Vongola Decimo di Yuki Kushinada (/viewuser.php?uid=3134)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lambo ***
Capitolo 2: *** Ryohei ***
Capitolo 3: *** Ryohei ~ Seconda parte ***
Capitolo 4: *** Takeshi ***
Capitolo 5: *** Mukuro & Chrome ***
Capitolo 6: *** Hayato ***
Capitolo 1 *** Lambo ***
Note dell'Autrice: Salve gente. Torno da queste parti <3.
Mi scuso profondissimamente per non aver risposto alle recensioni dell'ultima demente oneshot, ma sono stata così impegnata negli ultimi tempi che non ho più controllo di nulla quasi.
Approfitto dei pochi momenti di libertà per presentarvi questa nuova storia. Il raiting è alto per la tematica, non per qualche scena in particolare.
La storia di per sé nasce allo scopo di portare a termine tre obiettivi.
1) Far cozzare a Tsuna la testa contro la vera mafia, perché se è un Boss non può farne a meno.
2) Ufficialmente Lambo è il più debole (ma su questo avrei *tanto* da ridire) e il più vigliacco. D'altra parte, per tutti quanti loro, Lambo è anche una specie di via di fuga dai problemi della mafia. Una distrazione, magari irritante al momento, ma che rilassa i nervi. Che Lambo non cambi è ciò che vogliono tutti quanti loro, in particolare Tsuna. Ed è un punto evidente nella serie, ma che a me piace sottolineare.
3) Mi andava di scrivere sulla famiglia, intesa come mafia e casa insieme.
Peccato che l'avessi prevista di una pagina e mezzo a stento. Hanno iniziato a fare di testa loro strada facendo.
Vongola Decimo
~ Lambo ~
Lambo
non aveva mai considerato Tsuna come un Boss, tanto meno
come il proprio Boss, quanto più come un fratello maggiore. Qualcuno su cui
poteva sempre contare, e che sapeva ascoltare. Qualcuno che non gli avrebbe mai
voltato le spalle, per quanto potesse farlo arrabbiare.
Senza dubbio, poi, Tsuna
aveva un mucchio di difetti. Era ancora troppo buono, troppo innocente per il mondo della mafia.
Vederlo in quel ruolo, per Lambo era più che altro una fatica. Chiamarlo Vongola, dargli del voi al posto del tu, era un favore che Tsuna
non aveva mai chiesto. Era più un modo per accontentare Gokudera,
in effetti, e non sentirlo sbraitare sul rispetto, sulla gerarchia e tutte
quelle altre fantasia che lo coglievano di tanto in tanto. Un sacrificio per il
quieto vivere, non che gli uscisse naturale.
Ma c’erano alcune giornate, alcuni momenti,
in cui Tsunayoshi Sawada
era veramente un Boss, al di là di ciò che a tutti loro piaceva credere.
Erano quei momenti in cui suo fratello non
era più Tsuna, ma il temuto e rispettato Decimo dei
Vongola. Quelli in cui farlo arrabbiare, era una pessima mossa, e trovarsi nel
posto sbagliato, al momento sbagliato, non era affatto conveniente.
Fu nell’istante esatto in cui varcò la
porta del suo studio, che Lambo capì che quel giorno
avrebbe fatto meglio a darsi per malato.
In realtà, era una soluzione geniale: Tsuna lo mandava a chiamare, lui si dava per più morto che
vivo e Tsuna si dimenticava di tutti i suoi problemi
per correre a controllare se davvero era moribondo.
Se avesse scoperto che era una finta, gli
avrebbe gridato dietro per tre ore e mezza, ma quanto meno si sarebbe sfogato.
Se fosse stato malato davvero, avrebbe mobilitato tutti i medici della magione
perché si prendessero cura di lui e avrebbe sbollito la rabbia nell’istante
stesso in cui lo vedeva stare meglio.
Lambo
pensò con una qual certa ironia che la sua morte, presunta o vera che fosse,
aveva un qual certo effetto balsamico sui nervi del don di una delle più
potenti famiglie mafiose al mondo.
Forse era per questo che le incursioni del
piccolo sé gli facevano così tanto piacere. Magari poteva sperare che la sua
versione di cinque anni scegliesse quell’esatto istante di premere il grilletto
del bazooka dei dieci anni.
Conoscendosi, avrebbe messo a soqquadro
tutto lo studio, prima di rischiare la morte in qualche modo stupido, per sua
stessa mano. Da piccolo aveva strani modi di divertirsi.
Tirò un sospiro, augurandosi di vedere una
nuvola rosa circondarlo. Quando niente del genere accadde, decise di farsi
avanti. Sia mai che lo facesse arrabbiare ancora di più.
“Mi avete fatto chiamare, Vongola?” chiese
avvicinandosi alla scrivania in legno pregiato, con fare svagato. Come se non avesse
notato il tic all’occhio, il fremito delle narici, le labbra serrate, le dita incrociate,
le spalle rigide e lo sguardo duro.
Rivolgersi a Tsuna
in quel modo non gli era affatto naturale, ma era la scelta migliore quando Tsuna era di quell’umore.
“Mh.” Annuì
semplicemente il don. “E’ per la tua prossima missione. Ho deciso che non ci
vai. Manderò Ryohei al tuo posto.”
Non aggiunse una spiegazione, semplicemente
rimase in attesa. Quasi a sfidare il più giovane ad una qualunque reazione.
E in effetti, in qualsiasi altro momento
questa non sarebbe mancata, che fosse essa di gioia per lo scampato pericolo o
di rabbia per quella che avrebbe potuto interpretare per una mancanza di
fiducia.
In quell’istante, però, l’idea di
contraddirlo non lo sfiorava nemmeno.
“Va bene” rispose soltanto.
Tsuna
rilassò appena un attimo il collo. Poi prese in mano tutte le scartoffie che
occupavano la scrivania, pretendendo di ricominciare a lavorare.
Era un congedo più o meno esplicito. E se Lambo fosse stato anche solo vagamente furbo, avrebbe
imboccato la via d’uscita senza troppe parole. Ma Lambo
non era che una versione appena più matura di quel bambino che non faceva altro
che ammazzarsi con le sue stesse mani.
Ed è per questo che invece rimase a
guardare quel suo fratello che fingeva di leggere e intanto si lasciava caricare
di rabbia crescente.
Sapeva esattamente cosa era accaduto. Lambo e i divieti non erano mai andati
d’accordo, per cui aveva letto tutti i rapporti di famiglia, anche quelli che Tsuna gli aveva vietato anche solo di prendere in mano.
E, d'altronde, sapeva che la scelta di sostituirlo
con Ryohei, tra tutti gli altri guardiani, non era
casuale.
Tsuna
aveva ereditato gli ideali di Giotto, Vongola Primo, ancor prima di accettare
la guida della famiglia. Lo scopo della Famiglia era proteggere, non
distruggere. Nessuno di loro avrebbe mai minacciato un più debole, nessuno di
loro avrebbe fatto uso della propria forza per il proprio tornaconto. Il Cielo
che li guidava sapeva essere inflessibile quando qualcuno trasgrediva a quelle
leggi.
Ma la priorità assoluta della Famiglia era
la Famiglia stessa. E in nome di essa, anche l’illecito era permesso.
Se Tsunayoshi
avesse avuto possibilità di decisione, il sangue non sarebbe mai stato versato.
Ma anche il Boss dei Vongola non poteva decidere del proprio destino. Quando
l’unica scelta possibile era stata quella della vita dei suoi Guardiani o
quella dei suoi nemici, non aveva esitato a mettere da parte paure e dubbi per
proteggere la propria famiglia.
Il brutto era stato dopo.
Tsuna
non era il tipo di Boss che poteva uccidere e dimenticarsene. Piuttosto quel
sangue gli era rimasto impresso nella mente per giorni, nonostante Reborn gli avesse più volte spiegato a suon di calci che,
se era per il bene della famiglia, ogni scelta era quella giusta.
Tsuna
aveva ucciso. Aveva sofferto, era stato male, aveva pianto, vomitato, aveva
pensato di lasciare la famiglia, forse anche di ammazzarsi. Finché non aveva
semplicemente realizzato che non poteva abbandonare i suoi guardiani: lui era
il Cielo che li guidava, da soli né la tempesta, né la pioggia, né il sole, il
fulmine, la nebbia o la nuvola avrebbero avuto senso di esistere.
Non poteva essere così egoista da
abbandonarli, non ne aveva il diritto, quando ciascuno di loro era pronto a
dare la propria vita per lui.
Così Tsuna era
andato avanti, accettando che per la propria famiglia tutto era lecito, anche
giocarsi l’anima con il Diavolo. Non che il Decimo credesse in un’altra vita o
cos’altro. Piuttosto, sapeva che alle sue azioni un giorno sarebbe conseguita
una punizione. Sapeva di meritarsela e la desiderava, a patto che la sua
famiglia non ne pagasse le spese.
Ma, intanto, era disposto a tutto pur di
difendere la famiglia. A difenderla dal marcio che la mafia si portava dietro.
Accettava le missioni peggiori per se stesso, purché sapesse che le loro mani
erano pulite.
Si era fatto volontariamente del male nel
proseguire quella decisione, perché era molto più semplice lasciare il lavoro
sporco a qualcun altro. Ma Tsuna, essendo il Boss che
era – il migliore cui Lambo riuscisse a pensare – non
avrebbe mai accettato che uno dei suoi Guardiani portasse quel peso, se poteva
impedirlo.
Tuttavia, quella era stata una lotta contro
il tempo, e l’ironia è che il tempo vince sempre.
Perché Hibari non
aveva mai avuto troppi scrupoli verso il suo prossimo, e quando qualche colpo
si era rivelato più duro del previsto, non si era fatto poi tanti rimorsi di
coscienza. Nessuno aveva detto a quei perdenti di provocarlo e mettersi sulla
sua strada, erano andati a cercarsela.
Gokudera
era il suo braccio destro, il più fedele tra i suoi uomini, ma anche il più
ligio alle leggi della mafia, la mafia vera. Quella mafia che non era un gioco,
quella che Giotto non voleva e che Tsuna cercava
puntualmente di cambiare. Così se qualcosa o qualcuno minacciava il suo Boss, Gokudera lo distruggeva senza pietà, con la furia tipica
della Tempesta che rappresentava.
Mukuro
d’altro canto, semmai avesse avuto grandi ideali, li aveva smarriti strada
facendo quando ancora era nella culla. Aveva ucciso prima ancora di diventare
un Guardiano, aveva continuato a farlo anche dopo. Semplicemente, non si
fermava davanti a nulla quando voleva qualcosa.
Yamamoto,
al contrario, non poteva ritenere possibile un concetto come la morte, visto
il carattere che aveva. Eppure, Takeshi era anche un
killer di natura. Naturalmente portato per quel mestiere, quasi fosse il suo
stesso sangue a reclamare quel ruolo. E quando la situazione si era fatta
critica, allora la morte era venuta con la naturalezza tipica che può
accompagnare solo un sicario e la quieta coscienza che sia lui, che Reborn, erano perfettamente consapevoli che un giorno una
cosa del genere sarebbe accaduta.
Il Boss dei Vongola era un assassino. I
suoi guardiani erano assassini. Ma ogni uomo che cadeva sotto il nome della
propria Famiglia, per Tsuna rappresentava una
sconfitta.
E di fronte ad ogni sconfitta, Tsuna perdeva un po’ della sua spensieratezza e della sua
innocenza.
Solo Lambo e Ryohei non si erano mai sporcati le mani con la vita
altrui. Ryohei perché non poteva, essendo lui il
Guardiano del Sole, il guardiano della vita; Lambo
perché era il più giovane e perché Tsuna si era
assicurato non prendesse mai parte a nessuna missione troppo pericolosa.
Quando poi qualcosa finiva nel verso
sbagliato, Lambo non poteva partecipare a nessuna
missione in assoluto, anche se questa significava andare a comprare il latte al
supermercato all’angolo.
Tra loro era il più piccolo e per Tsuna era come un fratello da crescere. Non lo avrebbe
esposto al pericolo se poteva evitarlo e non avrebbe accettato che anche sulla
sua di coscienza vi fosse il peso che ricadeva sulla loro.
Lambo
non sapeva come il Decimo avrebbe reagito, se un giorno fosse tornato nel suo
ufficio e lo avesse avvertito che qualcosa era andato storto nella sua missione
e che anche lui aveva ucciso.
La sola idea bastava a spaventarlo, in
realtà.
D’altronde, non era un’esperienza che aveva
voglia di provare, quella di rendersi responsabile della morte di qualcuno. Ed
era proprio per quello che, se anche capiva la rabbia che faceva fremere tutti
i muscoli di Tsuna, non poteva condividerla.
Perché mentre quell’uomo che era un amico,
e un fratello, più che un Boss, recriminava un gesto cui era stato costretto, Lambo sapeva che se lo aveva fatto era stato solo per
salvare la vita di uno dei suoi guardiani, o al più per sollevarli dalla
responsabilità di effettuare uno di loro quel gesto empio.
Tsuna
non era un assassino, agli occhi del Guardiano del Fulmine, ma un uomo d’onore
che pur di difendere la sua Famiglia, era disposto a tutto, anche a marcire
dentro, se necessario. Perché il rimorso era un morbo e quelle poche volte che
era accaduto, Tsuna ne aveva sofferto come nessuno di
loro avrebbe fatto per un estraneo.
Fu per questo che Lambo,
anziché decidere di andarsene, aggirò la scrivania, si inginocchiò ai piedi di
quel suo fratello che si era sempre preso cura di lui, gli afferrò la mano
destra e ne baciò l’anello, mentre quello lo guardava a dir poco stranito.
Quell’anello era il simbolo dei Vongola, il
simbolo di tutto quanti loro. E quello un segno di rispetto verso un Boss che
non avrebbe mai tradito, verso l’uomo che li aveva amati al punto da
sacrificare sé stesso, per loro.
“Grazie” mormorò soltanto, con le labbra
ancora a contatto di quel gioiello che portava incisa la scritta di Vongola Famiglia.
E quella era la parola di troppo, quella
che avrebbe dovuto risparmiarsi, quella che sapeva avrebbe fatto traboccare il
vaso, ma che non poteva tenersi per sé, perché Tsuna
non poteva conoscere solo la propria versione dei fatti.
Il Decimo dei Vongola scattò in piedi, teso
come una corda di violino. Era frustrato, arrabbiato, nervoso e assolutamente
incapace di capire cosa diavolo ci fosse da essere grati nel fatto che avesse
eliminato il Boss di una famiglia rivale che aveva scoperto gli indirizzi di
alcuni affiliati Vongola e li aveva fatti assassinare, e che aveva preso di
mira le ragazze, quando lui aveva tentato di risolvere la questione in maniera
più pacifica.
Tsuna
era consapevole del proprio ruolo, sapeva che quel bastardo se lo meritava,
sapeva che non poteva fare altrimenti per il bene della famiglia, ma sapeva
anche che non c’era niente di cui andar fieri, se non era riuscito ad uscirne
fuori in altri modi. Ad impedire che la questione avesse inizio sin dal
principio, a salvare la vita ad uomini che avevano abbracciato la sua causa e
quella di chi lo aveva preceduto.
Era forse da ringraziare per questo? Perché
aveva ucciso e perché non aveva protetto la sua famiglia come avrebbe dovuto?
La rabbia che montava dentro gli rimbombava
nelle orecchie pulsando sangue a ritmo spietato, ed era un’emicrania latente, e
il bisogno di urlare che bruciava nella gola. Probabilmente neanche si accorse
della Fiamma del Coraggio di Morire che lo illuminava.
Quando la luce arancio gli illuminò in sfumature
crepuscolari il volto, Lambo realizzò di aver sbagliato
alla grande.
Chiuse gli occhi e chinò il capo,
aspettandosi uno schiaffo almeno. Avrebbe potuto scansarsi o darsi alla fuga,
ma non voleva contraddire quell’uomo che era un fratello, non un Boss, e poi
quando Tsuna era in quel modo faceva troppa paura per
tentare qualche mossa stupida. Qualche altra, almeno.
E nell’ansia dell’attesa si chiese se non
sarebbe stato proprio l’anello che aveva baciato a lasciargli il segno sul
volto.
Tuttavia, quando non successe niente per un
minuto almeno, alzò nuovamente gli occhi e si stupì quasi di vedere la figura
dell’altro tremante di frustrazione e rabbia, i pugni serrati, ma gli occhi
distolti, arrossati.
“Esci dallo studio, Lambo”
scandì lentamente il Decimo.
E Lambo, entrambi
gli occhi spalancati, rimase di sasso per un istante a quelle parole. Perché Tsuna non se la sarebbe presa contro di lui, ma contro se
stesso. E il bisogno di stargli vicino, come Tsuna lo
era sempre stato per lui, era forte, ma capiva anche che l’altro in quel
momento aveva bisogno di restare da solo.
Uscì dall’ufficio senza un ulteriore
commento e si chiuse la porta alle spalle, ma non senza un ultimo sguardo verso
l’uomo che ora sostava lungo la grande vetrata, le braccia rigide lungo i
fianchi.
“Yo, Lambo!” Yamamoto, dopo aver
bussato e aperto senza aspettare risposta – il che era abbastanza frustrante,
considerato che aveva anche una ragazza – fece capolino dalla porta della sua
stanza. “Tsuna vuole vederti.”
Lambo
tirò un sospiro di sollievo, sentendosi incredibilmente più leggero, quando il
Guardiano della Pioggia uscì.
Non sapeva neanche di essere tanto teso. E
mentre camminava verso lo studio di Tsuna realizzò
che erano tre giorni che aveva evitato quella strada.
Ma il fatto che Tsuna
avesse chiesto a Yamamoto di andarlo a chiamare era
un bene, significava che la sua era una richiesta, non un ordine. Avrebbe
potuto inventare a Takeshi qualche balla per cui non
poteva assolutamente muoversi – benché stesse leggendo comodamente svaccato sul
letto, quando Yamamoto era entrato in camera sua – e Tsuna non avrebbe insistito.
Solitamente, quando reclamava la sua cieca
obbedienza mandava Gokudera ad avvertirlo. E il
Guardiano della Tempesta aveva uno strano concetto di avviso, per non parlare
dei tempi con cui pretendeva che ogni ordine del Decimo fosse portato a termine.
Lambo,
che almeno in quello era migliore degli altri guardiani, bussò e attese finché
non gli fu dato il permesso di entrare.
“Mi avete fatto chiamare, Vongola?” domandò,
con una curiosa sensazione di deja-vu.
Tsuna
era nervoso, ma era un nervosismo tipico dei suoi. Più come se fosse prossimo
all’infarto. Raccattava tutto alla bell’e meglio facendosi a mezza voce un
elenco confuso di quello che gli mancava, o che doveva fare, o non lo capiva.
Ma per ansioso che potesse essere, i
movimenti erano fluidi, le spalle rilassate, i suoi occhi calmi e tranquilli.
“Ehm… Vongola?” Riprovò.
“Ah, eccoti, Lambo.”
Alzò la testa mentre sfogliava carte su carte. “Ti va di venire con me in
missione? Devo andare a Roma e consegnare alcuni documenti al Boss della
famiglia Beccio, ma preferisco farlo di persona. Se
solo li trovassi. Vieni? Però fai le valigie in fretta che siamo in ritardo. Ahh… Ma dove diavolo sono?”
Il fatto che avesse dato per scontato il
suo consenso non gli diede fastidio, anzi era vagamente divertente vedere il
temuto Boss dei Vongola controllare se i documenti si fossero nascosti sotto il
calendario da tavolo.
“Quanti giorni staremmo via?”
“Mh. Due? Tre? O
tutta la vita se quei benedetti documenti non escono fuori, perché altrimenti Reborn mi ammazza.”
Lambo
per sicurezza decise che si sarebbe portato dietro mezzo armadio. Tanto, se
conosceva Tsuna e il proprio stomaco, sarebbe
riuscito a trascinarlo in tutte le gelaterie di Roma, e solo quello richiedeva
cinque giorni buoni. Poi qualche souvenir ci scappava sempre, e quelli erano
altri due giorni. Finiva sempre così quando andavano insieme da qualche parte. Lambo sospettava che lo invitasse ogni volta che aveva bisogno
di staccare la spina.
E a lui faceva solo piacere.
“Vado a preparare le mie valigie” annunciò,
mentre lo vedeva lanciarsi disperato sotto la scrivania, nella cieca
convinzione che da qualche parte quei maledetti fogli dovevano pur esserci.
“Ah, Lambo” Lo
fermò il Boss sulla porta, sbucando da sotto la scrivania. Il naso che
affacciava a malapena sul piano in legno.
Lambo
pensò che se avesse scattato una foto in quel momento, avrebbe avuto un’arma di
ricatto a vita.
“Dimmi… Cioè,
ditemi.”
“Grazie. E scusa.”
Lambo
dubitava seriamente che l’altro gli dovesse ringraziamenti o altro, né gli
servivano. Però Tsuna si era ripreso e questa era la
cosa importante. Certo, sapeva che la ferita era rimasta e che se ne sarebbero
aggiunte altre. Ma Tsuna faceva tutto per il bene
della propria famiglia, anche tornare a sorridere pur non avendone la voglia.
E il Guardiano sapeva che un giorno anche
lui sarebbe stato disposto ad uccidere e a morire per un uomo che ti chiedeva
scusa da sotto una scrivania. Magari la foto doveva scattarla sul serio e
inviarla a Gokudera, così giusto per fargli venire un
infarto.
“Vongola, secondo cassetto. In mezzo agli
ultimi modelli che vi ha dato Giannini.”
Il Decimo dei Vongola inarcò un
sopracciglio, ma sfogliò lo stesso tra i prototipi di nuovi armi e supporti.
Quando trovò il fascicolo per poco non gli venne un infarto.
“Tu lo sapevi” affermò.
“Nah, ho tirato
ad indovinare.”
“Lambo!”
“Sì, sì, mi sbrigo, non vi farò attendere
troppo, Vongola” annuì, furbo.
Un’altra cosa che Tsuna
non gradiva più di tanto era il suo continuo andare a sbirciare in tutta la sua
documentazione. Se avesse saputo che tutta significava veramente tutta, lo
avrebbe strigliato per giorni.
Ma d’altronde, sapeva anche benissimo che Lambo avrebbe sgraffignato di tutto dal frigo bar
dell’albergo e che si sarebbe arrabbiato, in quella vacanza a Roma, eppure
aveva deciso di portarlo con sé lo stesso.
Lambo
fece il più presto possibile, salutò I-Pin con un bacio, e salì sulla macchina
che lo avrebbe accompagnato all’aeroporto.
Tsuna,
al suo fianco, guardava il cielo dal finestrino, distratto in pensieri che non
trapelavano dal volto tranquillo. Non rilassato, ma tranquillo. Più che di una
vacanza, Tsuna aveva bisogno di star lontano dal
mondo della mafia per almeno qualche giorno, di essere davvero suo fratello e
basta, di non avere sulle spalle la responsabilità di tutte quelle persone.
“Vongola” lo chiamò.
“Non c’è Gokudera,
Lambo” rispose Tsuna, con
tono più serio di quello desiderato.
Lambo
si stravaccò sul sedile. La testa appoggiata sulle gambe dell’uomo al suo
fianco, le gambe piegate contro il finestrino opposto.
Se c’era Gokudera
era morto, ad esempio.
“Sì, ma Vongola suona più figo” annuì, mentre Tsuna si
chiedeva se non lo stesse prendendo in giro.
“Tsuna,” riprese
il Guardiano “se tu mi chiedessi di fare qualcosa, e io pensassi che quella
cosa è sbagliata, io…” si interruppe, cercando di
figurarsi per bene la scena.
“La faresti?”
“No, scapperei via frignando o cercherei
una scusa convincente” chiarì in un attacco di sincerità immotivato che fece
sghignazzare il Decimo. “Però ci proverei, anche solo di nascosto. Perché so
che qualunque decisione tu prendi è per il bene della famiglia. Per il nostro
bene. Questa è la fiducia che abbiamo in te. Questo è perché abbiamo scelto di
seguirti. Anche se non sei tagliato per fare il Boss.”
“Cosa?” urlò quasi, vagamente stizzito.
Lambo
annuì stravaccandosi meglio. “Ti manca la risata da cattivo. Ce l’hanno tutti i
boss, ce l’ha persino Mukuro, per non parlare di Byakuran. Sai quando uno ride e a te viene voglia di
scappare? Quando ridi tu la gente si diverte. Non proprio il tipo di cosa che
ti mette paura.”
“E perché dovreste
avere paura di me?”
“Tranquillo, non ne abbiamo. Noi siamo
troppo anarchici per fare sul serio i mafiosi.”
“Non inizierai a pensare anche tu che è
tutto un gioco, spero!”
“L’importante è che stiamo tutti bene e che
siamo felici, no? Beh, lo siamo. Anche se non sempre è facile” aggiunse infine.
Tsuna
guardò il ragazzo che si svaccava meglio cercando di stare comodo a scapito suo
e delle sue gambe. Lambo era il più debole e
vigliacco dei suoi guardiani, ma anche il più innocente. E quello che purtroppo
era privo di filtro tra cervello e bocca.
Ma proprio per questo, se Lambo sosteneva che la sua famiglia era felice, poteva
fidarsi che quella era le verità. E tornando a guardare il cielo che
rappresentava, pensò che per quella famiglia avrebbe ucciso ancora, se fosse
stato necessario.
Perché era un dolore che straziava l’anima,
non avere altra alternativa. E lui lo aveva sempre detto che non era tagliato
per fare il Boss. Ma se quella in rischio era la sua famiglia, allora era
disposto ad essere il Decimo dei Vongola che tutti si aspettavano, quello che
Giotto aveva accettato come erede, quello che avrebbe lottato a costo della
vita.
Chiuse gli occhi e si rilassò, pensando
solo a godersi quella breve vacanza. |
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Capitolo 2 *** Ryohei ***
Note oscenamente lunghe dell'Autrice ma saltabili: Bon, che dire. Sto facendo una cosa che non avevo assolutamente voglia di fare. Non con Reborn almeno, creare una serie.
Spieghiamoci un po', Reborn è una specie di malattia che non mi levo dalla mente, ecco perché ci scrivo fic sopra, cosa che in realtà non dovrei fare visto che prima di realizzare il sogno di pubblicare un libro dovrei finire di scriverlo. Per tal motivo, mi sono messa in testa che con Reborn avrei fatto solo oneshot: non impegnative eccessivamente per me da scrivere e per i lettori da seguire. Ho tempi di aggiornamenti schifosi. Eppure, nonostante questa storia fosse prevista come a sé stante e conclusa da un anno eccomi qui.
Perderò due minuti a dirvene il perché. Ho sempre voluto scrivere su Ryohei Sasagawa. Non perché è il mio personaggio preferito, ma perché credo sia il personaggio più difficile su cui tirare fuori qualcosa.
Lui e Hibari, scriverli bene e mantenerli IC è tutto men che un gioco da ragazzi.
Ecco perché una storia su di lui, perché si trova qui è un altro discorso più delicato e c'entra Tsuna, che invece è diventato prepotentemente il mio personaggio preferito. Non lo era quando ho cominciato a scrivere di Reborn, giuro.
Questa storia ha tutti gli obiettivi che aveva la prima di Lambo ecco perché le ho messe insieme.
Primo fra tutti, la mafia vera. La domanda di base era: i Vongola sono inguiati di soldi, non possono esserlo facendo i bravi ragazzi, francamente. L'unico modo è che anche loro facciano tutto quel giro di cose mafiose, alias droga, prostituzione, tangenti. Dei guardiani chi si occuperebbe mai di cosa?
Ecco dove mi viene fuori una storia su Ryohei. Se c'è un elemento che di lui hanno sottolineato sulla storia è che è molto protettivo con le ragazze in generale. Al punto che sacrificherebbe se stesso - la propria morale - per salvaguardare una ragazza.
Da qui l'altro tema. La fede. Perché lo stereotipo del mafioso medio indossa un crocifisso. Lo premetto subito. Non è una storia religiosa ma mi piace analizzare tutti i punti di vista dei personaggi e sostanzialmente il fatto che Tsuna pur non avendo le stesse idee le rispetta tutte (incluse il buddhismo versione Mukuro XD).
Secondo punto, confronto Famiglia/famiglia e di conseguenza confronto tra lo Tsuna "buono a nulla" di sempre e lo Tsunayoshi Sawada don Vongola.
Terzo punto, sviluppare il rapporto tra Tsuna e i suoi guardiani. Il che mi fa venir voglia di scrivere sette storie per ciascuno di loro. Il guaio è che mentre per alcuni è abbastanza semplice tirare fuori un'idea, per altri (e più di tutti Gokudera, ma anche Yamamoto non ci scherza) per niente.
Per cui... Non so se concluderò mai tutte e sette le storie, ma almeno sono scollegate tra loro.
Con questo vi ho annoiato abbastanza vi lascio alla storia. Spero possa piacervi.
Vongola Decimo
~ Ryohei ~
“…la madre e
onora il padre. Non uccidere. Non commettere atti impuri. Non rubare. Non
commettere falsa testimonianza. Non desiderare…”
“Ama il tuo Dio con tutto il tuo cuore e ama
il prossimo come te stesso.”
Ryohei
si voltò di scatto stupito. Seduto sulla panca alle sue spalle, nella piccola
cappella all’interno della magione, vi era il Boss di una delle più potenti
famiglie mafiose, in Italia e nel mondo.
“Tsuna…”
Il ragazzo si strinse nelle spalle. Gli
occhi fissi sulla croce dietro l’altare. “Reborn era
convinto che per completare il mio addestramento come padrino dovessi conoscere
a memoria il Vangelo.”
Il boxer si buttò contro la spalliera della
panca, le braccia allargate lungo il banco, la testa rivolta all’indietro.
Indossava ancora lo smoking. Da quando era rientrato dall’ultima missione aveva
avuto giusto il tempo di consegnare i rapporti a Gokudera,
prima che sentisse il bisogno di andare in Chiesa.
“E perché mai?” domandò, non trovandoci un
nesso.
“Diceva che un giorno avrei sentito il
bisogno di chiedere perdono. E che sarebbe stato meglio se per allora avessi
idea di come fare.”
“Mh” annuì il
ragazzo più grande. “E aveva ragione?”
“Non lo so. Non sono cristiano, quindi non
so se ha senso. Ma anche se fosse, il giorno che mi ritroverò a chiedere scusa
per i miei peccati non mancherò di far presente che è colpa sua se mi sono
ritrovato coinvolto nella mafia” sbottò con una smorfia che fece scoppiare di
risate Ryohei Sasagawa.
Ryohei
in una parola era rumoroso. Non che
gli altri Guardiani lo fossero meno messi insieme, ma Ryohei
aveva una sorta di primato. Non osservava il silenzio in nessun posto e per
nessun motivo. Neanche in ospedale. Anzi,
soprattutto in ospedale, decretò poi, visto
che era la sua sede principale.
La Fiamma del Sole serviva per curare e
dare vita, non era fatta per uccidere. Proprio per questo nella Famiglia il
ruolo di Sasagawa era presto diventato quello di
medico. Era lui ad occuparsi di dare il primo soccorso ai feriti e quando
partecipava a missioni il suo preciso compito era quello di supporto, mai di
esecutore.
Dei suoi Guardiani, Ryohei
e Lambo erano gli unici che non si portavano il peso
della morte sulla coscienza. Uno perché non poteva uccidere, l’altro perché era
ancora troppo giovane per lasciarsi coinvolgere pienamente dallo squallore
della mafia.
Qualunque fosse il motivo, avrebbe fatto di
tutto perché le loro mani, almeno le loro,
rimanessero pulite.
Ironicamente, erano anche i suoi unici
Guardiani ad avere il coraggio di credere in un Dio. In realtà, Lambo non si era posto troppe domande esistenziali,
semplicemente i Bovino erano cattolici e Lambo lo era
diventato di conseguenza. Quella di Ryohei, invece,
era una specie di crescita morale, o estrema
illuminazione, che aveva intrapreso da quando erano arrivati in Italia.
Neanche Chrome aveva
mai commesso un omicidio, ad esser sinceri, ma di questo doveva ringraziare Mukuro Rokudo, che l’aveva sempre
protetta e tenuta lontana dal campo di battaglia quando la situazione si
metteva male. Peccato che lui invece ne
commettesse abbastanza da compensare tranquillamente per la sua compagna.
“Non sapevo che il maestro
Pao Pao fosse credente”
rifletté ad alta voce il boxer.
Tsuna
non trattenne una smorfia sarcastica. “Penso sia più il diavolo in persona, ma
non so se questo significhi che crede nell’esistenza di una sua controparte
buona. Credo anche che abbia un girone dell’inferno riservato solo per me,
pieno di scartoffie da leggere e firmare, conti da pagare e burocrazia varia.
Un giorno me l’ha anche confessato, sai? Ha detto che stava scherzando, ma non
mi fido affatto, se vuoi la verità.”
Ryohei
rise ancora, una risata forte, virile, vitale.
“Sawada,
sembra estremamente simile al tuo ufficio, sai?”
“Tu dici?” ribatté
retorico. “Come è andata la missione?” Gli chiese poi, appoggiandosi al banco
di fronte, accanto al braccio sinistro del boxer, tonificato di anni di
allenamento.
Reborn
non c’era andato piano quando si trattava di addestrarlo, eppure lui non aveva
mai messo su troppi muscoli, pensò distratto.
Il Guardiano si concesse
qualche secondo di silenzio, tornò a guardare l’altare di fronte a sé, chiuse
gli occhi.
“Ho già dato tutto a Testa
di Polpo.”
“Sì, Hayato
ha sistemato il rapporto e me lo ha consegnato. Ma non mi interessa sapere che
c’è scritto, voglio che tu mi dica
come è andata.”
Ryohei
sbuffò. Riaprì gli occhi, si concentrò sulla statua del crocifisso finemente
lavorata.
“Certi uomini non li
capisco, Sawada” borbottò a bassa voce come se gli
stesse confessando un segreto.
Tsuna
non lo interruppe, non gli chiese spiegazioni, lasciò che si sfogasse.
“Come possono costringere
delle donne a vendersi per strada o picchiarle in quel modo? Insomma, anche
loro hanno madri o sorelle. Alcuni sono pure sposati e con figlie. Come possono
farlo? E se accadesse a qualcuna di loro?” Si fermò un istante, strinse i pugni
senza accorgersene, tremava. “Se una cosa del genere fosse successa a Kyoko…”
“Non le potrebbe mai
accadere nulla di simile. Tu non lo permetteresti, nessuno di noi lo farebbe.”
Negli ultimi giorni i casi
di prostitute assassinate erano aumentati in maniera preoccupante.
Probabilmente, si trattava di una faida: per ostacolare una Famiglia rivale,
qualcuno aveva deciso di ucciderne una delle principali fonti di guadagno.
Benché i Vongola non fossero
mischiati direttamente in quella storia, Tsunayoshi Sawada non era il tipo di Boss capace di starsene con le
mani in mano. Nessuno poteva permettersi
di uccidere liberamente nella sua zona.
Dopo anni nella mafia, un po’ mafioso lo
era diventato pure lui, a modo suo. Quanto fosse grande la sua zona andava dal proprio bagno al mondo intero, a seconda
dell’umore. In quel caso nella fattispecie, la sua zona comprendeva perfettamente l’area dove erano avvenuti gli
omicidi.
Si era occupato di persona, con l’aiuto di Gokudera e Chrome, della Famiglia
responsabile di tutte quelle vittime. Aveva punito ciascuno dei sicari, e dato
al Boss più di una valida motivazione per non provare mai più a mettersi contro
di lui.
Tsunayoshi Sawada, a capo dei Vongola, era il terrore nel terrore. Le
altre Famiglie temevano i Vongola più di ogni altra possibile minaccia, Tsunayoshi era la legge, impietoso con i nemici, misericordioso con gli amici, come gli
aveva insegnato Reborn.
Tsuna,
beh, non era né un demone, né un santo. Ma non poteva riportare la mafia al ruolo
di vigilanti e protettori senza combatterla dall’interno e, ormai, aveva visto e
sentito troppo, per non sapere quando fosse necessario essere implacabile.
Quando la Fondazione di Hibari
aveva indagato ulteriormente sul caso, per capire come fosse possibile quella
strage nel loro territorio, aveva
scoperto che una delle Famiglie alleate aveva messo su di nascosto un giro di
prostituzione che copriva tutta la regione, e invischiava un centinaio di
ragazze dai tredici ai venticinque anni. Sfruttando la protezione dei Vongola,
sfruttando la sua di protezione.
Reborn
gli aveva consigliato di non esporsi personalmente, non ancora almeno, non
prima di aver fatto sputare la verità al Boss alleato. La scelta era stata se
mandare Mukuro ad occuparsene o Ryohei.
Se avesse optato per Mukuro,
era certo non ci sarebbero stati sopravvissuti. Il Guardiano della Nebbia aveva
una vena omicida talvolta incontrollabile. Già normalmente non era la persona
più pacifica del mondo, ma qualunque missione implicasse sfruttamento di minori
si traduceva in un lago di sangue.
Era così d’altronde che era finita quando
gli aveva chiesto di occuparsi di due Famiglie del Nord che mandavano avanti il
mercato nero degli organi di bambini.
Ryohei,
invece, non avrebbe ucciso nessuno, non era nella sua indole e non si sarebbe
abbassato a sporcarsi le mani con gente che considerava indegna. Ma non
l’avrebbe fatta passare liscia a chi buttava con la violenza delle ragazze
sulla strada.
“Continuo a non capire. Tsuna,
tu non hai visto le cicatrici che avevano addosso. I lividi. Le bruciature. Un
uomo che fa queste cose non è estremamente un uomo” urlò alla fine, come a
sfogarsi.
Tsuna
non negò, non cercò neanche di consolarlo, perché Ryohei
non aveva bisogno di false parole di conforto, gli guardò le mani: erano
bendate, doveva essersi ferito a furia di usarle.
