A Distant Echo

di BloodyCandy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Lo stesso presente ***
Capitolo 3: *** La fine della tempesta... ***
Capitolo 4: *** ...Forse ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

~ 850 ~
 

Sapeva che non avrebbe mai dimenticato il sibilo dei Dispositivi di manovra 3D tra le foglie, le direttive urlate al vento, il rumore sordo di corpi schiantati al suolo accompagnato dallo scricchiolio agghiacciante delle ossa rotte, l'odore della foresta mescolato a quello del sangue che gli dava un leggero senso di nausea, e di nuovo le urla, questa volta di dolore. Si sarebbe ricordato per sempre la facilità con cui i suoi compagni di squadra erano stati uccisi, come farfalle nelle mani di un bambino.
― Heichou... ― Un sussurro che risuonava come un urlo disperato, la mano della ragazza protesa verso di lui a chiedere aiuto. Un rivolo di sangue le colorò le labbra ma, prima che il Caporale potesse prestarle soccorso, il corpo di Petra era già sparito sotto il peso del titano, scricchiolando come una fragile foglia autunnale.
― Levi, attento!
La voce di Erwin lo fece tornare in sé, appena in tempo per schivare l'ennesimo colpo del gigante.
― Dannazione, Levi, non c'è altro tempo da perdere!
― Tch, lo so.
Il Caporale saltò giù dal ramo su cui aveva trovato riparo pochi attimi prima e tornò sul campo di battaglia, dove il gigante non dava alcun segno di volersi fermare.
Sotto di lui i corpi dei suoi compagni giacevano immobili, alcuni ridotti a masse informi di carne, sangue e ossa. Se solo avessero eseguito gli ordini, pensò, tutto questo non sarebbe successo.
Gli sarebbero bastate poche manovre ben calcolate per raggiungere il punto debole del mostro, dove gli altri non erano riusciti nemmeno ad avvicinarsi.
Levi si preparò a colpire, le lame pronte a dilaniare la collottola del gigante, che si trovava nella posizione perfetta per essere colpito. Anche il vento sembrava essere dalla sua parte e con l'aiuto di Erwin sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Ma fu in quel momento, a pochi metri dall'obiettivo, che Levi incrociò il suo sguardo, quello sguardo che avrebbe potuto riconoscere tra mille. Gli occhi verdi che sembravano brillare di luce propria, le mille emozioni che celavano e che lui aveva imparato a decifrare, una ad una. Rabbia, paura, confusione, tutte concentrate in quelle grandi iridi color smeraldo che appartenevano a quello che era diventato l'assassino dei suoi compagni, e che ora, più che mai, gli ricordavano che nel punto in cui stava per colpire si trovava Eren.
Un attimo di incertezza, in cui pensò di mancare alla promessa che aveva fatto, lo fece vacillare, ma ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. Le lame affondarono nella carne creando un solco profondo, del vapore bollente uscì dalla ferita, investendolo e impedendogli di vedere al di là di pochi centimetri dal suo naso. Imprecò, e un colpo forte e inaspettato lo colpì da un lato, facendolo schiantare contro il tronco di un albero . Un dolore atroce lo attanagliò, mozzandogli il fiato per secondi che sembrarono un'eternità. Si era rotto qualcosa, lo sentiva. Il “crack” che aveva sentito non era sicuramente di qualche ramo spezzato o chissà cos'altro, altrimenti perché continuava a rimbombargli nelle orecchie? Qualche vertebra, sicuramente, perché il suo corpo non rispondeva più a nessun comando. O forse qualche costola, o anche la testa non era da escludere.
Quando raggiunse il suolo il dolore si aggiunse al dolore, poi, lentamente, andò a scemare, fino a sparire del tutto. Vide il cielo farsi sempre più lontano, la luce del sole sparire lentamente, un fischio assordante perforargli i timpani, le parole congelarsi in bocca. Era come se stesse entrando in un'altra dimensione, come se il suo corpo fosse stato avvolto da una bolla sospesa a mezz'aria.
Che ne sarebbe stato di lui ora?
Sentì le palpebre farsi pesanti, una voglia pazzesca di dormire. Ma se avesse chiuso gli occhi poi sarebbe riuscito a riaprirli?
Rivolse un ultimo sguardo al corpo di Eren che lentamente si accasciava al suolo, circondato da sbuffi di vapore.
In qualche modo era riuscito a mantenere quella promessa. Ma era davvero la cosa giusta?
Il suo campo visivo venne occupato dal viso preoccupato di Erwin, le labbra che si muovevano velocemente, probabilmente ordinandogli di non chiudere gli occhi, o qualcosa del genere. Tentò di allungare una mano verso di lui, ma il suo corpo si ostinava a non rispondere. Provò a dire qualcosa, ma dalla sua bocca non uscì nessun suono. Anche pensare era diventato faticoso, era come se ogni suo pensiero si disperdesse come fumo nell'aria.
A quel punto si rassegnò, non c'era nient'altro da fare se non chiudere gli occhi e aspettare, perché qualunque altra cosa sarebbe stata inutile. Ormai era arrivato al capolinea, e anche se Erwin l'avesse tenuto stretto tra le sue braccia non avrebbe potuto impedirgli di andarsene.
Sentì il suo corpo diventare sempre più freddo, poi qualcosa di caldo, forse una lacrima, rigargli una guancia.
Infine chiuse gli occhi, e il buio lo assalì.

 

~ † ~

 

Quando aprì gli occhi il sole stava tramontando e il cielo si era colorato di un bel rosso vivo.
Si mise faticosamente a sedere e di fianco a sé vide Erwin seduto su una grossa pietra, gli occhi persi nel nulla, le spade conficcate nel terreno.
― Ti sei svegliato ― disse senza spostare lo sguardo dal punto imprecisato che stava fissando. E in quel momento Eren pensò che, sì, si era svegliato. Ma quando, di preciso, si era addormentato?
― Cos'è successo? ― chiese istintivamente, ancora confuso e intorpidito dal sonno.
Erwin si alzò lentamente ed estrasse le lame dal terreno, rivolgendo poi lo sguardo spento alle spalle del ragazzo.
― Perché non guardi tu stesso?
Solo in quel momento Eren notò le grosse chiazze di sangue sulla camicia bianca del Comandante, e un terribile presentimento gli invase la mente, stringendogli il cuore e riempiendogli la testa di domande. Dov'erano gli altri? Dov'era il Caporale Levi? Perché Erwin sembrava così freddo e distaccato? E perché era sporco di sangue? Aveva come l'impressione che da qualche parte, nascosto nel suo inconscio, avesse già la risposta a tutte quelle domande; comunque la verità si trovava proprio lì, dietro alle sue spalle. E forse era per questo che esitava a voltarsi.
― Voglio che guardi, Eren. ― La voce dell'uomo si era fatta dura, ed Eren trasalì quando la sentì. Era la prima volta che lo sentiva usare quel tono. ― È un ordine ― aggiunse, tornando a fissare negli occhi il ragazzo, che aveva preso a tremare vistosamente.
Quando provò ad alzarsi il corpo gli faceva male e ad ogni movimento si sentiva quasi svenire. Conosceva quella sensazione, ormai cos'era successo qualche ora prima gli era chiaro, anche se stentava ancora a crederci. Si mantenne in piedi reggendosi all'albero più vicino e lentamente trovò il coraggio di guardare davanti a sé.
Corpi dilaniati, ossa spezzate, sangue, il terrore impresso a fuoco sui volti di quelli che un volto ce l'avevano ancora. Fece fatica a riconoscere a chi appartenessero quei corpi senza vita, un po' per lo stato in cui si trovavano, un po' perché, nel momento stesso in cui quel quadro gli si era parato davanti, aveva perso la lucidità mentale per farlo. Non poté fare a meno di pensare alla disperazione dei genitori, dei coniugi e dei figli di quelle persone, quando sarebbero venuti a sapere che i loro cari erano morti.
E la causa di tutto quel dolore era opera sua.
Cosa avrebbero pensato di lui Mikasa, Armin e tutti gli altri, quando sarebbero venuti a saperlo? Come l'avrebbe guardato sua madre, se fosse stata ancora in vita?
Trattenne un conato di vomito e distolse lo sguardo, non poteva sopportare un secondo di più quella vista.
E fu quando riabbassò lo sguardo che si accorse del corpo che giaceva ai piedi dell'albero a cui era aggrappato. Le mani appoggiate sul ventre, la testa leggermente inclinata su una spalla, le labbra appena socchiuse; a differenza degli altri, il suo viso era rilassato, quasi sereno. Avrebbe detto che stesse solo dormendo e che stesse facendo il più dolce dei sogni, se non fosse stato per la quantità spropositata di sangue che lo ricopriva.
Gli ci volle qualche secondo per realizzare che quella che stava guardando era un'altra delle sue vittime e quando si rese conto di chi fosse le ginocchia gli cedettero facendolo cadere dolorosamente a terra, e a quel punto non provò nemmeno a trattenere le lacrime che iniziarono a scendere copiose. Si lasciò completamente andare, le mani strette intorno a quelle bianche e fredde dell'altro, il nome di Levi biascicato tra i singhiozzi, come se chiamarlo potesse riportarlo in vita.
― Capisci, Eren? ― La mano di Erwin si appoggiò su una delle spalle del giovane stringendola più forte del dovuto. ― Capisci quanto sei pericoloso? Pensavo davvero che il tuo potere potesse aiutarci, invece... ― Lo sguardo del biondo si spostò sul campo di battaglia, diventando infinitamente malinconico alla vista dei corpi dei suoi subordinati. Poi chiuse gli occhi e sospirò, come a voler cancellare quell'immagine dalla mente. ― Ho sbagliato e pagheremo entrambi per questo. ― Si alzò, lasciando la presa dalla spalla di Eren, e recuperò la spada che aveva appoggiato sull'erba. ― A te avrebbe dovuto pensarci Levi, ma non credo che qualcuno abbia nulla in contrario se mi prendo questa responsabilità.
Quando realizzò a cosa si riferiva, Eren smise di singhiozzare e guardò atterrito il suo superiore, gli occhi arrossati dal pianto, lo sguardo di chi sa che la sua vita è quasi giunta al termine ma non vuole, diamine, non vuole morire.
― Hai qualcosa da dire?
Ci sarebbero state un sacco di cose che avrebbe voluto dire. Messaggi da portare ad Armin e Mikasa, le più sentite scuse ai cari delle persone che aveva ucciso, suppliche per non essere ammazzato, preghiere. Così tante cose che pensò che la miglior cosa da fare fosse abbassare silenziosamente la testa facendola oscillare stancamente a destra e a sinistra. In fin dei conti nessuno avrebbe ascoltato le sue preghiere, le sue scuse non sarebbero state accettate e nessun messaggio da portare a quei due avrebbe avuto senso se non fosse stato lui stesso a darglielo.
― Perfetto...
Tenne lo sguardo fisso a terra, sull'ombra esageratamente allungata di Erwin che si confondeva con quella degli alberi, le mani ancora strette intorno a quelle di Levi. Lo vide alzare le lame e prepararsi a colpire, trattenne il fiato e a quel punto chiuse gli occhi più forte che poteva. Sentì il suono delle spade fendere l'aria, poi solo la terribile sensazione di sentirsi strappare la vita di dosso.

 

 

Note dell'autrice:
Salve a tutti quelli che hanno iniziato a leggere questa storia e sono arrivati fin qui *-*
Questa è la prima volta che scrivo qualcosa su Shingeki, e probabilmente non sarà nemmeno l'ultima (ho in mente un sacco di idee e dovrei solo trovare la voglia/il tempo di scriverle).
Come avete potuto leggere non ho seguito gli eventi reali della storia e la squadra Levi, i rinforzi e Levi stesso sono stati uccisi da Eren che ha perso il controllo. Poi se quella era o no la cinquantasettesima spedizione fuori dalle mura lo lascio scegliere a voi. Per quanto mi riguarda non è essenziale ai fini della trama ù.u.
Pubblicare una nuova storia è sempre un salto nel vuoto e non ho la ben che minima idea di che primo impatto possa aver fatto questo capitolo >.>
Ditemi che ne pensate, accetto anche le critiche, purché costruttive. Correggete tutti gli errori che trovate (perché so che ci sono, lo so, quei maledetti si sanno nascondere bene) e se non vi è chiaro qualcosa chiedete pure, io proverò a darvi una spiegazione ù.u.
Se avete storto il naso leggendo “Jearmin” nell'introduzione, tranquilli, ce ne sarà davvero poco xD Se invece siete entrati proprio per quello, mi spiace dirvi che...ce ne sarà davvero poco D:
Spero che come primo capitolo vi sia piaciuto e che continuiate a seguire la mia ff c:
Ci vediamo tra una decina di giorni!

