteva di
venire a dirmi che il mio non era un comportamento corretto? Forse
avevo
salvato la vita a tutti, anche a lei. Ma la cosa che mi feriva di
più in
assoluto era che lei aveva potuto pensare che io avessi ucciso
quell’uomo così,
senza pensare. Sono un Assassino, d’accordo, ma non sono un
macellaio. Quando
devo togliere una vita rifletto sempre e se non è necessario
allora evito.
Ero
talmente tanto arrabbiato che sobbalzai quando una mano mi si mise
sulla
spalla. Mi girai e trovai Jared a qualche centimetro da me.
– Ehi,
calmati, – mi disse mentre continuavamo a camminare.
– Lo sappiamo tutti che
hai ragione, anche lei. Deve solo un attimo mettere in ordine le sue
idee. –
– Non ne
sono troppo sicuro. –
– Fidati di
me, le conosco le donne. Comunque, hai un’idea di dove stiamo
andando? –
Mi guardai
attorno, spaesato. Non avevo la minima idea di dove fossimo.
– No, direi
proprio di no. Non sono mai stato a Melusine. –
Jared
ridacchiò e si girò verso il resto del gruppo,
che era poco distante da noi.
– Gruppo,
adesso guido io. Preparatevi, perché vi porterò
nella locanda migliore di tutta
la città. –
***
Un’ora dopo stavamo entrando
in una locanda ai limiti della città. Jared ci
guidò a colpo sicuro tra i
vicoletti e le stradine della città, come se avesse avuto
una mappa infilata
nel cervello. Soffrirà anche di mal di mare, ma quando si
tratta di muoversi e
di orientarsi è il migliore.
Il nostro
alloggio si presentava abbastanza bene da fuori: dalla porta in legno
passava
della calda luce arancione, fumo saliva dal comignolo perdendosi nella
notte,
rumori di voci e scoppi di risa rallegravano l’atmosfera e
nella strada c’era
un buon odore di stufato che mi fece brontolare lo stomaco.
Un’insegna con una
dragone abbarbicato a una botte stava sopra alla scritta “Il
Drago Verde”,
illuminata da due lanterne. Ci fermammo un attimo davanti
all’ingresso, poi
Jared entrò platealmente, come se il locale fosse suo.
Immediatamente un paio
di ragazze mollarono i boccali e scapparono da dietro il bancone,
correndogli
incontro per poi continuare a toccarlo, abbracciarlo e sbaciucchiarlo,
sotto
gli occhi un po’ sconcertati degli avventori.
– Jared,
sei tornato! Dillo che morivi dalla voglia di vedermi! –
– Che bello
averti qui! –
– Ti
aspettavamo Jared! –
Ogni volta
che Jared entrava in qualche locale popolato dal gentil sesso le cose
andavano
più o meno così, soprattutto se si era
già fatto conoscere. Beato lui. Io,
Andreas e Mel, invece, sospirammo e girammo gli occhi, già
abituati a quel tipo
di scena, mentre Camille, sbalordita, ridacchiava tra sé e
sé.
Mi guardai
un po’ intorno e mi resi conto, con stupore, che
l’impressione che la locanda
mi aveva dato da fuori era stata mantenuta. Era un bel posto, caldo e
accogliente, pieno di gente di tutti i tipi che mangiava e beveva. I
piatti che
mi passavano davanti erano decisamente invitanti e con
un’occhiata alle
cameriere mi accorsi che anche queste erano davvero carine, soprattutto
quelle
abbarbicate a Jared. Una sistemazione adeguata, finalmente.
Rimanemmo
così, ad osservare un po’ il locale e un
po’ il mio amico che sfoderava tutto
il suo fascino malandrino, fino a che questi non si ricordò
che non era da solo
ma in compagnia. Chiamò finalmente l’oste e ci
fece preparare tre stanze, in
più ci fece servire la cena.
Dopo
un’oretta ci eravamo finalmente sfamati e dissetati,
mangiando e bevendo come
se non vedessimo cibo da giorni. A me i viaggi hanno sempre fatto
questo
effetto, e dopo la dieta a gallette ed acqua sulla nave avevo proprio
voglia di
un pasto come si deve.
– Quindi,
ora che si fa? – chiese Camille, quando ormai avevamo finito
ed eravamo anche
un po’ sonnolenti dopo la carne e la birra.
Devo dire
che al nostro gruppo manca un po’ di sana programmazione
rigorosa, ma non
importa. Io rimasi accuratamente zitto, in una manovra che normalmente
viene
definita “tenere il broncio”. Non avevo ancora
dimenticato le parole che la
ragazza mi aveva detto nel pomeriggio.
– Dobbiamo
trovare la guardia che ti aveva catturato, molto semplice –
le rispose Mel.
– Sì, direi
di sì. Più o meno tu in che zona
l’avevi incontrato? – chiese Andreas.
– Nella
zona del porto. Oggi mi sono guardata intorno, ma non l’ho
visto. –
– Sicura di
aver guardato con attenzione? C’era tanta gente oggi. Magari
ti è sfuggito. –
– Fidati,
Andreas. Uno così spicca tra la folla. –
Ci fu
qualche secondo di silenzio.
– Dobbiamo
chiedere a qualcuno. È l’unica –
esordì Jared.
– Sì, ma
non possiamo appendere i manifesti. Bisognerebbe fare qualcosa di
discreto – lo
bloccò subito Mel.
– Appunto,
– disse Jared, per poi girarsi ed emettere un urlo spacca
timpani diretto a una
delle cameriere che prima gli avevano dato un così caloroso
benvenuto. – KATE,
TI SPIACEREBBE VENIRE QUI UN ATTIMO? –
–
Sei proprio sicuro di sapere cosa vuol dire essere discreto?
– gli chiesi. –
Non credo che urlare come uno scaricatore rientri nella definizione.
–
Jared mi
ignorò, come al suo solito. Prese la ragazza per la vita e
la invitò a sedersi
al nostro tavolo.
– Kate,
abbiamo una cosa da chiederti, – le disse. –
Dobbiamo sapere se conosci un
uomo, una guardia cittadina. Camille, glielo descriveresti? –
–
Certo. È un uomo alto, circa un metro e ottantacinque,
massiccio. Ha corti
capelli biondicci, ma magari in questi anni sono cresciuti. Ha una
larga
cicatrice sul lato destro del viso, che gli attraversa anche un occhio
rendendolo parzialmente cieco. Ha gli occhi castani. L’ultima
volta che l’ho
visto era a capo di un gruppo di tre guardie nella zona del porto,
– Camille si
interruppe un attimo. – Lo conosci? –
La ragazza
scosse la testa, guardando dispiaciuta verso Jared.
– No, mi dispiace molto
– ci
disse, poi si alzò, riprese la brocca che aveva lasciato al
nostro tavolo e si
allontanò. Io già mi vedevo a battere tutte le
locande del porto per trovare
informazioni su quell’uomo, quando Kate tornò
indietro.
– Sentite,
ho pensato che potreste chiedere a Lea. Ha lavorato per tanti anni
nella zona
della guarnigione, magari sa di chi state parlando. Ora sta lavorando
in
cucina, ma immagino che quando finirà non avrà
problemi a venire ad ascoltare
quello che avete da dire. –
Jared si
alzò in piedi e le diede un bacio, ringraziandola. Kate
arrossì e corse di
nuovo via, a servire i tavoli.
Aspettammo
che il locale lentamente si svuotasse e solo quando oltre a noi erano
rimasti
gli ultimi due o tre ubriaconi un donnone uscì da una porta
sul retro del
locale. Aveva un grembiule enorme sul petto, più o meno
delle dimensioni di una
bandiera.
– Kate mi
ha detto che dovete parlarmi. Cosa volete? –
Senza peli
sulla lingua, la signora.
– Avremmo
bisogno di informazioni su uomo, giù al porto, –
le risposi. – Può aiutarci? –
– Dipende.
–
– Dipende
da cosa? –
– Dipende
da che intenzioni avete e da chi è questa persona che
cercate. –
Mi guardai
attorno un po’ sconcertato, ma per fortuna Camille si mise in
mezzo.
– È giusto
così. Ascolti quello che abbiamo da dire, poi
deciderà se aiutarci o no – le
disse, per poi ripeterle la descrizione che aveva fatto poco prima a
Kate. Nel
frattempo Lea aveva messo delle mani della dimensione di due badili sul
tavolo.
Notai con stupore che dei peli spessi e grigi le spuntavano dal labbro
superiore. Non riuscivo a smettere di fissarli,
tant’è che Andreas mi diede una
gomitata.
– Se
cercate lui non c’è nessun problema, –
disse la donna quando Camille finì. – È
un uomo abbastanza disgustoso da non farmi preoccupare di quello che
volete
fargli. In ogni caso, se lo sarebbe meritato. Pensate che una volta,
per
ottenere una birra gratis, ha provato a infilarmi le mani sotto la
gonna. Ci
credereste mai? – Si fece una risata. – Gli ho
dovuto tirare un ceffone per
farlo smettere. –
E qui ebbi due pensieri: primo, che ci
voleva un bel coraggio a mettere le mani su qualsiasi parte del corpo
di quella
donna, figuriamoci sotto la gonna; secondo, che un ceffone dato da
quella tizia
doveva equivalere più o meno a venire investiti da un
cavallo da tiro. Al
galoppo. In discesa. Con un carro attaccato dietro.
– Si chiama
Hyatt, per gli amici Hyatt il Viscido o Scar, e potrete capirne il
motivo. Lo
vedevo spesso nel locale in cui lavoravo vicino alla guarnigione. Ero
già lì
quando è arrivato per la prima volta: aveva il grado di
capitano, ma nessuno
aveva la minima idea di chi fosse e da dove arrivasse. Ormai
però sono un paio
d’anni che non lavoro più in quella zona, quindi
non saprei dirvi se sia
rimasto lì. Dovrete andare a vedere di persona. –
– Madame,
lei ci è stata di grande aiuto, – le disse Jared,
che con le donne (per quanto
brutte e grasse possano essere) aveva un tocco magico. – Ci
ricorderemo di lei.
–
Lea si aprì
in un sorriso malizioso e fece una risata civetta.
– Basta che
ti ricordi tu di me, tesoro
– gli
rispose, dopo di che si allontanò ancheggiando, badando bene
però di fargli un
occhiolino da sopra alla spalla. Jared rabbrividì.
Salimmo in
una delle stanze che avevamo preso per la notte per decidere un piano
d’azione.
Io mi attardai un poco di più giù nella sala dove
avevamo mangiato, per
assicurarmi che non ci fosse niente di strano o pericoloso. Visto che
tutto
sembrava a posto, mi diressi verso le scale, ma mi bloccai quando vidi
Camille
appoggiata al mancorrente di legno.
– Camille,
tutto bene? – le chiesi.
– Sì, tutto
bene. Io… – si fermò un attimo.
– Io volevo chiederti scusa per oggi. Avevi ragione
tu, era necessario uccidere quell’uomo. –
Annuii,
mettendo il piede sul primo gradino, ma lei mi fermò
prendendomi per un
braccio.
– E poi ci
tenevo a dirti che non credo che tu sia uno che ammazza il primo venuto
per
svago. Sono sicura che ci hai pensato bene, prima. Solo, non credo che
riuscirò
ad abituarmi tanto presto all’idea di dover uccidere qualcuno
per sopravvivere.
–
La guardai
bene. Era così bella nella luce soffusa delle candele, con
il viso e gli occhi
verdi abbassati. Non doveva essere abituata a chiedere scusa ed ero
onorato che
per me avesse fatto uno sforzo. Le tirai su il viso con due dita, per
poi
prenderle gentilmente una ciocca che le era sfuggita dalla treccia e
mettergliela dietro all’orecchio, accarezzandole una guancia
con il dorso della
mano.
– Non devi
farci l’abitudine. Va bene così. Ti chiedo scusa
anche io, non ti ho detto
delle belle cose oggi. Non avrei dovuto. –
I suoi
occhi verdi si puntarono nei miei, osservandomi da sotto le lunghe
ciglia
scure. Sentii il profumo del suo respiro e rientrai in me. Che stavo
facendo?
Quella era Camille Coverano, principessa del mio paese, non una ragazza
qualunque. Ritirai di colpo la mano.
– Credo che
sopra ci stiano aspettando. –
Lei annuì e
arrossì, per poi seguirmi al piano di sopra.
ANGOLO DELL’AUTRICE!
Grazie a tutti quelli che sono arrivati a
leggere fino qui e che sono
sopravvissuti a ben 7 capitoli. Sono molto affezionata a questa storia,
me la
porto dietro da tanti anni, e sono contenta di essere finalmente
riuscita a metterla
nero su bianco! Mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate, quindi, se
secondo
voi ci sono cose da cambiare, critiche o cose simili, per favore,
scrivete. È
davvero molto utile avere un riscontro, almeno per me, e se poi questo
è
positivo, beh, ancora meglio!
Faccio un po’ fatica a scrivere
questi commenti finali – non credo di
esserne troppo capace – ma giuro, ci sto provando! Non vorrei
sembrare la
spocchiosa di turno che lancia le cose dall’alto, solo che
temo di essere
troppo timida, e quindi molte volte mi areno su queste parti un
po’ più
personali. Spero di migliorare col tempo :D
Non c’è molto altro da
dire se non grazie, di cuore, a tutti quelli che
leggono!
LyaStark
|
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Capitolo 8 *** VIII ***
Ciao
a tutti, e
bentrovati! Se siete arrivati fino a qui, beh, grazie, davvero!
È un bellissimo
regalo di natale per me. Spero che vi piaccia, e vi faccio gli auguri
di Natale
(clamorosamente in ritardo ma si sa, il periodo delle feste
è concitato un po’
per tutti) e di un buon anno nuovo.
CAPITOLO VIII
MARCUS
Quando entrammo nella stanza
al piano di sopra, la prima cosa che mi colpì fu
l’aria di cospirazione. Tende
tirate, fuoco nel camino ridotto al minimo, i miei amici che
bisbigliavano. La
camera era abbastanza bella anche se forse un po’ troppo
spoglia: c’erano solo
una cassapanca che divideva i due letti su cui erano seduti i miei
amici,
ognuno dei quali addossato a una parete. Il pavimento era di legno,
l’intonaco
delle pareti bianco e probabilmente dato da poco visto che non
c’erano ancora
segni di sporco sui muri. Un paio di brocche brillavano dalla mensola
sopra il
camino ricordandomi in maniera quasi dolorosa casa mia, quando ero con
la mia
famiglia in campagna e non ero ancora un Assassino. Erano anni che non
ci
pensavo più.
– Alla
buon’ora, – ci accolse Jared con un sorriso
furbetto, distogliendomi dai miei
pensieri. – Vi eravate persi? –
Sia io che
Camille lo ignorammo, anche se potevo vedere che lei era rossa sulle
guance.
Per fortuna il rossore poteva essere scambiato per il semplice riflesso
delle
fiamme nella stanza, visto che sapevo benissimo che se si fossero
accorti di
qualcosa non mi avrebbero più dato tregua. Avrei passato i
giorni successivi a
non poter vivere per le prese per i fondelli e per le battute poco
dignitose.
Camille si
schiarì la voce.
– Allora, –
disse. – Siete già giunti a qualcosa? –
– A dire la
verità sì, – le rispose Andreas.
– Mentre voi due piccioncini eravate in altre
faccende affaccendati abbiamo pensato a ben due
piani d’azione. –
Ignorai a piè pari il
commento, anche se sentii Camille sbuffare dietro di me.
–
Illuminaci, maestro. –
Andreas si
alzò e iniziò a percorrere a passi lunghi la
stanza, come faceva di solito
quando pensava o quando doveva spiegare, cioè i tre quarti
del suo tempo.
– Per prima
cosa, dobbiamo assicurarci che l’uomo sia ancora alla
guarnigione, come ci ha
detto Lea. Nel caso sia stato trasferito saremmo di nuovo punto a capo
e dovremo
ricominciare a chiedere in giro. Se invece è ancora
lì proporrei di seguirlo
per un paio di giorni, giusto per capire le sue abitudini e per
riuscire a
farlo sparire senza destare troppi allarmi. Poi, una volta che saremo
riusciti
a prenderlo, potremo fare due cose: uno, cercare di fargli vuotare il
sacco con
le buone, cioè pagandolo; due, dargli una manica di botte.
–
– Io opto da
subito per la manica di botte – lo interruppi.
Camille,
che in tutto questo era rimasta appoggiata a braccia incrociate allo
stipite
della porta, si avvicinò ulteriormente a noi.
– Ah sì,
anche io – disse.
– Ma tu non
eri la pacifista del gruppo? – le chiese Jared da sbracato
sul letto,
ridacchiando tra sé e sé.
Lo sguardo
che Camille gli rivolse era di indignazione allo stato puro:
– Zitto un po’,
Jared. –
Ridemmo
tutti di gusto a quello scambio di battute, che servì anche
un po’ ad
alleggerire l’aria della stanza.
– Quindi, –
fece Mel. – Ricapitolando: trovare il tipo, rapirlo, dargli
un aiutino per
farci dire quello che sa. Manca solo una cosa. –
– Cosa? –
gli chiese Andreas, guardandolo interessato. Incredibile che gli fosse
sfuggito
qualcosa.
– Dobbiamo
trovare un posto appartato dove poter interrogare questo tipo. Non
possiamo
mica maltrattarlo in mezzo alla strada. –
– Mi sembra
un’ottima obiezione – aggiunsi io.
– Potremmo
fare così, – si introdusse Jared. – Due
di noi seguiranno questo Hyatt mentre
gli altri tre andranno a cercare un luogo adatto dove metterlo. Ci
ritroveremo
qua ogni sera per vedere a che punto siamo messi e poi, quando
sarà il momento
e tutti i dettagli saranno stabiliti, agiremo. Che ne dite? –
Cenni di
assenso vennero fatti da tutti noi. Al calore del fuoco si decise che
io e Mel
(che, modestia a parte, siamo i migliori nei pedinamenti) avremmo
seguito Hyatt
mentre gli altri, compresa Camille, si sarebbero sparsi per la
città. Sperai
che non gli capitasse niente di male, anche se quelli che rischiavano
di più
eravamo proprio noi che avremmo dovuto seguire l’uomo per la
città.
L’altra mia
preoccupazione, molto più meschina, era data da Jared:
avrebbe potuto benissimo
decidere di provarci con Camille e non so lei come avrebbe potuto
reagire.
Forse ci sarebbe anche stata, vista la
bravura del mio amico in queste
questioni. Scacciai la preoccupazione con un rapido cenno del capo.
Jared era
mio amico e si era sempre comportato correttamente nei miei confronti,
e poi
tra me e Camille non era successo niente. Nulla di nulla. Ero solo
quello che
lo conosceva da più tempo di tutti e in questa luce il suo
attaccamento nei
miei confronti era più che giustificato. Ero io che
probabilmente stavo
fraintendendo tutto e dovevo darmi una regolata abbastanza in fretta.
Decisi lì
su due piedi che quindi, qualunque cosa sarebbe successa tra lei e
Jared non mi
avrebbe dato fastidio ma anzi l’avrei accolta di buon grado.
Però, nonostante
il mio cervello avesse fatto un ragionamento ineccepibile,
c’era una vocina
dentro di me che continuava a sussurrarmi che il tutto mi avrebbe
urtato
eccome. Mi mancavano solo questi pensieri da ragazzina innamorata. Con
tutti i
problemi che c’erano potevo mai preoccuparmi di qualcosa che
non era ancora
nemmeno successo? Mi alzai quindi di scatto dal letto su cui ero
seduto, per
togliermi dalla testa tutti quei pensieri inutili.
– Forse è
il caso di andare a dormire, allora, – dissi. –
Domani ci aspetta una giornata
campale. –
Tutti gli
altri seguirono il mio consiglio e così, con calma, uscimmo
tutti dalla stanza
di Mel e Andreas. Camille si diresse verso la sua stanza in fondo al
corridoio,
mentre io e Jared andammo verso la nostra, poco distante. Appena
entrati ci
buttammo sui letti, abbastanza distrutti dagli eventi della giornata. Stavamo
fissando il soffitto scivolando
lentamente nel sonno quando Jared parlò.
– Puoi
stare tranquillo, sai? – mi disse.
Io corrugai
le sopracciglia, non capendo a cosa si riferisse.
– Non
toccherei la tua ragazza per tutto l’oro del mondo
– fu la sua risposta.
Incredibile
come riuscisse a capirmi così, senza che io dicessi nulla.
Sorrisi di un bel
sorriso a trentadue denti che rimase nascosto nella penombra della
camera.
– Camille
non è la mia ragazza – gli dissi e anche solo
mettere nella stessa frase le
parole “Camille” e “mia” mi
fece uno strano effetto. Dei quanto stavo
diventando imbecille.
– Lo so
benissimo – mi rispose, e potevo sentire il sorriso nella sua
voce.
Rimasi
sdraiato in silenzio, sotto le coperte. Attorno a me c’era
solo il rumore
leggero del respiro di Jared e le braci del camino illuminavano
debolmente la
stanza. Dalla finestra passava la leggera luce argentata della luna
piena,
tingendo i mobili di bianco. Pensai a tutte le cose che mi stavano
capitando, a
come la vita mia e dei miei amici avesse preso una piega inaspettata in
qualche
settimana. Non li avrei mai ringraziati abbastanza per
l’aiuto che mi stavano
dando, ma sapevo anche che non ce ne sarebbe stato bisogno: sapevano
tutto
quello che provavo, ero come un libro aperto per loro. Forse
è questo che
significa essere fratelli, al di là dei legami di sangue:
non avere mai bisogno
delle parole. Stavo pensando a tutto questo, quando una parola mi
salì
spontanea alle labbra.
– Jared? –
dissi, convinto che tanto stesse dormendo. E invece, inaspettatamente,
la sua
voce un po’ assonnata mi rispose.
– Dimmi. –
– Grazie. –
Lo sentii
girarsi nel suo letto, verso di me.
– Di nulla,
fratello. –
Sorrisi e
chiusi gli occhi. Il sonno mi prese subito.
***
Il mattino dopo, più o meno a
un’ora che dedussi essere l’alba, un rumore di
botti mi svegliò. Nella mia
innocenza pensai che qualcuno stesse cercando di sfondare la porta e
invece,
appena mi ripresi abbastanza da sapere chi ero e dove mi trovavo, mi
resi conto
che qualcuno stava bussando molto, molto veementemente.
Mi alzai barcollando
nel buio e stropicciandomi l’occhio destro mi diressi
lentamente verso la
porta. Quando l’aprii, dall’altra parte trovai
Andreas sorridente, lavato e
vestito di tutto punto, con in mano una lanterna che mi
accecò. Mi appoggiai
sconvolto allo stipite della porta, riparandomi con un braccio da
quella luce
infernale.
– Sorgi e
splendi, amico mio! – mi disse sorridendo, con un tono troppo
allegro per
essere usato da uno sveglio a quell’ora indecente di mattina.
O forse si poteva
ancora considerare notte? Decisi che comunque era troppo presto per
porsi
problemi del genere.
– Fottiti,
Andreas. Cosa vuoi? –
– Ti volevo
ricordare che tu e quell’altro nascosto sotto le coperte
nella stanza… Sì,
Jared, parlo proprio di te! – Urlò
sporgendosi dentro alla stanza e sentii in risposta solo insulti
mugugnati che
non mi sento proprio di riferire. – … avete delle
cose da fare. Tu, in particolare,
devi andare con Mel e capire se Hyatt è ancora alla
guarnigione. –
Lo
interruppi, e bloccando a metà uno sbadiglio gli chiesi:
– Hyatt chi? –
Non sono molto
sveglio al mattino presto e non intendo in senso letterale. Andreas mi
guardò
con aria sconvolta.
– Marcus,
tutto bene? Hai preso una botta in testa? – mi
domandò, venendo avanti cercando
di guardare se avessi qualche segno sul cranio. – Hai un vago
ricordo di tutto
quello che abbiamo deciso ieri sera? – In tutto questo ebbi
un lampo e mi
ricordai degli avvenimenti del giorno prima.
– Sì,
scusa. Lo sai come va al mattino, – gli dissi. – Ho
capito. Ma era proprio il
caso di svegliarci a quest’ora indecente? –
– A parte
che qui, tra te e Jared, l’unico sveglio sei tu. E poi io e
Mel siamo in piedi
già da almeno un’ora. In più, la
guarnigione non è troppo vicina e dovrete percorrere
un bel pezzo di città. E, dulcis
in fundo,
non sappiamo che orari segua quell’uomo. –
– Molto
probabilmente a quest’ora sta andando a dormire dopo una
nottata passata a sbronzarsi
in giro, te lo dico io – gli risposi. Iniziavo molto
lentamente a svegliarmi.
– Sì, va
bene, ho capito l’antifona. Ti ho svegliato troppo presto, ma
abbiamo poco
tempo e dobbiamo cominciare, e se aspettassimo te e l’altro a
mezzogiorno
saremmo ancora qui. Quindi fai rinvenire la bella addormentata
lì dentro e tra
dieci minuti ci vediamo di sotto – mi disse, allontanandosi.
Io rientrai in camera
chiudendomi la porta alle spalle e mi rilanciai a faccia in
giù sul letto, più
morto che vivo.
– Cosa voleva?
– mi chiese una voce dall’oltretomba. Mi girai e
guardai il mio amico con il
cuscino sopra alla testa, nel tentativo, fallito, di non farsi
svegliare dalla
voce squillante di Andreas.
– Dirci che
dobbiamo fare cose – gli risposi, mugugnando nel cuscino. Non
mi curai che
avrebbe potuto non capire.
– Ma che
problemi ha? –
– Lo sai
com’è fatto. –
***
Dopo un quarto d’ora stavamo
scendendo le scale per andare al piano di sotto. Avevo dovuto
praticamente
lanciare Jared giù dal letto, come avevo sempre fatto anche
negli anni in cui
la Corporazione ci aveva fissato l’inizio del turno di
guardia alle 4 e mezza
di notte, e obbligarlo a vestirsi. Avrei fatto molta meno fatica a
svegliare un
bambino di 8 anni. Di sicuro pesava di meno.
Al ritrovo nella
sala comune della locanda l’unica faccia allegra era quella
di Andreas: Mel
sembrava molto incline all’omicidio, Jared appena appoggiava
la testa su un
piano solido chiudeva gli occhi, e io mi guardavo in giro con aria
desolata, in
una mia personale interpretazione della frase “ che
cavolo ci faccio io qui?”.
Camille
arrivò dieci minuti dopo, correndo per le scale con i
capelli spettinati, la
casacca chiusa male e strofinandosi gli occhi. Sembrava anche lei
abbastanza
distrutta, ma non si lamentò. Un ragazzino dietro il bancone
del locale stava
passando distrattamente uno straccio sul piano, nel tentativo di non
addormentarsi. Dalle finestre non si vedeva nemmeno un filo di luce: la
città
era ancora addormentata e solo qualche urla proveniente dal porto
lontano animava
la notte.
Stabilimmo
che ci saremmo rincontrati per le 9 di quella sera, per fare il punto
della
situazione. Se né io né Mel fossimo riusciti a
raggiungere il ritrovo per tre
sere di fila, gli altri ci sarebbero venuti a cercare per tirarci fuori
dai
guai. Sperai fortemente di non finire in una situazione del genere e di
riuscire a fare un bel lavoretto pulito: andare, prendere e tornare.
Niente
pericoli e niente preoccupazioni. Nessuno si sarebbe fatto male.
Dopo una
rapida colazione ci salutammo tutti e mentre Andreas, Jared e Camille
si
diressero verso l’interno della città, io e Mel
andammo verso il punto dove ci
era stato suggerito esserci la guarnigione.
Camminammo
per quaranta minuti buoni, ad un buon passo, chiacchierando del
più e del meno.
Tra questi argomenti stranamente non rientrò Camille, ma
credo che di questo
dovessi ringraziare la discrezione del mio amico. Mel non era mai stato
tipo da
mettere in imbarazzo le persone, né tantomeno cercava di
tirarti fuori le cose
di bocca a viva forza. Se volevi parlargli di qualcosa, lo facevi,
altrimenti
potevi decidere benissimo di tacere. Lui non ti avrebbe mai stressato
perché tu
gli dicessi i fatti tuoi, e in questo è molto, molto meno comare degli altri due.
Sembrava irrequieto e di sicuro
lo era a causa di quello che stavamo per fare, anche se qualcosa mi
suonava
strano: Mel non si era mai fatto prendere troppo dall’ansia,
è sempre stato uno
molto sicuro di sé e di quello che doveva fare. Ignorai la
strana sensazione
non facendogliene parola, adducendola al fatto che molto probabilmente
eravamo
tutti molto più stanchi del normale e molto più
pronti a scattare per la minima
cosa.
Percorrendo
la città mi resi conto, di nuovo, di quanto fosse bella
Melusine, anche se è
totalmente diversa dalle città di Viride. Strade piccole e
tortuose si
intrecciavano una nell’altra, così differenti
dagli stradoni grandi e dritti di
Elea. L’acciottolato sotto i piedi era fatto di una pietra
particolare, che nel
bagliore delle lanterne appese lanciava un bagliore rosato, quasi come
se
avesse della luce all’interno. Le case ai lati della via
erano piccole e
graziose e dietro ai tetti colorati si intravedevano le cime dei Sahar,
i
tipici alberi dalle chiome gialle di Dimina.
Alla nostra
sinistra si stagliavano le guglie del castello reale, ancora buie
nell’oscurità
della notte. Superammo le botteghe di fabbri, di panettieri, di cuoiai,
di
mercanti di tessuti, tutte rigorosamente chiuse, e solo qualche lontano
rumore
di metallo contro metallo ci fece supporre che non tutti dormivano come
poteva
sembrare. Oltrepassammo stalle, stazioni di posta, armerie.
Il profumo
del mare aleggiava ancora leggermente per la strada ma coperto da una
moltitudine
di altri odori, creando un miscuglio particolare e anche molto
gradevole. In lontananza
ogni tanto spuntava qualche soldato più assonnato di noi e
per evitare brutte
situazioni cambiammo più volte strada infilandoci nei
vicoletti che si aprivano
dappertutto.
Finalmente,
quando ormai il sole iniziava a sorgere e un lieve colore rosato si
spargeva
nel cielo, arrivammo in vista della guarnigione. Era un palazzone
grigio e
triste, che stonava con i colori allegri dei palazzi lì
vicino, immersi nella
luce dell’alba. Niente a che vedere con la nostra sede di
Corporazione a Elea:
quello sì che era un bell’edificio.
Davanti a
un alto portone di legno inciso, due soldati erano seduti a un tavolo
giocando
a carte, senza prestare troppa attenzione a quello che sarebbe potuto
capitare
lì intorno. Se fossi stato io a capo della guarnigione avrei
avuto la loro
pelle appesa davanti alla mia porta. Se sei messo di guardia, fai la
guardia,
non è che perdi il tuo tempo a fare altro, nella fattispecie
giocare a carte.
Un comportamento un po’ ipocrita da parte mia, contando che
sono sempre stato
uno dei primi a cazzeggiare nei miei turni di sorveglianza.
Io e Mel
passeggiammo tranquillamente a livello del perimetro della guarnigione,
per
farci un’idea di quello che ci saremmo potuti aspettare. Su
ogni lato delle
mura quadrate del palazzo si trovava un portone simile in tutto e per
tutto al
primo che avevamo visto, con altre due guardie, alcune delle quali un
po’ più
impegnate nel loro compito rispetto ai due giocatori di carte poco
più in là.
Unica
eccezione era il lato rivolto verso ovest, quello che in linea
d’aria guardava
il castello reale: lì il portone era il doppio in ampiezza
di quelli precedenti
ed era spalancato, e le guardie davanti ad esso erano una decina.
Probabilmente
quello era l’ingresso principale.
Sbirciando
all’interno, si intravedevano delle stalle su un lato e un
paio di carrozze
ferme nel cortile principale. In più, visto che ai militari
a quanto pare faceva
schifo dormire al mattino, si sentivano ordini gridati e ogni tanto una
pattugli passava nel nostro campo visivo.
Facendo una
stima, all’interno ci potevano essere dalle 150 alle 200
persone. Dopo aver
visto quello che c’era da vedere, io e Mel ci allontanammo in
silenzio.
– Direi che
la strategia “entriamo, facciamo casino e prendiamo il nostro
uomo” è da
scartare – dissi.
– Se sei
affezionato al tuo collo mi sa di sì – mi rispose
Mel.
Svoltato
l’angolo e appena fuori dal campo visivo degli uomini a
guardia del portone, ci
fermammo. Avevamo quattro porte da sorvegliare, eravamo solo due e non
sapevamo
se l’uomo che cercavamo era ancora lì dentro.
Avremmo dovuto scoprirlo in
fretta. Approntammo rapidamente un piano d’azione e pochi
minuti dopo Mel era di
nuovo diretto verso il portone principale con passo incerto, mentre io
ero ben
nascosto dietro a un muro.
Mel è
eccezionale quando deve fare l’ubriaco, forse per la
quantità di tempo che
passa a esserlo davvero: l’andatura ondeggiante era perfetta,
non eccessiva né
troppo scarsa; strascicava perfettamente i piedi, ogni tanto borbottava
parole
senza senso e la bottiglia vuota raccattata in tutta fretta completava
il
quadro.
– Ehi,
amici! – urlò, dritto alle guardie, biascicando le
parole e inciampando. Gli
uomini restarono immobili, senza muovere di un millimetro le lance che
tenevano
in mano, con la punta metallica luccicante ben diretta verso
l’alto.
Mel si
avvicinò ulteriormente, ridacchiando agli uomini davanti a
lui, minacciando di
cadere da un momento all’altro.
– Devo
passare! – disse. Poi allungò una mano.
– Ma che
bella lancia! – disse ridacchiando. – Me la presti?
Eh? –
Al che le
guardie finalmente si mossero. Quella a cui Mel aveva cercato di
prendere la
lancia gliela puntò al collo e il mio amico cadde molto
opportunamente
indietro.
– Vattene
da qui, ubriacone. Non puoi entrare – gli disse e Mel ridendo
alzò le mani,
iniziando a tirarsi su. La bottiglia era rimasta abbandonata per terra.
– Va bene,
ma c’è il mio amico Hyatt dentro. Prendo i soldi e
me ne vado. –
– Sei amico
del capitano? – gli chiese l’uomo più
giovane dei cinque che si erano mossi e
che si trovava davanti a Mel. Praticamente uno sbarbatello.
– Puoi
dirlo forte ragazzo! Il capitano mi deve una mota…
montna… un mucchio di soldi!
– urlò Mel, aprendo le braccia e improvvisando un
balletto. Dovetti ammettere
però che quando era ubriaco sul serio non era poi
così molesto. Più che altro
gli prendeva quella che in gergo è chiamata ciucca triste.
I soldati
si guardarono e alcuni annuirono, come se avessero preso una decisione.
Uno di
loro si fece più avanti, girando la lancia
dall’estremità di legno.
– Non puoi
entrare, il capitano ha dato ordini precisi. Vattene e forse non ti
sbatteremo
in cella – disse, colpendo Mel e spintonandolo indietro,
lontano dal portone.
Il mio amico cercò ancora di opporre qualche resistenza, ma
ben presto ritornò
verso di me sempre con la stessa andatura barcollante. Avevamo scoperto
quello
che ci interessava: l’uomo che cercavamo era ancora nella
guarnigione.
Quando Mel
girò l’angolo recuperò il suo contegno
normale. Il sorriso ebete sparì dal suo
viso, la postura si fece dritta, il passo più sicuro.
– Dovresti
fare l’attore, lo sai? –
– Se le
cose con la Corporazione andassero male ci farò un pensiero
– mi rispose,
spazzolandosi i vestiti dalla polvere. – E adesso aspettiamo.
–
E
aspettammo. A lungo. Fermi fuori dallo sguardo dagli uomini di guardia
al
portone, fino a quando questi non rientrarono per il cambio del turno,
e poi
poco distanti dall’ingresso.
Decidemmo
di tenere d’occhio il portone principale: era molto
più probabile che un
Capitano uscisse da lì piuttosto che da un ingressino
secondario. E se non
avessimo avuto fortuna, appena gli altri tre fossero riusciti a trovare
il
posto che ci serviva ci sarebbero venuti ad aiutare. Avremmo tirato le
cose per
le lunghe ma almeno così saremmo riusciti a osservare tutte
le porte. Passò
l’ora del pranzo, che ci vide a sbocconcellare la carne secca
che ci eravamo
portati via dal Drago Verde. Ogni tanto per sgranchirsi le gambe uno
dei due
andava a farsi due passi, mentre l’altro rimaneva in
osservazione.
Le ore del
giorno passarono in modo monotono e lento. Le persone attorno a noi
erano solo
macchie sfuocate che si muovevano ai limiti del nostro campo visivo, i
nostri
occhi erano concentrati a guardare solo i movimenti
dell’imponente portone poco
davanti a noi. Solo il sole ci dava indicazioni sul tempo che
procedeva. Prima
indicava le due, poi le quattro, poi le sei, e infine
tramontò.
Maledicemmo
più e più volte Andreas e la sua malsana idea
che, come diceva lui, “il mattino
ha l’oro in bocca”: avessimo fatto come dicevamo
noi saremmo arrivati lì a
mezzogiorno passato e avremmo passato la giornata sereni e riposati.
Avevamo quasi
perso le speranze quando dal portone uscì un gruppetto di
quattro soldati molto
mal in arnese: le divise erano stazzonate e sporche di polvere, i
capelli erano
lunghi, gli stivali chiazzati, le barbe non rasate. Tra loro, anche da
lontano,
si poteva distinguere un uomo che superava in altezza di almeno una
testa tutti
gli altri, torreggiando sulla strada davanti a sé.
I soldati
di guardia al portone gli fecero un saluto militare mentre passava,
unendo i
tacchi degli stivali e portando le mani sopra al viso. Mentre avanzava
ed era
ormai poco distante da noi l’uomo si girò
distrattamente dal nostro lato: la
cicatrice biancastra spiccava sul lato destro del viso, attraversando
completamente un occhio che, nella luce delle lanterne della strada,
appariva
latteo e opaco.
Camille
aveva ragione, quello era un uomo che non passava inosservato. Guardai
Mel, che
per un momento parse quasi congelato, e lui poi guardò me.
Come se ci fossimo
messi d’accordo, complice la notte che aveva ormai iniziato a
calare, iniziammo
ad arrampicarci sul muro della casa che si trovava di fronte a noi.
Guarda caso
aveva delle bellissime inferriate in ferro battuto che sembrano fatte
apposta,
talmente erano comode per salire. Era una cosa che ci avevano insegnato
in
Corporazione, durante l’addestramento: quando si deve
pedinare qualcuno, niente
è più comodo dei tetti. Nessuno guarda mai in
alto, e quando lo fa tende a non
notare delle ombre sul cielo buio.
Lo seguimmo
nelle sue peregrinazioni per osterie, bordelli e case di scommesse. A
un certo
punto della nottata Mel mi abbandonò per andare a comunicare
agli altri la
lieta notizia e per riposarsi, lasciandomi da solo a seguire
quell’animale di
Hyatt. Capivo in effetti perché fosse soprannominato il
Viscido e capivo ancora
di più perché Lea della locanda non si fosse
fatto troppi problemi a
consegnarcelo. Era una persona disgustosa, dai gusti abbastanza
disgustosi.
Saltai sui
tetti al freddo e al gelo fino a che, di nuovo, cominciò ad
albeggiare e Hyatt
e i suoi degni compari iniziarono a dirigersi verso la guarnigione.
Meglio
tardi che mai! Ero sveglio da qualcosa come 24 ore e non vedevo
l’ora che Mel
venisse a darmi il cambio per potermi buttare sul letto e farmi una
sana
dormita. Arrivarono davanti al portone della guarnigione, mezzi
svestiti,
ubriachi fradici, facendo un casino che avrebbe risvegliato anche i
morti, io
crollai giù dai tetti e mi accasciai più o meno
dove io e Mel avevamo aspettato
il giorno prima.
Quando
finalmente arrivò lo mollai lì senza tante
cerimonie e presi quella che speravo
essere la strada giusta per tornare al Drago Verde. Mi trascinai per le
strade,
morto di sonno, e quando finalmente entrai nella locanda feci le scale
che
portavano al piano di sopra strusciando i piedi sui gradini. Feci un
cenno
distratto ad Andreas che era già sveglio e seduto al tavolo,
solo. Quasi non mi
accorsi di aprire la porta della mia camera e quando arrivai al letto
mi ci lanciai
letteralmente sopra, rimbalzando anche un po’.
Non feci in tempo nemmeno a
togliermi gli stivali, mi addormentai in un lampo.
***
Mi risvegliai dopo ore,
abbastanza intontito, a causa di una mano che mi scuoteva gentilmente
una
spalla. Mi tirai lentamente a sedere e mi appoggiai allo schienale
guardando
fuori dalla finestra, giusto in tempo per vedere gli ultimi bagliori
del
tramonto. Davanti a me, seduta sul letto, c’era Camille.
– Ben
svegliato – mi disse, sorridendo. In tutta risposta, da gran
signore quale
sono, sbadigliai.
– Grazie.
Che ore sono? –
– Quasi le
otto. Con gli altri abbiamo pensato che probabilmente avresti voluto
dare il
cambio a Mel – disse lei, non accennando ad alzarsi dal
letto. Un po’ mi
imbarazzava farmi vedere appena sveglio: probabilmente durante la notte
avevo
anche sbavato. Mi passai la manica della maglia sulla bocca, giusto per
sicurezza.
– Avete
fatto bene, – dissi. Nel frattempo mi era venuta una fame da
lupi e mi guardai attorno
come un cane da punta. – Non è che giù
c’è qualcosa da mangiare? –
Camille si
alzò, dirigendosi verso la porta e appoggiandosi allo
stipite.
– Sì, ti
stavamo aspettando per iniziare. Così magari ci dici anche
che cosa è successo
durante la notte. –
Annuii
distrattamente, guardandomi i piedi appoggiati sul letto. Ero
abbastanza sicuro
di dovermi dare una lavata per rendermi presentabile.
– Mi cambio
e arrivo – dissi a Camille, iniziando ad alzarmi. Lei
annuì e uscì dalla mia
camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Dieci
minuti dopo ero lavato (sommariamente), cambiato e riposato, e stavo
scendendo
nella sala al piano terra pronto ad abbattermi come una
calamità naturale su
qualunque cibo mi si fosse presentato davanti. Mi diressi rapidamente
al tavolo
dove stavano i miei amici, gioendo internamente alla vista di un piatto
fumante
lasciato davanti al posto vuoto. Mi sedetti, salutai e iniziai a
mangiare.
– Scusate,
– dissi, biascicando a bocca piena. – Ma muoio di
fame. –
– Allora
mentre tu ti nutri ti diciamo a cosa siamo arrivati nella giornata di
ieri e in
quella di oggi, – iniziò a spiegarmi Jared.
– Abbiamo trovato tre o quattro
interessanti locali nella zona del porto. Probabilmente servivano per
stipare
il pesce, ma non sappiamo per quale motivo siano caduti in disuso. Sono
abbastanza isolati, l’unico problema è che negli
orari di arrivo dei
pescherecci il porto si popola di persone e potremmo essere sentiti. In
più
sono lontani dalla guarnigione e immagino che cinque persone che ne
trascinano
una sesta per mezza città non passino propriamente
inosservate. Altrimenti
abbiamo trovato un posto, che a me personalmente non fa impazzire,
più o meno
nella zona del centro della città. È praticamente
uno scantinato ed è anche
forse un po’ piccolino, nel senso che non so se in sei
riusciremmo a starci. In
più il palazzo che si sviluppa lì sopra
è abitato, quindi diciamo che la
probabilità di farsi sentire o almeno vedere è
parecchio alta. –
Io tacqui e
mi presi un pezzo di pane mentre Jared, Andreas e Camille iniziavano
un’accurata dissertazione su quale posto secondo loro fosse
il migliore. Quando
finalmente mi sentii completamente rifocillato, mi introdussi nel
discorso.
– Quindi, –
dissi. – Se ho capito bene il problema principale di un posto
è la lontananza,
dell’altro l’impossibilità di mantenere
la discrezione. Secondo me bisogna
cercare ancora. Quel tipo e i suoi compari l’altra sera
bazzicavano nella zone
ad est della città, quella un po’ malfamata. Se
stanotte ci torneranno allora
forse bisogna iniziare a pensare di trovare un posto adeguato
lì, in modo da
fare tutte le cose con comodo. Quando arriverò qui domani
mattina vi saprò di
sicuro dire qualcosa. –
– Mi sembra
una buona idea – mi rispose Andreas.
Chiacchierammo
ancora del più e del meno per qualche minuto e poi, dopo
averli salutati, uscii
per andare da Mel e iniziare il mio turno. Mi disse che non era
capitato nulla
di rilevante durante il giorno e ben presto se ne andò
lasciandomi solo a
osservare. La notte passò come quella precedente:
più o meno alla stessa ora il
Viscido Hyatt uscì dalla sua tana attorniato dai suoi amici
e poi il gruppo si
diresse verso gli stessi posti della sera prima, dei quali erano con
ogni
probabilità dei clienti abituali. Stesse locande, stesse
case di piacere.
L’unica
cosa nuova che si aggiunse al tour fu un combattimento palesemente
illegale di
cani, dove l’allegro gruppetto scommise quella che, dal mio
punto di
osservazione, sembrava una mazzetta esagerata di quattrini. Dove
riuscissero a
trovare tutti quei soldi mi sfuggiva, visto che non avevo mai avuto
notizie di
stipendi così alti per i militari.
Dopo ore
arrivò finalmente l’alba, comunque sempre troppo
tardi. Il nostro obiettivo si
ritirò per farsi una sana dormita mentre io aspettai Mel
mezzo congelato. Tornai
poi al Drago Verde, riferii quello che avevo visto al
MaiDormienteAndreas e me
ne andai a dormire.
La routine
proseguì uguale per altri due giorni, quando finalmente al
quinto giorno
dall’inizio del pedinamento, ci furono novità.
Jared, Andreas e Camille avevano
trovato un posto adatto al nostro scopo: una catapecchia fatiscente che
aveva,
al di sotto di essa, una grande cantina. Attorno c’erano
poche case, la maggior
parte delle quali erano disabitate e mezzo crollate. La zona era al
limitare
della città, a circa un quarto d’ora dai posti
solitamente frequentati da Hyatt
e dai suoi allegri compari, abitato da gente abbastanza malfamata che
non si
sarebbe mai fatta troppe domande.
Decidemmo
di prenderci quel giorno di riposo e di agire la notte seguente, per
essere
adeguatamente riposati. Saremmo andati tutti e cinque e avremmo
lasciato poi il
Drago Verde per non tornarci più, con sommo dispiacere di
Jared e dell’esercito
di cameriere. Trasferimmo tutto quello che ci sarebbe potuto servire
nella casa
che avevamo trovato e al calare della notte uscimmo, diretti verso la
guarnigione.
Avevamo
deciso di dare la classica botta in testa ad Hyatt e di uccidere gli
uomini con
lui, per evitare di lasciare testimoni. Avrei voluto che Camille ci
aspettasse
alla casupola e non venisse con noi, giusto per evitare scenate tipo
quella al
porto, ma la ragazza fu irremovibile, giurando che non ci sarebbe stata
d’impaccio. Arrivammo al solito posto davanti alla
guarnigione e ci appostammo
sui tetti, aspettando l’uscita del nostro uomo.
Come da
programma, dopo il tramonto Hyatt uscì accompagnato questa
volta da cinque
compari, tra i quali anche un ragazzino di poco più di
sedici anni, almeno da
quello che potevo scorgere dall’alto dei tetti. Eravamo di
nuovo tutti vestiti
di nero nell’uniforme degli Assassini, completamente
invisibili al buio e con i
visi coperti, rendendo impossibile il nostro riconoscimento. Avevamo
deciso di
agire quando il gruppo fosse uscito dal “Barile
d’Oro”, una locanda pulciosa
che era sempre inevitabilmente sul loro percorso: di solito ne uscivano
talmente ubriachi che facevano fatica anche a camminare e la cosa
avrebbe solo
potuto esserci d’aiuto. Ci sarebbero state meno
difficoltà per noi. Verso le
tre di notte, almeno a giudicare dalla posizione della luna, Hyatt e
compagni
entrarono nel locale e come da programma ne uscirono completamente
bevuti. Noi
eravamo già scesi dai tetti e li stavamo aspettando
appostati dietro gli angoli
delle case, invisibili e pronti all’azione. Mel, il
più grosso di tutti noi,
aveva il compito di stordire Hyatt e proprio per quello scopo aveva in
mano uno
spesso ramo di legno pesante, trovato un paio di giorni prima per la
strada. Io
avrei dovuto uccidere due uomini; Jared, Andreas e Camille ne avevano
uno a
testa. Sperai fortemente che tutto andasse secondo i nostri piani e
soprattutto
che Camille non incontrasse difficoltà. Presi in mano un
pugnale da lancio e
nell’altra impugnai una delle mie due spade, saldamente. Feci
un grosso respiro
per svuotare la mente e poi aspettai.
Come se ci
fossimo dati un comando, nello stesso momento uscimmo
dall’ombra. Lanciai il
pugnale verso uno degli uomini, colpendolo al collo. Cadde a terra
senza
nemmeno emettere un lamento. Mi lanciai sul secondo uomo con un balzo,
ringhiando, la spada stretta in mano. Lui non fece nemmeno in tempo ad
estrarre
la sua che un palmo di acciaio gli spuntava dalla schiena, brillando
alla
leggera luce arancione delle lanterne. Estrassi la lama e lo vidi
cadere per
terra, tenendosi il petto. Il suo sangue sembrava nero nella luce della
strada.
Lo guardai in viso distrattamente e mi accorsi che era il ragazzo che
avevo
visto dai tetti, quello poco più giovane di me.
Probabilmente era la prima
volta che usciva per andare a donne e per bere e si era trovato
lì solo per una
sfortunata coincidenza. Mi guardai intorno e vidi i corpi di sei uomini
per
terra, i miei amici erano tutti illesi e con ancora le armi in mano.
Nessuno di
noi era ferito e anche Camille sembrava stare bene. Distolsi lo sguardo
e mi
avvicinai al primo uomo che avevo ucciso, per recuperare il coltello.
Strusciai
la lama della spada sui suoi vestiti per ripulirla del sangue, mentre
attorno a
me i miei amici facevano lo stesso. Una volta finito, ci guardammo
negli occhi.
Senza una parola, Mel si caricò sulle spalle il corpo inerte
di Hyatt e poi
corremmo via nella notte, silenziosi e letali.
***
Un’ora dopo avevamo legato
Hyatt a una sedia nella cantina della casa base. Non l’avevo
ancora vista e mi
congratulai mentalmente per la scelta di Jared, Andreas e Camille: era
decisamente il posto che ci serviva. Era una stanza quadrata vuota
eccetto solo
per la sedia su cui era seduto il Viscido e un tavolaccio di legno sul
muro
alla mia destra.
Sulle
pareti correvano strisce di muffa verdastra e un odore di umido
impregnava
l’aria. Da una botola sul soffitto scendeva una scala a
pioli, tramite la quale
si raggiungeva il piano di sopra dove ci sarebbe stata Camille, dal
momento che
nessuno di noi voleva che vedesse quello che avremmo dovuto fare. Sul
tavolo al
nostro fianco c’erano dei coltelli affilati e leggermente
ricurvi, e delle
tenaglie di varia misura, inquietanti. Eravamo pronti a far dire a
quell’uomo
tutto ciò che sapeva, che fosse con le buone o con le
cattive, e tra di noi Mel
si era stranamente offerto di fare il lavoro sporco.
Hyatt non
si era ancora svegliato e già una chiazza di sangue
rossastro si stagliava sul
retro della sua testa: Mel c’era andato giù
pesante. Guardammo l’uomo per un
po’ con le braccia incrociate, disposti a semicerchio davanti
a lui e
aspettando non so quale intervento divino prima di iniziare. Finalmente
Jared
prese l’iniziativa lanciandogli una secchiata
d’acqua dritta in viso e Hyatt
aprì gli occhi, dirigendo lo sguardo ancora offuscato verso
di noi.
– Dove…
Dove sono? Chi siete? – disse, con voce ancora instabile,
iniziando a tirare
leggermente le corde che gli legavano i polsi.
Nessuno gli
rispose.
– Voi non
sapete chi sono! Tra neanche due ore avrete tutta la guarnigione alle
calcagna!
–
Ancora silenzio.
– Sono un
capitano dell’esercito! E vi ordino di lasciarmi andare!
– Sembrava più stupito
che spaventato, sconvolto che qualcuno avesse osato rapirlo.
Mel gli si
avvicinò e gli tirò un pugno in viso, sotto la
forza del quale Hyatt si piegò di
lato senza però perdere di nuovo i sensi. Il mio amico gli
si avvicinò
all’orecchio, sussurrandogli minaccioso: – Qua gli
ordini li diamo noi. –
Quando si
tirò su ci allontanammo tutti e salimmo al piano di sopra,
lasciando l’uomo da
solo nello scantinato. Scendemmo di nuovo un paio d’ore dopo
trovando Hyatt ancora
accasciato sulla sedia, con gli occhi che correvano nervosi da una
parte
all’altra della stanza. Probabilmente si stava chiedendo come
mai non si era
ancora fatto vivo nessuno per il suo salvataggio, anche se la cosa non
avrebbe
dovuto stupirlo troppo. Non mi dava l’impressione di essere
troppo benvoluto,
nella guarnigione: doveva essere uno di quei tipi crudeli con i
sottoposti e
servili con i superiori. Non il genere di persona che possa piacere,
insomma.
– Cosa
volete da me? – il suo occhio buono guizzava tra di noi
talmente veloce che era
difficile seguirlo. – Lasciatemi andare! –
Bisognava
assolutamente fargli capire chi comandava, altrimenti non ci avrebbe
mai detto
nulla. Dovevamo spaventarlo, fargli temere per la sua vita. Questa
volta gli si
avvicinò Jared, lo guardò dritto negli occhi e
gli diede un pugno, e poi un
altro, e un altro. Senza dire una parola, in un silenzio tombale. Poi,
di
nuovo, quando Hyatt era ormai quasi sull’orlo
dell’incoscienza, lasciammo la
sala. Facemmo questo giochetto ancora un paio di volte fino a che
potemmo
vedere la paura nei suoi occhi quando scendevamo dalle scale a pioli,
tornando
nella stanza sotterranea. Finalmente avremmo potuto iniziare a fare
domande.