“Non avrei dovuto mandarti da solo” disse,
pensando a quanto dovesse aver lottato.
“No, hai fatto bene. Quelle ragazze erano
spaventate. Ho faticato parecchio a convincerle a fidarsi di me, se fossimo
stati in tanti sarebbe stato peggio.”
“Quante sono?”
“Sessantatré in
tutto. Almeno adesso. Ne sono morte almeno ventuno durante la faida. Le ho
rintracciate tutte, le ho curate come ho potuto. Però…”
Si interruppe di nuovo. La fronte
corrugata, gli occhi sempre fissi sul Cristo, quasi cercasse una risposta che
non riusciva a trovare.
Quando Tsuna capì
che non avrebbe proseguito da solo gli diede uno stimolo. Gli posò una mano
sulla spalla, stringendo con affetto. “Però?”
“Ho detto loro che sono libere, che possono
cambiare vita, ma non tutte vogliono.”
“In che senso?”
Finalmente Ryohei
si voltò verso di lui. Si girò a guardarlo negli occhi e Tsuna
vi lesse tutta la confusione e il dolore che il Guardiano provava in quel
momento.
“Hanno paura, Sawada.
Sono confuse, non lo so. Almeno una dozzina di loro mi ha chiesto di lavorare per me. Io non sono quel tipo di uomo, Sawada! Mi rifiuto che delle ragazze debbano prostituirsi e
pagarmi, ma loro vogliono assicurarsi la mia protezione. La mia parola non
basta, vogliono avere una conferma nell’unico modo che conoscono. Qualunque
cosa dicessi, loro non mi credevano, anche quando ho giurato di essere disposto
a proteggerle senza bisogno di nulla in cambio.”
“Di cos’è che hanno paura, Ryo?”
“Dicono che altri mafiosi le conoscono, che
prima o poi le costringerebbero a tornare su quella strada e che, se proprio
devono prostituirsi, vogliono un protettore che non le massacri. Che razza di
uomo sarei se accettassi una cosa del genere? Sarei identico ai bastardi che le
hanno costrette a…”
“No” lo interruppe Tsuna,
rilassandosi contro lo schienale. Fu lui a guardare la statua del Gesù
crocifisso questa volta.
Non era la sua religione quella e in realtà
non ce l’aveva neanche una religione, ma capiva benissimo ugualmente che Ryohei era andato in Chiesa per seguire quel consiglio che Reborn aveva dato a lui a suo tempo. Aveva bisogno di
chiedere perdono.
Non serviva sapere quale fosse il peccato
che si sentiva sulla coscienza, semplicemente, non stava bene
con se stesso. La mafia non faceva stare nessuno bene.
“Tu non hai mai forzato nessuno a fare
nulla, né tanto meno hai usato la violenza su delle donne. Se scelgono di
continuare a fare quello che facevano prima, non è colpa tua. Neanche se
accetti di proteggerle.”
“Ma io non voglio estremamente che continuino” puntualizzò il più grande.
Tsuna
si grattò la testa pensieroso. I suoi Guardiani facevano a gara a chi fosse più
cocciuto: avrebbe potuto cercare di far ragionare Ryohei
per ore, ma non aveva speranze di fargli capire che non era responsabile delle
azioni altrui.
D’altronde, neanche Reborn
ci riusciva molto con lui stesso.
Ma se tutto ciò che Tsuna
faceva era per proteggere la sua famiglia e le persone che gli stavano a cuore,
Ryohei d’altro canto aveva la sindrome del fratello
maggiore. Non poteva dirgli che una cosa non lo riguardava in prima persona,
quando si convinceva del contrario. Smise anche di provarci.
“Cosa credi che farebbe Lui al tuo posto?”
chiese invece, indicando col mento la statua.
Ryohei
si voltò di nuovo, concentrato seriamente come lo era stato prima quando
ripeteva i Comandamenti. Tornò a guardare il suo boss. “Insegnerebbe loro ad
amarsi.”
“Mh. Allora sai
cosa fare.”
“Ma io non ne sono capace, Sawada!”
“Sì, che lo sai fare. In questi anni ti sei
preso cura di Kyoko, di me, dei bambini e di tutti
gli altri.”
“Curare una ferita o due è estremamente
diverso.”
“No, ti sei preso cura di noi come farebbe
un fratello. E’ quello che sai fare di più e se continui non puoi sbagliare.”
“Tsuna, quelle
ragazze hanno subito troppo per fidarsi fino a questo punto di un uomo, di uno
come me per lo più” chiarì, implicando il suo appartenere alla mafia. “Non
vogliono un fratello e non vogliono me
per fratello.”
“Ryohei” lo
chiamò l’altro dolcemente “da quando ti arrendi al primo tentativo? Mi hai
tormentato per il club di boxe per cinque anni e adesso getti già la spugna?”
“Ma non è la stessa cosa…”
“Tu però puoi affrontarla allo stesso
modo.”
Ryohei
si fermò un attimo a riflettere sul senso di quelle parole. Non aveva mai convinto
il ragazzo che gli era di fronte ad accettare la boxe come proprio destino. Anzi,
nel tentativo di farlo, era stato lui piuttosto a cambiare idea e capire che
preferiva più imparare come salvare i propri amici e non come affrontare i
propri nemici.
Ma non aveva mai mollato, anche quando
sapeva che era una causa persa.
D’altra parte Sawada
non aveva vissuto ciò che avevano provato quelle povere ragazze sulla loro
pelle. Non quando frequentavano ancora le scuole, almeno. Lui non aveva demoni
da affrontare.
Lo guardò attentamente, ne studiò il
sorriso caldo, affettuoso, quello che non mancava mai di rivolgere ai suoi
amici, ma gli occhi erano stanchi, provati, vissuti. Si contraddisse, sia Tsuna che lui stesso avevano conosciuto la violenza sin
dalle medie. Solo perché il modo era diverso, non significava che la mafia non
avesse messo più volte le loro vite in pericolo.
Ryohei
aveva solo sedici anni quando era finito nelle mani dei Vindice e, seppur per
breve, aveva assaggiato ciò che Mukuro Rokudo aveva vissuto per anni, fin da quando era solo un bambino.
Tutti loro, in qualche modo, avevano dovuto
lottare contro le proprio paure, contro se stessi e un mondo perverso, quando
erano ancora adolescenti. Ma erano sempre stati uniti, si erano protetti a
vicenda ed erano diventati ogni volta più forti.
Solo perché quelle ragazze temevano la
libertà, non significava che lui non potesse aiutarle a crescere ugualmente.
Doveva quanto meno provarci. E riprovarci. E riprovarci ancora, finché non
avesse compiuto il suo obiettivo.
Il Maestro Colonnello non gli aveva
insegnato ad arrendersi alla prima difficoltà, ma ad abbattere con un pugno una
montagna intera. Anche quando quella montagna non esisteva affatto, se non
negli incubi di qualcuno.
Tsuna sorrise
ancora di più: poteva quasi vedere le fiamme della risoluzione accendersi nei
suoi occhi.
“Hai ragione. Me ne prenderò cura io e le
convincerò che quella vita non fa per loro.” Si fermò a pensare a quale
alternativa proporre loro, come convincerle che se ne sarebbe preso cura
ugualmente. “Sawada!” gli urlò rompendogli un timpano
“A te servono dodici infermiere, vero?”
“Se le tieni lontane da Shamal”
mormorò, tenendosi dolorosamente le orecchie.
“Bene, mi faccio una doccia e vado in
missione.”
“Dovresti dormire un paio d’ore prima, lo
sai?”
“Non c’è tempo. Finisci di pregare per me.
Io vado.”
Quando lo vide uscire dalla cappella come
se volesse demolirla temette di aver creato un mostro. Si alzò anche lui,
buttando un ultimo sguardo al Cristo.
“Non ti offendi, vero?”
Mettersi a pregare al posto di Ryohei ad un Dio in cui non credeva sarebbe stato fin
troppo ambiguo anche per lui. Quando nessuno lo fulminò, ne dedusse che, ammesso
che Ryohei aveva ragione e quel Dio esisteva, non se
l’era presa.
“Mi chiedevo se avessi intenzione di
restare qui per sempre” mormorò appena uscì alla cappella, senza bisogno di
guardare la figura di Reborn, stagliato accanto alla
porta.
“Te ne eri accorto.”
In realtà, l’intuito dei Vongola gli diceva
sempre quando c’era un pericolo in agguato, e lui era il più grande che potesse
affrontare. Non lo disse ad alta voce, ma da come l’hitman
ghignò, dedusse che l’aveva capito lo stesso.
“Potevi anche entrare e darmi una mano,
comunque. A Ryohei non sarebbe spiaciuto il parere di
una persona che stima.”
“Ti stima.”
“Come amico, non come maestro. E’ diverso.”
Reborn
si strinse nelle spalle. “Beh, te la sei cavata comunque da solo e poi il suo
maestro è Colonnello. In più, io non posso entrare in Chiesa.”
“E perché?” chiese Tsuna
con aria scettica, già prevedendo come sarebbe andato a finire.
“Rischierei di bruciarmi e trasformarmi in
cenere” gli rispose con un sorriso troppo grande per i suoi gusti, roteando la
testa in una posizione innaturale del collo.
Tsuna
lo guardò con una specie di tic ad una palpebra. Poteva scherzare quanto voleva, ma iniziava a pensarlo davvero che Reborn fosse il diavolo in persona!
“Don Maurizio, non vi trovo in forma come
l’ultima volta che ci siamo incontrati” esordì in tono provocatorio, quando
entrò nella stanza buia e angusta.
La prima volta che era entrato nel quartier
generale Vongola, ancor prima di diventare Boss, Reborn
lo aveva obbligato ad un tour forzato di tutta la magione, costringendolo a
subire tutte le trappole mortali che erano nascoste dietro ogni singolo angolo.
Quando erano scesi nei sotterranei era
rimasto sorpreso nello scoprire l’esistenza di prigioni vere e proprie, per
quanto inutilizzate, e di quella che Reborn gli aveva
indicato come “La sala per le torture,
ossia per gli interrogatori”.
Non aveva dato retta alle sue spiegazioni,
non gli interessavano, sapeva solo che quella stanza non l’avrebbe usata mai,
per nessun motivo al mondo. Poi era diventato Boss e aveva perso un pezzo in
più di innocenza.
Non era un sadico, non si divertiva a
torturare gli altri, ma far credere ai suoi nemici che lo fosse, gli aveva
risparmiato ben più di un omicidio. Nella sua ottica, quella stanza serviva per
creare un po’ di scenografia.
Tuttavia, era ovvio che l’uomo che aveva di
fronte non doveva essere piaciuto particolarmente a Ryohei,
visti i lividi ormai giallastri che gli coloravano il volto. E, a giudicare
dalle ferite fresche, era stato Hibari ad
accompagnarlo in lì dentro.
L’uomo, malmenato e legato ad una sedia sgangherata,
lo guardò con rabbia feroce, ma conosceva abbastanza la sua posizione da sapere
bene che in quel momento non gli conveniva offendere l’altro.
Lui era legato e disarmato, il giovane Don
che lo squadrava dall’alto in basso con una gelida sfumatura arancio negli
occhi non lo era affatto.
“Don Vongola, vi prego” cominciò tremante.
Di paura, ma anche di ira, capì Tsunayoshi. “Mi dovete
credere, non avrei mai voluto offendervi. Le nostre Famiglie sono alleate da
sempre!”
Quando era diventato Boss, Tsuna aveva riconfermato tutte le alleanze di Vongola IX,
al di là di qualunque cosa gli suggerisse il proprio istinto. In più, era
sempre stato pronto sin da ragazzo a perdonare i propri nemici e ad accoglierli
come amici. Reborn glielo rinfacciava continuamente, nonostante
fosse orgoglioso di lui proprio per questo.
I Vongola avevano molti più alleati che
rivali, il primo passo verso il cambiamento che Tsuna
voleva raggiungere. Un mondo senza mafia.
“Vedete, don Maurizio, è proprio questo il
problema. Io vi ho dato la mia amicizia, voi la disprezzate così.”
Sentì Reborn alle
sue spalle trattenere a stento una risata e spacciarla per un ghigno sadico. Se
avesse potuto permetterselo, Tsuna avrebbe riso anche
lui, ma in quel momento rischiava probabilmente che il suo ex tutor e attuale
Consigliere Interno lo sparasse.
Usare quella stanza non aveva senso se non si
dava un qual certo contegno, e in fondo i mafiosi come Maurizio Pantaleone non avevano veramente voglia di discutere e di
cercare di capire perché si fosse arrabbiato. Tirare fuori un repertorio da
film gangster stranamente li terrorizzava abbastanza da renderli docili, per
quanto lui in quel momento si sentisse come Marlon Brando ne Il Padrino.
“Don Vongola, non oserei mai, vi giuro!”
“Don Maurizio avete sfruttato la nostra
alleanza per azioni che io e la mia Famiglia non abbiamo mai approvato. E ora
mi dite di non disprezzare la mia amicizia?”
“Vi prometto che non accadrà più, Vongola!”
“Lo spero bene per voi! Avete almeno idea
di quello che avete fatto a quelle povere ragazze?”
Reborn
alle sue spalle sbuffò, senza farsi sentire dalla loro vittima. Tsuna recitava da cani, era quella la verità. E non avrebbe
mai imparato a non farsi coinvolgere in prima persona. Era anche pronto a
giurare che se quel povero bastardo fosse riuscito a convincere il suo istinto
di essere chiaramente pentito, il suo studente buono a nulla lo avrebbe
lasciato andare. Come Mukuro non mancava di
sottolineare mai, Tsunayoshi era la vergogna di tutti
i Boss della mafia. Ma era il migliore proprio per questo.
Purtroppo per lui, Don Maurizio Pantaleone era troppo idiota per capire quale fosse la sua
possibilità di salvezza ed intraprese la scelta sbagliata.
“Vongola, suvvia non fraintendete, alla
fine non è così grave la situazione” cominciò persuasivo, con un sorriso falso
sulle labbra. “In fondo, a quelle quattro puttanelle vogliose di…”
Si zittì quando una stretta ferrea gli
afferrò rudemente il colletto. Non capì neanche come aveva fatto quella specie
di marmocchio che si spacciava per Boss della malavita a muoversi tanto
velocemente.
“Non pensateci nemmeno a finire la frase,
se volete uscire di qui con le vostre gambe.”
L’uomo, ingoiò a vuoto, poteva quasi
giurare che il tono di voce del Don di fronte a lui fosse cambiato, come se
fosse sceso di qualche ottava. Gli occhi erano di una sfumatura arancia del
sole al tramonto.
Quello fu il momento in cui capì di aver
mandato a puttane la sua unica occasione.
“Don Maurizio, ora vi dico che farete. Ve
ne andrete da qui e vi costituirete alla polizia. Confesserete tutto ciò che
avete fatto e mai, se non volete condannarvi a morte con le vostre stesse mani,
cercherete vendetta contro quelle povere ragazze. Mi sono spiegato a
sufficienza?” L’uomo lo guardò con occhi sgranati, non riusciva a credere a ciò
che aveva appena sentito e il panico di quella morsa lo attanagliava. “Avete
ventiquattro ore per costituirvi, vi avverto. Se provate a scappare vi giuro
che vi ritroverò anche in capo al mondo e che lascerò che siano i Vindice a giudicarvi.
E ora sparite immediatamente dalla mia vista.”
“Non potete farmi questo” biascicò per
quanto la stretta del ragazzo gli permettesse.
“Non mettete alla prova la mia pazienza,
non vi conviene.”
Tsunayoshi lasciò
la presa sulla camicia per liberarlo in fretta e lasciare che se ne andasse.
Don Maurizio non ci pensò due volte a prendere la porta.
“Un’ultima cosa” lo fermò Reborn, prima che potesse uscire. L’uomo si voltò
terrorizzato sentendo un rumore metallico a lui familiare. L’hitman non lo guardava, ma stava controllando quanti colpi
avesse in canna. “Quando sarete di fronte al commissario di polizia, non
pensate nemmeno di tradire l’Alleanza. Sapete cosa accade a chi infrange
l’omertà, vero?” chiese angelico, prima di richiudere la pistola.
L’uomo scappò urlando a gambe levate.
Quando Tsunayoshi
fu sicuro che non fosse nelle vicinanze tirò un sospiro. Era esausto. “Era
necessario minacciarlo di morte in quel modo?” chiese, arrabbiato, a Reborn.
L’altro si calò meglio in testa il
cappello, come a nascondere un ghigno divertito. “Non l’ho mica minacciato,
stavo solo controllando l’arma. E poi c’hai pensato tu a fare tutto il resto.”
“Non me la dai a bere” lo informò tanto per
fare, decidendosi ad uscire anche lui da quella stanza che sapeva di tutto ciò
che odiava della mafia.
“Non mi spreco neanche con quelli del suo
rango, dovresti saperlo, Tsuna. E ora datti una
mossa” lo riprese, con un calcio ben mirato in testa che lo fece urlare come
una ragazzina. “Guarda che i tuoi documenti non si leggono e non si firmano da
soli. E ora che Ryohei ha deciso di arruolare nella
famiglia anche una dozzina di ragazze in più, ti tocca un bel po’ di burocrazia
da firmare.”
“Ehi, aspetta, ma aveva detto che se ne
sarebbe occupato lui!”
“Sì, ma ho pensato preferissi farlo tu e
gli ho mandato a dire di portarti tutte le scartoffie nel tuo girone. Ops, intendevo nel tuo studio” concluse il sicario
sbattendo gli occhi con faccia innocente e un vestito da angelo che Tsuna non riusciva a capire da dove diavolo avesse tirato
fuori. Aveva anche una specie di aureola che gli galleggiava sulla testa.
“Ma come diav…
No, non me lo dire. Preferisco non saperlo.”
Reborn
si limitò a ghignare mentre svolazzava letteralmente per i corridoi dei
sotterranei, neanche fosse Byakuran. Aveva un alleato con il complesso del dio e
Satana come consigliere, prima o poi avrebbe fatto una brutta fine, se lo
sentiva. |
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Capitolo 3 *** Ryohei ~ Seconda parte ***
Note dell'Autrice: Non senza vergogna, torno dopo un anno di silenzio.
A mia discolpa, avevo avvisato che ho tempi schifosi.
Nel frattempo mi sono laureata, ho girato l'Italia alla ricerca di un lavoro (ahimè come fisico e non scrittrice), ho trovato lavoro e il tempo si è ridotto drasticamente e la scrittura ne ha risentito.
Ma diciamo che ho faticato un bel po' con le storie a venire. La buona notizia è che le ho iniziate tutte, quindi un barlume di speranza che questa storia non resterà inclusa c'è.
Ma prima di passare ad un nuovo guardiano (in realtà non avrei avuto il coraggio di tornare a pubblicare senza avere almeno Yamamoto pronto, ecco perché oggi arrivo con due capitoli), ho deciso che con Ryohei non avevo finito.
Gli avevo dato poco spazio, porello. E soprattutto mi è capitata su facebook il frame con Ryo che dice la frase finale in corsivo nel futuro, per cui ho pensato che di quello bisognasse parlare.
Purtroppo non riesco ad incastrare contemporaneamente lui e Tsuna, quindi come nel capitolo di prima è più un due scene distinte.
E in realtà più che Ryohei la prostagonista è Hana, ma dettagli suvvia XD.
Vongola Decimo
~ Ryohei ~
~ Seconda parte ~
“Saskia continua a fare di testa sua e non
mi ascolta.”
“E tu lasciala fare, significherà che le
piace così” mormorò Hana Kurokawa in risposta al marito, senza averlo in realtà
ascoltato nemmeno lei.
Quella notte, Ryohei non aveva non aveva la
più pallida voglia di dormire e si vedeva. Erano ore che continua a
bisbigliarle i suoi dubbi nelle orecchie. Peccato che i suoi bisbigli si
allontanavano a mala pena dalle urla di una persona normale e quindi non
riusciva a dormire neanche lei. Ma non per questo non ci provava lo stesso.
La sorella di Gokudera sosteneva che per
amore si potesse anche morire, lei per amore stava diventando sorda.
Ancora non aveva capito come avesse fatto a
sposarselo. Certo, era un gran bel ragazzo e lo conosceva da quando era
bambina, magari si era anche innamorata da subito del suo istinto protettivo e
di quel suo modo assurdo di essere così virile e delicato al tempo stesso. Ma
la verità era che Ryohei Sasagawa urlava come una carampana e avrebbe chiesto
il divorzio quanto prima, se non la faceva dormire per lo meno alle tre di
notte.
“No è impossibile che le piaccia. La verità
è che ha paura di studiare” scattò in quello che era chiaramente un urlo.
“Se ci sei riuscito tu, possono farlo
tutti” biascicò sempre più addormentata e sempre più con la voglia di rimanere
vedova.
“Appunto!” le strillò nelle orecchie.
Lei ebbe un mezzo infarto e saltò dal
letto, ma Ryohei se ne accorse a stento. In compenso, non gli era chiaro perché
Hayato Gokudera, Guardiano della Tempesta della Decima generazione della
Famiglia Vongola, avesse scagliato probabilmente un armadio contro la
parete che separava le loro stanze.
“Quel ragazzo non si calma neanche di
notte” commentò in risposta a quel fracasso senza accorgersi dell’occhiata
omicida che Hana gli rivolgeva.
La ragazza si ributtò sul cuscino sperando
che potesse aver pace almeno per qualche ora in quella notte.
“Insomma, ti pare normale che sia tornata
sulla strada, quando io le avevo estremamente detto che deve diventare
un’infermiera?”
Hana roteò gli occhi al cielo. ImbranaTsuna
sotto sotto era sempre lo stesso, per cui era abbastanza convinta che non se la
sarebbe presa troppo se gli avesse ucciso uno dei Guardiani, se gliene spiegava
la causa.
“Dalle tempo” rispose comunque. “Non tutti
accettano facilmente i cambiamenti. E se continui ad urlarle addosso cosa deve
fare, la spaventi soltanto” gli spiegò ragionevole.
Il Guardiano del Sole non era il tipo che
urlava in faccia ad una donna in verità. In realtà, secondo Fuuta de la Stella,
il maggiore dei presunti fratelli di Tsunayoshi Sawada, Ryohei era l’affiliato
della mala che più rispettava e proteggeva il gentil sesso. Uno dei motivi per
cui l’aveva sposato. Il problema era che strillava e basta, in generale, ed
aveva la strana capacità di riuscire a terrorizzare a morte il prossimo, con
quei suoi modi eccessivamente estremi.
“Non posso darle tempo se lei lo passa a
rovinarsi la vita. Un uomo degno di questo nome non può permetterlo, Hana!”
urlò, motivato da quel sacro coraggio che lo illuminava praticamente ad ogni
ora del giorno. Per lei fu il secondo infarto nel giro di dieci minuti. “Ieri
ho dovuto passare tutta la serata a picchiare i clienti che si avvicinavano a
lei, visto che non si decideva ad andarsene.”
“Questo sì, che non dovrebbe spaventarla
affatto.”
“Infatti” rispose, deciso, non capendo
l’ironia. “Ma quella ragazza ha una testa così estremamente dura!”
Hana sollevò un sopracciglio, nel
dormiveglia. Ryohei che si lamentava che qualcun altro avesse la testa dura,
era più assurdo del fatto che Sawada fosse diventato un boss della mafia. Non
commentò, preferì non rispondere piuttosto che dargli modo di lagnarsi ancora
per il resto della notte, magari riusciva a recuperare una mezzora di sonno.
“Hanaaa!”
L’urlo con cui la chiamò le diede l’infarto
definitivo e la svegliò del tutto. Probabilmente, svegliò anche tutto il
palazzo, e Gokudera dalla camera accanto si mise urlare come l’invasato che era
pure lui. Per quel poco che Kurokawa ne capiva di italiano sospettava che gli
stesse bestemmiando i morti.
“Hayato! Dormi che è tardi! Un uomo ha
estremamente bisogno di riposo!” starnazzò il suo uomo in risposta.
Dalla sequela di volgarità che ne venne
fuori, ora era completamente certa che lo stesse facendo davvero.
“Perché hai urlato il mio nome in quel
modo?” chiese ormai rassegnata al fatto che quella notte non avrebbe dormito.
“Mi devi aiutare, tu sei una donna, quindi
magari ti darà più ascolto!”
“Ryo, non puoi aiutare chi non vuole essere
aiutato, mettitelo in testa.”
“Non esiste neanche, no” rispose scuotendo
la testa come un bambino che fa i capricci. “Lei ha bisogno di noi e noi
abbiamo bisogno di lei.”
Il sopracciglio di Hana tornò ad assumere
quella forma arcuata che si esprimeva molto più di quanto avrebbe potuto fare a
parole. “Perché noi avremmo bisogno di lei?”
“Ci servono infermiere.”
Il discorso aveva senso: Sawada si era
messo in testa di rivoltare completamente le leggi della mafia e del governo.
Aveva passato i primi due anni da Boss a tentare di sventrare la mafia, per
portare la legalità in Sicilia e in tutto il mondo. Un bel giorno, però, si era
convinto che la politica era altrettanto ingiusta e corrotta, per cui aveva
deciso di abbracciare completamente gli ideali del fondatore della Famiglia e
fare dei Vongola un’istituzione che proteggesse la gente dalla violenza della
malavita e dalle ingiustizie della legge.
In altre parole, nonostante il radicale
cambio di posizione con l’ascesa del Decimo Boss, i Vongola erano criminali a
tutti gli effetti agli occhi dello Stato ed erano una seria minaccia per
chiunque nella malavita. Erano senza dubbio la Famiglia con più amici, ma allo
stesso tempo quella con più nemici.
Sawada, Ryohei, gli altri Guardiani e le
loro squadre rischiavano la vita ogni giorno per difendere gli ideali in cui
credevano e non ne uscivano sempre illesi, per questo investivano nelle risorse
mediche più che in qualunque altro campo. I Vongola potevano contare su un
sistema ospedaliero e una equipe competente che faceva invidia a tutto il
mondo.
Ryohei, per assurdo che potesse sembrare,
era il medico privato di Sawada e della sua cerchia più stretta di persone
fidate, nonostante i suoi trascorsi, e molte volte anche attuali, come
boxer e l’attitudine a non ascoltare nulla di quello che gli si dicesse.
Tuttavia, nonostante la sua Fiamma del Sole
fosse praticamente la panacea di ogni male, Ryohei non poteva fare tutto il
lavoro necessario da solo. E non perché non ne avesse la competenze o la
testardaggine, semplicemente i Vongola erano una Famiglia troppo numerosa e
troppo sparsa per il mondo, perché lui potesse preoccuparsi di tutto e tutti.
Per questo, capiva l’esigenza del marito di
avere una squadra medica sempre più numerosa.
“Ryo, so che sei preoccupato per la
Famiglia, ma hai comunque undici nuove infermiere, con lei procedi con più
calma.”
“Ma io non parlavo della Famiglia” la
corresse prendendola in contropiede. “Parlavo di me e te. E a noi ne servono
dodici.”
“Visto che né io, né tu, voglio sperare,
siamo in punto di morte, allora non capisco che ce ne dovremmo fare.”
“Per i nostri bambini, ovvio.”
Più o meno quello fu l’istante in cui
decise che dal giorno in avanti a seguire gli avrebbe messo dei sonniferi a
cena. Non solo non la faceva dormire, ma le riempiva anche la testa di idiozie.
“Ryohei, noi non abbiamo e non avremo
dei bambini.”
“Hana, ma cosa dici? Noi dobbiamo averne.
Almeno tre.”
“No, Ryo, io non posso avere dei figli”
ribatté esasperata.
In quell’istante fu Ryohei Sasagawa a
rischiare l’infarto. Sua moglie era… Doveva parlarne quanto prima con Shamal.
Con tutte le assurdità che affrontavano ogni giorno, era sicuro che avrebbero estremamente
superato anche quella. O magari la Testa ad Ananas poteva fare qualcun altro
dei suoi miracoli.
Ma la cosa più importante di tutte, era
assicurarsi che sua moglie stesse bene. Era già capitato che qualcuno dei
membri della Famiglia gli chiedesse un consulto per la propria moglie su un
problema simile e, nei casi che aveva riscontrato fino ad adesso, se c’era una
cosa evidente era che una donna che non poteva aver figli aveva bisogno di
conforto, innanzitutto.
“Perché non me l’hai detto prima?” mormorò
in un sussurro, serio come era stato poche volte al mondo.
“Ma cosa?”
Ryohei le prese le mani e la strinse contro
il proprio busto coperto appena da una maglietta leggera di cotone nera. Quando
atterrò sui suoi pettorali scolpiti e si sentì stringere da quelle braccia
muscolose, Hana Kurokawa non poté fare a meno di pensare con un qual certo
imbarazzo che in nessun posto si sarebbe mai sentita altrettanto al sicuro.
“Non devi vergognarti con me, Hana. Sei mia
moglie e ti amo così come sei, non mi importa se sei sterile o meno” continuò
con quel tono così carino che in qualunque altro momento l’avrebbe fatta
sciogliere.
In quell’istante, però, Hana sciolse
l’abbraccio, giusto per picchiarsi una mano in fronte.
“Ryo, non sono sterile.”
“Ma hai detto che non puoi…”
“Non posso avere dei bambini, perché non li
sopporto! A stento tollero te, mi ci vedi ad avere a che fare con una cosetta
che strilla a tutte le ore del giorno? Lo ammazzerei nella culla!”
“Hanaaa!” starnazzò nuovamente il
suo nome facendole partire un timpano.
Neanche tre secondi dopo, sentì l’urlo di
Gokudera e la sequela di bestemmie annesse che a questo giro, oltre che i
morti, riguardavano anche tutti i vivi Sasagawa e parenti.
“Hana, noi dobbiamo avere dei figli”
continuò ad urlare suo marito. E giurò che il Guardiano della stanza accanto
avesse strillato in risposta qualcosa del tipo E fatteli uscire dal culo e
muori. In quell’istante si trovò quasi a simpatizzare con quella bestia di
Hayato Gokudera.
“Io non te ne partorisco, né te ne cresco”
chiarì risoluta.
“Hanaaa!”
Questa volta era preparata e riuscì a
tapparsi le orecchie per tempo. Si aspettava di sentire l’ennesimo urlo anche
dalla parete affianco, ma questa volta ciò che udì fu un trambusto, seguito
dalla voce di Sawada ovattata attraverso la parete che dava al corridoio.
“Hayato, torna a letto!”
“Decimo, ma io lo devo ammazzare! Non può
rompere così tanto il cazzo pure di notte!”
“Hayato.”
“Decimo, non mi interessa, la prossima
volta che urla lo castro, così hanno risolto tutti i loro problemi!”
“Hayato!”
Perfetto. Ora tutti sapevano i fatti loro.
Giacché era distratta a badare ai commenti che provenivano fuori dalla loro
stanza, Ryohei ne approfittò per continuare la sua arringa.
“Hana, io voglio a tutti i costi una figlia!”
urlò all’improvviso prendendola in contropiede. “E voglio che abbia i tuoi
occhi e il tuo sorriso! E anche la tua forza! Voglio che sappia difendersi, che
sia sicura di sé e che non abbia paura di nulla. E voglio anche un figlio, che
dovrà prendersi cura della sorellina, delle sorelline anzi, e gli insegnerò a
rispettare le donne più di ogni altra cosa, come fa un vero uomo! E tu gli
insegnerai ad essere forte ed intelligente! E…”
Hana smise di ascoltarlo, nonostante stesse
strillando come suo solito. Vedeva la sua bocca muoversi, ma le parole le
arrivavano come ovattate. Perché Ryohei Sasagawa aveva i modi di un gorilla, ma
la dolcezza e l’amore che trasudava ogni sua parola la lasciarono inerme e
senza parole.
Era per quello che l’aveva sposato. Perché dietro
quell’ammasso di muscoli, si celava l’animo più gentile e delicato che avesse
mai conosciuto.
Si ritrovò a pensare che un bimbo non
avrebbe comunque potuto strillare più di quanto facesse suo marito e per
qualche stupido motivo sorrise.
“Io non mi alzo la notte a cambiare
pannolini” chiarì con un’occhiata che si fingeva minacciosa.
Il Guardiano del Sole praticamente saltò di
gioia. “Sarò io ad occuparmene allora, ma l’importante è che avremo dei figli!”
“Oh cielo, se ora si mettono pure a scopare,
giuro che vado lì dentro e faccio una strage.”
“Hayato!”
“Dai, Hayato, lasciali fare. L’amore è
sempre una bella cosa, no? E poi almeno urlano per qualche motivo valido.”
“Takeshi, non mettertici pure tu!”
Hana amava sinceramente Ryohei, ma quando
si avvicinò per abbracciarla di nuovo gli tirò un pungo in un occhio e tornò a
dormire maledicendo un po’ tutti quanti.
“Avanti.”
Nonostante Sawada fosse il capo di suo
marito da circa dieci anni, non era abituata alla ossequiosa formalità che lo
circondava. Sawada era venerato come un Santo, all’interno della magione, e
trattato alla stregua di un re. Il suo studio era enorme, con un tappeto
irrimediabilmente rosso che partiva dalla porta a due ante e arrivava fino
all’antica scrivania in legno antico.
Lo stemma della Famiglia Vongola era inciso
praticamente ovunque, sul tappeto, gli stendardi sulle pareti laterali, la
porta e la scrivania. La stanza, grande quasi come un appartamento, era per una
parete ricoperta da ampie vetrate.
Una volta aveva sentito lamentarsi quella
scimmia di Gokudera che sembrava tanto che ImbranaTsuna stesse invitando il
mondo intero a sparargli addosso, in quel modo, ma l’altro si era limitato a
replicare che se proprio dovevano rinchiuderlo in gabbia, voleva che il sole si
vedesse bene.
Da quel punto in poi, Ryohei aveva
trascinato Sawada fuori rintronandolo sul perché un giovane uomo dovesse
passare ore all’aperto e soprattutto con un incontro di boxe. Da quel momento
in poi era stato un delirio.
In ogni caso, la scrivania di Tsuna dava
proprio di fronte alla vetrata centrale. In effetti, se qualcuno avesse
voluto spararlo alla schiena, poteva riuscirci benissimo, ragionò un
istante. Tuttavia, per quanto ne sapesse lei, nessuno aveva neanche tentato.
Davanti alla scrivania due poltroncine in
velluto nero si preparavano ad accogliere i suoi ospiti. Già, perché nonostante
fosse un po’ troppo pomposa, quella stanza era accogliente.
Forse era per il camino scoppiettante nella
parete a sinistra, con di fronte tanto di tavolino e otto sedie. O il
televisore a maxi schermo e i quattro divani sistemati strategicamente in modo
che da lì si potessero vedere sia la TV che Tsuna, alla parete a destra.
Per quanto ne sapeva lei, i quattro
mocciosi di Tsuna vivevano praticamente su quei divani, era strano vederli
vuoti.
“Se te lo stai chiedendo, Reborn è con
Takeshi, Lambo e I-Pin sono a scuola e Fuuta aveva degli impegni vari e sparsi.
Insomma, è uscito con la ragazza ma non vuole dirmi ancora che sta frequentando
qualcuno.”
“E tu come lo sai, allora?” le domandò
ironica con un sopracciglio inarcato.
“Fuuta per me è come un fratello, è normale
che sappia tutto sul suo conto” le rispose con un sorriso.
“Non ti facevo un tipo apprensivo.”
Tsuna le sorrise semplicemente e le indicò
la poltrona di fronte alla scrivania, per invitarla a sedersi.
Non le disse che con gli anni aveva
sviluppato – e in buona parte era stato Reborn ad inculcargliela – una sorta di
mania del controllo e doveva sapere in ogni istante dove fossero i membri della
sua famiglia e cosa stessero facendo. Non le disse neanche che due dei suoi
uomini erano pagati esclusivamente per assicurarsi che Fuuta stesse bene e
altri quattro perché stessero a guardia della scuola di I-Pin e Lambo.
Era così che aveva scoperto che quei due si
erano messi insieme.
“Scusa per il baccano di ieri sera”
biascicò Hana profondamente imbarazzata.
Tsunayoshi rise sinceramente. “Tranquilla,
sono abituato anche a peggio.”
“Non oso immaginare.”
“Credimi, finché non riescono a svegliare
Kyoya la situazione è ancora contenibile.”
Hana non commentò la naturalezza con cui
Sawada chiamava per nome l’ex prefetto che aveva seminato il panico e la
disciplina durante gli anni delle medie e superiori.
“A che ora hai il volo?”
Nonostante lei e Ryohei fossero sposati
ormai da anni, Hana viveva ancora a Namimori, per cui la loro era a tutti gli
effetti una relazione a distanza. Viaggiavano entrambi molto spesso, ma anche
così passavano almeno metà dell’anno separati.
Contrariamente ad ogni aspettativa, era
stato Ryohei a volerlo. Non voleva che Hana fosse coinvolta in nessun modo con
la Famiglia e i suoi nemici, il loro era stato un matrimonio segreto cui
avevano assistito solo gli amici e i parenti più stretti e la notizia non si
era ancora diffusa.
Ryohei non indossava nessun tipo di fede
nuziale o altro che avrebbe potuto far capire ai suoi avversari che aveva una
moglie. Hana non aveva rinunciato all’anello però, e in fondo ne erano felici
entrambi.
Quella vita era stressante per tutti e due,
Tsuna era certo che solo l’amore profondo che nutrivano l’uno per l’altra
riusciva a farli andare avanti. Proprio per questo Ryohei era il guardiano che
mandava più spesso in Giappone o a cui concedeva una vacanza ogni quando
poteva. Essendo però il loro medico personale, non avveniva poi così tanto
spesso.
Il Decimo dei Vongola non poteva negare di
sentirsi la coscienza sporca quando pensava a loro. Per colpa sua, la loro
felicità era costantemente messa a dura prova. Aveva proposto a Ryohei di far
vivere Hana con loro e gli aveva offerto la sua protezione, ma il Guardiano era
incredibilmente testardo e preferiva sapere sua moglie al sicuro.