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Capitolo 2
*** Lo stesso presente ***


Lo stesso presente

 

~ 14 Ottobre 2015 ~
 

― Allora vado a casa ― aveva detto.
― Perché non ti fermi ancora un po'? ― gli aveva risposto il capo. ― C'è da pulire il negozio ― aveva aggiunto. E poi ancora: ― Non ci metterai più di dieci minuti.
Un'ora e quarantotto. Ci aveva messo qualcosa come un'ora e quarantotto minuti per finire di spolverare tutte le mensole, sistemare i libri al loro posto e pulire il parquet. Già lo infastidiva pensare di rimanere là dentro solo pochi minuti in più del dovuto, figuriamoci quasi due ore.
Ma perché, di tutti i colloqui che aveva fatto, solo quello per quel posto era andato bene? In fondo non corrispondeva nemmeno lontanamente al tipo di persona che stavano cercando; gli unici requisiti richiesti che aveva erano la maggiore età e il diploma, l'interesse per la letteratura se l'era inventata al momento, citando quei pochi scrittori che aveva studiato e che si ricordava vagamente. Così, quando il capo l'aveva presentato ai suoi colleghi era diventato “l'appassionato di Proust e Kafka”. La verità è che non sapeva nemmeno come si scrivevano quei due nomi, e se avesse saputo prima che il capo era particolarmente fissato con quei due e che lavorare in quel posto facesse così tanto schifo, Proust e Kafka non li avrebbe nemmeno mai nominati. Alla fine aveva mandato quella domanda di lavoro solo perché “tentar non nuoce”, non certo perché lavorare in una libreria facesse parte dei suoi sogni.
Sogni, già. In quel momento invidiò parecchio Armin, che al suo sogno di diventare pasticcere si stava avvicinando, poiché aveva avuto la fortuna di trovarsi un posto come cameriere in una caffetteria piuttosto lussuosa e di aver trovato qualcuno che gli desse le lezioni di pasticceria, che tanto desiderava, gratis. Poi che quel “qualcuno” fosse nientepopodimeno che Jean Kirstein era un'altra storia.
Lui invece? Qual'era il suo sogno? Riuscire ad arrivare a fine mese con ancora un tetto sulla testa? Probabile.
Sospirò amareggiato. Si doveva trovare qualche altro lavoro, e al più presto. E magari anche uno scopo nella vita.
Timbrò il biglietto della metropolitana e passò attraverso i tornelli, per poi darsi una rapida occhiata intorno. A quell'ora le persone che prendevano la metro erano decisamente meno rispetto al solito, e aveva anche l'impressione che appartenessero alla categoria “persone da evitare”. La sciarpa tirata fin sopra al naso, il modo sospetto di guardarsi intorno; non si sarebbe sorpreso se una di quelle persone gli fosse piombata alle spalle e gli avesse ficcato un coltello in mezzo alla schiena, per poi scappare con i pochi spiccioli che gli erano rimasti nel portafogli.
Scosse la testa e scaccio via quel pensiero assurdo. Da dove venivano tutte quelle paranoie? Non era la prima volta che si trovava fuori casa a quell'ora, e anche se qualcuno avesse provato ad aggredirlo, lui sarebbe stato capace di difendersi. Ai tempi delle medie e delle superiori era uno di quelli che quando c'era da fare a botte non si tirava mai indietro. Per non parlare di quando era una recluta, dopo Mikasa era il migliore nelle arti marziali e, nonostante il fisico non fosse più quello di un soldato, le tecniche che gli aveva insegnato Annie se le ricordava tutte.
Prese un respiro profondo e si ripeté più volte che nessuno lo avrebbe ucciso e nessuno gli avrebbe rubato i soldi, e quasi riuscì a convincersene. Comunque, quando arrivò sulla banchina non poté fare a meno di controllarsi nuovamente le spalle e, quando appurò che dietro di lui non c'era nessuno, si rilassò ed infilò le mani in tasca. La calma, però, durò ben poco. Perché, ok, il telefono nella tasca destra c'era ancora, ma nell'altra tasca mancava qualcosa.
Il portafogli, diamine. Doveva essergli caduto di tasca dopo aver superato i tornelli e, sicuramente, se qualcuno non l'aveva preso, doveva essere ancora lì da qualche parte.
Velocemente risalì le scale, inciampando in uno o due scalini e ignorando completamente il treno che era arrivato facendo alzare un'ondata di vento gelido, girò a destra e, quando svoltò l'angolo, lo vide: il suo portafogli verde bottiglia, in mano ad uno sconosciuto.
― Ehm...quello è mio ― esordì, tra un ansito e l'altro, con un filo di voce, forse ancora intimorito dai pensieri di prima o forse dagli anfibi esagerati e il collarino borchiato che indossava il ragazzo a pochi metri da lui; e, a dirla tutta, quando l'individuo alzò lo sguardo dal portafogli per spostarlo su di lui, Eren pensò che se voleva poteva anche tenerselo. Sì, ecco, quello era proprio l'esempio perfetto della “persona da evitare”.
Eppure aveva qualcosa di familiare...
Un senso di nostalgia gli riempì lo stomaco e lo travolse una strana voglia di prende per mano quello strano tizio e correre insieme felici verso l'orizzonte in sella a degli unicorni rosa.
A-aspetta, cosa?
Si maledisse per essersi dimenticato, quella mattina, le lenti a contatto; magari avrebbe evitato di strizzare gli occhi in un'espressione imbarazzante per provare a mettere a fuoco e riconoscere quel tipo che aveva iniziato a fissarlo come se fosse un idiota. E, sì, forse un po' idiota lo era.
― Stai più attento la prossima volta, Eren.
E fu in quel momento che lo riconobbe. Quando sentì il suo nome uscire dalla sua bocca, quando si avvicinò per porgergli il portafogli, perché lui era troppo sotto shock per pensare a quel coso ora, e poté guardarlo bene in faccia; gli occhi grigi, le labbra sottili, la pelle perfetta come quella di una bambola di porcellana.
Dio, era lui. Era lui ed è lì, a condividere il suo stesso presente.
E sembrava avesse anche qualche anno in meno dall'ultima volta che l'aveva visto. Non che il Levi di mille anni fa sembrasse vecchio, eh.
Eren sorrise appena. Se qualcuno avesse sentito i suoi pensieri lo avrebbe preso per pazzo. Quale umano sembrerebbe più giovane dopo anni che non lo vedi? Oltre a Benjamin Button forse solo le signorine nelle pubblicità dei prodotti anti-età. Aspetta, stava forse paragonando Levi ad una di quelle signorine?
― Ohi, moccioso. Potresti ringraziarmi, al posto di fissarmi con quella faccia.
Quando Eren si riprese dai suoi pensieri, l'altro gli aveva già dato le spalle, probabilmente dopo averlo mandato a quel paese, e si era allontanato di qualche metro, lasciando al suo posto un leggero odore di fumo.
Davvero se ne stava andando così? Provò a dirgli qualcosa per fermarlo ma, colpa la vacanza temporanea che si era preso il suo cervello, finì per far uscire dalla bocca solo dei versi confusi che fecero sputare uno “tsk” irritato a Levi, prima che imboccasse la scalinata che portava ai treni e sparisse dal suo campo visivo.
Eren rimase lì dov'era per parecchi minuti come se fosse parte integrante della stazione, immobile, con un braccio sospeso a mezz'aria e la bocca spalancata, prima di decidersi a fare dietrofront e tornare sconfortato sulla banchina da cui era venuto.
Era alquanto...confuso da quello che era appena successo. Quello era Levi, no? Allora perché se n'era andato via così? Possibile che non si ricordasse di lui?
Il treno che arrivò lo fece sobbalzare, ricordandogli dove si trovava e facendogli notare che se avesse fatto un altro passo probabilmente a quest'ora non avrebbe più avuto una faccia. Appena le porte si aprirono, salì sul vagone ed occupò uno dei numerosi posti liberi, lontano il più possibile dagli altri passeggeri.
No, era impossibile che non si ricordasse di lui, diamine, lo aveva chiamato per nome. Ma allora perché? Doveva assolutamente parlarne con Armin, lui aveva il potere di riuscire sempre a venire a capo di tutto, e sicuramente lo avrebbe aiutato anche questa volta a capire cosa stava succedendo. Avrebbe potuto aspettare quel fine settimana per parlargliene di persona, in fondo non amava parlare di cose serie al telefono, per di più in metropolitana dove chiunque poteva sentirlo, ma aveva bisogno di capire, e probabilmente quella notte non sarebbe riuscito a dormire se prima non avesse sentito cosa ne pensava Armin di quella faccenda.
Prese il telefono, andò nella rubrica, dove il nome dell'amico occupava il primo posto, e premette il pulsante verde sul touch screen aspettando impazientemente, tamburellando con le dita della mano libera su un ginocchio, che il telefono iniziasse a squillare.
Ma una voce, che non era né quella metallica della segreteria telefonica, né tanto meno quella pacata di Armin, iniziò a rimbombargli in testa, facendogli mancare un battito e facendogli interrompere con mano tremante la telefonata al secondo squillo.
L'hai ucciso...l'hai ucciso, l'hai ucciso.
Cosa si aspettava, che ora che si erano rincontrati Levi gli avrebbe fatto le feste? Era ovvio che volesse evitarlo. Anzi, forse doveva ritenersi fortunato per non essere stato pestato a sangue, che in fondo era quello che si meritava per quello che aveva fatto a lui e ai suoi compagni. Come aveva fatto a non arrivarci?

Le immagini cruenti di quel campo di battaglia, di Levi ricoperto di sangue e dell'ombra di Erwin che alzava le spade per colpirlo, iniziarono a scorrergli davanti agli occhi, facendolo stringere nel parka come se all'improvviso la temperatura si fosse abbassata di qualche grado. Si ritrovò con gli occhi colmi di lacrime e la mano, con cui qualche attimo prima stava stringendo il telefono, appoggiata sulla bocca a soffocare i singhiozzi che altrimenti avrebbero attirato l'attenzione degli altri passeggeri . Era così fottutamente patetico, così tanto che si sarebbe preso a pugni da solo.
Decise che avrebbe dimenticato quell'incontro e ad Armin non avrebbe detto nulla, né ora né quel fine settimana.