– Vedi ,
capitano, – dissi con tono sprezzante.
– Ci sono delle cose che vogliamo sapere da te. –
– Vi dirò
tutto quello che so. – La voce dell’uomo era
tremante.
Un cenno di
assenso: – Molto bene. Per iniziare, hai mai visto di persona
la principessa
Camille Coverano? –
– No, mai,
lo giuro! –
Gli
sorrisi, in un modo che voleva essere terrificante: –
Risposta sbagliata. –
Mel gli si
avvicinò con una lama molto sottile in mano, aprendogli un
taglio lungo e poco
profondo sul torace, da spalla a spalla. Hyatt urlò. Non
doveva essere abituato
al dolore. Mi accucciai davanti a lui, parlando a voce bassa, sommessa.
–
Riproviamo. Hai mai visto di persona Camille Coverano? –
Un tremito.
– Sì. –
– Molto
bene. Quando e dove? –
– Qui a
Melusine, a… al porto. È venuta lei da me! Da me
e dalle mie guardie! – i suoi
occhi rimanevano fissi sulla lama in mano a Mel, non riusciva a
distogliere lo
sguardo.
– E poi? –
Mel iniziò ad avvicinarglisi con andatura lenta, facendo
baluginare la lama
nella luce soffusa della cantina.
– E poi la
stavamo scortando a palazzo per salvarla ma è scappata!
– gli uscì praticamente
uno strillo.
Mel si
avvicinò ulteriormente e gli fece un altro taglio, lungo e
profondo, parallelo
al primo. Aveva tutta la calma del mondo. Hyatt si scosse sulla sedia,
cercando
di districare i legacci che lo trattenevano, urlando.
– Non è la
verità. Meglio che tu sia completamente sincero quando parli
con noi. –
– S… sì.
A…
avevamo l’ordine d… di portarla a palazzo, poi
lì sa… sarebbe stata uccisa. Ma
è scappata, lo giuro! –
Annuii e mi
ritirai; al mio posto si fece avanti Andreas.
– Chi aveva
dato l’ordine? – gli chiese, distrattamente,
giochicchiando con gli strumenti
che c’erano sul tavolo di legno. Hyatt deglutì
rumorosamente ma non rispose. Di
nuovo, Mel lo ferì con il coltello.
– Allora?
Non amo ripetermi. –
– Il
Comandante della Guardia degli Auremore, Lord San! – ci
urlò contro.
– Molto
bene, – gli rispose Andreas. – Adesso iniziamo con
la parte divertente. Cerca
di fare mente locale, ti servirà. Nel 1620 più o
meno in questo periodo
dell’anno, cosa facevi? –
– I… io ero
marinaio, signore. –
Un ghigno.
– E da dove vieni? –
– Da
Dimina! –
Andreas
fece un segno a Mel, che questa volta posò il coltello e
optò per delle pinze.
Gli prese una mano e, senza nessuna fretta, gli strappò
un’unghia. L’urlo fu
atroce.
– Sai, noi
conosciamo gli accenti delle varie nazioni e il tuo assomiglia in modo
sbalorditivo al nostro. Purtroppo però, noi non veniamo da
Dimina. Quindi, di
nuovo, da dove vieni? –
– Da
Viride! Vengo da Viride! – piagnucolò. Chiusi per
un momento gli occhi,
cercando di rintanarmi in qualche parte lontana di me. Quello che
stavamo
facendo era necessario, non c’era altro modo, ma nonostante
ciò detestavo la
tortura. È in grado di rendere un uomo coraggioso il
più vile di tutti. Mi
pentii, come faccio sempre in questi casi, della mia scelta di qualche
giorno
prima: all’improvviso l’opzione del pagamento non
mi sembrava così
improponibile, anche se sapevo benissimo che non avrebbe portato a
nulla.
Quello che stavamo facendo era l’unica scelta possibile.
Questa
volta parlò Jared.
– E cosa ci
fai come capitano di guarnigione a Dimina, Viridiano? –
– I… io…
–
Un’altra
unghia, un altro grido.
– Io sono
stato premiato. –
– Per cosa?
E da chi? –
Non parlò.
Mel gli si avvicinò di nuovo ma questa volta Hyatt decise di
dirci quello che
volevamo sapere prima di perdere un’altra unghia.
– Abbiamo…
abbiamo ucciso il principe Adrian Coverano e i suoi due figli.
–
Silenzio.
Eccolo lì, quello che ci serviva. Non era niente di che,
solo poche parole, ma
almeno finalmente avevamo la sicurezza che le nostre congetture erano
giuste. Qualcuno aveva ordinato l’omicidio del Principe
ereditario e dei suoi due
figli, ed era sopravvissuto impunito per più di dieci anni.
–
Raccontaci. –
– Eravamo
l’equipaggio della nave che li avrebbe dovuti portare a
Dimina. Ci siamo
ammutinati e li abbiamo uccisi, poi abbiamo colato a picco la nave.
Appena
arrivati su suolo diminiano siamo stati separati, a ognuno di noi
è stata data
una casa, un mucchio di soldi, e un grado nell’esercito della
nazione. –
– Molto
bene. Ci serve un’ultima cosa: il nome del tuo comandante,
qual era? –
Ormai Hyatt
non faceva nemmeno più resistenza. Il suo torace era ridotto
a un grumo
sanguinolento, dalla mano destra gocce rosse cadevano sul pavimento.
– Si chiamava
Lod. Lod Carean. –
– Sai dove
si trova adesso? – gli chiese Mel. Hyatt sobbalzò
al suono della sua voce.
– Parlava…
parlava di Basilea. Ma non ne sono sicuro! –
Ci
guardammo tutti, in silenzio. Avevamo quello che ci serviva, non
avevamo
bisogno di stare ulteriormente in quello scantinato. Ci dirigemmo tutti
alla
scala che pendeva dal soffitto, per raggiungere la botola che portava
al piano
di sopra. Solo Mel, dopo averci fatto un cenno col capo, rimase
giù.
Nella
stanza di sopra c’era Camille che guardava con aria assorta
dalla finestra,
continuando a girarsi e rigirarsi tra le mani un ciondolo. Ci fece un
sorriso
tirato quando ci vide, aveva certamente capito tutto quello che era
successo. Di
sicuro aveva sentito le urla. Io mi sentivo sporco, indegno di parlare
con lei:
per quanto spregevole fosse quell’uomo non mi era piaciuto
quello che avevamo dovuto
fare. Non mi ci sarei mai abituato e forse ero contento
così. La tortura è
qualcosa di spregevole, umiliante. Mille volte meglio una morte pulita,
con una
lama in mano durante un combattimento alla luce del sole.
I raggi del
sole del mattino passavano dalle finestre luride, dando
un’aria ancora più
squallida alla casa in cui ci trovavamo. Dopo pochi minuti anche Mel
fece
capolino dalla botola e mentre si sollevava potei intravedere il
cadavere di
Hyatt ancora legato sulla sedia. L’avremmo lasciato
lì, nessuno sarebbe andato
a cercarlo e nessuno ne avrebbe nemmeno mai sentito la mancanza. Ci
guardammo,
e mentre noi quattro avevamo sì facce serie e tirate, solo
Camille sembrava
stravolta dagli eventi che aveva dovuto sopportare. Noi non ne eravamo
felici
ma ci eravamo abituati: non era la prima volta che ci toccava il lavoro
sporco;
lei invece non aveva mai dovuto neanche vedere niente di simile,
figurarsi
farlo. Gli occhi verdi rimanevano vuoti e sbarrati sul mondo, la luce
che fino
a poche ore prima si poteva vedere era del tutto sparita e non avrei
saputo
dire quando sarebbe ricomparsa.
Presi la
parola: – Andiamocene da qui. –
Nessuno
commentò e persino Jared era innaturalmente silenzioso.
Tutti però mi seguirono
oltre la porta di quella casa maledetta.
***
Tre ore dopo eravamo al porto,
su una nave diretta a Basilea che sarebbe partita nel giro di qualche
minuto.
Melusine si trovava su una grossa isola facente parte del territorio
Diminiano
e per raggiungere l’altra città avremmo di nuovo
dovuto attraversare il mare,
sperando questa volta nella clemenza degli elementi.
Fortunatamente la nave che ci
aveva accolto come passeggeri batteva bandiera di Viride e il
comandante si
sarebbe accontentato della nostra parola per aiutarci, in onore della
nostra
nazionalità. Non si trovano più molte persone
così, oggigiorno. In più
sarebbero ripartiti immediatamente da Basilea diretti verso il nord,
quindi con
un po’ di fortuna sarebbero stati abbastanza lontani dalla
lunga mano della
Corporazione. Niente omicidi gratuiti, per questa volta.
Il mare
quando partimmo sembrava una tavola, illuminato dal rosso, giallo,
arancione e
verde del tramonto. Rimasi sul ponte fino a che la città di
Melusine scomparve alla
vista, annusando l’odore salmastro del mare con Camille
accanto a me e la sua
testa sulla mia spalla, a occhi chiusi. Lentamente i ricordi del
pomeriggio si
ritirarono, cessando di perseguitarci e lasciandoci respirare. Non
parlammo di
nulla ma rimanemmo così, vicini, e allora capii che
nonostante tutto la vita
non era poi così male.
Ore dopo, porto di Melusine
Un uomo vestito di nero percorreva con passi
sicuri e veloci il
pontile, diretto verso l’ennesimo locale di quella sera, in
una ricerca
incessante. Sperava di trovare qualche traccia, qualche pista che
avrebbe
potuto metterlo sulla giusta via e permettergli di catturare le sue
prede. Entrò
sicuro nella casa di piacere sbattendo le porte, senza che questo
facesse
cessare i rumori di gridolini femminili, di boccali sbattuti sul legno,
di voci
basse e roche. Bloccò ogni persona che gli si parava davanti
mostrando un
foglio di carta da cui quattro volti disegnati a inchiostro
ricambiavano lo
sguardo. Nessuno li aveva visti, sembrava che da lì non
fossero passati.
Finalmente, quando aveva quasi perso le speranze ed era pronto ad
affrontare la
notte, un uomo gli diede la risposta che cercava. Li aveva visti poche
ore
prima lì, al porto, vicino a un bastimento che era ormai
salpato per Basilea.
L’uomo in nero si concesse di sedersi, prendendo da bere e
occhieggiando le
donne discinte che gli passavano vicino. Aveva una pista e quei quattro
disertori non avrebbero più avuto una vita facile: non si
scappa così facilmente
dalla Corporazione degli Assassini. Sarebbe andato a prenderli.
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Capitolo 9 *** IX ***
CAPITOLO IX
CAMILLE
Il viaggio fino a
Basilea,
incredibilmente, andò bene. Nessun fortunale, niente onde
maligne che cercavano
di ribaltarti, niente vento che spazzava la chiglia e, ultimo ma non
per
importanza, nessuno che vomitava in giro. A parte Jared, in effetti, ma
gli
altri mi spiegarono che lui non faceva testo perché appena
metteva anche solo
un piede sul ponte di una nave quello era il risultato.
Il
comandante della nave si dimostrò un galantuomo e mi cedette
persino la sua
cabina durante la traversata perché, parole sue,
“una signora non può dormire
in una stanza qualunque”. Mi ripromisi che mi sarei ricordata
di quella
cortesia.
Basilea era
la capitale d’Autunno degli Auremore e, come mi spiegarono
Marcus e Andreas
mentre sbarcavamo dalla nave, questo era particolarmente pericoloso per
noi:
eravamo in pieno ottobre e quindi era proprio lì che si
trovava in quel momento
la famiglia reale con tutta la sua corte e, soprattutto, con tutti i
suoi
soldati. Pattuglie armate giravano per le strade per tenere la
situazione sotto
controllo e proteggere i regnanti, rendendo molto difficile fare
qualsiasi cosa
senza venire notati.
A parer mio
la città era la meno bella tra le capitali di Dimina, anche
se rimaneva
comunque molto affascinante. Sorgeva sulle sponde del mare, di cui i
diminiani
erano padroni. Si diceva che nessuna flotta potesse competere con
quelle di
questo paese e, anche se era da anni che non c’era una
guerra, i libri di
storia parlavano di battaglie per il controllo delle acque in cui le
navi di
Dimina distrussero completamente quelle avversarie, rendendole legno
marcio sul
fondo del mare e cibo per i pesci.
Il palazzo
d’Autunno era stato costruito su un istmo roccioso circondato
dalle acque,
lontano dalla città. Si diceva galleggiasse sul mare per un
miracolo divino, ma
la verità era che i costruttori al servizio degli Auremore
erano solo molto
bravi a fare il loro lavoro.
Dalle
balconate e dai giardini cascate d’acqua portata dai fiumi si
riversavano nel
mare sottostante, rendendo splendida la vista al tramonto e
all’alba, quando la
luce del sole si rifletteva sugli schizzi e sulla spuma delle onde. Lo
so
perché tanti anni fa, quando mio padre era ancora in vita,
la mia famiglia era
stata invitata ad un evento ufficiale e, essendo pieno autunno, si era
svolto
lì. Quello che mi passò sotto gli occhi mentre
percorrevamo la città dopo
essere sbarcati, però, era completamente diverso da quello
che avevo visto da
bambina dalle mura del Palazzo Reale.
Basilea era
sempre stata famosa per la pelle e per il cuoio, ma mai avevo collegato
una di
queste cose con la puzza che c’era nell’aria. Era
un odore pungente e, almeno
per me, sgradevole, che penetrava nel naso non togliendosi
più, coprendo ogni
altra cosa. Case rosse, costruite con la pietra che veniva estratta
ancora
adesso dalle cave disseminate per il regno, sorgevano a ogni angolo.
Era una
delle città più popolose dell’intera
nazione e quindi decine e decine di
persone si ammassavano l’una sull’altra,
percorrendo le vie dritte e
insensatamente strette della capitale.
Per me,
nata e cresciuta a corte e vissuta per due anni in un villaggio
sperduto dentro
a un bosco, una visione del genere era inconcepibile e anche
spaventosa.
Continuavo a venire urtata, spintonata, toccata da sconosciuti che
camminavano
senza curarsi della gente attorno, procedendo per la loro strada senza
deviare
di nemmeno un passo.
C’erano rumori da ogni parte:
urla, risate, pianti di
bambini, voci, nitriti di cavalli, rumori di carri che avanzavano
cigolando.
Sentii improvvisamente una strana sensazione di panico avanzare dentro
di me,
mozzandomi il respiro che iniziò a uscire dalle mie labbra
sempre più rapido e
meno profondo. Ovunque girassi la testa c’erano persone. Mi
mancava l’aria. Non
so come se ne accorse, ma a un certo punto Marcus mi prese la mano,
tirandomi
verso di sé.
– Guarda
verso l’alto, Camille, e respira. –
Mi addossai
a lui e feci come mi aveva detto. Guardai il cielo bianco percorso da
basse
nuvole lattiginose, togliendo dal mio campo visivo le teste di tutta
quella
gente che mi pressava da ogni lato. Chiusi gli occhi e sentii
l’aria entrare e
uscire dai miei polmoni, tranquillizzandomi. La puzza sfortunatamente
era
ancora lì, ma adesso era parzialmente coperta da un odore
diverso, piacevole,
pungente e fresco. Feci un respiro profondo e aprii gli occhi, trovando
Marcus
che mi fissava accigliato dall’alto, accorgendomi che
l’odore che sentivo era
il suo. Eravamo come un’isola ferma in mezzo alla fiumana di
gente e solo in
quel momento mi resi conto di quanto eravamo vicini, praticamente
abbracciati.
Avvampai e mi staccai in fretta.
– Va
meglio? – mi chiese.
– Sì, non
so cosa mi sia preso, – feci una risata stentata, tirando
indietro una ciocca
di capelli che era sfuggita dalla treccia. – Grazie.
–
Lui annuì
sorridendo e stava per dire qualcosa quando fu interrotto da un urlo
belluino
di Jared.
– Vi
muovete? Se ci perdiamo qui non ci ritroveremo mai più!
–
–
Arriviamo! – gli urlò Marcus, per poi rivolgersi a
me. – Stammi vicino, va
bene? Anche se spero che tra poco usciremo da questa bolgia. –
Feci come
mi aveva detto e in effetti, dopo poco, girammo in un vicolo
più tranquillo,
per riprendere fiato e cercare di capire cosa fare, visto che avevamo
evitato
di parlare troppo sulla nave per non rischiare che le nostre parole
finissero
nelle orecchie sbagliate. Come si dice, fidarsi è bene ma
forse non fidarsi è
meglio.
La strada
che avevamo preso era un vicolo cieco chiuso dal cancello in ferro
battuto di
una grande casa, che faceva ombra e toglieva quella poca luce che
veniva dal
cielo coperto. Faceva freddo lontano dalla folla, che si muoveva e
rumoreggiava
poco lontano nella via principale.
– Quindi?
Che si fa? – chiesi.
– Come che
si fa? Dobbiamo trovare questo tale Carean – mi rispose
Andreas.
– Grazie,
Andreas, fino a qui ci arrivavo da sola, – ribattei con uno
sbuffo impaziente.
– Che cosa vi ha detto Hyatt su di lui? –
Non avevamo
ancora parlato bene di quello che era successo nella cantina, a
Melusine. Loro
mi avevano detto a grandi linee cosa avevano scoperto e io avevo capito
che
l’uomo era stato torturato e poi ucciso. Più ci
pensavo più mi incupivo. Avrei
davvero dovuto camminare sui cadaveri per ottenere il mio trono? Ero
pronta a
farlo? Scossi la testa scacciando quei pensieri, ripetendomi che avrei
fatto
qualunque cosa sarebbe stata necessaria per ottenere ciò che
mi spettava di
diritto. E poi quell’uomo era disgustoso, viscido e malvagio,
ed era un
assassino. Così come lo erano gli uomini vicino a me, mi
ricordò una vocina nel
mio cervello che decisi di ignorare. In quel momento presi una
decisione: non
avrei lasciato che Marcus e gli altri facessero tutto il lavoro sporco,
ma da
quel momento in avanti avrei fatto ogni cosa insieme a loro. Solo
così avrei
avuto davvero la consapevolezza di quello che stavo facendo, di quanto
sarebbe
costata la mia vendetta.
– Non molto
in realtà, – mi rispose Mel. – Se non
che è arrivato fino a qui, con un posto
nell’esercito pronto da prendere. Se poi abbia colto
l’occasione non lo
sappiamo e non sappiamo se si sia spostato. Le informazioni sono
vecchie di
almeno dieci anni e non ne abbiamo altre. –
Le mie
sopracciglia schizzarono verso l’alto: – Quindi non
sappiamo praticamente
niente? –
– Esatto. –
Fantastico.
Davvero fantastico. Che poi, che mi aspettavo? Seguivamo una pista
vecchia di
dodici anni e non c’era garanzia che saremmo riusciti a
percorrerla fino alla fine,
visto il tipo di soggetti che cercavamo. Magari erano già
tutti morti e sepolti
e la nostra ricerca era destinata a fallire. Non avevo mai pensato alle
cose da
quel punto di vista e uno strano panico si fece strada dentro di me. Si
diceva
che si capiva quanto si voleva una cosa nel momento in cui ti veniva
tolta, e
io d’improvviso capii che il desiderio della vendetta era
quanto di più forte
c’era nel mio corpo: la possibilità di non
ottenerla mi mozzava il fiato. Sarei
andata fino in fondo a quella storia, a qualunque costo.
– Sono solo
le due di pomeriggio, – disse Marcus. – Direi che
possiamo fare un giro per la
città cercando di capire come orientarci, visto che non sono
l’unico a non
essere mai stato qui. Che ne dite? –
Annuimmo
tutti, sperando che la giornata ci portasse consiglio. Dopo pochi
minuti
c’eravamo già di nuovo tuffati nel caos della via
principale.
***
Ore dopo non avevamo cavato un
ragno dal buco: avevamo più o meno imparato come orientarci
nella città ma per
quanto riguardava il nostro uomo non avevamo trovato niente che avrebbe
potuto
aiutarci nella ricerca.
In quel
preciso momento stavamo comprando da mangiare da un banco in mezzo alla
strada,
che vendeva forme di pane scavata all’interno contenenti una
zuppa di pesce. Avevo talmente fame che sarei potuta svenire e
l’odore del cibo mi sembrava
provenire direttamente dal paradiso, mentre il sapore era ancora
migliore.
Decidemmo
durante la cena improvvisata di cercare due posti separati dove
dormire, per
evitare di rendere troppo facile la vita agli Assassini della
Corporazione che
ormai, secondo Andreas, si erano messi inevitabilmente sulle nostre
tracce.
Purtroppo, a differenza di Melusine, Jared non aveva nessun contatto
con
affascinanti cameriere di locanda, quindi ci accontentammo di quello
che ci
capitò sotto tiro.
Io, Marcus
e Andreas ci dirigemmo verso quella consigliataci dal venditore di
zuppe, poco
lontano dal centro città, mentre Mel e Jared andarono alla
ricerca di un altro
posto dove poter riposare. L’appuntamento era per il giorno
dopo alle 8 di
mattina (e avevamo dovuto lottare per convincere Andreas che non era
troppo
tardi), in una piazzetta in cui eravamo capitati ripetutamente durante
il
giorno.
La locanda
consigliataci, che rispondeva al nome molto sobrio di “La
moglie ubriaca”, era
pulita e semplice, che per quanto mi riguardava era il massimo che
potevo
desiderare. La notte passò tranquilla e il mattino dopo ci
dirigemmo puliti,
riposati e sazi verso il luogo dell’incontro dove i nostri
amici ci
aspettavano. Avvicinandoci ci accorgemmo però che, mentre
Mel era seduto sul
bordo di pietra della fontana in mezzo alla piazza, Jared era
stravaccato su
una panchina poco distante, praticamente incosciente.
– Tutto
bene? – chiese Marcus, avvicinandosi a Mel, guardando
preoccupato Jared che non
dava segno di vita.
– Sì,
grazie, e voi? – rispose lui, con un sorriso riposato
stampato sul volto.
Marcus lo guardò come se
avesse dei problemi mentali, e io feci una risatina, seguita subito da
Andreas.
– Noi tutto
a posto, – dissi ancora ridacchiando, riempiendo il silenzio
creato da Marcus.
– Ma Jared? Che ha? –
Un mugolio
provenne dalla panchina dove stava sdraiato Jared, che veniva guardato
malamente dalle persone che gli passavano vicino.
– Ah, sì.
Siamo andati a bere ieri sera e ha iniziato a dire che era in grado di
reggere
più di me. – fece Mel alzandosi, mentre Marcus e
Andreas fissavano Jared da
lontano con aria sconvolta e sopracciglia alzate.
– Non lo
facevo così stupido – disse Marcus, con le mani
sui fianchi, in una replica
perfetta di una mamma che sgrida il figlio dopo che questo ha combinato
qualche
pasticcio. Jared fece un verso più forte degli altri.
Lo guardai
stupita: – Io non ci vedo nulla di così strano,
anche se il tempismo non è
stato dei migliori. Voi uomini non lo fate ogni tanto? –
– Si vede
che non hai mai visto bere Mel, è uno spettacolo quasi
spaventoso, – mi rispose
Andreas che, con Marcus, si stava dirigendo verso Jared. – E
comunque non siamo
solo “noi uomini” a farlo, ci sono delle ragazze
che finiscono tramortite sotto
il tavolo molto dopo di me. –
Sorrisi
all’immagine mentre Andreas e Marcus prendevano da sotto le
ascelle Jared, per
tirarlo in piedi. Lui biascicò qualcosa in un tentativo di
rivolta, ma palesemente
aveva qualche difficoltà sia nel pronunciare parole di senso
compiuto sia nel
camminare autonomamente. Lo portarono di forza fino alla fontana e poi,
sotto
lo sguardo divertito di Mel e mio, gli misero la testa
nell’acqua gelida. Jared
iniziò a muoversi e dimenarsi e quando gli tirarono fuori la
testa i capelli
argentei erano gocciolanti, ma almeno gli occhi blu iniziavano ad
aprirsi.
Ripeterono il procedimento per un paio di volte, fino a quando nello
sguardo di
Jared rimase solo una minima traccia di annebbiamento e i vapori
dell’alcol non
furono scacciati dal freddo. La casacca era fradicia, come anche le
maniche e i
capelli.
– Basta,
basta! Sono sveglio! – urlò, subito prima di
essere lasciato dagli amici.
– Molto
bene, – gli rispose Marcus, dandogli una pacca sulla spalla
bagnata. – Perché
ci servi sobrio e attento. –
***
Dopo poco stavamo dirigendoci
verso zone diverse della città, per continuare la nostra
azione di ricerca.
Avevamo deciso di iniziare a chiedere in giro, con circospezione, se
qualcuno
conoscesse Lod Carean. Avremmo evitato la guarnigione
dell’esercito per non
attirare troppo l’attenzione, ma non avevamo un posto
specifico in cui andare a
chiedere. Avremmo dovuto battere tutta città e forse
qualcosa sarebbe venuto
fuori. Ci dividemmo e scegliemmo una zona da perlustrare: a me e a
Marcus toccò
la zona nord (a quanto pare non si fidavano a farmi girare da sola), a
Mel la
zona sud, a Jared l’ovest e ad Andreas, ovviamente,
l’est. Ci saremmo trovati
per le nove di sera alla piazza della fontana, sperando di avere buone
notizie.
Altrimenti avremmo dovuto inventarci qualcos’altro e non
sapevo assolutamente
che cosa avremmo potuto fare.
Il nord
della città di Basilea era occupato per la maggior parte da
una classe di gente
comune arricchita: non c’erano poveri ma nemmeno nobili e
molti di quelli che
abitavano in questa zona erano mercanti che avevano potuto migliorare
la loro
vita con il commercio. Era come entrare in un mondo a parte, diverso
dalla zona
del porto con le sue case piccole e anche un po’ pericolanti,
ma anche
totalmente differente dalla città vicino al castello reale,
con abitazioni
enormi e marmi pregiati.
Lì dove
eravamo noi le case erano sì grandi, ma costruite con i
mattoni rossi tipici
della zona, i giardini erano comuni e molto curati, c’erano
fontane di pietra
bianca, calcarea, in ogni piazza, e le vie erano costeggiate da file di
alberi
di Sahar che, a quanto potevo vedere, erano stati potati da poco.
Persone ben
vestite percorrevano le strade, alcune viaggiavano a cavallo e altre in
carrozza, ma comunque non c’erano il caos e la confusione che
vigevano nel
resto della città. Tutti sembravano tranquilli e senza
fretta, e anche
stranamente cortesi. Nessuno ci guardò con sospetto e anzi,
qualche uomo mi
fece persino un elegante cenno del capo passandomi vicino, nonostante
non
avessi proprio l’aspetto di una nobildonna. Ogni cosa era
rilassata, come se
fossimo in un mondo a parte. Non mi sarei stupita di scoprire che la
zona in
cui ci trovavamo era recintata e che i cittadini comuni non potessero
raggiungerla
se non sotto invito. Le guardie reali, onnipresenti in
città, passavano davanti
a noi ignorandoci e tenendo alti gli stemmi degli Auremore. Marcus
camminava
vicino a me in costante ammirazione, girando la testa da una parte
all’altra
della strada, fissando ogni cosa, facendomi temere che gli cascasse dal
collo e
rotolasse per la strada.
– Eri mai
venuto qua prima? – gli domandai, vedendo la sua
curiosità.
– No, mai.
Avevo visitato Melusine e la Capitale d’Inverno, Vilena, ma
Basilea mi mancava
ancora. E poi ho visto decine di cittadine disperse per le campagne, ma
quelle
non fanno testo. –
– E ti sta
piacendo? –
–
Moltissimo, anche se credo che la mia preferita tra le città
di Dimina rimanga
Vilena, almeno per ora. Ci sei mai stata? –
– Una
volta, tanto tempo fa. Mi ricordo solo neve e ghiaccio, niente che mi
avesse
entusiasmato particolarmente. Preferisco Elea, che per me è
la più bella di
tutte – dissi e mi accorsi che era davvero da tanto tempo che
non vedevo la mia
città. Mi mancava casa mia.
– Io non ci
trovo niente di che, in Elea. È banale. Qui invece
c’è così tanto e molte cose
sono diverse rispetto a come sono da noi. Ma ciò che mi
piacerebbe di più in
assoluto sarebbe vedere le grandi città del Sud, come
Egalia, la Regina del
Deserto – mi disse, e mentre mi parlava mi accorsi che gli
luccicavano gli
occhi.
– Ti piace
viaggiare? – gli chiesi, sorridendo, e mi resi conto che da
quando eravamo
arrivati nella nostra zona della città non avevamo fatto
altro che
chiacchierare, lasciando perdere la nostra ricerca. Tanto la giornata
era
lunga, mi dissi; di tempo ne avevamo. Però tra me e me
sapevo benissimo che non
avremmo iniziato tanto presto con la ricerca di Carean, visto che
quello che
stavamo facendo era di gran lunga un’attività
migliore.
– Sì, tanto.
Soprattutto per mare, nonostante la scena impietosa del viaggio verso
Melusine.
Credo che se non facessi quello che faccio sarei un marinaio, di quelli
che
coprono la rotta per il commercio di sete e spezie, lungo tutti i paesi
del sud
e del nord. E di te invece, che mi dici? Ti piace viaggiare? –
Ci pensai
un po’ su: – Sai, – risposi. –
Sono scappata per così tanto tempo che adesso
l’unica cosa che vorrei è un po’ di
riposo a casa mia. Mi piacerebbe poter
stare ad Elea fino ad annoiarmi. Però quando ero piccola mi
ricordo che quando
mio padre veniva a dirmi che mi avrebbe portata con sé in
uno dei suoi viaggi
era sempre una festa. –
Sorrisi al
ricordo.
– E che
posti hai visto? – mi chiese la voce interessata di Marcus,
mentre continuavamo
a camminare con calma per le vie di quel quartiere ricco.
– Ho visto
Basilea, Vilena, Melusine e Raissa, la Capitale di Primavera di Dimina.
Ho
visto Alessandria, a Cesia, e anche alcune oasi nel deserto che la
divide da
Albis. Sono andata al Lago delle Stelle Cadute, sulla linea di confine
delle
nazioni del sud. Ma il posto più bello per me
rimarrà sempre il Monastero di
Hiems. L’unica strada che porta fino a lì passa
per le montagne e ci si mettono
tre giorni per completarla. Tutti coloro che vogliono arrivare al
Monastero
devono passare da lì, obbligatoriamente, in una sorta di
pellegrinaggio. Sono
tutti d’accordo nel dire che è un percorso
faticosissimo, anche se per me non è
stato così. Sai, i soliti privilegi dei ricchi, io la strada
l’ho fatta a dorso
di mulo. Una delle cose che voglio fare quando riavrò la mia
vita sarà andare
là, e questa volta a piedi, come tutti. –
– È così
bello lassù? –
– Più di
quanto tu possa immaginare. Il Monastero è su una delle
vette più alte della
catena montuosa ed è completamente costruito con pietra
bianca. Sembra
luccicare quando lo si vede dalla strada. – dissi sorridendo.
– Le regole
dicono che chiunque vada lassù debba rimanere in silenzio, a
pensare, e non ci
sono privilegi per Re, Principesse o Regine. I Monaci passano le loro
giornate
pregando e venerando Lais, la Dea del Cielo che si trova sopra tutti
noi. Tutti
coloro che arrivano fino a lì possono scegliere cosa fare:
si può meditare, o
lavorare, o guardare il panorama e, ti giuro, ne vale davvero la pena.
È sotto
un cielo così blu che fa male guardarlo e
dall’alto si vede il lago al fondo
della valle, che brilla nella luce del sole. Hanno allevamenti di
aquile,
lassù, e quindi si vedono e si sentono i rapaci volare nel
cielo a qualunque
ora del giorno. Ma il vero spettacolo è di notte, quando ti
senti così vicino
alle stelle da poterle quasi toccare. –
Marcus mi
guardò, serio: – Mi piacerebbe poterci andare, un
giorno. –
– Sarei
felice di accompagnartici – gli risposi, inchinando
leggermente il capo. Non mi
stupii quando mi accorsi che era vero, niente avrebbe potuto rendermi
più
contenta che visitare quel posto magico con lui.
Io e Marcus
continuammo a chiacchierare del più e del meno mentre
camminavamo per le vie di
quel quartiere, a Basilea, ed era davvero incredibilmente facile
parlare con
lui. Gli parlai un po’ della mia infanzia, di come fosse la
vita a corte, e lui
mi raccontò di come era entrato a far parte della
Corporazione degli Assassini
e della sua vita lì. Quello che Marcus mi stava dicendo era
qualcosa di completamente
inumano. Non che lui si lamentasse, o incolpasse qualcuno di
ciò che gli era
successo, anzi: era tranquillo e sereno mentre me ne parlava, ma per me
tutto
ciò era semplicemente inconcepibile. Il pensiero che un
genitore potesse
vendere il proprio figlio e che tutto questo venisse fatto col consenso
del Re
era terribile. Sarebbe
stata un’altra
cosa da cambiare. Non capivo però da dove mi provenissero
tutto quello stupore
e orrore che sentivo crescere nell’anima: mia madre, in
fondo, aveva cercato di
uccidermi. Vendere il proprio figlio non era forse qualcosa di meno
terribile?
Non avevo una risposta, ma sapevo che tutto ciò non era
giusto e che sarebbe
dovuto cambiare. Come? Non lo sapevo, ma ci avrei pensato una volta
avuto il
trono.
In tutto
questo il fatto che avremmo dovuto iniziare a chiedere in giro per
avere
informazioni su Carean ci passò dalla testa. Camminammo come
due viaggiatori,
incuriositi da ogni cosa, guardando tutto con stupore. Poi a un certo
punto
sbucammo in una piccola piazza dove sorgeva un tempio stupendo. Si
ergeva alto
verso il cielo, torreggiando sulle case rosse lì vicine. La
pietra color ocra
di cui era fatta sembrava aver assorbito il calore del sole, emanando
una luce
giallastra verso noi che la stavamo guardando. Io e Marcus ci guardammo
negli
occhi e, senza dire una parola, ci dirigemmo verso l’ingresso
costituito da un
enorme portone di legno inciso con paesaggi. All’interno si
apriva una
struttura esagonale, con sei piccole nicchie scavate una in ciascuna
parete, e nel
centro della sala si stagliava un enorme albero verde, con i rami e le
foglie
che salivano verso l’alto e il tronco argentato. Da un buco
rotondo nel
soffitto passava la luce del sole, colpendo in pieno l’albero
e illuminandolo
di ogni sfumatura del giallo. Attorno ad esso stavano persone
inginocchiate, a
pregare con un mormorio lento.
– A Dimina,
– mi bisbigliò Marcus, mentre io guardavo con
occhi spalancati l’enorme albero
davanti a noi. – Venerano, tra gli altri dei, la Natura.
È per questo che si
trovano templi così, dove si venerano gli enormi alberi di
Arain, simbolo del
dio. –
Io annuii
in silenzio, non riuscendo a staccare gli occhi dallo spettacolo
davanti a me.
Non avevo mai visto niente del genere, in nessuno dei miei numerosi
viaggi.
Quell’albero che cresceva nel tempio era la cosa
più straordinaria che avessi
mai visto. Sembrava antico e giovane al tempo stesso, e potevo capire
come mai
i diminiani pensassero che fosse infuso dell’anima di un dio.
Scossi la
testa: – Vedi la differenza? Noi di Viride veneriamo Polemos,
la Guerra, e qui
pregano la Natura. Sono sempre più convinta che ci sia
qualcosa che non va
nella nostra nazione. –
Marcus
ridacchiò: – Direi che non servisse venire fino a
qui per rendersene conto. –
Uno degli
uomini inginocchiati ci zittì con un sibilo scocciato,
guardandoci male.
Trattenni una risata e iniziai a girare per il tempio. Sulle pareti
mosaici
rappresentavano scene di natura, con animali e piante rappresentati
benissimo.
Nelle nicchie stavano annidati cespugli di fiori, di ogni tipo e
colore, e
piccoli alberi in miniatura, perfettamente curati. Sulla parete rivolta
a est
era rappresentato il volto benigno del Dio della Natura, o almeno
immaginai
fosse lui. Era verde e mi fissava benevolo, come sapendo tutto
ciò che stava
nel mio cuore e accogliendolo. Non mi ero mai molto interessata delle
culture
straniere e solo in quel momento mi resi conto del mio errore.
Rimanemmo
per un po’ ad ammirare l’interno
dell’edificio, in completo silenzio per non
disturbare. Quando decidemmo di uscire un uomo che doveva essere un
monaco,
almeno a giudicare dagli abiti di tutte le sfumature del marrone e del
verde,
mi diede sorridendo un rametto di ciliegio, ricco di fiori delicati.
Gli
sorrisi e inchinai la testa al suo gesto gentile.
Uscendo
decidemmo di fare un giro della piazza ma prima che potessimo
allontanarci
troppo dalle mura del tempio, l’occhio mi cadde su una sorta
di bacheca appesa
a lato dell’ingresso. Non so perché prima non
l’avessimo notata, ma ora ero troppo
incuriosita per non andare a vedere cosa ci fosse scritto. Quel culto
mi
affascinava. Avrei voluto saperne di più e speravo che quei
fogli appesi
potessero soddisfare la mia curiosità. Feci cenno a Marcus
di aspettarmi e lo
vidi aggrottare le sopracciglia, in un’espressione
incuriosita.
– Vado solo
a vedere una cosa, ci metto cinque secondi. Aspettami qui. –
Mi diressi
verso la bacheca con pochi passi rapidi e quello che vidi mi
lasciò senza
fiato. Sotto una serie di cerimonie di ogni tipo che venivano tenute
all’interno del tempio c’era l’elenco dei
funerali che si sarebbero svolti di
lì a una settimana. Feci un urlo e richiamai Marcus,
dicendogli di muoversi:
davanti a me, tra i nomi dei deceduti, spiccava quello di Lod Carean.
***
Alla sera, quando finalmente
stavamo per rincontrare gli altri, non stavo più nella pelle
per l’emozione e
la preoccupazione. Da un lato ero estremamente felice di essere stata
io a
trovare notizie del nostro uomo, dall’altra ero inquietata
dal fatto che fosse
morto. Come avremmo fatto a scoprire quello che ci interessava? Decisi
di
smettere di pensare alla questione e di godermi di essere stata, per
una volta,
quella che aveva dato una svolta alla ricerca. Quando arrivammo alla
piazza
della fontana Mel e Andreas erano lì ad aspettarci
parlottando a braccia
incrociate, seri e posati.
– Allora, –
esordii. – Com’è andato il vostro giro?
–
–
Abbastanza bene, direi. Il vostro? – mi rispose Andreas, con
un sorriso
furbetto negli occhi.
Ahia.
Temetti che la mia notizia non fosse poi così esclusiva come
avevo creduto fino
a quel momento.
–
Fantasticamente. Vero Marcus? –
Lui,
traditore, annuì senza dimostrare troppo entusiasmo.
Aspettammo Jared
chiacchierando del più e del meno, decidendo di aspettare
per dire le novità
scoperte fino a che non fossimo stati tutti. Quando finalmente anche
lui si unì
al gruppo ci spostammo su una delle panchine ai lati della piazza, per
non dare
troppo nell’occhio. Sopra di noi il cielo stava diventando
sempre più scuro, e
le stelle e la luna illuminavano la strada.
– Ragazzi,
– esordì Jared. – Ho grandi notizie.
–
– Anche
noi! Abbiamo scoperto che fine ha fatto Carean. Non lo indovinereste
mai –
dissi, velocemente, guardando Marcus che ridacchiava vicino a me,
stupito
probabilmente dalla mia regressione a dodicenne bambina competitiva.
Poco da
fare, mi è sempre piaciuto essere quella con le risposte.
– Sì, –
disse lui, bloccandomi e facendomi stare ferma. – E non sono
sicuro che sia in
effetti una buona notizia. –
– Dato che
è morto – aggiunse Andreas, togliendo tutta la
suspense del momento.
Feci un
sorriso sghembo, un po’ delusa – Lo sapevate
già? –
– Sì, –
mi
rispose Jared, – A quanto pare quel tipo aveva debiti con
tutta la città,
quindi c’è voluto poco per scoprire che fine
avesse fatto. Si è suicidato a
causa dei creditori e dopodomani ci saranno i funerali. Mezza Basilea
è in
lutto perché non rivedrà più i suoi
soldi. –
– Io e
Camille abbiamo visto il tempio dove si terranno, è nella
parte nobile della
città. Ma com’è possibile che abitasse
lì se era pieno di debiti? – chiese
Marcus, incuriosito. In effetti, dopo la nostra scoperta non avevamo
più
chiesto niente in giro, sicuri che tanto il più era stato
fatto.
Mel si
sedette sulla panchina, appoggiandosi i gomiti sulle ginocchia:
– A quanto pare
Carean doveva essere un bell’uomo: era arrivato qui da poco
che si organizzò il
suo matrimonio in fretta e furia. Dicono in giro che fosse stato
beccato con la
figlia di un famoso mercante in una circostanza, diciamo, non
propriamente
onorevole. In pratica fu obbligato a sposarsi con la ragazza che aveva
disonorato
per evitare di essere consegnato alle guardie della città.
–
– Ah già,
–
Jared alzò gli occhi al cielo. – In queste ridenti
cittadine se vieni beccato
con una donna non ancora sposata puoi venire accusato di stupro e se
poi vieni
giudicato colpevole, cosa che avviene nella stragrande maggioranza dei
casi, la
pena è il capestro. Bella eh Dimina? –
– Non ti
piace solo perché tu saresti finito appeso un centinaio di
volte. –
– Mi
dispiace solo per i miei fratelli libertini di queste città,
io non mi farei
mai beccare, – ridacchiò Jared, pensando a
chissà quale delle sue avventure
galanti. – Da noi è tutta un’altra vita,
pensate che una volta… –
– Grazie,
Jared, – lo interruppe Andreas, alzandosi e allontanandosi di
qualche passo.
–Ma possiamo vivere anche senza saperlo, ne sono sicuro.
Adesso, se abbiamo
finito con i discorsi stupidi, direi di andare a procurarci qualcosa da
mangiare. Muoio di fame. Al porto vendevano solo pesce e a me il pesce
fa veramente
schifo. –
– Ma non
abbiamo nemmeno deciso cosa fare! – sbottai, iniziando a
seguirlo imitata dagli
altri. Incredibile che pensassero davvero a mangiare.
Marcus mi guardò con aria
interrogativa. – In verità mi sembra che sia tutto
molto chiaro. –
– Non per
me, questo è sicuro. –
– Beh,
abbiamo nel gruppo uno dei migliori seduttori di tutta Viride e il
nostro caro
Carean ha lasciato una vedova dal cuore infranto. Io direi di sfruttare
questa
opportunità. –
– Quindi
liberiamo la belva? –
– Ah, ah, quanto
sei spiritosa, – mi rispose Jared, ironico, prendendomi a
braccetto. –
Preparati piuttosto, Cami, perché a breve vedrai un maestro
all’opera. –
Mi fermai,
guardandolo storto: – Come mi ha chiamata? –
– Cami. È
l’abbreviazione di Camille. Nessuno ti chiama mai
così? –
– Non due
volte di fila. –
***
Due giorni dopo eravamo
tornati nel quartiere nord della città, nella piazza del
tempio che io e Marcus
avevamo scoperto in maniera casuale. La gente che si era radunata
lì davanti
era poca e i più, immaginai, erano creditori del morto che
non vedevano l’ora
di rifarsi sulla vedova. I funerali si tenevano al mattino presto di
solito e
in quel giorno di autunno inoltrato un cielo lattiginoso stava sopra di
noi,
senza che nemmeno un raggio di sole attraversasse la coltre di nubi. Un
vento
freddo, già invernale, spazzava le vie e il piazzale davanti
all’androne.
– Spero
solo che la vedova sia una bella donna, perché altrimenti mi
dovete un grosso,
grosso favore – disse Jared, a braccia conserte, guardando
male le porte aperte
del tempio. Lo ignorammo ed entrammo nell’edificio, dove il
funerale era appena
iniziato.
Il tempio
era identico a come era stato il giorno prima, ma questa volta un
leggero odore
di decomposizione aleggiava nell’aria. Sotto
l’enorme albero di Arain c’era il
corpo di un uomo, sdraiato a pancia in su, con le braccia unite sopra
al petto.
La carnagione aveva un colore malsano, verdastro, e la pelle sembrava
essere
fatta di cera. Gli occhi erano sprofondati nelle orbite e le mani che
uscivano
dalle maniche della giacca avevano le unghie nere. Nonostante tutto,
però,
dedussi che in vita Carean non doveva essere stato un brutto uomo: i
capelli
castani, ondulati, erano leggermente spruzzati di grigio, il cadavere
sembrava
essere stato alto e muscoloso, e i lineamenti non erano così
terribili,
nonostante i giorni passati dalla morte. Pensai che, per quanto potesse
essere
bello il culto della Natura, quella fosse un’usanza barbara:
molto meglio il
fuoco che usiamo noi a Viride, puzza molto meno.
Attorno
all’albero, inginocchiati in cerchio sul pavimento di pietra,
c’erano tutti
coloro che avevano deciso di dare l’ultimo saluto al morto.
Ci saranno state
una trentina di persone di ogni tipo e genere e, davanti al corpo,
stava una
donna impietrita che nemmeno piangeva. Doveva essere la vedova.
Sembrava
cristallizzata nel suo dolore, immobile, con lo sguardo fisso. Doveva
avere sui
trentacinque anni, più o meno. I lineamenti erano dolci, il
viso rotondo ma non
grasso. Il collo lungo ed elegante spariva nel colletto di un vestito
nero,
lasciando intravedere le clavicole leggermente sporgenti. La bocca
sottile era
di un delicato colore rosato e quando si girò per mormorare
qualcosa al suo
vicino scoprì una fila di denti bianchi e regolari. Alcune
ciocche dei lunghi
capelli neri, tirati su in un’acconciatura complessa,
incorniciavano il volto
facendo risplendere la carnagione bianca e delicata di chi non ha mai
lavorato
in vita sua. Il vestito nero, da lutto, era semplice e poco lavorato,
accentuando però il punto vita e il seno della donna. Gli
occhi, di un colore
che non riuscii a cogliere, venivano ombreggiati da lunghe ciglia ogni
volta
che sbatteva le palpebre. Vicino a lei una signora più
anziana, che dalla
somiglianza poteva essere la madre, le stringeva una spalla cercando di
darle
sostegno. Sentii Jared, vicino a me, fare un sospiro di sollievo.
– Sembra
che sarai tu a doverci un favore – gli sussurrai
all’orecchio, guardando il
sorriso compiaciuto che gli si era dipinto in viso. Non mi rispose,
impegnato
com’era a fissare la vedova.
Dopo poco
si avvicinò all’albero uno dei sacerdoti del
culto, vestito di verde e di
marrone, con in mano dei bastoncini di incenso. Iniziò a
salmodiare, seguito
dalle persone inginocchiate, in una lingua che non avevo mai sentito
prima.
Cantammo e pregammo per le seguenti due ore, e mi sentivo le ginocchia
in
fiamme e distrutte. Era una delle posizioni più scomode che
avessi mai tenuto,
ma sopportai in silenzio. Alzarsi non sarebbe proprio stato un bel
gesto, non
nel bel mezzo di un funerale almeno.
Alla fine
dei canti, un altro uomo affiancò il sacerdote e, insieme,
aprirono una botola
ai piedi dell’albero, di cui io non mi ero nemmeno accorta.
Come rispondendo a
un segnale tutti si alzarono e, iniziando una canzone che sembrava
essere
felice e piena di gioia, voltarono la schiena al morto e ai sacerdoti,
chiudendo gli occhi.
Io e gli
altri ci alzammo in piedi imitandoli anche se l’unica che
sembrava un po’
stranita ero io, mentre i miei amici erano riusciti persino a
riconoscere
qualcuno dei salmi in quella lingua bizzarra e sconosciuta. Non
resistetti a sbirciare
con la coda dell’occhio e vidi i due sacerdoti prendere il
corpo di Carean e
buttarlo nella botola, sotto all’albero, come avrebbe potuto
fare un assassino
comune per nascondere un corpo. Non c’era
sacralità in quello che facevano, in
come trattavano il corpo, in come lo lanciarono attraverso la botola,
ed era
tutto completamente diverso da come succedeva nel nostro paese. Mi
ripromisi di
chiedere a Marcus delucidazioni su quella strana cultura.
Poi, dopo
alcune parole pronunciate dai sacerdoti, tutti si girarono, si
inchinarono e
poi si diressero verso la porta. L’unica che invece rimase
dov’era era la
vedova, che si avvicinò all’albero per poi posare
la mano sulla corteccia, in
una carezza delicata. I sacerdoti le si inchinarono e si allontanarono,
lasciandola sola. Feci appena in tempo a vedere Jared che si
incamminava verso
la donna che Mel mi prese per un braccio e mi condusse verso
l’esterno,
ignorando le mie proteste. Volevo davvero vedere “il
maestro” all’opera,
soprattutto dopo che era stato così tanto decantato, ma a
quanto pare gli altri
non erano della mia opinione.
– Ma perché
non posso guardare? – domandai, accigliata, appena fuori dal
tempio.
– Perché
avresti dato troppo nell’occhio. Ci sareste stati solo
più voi tre, lì dentro,
gli altri sono già tutti usciti – mi rispose Mel,
lasciandomi il braccio e
allontanandosi dall’edificio, preceduto da Marcus e Andreas e
seguito, a
malincuore, da me.
– E stai
tranquilla, – aggiunse Marcus. – Se conosco Jared,
e lo conosco, ti racconterà
tutto lui appena potrà. La tua curiosità
sarà soddisfatta. –
***
Aveva ragione. Dopo tre giorni
in cui Jared comparì solo per brevi momenti e soprattutto
per lavarsi e
mangiare, un pomeriggio spalancò con violenza la porta della
locanda dove noi
stavamo facendo colazione con un sorriso sornione in faccia, facendo
trasalire
tutto il locale. Poi si avvicinò con aria tutta goduta al
nostro tavolo,
facendo cenno a Marcus di fargli un posto. Aveva i vestiti stazzonati,
i
capelli scompigliati e un sorriso che andava da un orecchio
all’altro.
– Torni
vincitore, a quanto pare – fece Mel, senza alzare gli occhi
dal suo piatto di
uova. Marcus prese la sua tazza di caffè e la
allungò a Jared, che si mise a
bere come se fino a quel momento fosse stato nel deserto.
– Ne
dubitavi? –
Marcus
aveva un luce maliziosa negli occhi: – Allora,
com’è andata? Camille moriva di
curiosità l’altro giorno. –
– Ehi! –
dissi io, sentendomi tirata in causa. Così mi faceva
sembrare una maniaca
sessuale! – Volevo solo vedere se eri bravo come dici, niente
di più! –
– Eheh, –
ghignò l’altro idiota, guadagnandosi
un’occhiataccia. – Ti direi di provare ma
non faccio queste cose con le ragazze degli amici. –
Marcus quasi
si strozzò con il caffè che aveva recuperato.
– Ma io non
sono la ragazza di nessuno. –
– Per ora,
Camille, – fece Jared, battendomi con aria materna su una
mano. – Per ora. –
Marcus
decise per fortuna di interrompere quello scempio. Probabilmente aveva
notato
il cipiglio poco raccomandabile che mi si stava dipingendo in viso.
– Jared,
hai finito di fare il cretino? Non devi dirci qualcosa? –
– Ah, sì.
Beh, sappiate che Lean, la vedova di Carean, è una belva a
letto. Mi ha fatto
delle cose che a Viride si sognano, si vede che è una
spigliata. Pensate che
ieri mentre stavamo cenando, a un certo punto è sparita
sotto il tavolo e mi ha
preso il… –
Marcus si
ristrozzò con il caffè mentre io ridevo, Mel
sorrideva e Andreas si sbellicava.
– Va bene
così Jared! Davvero! Taci una buona volta! –
– No,
aspetta, non tacere del tutto. Hai scoperto qualcosa sul nostro uomo?
– gli
chiesi io, con ancora la risata che mi vibrava nel petto.
– Ebbene
sì. Lean, tra una pausa e l’altra, – e
qui Jared tornò incredibilmente serio. –
Mi ha spiegato come andavano le cose con il marito. A quanto pare
avevano una
relazione aperta e, sebbene rimanessero marito e moglie, frequentavano
altre
persone. Non che questo avesse causato la rovina del matrimonio, anzi.
Non
amandosi più e non potendo separarsi, perché qui
come sapete questa grazia
degli dei non esiste, avevano optato per una soluzione di questo tipo.
Andavano
comunque d’accordo, ed erano ottimi amici, e quindi la morte
dell’uomo ha
addolorato molto Lean. Anche se lei non sapeva di essere piena di
debiti e
forse la scoperta della cosa nei giorni precedenti il funerale le ha un
po’
danneggiato il ricordo del marito defunto. Comunque, Lean mi ha
raccontato che
Carean poco prima della morte le aveva dato una lettera, da portare a
un uomo a
palazzo. Cosa ci fosse scritto lei non lo sa, ma il marito le aveva
raccomandato di consegnarla in fretta e in maniera discreta, senza
spiegare
perché non potesse farlo di persona. Il giorno
però in cui Lean sarebbe dovuta
andare a palazzo Carean è morto e diciamo che lei ha avuto
altro a cui pensare
che non fosse la lettera. –
– E lei ti
ha detto tutto questo? – commentai incredula, finendo la mia
colazione. Mi
accorsi che avevo avuto delle riserve sul comportamento di Jared, e che
fino a
quel momento non avevo realmente creduto che ci avrebbe portato delle
informazioni. Mi dovevo ricredere, era stato in effetti davvero molto
bravo.
Aveva scoperto in tre giorni ciò che noi, usando le vie
“normali” degli
Assassini, avremmo scoperto in molto più tempo.
– Sì, lo
so, sono bravissimo, – Jared fece un sorriso sornione.
– Me ne ha parlato ieri
a cena, che guarda caso si è conclusa con una mia esibizione
talmente
spettacolare da farla addormentare di botto. Forse in effetti ha
contribuito
anche il blando sonnifero che ho messo nell’acqua che beve
prima di andare a
dormire, ma questo non importa. –
Spalancai
gli occhi in uno slancio di sdegno: – Cioè
l’hai drogata? –
– Tieni la
tua morale lontano da me, – mi rispose Jared, con uno
svolazzo della mano. – Ho
pensato che fosse una coincidenza a dir poco particolare che un uomo
avesse
tanta urgenza di spedire una lettera giusto un giorno prima della sua
morte,
quindi dovevo poterla cercare in tranquillità. E, grazie
alla mia incredibile
abilità, ho trovato quello che mi serviva. –
Al che, con
un sorriso a trentadue denti e un’aria sbarazzina in volto,
quell’approfittatore di povere vedove indifese
tirò fuori da una tasca una
lettera spiegazzata.