Inoltre, in questo modo, sapeva anche che
sua sorella non era da sola e aveva un pretesto per andare a trovarla. Tsuna
non era granché convinto di quella decisione, ma rispettava la sua scelta. In
fondo, anche lui aveva lasciato sua madre a Namimori, ma aveva portato con sé i
suoi tre fratelli perché erano già troppo invischiati nella mafia per poter
avere un’infanzia serena senza necessitare protezione.
“Ho rimandato il volo, penso di restare
un’altra settimana se non ti spiace.”
“Casa mia è casa tua. Per quel che mi
riguarda, puoi trasferirti qui tutta la vita.”
“Forse prima o poi dovrò farlo.”
Tsuna sorrise ma non commentò, aspettò che
fosse lei a spiegarsi.
“Ieri hai ascoltato tutto, no?”
“Solo qualcosa. Era difficile sentire bene
con Hayato che ne urlava di tutti i colori” ridacchiò.
“Ryohei vuole dei figli.”
“Non mi stupisce. Lui adora i bambini.”
“Pure troppo. E vuole che io insegni
loro ad essere forte” chiarì con un tono scettico che fece quasi rotolare a
terra di risate Vongola Decimo.
D’altronde, entrambi sapevano benissimo che
Ryohei Sasagawa era l’uomo capace di abbattere con un pugno una montagna. E non
era un modo di dire. Se avesse avuto anche solo la metà degli istinti omicidi
del Guardiano della Nebbia, probabilmente i due avrebbero potuto combattere
alla pari.
Ma Kyoya era una belva assetata di sangue e
Ryohei, al contrario, era semplicemente troppo buono. Si faceva carico dei
problemi di tutti, voleva difendere i più deboli anche a costo della propria
salute e voleva una famiglia da proteggere e da amare.
Lui combatteva proprio per questo. Lo aveva
anche detto una volta quando ancora si scontravano con Byakuran: per la
felicità delle persone che amiamo e che forse ameremo. La mafia non era
riuscito ad abbattere la sua fede, né tanto meno la capacità di amare. Era
stato dopo aver accettato il ruolo di Guardiano e averne comprese tutte le
pericolosità, d’altronde, che si era dichiarato ad Hana.
Ryohei credeva nella missione di
Tsunayoshi, era davvero convinto che tutti insieme potessero creare un modo
migliore, un mondo nel quale far crescere i suoi figli. E Tsuna avrebbe fatto
qualunque cosa, qualunque, pur di non tradire quella fiducia.
Nonostante la sua prestanza fisica
incredibilmente fuori dal comune, però, Ryohei era convinto che tra i due fosse
Hana quella forte. Hana era decisa, sicura di sé, non aveva paura di
essere la moglie di un mafioso, né a dire a chiunque quel che pensava. Se fosse
nata nel loro mondo, avrebbe tenuto testa a Bianchi o Lal Mirch, Tsuna ne era
certo.
Hana riusciva a rendere Ryohei mansueto
come un agnellino – un agnellino con corde vocali impressionanti, in realtà –
sapeva farlo ragionare quando non ne aveva la minima voglia, sapeva tirarlo
fuori dall’angoscia che accompagnava il marcio della malavita.
“Beh, si fida di te” commentò Tsunayoshi,
un po’ imbarazzato all’idea di essere diventato il confidente di Kurokawa.
“Posso essere sincera con te?”
“Certo.”
“Ho paura. Un conto è tentare di nascondere
un matrimonio, ma nascondere un figlio? Non voglio un figlio che cresca senza
un padre e a Namimori, se gli accadesse qualcosa, io non basterei a difenderlo.
Ma se vivessimo qui, crescerebbe nella mafia.”
Tsuna capiva benissimo quella
preoccupazione. Era il motivo principale per cui lui stesso non voleva figli.
Tre dei suoi Guardiani erano nati nella mafia, gli altri, lui compreso, ne
avevano fatto parte quando ancora frequentavano la scuola media.
Una parte di lui era pronta a sconsigliarle
di proseguire con quella che poteva definire solo una follia, ma a suo avviso
Hana e Ryohei vivevano una situazione già fin troppo complicata.
Ripensò ai suoi fratelli. Fuuta era stato
l’obiettivo di tutte le Famiglie mafiose per le sue capacità, ma non aveva mai
abbracciato un’arma e adesso, che era all’università, superava ogni esame con
il massimo dei voti. Si stava costruendo da solo il proprio futuro, il supporto
che gli dava Tsuna era quello che gli avrebbe dato un qualunque fratello, non
un boss mafioso.
I-Pin era stata educata a diventare un
serial killer sin dalla nascita e il potenziale che la ragazza possedeva
superava di gran lunga la maggior parte delle persone che conosceva. Ma Tsuna
non le aveva mai incaricato di mettere in atto le sue doti di sicario, anzi
l’aveva tenuta il più lontano possibile dal campo di battaglia. Sapeva che la
ragazza, superata la cotta furiosa in favore di Lambo, si allenava
costantemente con Hibari, ma non aveva mai maturato la mentalità da assassino, né
la voglia di vivere una vita come mercenario. Un bel giorno gli aveva
annunciato che voleva lavorare onestamente per guadagnarsi da sola da vivere e
continuare a studiare. Tsuna non poteva essere più felice e, nonostante in
realtà continuasse a saldare i suoi conti a sua insaputa, assecondava in pieno
la sua decisione.
Lambo era quello che gli dava più
grattacapi, sostanzialmente perché Lambo era il suo Guardiano del Fulmine, se
lo avesse dimesso da quel ruolo, le Famiglie avversarie lo avrebbero visto come
l’elemento debole e pertanto torturabile. Il fatto che Lambo appartenesse originariamente
ai Bovino di certo non aiutava, da quel punto di vista. Non in una società in
cui il tuo cognome contava più di quello che avevi fatto in tutta la tua vita.
Lambo non poteva crescere lontano dalla
mafia, e la verità era che non voleva nemmeno farlo. Era ancora in fasce quando
aveva iniziato a giocare con le armi e aveva sviluppato fin troppo presto un
legame morboso prima per Reborn, poi per lui.
In realtà, più che affetto, da bambino
pretendeva di essere riconosciuto da Reborn in qualità di mafioso come tutti
gli altri. A ventisei anni, Tsunayoshi capiva benissimo che Reborn gli aveva
negato quella soddisfazione per proteggerlo, più che per punirlo. Da quando
però aveva iniziato a vivere come se fosse suo fratello, a Lambo non
interessava più essere un mafioso, ma essere indispensabile per Tsuna.
Purtroppo, grazie all’intervento dell’uomo che si faceva chiamare suo padre,
Lambo era diventato Guardiano, e così il ragazzino si era convinto che più
forte e distruttivo diventava, più sarebbe stato utile alla Famiglia.
Nonostante glielo avesse detto in ogni modo
che gli venisse in mente, non riusciva a fargli capire che per lui Lambo era
indispensabile a prescindere. Così come lo erano I-Pin e Fuuta. Quei tre erano
l’unica parvenza di innocenza rimasta nella sua vita. Sapere che stavano
bene e che erano lontani dalla violenza gli era necessario come l’aria che
respirava.
Il fatto che nessuno dei tre avesse mai
ucciso o riportato una ferita mortale da quando era diventato Boss era il suo
successo più grande.
“Dobbiamo combattere. Per un futuro
radioso, per le persone che forse ameremo.”
“Come?”
“E’ quello che disse una volta Ryohei,
quando eravamo disperati contro Byakuran. Credo parlasse di te, quella volta,
sai. Lui voleva cambiare il futuro perché voleva andare incontro al suo.”
“All’epoca io e lui ci conoscevamo a
stento” rimarcò Hana con un sopracciglio inarcato.
“Già, ma aveva scoperto che prima o poi
sareste finiti insieme e fu quella la causa della sua risolutezza: lottava per
avere un giorno la possibilità di amarti. Non ti conosceva davvero ancora, non
sapeva come sarebbe andata tra di voi, se sarebbe durata, e non gli interessava
nemmeno. Voleva un futuro in cui potesse almeno provarci ed ha fatto esplodere
la Fiamma del Sole.”
Quella storia delle Fiamme era stato
curiosamente Hayato Gokudera a spiegargliela, in una delle poche conversazioni
civili che avevano avuto. Ryohei si limitava a dire che fossero la forza di un
vero uomo, Sawada non aveva mai veramente voglia di parlare di armi e
combattimenti e Yamamoto se ne usciva puntualmente con qualche idiozia
filosofeggiante del tipo Beh, volere è potere. Ma, in sostanza, era la
determinazione la chiave del loro potere.
“E io credo che possiamo farlo ancora”
continuò Tsuna, distraendola.
“Cosa?”
“Lottare per creare un futuro per le
persone che forse ameremo. Per i figli che forse deciderai di avere.”
Il suo primo istinto fu quello di gettare
una risposta sarcastica. Ceeerto, sarebbero sicuramente riusciti a
distruggere la mafia, anzi a renderla un posto felice e allegro che tutti i
bimbi del mondo avrebbero sognato di conoscere. D’altronde avevano la garanzia
di ImbranaTsuna e del branco di scimmie che lo seguivano come se quella marea
di cazzate avesse un senso!
Hana era troppo abituata a figurarsi Sawada
come il ragazzo impedito e sbadato che aveva avuto per compagno di classe.
Eppure, si zittì quando lo guardò negli occhi e scorse la luce d’arancio che
gli illuminava lo sguardo.
Tsuna si alzò, girò intorno alla scrivania
e si sedette accanto a lei. La prese per mano e afferrò il tagliacarte che
recava sul manico lo stemma della Famiglia. Non capì che voleva fare neanche
quando le incise velocemente una ferita sul palmo destro e non ne fece una
gemella sul proprio.
Le afferrò la mano facendo combaciare le
due ferite.
“Per la cronaca, non sono il tipo che dà ad
importanza a queste cose, ma non dirlo a Reborn. Tuttavia, se vuoi che lo
faccia al modo della mafia, posso farlo.”
“Di che stai parlando, Sawada?” chiese
alterata, senza riuscire a nascondere un’ombra di paura nella voce alla
stranezza di quella situazione. Tentò di ritrarre la mano, ma Tsuna glielo
impedì.
“Hai paura che la mafia possa distruggere
la tua vita e quella della tua famiglia semmai vorrai fartene una. E temi che
non potremmo farci niente, per impedirlo. Beh, Hana ti sbagli. Ti prometto un mondo
dove non dovrai più nasconderti, dove non dovrai avere paura e dove potrai
avere dei bambini.”
“Mi hai letto nella mente o cosa?” chiese
guardandolo di traverso, e non credendo più di tanto a quelle parole.
Tsuna si limitò a sorriderle. Aveva
imparato tanto da Reborn.
“Sul mio sangue,” cominciò invece, tenendole
la mano e guardandola fermamente negli occhi “sul mio onore, sul nome di
Vongola Decimo, i tuoi figli saranno i miei figli. Chi farà del male a te o a
loro, avrà fatto del male a me e alla mia Famiglia. E non sarà perdonato.”
In quel momento, Hana si accorse che la
persona che le teneva la mano, mescolando il suo sangue con il proprio, non era
il ragazzo che aveva fatto per anni una corte impacciata a Kyoko, senza mai
dichiararsi, o non riusciva a fare due scalini senza inciampare nei propri
piedi, ma era il maggior esponente di una delle più grandi, storiche, famose e
sanguinarie Famiglie al mondo. Il suo nome suscitava terrore in ogni angolo
della Terra praticamente, nessuno avrebbe voluto mai averlo per nemico. In
fondo, nessuno aveva mai tentato di spararlo alle spalle.
E per una volta lo vide senza i pregiudizi
del passato, come se lo avesse incontrato in quel momento per la prima volta.
Non era un ragazzino impedito quello, era un uomo adulto, vestito come un Boss,
trattato come un re e venerato come un Santo.
“Trasferisciti pure qui in pianta stabile, se
vuoi. Non hai nulla da temere.”
Iniziava a capirne il perché.
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Capitolo 4 *** Takeshi ***
Note oscenamente lunghe dell'Autrice ma preferibilmente da leggere: Se siete arrivati qui cliccando su "ultimo capitolo", sappiate che oggi ne ho tecnicamente pubblicati due (uno e mezzo in realtà), quindi se andate indietro vi leggete la seconda parte di Ryohei.
Ma a questo punto, specie perché ce l'ho ben chiara, lasciatemi spiegare la struttura della raccolta.
In ogni storia, di base ci sarà un tema preciso in chiave mafia e vissuto dall'ottica di Tsuna e Guardiani, ma senza un ordine cronologico preciso.
O meglio le storie sono e saranno semmai le scriverò tutte:
Lambo - Omicidio - Tsuna 24 (per cui idem Hayato e Takeshi, 25 Ryohei e Mukuro, 23 Chrome, 26 Hibari e Lambo 15)
Ryohei - Fede/Famiglia - Tsuna 25
Takeshi - Amore - Tsuna 22
Mukuro & Chrome - Matrimonio - Tsuna 21
Hayato - Lealtà - Tsuna 23
Hibari - Speranza - Tsuna 26
L'idea è quella di mostrare tematiche non propriamente mafiose appunto in questa chiave (cercando di trascinarci dietro tutte le ipocrisie del caso e rompere un po' di luoghi comuni) e soprattutto riuscire a mostrare maturità diverse a seconda delle varie fasi di età.
Non prometto di riuscirci, ma quanto meno di provarci.
Ultima cosuccia che riguarda in senso stretto il capitolo. E' la shot più lunga che abbia scritto finora su Reborn, ma è molto più slice of life delle altre, inoltre visto la tematica mi serviva spazio per riuscire a farla credibile.
E sì, per confusionario che sia, è scritto prima l'epilogo, dopo il prologo ed infine la storia.
Vongola Decimo
~ Takeshi ~
[Qualche mese dopo, Italia.]
Curiosamente, non fu la lama intinta di
sangue, il rumore di carne lacerata
mentre la spada affonda nell’avversario, il campanello di allarme.
Non fu lo scorcio di terrore passato
attraverso la pupilla di un uomo, né il rantolo che era un gemito soffocato,
morto.
Non fu nell’istante in cui il sangue gli
schizzò sulla pelle in macchie che avrebbe poi lavato, macchie che sarebbero comunque rimaste, che il panico lo assalì
nella consapevolezza di essere diventato un assassino.
E anzi fu con calma gelida che osservò
l’avversario cadere a terra. Dietro di lui gemiti di stupore e paura, ma stavano
tutti bene, li aveva protetti, e questo era l’importante.
Il panico vero fu capire che si aspettava
altro, si aspettava il rimorso, il rimpianto, una coscienza cui dover far
fronte, un perdono che non si sarebbe concesso.
E, invece, l’unico sentimento che lo
smuoveva era la consapevolezza che sapeva da tempo sarebbe accaduto, e forse
non è neanche la prima volta. Le sue mani non erano vergini neanche prima di
iniziare quello scontro.
Reborn gli
batté una mano sulla spalla, poteva indovinare quale fosse il suo sguardo senza
neanche vederlo. Reborn capiva, sapeva anche prima di
lui. Si asciugò il sudore dalla fronte, la mano scivolò sulla cicatrice sul
mento, che era un monito a ricordargli chi fosse, cosa aveva fatto o avrebbe
continuato a fare.
Il modo in cui Reborn
si allontanò senza una parola di rimprovero o conforto, gli confermò che non
era affatto la prima volta, solo l’ultima lezione.
Non lo stupiva, non provava rimorso, per il
bene dei suoi amici, della sua famiglia,
era pronto a tutto. Non aveva perso i propri principi, perché il primo della
lista era proteggere chi amava. E lo aveva fatto.
Quando si voltò verso i suoi compagni,
però, si accorse che gli occhi del suo migliore amico, del suo Boss, di Don
Vongola Decimo, non erano altrettanto indulgenti.
[Sette anni prima,
Giappone]
L’aveva sentita in diverse
versioni quella storia, e aveva anche assistito in prima persona ai fatti, ma era
curioso lo stesso. In più, c’era da dire che gli piaceva parlare con Reborn, in qualche modo riusciva a sentirlo vicino.
“Ehi, Reborn,
perché non hai sposato Bianchi?” chiese divertito.
Il killer lo guardò
inclinando la testa in un angolo irregolare, il sorriso di Takeshi
crebbe solo a tentare di capire come diavolo ci fosse riuscito.
“Non ho idea di che tu
stia parlando” rispose l’Arcobaleno con un tono di voce che voleva sembrare
innocente.
Yamamoto rise. “L’hai
fatta sposare con un robot, non è carino, Reborn. Non
so neanche come abbia fatto Gokudera a non
arrabbiarsi.”
“Non sono stato io, non
c’ero nemmeno” continuò Reborn con lo stesso tono,
stando al gioco.
Takeshi
non poté fare a meno di ridere di nuovo, prima di riprendere i suoi esercizi
con la spada, sotto lo sguardo attento dell’hitman
più famoso al mondo.
Il Guardiano della Pioggia
era senza dubbio il membro della Famiglia che imparava più facilmente. Per
quanto suo padre fosse un ottimo spadaccino, Yamamoto aveva già appreso tutto ciò
che aveva da insegnargli.
Squalo da quel punto di
vista era il miglior tutor di cui Takeshi potesse
disporre. Il Varia era un uomo che aveva donato la sua intera vita all’onore e
all’arte della spada, un guerriero che non si fermava mai, troppo orgoglioso
per accettare una sconfitta, troppo superbo per non migliorare e superare ogni
ostacolo.
Lui e Yamamoto si
superavano costantemente, erano uno stimolo continuo l’uno per l’altro, se
avessero potuto lavorare ogni giorno fianco a fianco sarebbero diventati una coppia
imbattibile. Era un peccato, da quell’ottica, che Squalo avesse degli obblighi
nei confronti dei Varia e vivesse in Italia, per quanto fosse meglio così e non
con i Varia tra i piedi in continuazione, visti i rapporti tra Xanxus e il suo stupido allievo.
Tuttavia, era convinto che
la compagnia del Varia della Pioggia, facesse bene a Yamamoto. Squalo era un
assassino di professione, violento e spietato come solo la mafia sa essere, in
qualche modo, avere a che fare con i suoi modi rudi era una lezione di vita per
il più giovane, che invece la mafia non l’aveva ancora capita.
Ma proprio per questo, Reborn era sicuro che tra tutti proprio Yamamoto fosse il
più adatto a diventare l’hitman della decima Famiglia,
come lui lo era per la nona.
“Nella mafia non ci sono
mogli, ci sono solo amanti” gli spiegò, il cappello calato sugli occhi.
“Mh?
Hai detto qualcosa?” domandò Yamamoto, interrompendo un affondo.
“Ascoltami bene, Takeshi, perché un giorno varrà anche per te.”
Il ragazzo interruppe gli
allenamenti per avvicinarsi all’Arcobaleno. Sedette a terra di fronte a lui,
sul volto il solito sorriso.
“Andiamo, Reborn, mica ti sono venuti i sensi di colpa?”
“Takeshi
non tutti i tuoi nemici giocheranno pulito, quando vorranno farti del male.
Ricordi nel futuro quello che fecero a tuo padre? Ricordi Daemon
Spade?” chiese insistente.
Il Guardiano fremette a
quelle immagini, lo sguardo improvvisamente duro, la mascella contratta.
“I nemici della tua
Famiglia sono i tuoi nemici” continuò l’Arcobaleno, in quella lezione di vita
che aveva deciso di impartirgli nel modo più indolore che gli venisse in mente.
Ma era un palliativo, la mafia non è mai indolore, tuttavia questo Takeshi lo avrebbe scoperto da solo. “I tuoi amici sono
nemici dei tuoi nemici. Avere ufficialmente una moglie equivale ad offrire un
bersaglio facile a chi vorrà farti del male. Sapranno chi devono uccidere.”
Yamamoto era confuso,
forse un po’ arrabbiato, ma per lo più si chiedeva perché stessero avendo
quella conversazione in quell’istante.
“Beh, ma alla fine tutto
il mondo sa che Bianchi è la tua amante, non cambia poi tanto.”
“Nella mafia sì. Un uomo
ha un amante per tanti motivi: per divertirsi, per non destare sospetti, per
puntare le attenzioni su qualcun altro. A volte è una trappola” spiegò stringendosi
nelle spalle, come se quei concetti fossero del tutto naturali. “In più Bianchi
è una mercenaria ed è del tutto in grado di difendersi da sola, non
sottovalutarla mai, potresti pentirtene.”
“Non ho mai pensato di
farlo” rise il ragazzo, ricordando le volte che era finito avvelenato solo per
aver toccato la sua cucina.
“C’è anche un altro
motivo, Takeshi” riprese Reborn,
interrompendo tutto il divertimento dell’altro.
“Poi non avresti più scuse
per non mangiare quello che cucina?” chiese, nel tentativo di sdrammatizzare il
tono serio inadatto ad un bambino. Ma in fondo, Reborn
era tutto tranne che un infante, lui lo sapeva bene.
“Se non ti sposi, sarà più
facile per te se dovrai uccidere la tua donna.”
Yamamoto lo guardò come se
non avesse sentito bene, ma gli occhi sgranati smentivano i suoi sentimenti. “Reborn… Che stai dicendo?”
“Ciò che conta più di ogni
altra cosa nella Famiglia è la Famiglia stessa, ricordatelo sempre.”
“Stai dicendo che saresti
disposto ad uccidere Bianchi?”
“Bianchi fa parte dei
Vongola, non è una minaccia, ma se una donna dovesse tradirti dovrai fare una
scelta.”
Takeshi
lo guardò senza parlare per diversi minuti. In verità, non sapeva neanche che
dire, stavano parlando di concetti e realtà che non conosceva e in cui non era
convinto di voler essere coinvolto.
“Reborn,
io ho intenzione di restare al fianco di Tsuna, non
mi sono mai interessate davvero le regole della mafia. Forse dovresti parlarne
con Gokudera, a lui importerebbe di più di discorsi
del genere.”
Si alzò per riprendere i
propri esercizi, dichiarando definitivamente la sua posizione circa
l’argomento.
“Me lo auguro” rispose Reborn, da sotto la tesa del cappello. Yamamoto non chiese
mai a cosa si riferisse.
[Presente, Italia.]
Sawada Tsunayoshi era diventato decimo Boss della famiglia Vongola
già da quattro anni. Era ancora minorenne secondo il suo Stato, ma a quanto
pareva in Italia bastano diciotto anni per diventare adulti e lo avevano
costretto allora a prendere una scelta.
Non che ci fosse molto da scegliere in
realtà, ma in quel momento aveva capito seriamente quello che Reborn cercava di insegnargli da anni: bene e male non sono
due concetti indistinti. Bisogna sbagliare per fare la cosa giusta, talvolta.
La cosa giusta può uccidere, altre volte.
Per proteggere i suoi amici, la sua
famiglia, doveva diventare un boss mafioso. Da lì in poi, non aveva mai più
saputo cosa fosse giusto o errato, ogni decisione che aveva preso l’aveva fatto
pensando a quanto il gioco valesse la candela, quale opzione fosse meno drastica,
più sicura.
Non c’era pace senza uno scotto da pagare e
anche dietro la mossa più folle si nasconde il germoglio della speranza.
Analizzava i due lati della medaglia per
tutto ormai, probabilmente era frutto del cinismo che aveva maturato crescendo
con anni con Reborn, ma in quel momento non poteva
fare a meno di pensare che l’intuito dei Vongola, l’istinto che gli aveva
salvato la vita innumerevoli volte, potesse essere anche una maledizione.
Sabrina De Rosa era una donna bellissima,
solare, allegra e con il sorriso pronto sulle labbra. In più era una fan
accanita del baseball in un paese in cui il baseball contava meno che niente. Era
così, d’altronde, che lei e Takeshi si erano
conosciuti.
Lei non si era persa una sola partita del
suo ultimo torneo e tra un autografo e l’altro era scoccata la scintilla.
Quella scintilla che è più la complicità di due persone che si trovano sulla
stessa linea d’onda, che non una passione folle.
Quei due erano capaci di passare ore a
parlare su quale squadra fosse migliore tra i Red Sox
e gli Yankees, per somma disperazione di Hayato che
faticava sempre più a sopportarli tra i piedi. Il fatto che poi passassero la
gran parte del tempo a ridere come se non avessero un solo problema al mondo,
mandava in bestia il Guardiano della Tempesta. Prima faticava ad avere a che fare con uno scemo, ora se ne ritrovava
due.
A Tsuna il
rapporto che Takeshi e Sabrina stavano maturando
piaceva. Takeshi con lei era felice, spensierato,
anche più sicuro di sé. Era bello vedere l’entusiasmo con cui usciva al mattino
e il sorriso con cui rientrava e si ritrovava sempre più spesso a sperare un
lieto fine per loro.
Tuttavia, non poteva fare a meno di pensare
che il giorno in cui Takeshi gli aveva presentato per
la prima volta la sua ragazza, il suo istinto si era risvegliato con
prepotenza, neanche se la giovane donna che aveva di fronte fosse in realtà uno
dei travestimenti di Mukuro.
Si era voltato rapidamente verso
l’Illusionista che, appoggiato ad una parete del suo studio, abbracciava Chrome in modo fin troppo decente. Quello, e il fatto che
lo guardasse senza sorridere lo avevano ufficialmente convinto che lui non c’entrasse
nulla.
Eppure, c’era come un rumore graffiante
nella sua testa che non si zittiva.
La felicità non si rivela sempre con un
sorriso. Takeshi Yamamoto lo sapeva bene. Il sorriso
sulle sue labbra non era mai mancato, sin da quando era bambino. Persino il
giorno in cui aveva perso sua madre aveva trovato un istante per sorridere.
Lo aveva fatto per suo padre, che non
sapeva come consolare le sue lacrime. Quel giorno aveva imparato che sorridere
non significa essere felici, ma tentare di fare felice qualcun altro, nella
speranza di ricevere qualcosa in cambio che gli riempisse il vuoto che sentiva
dentro. Il vuoto che scopri di avere quando sei ancora un bambino e resti
orfano di un genitore, con un padre che lo ha sempre amato sinceramente ma non
è mai riuscito ad affrontare neanche il proprio di dolore.
All’inizio credeva di poter riempire quel
vuoto con il baseball, un’illusione alimentata dalla sua prestanza fisica e
l’innato talento ad eccellere in ogni sport. Finché non era diventata
un’ossessione il bisogno di migliore, il bisogno di essere indispensabile agli
occhi di qualcuno, dei suoi compagni di squadra che lo stimavano solo come
giocatore e sapevano a stento quale fosse il suo nome completo. Un’ossessione
tale da non rendersi conto di essere l’unica luce per l’uomo che l’aveva messo
al mondo.
Aveva dato quell’affetto quasi per
scontato, fino a quando nel futuro non si era ritrovato orfano di entrambi i
genitori. Il dolore che lo aveva colpito a quella rivelazione aveva rischiato
di mandarlo a pezzi. Ma aveva imparato la lezione.
L’aveva imparata il giorno in cui era stato
così egoista da tentare il suicidio. L’ossessione che nutriva verso il
baseball, verso se stesso, lo stava
consumando al punto tale che non riusciva più a guardarsi allo specchio senza
vedere il risultato di un fallimento totale.
Sorrideva sempre all’immagine che gli
veniva riflessa. Sorrideva e pochi minuti dopo saliva le scale della scuola
pensando che lasciarsi cadere dal tetto fosse la degna conclusione per tutti i
suoi insuccessi.
Poi era arrivato Tsuna
che con la sua goffaggine e la sua bontà innata gli aveva aperto gli occhi. Gli
aveva donato la sua amicizia senza pretendere nulla in cambio e lo guardava
come se, perdendolo, anche una parte di lui sarebbe morta senza possibilità di
soluzione.
Dopo nove anni trascorsi insieme, ancora
oggi Tsuna considerava la sua amicizia non un fatto
scontato o dovuto, ma un miracolo di cui era immensamente grato. Era diventato
indispensabile per lui e per la sua Famiglia, senza che dovesse alzare un dito
per guadagnarsi quel posto. Si era guadagnato il titolo di terza figura più
importante in una delle famiglie mafiose più potenti al mondo tra un pigiama
party e l’altro.
Quel vuoto che provava si era colmato con
una tale naturalezza che oggi non chiedeva come mai lo avesse provato in prima
istanza. Tsuna, Reborn e
tutti i suoi compagni di avventura
gli avevano fatto provare la voglia di sorridere per manifestare gioia,
sorridere solo per se stesso.
Aveva imparato ad amarsi lentamente, un
passo alla volta, senza fretta e senza aspettative. Poteva sembrare strano a
dirsi, ma solo adesso che aveva ventidue anni si sentiva pronto ad amare
un’altra persona.
Sabrina era giunta nella sua vita a portare
quell’amore che da bambino cercava disperatamente, ma era troppo cieco per
riuscire a riconoscere. Quell’amore che adesso non solo vedeva, ma tesoreggiava
con cura e attenzione.
Sabrina gli dava la voglia di correre e
ridere, ridere per il semplice motivo che la gioia trabocca da te come un
bicchiere troppo pieno e non riesci a contenerla. Era la sua migliore amica, la
sua confidente e la sua amante. Era l’anima gemella di cui potersi fidare, la
persona che lo avrebbe raccolto se si fosse lanciato nel vuoto. Quella che
l’aveva capito, l’aveva capito davvero.
Era la prima persona cui aveva parlato del
suo tentato suicidio. Con gli altri ragazzi non aveva mai ripreso l’argomento,
né loro avevano mai avuto il coraggio di accennarlo. E non aveva mai avuto il
coraggio di raccontare a suo padre di quella giornata in cui aveva perso la
testa, sapeva che razza di dolore e di delusione gli avrebbe inferto.
Invece, Sabrina era rimasta a sentirlo
tutto il tempo senza giudicarlo, il suo sguardo amorevole non era mai cambiato,
aveva ascoltato tutti i drammi e i dolori che covava da adolescente, le sue più
profonde debolezze, le paure.
E poi l’aveva semplicemente abbracciato,
come se volesse scacciare via ogni male da lui. Avevano fatto l’amore quella
sera. Non era la prima volta, no. Ma era la prima volta che Takeshi
Yamamoto aveva sentito la propria anima legata indissolubilmente a quella di
qualcun altro.
“Tsuna!” salutò
allegro il Guardiano della Pioggia, entrando nel suo studio. “Disturbo?” chiese
solo dopo essersi già accomodato.
A Tsuna piacevano
i modi spensierati di Yamamoto, gli mettevano allegria. Takeshi
Yamamoto era esattamente come la pioggia che rappresentava. Lavava via tutto con
la sua sola presenza. Con lui, più che con chiunque altro, tornava ad essere il
ragazzo spensierato che era anni e anni prima.
Non lo avrebbe cacciato dal suo studio
neanche se lo stesse disturbando davvero. In più, ogni distrazione dal suo
lavoro era più che ben accetta.
“No, affatto” gli sorrise. “Dimmi tutto.”
“Devo chiederti un favore.”
“Qualunque cosa. Specie se mi costringe a
mettere da parte tutte queste scartoffie per un paio d’ore. O magari per anni”
aggiunse con una smorfia che fece scoppiare a ridere il Guardiano.
“Reborn ti
ammazza se ci provi” gli fece notare.
“Lo so. Fidati, lo so.” Aggiunse con il tono desolato che aveva sempre quando
parlava di Reborn. Mise da parte penna e fogli e gli
rivolse la sua completa attenzione. “Allora, che favore devo farti?”
“Ho l’obbligo morale di avvertirti che ti
costerà un po’ di burocrazia in più” lo avvisò Takeshi,
con un sorriso un po’ colpevole e una grattata di testa.
Tsunayoshi
roteò giocosamente gli occhi al soffitto. “E io che pensavo fossimo amici.”
La risata del ragazzo più alto riempì la
stanza con una freschezza tale che il Decimo della Famiglia Vongola pensò che,
solo per quella, si sarebbe ammazzato volentieri di lavoro. Ne sarebbe valsa la
pena.
“Voglio che mi sposi.”
Tsuna
per poco non cadde da seduto. “Eh?”
“Dai, con Mukuro
e Chrome lo hai fatto!”
“Ma che c’entra! Solo perché Mukuro è fuori di testa. E poi non era un vero matrimonio,
quello!”
“Beh, ma è stato divertente!”
“Takeshi, tanto
per cominciare non era legale.” Almeno lo sperava per Chrome,
ma con Reborn non si poteva mai sapere. “E l’unico
motivo per cui ho celebrato le loro nozze è stato perché preferisco assecondare
le follie di Mukuro che non tentare di capirle” gli
spiegò assolutamente disperato, facendolo ridere di nuovo. “Io non posso
sposare nessuno, non davvero. E poi perché vuoi sposarti, in primo luogo?” il
tono della voce raggiunse un’ottava isterica che sembrava non fosse mai andato
incontro alla pubertà.
“E’ quello che fanno due persone quando si
amano, Tsuna” gli chiarì, come se fosse deficiente.
“E io e Sabrina ci amiamo.”
Tsuna
sentì all’improvviso la testa martellare poco sopra la noce del collo. Il primo
istinto fu quello di raddrizzare la schiena, nella posa tipica che assumeva
quando vestiva il ruolo di Boss. Ma riuscì a rilassarsi di nuovo quasi subito
nella poltrona.
“Takeshi, vi
conoscete solo da sei mesi e state insieme da quattro, non puoi essere sicuro
che la vostra storia durerà per sempre.”
Il Guardiano della Pioggia si stravaccò
sulla poltroncina, incrociando le mani dietro la testa. “Forse hai ragione. Ma
sento che è la scelta giusta da fare, sai è una questione di stomaco.”
Tsuna
scosse la testa con un mezzo sorriso, cercando di non lasciare trapelare la
preoccupazione. Yamamoto aveva sempre avuto un istinto fenomenale, quasi quanto
il suo, ma in quel momento non riusciva a fare a meno di pensare che stesse
commettendo un errore.
“Ma perché non ti prendi ancora un po’ di
tempo per pensarci? Tanto puoi sposarti sempre che vuoi, non è che c’è tutta
questa fretta.”
“So che ti preoccupi per me, Tsuna, ma so quello che voglio nella vita” gli spiegò con
calma, con un sorriso così affettuoso da essere disarmante.
Davanti quel sorriso, Tsunayoshi
non era semplicemente capace di dire di no e aveva anche finito tutte le scuse
possibili. Fu la porta che si spalancò come se dovesse saltare via dai cardini
a salvarlo dall’imbarazzo di rispondere.
Kyoya Hibari e il bussare ad una porta avevano litigato nella
culla. Anzi, probabilmente Kyoya aveva litigato con la cortesia in generale, pensò
Tsunayoshi quando vide entrare il Guardiano della
Nuvola nel suo studio con la magnifica arroganza che lo caratterizzava. Con Hibari non si sentiva mai Boss, Tsuna;
quel suo incedere deciso come se possedesse tutti e tutto era così convincente,
che spesso tornava al ragazzino che era stato e tendeva a rigare quanto più
dritto possibile.
“Kyoya” lo
salutò, ricevendo un’occhiataccia e una specie di ringhio in risposta.
Gli consegnò una cartella con dei documenti
sui cui troneggiava la scritta Fondazione.
Non capitava spesso che Hibari sentisse il dovere di
informarlo delle ricerche della Fondazione e in genere non erano mai buone
notizie.
Quando prese la cartella capì che era per
colpa dei documenti che vi si trovavano dentro che il suo istinto era schizzato
alle stelle all’improvviso e non per Yamamoto, probabilmente.
“Ehi, Hibari, ci
vieni al mio matrimonio?” lo accolse invece la Pioggia con un sorriso che
l’altro Guardiano gli avrebbe volentieri spaccato definitivamente.
Tuttavia, a quella domanda non riuscì a non
inarcare un sopracciglio e un ghigno sarcastico gli piegò le labbra.
“Perché, ti sposi?”
“Sì, ho fatto la proposta a Sabrina proprio
stamani e vogliamo sposarci quanto prima.”
“Spiacente, quel giorno avrò di meglio da
fare.”
Yamamoto lo guardò scettico. “Non sai
neanche che data è.”
“E’ del tutto ininfluente. Ma non
preoccuparti,” aggiunse con un sorriso che era una specie di minaccia
“riceverai comunque al più presto il mio regalo di nozze.”
Si congedò con quelle parole, ma prima di
uscire nuovamente e sbattere la porta con la stessa violenza con cui l’aveva
aperta, si voltò nuovamente verso il suo presunto
Boss.
“Sawada Tsunayoshi, sono certo che quei documenti vorrai leggerli
subito” poi si sentì solo l’anta che si richiudeva con forza.
Yamamoto scoppiò a ridere spontaneamente.
“Certo che non cambierà proprio mai, vero?”
“Non dirmelo. Metà delle volte che lo vedo
ho paura che voglia pestarmi, l’altra metà lo fa sul serio” biascicò
esasperato. Tra lui, Mukuro e Reborn
era un miracolo che fosse ancora vivo e vegeto.
Il Guardiano ridacchiò ancora al tono
assurdo e lamentevole di Tsuna, sapendo benissimo che
per quanto violenti e dolorosi quegli interludi potessero essere, per il Decimo
dei Vongola erano comunque una ventata di libertà dalla mafia. Tsuna adorava ogni singolo istante in cui potevano essere
loro stessi, senza maschere, senza responsabilità. Le conseguenze non gli
importavano.
Il Decimo dei Vongola aprì la cartella che
gli aveva portato Hibari e iniziò a sfogliarne i documenti
all’interno. Takeshi si guardò intorno nell’attesa di
dargli il tempo di leggere ciò che doveva, ma non gli sfuggì l’istante in cui
il suo migliore amico si irrigidì. Le spalle si tesero, la schiena era dritta e
il suo sguardo si tingeva di una luce arancione ormai famigliare.
“E’ successo qualcosa?”
“No” rispose troppo in fretta e con voce
troppo bassa. “No, niente.”