 


~ 16 Ottobre 2015 ~

 

― Quindi ti andrebbe di andare da qualche parte domani sera?
Eren prese un altro grosso boccone di torta al triplo cioccolato e tornò a guardare Armin che non poté fare a meno di scoccargli uno sguardo preoccupato, dal momento che era alla quarta fetta di torta e se avesse continuato così probabilmente i vestiti gli sarebbero esplosi addosso.
All'altro, però, in quel momento importava ben poco della sua linea: era depresso e recitare la parte del giovane ragazzo felice e spensierato richiedeva energie, ergo aveva un disperato bisogno di cioccolato.
E poi quella torta era davvero buona.
― Va bene. Dove? ― chiese il biondo.
― Pensavo in discoteca a bere qualcosa insieme agli altri.
Con “gli altri” intendeva i loro amici del liceo, e nessuno di questi era uno degli ex soldati del centoquattresimo corpo di addestramento reclute. Gli unici che per ora sembravano rivivere in quel presente erano lui, Armin e Jean.
E Levi.
Prese un'altra forchettata di torta.
Armin alzò un sopracciglio sconcertato, e riempì di acqua il bicchiere che Eren aveva appena svuotato, senza perdere di vista nemmeno un secondo gli occhi verdi dell'amico.
― Tu odi le discoteche. E non reggi l'alcol. Anzi, ti devo ricordare che l'ultima volta che ti sei ubriacato sei sparito all'improvviso, e...
Eren mise le mani davanti a sé tentando di fermarlo. Quella era una storia imbarazzante e l'idea che qualcuno potesse sentirla non lo eccitava particolarmente.
― Sì, sì, mi ricordo, non tirare di nuovo fuori quella storia, per favore ― si affrettò a dire, tentando di coprire con la voce quella dell'altro.
― ...la mattina dopo mi hai chiamato in preda al panico perché ti sei svegliato nudo nel letto di uno sconosciuto?
Si abbandonò sbuffando sullo schienale della sedia e verificò che nessuno dei clienti presenti – li aveva scrutati così intensamente da riuscirne ad intravedere l'anima – avesse avuto la fantastica idea di non farsi gli affari suoi, poi spinse il piatto verso Armin per farselo riempire ancora una volta. Il cioccolato non era mai abbastanza.
Armin ignorò il piatto vuoto ed appoggiò i gomiti sul tavolo e il viso sul palmo delle mani; la posizione perfetta per fissare il suo sguardo indagatore in quello ora intimidito di Eren.
― C'è qualcosa che ti turba. E non vuoi dirmi cosa.
Ok, se c'era una cosa che odiava di Armin è che non poteva nascondergli nulla. Non che poi si impegnasse così tanto a nasconderle, le cose.
Spostò gli occhi sulle briciole di torta che giacevano tristemente nel piatto che Armin si era rifiutato silenziosamente di riempire per la...quinta o sesta volta. Aveva perso il conto.
Effettivamente era strano anche per lui pensare di voler andare in discoteca ad ubriacarsi, ma aveva seriamente bisogno di riempirsi di alcol e non pensare per qualche ora all'incontro che aveva fatto qualche giorno prima. Questa volta magari evitando di finire nel letto di qualcuno.
― Ho solo bisogno di distrarmi. Quel lavoro del cazzo mi manda fuori di testa ― mentì. Non se la sentiva di dirgli davvero come stavano le cose; non aveva voglia di fare la figura del debole, che torna a rimuginare su una cosa accaduta più di mille anni fa perché il tipo che ha ammazzato non si è fermato a chiedergli, dopo tutto quel tempo, come stava. In ogni caso Armin non avrebbe potuto fare nulla per cambiare le cose, e sicuramente farsi consolare non lo avrebbe fatto sentire meglio.
― Per ora ti sei salvato, ma quando vuoi dirmi la verità fammi un fischio. ― Il biondo incrociò le braccia e gonfiò le guance in un'espressione imbronciata che in qualche modo fece piegare leggermente all'insù gli angoli delle labbra ad Eren. Quando Armin vide che l'amico sembrava essersi rilassato, abbandonò le vesti del bambino offeso e gli sorrise rassicurante, posando una mano su quella dell'altro.
― Lo sai che se avessi un problema mi farei in quattro per aiutarti a risolverlo, vero?
Eren spostò lo sguardo su un punto imprecisato del pavimento, pur di non guardare quegli occhi così azzurri, e rispose con un filo di voce: ― Sì, lo so. ― Ed era vero, diamine, lo sapeva che avrebbe potuto dirgli tutto, ma era più forte di lui.
Ad Armin faceva male vederlo così, mentre tentava disperatamente di combattere da solo i suoi demoni. Avrebbe voluto davvero aiutarlo, in fondo era il suo migliore amico, e in quanto tale era suo dovere farlo, ma conoscendo Eren sapeva che aveva bisogno dei suoi tempi e nel momento in cui si sarebbe sentito pronto gli avrebbe detto di sua spontanea volontà cosa c'era che non andava. Forzarlo a sputare il rospo probabilmente avrebbe solo peggiorato le cose, l'unica cosa che poteva fare era aspettare. E si sentiva così inutile nell'aspettare.
Il sorriso rassicurante che si era disegnato qualche secondo prima sulle labbra si sostituì con uno decisamente più malinconico, ma prima che Eren potesse accorgersene, il biondo spostò lo sguardo sull'elegante orologio da parete, simbolo della caffetteria, che indicava che la pausa era finita.
― Ti impacchetto i resti della torta e torno a lavoro ― annunciò, alzandosi e risistemando la sedia ordinatamente sotto al tavolino, per poi allontanarsi con l'alzatina su cui si trovavano le ultime fette del dolce, e tornare qualche minuto dopo stringendo tra le mani la scatola da trasporto sulla quale spiccava il logo del negozio e la scritta “Teezeit Bäckerei”.
― Non mangiarla tutta oggi, non vorrei che ti sentissi male ― gli ordinò, mantenendo comunque un tono dolce da mamma, e appoggiò la scatola davanti ad Eren che, a quelle parole, sentì andare in frantumi i suoi piani per quella sera.
― E tu non stare troppo tempo con Faccia da cavallo ― ribatté velocemente, con un tono decisamente meno zuccheroso. ― Non vorrei che iniziassi a nitrire come lui.
Ora si sarebbe sentito sicuramente meno in colpa se quella torta fosse magicamente finita dentro al suo stomaco. Sapeva che Armin avrebbe inevitabilmente disubbidito ai suoi ordini: il venerdì era uno dei giorni in cui il biondo rimaneva in pasticceria fino a tardi per prendere lezioni da Jean, non poteva certo evitare di passare tutto quel tempo insieme a lui. Quindi erano pari. Non funzionava così?
Armin non poté fare a meno di farsi scappare una risata. ― Dopo tutti questi anni ancora non riesci a fartelo andare a genio?
― No, ― rispose velocemente, aggiungendo poi: ― e dubito che arriverà mai il giorno in cui lo troverò simpatico. Anzi, sai una cosa? Fa tutto il fighetto, ma la verità è che sei almeno mille volte meglio di lui a preparare i dolci, diamine, questa torta è fantastica, nulla a che vedere con quelle che fa lui. ― Gli fece l'occhiolino e sfoderò il migliore dei suoi sorrisi.
Sorriso che sparì appena l'amico gli rivelò ridendo: ― Grazie Eren, ma quella l'ha fatta “Faccia da cavallo”.
Se non altro aveva trovato il modo di non fargliela finire.

 


 ~ 20 Ottobre 2015 ~

 

Non era affatto abituato a bere, tanto che, fosse stato per lui, sarebbe rimasto a letto anche quel giorno. In fondo aveva passato la domenica a vomitare e il lunedì a cercare di riprendersi, il tempo per riposarsi decentemente non l'aveva ancora trovato.
Comunque, tutto sommato, la serata non era andata così male, nel senso che aveva raggiunto un livello di ubriacatura che gli aveva consentito di non finire a casa di qualche sconosciuto e di fregarsene altamente del fatto che Levi lo odiasse, in più era anche riuscito a tornare nel suo buco di monolocale senza sbagliare strada o cadere dalle scale. Che ci avesse provato tutta la notte con Armin, invece, era una di quelle cose da cancellare dalla mente e far finta di non averne memoria.
In ogni caso, per un motivo o per l'altro, era praticamente riuscito a dimenticare l'incontro di qualche giorno prima, anzi, se provava a ripensarci gli sembrava come se fosse stato tutto un sogno. Un sogno incredibilmente realistico ma pur sempre un sogno.
Finì di sistemare i libri in ordine alfabetico nella sezione “fantasy”, anche se, fosse stato per lui, li avrebbe ordinati in ordine arcobalenico – sicuramente ci avrebbe messo un quarto del tempo che ci aveva impiegato e il tutto sarebbe risultato esteticamente più bello – , e controllò l'ora. Ancora pochi minuti e la pausa pranzo sarebbe iniziata, sempre se il suo simpatico capo non fosse spuntato dal nulla e gli avesse trovato un “lavoretto da cinque minuti” che doveva fare assolutamente prima della pausa e che gli avrebbe mandato a puttane quell'ora e mezza scarsa che aveva a disposizione per rifocillarsi. Se ne doveva andare, prima che quell'incubo potesse diventare per l'ennesima volta una realtà.
Con il passo felpato di uno zombie a caccia di cervelli sgattaiolò verso la porta dei camerini e, una volta dentro, si liberò della maglietta giallo fluo da dipendente, tornando ad indossare con sollievo la sua felpa di una tonalità decisamente meno fastidiosa.
Uscendo fece quasi cadere una colonna di libri con il venti per cento di sconto e inciampò nelle stringhe slacciate delle sue Converse, attirando inevitabilmente l'attenzione dei clienti e del suo collega alla cassa che gli chiese con lo sguardo dove diavolo stesse andando.
― La mia pausa pranzo è iniziata un minuto fa ― disse, senza fermarsi a guardare l'uomo che si accertava stizzito che non stesse cercando di svignarsela in anticipo.
Appena mise i piedi fuori dal negozio inspirò profondamente l'odore della città. Era fuori finalmente, e anche se la puzza del fumo delle sigarette dei passanti lo fece tossire, ringraziò il cielo di non dover aver a che fare per un'ora con l'odore dei libri, di cui ormai ne aveva pieni i polmoni. E pensare che prima di iniziare a lavorare non gli dispiaceva nemmeno così tanto, quell'odore; gli riportava alla mente con una dolce nostalgia quando, da bambini, lui ed Armin leggevano di nascosto i libri di suo nonno sul mondo fuori dalle mura, facendoli sognare su quanto grande potesse essere l'oceano e su che effetto potesse fare camminare su un deserto di ghiaccio. Ora invece gli ricordava solo le brutte facce dei suoi colleghi e che l'oceano, ancora, non l'aveva visto.
Sospirò amareggiato e prese a camminare, verso una meta indefinita.
Non era un tipo abitudinario, e per lui passare la pausa pranzo sempre nello stesso posto era impensabile. Forse, se la pasticceria dove lavorava Armin non fosse stata così lontana, avrebbe potuto prendere in considerazione l'idea di scroccare dolci al Teezeit Bäckerei ogni giorno ma, non essendo così, si ritrovava sempre ad avventurarsi tra le strade secondarie a cercare un nuovo posto in cui fermarsi a mangiare.
Quel giorno la sua attenzione venne catturata dall'insegna di un bar in cui, quasi sicuramente, non era mai entrato. Fuori dalla porta c'era una lavagna con scritto un breve menù e il piatto del giorno e, appena fu abbastanza vicino – si era dimenticato un'altra volta le lenti a contatto – , controllò i prezzi, che trovò decisamente abbordabili per le sue tasche. Quello era il posto giusto.
Quando spinse la porta vetrata per entrare si accorse che i lacci delle sue scarpe erano ancora slacciati, e li avrebbe sicuramente riallacciati se non gli si fosse gelato il sangue nelle vene quando sentì una voce fin troppo familiare dirgli qualcosa.
― Chi non muore si rivede. Eh, Eren?

 

 

Note dell'autrice:
Ed eccoci qua anche con il secondo capitolo :D Avrei voluto pubblicarlo stamattina, ma tra una cose e l'altra si sono fatte le 20.30 D:
Finalmente siamo ai giorni nostri ed ecco Levi che appare davanti ad Eren come un pokemon selvatico nell'erba alta (?). Che cosa succederà ora? Lo scopriremo nella prossima puntata, che non so quando sarà perché ho finito i capitoli pronti, il prossimo è scritto a metà e non so quanto ancora mi ci vuole per finirlo u.u
Trovate che sia troppo lungo come capitolo? Pensavo di rimanere più o meno sulle cinque pagine per ogni capitolo, ma forse risultano troppo lunghi...o magari il fatto che siano suddivisi in giorni li fa sembrare più corti? ù.u Boh, ditemi. Oh, e ovviamente, come anche nel capitolo precedente, se vi siete imbattuti in qualche errore non esitate a segnalarmelo, io non potrò che esservene grata :3
Prima che mi dimentichi, grazie a tutti quelli che hanno iniziato a seguire la mia storia, l'hanno recensita, inserita tra le preferite e le ricordate *-*
Al prossimo capitolo :)

 

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Capitolo 3
*** La fine della tempesta... ***


La fine della tempesta...