Mi alzai
dal mio posto allungandomi sul tavolo, cercando di afferrarla di colpo.
Ero
troppo curiosa: – Dammi quel foglio! –
Jared lo
allontanò dalla mia presa portandoselo in alto dietro alla
testa, sorridendo: –
Non ti sembra che mi meriti almeno un grazie? –
Lo guardai
malissimo, tenendo la mano tesa e osservandolo con aria inferocita.
Marcus mi
prese delicatamente per le spalle e mi fece sedere, facendomi ritrarre
la mano.
– Hai fatto
un lavoro fantastico, Jared. Ci leggi quella lettera ora? –
gli chiese Andreas,
con negli occhi la stessa curiosità che c’era nei
miei.
Jared fece
un sorriso: – Non vedo l’ora. –
Poi si schiarì la voce, si
sistemò sulla sedia e si mise i fogli ben davanti agli
occhi, iniziando a
leggere: – Tu sai che cosa voglio,
bastardo. Tu e chi sta sopra di te avete promesso di pagare i miei
debiti di
gioco, e ora vi tirate indietro? Non posso permetterlo. Non
morirò per colpa
vostra, visto che se non pagherò sarà quella la
mia fine. Saldate i miei
debiti, tutti, oppure racconterò cosa è successo
dodici anni fa. Racconterò dei
Coverano, del Principe Ereditario, di una nave affondata in mezzo al
mare e dei
tre morti che c’erano sopra. Ma soprattutto
parlerò di chi mi ha incaricato di
fare tutto questo. Uccidetemi, se credete, ma c’è
già chi sa tutto ed è
disposto a parlare nel caso mi capitasse qualcosa. Avete due giorni.
–
Jared si
interruppe, abbassando il foglio: – Tipetto niente male, eh,
questo Carean? –
– Scusa che
ti aspettavi da uno che uccide membri della famiglia reale
così, con scioltezza?
–
– In
effetti niente di diverso – rispose il ragazzo con gli occhi
blu, posando la
lettera sul tavolo. Marcus la prese e iniziò a scorrerla,
mentre io vicino a
lui mi sporsi per dare un’occhiata. Era incredibile. Quella
donna, Lean, ci
aveva dato, anche se a sua insaputa, una lettera che per noi era di
fondamentale importanza. In primo luogo iniziava a essere un qualcosa
di
tangibile, che avremmo potuto utilizzare. In più ci indicava
la tappa
successiva che ci avrebbe portati sempre più vicino a mia
madre, Celia. Nessuno
di noi fiatava, stupiti dalle informazioni che avevamo ricevuto. Era
incredibile trovarle scritte nere su bianco, anche se da un uomo dalla
dubbia
reputazione. L’unico rilassato tra noi sembrava Mel, che
continuava a bere il
suo caffè con aria tranquilla. Mi sembrò
però di scorgere nei suoi occhi una furia
animalesca, devastante. Fu un istante e poi l’impressione
svanì, lasciando gli
occhi verdi puliti e limpidi.
Andreas
poggiò la testa sullo schienale della sedia su cui si
trovava: – Qual è il
destinatario? –
Marcus girò
la lettera, osservando con attenzione le parole scritte in inchiostro
nero: –
Qua dice William Lacey, qualcuno ha idea di chi sia? –
Chiusi gli
occhi, cercando di ignorare la brutta sensazione che mi dava quella
notizia.
–
Io lo so – dissi, respirando profondamente.
– Lo
sappiamo anche noi, ragazzi, – fece Mel, dopo di me.
– Ma noi lo conosciamo con
un altro nome. –
Jared
aggrottò le sopracciglia: – Cioè?
–
– La Lunga
Mano. –
– Oh dei, –
disse Marcus, strofinandosi la faccia. – Vi prego ditemi che
non stiamo
parlando del consigliere degli Auremore. –
Non ebbi il
coraggio di rispondergli, perché sì,
l’uomo di cui stavamo parlando era proprio
il consigliere degli Auremore. Ricopriva quella carica da almeno una
ventina
d’anni e si diceva che fosse a conoscenza di cose che persino
il Re ignorava.
Conosceva Alexandre Auremore da quando erano giovani e il sovrano
teneva in
grande considerazione i suoi consigli. Partecipava alle sedute del Re,
agli
incontri con i funzionari stranieri, ai banchetti, sedendo sempre alla
destra
del trono. Si occupava del controllo del denaro, di decidere quali
questioni
presentare al Re, di controllare che l’esercito funzionasse
adeguatamente. Aveva
represso nel sangue le rivolte che, quando io ero bambina, avevano
agitato il
regno di Dimina, senza preoccuparsi di sembrare spietato e impietoso.
Sapeva
tutto del regno e si occupava di ciò che il suo amico
Alexandre riteneva così
importante da poter essere controllato solo da lui stesso. Il Re si
fidava di
lui come ci si fida di un fratello e forse anche di più.
Negli angoli bui del
palazzo si sussurrava persino che il Re fosse in suo potere e che fosse
lui ad
avere in mano le chiavi del regno, terrorizzando persino la regina
Gabriella,
la Magnifica. Era questo l’uomo che ci avrebbe dovuto portare
più vicini a mia
madre.
– Quindi…
–
iniziò Andreas, senza avere il coraggio di continuare.
– Quindi il
nostro prossimo obiettivo è il palazzo reale degli Auremore,
– conclusi io,
senza avere il coraggio di guardarli negli occhi. – Sentite,
se non ve la
sentite posso capirlo. Stiamo parlando del consigliere del Re, non
sarà una
cosa facile. Non penserò male di voi se vi tirerete
indietro. –
Marcus mi
guardò con un leggero sorriso, poi si rivolse agli altri:
– Consigliere o no,
ormai ci siamo dentro fino ai capelli. Tanto vale continuare, che ne
dite? –
Il primo a
rispondere, stranamente, fu Mel.
– Io ci sto
– disse, laconico come sempre.
Jared
scosse la testa ridacchiando prima di parlare: – Dopo tutto
quello che ho
vomitato per arrivare fin qui non avrei mai il coraggio di tirarmi
indietro. –
Mancava
solamente Andreas. I suoi occhi color ambra erano puntati su di me,
scrutandomi. Sostenni il suo sguardo fino a che anche lui non si decise
a
parlare.
– Non ci
credo che lo sto dicendo, ma ci sto anche io – mi disse, con
un sospiro
profondo. – Sarai la nostra rovina, lo sai Principessa?
–
Risi,
sollevata che tutti loro fossero dalla mia parte. Forse, in fondo,
avevamo una
speranza.
ANGOLO DELL’AUTRICE!
Ciao a tutti! Perdonate il ritardo, ma ho
davvero fatto una fatica
mostruosa a scrivere questo capitolo! Ho dovuto cancellare e riscrivere
un
sacco di volte. Comunque, finalmente adesso è finito e
quindi, alleluia, posso
pensare ad altro. Spero (come al solito e come immagino facciano tutte
le
persone su questo sito con i propri lavori) che sia piaciuto. Se vi va
di farmi
sapere che ne pensate, lasciate un commento, e grazie a tutti coloro
che
l’hanno già fatto recensendo o mettendo la storia
nelle preferite :)
Ciao di nuovo
LyaStark
|
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Capitolo 10 *** X ***
CAPITOLO XII
MARCUS
La città non mi era mai
sembrata tanto pericolosa come in quei giorni. Improvvisamente ero
diventato
consapevole delle guardie che pattugliavano le strade in una ronda
continua e
senza sosta, perennemente alla ricerca di qualcosa che non funzionasse.
Sarà
che sapendo quello che avremmo dovuto fare ero più attento
del solito e quindi
prestavo attenzione ad ogni minimo dettaglio, ma ogni nota stonata era
per me
motivo di apprensione.
Avevamo
iniziato a cercare informazioni su Lord William Lacey, la Lunga Mano di
re
Alexandre Auremore, e tutto quello che avevamo appreso fino a quel
momento non
era per niente rassicurante: aveva una sua guardia personale, viveva a
palazzo
in un’ala riservata, difficilmente si spostava da solo. Aveva
la fama di uomo
tutto d’un pezzo, spietato, freddo e crudele. Abile con le
armi aveva vinto
numerosi tornei in gioventù al fianco del Re e non si
muoveva mai senza la
spada al fianco. Continuava ad allenarsi ogni giorno, per almeno
un’ora, quindi
non c’era nemmeno da sperare che la vita a corte
l’avesse impigrito e
imbolsito.
Averlo in
nostro potere sarebbe stato difficile, e molto. Senza contare che
avremmo
dovuto fare molta, molta fatica per
farlo confessare. Mi sarei ritenuto fortunato se, dopo quella faccenda,
saremmo
rimasti tutti vivi e abbastanza in salute da poter scappare da quella
maledetta
città.
– Ritiro
tutto quello che ho detto, io odio
Basilea – dissi con voce convinta a Camille, che era seduta
di fianco a me.
Avevamo lasciato la città per andare nelle campagne, meno
popolate e dove la
probabilità di dare nell’occhio era minore.
Ci eravamo
insediati in un granaio abbandonato e mezzo bruciato, ma che aveva
sufficiente
spazio per tutti noi. Il paesaggio intorno era ormai diventato
invernale:
terreni marroni, scuri e freddi bagnati dalla brina erano solcati da
fiumiciattoli di acqua gelida e cristallina. Alberi spogli dai tronchi
e rami
neri, completamente diversi dai Saar della città, erano
radunati in boschetti
sotto il pallido sole che brillava nel cielo azzurro. Un vento freddo
si alzava
da nord, entrando nei vestiti e congelando anche le ossa, sottile e
pungente
come la lama di un pugnale. Nella notte la temperatura scendeva di
molto
lasciandoci mezzo congelati nonostante le coperte e le braci del fuoco
che
tenevamo acceso durante il giorno. Si prospettava un inverno gelido e
lungo.
– Tu odi
stare al freddo, non Basilea. È diverso – mi
rispose lei, mentre guardava con
occhio critico le mappe che avevamo davanti a noi. Erano piante di
parte del palazzo
reale, fatte da Andreas dopo che si era mischiato alla folla di
postulanti che
assediavano il Re quando teneva corte. Si era guardato attorno e aveva
fatto
attenzione ai dettagli, ma era comunque passato solo nelle zone
accessibili ai
popolani, mentre a noi serviva sapere tutto quello che potevamo sugli
appartamenti di Lacey, sulle sue abitudini, sui suoi orari.
Jared,
insensibile uomo, aveva già abbandonato la sua vedova
piangente e assatanata
per ripiegare su una delle domestiche di palazzo, nel tentativo di
carpirle
informazioni. Credeva talmente tanto nelle sue capacità, che
il fatto che la
poveretta avesse giurato di non parlare di ciò che avveniva
nell’edificio non
lo preoccupava nemmeno un po’.
Mel aveva
il compito di spiare gli spostamenti di Lacey fuori dal palazzo e di
valutare
dove si dirigesse e quando, ma in una settimana e mezzo di pedinamenti
erano
ancora poche le informazioni che potevamo confrontare.
Io, per non
rimanere con le mani in mano, mi ero fatto assumere come aiuto
giardiniere in
vista dell’enorme festa che si stava preparando a palazzo per
celebrare gli
Auremore, che di lì a poco si sarebbero spostati a Vilena,
capitale invernale.
Tutto questo rendeva il nostro compito ancora più difficile.
Comunque, senza
pensare alle difficoltà che ci aspettavano, avevo iniziato
con dei turni
massacranti: il Palazzo Reale aveva ettari di giardini con la
più strana
vegetazione che avessi mai visto. Serre enormi costruite con vetri
trasparenti
contenevano piante esotiche che conoscevo solo perché erano
descritte nei
trattati di biologia alla Corporazione. Alcune di esse potevano anche
servire
per creare veleni particolari, ma immagino che non fosse quello il loro
principale scopo.
L’unica che
non poteva aiutarci era Camille: suo fratello Daniel era a palazzo e
difficilmente si sarebbe fatto ingannare da una tinta castana per
capelli. Dire
che ne era contrariata era probabilmente un eufemismo.
– A che ora
devi andare a lucidare le foglie domani? – mi chiese senza
alzare gli occhi dal
foglio, in uno slancio di gentilezza inusuale rispetto alla media dei
giorni
precedenti.
– Un’ora
dopo l’alba, come al solito. Sono quattro giorni che
l’orario è quello,
Camille. Stai perdendo colpi? –
– No, è che
lo trovo inutile e quindi me ne dimentico. –
Sospirai.
Un sospiro molto lungo e profondo per cercare, inutilmente, di
scacciare il
desiderio di strozzarla: – Ti ricordo che non lo faccio
perché ho una passione
smodata per le piante, ma perché così appena ne
avrò l’opportunità potrò
cercare di intrufolarmi a palazzo e completare questa stramaledetta
piantina. –
Fu il suo
turno di sospirare: – Scusami. È che odio il
pensiero di starmene qui a far
nulla mentre voi vi preoccupate di tutto, – tacque, lasciando
gli occhi vagare
sui campi davanti a noi e sul profilo della città, che si
intravedeva in
lontananza, semicoperta dalla nebbia. – In più
sapere che mio fratello è
laggiù, proprio dove cerchiamo di andare, e non poterlo
vedere mi fa uscire di
testa. –
Scosse la
testa, distogliendo lo sguardo e riportandolo sulla piantina ma con una
palese
scarsa attenzione.
Sentii
scemare piano piano il nervoso: – Ti manca molto? –
I suoi
occhi verdi sembravano quasi blu nell’aria della sera:
– Certo. Mi mancano
tutti loro, – si alzò, guardandomi
dall’alto. – Non li vedo da anni. Ottavia ha
otto anni adesso e sarà diventata bellissima, ma
già da piccola lo era. E
William è quasi un uomo ormai. Mi mancano davvero
tantissimo. –
Non c’era
nulla da rispondere a una frase così e infatti tacqui,
osservandola e
appoggiando la testa sul tronco dietro di me. Sarebbero stati dei
lunghi giorni
quelli che ci aspettavano.
***
La mattina dopo, se di mattina
si può parlare quando ci si alza poco prima
dell’alba, ero nei giardini del
castello reale. Non ero propriamente un giardiniere ma più
che altro ero il
galoppino del galoppino del giardiniere. Più al fondo di me
nella scala
gerarchica non c’era nessuno. Dovevo portare sacchi di terra,
gli strumenti, le
pale, le forbici e, dulcis in fundo, pulire le vetrate della serra. Era
precisamente a quest’ultimo compito che mi stavo dedicando
con dedizione e olio
di gomito, quando vidi Lord William Lacey attraversare il cortile
davanti a me,
diretto chissà dove. Fermai il mio lavoro di pulizia per
osservarlo meglio:
dimostrava una quarantina d’anni ed era dannatamente in forma
per la sua età.
Era alto e dritto, con un torace ampio e, immaginai, muscoloso.
Camminava con
eleganza e con la sicurezza di chi ha il mondo ai suoi piedi. I capelli
corti,
brizzolati, circondavano un volto squadrato ma gradevole. Una barba
curata gli
cresceva sul mento. Portava una spada alla cintura, in un fodero di
cuoio
vecchio e logoro, segno di quanto quell’arma fosse stata
usata. A pochi passi
di distanza, camminava un uomo con l’uniforme delle guardie
personali del Consigliere
del Re, con le braccia morbide lungo il corpo e gli occhi che
saettavano
attorno a lui. Lord William si diresse proprio verso la serra, facendo
cenno
all’uomo dietro di lui di fermarsi ed aspettarlo.
Continuai a
pulire, estremamente
consapevole che Lacey, il nostro obiettivo, stava passeggiando immerso
nei suoi
pensieri a pochi passi da me.
– È molto
bello questo posto, non è vero? –
Sobbalzai
leggermente nel sentire la sua voce: mai mi sarei aspettato che si
degnasse di
rivolgere la parola alla servitù, ma a quanto pareva mi
sbagliavo. Mi girai
verso di lui dando le spalle al vetro, tenendo ancora lo straccio in
mano. Mi
inchinai prima di rispondere.
– Sì,
milord, lo è. –
Mi si avvicinò con passo
tranquillo, con le mani allacciate dietro alla schiena e guardandosi
intorno,
prima di puntare il suo sguardo su di me. Rughe d’espressione
partivano dai due
occhi chiari, azzurri e grigi. La bocca era una linea dritta che
attraversava
il volto, dandogli un’espressione seria e sicura di
sé. Era vagamente
inquietante e le sue labbra si distesero per un momento in un sorriso
che non
raggiunse gli occhi. Quando parlava un leggero difetto di pronuncia gli
faceva
arrotare le r, rendendole quasi scivolose. La cosa peggiore
però era lo
sguardo: mi sentii osservato, indagato, messo a nudo da quelle iridi
gelide.
Erano quiete in quel momento, ma intuii che se avessi osato
contrariarlo avrei
svegliato la loro furia. Era la sensazione che doveva provare la preda
di
fronte al cacciatore, e non mi piaceva. Per niente.
– Non ti ho
mai visto qui. Chi sei? –
– Mi chiamo
Mycah, milord, – dissi il primo nome che mi venne in mente,
senza abbassare lo
sguardo. – Sono stato preso come aiuto giardiniere in vista
della festa. –
Lui annuì,
distogliendo lo sguardo da me e avvicinandosi a un cespuglio di rose
rosse,
enormi, poco distante. Ne prese una tra le mani avvicinandola al viso,
annusandone il profumo a occhi chiusi.
– Sembri un
po’ grande per essere solo aiuto giardiniere. E di solito chi
lavora all’aria
aperta è abbronzato, molto più di te. –
Sembrava
rilassato ma sentivo la tensione nell’aria. Portai una mano
dietro alla
schiena, dove nascondevo un pugnale.
– Ho
lavorato in una fucina per un po’, ma non faceva per me.
Preferisco le piante
al metallo. –
Si allontanò
dal cespuglio, guardandomi. Non so cosa cercasse, ma fu soddisfatto da
quello
che vide: – Questo dimostra che sei un ragazzo intelligente,
– disse,
dirigendosi verso la porta. –
Continua a pulire quei vetri, Mycah. Dovranno
essere splendenti per la festa. –
Mi
inchinai, lasciando scivolare la mano lontana dal pugnale: –
Sì milord. –
Quando uscì
sospirai di sollievo, chiudendo gli occhi e lasciando che la tensione
si
allontanasse da me.
***
Dopo che Lacey se ne fu andato,
mi dedicai di nuovo al mio stupido lavoro, cercando di pensare a come
avrei
potuto intrufolarmi nell’area del castello dove abitava la
Lunga Mano. Da Mel
avevo appreso che i suoi appartamenti si trovavano nell’ala
ovest, ma come
avesse fatto a capirlo lo ignoravo. I giardini circondavano quasi tutto
il
perimetro del castello terminando a ridosso del mare, su
un’enorme scogliera
bianca che scendeva a picco nell’acqua. Erano percorsi da
innumerevoli
fiumiciattoli e fontane, in uno scroscio di acqua perenne.
Decisi di
aspettare la notte per potermi infilare di nascosto nel palazzo e
capire un po’
di più della sua maledetta struttura. La fortuna mi aiutava
visto che gli
appartamenti di Lord Lacey, o Will come avevo iniziato a chiamarlo
amichevolmente tra me e me, davano sulla parte di giardino a cui ero
stato
assegnato e dove si trovavano le serre.
Aspettai,
lavorando e lasciando che la notte arrivasse. Quando giunse
l’ora di uscire mi
incamminai verso l’enorme portone di ingresso del castello,
per poi fingere di
aver dimenticato qualcosa e ritornare di corsa verso le serre, guardato
male
unicamente dal sommo capo giardiniere, che però scosse la
testa e si dimenticò
in fretta di me.
Nessun’altro,
e soprattutto non le guardie, si insospettì: immaginai che
fosse perché si
doveva essere davvero estremamente stupidi per andare a intrappolarsi
da soli
nel castello del Re. In previsione di tutto ciò erano
già un paio di giorni che
mi portavo dietro la divisa di Assassino: nera come il giaietto e
difficile da
vedere in una notte come quella, senza luna e velata.
Le guardie
facevano la ronda con torce che le rendevano facili da notare, in
più la divisa
dipinta di azzurro era tutto tranne che discreta. Fossi mai diventato
re avrei
fatto tutte le uniformi nere come il giaietto, o al massimo grigio
fumo:
l’ideale per osservare senza essere visti.
Mi diressi
con attenzione verso i quartieri ovest del castello, attraversando
silenziosamente i prati tagliati, modestamente, alla perfezione. In
testa mi
risuonavano le parole del mio maestro, che mi erano state ripetute
giorno e
notte per anni come una preghiera: profilo basso e agire in fretta. Ora
come
ora nulla mi avrebbe aiutato se non mantenere un profilo basso e non
farmi
beccare: di sicuro non potevo permettermi di farmi rincorrere da tutte
le guardie
del castello.
Arrivai
sotto alle finestre che mi interessavano, guardando da lontano i due
soldati
con le divise della Lunga Mano che erano di guardia davanti al
cancello,
illuminati dalla debole luce delle lanterne dietro di loro.
L’unico rumore della
notte era quello dell’acqua, che continuava a scrosciare e a
cadere dalle
cascate: avrebbe coperto in parte il baccano che avrei potuto fare.
Percorsi
rapidamente il perimetro, senza farmi vedere e con il naso
all’aria, cercando
una finestra aperta.
Finalmente,
la trovai. Quattro metri sopra la mia testa, illuminata dalla luce che
brillava
dietro di essa, una grossa finestra di vetro era leggermente socchiusa.
Non
c’erano ombre dietro di essa e l’unica cosa che
dovevo sperare era di non
piombare direttamente di fronte a Will in persona. Tutto il resto
sarebbe
andato circa bene.
Passai la
mano sul muro davanti a me, constatando che era in tutto e per tutto
uguale a
quelli del resto del castello e che avevo osservato molto bene dai
giardini. A
distanza di una spanna l’una dall’altra
c’erano delle lunghe scanalature,
profonde circa cinque centimetri e quindi ideali per permettermi di
fare presa.
Ringraziai mentalmente chi avesse progettato e costruito quel posto e
iniziai
ad arrampicarmi, facendo attenzione a non cadere.
Dopo circa
due minuti stavo sbirciando dalla finestra, che dava su un lungo
corridoio
illuminato da candelabri. Alle pareti c’erano arazzi enormi
rappresentanti
scene di caccia e di combattimenti, e il pavimento di marmo brillava
lucido al
riflesso delle candele. Non c’era nessuno. Scavalcai il
davanzale e atterai in
maniera molto, molto silenziosa per terra, accucciato. Tesi
l’orecchio per
riuscire a percepire il minimo rumore, socchiudendo gli occhi:
lì i miei abiti
neri non mi avrebbero aiutato se avessi dovuto incontrare qualcuno.
Tirai
lentamente fuori il pugnale, stringendolo nella mano sinistra: la lama
mandava
bagliori inquietanti alla luce rossastra delle fiammelle. Procedetti
lentamente. Ai miei lati c’erano porte chiuse, ma non mi
sarei mai arrischiato
ad aprirle. Non sapevo cosa ci fosse e soprattutto chi avrei potuto
trovarci,
ma mi azzardai a sbirciare dalla serratura come un comune guardone:
delle tre
grandi e doppie porte che si aprivano sul corridoio una portava a una
biblioteca, e dal mio limitato campo visivo dedussi che doveva essere
immensa;
una portava ad una stanza da letto, grande e vuota; nella terza
c’era un grosso
tavolo da pranzo, con sedie di legno accostate ai lati. Non erano le
stanze di Lacey e probabilmente erano riservate agli ospiti che poteva
ricevere.
Arrivai in
fretta alla fine del corridoio e davanti a me si aprì una
scala di marmo
bianco, che saliva e scendeva avvitandosi attorno alle pareti dello
stanzone
quadrato. Anche qui la luce era fornita da candelabri che mandavano
riflessi
rossastri sulle scene navali degli arazzi, mostrando mari in tempesta e
flotte
in battaglia.
Le rampe
erano limitate da una balaustra nera di ferro battuto e il mancorrente
era di
legno dorato. Sporgendomi vidi che poco sotto di me le scale
terminavano,
conducendo ad un altro corridoio. Sentii il rumore di passi e di voci e
mi
sdraiai sul pavimento gelido, guardando in basso: due guardie
camminavano
guardandosi attorno, e chiacchierando. Aspettai che si allontanassero
prima di
scendere la scalinata e poi, silenziosamente e guardandomi attorno,
imboccai il
corridoio.
Questo
aveva ad ogni estremità una porta ed entrambe, per mia
fortuna, erano
spalancate. Una dava in una sorta di ingresso, o anticamera.
L’altra, che
imboccai, portava in una grossa stanza quadrata, con una sedia di legno
al di
sopra di una pedana rialzata e circondata di velluti, in
un’imitazione dello
scranno reale e della sala delle udienze degli Auremore. Ampie finestre
sui
lati della stanza davano sui giardini e sul mare, immersi nel nero
della notte.
Addossate alle pareti c’erano panche e sgabelli per coloro
che avevano bisogno
di un consiglio e della decisione della Lunga Mano.
Non mi
soffermai troppo e puntai subito la porta che si trovava dietro alla
parodia
del trono, e non potei fare a meno di pensare che se io fossi stato
Alexandre
Auremore sarei stato un tantino incazzato: come osava il Consigliere
del Re atteggiarsi
come lo stesso Re? Il problema però, fortunatamente o
sfortunatamente, non era
mio, quindi mi diressi in fretta alla porta, chiusa. Presi coraggio e
appoggiai
la mano sulla maniglia, facendo forza delicatamente e pregando che i
cardini
fossero ben oliati per non svegliare con orridi cigolii tutto il
castello.
Le mie
preghiere furono in parte esaudite e lo stridere della porta fu tutto
sommato
tollerabile, anche se nel silenzio della notte risuonò
più forte del normale.
Davanti a me si apriva, incredibilmente, un ennesimo corridoio che
verso il
fondo curvava a gomito, senza darmi l’opportunità
di vedere cosa ci fosse
oltre. Il pavimento era coperto da tappeti di ogni colore e, a
giudicare dallo
stile e dai disegni, provenienti dal sud: uno solo di quelli doveva
costare
molto più di una casa comune. Se ne avessi rubato anche solo
uno mi sarei messo
a posto per la vita, altro che continuare ad ammazzare le persone per
lavoro.
Lasciai
perdere il pensiero e avanzai lentamente, guardando fuori dalle
finestre.
Basandosi sulla posizione e sul pezzo di giardino che intravedevo nel
buio
della notte mi stavo spostando sempre più a ovest, al
limitare del castello.
Dovevo essere vicino agli appartamenti di Lacey e il mio sospetto fu
confermato
quando, sporgendomi piano dalla curva del corridoio, vidi due guardie
in
uniforme in una stanza ampia, che dava su altre quattro porte e su una
scalinata.
Non sarei
riuscito a passare di lì e non potevo uccidere le guardie, i
corpi avrebbero
destato troppi sospetti e avrei fatto troppo rumore. Ritirai la testa
dal
corridoio, quando mi venne un’idea. Tornai indietro, nella
sala del trono, e
dopo aver aperto una finestra la feci sbattere con tutta la forza che
avevo in
corpo, rischiando di rompere i vetri. Poi corsi nel buio della sala,
acquattandomi sulla pedana all’ombra della sedia e dei
velluti che pendevano
dal soffitto. Pochi istanti dopo la porta che dava sul corridoio si
spalancò
lasciando passare le due guardie di corsa, con la mano
sull’elsa della spada e
lo sguardo che vagava sulla stanza.
– È quella
stupida finestra, – fece uno, avvicinandosi alla finestra in
questione per
chiuderla. – Già che ci siamo diamo
un’occhiata in giro, per essere sicuri che
non sia entrato nessuno. –
Mentre i
due si guardavano intorno io mi alzai dal mio nascondiglio e, veloce e
silenzioso, attraversai la porta per correre nel corridoio. Mi fermai
solo
quando raggiunsi la stanza dove le guardie si trovavano prima. Sbirciai
dallo
spioncino delle quattro porte, trovando sale di rappresentanza e
biblioteche.
Corsi su per le scale appena in tempo: i due uomini stavano ritornando
ai loro
posti di sorveglianza.
Salii con
calma e guardingo, non sapendo cosa aspettarmi. Ogni tre rampe si
apriva un
pianerottolo, su cui si affacciavano varie porte: al primo piano
c’era uno
studio, al secondo una camera da letto con i suoi appartamenti, al
terzo una
porta più sontuosa delle altre era socchiusa, lasciando
brillare la luce calda
del camino sul pavimento.
Una stanza
che sembrava circolare si apriva lì dietro, ma quello che mi
fece capire che era
la stanza di Lacey fu il grande ritratto che era sopra il camino: dal
quadro la
Lunga Mano in persona mi guardava, con in mano le insegne del
Consigliere del Re.
Per quanto fosse discutibile e narcisistico avere un proprio ritratto
in
camera, questo non mi lasciò più dubbi.
La stanza
era quella di Lord William in persona. Doveva essere o molto stupido o
molto
sicuro di sé (chissà perché propendevo
per la seconda) per lasciare la porta
quasi aperta e così poche guardie di sorveglianza. Rimasi ad
osservare dallo
spiraglio che mi era stato lasciato fino a che non vidi
un’ombra avvicinarsi.
Mi ritrassi in fretta, iniziando a salire le scale che ancora mi
restavano da
fare, acquattandomi nell’ombra.
Lord Lacey
spalancò la porta della sua stanza, illuminato dalla luce
del fuoco. Si guardò
intorno, senza proferire parola. Sentii i suoi occhi scrutare il buio
dove mi
trovavo, soffermandosi nell’ombra. Per la seconda volta in
quella giornata
eterna strinsi il pugnale che avevo dietro alla schiena, dove lo avevo
messo
per impedire che il bagliore della lama mi tradisse. Dopo istanti che
mi
sembrarono infiniti la Lunga Mano rientrò nelle sue stanze e
sentii il suono
della chiave che girava nella toppa.
Finii le
rampe per scrupolo e curiosità, visto che avevo trovato
ciò che mi serviva. Al
termine della torre in cui mi trovavo c’era solo un altro
studio, più piccolo e
più intimo, probabilmente per gli incontri privati. Discesi
in fretta le scale,
scegliendo poi una finestra che non fosse troppo in alto per riuscire a
calarmi
giù senza rompermi l’osso del collo.
Era passata
circa un’ora da quando ero entrato nel castello e finalmente
ero di nuovo nel
giardino, parzialmente al sicuro da soldati e occhi malvagi. Per quanto
mi fossi
sforzato, non ero riuscito in quei giorni a trovare un’uscita
dall’edificio che
non fosse l’ingresso principale e che era, inutile dirlo,
costantemente
sorvegliato. Decisi quindi di togliermi i vestiti da Assassino e di
rivestirmi
da comune galoppino del giardiniere. Mi nascosi vicino al sentiero che
noi
bassa manovalanza facevamo ogni mattina per andare sul luogo di lavoro,
nascosto dall’ombra della notte e dalle foglie delle siepi.
L’alba era ancora
lontana, pensai quindi di approfittarne e dormire un po’:
sarebbero stati i
rumori dei miei “colleghi” il giorno dopo a
svegliarmi.
***
Il mattino arrivò incredibilmente
in fretta e non mi permise né di comunicare con gli altri
né di riferire quello
che avevo potuto vedere. Quando mi svegliai, con la schiena distrutta
per le radici,
mi infilai con tranquillità tra l’enorme
quantità di lavoratori di cui aveva
bisogno il castello ogni giorno, senza destare sospetti. La giornata
lavorativa
proseguì lenta, facendomi rischiare più volte di
addormentarmi, ma per fortuna
ad un certo punto finì. Ritornai in fretta al granaio
abbandonato dove Camille
continuava a guardare con occhio critico quella stupida mappa,
facendomi
pensare che non si fosse mai mossa da quando l’avevo lasciata
due giorni prima.
– Dov’eri
ieri sera? – mi chiese quando mi vide arrivare, piegando la
cartina e
posandosela di fianco.
Mi sedetti
per terra, sospirando stanco: – A vagare per il castello,
così potrai spendere
ancora più tempo a osservare quel pezzo di carta. Che poi,
perché lo fai? –
– Non lo
so, – scosse la testa. – Forse spero che spunti una
soluzione ai nostri
problemi. Hai scoperto qualcosa? –
– Che
William Lacey è un uomo estremamente inquietante. Dove sono
tutti gli altri? –
Mi guardò,
appoggiando il mento sulle ginocchia: – Quello lo sapevo
già. Non si diventa
Consiglieri del Re per la propria piacevolezza. Comunque, Mel
è sempre nei
pressi del castello, Jared è con la sua nuova fiamma e
Andreas è andato a
procurarsi la cena, dovrebbe tornare a breve. –
E così fu.
Dopo dieci minuti una nera figura stava superando l’ingresso
del granaio.
– Oh,
Marcus. Bentornato. Stavamo già iniziando a darti per morto.
–
Alzai gli
occhi al cielo: – Grazie, Andreas, così mi
commuovi. Ci sono state novità in
questi due giorni? –
Andreas
iniziò a ravvivare il fuoco, mettendo nel cerchio di pietre
della nuova legna.
Si inginocchiò lì davanti, tendendo le mani per
scaldarle e togliendosi la
sciarpa che si era annodato al collo. Iniziava a fare davvero freddo.
Dalla
bisaccia che portava a tracolla tirò fuori un involto che
posò senza grazia sul
pavimento.
– In verità
sì, un paio. Jared, conversando con la sua amabile
fanciulla, ha scoperto che
Lord Lacey non è così immacolato come vorrebbe
far sembrare. –
– Che io
sappia non ci prova nemmeno, a sembrare immacolato – lo
interruppe Camille,
guadagnandosi un’occhiataccia.
– A quanto
pare ogni mese va a visitare una donna, in un bordello nella
città bassa,
vicino al porto. E sembrerebbe che da questa donna sia nata una
bambina, sua
figlia illegittima. Si chiama Ivonne, ha cinque anni, e dicono che la
Lunga
Mano ci sia molto, molto affezionato. –
– Non avrei
mai detto che il Consigliere del Re fosse tipo da bordelli –
commentai.
– Beh,
nemmeno io, ma evidentemente ci sbagliavamo, e comunque non
è questo il succo
del discorso. È una notizia niente male, no? –
– Direi
proprio di sì, – dissi, alzandomi in piedi e
andando ad aprire il fagotto che
aveva portato Andreas. Dentro c’erano dei pezzi di carne,
crudi, avvolti nella
stoffa. Li presi e mi avvicinai al fuoco, infilzandoli con dei rametti
ed
esponendoli alle fiamme.
Camille
mugolò: – Carne! Cavolo, ho l’acquolina.
–
– Sì, anche
io. Ed è costata un occhio della testa, – la
pungolò Andreas. – Mi aspetto che
quando diventerai Regina ci ridarai un po’ dei soldi che
abbiamo speso per te.
–
Camille
ridacchiò, mordicchiandosi le labbra con aria famelica,
mentre l’odore di carne
cotta si propagava nel granaio sfondato: – Non ti facevo
così gretto. Non state
facendo tutto questo per l’onore e per lealtà?
–
– Sì, come
no – le rispose Andreas, avvicinandosi al fuoco.
Avevo
appena finito di completare la cartina con quello quando avevo visto
che tornò
Mel, infreddolito e stanco. Si accucciò vicino alle braci
del fuoco, con
un’aria tutto tranne che serena in viso. Prese la carne
avanzata e, senza dire
una parola, iniziò a masticarla arrabbiato e scocciato.
– Mel,
tutto bene? – gli chiese Camille, avvicinandoglisi
circospetta, come si fa con
le belve feroci.
– No, per
niente, – fece lui. – Fa un cazzo di freddo
là fuori e oggi Lacey non ha messo
il naso fuori dal castello. Mi sono congelato. –
– Dai, –
fece Camille. – Comunque vada abbiamo quasi finito qui. La
festa non è tra
cinque giorni? –
– Cinque
fottutissimi giorni che passerò al freddo, – disse
Mel. – Odio questo posto. –
– Vedo che
è un sentimento comune, – commentai. –
Direi che è il caso di iniziare a
pensare che cosa fare. Di informazioni mi sembra che ne abbiamo. Mi
spiace solo
che manchi Jared, ma non possiamo aspettarlo in eterno. Quindi, come
pensiamo
di procedere? –
Andreas
iniziò a dire qualcosa quando un rumore mi fece sussultare.
Sguainai lentamente
la spada, in silenzio, seguito dagli altri. Mi alzai e mi diressi
vicino
all’ingresso, da dove spuntò Jared,
particolarmente rumoroso e felice di
vivere.
– Ehilà!
–
disse, prendendomi per una spalla. – Bentornato! Si sentiva
la tua mancanza. –
Chiusi gli
occhi e misi la spada nel fodero: – Sono stato via due
giorni. –
Jared
scosse le spalle ed entrò nel granaio, sedendosi vicino al
fuoco e scaldandosi
le mani.
– Ti hanno
già raccontato della figlia illegittima di Lacey? –
Mi sedetti
di fianco a lui, mentre gli altri tornavano alle loro postazioni:
– Sì, so già
tutto. E grazie per avermi chiesto come mai sono stato fuori tutta la
notte. –
– Scusami
Marcus, non volevo offendere i tuoi sentimenti. Come mai sei stato
fuori tutta
la notte? –
– Te ne
accorgeresti se guardassi il disegno degli alloggi di Lacey. –
Jared si
girò verso di me, inclinando la testa: – Ma non ci
serve quella cartina.
L’altra sera, quella in cui mancavi tu per
l’appunto, abbiamo deciso che… –
Lo
interruppi, facendo un respiro profondo: – Come non ci serve?
Ho rischiato di
farmi impiccare per niente? –
Avrei
continuato ma Andreas mi interruppe. Camille e Mel si stavano guardando
accuratamente le unghie, apparentemente disinteressati.
– In
effetti Jared ha ragione, stavo per dirtelo prima che
arrivasse… abbiamo
pensato che forse è più sicuro rapire Lacey
durante la festa, quindi non ci
serve sapere come sono fatti i suoi appartamenti, –
l’occhiata che gli lanciai
era assassina. – Anche se in effetti ci può sempre
tornare utile, sai com’è. –
Jared mi
lanciò un’occhiata di scuse, adocchiando quello
che gli avevamo lasciato per
cena, mentre io guardavo lui e gli altri tre a braccia incrociate:
– Si può
almeno sapere a cosa siete giunti o è segreto di stato?
–
Camille guardò
Andreas, poi iniziò a parlare: – Abbiamo pensato,
come diceva Andreas prima,
che il momento della festa sarebbe il più adatto. Sai,
c’è tanta gente,
confusione, musica e le maschere ci saranno sicuramente di aiuto.
–
– Maschere?
– domandai, mio malgrado incuriosito.
– Sì, a
Basilea si tiene sempre una festa in maschera per festeggiare gli
Auremore, al
cambio di stagione, – commentò Mel, riscaldato e
meno incupito. – È una sorta
di tradizione. –
Camille
annuì, per poi continuare: – Sì,
è come dice Mel. Comunque, abbiamo pensato di
andare a questa benedetta festa, di drogare Lacey e rapirlo, per
portarlo in un
posto sicuro e ascoltare quello che ha da dirci. –
– Davvero
avete liquidato tutta la faccenda in così poco? –
dissi, guardando gli altri
come se fossero folli. – Anche se fosse semplice drogare
Lacey e rapirlo, cosa
che, per inciso, vi assicuro che sarà tutt’altro
che facile, cosa vi fa pensare
che sarà disposto a raccontarci tutti i suoi affari?
–
E qui Jared fece un sorriso
soddisfatto. In effetti mi sarei dovuto preoccupare solo per quello.
– Ed è qui
che entra in gioco la figlia della Lunga Mano. –
Tacqui,
guardando i volti dei miei amici su cui si riflettevano i bagliori del
fuoco.
– Volete
rapire una bambina? Davvero? –
Mel mi
guardò stupito: – Tieni la tua coscienza lontana
da me. E comunque non le
faremo niente, dovrà solo spingere il padre a dirci
ciò che sa. –
Tralascia
il commento, guardando gli altri. Possibile che anche Camille fosse
disposta a
rapire una bambina di cinque anni? A giudicare dalla sua espressione
soddisfatta, sì. Davvero un
bel passaggio da: “oh, ti prego, non uccidere il
capitano della nave, potrebbe farci ammazzare tutti ma non ha fatto
nulla di
male!” a “andiamo a traumatizzare
un’innocente”. Ovviamente tenni la cosa per
me. Sospirai.
– Sperando
che Lacey le sia davvero affezionato, altrimenti finirà in
un lago di sangue e
sarà tutto inutile. –
Andreas
sorrise: – Felice che ti sia persuaso, amico mio. Adesso
perfezioniamo questo
piano. –
***
Due ore dopo eravamo stremati
e arrabbiati l’uno con l’altro, ma almeno eravamo
giunti a una soluzione. In
sintesi, si trattava di questo: in tre ci saremmo intrufolati alla
festa, in
due sarebbero andati a prendere la bambina.
Come
saremmo riusciti ad imbucarci? Le opzioni erano due, una più
assurda
dell’altra, ma era il meglio che avevamo: o Jared avrebbe
chiesto un favore
alla sua nuova fiamma per farci entrare, o io avrei dovuto indicare
agli altri
due, che probabilmente sarebbero stati Jared e Mel, il modo per poter
entrare
nel castello senza farsi vedere. Quale modo? Avrei dovuto scoprirlo, ma
speravo
che il fascino di Jared facesse il miracolo.
Poi saremmo
andati fino alla zona del ricevimento e il fatto che tutti saremmo
stati
mascherati ci sarebbe stato d’aiuto. Prima della festa avrei
dovuto preparare,
sfruttando la mia conoscenza di erbe e intrugli, un qualcosa che fosse
in grado
di rendere incosciente Lacey, possibilmente con un buon lasso di tempo
dal
momento dell’ingestione. Avevo già in mente una o
due soluzioni che avrebbero
fatto al caso nostro e avevo anche già stilato una lista
degli ingredienti che
mi sarebbero serviti. Mancavano solo un paio di erbe, ma le avevo viste
nella
serra del palazzo e le avrei prese il giorno seguente.
Come
avremmo convinto la Lunga Mano a lasciare momentaneamente il
ricevimento e
convincerlo a venire con noi? Nessuno aveva uno straccio di idea, ma
suppongo
che ci avremmo pensato sul momento. Si sa, la necessità
aguzza l’ingegno. Il
divertente sarebbe però venuto dopo.
Come cavolo
saremmo potuti scappare da un palazzo sorvegliatissimo, in pieno
fervore di
festa, con un uomo svenuto o quanto meno incapace di camminare? Il
problema era
serio. Il palazzo è infatti circondato dalle acque su tutti
i lati, collegato
alla terra da un ponte lungo, non eccessivamente largo ma soprattutto
fin
troppo pattugliato da guardie.
Tutti
quelli che si recano a palazzo devono passare da lì,
inevitabilmente,
attraversando poi una enorme scalinata sormontata da un altrettanto
enorme
arco, dominato dall’angelo degli Auremore. Da lì
si apre un largo spiazzo,
occupato da una grande fontana circolare con dentro statue di cavalli
al
galoppo e le direzioni da poter prendere sono molteplici: gli ospiti, i
ricchi
e i nobili attraversano lo spiazzo e prendono una seconda scalinata,
che porta
all’ingresso principale del palazzo, mentre la
servitù si dirige dove serve, ma
per loro c’è il divieto tassativo di percorrere la
seconda rampa. Anche i
poveri postulanti che vanno a palazzo per chiedere udienza al Re
passano da
un’altra strada.
Decidemmo i
ruoli che ognuno di noi avrebbe dovuto avere nei giorni successivi: io
avrei
dovuto, oltre che preparare il sonnifero per Lord Lacey, anche cercare
una via
di fuga papabile dal castello; Mel avrebbe dovuto capire precisamente
quale
fosse il bordello dove si trovava la figlia della Lunga Mano, insieme a
Jared;
Camille si sarebbe dovuta occupare dei costumi dei tre che sarebbero
andati
alla festa; Andreas avrebbe dovuto organizzare tutto ciò che
serviva per
permetterci la fuga dalla città. Insomma, sarebbero stati
cinque giorni
davvero, davvero impegnativi.
***
La mattina dopo ero a palazzo
a guardarmi intorno con aria circospetta. Mentre andavo in giro,
lavorando
davvero poco, mi resi conto che praticamente tutta la parte dei
giardini
mancava di sorveglianza, probabilmente non si pensava che i problemi
potessero
emergere dal mare, su cui i prati si affacciavano con uno strapiombo di
più di
dieci metri. Lanciarsi da lì sarebbe equivalso al suicidio
ed ero ben sicuro di
non voler morire spiattellato sulle onde. L’unica cosa
positiva della giornata
fu che mi misero a lavorare di nuovo nella serra, permettendomi di
prendere
tranquillamente tutte le erbe che mi servivano. Alla sera tornai nel
granaio,
che ormai era diventato una sorta di casa, abbastanza demoralizzato.
Non capivo
come saremmo potuti uscire da quel castello maledetto senza dare
nell’occhio e soprattutto
senza farci ammazzare.
***
I giorni passarono lenti e il
problema sembrava destinato a non risolversi. Poi un pomeriggio al
castello, in
un momento di riposo che stavo passando a pensare guardando il mare
davanti a
me, vidi d’improvviso una testolina scura fare capolino dalla
scarpata, seguita
dal resto del corpo di un bambino di una decina d’anni che
rideva felice e
spensierato. Quando arrivò finalmente sul prato si
girò verso la scogliera,
aiutando un altro bimbo più o meno della sua età
ad emergere dal nulla.
Socchiusi gli occhi e, prima che i due potessero scappare, corsi loro
incontro
per fermarli.
– Da dove
arrivate voi due? – domandai, mostrandomi con
un’aria arrabbiata e contrariata.
Uno dei due
bambini iniziò a dondolarsi sui piedi abbassando la testa,
palesemente beccato
in flagrante, mentre l’altro provò a cavarsi dai
guai: – Stiamo correndo per il
prato, signore. Giochiamo. –
– Guarda
che vi ho visti mentre venivate su da lì – dissi,
indicando il mare davanti a
me.
Silenzio,
ed entrambi si guardarono i piedi.
– Potevate
sfracellarvi giù, è una caduta di almeno dieci
metri! Come vi viene in mente? –
Il più
coraggioso dei due mi guardò, ribattendo: – Non
è una caduta! Tre metri più
sotto la parete rientra e c’è una piccola grotta
naturale! E poi siamo bravi ad
arrampicarci. –
Tacqui,
metabolizzando e resistendo all’impulso di dirgli che
sì, tecnicamente sarebbe
stata comunque una caduta. Mi soffermai però sulla
rientranza nella parete.
– E cosa
andate a fare in una grotta umida sul mare? – domandai, con
ancora un cipiglio
alterato in viso.
Questa
volta fu il più timido dei due a rispondermi, con una vocina
da spezzare il
cuore: – Da lì è facile scendere al
mare e ci divertiamo a pescare i granchi…
Signore, per favore, non lo dica alle nostre mamme! Ci
sgrideranno… –
Sorrisi,
inginocchiandomi davanti a loro e addolcendo il tono: – Va
bene, non dirò
niente. Ma sappiate che è pericoloso e rischiate di farvi
molto male. –
I due bimbi
si dondolarono ancora un po’, ma alla notizia di avere
scongiurato la sgridata
erano molto più rilassati: – Sì, non lo
faremo più. –
Mi alzai in piedi e spettinai
loro i capelli, spingendoli verso il giardino convinto che tanto non mi
avrebbero dato retta: – Andate a giocare ora. –
Li guardai
allontanarsi correndo mentre pensavo, improvvisamente agitato. Altro
che
sgridarli, avrei dovuto fare una statua a quei due bimbi. Mi avvicinai
alla
scarpata, inginocchiandomi a pochi centimetri dal dirupo e guardando in
giù.
Niente faceva presupporre quello che avevano detto i bambini, se non
che guardando
bene si poteva notare, circa tre o quattro metri più in
basso, una discesa di
scogli meno ripida che nelle altre parti del palazzo. Come avessero
fatto a
scoprire quella grotta era un mistero, ma quei due bambini avevano
risolto il
nostro problema.
***
Quella sera tornai dagli altri
particolarmente eccitato. Mancavano due giorni alla festa a palazzo, e
finalmente
sembrava che tutti i tasselli stessero andando al loro posto. Comunicai
la
scoperta ai miei amici che la accolsero con meno entusiasmo di quanto
mi
aspettassi, ma ero talmente contento che non ci feci nemmeno caso.
L’intruglio
che avrebbe dovuto far addormentare Lacey era in un angolo del granaio,
sotto
quel pezzo di tetto che ancora non era crollato. Sobbolliva da un
giorno a
fuoco lento, ma per il grande evento sarebbe stata pronta.
Avevo
imparato a preparare questa pozione, il Laccio Bianco, alla
Corporazione, ma
non l’avevo mai dovuta usare fino ad ora. Conteneva una serie
di erbe semplici
da trovare in qualunque erboristeria, utilizzate per i loro effetti
contro
insonnia e dolori vari, ma le sue caratteristiche erano date da piante
rare,
come l’efedra e l’anterisco, che ero riuscito a
trovare nella serra. Totalmente
insapore e incolore, può essere mischiata con qualsiasi
bevanda senza che ne
cambi il gusto o la sfumatura e i suoi effetti si fanno sentire dopo
mezz’ora e
senza alcun preavviso: un momento sei in piedi e vigile, e il momento
dopo sei
per terra svenuto. L’azione dipendeva dalla dose, ma non
lasciava nessun
postumo quando si riprendevano i sensi. In antichità veniva
usata per rapire le
fanciulle e da lì si era presa l’abitudine di
servire da bere in bicchieri di
rame: se la pozione era presente nel liquido, per una reazione con il
metallo
la bevanda si tingeva di verde, assumendo un colore innaturale e dando
un
segnale d’allarme. Fortunatamente per noi ormai nessuno
più beveva in quei
bicchieri particolari dato che il rame dopo un po’ tende a
dare un saporaccio a
qualunque cosa venga in suo contatto. Molto meglio il vetro e
sorvegliare
accuratamente le proprie figlie.
Per i
nostri scopi ne sarebbe bastata una fialetta, non di più se
non volevamo
passare il nostro tempo guardando Lacey dormire: non c’era
modo di svegliare
chi era sotto il suo effetto. Per terminare la sua preparazione
bisognava
aggiungere solo l’elicriso, ed era proprio per fare questo
che mi avvicinai
alla pentola dove sobbolliva l’intruglio, mentre mettevamo a
punto gli ultimi
elementi del nostro piano.
–
Purtroppo, – stava giusto dicendo Jared. – Quella
ritardata di Eleine non ha
nessuna intenzione di farci entrare a palazzo il giorno della festa,
dice che
se venisse beccata perderebbe il lavoro, o peggio. –
Camille si
sedette con la schiena appoggiata al muro, più accasciandosi
che altro: – Non
importa, tanto se la via di fuga di Marcus passa per il mare non
sareste
riusciti a sfruttare il suo aiuto. –
Io annuii,
continuando a rimestare il liquido sul fuoco, che stava finalmente
iniziando a
perdere il suo colore biancastro originario. Andreas mi si
avvicinò e sbirciò
nella pentola: – Sei sicuro che funzionerà?
–
Lo guardai
smettendo di mescolare, intimamente offeso: –
Perché non la provi, così lo
scopriamo? –
– Ritiro
tutto, andrà benissimo. –
Nel
frattempo Camille stava parlando delle maschere e dei vestiti che aveva
trovato
per me, Jared e Mel, che saremmo andati alla festa, e del fatto che era
quasi
impazzita per riuscire ad averli. Li aveva tutti in una grande sacca
appoggiata
vicino a lei e ci minacciò di morte nel caso in cui li
avessimo rovinati.
– Quindi, –
fece Andreas interrompendola e allontanandosi da me. – Che ne
dite di
ricapitolare un po’ il tutto? –
Mel alzò
gli occhi al cielo: – Sono giorni che continuiamo a ripetere,
Andreas. –
– Sì, –
disse quello, sorridendo. – Ma sapete che sono paranoico e
non starei
tranquillo altrimenti, quindi, per favore, accontentatemi. Oppure vi
sorbirete
le mie lamentele per i prossimi giorni. –
Aveva
ragione. Era già capitato di organizzare una missione con
Andreas e sapevamo
tutti che sapeva essere veramente martellante quando voleva, e
soprattutto quando
non si faceva come voleva lui. Era una sorta di maniaco del controllo,
doveva
sapere che tutto era stato programmato nel minimo dettaglio per essere
tranquillo e ovviamente con noi la cosa riusciva davvero difficile. Un
paio di
anni prima, quando ci eravamo ribellati al suo dispotismo e ci eravamo
rifiutati di ripetere ogni minimo dettaglio del nostro piano per la
seicentesima volta, aveva passato i giorni successivi a lanciare
frecciatine,
lamentarsi e farsi prendere dal panico. Erano stati i tre giorni
peggiori della
mia vita.
–
Accontentiamolo, vi prego – intervenni quindi, lanciando
un’occhiata supplice a
Mel.
Lui non replicò, sapendo
benissimo che avevo ragione io. Ero sicuro che quei tre giorni di cui
prima
erano stati i peggiori anche della sua, di vita.
– Quindi, –
fece Andreas, nella sua più riuscita interpretazione di
maestrina. – Tra due
giorni ci sarà la festa, dove voi andrete. Io e Camille,
invece, andremo al
bordello Chiaro di Luna –per inciso, un nome orrendo, anche
se per un bordello–
e prenderemo la figlia della Lunga Mano, per portarla qui. Dopo di che
io vi
aspetterò con dei cavalli per riuscire ad arrivare qui in
fretta. A proposito,
dove vi aspetto? –
– Ecco, –
dissi io, lasciando momentaneamente perdere la pozione. –
Sono riuscito a
capire come entrare a palazzo, ma comunque si tratta di
un’isola in mezzo al
mare. Avremo bisogno di una barca. –
Jared mi
rispose, stiracchiandosi: – E che ci vuole? Ne rubiamo una.