“Tsuna, non
mentirmi.”
Di fronte quello sguardo serio come rare
volte lo era, Tsunayoshi sospirò e si rilassò
nuovamente sulla seduta, ma i suoi occhi non tornarono castani.
“Devo verificare alcune cose prima di
prendere una decisione e parlarvene. Devo mettermi in contatto con i Varia.
Ascolta, devo chiederti un favore.”
“Tutto quello che vuoi.”
“Oggi c’è l’incontro dei genitori a scuola
di Lambo e I-Pin. Devo chiederti di saltare gli allenamenti di baseball e
sostituirmi, visto che devo andare da Xanxus.”
“Va bene, ma come mai non lo chiedi ad Hayato?” non era una scusa, era una pura curiosità. Gokudera, dopotutto, si era autonominato docente privato di
Lambo o qualcosa del genere.
Una bella mattina la Tempesta aveva deciso
che il Decimo non dovesse avere né un Guardiano pigro, né ignorante e che se a
cinque anni Lambo riusciva a parlare due lingue, allora poteva anche eccellere
in qualunque altra materia a costo di prenderlo a calci nel sedere finché non
vi fosse riuscito.
Da allora tra lui e Ryohei
era una guerra quotidiana: Gokudera pretendeva Lambo
studiasse dall’alba al tramonto, Ryohei che si
godesse l’infanzia e la gioventù e che pertanto dovesse correre come un matto
per la città e fare più attività fisica di un campione alle olimpiadi.
Lambo li avrebbe probabilmente odiati
entrambi, se solo non avesse adorato così tanto l’idea di essere al centro
delle attenzioni.
“Lo chiederò anche ad Hayato”
gli confermò Tsuna. “Ma ho sinceramente paura che se
Lambo non ha una media perfetta, Hayato possa
staccargli la testa. Per cui, più che badare ai bambini, devo chiederti di
badare ad Hayato.”
Yamamoto rise, immaginandosi già l’ex
compagno di classe minacciare di tappare ogni orifizio possibile del loro fratellino con un candelotto di
dinamite.
“Va bene, ne approfitterò per battere un
po’ la fiacca” rispose annuendo. Poi si fece di nuovo serio. “Ma tienimi aggiornato
su qualunque cosa stia accadendo.”
“Certo, appena torno dai Varia ti farò
sapere.”
“Ottimo, ti lascio lavorare” annunciò,
alzandosi dalla poltroncina. “Cerca di non farti sparare da Xanxus”
lo salutò.
Tsuna
annuì soltanto. Il fatto che non avesse commentato o non si fosse lagnato del
Boss della squadra assassina indipendente Varia, per poi arrivare puntualmente
a lamentarsi di Reborn, insospettì non poco il
Guardiano.
“Sta’ attento” aggiunse con tono più serio.
“Non preoccuparti, non ne ho bisogno.” Il
sorriso con cui Tsunayoshi accompagnò quella frase fu
abbastanza sincero da convincerlo.
“D’accordo allora, io vado. A proposito, mi
sposi, allora?”
Tsunayoshi
tacque solo per un istante, impegnato a rileggere un paio di frasi nei fogli
che aveva tra le mani. Poi alzò di nuovo lo sguardo verso il Guardiano. “Sì, se
è quello che vuoi.”
“Hayato, accendi
la televisione per favore.”
Se prima qualcuno potesse avere il sospetto
che qualcosa non andasse, quella ne era decisamente la conferma. Tsuna era tornato dall’incontro con i Varia appena qualche
ora prima e aveva trascorso tutto il tempo chiuso nel suo ufficio con Reborn. E adesso era entrato in sala da pranzo a passo di
carica, ancora in giacca e cravatta, nonostante avesse finito di lavorare per
quel giorno, e si era seduto capotavola senza neanche rivolgere una parola a
nessuno.
Come se questo non bastasse, voleva vedere
la televisione. Il che era una specie di tabù. Tsuna
aveva vietato la TV a tavola perché le lotte tra i Guardiani per il telecomando
potevano essere più distruttive di una guerra armata con una Famiglia nemica e
siccome era poi lui quello che doveva occuparsi di riparazione, bollette,
spese, e preoccuparsi della sanità medica dei domestici, la cosa lo seccava
enormemente.
In verità, lo seccava ancora di più quando,
per miracolo dal cielo, erano tutti d’accordo a vedere lo stesso canale.
Passavano già troppo tempo separati, pur abitando nella stessa villa, non
sopportava l’idea che ciascuno di loro si isolasse anche mentre erano allo
stesso tavolo.
Tsuna
aveva bisogno di trascorrere almeno i suoi pasti non con i suoi Guardiani, ma
con la sua famiglia. Loro erano le persone per cui andava avanti, quelle per
cui non poteva rinunciare alla sua carica, alla mafia, al proteggerli.
Alcuni erano onorati di come Tsuna non rinunciasse mai a dedicare loro almeno un paio di
ore al giorno, altri non potevano semplicemente fregarsene di meno, ma ormai
erano quattro anni che tutti rispettavano quella sorta di sacralità dei pasti.
“Certo, Decimo. Che canale?”
“Telegiornale. Haru,
Kyoko, perché non accompagnate I-Pin, Lambo e Fuuta a mangiare fuori se ne hanno voglia?”
Benché potesse sembrare un invito, il tono
che aveva usato sosteneva tutto il contrario.
Le ragazze non protestarono, avevano
imparato ormai che quando Tsuna decideva di tagliarle
fuori da qualcosa, lo faceva solo per il loro bene.
“Vado con loro” si offrì Bianchi.
Tsuna
annuì soltanto.
Lambo gli corse incontro sfuggendo alla
presa di Haru. “Tsuna non è
giusto, anche io sono un Guardiano e ho diritto a…”
“Vai” gli disse solamente il suo Boss con
un’occhiata di traverso.
Stava per protestare ancora quando Hayato lo sollevò per la collottola della camicia pezzata e
lo trascinò dalle ragazze di peso.
“Piantala di fare storie, SceMucca” lo riprese con una schicchera sulla testa. “Ti
racconto poi io, al massimo” concluse sottovoce, prima di mollare Lambo alle
altre.
Lambo non protestò. Gokudera
era un maestro e un fratello per lui. E soprattutto era il tipo che lo aveva
trascinato per un orecchio da scuola quando aveva scoperto che aveva marinato
più lezioni e lo aveva costretto a passare il pomeriggio a pulire i bagni della
magione.
Il nuovo metodo che aveva trovato per
umiliarlo e punirlo, da quando Tsuna gli aveva
severamente vietato di sculacciarlo.
Per quel giorno il piccolo Guardiano ne
aveva avute abbastanza, tante grazie.
Appena le ragazze e i bambini lasciarono la
sala da pranzo, Gokudera accese la televisione come
gli era stato ordinato e tornò a sedersi alla destra del Decimo.
La cena venne presto servita nel silenzio più
totale, rotto soltanto dalla voce della giornalista e degli inviati nei vari
servizi.
Erano tutti impegnati a capire cosa Tsuna stesse aspettando. Yamamoto in particolare, non
faceva che rivolgere lo sguardo dal plasma maxi-schermo al suo Boss. Tsuna non era così nervoso prima che Hibari
gli portasse quel rapporto. Doveva essere successa qualcosa di grave.
Strinse la mano a Sabrina che gli sorrise
dolcemente, poi si voltarono di nuovo entrambi verso lo schermo.
La conduttrice televisiva, una donna sui quarant’anni,
dai capelli raccolti e il trucco leggero, assunse una faccia quasi sbalordita
mentre leggeva la prossima notizia.
“Terribile
fatto di cronaca nera in Sicilia” annunciò prima che sullo schermo
l’immagine cambiasse per mostrare quello della loro città, con palazzi
completamente distrutti, come se fatti esplodere, ma ancora più
sorprendentemente come se fossero stati tagliati a metà.
Yamamoto si irrigidì all’istante. Che lui
sapesse, solo tre persone potevano tagliare
un intero palazzo: lui, Squalo e Genkishi. Visto che
lui non era il responsabile e Genkishi si era tenuto
lontano dalla mafia in quella realtà, quella doveva essere opera di Squalo e
delle truppe dei Varia.
“Una
faida tra Famiglie mafiose ha devastato le strade nelle ultime ore. Sono stati
rinvenuti undici vittime e trentaquattro feriti. Stando ai primi accertamenti
della polizia, tutti i coinvolti appartenevano alla Famiglia mafiosa Bonaldi. Secondo l’ispettore Michele Filice,
le vittime erano sicari incaricati di far fuori qualche esponente di una
Famiglia rivale, gli altri avevano il semplice ruolo di guardia. A quanto pare,
tuttavia – sostiene l’ispettore – i loro piani sono stati scoperti e
loro puniti duramente. Non si sa chi possa essere l’altra Famiglia coinvolta.
Nessuna traccia o prova che possa portare ad una accusa è stata rinvenuta sul
posto e nessun testimone è riuscito a vedere con esattezza cosa stesse
accadendo. Nessuno dei civili è stato tuttavia coinvolto, i palazzi distrutti
in quel momento erano disabitati. L’ispettore Filice,
sostiene, tra l’altro, che agli sfollati è stata consegnata in modo del tutto
anonima una busta contenente abbastanza denaro da risarcire i danni, senza
impronte digitali o altri segni riconoscibili. Questo non è da vedersi come un
buon gesto, aggiunge l’ispettore, in quanto non farà che aggravare l’omertà sul
caso e la…”
Tsunayoshi
spense la televisione.
“E’ opera di Squalo, vero?” chiese
immediatamente Yamamoto.
“Squalo e Belphegor,
in verità. E le truppe della Nebbia dei Varia, per cui nessuno ha visto niente”
rispose Vongola Decimo senza neanche cercare di negare quanto i Vongola fossero
coinvolti in quella storia.
I Varia erano sicari e molte volte
mercenari, non era una novità che mietessero vittime. Ma, in genere, erano
anche assolutamente discreti e Tsuna non era
coinvolto direttamente nelle loro azioni. In quel caso, sembrava invece palese
come fosse stato il ragazzo stesso a richiedere i servizi della squadra
indipendente di assassini della Famiglia Vongola.
“Cos’è successo Sawada?”
“I Bonaldi ci
hanno preso di mira. Hanno ricevuto una soffiata e ci stavano aspettando. Erano
pronti ad ammazzare diversi membri della Famiglia ed evidentemente credevano
glielo avrei lasciato fare.”
“Decimo, in che senso una soffiata?” chiese
Hayato, allontanando il piatto. Improvvisamente gli
era passato l’appetito.
“Abbiamo un traditore all’interno della
Famiglia” spiegò Tsuna, guardandoli tutti, uno dopo
l’altro negli occhi. “Qualcuno che ha venduto le informazioni su ciascuno di
voi, sulle vostre abitudini, sui vostri cari, su quelle degli altri membri
della Famiglia e sulle mie. E pensavano di mirarci in successione uno dopo
l’altro quando meno ce lo aspettavamo.”
“Sai chi è il traditore, Tsuna?” domandò Takeshi nervoso.
Era questo allora che aveva scoperto quel
pomeriggio. Aveva riconosciuto una delle zone che avevano mostrato in TV, era
la strada che prendeva per andare ad allenarsi con la squadra di baseball.
Tsuna
gli aveva fatto saltare gli allenamenti per proteggerlo e non lo aveva avvisato
per impedirgli di sporcarsi le mani.
“Ovviamente” rispose il ragazzo più giovane
guardandolo negli occhi.
“Spero che gli abbiate dato una bella
lezione, Decimo. O se volete ci penso io a mandare quel bastardo figlio di
cagna direttamente all’inferno” commentò il Guardiano della Tempesta senza
celare l’ira che provava.
Per i suoi canoni, un uomo che tradiva la
Famiglia che lo aveva accolto, meritava di morire. Non aveva nulla contro chi
decideva di ritirarsi dalla mafia, finché teneva la bocca chiusa, ma nessuno
poteva permettersi di tradire il Decimo, dopo tutto quello che il Decimo faceva
per ciascuno di loro.
“No.”
“Prego?”
“Ho deciso di perdonarlo.”
“Decimo, ma state scherzando?” per poco
saltò in piedi, Hayato.
Un tempo non avrebbe mai contraddetto il suo
Boss. Da quando era braccio destro però, sapeva che Tsuna
voleva il suo parere, non che lo assecondasse, che lo stimava esattamente per
quello.
“Non potete lasciare che quel bastardo lo
rifaccia. E se i Bonaldi ci riprovassero?”
“Dopo quello che hanno subito oggi non
credo abbiano ancora voglia di mettersi contro di noi.”
“Ma questo non vi assicura che il bastardo
che ci ha traditi non venda quelle informazioni a qualcun altro. Decimo, se non
volete che l’Italia intera e forse il mondo diventi un bagno di sangue, non
possiamo permetterci di avere delle spie.”
“Lo so perfettamente, Hayato.
Ma il traditore è una persona molto importante per altri membri della Famiglia.
Se lo punissi, punirei anche loro e non mi sembra giusto. Però, sa bene che
questa è l’ultima possibilità che gli do. Per cui, se ci tiene alla vita, non
ci proverà di nuovo.”
Reborn
dall’altro lato del tavolo, non commentò, ma la tesa del cappello gli coprì uno
sguardo preoccupato.
“Come dite voi, Decimo” cedette dopo
qualche istante Gokudera, seppur poco convinto.
“Grazie, Hayato.”
“In
verità, io vi dico che uno di voi, che
mangia con me, mi tradirà, disse il Cristo secondo un qualche Vangelo”
ironizzò Mukuro alzando platealmente il bicchiere
d’acqua.
Hayato
si trattenne dal tirargli il proprio piatto in testa, per aver osato scherzare
in un momento del genere e in modo così idiota.
“Ohi, Mukuro!” lo
riprese Ryohei, picchiando un pugno sul tavolo. “Non
nominare il nome di Dio invano!”
L’Illusionista ghignò come suo solito.
“Perdonami, errore mio.”
Quella notte Takeshi
era inquieto. Dormiva all’ultimo piano di una villa che ospitava all’incirca
duecentocinquanta uomini. La Famiglia comprendeva molti più membri, ma solo
alcuni risiedevano costantemente nella magione.
La Famiglia Vongola aveva due quartieri
generali, quello a Namimori, che Tsuna
aveva ricostruito fedelmente secondo la struttura dello stesso edificio che li
aveva ospitati anni prima nel futuro, e quello in Italia ereditato direttamente
da Vongola Nono, dove trascorrevano la maggior parte del loro tempo.
La villa si ergeva su più piani. I piani
sotterranei includevano prigioni abbandonate e le sale addette agli
interrogatori, le loro camere d’allenamento e i laboratori di ricerca. Il piano
terra era adibito all’incontro con altre Famiglia, con una sala riunioni, sala
da ballo e una cucina pazzesche. Dal primo piano in poi vi erano le stanze
riservate agli ospiti e ai membri della Famiglia.
L’ultimo piano era riservato solo ai
Guardiani e alla stretta cerchia di persone di cui Tsuna
si fidava ciecamente: Reborn, Fuuta,
le ragazze e Giannini. Tecnicamente anche Spanner e Shouichi avevano una stanza lì, ma i due ingegneri si
spostavano dai loro rispettivi laboratori solo se era Tsuna
a trascinarli fuori con la forza, altrimenti mangiavano e dormivano lì.
Tsuna
non era uscito per quel giorno per ciò che ne sapeva lui, pertanto era accaduto
tutto nella magione. In altre parole, dormiva sotto lo stesso tetto di un
traditore che non aveva esitato due minuti prima di tradirlo.
Era un bersaglio, se fosse andato ai suoi
soliti allenamenti lo avrebbero sparato di sicuro. Non era solo Tsuna ad esserne al corrente, anche Hibari
sapeva, ma non gli aveva detto nulla. E poi Tsuna lo
aveva allontanato per mandarlo a quella riunione.
Tutto ciò gli faceva semplicemente pensare
che lui fosse coinvolto in prima persona in quella storia. Era sempre più
convinto che il traditore fosse un membro della squadra della Pioggia, il
gruppo di uomini e donne che guidava e addestrava personalmente.
Una delle persone con cui lavorava a
contatto ogni giorno aveva venduto lui e i suoi amici. Se avesse saputo il nome
del traditore non avrebbe lasciato quel gesto impunito, pensò con stizza
all’improvviso. Doveva conoscerlo, era una sua precisa responsabilità.
Tsuna
invece aveva scelto di perdonare. Lo capiva, lo stimava proprio per questo, ma
non poteva fare altro che pensare quanto Hayato
avesse ragione. Se quella storia avesse avuto un seguito, rischiavano una faida
tra Famiglie di proporzioni epiche e il sangue versato avrebbe bagnato le
strade di tutta l’Italia, se non di tutto il mondo.
Un prezzo troppo alto da pagare, per una
sola persona. Già quello stesso giorno i Varia avevano sterminato undici
uomini. Per quanto fossero dei sicari, quelle vite erano risparmiabili se solo
loro tutti fossero stati più attenti, se lo fosse stato lui per primo.
“Sei agitato?” gli chiese Sabrina,
girandosi verso di lui ad abbracciarlo.
“Credo
che a volte Tsuna sia troppo buono. E ho paura che
questa storia sia tutta colpa mia” confessò Takeshi, con uno sbuffo.
“Come mai? Non hai venduto tu quelle
informazioni, vero?”
“Non potrei mai. Ma Tsuna
ha scelto di tagliarmi fuori anziché informarmi dei fatti, prima che
accadessero gli scontri. Ero con lui, quando Kyoya
gli ha consegnato non so che documenti a riguardo e non mi ha detto nulla. L’unica
cosa che posso pensare era che non volesse darmene la responsabilità.”
“Forse aveva solo paura per te” mormorò la
ragazza accarezzandogli debolmente il petto nudo, temprato da anni di battaglie
e di baseball. “Ho riconosciuto i luoghi dove sono accaduti gli scontri. Se
oggi fossi andato agli allenamenti oggi… Non voglio pensare a cosa sarebbe
potuto accadere.”
“Poteva avvertirmi, non mi sarei mai fatto
cogliere impreparato.”
“Erano sicari Takeshi,
non c’avrebbero pensato due volte a farti fuori, se ne avessero avuto
l’occasione. Un attimo di indulgenza avrebbe potuto costarti caro. Sono felice
che non abbia mandato te, non avrei sopportato l’idea di perderti.”
Takeshi
non poté negare quanto lei avesse ragione da quel punto di vista. Lui sarebbe
stato indulgente verso gli uomini che tentavano di ammazzarlo e quell’errore
poteva essergli fatale. Erano otto anni che Squalo non gli insegnava altro.
Si piegò a baciarla.
“Grazie.”
“Per cosa?” gli sorrise, lei.
“Per essere al mio fianco.”
Si risolse a rimandare il problema al
giorno seguente, tanto quella notte comunque non avrebbe trovato soluzione. Si
girò verso Sabrina, posizionandola languidamente sotto il suo corpo e cominciò
a baciarla teneramente.
Per quella notte aveva bisogno solo di
questo.
Come diavolo avesse fatto quel fottuto
bastardo di Don Vongola a scoprire i loro piani non le era chiaro. Si rivestì
in fretta, Takeshi dormiva della grossa. La
situazione era critica. Non solo Vongola era al corrente di tutto, ma anche i
suoi Guardiani ne erano al corrente.
Hibari,
Guardiano della Nuvola, era stato colui che li aveva scoperti, secondo Takeshi, e dal commento di Mukuro
Rokudo di quella sera a cena, anche lui sapeva tutto.
Non ci sarebbe voluto molto prima che la
verità uscisse fuori e quel giorno il Guardiano della Pioggia non l’avrebbe più
voluta come compagna. Non avrebbe più avuto la possibilità di stargli vicino e
distruggere i Vongola.
Doveva agire quella notte.
Se tutto andava per il meglio, quei
bastardi erano così arroganti da potersi credere al sicuro, dopo la dura
lezione che avevano inferto alla sua Famiglia. Avrebbero abbassato la guardia
per almeno quella notte e doveva approfittarne finché poteva. Non avrebbe avuto
una seconda possibilità.
Uscì furtivamente dalla stanza. La piccola
pistola era ben ferma nella mano destra, nella manica dell’altra celava un
coltello serramanico. Erano le 4.30 di notte passata, a quell’ora dormivano
tutti, se non le guardie atte a proteggere l’ingresso alla magione e a quel piano.
Don Vongola era così arrogante da credere non fosse necessario avere qualcuno
che controllasse la porta della propria stanza.
Si fidava così tanto dei suoi Guardiani, da
essere irrimediabilmente stupido.
La sua stanza era quella in fondo al
corridoio, l’ultima. La porta era magistrale, mancava solo un cartellone al
neon per far capire che era quella la stanza del Decimo dei Vongola.
Era l’ultima possibilità e non poteva
fallire. Non l’avrebbe fatto.
Prima ancora che potesse avvicinarsi alla
porta, però, la luce del corridoio si accese, sorprendendola. Si voltò di
scatto. Di fronte a lei Takeshi, con ancora addosso
solo i pantaloni del pigiama, la guardava con un’espressione che non gli aveva
mai visto in quei mesi trascorsi insieme.
“Dammi una spiegazione valida che mi convinca
che non è tutto come sembra” pretese con voce dura lui, in mano stringeva la
sua spada.
Né gli occhi, né la voce, né la posa
sembravano appartenere al ragazzo con cui aveva convissuto per mesi. Quello non
era Takeshi Yamamoto, uno dei suoi obiettivi da
eliminare, quello era il Guardiano della Pioggia della Decima generazione della
Famiglia Vongola e lo spadaccino più temuto al mondo.
“Takeshi”
cominciò dubbiosa, incerta su come affrontare la situazione.
“E sbrigati” ordinò sempre più nervoso.
“Prima che perda del tutto la pazienza.”
“Takeshi, amore,
avrei dovuto parlartene, ma…”
“Hai venduto tu le informazioni ai Bonaldi?” la squadrò da cima a fondo, soffermandosi
sull’arma nelle sue mani. Quella pistola era di importazione. “No, che non hai
venduto nulla. Semplicemente, sei una di loro vero?”
Sabrina trasalì, come aveva fatto a capirlo
così in fretta? Quel gesto fu sufficiente per Yamamoto come risposta.
“Ti sei infiltrata nella nostra Famiglia
per uccidere Tsuna. E per uccidere me” constatò con disprezzo.
Sabrina calcolò velocemente le sue opzioni,
che non erano granché in verità. Era di fronte uno dei più pericolosi mafiosi
con cui avesse a che fare, senza contare che se avessero fatto troppo trambusto
sarebbe stata circondata e messa velocemente con le spalle al muro.
L’unica possibilità era convincere Takeshi a passare dalla sua parte.
“Non è vero, Takeshi,
io ti amo!” esclamò, muovendo un passo verso di lui.
“Piantala.”
“E’ vero appartengo alla famiglia Bonaldi e volevo uccidere Vongola, ma posso spiegarti! E
soprattutto non avrei mai fatto nulla a te!”
“Ora capisco perché Tsuna
mi ha tenuto alla larga oggi. Non mi avresti fatto nulla, tranne vendermi ai
tuoi amici, vero?”
“Non è così, non dovevano essere lì per te.
Non l’avevo previsto. Ero sincera quando ti ho detto che ero contenta del fatto
che tu non fossi stato coinvolto, devi credermi.”
Yamamoto rimase qualche istante in
silenzio. “Perché vuoi uccidere Tsuna?”
Sabrina deglutì, lasciando cadere la
pistola a terra. Si strinse una mano al petto e lo guardò negli occhi, cercando
di fargli capire quanto fosse profondo il suo dolore in quel momento.
“Mio fratello ha perso la vita in un
regolamento di conti, per colpa dei Vongola. Era solo un ragazzino di diciotto
anni che aveva intrapreso le scelte sbagliate, e i suoi sicari, i vostri uomini,” specificò “non hanno
avuto alcuna pietà di lui. E’ vero, mi sono infiltrata qui, ho fatto finta di
essere la tua ragazza, per potermi vendicare, ma poi di te mi sono innamorata
davvero, Takeshi. Perché pensi altrimenti che avrei
fatto l’amore con te stasera, quando persone che conoscevo sono morte?”
“Sono morte solo per colpa tua” chiarì Takeshi duramente.
“E’ vero. Ma ciò non toglie che ho bisogno
di te e che ti amo. Ti amo davvero, Takeshi, sarei
pronta a rinunciare a qualunque cosa per te. A qualunque.”
Yamamoto non poteva non essere scettico.
Eppure, una piccolissima parte di lui, in quel momento le credé davvero.
Abbastanza, da allentare la presa sulla spada. Abbastanza, da non accorgersi
per tempo del coltello serramanico che scattava nella sua direzione.
Aveva un secondo di ritardo. Un secondo di
troppo.
Il frastuono fu assordante e il dolore
esplose come un fulmine sul mento e il sangue gli dipinse il volto e il busto.
Quando riaprì gli occhi, il corpo di Sabrina era a terra con un buco in fronte,
dietro di lui Reborn impugnava una pistola ancora
fumante.
Il mento bruciava da morire, ma non era una
ferita da taglio, si accorse quando lo sfiorò. Era stato Reborn
a colpirlo.
“L’hai uccisa” mormorò ancora incapace di
comprendere come tutto fosse accaduto in fretta.
“Ti sbagli, Takeshi.
L’hai uccisa tu. Il giorno che hai portato qui una donna di cui non potevi
fidarti, l’hai anche condannata a morte” chiarì l’hitman
duramente.
Aveva sparato anche a lui perché si
ricordasse del suo errore. E quel segno sarebbe rimasto sul suo volto per
sempre.
La porta della stanza di Vongola Decimo si
aprì in quell’istante. Gli occhi del Boss squadrarono prima la figura a terra,
poi i due uomini in piedi.
“Tsuna, sono
mortificato per…” cominciò Yamamoto, ma il Boss gli diede a malapena retta.
“Reborn,
rimandala ai Bonaldi con i miei più sentiti omaggi”
ordinò invece con disprezzo. Se ne era
fatta molto della seconda possibilità che le aveva dato.
“Ai tuoi ordini, Decimo” rispose l’hitman con un mezzo sorriso ambiguo.
Tsuna
si voltò verso Yamamoto, guardò la ferita sul mento e non aveva bisogno di
porre domande per sapere come se la fosse procurata. Preferì non commentare
però. Stranamente, il suo volto conservava un’espressione dolce che il
Guardiano non sapeva spiegarsi. “Non scusarti, Takeshi.
Non sei responsabile delle scelte altrui. Vai a farti curare quel graffio e poi
a dormire, potremo parlarne con calma domani” gli sorrise ancora dolcemente. “Reborn, vieni da me quando hai finito” aggiunse, poi con
una nota più dura.
L’hitman si
limitò ad annuire. Era chiaro cosa volesse da lui. Gli aveva detto di tenersi
lontano da quella storia e non l’aveva fatto, il che faceva sì avrebbero
passato il resto della notte a discutere, se andava bene, a distruggere la
stanza di allenamenti di Tsuna, se andava male.
Tsuna
voleva proteggere Takeshi da quell’omicidio, Reborn aveva protetto Tsuna. Ma
era certo che il Cielo non avrebbe gradito la lezione che aveva deciso di
impartire alla sua Pioggia. Lezione necessaria a suo avviso, visto che il
Guardiano per una puttana da due soldi aveva messo a rischio la propria vita,
quella di tutti i membri della Famiglia e quella del suo allievo.
Reborn
poteva essere iperprotettivo quando c’era di mezzo Tsuna,
ma non l’avrebbe mai ammesso. Per questo le prossime ore sarebbero state
massacranti per entrambi.
Come Tsuna si chiuse
la porta alle sue spalle, dopo aver congedato di nuovo Takeshi
con parole rassicuranti, Reborn si piegò a prendere
il corpo di Sabrina. “Vanessa” disse a questo proposito.
“Eh?” chiese Takeshi
preso in contropiede.
“Vanessa Bonaldi.
Non Sabrina De Rosa. Figlia unica, non aveva nessun fratello. E i Vongola non
hanno mai avuto nessun regolamento di conti con loro. Avevano il controllo del
mercato del grano, Gokudera ha fatto saltare in aria
i loro mulini, perché la smettessero di spacciare rifiuti per farina. Ma non
c’è stata nessuna vittima” gli spiegò sollevando la ragazza su una sola spalla,
mentre decideva se doveva fargliela recapitare per posta, o magari in una
torta.
Era dalla notte prima che Yamamoto si
allenava incessantemente nel suo dojo. Non si era
presentato neanche a colazione e a pranzo.
Quando Tsuna si
fidò delle proprie gambe, decise di andare da lui. Perdere la pazienza contro Reborn aveva sempre qualche effetto collaterale. Trattenne
un’imprecazione quando le costole ripresero a fargli male. Ma quanto meno aveva
sfogato la rabbia.
In alcuni momenti, Tsuna
credeva quasi di odiare Reborn. Quasi. Perché in
realtà non ci riusciva, non c’era mai riuscito, semplicemente non poteva. Ma il
modo in cui li trascinava tutti nei preconcetti della mafia non riusciva ancora
a digerirlo.
Per Reborn, Takeshi era un hitman, non perché
avesse il vizio di uccidere, o gli piacesse o non avesse coscienza. Ma perché
tra tutti loro era l’unico, secondo l’Arcobaleno, ad avere i riflessi, la calma
necessari. Così come la capacità di cadere, alzarsi in piedi e tornare a
sorridere.
Tsuna,
che aveva le mani sporche di sangue, sapeva che un omicidio ti perseguita. Ti
perseguita sempre, nella notte mentre dormi, di giorno quando ti guardi allo
specchio e ogni volta il tuo sorriso si spezza un pezzettino di più.
Portava sulla coscienza i propri omicidi e
tutti quelli fatti in suo nome, non avrebbe mai permesso che Takeshi dovesse portare lo stesso peso sulle spalle, che un
bel giorno si sarebbe svegliato senza più nessunissima voglia di sorridere.
La vitalità del Guardiano della Pioggia gli
dava pace e speranza, se l’avesse persa avrebbe perso per mano della mafia
un’altra piccola parte di se stesso. Iniziava a temere che fosse troppo.
Quando arrivò al dojo,
entrò e si chiuse alle spalle la porta scorrevole. Fece rumore di proposito,
non che Yamamoto si lasciasse cogliere facilmente alla sprovvista. Ma il
Guardiano continuò a fendere l’aria con la lama della spada ereditata da suo
padre, ripetendo tutte le posizioni di attacco di difesa.
Tsuna
non si arrese e rimase ad assistere contro la parete di legno al suo allenamento
per una buona mezzora. Poi decretò che il Guardiano si stesse sfiancando troppo
ed era giunta l’ora di disturbarlo.
“Takeshi” lo
chiamò senza molti risultati. Non che fosse intenzionato ad arrendersi
facilmente. “Takeshi”
chiamò di nuovo, prolungando le vocali con tono pedante.
“Da
quanto lo sapevi?” chiese duro il Guardiano della Pioggia.
“Solo ieri ne ho avuto la conferma”
rispose, censurando la parte in cui il suo intuito gliel’aveva suggerito sin
dal primo momento.
“Perché non me l’hai detto Tsuna?”
“Speravo non si dovesse arrivare fino a
tanto” rivelò il Boss, con lo sguardo a terra. Aveva fatto di tutto per
impedire al Guardiano il dolore che stava provando ora e aveva fallito.
Yamamoto fermò la spada, dopo l’ennesimo
fondente, ma non si voltò a guardarlo.
“L’hai perdonata nonostante quello che
aveva fatto.”
“Per te, lei era importante.”
“Hai messo in pericolo la tua vita.”
Non era una domanda e Tsunayoshi
non rispose, rimase solo a guardarlo con un sorriso così dolce che Takeshi se lo sentiva penetrare nella spina dorsale. Si
voltò più nervoso di quanto volesse ammettere.
“Dopo tutte le volte che tu hai messo la
tua vita in gioco per me, sono pronto a qualunque cosa pur di saperti felice.”
“Ci avresti sposato davvero.”
“Sì, se era ciò che desideravi.”
“E se avesse ritentato a mettersi contro la
famiglia?” chiese come se quella risposta fosse semplicemente assurda.
“Lo ha fatto e sai come è andata a finire.
Non sono uno stolto, Takeshi. So il rischio che ho
corso a darle una seconda possibilità, ma speravo rinunciasse ai suoi piani
dopo il fallimento cui era andata incontro.”
“Era pronta ad uccidermi.”
Tsuna
lo sapeva, lo sapeva benissimo. Era esattamente ciò di cui aveva discusso per
tutto il pomeriggio con Reborn. L’hitman
era da sempre la prima causa dei suoi mali, ma era anche la persona che più lo
capiva e su cui poteva riversare tutti i suoi dubbi.
La verità era che più viveva nella mafia,
più un lato della personalità di Tsuna si lasciava
lentamente corrompere dalla mentalità della malavita e il ragazzo ne era
spaventato.
Quando aveva letto che dal rapporto di Hibari che la Famiglia Bonaldi
avrebbe attaccato i suoi uomini, tra cui il Guardiano della Pioggia, la prima
cosa che aveva pensato era che avrebbe
dovuto uccidere quella troia a sangue freddo.
E Takeshi voleva
sposarla.
Aveva messo a confronto il suo istinto
violento, un istinto che fino a qualche anno prima aveva rivelato solo contro Byakuran e Daemon Spade, con il
sorriso spensierato sul volto di uno dei suoi migliori amici e aveva deciso che
non voleva che la mafia abbattesse quel sorriso, proprio come stava riuscendo
con la sua coscienza.
Lui
non era il tipo di persona che usava certi termini spregevoli o pianificava a
mente lucida un omicidio.
Per questo aveva deciso che avrebbe dato una
lezione severa alla Famiglia Bonaldi, tanto per far
capire a Sabrina De Rosa contro chi
si stava mettendo e quali sarebbero state le conseguenze se c’avesse riprovato.
Sperava rinunciasse e magari che si rendesse conto di quanto era fortunata a
godere della fiducia e dell’affetto di un ragazzo come Takeshi
e quell’amore che diceva di provare sarebbe diventato sincero.
Reborn
aveva ritenuto la sua decisione folle e pericolosa, ma Tsunayoshi
non aveva voluto sentire ragioni. Non voleva che il primo amore di Takeshi fosse corrotto dalla malavita, per cui avrebbe
continuato a sperare che per qualche sorta di miracolo tutto alla fine potesse
mettersi a posto.
Ma allo stesso tempo non
aveva esitato a decretare che Valeria Bonaldi avrebbe
pagato con la vita il prossimo errore.
Non gliene poteva
importare di meno che quella donna avesse attentato alla sua vita – lo facevano
in troppi e troppo spesso perché vi facesse anche solo caso, ormai – ma Valeria
era colpevole di aver strappato un pezzo prezioso di innocenza in uno dei suoi
Guardiani. Era questo, non il tradimento, ad averla condannata a morte.
Quando Valeria aveva
deciso di attaccarlo nella notte, nonostante l’avesse perdonata solo poco ore
prima, una calma gelida e una fredda determinatezza lo aveva avvolto. Se fosse
riuscita ad arrivare nelle sue stanze, non lo avrebbe trovato a letto come
credeva, ma pronto ad aspettarla.
Poi Reborn
aveva deciso di esprimere cosa ne pensasse delle spie e infiltrati e il suo
intervento si era rivelato non necessario.
Se doveva essere sincero,
era felice di non essere stato l’artefice di quell’omicidio, nonostante non
potesse di certo affermare che le sue mani fossero pulite, giacché era stato
lui a decidere la condanna della traditrice solo qualche ora prima.
Da ragazzo si sarebbe
odiato, probabilmente. Ma adesso aveva ventidue anni, era nella mafia da otto e
a capo della Famiglia Vongola da quattro. Conosceva la malavita, conosceva il
marcio che vi si nascondeva e avrebbe distrutto chiunque e chicchessia pur di
tenerne la sua famiglia quanto più lontano possibile.
Avrebbe distrutto la mafia
solo per garantire loro un futuro dove vivere felici.
“Avresti lasciato che mi
sposassi con una donna che voleva uccidermi” chiarì Takeshi
quando non ottenne risposta.
Tsuna
sbuffò. “Ho dato a Byakuran una seconda possibilità e
l’ha saputa sfruttare. Le persone sbagliano, non è che io non abbia mai fatto
errori. Speravo aprisse gli occhi.”
“E’ vero, le persone
sbagliano” rispose soltanto il Guardiano riprendendo a fendere l’aria.
Tsunayoshi
lo guardò per un istante. Non gli era piaciuta quella risposta. Proprio per
niente.
“Che vuoi dire?” chiese,
senza essere ascoltato “Takeshi!”
“Voglio dire che ho aperto
gli occhi.”
“Spiegati.”
Yamamoto ripeté alla
perfezione l’ottava istanza della Shigure Soen Ryuu prima di fermarsi di
nuovo e guardare il suo Boss.
“Anni fa, Reborn mi aveva avvertito.”
Tsuna
roteò gli occhi al cielo solo a sentire il nome del suo ex-tutor. Ti pareva che non c’entrasse lui.
“Che ha fatto, stavolta?”
“Mi disse che un hitman non può avere mogli, solo amanti. Nella mafia non
esistono mogli. E che è per questo che non hai mai sposato Bianchi.”
Tsuna
era abbastanza certo che quella che aveva appena sentito fosse una bella e
buona vaccata, Reborn era quello che lo scocciava
puntualmente quattro ore al giorno con la storia che doveva sposarsi con una
donna rispettabile e dare l’erede alla Famiglia.
Persino mentre si erano
scontrati la notte prima, dopo un po’ gli aveva rinfacciato che non aveva
ancora una moglie.
Inoltre, era stato lui ad
insistere affinché sposasse Mukuro e Chrome con quella specie di rito mafioso assurdo, ossia in
stile Vongola, che probabilmente si era inventato di sana pianta.
