The Crows

di GoldenKnight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Il nido del Corvo ***
Capitolo 2: *** Capitolo l: La crescita del Corvo ***
Capitolo 3: *** Capitolo II:Il dolore del Corvo ***



Capitolo 1
*** Prologo: Il nido del Corvo ***


Prologo
Il nido del Corvo

 
Correva l’anno 1582, fuori dalla giurisdizione territoriale della città di Milano sorgeva un paese con amministrazione di tipo feudale, la famiglia nobile di quel villaggio era ben voluta e non faceva mancare niente ai suoi cittadini. Tuttavia questa famiglia doveva sottostare alle leggi dell’Impero Spagnolo che controllava parte del Nord Italia.
Durante quell’anno il signore del castello e sua moglie ebbero un figlio, nacque forte e in salute. La famiglia e il villaggio furono entusiasti dell’avvenimento poiché ora c’era un erede per il governo della città che una volta cresciuto si sarebbe opposto alle discriminazioni spagnole come i genitori facevano ormai da anni. Ma qualcosa nell’ombra cominciava a muoversi.
Fin da giovanissimo il ragazzo si dimostrò generoso e di buon cuore. Il padre lo istruiva nell’arte della spada e della guerra con lezioni di strategia militare; la madre invece lo educava nell’etichetta nella letteratura e nella matematica. Ma il giovane gradiva di gran lunga di più i dolci della cuoca e le storie avventurose che ascoltava dal cocchiere del palazzo. Gli anni passarono e il bambino che giocava tra i campi di grano divenne un giovane di bell’aspetto dai capelli corvini e gli occhi del colore della terra argillosa di un fiume, i paesani del villaggio erano felici di vedere come quel ragazzo stesse diventando il sovrano che li avrebbe protetti dagli spagnoli. Questi ultimi non smisero di infastidire il paese, anzi, cominciarono con incursioni notturne per distruggere i raccolti e le scorte di cibo; il loro scopo era quello di costringere il nobile ad indebitarsi con la Corona per potergli sottrarre il paese, l’ultima spina nel fianco per il completo dominio spagnolo in quella regione.
La svolta arrivò quando un messaggero si presentò al castello con una missiva. In quel periodo il padre del giovane aveva fatto circolare diversi messaggeri con proposte di matrimonio per il figlio alle famiglie più potenti del Nord Italia per acquisire la forza necessaria ad opporsi al dominio spagnolo. La lettera conteneva la risposta dalla famiglia Colonna, una delle più influenti famiglie d’Italia, la quale doveva la sua ricchezza ad importanti scambi commerciali con l’Oriente. Il paese fu estremamente felice alla notizia dell’imminente matrimonio con la fanciulla più piccola della casata. Il giovane, sebbene non condividesse la scelta di un matrimonio combinato era disposto a sacrificarsi per il bene del suo popolo.
Arrivò il giorno del matrimonio, il paese era in festa, decorazioni e stendardi delle due famiglie venivano innalzati in tutte le piazze e le chiese. Arrivò quindi il corteo della sposa: una lunga fila di carrozze e uomini a cavallo con armature e lance alle quali erano fissate le bandiere sventolanti che recavano l’emblema di una colonna avvolta da rami di ulivo e quercia. Il corteo era capeggiato da una carrozza di color avorio trainata da due cavalli bianchi bardati e fregiati con piume candide. Questa si fermò davanti l’ingresso della chiesa del castello, nella quale lo sposo ed i familiari erano in attesa. Il resto della carovana si distribuì per il paese.
I valletti aprirono la porta della carrozza, e ne discese una giovane fanciulla di circa diciassette anni, aveva occhi del colore del ghiaccio, un naso minuto, lineamenti dolci come le timide labbra che mordicchiava nervosa; i capelli di un castano chiaro venivano illuminati dal sole di giugno producendo riflessi chiari e soavi. Elena Colonna era arrivata alle sue nozze con il primogenito unico erede del paese di Castel Alto, Otello Manieri.
La giovane iniziò a salire le scalinate della cattedrale con passi leggeri; lo strascico era sollevato da terra, tenuto da due giovani bambini con i capelli biondi tagliati a caschetto. Mentre percorreva la navata per la sua lunghezza era inevitabile che gli sguardi dei presenti si concentrassero su tanta beltà. Quando arrivò al cospetto dello sposo i due incrociarono gli sguardi ed il giovane rimase rapito dallo sguardo di quella ragazza.