Vomiterò anche
l’anima ma non sarà un problema. –
Andreas lo
guardò come si può guardare un malato mentale:
– Certo, Jared. Facile così. Se
ci fosse un premio per il pressapochismo lo vinceresti tu, ne sono
sicuro. –
Il mio
amico ridacchiò: – Guarda che anche Marcus non
scherza. Scommetto che la sua
risposta sarebbe stata uguale. –
– In
effetti, – feci io con aria colpevole, sentendo gli occhi di
tutti addosso. –
Avevo pensato a una cosa simile. Il porto non è troppo
distante da lì, no? Jared
e Mel prendono un qualcosa abbastanza grande per starci in quattro,
remano fino
al castello dove li aspetto io, mettiamo in secca la barca o quanto
meno la
leghiamo, e poi ci arrampichiamo fino ai giardini. –
– Non
azzardatevi a farlo con già i costumi addosso! –
mi interruppe Camille. – Con
tutta la fatica che ho fatto se li rovinate così vi uccido!
–
Ridacchiai
al suo panico: – Certo, non ti preoccupare. Allora facciamo
che i vestiti li
portate con voi sulla barca, li metteremo lì. Poi andremo
alla festa e
cercheremo di mettere il Laccio Bianco nel bicchiere di Lacey. Da quel
momento
avremo un lasso di tempo di circa mezz’ora, poi Lord William
perderà i sensi. –
– Infine, –
continuò Mel. – Prenderemo la Lunga Mano, la
porteremo fuori in maniera
discreta, scenderemo dalla scarpata di roccia, saliremo in barca e
remeremo
fino… fino a dove? –
– Era
esattamente quello che mi stavo chiedendo prima, Mel – gli
rispose Andreas, con
il suo tono irritante da so-tutto-io.
– Potete
incontrarvi vicino ai moli che ci sono a sud del castello: sono poco
frequentati e in più non rischiate di farvi beccare dal
proprietario della
barca rubata, – commentò Camille. –
Dovremmo uscire dalla città in fretta e
senza attraversarla tutta. –
Andreas la
guardò ammirato: – Hai ragione, non ci avevo
proprio pensato. –
– Bene, –
dissi io, dopo aver dato un’ultima occhiata alla pozione che
sobbolliva
tranquillamente sul fuoco. – Abbiamo risolto allora. Andreas
sei più rilassato?
–
Mi sorrise
sornione, accomodandosi per terra: – Infinitamente.
–
–
Fantastico, – fece Jared. – Ora possiamo mangiare?
–
***
Il giorno della festa arrivò
in fretta, senza lasciarci tempo per ulteriori preparativi. A palazzo
sembravano tutti impazziti e in preda ad una frenesia incontrollabile,
e i
giardinieri non erano da meno. Tutto doveva essere perfetto. Al solo
pensiero
che uno scenario del genere si ripetesse due volte all’anno,
una all’arrivo del
Re e una alla sua partenza, mi saliva l’angoscia. Non mi sono
mai piaciuti i
preparativi compulsivi.
Il
tramonto, vista anche la brevità delle giornate, fu su di
noi in un attimo. I
giardini e le fontane erano illuminati da centinaia di lanterne di
carta,
appese ai rami, alle panchine di ferro battuto e poggiate ai lati dei
sentieri
di ciottoli, illuminando il verde, l’arancione, il dorato e
l’argento degli
alberi. Come avevo già fatto, nel momento di andare via mi
nascosi al buio,
nella parte di giardini che non erano destinati ad ospitare la festa.
Aspettai fino all’ora
stabilita, poi presi la corda che avevo portato con me, la legai al
tronco di
un albero vicino alla scarpata, nel punto in cui giorni prima i due
bambini
erano comparsi dal nulla. Lanciai la fune verso il mare e iniziai a
calarmi
lentamente, guardando ogni appiglio e ogni rientranza della roccia che
mi stavano
davanti al naso. Si vedeva poco perché la luce stava
svanendo e la luna non era
ancora sorta. L’odore della pietra, di salmastro e di erba
bagnata mi entrò
nelle narici, rinfrescandole e ammaliandomi.
Le
dita scivolavano leggermente contro la canapa della corda, mentre i
piedi
sbattevano contro la parete di roccia davanti a me. Non mi è
mai piaciuto
particolarmente arrampicarmi e l’altezza non mi fa impazzire.
In più, il
pensiero di avere sotto di me, a circa dieci metri, niente altro che
rocce e
acqua era qualcosa che mi turbava oltre ogni dire.
Fortunatamente,
come mi avevano detto i bimbi, tre metri sotto i giardini si apriva una
grotta
naturale, dove mi fermai un attimo. Da lì in avanti la fune
non mi sarebbe più
servita e la distanza che mi separava dalla superficie del mare poteva
essere
coperta lasciandosi scivolare sulle rocce, macchiate da escrementi di
gabbiano
e percorse da piccoli insetti. Le mani mi si fecero appiccicose,
bagnate di
acqua e sale e sabbia, mentre il cielo sopra di me era sempre
più nero. Ci misi
almeno venti minuti a discendere da quel calvario, borbottando a mezza
voce, in
parte scivolando e in parte calandomi su un sentiero molto poco
disposto a
farsi percorrere. Come facessero quei dannati bambini a scendere da
lì senza
rompersi l’osso del collo era, di nuovo, un mistero.
Finalmente
arrivai in prossimità dell’acqua, guardato male
dai granchi e da un paio di
gabbiani che decisero saggiamente di alzarsi in volo. Il mare davanti a
me era
poco agitato, di un blu impenetrabile che rifletteva la tenue luce
della luna e
delle stelle. Piccole onde si infrangevano ai miei piedi, schizzandomi
di acqua
salata e rinfrescandomi dopo la fatica che avevo fatto per calarmi fin
laggiù. Il
vento freddo mi spettinava i capelli, facendomi sbattere gli abiti Mi
sedetti
su una protuberanza che sembrava essere messa lì apposta e
aspettai, avvolto
nella giacca.
Dopo una
mezz’ora, in cui la temperatura era ulteriormente calata e
iniziavo ad avere un
freddo cane, scorsi tra i flutti una barca che si avvicinava. Era delle
dimensioni di una scialuppa, piccola e slanciata, di legno, e sopra due
persone
stavano remando senza sosta. O meglio, una remava senza sosta,
l’altra ogni
tanto si fermava per respirare o sporgersi fuori bordo. Erano
sicuramente Mel e
Jared, e qualche minuto dopo erano vicino agli scogli, cercando di
tenere la
barca ferma senza spiattellarsi sulle rocce.
– Devo
scendere da questo aggeggio infernale. Marcus aiutami – mi
disse Jared,
mollando i remi e alzandosi in piedi, appoggiando una mano sulla terra
ferma.
Io mi abbassai e tenni ferma la barca mentre lui, di un indelicato
colore
verdino, si sporgeva sugli scogli salendoci sopra. Ci mancava poco che
baciasse
la terra.
– Scusatemi,
ma sulle barche piccole è ancora peggio che su quelle grandi
– fece,
guadagnandosi un’occhiataccia da Mel, che continuava a
cercare di tenere la
scialuppa ferma e che doveva aver passato un tragitto
d’inferno.
Guardai il
mio amico, con i capelli argentati che brillavano debolmente alla luce
della
luna: – Dobbiamo tirarla su, l’ideale sarebbe
riuscire a portarla nella grotta.
Non sarà facile. –
– Ci
proveremo – disse Mel, ritirando i remi e alzandosi, mentre
io e Jared tenevamo
la scialuppa il più ferma possibile.
Riuscimmo,
non si sa come, a portare la barca alla grotta più in alto.
Ci mettemmo circa
un’eternità, e quando arrivammo su eravamo
stanchi, sudati e con il fiatone. In
più Mel e Jared, e in parte anche io, avevano i vestiti
fradici per l’acqua che
avevano preso durante la traversata. Fui sollevato dal vedere ancora la
fune al
suo posto, intatta. Jared prese il sacco con i costumi che si erano
portati
dietro e iniziammo a cambiarci.
– Questo
non lo diciamo a Camille, d’accordo? – chiesi
mentre mi sbottonavo la giacca,
anche se più che una richiesta era un ordine. Mel e Jared
annuirono
ridacchiando, svestendosi. Presi in mano il costume che Camille aveva
preparato
per me, sentendomi un perfetto idiota solo al pensiero di indossarlo.
Era costituto
da un paio di pantaloni fin troppo stretti di un color rosso scuro,
quasi nero
che avrei dovuto infilare negli stivali di cuoio rovinato che portavo
da anni.
La giacca era dello stesso colore dei pantaloni, con rifiniture color
argento,
e aveva le spalle imbottite in una parodia degli spallacci di
un’armatura.
Sotto dovevo mettere una camicia bianca, larga e a tratti trasparente,
con le
maniche a sbuffo che spuntavano dalla giacca. Dei guanti neri mi
coprivano le
mani e c’era anche un mantello dello stesso colore, con un
largo cappuccio, che
avrebbe dovuto coprire il tutto. Il tocco finale era dato dalla
maschera,
bianca e squadrata, con dei buchi solo per gli occhi e con cesellature
argentate
tutto attorno. L’impronta della bocca era colorata di nero.
Non la misi, o
avrei rischiato di accopparmi ancora prima di arrivare alla festa.
Quando finii
il processo di vestizione guardai i miei amici e mi accorsi che
più o meno
eravamo vestiti uguali. Cambiavano i colori: blu e argento per Jared e
verde e
oro per Mel.
– Allora,
andiamo? – dissi loro, mentre finivano di sistemarsi.
Mel mi fece
un cenno con il capo, mentre Jared era diventato incredibilmente serio:
– Ti
seguiamo. –
Controllai
che nella tasca del costume ci fosse la fiala con il sedativo e mi
arrampicai
per primo sulla fune, guadagnando il giardino. Poco lontano si
sentivano i
rumori della festa già iniziata.
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Capitolo 11 *** XII ***
CAPITOLO XII
CAMILLE
Lasciammo Basilea in fretta e
furia, cavalcando lontano dalla città come se avessimo
l’esercito del Re alle
calcagna. In effetti, tra l’altro, nessuno ci assicurava che
non fosse vero. Il
cadavere di Lord Lacey giaceva ancora abbandonato nel granaio
distrutto.
Eravamo sicuri che non sarebbe passato molto tempo prima che a corte si
accorgessero della sua mancanza e non era da escludersi che lo avessero
già
notato. Avevo riportato Ivonne dalla madre, mantenendo la mia promessa
alla
Lunga Mano. Non che se lo meritasse, ma quella bambina non era
responsabile dei
crimini del padre.
Cavalcammo
nell’entroterra del regno di Dimina diretti verso Sanad,
città sullo stretto
Elusino. Da lì avremmo dovuto cercare un passaggio via mare
per Eleusi e per
Viride, con tutti i problemi connessi. Ormai eravamo di sicuro
ricercati: io lo
ero sempre stata, ma Marcus e i suoi amici avevano disertato dalla
Corporazione
degli Assassini e non potevano essere lasciati impuniti, la comparsa di
Lanes
gliene aveva dato solo la conferma.
Avremmo
dovuto fare molta più attenzione, restando lontani dalle
città e guardandoci
sempre le spalle. Non sarebbe stato facile, senza contare che
l’uomo che
stavamo cercando era a capo della guardia personale della regina Celia.
Andreas
lo conosceva, e ciò avrebbe dovuto aiutarci,
però… non so come mai ma avevo
avuto anche io l’impressione che il nostro amico non ci
stesse raccontando
tutta la verità. Nella lunga giornata della nostra fuga dal
granaio Andreas
divenne sempre più cupo, accigliato. Le mani che tenevano le
redini avevano le
nocche bianche per la forza che metteva nella presa e la sua bocca era
piegata
in una smorfia per niente rassicurante. Si capiva che era angosciato e
non
riuscivo a comprendere il perché.
Quello però
che mi rendeva più preoccupata era Marcus: durante la
cavalcata iniziò a
sudare, in maniera inconciliabile con il clima freddo che
c’era in quel
dicembre. Sbatteva frequentemente le palpebre per snebbiarsi la vista e
spesso
lasciava cadere le redini.
– Marcus,
tutto bene? – gli domandai più volte lungo il
tragitto.
– Tutto a
posto – mi rispose ripetutamente, non tranquillizzandomi
affatto.
Quando
finalmente passammo al passo, per riposare noi e i cavalli, lo guardai
bene.
Era pallido, i capelli gli si appiccicavano in ciocche sudate alla
fronte.
Tremava, gli occhi erano arrossati e si vedeva che faceva fatica a
respirare.
– Marcus,
sei sicuro di stare bene? – gli chiesi, sempre più
preoccupata.
Mi rivolse
un sorriso stentato, poco convinto: – Sì, non ti
preoccupare. Passerà. –
Anche Jared
lo guardava con aria impensierita, aggrottando le sopracciglia. Persino
Mel
sospettava che qualcosa non andasse bene. Solo Andreas era troppo
angosciato
per accorgersi di quello che stava capitando.
–
Decisamente non va bene, – disse Jared smontando da cavallo e
dirigendosi verso
quello di Marcus. – Adesso scendi e guardiamo quella ferita.
–
Sia io che
Mel scendemmo dai nostri cavalli, giusto in tempo per vedere Marcus
cercare di
smontare di sella e accasciarsi per terra, contro Jared. La casacca che
indossava era bagnata di sangue rosso, brillante.
– Mi sa che
in effetti non sto troppo bene – sussurrò, con
voce rotta e gli occhi chiusi,
mentre il suo torace si alzava e abbassava come un mantice.
Jared lo
adagiò al suolo, scoprendogli con uno strappo il torace.
Marcus si lamentò
debolmente mentre l’amico gli faceva passare il braccio fuori
dalla manica. Non
so molte cose di ferite, ma di una sono sicura: se sono nere, qualcosa
non va.
Il colore della spalla di Marcus era proprio quello: dalla ferita
nerastra
partivano le vene blu, pulsanti contro la pelle pallida, e la pelle
arrossata
circondava tutto.
Mi portai
una mano alla bocca, spalancando gli occhi spaventata. Non era bene,
per
niente. Sentii le lacrime pizzicare ai lati degli occhi, minacciando di
scorrermi sulle guance. Ero spaventata, l’ansia si fece
strada verso di me.
Stava morendo? Era grave? Vidi Jared chiudere per un momento gli occhi,
poi si
abbassò per annusare la ferita.
Fece una smorfia, e si mise in
ginocchio,
strofinandosi il volto con la mano. Persino Andreas dietro di me si era
riscosso dalla sua apatia, chinandosi vicino all’amico con
gli occhi
spalancati.
Marcus aprì
per un momento gli occhi: – È così
brutta? – sussurrò con un sorriso debole,
guardando Jared.
– Ho visto
di meglio, – disse lui, cercando di stirare le labbra in un
sorriso. – Ma vedi
che la risolviamo. Per adesso però direi che ci fermiamo
qua. Non puoi
proseguire. –
Nessuno
disse niente, guardavamo tutti Marcus come se fosse un fantasma. Mi
avvicinai a
lui e gli misi una mano sulla fronte. Scottava. Mi tolsi la giacca e
gliela
misi addosso, sperando che potesse tenerlo al caldo.
– Ha la
febbre, – dissi a nessuno in particolare. – Cosa
possiamo fare? –
Mel era
seduto per terra, guardando Marcus scuotendo la testa: – Non
è normale. Le
ferite non infettano in così poco tempo, in più
l’abbiamo pulita e bendata. Non
è normale. –
– No,
decisamente, – commentò Jared, con gli occhi blu
che facevano scintille. –
C’era del veleno sulla lama di Lanes, per forza. Quel
bastardo… –
– Un
veleno? – domandai, sconvolta. – Ma… ma
ci serve un antidoto, o morirà! –
Andreas mi
guardò con gli occhi dilatati, persi nel vuoto: –
Sì, ci serve un antidoto. Ma
a cosa? Che veleno può aver usato? –
Jared si
alzò in piedi, muovendosi come un animale in gabbia:
– Non abbiamo molto tempo.
Se in una giornata scarsa quella ferita è ridotta
così, non so per quanto… –
Non finì la
frase. Io trattenni un singhiozzo, sentendo le lacrime scorrermi sulle
guance.
Le asciugai con il dorso della mano portandomi più vicino a
Marcus, che era
caduto in uno stato di incoscienza. Si agitava mormorando parole senza
senso,
non aprendo più gli occhi. Il sudore sulla sua fronte
brillava alla debole luce
del sole.
– Pensiamo,
– disse Andreas dopo un profondo respiro. – Non
sono molti i veleni che hanno
un effetto del genere. Bisogna andare in città e chiedere di
un guaritore. Nel
frattempo, Marcus non può stare qui. Fa troppo freddo,
peggiorerà solo la sua
condizione. Dobbiamo cercare aiuto. –
Jared
annuì, spostandosi rapido verso il suo cavallo: –
Hai ragione. Io e Mel andremo
in città, tu e Camille cercate aiuto. C’erano
delle case a circa quindici
chilometri da qui, chiedete aiuto lì. Vi raggiungeremo con
un guaritore, a
costo di obbligarlo con la spada. –
Tutti
scattammo in piedi e, prima ancora che io e Andreas potessimo iniziare
a
spostare Marcus, Jared e Mel erano già partiti al galoppo.
Il tragitto dal punto in cui
c’eravamo
fermati fu un inferno: Marcus cavalcava con Andreas, che lo teneva
stretto
cercando di non farlo cadere da cavallo. Continuava a mormorare parole
insensate, muovendo agitato la testa. Io non riuscivo a smettere di
guardarlo,
impaurita come mai ero stata in vita mia. Poteva morire, e per cosa?
Per
aiutare me. Se fosse successo non me lo sarei mai perdonata. Mi resi
conto
all’improvviso che quei quattro ragazzi stavano rischiando le
loro vite per un
mio capriccio. In fondo ero viva, mia madre non si aspettava
più di trovarmi:
perché dovevo complicare le cose con la vendetta? Forse non
ne valeva la pena.
I miei neri
pensieri si interruppero nel momento in cui raggiungemmo gli edifici.
Una volta
arrivati scesi da cavallo precipitandomi verso una casa, bussando
insistentemente alla porta. Dopo poco una signora anziana mi
aprì, lasciando la
porta socchiusa e guardandomi dallo spiraglio.
– Cosa
volete? – mi chiese.
– La prego,
abbiamo bisogno di aiuto, – risposi, praticamente piangendo.
– Il mio amico sta
male, ha bisogno di cure. Morirà se rimane fuori al freddo.
Non vogliamo farle
nulla di male, la prego, ci faccia entrare! –
Nel
frattempo Andreas era smontato da cavallo, portando in braccio Marcus.
La donna
lo vide e spalancò la porta, convinta della
verità delle mie parole.
– Vi lascerò
la stalla. È vuota e potrete accendere il fuoco.
Più di così non posso fare,
non ho spazio per voi in casa. –
– Grazie,
grazie, grazie – mormorai stringendole la mano, grata del suo
aiuto.
Ci guidò
poco distante, verso un edificio solido e basso con un’ampia
porta. Dentro
c’era un’enorme quantità di paglia, dove
avremmo potuto adagiare Marcus.
La donna
indicò un angolo della stanza, leggermente annerito:
– Lì potete accendere il
fuoco. Non siete i primi viaggiatori che ospito. In più non
c’è niente da
rubare, qui. –
Andreas
posò Marcus sulla paglia, rivolgendo poi un leggero inchino
alla donna: –
Grazie, vi siamo debitori. Vi pagheremo per il vostro disturbo.
–
– Non
lascerò che un ragazzo muoia davanti ai miei occhi,
– disse questa, agitando la
mano. – Vi porterò delle coperte, così
che stia coperto. –
Io mi
inginocchiai vicino a Marcus, osservando la nostra benefattrice uscire
dalla
stalla, dirigendosi verso casa. Presi la mano dell’Assassino,
accarezzandola e
studiandola. Era ruvida, grande, con
calli che indicavano quale fosse il suo
mestiere. Era anche incredibilmente calda, in maniera impossibile.
Intrecciai
le mie dita tra le sue, tenendola stretta. Con l’altra mano
gli scostai le
ciocche sudate dalla fronte, dandogli una leggera carezza. Non potevo
credere
che sarebbe potuto morire. Marcus mi aveva salvato la vita due anni fa
e ora
rischiava di perdere la sua a causa mia. Chiusi gli occhi, sentendo un
nodo
d’angoscia stringermisi nel petto.
“ Non
puoi lasciarmi anche tu”, pensai,
atterrita. Avevo perso tutti quelli che amavo, non potevo permettere
che anche
lui se ne andasse. Sentii le lacrime scendermi di nuovo ai lati del
viso e le
scacciai con un gesto brusco della mano. No, non poteva morire, non
glielo
avrei permesso. In più ero sicura che nemmeno Jared, e
tantomeno né Mel né
Andreas lo avrebbero fatto. Marcus non mi avrebbe lasciata, sarebbe
tornato a
ridere, camminare e parlare a breve.
Dopo poco
ritornò la nostra ospite, con in mano una paio di spesse
coperte di lana.
Andreas le prese e le stese sul suo amico, coprendolo bene e tenendolo
caldo.
Lui continuava a muoversi, le labbra erano sempre più
livide. Sbatteva i denti,
girando la testa da una parte e dall’altra, scuotendo le
lunghe gambe.
Scoprimmo la ferita sulla spalla, che era sempre più scura,
malsana. Chiusi gli
occhi, cercando di far sparire quell’immagine terribile dalla
mia mente.
Vegliammo
su Marcus, vedendolo stare sempre peggio, per un paio d’ore.
Io ero sempre più
angosciata e Andreas camminava avanti e indietro per il granaio,
misurandolo a
lunghi passi. Mi sembrò che il tempo si dilatasse, facendo
durare ogni minuto
ore. Non riuscivo a distogliere gli occhi dal viso
dell’Assassino adagiato
vicino a me, temendo in ogni momento di non vedere più il
suo petto alzarsi e
abbassarsi al ritmo del suo respiro.
Dopo quelli
che mi sembrarono giorni, finalmente la porta della stalla si
spalancò
lasciando entrare Jared e Mel preceduti da un uomo incappucciato,
vestito di
bianco. Potei intravedere la luce debole che veniva da fuori,
indicandomi che
la giornata stava terminando e che stesse avanzando la notte. Scrutai
lo
sconosciuto mentre si avvicinava a Marcus, inginocchiandosi vicino al
suo corpo
e toccandogli la fronte. Dopo poco si abbassò il cappuccio,
rivelando un volto
semplice ma severo.
Occhi scuri
scrutavano il viso del mio amico e la bocca era ferma in una linea
severa.
Sembrava giovane, troppo per uno che con la sua esperienza avrebbe
potuto
determinare la morte o la vita del nostro amico. Noi tutti lo
osservavamo con
il fiato sospeso, bloccati in un’immobilità
innaturale. Poi scoprì la ferita di
Marcus, guardandola con aria sospetta e toccandola leggermente con un
bastoncino di metallo che si tolse dal mantello.
Fece una
smorfia e poi si alzò, parlando con una voce bassa e
profonda: – È grave, c’è
molto da fare. Vi pregherei di uscire da qui, per permettermi di
lavorare in
tranquillità. –
–
Sopravvivrà? – domandò Jared, con voce
tremante.
Il
guaritore abbassò il capo, piegando la bocca in
un’espressione triste e dolce
allo stesso tempo: – Non lo so, non voglio dirvi cose che
potrebbero non essere
vere. Posso provare a salvarlo, questo sì. Per farlo,
però, ho bisogno che mi
lasciate fare il mio mestiere. –
Annuii e mi
alzai, lasciando la mano di Marcus. Poi seguii gli altri fuori dalla
porta del
granaio.
***
L’attesa fu snervante. Ci
sedemmo per terra muti, senza fiatare. Pronunciammo solo qualche parola
mormorata, per sapere chi fosse il guaritore e dove Jared e Mel
l’avessero
scovato. Dopo ci fu solo silenzio.
Pregai,
forse per la prima volta nella mia vita. Non
rivolsi però i miei pensieri a Polemos, crudele dio della
guerra e massima
divinità nel mio paese, ma mi venne in mente Casel, il dio
dell’equilibrio e
della giustizia di Viride. Se esisteva, se c’era davvero,
allora non avrebbe
potuto portarmi via Marcus, non così. Mormorai mozziconi di
preghiere imparate
da bambina, riempiendo i vuoti della mia memoria con parole inventate
da me.
Jared era seduto di fianco a me, con gli occhi chiusi
e la testa appoggiata al muro della stalla. Sembrava dormisse ma sapevo
benissimo che l’angoscia stava divorando anche lui, come
tutti gli altri. La
faccia di Mel sembrava scavata, gli occhi erano infossati nel viso.
Andreas si
teneva le mani tra loro, per impedire di far vedere il loro leggero
tremore,
osservando con sguardo vacuo la campagna attorno a sé.
Passarono ore e la temperatura cadde di molto.
Sebbene tutti stessimo patendo il freddo nessuno di noi osò
entrare nella
stalla, per paura di interrompere il guaritore e vedere cose che non
avrebbe
desiderato vedere.
Ogni tanto
un urlo leggero attraversava l’aria, gelandoci sul posto.
Altre volte invece
sentimmo dei ringhi e dei mugoli, a cui seguivano i nostri sguardi
sempre più
spaesati.
Finalmente
la porta dell’edificio si aprì. Il guaritore aveva
una faccia stanca ma
soddisfatta, le mani erano sporche di sangue e stringevano un panno
candido.
– Il vostro
amico è vivo, – disse anticipandoci, vedendo
già le nostre bocche che si
spalancavano per chiedere informazioni. – Ma molto stanco.
Sta riposando ora,
ne ha molto bisogno. La lama che gli ha causato quella ferita era stata
cosparsa con un veleno raro e letale. È fortunato a essere
sopravvissuto. –
Feci per
ringraziarlo ma Jared mi anticipò: – Grazie per
tutto quello che avete fatto.
Vi siamo debitori, noi tutti. –
– Non ce
n’è bisogno, – rispose il guaritore
sorridendo. – Ho fatto ciò che sono stato
addestrato a fare, niente di più. Mi basta sapere di aver
salvato una vita. –
Ci
inchinammo all’uomo, non sapendo esprimere veramente la
nostra gratitudine, poi
entrammo nella stalla e il mio sguardo corse subito alla figura
adagiata sulla
paglia. Mi avvicinai rapidamente a Marcus e mi inginocchiai al suo
fianco,
osservandolo: non tremava più, la pelle aveva acquistato un
colore un po’ più
naturale. Il suo torace era scoperto e la spalla era fasciata in bende
candide,
pulite. Continuava a dormire, ma non mormorava parole e sembrava
scivolato in
un sonno profondo. Il suo petto si alzava e abbassava regolarmente, non
più
rapido come poco prima.
Un sospiro
di sollievo mi uscì dalle labbra, mentre il tempo iniziava
di nuovo a scorrere
normalmente. Vicino a me c’erano Andreas, Mel e Jared, tutti
con un’espressione
sollevata e un sorriso sul viso.
Il
guaritore era poco distante da noi, guardandoci con aria serena:
– Dovrete
cambiargli le bende domani mattina, ve ne ho lasciate un po’,
– disse,
indicando un punto della stanza. – Ora, se non vi dispiace,
gradirei ritornare
al tempio. –
Mel si
rialzò, scuotendo Jared per la spalla e avvicinandosi
all’uomo: – Certo,
partiremo subito. Ci segua, la accompagneremo. –
I due
Assassini uscirono dalla stalla, assicurando a me e ad Andreas che
sarebbero
tornati il prima possibile mentre noi avremmo dovuto vegliare il
malato,
assicurandoci che non peggiorasse improvvisamente.
***
Non distolsi lo sguardo da
Marcus nemmeno per un secondo, e mi riappropriai della sua mano mentre
ero
seduta vicino a lui, osservandogli in continuazione il viso,
più tranquilla ma
ancora un po’ preoccupata. Non mi sarei rilassata fino a
quando non si fosse
svegliato, lo sapevo benissimo. Cosa avremmo fatto se il guaritore non
fosse
riuscito a guarirlo? Repressi un brivido, non volendo nemmeno pensarci.
Sentii
la fatica della giornata crollarmi addosso, ma non mi sarei
addormentata fino a
che non fossero tornati gli altri.
Osservai i
lineamenti di Marcus, stupendomi di come fossero più morbidi
e dolci nel sonno.
La linea della guancia era stranamente tenera, ombreggiata dalle ciglia
lunghe.
Le labbra erano leggermente aperte e potevo vedere la paglia davanti a
lui
muoversi lievemente al ritmo del suo respiro.
Mi riscossi
dalla mia contemplazione quando una mano mi toccò la spalla,
facendomi
sussultare e distogliendomi dai miei pensieri: – Camille, sta
bene adesso. Puoi
riposare. –
Guardai
l’Assassino seduto di fianco a me, sorridendogli debolmente,
quasi
vergognandomi: – Grazie, Andreas, ma credo che
resterò sveglia ancora un po’. –
– Hai paura
che possa capitargli qualcosa? – mi domandò.
– Stupido
eh? – sospirai.
– No, non
penso – mi rispose Andreas.
Rimanemmo
in silenzio per un po’, osservando Marcus che mormorava
qualche parola, per poi
girarsi e continuare a riposare.
– Sei innamorata di lui, non è vero? –
Provai
prima incredulità, poi stupore, poi consapevolezza. Mi girai
verso Andreas,
mentre qualcosa mi esplodeva in petto. Forse era per quello che sentivo
tutte
quelle strane sensazioni quando ero con Marcus, forse Andreas aveva
capito
tutto prima di me. Sapevo che ero felice quando stavo con
l’Assassino, che mi
preoccupavo quando lui non c’era, che il pensiero di perderlo
mi aveva fatto
pensare di morire io stessa. Mi bloccai, mentre tutto intorno a me
svaniva
davanti all’enormità di quello che provavo:
sì, ero innamorata di Marcus. Come
avevo fatto a non accorgermene?
Abbassai il
volto, rivolgendolo verso le mie mani intrecciate con quelle di lui:
– Credo di
sì. –
Poi Andreas
fece qualcosa che mi stupì enormemente: mi
abbracciò. Per un momento mi
irrigidii, prima di abbandonarmi alla stretta e poggiare la testa sulla
sua
spalla.
– Non lo
sapevo nemmeno io, – gli dissi, un po’ colpevole.
– Come hai fatto ad
accorgertene? –
Andreas
sorrise dolcemente: – Vedo come vi guardate. –
Annuii,
sciogliendomi dall’abbraccio e portando il mio sguardo verso
Marcus, che
dormiva come un bambino. Ero così felice di vederlo vivo che
non riuscii a
trattenere un sorriso.
– E tu,
Andreas? Sei innamorato? – gli domandai.
Non
sentendo risposta mi girai verso di lui, che aveva lo sguardo perso nel
vuoto.
Perso e infinitamente triste.
Gli
appoggiai la mano sulla spalla: – Andreas, tutto bene? Non
volevo metterti in
difficoltà. –
Lui scosse
la testa, per poi chinarla verso il basso: – No, non
è quello. Solo io… io devo
dirlo a qualcuno. –
– Dire
cosa? – gli domandai, mio malgrado incuriosita.
Vidi
Andreas deglutire, per poi fermarsi e tacere. Non volevo forzarlo a
raccontarmi
i suoi problemi, quindi rimasi in silenzio anche io.
L’Assassino chiuse gli
occhi aprendo un paio di volte la bocca senza proferire parola.
Poi alzò
d’improvviso la testa, con determinazione negli occhi
d’ambra: – Sì, sono innamorato
anche io: di Lord San, il capo della guardia della Regina.
L’uomo che stiamo
cercando. –
Spalancai
la bocca e dilatai gli occhi, stupefatta, non credendo a quello che
avevo
appena sentito. Non dissi niente per qualche secondo, estremamente
consapevole
dello sguardo di Andreas su di me, nell’attesa di una
risposta.
– Io… Sono
contenta per te, ma non so nemmeno da che parte iniziare con le domande
–
dissi, sperando di non essere troppo brusca. Ero veramente contenta per
Andreas
ma avevo paura di cosa avrebbe potuto implicare questo suo legame con
questo Lord
San.
L’Assassino
sorrise e si raddrizzò persino, come se si fosse tolto un
peso da sopra le
spalle: – Inizia da dove vuoi. –
– Va bene.
Allora, da quanto va avanti? Sei felice? Com’è
iniziata? Gli altri lo sanno? Cosa
pensi di fare? –
Andreas
rise: – Rilassati, Camille, e ripetimi le domande una ad una.
Non ti sto dietro
altrimenti. –
Risi anche
io, per la prima volta da quando era incominciata quella giornata
eterna: –
Partiamo con le cose importanti allora: sei felice? –
– Molto, –
mi rispose l’Assassino con un sorriso felice, per poi
rabbuiarsi di colpo. – O
almeno, lo ero fino a ieri sera. Non mi aspettavo niente di tutto
questo. –
– Di questo
potremo poi ragionare con calma, ora lascia che la mia anima pettegola
venga
alla luce. Da quanto state insieme? Com’è
iniziata? –
– Insieme è
una parolona. Non ne abbiamo mai parlato, quindi non saprei dirti. So
solo che
sto bene con lui e spero che lui stia altrettanto bene con me. Abbiamo
iniziato
a vederci seriamente e non più come semplici amici circa una
decina di mesi fa.
Com’è iniziata, mi chiedi… Non lo so
precisamente. Un giorno mi è stato chiesto
di contattarlo su ordine dell’Alto Comando e ho
incredibilmente scoperto che è
una persona normale. Anzi, anche piuttosto alla mano. Ci siamo trovati
bene
insieme, quindi abbiamo deciso di andare a bere qualcosa dopo i
rispettivi
turni, vedendoci spesso nei mesi seguenti. Da cosa nasce cosa
e… –
– E? – gli
chiesi, impaziente.
– Sai, non
credo di voler parlare con te di questa cosa –
ridacchiò lui, strofinandosi la
nuca e arrossendo leggermente, in imbarazzo.
Lo guardai
sorridendo, contenta per lui: – Va bene, saltiamo questo
passaggio allora. Come
mai non lo hai mai detto agli altri? –
Il suo
sguardo si rabbuiò di colpo. Abbassò lo sguardo
su Marcus, che dormiva
beatamente sulla paglia, vicino a noi.
– Ho paura.
Paura che possano non accettarlo, non capire. E se si allontanassero da
me? Se
mi lasciassero solo? –
Lasciai per
la prima volta la mano di Marcus, avvicinandomi ad Andreas e
abbracciandolo
come aveva fatto lui con me poco prima. Lo sentii sospirare.
– Come
potrebbero? Sono i tuoi fratelli. Tutto questo è parte di te
tanto quanto il
tuo modo di parlare, di camminare. Lo capiranno, non potrebbe essere
altrimenti. Non c’è niente di cui avere paura o
vergognarsi. Non c’è niente di
male in quello che mi hai raccontato, anzi. Innamorarsi non
può essere qualcosa
di negativo. –
– Lo so.
Almeno, il mio cervello lo sa. Ma ogni volta che penso di parlargliene
sento un
nodo allo stomaco e non è una bella sensazione. –
Annuii con
aria saccente: – Quella si chiama ansia, e non è
mai una bella sensazione. –
Ridacchiò
alla mia terribile battuta, sembrando che un po’ di
preoccupazioni gli
cadessero di dosso.
Poi si
rabbuiò: – Tanto adesso lo scopriranno comunque,
dovrò dirglielo – commentò,
chiudendo gli occhi, una smorfia in viso.
Sentii una
stretta al cuore. Per la seconda volta una persona veniva ferita a
causa mia,
del mio desiderio di vendetta. Prima Marcus, ora Andreas. Era giusto?
Ero
sicura di volere tutto questo per le poche persone che avevano deciso
di
aiutarmi, di appoggiarmi?
– Mi
dispiace… non fosse stato per me tutto questo non sarebbe
capitato. È colpa
mia. Dovresti odiarmi, è quello che farei io se fossi al tuo
posto. –
Andreas
aprì gli occhi e mi sorrise, intenerito: – Non
è colpa tua, Camille. Non
pensarlo nemmeno per un secondo. Sia io che Marcus, ma anche Mel e
Jared,
abbiamo deciso di seguirti. Non ci hai obbligati, mai. È per
nostra volontà che
siamo qui. È la prima volta nella nostra vita che ci viene
lasciata la scelta e,
anche se le sue conseguenze sono dolorose, non mi pento della mia
decisione.
Finalmente non sono più un burattino in mano a persone
più potenti di me, sto
facendo quello che io, e non altri, ritengo giusto. Non è
colpa tua. –
Annuii,
sentendo un calore inusuale scaldarmi il petto.
Guardai
l’Assassino con riconoscenza: – Grazie. –
Ripresi la
mano di Marcus tra le mie, guardando il suo viso rilassato. Non si era
svegliato da quando il guaritore se ne era andato ed era un bene. Aveva
bisogno
di riposare e di riprendersi.
Riportai la
mia attenzione su Andreas, che scosse la testa: – Non so cosa
pensare, Camille.
–
– Di San? –
gli domandai, sicura di aver colto nel segno.
– Sì, di
lui. Lo conosco da dieci mesi e non mi sono mai accorto di che persona
fosse in
realtà. Ha contribuito all’omicidio del Principe e
dei suoi due figli, per
permettere alla Regina di ottenere ciò che voleva. Pensavo
di conoscerlo, ma
ora mi rendo conto che non è affatto così,
– chiuse gli occhi, addolorato, una
smorfia sul viso. – Come ho fatto a innamorarmi di una
persona così? –
– Non è
così semplice, – gli risposi. – Magari
è stato costretto, non puoi saperlo. Mia
madre è subdola, infida: capisce ciò che vuoi e
lo sfrutta per farti fare
quello che desidera. Non è facile riuscire a scappare dalla
sua rete. –
– Non
conosci San. Nessuno riuscirebbe a convincerlo a fare qualcosa che non
vuole.
Il motivo è un altro e ho paura di scoprire quale.
–
– Vorrei poterti
evitare tutto questo, – gli dissi, dispiaciuta per lui.
– Lo vorrei davvero.
Sono sicura di una cosa però: qualunque cosa questo San
possa aver fatto non
impedisce che possa amarti sinceramente. È passato molto
tempo dalla morte di
Adrien e dei suoi figli, può anche essere che nel frattempo
si sia pentito
delle sue azioni. –
– Può
essere, e comunque stiano le cose tra pochi giorni lo scopriremo,
– fece una
risata amara. – Penserai che sia ipocrita da parte mia, che
uccido per vivere,
essere tanto sconvolto. Forse è vero, ma pensavo che fosse
diverso da me. –
– Sei un
Assassino, sì, ma non uccidi innocenti, non uccidi bambini.
Valuti la
colpevolezza degli uomini che ti sono davanti, attentamente, prima di
colpire.
È merito della vostra Corporazione se il nostro regno
è ancora in piedi. Voi ci
proteggete tutti, dal primo all’ultimo, e non chiedete nulla
in cambio. –
– È tutto
vero, ma non cambia quello che penso di me. Sai, credo che quando
questa storia
finirà lascerò gli Assassini. Voglio provare ad
avere una vita normale. –
– Quando
questa storia finirà farò di tutto
perché tu la possa avere, – risposi. Ero
onorata che avesse deciso di parlarmi dei suoi problemi. Avevo sempre
considerato Andreas -e anche Marcus, Jared e Mel- una persona serena,
convinta
delle proprie azioni, che affrontava la vita con
tranquillità. Non avrei mai
potuto immaginare che qualcosa potesse abbatterlo, preoccuparlo, non
fargli più
credere in sé. Era sempre stato così perfetto da
farmi domandare se anche io
sarei mai riuscita a essere come lui. Adesso scoprivo che anche lui
aveva dei
problemi e tutto questo contribuiva a renderlo più umano,
meno perfetto ma più
simile a me. E forse me lo rendeva anche più caro.
– Sempre
che non moriamo tutti prima, ma in tal caso il problema non si porrebbe
–
commentai ironica, cercando di alleggerire la tensione che si era
creata.
– È vero,
–
disse Andreas ridendo. Tornò serio, per poi sorridere
dolcemente guardandomi
negli occhi: – Sono felice di aver trovato un’amica
come te, Camille. –
Sorrisi
anche io: – Anche io sono felice di aver te come amico,
Andreas. –
***
Tempo dopo tornarono Mel e
Jared, stanchi dalla lunga cavalcata e dalle preoccupazioni del giorno.
Marcus
non si era svegliato nemmeno una volta, continuando a dormire
silenzioso. Andreas
era sdraiato lì vicino, con gli occhi chiusi, ma dubitavo
dormisse:
probabilmente stava ancora cercando di metabolizzare gli avvenimenti
della
giornata.
–
Come sta? – chiese Jared, guardando con apprensione
l’amico.
– Ha dormito fino ad ora, sembra che vada tutto bene
– risposi, mentre i due Assassini entravano nella stalla e si
buttavano sulla
paglia, facendo attenzione a non svegliare Marcus.
–
Quel guaritore gli ha salvato la vita, siamo stati
fortunati – commentò Mel, sospirando.
Li
guardai, sentendo il sonno arretrato cadermi
d’improvviso tutto addosso: avevo bisogno di dormire.
–
Decisamente fortunati – gli risposi, lanciandomi al
fianco di Marcus. Andreas non aveva mosso un muscolo, senza nemmeno
salutare
gli amici.
–
Se tutto va bene, – continuai. – Direi che possiamo
dormire. È tardi ormai per andare da qualunque parte,
possiamo riposarci e
rimandare tutto a domani. –
Mi
rispose solo un grugnito di Jared, poi chiusi gli
occhi e mi abbandonai al sonno. L’ultima cosa che vidi prima
di addormentarmi
fu la mano di Marcus che si posava sopra la mia.
***
Il mattino arrivò fin troppo
in fretta. Mi svegliai perché qualcuno mi stava scuotendo
gentilmente: aprii
gli occhi e davanti al mio viso c’era la faccia di Andreas.
Mi guardai
stancamente intorno, scrutando l’interno della stalla: la
luce tenue dell’alba
dipingeva di grigio la stanza e i volti di Marcus, Mel e Jared, ancora
addormentati.
–
Se vogliamo andarcene da questa dannata isola
dobbiamo muoverci – mi disse l’Assassino sottovoce,
mentre si muoveva per
andare a svegliare Jared. Mi strofinai stancamente gli occhi con il
dorso della
mano, per poi provare a districare quel nodo improponibile che erano
diventati
i miei capelli. Mi alzai in piedi sbattendo le palpebre, guardandomi in
torno
con aria stranita.
– A te
l’onore – mi disse Andreas, indicandomi con un
movimento della testa Marcus,
che giaceva addormentato vicino a me. Arrossi lievemente, sperando che
Jared,
ancora in uno stato di incoscienza, non avesse sentito.
Mi
inginocchiai vicino all’Assassino, scuotendolo gentilmente
dal lato del braccio
sano e sussurrando dolcemente: – Marcus, svegliati. Dobbiamo
andare. –
Mi rispose
un mugolio non troppo convinto. Evidentemente stava di nuovo bene.
Lo scossi
di nuovo: – Dai, devi svegliarti. –
Due occhi
scuri si aprirono, assonnati, fissandomi dal basso. Un sorriso distese
il viso
dell’Assassino e non potei fare a meno di sorridere a mia
volta. Era sano e
salvo, sveglio. Si tirò a sedere lentamente, mugugnando
quando appoggiò il peso
sul braccio ferito. Lo osservai mentre si guardava intorno con aria
spaesata.
Non aveva ancora recuperato un colorito del tutto normale: era pallido,
e gli
occhi neri spiccavano sul viso.
– Come
stai? – gli domandai.
– Bene ora,
ma… dove siamo? Cos’è successo?
L’ultima cosa che ricordo è che stavamo
cavalcando, poi più nulla. –
Sospirai
ricordando la scena del giorno prima: – La spada con cui
Lanes ti ha ferito era
avvelenata. Il veleno è entrato in circolo e hai perso i
sensi. Ti abbiamo
portato qui e abbiamo fatto venire un guaritore. Sei quasi morto.
–
Mi guardò
stupito: – Quasi morto… mi ricordo che stavo male,
ma non pensavo che potesse
essere una cosa così grave. –
Scossi la
testa, guardandolo mentre si osservava la spalla bendata: –
Invece era molto
grave. Ci siamo preoccupati tutti, molto. –
– Io… mi
dispiace. –
– E di
cosa? Di essere stato ferito? – commentai, mettendomi
più comoda al suo fianco,
sena smettere di guardarlo.
– No, di
averti fatto preoccupare – mi rispose, sorridendo. Qualcosa
nello stomaco mi si
contrasse, come se milioni di farfalle avessero preso il volo.
Ero sul
punto di aprire bocca quando Andreas ci raggiunse: – Ciao
Marcus, lieto di
vederti in forma. Ce l’hai fatta vedere brutta. –
– Era solo
per mettervi alla prova, – commentò Marcus
ridacchiando, per poi diventare
serio. – Grazie di cuore. A quanto ho capito non sarei qui se
non fosse stato
per voi. –
– In verità
il lavoro sporco lo abbiamo fatto io e Mel, –
commentò Jared ancora più morto
che vivo, tirandosi in piedi e avvicinandosi all’amico.
– Ma non importa. Ci
hai fatto davvero preoccupare. –
– Lo so, lo
so, – commentò Marcus, alzandosi e abbracciando
Jared e Andreas. – Non vi
ringrazierò mai abbastanza. –
– Direi di
no, – rispose Mel, emergendo dall’ombra, con paglia
fin sopra i capelli. – Cerca
di rimanere vivo da ora in avanti. –
Dopo che
anche lui ricevette il suo abbraccio di ringraziamento eravamo tutti
pronti ad
andare. Li guardai mentre parlavano brevemente tra loro, spiegando a
Marcus
cosa era capitato da quando aveva perso i sensi. Ero incredibilmente
felice di
vederlo vivo, tanto da non riuscire a trattenere il sorriso idiota che
sentivo
allargarsi sul mio viso.
Ma non
tutto era rose e fiori. Non potevo parlare a Marcus di quello che
provavo per
lui, non avrebbe avuto senso. Stavo facendo tutto per riottenere il
trono: come
avrei potuto conciliarlo con i miei sentimenti per
l’Assassino? Se fossi
riuscita a riavere ciò che era mio avrei dovuto lasciarlo,
sempre che
ricambiasse ciò che provavo. Era solo egoismo voler stare
con lui, soprattutto se
per poco tempo. Avrei poi dovuto lasciarlo andare per la sua strada e
non ero
sicura di essere in grado di farlo. Era meglio lasciare tutto come
stava, non
complicare la situazione. Ero sicura che Andreas non avrebbe rivelato
niente
della nostra conversazione dell’altro giorno, ma forse era
meglio accertarmene.
–
Com’è la situazione là fuori, vicino
alla città? –
domandò Marcus a Mel, mentre stavano recuperando
ciò che la sera prima avevamo
sparpagliato per il granaio.
–
Non troppo buona, – commentò Mel, scuotendo con
aria assorta una coperta. – Ci sono guardie dappertutto,
soldati a cavallo
percorrono le vie. Stanno tutti cercando Lord Lacey, la notizia della
sua
scomparsa ormai è di dominio pubblico. Il Re è
inferocito. –
–
Fantastico, – mi intromisi. – Come facciamo a
salpare per Eleusi con tutto questo disastro? –
–
È un’ottima domanda, – disse Jared,
scrutando il
cielo scuro e nuvoloso, foriero di pioggia. – Stanno
controllando tutte le navi
alla ricerca di tre forestieri. Non so come ma hanno la descrizione
mia, di
Marcus e di Mel. Dobbiamo fare attenzione. –
Inarcai
le sopracciglia: era un bel problema. Come
avremmo fatto a imbarcarci per toglierci da quella maledetta isola?
–
Usciamo da qui e mentre andremo in città ci
penseremo. Che ne dite? – disse Andreas, avvicinandosi alla
porta d’ingresso
del granaio.
***
Sanad era una città triste:
case grigie, strade grigie, polvere grigia nell’aria. Non che
il tempo aiutasse
visto che pioveva, ma ebbi comunque l’impressione che quel
posto fosse quanto
di più infelice ci fosse su terreno diminiano. Persino gli
alberi sembravano
tinti di bianco e di nero. L’unico tocco di colore era dato
dalle navi ancora
al porto, con vele di ogni sfumatura. Le imbarcazioni erano piccole e
snelle,
adatte alla breve traversata che avrebbero fatto fino a Viride, della
durata di
un paio d’ore al massimo. In effetti era questa la maggiore
funzione della
città: garantire gli scambi con Eleusi, prevalentemente di
cibo e vini
pregiati, cose di cui noi viridiani scarseggiamo ma che abbondano a
Dimina.
La pioggia
ruscellava sul mio mantello, inzuppandomi e congelandomi, colando dalla
punta
del cappuccio fino a terra. Gli Assassini vicino a me non erano messi
meglio,
se non per il fatto che loro, con le cappe scure a coprirgli il viso,
erano oltremodo
inquietanti. Erano quei tipi di persone che avrei avuto paura a
incontrare in
un vicolo buio, mentre io sembravo una bambina abbandonata dai
genitori.
Il porto
davanti a noi era tristemente vuoto, senza il solito viavai che
normalmente si
trova in posti del genere. Prima di passare sulle banchine gruppi di
guardie
controllavano i passanti, scoprendogli il viso e confrontandoli con un
manifesto che avevano in mano.
Jared,
appoggiato a un muro con le braccia incrociate, indicò con
la testa i soldati
poco lontani da noi proferendo con tono piccato: – Scommetto
che su quei fogli
ci sono le nostre facce. –
–
Vinceresti la scommessa. E sono altrettanto sicuro che quel bastardo di
Lanes
ha fatto avere la nostra descrizione a qualcuno a palazzo, prima di
venire da
noi – gli rispose Andreas, accovacciato per terra.
–
Incredibile quanto una persona sola possa creare così tanti
fastidi, – proferì
Mel, astioso. – Per fortuna che è morto.
–
– Morto o
non morto, – mi introdussi io. – Abbiamo un
problema. Come facciamo a salire su
una nave? Di sicuro non possiamo arrivare ad Eleusi a nuoto. –
– Non è
facile, per niente – disse Marcus, passandosi la mano sul
viso.
Nonostante
avesse più e più volte ripetuto che stava bene
continuava a essere molto
pallido. Appena possibile si appoggiava da qualche parte per evitare di
stancarsi troppo, chiudendo gli occhi e riposando. Anche in quel
momento era
appoggiato mollemente a una pila di casse, guardandosi attorno con aria
non troppo
convinta. Il tempo a nostra disposizione era quello che era, ma era
palese a
tutti che avesse bisogno di un po’ di giorni di buon riposo,
standosene a letto
e al caldo e non sotto la pioggia al gelo.
Era quasi morto, in fondo. Mi
strinsi di più nel mio mantello al pensiero, con un brivido
che mi percorreva
la spina dorsale.
– Hai
freddo? – mi chiese Marcus, guardandomi impensierito.
Incredibile, lui si
reggeva in piedi con fatica e si preoccupava che io potessi avere
freddo.
Decisi di non considerare il calore che mi si era diffuso
d’improvviso in corpo
a quel pensiero gentile.
– Un po’,
ma sopportabile direi, – risposi, scrutando il mare davanti a
me e ignorando
volontariamente Marcus. – Vorrei solo sapere come andarmene
da questa isola
maledetta. –
– Non sei
l’unica temo, – mi disse Jared, continuando a
guardare torvo le navi. – Dai,
Andreas, tira fuori qualche idea geniale per cavarci
d’impaccio. –
Andreas
stranamente non rispose, immerso nei suoi pensieri. Ottimo segno,
finalmente.
Forse era riuscito per un attimo a mettere da parte i suoi problemi e a
concentrarsi su altro.
– Ti prego,
dimmi che hai un’idea – continuò
l’Assassino dai capelli argento, girandosi
verso l’amico e guardandolo dall’alto.
– Se tu la
smettessi di assillarmi e mi lasciassi pensare in pace forse riuscirei
a
giungere a qualcosa di utile – commentò Andreas, a
voce bassa. Nonostante le
parole non fossero proprio gentili erano state dette con poca
convinzione,
segno che qualcosa stava ronzandogli in testa. In ogni caso Jared,
molto saggiamente,
tacque.
Nell’attesa
che Andreas partorisse un qualche piano geniale ritornammo a osservare
le
guardie, che continuavano imperterrite nel loro mestiere. Chiunque
passasse
davanti a loro, uomo, donna o bambino, veniva accuratamente
controllato. Le
sacche e le borse venivano aperte, i vestiti toccati, le armi
osservate. Non
era nulla di buono, considerato che non avremmo mai potuto farci strada
fino
alle navi con le armi.
– Va bene,
forse ho qualcosa – proferì Andreas serio,
tirandosi in piedi.
–
Illuminaci – fece Mel, con un tono sollevato nella voce.
– Vedete
quella nave laggiù? – iniziò
l’Assassino, indicando un’imbarcazione attorno
alla quale si accalcava parecchia gente. – Secondo me tra non
molto partirà.
Degli altri lo so, ma tu, Camille, sai nuotare? –
Mi
immobilizzai momentaneamente, sbarrando gli occhi. Nuotare? Con quel
tempaccio?
– Sì… so
nuotare. Cos’hai in mente? –
– Niente di
buono immagino… – commentò Mel, con
aria disperata. – Odio l’acqua. –
Aggrottai
le sopracciglia a quella affermazione. Non sapevo che
l’Assassino avesse di
questi problemi, sembrava sempre a suo agio, in ogni situazione. Era
uno che
non aveva paura di niente.
– Mi spiace
Mel, è l’unica soluzione. E mi spiace anche per
te, Marcus, lo so che un bagno
gelido non è proprio quello di cui hai bisogno.
Però dobbiamo avvicinarci a
nuoto, è l’unico modo che abbiamo per evitare i
controlli serrati laggiù. –
Guardammo
tutti la barca che Andreas stava indicando, cercando di quantificare
quanto
avremmo dovuto nuotare fino ad arrivare fin lì. Era
lontanissima.
– Sarà una
giornata veramente di merda – commentò Mel,
guardando la nave come per
incendiarla.
Andreas lo
guardò dandogli una pacca sulla schiena: – Lo so,
dovremo restare appesi alle
paratie o comunque nascosti fino a che la barca non uscirà
dal porto, poi
dovremo improvvisare. –
– Tanto non
lo facciamo mai… – esalò Marcus, di
fianco a me.