“Non è vero, non ci crede
neanche lui. Tu non hai idea di come mi stressi perché mi sposi.”
“Il tuo caso è diverso,
non c’entra, sei il Boss. Ma per uno come me, no.”
“Che significa uno come me?”
“Reborn
mi disse che sono io l’hitman della Decima
generazione, ed è vero. E un hitman non deve sposarsi
perché non si sa mai quando si ritroverà a dover uccidere la propria donna. Nel
mio caso, quel giorno era ieri. Ho sbagliato, ma è un errore che non si
ripeterà più.”
Tsuna
aveva già smesso di ascoltare da un po’. Si era fermato alla prima frase, prima
di sentire il sangue ribollirgli nelle vene. Perché Reborn
poteva avere tutte le idee strampalate che voleva, ma non era disposto ad
ascoltare quelle parole dalla bocca di Takeshi.
“Takeshi
tu non sei un hitman e non sei l’hitman
della mia Famiglia” precisò più
risoluto, che compassionevole.
“Tsuna,
sappiamo entrambi che sono l’unico che…”
“Ascolta” lo interruppe
duro. “Di assassini nella Famiglia Vongola ne ho a centinaia. Di gente disposta
ad uccidere senza battere ciglio pure. Sospetto seriamente che anche mio padre sia uno di loro. Non ho bisogno
di un altro serial killer. Non so che farmene. Tu non diventerai un assassino e
non ti macchierai le mani di sangue. Altrimenti puoi pure andartene.”
“Tsuna…”
“Non dovresti neanche
fraintendere le parole di Reborn, non ne sarebbe
felice. Per Reborn un hitman
è chi è in grado di prendersi cura della Famiglia, senza mai lasciarsi
abbattere dalla mafia. Non una macchina capace di uccidere e basta. Per cui non
farmi sentire mai più queste sciocchezze. Ti dimenticherai di questa storia e
un giorno ti innamorerai e ti sposerai con una brava ragazza e sarai felice.”
“E se dovesse tradirmi
pure lei?” chiese cinico.
“Cadrai, ti rialzerai, e
tornerai a sorridere” come un hitman. Ma col cavolo che lo aggiunse.
“Non so se ci riesco, Tsuna.”
“Non sono disposto a tollerare
altro Takeshi. Sei il mio migliore amico e non ti
permetterò mai di sacrificare la tua felicità per colpa mia.”
“E tu credi che io sia
disposto a mettere la tua vita in pericolo per una scelta sbagliata?”
Yamamoto non ebbe neanche
il tempo di aspettare risposta, trasalì quando un X-Burner
gli passò accanto a pochi centimetri, schiantandosi contro la parete del suo dojo. Abbastanza debole da non abbatterla, abbastanza forte
da far tremare tutta la stanza.
Quando il calore delle
fiamme si spense, il ragazzo si voltò a guardare il suo Boss che a gambe larghe
e braccia allargate, nella sua tipica posa d’attacco, lo fissava con occhi
d’oro e la Fiamma del Firmamento che brillava vivace sulla sua testa.
“Takeshi.
Reborn mi avrebbe ammazzato
con le sue stesse mani, se Vanessa fosse stata davvero per me una minaccia,
dopo tutti gli anni di addestramento a cui mi ha sottoposto.”
Takeshi
sbuffò, mentre l’altro rilassava le braccia. Tsuna, a
furia di affrontare un combattimento dietro l’altro, era inevitabilmente diventato
sicuro di sé, al punto tale da sottovalutare spesso la sua stessa vita. Era
irritante.
“Non puoi dare tutto per
scontato, Tsuna.”
“Takeshi,
se sono dove sono, se faccio quello che
faccio, è per proteggervi a costo
della vita. Non lascerò che tu diventi un assassino, a nessun prezzo. Per
cui, ecco le tue opzioni: o ti levi questa folle idea dalla testa e non mi fai
mai più sentire nulla di simile, o ti butto sul primo aereo e te ne torni con
un biglietto di sola andata a Namimori.”
“Tsuna?
Mi stai… minacciando?”
Il ragazzo non rispose, ma
il suo sguardo parlò per lui. Non avrebbe ceduto, non quando in gioco c’era il
futuro e la felicità di uno dei suoi migliori amici.
Yamamoto sospirò
pesantemente, sotto quegli occhi che lo guardavano fermi, e abbassò finalmente
la spada.
“Otto anni fa mi hai
impedito di buttare la mia vita da un palazzo. Lo stai facendo di nuovo.”
“Lo farò ogni volta che
sarà necessario” chiarì con tono fermo e determinato.
“Mi rialzerò e andrò
avanti, se è questo che vuoi da me, Boss” decise infine con tono molto più
rilassato, di quanto anche egli stesso potesse credere.
“Non chiamarmi Boss, ti
prego” piagnucolò Tsuna, estinguendo finalmente la
sua Fiamma. “Vieni, andiamo a prenderci una cioccolata calda, farà bene ad
entrambi.”
Yamamoto sospirò ancora,
mentre la sua lama riprendeva la forma di una banale spada di bambù. La ferita
era ancora profonda dentro di lui, così come i dubbi che gli attanagliavano la
mente. Non sapeva se si sarebbe concesso di amare ancora qualcuno, o anche solo
di fidarsi, ma se era quello ciò che Tsuna pretendeva
da lui, beh poteva provarci. Poi francamente era troppo faticoso essere arrabbiato
ventiquattro ore al giorno, come ci riuscisse Kyoya
non gli era ancora chiaro.
“Comunque, Reborn ti ha mentito” precisò Tsuna,
mentre si dirigevano verso la cucina della magione.
“Mh?”
“Non si è rifiutato di
sposare Bianchi perché è un hitman, non lo ha fatto
solo perché per lui Bianchi è come una figlia.”
“Ma se sono amanti?”
Tsuna
inarcò un sopracciglio in un modo che Takeshi non
capì e sospirò sconsolato. Non voleva neanche spiegare perché una donna adulta
e un bambino dell’età fisica di Reborn non potessero
essere amanti davvero.
“Diciamo che è quello che Reborn vuole fare credere a tutti” rispose allora.
“E perché mai?”
“Perché oltre a
considerarla una figlia, è anche un padre terribilmente geloso e possessivo.”
Lo disse per esperienza
personale. Perché Reborn non era il tipo di genitore
che ti curava la bua quando ti sbucciavi un ginocchio, ma era quello che ti
prendeva a calci fino a quando imparavi a non sbucciartele più le ginocchia.
Non esattamente il tipo di padre che nessuno vorrebbe, ma l’unico che lui
stesso considerava come tale.
Aveva sparato a Vanessa
per impedire a Tsuna di farlo, aveva ferito Takeshi solo per punirlo di aver messo la sua vita in pericolo e aveva passato la
notte a subire la sua rabbia, incrementandola colpo su colpo, fino a quando Tsuna non si era sentito esausto, ma vuoto, libero dal peso
di tutto l’accaduto con la famiglia Bonaldi. Magari stava sragionando per tutte le botte
che aveva preso, rifletté dopo un attimo.
Ma da quel punto di vista
lui e Bianchi erano davvero fratello e sorella, e non solo perché vivevano
sotto lo stesso tetto da otto anni. Come Reborn gli
aveva insegnato tutto quello che sapeva, aveva insegnato a Bianchi a cavarsela
da sola, nonostante suo padre la trascurasse per piangere la morte dell’unica
donna che aveva veramente amato, o il fatto che suo fratello non le avesse mai
perdonato del tutto colpe che non aveva, o che Romeo chissà che le avesse
fatto.
“In pratica non vuole che
qualcun altro la corteggi” concluse per riassumere.
Il Guardiano della Pioggia
scoppiò a ridere di cuore, rinquadrando completamente la conversazione che
aveva avuto con l’hitman sette anni prima.
Se
non ti sposi sarà più facile per te, se dovrai uccidere la tua donna.
Più facile andare avanti,
più facile rimettersi in piedi, più facile ritrovare il coraggio di fidarsi del
prossimo, non sarebbe di certo stato più facile uccidere. Probabilmente, non era mai facile uccidere. Il mento
tornò a bruciargli in quell’istante. Alla fine, in fondo, anche se non le aveva
sparato, l’aveva pur sempre uccisa lui.
In quell’istante, decise
che non aveva affatto voglia di diventare un assassino. Né aveva la voglia di
guardarsi le spalle ad ogni passo che faceva. Così come non gli andava affatto
di comprare dei tonfa, camminare con un canarino in testa e farsi venire fuori
un brutto carattere. Eppure, per Tsuna, per la sua
famiglia, non avrebbe esitato a farlo se fosse stato necessario.
Rispose
con un sorriso un po’ tirato allo sguardo sbieco che gli lanciò Tsuna, il suo intuito
era sempre troppo accentuato. Ma alla fine, non aveva senso preoccuparsi di
problemi che ancora non esistevano, decise quando finalmente la tazza di
cioccolata calda fu tra le sue mani.
“Chissà che razza di
cognato sarebbe Hayato” commentò piuttosto con un
mezzo ghigno.
Tsuna
quasi si strozzò dalle risate con la cioccolata. Quella era esattamente una
scena che non voleva vedere. Ma
accolse con piacere la ventata di calma e allegria che proveniva adesso dal
Guardiano, come se fosse una benedizione.
Eppure, l’idea che una
parte di lui si fosse irrimediabilmente corrotta lo tormentò per giorni. Poi
per mesi. Infine, per anni.
Note post lettura: ...Non odiatemi.
Questa storia è vagamente diversa dalle altre. Prima lo scopo era mostrare come Tsuna fosse beh "Tsuna" nonostante il suo ruolo di Boss mafioso, ma qui ho uno Tsuna più giovane in cui a mio avviso sta venendo ancora a patti con il suo compito e pertanto è molto più sensibile (isterico) alla sua posizione. Il senso amaro al finale, è inevitabile, visto che alla fine Yamamoto è veramente l'hitman della famiglia.
E siccome, vuoi o non vuoi, Tsuna è pur sempre un Boss... ecco me lo vedevo lì a decretare la morte dei sicari mandati contro Takeshi proprio per impedire a Takeshi di diventare anche lui un sicario.
Boss!Tsuna ha un fascino perverso.
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Capitolo 5 *** Mukuro & Chrome ***
Note dell'Autrice: Sono molto più in ritardo di quanto avrei voluto con questa storia. In realtà l'ho praticamente terminata tre mesi fa, ma è una cosa su cui lavoro da così tanto tempo che avevo bisogno di separarmene per poterla rileggere con cura e correggerla.
Ad ogni modo, passando alle cose importanti, immagino sia cosa nota che io adoro Chrome e Mukuro insieme, non a caso metà delle fic su questo sito su loro due come coppia sono opera mia. Ora, in realtà questa storia si discosterà particolarmente dalle altre, nel senso che siccome la raccolta è incentrata sulla mafia e su Tsuna, beh, lo è anche questa. (Quindi niente sesso o romanticismo esagerato in generale)
Per cui, per i non amanti della coppia o dell'etero in generale, posso assicurare in anticipo che sono comunque al sicuro.
Per gli amanti della coppia, invece, questa storia si colloca all'incirca un anno prima di Mostro, in cui avevo già inticipato che i ciccini erano destinati a nozze u.ù. (E la seconda parte di quella storia è praticamente il seguito di questa.)
Anyway, stesso target e stesse raccomandazioni che alle altre storie. E se proprio devo dirla tutta la storia è più o meno velatamente 699627, amen.
Vi lascio alla lettura e... ci vedremo tra un po', la prossima è su Gokudera e sono ancora praticamente agli inizi, non ho proprio la più pallida idea di quando riuscirò a completarla. Spero che per allora qualcuno continuerà a seguire questa raccolta.
Se nel frattempo volete farmi sapere cosa pensate di questa storia, sappiate che i commenti incitano a scrivere. :P
Alla prossima!
Vongola Decimo
~ Mukuro & Chome ~
“Toh. Il tuo rapporto.”
Tsunayoshi Sawada afferrò al volo il
plico di fogli lanciato come un frisbee che minacciava di colpirlo in piena
fronte.
La giornata non era nemmeno iniziata e il
suo buon umore era già sotto le scarpe. Curiosamente, per una volta,
aveva una sola persona cui attribuirne la responsabilità: Mukuro Rokudo,
il suo settimo Guardiano, uno dei due Custodi della Nebbia e la più
grossa spina nel fianco che avesse mai conosciuto.
“Mukuro, ti dispiacerebbe entrare e
sederti? Devo parlarti.”
L’illusionista lo guardò
dall’alto in basso per qualche secondo, senza trattenere uno sbuffo di
malavoglia, ma stranamente decise di accontentare il suo presunto Boss senza
troppe storie. Si staccò dallo stipite della porta cui era appoggiato e
si accomodò alla poltrona di fronte la scrivania che un tempo appartenne
a Giotto Vongola, badando bene di buttarci gli stivali sopra.
“Tsunayoshi, che devi dirmi di tanto
importante? Sto fremendo dalla curiosità” mormorò con un
tono amabile che gli fece intendere che non poteva fregargliene di meno di
quanto aveva da dire.
Mukuro era così. Diceva una cosa, ne
pensava un’altra e ne faceva un’altra ancora. E tutte e tre avevano
il sommo potere di fargli saltare i nervi.
“Ho letto il resoconto della tua
ultima missione” lo informò.
Mukuro rimase a guardarlo per qualche
istante, poi per qualche minuto. Infine si annoiò. “Immagino che
tu stia aspettando che ti chieda di andare avanti, ma per quanto mi riguarda
puoi anche fermarti qui” lo informò, tanto perché non
stesse troppo in attesa di un E quindi?
che non avrebbe ricevuto.
Il mal di testa di Tsuna peggiorò
furiosamente.
“Mukuro, quando ti ho chiesto di
prenderti cura di quegli spacciatori da quattro soldi, non volevo prendessi il
loro posto.”
“Avresti dovuto specificarlo. Errore
tuo.”
“Mukuro…” lo
chiamò in un tono minaccioso che era un mezzo avvertimento. Quasi
credesse davvero che gliene fregasse qualcosa di come lo chiamava.
“Oh, Tsunayoshi, non farla lunga. Se
qualche ragazzino è tanto scemo da buttare tutti quei soldi per fottersi
il cervello non è mica colpa mia.”
Tsunayoshi Sawada dovette trattenere
l’ennesimo attacco di rabbia. Aprì il secondo cassetto alla sua
sinistra di scatto, tirando fuori un sacchetto con dentro delle pillole bianche
e glielo tirò contro.
La busta atterrò placidamente sul
ventre dell’Illusionista, che non sciolse le braccia da dietro la testa
per afferrarlo.
“L’hanno perquisito in una
scuola quelli della Fondazione.”
Rise. A modo suo, ovviamente. “Sempre
pensato che Kyoya Hibari e i suoi non avessero un cazzo da fare.”
“Mukuro!”
Il Boss dei Vongola era sempre più
vicino ad una crisi di nervi e il suo Guardiano della Nebbia non poteva neanche
più fingere che la cosa non lo divertisse.
“Che vuoi, non sono io quello che
passa le sue giornate a gironzolare per strada a pestare la gente.”
“Oh, no, tu le passi a dare fastidio
a Chrome e a spacciare caramelle a dei ragazzini. Caramelle che vendi a trenta
euro l’una.”
“Pensa tu quando sono stupidi i mocciosi
di oggi che spendono trenta euro per comprare di nascosto qualcosa che
potrebbero avere liberamente a dieci centesimi in un bar qualsiasi.”
“Sei tu che li prendi in giro!”
“Guarda che sono loro che le cercano.
Mica io ad andare da loro. E poi che volevi, che dessi loro sul serio
stupefacenti?”
Il mal di testa di Tsuna stava raggiungendo
livelli sempre più epici, mentre si chiedeva chi gliel’avesse
fatta fare.
Negli ultimi due mesi, c’erano stati
due decessi per droga nella provincia. Due ragazzini di tredici e diciassette
anni, morti a distanza di poche settimane l’uno dall’altro. Cocaina
tagliata male.
Qualche Famiglia rivale si era messa a
spacciare nelle scuole. In genere, i pusher da strapazzo non lo disturbavano
più di tanto. Su una cosa Mukuro aveva ragione, i tossici la droga la
cercano, non il contrario.
Quello che non tollerava, però, era
che delle droghe fossero vendute a ragazzi e ragazze minorenni, ancora inconsapevoli
delle scelte che facevano.
Non aveva dato quella missione a Mukuro per
caso. L’Illusionista, più di chiunque altro, aveva vissuto sulla
sua pelle l’assuefazione da farmaci in età sbagliata. Con la
differenza che lui non l’aveva scelto, ce l’avevano costretto. E
non si era mai ripreso del tutto.
Mukuro Rokudo aveva praticamente tutti i
difetti del mondo, ma era completamente astemio, non beveva, non fumava, non
sopportava neanche l’idea di sostanze tossiche. In realtà non
sopportava nessun tipo di farmaco, fosse anche un banale sciroppo per la tosse.
L’unica volta in cui aveva letto il
panico negli occhi eterocromi del suo Guardiano era stata quando l’equipe
medica aveva cercato di sottoporlo ad anestesia per potergli ricucire una
ferita grave che aveva riportato in battaglia.
Sarebbe morto di infezione piuttosto che
farsi iniettare qualcosa capace di addormentarlo contro la sua volontà.
Per Rokudo, chi si drogava volontariamente meritava
le peggiori agonie. Da bravo psicotico o presunto tale qual era, adorava
giocare con le menti degli altri, con una mente corrotta era ancora più
divertente.
Ma in quel caso non c’era veramente
dietro una scelta. C’erano ragazzi anche di 12 anni in piena
tossico-dipendenza. Non era molto diverso da quanto aveva subito lui.
Tsuna lo sapeva, sapeva che sarebbe stato
spietato. Gli aveva ordinato di non uccidere nessuno e lasciato carta bianca
sul resto. Non aveva neanche intenzione di sapere come aveva deciso di agire,
sapeva semplicemente che nessuno di quei quattro delinquenti c’avrebbe
mai più riprovato.
Quello che non poteva minimamente
sospettare però, era che Mukuro se ne uscisse con una delle sue anche in
quell’occasione. Aveva deciso di sostituirsi ai pusher della zona e
vendere caramelle. Caramelle in cui aveva infuso un briciolo della sua Fiamma,
poteva distinguere senza troppi problemi l’aura bluastra che impregnava
il sacchetto che gli aveva lanciato.
Chiunque fosse stato in grado di vederla ne
avrebbe riconosciuto la minaccia, come un marchio di fabbrica. Pochi
illusionisti erano capaci di fare qualcosa del genere e solo uno era tanto
deviato da farlo sul serio.
I mafiosi più accorti ormai sapevano
che se volevano distribuire sostanze illecite in quel territorio avrebbero
prima dovuto vedersela con Mukuro Rokudo degli Estraneo, il sopravvissuto ai
Vindice, il rinnegato nella mafia e, nonostante ciò, uno dei Guardiani
della Famiglia Vongola.
Tutti gli altri, la gente
normale e ancor di più i ragazzini liceali a cui vendeva quella roba,
non sarebbero mai riusciti a vedere il potere infuso in quelle piccole
pastiglie di zucchero, nonostante fosse l’unica cosa a smorzarne il
sapore di eucalipto.
E il problema era proprio questo. Quella
piccola goccia di Fiamma della Nebbia era capace di infondere un senso di oblio
in chi una Fiamma non ce l’aveva. Chi l’assumeva poteva godere
della stessa ebbrezza di qualunque altra droga sintetica, lo stesso senso di
onnipotenza, la stessa sensazione di benessere, seguita poi da quegli effetti
di ansia, sudorazione, panico e dolore accompagnati dalla droga.
Non era nessuna droga però a dare
quei sintomi, ma l’astinenza. Loro credevano di drogarsi, ma in
realtà si disintossicavano. Aveva capito il gioco di Mukuro, era
un’idea assolutamente geniale e in realtà non ci vedeva poi
così tanto di male neanche sul fatto che avesse deciso di specularci
sopra.
Anzi, se avesse avuto lui un’idea del
genere avrebbe chiesto subito aiuto a Chrome. Il problema era che Mukuro era un
bastardo. Lui stesso non lo aveva mai negato o nascosto.
La Fiamma che aveva trasferito in quelle
caramelle agiva in modo tale che quanto più qualcuno ne assumeva, tanto
più la sensazione di ebbrezza aumentava, fino a raggiungere un apice
oltre il quale iniziavano gli incubi, il terrore, la sensazione di morire, di
soffocare e di subire sulla propria pelle le paure più profonde.
Più era giovane il soggetto che si
lasciava colpire volontariamente dalla sua Fiamma, più le sue illusioni
si sarebbero rivelate cruenti.
Aveva letto su tutti i giornali il caso di
Giordana Pagliuso, una ragazza di quattordici anni che era stata ricoverata in
stato confusionale, convinta che la pelle e la carne le si stessero sciogliendo
dall’interno.
E non era l’unico caso simile.
Mukuro stava sì disintossicando praticamente
tutti i ragazzi della provincia, ma al contempo li stava punendo in modo
atroce.
Li portava al punto da realizzare che
continuare a drogarsi non valeva la sofferenza che pativano, ma prima ne
logorava i nervi e l’anima.
“Se sento che qualcuno si è
suicidato per colpa di questa roba che distribuisci in giro…”
“Tanto era già un aspirante
suicida, prima. Significa che era destino.”
“Mukuro! Stai parlando di ragazzini!”
“Ragazzini stupidi che mentono alle
famiglie e rubano per potersi drogare, se stai cercando di muovermi a
compassione stai sprecando il mio e il tuo tempo, Tsunayoshi.”
Gli puntò un dito contro, nervoso. “Se
la cosa degenera, te ne riterrò responsabile.”
“Degenererà senza dubbio e
puoi farmi i complimenti già da adesso, senza aspettare, se vuoi.”
Tsunayoshi sbuffò al limite della
frustrazione. Era praticamente inutile discutere con Rokudo. Serviva solo a
perdere quel briciolo di sanità mentale che gli era rimasto.
“Vattene. Parlare con te mi dà
noia.”
“Oh, lo vedi che quando ti impegni su
qualcosa siamo d’accordo?” lo prese in giro il suo Guardiano.
Mukuro levò i piedi dalla scrivania,
buttò le mani sulle cosce e si alzò.
“Prima che me ne scordi” disse
però una volta in piedi, “tra non molto è il compleanno di
Chrome. Organizza il matrimonio.”
Tsuna sentì tutta la frustrazione e
il nervosismo provati fino a quell’istante svanire all’istante,
dimenticati all’improvviso, di fronte lo stupore incredibile che lo
avvinse a quella frase.
“Eh?!” Non che fosse la domanda
più intelligente del mondo, ma l’unica che riusciva a formulare in
quella situazione, con gli occhi che minacciavano di uscirgli dalle orbite.
“Mukuro, non potete sposarvi!”
“E perché mai?” chiese
quello, scettico, con un sopracciglio inarcato.
“Siete troppo giovani!”
“Chrome compirà a breve
vent’anni. Non è a quell’età che in Giappone
diventate maggiorenni? Può sposarsi.”
Tsuna aveva sempre più voglia di
picchiare la testa contro il tavolo di mogano all’assurdità di
certi discorsi.
“Ma lei è
d’accordo?”
“Non lo sa ancora. Ma lo sarà
sicuramente.”
“Mukuro, vuoi che io organizzi il tuo
matrimonio con Chrome, senza averlo detto ancora a Chrome? E poi perché
non te lo organizzi da solo? Tu e le tue follie!”
“Devi pensarci tu. E poi non mi pare
che hai molto altro da fare, visto che perdi tempo a discutere le mie azioni. Mi
raccomando, fa’ che sia tutto pronto per il suo compleanno.”
Mukuro si congedò così, senza
aggiungere altro e senza dargli la possibilità di porgli le altre
centosettantadue domande rimaste in sospeso.
Come se fosse naturale decidere da un
secondo all’altro di sposarsi e sbolognare tutte le responsabilità
a qualcun altro. Tsuna voleva trucidarlo ancor di più che non per la
questione della droga.
“Ohi, ImbranaTsuna, hai intenzione di
giocare per ancora qualche altra ora con quella penna o pensi che prima o poi
comincerai a lavorare?” gli chiese un pacificissimo Reborn con uno
sguardo omicida negli occhi e una pistola puntata contro la sua testa.
Qualche anno prima, avrebbe avuto un
attacco di panico e avrebbe cominciato a correre per tutta la stanza di fronte
quella minaccia. Dopo anni di convivenza forzata con l’hitman, non solo
non aveva problemi a schivare i suoi proiettili, ma era così abituato ad
essere sparato da Reborn che un buco in più o uno in meno non gli
avrebbe cambiato troppo la giornata.
Tsuna alzò gli occhi dal rapporto
che fingeva di leggere puntandoli in faccia al suo ex tutor e attuale
Consigliere Interno. Continuava a rigirarsi la penna tra le mani.
“Mukuro mi ha chiesto di organizzare
il suo matrimonio con Chrome.”
L’hitman prese posto alla scrivania
di fronte a lui. Posò l’arma sul banco e tirò fuori tutto
il necessario per pulirla con cura. Per qualche motivo era sempre nello studio
di Tsuna che decideva fosse il caso di prendersi cura delle sue armi.
Nonostante Reborn gli avesse detto che lo
faceva soltanto perché aveva bisogno di provarle su un bersaglio mobile
dopo averle pulite, Tsuna vedeva quel gesto come un atto di estrema fiducia e
non mancava mai di renderlo in qualche modo felice.
“Ah.”
“Non lo ha neanche chiesto a Chrome,
ti rendi conto?”
“Lo sospettavo.”
“E pretende che me ne occupi io, ma
che diavolo c’entro?”
“Sei il suo Boss.”
“Appunto. Non la sua segretaria o
organizzatrice di eventi” sbuffò infastidito. Come se avesse poche responsabilità cui far fronte.
“ImbranaTsuna, non hai capito”
lo redarguì Reborn, controllando la canna della pistola. “Mukuro
non vuole che prenoti il ristorante, vuole che celebri il matrimonio.”
L’urlo stupito che buttò
ricordava più il ragazzino delle medie che era stato e non il Boss
mafioso che era. Reborn ne sorrise.
“Ma ti sembro un prete per
caso?”
“Mukuro non è cattolico, ImbranaTsuna.”
Nonostante il tono esasperato per
l’ottusità del suo allievo, Tsuna lo vedeva chiaramente che Reborn
si stava divertendo. E quando mai!
“Non sono neanche un sindaco, se
è per questo.”
“Sei il Decimo Boss della Famiglia
Vongola. E’ con questo titolo che devi sposarli.”
“Ah già, mi ero scordato che
oltre ai matrimoni legali e religiosi, ci fossero anche quelli mafiosi”
ribatté sarcastico, con uno scatto della mano che fece volare la penna
da qualche parte nella stanza.
“Hai fatto male. La prossima volta
ricordatene.”
“No, fermo, aspetta. Stai dicendo sul
serio?”
“Certo, Tsuna” sbuffò
teatralmente, tanto per prenderlo un altro po’ in giro. Poi si fece serio
“Ascolta, quello che Mukuro vuole da te è che celebri il
matrimonio di fronte tutti i tuoi amici, ma soprattutto di fronte tutti i tuoi
nemici.”
“Perché mai dovrebbe
desiderare una cosa del genere?!”
“E’ così che funziona
nella mafia. Non sarà un matrimonio riconosciuto dalla legge, ma nessuno
potrà metterlo in discussione nel nostro mondo. Tienilo bene in mente
ImbranaTsuna, perché varrà anche per te quando deciderai di
sposarti. Quello di Mukuro è un avvertimento.”
“Avvertimento? In che senso?”
“Associando il suo nome a quello di
Chrome, vuole far sapere a tutti i mafiosi che se qualcuno farà un torto
a lei, l’avrà fatto anche a lui e si vendicherà di
conseguenza. Se celebri tu il matrimonio, la loro unione avrà la
protezione di tutta la Famiglia Vongola. Significa che chiunque vorrà
mai mettersi tra loro o contro di loro dovrà vedersela contro la
Famiglia.”
“Non ha senso. Mukuro e Chrome sono
miei Guardiani, non permetterei mai comunque che qualcuno faccia loro qualcosa.
Non c’è bisogno di mettere in atto questa messa in scena.”
“Lo so. E lo sa anche Mukuro,
nonostante tutto. Ma per gli altri Boss significa poco e niente. Sono in tanti
a considerare le vite dei propri uomini del tutto sacrificabili e ormai
dovresti saperlo.”
Lo sapeva, lo sapeva eccome. Lo aveva visto
accadere più e più volte da quando era diventato Boss. E ancora
non capiva come fosse ammissibile.
“Non scordarti neanche che Chrome
è una donna e la mafia è piena di uomini che non rispettano le
femmine” chiarì con marcato accento siciliano. “Una donna
sposata, però, è una donna con qualcuno pronto ad ammazzare
chiunque tenti di metterle le mani addosso. Mukuro vuol far sapere in giro che,
in questo caso, quel qualcuno è lui.”
“Mukuro ha sempre disprezzato la
mafia. Perché ora vuole seguire le tradizioni della malavita?”
“La disprezza, ma volente o nolente,
è la sua realtà. Lo è sempre stata. Non credo sappia neppure
ragionare in modo diverso. In più, ricordati bene che se ha chiesto a te
di celebrare il matrimonio, significa che ti rispetta e riconosce come
Boss.”
I capelli lunghi, nerissimi come la notte,
con quelle sfumature blu, un po’ violette, che lo ricordavano davvero un
cielo senza luna, le ricadevano lisci, come un manto di seta sulle spalle. La
spazzola li attraversava morbidamente, mentre raccoglieva alcune ciocche in una
piccola coda alta.
Era appena uscita dalla doccia, aveva
appena finito di asciugarsi i capelli. Ancora completamente nuda, sedeva di
fronte allo specchio osservando la propria immagine. Guardava ogni singola
cicatrice, quelle che aveva riportato in battaglia, quelle che aveva subito il
giorno dell’operazione. Il giorno in cui era morta e rinata.
Qualche anno prima aveva odiato il proprio
corpo, non faceva che contarne i difetti, le mancanze. Si sentiva come un
burattino, un burattino vuoto e prosciugato, in cui non c’era più
spazio né per i suoi organi, né per la sua anima.
Qualche anno prima non sapeva ancora cosa
significasse avere una famiglia,
essere accettata per quello che era, con tutte le sue imperfezioni.
Adesso ogni volta che fissava le sue
cicatrici pensava piuttosto a quanta strada avesse fatto fino a quel giorno,
quanta ne avrebbe fatta ancora.
Doveva migliorare, doveva diventare
più forte, doveva proteggerli tutti, come loro avevano protetto lei da
ogni nemico, dalle sue paure, da se stessa.
Doveva proteggerli, perché li amava.
Amava le ragazze che le avevano insegnato
ad accettarsi così com’era. Amava gli altri Guardiani che la
stimavano e non avevano mai messo in discussione il fatto che fosse una di
loro.
Amava Tsuna, perché era stata la
prima persona in assoluto ad accettarla a braccia aperte nelle sua vita, senza
domande o pretese. Era sinceramente grato di averla al suo fianco, quasi in
quel modo lei gli avesse fatto un dono e non il contrario.
E poi amava Mukuro. Mukuro che invece
pretendeva continuamente da lei, la spronava a migliorarsi e a dare il suo
meglio senza arrendersi mai. A superare i propri limiti senza farsene spaventare.
L’aveva spinta con ogni mezzo a diventare padrona della sua vita, quando
lei una vita era convinta di non avercela più.
Mukuro era stato un padre, un maestro, un
fratello e un amico. E anche molto più di quello, pensò con un
certo imbarazzo, notando i segni rossi che macchiavano la sua pelle. Rossi di
passione, non rossi di battaglia.
Il suo corpo era pieno di difetti, ma a
Mukuro piaceva. Non aveva bisogno di altro.
Tsuna era diventato ufficialmente Don
Vongola tre anni prima, a diciotto anni. Una settimana prima che assumesse la
carica, era andato da lei, badando bene di cacciare fuori Mukuro, per parlarle.
In realtà sospettava che Mukuro fosse d’accordo, per questo
l’altro illusionista non aveva posto gran resistenza.
Quel giorno Tsuna le aveva parlato della
mafia, con una crudezza che non gli apparteneva, ma che riteneva necessaria,
senza riflettere sul fatto che non poteva essere all’oscuro sulla
malavita, dopo aver convissuto per anni con Mukuro.
Anzi, era molto probabile che lei ne
sapesse più di lui allora. Eppure, Tsuna si era seduto accanto a lei sul
freddo pavimento dell’istituto che occupavano abusivamente a Kokuyo,
aveva incrociato le braccia e le mani sul ventre e si era messo a nudo per lei.
Credeva volesse parlarle della violenza
della mafia, per dissuaderla dall’idea di accettare il ruolo di
Guardiano. In fondo, era quanto stava cercando di fare da giorni anche il suo
compagno.
E sì, era anche lo scopo di Tsuna, ma
lo aveva fatto come solo un fratello può tentare. Si era messo in gioco
per lei.
Non aveva cercato di terrorizzarla con la
crudeltà dei bassifondi, le aveva raccontato la sua esperienza, dal suo
punto di vista. Quello che non diceva mai, perché sapeva avrebbe fatto
preoccupare eccessivamente i suoi amici. Quello che probabilmente conosceva
solo Reborn e neanche per intero.
Le aveva parlato di suo padre, Iemitsu
Sawada, l’uomo che non c’era mai stato a casa a prendersi cura di
suo figlio e sua moglie, che aveva mentito e li aveva abbandonati. E che sua
madre adorava lo stesso, più di quanto adorasse lui, probabilmente. Le
aveva detto come l’arrivo di Lambo, I-Pin, Fuuta e Bianchi in casa sua
fosse stata un piccolo miracolo per lui, nonostante tutto. Perché era la
prima volta che la sua casa era qualcosa di più di quattro mura.
I bambini guardavano a lui come un fratello
maggiore, Bianchi, benché avesse più volte tentato di ucciderlo,
non gli aveva mai negato il supporto di una sorella maggiore.
Reborn aveva sconvolto la sua vita nel bene
e nel male. Gli aveva portato una Famiglia mafiosa e una famiglia vera.
Le aveva confessato di averlo odiato
davvero molte volte: lo aveva costretto a conoscere verità che preferiva
ignorare, lo aveva trascinato in una vita che non voleva. Ma Reborn gli era
sempre stato accanto, neanche fosse un padre. Quando il suo vero padre era la
stessa persona che aveva proposto il suo nome come futuro candidato, senza
prima alzare la cornetta del telefono per chiedergli il suo parere.
No, aveva preferito farsi credere morto
allora, era più romantico.
Le aveva parlato del suo primo omicidio. Di
Byakuran. Di quello che aveva provato, della disperazione nel sapere di non
aver altra scelta se voleva fermare una guerra, della rabbia e della voglia di
ucciderlo dopo la morte di Yuni. Il vero motivo per cui si era sentito in colpa
era proprio il non aver sentito rimorso nell’uccidere Byakuran.
Nel primo momento di tregua, non aveva
potuto fare a meno di pensare che magari anche lui era un mostro.
Per fortuna però, il futuro era
variabile, Byakuran nel loro tempo era ancora vivo, per cui quel gesto non era
altro che la chiave per cambiare la loro realtà, renderla migliore.
Nonostante le prime incertezze, era riuscito a perdonarsi in fretta.
Poi erano venuti Enma Kozarto e Daemon
Spade. Quella era stata la prima volta in cui si era messo in discussione
veramente. In cui all’improvviso gli era parso tutto spietato, tutto
sbagliato. Combatteva per i propri ideali e di punto in bianco si era ritrovato
senza nulla in cui credere.
Le disse cosa aveva provato quando Daemon
Spade si era impossessato di lei, le disse che ancora non sapeva cosa le avesse
fatto ma non se ne dava ancora pace. Lei a quelle parole gli aveva sorriso con
dolcezza, ma non aveva chiarito i suoi dubbi.
Ed era andato avanti poi per ore,
raccontandole tutto ciò che aveva vissuto, confidandole i suoi timori,
le sue paure. Il terrore più grande non era quello di perdere una
coscienza prima o poi, ma quella che lo facessero i suoi guardiani e che lui
non fosse in grado di fermarli.
Odiava Mukuro per essere già
così vicino al punto di rottura, per essere già così
corrotto, disilluso e spietato.
E infine le aveva chiesto come prevedeva di
non accettare il ruolo di Guardiana, non perché temeva non
l’avrebbe retto, ma perché temeva che Mukuro potesse perdersi del
tutto se anche lei fosse stata coinvolta nella mafia. Perché la mafia
cambiava tutti, stava cambiando lui avrebbe cambiato anche lei.
Mai come in quel momento, Chrome aveva
avuto le idee chiare sul da farsi. Ironicamente, era stato proprio il suo Boss
a farle prendere la decisione di cui poi non si sarebbe mai pentita.
Ricordava di avergli sorriso, ma di aver
scosso la testa, spiegandogli che avrebbe accettato il ruolo di Guardiana
proprio per questo motivo. Perché Tsuna non doveva combattere quella
guerra da solo, non quella contro la mafia, ma quella per la sua famiglia, per
i suoi amici. Non doveva cercare di proteggerli tutti, ma si sarebbero protetti
a vicenda.
Lei avrebbe protetto lui e avrebbe protetto
Mukuro, dalla mafia e da se stesso. Non avrebbe scelto una vita spensierata per
sé lasciando le persone cui teneva di più in balia del cancro
della società. Aveva scelto di essere la Nebbia, per lo stesso motivo
per cui Tsuna aveva scelto di essere il Cielo e perché gli altri
Guardiani non si erano tirati indietro al momento di giurare del proprio
futuro.
Tsuna l’aveva semplicemente
accettato. Le aveva dato un bacio su una guancia e l’aveva invitata a
prendere un gelato insieme. Una settimana dopo, partivano tutti in volo per
l’Italia.