 

― Chi non muore si rivede. Eh, Eren?
Non seppe spiegarsi se rimase impietrito perché si era ritrovato davanti Levi vestito da barista nel bar che quel giorno aveva attirato la sua attenzione, o perché se lo era ritrovato davanti quando finalmente era riuscito a dimenticarlo, o perché il suo senso dell'umorismo non era migliorato di una virgola e, tra tutti i modi di dire, aveva proprio scelto di dire “chi non muore si rivede”.
O forse era un avvertimento?
Diamine. Se solo fosse stato più attento e avesse notato prima chi c'era dietro al bancone, avrebbe sicuramente tirato dritto e avrebbe evitato di tornare a sentire quel cocktail di emozioni poco piacevoli che provava ogni volta che pensava al Caporale.
Ma ormai era inutile pensare a cosa avrebbe potuto fare, e in ogni caso non poteva starsene per sempre con una gamba dentro e una fuori. L'unica cosa che poteva fare era farsi coraggio e affrontare il proprio destino.
Alla voce profonda e leggermente stizzita di Levi che gli chiedeva: ― Entri o no?― , Eren sobbalzò, annuendo senza fiatare e trascinando dentro, con un movimento quasi forzato, anche l'altro piede. Ormai era in trappola.
Chissà cosa gli avrebbe detto ora, chissà quali parole avrebbe scelto per dirgli che gli avrebbe riservato lo stesso trattamento che lui aveva riservato ai suoi compagni di squadra durante quella fatidica spedizione fuori dalle mura. Chissà se lo avrebbe pestato a sangue dentro o fuori dal bar...
― Ohi. ― Ancora una volta, la voce fredda del ragazzo dietro al bancone, fece trasalire Eren che, così preso dai suoi pensieri, non si rese conto che con un cenno della testa gli stava indicando le scarpe. ― Hai le scarpe slacciate ― sibilò Levi, quando si accorse che il cliente faceva fatica ad interpretare la “lingua dei cenni con la testa”.
Ah, già, i lacci. Tra una cosa e l'altra se l'era completamente dimenticato.
Quando si inginocchiò per risolvere quella piccola seccatura, un sospiro esasperato lo bloccò per l'ennesima volta, facendogli alzare la testa verso il barista che, con i gomiti appoggiati sul bancone e la voce ovattata dalla mano che si era buttato in faccia, disse scandendo ogni parola: ― Non davanti alla porta.
Nonostante tutte le gaffes che aveva fatto, e nonostante la vocina che gli stava urlando da dentro di scappare da quel posto fin quando era ancora in tempo, Eren non poté far altro che addentrarsi nel bar, allacciarsi le scarpe e sbucare davanti al viso ancora mezzo nascosto di Levi, con le goti leggermente arrossate dall'imbarazzo.
Da quella distanza e con la luce naturale che filtrava dalla vetrata riusciva a vederlo in ogni suo dettaglio e i ricordi dei momenti passati insieme, che fino a quel momento aveva cercato di tenere chiusi sotto chiave, gli si riversarono nella mente con una violenza tale da fargli venire la pelle d'oca.
Passò qualche secondo a studiare quel volto bellissimo che, a parte qualche segno del tempo in meno e la cicatrice quasi impercettibile di un vecchio piercing al labbro inferiore, non era cambiato di una virgola. E quando si decise a riportare lo sguardo sui suoi occhi rimase sorpreso a scorgere una scintilla che non aveva mai avuto l'occasione di vedere nelle iridi costantemente spente di Levi. Sembrava quasi...divertito?
Si stava divertendo a vederlo così impacciato e imbarazzato?
― Ti faccio paura?
Giurò di sentire un accenno di risata nascosto tra le parole di quella domanda. Una risata genuina che lo fece rilassare un po'.
Forse allora aveva visto male, magari non gli importava di essere stato ucciso da un ragazzino che aveva perso il controllo, magari non voleva pestarlo a sangue come credeva. Forse era disposto a perdonarlo. In tal caso quella era l'occasione giusta per chiedere scusa.
― È che m-...mi...mi dispiace per...per... ― Inaspettatamente le parole gli morirono in bocca e velocemente distolse lo sguardo dagli occhi di Levi per spostarlo sul pavimento perfettamente pulito. Ancora quell'odiosa sensazione di non essere all'altezza di nessuno, di essere patetico da fare schifo. Ancora le immagini di quello che aveva fatto, lo stato pietoso in cui si trovavano quei corpi senza vita, la ripugnante sensazione che lo aveva attanagliato quando si era reso conto di essere diventato un assassino. Aveva seriamente preso in considerazione l'idea di poter essere perdonato? L'alcol doveva avergli bruciato tutti i neuroni...
No...era imperdonabile. Tutto quello che aveva fatto era assolutamente imperdonabile.
― Per cosa?
Ad Eren sembrò che quella nota divertita nella voce dell'altro, quella che gli aveva dato il coraggio di scusarsi, era svanita completamente, come se se la fosse immaginata, lasciando spazio solo a quella domanda provocatoria. “Per cosa?”, come se non lo sapesse. La verità era che voleva sentirselo dire per farlo annegare ancora più in profondità nei suoi sensi di colpa, lo sapeva.
Non rispose a quella domanda, non sapeva come rispondere, non trovava le parole adatte. Sentì le lacrime pizzicargli gli angoli degli occhi e poi ancora la voce di Levi trafiggerlo come una lama affilata.
― Per avermi fatto perdere del tempo perché non stai attento alle tue cose? O perché non mi hai ringraziato per non averti rubato il portafogli?
Tutto qua? Si aspettava qualcosa di decisamente più...doloroso.
Quando quasi per caso i loro sguardi si incrociarono nuovamente, Eren si rese conto con stupore di quanto Levi sembrasse realmente confuso. Che diavolo di problemi aveva?
― M-ma no! Per...
Aspetta. Se era vero che due più due fa quattro, allora...Levi era come quello stupido di Jean e non si ricordava nulla della sua vita passata? Voleva dire che poteva ricominciare tutto da capo, come se quello che era successo mille anni fa non fosse realmente accaduto? Stava davvero vedendo la fine della tempesta?
― Per entrambe le cose ― rispose, sicuro come, da quando era entrato nel bar, non era mai stato. Doveva stare al gioco, ne valeva del suo presente e, perché no, del suo futuro. Ma c'era qualcosa, un piccolo particolare, che non quadrava... ― No! Aspetta. Come fai a sapere il mio nome?
A quel punto le sopracciglia di Levi si aggrottarono così tanto che rischiarono di scontrarsi al centro della sua fronte. ― Ma allora sei stupido ― disse con una franchezza disarmante che ricordò ad Eren il vecchio Levi. ― L'ho letto sui tuoi documenti, mi sembra ovvio. Mi serviva un recapito per renderti il portafogli e mi è caduto l'occhio anche sul tuo nome. Eren Jaeger, giusto?
Eren trattenne per un pelo un sospiro di sollievo. Non si ricordava davvero della loro vita passata. ― S-signorsì! ― rispose. Era davvero la fine di un incubo durato anni.
― Hai un bel nome.
E a quelle parole inaspettate, non poté fare a meno di arrossire ancora una volta. L'ex Caporal Maggiore Levi gli aveva fatto un complimento!?
― G-grazie. A-anche tu, Levi.
Ci fu qualche secondo di troppo di silenzio, in cui il barista fissò negli occhi Eren, ed Eren cercò di sostenere quello sguardo intimidatorio arrossendo sempre più.
Fu Levi ad interrompere quel silenzio imbarazzante dicendo, con il tono a cui Eren era abituato: ― Vuoi continuare a balbettare frasi sconnesse o ordini qualcosa, moccioso?
― I-io... ― No, no, non doveva balbettare. Non era una ragazzina, diamine, era un uomo. Si schiarì la voce e continuò, tentando di essere il più naturale possibile: ― Il piatto del giorno va bene. E dell'acqua naturale, grazie.
Levi digitò qualcosa alla cassa e, una volta consegnato lo scontrino al cliente, aspettò che Eren prima realizzasse arrossendo che doveva pagare e poi trovasse i soldi per farlo – cosa che gli prese qualche minuto, dato il caos che regnava nel suo zaino e nel suo portafogli, per non contare che tutte le monetine gli erano finite per terra e aveva provato a rifilare a Levi un paio di gettoni pensando fossero soldi –.
― Siediti dove vuoi, tra poco arriva.
Eren ringraziò ancora una volta, cosa che forse, se aveva visto bene, fece sorridere lievemente Levi, e andò a scegliersi un posto.
Decise di mettersi con le spalle verso il bancone e il viso rivolto verso la vetrata. La sua scelta non era certo dovuta al fatto che volesse guardare cosa succedeva dall'altra parte della strada – c'era un negozio di parrucche, nulla che, ancora, gli interessasse – , semplicemente voleva evitare di incontrare lo sguardo del barista e tornare ad arrossire come una ragazzina. E la cosa peggiore era che, nonostante gli avesse dato le spalle e non riuscisse a scorgere il riflesso di Levi nel vetro davanti a sé, sentiva il suo sguardo tagliargli il retro del collo, tanto che dovette massaggiarsi la parte per tentare di mandare via quella sgradevole sensazione.
Chissà a cosa stava pensando, mentre lo fissava in quel modo.
Anzi, chissà quale razza di “prima” impressione aveva fatto su di lui. Aveva la possibilità di ricominciare tutto da capo e finora l'unica cosa che era riuscito a fare era sembrare un deficiente.
I passi pesanti alle sue spalle lo fecero voltare verso Levi che portava la sua ordinazione, facendogli notare come la camicia della divisa gli calzasse divinamente e quanto fosse inseparabile dagli stessi anfibi che portava la prima volta che si erano incontrati. Era sicuro di conoscerne la marca. Forse “New Rock”? In ogni caso dovevano costare molto. Rabbrividì quando Levi gli fu abbastanza vicino, e il calore del suo corpo e il suo profumo lo sfiorarono delicatamente.
― Ecco a lei il suo “piatto del giorno”. Spero sia di suo gradimento. Buon appetito.
Il modo meccanico e annoiato con cui disse quelle frasi fece ridere sotto i baffi Eren. Chissà quante volte era stato costretto a dirle, da quando lavorava in quel posto; magari i suoi superiori si erano anche assicurati che le dicesse con un bel sorriso sulle labbra e con un'enfasi che a lui non aveva riservato.
― Grazie ― rispose, rivolgendo il suo sguardo al piatto che il cameriere gli aveva posizionato davanti al naso e che sembrava essere davvero delizioso.
Nel momento stesso in cui Levi tornò al bancone ed Eren cominciò a mangiare, entrò un gruppo di ragazze, probabilmente appena uscite da scuola, vogliose di rovinare le quiete che Eren aveva appena ritrovato.
Nella sua vita aveva avuto una o due ragazze e gli era bastato per realizzare che le femmine fanno un sacco di rumore e portano solo rogne. E no, non odiava le persone del sesso opposto, assolutamente. Solo preferiva starci alla larga. Beh, in casi speciali poteva anche diventarci amico, ma nulla di più.
In ogni caso, queste in particolare erano fin troppo rumorose, e se non avrebbero smesso di sghignazzare – o forse era più adatto dire starnazzare – nei prossimi cinque minuti, probabilmente Eren sarebbe esploso. Anche perché era quasi sicuro che in qualche modo stessero cercando di attirare l'attenzione di Levi.
Quando sentì la voce del barista dire alle ragazze di accomodarsi dove volevano, Eren era quasi a metà della sua pietanza e, se non fossero state delle ragazze, le avrebbe lanciato addosso quello che ne rimaneva, poiché, con tutti i posti liberi che c'erano, avevano scelto di sedersi proprio davanti a lui. Ora oltre a far rumore, a provarci con Levi e ad esistere gli stavano anche ostruendo la vista.
Decise di mantenere la calma, non che potesse fare altrimenti, e senza nemmeno accorgersene finì quello che aveva nel piatto.
Sentì ancora i passi pesanti di Levi dietro di lui e questa volta lo superarono, raggiungendo il gruppo di ragazze.
Seppur sembrasse così elegante mentre prendeva le ordinazioni dal vassoio e le appoggiava davanti alle clienti, Eren notò un velo di incertezza. Probabilmente non era da tanto che faceva quel lavoro.
― Ecco a voi le vostre ordinazioni. Spero siano di vostro gradimento. Buon appetito.
Sorrise. Adesso aveva la certezza che quello era il tono che riservava a tutti. Alla fine sembrava essere lo stesso Levi di sempre.
Guardò l'ora sullo schermo del suo cellulare e pensò che era ora di tornare in libreria; anche perché le risatine di quelle ragazze gli stavano letteralmente dando alla testa. Avrebbe tanto voluto fermarsi ancora un po' per scambiare quattro chiacchiere con l'ex Caporale ed assicurarsi che quelle tizie non allungassero le mani su di lui, ma alla fine dovevano lavorare entrambi e nessuno dei due aveva realmente il tempo di parlare.
Iniziò a raccogliere le sue cose e, poco prima di riuscire ad alzarsi, sentì ancora una volta i passi di Levi. E questa volta si fermarono davanti a lui.
― Hai finito? ― chiese indicandogli le stoviglie vuote e cominciando a sparecchiare solo dopo che Eren ebbe risposto annuendo.
Era strano sentire la sua voce così vicina e così chiara dopo aver passato anni interi a ridurre il ricordo del suono delle parole che uscivano da quelle labbra perfette ad un eco distante. E quando inaspettatamente la risentì, questa volta ridotta quasi ad un sussurro, sentì un brivido di piacere percorrergli la schiena, facendogli alzare lo sguardo dallo zaino verso il viso di cui aveva tanto segretamente sentito la mancanza.
― Quelle ragazze è da quando sono arrivate che non ti tolgono gli occhi di dosso.
Oh, wow, meraviglioso. Avevano davvero messo gli occhi anche su di lui? Lanciò una rapida occhiata al gruppo di ragazze per accertarsi che quello che gli era appena stato detto fosse vero ma, per quanto gli riguardava, quello che stavano guardando rimaneva Levi. Poi il fatto che fosse miope e poteva anche essersi sbagliato era assolutamente di secondaria importanza.
― A me sembra stiano guardando te ― disse, trovando la forza di alzarsi dalla sorprendentemente comoda sedia su cui aveva tenuto le chiappe appoggiate fino a quel momento.
Ci fu un secondo di silenzio e poi una risata sommessa. ― In tal caso penso che da oggi avrò parecchi clienti affezionati. ― Quando anche l'ultima stoviglia si trovò sul vassoio, Levi fece scivolare lo sguardo dalle sue mani agli occhi verdi dell' interlocutore. ― Grazie per essere stato qui. Arrivederci. ― Questa volta Eren lo vide chiaramente, il sorriso sulle labbra di Levi.
― Arrivederci ― rispose, ricambiando il sorriso.