***
Quaranta minuti dopo eravamo
tutti schierati in un vicolo, guardando in cagnesco la scaletta che
portava al
mare e al pontile. Avevamo trovato una stradina privata, chiusa da un
cancello
di ferro che era stato prontamente scavalcato. Le guardie erano
abbastanza
lontane e avremmo dovuto fare un largo giro, nuotando
nell’acqua gelata, prima
di poter arrivare in vicinanza della nave.
–
Quindi lo stiamo facendo? – disse Mel, con gli
occhi chiusi.
Marcus
osservava la superficie del mare con
attenzione: – Direi di sì. Guardare
l’acqua non migliorerà la situazione. –
–
Vado io per primo, – disse Andreas, avvicinandosi
alla scaletta. – Voi seguitemi, ma qualunque cosa succeda
dobbiamo stare
distanti dalla riva. Se ci vedono è la fine. –
Detto
ciò scese sul pontile e si buttò in acqua,
iniziando a nuotare dritto davanti a sé senza guardarsi
indietro.
Jared
si preparò a seguirlo: – Mi sa che tocca anche
a noi. –
Quando
anche lui si fu allontanato in acqua, seguito
prontamente da Marcus, rimanemmo solo più io e Mel nel
vicolo, continuando a
guardare il mare con inquietudine. Poi, con un lungo sospiro, mi tuffai
anche
io.
L’acqua
era gelida, mi trafisse la pelle come tanti
aghi e mi tolse il fiato. Iniziai a muovermi più per
disperazione che per
cercare di scaldarmi, seguendo la debole scia di schiuma che avevano
lasciato
gli Assassini prima di me. Mossi braccia e gambe, battendo i denti,
sentendo i
muscoli tremare, allontanandomi sempre più dalla sicurezza
della terra ferma.
Mi sembrò
di nuotare per chilometri e chilometri, al freddo nell’acqua
scura, senza
niente e nessuno vicino a me, fino a che, finalmente, inizia a
intravedere
l’ombra dell’imbarcazione. Lì vicino, in
un piccolo circolo, c’erano gli altri
Assassini. Li raggiunsi e mi girai, scorgendo in lontananza la testa
bionda di
Mel fare capolino dall’acqua.
– Io ti
odio, Andreas, sappilo – borbottò
l’Assassino mentre nuotava verso di noi.
Quando
finalmente ci raggiunse ci fermammo in silenzio a guardare verso la
nave. Poco
distante da noi una enorme gomena spariva nel mare, salendo fino alla
barca.
– Direi che
possiamo salire da lì – commentò
Andreas, ignorando l’amico e avvicinandosi
alla fune. Poi lo osservammo arrampicarsi, con
un’agilità innegabile, fino
sulla paratia della nave. La gomena arrivava alla poppa e a una parte
poca
frequentata della nave, rendendoci più facile tutto il
compito. Eravamo
piombati in una sorta di balconcino privato e davanti a noi si
stagliava una
vetrata che dava sulla cabina del capitano.
Poco
lontano si sentivano i rumori del porto, l’imbarcazione era
in procinto di
partire. Dopo che Andreas si fu sporto per vedere com’era la
situazione ci fece
dei gesti concitati, indicandoci di salire. Ci inerpicammo come ragni
sulla
fune con, almeno da parte mia, immane fatica. Quando arrivai finalmente
alla
nave mi gettai sul legno lucido del ponte, con le braccia in fiamme e
respirando con affanno.
– Ti odio
pure io Andreas, ricordatelo – mormorai, con voce spezzata,
mentre gli
Assassini si attivavano e si guardavano intorno per cercare un
nascondiglio
prima che ci scoprissero.
– Dove ci
possiamo mettere? – domandò Andreas, guardandosi
attorno con un’aria inquisitoria.
– Dobbiamo
entrare nella cabina del capitano, è l’unica
– commentò Marcus, ancora pallido
ma con una luce brillante negli occhi neri.
– E quando
entrerà? – domandai da terra.
– Quando
entrerà farà meglio a capire che gli conviene
tacere sulla nostra presenza
piuttosto che morire – mi rispose Jared, tetro.
Andreas si
avvicinò alla vetrata tirando fuori dai vestiti un coltello
dalla lama strana,
particolarmente luminosa. La poggiò sul vetro, iniziando a
incidere con un
rumore che mi fece venire i brividi.
– Cos’è
quell’affare? – domandai incuriosita.
– È una
lama particolare, – mi rispose Marcus, guardando con
attenzione i movimenti di
Andreas. – Ci viene data nel nostro equipaggiamento,
è particolarmente utile
per tagliare vetri o alcuni tipi di metallo. L’ho usata
raramente nel corso
della mia vita. –
Nel
frattempo l’Assassino finì di ritagliare un grosso
quadrato dal vetro, per poi
prenderlo delicatamente in mano e sfilarlo, posandolo per terra.
– Bene,
abbiamo risolto. Adesso aspettiamo – commentò,
mentre si introduceva nella
cabina del capitano. Lo seguimmo in silenzio, sedendoci sul pavimento
della
piccola stanza e attendendo che la nave se ne andasse dal porto.
Poi,
finalmente, la barca si mise in movimento. Non ci restava altro da fare
che aspettare
e saremmo arrivati a Viride.
– Casa,
finalmente – mormorai felice.
ANGOLO DELL’AUTRICE!
Chiedo innanzitutto
perdono per il ritardo: è stato un mese pieno di impegni, il
tempo da dedicare
alla scrittura è stato davvero poco e difficile da trovare.
Speravo di poter
accorciare i tempi di pubblicazione ma, a quanto pare, non ce
l’ho fatta!
Continuerò quindi a pubblicare i capitoli a distanza di un
mese (circa) uno
dall’altro.
Volevo ringraziare,
come al solito, tutti quelli che passano da qui per dare una lettura e
che
lasciano recensioni. A tal proposito, ci tengo molto a ringraziare
FiammaBlu,
che mi ha aiutato tantissimo con i suoi consigli e le sue revisioni
(sì, è
merito suo se i capitoli iniziali sono stati rimessi a posto) e che mi
ha
lasciato delle recensioni bellissime. Grazie di cuore (:
Ci risentiamo tra un
mese, grazie a tutti!
LyaStark
P.S. Se volete
farmi sapere che il capitolo vi è piaciuto, che avete visto
errori o cose così…
Lasciatemi una recensione! Mi fa estremamente piacere leggere i vostri
pareri
(:
|
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Capitolo 12 *** XI ***
Ciao
a tutti! Eccoci qui con il cap. XI, che spero vi piaccia! Ci
vediamo al fondo, buona lettura (:
CAPITOLO
XI
MARCUS
Attraversammo il giardino
curato nel buio della notte illuminata solo dalla luna. Si sentivano in
sottofondo i rumori della festa: chiacchiericcio, risate, musica,
tintinnii di
bicchieri. Mano a mano che ci avvicinavamo all’ingresso
principale, camminando
sull’erba tagliata di fresco, scorgevamo sempre
più persone, eleganti e
mascherate, che parlavano educatamente tra loro alla luce delle
lanterne,
ridendo e bevendo. Nessuno notò me e i miei amici, i vestiti
di Camille erano
perfetti e ci permettevano di mescolarci con la folla. Ci tirammo le
maschere
sul viso e ci guardammo silenziosamente intorno.
Nello
spiazzo della fontana, al di sotto dell’enorme angelo dei
Coverano, le persone
passeggiavano rilassate, affacciandosi dalle balaustre e guardando il
mare
sotto di loro. Dei violinisti erano in
un angolo, suonando una musica dolce e
delicata, di sottofondo. L’acqua zampillava allegra e
cristallina, riempiendo
l’aria con il suo rumore. La scalinata che portava
all’ingresso principale del
castello era percorsa da tantissime figure in vestiti sgargianti,
cappelli
piumati, scarpe eleganti. Io, Mel e Jared ci fermammo alla base delle
scale, facendo
un profondo respiro.
– E così ha
inizio – disse Mel, sospirando.
Annuii,
chiudendo gli occhi: – Andiamo. –
Salimmo i
gradini lentamente, osservando le persone che ci camminavano di fianco.
Le
donne avevano maschere piumate, enormi, ingombranti. Mi domandai come
facessero
a vedere dove mettessero i piedi con quegli aggeggi in faccia. Anche le
nostre
maschere, in effetti, erano piuttosto fastidiose: limitavano in maniera
imbarazzante il campo visivo, facendoci girare la testa in
continuazione come
tante galline. In sintesi, eravamo tutti conciati come degli emeriti
idioti.
Eravamo bellissimi, per carità, ma pur sempre degli idioti.
Arrivati in
cima alle scale dovetti trattenere il fiato davanti alla vista che ci
si parava
davanti. Il salone di rappresentanza del castello era stato
completamente
tirato a lucido ed era gremito di persone. L’enorme sala era
illuminata da
centinaia e centinaia di candele, che pendevano dal soffitto agganciate
a
candelabri di cristallo, lanciando bagliori. Ai lati della stanza sedie
e
tavoli apparecchiati di bianco ospitavano persone che parlavano,
bevevano,
mangiavano. Come centrotavola c’erano fiori giganteschi e
profumatissimi, con
code di pavone a completare il tutto.
In due
angoli della sala c’erano i musicisti armati di ogni tipo di
strumento,
suonando qualcosa che non riconobbi, ma che era senza dubbio allegro e
veloce.
Sulla pista da ballo volteggiavano decine e decine di coppie, facendo
ruotare
gli strascichi dei vestiti e muovendosi a ritmo di musica. Ai lati
della stanza
le guardie del Re, rigide e dritte, sorvegliavano gli ospiti con in
mano lance
appuntite. Scrutavano attente, facendo guizzare gli occhi sotto agli
elmi
argentati.
Sul fondo
della salone, sull’enorme trono dorato e scolpito dei
Coverano, sedeva il Re.
La pedana rossa era rialzata, permettendogli di dominare sulla folla
con il suo
sguardo, che era attento ma decisamente non divertito. I suoi vestiti
si
indovinavano magnifici perfino da dove mi trovavo io: erano dorati e
bianchi,
quasi accecanti nella luce delle candele. La sua maschera era un enorme
sole,
che copriva solo gli occhi lasciando libero il resto del viso.
Al suo
fianco, su un trono d’argento più piccolo e meno
eccessivo sedeva la regina Gabriella,
la Magnifica. Guardava con aria gentile e tranquilla la sala sotto di
lei e
ogni tanto si sporgeva verso il marito rivolgendogli qualche parola,
facendolo
sorridere. Era vestita di blu, che faceva risaltare i lunghi capelli
biondi
raccolti sul capo e la sua maschera era quella di una sirena, splendida
e
ricoperta di pietre brillanti che lanciavano bagliori tutto attorno a
lei.
Sopra le
loro teste, sotto al baldacchino reale, c’era
l’enorme stemma dei Coverano: uno
scudo con il mare ondoso nella parte inferiore e il crancelino in alto
a
sovrastarlo. Vicino ai troni della coppia reale c’erano
quattro seggi, due da
una parte e due dall’altra, con sopra seduti i figli dei
sovrani: intravidi i
due principi Edward e Peter, uguali come due gocce d’acqua e
vestiti uno di
bianco e uno di nero, in un’imitazione dei gemelli dei miti;
c’era la
principessa Nerissa Auremore, di quindici anni, bella e stranamente
inquietante
nel suo vestito verde chiaro; infine c’era il nostro re
bambino, Daniel
Coverano, mandato dagli Auremore come ostaggio e per permettere alla
madre di
svolgere in santa pace il proprio compito di reggente ad Elea. Era
seduto
impettito e incoronato a fianco del principe Edward, vestito dei colori
della
nostra bandiera, guardando con serietà la folla davanti a
sé. Era indubbiante
identico a Camille: i lineamenti del viso si assomigliavano, come anche
il
portamento e l’aria severa. Sembrava stesse bene, ed ebbi un
moto di sollievo:
sarebbe stata felice di saperlo.
– Non vedo
Lacey, – mi sussurrò Jared in un orecchio.
– Dividiamoci, sarà più facile
trovarlo. Io guardo nella sala, voi due dividetevi i giardini e la
scalinata. –
Annuii e
dopo che ebbe ripetuto tutto anche a Mel ci dividemmo, facendo quello
che Jared
aveva suggerito. A me toccò il giardino, ma della Lunga Mano
lì non c’era
traccia. Ritornai nella sala, dove gli altri due mi stavano
già aspettando.
– È entrato
una decina di minuti fa dalla porta al lato del trono – ci
disse Jared, a
braccia incrociate, indicando l’uomo con il mento. Era
proprio Lord Lacey, che
si aggirava per la sala rilassato, senza maschera, sorridendo e
scambiando
educate parole con tutti quelli che gli passavano vicino. In mano aveva
un
bicchiere d’argento.
– Come gli
mettiamo il Laccio nella coppa? –
– Ottima
domanda. Pensiamoci, ma in fretta – commentai. Ci aggirammo
silenziosamente per
la sala, schivando la gente che iniziava ad essere un tantino ubriaca.
Le
risate e i toni si erano alzati di molto. Come noi, tra la calca
zigzagavano
dei ragazzi vestiti di nero con in mano delle pesanti brocche di vino,
pronti a
riempire il bicchiere a chiunque gli si avvicinasse. Li guardai un
po’ mentre
correvano tra la folla e mi venne un’idea. Mi riunii a Mel e
Jared e gli
spiegai il mio piano, dicendo loro precisamente cosa avrebbero dovuto
fare. Poi
seguii uno dei servi con lo sguardo mentre si affaccendava, guardandolo
versare
da bere. Ad un certo punto lo avvicinai, sembrando agitato e
preoccupato, di
fretta.
– Ragazzo,
devi aiutarmi. Un mio amico è stato male, giù nel
giardino. Non riesco a spostarlo
da solo, ho bisogno di aiuto. –
Feci per
incamminarmi a passo rapido verso l’uscita, quando mi voltai
e vidi che non mi
stava seguendo. Più che altro era rimasto fermo al suo
posto, con in mano la
brocca e un’espressione stranita in viso.
– Allora?
Ti vuoi muovere? Ti ho detto che ho bisogno di aiuto! –
Mi girai di
nuovo e presi la porta, avvertendo dopo poco dietro di me la presenza
del
ragazzo, che camminava in fretta.
– Dove si
trova il suo amico, Sir? Cos’ha avuto? – mi chiese.
– Ha bevuto
troppo ed è svenuto. Non è un bello spettacolo,
ma ho bisogno di aiuto per
riportarlo alla carrozza. –
Il ragazzo
annuì e continuò a seguirmi mentre scendevo in
fretta la scalinata e mi
dirigevo verso i giardini bui da cui ero arrivato con i miei amici.
Arrivati
abbastanza lontano dalla festa mi fermai, guardando il ragazzo.
– Dov’è
il
vostro amico? Qui non vedo nessuno – disse lui, guardandosi
intorno con aria
interrogativa.
Lo guardai
negli occhi, prima di alzare la mano dove tenevo il coltello:
– Non c’è nessun
amico. –
Lo colpii in testa,
violentemente, con l’elsa della lama, facendogli perdere i
sensi. La brocca
rotolò per terra. Lo spogliai in fretta, togliendogli tutto
quello che aveva
indosso, lasciandolo in mutande al freddo. Un rivolo di sangue gli
colava dalla
fronte, ma respirava ancora. Presi i suoi vestiti e li avvolsi formando
un
piccolo fagotto, poi tirai su il corpo e lo trasportai fino alle serre
poco
lontane, chiudendolo dentro. Ritornai indietro, dove Jared e Mel
già mi
aspettavano.
–
Fantastica idea fratello – mi disse Jared, sorridendo.
Incredibile come
sembrasse tranquillo e rilassato anche in una situazione come quella,
quando io
mi sentivo come se qualcuno mi stesse stritolando l’intestino.
– Sì, lo
so. Ora, chi di voi si concia da servo? –
– Non puoi
farlo tu? – mi domandò Mel, guardando i vestiti
che portavo in mano.
– No. Lacey
mi ha visto l’altro giorno, nella serra. Si stupirebbe se mi
vedesse servirgli
da bere. Meglio che lo faccia uno di voi due. –
Jared
guardò Mel, poi allungò una mano a prendere gli
abiti: – Lo faccio io, nessun
problema. –
Si cambiò
alla debole luce della luna, mollando lì il costume che
Camille aveva tanto
faticosamente trovato.
– Bene, –
disse quando aveva finito, togliendosi della polvere invisibile dai
pantaloni
neri. – La giacca è un po’ stretta di
spalle ma tutto sommato mi sta. Marcus,
dammi la fiala. –
Gli
consegnai il Laccio Bianco mentre raccattava la caraffa da terra:
– Non ti
perderemo di vista. Appena avrai dato da bere a Lacey avremo
mezz’ora per farci
seguire e farlo venire vicino alla scogliera, dopo di che
sverrà. Dobbiamo fare
in fretta. –
Jared
annuì e poi ci dirigemmo di nuovo verso la festa, separati.
***
Aspettammo molto più di
mezz’ora in quella sala, sbattendo nervosamente i piedi e
rifiutando con sommo
dispiacere un paio di donzelle evidentemente alticce e desiderose di
accaparrarsi due uomini come me e Mel. Ma il dovere chiamava, o almeno
questo
era ciò che mi raccontai mentre con aria simile a quella di
un cane bastonato
allontanavo la seconda ragazza ridanciana e sbronza.
– Giuro che
se Jared non arriva tra un paio minuti non rispondo più di
me – mi sussurrò
Mel, con un’aria sempre più scocciata sul viso,
seguendo con lo sguardo la
ragazza di cui sopra. Sospirai vistosamente e gli diedi una pacca di
sostegno
sulla spalla, sapendo perfettamente come si stava sentendo.
Fortunatamente,
prima che Mel iniziasse a girare per la sala come una tigre in gabbia,
Jared si
decise a fare il suo ingresso, munito di caraffa piena e aria servile.
Ci fece
un cenno con il capo, per poi dirigersi con passo rapido verso la Lunga
Mano,
impegnato in una fitta conversazione con un uomo vestito completamente
di nero,
che ci dava la schiena.
Forse fu la
sua postura, o comunque l’altezza e la struttura fisica
familiare, ma sentii un
malsano brivido percorrermi la schiena. Di fianco a me Mel trattenne il
respiro
e vidi Jared che di colpo si bloccava, si girava bruscamente e spariva
nella
folla. Indietreggiai istintivamente mentre l’uomo in nero si
voltava, guardando
verso il centro della sala e offrendoci il viso: era uno dei capitani
della
Corporazione degli Assassini, Lanes.
Mel lo
guardò con occhi feroci: – Come diavolo
è possibile? Come fa a essere qui? –
– Non lo
so, ma è un problema. Un grosso problema. –
Mel annuì,
mentre entrambi ci allontanavamo con calma dalla sala, cercando di non
destare
particolari attenzioni, sapendo benissimo che sulle nostre tracce
c’era uno
degli uomini peggiori della Corporazione.
Lanes era
stato un istruttore delle reclute per anni, passando alla storia per la
sua
cattiveria e per le sue tecniche di selezione, e io e i miei amici
eravamo
passati sotto alla sua supervisione, all’epoca. Era
estremamente bravo nel suo
lavoro ed aveva scalato le gerarchie dell’organizzazione in
pochissimo tempo.
Veniva chiamato per i peggiori compiti e per le missioni più
difficili, ed era
risaputo che un suo coinvolgimento era una garanzia di riuscita e di
morte
dell’obiettivo. Era un uomo del genere che era sulle nostre
tracce e
sicuramente non si sarebbe fermato fino a che non ci avrebbe avuti in
suo
potere.
Ci
allontanammo seguiti da Jared, che continuava a scacciare con la mano
tutti
quelli che gli avvicinavano il bicchiere, desiderosi di vino. Ci
ritrovammo, di
nuovo, in un angolo delle scalinate che portavano al giardino. Davanti
a noi
una coppia si baciava e si strusciava seduta sui gradini, palesemente
ubriaca.
Ogni tanto qualche risolino scappava dalla bocca della ragazza.
– Che cazzo
facciamo adesso? – sbottò Mel, mettendosi le mani
nei capelli. – Che cazzo
facciamo?! –
Jared
continuava a guardarsi attorno, facendo due passi in una direzione e
girandosi
subito dall’altra, come una tigre in gabbia.
Feci un
respiro profondo: – Va bene, pensiamo. Non è un
problema, non è per niente un
problema. Non potrà stare nella sala aggirandosi come un
avvoltoio per sempre,
prima o poi si dovrà allontanare. E poi siamo mascherati,
non dovrebbe essere
facile riconoscerci, – guardai Jared, con i suoi capelli
argentati fin troppo
riconoscibili. – Basta che tu ti copra quei capelli. Sarete
in due ad averli
così su tutto il continente, porca puttana. –
Presi il
pugnale e tagliai una fusciacca porpora dal fondo della mia giacca,
porgendola
a Jared. Sentivo il sangue rimbombarmi nelle orecchie,
l’adrenalina scorrermi
nelle vene: – Dobbiamo stare calmi ma saldi. Dobbiamo essere
sicuri di ogni
cosa che faremo, non c’è più spazio
nemmeno per il minimo errore. –
Mel di
fianco a me prese un lungo respiro, chiudendo gli occhi e mormorando
qualcosa a
fior di labbra: – Hai ragione, non è ancora
successo niente. Lanes non sa che
siamo qui, anche se magari lo sospetta. Dobbiamo solo essere ancora
più cauti
del previsto, ma non è detto che si accorga di qualcosa.
–
– Esatto.
Ora entro a vedere se Lanes è ancora lì o se
è andato a rompere le scatole da
un’altra parte, – dissi, mettendo una mano sulla
spalla di Jared e parlandogli
vicino al volto. – Se se n’è andato
vengo di qua a chiamarti e facciamo come
avevamo deciso. Va bene? –
Due cenni
di assenso risposero alla mia domanda, sicuri. Non c’era
più timore negli occhi
dei miei amici, ma solo sicurezza e decisione. Feci un respiro profondo
mormorando preghiere che speravo fortemente non fossero le ultime, poi
feci un
passo ed entrai nella sala.
Mi guardai
velocemente attorno, sapendo di stare cercando una chiazza di nero nel
mare di
colore dei costumi da ballo. Lo vidi non troppo distante da me,
impegnato a
osservare con sguardo indagatore la sala. Mi costrinsi a rimanere
tranquillo, a
prendere da bere e mi spinsi persino a fare un ballo, cercando di non
attirare
la sua attenzione su di me e di comportarmi normalmente. I miei occhi
saettavano
per l’enorme stanza cercando Lacey, stranamente consapevoli
della figura nera
che era come un punto fisso nella sala che ruotava mentre danzavo. Ero
talmente
impegnato a cercare la Lunga Mano che non mi accorsi nemmeno di come
fosse la
ragazza con cui ballavo, che è tutto dire.
A metà
danza scorsi Lacey e lo tenni d’occhio fino a quando il
minuetto finì. Lanes
nel frattempo si era dileguato dalla sala, andando probabilmente in
esplorazione dei giardini e lasciandoci qualche istante di pace. Mi
allontanai
dal ballo dopo avere elegantemente e galantemente baciato la mano alla
mia
compagna, poi mi diressi verso l’angolo dove sapevo che Mel e
Jared mi
aspettavano. Sporsi solo la testa, facendo un cenno, che i miei amici
capirono
e mi seguirono.
Jared si
dileguò nella folla con la sua brocca in mano, mentre io e
Mel lo seguimmo con
lo sguardo in una preghiera silenziosa. Guardammo con il cuore in gola
Jared
avvicinarsi a Lord Lacey, allungando leggermente la brocca incriminata
in
un’offerta esplicita. La Lunga Mano lo guardò e
per un lungo istante pensai che
ci avesse scoperto, che il nostro piano era appena andato a farsi
benedire.
Sentii i muscoli irrigidirsi, estremamente consapevole di tutti i
rumori che
stavano di fianco a me: il tintinnio dei bicchieri di vetro, lo
stridore delle
risate, le note acute dei violini, il tacchettio delle scarpe sul
pavimento, il
respiro pesante di Mel vicino a me.
Poi Lacey
allungò il bicchiere e il fiato mi uscì dai
polmoni, mentre il ghigno che mi si
era formato in viso si allentava. Jared versò da bere e poi
tornò verso di noi,
dirigendosi verso il giardino e verso il luogo della nostra fuga.
– Abbiamo
mezz’ora, solo mezz’ora e poi…
–
Non riuscii
a finire che Mel mi bloccò, sbuffando: – Lo so
benissimo che c’è solo mezz’ora,
è inutile che continui a ripeterlo. –
– Bene,
allora è il caso che iniziamo a pensare a cosa fare, che ne
dici? –
Ma Mel non
mi rispose, impegnato a fissare un punto lontano, assorto nei propri
pensieri.
– Ehm, Mel?
– dissi, avvicinandomi a lui. – Non credo che sia
il momento giusto per
imbambolarsi. –
Mel
continuò a ignorarmi, ma con un ghigno feroce
andò avanti, perdendosi nella
folla. Non feci in tempo a trattenerlo e non mi rimase altro che
guardarlo
svanire sulla pista da ballo, palesemente diretto verso Lacey. Lo
guardai con
orrore crescente mentre camminava sicuro, fendendo la folla, con lo
sguardo
fisso davanti a sé. Poi arrivò davanti alla Lunga
Mano, lo guardò negli occhi e
gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
Non ho mai
saputo cosa gli disse, anche se in là con gli anni mi sono
fatto una mia idea,
mai confermata. Ogni volta che si parla della cosa Mel fa un sorriso
compiaciuto, bevendo un sorso dall’immancabile bicchiere che
tiene in mano,
affermando che si porterà il segreto nella tomba. Comunque,
qualunque cosa
fosse, incredibilmente funzionò: dopo pochi istanti Mel
guidava Lord Lacey per
un gomito, dirigendolo verso la porta vicino alla quale mi trovavo io.
Mel mi
fece un cenno con il capo e li seguii mentre scendevano i gradini delle
scalinate, diretti al giardino.
– Dimmi
quello che sai sui Coverano, ragazzo, e finiamo questa farsa
– disse la Lunga
Mano, glaciale, fermandosi nel bel mezzo del sentiero per fronteggiare
Mel.
Nonostante fosse più basso di lui di un’intera
testa non sembrava intimorito,
ma il furore traspariva dai suoi occhi chiari.
– Mi
dispiace, milord, – commentai io, togliendomi la maschera e
sfilando la mia
spada dal fodero puntandola alla schiena di Lacey. – Ma non
è lei a dare gli
ordini qui, stasera. –
– Ah, il
ragazzo della serra, – commentò quello, mellifluo.
– Lo sapevo che c’era
qualcosa di strano in te, qualcosa che non mi convinceva. Beh, aiuto
giardiniere, dimmi cosa dovrebbe trattenermi dall’urlare per
chiedere aiuto. Ci
sono guardie per tutto il castello, accorreranno in meno di un minuto.
–
– Che è
più
che sufficiente per aprirle un buco bello grosso nello stomaco,
– lo gelò Mel,
aggiungendo la sua lama alla mia, mentre io mi spostavo per
fiancheggiarlo. –
Ma se non è un motivo abbastanza valido per lei, sappia che
forse ne abbiamo
uno migliore: le dice niente il nome Ivonne? –
Lord Lacey
si bloccò, furore usciva dai suoi occhi chiari. Strinse i
pugni talmente forte
che vidi le sue nocche diventare bianche. Se uno sguardo potesse
uccidere,
allora di noi non sarebbero rimasti altro che i cadaveri. La voce gli
uscì
spezzata per il furore, in un ringhio basso: – Siete
così spregevoli da fare
del male a una bambina? –
– Non mi
sembra che lei si sia preoccupato troppo di Ian e Nathaniel Coverano,
anni fa –
gli rispose Mel, sibilando con una rabbia che avevo già
visto, paurosa,
inquietante, mostruosa. Se l’avesse lasciata andare, se
l’avesse scatenata,
Lord Lacey non sarebbe venuto con noi da nessuna parte, ma sarebbe
morto lì.
Vidi la spada del mio amico scavare sulla spalla della Lunga Mano,
facendo uscire
il sangue che colò caldo lungo la clavicola e
sparì nel colletto della maglia.
La presa sull’elsa tremava, rendendo difficile il controllo
dell’arma. Gli misi
una mano sulla spalla, premendo, cercando di farlo tornare in
sé.
Mel emise
un respiro tremante, attenuando la stretta sulla spada ma senza
smettere di
puntare il suo obiettivo: – Erano solo due ragazzini, ma la
cosa non l’ha fermata.
Occhio per occhio, milord. Non avremo pietà né
per lei, né tantomeno per sua
figlia. –
Lord Lacey
deglutì, socchiudendo gli occhi, studiandoci. Rughe di
espressione si
diradavano su entrambe le tempie, in una sorta di ragnatela. Stava
cercando di
capire quanto eravamo sinceri, quanto delle nostre parole fosse vero.
Sia io
che Mel sostenemmo il suo sguardo, senza cedimenti.
Vidi i
muscoli sulla sua mascella scattare, temendo che si sarebbe rotto i
denti per
la pressione: – Fate strada. –
***
Proseguimmo per il sentiero,
con me dietro e Mel di fianco a Lacey, le spade sguainate, i sensi
all’erta.
Mancava poco e saremmo giunti in prossimità del dirupo dove
Jared ci aspettava,
pronti a calarci giù fino al mare.
Quanto
tempo ci rimaneva prima che la Lunga Mano perdesse i sensi? Non tanto
probabilmente, a occhio e croce giusto una manciata di minuti. Lo
pungolai con
la spada, incitandolo ad aumentare il passo, poi finalmente davanti a
noi
spuntò la capigliatura argentata di Jared. Si
accodò a noi senza una parola,
sguainando anche lui la lama più per sicurezza che per
altro. Camminammo rapidi
per il prato e arrivammo a ridosso della scogliera.
Ci fermammo
ad aspettammo, senza diminuire la concentrazione e
l’attenzione, fino a che
Lacey, finalmente, svenne. Cadde a peso morto, senza un lamento. Un
momento
prima era vigile e attento, il momento dopo era crollato scompostamente
a
terra. Tirai un sospiro di sollievo, contento che la pozione avesse
funzionato:
nonostante tutta la sicurezza che avevo ostentato non ero del tutto
sicuro che
avremmo avuto il risultato sperato.
–
Complimenti Marcus, un lavoro da maestro –
commentò Mel, pungolando con la
punta della spada il torace di Lacey, senza ottenere reazione.
– Sì, sono
stato bravo, lo so, – dissi, con falsa modestia. –
Però ora dobbiamo muoverci.
–
Jared
annuì, dirigendosi al dirupo e alla corda. Si
calò e in fretta la sua voce ci
chiamò dal fondo della scarpata. Io e Mel, come se ci
fossimo parlati, tirammo
su la corda e con essa legammo molto, molto strettamente Lacey,
agganciandolo
sotto le braccia. Iniziammo a farlo scendere lentamente, senza scossoni.
– Quanto
diavolo pesa questo tipo? – ringhiò Mel, a denti
stretti, facendosi passare la
corda fra le mani. Sbuffai in risposta, dicendogli di fare
più in fretta.
Quando Lacey arrivò alla base del dirupo Jared lo
slegò e Mel discese in
fretta. Stavo per calarmi anche io quando un rumore mi fece fermare.
Estrassi
la spada, spalle al mare, guardando i giardini silenziosi e bui, con un
filo di
vento ad agitare le chiome.
Una voce mi
arrivò dal basso: – Marcus, tutto bene? –
Tacqui,
osservando con attenzione. Mi ero quasi convinto che tutto fosse a
posto e che
il rumore fosse stato semplicemente il vento tra le foglie, quindi
iniziai
lentamente a rinfoderare la lama. Poi accadde e fu come se il tempo si
fermasse.
Una figura
nera come la notte uscì correndo dalle foglie, venendomi
incontro. La spada che
teneva in pugno lampeggiava inquietante alla luce debole della luna,
l’elsa
argentata spiccava sul nero degli alberi. Mi fu addosso prima che
riuscissi a
fare qualunque cosa, travolgendomi e facendomi rotolare al suolo. Il
tempo
riprese a scorrere mentre lottavo steso sul terreno, cercando di tenere
il filo
della spada lontano dal mio collo, ferendomi le mani.
– Vi ho
trovati finalmente, bastardi – mi ringhiò in
faccia, sputacchiando. Un sorriso
feroce gli si allungava sul volto. Non risposi, ma alzai violentemente
un
ginocchio verso l’alto, colpendolo in pancia e costringendolo
a lasciare la
presa. Approfittai del momento di debolezza per rotolare lontano,
alzarmi e
sguainare la spada. Il respiro mi usciva gelido dalla bocca mentre mi
mettevo
in guardia. Lanes nel frattempo si era alzato, la lama sempre in pugno.
– Marcus,
tutto bene? – urlò Jared dal fondo, preoccupato
probabilmente dai rumori.
– Non
proprio. Abbiamo visite. –
Non feci
tempo a continuare che Lanes si avventò su di me e tutto si
ridusse a colpi,
parate e attacchi. Il clangore era assordante nel silenzio della notte.
Attacco, attacco e parata. Indietreggiare, avanzare, attaccare ancora.
Tutto
quello che avevo imparato si risvegliò in me, permettendomi
di contrastare la ferocia
e violenza del capitano degli Assassini.
Attaccai
ancora, e ancora, sentendo il mio sangue cantare nel combattimento.
Conoscevo la
sua tecnica di combattimento e negli anni non era affatto cambiata: mi
permise
di partire un po’ più avvantaggiato nello scontro.
Non so bene
come, costrinsi Lanes a indietreggiare verso i primi alberi,
allontanandosi dal
dirupo. La sua faccia era concentrata, impegnata, e mi
sembrò non fosse più
tanto serena. Un paio di volte arrivai molto vicino a ferirlo, con suo
e mio
stupore. Lo costrinsi ancora più indietro e ormai ero
convinto di averlo in
pugno quando la sua lama passò sotto alla mia guardia,
arrivando precisa sulla
mia spalla destra.
Sentii il
dolore, il freddo della lama e subito dopo il caldo del sangue che
scorreva sulla
mia pelle. Mi uscì un grugnito. Rialzai subito la spada, ma
inevitabilmente
questa rimase più bassa di prima. Poi il combattimento fu in
mano di Lanes e i
ruoli si ribaltarono.
Un sorriso
si fece strada sul suo volto e capii che la sua era stata una tecnica
per
indurmi a sbagliare, ad abbassare la guardia. Mi spinse indietro,
risospingendomi verso il dirupo, aumentando la velocità
degli assalti, degli
affondi. Le cose si mettevano male, molto male. Poi, un angelo biondo
mi venne
in soccorso: Mel era emerso dalla scarpata, spada in pugno, venendomi
in
soccorso. Affrontammo Lanes fianco a fianco.
– Sono
arrivati i soccorsi, a quanto vedo. –
Nessuno di noi gli rispose,
impegnati com’eravamo ad analizzare la situazione. Due contro
uno forse avevamo
qualche speranza di riuscita, ma non ne ero così tanto
sicuro. Mel non gli
rispose ma in compenso attaccò, caricando la spada
dall’alto, calandola come
una mannaia verso la testa del nostro avversario. Lanes parò
con scioltezza,
per niente messo in difficoltà, e attaccò a sua
volta per uccidere, letale come
un serpente.
Andai in
soccorso del mio amico e combattemmo ferocemente. Ci spingemmo di nuovo
vicino
al dirupo, potevo sentire il mare ruggire alle mie spalle, impetuoso e
feroce.
Iniziavo a sentire la stanchezza e in più mi sembrava di
avere il braccio in
fiamme. Bruciava, doleva, il sangue continuava a scorrere inzuppandomi
la giacca
e la camicia, gocciolando a terra. Iniziava a essere difficile per me
difendermi, per non parlare dell’attaccare.
Ci
fermammo, guardandoci in cagnesco negli occhi. Vedevo il sudore
luccicare sulla
fronte del mio avversario, una calma gelida nei miei occhi. Durante la
lotta ci
eravamo girati, e ora la sua figura nera era in contrasto con il mare
illuminato dalla luna.
Scosse la
testa con fare paterno: – Non potete vincere contro di me
ragazzo, lo sapete
anche voi. A meno che non vi arrivi un aiuto dal cielo. –
Poi accadde
tutto molto in fretta. Una figura nera si stagliò dietro
Lanes e un palmo
d’acciaio gli attraversò il torace, coperto di
sangue. Jared lo prese per le
spalle, avvicinando la bocca all’orecchio
dell’altro mentre ruotava la lama nel
suo petto: – Oppure dal mare, bastardo. –
Gorgoglii
uscirono dalla bocca del nostro avversario, mentre rivoli di sangue
iniziarono
a colargli sul mento, gocciolando per terra. Jared sfilò la
lama e lasciò il
corpo di Lanes cadere per terra, morto.
– Questo è
per tutto quello che mi hai fatto patire durante la selezione, figlio
di
puttana, – esalò il mio amico, sputando sul
cadavere. – Andiamo, dobbiamo fare
in fretta. –
Di comune
accordo prendemmo il corpo di Lanes e lo buttammo nel mare, sugli
scogli. Poi
scendemmo con la corda e dopo mezz’ora eravamo finalmente
sulla barca in mare,
diretti verso il porto dove ci aspettava Andreas.
Il corpo
privo di sensi della Lunga Mano era con noi. Dopo non molto arrivammo
finalmente in vista dei pontili a sud del castello, dove una figura
teneva per
la briglia tre cavalli che dondolavano docilmente la testa. Andreas
venne a
darci una mano e, dopo aver lasciato la barca al suo destino in mezzo
al mare,
montammo in sella e galoppammo senza parlare verso la campagna.
***
Quando arrivammo al nostro
granaio, Camille era lì che aspettava. Teneva per mano una
bambina piccola,
bionda, fragile. Non sembrava troppo spaventata e quello era solo un
bene per
noi. Il braccio ferito, che avevo legato alla buona con un brandello di
stoffa,
pulsava nell’aria delle sera.
Camille mi
si avvicinò, probabilmente preoccupata dal sangue che
inzuppava la mia giacca:
– Cos’è successo? –
I suoi
occhi verdi erano dilatati nel buio della notte, e la sua mano gentile
si posò
sulla mia spalla. Le feci un sorriso stanco, accarezzandole una
guancia. Ero
stanco, ferito e preoccupato, e l’unica cosa che avrei voluto
fare in quel
momento era baciarla. Quanto possono essere stupidi gli uomini?
– Non è
niente, abbiamo avuto un piccolo problema. L’Alto Comando ci
ha trovati, ma per
ora il problema sembra essere risolto, – bloccai il suo
commento, in una
maniera che potrebbe essere definita scortese. – Adesso
finiamo di fare ciò che
dobbiamo, poi ci preoccuperemo di tutto. Non abbiamo tempo da perdere.
–
Camille
annuì e mentre lei aspettava con la bambina io e gli altri
entrammo nel
granaio, trascinandoci dietro il corpo di Lacey.
Quando la
Lunga Mano si svegliò, era seduto su una sedia, legato
stretto e
impossibilitato a muoversi. Davanti a lui c’eravamo tutti
noi, con Ivonne, sua
figlia, mano nella mano di Camille. La bambina si guardava intorno con
gli
occhi spalancati. Probabilmente era troppo piccola per poter capire
cosa stesse
capitando, ma guardava il padre stranita. Segni di lacrime scorrevano
sulle sue
guance. Per la prima volta, vidi del timore negli occhi di Lord Lacey,
che non
aveva ancora proferito parola.
– Voglio la
mamma – disse, stropicciandosi un occhio con la manina.
– Voglio andare a casa.
–
Camille le
si inginocchiò vicino, accarezzandole la testa e
pettinandole i lunghi capelli
biondi: – La mamma è impegnata, ti porteremo dopo
da lei, va bene? –
Camille
lanciò una lunga occhiata calcolatrice alla Lunga Mano,
mentre si alzava e
portava Ivonne fuori, lontano dallo sguardo del padre.
– Qualunque
cosa vogliate, sappiate che non lo avrete per molto. L’intero
esercito di
Dimina sarà sulle vostre tracce, dopo oggi. –
Andreas
iniziò a camminare, girandogli lentamente intorno,
studiandolo: – Vogliamo
informazioni. –
Lord
William Lacey sorrise e per un momento sembrò che,
nonostante fosse lui quello
legato e rapito, fosse lui ad avere il potere in quella stanza.
– Non le
avrete. Non credo siate capaci di fare del male a una bambina e io sono
disposto a morire pur di non tradire la fiducia del mio Re, –
Lacey si allungò
sulla sedia, un ghigno malvagio dipinto sul viso. – Voi
giovani siete deboli. –
Andreas gli
si mise davanti e gli diede un manrovescio talmente forte che il sangue
gli
uscì dal naso. Un incisivo tracciò la sua orbita
nella stanza, atterrando con
un sinistro tintinnio per terra.
Jared
dall’ombra urlò: – Camille! –
Pochi
istanti dopo, i pianti e le urla di una bambina si diffusero
nell’aria. Andreas
si accucciò davanti a Lacey, tenendogli fermo il viso con la
mano: – Siamo
giovani, milord, ma non deboli. Ci dirà quello che vogliamo
sapere, glielo
assicuro. –
La Lunga
Mano strinse i denti, il furore traspariva da tutto il suo essere. Le
mani
tremavano contro la stretta della corda.
– Sappiamo
che lei ha organizzato l’omicidio del principe Adrien
Coverano e dei suoi due
figli. Sappiamo che il suo governo non ha agito da solo ma che
informazioni vi
sono arrivate da Viride e vogliamo sapere da chi. –
Lord Lacey
non rispose, ma quando Jared chiamò Camille lo
fermò: – No, aspetta… Come
sapete tutte queste cose? –
Ridacchiai:
– Davvero crede che gli diremo le nostre fonti? Non
è un illuso e tantomeno uno
stupido. –
– No, non
sono uno stupido, – rispose. – E ho riconosciuto
benissimo la principessa
Camille Coverano in quella ragazza. È estremamente simile a
suo fratello. –
Nessuno gli
rispose e aspettammo, in attesa. Di nuovo, quando ormai era diventato
palese
che la Lunga Mano non avrebbe più proferito parola, Jared
chiamò Camille. Di
nuovo, i pianti della bambina furono nell’aria.
Gli occhi
di Lacey si assottigliarono dal dolore a quel suono: – Volete
la verità?
Benissimo, ma slegatemi: non sono un animale. Vi do la mia parola che
non
proverò a fare nulla per scappare. Sono un uomo
d’onore e avete mia figlia con
voi. Però voglio qualcosa in cambio: ditemi da dove arrivano
le vostre
informazioni. –
Ci
guardammo tra noi, poi Andreas, con un sospiro, si avvicinò
alla Lunga Mano con
un coltello, tagliando le funi che lo legavano.
Lord Lacey si massaggiò
lentamente i polsi, guardandoci di sottecchi: – Quindici anni
fa, una notte,
venne da me un uomo, un Viridiano. Ero stato avvisato dal mio Re che
presto
qualcuno avrebbe richiesto un colloquio con me per portare a termine un
progetto importante, che avrebbe dato ai Coverano e agli Auremore molto
più potere
e importanza di quanto sarebbe stato possibile pensare.
L’incontro si svolse
nelle mie stanze, in presenza di quest’uomo e di re Alexander
in persona.
Parlammo di molte cose: dell’unione delle casate reali; di
quanto sarebbe stato
migliore il mondo se invece di cinque nazioni divise ce ne fosse solo
una,
potente ed enorme, a regnare; di come le visioni pacifiste di re Daniel
e di
suo figlio, il principe Adrien, non fossero per niente di aiuto ai
nostri
progetti. Poi le cose andarono molto più nel concreto e mi
accorsi che il mio
sovrano aveva già parlato di tutto questo con i sovrani di
Viride e che il
piano fosse in qualche modo già pronto, ma che necessitasse
di un’ultima
conferma. Prendemmo diversi accordi quella notte: avremmo dovuto
uccidere il
principe Adrien e i suoi due figli, usando come scusante un viaggio
diplomatico
verso Dimina; avremmo dovuto nascondere nella nostra nazione tutti
coloro che
ci avrebbero aiutato in questo crimine, celando le loro tracce e
permettendo ai
Coverano di mantenere il potere. In cambio, quando i tempi sarebbero
stati
maturi e la guerra fosse inevitabilmente scoppiata, avremmo avuto i
territori
costieri di Albis, ricchi di giacimenti di ferro, oro e carbone,
– Lord Lacey
ridacchiò. – Uno dei migliori accordi che abbiamo
mai fatto. –
Di fianco a
me c’era il gelo. Mel era impietrito, gli occhi verdi
assottigliati come una
lama affilata, la mano sull’elsa della spada che tremava.
Andreas era ad occhi
chiusi, appoggiato al muro. Se non l’avessi conosciuto bene,
avrei potuto dire
che era in meditazione. Jared aveva una smorfia schifata in viso, io
ero
semplicemente pietrificato.
– Non
guardatemi così, Assassini, – disse Lacey,
guadagnandosi quattro occhiate
stupite. – Sì, ho capito chi eravate nel momento
in cui quell’uomo della vostra
Corporazione è venuto a parlarmi, ma non è questo
il punto. Ho fatto
esattamente ciò per cui voi siete stati creati: uccidere per
salvaguardare la
mia nazione. Quindi non siate così sconvolti, non siate
ipocriti. Sono
esattamente come voi. –
Aveva
ragione. Ogni singola parola che gli usciva dalla bocca era corretta,
ma era
come veleno nelle mie orecchie, che mi intossicava. Eravamo
così sconvolti da
qualcosa che per noi sarebbe dovuta essere la normalità, che
non avrebbe dovuto
turbarci più di tanto. Come mai la nostra reazione era stata
così schifata?
Forse perché finché siamo noi a uccidere la cosa
può andare bene, ma se è
qualcun altro a farlo allora percepiamo unicamente la
mostruosità del crimine?
Lord Lacey aveva ragione, eravamo solo degli ipocriti.
– Ci dica
chi era quell’uomo, il Viridiano, e da parte di chi veniva
– gli domandò
Andreas, sempre a occhi chiusi.
– Tu vuoi
prendermi in giro, Assassino, – fece la Lunga Mano, scuotendo
la testa. –
Sapete benissimo da parte di chi arrivasse quel messaggero. Non
è un caso se
ora che la guerra sta arrivando ci sia la regina Celia sul trono di
Viride. E
non è un caso nemmeno che re Jerome sia morto: non avrebbe
mai capito un piano
del genere, troppo perso dietro ai suoi ideali di pace e giustizia per
tutti. Chi
era quell’uomo, mi chiedete? Si presentò come
Comandante della guardia di Elea,
ma non ci disse il suo nome. Una mossa astuta, direi. Ma adesso, la
vostra
parte dell’accordo: ditemi come fate a sapere queste cose.
–
Da come
parlava, da come teneva banco, sembrava che fosse lì di sua
spontanea volontà
per fare una chiacchierata con vecchi amici. Era estremamente
irritante.
Andreas, di fianco a me, aveva spalancato gli occhi ed era diventato
bianco di
colpo. Aggrottai le sopracciglia mentre Jared sospirò,
prendendo fiato: –
Abbiamo avuto fortuna. Non saremmo stati in grado di ricostruire tutta
questa
storia se non fosse stato per l’errore di un uomo, tale
Hyatt. Ci ha portato al
suo comandante, Lod Carean, che è da poco morto a Basilea. A
proposito, ne sa
qualcosa? Abbiamo scoperto che lei gli pagava i debiti. –
Lord Lacey
guardò Jared negli occhi: – Secondo te?
Quell’uomo era come un barile pronto a
esplodere, incostante e approfittatore. Gli avevamo dato più
soldi di quanto si
sarebbe mai potuto sognare, ma non erano mai abbastanza. Era giunto il
momento
di farlo tacere una volta per tutte. Non avrei lasciato che un
ubriacone
giocatore d’azzardo mandasse all’aria un progetto
di quindici anni. –
– E così
avete simulato un suicidio – commentò Andreas.
La Lunga
Mano sbuffò, ironico: – Perché me
l’avete chiesto se sapevate già com’era
andata? –
Nessuno gli
rispose, ma tutti lo fissavano, mentre la Lunga Mano completava il suo
monologo, ridacchiando: – Ma non importa. Sapete invece qual
è la cosa divertente?
Che voi non potrete usare queste informazioni. Sono stato abbastanza
furbo da
far sparire ogni traccia delle mie conversazioni con
quell’uomo e tutto ciò che
avete sono le mie parole. Estratte con la violenza, aggiungerei. Non vi
saranno
di aiuto, né ora né mai. –
– Lei ha
ragione, – disse Mel, avvicinandosi a lui. – Ma non
importa: sa, noi Assassini
siamo pieni di sorprese. Però… –
– Però io
non vivrò abbastanza a lungo per vederle, giusto?
– lo interruppe Lord Lacey,
alzando la mano. – Lo so benissimo che dovrete uccidermi, o
avrete alle
calcagna l’intero esercito diminiano prima di poter dire
“ah”. E non mi sembra
che sarete disposti a correre il rischio. –
Il silenzio
cadde nella stanza mentre la Lunga Mano, si guardava attorno,
stranamente sereno.
Mi ripromisi che davanti alla prospettiva della morte avrei avuto la
stessa
compostezza e serietà.
– Lei ha
ragione, di nuovo, – gli rispose Andreas, che continuava a
essere stralunato
sebbene avesse ripreso colore. – Però è
stato un uomo d’onore, in vita. Non
abbiamo intenzione di ammazzarla come un cane. Le daremo
l’opportunità di
salutare sua figlia e le prometto che non soffrirà. Sappiamo
come fare. –
Lord Lacey
lo guardò con sguardo serio, concentrato. Poi
annuì lentamente, pulendosi la
bocca e il mento dagli schizzi di sangue: – Fate entrare mia
figlia. Spero per
voi che stia bene. –
Jared
lasciò andare un misto tra un sospiro e una risata:
– L’abbiamo solo convinta a
urlare. Non siamo animali, milord. Non facciamo del male alle bambine,
se non costretti.
Per fortuna, ci ha reso le cose più facili. –
Poi uscì e
ritornò poco dopo, con Camille e la figlia della Lunga Mano,
illesa e
incredibilmente tranquilla. Si vedeva che si era svegliata da poco: si
iniziavano a intravedere le prime luci dell’alba dal tetto
sfondato del
granaio. Guardammo Lord Lacey abbracciare la figlia, farla ridere,
baciarla e
carezzarle la testa. Poi vide Andreas che si avvicinava, fece un cenno
con la
testa e consegnò sua figlia a Camille: –
Riportatela da sua madre, Principessa.
–
Camille
annuì, prendendo Ivonne per mano mentre usciva: –
Lo farò. Anche se è più di
quanto voi avete concesso a Ian e Nathaniel Coverano. –
Poi Jared
prese un bicchiere, lo riempì d’acqua e ci
versò dentro il contenuto di una
fiala. La conoscevo, faceva parte della dotazione degli Assassini: era
arsenico, pronto per essere ingerito in caso di cattura. La portavamo
sempre
con noi, nella speranza di non doverlo mai usare. Jared
consegnò il bicchiere a
Lord Lacey che lo prese con un cenno grazioso del capo, alzandolo verso
di noi
in un brindisi inquietante. Bevve e noi aspettammo, immobili come
statue. Poi,
all’improvviso, Lord Lacey si accasciò sulla
sedia, morto. Mi avvicinai a lui e
gli chiusi gli occhi, che erano rimasti aperti e fissi, immobili.
Uscimmo dalla
stanza in silenzio, come in processione. Ogni volta che si prende una
vita ci
si sente come dopo aver attraversato una tempesta: stanchi,
più vecchi,
provati. Sapevo che la responsabilità di quella ennesima
morte me l’avrei
portata con me per sempre.
***
Fuori dal granaio l’aria era
fredda, frizzante, e mi fece sentire meglio. Il calore del fuoco nella
stanza
dove ormai riposava il cadavere di Lacey mi aveva stordito, facendomi
salire un
mal di testa fastidioso, che pulsava precisamente sopra il mio occhio
sinistro.
La spalla ferita bruciava, rendendo dolorosi i movimenti. Avrei dovuto
curarla,
forse mettere anche dei punti. Seduta per terra Camille teneva in
braccio
Ivonne, che si era di nuovo addormentata e riposava avvolta in una
grossa coperta.
Andai a sedermi vicino a lei, appoggiando la testa contro il muro
dietro di me,
le braccia sulle ginocchia.
– Adesso? –
domandò Camille.
Mi girai a
guardarla: – Adesso dobbiamo scappare. Avremo forse un paio
d’ore prima che
tutta la nazione si sguinzagli alla ricerca del Consigliere del Re.
Prima
porteremo Ivonne dalla madre e poi cercheremo un passaggio per Viride.
Tra l’altro,
dovremo rintracciare il Comandante delle guardie di Elea di quindici
anni fa. –
– Non c’è
bisogno di rintracciarlo, – fece Andreas, chiudendo gli occhi
con aria seria. –
Lo conosco da circa un anno. È salito di grado ed ora
è a capo della guardia
personale della regina Celia. –
Jared lo
guardò aggrottando le sopracciglia: – Lo conosci?
Come mai? Non ce ne hai mai
parlato. –
– Un po’ di
volte mi è capitato di doverlo contattare su ordine del
Comando ed è una
persona con cui mi trovo bene. Non c’è molto da
dire, è un mio amico. E non
devo parlarvi di ogni dettaglio della mia vita, Jared. –
– Tu ci
stai nascondendo qualcosa – fece Jared, inclinando la testa e
assottigliando ancora
lo sguardo. Gli occhi blu sembravano lame talmente erano affilati. Gli
misi una
mano sulla spalla, per calmarlo.
– Gli
affari di Andreas sono solo suoi, non nostri, e ce ne
parlerà quando e se vorrà
– fece Mel, ponendo fine alla discussione, parlando per la
prima volta da
quando eravamo usciti dal granaio. – Se il capitano delle
guardie è suo amico
forse ci potrà essere d’aiuto, ma ci penseremo
quando saremo di nuovo a Viride.
Voi che ne dite? –
Io annuii, serio.
Ero incuriosito dalla reazione di Jared, che secondo me aveva ragione:
Andreas
ci nascondeva qualcosa. Non avrei saputo dire bene cosa, ma era una
sensazione
che mi si era annidata sotto pelle. Sicuramente non era niente di che,
ma
l’impressione rimaneva.