Occupava da allora quella stanza dalle
pareti indaco, il letto matrimoniale, il comò ad angolo, e quello
specchio gigante su una parete, che la rifletteva completamente, senza
nascondere nessuno dei suoi difetti. Ma mettendo ugualmente in luce anche i
suoi pregi.
Aveva appena finito di sistemarsi i capelli
quando qualcuno bussò alla porta.
“Un attimo!”
Si legò la benda da pirata
sull’occhio destro, e si avvolse in un accappatoio dai toni blu. Per
quanto le andava lungo, probabilmente non era neanche il suo.
“Boss” notò, aprendo la
porta.
“Scusami” mormorò quello
con un lieve imbarazzo. “Se ti disturbo passo più tardi.”
“No, ho quasi finito di prepararmi,
dimmi pure.”
“Devo partire per la Puglia. Ho
sentito di un giro di traffico d’armi illegali tra Cosa Nostra e la Sacra
Corona Unita e voglio controllare la situazione prima che quelle armi finiscano
nelle mani sbagliate. Ti va di venire con me?”
“Ma domani devo partire per Milano
con Mukuro, per cercare quelle ragazze.”
Tre ragazze nel campo della moda erano
state rapite nei pressi di Milano da qualche giorno e alle famiglie era
arrivata la richiesta di riscatto. Per qualche motivo, avevano preferito
affidarsi ai Vongola piuttosto che alla polizia.
Tsuna non discuteva la loro scelta, aveva
promesso che avrebbe riportato indietro le ragazze sane e salve e lo avrebbe
fatto.
“Se ne occuperanno Hayato e Takeshi.”
“Come mai?”
Perché
Mukuro gli dava sui nervi ultimamente, soprattutto da quando aveva deciso di
informarlo quotidianamente dei suoi affari. E da quando aveva deciso di
ampliare l’azienda spacciando anche le caramelle di Lambo.
Non lo disse.
Non le disse neanche che aveva minacciato
Mukuro di strangolarlo se non lasciava in pace Lambo e, più
efficacemente, aveva minacciato Lambo di tenerlo a verdure a vita e di affidare
il suo addestramento e il suo tempo libero completamente nelle mani di Hayato, se
non la piantava di dar retta a Mukuro.
“Perché preferirei avere a te
accanto in Puglia. Mi serve un’Illusionista e qualcuno che non aggredisca
il primo idiota a vista, come farebbe Hayato.”
Chrome non trattenne una piccola risata.
“Dammi venti minuti e sono pronta a partire.”
“Ti aspetto.”
Quando la donna col vestitino rosa leggero,
il cappello vecchio stile, la folta chioma bionda e il paio di tette più
grosse che avesse mai visto lo raggiunse, Tsuna temette davvero che si
trattasse di Mukuro e di doverlo uccidere. Non avrebbe retto un intero viaggio
dalla Sicilia alla Puglia con lui. Non con lui in quelle condizioni.
Tirò un sospiro di sollievo quando
riconobbe quell’illusione come tipica della Fiamma di Chrome.
Mukuro non si camuffava quasi mai durante
le sue missioni. Solo se erano di spionaggio o se decideva di mandarlo in
bestia. D’altronde non ne aveva neanche bisogno: si era fatto un nome nel
mondo della mafia sin da quando era bambino ed era stato rinnegato e
considerato un pericolo da tutta la malavita a tredici anni. Ci teneva a
mostrarsi ai suoi avversari, adorava leggere il terrore sui loro volti quando
lo riconoscevano.
Chrome era molto più discreta,
invece, e si impegnava a non lasciare tracce. Nessuno conosceva il suo vero
volto se non all’interno della Famiglia. Aveva anche provato ad insegnare
a Fran quel genere di accortezze, ma il ragazzo era troppo abituato ai metodi
di Mukuro per non essere fuori di testa anche lui.
Quando Mukuro aveva accettato il ruolo di
Guardiano della Nebbia, probabilmente per
il solo scopo di assicurarsi che lui arrivasse alla tombe tra le peggiori
sofferenze, aveva deciso che Fran era abbastanza adulto per entrare nei
Varia.
Aveva detto che non aveva più tempo
per lui, quindi voleva sbolognarlo a quella manica di psicopatici, ma Tsuna
sapeva bene che lo aveva fatto soltanto per assicurarsi lo seguisse in Italia
dove poteva tenerlo facilmente d’occhio, ma con i Varia, in modo che il
suo nome non fosse associato a quello del fuorilegge Mukuro Rokudo.
Il problema era che lo sapeva benissimo
anche Fran che non mancava di rinfacciarlo al suo maestro ad ogni singola occasione.
Così come gli rinfacciava di aver legato la propria vita alla mafia,
benché dicesse di odiarla, di vivere con Chrome nonostante dicesse di
non aver bisogno di nessuno e di avere un feticismo preoccupante nei confronti
degli ananas.
Fran era l’unico, probabilmente,
capace di far saltare i nervi a Mukuro senza neanche impegnarsi e senza
soprattutto giocarsi la sanità mentale e un’ulcera nel tentativo.
Doveva ricordarsi di invitarlo più spesso alla villa. Tanto per
salvaguardare la propria di salute.
“Per poco non ti avevo
riconosciuta” l’accolse, quando lei lo raggiunse.
Chrome sorrise. “Allora ho fatto un
buon lavoro.”
“E’ che non sono abituato a
vederti così.”
“Mukuro dice che i nemici sono
più vulnerabili quando hanno a che fare con una donna con le tette
grosse.”
Tsuna percepì
quell’informazione con un tic nervoso. Doveva decisamente invitare Fran non appena tornava da quella missione.
Anzi, doveva lasciare a lui il compito di sposarlo.
“Vieni, andiamo.”
Le aprì la porta della limousine
nera con un gesto galante, che Chrome accolse con un sorriso. Si sedettero
l’uno di fronte all’altra. Poi Tsuna alzò il vetro divisorio
che li separava dall’autista.
Quello fu il segnale da cui Chrome
capì quanto fosse seria la missione. Tsuna era un ragazzo aperto e
spigliato e non aveva problemi a parlare di quello che faceva con qualunque
membro della Famiglia. Quando decideva di tagliare fuori chiunque men che i
suoi Guardiani, significava che la faccenda era grave. Meno informazioni aveva un uomo, meno poteva essere sottoposto a
tortura, le aveva insegnato una volta Mukuro.
Chrome creò per sicurezza una debole
illusione accanto a loro, avrebbe impedito a qualunque dispositivo di
registrare la loro conversazione, semmai qualcuno fosse riuscito ad impiantare
qualche cimice nella loro macchina.
“I dettagli della missione,
Boss?” chiese, pratica.
Tsuna si rilassò contro il sedile
della macchina e si passò una mano tra i capelli. Si allentò la cravatta
con un gesto secco. Era nervoso, capì Chrome. Ma non mancò di
rivolgerle un sorriso prima di rispondere.
“Quest’estate un gruppo di
hacker è riuscito a bucare i server dei computer della Famiglia
Bovino.”
“La famiglia di Lambo”
rifletté lei a voce alta. “E’ per questo che lui e Irie sono
stati via tutto il mese d’Agosto.”
“Già, ho chiesto a Shoichi di
dare loro una mano a potenziare i loro sistemi di difesa e Lambo ne ha potuto
approfittare per stare un po’ con la sua famiglia, visto che non doveva andare
a scuola e I-Pin era in Cina. Ad ogni modo, per fortuna, i Bovino se ne sono
accorti prima che potesse essere troppo tardi e li hanno fermati, ma hanno
comunque sottratto il prototipo di nuove armi.”
“Chi sono i responsabili?”
“Una Famiglia americana di Cosa
Nostra, i Dragna. Personalmente non c’ho mai avuto a che fare, ma
Byakuran mi ha detto che è da un po’ che la situazione in America
sta prendendo una piega pericolosa, lui e i suoi Guardiani sono andati a
studiare lì per questo” le spiegò, censurando la parte in
cui era convinto che Byakuran in persona fosse la cosa peggiore che potesse
accadere in America. “Agiscono da Chicago. Spanner è riuscito a
localizzarli e ha tenuto finora sott’occhio tutti i loro computer. Credo
anche li abbia sabotati più volte, senza farsi scoprire. Ma abbiamo
preferito evitare di correre il rischio di dichiarare guerra aperta, per cui
niente armeria pesante finora.”
“E ora cos’è
cambiato?”
“Il progetto dei Bovino era piuttosto
simile alle box che abbiamo usato nel futuro, anni fa. In altre parole, erano
delle armi che andavano attivate con le Fiamme per potere funzionare. I Dragna hanno
prodotto prototipi che, anziché aver bisogno di essere attivati,
sfruttano le Fiamme di chi le usa. Se spacciate come armi normali, la gente
comune rischia di ritrovarsi prosciugata di tutta la loro energia senza
accorgersene.”
“Perché mai qualche Famiglia
dovrebbe acquistare merci simili? Non conviene neanche a loro.”
“Funzionano da amplificatore, per chi
sa usarle. Un po’ come l’Anello del Male di Genkishi, per
intenderci. Come armi da guerra rischiano di essere micidiali. In un caso o
nell’altro, non voglio che arrivino nelle mani sbagliate.”
“Dovremo combattere allora.”
“Lo scopo è quello di impedire
la transizione e requisire la merce. Ma gli acquirenti sono i Mestroni, non
sarà facile soffiargliele sotto gli occhi.”
“Ed è per questo che ti serve
un illusionista.”
“E’ per questo che mi servi
tu” chiarì Tsunayoshi.
Mukuro sarebbe riuscito a portare a termine
quella missione benissimo da solo, ma come aveva ben specificato, non voleva
che quelle armi finissero nelle mani sbagliate.
Quando furono sul campo, Tsunayoshi decise
di dare via libera a Chrome. Aveva creato un’illusione addosso ad
entrambi. Ora erano l’immagine perfetta del magnate e la sua sgualdrina. Tsuna aveva protestato
apertamente, ma Chrome era decisa a fidarsi delle direttive di Mukuro.
Di fronte a quel commento, il Boss dei
Vongola non aveva potuto fare a meno di pensare che il Guardiano e Reborn
potevano anche mettersi a scrivere un manuale. Un bastardo e il travestimento perfetto, come titolo rappresentava
entrambi.
Si erano mossi con circospezione nelle
strade notturne di Brindisi, attiravano gli sguardi stupiti e sconvolti della
gente per bene, che si fermavano a guardarli, ma poi se ne tenevano a distanza,
giudicandoli e disprezzandoli. Quando si erano diretti verso il molo di Costa
Morena, nessuno era più disposto a dare loro un briciolo di attenzione.
Esattamente ciò che desideravano. Svoltavano da Via Annunziata alla
traversa di Vicolo D’Afflitto – completamente buia e disabitata a
quell’ora di notte – quando Chrome creò addosso a loro una
seconda illusione, rendendoli invisibili a chiunque non avesse la
capacità di riconoscere la Fiamma della Nebbia che li circondava.
D’altronde nascondere il vero
nell’illusione era uno dei suoi più grande talenti.
Avevano raggiunto il molo con una buona ora
d’anticipo rispetto all’appuntamento, e non li stupì notare
che sia i Dragna che i Mestroni avevano fatto lo stesso. Ovviamente,
però, nessuna delle due Famiglie avrebbe lasciato il proprio rifugio prima
dell’ora stabilita. Riconobbero le auto scure dei Mestroni parcheggiate a
poche centinaia di metri di distanza. Erano almeno 40 uomini e tutti armati.
I Dragna avevano usato voli privati per
trasportare le armi dall’America fino alla Bulgaria. Non erano riusciti
a seguire oltre i loro movimenti, per cui Tsunayoshi aveva presupposto si
sarebbero mossi via mare e seppe di non sbagliarsi quando individuarono la nave
mercantile.
Si infiltrarono a bordo in silenzio, poi fu
Tsuna col suo superintuito a guidare la missione. Il sangue Vongola e
l’esperienza che aveva maturato nel mondo della mafia, sapevano
suggerirgli dove trovare la merce di scambio. Bastava semplicemente cercare il
punto più protetto di tutta la nave.
Le armi erano in tre grosse casse di legno.
Una quantità paurosa, qualcosa che poteva scatenare un’intera
guerra.
“A che stai pensando?” gli
chiese Chrome sottovoce quando vide il suo volto concentrato.
Erano ancora invisibili ad occhi
indiscreti, comunque rimanevano accovacciati dietro una delle due ante della
grossa porta della stanza in cui risiedevano le armi. C’era un via vai di
gente notevole lì, Chrome aveva intensificato l’illusione nel
timore che qualcuno li scoprisse.
“Che dovevamo essere molti di
più. In due è troppo pericoloso.”
“No, Boss, possiamo farcela
tranquillamente” Tsuna si voltò a guardarla, ma non parlò
per cui Chrome continuò. “Tu riesci a trasportare via tutte e tre
le casse vero?”
Studiò bene la situazione. Aveva
sollevato un intero autobus affollato a quindici anni, tre casse d’armi
erano ingombranti e pesanti, ma niente che gli creasse problemi. “Devo
solo trovare un modo per legarle insieme, oppure trasportarle via una alla
volta.”
“Meglio una alla volta. Ci sono meno
rischi. Cerca di fare il più piano possibile e trascinale via una ad una
da qui. Nel frattempo farò credere loro che non stia cambiando nulla.”
Tsuna annuì e si mosse veloce. Non
sapeva per quanto tempo Chrome sarebbe riuscita a creare un’illusione
così forte. I Dragna erano a conoscenza delle Fiamme, per cui sospettava
che molti di loro fossero in grado di vederle. Riuscire a nascondere la Fiamma
della Nebbia e al contempo le sue operazioni, richiedeva uno sforzo e un
talento non indifferenti. Inoltre, Chrome doveva anche mantenere attivi i suoi
organi, ed era esattamente ciò che lo preoccupava di più.
Usò la Fiamma debole per darsi la
spinta necessaria a trascinare via le casse, era più facile da
occultare. Le portò semplicemente fuori dalla nave, Chrome le avrebbe
rese invisibili, proprio come stava facendo con loro. Uno sforzo in più
a cui avrebbe dovuto sottoporsi.
Perché
diavolo non aveva semplicemente mandato Mukuro?!
Ci mise poco più di dieci minuti a
trasportare tutte le armi, evitando di farsi scoprire o urtare qualcuno o
qualcosa. Quando tornò al fianco di Chrome, sembrava che nulla fosse
cambiato. La ragazza era in posizione proprio dove l’aveva lasciata, non
era stanca e non aveva neanche il fiatone. L’orecchino della Nebbia che
indossava brillava incredibilmente.
“Sei stanca?” non poté
fare a meno di chiedergli.
Chrome capì esattamente qual era la
domanda.
“Mukuro sa che sono in
missione” gli spiegò. Non che Tsuna ne avesse bisogno, sapeva che
Mukuro e Chrome erano collegati in ogni istante, ancor di più quando
usavano la Fiamma della Nebbia. Se fosse perché avevano condiviso corpo
e anima, o semplicemente perché indossavano entrambi un solo orecchino
del Vongola Gear della Nebbia non poteva dirlo con certezza. “Se succede
qualcosa ci penserà lui.”
In altre parole, Mukuro al momento del
pericolo avrebbe mantenuto viva l’illusione degli organi di Chrome. Per
quanto Tsuna lo ritenesse uno screanzato, neanche lui ne aveva alcun dubbio. E poi, Chrome era la donna che Mukuro voleva
sposare, no?
“Non voglio comunque sottoporti a
troppi sforzi.”
Chrome gli sorrise. “Non
preoccuparti, Boss. Finora, è stato tutto più semplice del
previsto. Nessuno di loro è in grado di riconoscere la mia Fiamma e
nessuno si è accorto di nulla. Andranno sicuri alla negoziazione, solo
che non porteranno niente.”
“Ottimo. Dobbiamo assistere allo
scambio, voglio sapere quale sono le loro intenzioni.”
“Cosa credi che succederà
quando scopriranno che la transizione non è mai avvenuta?”
“Faremo in modo che neanche i
Mestroni riescano a pagare, ce la puoi fare?”
“Figurati, nessun problema.”
“Quando se ne andranno e scopriranno
entrambi di essere stati raggirati, la loro collaborazione sarà
finita.”
“Non temi scoppi una faida?”
“I Dragna sono nel territorio dei Gelso,
i Mestroni dei Vongola. Non possono scatenare una guerra senza che se ne sappia
apertamente il motivo. E se accadesse qualcosa, avremo il permesso di
intervenire ufficialmente, perché sono stati loro a disturbare il nostro
territorio e a recarci torto. Senza armi dubito che i Mestroni vogliano
provarci. Quanto ai Dragna, riceveranno presto un’amara sorpresa. Il loro
laboratorio potrebbe prendere accidentalmente fuoco e tutti i computer
distrutti, dopo essere stati hackerati. In altre parole, smetteranno di
collaborare, ma non tenteranno nessuna rimostranza, se non vogliono finire di
male in peggio.” Quando Chrome scoppiò a ridere sottovoce, Tsuna
le rivolse quasi un’occhiata risentita. “Non guardarmi in quel
modo, non sono io che voglio incendiare i laboratori di nessuno, è colpa
di Byakuran, mica mia.”
“Nel senso che non sarà
Shoichi Irie ad occuparsi dei computer dei Dragna?”
Tsuna si strinse nelle spalle. “Beh,
ogni tanto lui e Byakuran si ricordano di essere migliori amici.”
“Lungi da te intrometterti in
un’amicizia, vero?” continuò lei senza smettere di
ridacchiare.
“Vedo che mi capisci.”
Le valigie contenenti il denaro andarono
presto a fare compagnia alle casse di armi. In pratica, erano giusto a qualche
centinaia di metri di distanza dal luogo previsto per l’appuntamento. Lo
scambio procedette senza intoppi, almeno era ciò che credevano tutti i
partecipanti.
Tsuna e Chrome rimasero ad assistere per
tutto il tempo, ma non riuscirono a ricavare nessuna informazione interessante.
Fu allora che Chrome gli propose di seguire
i Mestroni per capire per quali scopi avevano deciso di procedere con
l’acquisto di armi tanto pericolose, quanto letali. Per tre giorni
consecutivi, Chrome aveva retto l’illusione delle armi, li aveva resi
invisibili e aveva mantenuto funzionanti i propri organi. Il fatto che i Dragna
non avessero contattato in nessun modo i Mestroni gli suggerì che
probabilmente stava mantenendo ancora attiva l’illusione del denaro anche
in America.
L’idea di Chrome era quella di far
passare abbastanza tempo da assicurarsi che le due Famiglie non potessero
apertamente accusarsi a vicenda, ma temessero entrambe l’intervento di
qualcun altro.
Tsuna l’aveva lasciata fare. Era
rischioso, ma in effetti la sfiducia che si sarebbe creata era sufficiente ad
evitare successivi contatti tra le due Famiglie, ma non abbastanza da tentare
una guerra. Ciò che però temeva era che la fatica l’avrebbe
resa esausta.
Invece, la vide lavorare duramente per
giorni e senza lamentarsi. Quando riuscì ad entrare in possesso dei
progetti dei Mestroni non ne fu contento. Era ovvio che l’obiettivo della
Sacra Corona fosse quello di togliere di mezzo i Vongola e il punto di partenza
sarebbe stato quello che loro consideravano evidentemente la minaccia
più grande: la Famiglia Bovino, l’unica in grado di creare armi
peggiori di quelle che avevano acquistato.
Reborn li avrebbe uccisi uno per uno solo
per l’offesa, probabilmente. Se qualcuno si metteva contro i Vongola, la
cosa peggiore che doveva temere erano i Vongola stessi. Tuttavia, poiché
ancora non avevano fatto nulla, non poteva di certo agire subito.
Li avrebbe tratti in fallo e spiegato
perché mettersi contro di loro fosse un’idea incredibilmente
stupida. Ma avrebbe cercato di farlo senza creare nessuna vittima. In altre parole, Reborn non doveva saperne
nulla di quella storia.
Quando presero i documenti, finalmente
poterono lasciare il quartier generale dei Mestroni e considerare chiuso quel
capitolo, almeno per il momento.
Non rientrarono subito in Sicilia, per una
sorta di contratto non scritto, non poteva ritornare a casa senza souvenir
quanto meno per i suoi fratelli e francamente bramava un paio di giorni di
riposo senza pensieri o i problemi legati alla mafia. Anche se, per mantenere
la copertura, erano ancora costretti a vestire i panni della puttana e del pappone. Stava iniziando a dargli sui nervi.
“Se vuoi, posso farla io la
prostituta” si offrì quella sera, appena si richiusero la porta
dell’albergo alle spalle e la fiamma della Nebbia finalmente si spegneva.
Chrome ridacchiò. “Mukuro non
te ne farebbe uscire vivo. E neanche Reborn”
Per un attimo Tsuna fu sul punto di
rispondere che il suo ex-tutor non lo avrebbe mai saputo. Poi rinsavì. Probabilmente, sapeva già che lo
aveva proposto, pensò in preda ad un panico improvviso che fece
ridere ancora di più apertamente la ragazza.
Il suono di quella risata cancellò
ogni preoccupazione. Chrome era una bambina insicura quando l’avevano
conosciuta, una ragazza abbandonata dalla sua stessa famiglia, senza un posto
che chiamasse casa e qualcuno che le volesse sinceramente bene. Non rideva mai
allora, quasi avesse paura di farlo, quasi avesse paura delle loro reazioni, e
ogni volta che lo faceva adesso gli scaldava il cuore di un calore che avrebbe
difeso a costo della vita.
A ben pensarci non sapeva se era disposto a
celebrare il matrimonio tra Chrome e Mukuro, e non solo perché gli
sembrava ridicolo, ma perché se Mukuro le avesse fatto del male, avrebbe
dovuto ucciderlo.
“Se vuoi, vai a fare pure la doccia
per prima, io ho un po’ di scartoffie da sbrigare.”
“Pensavo fossi in vacanza, adesso.”
L’occhiata esasperata che le
lanciò le suscitò una risata che l’accompagnò fino
alla porta del bagno.
Tsuna accese il computer portatile e si
mise a stilare il rapporto della missione. Dopo anni di torture e angherie
subite, ormai gli veniva naturare mettere i suoi doveri di Boss prima di ogni
altra cosa. In più, temeva che se avesse perso tempo si sarebbe
dimenticato dettagli importanti della missione. Quella storia non era affatto
chiusa.
Chrome uscì dopo appena un quarto
d’ora dal bagno in accappatoio, con ancora i capelli bagnati e spazzola e
phon alla mano, per dargli la possibilità di andare subito a lavarsi, se
ne sentiva il bisogno. Ma Tsuna si prese tutto il tempo necessario per annotare
ogni singolo dettaglio e aggiungere al report le foto che aveva scattato col
cellulare ai documenti dei Mastroni.
Quando finalmente poté andare a
rilassarsi sotto la doccia si era già fatto tardi.
Chrome era già a letto in pigiama e
con un libro in mano, quando uscì in accappatoio. Il Piacere, di D’Annunzio. Era pronto a giurare che quel
libro glielo avesse consigliato Mukuro. Chrome voleva perfezionare quanto
più possibile il proprio italiano, ma per farlo si affidava alle due
persone peggiori che gli venissero in mente, il suo fidanzato e Lambo.
Si sdraiò sul letto accanto a lei,
riflettendo giusto per un attimo che forse era il caso che si levasse
l’accappatoio e si mettesse il pigiama pure lui, ma in quel momento si
sentiva troppo stanco per farlo. Chrome posò il libro e si voltò
su un fianco per guardarlo bene in faccia.
Erano sdraiati sullo stesso letto, seminudi
e a trenta centimetri l’uno dall’altra. Una situazione che in
qualunque altro caso sarebbe stata compromettente a dir poco, ma Tsuna per Chrome
era come un fratello e Tsuna si sarebbe sparato tra le gambe con Leon, prima di
tradire la fiducia della ragazza in questo modo.
Era uno dei più grandi Boss della
malavita e avrebbe potuto avere qualunque donna gli fosse piaciuta. Che diamine
centinaia di ragazze non facevano che offrirglisi continuamente in cambio di
protezione. Ma, nonostante ormai fosse Vongola Decimo già da tre anni,
Tsunayoshi a 21 anni ancora non aveva imparato ad usare il sesso come merce di
scambio e credeva invece ciecamente nell’amore. Il fatto che non si
sarebbe mai concesso di amare nessuno a causa del suo lavoro, era
tutt’altro discorso.
“Cosa farai, allora? Contatterai i
Mestroni?”
“Tu cosa mi consigli? Sei stata
eccezionale sul campo in questi giorni, Chrome, anche più brava di me.
Per cui, tu che faresti?”
Chrome arrossì come un peperone e si
sporse a dargli un bacio sulla guancia.
“Dovresti lasciar passare un
po’ di tempo” gli rispose. “Se manterrò
l’illusione per qualche giorno ancora, quando svanirà non potranno
capire subito che la transizione non è mai esistita. Saranno confusi e
poi andranno nel panico. Io penso che sarà quello il momento in cui
dovresti contattarli.”
Tsuna non poté trattenere una
leggera risata. Se in quel momento ci fosse stato il suo Consigliere Interno, o
il suo braccio destro, entrambi gli avrebbero detto che quello era il momento
giusto per sottometterli e insegnare loro il rispetto. Ma Chrome
era semplicemente troppo pura per quella vita, eppure al momento dei fatti era
riuscita a rivelarsi eccezionale: forte, decisa, sicura di sé. Non di
certo una principessa che aveva bisogno del principe per essere salvata dal
drago sputafuoco. Ed era una fortuna, perché in quella metafora il drago
sputafuoco probabilmente era Mukuro e non riusciva a capire chi potesse essere
il principe.
“Ottimo, faremo così. Avvisami
quando decidi di far sparire l’illusione.”
“Non vuoi essere tu a decidere
quando?”
“No, mi fido di te.”
“Grazie, Boss.”
Tsuna si mosse per abbracciarla e
stringerla al petto, come faceva da anni con I-Pin quando aveva un incubo
“Chrome, posso chiederti una
cosa?”
“Certo.”
“Perché sei ancora tanto
legata a Mukuro? So che gli vuoi bene, ma non hai più bisogno di
lui.”
Chrome sorrise e si nascose nel suo petto.
“Non ho altra scelta.”
“In che senso?”
“Lo amo e ho bisogno di lui. Non per le illusioni sai, ma… Mukuro mi
capisce. E io capisco lui. Senza di me finirebbe con distruggersi da solo,
Boss. Ha bisogno di me per stare bene, e io ho bisogno di lui.”
“Come fai ad esserne così
sicura?”
“Perché condivido la sua
anima. So quello che prova, anche se cerca di nascondermelo. Mukuro ha paura
della mafia, ha paura degli uomini, ha paura di tante cose in verità. E,
a volte, quando è spaventato è aggressivo” spiegò
senza scorgere la smorfia di Tsuna a quelle parole. Lei ne parlava quasi fosse un cucciolo, quando dire che fosse aggressivo era un eufemismo. “Ma
più di ogni altra cosa, ha paura di farmi del male. Ha paura che
finirà per trascinarmi nel suo baratro e che possa rimanerne vittima. Ma
non sa che io temo per lui la stessa cosa. ”
La smorfia sul volto del giovane Boss
sparì completamente a quelle parole. Guardava la testa della sua
Guardiana e non poteva fare a meno di sentirsi teso.
Lo conosceva, quel gioco che facevano
Mukuro e Chrome da anni. Aveva iniziato a farci caso dopo che la maledizione
degli arcobaleno era stata spezzata, ma era certo che andava avanti da molto
più tempo. Mukuro si prendeva cura di Chrome, Chrome si prendeva cura di
Mukuro, ma entrambi erano quasi completamente incapaci di prendersi cura di
loro stessi. E molto, troppo spesso, finivano per farsi male a vicenda. Senza
sapere come fermarsi, senza essere capaci di portare rancore, senza volere
neanche smettere.
Chrome non era una donzella inerme che
aveva bisogno di essere protetta dal mondo della malavita, ma aveva troppe
cicatrici addosso, tante quante ne aveva Mukuro. E fu quello il momento in cui
capì: Mukuro voleva proteggere Chrome da se stessa, e voleva che Tsuna
si impegnasse a proteggerla da lui e dai suoi di demoni.
Perché
se Chrome cadeva, sarebbe caduto anche lui.
Non era una sceneggiata a beneficio della
malavita, era un giuramento che riguardava esclusivamente loro tre.
“A te sta bene? Voglio dire, ti
piacerebbe vivere tutta una vita con lui, così?”
Chrome si voltò a guardarlo e gli
sorrise. “Non riesco ad immaginare una vita migliore.”
“Dobbiamo parlare”
annunciò Vongola Decimo senza troppi preamboli.
“Oh?” Mukuro inarcò un
sopracciglio stupito.
Tsunayoshi non invadeva mai il suo spazio
personale, se non in momenti di vita o di morte, o che vi assomigliavano
pericolosamente. E invece adesso era entrato nella sua camera senza bussare,
senza neanche far finta di non avere una copia della chiave da usare a
piacimento.
“Non sarà ancora la storia
dell’altra volta, voglio sperare” rispose ironico con una risata
delle sue.
Ma il ragazzo non reagì come faceva
di solito. Si aspettava di vederlo sclerare in qualche modo, urlare,
disperarsi, o anche solo rinunciare esausto ad avere un dialogo con lui.
Invece afferrò una sedia, la
girò e vi si sedette pesantemente di sopra, incrociando le braccia sullo
schienale. Per un attimo, Mukuro si chiese se volesse minacciarlo. Andò
automaticamente in modalità difensiva, se voleva giocare a fare il boss mafioso aveva sbagliato persona.
“Tsunayoshi Sawada…”
“Mukuro Rokudo” lo interruppe
duramente il Don. “Ho deciso di assecondare la tua richiesta.”
“Mh?” chiese a malapena.
“Ti sposerò. Il cinque
dicembre tu e Chrome convolerete a nozze e sarò io a celebrare il vostro
matrimonio.”
“Bene” rispose appena, senza
capire come mai glielo stesse annunciato con il tono che aveva quando uno dei
due aveva ammazzato qualcuno di troppo.
“Domani stesso manderò gli
inviti. Parteciperanno tutti i membri della Famiglia Vongola, inclusa la
Squadra Indipendente Varia e il Consiglio Esterno Della Famiglia. Tutte le
Famiglie dell’Alleanza saranno invitate alla cerimonia, esattamente come
tutte le Famiglie che non ne fanno parte. E sono pronto a punire personalmente
chiunque proverà a mettersi in mezzo tra voi due o ad ostacolare la
cerimonia.”
Mukuro lo guardò e basta. Tsunayoshi
non era in Hyper Mode, ma parlava con voce così bassa che gli veniva
naturale richiamare la Fiamma della Nebbia. In quel momento, Tsunayoshi era
privo di punti deboli e aperture, e all’erta come se stesse affrontando
una battaglia. Poteva prevedere perfettamente che, se lo avesse attaccato in
quell’istante, il Cielo non si sarebbe fatto trovare impreparato e, anzi,
avrebbe contrattaccato in meno di un secondo.
La Fiamma del Firmamento era trattenuta a
stento, Natsu vibrava sull’anello che indossava al dito medio. Lo stesso
anello con lo stemma di una delle più potenti Famiglie mafiose mai esistita.
Quella che lo aveva ricattato e usato i suoi compagni come merce di scambio. E
tutto perché diventasse una specie di guardia del corpo di un fottuto
ragazzino che giocava a fare il boss mafioso.
Ora, quel ragazzino Boss lo era diventato
sul serio e Mukuro si ritrovò a chiedersi una volta in più cosa
ci facesse lì, cosa ci facessero entrambi in quella stanza vivi.
“Il vostro matrimonio sarà
sotto la mia protezione di fronte a tutti i miei nemici e di fronte a tutti i
tuoi. Chiunque proverà a fare del male a Chrome, o a te, sarà mio nemico finché avrò respiro e lo
perseguiterò fino alla morte.”
L’Illusionista roteò gli occhi
al cielo. “Tsunayoshi, non ho bisogno della tua protezione, grazie
mille.”
“Non ti ho chiesto se ne hai bisogno
o meno. Né mi interessa il tuo parere a riguardo, Mukuro. Sei un mio
Guardiano e un membro della mia Famiglia, avrai la mia protezione che ti
piaccia o meno.”
Mukuro rise. Un suono basso, cupo,
minaccioso. “Ragazzino, scendi dal piedistallo. Non so chi ti credi di
essere questo pomeriggio, ma ho paura che tu mi abbia scambiato per uno di quei
cani da guardia che ti idolatrano. Non
sono io il tuo Guardiano e non faccio
parte della tua Famiglia. Non farò mai
parte della tua combriccola di mafiosi.”
“Mukuro, non condivido come mio padre
ti abbia reclutato, ma se vuoi che sia sincero condivido ben poche cose di
quell’uomo. Ma adesso tu ed io siamo qui. Non piace né a te e
né a me, ma io sono Vongola
Decimo e tu sei un membro della mia
famiglia. E non sto parlando della Famiglia Vongola. Le cose stanno
così, può non piacerti, ma non puoi farci nulla per cambiare la
situazione. Celebrerò il tuo matrimonio, ti garantirò la mia
protezione e sono pronto ad uccidere
per te.”
Il Guardiano si prese un minuto sano prima
di decidere se replicare. Sapeva esattamente il peso di quelle parole.
Tsunayoshi non era pronto ad uccidere mai, per nessun motivo. Alla fine si
strinse semplicemente nelle spalle. “Se hai finito, la porta è
quella che hai aperto senza permesso.”
“Non ho finito.”
“Mi sono espresso male. La porta
è sempre quella, vattene. Anche se non hai finito.”
“Tu sarai un bravo marito per
Chrome.”
“Mh?”
“Io celebrerò le vostre nozze,
ma sarai tu a sposare Chrome e ti impegnerai a renderla felice ogni singolo
giorno della tua vita.”
“Altrimenti?” lo
provocò.
“Altrimenti ti ammazzo” lo
disse senza allegria e senza timori. Senza una sola inflessione nella voce.
“Mi stai minacciando
Tsunayoshi?”
“Ti ho detto che sono disposto ad
uccidere chiunque provi a far del male a te o a Chrome. Se tu le farai del
male, sarà contro di te che me la prenderò.”
“E se fosse lei a fare del male a
me?” chiese con un sopracciglio inarcato e una risata strafottente.
“Non essere ridicolo”
replicò con una smorfia. “E’ quello che volevi, no? Sei
capace anche da solo di difendere Chrome da ogni potenziale minaccia. Ma da te? E’ per proteggerla da te che mi
hai chiesto di sposarvi.”
Mukuro si fermò un istante a
fissarlo. A fissarlo davvero.
“Sei diventato davvero un Boss
mafioso” disse infine.
“Dovrebbe essere un complimento?”
“Affatto.”
“Lo prenderò comunque come
tale.”
Con quelle parole si alzò e se ne
andò. Aveva un matrimonio da organizzare.
~Omake ~
“Vongola?”
“Fran? Volevo parlarti del matrimonio
di Mukuro e Chrome.”
“Oh? Ho capito. Vuole che accompagni
il Maestro all’altare.”
Tsuna rimase a guardare per
un’istante la cornetta del telefono interdetto. Lui voleva chiedere a
Fran se era disposto ad essere il testimone di Mukuro, tanto per rovinargli la
festa, non quello… Quando lo sguardo gli cadde sui nuovi rapporti del
traffico di caramelle alla Nebbia di Mukuro capì che Fran era un
maledetto genio. Per quanto potesse impegnarsi, lui non avrebbe mai avuto il
talento di irritarlo che aveva il ragazzino.
Tanto valeva lasciare che se ne occupasse
lui e che lo portasse pure all’altare.
“Sì, esattamente.”
“Sarà fatto.” |
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Capitolo 6 *** Hayato ***
Vongola Decimo
~ Hayato ~
Erano
sessantadue ore che Tsunayoshi Sawada non dormiva e
non mangiava affatto, e il suo umore ne risentiva già dall’alba del giorno
prima. La sua famosa pazienza che lo aveva reso il mito e lo zimbello di tutta
la mafia era semplicemente andata a
puttane.
Urlava
contro chiunque avesse la brutta idea di parlargli, o di suggerirgli di
mangiare, dormire, riposarsi, farsi una doccia o qualunque cosa non fosse
rimanere al capezzale del letto del suo Guardiano.
Aveva
minacciato di usare lo Sfondamento del Punto Zero contro Mukuro
quando lo aveva stuzzicato, e non aveva esitato a puntare una pistola addosso a
Reborn,
quando questi aveva provato a colpirlo per mettergli un briciolo di sale in
zucca. E lui non se la portava praticamente mai dietro una pistola.
Reborn dal canto suo lo
aveva lasciato stare, troppo fiero del suo atteggiamento da vero Don Vongola
per contrastarlo - non che lo avrebbe mai ammesso. E poi, aveva tutto il tempo
del mondo per punirlo per la sua mancanza di rispetto e soprattutto di buonsenso.
La
sezione medica della Famiglia, d’altra parte, era letteralmente terrorizzata
dal loro Boss come non lo era mai stata finora.
Ryohei capiva e Shamal non era di umore molto migliore di quello di Tsuna, ma qualunque altro medico o infermiere entrasse in
quella camera, lo faceva come se dovesse affrontare una bestia feroce al punto
di aggredire. D’altronde, le occhiate gelide che quegli occhi di ambra
riservavano loro ogni volta che mettevano lì piede e il modo in cui le sue mani
prendevano fuoco e poi si congelassero subito dopo, ad intermittenza, ogni
volta che qualcuno portava una cattiva notizia, sembravano indicare che
ritenesse loro gli unici responsabili.
In
verità, il Decimo dei Vongola – che era un Boss della mafia ed aveva esaurito
sì la pazienza e anche il buonsenso, ma era pur sempre ImbranaTsuna – era perfettamente
consapevole che gli unici due responsabili di quella storia fossero Hayato, con la sua stupida impulsività, e lui stesso.