 

 

~ 24 Ottobre 2015~

 

Nonostante avessero deciso di andare a passare la serata fuori e stessero anche per prepararsi per uscire, alla fine Armin ed Eren avevano ceduto al tepore della stufetta ed erano rimasti a casa a giocare con una vecchia Play Station e un picchiaduro che il moro aveva trovato a pochi euro al mercatino dell'usato.
Eren ancora non era riuscito a battere nemmeno una volta Armin, un po' perché quest'ultimo era più bravo di lui a fare qualsiasi cosa, un po' perché aveva la mente impegnata a p
ensare a come raccontargli di Levi e tutto quello che era successo in quegli ultimi giorni. Insomma, era andato a trovare il barista ad ogni pausa pranzo, dopo che aveva constatato che non si ricordasse nulla, e anche se all'inizio era felice della situazione che si era creata, con il passare dei giorni si era ritrovato la testa in preda al caos più totale. E ad Armin, anche se lo aveva visto e sentito durante quei giorni, non aveva ancora detto nulla. Né di Levi, né di nulla. E sí, doveva vergognarsi, soprattutto perché sapeva che Armin aveva capito che c'era qualcosa che non andava e non aspettava altro che aiutarlo.
All'ennesimo K.O., Eren si fece cadere sul letto, abbandonando il controller sullo stomaco e fissando lo sguardo sul soffitto.
Chissà se c'era la possibilità che Levi si ricordasse tutto. In fondo lui e Armin, fino a qualche anno fa, ignoravano completamente l'esistenza di una loro vita precedente. Ma era anche vero che Faccia da cavallo ancora non si ricordava nulla.
― Armin, ― iniziò, senza quasi accorgersi di aver chiamato l'amico. Non aveva seriamente intenzione di parlare, ma quando il biondo si girò verso di lui con un'espressione interrogativa sul volto, non poté fare altro che continuare. ― Jean si è ricordato qualcosa dei giganti e tutta quella merda?
Armin non rispose subito. Dai silenzi dell'amico, che non si lamentava come faceva di solito quando perdeva, aveva capito che aveva la mente altrove e, ora che aveva finalmente deciso di dirgli cosa lo turbasse, pensava fosse doveroso prestargli la sua totale attenzione. Con calma spense la console, raggiunse l'amico sdraiandosi accanto a lui sul letto e, quando fu comodo, rispose: ― Non ancora.
― E...secondo te quanta probabilità c'è che in quella testa vuota da cavallo si sviluppi un cervello e si ricordi qualcosa?
― Non saprei Eren. Ma in fondo è meglio così, non credi? Ha la fortuna di non ricordare nulla di tutte le cose orribili che abbiamo vissuto...
Pochi secondi dopo di silenzio, Armin puntò un gomito sul materasso e si sollevò quel tanto che bastava per guardare il viso di Eren e chiedere indagatore: ― Ma da quand'è che ti interessa di Jean?
Quello che seguì fu un lungo sospiro. ― Non è Jean il problema.
― Qual'è allora? ― Lo incitò a continuare il biondo, sollevandosi sempre più dal letto e cercando di capire, senza riuscirci, cosa diavolo passasse per la testa del moro.
Eren prese il suo tempo per rispondere, si sentiva come se stesse per lanciare una palla da bowling da venti chili e, quando tutto d'un fiato rispose: ― Levi ― , si sentì subito più leggero.
― Levi?! ― ripeté Armin incredulo, saltando quasi addosso ad Eren. Sapeva cosa voleva dire Levi per Eren; ai tempi l'amico gli raccontava tutto quello che succedeva tra lui e il Caporale.
― L'ho incontrato più o meno una settimana fa in stazione e martedì l'ho trovato che lavorava in un bar non troppo lontano dalla libreria. All'inizio pensavo che mi stesse evitando, ma poi ho capito che non si ricordava nulla ― spiegò subito Eren mettendosi a sedere e trovando piacevolmente più facile parlare, ora che quel peso che si sentiva sul petto si era notevolmente alleggerito.
― Ma è una cosa positiva, no? Perché cavolo non me l'hai detto prima? Era questo che mi nascondevi, vero? Perché?
― Per lo stesso motivo per cui qualche anno fa ho deciso di non pensare più a lui ― rispose Eren accompagnando la frase con una risata amara e passandosi il palmo delle mani sugli occhi.
― ...Ti senti ancora in colpa per quello che è successo più di mille anni fa? ― chiese il biondo sottolineando con forza la parola “mille”. Gli sembrava impossibile che ci pensasse ancora a quegli avvenimenti ma, quando vide l'altro abbassare velocemente la testa e mordersi l'interno della guancia, dovette ricredersi. ― Eren, non l'avresti mai fatto se fossi stato in te...e in ogni caso è acqua passata.
― E se invece era proprio quello che volevo fare? In fondo non ricordo perché ho perso il controllo del mio titano. Magari il mio obiettivo in quel momento era uccidere tutti.
Odiava sentirgli dire certe cose e, a quelle parole, Armin prese un cuscino e glielo tirò in piena faccia. Se fosse stata una persona più violenta gli avrebbe direttamente tirato un pugno; comunque non lo fece molto forte, alla fine Eren era il suo migliore amico e in quel momento il suo obiettivo non era certo rimescolargli i connotati.
― Ciò non toglie il fatto che sia acqua passata. Adesso ci sono problemi ben più importanti a cui pensare. I giganti e tutto il resto non esistono più.
Eren recuperò il cuscino che Armin gli aveva lanciato e se lo strinse al petto. In quel momento si sentiva ancora più confuso di quanto già non fosse.
― Sai, quando mi sono accorto che non si ricordava nulla ho pensato davvero che era l'inizio di una nuova vita. “Beh, finalmente ho ritrovato Levi e possiamo stare insieme, senza avere paura di essere separati. Possiamo continuare quello che abbiamo iniziato mille anni fa”, mi sono detto. Poi però ho pensato a cosa succederebbe se si ricordasse quello che gli ho fatto e iniziasse a guardarmi con disprezzo. Sarebbe come cadere in un baratro e io non voglio. Non voglio che mi odi. Non voglio che si allontani da me...Cosa pensi che dovrei fare? ― chiese Eren, tenendo lo sguardo basso e sembrando infinitamente piccolo.
― Beh...Comportati come se nulla fosse. Non avere paura di riallacciare i rapporti, se è quello che vuoi, e se dovesse ricordarsi qualcosa è perché doveva andare così. In ogni caso sono sicuro che anche se si ricordasse cosa è successo, Levi non gli darebbe molto peso. Alla fine ora è vivo e vegeto, no? E tu non hai intenzione di fargli del male. ― Armin provò a sorridergli rassicurante, sperando che l'altro lo notasse.
Il moro annuì a testa bassa, poi inaspettatamente tirò di rimando il cuscino in faccia ad Armin. Con decisamente meno delicatezza di quanto non avesse fatto il biondo, tanto che lo fece cadere steso sul letto. Beh, mica era colpa sua se non sapeva dosare la sua forza.
― Non ti ho ancora battuto ― disse, mentre l'amico lo guardava confuso e controllava di non star sanguinando dal naso. ― Non ti ho ancora battuto, al videogioco ― specificò sogghignando.
― Oh. ― rispose Armin mettendosi a sedere. ― Ti avviso, non ti basterà tutta la notte per riuscirci.