– Però, –
dissi. – Dobbiamo fare attenzione. A Viride siamo tutti
ricercati e tornare
nella capitale potrebbe essere pericoloso. –
Andreas mi
guardò, sospirando rassegnato: – Sì,
dovremo fare attenzione. –
Lo disse
con un tono piatto, monocorde, senza la luce curiosa negli occhi che
aveva di
solito. Tutti gli altri lo fissavano, cercando di capire cosa gli
girasse nel
cervello. Probabilmente derivava dall’idea che un amico fosse
stato in grado di
compiere un’azione del genere era terribile, ma comunque
tutti noi eravamo
Assassini di professione, in qualche modo abituati a convivere con
uomini di
questo tipo. E in più, se Andreas diceva che
quest’uomo era suo amico, sapevo
che nessuno di noi si sarebbe mai permesso di fargli del male.
Il silenzio era caduto tra di
noi, ma sorrisi al pensiero che d’improvviso si era fatto
strada nella mia
mente: – Torniamo a Elea, allora. Torniamo a casa. –
ANGOLO DELLA SCRITTRICE!
Ciao a tutti (: felice che siate giunti,
incredibilmente, fin qui!
Mi spiace che gli aggiornamenti arrivino un
po’ a rilento, ma sto
(giuro) facendo una fatica maledetta a finire questi capitoli!
Nonostante ciò
spero che comunque il capitolo sia venuto bene (: ci tengo molto a
ringraziare
tutti quelli che leggono, che commentano, che mettono la storia tra le
preferite ^^ grazie davvero di cuore!
E, per tutti quelli che non l’hanno
ancora fatto, commentate! Fa sempre
piacere avere un riscontro, e le critiche sono estremamente utili,
davvero (:
Grazie ancora a chi è arrivato fin
qui, mi rendete davvero felice!
Baci,
LyaStark
|
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Capitolo 13 *** XIII ***
CAPITOLO XIII
MARCUS
Quasi
non mi accorsi della partenza della nave. Nonostante la
nottata di sonno mi sentivo distrutto, come se un esercito mi fosse
passato
sopra. Bisogna anche dire che la nuotata nell’acqua gelida
non aveva aiutato,
ma aveva solo contribuito a rendermi più affaticato e
infreddolito che mai.
Sentivo la ferita pulsare sotto le bende, rendendomi dolorosamente
consapevole
della sua presenza. Avevo continuato a dire agli altri che stavo bene e
che
avevo recuperato, ma non era del tutto vero. Maledissi per la
milionesima volta
Lanes, sperando che stesse bruciando nelle fiamme del regno dei morti.
Mi sedetti scompostamente sul pavimento della cabina, appoggiando la
schiena a
una delle pareti e chiusi gli occhi, respirando tranquillamente.
Repressi un
brivido mentre sentivo il sonno prendermi di nuovo. Sapevo che avrei
dovuto
essere vigile e pronto, nel caso in cui il comandante di quella
bagnarola
avesse deciso di ritornare nei suoi appartamenti, ma semplicemente non
ce la
facevo. Il mio massimo contributo sarebbe stato ascoltare la
conversazione, che
tra l’altro languiva.
Andreas non si era ancora del tutto liberato dall’aria
allucinata che aveva
avuto tutto il giorno, senza motivo. Ero sicuro che se ce ne avesse
parlato le
cose sarebbero andate meglio, che avremmo potuto alleviare le sue pene.
Non
potevamo aiutarlo però, se non ci diceva che cosa stava
capitando.
Poi c’era Camille, con la testa appoggiata sulla spalla del
mio amico e
incredibilmente rilassata. Sentii una fitta violenta di gelosia, che mi
risvegliò di colpo e mi fece bruciare le guance. Mi ero
sempre preoccupato di
Jared, ritenendolo quello più
“pericoloso” di tutti, in quell’ambito.
Possibile
che mi fossi sbagliato? Ero stato davvero così stupido da
non accorgermi che
Andreas era interessato a Camille?
Dannate donne: quando non ce n’era nemmeno una nel gruppo era
tutto molto più
facile. Adesso mi spiegavo come mai la Corporazione fosse
un’istituzione per
soli uomini.
Jared osservava con occhio clinico l’interno della cabina,
adocchiando i quadri
e le carte sulla scrivania di legno, leggendole attentamente.
Probabilmente la
sua vecchia natura di ladro era tornata a farsi sentire, sempre nei
momenti
meno opportuni. Era leggermente verdognolo, ma sembrava che tenere
occupata la
mente lo aiutasse: normalmente sarebbe già stato appeso al
balconcino,
vomitando l’anima in mare. È sempre un piacere
viaggiare con lui.
Mel era seduto vicino alla porta, pronto a balzare in piedi nel caso in
cui ce
ne fosse stato bisogno. Aveva gli occhi chiusi e respirava
profondamente, come
addormentato, ma sapevo benissimo che era vigile e attento.
Probabilmente stava
ripensando alla nuotata, ringraziando tutti gli dei di essere vivo. Non
ho mai
saputo se ci fosse un motivo a questo suo terrore, ma il solo pensiero
di
avvicinarsi all’acqua lo spaventava, rendendolo inquieto.
È strano pensare che
un uomo come Mel possa aver paura di qualcosa, di solito è
lui ciò di cui la
gente ha timore. Era stato bravo, però, a buttarsi in acqua
per seguirci: non
posso dire che al posto suo sarei stato in grado di fare lo stesso.
Smisi di pensare a Mel quando un brivido di freddo mi fece battere i
denti
violentemente. Mi strofinai le braccia cercando di scaldarmi un minimo,
senza
troppo successo. Eravamo tutti fradici dalla testa ai piedi.
Ci riprendemmo dal nostro stato di apatia
quando la porta della cabina si aprì, facendo entrare il
comandante delle nave.
Saltarono tutti in piedi mentre io mi tiravo su lentamente,
appoggiandomi alla
parete.
Mel
sguainò velocemente la spada saltando alle spalle
dell’uomo, intrappolandogli le braccia e poggiandogli la lama
sul collo: – Io
non urlerei se fossi in te. –
Il
comandante annuì, con gli occhi sgranati per lo spavento.
Mi presi del tempo per osservarlo: era poco più vecchio di
me, con una zazzera
di capelli scuri sulla testa. Gli occhi castani scrutavano i nostri
volti e,
una volta ripresosi dalla sorpresa, si rivelarono più
intelligenti e acuti di
quanto avrei voluto. Era molto più difficile convincere un
uomo furbo a
reggerci il gioco piuttosto che un idiota. Non aveva né
barba né baffi e
portava un fazzoletto bianco legato al collo. La casacca era blu e
aveva
ricamato uno stemma nobiliare all’altezza del petto.
–
Abbiamo la sua parola che non farà mosse stupide?
– gli
domandò Andreas nella lingua di Viride, guardandolo negli
occhi.
Il
comandante annuì rigido, mentre Mel lo liberava
lentamente.
–
Voi siete i ricercati, – commentò con forte
accento
diminiano, soffermandosi sul volto mio e di Jared. – Le
guardie giù al porto
stavano cercando voi. –
–
Ottimo spirito d’osservazione, – risposi.
– Sfortuna ha
voluto che ci servisse un passaggio per Viride e la sua nave fosse
l’unica disponibile.
–
–
Potrei chiamare i miei uomini. Sono qua fuori, pronti ad
ogni mio comando – commentò il comandante,
guardandoci severo. Sembrava un uomo
tutto d’un pezzo, che non si faceva spaventare da una banda
di ricercati sulla
sua barca.
–
Potrebbe, – gli rispose Andreas. – Ma morirebbe
subito
dopo. –
–
E voi con me. Per quanto siate bravi con le armi non
potrete competere con un equipaggio intero – disse al mio
amico sorridendo,
chinando leggermente il capo.
–
Ha ragione. Moriremmo noi, morirebbe lei e morirebbe
sicuramente qualche membro della sua ciurma. Ne vale la pena? Ci pensi,
comandante – gli rispose Mel, che non aveva ancora rimesso
via la spada.
–
Non ho molta scelta. Tengo alla mia vita e a quella di ogni
singolo membro del mio equipaggio. Vi porterò a Viride.
–
Sentii
Camille sospirare di sollievo mentre Jared si
avvicinava al comandante, sfilandogli la spada dal fodero e
soppesandola.
–
Molto bene, – considerò Andreas, sedendosi per
terra. – Non
ci giochi scherzi strani e nessuno si farà male. Si sieda
alla scrivania,
meglio che si metta comodo. Capirà bene che non potremo
farla uscire sul ponte
fino a che non avremo attraccato a Viride. Spero che il suo equipaggio
sappia
come gestire la nave in sua assenza. –
–
Il mio secondo è là fuori, lui sa come fare. Vi
porterò a
Eleusi – commentò il comandante sedendosi dietro
alla scrivania, con Mel in
piedi di fianco a lui.
–
Sarà meglio – risposi, mentre mi accasciavo sul
pavimento
della cabina, chiudendo gli occhi e addormentandomi poco dopo, sebbene
fossi
ancora congelato.
***
Una
mano gentile mi svegliò circa due ore dopo, scuotendomi
dolcemente.
Per un momento mi illusi che fosse Camille, salvo poi aprire gli occhi
e
accorgermi che davanti al mio naso c’era Jared: –
Marcus, siamo quasi ad
Eleusi. Svegliati. –
Biascicai qualcosa guardandomi attorno. Il comandante era sempre seduto
alla
scrivania e guardava fuori dalle vetrate con aria assorta.
Probabilmente stava
pensando a cosa fare con noi che gli stavamo infestando la cabina.
Andreas
si sedette di fianco a me, avvicinandosi al mio
orecchio: – Non possiamo sbarcare da questa nave e piombare
nel porto di
Eleusi. Dovremo rifare come a Sanad, buttandoci in mare e evitando il
porto. –
Lo
guardai stancamente, senza nemmeno il coraggio di
ribattere: – Gli altri già lo sanno? –
–
Sì, è l’unico modo. –
Annuii
stancamente, voltandomi. In piedi dietro la vetrata
c’era Camille, che guardava il mare con un lieve sorriso in
volto. Mi girai
quando i suoi occhi incrociarono i miei. Non avevo ancora deciso cosa
fare con
lei e quello che avevo visto tra lei e Andreas non mi faceva sentire
più tanto
sicuro di me. In più c’era sempre il problema che
lei era una Principessa, io
un Assassino. Cosa c’entravo io con lei?
Mi
ripresi dai miei pensieri quando il mio sguardo cadde sul
comandante.
–
Di lui che ne facciamo? – mormorai ad Andreas, sperando che
nessun altro mi sentisse.
Il
mio amico fece una smorfia, abbassando gli occhi: – Lo
sai. Non possiamo lasciarlo andare. –
–
No, hai ragione, – commentai sospirando. – Ma mi
dispiace.
Sembra un brav’uomo. –
–
Spiace anche a me – mi rispose Andreas, alzandosi e
portandosi vicino a Camille dietro alla vetrata, guardando il mare.
Non
si girò nemmeno quando interpellò il comandante:
– Tra
quanto saremo in porto? –
L’uomo
guardò la sagoma di Andreas con occhi seri. Era seduto
dritto sulla sedia, con le mani elegantemente poggiate sui due
braccioli.
–
Tra meno di venti minuti immagino. Lo saprei meglio se
potessi essere sul ponte. –
–
Non ci provi, comandante, – commentò Mel, in piedi
vicino a
lui. – Non insulti la nostra intelligenza. –
L’uomo
fece una smorfia, ignorando Mel e tornando a fissare
il ripiano della scrivania. Probabilmente stava pensando a come potersi
liberare di noi. Mi alzai in piedi, avvicinandomi a Jared che era
appoggiato
mollemente contro la porta della cabina.
–
Pronto per un secondo bagno? – mi sussurrò.
–
Non mi restano molte altre alternative, temo – commentai,
incrociando le braccia. Davanti a me Camille stava confabulando fitto
fitto con
Andreas. Sentii le sopracciglia aggrottarsi, come se non ne avessi il
controllo.
Restammo in quella posizione per ancora una decina di minuti,
scambiando ogni
tanto qualche parola ma comunque tesi, in attesa di un segnale che ci
indicasse
che era tempo di abbandonare la nave. Finalmente le urla dei marinai
attraversarono le pareti di legno, facendoci capire che il porto era
vicino.
– Bene, – commentò Jared staccandosi
dalla porta. – Mi sa che è giunto il tempo
di tagliare la corda. Comandante, ci spiace per il fastidio che le
abbiamo
recato e per quello che dovremo fare. –
Vidi l’uomo alzarsi di colpo, senza una parola, e rovesciare
la sua sedia
all’indietro. Con una mano lanciò un pesante
candeliere di vetro verso Mel,
obbligandolo ad allontanarsi e a schivarlo. Arretrò di due
passi, mettendosi
nell’angolo della stanza. Con la mano destra aprì
il cassetto del tavolo che
gli stava vicino e estrasse un pugnale, puntandocelo contro. Poi
gridò.
Estraemmo di fretta le spade mentre la porta della cabina veniva
sfondata da un
calcio: al di là potevamo vedere l’intero
equipaggio della nave con armi in
mano, corde e catene. Mel infilzò il primo uomo che gli
piombò davanti,
facendolo accasciare al suolo. Il rumore attorno a noi era incredibile.
Camille ingaggiò battaglia con un uomo armato di due spade,
lottando e
combattendo con un’eleganza squisita. Non che non mi fidassi
delle sue
capacità, ma mi fiondai ad aiutarla uccidendo
l’uomo alle spalle. Non troppo
onorevole, ma funzionale. Due altri mi furono addosso, costringendomi
ad
arretrare. La ferita alla spalla iniziava di nuovo a farsi sentire,
rendendomi
impacciato nei movimenti. Tutto attorno a me infuriava la battaglia.
– Via da qui! – urlò improvvisamente
Jared, sfondando con una spallata il vetro
alle sue spalle.
Lo imitammo tutti, ritrovandoci nel piccolo balconcino privato del
comandante,
incalzati dall’equipaggio. Arrivammo alla paratia e ci
buttammo scompostamente
in mare.
***
Ritornammo
sulla terra ferma al limitare di Eleusi, sulle
spiagge della città. Eravamo infreddoliti e bagnati, per la
seconda volta in
poche ore. Poco lontano da noi si intravedeva il porto.
– Dobbiamo andarcene, di corsa anche – disse Jared,
mentre riprendevamo fiato
sdraiati sulla sabbia fine. Almeno lì non pioveva.
Mi rialzai a fatica, imitato lentamente da tutti gli altri. Iniziammo a
correre
verso il limitare della città passando dalla spiaggia,
guadagnandoci
occhiatacce dai pochi passanti che passeggiavano sul lungo mare poco
distante
da noi. Finimmo fuori dal centro abitato abbastanza in fretta,
lasciandoci alle
spalle le ultime case.
Attorno a noi la spiaggia si restrinse, lasciando spazio a una terra
con bassi
arbusti e battuta dal vento. Poco distante si intravedevano le alte
scogliere
di Reins, di pietra bianca.
– Dobbiamo trovare un posto dove poter passare la notte
– esalò Camille,
poggiandosi le mani sulle ginocchia e riprendendo fiato.
Andreas annuì con la testa, respirando profondamente:
– Dovremmo riuscire a
trovare qualcosa spostandoci nell’entroterra. –
– Dobbiamo fare attenzione, – commentò
Jared. – Siamo ricercati. Non possiamo
semplicemente bussare alle porte delle case e sperare di trovare
ospitalità. –
– No, direi di no, – rispose Camille. –
Quindi notte all’addiaccio? –
Trattenni una smorfia: – Ah, fantastico. Non vedevo
l’ora. –
Ci incamminammo con un buon passo verso l’entroterra, con in
mente solo una
vaga idea di dove ci trovavamo. Sapevamo di essere da qualche parte a
est di
Eleusi, ma non c’erano grossi insediamenti tra lì
e Ange, da qualche parte
davanti a noi. Dalla città avremmo poi potuto seguire la
Gran Via, la grande
strada che portava a Elea. Oppure, semplicemente, avremmo potuto rubare
dei
cavalli e dirigerci a spron battuto verso la capitale.
La spiaggia scomparve e attorno a noi si aprì una terra con
erbe basse e
macchie di alberi piegati dal vento. Anche in quell’istante
un’aria gelida
arrivava dal mare, facendoci battere i denti e frustare i vestiti. Una
gioia
infinita.
Ogni tanto si intravedevano dei gruppetti di casupole di legno, dove
abitava
chi non era abbastanza ricco da potersi permettere una casa in
città.
Incontrammo anche un paio di persone che portavano in spalla attrezzi
da
lavoro, troppo stanche per prestarci attenzione. Non parlammo molto,
ognuno
troppo immerso nei propri pensieri.
Quando cadde la sera non avevamo ancora trovato un posto dove fermarci.
Eravamo
stanchi e infreddoliti, ma il bisogno di allontanarsi dalla
città ci aveva
spinti a non fare soste.
– Secondo me possiamo fermarci qui –
commentò Mel, fermandosi. Attorno a noi
non c’era niente, se non erba, sassi e cielo. Non
c’erano rumori a parte quello
del vento sugli arbusti, e non c’era traccia di anima viva.
Sopra di noi
brillavano le stelle e una luna calante.
Camille si lasciò crollare a terra: – Grazie agli
dei. –
Tutti noi ci accasciammo al suolo con un sospiro di sollievo. Avevo
male in
ogni punto del mio corpo e il freddo della notte non aiutava.
– Ci fidiamo ad accendere il fuoco? –
domandò Andreas.
– Temo di no, – risposi a malincuore. –
Ormai quel maledetto comandante di
quella maledetta nave avrà avvisato le guardie. Ci staranno
cercando, possiamo
solo contare sul fatto che siamo cinque persone sperdute in una zona
abbastanza
vasta. –
Mel annuì, lentamente: – Dovremo decidere dei
turni di guardia. –
– Va bene, – commentò Andreas,
sistemandosi. – Facciamo riposare Marcus, farà
il secondo turno. Io posso fare il primo, tanto non credo che riuscirei
ad
addormentarmi. –
Emisi un gemito grato. Mi sdraiai più comodamente al suolo,
coprendomi il
meglio possibile con il mantello.
– Ti tengo compagnia, – si fece avanti Mel.
– Jared, dormi pure. Vi svegliamo
noi quando è ora. –
– Grazie, mi salvi la vita, – disse il mio amico,
grato, mentre si sistemava
per riposare.
– Starò sveglia anche io, dormo al secondo turno
– dichiarò Camille.
Dalle mie palpebre semichiuse potei vederla mentre si alzava e si
avvicinava ad
Andreas, accucciandosi vicino a lui. Sentii una fitta spiacevole allo
stomaco,
la ignorai con una smorfia e mi girai. Dopo pochi secondi
già dormivo.
***
Mi
risvegliai, per la seconda volta quel giorno, a causa di
una mano gentile che mi scuoteva la spalla. Era stato un sonno breve ma
abbastanza riposante, non c’erano stati rumori né
avvenimenti particolari.
Aprii gli occhi con fatica, strofinandoli con il braccio.
– Sono sveglio, sono sveglio, – biascicai.
– È già il nostro turno? –
– Andreas dice di sì – mi rispose la
voce di Camille poco sopra di me. Ciocche
dei suoi capelli mi solleticavano il viso.
Mi tirai faticosamente a sedere: – Se lo dice
Andreas… va bene, Jared lo
sveglio io. Tu riposati. –
Non potei fare a meno di trattenere il tono irritato, vedendo uno
sguardo
confuso farsi strada sul viso di Camille. Non sono mai stato
particolarmente
trattabile appena sveglio.
Mi
alzai stiracchiandomi e guardandomi attorno, ignorando gli
sbuffi scocciati della ragazza alle mie spalle. Mel e Andreas erano
sdraiati e
avevano gli occhi chiusi, probabilmente dormivano già. Mi
avvicinai a Jared e
lo scossi, molto meno delicatamente di come Camille aveva fatto con me
poco
prima. Mi sentivo decisamente irritato e poco incline alla gentilezza.
Il
mio amico mugolò qualche parola senza dar segno di volere
svegliarsi. Lo chiamai ripetutamente strattonandolo per le spalle
quando
finalmente Jared aprì gli occhi.
–
Grazie agli dei non stavamo aspettando il tuo aiuto o
saremmo già tutti morti, – dissi, acido.
– Svegliati, è il nostro turno di
guardia. –
Jared
mormorò qualcosa e si tirò a sedere,
stiracchiandosi
come me poco prima. Mi sedetti di fianco a lui, imbronciato.
Sarà stata la
sveglia, o forse il pensiero di Camille e Andreas, ma decisamente non
ero di
buon umore.
–
Tutto bene? – mi chiese il mio amico, quando si fu ripreso
abbastanza da poter parlare con senso compiuto.
–
Sì, direi di sì. –
Jared
annuì, guardando di fronte a sé: –
Camille? –
Lo
osservai, aggrottando le sopracciglia. Come faceva a
capirmi sempre?
–
Può essere – risposi.
–
Non so se ti può aiutare ma sappi che l’altro
giorno,
quando eri ferito, era disperata. Non credo di aver mai visto nessuno
piangere
così tanto. –
Ridacchiai
scaldato al pensiero: – Dillo che se fossi morto
avresti pianto anche tu. –
–
Ovvio, ma non dirlo in giro – rispose Jared, togliendosi
una ciocca di capelli argentati dal viso.
Risi
di nuovo, stringendomi meglio nel mantello. Forse il
turno di guardia non sarebbe stato poi così male.
***
Al
mattino ripartimmo per Elea, un po’ meno stanchi di quando
ci eravamo fermati. Sopra di noi il sole brillava tenue, riscaldandoci
leggermente nell’aria fredda del mattino. Procedemmo a piedi
fino a che
riuscimmo a rubare dei cavalli, dopo di che ci muovemmo con
più rapidità. Non
molto nobile da parte nostra in effetti, ma era l’unica cosa
che avremmo potuto
fare.
Arrivammo vicino alla capitale dopo un giorno di cavalcata abbastanza
serrato,
quasi senza riposo. Liberammo i cavalli poco lontano dalla
città, sapendo che
tanto sarebbero stati recuperati da qualcuno. Ci azzardammo ad entrare
ad Elea
e dirigerci nei bassifondi, sapendo che il tempo che avevamo a nostra
disposizione
prima che qualcuno si accorgesse che i ricercati erano tornati in
città era
abbastanza poco.
La capitale non aveva segreti per noi: avevamo compiuto innumerevoli
missioni
lì ed era la nostra casa. La conoscevamo come le nostre
tasche, ogni angolo,
ogni vicolo. Come noi, però, anche tutti gli altri
Assassini. Dovevamo fare in
fretta e non esitare, per poter scappare in fretta dalla
città.
Nei bassifondi della città non giravano guardie e i volti
coperti dai cappucci
erano all’ordine del giorno. Nessuno ci fece domande,
lasciandoci in pace fino
a che non arrivammo in una delle topaie più squallide di
Elea intera.
Fortunatamente, a differenza di Dimina, non c’erano i
manifesti con le nostre
facce per tutta la città. Con ogni probabilità la
Corporazione non voleva che
la notizia di disertori si diffondesse.
Camille si guardava intorno meravigliata. Non tornava nella sua
città da anni,
essendo rimasta confinata nel villaggio della foresta. Era stupita
persino dai
bassifondi, che è tutto dire. Era felice di essere tornata a
casa e si notava
da ogni sua azione.
Passammo la notte in una sala dormitorio piena di gente dubbia.
C’erano diversi
uomini molto armati, con cicatrici e aria truce, ma nessuno ci diede
fastidio.
Al mattino ci allontanammo dalla locanda per poter parlare in pace di
ciò che
avremmo dovuto fare, ritrovandoci sotto la pioggia in un vicolo.
– Dobbiamo riuscire a contattare Lord San, dobbiamo trovarlo
– dissi a nessuno
in particolare.
– La fai facile, – mi rispose Jared. –
Stiamo parlando del capo della guardia
della Regina. –
Andreas sospirò: – Lo cercherò io. Di
me si fida. –
Erano le prime parole che diceva al proposito da quando avevamo
lasciato
Dimina. Era sempre teso e agitato, come se un pensiero fisso gli
ronzasse
continuamente in testa.
– Andreas, – iniziai. – Se non vuoi farlo
non sei obbligato. –
– Non è questo, – disse, chiudendo gli
occhi e portandosi la mano al volto.
– E cos’è allora? –
– È complicato. –
Vidi Jared aprire la bocca con una smorfia non propriamente tranquilla
in viso.
Per fortuna intervenne Mel a calmarlo, poggiandogli una mano sulla
spalla e
convincendolo tacitamente a non parlare. Di tutto aveva bisogno Andreas
tranne
di essere attaccato malamente a parole per qualcosa che lo stava
facendo
palesemente soffrire.
–
Sei sicuro di volerlo contattare tu? Non so cosa sia
successo tra te e questo Lord San, ma sembri tenere a questa persona.
Puoi
rimanerne fuori, lasciando fare a noi. Non sei obbligato a fare nulla
–
commentai. Gli altri erano stranamente silenziosi.
– Lo so, lo so, – mi rispose Andreas con
più sicurezza. – Ma devo farlo. È
qualcosa che devo risolvere io. Lo contatterò, vi
farò sapere quando e dove lo
vedremo. –
Annuii in silenzio. Camille di fianco a me guardava Andreas con
un’aria
intenerita che ebbe il potere di farmi stringere lo stomaco. Distolsi
in fretta
lo sguardo, sentendo il fastidio del giorno prima farsi strada di nuovo
dentro
di me. Stava diventando un evento quotidiano ormai.
Ci allontanammo dall’angolo della strada in cui ci trovavamo,
ognuno in una
direzione diversa. Avevamo deciso di separarci fino a sera, visto che
gli
Assassini ci cercavano come un gruppo di cinque persone.
Prima che Andreas potesse allontanarsi lo presi per un braccio:
– Qualunque
cosa stia succedendo, sappi che se hai bisogno noi ci siamo. Non devi
per forza
raccontarci ogni cosa, ma sappi che sei comunque nostro fratello.
–
Andreas annuì con un sorriso stentato prima di allontanarsi
nella pioggia.
***
Ci
ritrovammo alla sera nelle vicinanze di una locanda, diversa
da quella del giorno prima. La giornata era passata tranquillamente,
senza
inconvenienti. Avevo vagato fuori dalla città, ritenendolo
più sicuro. Mi ero
decisamente annoiato, ma almeno ero ancora vivo e mi ero potuto
riposare. La
ferita non mi dava più problemi e mi sentivo decisamente in
forze.
Gli altri avevano passato la giornata più o meno come me,
vagando per le zone
più malfamate di Elea. Anche Camille aveva optato per le
campagne nei dintorni
della città, ma non ci eravamo incontrati. Aveva passato la
giornata camminando
sulle rive dell’Ornale, il grande fiume che passa per la
capitale e attraversa
tutta Viride.
Chiacchierammo del più e del meno in attesa di Andreas, che
ancora mancava
all’appello. Stavamo iniziando a preoccuparci quando
finalmente spuntò
dall’angolo di un vicolo, camminando con la sua solita
andatura tranquilla e
aggraziata.
– Allora, ho contattato Lord San, –
esordì quando ci raggiunse. – L’incontro
è
stabilito per domani, vicino alla statua di Re Maximilien.
Sarà lì nel primo
pomeriggio, da solo. –
– Sa che saremo tutti noi? – domandò
Jared.
– Sì, gli ho spiegato a grandi linee la
situazione. Non sa bene cosa aspettarsi
ma gli è ben chiaro che non ci sarò solo io.
–
Annuimmo tutti e mi presi un paio di secondi per osservare meglio il
mio amico.
Era molto pallido, con delle occhiaie scure che circondavano i suoi
occhi.
Sembrava infinitamente stanco e diverso dalla persone che era stata
vicina in
quasi diciotto anni di vita. Non l’avevo mai visto tanto
angosciato e la cosa
stava iniziando a spaventarmi.
– Va bene allora, – commentai, desideroso di
esaurire il prima possibile
quell’argomento. – Dobbiamo decidere il da farsi.
Andreas, dici che questo Lord
San ci dirà ciò che vogliamo sapere? –
– Non lo so. Spero di sì…
però voglio solo chiedervi una cosa – mi rispose,
guardandomi con aria seria. – Non fategli del male, qualunque
cosa capiti. –
Ci guardammo negli occhi, stupiti da una richiesta del genere. Mi
sembrava
ovvio che non avremmo fatto del male a una persona a cui Andreas teneva
così
tanto. Si fidava così poco di noi da aver bisogno di una
conferma ufficiale?
– Certo che non gli faremo del male, come fai anche solo a
pensarlo? – sbottò
Jared, con tono offeso.
Poi accadde una cosa che non mi sarei mai aspettato. Mel, il
più silenzioso e
introverso di tutti noi, prese la parola: – Andreas,
senti… se non vuoi
parlarci di quello che ti sta capitando sei libero di farlo, ma noi
abbiamo
bisogno di capire. È così importante per te
questo Lord San? Non te lo
chiederei se non fosse necessario, ma sono sicuro che capisci. Non
possiamo
riuscire a stabilire una sorta di piano d’azione se non
capiamo quello che sta
succedendo. Dobbiamo sapere fino a dove possiamo spingerci e cosa
possiamo
fare, altrimenti è tutto inutile. –
Andreas fece un profondo sospiro, poi guardò Camille come
per cercare un
incoraggiamento. Infine parlò: – Capisco tutto, e
sapevo che era solo questione
di tempo prima che tutta questa storia venisse fuori. San è
molto importante
per me, probabilmente più di quanto dovrebbe, –
chiuse gli occhi, probabilmente
per non vedere le nostre espressioni. – Non posso tollerare
il pensiero che
potremmo essere noi, che potrei essere io, a ucciderlo o a fargli del
male.
Allo stesso tempo ho paura che lui ci consegnerà alla
Regina, perché lo
conosco. Non so cosa fare. –
Tacqui, osservando il mio amico. Se prima avevo solo il sospetto che
quella tra
lui e Lord San non fosse solo una semplice amicizia, ora ne avevo la
certezza.
Non ce l’aveva detto esplicitamente, ma si capiva da ogni sua
parola, da ogni
suo gesto, da ogni espressione. Sotto questo punto di vista comprendevo
tutta
la sua angoscia, che era più che giustificata. Al posto suo
non avrei saputo
come comportarmi, sarei stato paralizzato. Mi stupiva persino che fosse
riuscito a tenersi dentro quel peso per due giorni.
Stavo per parlare, ma Jared mi precedette: – Va bene, non ti
preoccupare. Ci
pensiamo noi. Non succederà niente di male a San, nemmeno se
decidesse di
consegnarci alla Regina. In fondo siamo già ricercati, che
una persona in più
sappia che ci troviamo a Elea non sarà un problema,
– il mio amico tossicchiò,
improvvisamente imbarazzato. – Volevo anche scusarmi per
essere stato
assillante in questi giorni, riguardo alla questione. Ho decisamente
esagerato,
scusami. Ognuno ha il diritto di raccontare gli affari propri a chi
preferisce,
senza sentirsi obbligato. –
– Anche se non avrei mai pensato di dirlo, –
intervenne Mel. – Jared ha
ragione. Per una volta ci penseremo noi. Se vuoi tirarti indietro non
ci sono
problemi, ce ne occuperemo noi. E Lord San finirà la
conversazione con noi,
illeso. –
Andreas fece il primo vero sorriso della giornata: – Grazie.
Scuse accettate,
Jared. Per quanto riguarda tirarsi indietro, credo che non lo
farò. Voglio
sapere che cosa successe anni fa, perché San è
stato complice di una cosa del
genere. Sono forse l’unico con cui parlerà.
–
– Va bene, allora prepariamoci per domani. Sarà
una lunga giornata – concluse
Camille.
ANDREAS
L’ora
dell’incontro sembrò non arrivare mai. Passai la
notte
a girarmi e rigirarmi sulla brandina, senza che mi sembrasse di
addormentarmi
mai, nemmeno per un secondo. Già dal mattino presto erano
tutti attivi e
svegli, agitatissimi. Tutti tranne me, che dopo la notte insonne avrei
solo
voluto infilare la testa sotto le coperte e dormire fino al giorno
dopo,
lasciando quel problema agli altri.
Avevo riflettuto più volte sulla proposta di Mel di farmi da
parte, ma non ero
così vigliacco. Era tempo di risolvere la situazione una
volta per tutte,
qualunque cosa ne sarebbe venuta fuori. Era stato solo quel pensiero a
permettermi di trovare la forza di alzarmi.
Passai la mattinata in uno stato di apatia insolito per me. Vedevo gli
altri
muoversi, organizzare, prepararsi. Io me ne rimasi seduto, pulendo le
mie armi
e riflettendo su quello che avrei dovuto fare. L’unica che
ebbe il coraggio di
avvicinarmi qualche volta fu Camille. “Non ti preoccupare,
andrà tutto bene”,
mi disse, ma avevo paura che non sarebbe andata così. Oltre
tutti i miei
problemi derivati dall’aver scoperto cosa aveva fatto San,
c’era un’altra
faccenda che mi preoccupava: sapevo, lo sapevo nel profondo, che
avrebbe
avvisato le guardie della nostra presenza in città. Forse
avrebbe ascoltato le
mie parole, ma avrebbe finito per fare il suo dovere.
Finalmente arrivò l’ora dell’incontro e
mi incamminai, da solo, verso la statua
di re Maximilien, in mezzo alla piazza del mercato. Quel sovrano mi era
sempre
piaciuto, visto che aveva fondato la Grande Biblioteca della
città, vicino al
Palazzo Reale. Il resto della popolazione se lo ricordava per la grande
guerra
che aveva intrapreso per difendersi da Semele, al Sud, ma non erano in
molti a
sapere che era anche un letterato. Lo sentivo un po’ simile a
me, in fondo: un
uomo di cultura, che era stato obbligato a prendere le armi dalla
ragion di
stato. Non che il paragone fosse così azzeccato, ma
tant’è.
Arrivai vicino alla piazza in orario perfetto, notando con piacere che
il
mercato era così pieno di gente che difficilmente mi sarei
potuto far notare.
Iniziai a scrutare la folla, fino a quando vidi San poco distante dalla
statua
del Re, appoggiato distrattamente a una fontanella. Mi presi qualche
istante
per guardarlo bene, da lontano, mentre ancora non sapeva di essere
osservato.
Riconobbi le spalle ampie, la schiena dritta e il profilo severo, e
guardai
bene i corti capelli neri e la barba curata, che copriva in parte la
cicatrice
sul lato destro del viso, imprimendomi quei dettagli nella mente. Al
fianco
sinistro portava la spada lunga, su cui era poggiata distrattamente una
mano.
Era vestito normalmente, senza l’ingombrante mantello rosso
delle Guardie della
Regina e non potei che ringraziarlo mentalmente per quello.
Decisi che era giunto il momento di avvicinarmi, altrimenti non
l’avrei mai
fatto. Lo vidi guardarmi, raddrizzarsi e sorridermi in un modo che
ancora mi
faceva stringere lo stomaco. Nonostante fosse più vecchio di
me mi aveva sempre
trattato da pari, mai come il ragazzino che in realtà sapevo
ancora di essere.
Mi avvicinai ancora di più e gli misi una mano sulla spalla,
non osando fare
altri gesti che sarebbero stati colti dalle guardie e avrebbero
rischiato di
farmi scoprire: l’omosessualità era un reato a
Viride.
– Sono felice di vederti – gli dissi, e nonostante
tutto lo ero davvero. Ero
lontano da casa da mesi ormai.
Mi strinse la mano e la carezzò distrattamente con il
pollice, in un movimento
che sembrava casuale ma che sapevo benissimo non esserlo: –
Anche io sono
felice di vederti. –
Rimanemmo uno davanti all’altro per qualche secondo, senza
dir niente. Solo
guardandoci, mentre io scrutavo gli occhi scuri di San, neri come
l’onice e
sempre capaci di catturarmi. Per un momento pensai di non dirgli niente
e di
lasciarlo andare via, nascondendo tutto. Fino a quel momento era tutto
ancora
da decidersi, un mare di possibilità diverse si apriva
davanti a me.
Poi San mi chiese spiegazioni e l’indefinito finì:
– Perché mi hai chiesto di
vederci qui? Cosa succede? –
– Non è il caso di parlarne qui. Ti porto in un
posto più tranquillo, seguimi.
–
Mi
incamminai verso il limitare della piazza, affiancato da
San. Era alla mia sinistra, abbastanza vicino perché le
nostre mani ogni tanto
si sfiorassero, ma sufficientemente lontano da non destare sospetti.
Parlammo
del più e del meno, tralasciando l’argomento per
un momento. Ne approfittai per
chiedere a San cosa avesse fatto nel periodo in cui non avevamo potuto
vederci,
facendomi trasportare dalla sua voce.
Mentre
lui parlava non pensai a quello che avrei dovuto fare
da lì a poco ma mi godetti semplicemente quegli attimi di
tranquillità, i primi
da parecchio tempo a quella parte. Non avrei mai potuto pensare che mi
sarebbe
mancato così tanto passare del tempo con lui. Era stata la
prima persona, dopo
Mel e gli altri, ad aver significato qualcosa di importante per me. Era
stato
difficile per me riuscire a capire e ad accettare i miei sentimenti per
San e
adesso avrei potuto perdere tutto.
I miei pensieri si interruppero quando finalmente arrivammo alla nostra
meta,
una delle case sicure della Corporazione. Mel ci era passato
distrattamente
davanti il giorno prima, scoprendo che era vuota e che quindi avremmo
potuto
usarla noi, decidendo che mi avrebbero aspettato lì. La
porta era sprangata
dall’interno e bussai con un codice che avevo stabilito con
gli altri il giorno
prima. Avevo già usato le case della Corporazione in caso di
bisogno e sapevo
benissimo come erano strutturate.
Entrammo
in una grossa stanza quadrata con un letto, un
tavolo e qualche sedia. C’erano armi, medicine, soldi e cibo,
tutto ciò di cui
un Assassino avrebbe potuto avere bisogno. Avevano tutte la stessa
serratura e
ogni membro della Corporazione aveva una chiave, per poter trovare un
riparo in
caso di necessità.
Dentro
c’erano tutti gli altri. Camille era appoggiata a una
parete, guardando annoiata il muro davanti a sé.
Guardò San con aria
inquisitoria, scrutandolo dall’alto al basso come per
sezionarlo. Lui sostenne
lo sguardo senza esitare, con un’espressione serena in viso.
Ero sicuro che,
nonostante l’aria disinteressata, stesse osservando Camille a
sua volta.
Marcus
era seduto al tavolo con le braccia incrociate e immaginai
che fino a un attimo prima fosse impegnato in una conversazione con
Jared.
Quest’ultimo era in piedi di fianco all’amico e ora
guardava me e San
seriamente. Mel invece era seduto sulla branda, tra le mani una
catenella con
cui stava ancora giochicchiando.
San
ruppe il silenzio rivolgendosi a Camille: – Principessa,
sono lieto di vederla sana e salva. –
Non ero troppo stupito. Sarebbe stato stupido da parte mia pensare che
il
Comandante della Guardia della Regina non riuscisse a riconoscere la
Principessa.
– Comandante, il piacere è tutto mio –
rispose Camille. Rimasi sconcertato dal
tono e dalla postura della ragazza: improvvisamente era tornata a
essere la
Principessa di Viride, non disposta a farsi mettere in
difficoltà da nessuno.
Sembrava perfettamente in grado di dominare la situazione.
San ignorò tutti gli altri, anche se sapevo che se aveva
riconosciuto Camille
avrebbe sicuramente capito chi erano gli altri, soprattutto
perché gliene avevo
parlato parecchio.
– Adesso mi dici perché siamo qui? – mi
chiese.
–
Sì, adesso sì, – iniziai con un respiro
profondo.
“Così
ha inizio”.
Decisi
di non fare tanti giri di parole, andando direttamente
al sodo. – Abbiamo scoperto che la morte del principe Adrien
e dei suoi due
figli non è avvenuta a causa di un incidente in mare, ma che
è stato un
omicidio. Nelle indagini per riuscire a capire chi sia stato
è spuntato il tuo
nome e quello della Regina come mandante. –
San
mi guardò come se gli avessi dato una coltellata, ma
l’espressione indifferente tornò in fretta sul suo
viso.
Si
girò verso gli altri, parlandogli come può
parlare un uomo
abituato a dare ordini: – Andatevene da qui. Tutto questo non
è qualcosa che vi
riguardi. –
Camille
si fece avanti: – Questo mi riguarda, eccome. State
parlando di mia madre e della mia famiglia. –
–
Ripeto: non è affar vostro. Andatevene – disse San
con un
ringhio, gelandola con lo sguardo e incrociando le braccia. Potevo
quasi
sentire la rabbia emanare dalla sua figura, rendendolo spaventoso. Non
gli è
mai piaciuto venire contraddetto, non da persone appena viste comunque.
Camille
si fece avanti per ribattere ma Marcus la precedette,
prendendola per le spalle e mormorandole qualcosa in un orecchio. La
Principessa uscì dalla stanza scrutando torva San, lasciando
intendere
palesemente che se non fosse stata fermata avrebbe ribattuto a tono.
Vidi
i miei amici uscire in strada, e poco prima di chiudere
la porta sentii Jared mormorare: – Andreas, se hai bisogno
siamo qua fuori. –
–
Non ne avrà – mi precedette San, immobile.
Quando
tutti furono usciti lo vidi rilassarsi, meno sul chi
vive. Le spalle si abbassarono mentre si dirigeva alla sedia poco prima
occupata da Marcus. Era comunque arrabbiato, lo capivo da ogni suo
gesto.
–
Adesso mi spieghi – mi ordinò secco e non potei
tirarmi
indietro.
Gli
raccontai tutto. Di come avevamo conosciuto Camille, di
Hyatt, di Lod Carean, della Lunga Mano. Di come eravamo arrivati fino a
lui, di
cosa stavamo cercando di ottenere, della ferita di Marcus. Parlai a
ruota
libera, senza essere interrotto, e mi accorsi solo in quel momento di
quanto
avevo bisogno di spiegare ciò che era accaduto per poter
rimettere a posto le
idee, per prendere le distanze da tutto quello che avevamo visto per
poterlo
analizzare meglio. Gli dissi finalmente cosa volevamo da lui: delle
prove di
colpevolezza.
Quando
finii San tacque per un paio di minuti, guardandomi
profondamente.
–
Avete davvero fatto tutto questo per una ragazzina che non
conoscete? – mi chiese.
Ebbe
il potere di farmi innervosire: – Sì, è
giusto così. È
stata defraudata di tutto, è nostro dovere aiutarla ad avere
ciò che è suo di
diritto. Per tralasciare il fatto che la ragazzina ha quasi la mia
età. –
–
Sì, scusami, – mi rispose, scuotendo la testa.
– Ma non è
questa la questione. –
–
No, non lo è, – commentai. – La
questione è quello che hai
fatto per la Regina. –
–
Stai parlando di qualcosa che è capitato quindici anni fa,
Andreas. –
–Sì,
ma è capitato. –
San
annuì e vidi tristezza farsi avanti sul suo viso.
–
Non posso darti ciò di cui hai bisogno, mi dispiace
– mi
disse, avvicinandosi a me e prendendomi il viso tra le mani, fissandomi
con i
suoi occhi scuri.
–
Perché no? –
Sospirò,
lasciandomi e dandomi le spalle: – Io credo che
ciò
che la Regina ha fatto fosse necessario. Ho acconsentito a fare da
emissario
per lei perché pensavo davvero che Jerome e Celia potessero
essere dei sovrani
migliori del principe Adrien. L’ho fatto perché
credevo che il piano della
Regina fosse giusto per Viride, per il mio paese. –
Sentii
quelle parole come da dentro una bolla. Avevo sempre
saputo che nessuno, nemmeno la regina Celia, avrebbe mai potuto
obbligare San a
fare qualcosa che non voleva. Aveva un carattere forte, pronto a dare
tutto per
un’idea in cui credeva ma incapace di piegarsi, nemmeno
davanti a un potere più
grande. Però qualcosa non mi tornava, riflettei mentre mi
rigiravo il pensiero
nella mente.
Poi,
l’illuminazione. Scossi la testa: – No, –
iniziai. – Non
è così. Io ti conosco, so che quello che dici non
è vero. Forse era così un
tempo, ma non oggi. Sei intelligente, sai meglio di me che il dominio
della
Regina sta rovinando questo paese. Non puoi continuare a pensare che
sia la
cosa giusta supportarla. –
San
mi guardò stupito: – Hai ragione anche su
questo, ma non
è sufficiente. Ho fatto dei giuramenti e ho intenzione di
rispettarli. È merito
della Regina se sono dove sono, è a lei che devo tutto. Non
la tradirò così. –
Fu
il mio turno di avvicinarmi a lui: – Nemmeno per me?
–
–
Non chiedermelo, Andreas – mi disse, distogliendo lo
sguardo.
Gli
presi il mento tra le dita, obbligandolo a guardarmi: –
Te lo sto chiedendo. Aiutami, ho bisogno del tuo aiuto –
sussurrai.
Se
mi avesse detto di no avremmo dovuto fermarci. Non avrei
mai potuto fargli del male, non avrei potuto obbligarlo più
di quanto stavo già
facendo. Sapevo che quello che gli stavo chiedendo non era giusto, ma
era
l’unico modo.
–
Mi distruggerai – mormorò di rimando.
–
Non potrei mai. Se non vorrai parlare, lascerò perdere.
–
San
si alzò, lasciandomi accovacciato davanti a una sedia
vuota. Si portò davanti alla piccola finestra della casa
sicura, guardando il
vetro sporco e l’inferriata di metallo nero davanti a
sé.
Per
alcuni minuti non disse niente, poi finalmente sentii la
sua voce risuonare tra le pareti: – So benissimo che non
c’è da fidarsi della
Regina, non sono un illuso. Ho conservato le lettere con cui mi
ordinava cosa
fare e cosa dire a Lord Lacey. –
Si
girò, guardandomi negli occhi e proseguendo con tono
amaro: – Ero giovane, ma non stupido. Ho dato tutto a mia
sorella Gaia, abita
nella via dei mercanti. Le ho detto che, se mi fosse capitato qualcosa,
avrebbe
dovuto inviarle ai regni del sud. –
Si
interruppe per un attimo, prendendo fiato: – Portale
questo, per provarle che ti mando io – continuò,
lanciandomi l’anello che
portava all’anulare.
Presi
al volo l’oggetto, rigirandomelo per qualche secondo
tra le mani. Era un anello con una grossa pietra nera, incastonata in
argento.
Inciso nell’onice c’era un falco, simbolo della
famiglia di San. Lo portava
sempre al dito, non lo avevo mai visto separarsene.
Feci
scivolare l’anello in tasca e mi avvicinai a San, con il
cuore in tumulto. Prima che potessi allungare una mano e toccarlo mi
parlò,
gelandomi sul posto.
–
Tra due ore andrò a parlare con il capo della guarnigione.
Gli dirò che siete in città. – mi
disse, senza nemmeno guardarmi negli occhi.
Suonava tanto come un addio.
Sentii
qualcosa dentro me lacerarsi. Avevo fatto ciò che
dovevo e avevo perso l’unica persona che amavo. Capii
all’improvviso che era
quello ciò che avevo sempre temuto, sin da quando Lord Lacey
lo aveva nominato.
Comprendevo che quello che avevo fatto non avrebbe permesso che le cose
tra noi
due continuassero come prima. Avevo sfruttato l’affetto che
provava per me per
ottenere ciò che mi serviva. O almeno, doveva essere
così che la vedeva lui. Io
sapevo solo che lo amavo, qualunque cosa avesse fatto quindici anni
prima e
qualunque potesse pensare. Lo amavo nonostante tutto, ma non bastava.
Mi pentii
profondamente di quello che avevo appena fatto.
–
Io… – iniziai, senza poter continuare.
San
mi guardò con occhi tristi e disse con amarezza: –
Vai,
fai quello che devi fare. Avete poco tempo. –
Non
ebbi il coraggio di dire niente, di fare niente. Annuii e
mi diressi verso la porta con l’impressione di essere dentro
a una bolla. I
suoni erano ovattati, il tempo sembrava dilatato. Poco prima di uscire
mi girai
verso di lui. Feci per aprire la bocca, per parlare, scusarmi, chiarire
ogni
cosa, ma non me ne diede tempo. Si girò, dandomi le spalle e
tornando a
guardare fuori dalla finestra, perso nei suoi pensieri. Io uscii e mi
chiusi la
porta alle spalle.
Non
gli parlai, non gli spiegai, non gli rivelai quello che
pensavo, non cercai in alcun modo di risolvere quella situazione. Mi
comportai
da vigliacco perché avevo paura dei miei sentimenti e lo
lasciai andare via da
me.
Me
ne pento ancora oggi.
***
Uscito
da
quella stanza maledetta mi stupii di trovare un sole pallido dicembrino
brillare sulle nostre teste. Avevo perso la cognizione del tempo in
quella casa
ma non doveva essere passata nemmeno un’ora da quando ero
entrato. Respirai per
tirare giù il groppo che mi sentivo in gola. Nessuno mi
chiese niente e
apprezzai la loro delicatezza. Solo Camille mi si avvicinò
lieve,
abbracciandomi dolcemente. Feci un sospiro profondo, chiudendo gli
occhi e
stringendomi a lei.
Quando Camille si allontanò parlai: – Ha delle
lettere della Regina, le tiene
sua sorella. Abbiamo due ore di tempo per prenderle e scappare dalla
città, poi
chiamerà le guardie. –
– Le guardie? – mi domandò Mel, stupito.
Sembrava dispiaciuto per me.
Non avevo voglia di spiegare: – Sì. Dobbiamo fare
presto, la sorella vive nella
via dei mercanti, in pieno centro città. Non possiamo andare
tutti, daremmo
troppo nell’occhio. –
– Vado io – si offrì Marcus prontamente.
– No, vado io, – risposi con un sorriso tenue.
– Così questa storia finirà. Ci
troviamo fuori città tra un’ora e mezza, al Primo
Ponte sull’Ornale. Se volete
un consiglio dividetevi, che ognuno di voi esca da una porta diversa.
Così
dovremmo farcela. –
– Sei sicuro? – mi domandò Jared,
poggiandomi una mano sulla spalla.
– Sì, sono sicuro, – dissi con un
po’ più di sicurezza. – Andate, ci
vediamo
lì. –
Non aspettai la risposta e iniziai a camminare. Sapevo benissimo
dov’era la via
dei mercanti e sapevo che non ci avrei poi messo molto ad arrivarci.
Decisi di
prendere le vie più affollate che conoscessi, per non
sembrare troppo sospetto.
Più
mi allontanavo dalla zona malfamata di Elea più lo
scenario cambiava: le vie diventarono più grandi, lastricate
di eleganti pietre
grigie. Le case erano alte e imponenti, con fumo che usciva dai
comignoli. La
gente per le strade sembrava meno disperata e più
tranquilla, era più elegante
e in carne.
Pensai
in ogni istante del tragitto a San. Sentivo un dolore
sordo alla bocca dello stomaco, come se qualcuno mi avesse tirato un
pugno. Mi
costrinsi a ignorarlo e a respirare mentre rivedevo nella mente ogni
istante
passato con lui. Mi aveva fatto capire abbastanza chiaramente che non
ci
sarebbe più stato un futuro per noi.
Ringraziai
gli dei quando arrivai nella via dei mercanti,
finalmente avrei avuto qualcosa a cui pensare. Dovetti chiedere a un
passante
quale fosse la casa della famiglia Leroux, nome da sposata della
sorella di
San. Mi fu indicata una grande casa color ocra, con porte e finestre di
legno
pregiato. Dall’angolo della strada si poteva intravedere il
giardino su cui si
affacciava e da dove sentivo arrivare delle voci di bambini.
Andai
a bussare alla porta, che mi fu aperta da un domestico
vestito molto meglio di me. Dovetti insistere per entrare e nominare
San, ma
alla fine riuscii ad avere la meglio. Fui condotto in un lungo
corridoio e a
un’ampia sala ben arredata, con mobili in mogano e tendaggi e
stoffe pregiate.
Mi fu fatto gesto di accomodarmi su una delle sedie e di aspettare
lì.
Aspettai
silenziosamente guardandomi intorno, giocherellando
con l’anello che tenevo in tasca. Nel camino scoppiettava un
fuocherello
allegro, che scaldava l’atmosfera. San mi aveva raccontato
che la sorella,
Gaia, aveva sposato un mercante di sete che viaggiava molto, passando
gran
parte del suo tempo nei regni del sud. Distolsi il pensiero dal
Comandante e
continuai a guardarmi intorno, interrompendo la mia analisi silenziosa
solo
quando sentii dei passi avvicinarsi.
Gaia
fece il suo ingresso nella sala in cui mi trovavo
guardandomi seria. I suoi occhi neri erano uguali a quelli di San, ma
la bocca
aveva una linea più dolce, meno severa. I capelli castani
intrecciati le
cadevano su una spalle, circondando il viso allungato. Aveva
un’aria felice.
–
Non ho l’onore di conoscervi – mi disse, senza
traccia di
gentilezza nella voce.
–
No, mia signora. Sono un amico di vostro fratello, Lord San
– le risposi con un sorriso, inchinando leggermente la testa.
Lei
non si fece turbare: – Sono in molti a conoscere il
Comandante della Guardia della Regina ma non tutti sono suoi amici.
Come faccio
a sapere che voi lo siete davvero? –
–
Perdonatemi, avete ragione, – dissi, prendendo
l’anello
dalla tasca e porgendoglielo. – Questo dovrebbe dissipare i
vostri dubbi. –
La
donna si rigirò l’oggetto tra le dita, annuendo:
–
Decisamente. Bene, ditemi pure. –
–
Ho bisogno di alcune lettere che San vi ha dato anni fa.
Dovrebbero essere sigillate, pronte per essere spedite. –
–
Sì, me le ricordo. Strano che vi mandi a dirmi di darle
via. –
–
Eppure è così, mia signora. È una
questione di vita o di
morte. –
Si
vedeva che Gaia era restia, ma nonostante tutto si alzò.
Probabilmente aveva intuito quanto fossero pericolose quelle lettere e
quanto
fossero utili a San.
–
Chi avete detto di essere? – mi domandò
distrattamente
mentre imboccava il corridoio.
Capii
che la domanda era stata posta con noncuranza apposta.