Il
suo istinto Vongola glielo aveva urlato
il pericolo in agguato, lo aveva capito subito che quel proiettile per Hayato poteva essere letale ed era pronto a riceverlo al
suo posto. Ma Hayato glielo aveva impedito, e anzi,
gli aveva fatto da scudo.
Era
rimasto inerme a guardare mentre il piombo rivestito della Fiamma del Fulmine,
la fiamma che fortifica, l’unica che poteva sfondare gli scudi di Gokudera, aveva colpito il suo Guardiano direttamente alla
giugulare. Era un Cielo che non sapeva
proteggere neanche le persone a lui più care.
Non
era morto per un puro miracolo che portava i nomi di Ryohei
Sasagawa (ed era per questo che era l’unico che non
guardava troppo di traverso quando gli riferiva che Hayato
non stava migliorando) e Mukuro Rokudo (ed era per questo
che non lo aveva congelato sul serio, ma minacciato soltanto).
Da
allora, era rimasto in piedi fuori dalla porta dell’ambulatorio ad aspettare
che l’operazione finisse e, non appena Hayato era
stato portato in quella stanza, lui non si era più mosso dalla sedia accanto al
letto, se non per andare in bagno.
Gli
mancò quasi un battito quando il Guardiano aprì gli occhi.
Gokudera si guardò intorno
spaesato. Ci volle qualche istante prima che riconoscesse l’ala medica della
magione. Almeno quello spiegava perché si sentisse tanto da schifo. La testa
faceva un male cane, aveva una nausea tale che avrebbe potuto rimettere in
quello stesso istante ed era nettamente in carenza di nicotina. In altre parole, gli giravano come eliche e
poteva sparare chiunque in quell’istante.
“Hayato.”
Quello
era ciò che lui definiva il fottuto karma.
Sapeva
esattamente a chi apparteneva quella voce, anche prima di girarsi a controllare
e sapeva anche che il tono era tutto men che amichevole.
Tsunayoshi Sawada, Decimo dei Vongola, era forse l’unica persona a cui
non avrebbe sparato mai. In nessuna occasione, per nessun motivo.
Tsuna era l’uomo che aveva
riconosciuto il suo valore, prima ancora di conoscerlo sul serio. Il valore di
un bastardo che aveva rinnegato il suo stesso padre, un cane per chiunque nella
mafia.
Non
aveva mai messo in discussione il suo ruolo come braccio destro nella più
potente fottutissima Famiglia, quando chiunque altro avrebbe considerato un
disonore respirare la sua stessa aria.
Gli
aveva dato una nuova casa, una nuova famiglia, una vera, non solo mafiosa, una
in cui la gente si preoccupa l’uno per l’altro e si sta insieme per il gusto di
godere della reciproca compagnia.
E
d’altronde, era merito suo se aveva di nuovo una sorella. Bianchi non lo aveva
mai perso di vista, ma per quanto gli riguardava lei era tutto ciò che lui non
sarebbe stato mai, era facile prendersela con lei, odiarla. Era giovane,
ingenuo, immaturo e pieno di rabbia.
Quando
Bianchi l’aveva raggiunto in Giappone in veste di amante di Reborn,
aveva avuto ben poco da ridire sulla sua presenza lì e da allora, giorno dopo
giorno, tra liti e screzi, erano tornati ad essere fratello e sorella. O forse
lo erano diventati per la prima volta.
Doveva
la vita a Tsuna da ogni punto di vista. E beh, non si
sentiva in colpa se non voleva aggiungere motivi alla lista.
“Decimo”
rispose solo.
Dopo
anni di convincimento da parte dell’altro, aveva ceduto a chiamarlo per nome – Non sopporto che il mio migliore amico non
mi chiami Tsuna, gli aveva detto – ma lui più
chiunque altro sapeva quando accanto aveva il suo migliore amico e quando il
suo Boss.
“Mi
avevi fatto una promessa” gli ricordò duramente.
Hayato sospirò.
“Sì”
disse soltanto, ben consapevole di dove sarebbe arrivata quella conversazione.
E non aveva nessuna voglia di affrettare le cose.
“Mi
avevi giurato che non avresti più messo stupidamente la tua vita in pericolo”
continuò tra i denti, tremando di una rabbia incontrollata.
Hayato avrebbe veramente
voluto avere una sigaretta in quel momento. Più di ogni altra cosa.
“Non
l’ho fatto.”
“Non lo hai fatto?” ripeté il Decimo,
come se lo avesse insultato.
“Ho
impedito a te di mettere stupidamente
la tua vita in pericolo. Quel proiettile era riservato a me. Non ti avrei mai
lasciato prenderlo al posto mio.”
“Hayato…!”
“No,
Tsuna.” Lo
interruppe. Una mancanza di rispetto, secondo l’etichetta. Ma non aveva
intenzione che quell’equivoco si protraesse a lungo. Non poteva e non voleva
permettere a Tsuna di sentirsi responsabile delle sue
ferite. “Il mio dovere è proteggere te, non il contrario. Non ti avrei mai
permesso di rischiare la vita al posto della mia. Ho giurato che non mi sarei
messo inutilmente in pericolo, ma non che ti avrei lasciato fare lo stesso. Tu
sei il Boss della nostra Famiglia, io sono il tuo braccio destro. Non ti
permetterei mai di sacrificarti per me. Mi ammazzerei prima dal disonore.”
Tsunayoshi
vacillò di fronte quelle parole come se lo avesse colpito con uno schiaffo in
piena faccia. Ma fu solo un istante. Prima che potesse rendersene conto, sul suo
viso era calata la maschera di Vongola Decimo, quella che indossava quando
affrontava i suoi nemici, quando la sua fiducia era stata tradita.
“Allora,
forse, non ho bisogno di un braccio destro.”
Hayato era abbastanza
adulto e aveva lavorato per la Famiglia Vongola da abbastanza anni da saper
riconoscere una punizione quando ne riceveva una. E tutto sommato, poteva
ritenersi piuttosto fortunato.
Era
il braccio destro, il secondo in comando, o almeno lo era stato fino a un paio
di settimane prima. Dopo quella di Tsuna, era la sua
la carica più importante nella Famiglia, e in quanto tale gli era capitato in
diverse occasioni di dover gestire la Famiglia da solo, in assenza del Boss.
Tsuna era in missione in
Russia, quando aveva stanato e scoperto la presenza di alcune talpe nei ranghi
più basse della Famiglia e su di lui, quindi, era ricaduto il compito immediato
di decidere del loro destino. Lui non era magnanimo come Tsuna,
né altrettanto comprensivo. Le punizioni che aveva sancito erano state
tutt’altro che clementi.
Dunque,
anche se era stato declassato, non poteva lamentarsi più di tanto. In fondo,
era ancora un Guardiano, continuava a vivere nell’ala della magione che gli era
da sempre riservata, godeva di ottima salute e non aveva perso il rispetto dei
suoi uomini.
Aveva
perso il rispetto del suo Boss, però. Per una colpa che non riusciva ad
accettare.
Tsuna era arrabbiato per
come era andata la missione. Era arrabbiato perché non era riuscito a
proteggerlo e perché lui non gli aveva concesso di farlo. Sapeva che, prima che
potessero discuterne di nuovo, doveva quanto meno sbollire la rabbia.
Dopo
due settimane, non era ancora successo.
Tsuna non gli si era
avvicinato per nessun motivo, le sue missioni gli arrivavano per e-mail, i suoi
incarichi erano stati ridimensionati, non lo aveva più chiamato per consultarsi
come faceva puntualmente ogni sera alle diciotto, lo stava ignorando e basta.
Per
quanto quella non fosse affatto tra le più crudeli delle punizioni mai sentite,
non poteva non ritenerla comunque ingiusta.
Quando
anche la terza settimana passò nel più totale silenzio, iniziò a sospettare che
la sua non fosse una punizione momentanea, dettata dall’angoscia della
situazione. E all’improvviso tutto iniziava ad apparirgli fin troppo sbagliato.
Veniva punito per aver fatto
il suo dovere?
Quella
sera a cena non prese posto a tavolo dei Guardiani, lasciando il posto alla
destra del Boss totalmente vuoto. D’altronde
non aveva più motivo di occuparlo, no?
E
se Tsuna aveva qualcosa da dirgli, sapeva dove era la
sua stanza e dove era il suo ufficio. Se voleva parlargli, sarebbe andato a
trovarlo.
Non
lo fece.
Per
quanto potesse fingere indifferenza, Tsuna non poteva
fare a meno di fissare il posto vacante alla sua destra.
Con
quello era il quarto giorno che Hayato si rifiutava
di sedersi a tavola con il resto della famiglia. Aveva interrogato i cuochi e i
camerieri della magione per accertarsi non stesse saltando i pasti, ma a quanto
pareva Gokudera preferiva mangiare da solo in camera
sua.
Neanche
a dirlo, la cosa non lo riempiva per niente di buon umore.
Immaginava
una reazione da parte del suo Guardiano, che diamine si aspettava di vederne
una molto prima a dirla tutta, ma non era quella che sperava.
Gli
aveva inferto una punizione che non meritava e per i primi due giorni ancora la
cosa andava bene. Era arrabbiato, voleva chiarire il suo punto di vista ed era
un modo più che ragionevole di farlo. Dopo no. Dopo, si aspettava di vederlo
sbroccare, di ritrovarselo sotto il muso ad urlargli addosso quanto si stesse
comportando da idiota.
E
per quanto la versione irosa di Hayato non mancasse
mai di incutergli una forma di timore, era esattamente ciò che sperava di
vedere.
Sarebbe
stato tutto più semplice. Discutere, affrontare il problema, superarlo.
Invece,
Hayato aveva preferito obbedire ai suoi ordini senza
neanche pensare di metterli in discussione. E la cosa lo faceva ribollire di
rabbia.
Il
Guardiano della Tempesta era il suo primo e migliore amico, ma lo trattava come
un capo. Tra un Boss e un subordinato non c’è amicizia, ma rispetto. Ed era
esattamente quello che Gokudera gli stava mostrando.
Rispettava
le sue decisioni, non lottava per la sua amicizia.
Hayato era nato nella
mafia, la sua Famiglia era tra le più influenti dell’Alleanza, al punto tale
che anche quando lui aveva lasciato la casa di suo padre non era stato
abbattuto. Conosceva le regole della mafia meglio dei Dieci Comandamenti e,
giacché era completamente ateo, erano anche le uniche leggi morali che
rispettava.
Tsuna non poteva non
saperlo, era Hayato che gli aveva insegnato
l’etichetta esatta da seguire durante un incontro con un’altra Famiglia o come
trattare gli affiliati alla Famiglia per assicurarsi la loro fedeltà e il loro
rispetto.
Ma
il fatto che lo sapesse, non significava gli andava a genio: finché sarebbe
stato il suo Boss, Hayato avrebbe sempre considerato
la propria vita meno importante della sua. E per lui era un concetto
semplicemente inaccettabile.
Sperava che punendolo senza motivo lo avrebbe
spinto a mettere in discussione il suo ruolo di capo, o quanto meno a non
idolatrarlo. Erano una squadra loro e al diavolo di quale fosse l’etichetta
della malavita. Non gli interessava.
Era
Vongola Decimo, era lui la legge, decideva lui l’etichetta. E lui aveva deciso
che la vita dei suoi Guardiani era importante allo stesso modo della sua. O
forse anche di più. Era lui il Cielo che li proteggeva e abbracciava tutti,
stava a lui proteggerli.
Era
diventato possessivo da quando era Boss. Forse era perché nella sua infanzia
aveva avuto così poco, che crescendo avrebbe fatto qualunque cosa per i suoi
amici e la sua famiglia. Se doveva lottare contro i preconcetti di Hayato per fargli capire quanto era importante per lui era
disposto a farlo. Senza sconti e ad armi spiegate.
Anche
se il fatto stesso che, anche quella mattina, Hayato Gokudera non fosse alla sua destra a fare colazione al suo
fianco indicava che quella battaglia l’aveva persa.
Quando
sentì bussare alla porta del suo studio, sapeva già si trattasse di Takeshi. Non c’erano alternative. O il suo istinto era
piccato particolarmente, quella mattina.
“Avanti.”
Il
Guardiano della Pioggia lo salutò con un cenno della mano, poi si avvicinò ad
una delle due poltroncine di fronte la sua scrivania. Non si sedette. Non aveva
intenzione di restare a lungo.
Poteva
prevedere benissimo dove sarebbe andata a parare quella conversazione. Lo
capiva dal sorriso plastico scolpito sul suo volto, un sorriso che non
raggiungeva affatto gli occhi, ma gli tirava rigidamente uno spigolo di un
labbro. Temette quasi che se lo manteneva ancora un po’ si sarebbe spaccato.
“Non
ti siedi?” gli chiese solo per perdere tempo.
Non
aveva paura di affrontare quella conversazione, ma non ne aveva neanche voglia.
In più, sapeva che Hayato non avrebbe parlato con
nessuno dei loro problemi, quindi non lo avrebbe fatto neanche lui.
“Nah, sarò veloce.”
Takeshi era cresciuto con Gokudera e Tsuna, aveva trascorso
con loro metà della sua vita. Non aveva bisogno di fare domande per sapere cosa
fosse accaduto tra i due, né aveva intenzione di schierarsi da una parte o
dall’altra.
Semplicemente,
non capiva perché la tirassero tanto per le lunghe.
Kyoya e Mukuro litigavano prima e dopo i pasti, con una puntualità
che rasentava il metodico. Si massacravano di botte e passava tutto. Certo,
qualche volta qualcuno finiva in ospedale e qualche altra veniva giù una
parete, ma niente di che. O per lo meno, niente per cui accumulassero ulteriore
rancore.
Una
discussione di settimane, per lui, non aveva senso. Non si sarebbe comunque
intromesso nella faccenda, non tra i suoi due migliori amici.
“Dimmi,
allora.”
Gli
sorrise. E per un istante quel sorriso parve quasi sincero.
“Non
ti farò da braccio destro. Non discuto la tua decisione di sollevare Hayato da quel ruolo, ma non sarò io a sostituirlo.”
Tsuna si alzò e si diresse
verso il ripiano alla sua sinistra, dove la caffettiera era pronta a consolarlo
in ogni occasione.
“Caffè?”
chiese, inserendo una cialda.
“No,
grazie.”
Riempì
il bicchierino di plastica fino a un terzo e premette il tasto ‘Stop’. Il
sapore di caffeina gli esplose sulle papille gustative qualche istante dopo.
Quello e qualcos’altro. Poison cooking,
rifletté ruotando la lingua intorno al liquido bollente nella sua bocca,
tentando di distinguere quale veleno gli avrebbe contratto lo stomaco non
appena avesse ingoiato.
Ingoiò.
Poi
si voltò nuovamente verso il suo Guardiano.
“Non
ti ho offerto quella posizione, Takeshi.”
Yamamoto
sbatté gli occhi confuso, per un istante. “Bene.” Si grattò la testa. “Molto
bene.”
Se
avesse detto a Reborn che non riconosceva la sostanza
nel suo caffè, il suo ex-tutor lo avrebbe addestrato di nuovo a suon di calci e
veleni. Riconobbe i sintomi, però, quando lo stomaco si contrasse e sentì
brividi all’altezza delle caviglie. Se avesse provato a parlare, il respiro
corto lo avrebbe tradito.
Annuì
soltanto.
“Bene,
io vado, allora.”
Il
Guardiano lo salutò con un sorriso. Il primo vero sorriso che gli rivolgeva da
quella mattina.
Si
asciugò con una mano la fronte madida di sudore. Per lo meno fece un tentativo,
ma era ridotto ad uno straccio in ogni senso. Aveva il respiro pesante e i
polmoni sembravano faticare a collaborare. Dentro.
Fuori. Dentro. Fuori. Non era poi tanto difficile respirare, eppure in
quell’istante gli sembra un’impresa insuperabile.
Chiuse
gli occhi, lasciandosi cadere sulle ginocchia esauste. I muscoli tesi
chiedevano perdono per quanto li avesse forzati. Come diavolo facevano quei due deficienti maniaci di baseball e boxe ad
andare avanti per giorni con quei
ritmi, senza stramazzare a terra morti?
Fu l’esperienza a rimetterlo all’erta. Aveva
progettato quella stanza da solo, ispirandosi a quella che aveva realizzato la
sua controparte del mancato futuro in cui Byakuran
era un pazzo psicopatico – più di quanto lo fosse nella loro realtà. Ma aveva
provveduto a perfezionarla a dovere.
Soprattutto, aveva inserito un fottuto
comando vocale che, se attivato, cessava tutte le tempeste che minacciavano di
trascinarlo con la loro irruenza e i robot che ne fuoriuscivano per aggredirlo.
Si coprì il volto appena in tempo per evitare
che la ventata di sabbia lo accecasse e scartò di lato per puro istinto, mentre
uno di quei fottuti robot gli veniva addosso puntando direttamente alla gola.
Il sistema di controllo era impazzito, doveva
avvisare Spanner.
I robot iniziarono ad aggredirlo sempre più
velocemente, costringendolo a ricorrere al Vongola Gear, per evitare di
soccombere a quell’assalto. Quando le fiamme della tempesta li avvolsero, capì
che non c’era nessun guasto da riparare.
“Sorella” mormorò con una smorfia.
L’altoparlante si attivò con un click.
“Non te la stai cavando male, per essere uno
che a stento si regge in piedi.”
“Fottiti.”
Negli anni il loro rapporto era migliorato
parecchio. Erano diventati fratelli sul serio. Bah, era abbastanza adulto da ammettere che lui era migliorato
parecchio. Bianchi per lui c’era sempre stata, lui invece le aveva fatto scontare
peccati che non aveva commesso.
Si sarebbe sentito in colpa, se sua sorella
non fosse la stessa persona che lo aveva avvelenato ottocentosettantatré
volte, in modi diversi. Sapeva ovviamente perché lo faceva, Shamal
era stato un maestro per entrambi: il vizio di avvelenare la gente lo aveva
preso da lui.
Quando in Bulgaria si era seduto a tavola con
una Famiglia rivale, in veste di secondo al comando dei Vongola, aveva
riconosciuto il veleno che stava ingerendo al primo boccone. Aveva continuato a
mangiare, perfettamente consapevole che il suo organismo era ormai del tutto
immune a quel pericolo, divertendosi ad alimentare le speranze di Don Petrov.
C’era voluta quasi mezzora prima che quel
vecchio flaccido e bastardo si accorgesse che era totalmente immune alla
stricnina e che non sarebbe caduto a terra in preda alle convulsioni.
Gli occhi bulbosi di quella palla di lardo
avevano perso ogni divertimento, quando si era alzato in piedi, e si erano
spalancati in preda al terrore appena aveva iniziato a camminare verso di lui.
I proiettili normali non potevano nulla contro i suoi scudi, per cui se l’era
presa comoda, gustandosi appieno il terrore di quello stronzo, mentre gli si
avvicinava e infine gli fracassava la testa contro lo spigolo del tavolo.
Lo aveva risparmiato, Don Petrov aveva
giurato eterna fedeltà ai Vongola e, l’ultima volta che lo aveva visto, quello
si era pisciato nei pantaloni dalla paura. Tsuna lo
aveva guardato senza capire, ma lui si era limitato a stringersi nelle spalle.
Doveva molto a Bianchi e le sarebbe stato
pure grato, se quella stronza non avesse tentato di ammazzarlo almeno una volta
a settimana. E a quanto pareva, oggi era il suo fottuto giorno fortunato,
perché gli scorpioni avvolti dalla fiamma della Tempesta che lo aggredivano da
ogni lato erano tutto meno che giocattoli, e se uno lo avesse punto lui sarebbe
finito in shock anafilattico. Nel migliore dei casi.
Non sarebbe stato un gran problema
quell’assalto, se non fosse già chiuso in quella stanza da sette ore, con i
nervi a pezzi e i muscoli massacrati.
Dovette fare ricorso a tutta la disperazione
del Coraggio di Morire della sua Fiamma, per riuscire a raggiungere l’uscita da
quell’inferno.
“Stronza” sottolineò, appena la individuò
nella zona di controllo.
Il sorriso che gli rivolse da sotto gli
occhiali protettivi, che indossava a suo beneficio, gli ricordava da morire
quello che lui aveva sfoggiato a Don Petrov prima di presentare ripetutamente
il tavolo alla sua fronte. Eppure, benché se lo aspettasse e i campanelli
d’allarme ci fossero tutti, Bianchi riuscì lo stesso a scaraventargli una delle
sue torte direttamente in bocca.
Ottocentosettantaquattro.
La musica che sua madre aveva composto per
lui.
Era una delle poche cose che riusciva a
calmarlo, a distrarlo.
Come facesse Bianchi a conoscerla, non lo
aveva mai capito, ma la suonava perfettamente, come se avesse passato mesi,
anni a provarla ancora e ancora.
Solo per lui, probabilmente.
Bianchi non aveva mai perso le speranze con
lui e, alla fine, Hayato era stato costretto ad
imparare ad amarla come sorella maggiore. Avrebbe ucciso per lei, non che
Bianchi avesse bisogno della cavalleria.
Il calcio al materasso che per poco non lo
fece volare via dal letto, lo distrasse dai sentimentalismi.
“Si è svegliato, il coglione.”
Aveva una nausea terrificante. Quello
scossone era l'ultima cosa che gli servisse.
“Muori, vecchio del cazzo.”
Shamal non
si scompose, ma assestò un secondo calcio al letto per buona premura.
Bianchi, imperterrita, continuava a suonare
il pianoforte a coda, nell'angolo della sua stanza, come se non stesse
accadendo nulla.
“Bevi.”
Guardò il bicchiere che il dottore gli
porgeva con aria interrogativa. Shamal e i suoi mosquitos non erano molto meglio di Bianchi. Fu quando
allungò il braccio per afferrare il bicchiere, che si accorse della flebo
attaccata al braccio.
“Un integratore salinico.
Eri disidratato.”
Bevve prima di chiedere cosa fosse. Shamal aveva sostituito il ruolo di suo padre da anni, o
quanto meno quel vecchio rompipalle ne era convinto.
Hayato era
anarchico per scelta e vocazione, ma sapeva scegliere le proprie battaglie.
Almeno in genere.
Il calcio che lo colpì ad un fianco, non
appena restituì il bicchiere, gli fece cambiare idea.
“Fanculo, stronzo.”
“Esattamente, il tuo piano qual era?
Suicidarti?”
Roteò gli occhi al soffitto, solo perché era
troppo spossato per alzare un dito medio.
“Mi stavo solo allenando. Se voi due non
rompeste così tanto il…”
Il calcio in bocca lo fece sdraiare di nuovo.
“Hai bisogno di riposo, Hayato.”
“Ho bisogno che vi leviate dalle palle e che
mi lasciate in pace” biascicò, mentre tentava di rimettersi seduto.
Bianchi intonava il ritornello di quella
melodia che gli toccava l’anima. Era insieme un dono e un tormento.
“Non te l’ho esattamente chiesto, Hayato.”
Gokudera non
era stupido. E con Shamal c’era cresciuto. Fu allora,
e non perché provò a muoverle, che capì che le sue gambe erano totalmente
immobilizzate. Il fa diesis si prolungò per un’ottava di troppo.
“Io sono un mercenario, Hayato,
non sono fedele ai Vongola. Né a nessuno” gli ricordò distrattamente il suo
mentore, giocando con una siringa.
“Stai minacciando il Decimo?”
Shamal inserì
l’ago poco sotto la giuntura tra la sacca della flebo e la cannula. “Forse sì,
forse no.”
“Sham…”
“Dormi. Il dottore ti ha prescritto tre
giorni di assoluto riposo. Ne riparleremo quando ti svegli.”
Fu Ryohei, non Shamal, a consegnargli il referto medico. Tsunayoshi non si fece domande sulla cosa, conosceva già le
risposte. Il Guardiano del Sole entrò nel suo studio spalancando la porta con
più forza di quanto ne fosse necessaria. Ma questo era più o meno normale.
Lo sguardo di biasimo, con cui gli lanciò il
referto sulla scrivania, non lo era. Aveva avuto per tutor il killer più
efficiente che la storia ricordasse, sapeva riconoscere una critica quando ne
riceveva una, senza bisogno di parole.
Ma Ryohei, in
generale, non era mai stato troppo silenzioso. Quindi, bussò con le nocche
delle dita sul tavolo della scrivania, come ad attirare la sua attenzione, non
che si fosse distratto nel mentre.
“Datti un’estrema svegliata” lo riprese. Ed
uscì dalla sua stanza.
Tsunayoshi,
rimasto solo, sbuffò pesantemente, ravviandosi i capelli ribelli. Aveva avuto
una pessima sensazione tutto il giorno. Aveva percepito che Hayato
si fosse buttato totalmente sul lavoro, ma un referto medico era molto più di
quanto si aspettasse.
Aveva ignorato il suo istinto e aveva sbagliato.
Il referto che lesse gli gelò il sangue nelle
vene.
Hayato si
era allenato fino allo sfinimento, al punto che Shamal
lo aveva dovuto sottoporre a due flebo. La situazione gli stava sfuggendo di
mano, ma se c’era una cosa che gli era chiara era che il suo braccio destro non
aveva assolutamente capito un cazzo.
Quando aprì gli occhi si aspettava di
rivedere sua sorella al suo capezzale. O Shamal per
continuare la lite di tre giorni prima.
Lo sperava. Si sentiva in forze e moriva
dalla voglia di prenderlo a calci in culo. Lo aveva addormentato per tre giorni
senza il suo consenso.
Avrebbe mentito se avesse detto di non
sentirsi come rinato, ma i coglioni gli giravano lo stesso.
Quando riconobbe il suo Boss, in piedi
accanto al suo letto, dovette ingoiare la voglia di uccidere il medico e il
buon umore.
“Decimo” sbuffò, con una curiosa sensazione
di déjà-vu. Avrebbero litigato di nuovo? Avrebbero finalmente chiarito la
questione? Era pure ora.
Per quanto si dichiarasse completamente
diverso da quell’idiota fissato col baseball, Gokudera
e Yamamoto avevano punti di vista molto simili, quando si trattava di
affrontare una discussione. Qualche cazzotto ed è tutto risolto. Oppure, ci
scappa il morto. Pazienza.
Quella storia, invece, gli stava logorando i nervi.
“Hayato.”
“Come posso esservi utile?” mormorò,
mettendosi a sedere e cercando di darsi un contegno.
Era assurdo come si sentisse in grado di
spaccare una montagna a mani nude, ma le articolazioni gli crogiolassero quando
provava a muoversi.
Tsuna lo guardò
per un tempo indefinito. Faticava a tenere a bada la Fiamma della disperazione
che lo incendiava dentro. La voglia di afferrarlo, scuoterlo ed urlare. Urlare
e basta.
Ma che avrebbe risolto?
Aveva minacciato di ammazzare Shamal, quando si era rifiutato di dirgli perché Hayato non si risvegliasse. Il dottore si era difeso, o
forse cercava solo un pretesto. Non era finita molto bene. Riportavano ancora
entrambi i danni.
La ferita più grave, però, Shamal gliela aveva inferta quando gli aveva rinfacciato
che se Hayato era in quello stato comatoso, la colpa
era solo sua. O quando gli aveva descritto nel dettaglio i sintomi che mostrava
prima che decidesse di addormentarlo.
Si era lasciato colpire ripetutamente di
proposito. E per tutto il tempo, si era chiesto come mai Shamal
non picchiasse per uccidere, ma solo per ferire.
Dopo quello scontro, aveva sfruttato ogni
momento disponibile per infondere la propria Fiamma dell’Armonia in Hayato per rinvigorirlo corpo e mente.
Proprio come aveva fatto qualche settimana
prima, quando lo aveva deposto dal suo ruolo di braccio destro, per non aver
capito l’importanza della propria vita.
Poteva tranquillamente dedurne che, da
allora, Hayato non avesse capito un cazzo.
Era furente.
E
deciso a tirare la corda.
“Non puoi essermi utile” rispose gelido, come
il ghiaccio dello Sfondamento del Punto Zero che gli congelava l’anima.
“Decimo?”
“Che utilità può avere per me un Guardiano
che si invalida da solo?”
Hayato era
a corto di parole. O forse era l’effetto prolungato del sonnifero. O
l’imminente bisogno di svuotare la vescica. In ogni caso, boccheggiò soltanto.
Aprì la bocca per rispondere, ma non emise alcun suono.
“Consegnami il Vongola Gear, Gokudera. Non lo meriti.”
Probabilmente, se il sonnifero non lo avesse
stonato troppo, si sarebbe ribellato. Se la vescica gli avesse dato tregua,
avrebbe temporeggiato. Se non fosse stato mortalmente deluso, avrebbe difeso la
sua causa.
In quel momento però, aveva solo bisogno di
tornare a respirare. La presenza di Tsunayoshi Sawada gli levava tutto l’ossigeno in stanza.
Si alzò senza una parola e gli lanciò la
cintura, sulla cui fibbia era scolpita l’effige di Uri.
“Se è tutto, sapete dov’è la porta” gli disse
soltanto, prima di rimettersi a letto.
Era nuovamente sgonfio di energie, un
palloncino bucato da un bambino capriccioso.
Non si accorse della rabbia con cui Tsunayoshi afferrò la sua arma, né del passo furente con
cui lasciò la sua stanza, prima di sbattere la porta. Non gli interessava.
Mosse la testa appena in tempo per evitare il
proiettile che minacciava di entrargli nell’occhio destro.
Reborn era
svaccato sul divano alla sinistra del suo studio. Fingeva di star continuando a
leggere un report che aveva finito di analizzare già da una buona mezzora, e
nel mentre gli sparava di tanto in tanto per buona misura. Quando si distraeva.
O quando non faceva quello che avrebbe dovuto. O quando semplicemente ne aveva
voglia.
Era uno dei passatempi preferiti dell’hitman.
Tsuna
aveva smesso di far caso a quelle stranezze o di tentare di capirle.
“Sai quello che stai facendo?” gli chiese Reborn, sedendosi di fronte a lui.
“Sì” rispose solamente, continuando a
sorseggiare la sua tazzina di caffè espresso, accompagnando ad ogni sorso una
smorfia.
“Ti ricordi come ti chiami?”
Non ci provò nemmeno a capire il senso della
domanda. “Non sono in vena per i tuoi giochetti mentali, Reborn.”
“Rispondi alla domanda.”
Roteò gli occhi al cielo esasperato. “Certo
che me lo ricordo.”
“Ebbene?”
“Tsunayoshi Sawada, contento?”
“Chi è tua madre?”
“Nana Sawada”
sbuffò.
“E tuo padre?”
“Una testa di cazzo.”
“Mh” commentò l’hitman, con uno sguardo che pareva perforargli il cranio da
parte a parte. Non si fermò a sottolineare che, se Tsuna
fosse stato anche solo vagamente di buon umore, non avrebbe mai risposto in
quel modo. “Allora non sei impazzito.”
Tsuna gli
lanciò un’occhiataccia.
“Ti ho detto che so quello che faccio.”
“Quindi,
sai anche che quel caffè te lo ha preparato Bianchi, vero?”
Non
sapeva esattamente cosa si aspettava a quella domanda, ma il suo pupillo si
limitò a guardarlo come se attendesse che continuasse o qualcosa del genere.
“Sai
anche che sono giorni che avvelena i tuoi pasti, vero?”
Tsuna sbuffò,
appoggiandosi pesantemente allo schienale della poltrona.
“Senti,
se stai pensando di punirla, non ce n’è bisogno.”
“Non
sto pensando di punirla. Mi chiedo perché tu
abbia deciso di punirti. Se sei sicuro di star facendo la cosa giusta con Hayato, perché lasci che Bianchi ti avveleni?”
Aveva
passato gli ultimi giorni massacrato dai crampi e a vomitare anche l’anima. Non
aveva molti dubbi sul motivo per cui fosse successo. Né aveva tentato in nessun
modo di farla smettere.
Anche
Shamal c’aveva dato del suo, ma non sapeva se Reborn ne era a conoscenza e non aveva intenzione di
comunicarglielo.
Per
quel che gli riguardava, se lo meritava.
Il
suo migliore amico stava soffrendo e per colpa sua. Il minimo che potesse fare
era soffrire anche lui.
“Quindi,
cosa intendi fare? Continuare a farti avvelenare, fino a quando Hayato non avrà imparato la lezione che stai cercando di
impartirgli?”
Tsuna non rispose. Aveva
riposto il Vongola Gear della Tempesta nel primo cassetto della sua scrivania e
l’aveva sigillato con la propria Fiamma del Cielo per assicurarsi che nessuno
potesse rubarlo. Non aveva mai protetto un oggetto con tanta cura, a ben
pensarci.
L’espressione
tradita del suo migliore amico, quando aveva esatto glielo consegnasse,
continuava a tormentarlo giorno e notte. Lo aveva deluso e lo sapeva. In
realtà, era esattamente ciò che aveva desiderato. Ma Hayato
era così fedele alle leggi della mafia che aveva ceduto senza lottare.
Non
esattamente il risultato che sperava di raggiungere.
Trangugiò
il resto del caffè in un sorso soltanto, quasi a sfidare il killer. “Come ti ho
detto, so perfettamente quello che sto facendo.”
Reborn annuì e abbassò la
tesa del cappello sulla fronte, celando al suo allievo il suo sguardo.
Hayato era un fascio di
nervi quando Lambo lo raggiunse come un tornado in biblioteca. Continuava a
leggere il volume su teoria del caos e sistemi complessi, annotando formule e
teorizzando come applicarle alla propria tecnica, ma sapeva di star facendo un
lavoro abbastanza misero. Era frustrato e continuava a giocare con l’accendino
con scatti nervosi. Accendeva la fiamma, la rispegneva, l’accendeva di nuovo, e
per poco non dava fuoco un po’ a tutto.
“Hayato!”
La
voce del ragazzino nelle orecchie era come unghie che stridevano su una
lavagna. Fastidiosa, rumorosa, indesiderata.
Non
rispose affatto.
“Hayato, mi devi aiutare” esordì il ragazzo sedendosi di
fronte a lui e scaraventando senza troppa grazia i propri libri sui suoi
appunti.
Da
quando vivevano nella magione, lui e il Guardiano del Fulmine avevano
sviluppato un rapporto alquanto particolare.
Tsuna era a tutti gli
effetti il tutore legale di Lambo. Era il suo boss e suo fratello. Ma Tsuna era anche quello che tendeva a viziare in maniera
spropositata sia lui, che I-Pin e Futa.
Hayato aveva preso su di sé
il ruolo di assicurarsi che il Bovino rendesse onore alla Famiglia, per cui badava
che studiasse, che si allenasse costantemente e che non facesse in generale
cazzate.
Lambo
odiava i suoi metodi – per lo più violenti – ma adorava essere al centro
dell’attenzione. E, soprattutto, rispettava il ruolo che aveva nella sua vita,
per quanto se ne lamentasse.
Quando
il ragazzo si sedette di fronte a lui, Gokudera
sapeva esattamente perché. Aveva un compito in classe di matematica il giorno
dopo, aveva paura di non passarlo e aveva paura della sua reazione se non
avesse portato a casa un buon voto.
Se
fosse accaduto qualche settimana fa, sarebbe stato lui a presentarsi in camera
del giovane Bovino e trascinarlo per un orecchio in biblioteca a studiare.
Adesso, francamente, non ci riusciva proprio a preoccuparsi anche dei problemi
degli altri.
D’altronde,
adesso non aveva nessun diritto di urlare contro la giovane Tempesta. Lambo era
un Guardiano. Lui non più.
“Ohi,
Stupidera,
mi stai ascoltando? Devi aiutarmi a capire un esercizio.”
“Non
devo fare niente. Sparisci.”
Lambo
sbuffò palesemente, stravaccandosi davanti a lui. Si riavvio i ricci ribelli
sulla testa. Se fosse stato il moccioso di un tempo, avrebbe fatto una scenata
incredibile a quel rifiuto. Per fortuna, crescendo era molto più calmo e molto
più annoiato da spendere energie in quel modo. O in qualunque modo.
“Scusa,
per favore. Ho bisogno di passare
questo test, perché se no il mio maestro dà di matto. Dovresti conoscerlo, è un
tipo irascibile con un polipo in testa” lo prese in giro con un sorriso
ironico.
La
battuta non lo divertì affatto.
“Lambo”
lo richiamò con un tono così tagliente che il ragazzo addrizzò di istinto la
schiena. “Sparisci.”
Il
giovane Guardiano tentennò, agitandosi inconsciamente sulla sedia. “Ma…”
“Ti
ho detto sparisci.”
Lambo
scattò in piedi in un baleno. Poche volte aveva disobbedito all’uomo che
considerava in tutto e per tutto il suo maestro e nessuna di quelle era finita
bene per lui.
Eppure,
per quanto potesse essere maturato, Lambo a quindici anni ricordava ancora
molto il bambino frignone che era stato dieci anni prima.
“Comunque,
non è giusto che te la prendi con me, solo perché Tsuna
si sta comportando da imbecille” mormorò contrito.
Sentì
una mano che gli si stringeva intorno al collo, prima ancora di realizzare che Hayato si era alzato dalla sedia e si era sporto verso di
lui, facendo leva sulla scrivania.
“Non ti azzardare mai a parlare in questo modo del Decimo.”
Non
stava tentando di strangolarlo, ma la presa era punitiva e Lambo non poté
trattenere un colpo di tosse. Le lacrime gli si accumularono agli angoli degli
occhi e per quanto si ripeté di resistere, si ritrovò a frignare proprio come
il bimbo che era stato.
“Sei
cattivo” biascicò tra le lacrime e la tosse. “Io non ti ho fatto niente.”
Hayato lo lasciò andare con
un vago senso di colpa che si faceva spazio tra la frustrazione e la rabbia.
Non aveva tentato di fargli del male, eppure il segno delle sue dita sulla
pelle candida del collo del ragazzino raccontavano un’altra storia.