 

 

~ 27 Ottobre 2015 ~

 

La conversazione con Armin era stata a dir poco illuminante. Doveva ammettere che, prima di aver sentito il suo parere, aveva pensato di sparire dalla vista di Levi prima di fare disastri al quale trovare rimedio sarebbe stato pressoché impossibile.
Ma ora si sentiva bene e sicuro di sé. Si sarebbe goduto appieno i momenti passati con il barista e anche se non avevano mai il tempo di scambiarsi più di poche battute, Eren si sarebbe accontentato di essere nello stesso posto in cui si trovava Levi. Certo, gli sarebbe piaciuto trovare l'occasione per chiacchierare allegramente con l'ex Caporale ma per ora poteva ritenere una vittoria il fatto di essere in buoni rapporti con la persona che, fino a qualche giorno prima, credeva volesse ucciderlo.
Si fermò davanti ad un semaforo rosso e fece un paio di respiri profondi, creando delle nuvolette di vapore che si dispersero velocemente nell'aria impregnata del profumo delle caldarroste vendute in strada. Il capo l'aveva trattenuto di nuovo più del dovuto a lavoro così si era ritrovato quasi a correre verso il bar e a fare lo slalom fra la gente, per sfruttare il tempo che gli era rimasto per la pausa pranzo. Probabilmente avrebbe dovuto denunciarlo, quell'uomo, o meglio ancora, avvelenarlo, ma la verità era che aveva un fottuto disperato bisogno di quel lavoro. E il capo lo sapeva, quel bastardo, che non perdeva occasione di sfruttarlo. Fanculo Proust, fanculo Kafka, e fanculo tutti i sorrisini finti che gli faceva, quell'uomo era solo uno stronzo. Allo scattare del verde, si precipitò sulle strisce pedonali, schivando agilmente un passante che stava per investirlo e andando a sbattere contro un altro che proprio non aveva visto. Si fermò per scusarsi ma, a giudicare dalle imprecazioni che l'altro gli rivolse, suppose che non era disposto a perdonarlo. Beh, fanculo pure a lui, allora. Arrivato dall'altra parte della strada controllò l'ora. Era in ritardo di quasi venti minuti, quindi accelerò il passo.
Quando arrivò al bar, Levi stava servendo un altro cliente e, quando si accorse della presenza di Eren, lo salutò con un cenno della testa.
― Pensavo non saresti venuto ― gli disse, dopo essere tornato al bancone e aver preso uno strofinaccio per pulirlo dalle macchie di caffè lasciate dai clienti precedenti.
― Scusa, ho avuto da fare a lav-
― Sai, ― lo interruppe Levi, facendo schioccare lo strofinaccio nella sua direzione e facendo saltare Eren sul posto, per poi riprendere a pulire. ― ieri mi è venuta un'idea. Che ne dici se una sera andiamo a mangiare qualcosa fuori? Così, per parlare.
Eren sgranò gli occhi e arrossì di colpo. Aveva capito bene? Levi gli aveva appena chiesto un appuntamento!?
― C-ce l'hai con me...?! ― chiese con voce fin troppo acuta, in un misto di sorpresa, sgomento, confusione ed euforia.
Levi sospirò esasperato e si lasciò cadere con i gomiti sul bancone. ― No, con quel tizio che sta passando ora fuori. Mi sembra ovvio che ce l'ho con te moccioso. ― Quando spostò lo sguardo sul viso del''interlocutore notò un leggero rossore sulle sue guance, che lo fece scattare sull'attenti. ― Non farti strane idee, moccioso. Non è un appuntamento ― chiarì, assottigliando gli occhi.
Eren rispose agitando le mani davanti a sé e facendo un passo indietro. ― No, no, certo che no. Non mi era nemmeno saltato per la testa, figurati! Oh, ehm, per me va bene.
― Questo venerdì? ― chiese freddo il barista, rimettendosi a pulire.
Eren annuì. ― Non c'è problema.
― Mi raccomando. Mettiti qualcosa di elegante.
― O-ok...
― Perfetto ― rispose infine Levi, appoggiando lo strofinaccio chissà dove e tornando alla cassa. ― Ti faccio preparare il piatto del giorno?

 

 

Note dell'autrice:
Ciao con un ritardo assurdo! Pensavate fossi morta, eh? E invece nooo!
Avevo detto che non sarei riuscita ad aggiornare prima dei dieci giorni che in teoria mi ero prefissata ma non credevo nemmeno io che ci avrei messo così tanto a finire di scrivere questo capitolo, anche perché avevo già tre pagine pronte, che ho dovuto revisionare perché non mi convincevano per nulla...e continuano a non convincermi, insieme a tutto il resto del capitolo >.> – maledette manie di perfezionismo –. Mi giustificherò dicendo che, tra cosplay da preparare per Lucca, problemi famigliari, quasi una settimana passata fuori casa, e manciate di giornate passate a pensare al senso della vita, non ho avuto quasi per nulla del tempo libero da usare per scrivere.
Questo vuol dire che ora che il peggio è passato riuscirò ad essere puntuale con gli aggiornamenti? ù.u ahahah, certo che no! Giuro che ci proverò ad essere puntuale (in dieci giorni sono sicura che non riesco a scriverlo un capitolo, forse in venti .-. lo so, sono lenta) ma non vi prometto nulla. Comunque sappiate che per ora non ho intenzione di abbandonare la storia – ci mancherebbe altro, sono solo al terzo di una ventina di capitoli –, quindi vi basterà pazientare un po' per sapere cosa succederà.
Spero possiate perdonarmi .___.
In ogni caso, se volete assicurarvi che tra un capitolo o l'altro non sia morta, vi informo che nei bottoni dei social trovate il link al mio profilo facebook ù.u oppure, se vi è più comodo, potete cliccare qui. O qui. Oppure qui. Non fatevi scrupoli a scrivermi un mp, che a quelli rispondo sempre :3
Arrivederci, ci si vede u.u