Gaia doveva conoscere gli amici di suo fratello, almeno quelli
abbastanza
intimi da poterle fare una richiesta del genere. Sperai che San non
avesse
fatto come me, che avevo taciuto della sua esistenza persino ai miei
amici più
cari.
–
Non l’ho detto. Sono Andreas. –
Gaia
si girò completamente, guardandomi con attenzione. La
linea severa della bocca era stata sostituita con un sorriso:
– Sì, mi ha
parlato di voi. So chi siete. Aspettate, vado a prendere quelle
lettere. –
Sorrisi
a mia volta, provando una sorta di orgoglio a essere
stato riconosciuto. Orgoglio che sfumò ben presto al
pensiero di che cosa era
successo tra me e San.
Gaia
tornò dopo pochi minuti con in mano due lettere,
porgendomele.
–
Grazie, mia signora. –
Presi
in mano le due buste e le osservai: erano scarne,
bianche e senza sigillo. Sembravano lettere normali. Sarebbe stato
difficile
anche solo intuire che contenessero parole tanto pericolose.
Mi
inchinai e salutai, ringraziando ancora la padrona di
casa. Mi diressi verso la porta di casa ma poco prima che potessi
uscire Gaia
mi fermò.
–
Aspettate, – disse, quasi rincorrendomi. – Vi siete
dimenticato questo. –
Mi
prese la mano per depositarci dentro l’anello di San.
–
Sono sicura che non lo rivuole indietro. Se è riuscito a
separarsene vuol dire che siete davvero molto importante per lui.
–
Rimasi
senza parole a guardare l’onice che spiccava sul mio
palmo bianco, mentre Gaia ritornava verso casa.
***
Uscii
dalla città in fretta: sapevo che del tempo accordatomi
da San non ne rimaneva più granché. Non passai
dalle porte per evitare di
essere fermato, visto che le guardie avevano iniziato a controllare e
perquisire i passanti. Immaginai che la Corporazione avesse alla fine
deciso di
avvisare che alcuni Assassini erano accusati di diserzione, diramando
le nostre
descrizioni.
Passai dai tetti come mi era stato insegnato, uscendo dalla
città come avevo
sempre fatto con Marcus, Mel e Jared, sbucando in una delle stalle
appena fuori
da Elea. Mi diressi poi tranquillamente verso il Primo Ponte, non
troppo
distante da me.
Mezz’ora dopo ero arrivato e già da lontano potevo
scorgere la sagoma di Marcus
in attesa, affacciato sul fiume. Quando mi vide arrivare mi venne
incontro.
– Sono contento di vederti sano e salvo. Ci siamo preoccupati
quando abbiamo
visto le guardie controllare le porte, – disse sorridendo.
– Vieni,
allontaniamoci da qui. Gli altri sono poco distante. –
– Sì, non ho avuto problemi – risposi
seguendolo. Si diresse oltre il ponte per
poi curvare a sinistra e proseguire lontano dalla strada. Alle nostre
spalle
Elea si stagliava sul mare, circondata dai campi gialli e marroni. La
luce
stava già svanendo.
– Hai le lettere? – mi domandò.
Annuii pensando a quanto mi fosse costato. Chissà
dov’era San in quel momento,
a cosa stava pensando. Mi rigirai l’anello d’onice
che avevo messo all’anulare,
contento che Gaia me l’avesse lasciato. Almeno mi era rimasto
qualcosa.
Raggiungemmo in fretta gli altri che appena mi videro saltarono in
piedi. Alle
loro spalle c’era un grande albero scuro, con i rami puntati
al cielo come
tante dita.
– Allora? – mi venne incontro Jared che non stava
più nella pelle.
– Ho tutto – dissi, prendendo le lettere dalla
tasca del mantello. Le porsi a
Jared che si stava evidentemente trattenendo dallo strapparmele di mano.
Le aprì distruggendo le buste, estraendo veloce la carta.
Poi si schiarì la voce mentre dispiegava la prima:
– Quello che devi fare è
molto semplice, Lamier, – si interruppe,
guardandomi. – Chi è Lamier? –
– È il cognome di San, – gli spiegai,
frettoloso. La curiosità stava prendendo
il sopravvento. – Va’ avanti! –
Jared annuì mentre riprendeva a leggere: – Quello
che devi fare è molto
semplice, Lamier. Andrai a Dimina in incognito, per nave. Non dovrai
far sapere
a nessuno che ti mando io, mantieni il segreto. Al porto di Melusine ci
sarà un
delegato ad aspettarti, sarà in una carrozza chiusa davanti
alla banchina. Ti
porterà da Lord Lacey. A palazzo mostrerai alla Lunga Mano
la seconda lettera
che ti darò. Organizza ogni cosa come ti ho detto:
l’incidente in mare,
l’ammutinamento, le ricompense con posizioni
nell’esercito diminiano e la
cessione a Dimina dei terreni costieri di Albis. Fai attenzione, non
bisognerà
in alcun modo risalire a me e a mio marito. Sono una donna di parola,
Lamier:
se io affondo, tu affonderai con me; se mi sarai leale avrai tutto
ciò che hai
sempre desiderato. Celia Moreau. –
– Riconosco il tono amorevole di mia madre –
commentò Camille, con ironia.
Non era molto. Avevo davvero distrutto la mia unica relazione per
quello?
Sentii la delusione farsi strada dentro di me, insieme alla rabbia. Poi
pensai
che San non era uomo da lasciare nulla al caso: se aveva deciso di
conservare
quella lettera c’era un motivo.
Jared intanto guardava la seconda lettera preoccupato: –
Spero che qui ci sia
qualcosa di meglio. –
– Lo sapremo quando la leggeremo, – lo
spronò Marcus, prendendogliela di mano.
Fu il suo turno di schiarirsi la voce: – Lord
William Lacey, le mando la
presente con un uomo fidato. È tempo di prendere delle
decisioni per rendere
realtà ciò che io e sua grazia, re Alexander
Auremore, abbiamo lungamente
sognato: la gloria delle nostre casate sopra ogni altra. Sono
però preoccupata
dal fratello di mio marito, il Principe Adrien: non credo sia
dell’opinione mia
e del vostro sovrano. Quando sarà Re renderà vano
ogni nostro sforzo. So che
tra poco verrà a Dimina per un incontro con sua grazia,
insieme ai suoi due
figli. Non oso pensare cosa sarebbe di Viride se qualcosa capitasse
loro
durante la traversata. Si sa che il mare è pieno di insidie
e pericoloso.
Parlando d’altro credo che, in cambio dei vostri accurati e
servigi, sarò più
che mai lieta di concedere a Dimina ciò di cui ho
più volte parlato con il
vostro sovrano e con voi. Spero che, nonostante la confusione, siate
riuscito a
cogliere il senso delle mie parole. Mi affido alle vostre abili mani.
Celia
Moreau. –
Respirai. C’era tutto in quelle lettere, si spiegava ogni
cosa. Da sole non
erano sufficienti per poter incriminare nessuno, ma insieme…
insieme erano come
una lama nel buio: letali e imprevedibili. San ci aveva consegnato la
Regina su
un piatto d’argento. Poi pensai che, consegnandomi quelle
carte, mi aveva
consegnato anche se stesso: c’era il suo nome su quei fogli,
chiaro e preciso.
Era implicato tanto quanto la Regina. Sarebbe davvero affondato con
Celia
Moreau. Se avessimo continuato nel nostro piano, sarebbe morto.
Mi dovetti sedere, sentivo il cuore rimbombarmi nelle orecchie. Come
avevo
fatto a non capirlo prima? Come avevo fatto a credere che San non
avesse mai
smascherato la Regina solo per il proprio tornaconto personale? La
verità era
che era ingabbiato, irrimediabilmente. Aveva messo la sua vita nelle
mani di
quella donna per un errore di gioventù e la speranza in una
vita migliore. Era
intrappolato.
Aveva firmato la sua condanna a morte.
E
io sarei stato il boia.
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Capitolo 14 *** XIV ***
CAPITOLO XIV
CAMILLE
Avevamo scoperto quello che ci
serviva su mia madre, ma la nostra situazione era tutto tranne che
facile.
Eravamo ancora fermi poco lontano dal Primo Ponte e, mentre Marcus, Mel
e Jared
guardavano le lettere che avevano tra le mani come se avessero trovato
un
tesoro, io guardavo Andreas e riflettevo. Il mio amico era annientato,
seduto
con lo sguardo fisso nel vuoto. Si doveva essere reso conto di quanto
quei
fogli compromettessero San.
Strappai
le lettere dalle mani di Marcus, rileggendole rapidamente mentre mi
lasciavo
cadere sul suolo gelato. Avevamo in pugno Celia e avevamo le prove
della sua
colpevolezza. Ero quasi incredula, mi aspettavo che quei fogli
potessero
sparire per magia dalle mie mani. Non potevamo però
presentarci a Palazzo come
se nulla fosse, sventolando le lettere e urlando ai quattro venti le
nostre
scoperte: nessuno ci avrebbe creduto. Avevamo bisogno di stabilire il
prossimo
passo, in fretta.
–
Ragazzi… – mormorai a voce bassa. Nessuno mi
sentì visto che i tre Assassini
continuavano a parlare tra loro, entusiasti della loro scoperta.
Mi
schiarii la voce e riprovai: – Ragazzi, calmatevi un attimo.
–
Marcus
mi guardò infervorato: – Perché? Non
abbiamo tutto quello che ci serviva? –
–
Non so, – rispose Andreas acido, dando voce ai miei pensieri.
– Pretendi di
entrare a Palazzo Reale e sederti sul trono così, solo con
quelle lettere? –
–
Ovviamente no, per chi mi hai preso? Però devi riconoscere
anche tu che
rispetto a quello che avevamo prima è un bel passo avanti
– rispose Marcus.
Nonostante le parole dure il
risultato fu un rimbrotto bonario, fatto senza cattiveria.
– Cosa proponi? – domandò
Jared guardando l’amico seduto per terra.
Andreas per tutta risposta si
girò verso di me: – Hai idee? Io non ho voglia di
pensarci. –
Annuii in silenzio. Potevo più
o meno immaginare cosa stesse girando nella testa
dell’Assassino in quel
momento, di sicuro i suoi pensieri non ruotavano tutti attorno a me.
– Non è così facile, –
mormorai, cercando di fare chiarezza nella mia testa. – La
politica di Viride è
più complessa di come potrebbe apparire. Per non parlare del
fatto che la
Regina ha un esercito pronto alla guerra, mentre noi siamo cinque. In
questo momento,
anche se avessimo tutte le prove del mondo, non abbiamo speranze.
–
– Va bene, – mi rispose Mel
sedendosi di fronte a me. – Parlaci di come funziona Viride.
Qualcosa sappiamo,
ma di sicuro sei più informata di noi. –
– Sapete quanto me che c’è il
Re a governare, aiutato dal Consiglio dei Trenta. Questo gruppo di
nobili può
proporre leggi o linee d’azione al sovrano, a cui comunque
rimane il potere di
rifiutare o accettare le proposte. Chiunque voglia domandare o proporre
qualcosa al Re deve farlo tramite un membro del Consiglio che appoggi
la sua
richiesta, altrimenti la proposta non viene presa neanche in
considerazione. Se
tutti i trenta nobili si mettono d’accordo -cosa che, vi
assicuro, è un
fenomeno più unico che raro- allora hanno il potere di
costringere il sovrano
ad accettare la loro decisione, possono obbligarlo persino ad abdicare
in
favore di un altro membro della famiglia reale. –
– Sì, mi ricordavo qualcosa
del genere dalle lezioni alla Confraternita, –
borbottò Marcus. – Ma tanto
tutti i consiglieri saranno sul libro paga della Regina. –
Feci una risatina amara: – Non
è una novità del momento, fidati. Per assicurarsi
di poter governare, ogni
sovrano di Viride ha sempre pagato il Consiglio. –
– Bella roba, – sbottò Mel. –
Siamo governati da un branco di corrotti. –
Annuii: – È il prezzo da
pagare per poter amministrare il regno, altrimenti ci sarebbe un
succedersi
continuo di sovrani incapaci di fare alcunché. Questo
però ci porta al nostro
principale problema: come fare a schierare il Consiglio dei Trenta, per
intero,
dalla nostra parte? –
– Conosci qualche consigliere?
– mi domandò Marcus.
– Uno o due sì, e
sufficientemente bene da potermi azzardare a contattarli per un
colloquio
privato. Ma non mi fiderei mai di loro, per nessuno motivo. Si tratta
comunque
di una goccia nel mare: potrebbero sì sostenere e presentare
la mia richiesta
al Consiglio, ma da soli non basterebbero per farmi salire al trono.
–
– Abbiamo le lettere però, –
mi bloccò Jared. – Serviranno pur a qualcosa.
–
Marcus sembrò illuminarsi: –
Le lettere! – esclamò girandosi verso di me.
– Dammele un attimo. –
Gli porsi i fogli che ancora
erano stretti nelle mie mani, guardandolo per un secondo mentre muoveva
rapido
gli occhi sulle righe scritte da San.
Riportai la mia attenzione su
Jared: – Sì, immagino di sì. Sono
sicura che molti nobili del Consiglio
sarebbero sinceramente sconvolti dall’apprendere la
verità sulla morte del
principe Adrien. Sono anche sicura, però, che alcuni sono a
conoscenza del
piano della Regina: Lord Arand ha cercato di uccidermi, anni fa. Non mi
sembra
il tipo da farsi turbare dall’omicidio di un membro della
famiglia reale. –
– In effetti… –
– Abbiamo bisogno di aiuto in
tutto questo, – concluse Andreas per me. – Noi
cinque non possiamo bastare. –
Rimanemmo
in silenzio per qualche secondo, meditando su quello che avevamo detto
in quei
pochi minuti. Dovevamo capire quale potesse essere la prossima mossa.
Mi
sarebbe immensamente piaciuto poter entrare a Elea e, forte del potere
delle
lettere, tirare giù a viva forza mia madre dal trono,
salvare la mia famiglia e
donare al regno un po’ di pace. Purtroppo la questione non
era così semplice.
Fu
Marcus a rompere il silenzio: – Che ne dite di un esercito?
–
–
Ne avevi uno con te e ce l’hai tenuto nascosto? –
lo prese in giro Jared. –
Complimenti, bell’amico. –
Marcus
semplicemente lo ignorò: – Non abbiamo pensato al
fatto che la guerra che si
sta preparando si scatenerà contro i Regni del Sud. Immagino
che non sarebbero
contenti di sapere che Dimina e Viride si sono alleate tra loro alle
loro
spalle. –
–
Immagino di no, – commentai lieve, con un ghigno che
affiorava leggero sul mio
viso. – Cosa proponi? –
–
Propongo di andare a Sud e farci ricevere dai sovrani di quelle terre.
Se
riusciamo a convincerli che abbiamo ragione, che ciò che
diciamo è vero, allora
sarà nel loro interesse aiutarci. –
–
Il nemico del mio nemico è mio amico –
mormorò Jared.
–
Qualcosa del genere – sogghignò Marcus.
Poteva
funzionare. Con l’esercito del sud avrei potuto davvero
costringere mia madre
ad abdicare e a lasciare il trono. Forse non eravamo poi
così senza speranza
come avevo pensato, forse in fondo una possibilità
c’era.
–
Io inizierei da Albis, – stava continuando Marcus.
– È l’unico tra i Paesi del
Sud che viene espressamente citato nelle lettere di San. Una volta
convinta la
Regina, allora potrà intercedere lei presso Cesia e Semele.
–
–
Non si dice poi granché sulla guerra in quelle carte,
però – commentò Andreas,
un po’ più interessato.
–
No, è vero. Ma questo, – rispose Marcus indicando
la ceralacca blu con il
simbolo del cigno. – È il sigillo della Regina. Si
parla di re Alexander
Auremore, di una ricompensa, di territori di Albis. Ce
n’è abbastanza da far
preoccupare, direi. –
–
Dobbiamo riuscire a farci ricevere a corte ad Albis. Da lì
poi sarà tutto in
discesa, – commentò Mel. – Non
sarà così facile. –
–
Beh, – mi intromisi, lieta di poter essere d’aiuto.
– Sono la Principessa di
Viride. Varrà pur qualcosa. –
Marcus
mi sorrise: – In effetti credo di sì. –
–
Bene, – dissi, rivolta verso l’Assassino.
– Sembra che riuscirai a esaudire il
tuo desiderio: visiterai Egalia, la Regina del Deserto. –
***
Cavalcammo
di notte, in mezzo alle campagne gelate e tra foreste nere, cercando di
evitare
le strade. Aspettammo distanti dal Primo Ponte, tenendolo
d’occhio da lontano:
un’ora dopo che Andreas ci aveva raggiunto, un gruppo di
soldati a cavallo
passò di gran carriera sulla strada. A quanto pareva, Lord
San ci aveva davvero
denunciato alla guarnigione.
Partimmo
di notte, avvolti nei mantelli, allontanandoci dalla strada portando i
cavalli
a mano. Faceva un freddo incredibile, il nostro fiato si congelava
davanti ai
nostri visi. Ero tutta avvolta nel mantello, cercando di trattenere
più calore
possibile. Quando arrivammo in aperta campagna montammo in sella e
galoppammo per
ore, con poche pause per far riposare le nostre cavalcature e stendere
i
muscoli. Ci fermammo solo all’alba, nascosti, facendo dei
turni di guardia.
Viaggiammo
a lungo. Non pensavo che il confine potesse essere così
lontano, anche se sapevo
benissimo che Elea si trovava a nord del regno di Viride. Per tre notti
cavalcammo verso sud-ovest, veloci e silenziosi, evitando strade e
sentieri.
Immaginai che se ci fossimo mossi sulla Strada Reale avremmo impiegato
molto
meno tempo per raggiungere Albis, ma malauguratamente ogni soldato di
Viride
era stato messo in allarme e ci cercava.
Il
quarto giorno di viaggio, mentre stavamo riposando nascosti in una
macchia
d’alberi, alcuni uomini con le divise della guarnigione di
Elea si fermarono
poco distanti da noi. Jared, che in quel momento era di guardia, ci
svegliò
silenziosamente. Dopo qualche istante i nostri avversari erano morti
per terra
mentre noi stavamo cavalcando verso a sud, vestiti di tutto punto con
le loro
armature.
Il
confine si presentò davanti a noi al sesto giorno, poche ore
prima del sorgere
del sole. Il panorama attorno a noi era cambiato rispetto a quello che
si
poteva osservare a Elea: gli alti alberi scuri e imponenti tipici del
nord di
Viride avevano lasciato il posto a una vegetazione più bassa
e contorta,
segnata dal vento che batteva quelle zone. Il terreno da nero e marrone
era
diventato ocra e grigio, e l’argilla del suolo formava
pantani dove quella poca
neve che era caduta aveva iniziato a sciogliersi.
Da
ormai un secolo esisteva il Patto, un grande trattato di non
belligeranza che
coinvolgeva i Cinque Regni, quindi non mi stupii di non trovare guardie
sul
confine. Poco distanti da noi si ergeva ancora una delle grandi torri
di
guardia che un tempo venivano utilizzate per la sorveglianza, ma che
ormai
erano completamente in disuso e abbandonate.
Continuammo
a viaggiare nei territori di Albis diretti verso Arcis, cittadina di
passaggio
al limitare del deserto, nel mezzo del quale si trovava Egalia. Ancora
il
panorama cambiò e ci sembrò di esserci lasciati
definitivamente alle spalle
l’inverno che imperversava su Dimina e Viride. I colori
predominanti erano
diventati il rosso, l’ocra, l’arancione e il
giallo, intervallati solo raramente
da qualche chiazza di verde.
Arcis
era una città piccola, che aveva acquistato importanza
perché era l’ultima
tappa prima di penetrare nel grande deserto. Lì cedemmo i
nostri cavalli con
alcuni più abituatu al clima del deserto e comprammo acqua,
viveri e vestiti
più leggeri per sostituire i nostri di lana.
All’alba
del dodicesimo giorno dalla nostra partenza da Elea stavamo entrando
nel Grande
Deserto, seguendo la carovana di gente diretta verso la capitale.
Egalia
distava altri tre giorni da Arcis e le nostre soste erano programmate.
Tra le
due città c’erano alcune oasi, tappa obbligata per
dissetare i nostri cavalli e
rifornirci d’acqua.
Marcus
si guardava attorno con gli occhi spalancati come quelli dei bambini.
Osservava
la sabbia, le dune gialle, il cielo azzurro come se potesse non
stufarsi mai di
quel panorama. In più si vedeva che si stava godendo il
caldo, a differenza mia
che boccheggiavo come un pesce fuor d’acqua. Durante il
tragitto fino ad Arcis il
sole mi aveva già ustionato la pelle, rendendola rossa e
facendomi spuntare un
esercito di lentiggini.
–
Potrei vivere qui per sempre – stava giusto dicendo
l’Assassino a Jared,
coperto dalla testa ai piedi di tessuto leggero. Anche lui, come me,
pativa il
sole.
–
Io no, – commentò questo, scocciato. –
Non pensavo di poterlo dire, ma mi manca
l’inverno di Elea. Come faranno qui d’estate?
–
Un
uomo di Albis, che procedeva su un dromedario bianco e altissimo, rise
alle parole
di Jared: – Oggi non è particolarmente caldo,
– disse nella nostra lingua, con
forte accento. – L’estate è molto
peggio, ci sono stati anni in cui anche solo
pensare di arrivare da Arcis a Egalia passando dal deserto era
impossibile,
rendendo la capitale tagliata fuori dal resto del regno. Ma appena
cadrà la
notte vedrete che la temperatura si abbasserà, e anche di
molto. –
Marcus
ammiccò a Jared: – Ritieniti fortunato allora.
–
L’Assassino
sbuffò, tornando a guardare davanti a sé.
Mi
presi qualche istante per osservare meglio l’uomo che
marciava di fianco a noi.
Sedeva a gambe incrociate sulla gobba della sua cavalcatura, tenendo
mollemente
in mano le redini. Era coperto di vestiti azzurri che esaltavano lo
scuro della
sua carnagione, mentre in testa aveva un turbante rossastro. Si
guardava
intorno rilassato e ogni tanto una mano saliva ad attorcigliarsi la
barba nera,
che gli circondava il volto.
–
Avete fatto questa strada molte volte? – gli domandai,
incuriosita. Erano in
molti a fare il percorso con noi fino a Egalia, ma nessuno sembrava
tranquillo
quanto l’uomo vicino a noi.
–
Molte volte, sì, – mi rispose quello, sorridendo.
Aveva una bella voce
profonda. – Ho molti amici e affari da mantenere, a Egalia.
In più è una
bellissima città. Voi l’avete mai visitata?
–
–
Mai, è la prima volta. –
–
Rimarrete stupiti. Non ho mai visto, in nessun regno, qualcosa che
possa
reggere il confronto. E dire che ho viaggiato tanto! –
–
Non vedo l’ora – mormorò Marcus di
fianco a me, guardando verso il deserto con
un sorriso sulle labbra.
***
Entrammo
a Egalia dopo tre giorni nel deserto e devo ammettere che
quell’uomo aveva
ragione: non avevo mai visto niente di simile. La capitale di Albis era
costruita in pietra bianca, splendente e feroce sotto la luce del sole.
Le case
erano basse, le strade piccole e tortuose e la città si
avviluppava su alcuni
rilievi montuosi. La sabbia per terra cedette il posto a pietre rosate
e
candide, tagliate rozzamente.
Egalia
sorgeva su una falda acquifera imponente, che permetteva la
sopravvivenza della
città. In ogni angolo c’erano fontane di vetro,
con l’acqua che zampillava
allegra da statue e monumenti. Piante verdi e rigogliose si
avviluppavano sulle
pareti delle case, puntando verso il cielo e contornandone gli infissi
colorati.
Le
strade erano in salita, si attorcigliavano sui fianchi delle montagne.
Ovunque
si vedevano uomini e donne che camminavano indaffarati, vestiti con
abiti
colorati e turbanti. Alcuni erano a cavallo, altri portavano a mano
cammelli e
dromedari.
–
Andiamo direttamente verso il Palazzo? – domandai ad Andreas,
accanto a me. Mi
sembrava più tranquillo rispetto a quando avevamo iniziato
il nostro viaggio,
anche se continuava a essere piuttosto taciturno. Avrei tanto voluto
poterlo
aiutare.
Andreas
non mi sentì immerso com’era nei suoi pensieri,
continuando a guardare tra le
orecchie del suo cavallo.
Abbassai
la voce: – Andreas, è facilmente intuibile quello
che ti turba. Posso fare
qualcosa? –
Per
la prima volta Andreas mi guardò negli occhi e il riflesso
del sole rendeva
ancora più chiare le sue iridi color dell’ambra:
– Forse sì. Camille, mi
prometteresti una cosa? –
–
Quello che vuoi. –
–
Se riuscirai a prenderti il trono, non vendicarti di San. Esilialo se
devi, ma
non ucciderlo. –
–
Non morirà per ordine mio, te lo prometto –
risposi, sorridendo. Se quella era
l’unica richiesta di Andreas l’avrei soddisfatta
con piacere: in cambio di
tutto quello che lui aveva fatto e continuava a fare per me, era ben
poca cosa.
–
Grazie, Camille. –
–
Figurati, – ero felice di poterlo aiutare in qualche modo.
– E Andreas… – lo
richiamai, mentre si stava già allontanando da me.
–
Dimmi. –
–
San ti ama. Non è qualcosa che possa scomparire in un
istante. –
Andreas
fece una smorfia triste, poi andò ad affiancarsi a Mel, che
cavalcava in testa
al nostro piccolo gruppo.
Rallentai
il mio cavallo fino a raggiungere Marcus, che continuava a muovere la
testa a
destra e sinistra talmente velocemente che pensai che gli si potesse
staccare
dal collo. Jared, di fianco a lui, non era da meno.
–
Ma allora anche a te piace questa città, Jared! –
esultai, facendolo
sobbalzare.
Jared
si produsse in un borbottio sommesso: – Sì, certo,
certo. Cosa pensavi? –
Notai
che era arrossito leggermente. Guardai Marcus con aria interrogativa e
l’Assassino, ridacchiando, mi indicò la gente che
camminava sulla strada: –
Jared stava, come dire, apprezzando le bellezze locali. –
–
Ah – ridacchiai, guardandomi in giro. In effetti, le donne di
Albis erano
bellissime. La pelle scura era coperta da tessuti leggerissimi e
sottili,
colorati e sgargianti. I capi erano coperti da scialli chiari,
ingioiellati e
ricamati. Erano quasi tutte alte, slanciate, e camminavano tranquille
da sole o
con i loro compagni.
–
Comunque, andiamo diretti a Palazzo Reale o ci fermiamo da qualche
parte prima?
– domandai di nuovo a Marcus, visto che prima ero stata
ignorata da Andreas.
–
Direi di fermarci da qualche parte e aspettare domani. Oggi
è tardi, abbiamo
viaggiato per giorni. Mi sembra che ci meritiamo un po’ di
riposo. –
Annuii,
poi Marcus si portò due dita alla bocca e fischiò.
–
Ma sei deficiente? – esplose Jared di fianco a lui,
portandosi una mano
all’orecchio. Marcus ci aveva assordati, ma la sua manovra
aveva funzionato:
Andreas e Mel, davanti a noi di una decina di metri, si erano fermati.
–
Bene, – esordii, fermando il cavallo. –
C’è bisogno che troviamo un posto dove
dormire e riposarci, in vista di domani. –
–
Mi sembra un’ottima idea, – rispose Mel, stirandosi
la schiena. – Non vedo
l’ora di sgranchirmi un po’ le gambe e mangiare
qualcosa che non sia cosparso
di sabbia. –
–
Allora bando alle ciance e mettiamoci in marcia –
continuò Jared, dirigendo il
suo cavallo in una viuzza laterale, tagliando la folla.
***
La
mattina dopo mi svegliai attorcigliata dentro alle lenzuola, ma tutto
sommato
riposata. Ad Albis le donne godevano di molta più
considerazione che negli
altri paesi, quindi non avevamo avuto difficoltà a trovare
una locanda che
avesse una camerata femminile, dove avevo potuto prendere un letto.
C’era stato
andirivieni per tutta la notte ma, vista la mia stanchezza, questo non
mi aveva
impedito di dormire.
Uscii
dalla stanza e mi ritrovai davanti i quattro gli Assassini vestiti di
tutto
punto e, almeno a prima vista, freschi e riposati come delle rose.
–
‘Giorno Camille. Dormito bene? – mi accolse Jared,
i cui capelli argentei
sembravano ancora più chiari contro la tunica blu.
–
Perfettamente. E voi? Vi vedo riposati. –
–
Abbastanza, sì, – mi rispose Mel, laconico come
sempre. – Andiamo? –
Annuii
e uscimmo dalla locanda. Questa era più che altro un
dormitorio di passaggio,
utilizzato dai viaggiatori che non volevano o non potevano permettersi
un
domicilio più comodo. Noi, dal canto nostro, sapevamo
benissimo che, se non
avessimo convinto la Regina di Albis a schierarsi dalla nostra parte,
avremmo
dovuto muoverci negli altri Paesi del Sud per cercare aiuto. La nostra
non era
una situazione facile: Albis era il regno che più facilmente
avrebbe accettato
le nostre richieste. Se ci avesse rifiutato molto probabilmente lo
avrebbero
fatto anche Cesia e Semele e noi avremmo dovuto inventarci
qualcos’altro.
–
Cosa dobbiamo aspettarci oggi? – domandò Jared,
guardando Mel. L’Assassino
biondo era flemmatico come al solito, camminando rilassato per le
strade di
Albis mentre ci dirigevamo verso il Palazzo Reale.
–
Albis è governata dalla dinastia degli Elvere, che sono al
trono da più di
duecento anni. A differenza degli altri regni, il trono passa di madre
in
figlia. La Regina oggi terrà corte e, se siamo fortunati, ci
verrà data
l’opportunità di presentare la nostra richiesta.
Altrimenti dovremo tornare. –
–
Chi parlerà tra noi? –
–
Io direi Camille, – si introdusse Andreas. –
È lei quella che sta chiedendo
aiuto, ed è sempre lei la Principessa di Viride. Dovrebbe
venire trattata da
pari. –
–
Sempre se mi riconosce – borbottai. Quella era la mia
più grande paura: che la
Regina decidesse che ero solo un’impostora, desiderosa di
seminare zizzania tra
i regni per impadronirmi del trono. Mi ricordavo di averla vista una
volta a
corte, a Viride, molto tempo fa, ma non era detto che si ricordasse di
una
bimbetta che sgambettava serena vicino al Re. In più poteva
decidere di non
credermi, di imprigionarmi, di rimandarmi da mia madre… gli
scenari possibili
erano molteplici. Sentii l’ansia, che fino a quel momento ero
riuscita a tenere
sotto controllo, invadermi lo stomaco.
–
Cosa sai della Regina, Camille? – mi domandò
Marcus, sommesso.
–
Non molto a dir la verità. So che Vanessa Elvere
è una sovrana giusta e molto
amata. Governa ormai da quindici anni, è salita al trono
quando ne aveva venti
e, nonostante i pronostici, è riuscita sia a farsi
apprezzare dai sostenitori
che a farsi temere dai suoi nemici. La chiamano il Cigno Nero per la
sua
bellezza, che è famosa in tutto il mondo. –
–
È sposata? – mi chiese Andreas, incuriosito. Un
sistema di governo come quello
di Albis era in effetti inusuale per noi viridiani.
Prima
che potessi rispondere, Mel mi precedette: – Sì, e
ha tre figli. Ma non è il
marito che dobbiamo cercare di convincere. –
–
No, direi di no, – commentai. – È solo
lei che decide. –
Continuando
a parlare della regina Vanessa arrivammo fino all’ingresso
del Palazzo Reale di
Albis: più o meno a metà di una lunga e tortuosa
scalinata che si attorcigliava
su per la montagna, si stagliava un ampio arco di pietra bianca. Due
enormi
leoni scavati nella pietra sorvegliavano il passaggio, con le fauci
spalancate
e i denti in mostra.
–
Discreti… – borbottò a mezza voce Jared
passando tra le statue.
–
Si dice che i leoni siano capaci di percepire le emozioni e le idee.
Secondo la
leggenda se qualcuno che vuole far del male alla Regina e alla sua
famiglia
passa la porta verrà sbranato dalle belve di pietra
– Mel aveva lo sguardo
fisso davanti a sé mentre parlava, concentrato sui gradini.
–
Qualcosa mi dice che non è mai successo –
commentò Marcus.
–
No, mai, – mi introdussi, approfittandone per fermarmi e
prendere fiato. Quei gradini
mi stavano distruggendo. – Però è il
motivo per cui le guardie del Palazzo sono
chiamate Fiere. –
Marcus
si girò porgendomi la mano: – Dai Camille,
arriviamo fino in cima. –
Sospirai
e mi affiancai a Marcus, ignorando il suo braccio teso verso di me.
Finsi di
non sentire il suo sguardo puntato sulla mia schiena mentre lo
superavo.
Cercare di mantenere la decisione che avevo preso giorni prima a Viride
diventava di momento in momento più difficile. Erano sempre
più le volte in cui
mi sorprendevo a fissare Marcus, lasciando correre i pensieri. Anche in
quel
momento avrei dato qualsiasi cosa per potergli dire quello che provavo.
Scossi
la testa scacciando quell’idea, affrontando a testa bassa i
gradini.
La
scalinata sembrava non finire mai. Mi tirai su i capelli in una
crocchia
disordinata, sciogliendo la treccia e dando un po’ di respiro
alla mia nuca.
Sotto di noi la città si avvolgeva come un grosso serpente
bianco e
addormentato, era quasi impossibile guardarla senza rimanere accecati.
Dopo
altre innumerevoli rampe di scale davanti a noi comparì un
alto portone, in
legno nero, spalancato. Ai due lati due guardie, alte, impettite e
immobili,
puntavano le loro lance verso il cielo. I loro elmi ricordavano la
criniera di
un leone e i loro vestiti erano color dell’oro.
L’enorme
sala in cui ci trovavamo era fresca, in leggera penombra. Le ampie
finestre
erano coperte con drappeggi di tessuti chiari, che lasciavano entrare
poca
luce. Il pavimento era di legno pregiato, con tasselli di madreperla e
di
avorio. Le pareti erano ricoperte di mattonelle piccole e chiare, che
componevano disegni e raccontavano la storia del paese.
Ero
a bocca aperta: il Palazzo di Elea è sempre stato bellissimo
per me, ma quello…
era quanto di più bello avessi mai visto.
–
Non ho mai visto niente di simile – Andreas stava rimirando
l’ingresso del
palazzo con occhi spalancati. Si avvicinò a una delle
pareti, percorrendo con
un dito le mattonelle e seguendone i contorni.
Alla
fine della sala c’era un’altra porta, chiusa. Era
di legno scuro, a riquadri
incisi. Due guardie urlarono qualcosa nella lingua di Albis, poi la
spalancarono, facendo passare tutti coloro che chiedevano udienza alla
Regina.
Nella
sala del trono ogni cosa era splendente. Era una stanza quadrata,
vastissima,
illuminata dalla luce che passava dalle finestre che qui non erano
coperte e
non avevano i vetri. Su un lato si stagliavano delle colonne che
reggevano il
soffitto alto, permettendo ai visitatori il passaggio attraverso un
giardino
verde e rigoglioso. I pavimenti erano di mattonelle chiarissime, con
dei
complicati disegni geometrici ocra e celesti. Le pareti, il soffitto,
erano
bianchi accecanti e ricoperti di incisioni, come se qualcuno le avesse
ricamate
piuttosto che scolpite. Contro la parete rivolta a est c’era
una pedana con
sopra due troni alti e scolpiti in blocchi di granito.
La
regina Vanessa Elvere sedeva sullo scranno di destra, regale e
magnifica nel
suo abito arancione. La sua pelle scura, quasi nera e senza
imperfezioni, era
messa in risalto dal candore della sala. Aveva le braccia poggiate
elegantemente sui braccioli e sulla testa brillava una corona
d’oro giallo. Gli
occhi neri zigzagavano sulla folla che c’era nella sala,
osservando ogni
dettaglio. Il marito, re Julian Odisse, le era seduto di fianco. Era
altrettanto regale, anche se il suo viso era meno tirato di quello
della
Regina, meno preoccupato. Aveva un’aria gentile,
così strana da vedere sul
volto di un sovrano. Dietro di loro c’erano le Fiere, che
sorvegliavano ogni
cosa scrutando la folla dalle fessure degli elmi.
Una
donna era in piedi di fianco alla sovrana, leggermente scostata e con
le mani
intrecciate dietro la schiena.
Marcus
mi si avvicinò, mormorandomi all’orecchio:
– Lei è la Prima, l’aiutante della
Regina. La supporta nel governo del regno, è praticamente un
Lord Lacey in
gonnella. –
Repressi
una smorfia al pensiero della Lunga Mano di Dimina. Chissà
se avevano trovato
il suo corpo.
Poi
la donna si mise a parlare nella lingua musicale di Albis, iniziando i
colloqui
e distraendomi dai miei pensieri. L’ansia che sembrava
essersi ritirata per
qualche attimo mi riprese prepotente lo stomaco: da un lato non vedevo
l’ora di
finire quell’agonia e parlare con la Regina, capendo
finalmente che cosa avrei
dovuto fare; dall’altra, speravo di venire rimandata indietro
con la richiesta
di tornare un altro giorno.
–
Tu capisci quello che dicono? – domandai
all’Assassino di fianco a me, quasi
sussurrandogli all’orecchio per paura di disturbare. Il suo
profumo mi colpì le
narici: nonostante il caldo aveva un buon odore.
–
Sì, abbastanza da capire che staremo qui per molto
– Marcus guardava accigliato
la pedana su cui si ergevano i troni.
Aveva
ragione. Aspettammo per ore, osservando la Regina giudicare, prendere
alcune
decisioni e rimandarne altre. Se era estenuante per noi, non osavo
immaginare
cosa potesse essere per la sovrana, seduta al caldo senza potersi
alzare per
tutto quel tempo. Alcuni servi le portarono acqua e frutta, per
permetterle di
sfamarsi e dissetarsi mentre la folla nella sala del trono diminuiva
lentamente.
Stavo
iniziando a rilassarmi al pensiero che saremmo dovuti tornare un altro
giorno
quando la Prima mi chiamò.
Non
capii quello che mi disse, ma ebbi abbastanza prontezza per farmi
avanti nello
spiazzo che si era creato tra la gente, incedendo con passo tranquillo.
Davanti
a me la Regina mi guardava annoiata. Mi fu mormorato qualcosa che non
compresi,
mentre attorno a me alcuni mormorii scuotevano la folla. A differenza
di tutti
quelli che mi avevano preceduta non mi ero inginocchiata.
La
Prima allora mi parlò nella mia lingua: – Porta
rispetto e inginocchiati
davanti alla regina Vanessa e a re Julian! –
–
Rispetto la vostra sovrana e ciò che rappresenta, ma non mi
inginocchierò. –
Vidi
la bocca della Prima fremere per la rabbia, mentre latrava alcuni
secchi ordini
alle guardie dietro di lei. Una delle Fiere si mosse in avanti, con la
lancia
in pugno. La guardai con quello che speravo essere uno sguardo
sprezzante
mentre si avvicinava, ma in verità ero terrorizzata. Avrebbe
potuto uccidermi
per quella insolenza? Sentii una distinta goccia di sudore farsi strada
sulla
mia schiena.
La
guardia arrivò di fianco a me e alzò la lancia.
Rimasi immobile senza
guardarla, gli occhi fissi sul volto della Regina che aveva iniziato ad
osservarmi con curiosità. Poco prima che la Fiera calasse la
sua arma su di me,
Vanessa Elvere mormorò qualche parola. Non riuscii a
trattenere un sospiro di
sollievo mentre la guardia si inchinava rigida e tornava al suo posto.
Rimasi
in silenzio mentre la Regina mi scrutava, attenta.
–
Potrei farti frustare per la tua insolenza – mi disse infine,
severa, nella mia
lingua. Aveva un forte accento e zoppicava su alcune parole, ma capivo
bene
quello che dicevo.
Inchinai
il capo, conscia di stare rischiando molto: – Sarebbe un
vostro diritto, Vostra
Altezza, ma così non saprete mai cosa ho da darvi.
–
–
E cos’hai da darmi, bambina? – la Regina sembrava
scettica, come se non
credesse che una come me potesse avere qualcosa che le servisse.
–
Notizie da Viride. –
Il
Re sbuffò. Era la seconda volta in tutta la mattina che lo
sentivo parlare: –
Abbiamo già un ambasciatore dei Coverano – poi si
rivolse alla moglie, parlandole
rapido nella loro lingua. La Regina annuì alle parole del
marito, poi tornò a
fissarmi. Capii che avevo solo più poco tempo per
convincerli ad ascoltarmi.
–
Quello che so non è qualcosa che può essere detto
da un ambasciatore. Porto
notizie di guerra. –
Re
Julian sbuffò, spalancando le braccia: –
C’è il Patto, non ci sarà nessuna
guerra, – poi tornò a guardare la regina Vanessa.
– Moglie mia, manda via dalla
nostra corte questa pazza. Incorreremo nell’ira dei Coverano
solo per averla
ascoltata, senza contare che… –
La
sovrana bloccò il marito con un gesto secco della mano,
facendolo tacere
all’istante: – L’ira dei Coverano non
è affar mio, – poi tornò a rivolgersi a
me, sporgendosi dal trono e assottigliando gli occhi. – Chi
sei tu? –
Presi
un profondo sospiro, deglutendo. Sentivo l’aria attorno a me
rimbombare: – Sono
la principessa Camille Coverano. –
Sentii
la Prima sgranare gli occhi e scoppiare in una risata acuta, alta. Re
Julian
alzò gli occhi al cielo, sbattendo la mano sul bracciolo del
trono e scuotendo
la testa. I miei occhi però erano solo per la regina
Vanessa. Mi stava
scrutando dall’alto, il suo viso era una maschera
imperscrutabile. Si alzò dal
trono, scendendo lenta i pochi gradini della piattaforma reale mentre
tutta la
gente nella sala si inginocchiava.
Rimasi
in piedi, immobile, guardando la sovrana con quella che speravo essere
un’aria
serena, nascondendo l’ansia che era dentro di me. La Regina
si fermò davanti a
me, guardando attentamente il mio viso. Era più alta di me e
mi guardava
dall’alto al basso, seria. Nei suoi occhi neri contornati da
lunghe ciglia
potevo vedere il mio riflesso. Mi resi improvvisamente conto di come
dovevo
sembrare: spettinata, smagrita, pallida e vestita male, non avevo
quello che
viene definito aspetto regale. Nonostante ciò non abbassai
lo sguardo, nemmeno
per un secondo.
La
Regina aggrottò le sopracciglia e prese con la mano la
catenella che portavo al
collo, facendosi scorrere il ciondolo in mano, osservandolo con
attenzione. Ho
sempre portato quella collana, sin da quando ne ho memoria:
è una semplice
stella a otto punte, verde e argento, grossa quanto una moneta. Veniva
regalata
dal sovrano alla nascita di ogni nuovo principe di Viride, era
l’ultima cosa
che mi rimaneva di mio padre.
Vanessa
Elvere lasciò cadere la collana per poi annuire leggermente
e mormorare, a
stento udibile: – Qualsiasi cosa io dica, aspetta qui la fine
dei colloqui. –
Prima
che potessi rispondere o ribattere la Regina mi diede le spalle,
ritornando al
trono e sedendosi elegante.
–
Ragazzina, non prenderò in considerazione la tua richiesta,
– disse, severa. –
Non c’è niente che mi dimostri che tu sia chi dici
di essere. Non metterò a
rischio un secolo di pace per ascoltare una sconosciuta. –
Cercai
di ribattere, capendo che la Regina si aspettava quello da me:
– Ma… –
–
No, non ascolterò oltre, – mi bloccò,
sbattendo forte la mano sulla pietra. –
Se non vuoi essere imprigionata, cessa questa follia. –
Mi
inchinai rigida, per poi tornare tra la folla nella sala, lasciando
spazio a
chi stava dopo di me. Solo quando fui al fianco di Marcus lasciai
andare un
respiro di sollievo.
–
Cosa ti ha detto? –
Mi
guardai attorno prima di rispondere, mormorando a mezza voce:
– Mi ha detto di
aspettare qui. –
–
Sei stata brava – mi sorrise, mettendomi una mano sulla
spalla.
L’ansia
che mi stringeva lo stomaco si era liberata di colpo, permettendomi di
respirare. Quasi mi girava la testa per il sollievo. Mi voltai a
guardare
Marcus, perdendomi per un secondo nei suoi occhi neri, sfiorando con le
labbra
la sua mano: – Grazie. –
Le dita
di Marcus corsero sulla mia guancia: – Camille,
io… –
–
Quindi? Che si fa? – ci interruppe Jared, sbucando di
soppiatto alle nostre
spalle. Marcus ritrasse la mano di colpo, come se si fosse ustionato.
Sentii le
mie guance infiammarsi.
–
Aspettiamo – risposi, guardando la Regina che congedava
l’ennesimo postulante.
Dopo
ore, nonostante la folla nella sala del trono non avesse accennato a
diminuire
rimpinguata com’era di continui nuovi arrivi, la Regina si
alzò e si congedò,
lasciando la Prima a liberare il Palazzo da tutti quegli ospiti. La
donna scese
dalla piattaforma, passandomi vicino e facendomi rapida cenno di
aspettare.
Tenni vicino a me i miei amici mentre le Fiere si facevano avanti
silenziose,
respingendo la gente e passando attorno a noi come acqua che circonda
gli
scogli.
Quando
le porte della sala furono finalmente chiuse, la Prima mi si
avvicinò. Aveva
una smorfia sul viso, si vedeva che non era per niente contenta della
decisione
della sua sovrana. Mi abbaiò contro qualche parola nella sua
lingua per poi
allontanarsi rapida, con i sandali che mandavano ticchettii acuti
battendo sul
pavimento di legno.
Mi
girai verso gli Assassini: – Che ha detto? –
–
Che tornerà a prenderti tra poco – mi rispose
Andreas, mentre osservava
accigliato la porta da cui la Prima era sparita.
–
Aspetteremo ancora per molto, temo, – esalò Jared,
incamminandosi verso il
giardino. La luce del sole delle tre faceva risplendere il verde
dell’erba. –
Tanto vale che ci mettiamo comodi. –
–
Non hai tutti i torti – commentai, seguendolo. Puntai subito
delle comode sedie
sotto un pergolato di quelli che sembravano glicini, sedendomi rapida
imitata
da tutti gli altri.
Eravamo
ancora lì a chiacchierare
quando la Prima spuntò di fianco a me, come se fosse
comparsa dal nulla.
Sembrava essere ancora più irritata di prima.
–
La Regina vuole vedervi. Seguitemi. –
Non
commentai l’improvviso cambio di lingua della donna ma mi
alzai, sistemandomi
gli abiti. La Prima era già praticamente nella sala del
trono e fu costretta a
fermarsi per aspettarmi, sbattendo un piede per terra. Mi feci
consegnare le
lettere da Jared e seguii la consigliera della Regina, sperando che non
mi
conducesse nelle prigioni.
Rimasi
in silenzio per tutto il percorso all’interno del Palazzo,
non riuscendo però a
trattenere lo stupore mentre ammiravo la sua bellezza. Sale di ogni
tipo e
arredate in centinaia di modi diversi si susseguivano una dietro
l’altra, in
una serie infinita. Quando arrivammo alle stanze della Regina ero
persino
triste che quella breve visita fosse già terminata.
La
Prima mi aprì la porta e mi fece segno di entrare,
richiudendomela subito alle
spalle. Davanti a me si apriva uno studio ottagonale, illuminato dalla
luce del
giorno. Lo stile era simile a quello della sala del trono, ma qui
prevalevano
il rosa, il viola e il blu. Su ogni lato era scavata una rientranza
chiusa da pannelli
di legno dorato, incisi e sagomati con esagoni e stelle. Nel centro si
ergeva
un grosso tavolo rotondo di legno, semplice e saldo, che quasi stonava
con la
ricchezza della stanza. Mi accorsi che un pezzo del tavolo era
tagliato,
interrompendo il continuum della circonferenza: era lì che
la Regina era
seduta.
–
Sedetevi – disse indicandomi la sedia alla sua sinistra.
Sentii
di nuovo il cuore battere forte all’altezza del mio sterno e
mi resi
dolorosamente conto del caldo che faceva in quella stanza.
–
Sono sicura, – attaccò la Regina, – Che
avete capito lo scopo della mia
sceneggiata, giù nella sala del trono. –
–
Sì, vostra altezza – risposi. Già da
subito mi ero resa conto che, per lei,
dare asilo o anche solo ascoltare la Principessa fuggiasca di Viride
poteva
essere molto pericoloso. Era molto più comodo fingere di non
riconoscermi e
organizzare un incontro in privato.
–
Molto bene. E ora spiegatemi perché non dovrei rispedirvi da
vostra madre con i
miei più cari auguri. –
Non
risposi e le porsi semplicemente le lettere di San: – Spero
che sappiate
leggere il viridiano. –
Osservai
Vanessa Elvere concentrarsi sui fogli, la bocca piegata in una linea
severa. Quando
finì posò le due lettere sul tavolo e si
voltò a guardarmi: – Ditemi cosa
sapete di questa faccenda. –
–
So che voi e il vostro regno siete in pericolo. Mia madre e re
Alexander
Auremore si sono accordati per iniziare una guerra che non
lascerà scampo ai
Regni del Sud: sarà fulminea, inaspettata, massacrante. Sono
anni che tramano
nell’ombra per riuscire ad attuare questo progetto,
desiderosi di vedere le
loro casate governare sul continente. A Viride e a Dimina i preparativi
sono
già iniziati: gli eserciti si stanno formando e sono pronti
a muoversi. Non
potete aspettare. –
–
Perché dovrei credervi? –
–
Non dovete credere a me, vostra altezza, – sentivo gli occhi
bruciare mentre
guardavo le lettere sul tavolo. – Dovete credere ai vostri
occhi. È tutto qui,
in queste carte. Si parla di Albis, di un’alleanza tra Dimina
e Viride, di
ricompense. Quello è il marchio di mio madre, lo conoscete
– dissi, indicando
il cigno sulla ceralacca blu.
La
Regina si alzò, andando a un tavolino poco scostato e
versandosi da bere. Non
riuscivo a capire di cosa avesse bisogno per potersi convincere.
–
Voi cosa volete? – esordì poi, rimanendo in piedi
e guardandomi da lontano. –
Sono sicura che non siete scappata da casa vostra solo per venirmi ad
avvisare
di questa disgrazia. Con questa guerra il vostro regno si amplierebbe.
–
–
Avete ragione, non è per cortesia che sono qui. Mia madre ha
cercato di
uccidermi due anni fa, dopo che ho scoperto che la morte di mio padre
era stata
opera sua. Così come quella del principe Adrien Coverano e
dei suoi due figli,
tutti destinati al trono. Rivoglio ciò che è mio,
prima che decida di uccidere
anche i miei fratelli per garantirsi di governare in eterno. So che
sarebbe
capace di farlo. –
–
Non posso fare una guerra per voi, Principessa, –
commentò la Regina scuotendo
la testa. – Non farò morire il mio popolo per voi.
–
–
Non è la guerra che voglio, – risposi rapida. Non
potevo permettermi che non
capisse quello che volevo. – Richiamate il vostro esercito e
lasciatelo
marciare fino ai confini con Viride: basterà a far capire
che non siete così
sprovveduti come credevano tutti. Contattate Cesia e Semele, avvisatele
di
quello che sta capitando e consigliatele di seguire il vostro esempio.
Supportate la mia salita al trono come Reggente e io farò in
modo che anche
solo l’idea della guerra svanisca. –
La
Regina mi guardò, soppesando le mie parole. Poi
sospirò: – Vi credo. Erano anni
che le mie spie mi mandavano informazioni su movimenti strani nel
vostro paese,
ma speravo che la situazione fosse migliore di questa. Avrete il mio
appoggio,
ma in cambio dovrete darmi qualcosa. –
Sapevo
che non sarebbe stato tutto così semplice: – Vi
ascolto. –
–
Il vostro regno è diverso dal nostro, voi non potrete mai
governare finché un
vostro parente maschio sarà in vita. Quando vostro fratello
avrà l’età giusta
sarà Re di Viride non solo più di nome, ma anche
di fatto. Mancano ancora tre
anni prima che questo accada e, in questo lasso di tempo,
sposerà la mia
secondogenita, Helena. –
Chiusi
gli occhi, pensando. Non potevo dire che la richiesta mi avesse
spiazzata, mi
immaginavo qualcosa del genere. Non potevo sapere cosa ne avrebbe
pensato mio
fratello, ma ero sicura che qualsiasi donna sarebbe stata meglio di
Nerissa
Auremore. Con quella promessa assicuravo un futuro al mio regno e
guadagnavo la
possibilità di tornare a casa.
Feci
un respiro profondo, aprendo gli occhi: – Accetto. –
Per
la prima volta da quella mattina vidi la Regina Vanessa sorridere. Le
sue
labbra si stirarono rivelando i denti bianchi, facendo intendere che
era molto
più giovane di quello che voleva dare a vedere.
–
Abbiamo un accordo, allora? – mi domandò,
tenendomi il braccio.
Presi
il suo polso, sorridendo a mia volta: – Abbiamo un accordo.
–
ANGOLO DELLA SCRITTRICE!
Ciao a tutti! Perdonatemi per la lunga
assenza, ma questa sessione estiva è stata delirante.
Comunque, ci tenevo a
ringraziare, come al solito, tutti quelli che sono arrivati fino a qui.
In più,
un grande grazie va a FiammaBlu che mi sta aiutando veramente
tantissimo!
Passando ad altro, temo che per il mese di
agosto non riuscirò a pubblicare molto: sarò via
e senza computer, quindi mi sa
che potrebbe essere un po’ complicato.
Comunque, grazie ancora a tutti! Se volete
farmi sapere cosa ne pensate lasciate una recensione, sono sempre
gradite!
E buone vacanze a tutti J
|
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Capitolo 15 *** XV ***
CAPITOLO XV
MARCUS
I preparativi fervevano in
tutto il regno di Albis. Dai nostri nuovi appartamenti a Palazzo ci
accorgemmo in
fretta che la città era scossa da un grande fermento:
c’era un grande
andirivieni per i corridoi e i cortili, uomini in divisa correvano da
una parte
all’altra consegnando ordini e dispacci. Solo la Regina
sembrava al di sopra di
tutta quell’agitazione: maestosa e rilassata, in sua presenza
regnava la calma.