Se
la stava prendendo con il moccioso che considerava come un discepolo e, che diamine, come un fratello.
“Piantala”
lo riprese perché non riusciva a tollerare quel pianto isterico. Lo feriva in
una maniera che non poteva spiegare e al momento aveva troppe ferite da
sopportare.
Lambo
si impegnò a trattenere i gemiti e le lacrime, ma i singhiozzi lo scuotevano da
capo a piedi. Si voltò per andarsene come gli era stato ordinato.
Gokudera prese un sospiro
profondo e chiuse gli occhi per un istante. Fanculo,
tanto non stava comunque combinando niente di buono.
“Siediti.
E apri il libro. Fammi vedere questi esercizi.”
Lambo
obbedì, guardandosi bene dal contraddirlo o dal rivelargli che ormai non ne
aveva più voglia. Iniziò a studiare, tenendo sempre gli occhi bassi sul
quaderno a quadretti, e Hayato non poté resistere per
più di una breve manciata di minuti.
“Scusa.
Senti, mi dispiace. Non dovevo.”
Lambo
singhiozzò ancora. La testa affondata nelle spalle. “Ti perdono” disse più per
riflesso, che non perché ci credesse veramente.
Hayato aveva voglia di
vomitare. Lambo non faceva neanche lo sforzo di guardarlo negli occhi. Scriveva
formule su formule, ascoltando quello che gli diceva e parlando solo se
interrogato.
Se
si fosse scusato di nuovo, lo avrebbe perdonato di nuovo e non sarebbe cambiato
niente.
Era una fortuna che non fosse
più il braccio destro del Decimo, si ritrovò a riflettere
amaramente, perché non era così che si
comportava un vicecapo. Non inculcava terrore in un suo compagno solo
perché più giovane.
Quando
Lambo voltò la pagina del libro, pose automaticamente una mano sul foglio
coprendogli la visuale e costringendolo ad alzare su di lui uno sguardo
interrogativo.
Scoprì
con una punta di sorpresa che in quel momento non gli interessava affatto
comportarsi da bravo braccio destro, ma non aveva passato tutti quegli anni a
prendersi cura del moccioso, solo per perdere il suo rispetto in un attacco di
rabbia male indirizzata. Non era per fare un favore a Tsuna
o per il bene della Famiglia, che aveva cresciuto il giovane Bovino come se
fosse suo fratello, per cui non aveva nessun motivo, né nessun intento di
smettere di farlo.
“Ohi,
se domani fai un lavoro decente al compito, ti porto al ristorante giapponese e
puoi ordinare tutti i takoyaki che vuoi” gli promise.
Gli
occhi del Guardiano del Fulmine si illuminarono immediatamente, come se avesse
totalmente dimenticato l’ultima mezzora trascorsa.
“Davvero,
davvero?”
“Ti
sembro il tipo che parla a caso? Adesso datti da fare.”
Quando
riprese a spiegargli gli esercizi, gli occhi di Lambo erano fissi nei suoi e lo
guardavano con la stessa luce che possedevano ogni volta che gli insegnava
qualcosa. Trasudavano stima e affetto. Tutto
sommato, non aveva affatto bisogno di un titolo, per ricoprire il ruolo che gli
spettava.
Lambo
trasalì sul letto quando Tsuna, appena dopo cena,
entrò in camera sua senza bussare o senza preavvisi.
Non
era il suo modo di fare e, se c’era una cosa che aveva imparato negli anni, era
che Tsuna agiva fuori dagli schemi solo quando era
fuori di sé dalla rabbia.
Il
giovane uomo, ancora vestito in giacca e cravatta, si fermò ai piedi del letto,
le mani ben rigide in tasca.
“Lambo,
cosa ti è successo al collo?”
Lambo
sussultò di nuovo, portandosi una mano alla gola inconsciamente.
Aveva
dimenticato l’incidente con Gokudera quel pomeriggio,
non aveva pensato che quel trambusto potesse lasciargli segni addosso, né
tantomeno aveva cercato di coprirli.
“Non
è niente” biascicò appena sperando che bastasse a chiudere la conversazione.
Tsuna lo aveva sempre
difeso da bambino, per quanto si lagnasse di non voler badare a lui. Crescendo
era maturato da tanti punti di vista, adesso non si lagnava più. Ma era
diventato iperprotettivo.
Aveva
ucciso per proteggere lui e I-Pin.
Glielo aveva visto fare con i suoi occhi. Quindi, non sapeva neanche perché
sperasse che quella risposta potesse accontentarlo.
Tsuna non lo riprese
nemmeno, si limitò a guardarlo con un sopracciglio inarcato. E in quel momento,
Lambo realizzò che non era solo diventato iperprotettivo, era diventato Reborn. Esigente,
autoritario, spietato all’occorrenza, ma la famiglia sempre al primo posto.
Si
schiarì la gola con un colpo di tosse, poi indossò con cura l’espressione
svagata e sfoggiava praticamente in ogni momento. “Ho litigato con un compagno
a scuola, ma è tutto risolto” mormorò sventolando una mano come se volesse
scacciare via il problema.
Il
Boss dei Vongola si sedette sul letto accanto a lui. Non levò le mani dalla
tasca, come se volesse mostrarsi totalmente inoffensivo.
“Lambo”
lo riprese. Il tono era in qualche modo più rigido e più caloroso al tempo
stesso. “Non mentirmi.”
Se
c’era un’altra cosa che Tsuna nel tempo aveva
affinato era il super intuito dei Boss Vongola. Lambo non sapeva nemmeno perché
si sprecasse a fare le domande, se conosceva già la risposta.
“Non
è stata colpa sua, va bene? Sono io che lo ho disturbato quando non dovevo…”
mormorò con un filo di voce, che tradiva totalmente la sua età, guardando le
proprie mani incrociate per tutto il tempo.
“Non
devi giustificarlo, Lambo.”
“Non
è stata colpa sua!” insisté. Alzò la testa e gli occhi di scatto con una
realizzazione improvvisa. “E’ stata colpa tua! E’ tutta colpa tua! Hayato è un
Guardiano e il tuo braccio destro e tu ti stai comportando come un idiota!” lo
aggredì.
Tsuna rimase esterrefatto
a quello sfogo giovanile.
Lambo
restò col fiatone e la vaga considerazione che aveva appena insultato il decimo
Boss dei Vongola, che già non era di ottimo umore. Gokudera
lo avrebbe ucciso se fosse stato presente.
Il
Cielo invece non fece nulla di tutto ciò. Sollevo una mano solo per
scompigliarli i ricci già ribelli.
“Lo
so.”
Lambo
lo guardò confuso. “E allora perché lo fai? Lui non si merita tutto questo.”
“Per
lo stesso motivo per cui costringo te a mangiare le verdure, anche se non ti
piacciono.”
“Perché
sei cattivo e antipatico?”
Tsuna rise di cuore a
quella domanda e al broncio che lo accompagnava.
“Perché
mi preoccupo per te e farei qualunque cosa per farti stare bene. Anche se non
ti piace.”
“Sei
preoccupato per Hayato?” gli domandò, insicuro.
Quando Tsuna non rispose, Lambo abbassò di nuovo la
testa, concentrandosi su una pellicina che all’improvviso gli dava un fastidio
immenso. “Non c’è bisogno che lo sgridi, sai? Mi ha già chiesto scusa e mi ha
promesso che non lo farà più. E poi io sono forte, non c’è bisogno che tu gli
dica nulla.”
Tsuna gli sorrise
indulgente, come il fratello maggiore che era, capendo più di quanto Lambo
riuscisse a dirgli.
“Andrà
tutto bene, fidati di me.”
“Va
bene.”
Quando
Lambo gli si piantò addosso in un ormai raro abbraccio – non manifestava spesso
il suo affetto da quando si sentiva un uomo – Tsuna
pensò che era esattamente quello di cui aveva bisogno.
Della
sua famiglia.
“Lo
sai, da ragazza ero follemente innamorata di Tsuna.”
Non
fece neanche lo sforzo di aprire gli occhi e guardarla. “Da ragazza eri irritantemente
innamorata di Tsuna” precisò.
Haru si alzò a sedere
poggiandosi sui gomiti, a conti fatti smuovendo il lenzuolo così tanto da
lasciargli la schiena scoperta.
“Eri
geloso?” gli chiese, mentre lui si metteva supino e si buttava un braccio sugli
occhi.
Perché
diavolo aveva acceso l'abatjour?
“Sinceramente
no. Ma eri irritante.”
Gli
mollò uno schiaffetto sulla spalla. “Beh, non è che tu mi fossi poi tanto
simpatico.”
Ghignò
spontaneamente. Innervosire quella donna era ancora troppo semplice.
“E
comunque Tsuna era buono, dolce, affabile, si prendeva
cura di tutti, sempre.”
Mugugnò
soltanto. La pensava allo stesso modo, non aveva molto altro da aggiungere.
Haru aspettò a vuoto una
reazione per qualche minuto, poi si decise ad andare avanti. “Da ragazzo, anche
tu eri innamorato di Tsuna.”
Spostò
il braccio appena, quello che bastava per aprire un occhio solo e squadrarla
più o meno attentamente.
“Non
sono mai stato...”
“Non
in quel senso. Ma Tsuna è stato il tuo primo amico,
il primo a credere in te, ti ha dato una casa, un posto nella Famiglia e tu gli
hai giurato fedeltà.”
Non
sapeva dove stesse andando a parare, ma capì che non lo avrebbe lasciato
dormire.
Afferrò
il pacchetto di sigarette sul comodino e ne accese una, appena si mise comodo
contro il cuscino. Agli inizi, Haru aveva odiato il
suo vizio di fumare a letto. Ormai aveva smesso di farci caso.
“È
normale, chiunque al tuo posto lo avrebbe fatto. Tsuna
meritava la tua lealtà.”
“Cosa
stai cercando di dirmi?”
“Che
solo perché hai fatto una promessa a 14 anni non sei tenuto a rispettarla, se
quello che vedevi in lui viene meno.”
La
scrutò attentamente, incurante di soffiarle il fumo addosso.
“Tu
vuoi farti ammazzare” concluse.
“Mi
farai ammazzare?”
Era
nato e cresciuto nella mafia, conosceva le regole del gioco più di chiunque
altro in quella famiglia, anche più di quel bastardo di Rokudo.
E nel gioco della mafia chi tradisce il Boss, viene torturato e ucciso. Diventa
un esempio per tutti gli altri.
Lo
sapeva di persona. Aveva provveduto a dare ordini precisi quando si trattava di
punire qualche talpa. E a suo avviso, chi tradiva il Decimo non meritava pietà
o perdono.
Aveva
costretto tutti i suoi uomini ad assistere, al solo fine di mostrare loro cosa
accadeva a chiunque pensasse di fare il doppio gioco con la Famiglia.
Tsuna non aveva mai
apprezzato particolarmente il suo metodo di trattare con quegli scarti umani,
ma da quando quella troia di Sabrina aveva spinto Takeshi
a diventare un assassino, il suo perdono doveva essere meritato.
Hayato non perdonava. Mai.
La
mafia era ancora più spietata.
Sì
alzò dal letto. Sentiva il bisogno di una doccia.
“So
cosa si prova quando qualcuno che ami ti delude.”
Si
fermò e si voltò verso di lei, continuando imperterrito a fumare.
“Non
dovresti parlare così del Decimo Don della Famiglia più importante della mafia.”
“Non
sto parlando di lui, sto parlando di te.”
Inarcò
un sopracciglio.
“Di
me?”
Anche
Haru scese dal letto e gli andò incontro.
“Ti
sei preso un proiettile che non spettava a te, sei finito in coma.”
“Ero
il fottuto braccio destro della Famiglia, era il mio compito farlo. È
esattamente ciò che ci si aspettava da me. Te l'ho detto dall'inizio”
Perse
la pazienza. “Beh, allora sono contenta che Tsuna ti
abbia declassato.”
Anche
lei era ancora brava a farlo incazzare.
Si
chiuse in bagno, prima di dire qualcosa che potesse ferirla.
Quando
uscì dalla doccia, lei era ancora seduta sul letto ad attenderlo.
“Il
giorno che capirai che sei più di questo, sarà sempre troppo tardi.”
“Non
so dove vuoi andare a parare, ma vorrei che mi lasciassi tornare a dormire.
Grazie.”
“Pensi
che venga a letto con te perché eri il braccio destro di Tsuna?”
“No,
solo perché lui si rifiuta di farlo e mi hai fatto pena” ribatté con sottile
nota acida.
Quella
cosa tra loro era iniziata come un modo come un altro per ammazzare la noia e
sfogare gli ormoni.
Non
sapeva quando fosse diventata importante.
“Già,
sei solo il mio trastullo momentaneo, è per questo che sto con te da cinque
anni.” Si sdraiò di nuovo sul letto,
senza risponderle e lei continuò. “Lambo fa affidamento su di te perché sei o
eri il braccio destro di Tsuna, non perché ti
considera un modello da imitare. Gli altri Guardiani ti rispettano solo perché
eri più in alto nella scala gerarchica, non perché hai lottato in prima fila al
loro fianco e salvato loro la vita in centinaia di occasioni. Reborn ti stima solo perché eri il braccio destro di Tsuna, non per la tua lealtà e dedizione alla famiglia.”
Sarebbe
dovuta durare due ore la loro storia, invece erano ancora lì. Non avrebbe
saputo spiegarne il motivo neanche volendo.
Non
erano ufficialmente una coppia, né avevano mai festeggiato un anniversario
insieme, non avevano una data che avesse sancito la loro unione, se di unione
si poteva parlare.
In
compenso, aveva sempre rifiutato le avances di tutte le arrampicatrici sociali
che avevano provato a far carriera nella Famiglia portandoselo a letto. Donne
bellissime, pronte a far qualunque cosa pur di bere il suo seme o magari
portare in grembo suo figlio. Gli davano repulsione.
L'ultima
volta che un Don gli aveva offerto la mano della figlia in dono, per poco non
lo aveva sparato in mezzo agli occhi.
Quella
sera, aveva piegato Haru esattamente sullo stesso
spigolo del letto su cui sedeva adesso e l'aveva scopata prima fino a farle
urlare il suo nome, poi fino a farle perdere la voce.
Agli
inizi, si era ripetuto che era solo una scelta strategica: non avrebbe mai
preso una compagna che non fosse fedele quanto lui alla Famiglia, di cui non si
fidasse ciecamente o che avesse potuto infrangere l'omertà.
Haru era solo la scelta
migliore per trascorrere un paio di ore di passione, senza conseguenze.
Poi
era ricapitato. Ancora e ancora.
Ora
lei gli bendava le ferite e lo ascoltava quando si lasciava sfuggire dettagli
del suo passato o del suo lavoro, in preda alla frustrazione. Non gli faceva
mai domande, non gli chiedeva mai più di quello che potesse darle, si limitava
a massaggiargli i nervi del collo quando capiva che qualcosa non andava.
In
cambio, lui le aveva insegnato a difendersi e a sparare, e le aveva curato la
febbre quando Bianchi e Shamal avevano iniziato ad
avvelenarla e infettarla per fortificare il suo sistema immunitario.
Il
fatto che le uniche due persone che considerava membri della sua originaria
famiglia si fossero fatte carico di addestrarla a modo loro, gli aveva fatto capire
che la loro tresca non era poi tanto segreta.
Aveva
scoperto di odiare le mattine in cui non si svegliava al suo fianco, che non
sopportava il tocco delle altre donne che tentavano di lusingarlo durante le
serate di gala o assistere alle scenate patetiche di qualche testa di cazzo che
ci provava con lei.
Non
le aveva mai chiesto se fosse ancora innamorata di Tsuna,
ma non si era mai ripreso l'anello che gli aveva sfilato giocosamente dal
mignolo una sera e lei non aveva mai smesso di portarlo al pollice.
Il
che spiegava esattamente perché non l'avesse ancora mandata al diavolo,
nonostante quella tirata.
“Ho
capito l'antifona.”
“No,
non l'hai capita.”
“Donna,
sono le tre di notte. Dormi. E lascia dormire me.”
Da
ragazzo prima di chiamarla donna badava bene ad aggiungere stupida. Sapeva
fosse tra le più intelligenti della sua scuola, ma lo irritava abbastanza da
guadagnarsi quell'appellativo.
Quando
gli salì a cavalcioni sul ventre, pensò che da ragazzo era illuminato da
profonda saggezza. Non era difficile da capire ‘dormi’.
“Anche
se tu lasciassi la Famiglia ti seguirei.”
Non
sapeva chiaramente di cosa parlasse.
“Morirò,
prima di lasciare la Famiglia.” In un caso o nell'altro.
Haru rimase in silenzio
per qualche istante, comunque troppo pochi.
“Se
Tsuna non capisce quanto tu gli sia fedele, forse non
se lo merita.”
“Se
fossi un’altra persona ti avrei già strappato la lingua” la informò, tanto per
fare. L’aveva oggettivamente massacrata durante gli addestramenti, ma non le
aveva mai fatto del male altrimenti.
“Ma
se tu non capisci quanto sei importante, forse sei tu a non meritare un ruolo
nella sua vita.”
Tacque,
la fissò attentamente negli occhi per un tempo indefinito.
“Stai
parlando di Tsuna, o di te?” Le chiese, infine.
Haru si strinse nelle
spalle. “Fai un po’ tu” ribatté scendendo dal suo corpo.
Rimase
a guardarla senza parlare, mentre raccoglieva intimo e vestiti. Non la fermò
neppure quando lasciò la sua stanza.
E
non riuscì a chiudere occhio lo stesso.
Tsuna sbuffò pesantemente
rileggendo i documenti che gli ricordavano l’incontro di quel pomeriggio. Aveva
ancora i crampi allo stomaco dopo la colazione a base di Poison
Cooking.
Il
brutto della mafia era che si metteva sempre in mezzo, in qualunque occasione.
Non poteva mancare all’incontro alla villa dei Montesanti, non quando vi
sarebbero state le più influenti Famiglie mafiose, molte delle quali avrebbero
interpretato la sua assenza come un affronto personale.
Inoltre,
molti dei capi dei suoi nemici sarebbero stati presenti ed era il modo migliore
per riuscire a tenerli d’occhio.
Doveva
assolutamente partecipare e doveva rispettare l’etichetta: sarebbe stato
accompagnato da tutti e sette i suoi Guardiani, ma solo il suo braccio destro
aveva il diritto e il dovere di assistere alla riunione.
E
nonostante tutto quello che era accaduto negli ultimi giorni, lui aveva un solo
ed unico braccio destro. Hayato Gokudera,
il suo migliore amico.
L’urgenza
di quell’incontro lo costringeva a forzare la mano. Doveva superare il problema
subito, prima che entrambi fossero usciti da quella magione indossando la
maschera di bravi mafiosi. Prima che quell’errore potesse ripetersi un’altra
volta.
Non
avrebbe mai voluto spingersi a tanto, ma sperava solo che, almeno questa volta,
tutto andasse per il meglio.
Doveva,
o avrebbe fatto cadere il suo bluff.
In
quel caso, ne sarebbero usciti senza vincitori o vinti e, prima o poi, tutto
sarebbe ricominciato. Ingoiò a vuoto ed indossò la maschera del Boss mafioso.
Quando
Hayato Gokudera raggiunse
la stanza del Decimo, non era entusiasta di farlo. Sospettoso, più che altro.
Dopo essere stato respinto sia come braccio destro che come Guardiano, non
sapeva più cosa aspettarsi.
Aprì
la porta ed entrò a passo deciso, fermandosi giusto ad un metro dalla scrivania
prima di esibirsi in un inchino decoroso. L’occhio gli cadde sulla scrivania in
mogano del Boss dei Vongola, insieme al caos creato dalla solita montagna di
scartoffie, sul banco facevano bella mostra di sé una pistola e il suo Vongola
Gear.
Non
riusciva a capire che diamine significasse, gli stava restituendo il suo posto
come Guardiano? Come lo sciocco che era, la speranza lo avvinse, prima che
potesse riflettere sulla situazione.
Lo aveva perdonato.
“Decimo,
mi avete fatto chiamare?” chiese retorico, con un sorriso che gli si formava
sulle labbra.
Tsuna si fermò un istante
a guardarlo, chiuse gli occhi e si appoggiò pesantemente allo schienale prima
di riaprirli.
“Sì,
Hayato.”
“Ditemi
tutto, Decimo.”
“Ho
pensato attentamente a quello che è successo in questi giorni e sono giunto ad
una conclusione.”
“Quale,
Decimo?”
“La
tua presenza nella mafia ormai è inutile, ma sai troppe cose per lasciarti
andare semplicemente. Per questo devi sparire e voglio che ci pensi da solo.”
Hayato guardò il suo Boss
per qualche istante. La confusione si rifletteva nel verde dei suoi occhi.
Questo, da Tsuna, non se lo sarebbe mai aspettato.
“Decimo…”
“E’
un ordine, Hayato.”
Gokudera Hayato,
ex Guardiano della Tempesta della Decima generazione della Famiglia Vongola,
deglutì a vuoto, ma non rispose. Sollevò la pistola e se la porse alla tempia.
Osservò
l’uomo a cui aveva dedicato la propria intera fottuta vita non vacillare
neanche, mentre lui tremava da capo a piedi con il dito puntato sul grilletto.
E
alla fine non si scoprì terrorizzato, neanche deluso. Semplicemente, stanco.
“No.”
Posò
la pistola sulla scrivania e infilò le mani in tasca, in una posa tutto meno
che rispettosa. Pensò vagamente che se qualcuno si fosse presentato in quel
modo di fronte al Decimo qualche settimana prima, lo avrebbe pestato a sangue
senza troppa compassione.
Ma
qualche settimana prima avrebbe dato la vita per quell’uomo. Porca puttana, aveva dato la vita per quell’uomo.
La
conversazione con Haru gli tornò in mente prepotente.
Forse avrebbe dovuto dare più ascolto a quella stupida donna.
“Hayato.”
“No.”
Il
volto di Tsunayoshi era una maschera perfetta. Non
una sola emozione gli attraversava lo sguardo ambrato. Anche quando inarcò un
sopracciglio, sembrò non tradire assolutamente nulla.
“Ti
ho detto che è un ordine.”
“Perdonatemi,
Vongola, ma ho smesso di riconoscere in voi il mio Boss. Per cui, non prendo
ordini. Se volete farmi fuori, c’è una pistola sulla vostra scrivania” lo disse
con sfida, con disprezzo mal celato.
In
un modo o nell’altro, quello sarebbe stato il suo ultimo giorno nella Famiglia.
E non era così ingenuo da credere di poter lasciare la Famiglia Vongola vivo.
In fondo, sapeva veramente troppo.
“Stai
disobbedendo ad un mio ordine diretto” gli fece presente Vongola Decimo.
La
maschera iniziava a cedere, capì, notando l’occhio che gli pulsava.
Irritazione. Rabbia. Disappunto.
“Sì.”
Tsuna scattò in piedi così
rapidamente che quasi non se ne rese conto. Le mani rigide sulla scrivania, la
maschera esplosa, il volto contratto totalmente dalla rabbia.
La
Fiamma del Cielo si sprigionò intorno a loro come un incendio che non brucia.
L’armonia totalmente contrastante con quegli occhi che adesso gridavano tutte
quelle emozioni che fino al momento aveva cercato di nascondere.
Sembrava
che Tsuna stesse soffrendo. Urlava.
“Hai
detto tu che sono il tuo Boss. Hai detto tu che saresti sempre stato un mio
subordinato. Hai detto tu che la tua vita non è importante come la mia. Ti sto
chiedendo di dimostrarlo.”
Gokudera sgranò gli occhi per
un istante, come abbagliato da quella luce crepuscolare che lo circondava come
un abbraccio, come un incendio. E la riconobbe.
Riconobbe la Fiamma dell’Armonia. L’aveva
sentita fluire nel suo corpo ogni volta che aveva perso i sensi. Ogni volta che
Tsuna si era preso cura di lui.
Ogni.
Singola. Volta.
Quando
era tornato dalla missione.
Quando
era svenuto per colpa dell’allenamento eccessivo a cui si era sottoposto.
Ogni
singola volta, quella fiamma lo aveva avvolto come una madre che stringe il
figlio al petto.
Raddrizzò
istintivamente la schiena e, quando afferrò la pistola, se la puntò di nuovo
alla tempia e sorrise.
Il
lampo di assoluto terrore che attraverso lo sguardo di Tsuna,
quando premette il grilletto, fu la cieca conferma che l’arma fosse scarica.
Sentendo la Fiamma dell’Armonia avvolgerlo protettiva, si chiese come diamine
avesse potuto dubitarne.
Doveva
decisamente dare più ascolto a quella donna che gli tormentava l’esistenza.
Il
tempo parve congelarsi tra loro. Abbassò nuovamente l’arma senza guardare
veramente il ragazzo di fronte a sé. Sentiva Tsuna
respirare forte e scorse le sue mani tremare come fuscelli al vento, quasi
fosse lui quello che aveva appena giocato alla roulette russa.
In
un qualche modo contorto, lo aveva fatto davvero.
Quando
Tsunayoshi parlò di nuovo, aveva lo sguardo a terra,
i capelli sul viso, e la sua voce era appena un sussurro.
“Quando
nessuno credeva in me, tu lo hai fatto. Mi hai giurato fedeltà quando ero il
fottuto zimbello di tutta la scuola: quello che i bulli picchiavano e si
lasciava picchiare. E tu li hai presi a calci uno dopo l’altro. Mi hai
insegnato a credere in me stesso, mi hai insegnato cosa significasse avere un
amico, avere una famiglia. Sei stato il mio primo amico. E sei stato il mio
braccio destro prima ancora che io capissi cosa diavolo è la mafia” alzò gli
occhi all’improvviso. Dorati, lucidi. Si chiese se era il riflesso delle Fiamme
o se stesse per piangere. E il pensiero fu un pugno nello stomaco. Ma Tsuna non gli concesse di distrarsi. Gli incollò quello
sguardo indifeso addosso e lo afferrò per la cravatta per ottenere tutta la sua
attenzione. “Se muori per me, non mi salvi la vita. Come pensi che possa
sopravvivere al pensiero che tu muoia per colpa mia?”
“Tsuna.”
“Se
tu muori, io sono finito. Per cui, devi scegliere. Se vuoi essere un mio sottoposto,
allora prendi quella porta e vattene, perché non sei più desiderato qui. Ma se
vuoi essere il mio migliore amico, allora, ti prego, ti prego,” ripeté “non farmi stare più così male.”
In
tutta la sua vita, non aveva mai creduto che un giorno avrebbe avuto la
possibilità di uscire vivo dalla mafia. E siccome le vecchie usanze sono dure a
morire, non prese neanche in considerazione quella opzione.
“Vale
lo stesso anche per me, Tsuna. Non sei solo il mio
Boss, ma che razza di amico sarei, se non provassi a difenderti, quando hai
bisogno di me?”
Tsuna scosse la testa
agitato, come un bambino che si rifiutava ad ascoltare ragione.
“Non
ce la faccio, Hayato. Non con tutta la merda che ho
già addosso. Ci sono dentro fino al collo. Ho bisogno…” Si interruppe, aveva
perso le parole. Deglutì a vuoto, di nuovo. La sua voce scese di due ottave
quando riprese a parlare. “Ho bisogno di sapere che se io non sarò in grado di
difenderti, tu penserai prima alla tua vita, e solo dopo alla mia.”
“Tsuna…”
“Ne
ho bisogno, Hayato.
Davvero. Non mi serve un braccio destro, non ne ho bisogno. Ho bisogno di
sapere che tu ti fidi di me.”
Fu
il turno di Hayato di inghiottire la saliva alla
ricerca delle parole giuste. O della forza per combattere la voglia di
inginocchiarsi ai piedi dell’uomo più grande che – almeno a suo avviso – la
mafia avesse mai conosciuto e mostrargli il giusto rispetto.
“Mi
fido di te, Tsuna. Sempre.”
Appena
pronunciò quelle parole, capì che erano vere.
Si
era fidato anche nelle ultime settimane, nonostante non ne avesse avuto davvero
motivo. All’improvviso, non capì perché quella lite era durata tanto a lungo.
Se
non fosse andato contro ogni suo credo, gli avrebbe semplicemente dato un
pugno. Non per rabbia, ma per mettere la parola fine a tutta quella storia. Ma Hayato era un uomo d’onore e Tsuna
era il suo Boss, oltre che il suo migliore amico. Per cui si concesse di
stringerlo in un abbraccio fraterno, che il Decimo dei Vongola ricambiò come se
ne andasse della sua vita.
I
Guardiani scesero tutti e sette dalla limousine parcheggiata nel lungo viale
della Famiglia Montesanti.
Kyoya e Ryohei in prima fila, perché se qualcuno avesse tentato di
aggredirli, Hibari non voleva perdere troppo tempo
prima di insegnare a quegli stolti chi comandava.
Mukuro, con un braccio
posato in maniera decisamente possessiva sulla vita di Chrome, seguiva il passo
con un sorriso bastardo che prometteva morte a chiunque. Chrome stringeva il
suo anello all’anulare e il tridente tra le dita. Se era esasperata per i modi
del consorte, non lo dava a vedere, ma manteneva un atteggiamento serio e
professionale.
Lambo,
alle sue spalle, sudava freddo. Non avrebbe mai rinunciato al suo posto come
Guardiano, ma questo non gli impediva di avere paura. Probabilmente, era la
Fiamma della Pioggia di Takeshi, che gli aveva
buttato un braccio sulle spalle, a dargli la forza di mantenere un
atteggiamento composto.
A
chiudere la fila Tsunayoshi Sawada,
decimo Boss della Famiglia Vongola, e il suo braccio destro Hayato
Gokudera.
Questi
ultimi, furono gli unici ad entrare nella sala principale della villa, dove la
riunione tra ‘capi dei capi’ avrebbe avuto luogo.
Seduto a capotavola, con Hayato rigidamente in piedi
alle sue spalle, Tsuna notò che nemmeno Enma, con alle spalle Adelheid,
era particolarmente rilassato.
Dino,
accompagnato da Romario, invece, sembrava essere perfettamente a suo agio.
Yuni, d’altro canto, era
un fascio di nervi e non faceva che guardarsi intorno. Tuttavia, se il suo
istinto non mentiva, il suo nervosismo aveva molto più a che vedere con il
fatto di essere seduta in braccio a Byakuran in una
riunione così importante, che non con la riunione stessa. Peccato che il
Guardiano del Mare non lo capisse e, anzi, sembrava più rilassato che sul
divano di casa.
Byakuran non si faceva
problemi a sfidare la mafia e l’etichetta. D’altro canto, qualunque Famiglia
rivale avesse mai colto la provocazione era magicamente sparita nel nulla,
senza lasciar traccia. Tsuna lo sapeva e ne era
contemporaneamente sollevato ed esasperato. Il fatto che in quella realtà
fossero alleati rendeva tutto più facile.
Conosceva
tutti i volti dei mafiosi che si sedettero alla stessa tavola. Si fidava di
meno della metà di loro. La riunione iniziò a breve. Si tenne ben attento
dall’esprimere pareri o opinioni. Il suo viso era una maschera perfetta, fatta
appositamente per non mostrare nessuna espressione.
Ogni
emozione, poteva essere interpretata come un segno di debolezza e lui, lì in
mezzo, era la figura più potente. Le prime volte che aveva partecipato come Vongola
Decimo a delle riunioni formali con altre famiglie, Reborn
lo aveva costretto ad attivare l’HDWM perché entrasse in quello stato mentale
in cui la disperazione supera la rabbia e oltre l’obiettivo non esiste più
nulla. Non la paura, non il dolore, non l’angoscia.
La
riunione procedette con calma quasi straziante. Ciascuno misurava troppo le
parole, i tempi morti erano eccessivi, ebbe il sospetto che sia il Boss dei
Montesanti che dei Mandragola temporeggiassero troppo, come se stessero
aspettando qualcosa.
Quando
il braccio destro dei Mandragola si allontanò discretamente per rispondere ad
una telefonata una sensazione agghiacciante lo aggredì, come ogni volta quel
suo istinto innaturale si risvegliava per segnalargli un pericolo.
“Hayato” mormorò soltanto al suo braccio destro che annuì.
Non
gli chiese se avesse capito, né si volto per controllare se lo avesse sentito,
d’altronde non poteva permettersi di distogliere lo sguardo dal nemico.
La
sparatoria iniziò solo pochi minuti dopo, distruggendo mobili e finestre,
facendo schizzare ovunque pezzi di intonaco e schegge di legno. Mitra. Un
attacco para-militare.
Avrebbe
potuto rappresentare un serio problema per tutti gli invitati, se solo scudi di
ossa fiammeggianti del fuoco rosso della Tempesta non si fossero alzati
prontamente a proteggere i commensali, come a creare una cappa protettiva
intorno a loro.
Il
Don dei Vongola, illuminato della fiamma del Cielo, si voltò immediatamente
verso il suo braccio destro. Annuì, un gesto che valeva tanto un grazie, quanto
il riconoscimento della sua bravura. “Qui, pensaci tu” gli disse solo, prima di
lanciarsi fuori da quel campo protettivo e affrontare il nemico a viso aperto.
Lo aveva fregato,
pensò Hayato, sorridendo. Il suo ruolo di braccio
destro gli imponeva di esporsi davanti al suo boss in uno scontro a fuoco,
pronto a rischiare la vita se necessario. Non di certo di rimanersene al
sicuro, rintanato in una gabbia impenetrabile. Ma se lo avesse seguito, avrebbe
disobbedito ad un ordine diretto.
Indeciso
su quale fosse la cosa migliore da fare, si accese una sigaretta, mentre Dino,
Emma e Adelheid accorrevano in aiuto di Tsuna e Byakuran faceva quello
che gli riusciva meglio: seminare il panico e ricordare a tutti che era la
peggiore minaccia che il mondo avesse mai conosciuto.
Yuni d’altro canto, era
scattata in piedi come se tentasse di inseguire Byakuran
e gli altri, ma capendo bene che sarebbe stata solo di intralcio. Eppure, con
le mani congiunte come in preghiera, rimaneva al limitare dei suoi scudi in piedi
e Hayato non era sicuro riuscisse davvero a vedere lo
scontro oltre le sue barriere o se stesse semplicemente pregando per la
salvezza di tutti.
Lui,
d’altro canto, non era tipo da preghiere.
Si
assicurò di mantenere gli scudi attivi per tutto il tempo che serviva, fumando
lentamente e ascoltando i rumori della battaglia che si svolgeva lì intorno.
Si
prese con calma il tempo di avvisare Takeshi Yamamoto,
il braccio sinistro di Tsunayosh, della situazione lì
dentro, ordinando che tutti i cecchini che attendevano all’esterno della
magione fossero rintracciati e uccisi.
Solo
quando chiuse la telefonata si prese il disturbo di cercare il traditore. Don
Mandragola non c’era in quella stanza, probabilmente era scappato nel
trambusto. Attivò la fiamma della Tempesta e Uri, il leopardo, si strusciò tra
le sue gambe cercando approvazione e attenzioni. Gli grattò piano la testa,
nonostante la Fiamma della Tempesta che infiammava le orecchie della fiera.
La
nutrì con la sua fiamma e la lasciò andare alla caccia. Avrebbe trovato quel
bastardo e glielo avrebbe portato, non falliva mai.
Solo
allora si mosse per controllare come procedeva la battaglia. I nemici erano
tanti, ma avversari di quel livello non costituivano una reale minaccia. A
quelle condizioni, poteva anche starsene buono. Se Tsuna
voleva proteggerlo, per una volta poteva lasciarglielo fare.
Si
volse verso Don Montesanti sapendo benissimo di avere tutti gli occhi dei
mafiosi che proteggeva con i suoi scudi puntati addosso. Almeno quelli della
gente che non era troppo impegnata a urlare per il trambusto e il panico.
Puntò
una pistola in mezzo agli occhi del Don, non stupendosi neanche un po’ quando
il braccio destro di quello la puntò a lui.
In
fondo, il Decimo aveva detto di pensarci lui, lì, rifletté con un sorriso sadico.
“Ti
consiglio di ordinargli di spararmi prima che sia io a premere il grilletto”
suggerì mellifluo. Che era un modo carino per annunciare che se non lo avessero
ammazzato al primo tentativo, allora avrebbe banchettato sul cadavere di quel
bastardo.
E
lo scagnozzo ci provò pure a scaricargli addosso il caricatore, così come fece
lo stronzo che puntava. Hayato sbuffò con un ghigno.
Sul serio, come poteva credere che fosse indifeso quando stava proteggendo da
solo oltre trenta persone da una carneficina.
I
proiettili si schiantarono su uno dei suoi scudi, lasciandolo del tutto illeso.
E fu solo per l’urlo di Yuni, preoccupata per lui,
che evitò di torturare quel cane lì e subito. Byakuran
non avrebbe gradito nessun trauma riportato dall’Arcobaleno del Cielo e avrebbe
rotto i coglioni al Decimo, e da lì a qualche minuto, Gamma avrebbe stracciato
le palle a lui.
Eppure,
quel figlio di puttana, che ora alzava le mani balbettando strane frasi confuse
che tra i singhiozzi della paura capiva a stento, aveva attentato alla vita del
suo boss, Vongola Decimo.
Si
rese conto, la rabbia che gli montava addosso non era quella di un cane
asservito al padrone. Quel figlio di
puttana aveva tentato di ammazzare il suo migliore amico, Tsuna.
E
mentre si sedeva di fronte a quel bastardo e gli mormorava molto lentamente che
avrebbe parlato e forse, se lo avesse messo di buon umore, lo avrebbe
risparmiato, pensò che non era una questione di mafia, ma di famiglia. Seguiva
da sempre l’etichetta, ma ormai per lui era semplicemente una forma di costume.
Tuttavia, per la sua famiglia, per quelle persone, per Tsuna
sarebbe sempre stato pronto ad uccidere o ad essere ucciso.
Non
per il suo Boss, ma per il suo migliore amico. |
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