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Capitolo 4
*** ...Forse ***


 ...Forse


~ 30 Ottobre 2015 ~


Quel venerdì non era passato dal Teezeit Bäckerei come era solito fare e, appena era arrivato a casa dalla sua mezza giornata lavorativa – non proprio mezza perché, come sempre, era stato trattenuto in libreria più del dovuto –, si era fiondato nell'armadio a cercare qualcosa di elegante da mettere quella sera.
Il giorno prima Levi gli aveva riferito l'ora e il luogo in cui si sarebbero dovuti incontrare – alle sei e mezza del pomeriggio in una stazione della metro che non conosceva – e, anche se Eren aveva lottato tanto per farsi dare il suo numero di cellulare perché "si beh, non si sa mai, magari succede qualche imprevisto e sai com'è...", Levi, probabilmente intuendo i suoi secondi fini, non aveva ceduto, e aveva aggiunto che il non poterlo avvisare di eventuali imprevisti doveva essere un pretesto per starne lontano ed arrivare puntuale. Tipico di Levi.
Rovistò tra i vestiti puliti alla ricerca di una camicia che poteva spacciare per elegante e che era sicuro si stesse nascondendo in qualche angolo remoto del cassetto. Doveva esserci, diamine. Chi non ha una semplice camicia bianca senza disegni strani, magari regalata da qualche parente poco fantasioso, appallottolata nell'armadio e che sbuca fuori quando serve? E pensare che Armin si era proposto di prestargli qualcosa, nel caso gli servisse, ma lui era più che sicuro di avere quel che gli serviva nell'armadio. Almeno fino a quel momento.
A proposito di Armin, questa volta Eren non gli aveva nascosto nulla e, quando gli aveva rivelato che Levi lo aveva invitato ad uscire per cena, il biondo aveva fatto dei salti di gioia e gli aveva fatto promettere che l'avrebbe tenuto aggiornato sugli eventi. E in tutto questo sembrava essere più entusiasta di Eren stesso. Anzi, lo era sicuramente, almeno lui non aveva l'ansia di dover essere in quel posto che non conosceva, alle diciotto e trenta minuti in punto e con indosso "qualcosa di elegante" che non riusciva a trovare da nessuna parte.
In un impeto di rabbia sfilò il cassetto dall'armadio e ne rovesciò il contenuto sul letto, per poi pentirsene subito dopo. Se solo avesse avuto più tempo sarebbe andato a comprarsi qualcosa ma a quel punto doveva cavarsela con quello che aveva, ovvero più o meno nulla. Non poteva nemmeno contare sull'aiuto dell'amico che in quel momento stava lavorando e, in qualunque caso, vestiva almeno una taglia più piccola della sua.
Si lasciò cadere sul letto, dove i suoi vestiti giacevano tristemente, e si prese la testa tra le mani. Era davvero possibile che un mucchietto di stoffa gli avrebbe rovinato la giornata?
Se Levi gli avesse dato il suo numero a quest'ora si sarebbe inventato una scusa per posticipare l'appuntamento. Ah, no, Levi non voleva che lo chiamasse “appuntamento” anche se, per quanto si sforzasse, non riusciva a trovargli un nome alternativo.
Aaah, al diavolo! Quello era un appuntamento in piena regola! Altrimenti perché doveva sentirsi così in ansia?
Con un colpo di reni si tirò su e rimise il cassetto al suo posto; ai vestiti che aveva sparpagliato sul letto ci avrebbe pensato quando sarebbe tornato dalla cena.
Decise di archiviare per il momento la questione “camicia” che lo stava facendo letteralmente impazzire, quindi aprì l'anta dell'armadio e, rovistando tra le giacche, ne trovò una grigio scuro piuttosto elegante. Non aveva la benché minima idea di quando l'avesse comprata, sempre se l'aveva comprata lui, ma in quel momento l'unica cosa a cui riusciva a pensare era che bene o male, grazie a Dio, ora aveva qualcosa da mettere.
La ricerca dei pantaloni fu piuttosto facile, per le scarpe decise di indossare le sue fidate Converse e, quando aprì uno dei cassetti per munirsi di boxer e andare a fare una doccia, trovò la camicia che tanto aveva cercato, lì, accartocciata in un angolo a prendersi beffa di lui. ― Stronza ―, sussurrò tra i denti, andando a prendere contro voglia l'asse e il ferro da stiro. Forse era arrivato il momento di sistemare la roba nei cassetti e dargli un ordine logico...Sì, prima o poi l'avrebbe fatto, ma non oggi.
Armandosi di tanta pazienza, riuscì ad ottenere una camicia perfettamente stirata e, per evitare di dover lottare con altre pieghe, la appoggiò sullo schienale di una sedia.
Recuperò i boxer che aveva tirato fuori dal cassetto e andò a farsi una doccia veloce, giocò qualche minuto davanti allo specchio con i capelli bagnati e sperimentò qualche acconciatura, magari tirandoli indietro sarebbe sembrato una persona più seria. E invece no, sembrava solo uno psicopatico; quindi li asciugò come era solito fare ed uscì dal bagno.
Sorprendentemente si rese conto di essere in anticipo e si poté quindi permettere di oziare davanti alla televisione per qualche minuto, sdraiato tra i vestiti che si era ripromesso di sistemare più tardi e, quando arrivò l'ora, indossò i capi che aveva scelto – anzi, trovato – ed uscì di casa.
In una decina di minuti raggiunse la stazione della metropolitana più vicina, passò i tornelli e prese, finalmente, il treno.
Ad ogni fermata annunciata si sentiva sempre più agitato e ad un certo punto iniziò a sentire il suo cuore battere così forte contro lo sterno che per un attimo ebbe paura che potesse uscirgli dal petto e farsi una passeggiata per conto suo. Non aveva idea di cosa aspettarsi da quell'appuntamento, in fondo era la prima volta che uscivano insieme; senza avere paura di essere divorati da un momento all'altro da un gigante, si intende. E no, le volte in cui si erano incontrati di nascosto nelle stalle non si potevano considerare appuntamenti.
Mandò un messaggio ad Armin. Gli scrisse che alla fine aveva trovato qualcosa da mettere, che aveva preso la metropolitana e che c'era puzza di cane bagnato. Lo fece più per smorzare l'ansia che per altro. In fin dei conti era quasi sicuro che ad Armin non interessasse nulla di quello che aveva scritto, lui moriva dalla voglia di sapere cosa sarebbe successo con Levi. E a dirla tutta avrebbe tanto voluto saperlo anche lui. Quali erano le sue intenzioni? Era un tipo da sesso al primo appuntamento e aveva intenzione di farlo ubriacare per rendere le cose più facili? Non che ci fosse il bisogno di farlo ubriacare per portarselo a letto. O forse voleva davvero solo parlare? In ogni caso il fatto che si trovasse lì, con il cuore in gola, a contare le fermate che lo separavano da lui, voleva dire solo una cosa: aveva catturato la sua attenzione.
Questo però non lo aiutò a tranquillizzarsi e, come se non bastasse, l'ansia sfociò nella terribile sensazione di essersi dimenticato qualcosa di importante. Si controllò le tasche del cappotto, che non aveva abbottonato, più volte per accertarsi che avesse tutto ma, poiché sembrava non mancare nulla, provò a rilassarsi e a non pensarci più.
Ci volle parecchio tempo per raggiungere la stazione dove Levi gli aveva dato appuntamento, quasi un'ora per essere precisi, ma alla fine arrivò e riconobbe anche l'uscita che l'altro gli aveva detto di seguire. Lentamente salì le scale e ad ogni gradino sentiva il dubbio di non trovarci nessuno in cima – o perché l'ex Caporale l'aveva preso in giro o perché aveva sbagliato fermata – farsi sempre più forte. Entrambe le possibilità lo spaventavano da morire. Comunque la figura esile e scura che si materializzò gradualmente davanti a lui come un miraggio mandò via ogni preoccupazione, facendogli stirare le labbra in un sorriso rilassato.
Levi si accorse della presenza dell'altro solo quando gli fu praticamente davanti e, senza dire nulla, controllò il suo orologio da polso. Intorno a lui l'aria odorava di fumo ma ad Eren non diede particolarmente fastidio, anzi, trovava che si sposasse perfettamente con il suo profumo.
― Sono in orario? ― chiese infine, dopo aver studiato attentamente ogni particolare di Levi che nel suo completo nero era incredibilmente sexy. Anche se aveva preso a guardarlo torvo.
― Sì, ma non hai la cravatta, moccioso.
E in un secondo Eren sentì il mondo cadergli addosso e schiacciarlo sull'asfalto. Ecco cosa si era dimenticato. E si sentiva stupido, infinitamente stupido. Come diavolo aveva fatto a scordarsene?!
Levi gli rivolse l'ennesimo sguardo accigliato seguito da un lungo sospiro, che fece chiedere ad Eren cosa avesse sbagliato nella sua intera vita. Perché qualcosa l'aveva sbagliata per forza.
― Non ci faranno entrare se non hai la cravatta.
Se avesse avuto una pala a disposizione, il castano in quel momento si sarebbe scavato una buca profonda due metri e ci si sarebbe calato dentro.
Abbassò lo sguardo e si tirò un paio di cazzotti immaginari in piena faccia. Provò a scusarsi ma le parole gli si strozzarono in gola quando sentì la morsa della mano di Levi stringergli il polso e tirarlo verso la strada.
― Dai, muoviti, prima che la prenotazione che ho fatto vada a puttane e al posto della cena ci ritroviamo a fare colazione al McCafé.
Dal suo tono di voce non sembrava essere particolarmente arrabbiato e il fatto che avesse ugualmente intenzione di mandare avanti l'appuntamento, nonostante il suo accompagnatore fosse una totale testa di cazzo, fece sentire Eren un po' meno una merda.
Lo seguì silenziosamente sulle strisce pedonali e poi dall'altra parte della strada, tenendo lo sguardo fisso sulla mano che stringeva il suo polso. Arrossì lievemente e gli dispiacque parecchio avere le maniche lunghe e non riuscire a sentire direttamente sulla sua pelle il contatto di quella del Caporale che, tra l'altro, lo sentiva attraverso la stoffa, era gelata. Se solo non fossero stati poco più che degli sconosciuti gli avrebbe preso le mani e gliele avrebbe scaldate tra le sue.
Per un istante quell'immagine gli trapassò la mente come un proiettile vagante. Aveva già tenuto le mani di Levi strette tra le sue in passato, e in quell'occasione erano più fredde di quanto non fossero in quel momento. Fredde come un cadavere, pensò senza volerlo. Provò a sopprimere quel ricordo che si stava facendo strada nella sua mente cercando di focalizzare la sua attenzione su quello che lo circondava ma, prima ancora di accorgersene, la città intorno a lui sparì, per fare spazio ad uno sfondo fatto di alberi giganti e un tramonto rosso come non l'aveva mai visto. Sentì un profondo senso di tristezza premergli sul petto, la puzza di smog sostituirsi a quella stucchevole del sangue mescolato a quello della foresta. Si sentì cadere a terra, l'erba umidiccia bagnargli le ginocchia attraverso i pantaloni, il sapore delle lacrime invadergli la gola e la bocca, poi il viso pallido di Levi e le sue mani gelate e insanguinate tra le sue.
Inspirò rumorosamente e ritrasse il braccio che l'altro gli stava stringendo, come se la mano stretta attorno al suo polso avesse preso improvvisamente a scottare.
Come era sparito, il grigiore della città, con i suoi rumori e odori, era tornato a circondarlo, ed Eren non fu mai così felice di avere i polmoni pieni di inquinamento.
Quel flash era durato pochi secondi, ma erano stati abbastanza perché le vene sulle sue tempie iniziassero a pulsare e la sua testa a girare, tanto che dovette appoggiarsi alla vetrina del negozio davanti alla quale Levi si era fermato, prima di poter anche solo immaginare di fare qualche altro passo.
― Stai bene? Sei pallido. ― La voce di Levi gli arrivò alle orecchie leggermente ovattata, ma fluida come il miele e condita da una leggera nota preoccupata che fece colorare delicatamente le guance al più alto.
― È solo un calo di pressione. Ma sto già meglio ― mentì, leggermente affannato. Provò a tornare a stare in equilibrio sulle sue gambe ma si accorse di star tremando. Maledetti, maledetti ricordi che tornavano a galla nei momenti meno opportuni. Respirò a fondo e gli sembrò di essere stato in apnea per troppo tempo.
― È colpa della droga ― lo canzonò l'altro, forse in un goffo tentativo di far riprendere l'altro, che aggrottò le sopracciglia e si mise subito sulla difensiva.
― Io non mi drogo! ― esclamò, non capendo da dove diavolo avesse tirato fuori quell'affermazione.
No, ok, pensandoci meglio poteva immaginarlo.
― Hai bisogno di un po' d'acqua, comunque?
Scosse la testa. ― No. No, te l'ho detto, sto bene. ― Sorrise. Effettivamente si sentiva meglio. Era ancora leggermente scombussolato, ma perlomeno aveva smesso di tremare e questo gli avrebbe consentito di camminare senza aver paura di ritrovarsi magicamente a terra. ― Andiamo?
Levi annuì ed entrò nel negozio davanti alla quale si erano fermati, ed Eren non ebbe altra scelta che seguirlo, sebbene leggermente confuso.
Ma appena mise piede dentro non gli ci volle molto per capire cosa erano entrati a fare, data la quantità spropositata di cravatte sistemate ordinatamente negli appositi scomparti.
Il pavimento di marmo e gli eleganti scaffali in legno di mogano lo fecero sentire leggermente a disagio, non era abituato a tutto quel lusso e, nonostante gli abiti che indossava si accordassero all'ambiente, si sentiva assolutamente fuori luogo.
Accorciò le distanze con Levi, come se in quel posto ci fosse qualcosa da cui solo il Caporale potesse difenderlo, e la sensazione di inadeguatezza quasi svanì.
― Quale ti piace?
Eren sobbalzò quando sentì la voce del Caporale, come se la barriera che si era costruito attorno fosse scoppiata come una bolla di sapone.
― Oh, ehm...forse... ― rispose biascicando le parole e prendendo in mano quella più vicina. Non perché fosse quella che più gli aggradava, semplicemente perché era la più vicina. In fondo lui non ci capiva nulla di cravatte.
Levi sospirò avvilito, ed Eren riuscì a sentire il suono del suo cuore spezzarsi per l'ennesima volta. Cosa aveva sbagliato ancora?
―Quella è da giorno ― lo informò l'altro, cercandone una che andasse bene, per poi estrarre dal suo scomparto una cravatta scura decorata da delle sottili righe oblique verdi e turchesi. ― Questa penso ti stia bene ― disse, avvicinandola al collo del castano.
Eren annuì a testa bassa. Doveva ammettere di essere una frana, più provava a non fare casini e più ne faceva. E ancora non si era scusato per il disagio che aveva creato.
― Scusami, Levi.
― Non importa ― rispose il Caporale, dirigendosi verso la cassa e facendo segno all'altro di seguirlo. ― Non hai fatto nulla a cui non si potesse trovare rimedio.
Il cassiere batté lo scontrino ed Eren rimase impietrito e con gli occhi sbarrati quando vide un numero a tre cifre comparire sullo schermo. Con quella cifra faceva la spesa per due settimane se non di più. Rinvenne solo quando vide Levi pagare con la sua carta di credito, probabilmente timoroso di perdere dell'altro tempo nell'aspettare Eren, che ogni volta che provava a tirare fuori i soldi dal portafogli li faceva puntualmente cadere a terra. Salutarono educatamente il ragazzo alla cassa ed uscirono dal negozio per fermarsi qualche passo più avanti.
― Appena possibile ti restituirò i soldi.
― Figurati. È un regalo ― intervenne immediatamente Levi, passando la cravatta al castano senza lasciargli la possibilità di ribattere. ― Avanti, mettila.
Quand'era stata l'ultima volta che ne aveva indossata una? Sicuramente un sacco di tempo fa, perché si ricordava solo vagamente come annodarla e, una volta dimostrate le sue scarse capacità in materia, il Caporale non poté non notarlo.
― Un nodo così brutto non lo fa nemmeno mio nonno cieco col parkinson ― sentenziò, slegando l'obbrobrio che Eren aveva creato e riannodando la cravatta in un elegante nodo a dir poco perfetto, aggiungendo poi quasi tra sé e sé: ― Non sei abituato a queste cose, eh?
― Tu invece mi sembri piuttosto a tuo agio ― disse il più alto, prima ancora di accorgersi che la sua lingua si era messa in funzione e aveva esposto quello che stava pensando. Tutta colpa della pericolosa vicinanza con Levi che non faceva altro che sfiorargli il petto con le sue dita sottili, intento a fare quel maledetto nodo che Eren sapeva non sarebbe mai riuscito a replicare. Comunque ormai era tardi per tornare indietro, e le parole uscirono dalla sua bocca praticamente da sole. ― Mi chiedo come sei finito a lavorare in un bar modesto come quello.
In risposta Levi strinse bruscamente il nodo attorno al collo di Eren, strappandogli un debole sussulto sorpreso.
― Non sono affari tuoi ― sibilò, gli occhi ridotti a due fessure puntati sull'interlocutore che si ritrovò a deglutire a vuoto. Fortunatamente quello sguardo intimidatorio si addolcì pochi istanti dopo, proprio come la cravatta attorno alla gola del più alto che Levi allentò con calma, come a scusarsi per la reazione forse troppo esagerata che aveva avuto. ― Si è fatto tardi. Muoviamoci ― disse, prima di voltarsi e incamminarsi verso la loro meta. E ad Eren non restò che tornare a seguirlo.