Più
osservavo Vanessa Elvere, più mi rendevo conto
del perché la sua grandezza fosse raccontata in tutto il
mondo. La sovrana era
incredibilmente bella e serena, emanava una sensazione di potere e
intelligenza
che, quelle rare volte che mi trovai al suo cospetto, mi faceva sentire
quasi
spaventato. Nessuna delle altre regnanti che avevo visto mi era mai
sembrata
così degna del trono.
Durante
il periodo che passammo ad Albis vedemmo poco
Camille. Era spesso in compagnia della regina Vanesse e, sebbene non si
facessero vedere l’una al fianco dell’altra in
pubblico, sapevo che passavano
molto tempo insieme. In un primo momento pensai che fosse per tenerla
d’occhio,
ma lentamente mi resi conto che la sovrana Elvere aveva in qualche modo
preso
sotto la sua ala Camille, insegnandole e facendole vedere come dovesse
comportarsi una Regina.
Mentre
Camille era così impegnata, io, Andreas, Mel e
Jared girammo per la città e i suoi dintorni. Non credo che
potrò mai vedere
qualcosa di così splendido come Egalia, la Regina del
Deserto. Era un prodigio
di architettura, arte e bellezza. Le case, basse e bianche, si
inerpicavano
sulle alture su cui sorgeva la città. Non c’erano
bassifondi ma ogni angolo
della città era ugualmente splendente, così
diversa da Elea e dai suoi
quartieri malfamati, spogli e cadenti a pezzi. Fontane
d’argento sorgevano
nelle piazze, dove bambini giocavano a palla e anziani parlavano seduti
su
panche di legno chiaro. Avrei passato le ore con il naso per aria,
osservando i
palazzi chiari, i fregi dorati, lo zampillare dell’acqua.
Per
la gioia di Andreas passammo anche qualche giorno
accampati in un’oasi nel deserto, poco distante dalla
città. Ci godemmo la
sensazione del sole, della sabbia e, incredibilmente, della
tranquillità. Era
la prima volta da molto tempo che ci trovavamo tutti insieme senza la
preoccupazione di dover scappare, di doverci nascondere, di fare la
guardia. Mi
sembrava di essere tornato alla Corporazione, durante gli anni
dell’addestramento.
Tutto
questo finì fin troppo presto: la data del
matrimonio reale tra Auremore e Coverano si avvicinava. Un giorno,
mentre stavo
aspettando nel corridoio insieme a Jared che Mel e Andreas uscissero
dalla loro
stanza, Camille ci si avvicinò. Vidi Jared spalancare gli
occhi mentre lei
procedeva nel corridoio e quasi feci fatica a riconoscerla.
Camille
era sempre stata bella, almeno per me, ma
ora… ora era stupenda. Aveva lavato via la tintura scura per
i capelli,
lasciando che risplendessero del rosso che ricordavo così
bene da quando
l’avevo salvata la prima volta anni prima. Gli occhi verdi
sembravano due smeraldi
sul viso chiaro, luminosi e grandissimi. La bocca era piegata in un
sorriso che
mi sembrò il più sensuale che avessi mai visto.
Il vestito verde che portava
aveva una profonda scollatura, lasciando intravedere la dolce curva del
seno. Deglutii, improvvisamente avevo la bocca secca.
–
Camille, stai benissimo – esordì il mio amico,
prendendo la mano di Camille e baciandola elegante. Avrei voluto avere
la metà
della sua prontezza.
Lei
rise, una sfumatura rosata le imporporò le
guance: – Grazie. La Regina pensava che non avessi
l’aspetto di una pretendente
al trono e il risultato è stato questo, – disse,
indicando con un ampio gesto
il vestito. – Ha funzionato? –
–
Direi di sì – rispose Jared sorridendo, mentre io
mi costringevo ad annuire.
–
Comunque, – continuò Camille tornando seria.
– L’esercito
è pronto a muoversi verso il confine e la Regina ci ha
proposto, cioè ordinato
in maniera gentile, di muoverci insieme. La partenza è
fissata per domani, non
so ancora l’orario. –
Annuii
a caso, troppo impegnato a guardarla per poter
recepire che cosa mi stesse dicendo. La osservai scambiare ancora
qualche
parola con Jared senza far parte della conversazione, prima che ci
salutasse e
si allontanasse lungo il corridoio.
–
Marcus, tutto bene? – mi domandò il mio amico, con
un ghigno divertito stampato in viso. Io stavo ancora guardando il
punto dove
Camille era scomparsa.
Mugugnai
qualcosa in risposta, mentre Jared scuoteva
la testa: – Sai, – mi disse, improvvisamente serio.
– Non rimarrà libera per
sempre. –
Mi
riscossi dalla mia estasi ritornando in me: – Ne
abbiamo già parlato, Jared. Credi che ci sia una
possibilità per me? Io sono un
Assassino, lei una Principessa. –
–
Sì, lei è una Principessa, – disse
Jared, facendo spallucce.
– E in un futuro prossimo potrebbe essere Regina oppure
morta. Con quale delle
tre pensi di avere più speranze? –
Aprii
la bocca per ribattere ma non riuscii a
proferire parola. Era strano, ma Jared aveva ragione. Non ci sarebbe
stato un
momento migliore per me e Camille perché, per quanto
inopportuno fosse il
presente, il futuro ci avrebbe solamente allontanati. Avrei potuto
continuare a
fare finta di niente e vivere il resto della mia vita con il rimpianto,
oppure
cercare di togliermi da quella impasse in quell’esatto
istante.
–
Marcus, – continuò Jared mettendomi le mani sulle
spalle, nella sua migliore imitazione di un fratello maggiore.
– Vai. Di cosa
hai paura? Che può succedere di male? Approfitta del tempo
che hai. –
Chiusi
gli occhi per un istante mentre pensavo. Jared
mi aveva convinto, aveva ragione. Annuii, mentre il mio amico mi dava
una pacca
sulla spalla. Mi misi a correre, sfrecciando davanti a un allibito
Andreas che
in quel momento apriva la porta della sua camera. Mi diressi verso il
punto
dove poco prima era sparita Camille, i miei passi affrettati
risuonavano per il
corridoio. Dopo pochi minuti intravidi finalmente la macchia verde del
suo
vestito mentre lei si girava, richiamata dal rumore che stavo facendo.
Mi
fermai a pochi passi da lei, guardandola in piedi nel corridoio bianco.
–
Marcus? – mi chiese sorridendo, piegando
leggermente la testa. – Ti serve qualcosa? –
Presi
un respiro profondo e poi smisi di pensare.
Feci tre passi veloci divorando lo spazio che ci separava, guardandola
aggrottare incuriosita le sopracciglia. Le presi il viso tra le mani e
la
baciai, assaporando il sapore dolce delle sue labbra. Mi allontanai
leggermente
riaprendo gli occhi, sentendo il cuore battere come se volesse
scapparmi dal
petto. Camille deglutì, guardandomi con gli occhi verdi
spalancati. Ero già
pronto a scusarmi e a scomparire quando lei fece una risata cristallina
e mi
baciò a sua volta, a lungo. Quando smise lei ricominciai io
e non so dire per
quanto continuammo lì, in quel corridoio.
Per me
tutto nasceva e moriva sulle labbra di Camille. All’inizio fu
dolce e lento, ma
presto sentii nascere dentro di me un’urgenza nuova, che mi
spingeva a baciare
quella bocca come se la volessi divorare. Le mie mani abbandonarono il
suo viso
per scendere tra i capelli e sulla sua vita, stringendola di
più a me. Brividi
mi percorsero la schiena quando Camille mi morse il labbro inferiore in
un modo
che mi fece inceppare il respiro. Sentii la pelle d’oca sulla
sua pelle mentre
le accarezzavo le spalle e le braccia. Il suo sapore era qualcosa che
non avevo
mai provato prima: era fresco ma con una nota dolce e già
sapevo che non avrei
più potuto farne a meno.
Mi staccai
dalla sua bocca solo per scendere a baciarle il profilo della mascella,
a morderle
la pelle tenera del collo. Mi morse il lobo dell’orecchio e
trattenni
bruscamente il fiato mentre sentivo il suo respiro farsi sempre
più affrettato.
Sapevo che avrei dovuto controllarmi, che tutto quello era eccessivo,
che era
sconveniente… ma non riuscivo a fermarmi. Ero come in preda
alla frenesia e per
me non esisteva altro che Camille, il suo corpo, il suo profumo, le sue
mani,
la sua pelle. Mi sentivo come chi beve dopo che l’acqua gli
è stata negata a
lungo: attaccato alla fonte che mi dissetava senza né il
potere né il desiderio
di allontanarmi.
Solo dei
passi che risuonarono al fondo del corridoio ebbero la
capacità di farci
separare. Non vidi nemmeno chi ci passava vicino, troppo impegnato
com’ero a
guardare Camille e il rossore che le illuminava il viso, gli occhi
grandi e
dolci, le labbra gonfie per i baci che ci eravamo dati. Aveva il
respiro
affannato, il petto che si sollevava e abbassava velocemente.
– Io… –
iniziò Camille, ma fu costretta a schiarirsi la voce prima
di poter continuare.
– Se ti serviva questo potevi dirmelo anche prima. –
Ridemmo per
qualche istante e tracciai delicatamente con il pollice la linea delle
sue
labbra, improvvisamente serio: – Avrei dovuto. Volevo farlo
da tanto. –
Lei annuì:
– Anche io. –
Mi abbassai
per baciarla di nuovo ma lei si scostò delicatamente,
prendendomi le mani.
Aggrottai le sopracciglia e stavo per chiederle perchè
quando mi indicò con un
cenno del capo un punto dietro di me. Mi girai e vidi le persone che ci
avevano
interrotto poco prima parlare nel corridoio, poco distanti da noi.
Annuii ed
ero pronto ad allontanarmi quando si avvicinò al mio viso,
mormorandomi
qualcosa all’orecchio.
– Seguimi –
mi disse, poi si voltò.
Mi sembrava
che ci fosse solo lei mentre attraversavamo il palazzo di Egalia quasi
di
corsa. Camminavo due passi dietro a lei, che ogni tanto si girava e mi
sorrideva in un modo che sapevo essere dedicato solo a me. Non avevo
idea di
dove mi stesse portando, ma tanto l’avrei seguita ovunque. I
capelli rossi
dondolavano al ritmo dei suoi passi, lasciando intravedere la linea
delicata
delle spalle. Attraversammo sale piene di gente, corridoi affollati,
disimpegni
occupati da guardie, ma ognuna di queste persone attraversava il mio
campo
visivo solo per un attimo prima di sparire nel nulla.
Camille mi condusse
su per scale e lungo passaggi di marmo fino a fermarsi davanti a una
porta di
legno scuro. La vidi aprirla ed entrare in quelle che capii essere le
sue
stanze, per poi girarsi a guardarmi. Io, invece, mi fermai sulla porta.
Avrei solo
voluto entrare lì dentro con lei, ma l’ultimo
pensiero razionale della giornata
mi colse prima di poter fare anche un passo: se poi Camille se ne fosse
pentita? Avevo già avuto altre donne nel corso della mia
vita, ma non volevo
rovinare tutto con lei. Volevo che fosse sicura di quello che stava
facendo,
che non si sentisse in nessun modo forzata. Se solo Jared avesse potuto
vedermi
si sarebbe schiantato dalle risate: sembravo l’eroe romantico
di qualche
storiella rosa.
Camille
sembrò leggermi nel pensiero. Mi si avvicinò
camminando leggera e mi prese la
mano, tirandomi piano: – Sono sicura –
mormorò, senza abbassare gli occhi.
Sembrava che le sue guance stessero andando in fiamme. Sorrisi e la
seguii, e
ricominciammo a baciarci ancora prima di sentire il rumore della porta
che si
chiudeva. Rimasi senza fiato e mi stupii di quanto fosse facile
scambiarsi
quelle effusioni, come se non avessimo mai fatto altro.
Non so bene
chi condusse chi verso il letto, chi iniziò a spogliare chi.
So solo che in un
istante tutto il mondo sparì e restammo solo io e lei,
Marcus e Camille. E non
mi sarebbe servito nient’altro per essere felice.
***
Ore più tardi, eravamo ancora
sdraiati a letto. Un’aria leggera entrava dalle finestre
aperte, facendo
muovere lievemente le tende azzurrine. Giocherellavo distrattamente con
una
ciocca di capelli di Camille, che riposava con la testa appoggiata sul
mio
petto.
–
Posso chiederti una cosa? – mi domandò piano,
mentre giochicchiava con il mio ombelico.
– Dimmi. –
Camille si
girò di colpo, appoggiando il mento sul mio sterno. Aveva
una luce maliziosa
negli occhi, un sorriso divertito che le faceva spuntare una piccola
fossetta.
Non potei trattenermi dall’accarezzarle la guancia.
– Come sono
andata? – mi chiese, arrossendo un po’ ma senza
distogliere lo sguardo.
–
Davvero me lo stai chiedendo? – chiesi, incredulo.
Per me era stato fantastico, davvero fantastico, e che lei me lo
chiedesse mi
faceva sentire stranamente in colpa.
–
Beh, sì – ridacchiò lei. –
Cioè, un’idea me la sono
fatta, però… – tornò quasi
seria mentre lo diceva.
–
Però? –
–
Però, ecco, diciamo che non è qualcosa che si
insegna a palazzo e, non so, volevo avere il parere di un esperto.
–
Risi
di cuore alle sue parole: – Mi reputi un
esperto? Sono lusingato. –
–
Beh, sì… – tentennò,
diventando sempre più rossa. –
Mi sei sembrato parecchio bravo. –
Il
mio orgoglio maschile ebbe una vampata a quella
conferma. Non riuscii a trattenere un sorrisetto compiaciuto e
un’espressione
soddisfatta.
– Non
gongolare! – mi riprese subito lei ridendo, ogni traccia di
imbarazzo sparita,
dandomi uno schiaffetto sulla pancia. Si era alzata in ginocchio sul
materasso
ed era quanto di più bello avessi mai visto in vita mia.
Mi tirai a
sedere anche io, mettendole una mano dietro la nuca e baciandola
dolcemente.
– Sei
andata benissimo – le mormorai contro le labbra, la mano che
percorreva la sua
pelle nuda.
Dopo poco
tornammo a sdraiarci con lei a pancia in giù su di me, a
guardarmi dall’alto.
Ogni tanto mi dava un piccolo bacio sul collo mentre io riposavo a
occhi
socchiusi. Mi sentivo in un mio personale piccolo paradiso, non avrei
mai
voluto dovermene andare via. Era incredibile essere lì nello
stesso letto con
Camille, ed era incredibile come chi fossimo fosse semplicemente
passato in secondo
piano. Io non ero più un Assassino e lei non era
più una Principessa. Eravamo
solo Marcus e Camille e nulla di più.
La voce di
lei mi distolse dai miei pensieri: – Stavo
pensando… –
– Ancora? –
mugugnai, senza riaprire gli occhi.
Lei ignorò
la mia ironia e continuò: – So così
poco di te e della tua vita sentimentale. –
– Devo
preoccuparmi? – domandai aprendo un occhio, guardandola
storto.
– No, direi
di no, – mi rispose sorridendo, spostandosi una ciocca di
capelli da davanti il
viso. – Sono solo curiosa. –
– Chiedimi
quello che vuoi. –
La domanda
arrivò a bruciapelo: – Con quante donne sei stato?
–
– Ah,
iniziamo proprio così? – risposi tirandomi un
po’ su. – Saranno state dodici,
tredici. Non credo quindici. –
– Ah. –
Risi della
sua faccia corrucciata: – Se pensi che siano tante non
chiedere mai una cosa
del genere a Jared. –
– Ne
prenderò nota. E la prima quando l’hai avuta?
–
– Avrò
avuto sedici, diciassette anni. Più o meno. –
– Più o
meno? – mi domandò incuriosita. Represse un
brivido quando un refolo di vento
colpì la nostra pelle sudata. Tirò su di noi il
lenzuolo che si era
attorcigliato al fondo del letto, accoccolandosi meglio contro di me.
– Non è
facile capire quanti anni hai quando non sai quando sei nato
– risposi
tranquillo. A differenza di lei stavo morendo di caldo, ma non mi sarei
allontanato nemmeno per tutto l’oro del mondo.
– Non sai
quando sei nato? – mi domandò con un sorriso
triste, accarezzandomi leggera il
petto.
– No.
Immagino di avere più o meno ventitré anni, anno
più, anno meno, – non volevo
parlare della Confraternita, non lì con lei. – E
tu? Quando sei nata? –
– Il 6
luglio 1610. –
– Sei una
giovincella – ridacchiai, tornando a chiudere gli occhi. La
mia mano salì da
sola verso i suoi capelli e iniziai ad attorcigliarli attorno a un
dito. Era da
mesi che avevo voglia di farlo e non avrei più voluto
smettere.
Camille
rise con me, appoggiando la testa al mio petto e guardando fuori dalla
finestra, rilassata.
Pensavo
avesse finito con le domande quando parlò di nuovo:
– C’è stata una donna
importante nella tua vita? –
Mi
aspettavo una domanda del genere ma, stranamente, la reticenza che di
solito mi
prendeva quando si toccava l’argomento non comparì.
– Sì, una
sola. –
Camille si
girò di nuovo verso di me, facendomi perdere nei suoi
bellissimi occhi verdi.
Mi accorsi che sopra la pupilla sinistra aveva una piccola macchietta
dorata,
quasi ipnotica.
– Chi era?
– mi domandò serena, nessuna traccia di gelosia
sul suo viso. Solo curiosità.
– Si
chiamava Amelie, – iniziai, godendomi la sensazione della
mano di Camille che
passava leggera sul mio fianco. – L’ho conosciuta
nella pausa tra una missione
e l’altra, quattro anni fa. Era sera e avevo alzato un
po’ il gomito, quindi
camminavo per le strade di Elea senza guardarmi troppo attorno. La
urtai e feci
cadere tutte le stoffe che aveva in mano, sparpagliandole per la
strada. Mi ha
urlato contro talmente forte che pensai che mi avrebbe rotto i timpani.
Mi
sentivo così in colpa che quando se n’è
andata l’ho seguita per vedere dove
abitava. Non avevo molto denaro con me in quel momento, quindi decisi
di
tornare lì il giorno dopo per risarcirla. Quando mi
aprì la porta la mattina
dopo mi accorsi che era molto, molto bella. E con un cipiglio davvero
niente
male. Per farla breve, oltre a pagare il danno, la invitai ad uscire
con me. –
Camille mi
guardava con la testa inclinata, come sempre quando era attenta:
– E lei
accettò? –
Risi al
ricordo: – Per niente, mi chiuse la porta in faccia.
C’è voluto un mese prima
di riuscire a convincerla. Stavo quasi per rinunciare quando
accettò. Alla fine
ero innamorato perso. –
– E poi?
Cos’è successo? –
Feci
spallucce mentre ricordavo: – È successo che ha
sposato un altro, un ricco
mercante di Elea. Non lo amava nemmeno, voleva solo accaparrarsi un
buon
partito. La sua famiglia era molto povera e aveva vissuto in
ristrettezze da
quando era piccola. –
Anche solo
a riparlarne mi ricordavo il dolore che avevo provato. Ero veramente
innamorato
di Amelie, avevo anche pensato di chiederle di aspettarmi per poi
sposarmi quando
avessi finito con la Confraternita. Poi, semplicemente, a un certo
punto era
scomparsa. Ero stato veramente male quando avevo scoperto che si era
accasata
con un mercante grasso e vecchio, mi ci erano voluto mesi per
riprendermi.
L’avevo odiata per tanto tempo, ora però mi
accorgevo di ripensare a lei solo
con indifferenza.
Camille mi
riscosse dai miei pensieri: – Non essere triste –
mi disse accarezzandomi la
guancia.
– Non sono
triste – risposi prendendo la sua mano e intrecciando le
nostre dita.
– Devo
essere gelosa? –
– Direi di
no, – dissi baciando le nostre mani unite. – Anche
perché c’è qualcun altro che
occupa i miei pensieri da un po’ di tempo a questa parte.
–
Camille si
tirò su, gattonando piano verso di me. Aveva un sorriso
malizioso e gli occhi
verdi brillavano nella luce del pomeriggio.
– Ah sì?
–
mormorò avvicinando il suo viso al mio. Potevo sentire il
suo fiato mescolarsi
con il mio.
– Sì –
risposi piano, prima di tirarla verso di me e ricominciare a baciarla.
Per quel
giorno le altre domande furono dimenticate.
***
Uscii dalle stanze di Camille
nel primo pomeriggio. Non avrei voluto doverlo fare, ma stavo
letteralmente
morendo di fame e lei aveva un colloquio con la Prima. In
più sapevo benissimo
che se avessimo ritardato ancora non saremmo mai usciti. Purtroppo per
noi il mondo
era ancora lì e, avendolo dimenticato per un po’,
ritornare alla realtà era
stato più difficile del normale.
Camminai
lentamente per i corridoi, perso nei ricordi
di quelle ultime ore. Dovevo avere un sorriso idiota quando aprii
finalmente la
porta della mia stanza, impegnato a masticare una mela.
–
Ben tornato, – mi sorprese la voce di Jared,
stravaccato sul suo letto. Non mi aspettavo di trovarlo lì.
–
Grazie, – risposi chiudendo la porta e
avvicinandomi a una brocca che stava sul tavolo. Mi versai un bicchiere
d’acqua
e mi sedetti, crollando quasi sulla sedia.
–
Stanco? – mi domandò il mio amico con un ghigno
per
niente rassicurante in viso.
Tracannai
l’acqua e sospirai: – Non credo che ti
risponderò. Mel e Andreas? –
–
Sono andati a fare un ultimo giro in città e a
prendere cose che ci potranno servire per il viaggio – Jared
si tirò a sedere,
stiracchiandosi.
–
E andare con loro no, eh? –
–
Nah, non avevo voglia. E poi sono curioso. –
La
curiosità di Jared mi fece venire in mente quella
di Camille, che aveva avuto un esito così piacevole. Mi
persi di nuovo in
qualche ricordo quando il mio amico mi schioccò le dita
davanti alla faccia.
Lo
guardai scocciato.
–
Avevi un’aria ebete. Allora? – mi chiese, con gli
occhi grandi come piattini.
–
Allora cosa? – tergiversai, poggiando i piedi sul
tavolo.
–
Come cosa? Com’è andata? –
Sospirai.
Jared quando ci si metteva era peggio di
una mosca: fastidioso e molesto. Si vedeva che era divorato dalla
curiosità.
–
Bene. È andata bene – risposi sorridendo.
–
Quello l’avevo già capito dalla tua faccia.
–
Alzai
gli occhi al cielo, arrendendomi alla sua
insistenza: – Jared, sei una piaga. Cosa vuoi sapere?
–
–
Beh, l’ultima volta che ti ho visto stavi correndo
per un corridoio. –
– Ho
seguito Camille e l’ho trovata poco dopo – risposi,
guardandolo negli occhi
azzurri divertiti.
– Ma dopo
siamo passati nel corridoio e non vi abbiamo visti – mi
chiese Jared con un
tono finto stupito.
– Perché ce
ne siamo andati. –
– E per
andare dove? – Jared mi guardò da sopra la punta
delle lunghe dita unite.
Scossi la
testa, in parte sconvolto e in parte divertito della
stupidità del mio amico: –
Nelle sue stanze. –
– Ah! –
sbottò Jared battendo una gran manata sul materasso.
– Lo sapevo! Non ti chiedo
altro solo perché sono un signore. –
– Sì, come
no, – borbottai cercando di trattenere le risate.
Chiacchierammo
del più e del meno per qualche momento prima di venire
interrotti dal rumore
della porta che si apriva. Dall’uscio fecero capolino Mel e
Andreas.
– Oh,
Marcus, che sorpresa – mi salutò Andreas.
Per
fortuna, gli altri miei amici erano più discreti di Jared.
Non mi fecero
domande e non mi assillarono con la loro curiosità, parlando
invece di quello
che avevano visto in città. Avevano comprato armi in
quantità per tutti noi,
avevano ritirato le spade che avevamo lasciato dall’armaiolo,
si erano
procurati dei vestiti pesanti da indossare quando saremmo tornati a
Viride.
Avevano anche conosciuto il comandante dell’esercito che si
sarebbe schierato
al confine di Albis, un uomo severo e brusco, che però aveva
la fama di essere
un ottimo stratega.
L’esercito
sarebbe partito all’alba da Egalia, marciando attraverso il
deserto. Per noi,
abituati alle manovre militari di Viride, l’idea di far
muovere la colonna di
uomini tra le sabbie roventi era qualcosa di inconcepibile. Non sapevo
nemmeno
come avremmo fatto a spostarci e devo dire che mi ero anche poco
interessato al
riguardo.
L’idea, mi
spiegò Mel, era quella di seguire l’esercito fino
al confine e, da lì,
addentrarci poi nello stato di Viride. Con noi sarebbe venuto un
drappello di
uomini con l’incarico di scortare la principessa Helena
Elvere al matrimonio
tra Auremore e Coverano. Prima di entrare a Elea ci saremmo divisi e
saremmo
andati a cercare una qualche forma di supporto. Camille aveva citato
qualche
nobile che sperava di poter convincere a supportare la sua richiesta.
Avremmo dovuto
poi in qualche modo impedire il matrimonio e riuscire a detronizzare la
Regina,
ma una cosa per volta.
– Abbiamo
solo più oggi per preparare le nostre cose, da domani
è finita la vacanza –
disse Andreas, versandosi da bere. A causa del caldo bevevamo tutti
come
cammelli.
– Peccato,
mi piaceva qui – mormorò Mel guardando malinconico
fuori dalla finestra. – È
tutto così tranquillo, sereno. Così diverso da
Viride. –
– Ci
torneremo, prima o poi, – Jared gli si avvicinò,
affiancandosi a lui. – Ci
avete mai pensato? Una volta finito tutto questo potremmo non dover
più stare
nella Confraternita. –
Le parole di
Jared caddero pesanti come sassi nella stanza. Non avevo mai pensato a
quello
che aveva detto, per me o saremmo morti cercando di portare Camille sul
trono,
oppure tutto sarebbe tornato come prima, con noi di nuovo Assassini per
la
Confraternita. Però era anche vero che eravamo disertori,
forse non saremmo più
stati accettati nonostante l’intercessione di Camille
Coverano, Regina Reggente
di Viride. Ma avrei davvero voluto tornare tra gli Assassini?
– Potremmo
andare lontano da Elea, senza più uccidere per vivere,
– stava continuando
Jared. – Anche se non so se sarei capace di fare
qualcos’altro. Però sarebbe
bello. Anni fa non avrei nemmeno immaginato che sarebbe potuto
succedere. –
– Io… –
Andreas si schiarì la voce prima di continuare. –
Non credo che tornerò alla Confraternita
quando tutto questo sarà finito. –
Tre paia di
occhi si girarono a guardarlo.
– Tu hai
già deciso? – mormorai, incredulo. Andreas era
quello che aveva sopportato con
più fatica la vita da Assassino, all’inizio, ma
ormai sembrava essersi abituato.
– Sì, anche
se ci sono giorni in cui mi dico che non potrei fare
nient’altro. Non voglio
tornare nella Confraternita, non subito almeno. Voglio poter vivere la
mia vita
come desidero, per una volta. –
Andreas
parlava con lo sguardo fermo davanti a sé, sorridendo lieve.
Non c’erano segni
di tensione in lui, era sereno mentre ci parlava del suo futuro.
Sembrava che
il pensiero di andarsene dalla Confraternita non lo turbasse ma, al
contrario,
lo tranquillizzasse.
– Ci pensi
da tanto? – chiese Mel, sedendosi sul davanzale. Dietro di
lui la luce del sole
sembrava quasi disegnargli un’aureola intorno, i capelli
biondi luccicavano.
– È tutta
la vita che mi dico che non voglio essere per sempre un Assassino. Ora,
semplicemente, mi si presenta un’occasione. Sarei stupido a
non coglierla, non
pensate? –
– Sì, è
vero, – mormorò Jared, appoggiandosi al muro.
– E tu non sei mai stato stupido,
Andreas. –
Andreas
sorrise: – Qualsiasi cosa farò, e qualsiasi cosa
farete voi, mi mancherete. –
– Ci
mancherai anche tu, – mi introdussi, cercando di spezzare
l’aria pesante che
era caduta nella stanza. – Però non ci pensiamo
ancora, c’è tempo. Adesso
dobbiamo preoccuparci di altro. –
– Direi di
sì – esclamò una voce nuova. Ci girammo
all’unisono per vedere la testa di
Camille fare capolino dalla porta.
– Sapete le
novità? – disse, entrando nella stanza. Si era
cambiata dalla mattina e il gran
sorriso che mi rivolse mi fece quasi galleggiare.
– Di che
novità parli? – rispose Jared con
un’espressione furbetta. Gli rifilai una gomitata
mentre Mel puntava gli occhi al cielo.
Camille lo
guardò allibita per un attimo e poi lo ignorò:
– Parlo della partenza. –
– Sì, –
rispose Andreas impedendo a Jared di dire altre cose sconvenienti.
– Io e Mel
abbiamo anche parlato con il comandante De Vaaz. Ci ha detto che la
partenza
sarà domani all’alba. –
Camille
annuì, sedendosi di fianco a me con tranquillità:
– Sì, esatto. Pensavo non lo
sapeste, a me l’ha appena comunicato la Prima. –
–
Prepariamoci, – aggiunsi. – Non sarà un
viaggio rapido. I ritmi degli eserciti,
a meno che non si proceda a tappe forzate, sono abbastanza lunghi. Ci
metteremo
almeno dieci giorni a raggiungere il confine. Poi da lì
dovremo continuare fino
a Elea. –
Il viaggio
in mezzo al deserto sarebbe stato massacrante, già lo
sapevo. Poco prima
Andreas ci aveva detto che avremmo marciato nell’avanguardia
dopo esplicita
richiesta di De Vaaz. Tutti noi avevamo avuto lo stesso pensiero: ci
voleva
tenere d’occhio per evitare che scappassimo sulla strada. Lo
schieramento di
forze di Albis in fondo era colpa nostra e Andreas aveva capito subito
che, se
potevamo aver convinto la Regina, il comandante non era ancora del
tutto
persuaso.
– A
proposito di Elea, – ricominciò Mel dopo qualche
secondo di silenzio. – Siamo
ancora ricercati, dobbiamo aver ben presente cosa fare quando e se
riusciremo
ad entrare in città. –
– A questo
ho già pensato, – disse Camille, soddisfatta.
– Ho parlato sia con la regina
Vanessa che con la primogenita, Helena. Invece che separarci poco prima
di
entrare nella capitale ci travestiremo e ci uniremo alla sua scorta.
Con
indosso le armature della guardia non dovreste attirare
l’attenzione e io
potrei fingermi una delle sue dame di compagnia. –
Annuimmo
tutti. I soldati alle porte della città avevano
sì il compito di controllare
chi entrava e usciva, ma non avrebbero rischiato di causare un
incidente
diplomatico per cercare cinque fuggitivi. In più, chi
sarebbe mai stato così
stupido da rientrare nella città dov’era
ricercato?
– Dopo, una
volta entrati in città, dovremo cercare Lord Enais. Vive
nella parte est di
Elea, a Villa Enais – continuò Camille.
– Sei
sicura di quest’uomo? – domandai, corrucciato. Se
avessimo riposto le nostre
speranze in Lord Enais e lui ci avesse traditi non saremmo
sopravvissuti.
– Non posso
esserne sicura, sono troppi gli anni in cui manco da Palazzo,
– iniziò Camille
e, prima che qualcun altro potesse parlare, continuò.
– Però me lo ricordo, me
lo ricordo bene. Era un amico d’infanzia di mio padre. Erano
come fratelli,
cresciuti insieme a corte. Non farà finta di niente se gli
dirò che la Regina
ha ucciso mio padre. In più la Prima verrà con
noi, parlandogli della guerra
che Albis condurrà insieme agli altri stati del sud se la
Regina non verrà
destituita. Tutto questo dovrebbe aiutarci ad ottenere ciò
che vogliamo. –
– Per
quando è fissato il matrimonio? –
domandò Mel, serio. Il ciondolo che gli
pendeva dal collo catturava la luce del sole.
– È tra
venti giorni. Non abbiamo tanto tempo – rispose Camille,
torcendosi le mani.
– No, – risposi,
accarezzandole distrattamente il braccio. – Ma ce lo faremo
bastare. –
***
Partimmo la mattina successiva
all’alba. Il sole non era ancora sorto sul deserto e, per
l’escursione termica,
faceva più freddo di quanto mi aspettassi.
L’esercito era già preparato fuori
dalle porte della città. I fuochi dei bivacchi erano ormai
praticamente spenti,
i cavalli nitrivano irrequieti e le tende stavano venendo smontate.
Insieme
a noi, pronte per il viaggio, c’erano la
Prima, seria e severa sul suo cavallo nero, e la principessa Helena,
bella come
la madre ma più solare, meno altera. Accanto cavalcavano
almeno una decina di
guardie reali, vestite leggere per la traversata del deserto. Gli elmi
erano
stati soppiantati da turbanti color sabbia, per proteggere la testa dal
calore
del sole.
Il
comandante De Vaaz ci aspettava di fianco alla sua
tenda, la più grande di tutto l’esercito. Il
cremisi del tessuto sbatteva
schioccando nel vento della notte. Era un uomo alto, imponente, con la
carnagione scura cotta dal sole. Gli occhi erano chiari, color
caramello, e
circondati da una fitta rete di rughe. La barba scura e curata gli
copriva il
mento squadrato, indurendone i lineamenti. Sembrava un uomo severo ma
capace,
sicuro di sé.
–
Vostra Altezza, Prima, – disse, inchinando
leggermente il capo davanti alla Principessa. – Partiremo il
prima possibile.
C’è una portantina preparata per voi, se volete
seguirmi… –
–
Non ce n’è bisogno, – rispose la
principessa
Helena, guardandosi attorno. – Cavalcheremo con voi fino a
Elea. –
De
Vaaz fece un rigido cenno con il capo prima di
rivolgersi a noi: – Voi starete con me. Voglio avere sempre
almeno uno di voi a
portata d’occhio, per essere sicuro che non vi perdiate.
È facile perdere
l’orientamento tra le sabbie. Al confine ci separeremo.
–
Dal
tono del comandante era più che chiaro che se non
fossimo rimasti in vista ci avrebbe lasciati a morire nel deserto.
Annuimmo
senza protestare, consci che sarebbe stato solo inutile.
Alla
partenza rimasi stupito dall’efficienza
dell’esercito di Albis. Lì non esisteva la
fanteria, ogni soldato si muoveva a
cavallo. I destrieri erano le bestie più belle che avessi
mai visto, così
diversi dai grandi corsieri da guerra che si usavano al nord. Erano
più adatti
a muoversi sulla sabbia, abituati a non patire il caldo e il sole.
Erano
meravigliosi da vedere, aggraziati e delicati, con le criniere mosse
dal vento.
I
soldati di Albis portavano con sé pochi effetti,
giusto il minimo indispensabile per poter bere e mangiare tra
un’oasi e
l’altra. Le armature erano avvolte in stoffe e trasportate,
mentre gli uomini
indossavano gli stessi vestiti larghi e freschi che portavamo noi.
Quello che
mi stupì di più fu però vedere
arruolate anche donne, che marciavano
esattamente come gli uomini, pronte ad andare in guerra e morire per
difendere
il proprio paese.
Durante il
viaggio la Principessa ci spiegò che nel suo regno non
esisteva l’arruolamento
obbligatorio, ma che ogni uomo era libero di scegliere. Chi avesse
deciso di entrare
nell’esercito avrebbe ricevuto in dono un cavallo e
l’armatura. Ogni soldato,
dopo un periodo minimo di cinque anni, poteva decidere di lasciare
l’esercito o
di continuare la carriera militare, restando arruolato. Era un sistema
così
diverso dal nostro che ci lasciò per un attimo perplessi.
Mel si
dimostrò il più interessato
nell’apprendere gli usi e i costumi di Albis,
passando ore e ore a cavalcare accanto alla Principessa, facendosi
raccontare
ogni minima cosa del suo regno. La Prima non li distanziava mai di
molto e,
anche se sembrava essere completamente indifferente, si capiva che non
si
perdeva una sola sillaba. Probabilmente aveva paura che la Principessa
si
facesse scappare qualche informazione riservata, anche se Helena
sembrava
essere incredibilmente sicura di sé e conscia della sua
posizione.
La
Principessa di Albis era regale ma amichevole e si vedeva che passava
volentieri il suo tempo con Mel. Quando non parlavano cavalcavano solo
vicini,
guardando il deserto attorno a loro e godendosi lo spettacolo. Helena,
come
anche la Prima e tutte le altre donne nell’esercito,
sopportava tranquillamente
e senza fatica il ritmo di marcia dell’esercito, dettato da
De Vaaz.
Il
comandante era in testa alla colonna, molto spesso affiancato dal suo
secondo.
Parlava poco, rispondeva a mugugni, ogni tanto borbottava a bassa voce
tra sé e
sé. Era ammantato di blu e un corno d’oro giallo
gli fissava il velo che gli
copriva la testa. Andreas era quello che più spesso gli
stava vicino visto che
De Vaaz mal sopportava l’esuberanza di Jared.
Non
incontrammo nessuna delle carovane che ci avevano fatto compagnia nel
nostro
viaggio d’andata fino ad Egalia. La regina Vanessa aveva
momentaneamente
bloccato il commercio, richiamando tutti i mercanti in patria. Solo
alle oasi
riuscivamo a incontrare qualche uomo impegnato a rifornirsi
d’acqua, ma erano
tutti taciturni, immusoniti. La manovra della Regina era azzardata e
causava
malcontento, ma almeno noi sapevamo che era per il bene del regno. Chi,
in
viaggio per il deserto, vedeva il grande serpentone
dell’esercito snodarsi tra
le sabbie rimaneva perplesso: tutti conoscevano il grande Patto di non
belligeranza, il dispiego di una tale forza non era comprensibile. La
Regina
non aveva emanato proclami di guerra, non voleva spaventare la
popolazione: la
sua era una manovra prettamente preventiva.
Per conto
mio facevo poca attenzione a tutto ciò e passavo
più tempo possibile con
Camille. Cavalcavamo vicini chiacchierando e raccontandoci ogni cosa ci
venisse
in mente, guardando il panorama e rimanendo sconvolti dalla bellezza di
quel
posto. Io le raccontai della mia infanzia alla Corporazione, della mia
prima
missione, dei posti che avevo visitato. Lei mi parlava della sua
infanzia a
palazzo, della Foresta della Luce e dell’aiuto che aveva
avuto. Mi descrisse la
sua famiglia, i suoi fratelli e sorelle, la sua domestica preferita, le
persone
che l’avevano aiutata nella sua vita. Io le raccontai dei
miei maestri alla
Corporazione, dei miei compagni e di quello che mi ricordavo dei miei
genitori.
Le notti le
passavamo insieme, a fare l’amore. La raggiungevo nella sua
tenda al calar del
sole e me ne andavo poco prima dell’alba, senza fare nemmeno
troppa attenzione
a chi ci avrebbe potuto vedere. Era un piccolo miracolo, per me, anche
solo
poter dormire con lei tra le mie braccia.
Non
parlammo mai del futuro e di quello che ci sarebbe potuto succedere a
Elea,
forse perché non dirlo ad alta voce lo rendeva
più lontano nel tempo, meno
delineato. Sapevamo entrambi che quei giorni nel deserto erano una
parentesi di
paradiso in una vita che sarebbe anche potuta finire a breve. Avrei
voluto che
quel viaggio, per quanto stancante e faticoso, non finisse mai. Non ci
dichiarammo amore eterno né ci facemmo promesse: sapevamo
che tutto quello era
destinato a finire. Non per questo quel periodo fu triste o rovinato
dalla
consapevolezza di quello che sarebbe successo, ma anzi, fu uno dei
più felici
che io abbia mai vissuto. Eravamo solo io e Camille, tutto il resto non
contava.
***
Arrivammo al confine undici
giorni dopo la nostra partenza, uno in più rispetto a quello
che avevo
predetto. Il clima era mano a mano diventato più fresco,
sembrava quasi che il
deserto fosse una bolla di calore perenne. Non si sentivano
più i rigori dell’inverno
che ormai stava per arrivare alla sua fine. Il matrimonio era fissato
per il
venti di marzo, giorno della salita al trono di re Jerome e uno dei
primi
giorni di primavera. Sul fatto che non fosse una data scelta a caso non
c’erano
dubbi: la regina Celia sapeva benissimo cosa faceva.
Le
grandi torri che segnavano il confine tra Viride e
Albis comparirono come visioni, addossate ai fianchi di uno stretto
vallo
scavato tra le montagne. Stranamente però, questa volta non
erano disabitate.
Fumo si alzava dalle loro sommità e della luce brillava alle
finestre.
Marciavamo tutti alla testa dell’esercito quando De Vaaz
ordinò l’alt,
borbottando qualche parola irata nella lingua di Albis. La principessa
Helena
si fece sfuggire una risatina, guadagnandosi un’occhiata
incuriosita da parte
di Camille.
–
È semplicemente stupito che quello che avevate
predetto si sia avverato, – spiegò Helena con un
sorriso che si spense in
fretta. – Devo dire che anche io avevo i miei dubbi, ma a
quanto pare mia madre
vede più lontano di me. Vi sono grata per essere venuti ad
avvisarci. Saremmo
stati completamente indifesi, altrimenti. –
Camille,
che iniziava a sembrare sempre di più sia
nei modi che nel portamento la Principessa che era, rispose con tono
amaro: –
Non farmi passare per eroina, non lo sono. Sono venuta soprattutto
perché avevo
bisogno di aiuto, – guardò dietro di
sé, verso la terra che sapeva espandersi
alle sue spalle. – Che poi abbia imparato ad amare il vostro
paese e desiderato
di non vederlo schiavo del mio, è un’altra
questione. –
Helena
annuì, guardando davanti a sé verso le torri
illuminate: – Allora è stata una combinazione
fortunata. Sono felice di aver
salvato il mio paese e di aver trovato un’amica, principessa
Camille. –
Camille
si girò quasi di scatto, guadagnandosi un
nitrito di protesta dal suo destriero. Era la prima volta che Helena
Elvere la
chiamava con il suo titolo, nonostante avessero passato il tempo ad
Albis
insieme e avessero fatto amicizia. Lo sapevo perché me lo
aveva detto lei:
nonostante apprezzasse immensamente la Principessa di Albis le pesava
non
essere riconosciuta come sua pari, mentre era vista quasi come una dama
di
compagnia.
Jared,
di fianco a me, guardava corrucciato le torri:
– Non hanno perso tempo. –
–
Quando mai i viridiani lo hanno fatto? – risposi,
ironico.
–
Mai, – borbottò il mio amico. – E
pensare che una
volta ne ero anche orgoglioso. –
La
Prima interruppe la nostra conversazione,
facendosi avanti con la bocca spalancata: – Ma allora avevate
ragione! –
mormorò, guardando allibita le grandi torri ocra. Poi si
rivolse a noi e
soprattutto a Camille, inchinando il capo e parlando con voce
addolorata: – Vi
devo le mie scuse per avervi trattati con sufficienza. Mi dispiace,
vedo che
avevate ragione, Principessa. –
Per
la seconda volta in pochi minuti vidi negli occhi
di Camille un lampo di qualcosa che era un misto di orgoglio e rivalsa:
– Scuse
accettate, Prima. Nessuno vuole credere alle cattive notizie,
soprattutto
quando giungono in maniera così inaspettata. Per fortuna, vi
siete mossi ancora
in tempo. –
La
Prima accettò quel rimbrotto pacato senza osare
ribattere. Camille si era davvero tolta un bel peso: era da quando
aveva avuto
il suo primo colloquio con la regina Vanessa che voleva dirne quattro
alla
consigliera.
Mel
e Andreas si erano avvicinati a De Vaaz,
sentendolo parlare concitato con Helena. Il comandante
abbaiò poi tre o quattro
ordini al suo secondo, che scattò verso il grosso
dell’esercito, appostato
dietro un rialzo del terreno.
Camille
mi si affiancò, facendo un bel sospiro
soddisfatto mentre nessuno le badava: – Ah, – mi
disse a bassa voce, per non
farsi sentire. – Tu non hai idea della soddisfazione.
–
Scossi
la testa, sorridendo. Camille sapeva essere
vendicativa come pochi, come si poteva capire da tutta quella avventura
in cui
ci aveva trascinati.
–
Ci sei ancora andata leggera. –
–
Lo so, lo so, – tornò seria per un secondo.
– Sono
troppo buona, che ci vuoi fare? – mi disse, ammiccando.
Mi
venne un’irresistibile voglia di baciarla e stavo
anche per farlo, fregandomene di essere davanti agli occhi di tutto
l’esercito,
quando Mel e Andreas vennero verso di noi al piccolo trotto. Sospirai,
mollando
le redini del cavallo di Camille che avevo già afferrato per
avvicinarmi a lei.
Camille mi guardò con un’aria di scusa mista a
felicità che mi fece venire
voglia di fregarmene anche di Mel e Andreas. Per fortuna il mio cavallo
decise
per me e si allontanò un poco, per brucare un ciuffo di
arbusti secchi.
–
Marcus, vieni, – mi chiamò Mel, avvicinandosi.
–
Dobbiamo andare a prepararci e indossare le armature. Tra poco
passeremo il
confine. –
Le
armature delle guardie della Principessa Elvere
erano più leggere di quelle di Viride, con piastre color oro
chiaro e dipinte
di rosso. Vicino a me Mel, Andreas e Jared si vestivano rapidi. Gli
elmi per
nostra fortuna coprivano il viso, con un cimiero simile alla criniera
di un
leone. Con noi c’era un’altra cinquantina di
guardie, tutte impegnate a
cambiare i vestiti del deserto con l’armatura.
Poco
distanti da noi le dame di compagnia e Camille
si stavano coprendo il viso con dei lunghi veli colorati, portati
apposta da
Egalia. Non era una tradizione di Albis ma Helena Elvere contava sul
fatto che
i soldati di Viride fossero sufficientemente ignoranti da non saperlo.
Galoppammo
rapidi lungo la china, lasciandoci alle
spalle il fermento dell’esercito che si stava preparando. La
torre si stagliava
alta davanti a noi, meno rovinata di quanto mi fossi immaginato.
Impalcature
nuove, di legno, circondavano alcuni lati della struttura. Si sentiva
il
martellare degli strumenti sulla pietra: era evidente che
c’erano delle
riparazioni in atto. Sulla cima, tra i merli, si potevano osservare
soldati
camminare, osservando la terra attorno a loro. Alla base della torre
alcune
guardie riposavano dando le spalle alla porta, stringendosi nei vestiti
per
cercare di coprirsi dal vento che soffiava dal deserto, dietro di noi.
La
principessa Helena si muoveva in mezzo alla
colonna, circondata dalle sue dame e da Camille. Io e gli altri eravamo
mischiati alla scorta, muti come pesci e cercando di essere il
più invisibile
possibile.
I
soldati di guardia della torre si alzarono e si
disposero davanti a noi, obbligando il nostro drappello a fermarsi. La
Principessa
si fermò, mentre la sua scorta lentamente si apriva.
–
Fermi, ordine del regno di Viride. Chi siete voi? –
ordinò la guardia.
La
Prima avanzò, altera sul suo cavallo scuro,
spingendosi avanti fin quasi a pestare i piedi al soldato viridiano.
Per una
volta che l’alterigia della consigliera non era rivolta verso
di noi, mi sentii
divertito e quasi orgoglioso di quel comportamento.
–
Stai parlando con la principessa Helena Elvere,
viridiano. Porta rispetto. Siamo stati invitati dalla regina Celia in
persona
per assistere al matrimonio del suo primogenito, ma se questo
è il benvenuto
torneremo ad Albis. –
Il
soldato fece subito marcia indietro: – Perdonatemi,
vostra altezza, – mormorò chinando il capo,
rivolgendosi alla Principessa. –
Non lo sapevo. Potete passare, però… –
La
Prima aveva un cipiglio minaccioso, il suo accento
più forte per la rabbia e l’indignazione:
– Però? –
La
guardia impallidì ma non cedette. In effetti era
da ammirare per il suo coraggio.
–
Dovreste farmi vedere il viso. Ci sono dei
ricercati, che cercano di entrare nel nostro regno. Dobbiamo
assicurarci che
non siano con voi. –
Sudai
freddo a quelle parole. Individuai con gli
occhi la figura di Camille poco davanti a me, rigida nei suoi vestiti
gialli.
Da come le mani stringevano le redini capii che anche lei era
spaventata. Ogni
nostra speranza era appesa ad un filo.
Mentre
il soldato parlava la Prima spalancò gli
occhi, faceva quasi paura. Stava per aprir bocca che la Principessa la
fermò:
alzò solo la mano e la consigliera chinò il capo
e tacque, spostandosi per
lasciare posto a Helena Elvere.
–
Non scopriremo il viso, nessuna di noi lo farà. Non
romperemo le nostre tradizioni per voi, – la Principessa
parlava piano nella
lingua straniera, gelida. – Sono stata invitata dal vostro
sovrano e sono qui
in rappresentanza di mia madre, la regina Vanessa Elvere. Un affronto a
me è un
affronto a lei. Ora, o ci fai passare e allora farò finta
che questa tremenda
scortesia non sia mai avventura, oppure tornerò indietro per
riferire ogni
cosa. Pensa, e ricorda bene con chi stai parlando. –
Il
soldato guardò Helena mentre parlava,
probabilmente pensando a cosa sarebbe stato meglio per lui: in fondo,
che
possibilità c’erano che i suoi ricercati fossero
al seguito dell’erede al trono
di Albis? Non osò dire nient’altro, si fece solo
da parte. Il drappello iniziò
a sfilare lentamente dietro alla Principessa, mentre lei rimase ferma a
fissare
il soldato che aveva osato contrariarla. In quel momento capii che
Helena
Elvere sarebbe stata una grande sovrana, anche migliore di sua madre.
Sembrava
priva di paura, sicura di sé, orgogliosa e regale: era ovvio
il motivo per cui
Camille l’apprezzava. Era così che doveva essere
una Regina.
Prima
di andarsene, con ancora la Prima al suo
fianco, Helena tornò a rivolgersi alla guardia: –
Il confine è sguarnito da
secoli, da quando c’è il patto. Come mai vedo i
segni di un esercito in
movimento, qui intorno? –
Il
soldato alzò il viso, guardando il velo che
oscurava il volto della Principessa. I compagni alle sue spalle si
lanciarono
occhiate preoccupate: – È
un’esercitazione, vostra altezza. Niente di che. –
Helena
Elvere fece una risata cristallina, che quasi
rimbombò nella piana: – Deve essere il periodo,
allora – disse, girando la
testa verso il confine e verso la sua terra. Sull’orizzonte
si vedevano i
bagliori del sole sul metallo di centinaia di armature, lance, armi. Le
tende
rosse dell’esercito di Albis si alzavano verso il cielo.
Helena
spronò il cavallo e superò il gruppo di
guardie, lasciandole attonite a osservare il confine. Potrei giurare
che
sorrideva divertita mentre galoppava verso l’inizio del
nostro piccolo
drappello.
Camille mi
si avvicinò mentre si tirava su il velo, scoprendosi il
viso: – Ce l’abbiamo
fatta. –
– Così
sembra, – mormorai mentre cavalcavamo verso nord. Un brutto
presentimento si
fece strada dentro di me mentre guardavo verso nord, dove bassi
nuvoloni neri
si stavano raggruppando in cielo: – Almeno per ora.
–
ANGOLO DELL’AUTRICE!
Ciao a tutti! Prima di
tutto ci tengo a scusarmi per la lunga attesa, ma ricominciare a
scrivere
questa storia dopo l’estate è stato veramente,
veramente difficile. Avevo
persino pensato di lasciarla lì e riprenderla più
in là nel tempo, ma per
fortuna mi sono costretta a continuarla. Dico per fortuna
perché sono contenta
di come sia venuto questo impossibile quindicesimo capitolo.
Comunque, incredibile
a dirsi e ancora di più a vedersi, ecco qui il nuovo
capitolo. Spero che sia
venuto bene e soprattutto che sia piaciuto. La vicenda è
quasi finita, ho previsto
ancora circa cinque capitoli… diciamo che siamo ai colpi
finali.
Grazie, come sempre, a
tutti quelli che leggono, recensiscono, hanno messo la storia tra le
seguite o
le preferite (: Fatemi sapere che ne pensate!
Baci,
LyaStark
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Capitolo 16 *** AVVISO! ***
AVVISO!
Ciao a tutti!
Se avete aperto questa pagina sperando in nuovo capitolo, mi dispiace
che siate rimasti delusi.
È passato tanto tempo da quando ho aggiornato questa storia
e ci sono diverse ragioni per il mio ritardo.
In primo luogo, mi sono accorta che in questa storia c'erano tante cose
che non funzionavano, a partire dai personaggi e finendo con la trama
in sè. In più mi sono resa conto che non stavo
scrivendo questa storia come avrei voluto che fosse scritta. Me la tiro
dietro da tanto, tanto tempo, e vorrei renderle giustizia come merita.
In secondo luogo, come dire... ha iniziato ad annoiarmi. E se annoiava
me, che la stavo scrivendo, avrebbe di sicuro annoiato anche voi che la
state leggendo. Questo ci riporta direttamente al punto uno,
cioè: questa storia ha bisogno di una rimessa a posto.
Radicale, aggiungerei.
Ultimo, ma non per importanza, era da molto tempo che non riuscivo
più a scrivere. Scrivevo e cancellavo, scrivevo e
cancellavo, e quando va così forse è il caso di
fermarsi un attimo e fare ordine nei propri pensieri.
Mi dispiace per tutti quelli che mi hanno seguita fino a qui e che non
hanno ancora visto la fine di questa storia, ma non disperate.
Piano piano, con molta calma e tranquillità, ho riniziato a
vedere questa storia dal Capitolo 1 cercando di risistemarla.
Sarà un lavoro lungo e faticoso ma spero di farcela. Spero
di riuscire a rimettermi in carreggiata e tornare a pubblicare questa
storia a cui tengo tanto. Quando succederà la
pubblicherò come nuova e cancellerò quella
vecchia. Già da ora però posso dirvi che ci sono
molte novità all'orizzonte.
Grazie dell'attenzione e scusate per il papiro, che come lunghezza
eguaglia all'incirca quella dei capitoli!
Lunghi giorni e piacevoli notti,
Lya
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