Il ristorante in cui Levi lo portò era come quelli lussuosi che si vedono nei film, con la luce soffusa, i clienti vestiti elegantemente e una decina di posate apparentemente tutte uguali sistemate ordinatamente sul tavolo. Non poté fare a meno di guardarsi intorno e chiedersi cosa diavolo fosse passato per la mente del Caporale quando aveva deciso di portarlo lì.
Il cameriere che li accolse li accompagnò al loro posto, consegnandogli la lista dei piatti e congedandosi farfugliando qualcosa in francese che Eren capì a malapena, non conoscendo la lingua. Sentì lo stesso senso di inadeguatezza e disagio che aveva provato nel negozio tornare a tormentarlo, e focalizzare la sua attenzione sui nomi assurdi dei piatti elencati nel menù, per tentare di scacciare la sensazione di avere lo sguardo di tutti puntato addosso, non servì a molto.
Probabilmente rimase con la testa dentro il menù per parecchi minuti, perché l'ex Caporale gli chiese se aveva scelto cosa prendere con lo stesso tono di qualcuno che aspetta solo l'altro per ordinare. E la risposta di Eren fu un “No” secco, seguito da una risata nervosa. ― Sono davvero alti i prezzi, e la maggior parte delle cose non so cosa siano.
A questo punto si sarebbe aspettato l'ennesimo sospiro esasperato di Levi, ormai si era abituato a sentirli, quasi iniziavano a piacergli. Invece quello che sentì fu un comprensivo: ― Non preoccuparti dei prezzi, offro io. Se non sai cosa prendere posso ordinare qualcosa al tuo posto.
Pensare di far spendere tutti quei soldi a Levi, un quasi perfetto sconosciuto, che lavorava in un bar da quattro soldi e che non era sicuro avesse davvero tutti quei soldi da spendere per una cena – senza contare la cravatta di prima – lo mise a disagio. Quello che però lo fece cedere fu lo sguardo minaccioso che gli stava rivolgendo e che diceva chiaramente: “Offro io, moccioso, non provare a dire di no”.
― Va bene, va bene! ― rispose, mettendo le mani avanti come a supplicare di non fargli del male. ― Ma prima o poi ti offrirò io qualcosa.
Il Caporale rispose con un mezzo sorriso, che somigliava più ad un ghigno, e con un cenno chiamò il cameriere che arrivò davanti al loro tavolo con un taccuino in una mano e una penna nell'altra, pronto a prendere appunti. Eren non ebbe idea di che cosa Levi ordinò, dato i nomi delle pietanze pronunciati con un accento francese perfetto che non lasciavano intendere nemmeno per sbaglio a cosa si riferissero. Comunque decise di fidarsi di lui, infondo avrebbe mangiato qualunque cosa gli sarebbe capitata davanti.
― Parli bene il francese ― osservò Eren, non appena il cameriere si allontanò lasciando i due nuovamente soli. ― Magari suoni anche il pianoforte e degusti vini raffinati in bicchieri di cristallo ― continuò, prendendo tra le mani il calice a pochi centimetri da lui e muovendolo come se contenesse del prezioso liquido rosso. Era una figura così stereotipata che gli venne spontaneo ridacchiare sotto i baffi.
In risposta gli arrivò l'eco della sua stessa risata, solo condita da una buona dose di ironia. ― Sì, lo faccio. Sono felice che la cosa ti diverta.
Il viso di Eren a quel punto prese fuoco, o almeno, fu quella la sensazione che il ragazzo avvertì, e senza quasi nemmeno accorgersene, iniziò a parlare a raffica, come se la valanga di scuse che stava vomitando potesse coprire quello che aveva detto.
― Eren, ― sospirò Levi, fermando il suo accompagnatore che non accennava a tornare del suo colore naturale. ― vuoi sentire un paio di parolacce in francese?
― N-non mi sembra il caso ― rispose titubante Eren, non riuscendo a capire, dallo sguardo gelido dell'altro, se stesse scherzando o no.
A quel punto Levi si sporse leggermente in avanti ed Eren pensò di sciogliersi, tanto era il caldo che aveva iniziato a sentire in tutto il corpo. Poi sibilò seccato: ― Allora smettila di parlare a vanvera.
Quasi magicamente in mezzo al tavolo comparve una bottiglia d'acqua che fece immediatamente rinfrescare l'atmosfera infuocata – se per la vergogna o per l'eccitazione era ancora da decidere – che si era creata. Eren ringraziò il cameriere, forse più per aver interrotto quella situazione che per altro, e si riempì il bicchiere fino all'orlo. Aveva la gola secca e un disperato bisogno di reidratarsi.
― Ho vissuto una decina di anni in Francia ― spiegò Levi, prima che il silenzio che si era posto tra loro diventasse imbarazzante. ― È per questo che lo parlo bene.
Ad Eren quella confessione non fece altro che piacere, la interpretò come un'iniziativa da parte del Caporale di farsi conoscere, di rivelargli frammenti della sua vita che magari non aveva svelato ancora a nessuno. ― È bella la Francia? ― gli venne spontaneo chiedere, con le labbra piegate in un dolce sorriso.
Levi scrollò le spalle. ― Non me la ricordo ― disse, aggiungendo velocemente, senza lasciare il tempo ad Eren di fargli altre domande: ― Allora, dimmi. Dove ci siamo già incontrati?
― Ehm...al bar? ― rispose titubante l'altro, sostituendo il sorriso con un'espressione confusa.
A quell'affermazione il viso di Levi si incupì e ad Eren bastò guardarlo per capire ed iniziare a sudare freddo. ― Prima, moccioso.
― In metro ― si corresse, provando inutilmente a depistarlo.
Ed eccolo, l'ennesimo sospiro del Caporale. ― Prima. Non sono stupido, Eren.
― N-non ti seguo ― ammise, ed in parte era vero.
― Io il tuo nome l'ho letto sulla carta d'identità. Tu, il mio?
Eren fece due più due ed intuì con profonda vergogna che era stato così stupido da averlo chiamato per nome senza che Levi gli avesse detto come si chiamava. Avrebbe tanto voluto nascondersi sotto il tavolo e far finta di non esistere ma, non essendo possibile – insomma, che figura ci avrebbe fatto? –, rispose quello che gli sembrò più logico rispondere: ― S-sul cartellino della divisa.
― Non c'è nessun cartellino sulla mia divisa ― ribatté il più basso, con l'espressione più impassibile che Eren avesse mai visto.
― Beh, allora me l'hai detto tu. ― Insomma, da qualche parte doveva pur essere uscito questo maledetto nome. Non era possibile che si fossero incontrati più di mille anni fa quando i giganti gironzolavano felici per la città divorando persone innocenti e, dopo essere stati ammazzati nei peggiori dei modi, si erano reincarnati in delle persone identiche ai loro vecchi io e, guarda caso, avevano anche lo stesso nome. Assolutamente.
― Non credo proprio. Ti assicuro che me lo ricorderei.
Con grande sollievo di Eren, il cameriere tornò portando le ordinazioni ed interrompendo una conversazione dalla quale senza il suo aiuto, probabilmente, il castano non sarebbe riuscito ad uscire. Trattenne l'istinto di saltare tra le braccia del cameriere e si concentrò nel tentare di decifrare cosa diavolo ci fosse nel suo piatto.
― Boeuf bourguignon ― gli suggerì Levi. ― Spero ti piaccia.
Eren titubante assaggiò quella che sembrava essere carne mista a verdure e, con suo grande stupore, scoprì che non era niente male.
I due iniziarono a mangiare, avvolti dallo stesso silenzio imbarazzante che, qualche minuto prima, aveva minacciato di avvolgerli in un freddo abbraccio. Questa volta, però, ad Eren non dispiacque: non era preparato ad affrontare quel discorso e, ora come ora, non aveva nessuna intenzione di raccontargli come si erano incontrati. Non c'era nessun motivo per cui avrebbe dovuto farlo e i contro erano più dei pro. Anzi, se doveva essere sincero non gli sarebbe dispiaciuto rimanere così per sempre, con il Caporale che non gli poneva nessuna domanda a cui non avrebbe voluto rispondere, e lui che si godeva la sensazione di essersi ricongiunto all'uomo che aveva amato.
Ma a Levi importava ben poco cosa volesse Eren e, appena finì quello che aveva nel piatto, distrusse il vetro di silenzio che si era posto tra loro.
― Forse ho capito dove ci siamo già visti. Andavamo nello stesso liceo, vero? Eri nella classe vicino alle scale per il bar, mi fissavi sempre durante l'ora di educazione fisica.
Al castano, inizialmente, si era gelato il sangue nelle vene e per poco un boccone non gli finì di traverso ma, dopo aver sentito il resto della frase, sentì ogni suo muscolo distendersi e rilassarsi. A quel punto non gli rimaneva altro da fare se non sfoderare tutte le sue abilità di attore e recitare la parte che Levi gli aveva assegnato.
― Ah, cavolo! Mi hai scoperto... ― disse, cercando di sembrare più naturale possibile. ― E io che pensavo non mi avessi notato
― Come potevo non notarti, con gli occhi che ti ritrovi? ― rispose l'altro impassibile, facendo inevitabilmente arrossire il suo interlocutore che accennò a tornare di un colorito vagamente umano solo quando il Caporale estraesse da una tasca interna della sua giacca un blocchetto da disegno e glielo porse aggiungendo: ― Guarda questi.
Eren, incuriosito ma al tempo stesso titubante, prese dalle mani dell'altro l'oggetto e, dopo aver studiato rapidamente l'espressione di Levi – che non faceva maledettamente trapelare nulla – ci diede un'occhiata dentro. Rimase di stucco, quasi inquietato, quando vide la moltitudine di disegni che lo ritraevano. Di profilo, a tre quarti, primi piani dei suoi occhi in cui riusciva a scorgere una ricerca quasi ossessiva della giusta sfumatura di colore, piccoli particolari come la curva delicata della mandibola, i nei che aveva sul collo vicino all'orecchio destro, l'arco di cupido, le ciglia lunghe...
― Wow, devi avermi guardato bene in questi giorni ― diede voce ai suoi pensieri, restituendogli il blocchetto. Effettivamente per scorgere quei dettagli, a cui lui stesso non aveva mai prestato troppa attenzione, doveva avergli tenuto gli occhi addosso per molto tempo. Arrossì lievemente al solo pensiero di avere lo sguardo scrutatore di Levi puntato su ogni suo più piccolo particolare. ― Sei molto bravo a disegnare.
Il più basso non rispose al complimento, ripose nella tasca interna della giacca l'oggetto e, prima di proferire parola fece passare un'abbondante manciata di secondi, abbastanza per far prendere ancora alcuni bocconi di boeuf bourguignon all'altro.
― Sai Eren, oltre ad essere un moccioso tremendamente impacciato fai anche schifo a mentire.
Un pezzo di carne scivolò dalla forchetta del castano, rifinendo nel piatto e schizzando gocce di sugo sulla tovaglia, fortunatamente senza sporcargli i vestiti. Eren rimase a guardare l'altro con le labbra leggermente socchiuse e le sopracciglia aggrottate, in un'espressione confusa e delusa al tempo stesso.
― P-perché? Penso davvero che tu sia bravo, mi somigliano davvero! ― trovò il coraggio di dire, in sua difesa. Non riusciva a capire il perché di quelle parole che erano state dette col solo scopo di ferirlo.
― Smettila di fare il finto tonto, moccioso. ― Lo sguardo di Levi si incupì al punto che Eren iniziò ad avere paura. Sembrava avesse davvero perso la pazienza. ― Potrei metterti in difficoltà e ascoltarti balbettare cose senza senso ma, senza troppi giri di parole, ti dico che ho studiato da privatista sia alle medie che alle superiori. Dimmi dove diavolo ci siamo incontrati, prima che decida di fare qualche cazzata.
È davvero Levi?, si ritrovò a pensare Eren. Era questo il motivo per cui l'aveva invitato ad uscire? Il suo unico scopo era scoprire come facesse a conoscere il suo nome, anche a costo di fargli del male? Si sentiva così stupido ad aver pensato di interessargli.
― I-io, Levi... ― Si accorse di aver iniziato a sentire caldo e la sensazione di essere fissato da tutti gli ospiti del ristorante era diventata insopportabile. Voleva andarsene. Doveva andarsene. ― Scusami ― fu l'unica cosa che riuscì a dire, prima di alzarsi e dirigersi velocemente verso l'uscita, tenendo lo sguardo fisso sulla moquette, attento a non incrociare lo sguardo di nessuno.

 

 

Note dell'autrice:

Eeeeeeeeeeh, olleeeeeeè! No, ragazze non sono morta! Sono solo così incasinata che non ho tempo per scrivere, yahooo!
Mi dispiace, davvero, davvero, davvero tanto di avervi fatto aspettare per tutto questo tempo T-T ma ultimamente passo più giorni fuori casa che dentro e...capitemi, vi prego .-. Sono stanca. Mi rendo conto di aver scelto un brutto periodo per mettermi a scrivere ma vi prometto che finirò questa storiaccia, anche a costo di trascinarla per altri cinque anni. Spero possiate perdonarmi.
Comunque, chiedo scusa per la scena dei disegni, che è così mainstream che mi vergogno di averla scritta D: ma oh, la storia l'avevo pensata così, prima di scoprire che i disegni, nelle reincarnation au, sono onnipresenti, e così rimane .__. Chiedo venia anche per eventuali errori e frasi senza senso che probabilmente avrò scritto, non vi nascondo che ho riletto il capitolo superficialmente, quindi è molto probabile che ci sia qualcosa che non va.
Ultima cosa, vi lascio qui il link di un video ereri bellissimo che adoro e che mi ha dato l'imput per scrivere; inoltre la canzone, “What if the storm ends?” è anche un po' la colonna sonora di questa storia *^* Boh, a me piace un sacco.
Ciao, al prossimo capitolo u.u che calcolando la frequenza con cui li pubblico probabilmente arriverà l'anno prossimo (Y).

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