Le nozze si celebrarono senza interferenze da parte degli spagnoli, così finita la cerimonia ci fu il banchetto, al quale era presente tutto il paese: c’erano musiche, pietanze, balli: l’atmosfera era gioiosa e felice. Scoccata la mezzanotte i due novelli sposi si ritirarono nelle camere private del castello mentre il padre di Otello iniziò un colloquio privato con un funzionario della famiglia Colonna inviato lì appositamente per discutere la situazione con il nobile insediato a Castel Alto.
Il due giovani nel frattempo erano in procinto di consumare il loro matrimonio. Entrarono nella camera da letto privata di Otello, Elena si diresse al tavolo nell’angolo della stanza e versò due calici di vino, i due bevvero dalle coppe e si coricarono a letto. Lui si sdraiò sopra di lei e cominciò a baciarla su quelle delicate labbra. In quel momento il campanile rintoccò l’una. La ragazza afferrò Otello e con un movimento improvviso si girarono e il ragazzo si ritrovò disteso sotto la fanciulla. Le sue mani si mossero come da sole e iniziarono ad accarezzare le gambe della ragazza, quando all’altezza della coscia le sue dita toccarono qualcosa di freddo e liscio. Elena improvvisamente strinse la mano sinistra sul collo di Otello e con un rapido movimento della mano destra afferrò la lama che celava nella giarrettiera e colpì il fianco del ragazzo che involontariamente emise un sibilo strozzato dalla mano che la ragazza gli premeva sulla gola.
Otello reagì d’impulso e colpì con un potente pugno la testa della ragazza che cadde e sbatté la nuca sul comodino adiacente al letto. Il ragazzo sfilò il pugnale dal fianco e fece una fasciatura veloce per fermare l’emorragia. Legò Elena alla sieda e mentre stava finendo la medicazione notò un rotolo di pergamena caduto da una tasca del soprabito dell’assassina; nella lettera era scritto che gli spagnoli, venuti a conoscenza del matrimonio avevano intercettato la famiglia Colonna e mandato un plotone del loro esercito al posto del corteo nuziale; gli ordini erano chiari: eliminare ogni singolo abitante del paese.
Otello prese la spada, uscì dalla camera da letto e si diresse dal padre ma affacciandosi al cortile del castello vide le guardie in armatura giunte con il corteo attaccare ed uccidere brutalmente i paesani che stavano festeggiando le nozze. Il ragazzo corse verso le stanze dei genitori, ma si trovò la strada bloccata da due soldati; intraprese uno scontro contro i due che una stoccata alla volta misero il giovane all’angolo. Ad un tratto si vide uno spruzzo di sangue che uscì dalla nuca di uno dei due soldati che cadde in ginocchio decapitato; l’atro non fece neanche a tempo a girarsi che la lama di una spada gli trafisse il cranio fuoriuscendo dall’occhio sinistro. Quando il cadavere cadde, Otello vide il padre dietro ai due assalitori che impugnava il suo stocco.
Il giovane fu sollevato nel vedere il padre ma durò poco, infatti subito dopo si accasciò a terra, sopraffatto dalle ferite riportate nei combattimenti. Otello si avvicinò a ciò che restava del vecchio, che gli disse di andarsene e portare con sé la madre, la quale era rimasta nelle sue stanze nel tentativo di sfuggire all’assedio nemico; infine prima di spirare donò la sua spada la figlio come ultimo lascito. Il giovane lasciò la salma piangendo e corse verso l’ala sud del castello annientando ogni soldato invasore, mosso da una furia cieca. Arrivò davanti alla porta delle stanze dei sui genitori, ma ormai era troppo tardi, sua madre era stata stuprata e pugnalata dagli stessi soldati che aveva appena dilaniato nella sua folle corsa. La nobildonna teneva stretto in mano un pendente d’argento sul quale era incisa una croce. Otello afferrò il pendente e si diresse all’uscita, lì incontrò il cocchiere che lo implorò di salire sulla carrozza per andarsene da quell’inferno, ma il ragazzo voleva solo vendetta e così si girò e si diresse verso il cortile, dove si stava consumando una carneficina. All’improvviso l’uomo colpì il ragazzo alla schiena tramortendolo, poi lo caricò sulla carrozza e si allontanarono passando per il folto della foresta.        
Quando Otello rinvenne, il cocchiere l’aveva ormai portato a molti chilometri di distanza dal Castel Alto, e continuò a cavalcare senza sosta per tutta la notte e la per la mattina seguente. I due si erano rifugiati in una radura del bosco, e una volta che il giovane si riprese dal trauma, il vecchio si avvicinò a lui e gli porse una pergamena, sigillata dalla cera lacca che portava impresso l’emblema della sua famiglia. Quel rotolo conteneva le ultime parole della madre, parlava di una proprietà e di alcuni fondi che la donna aveva mantenuto nella sua città natale e che sarebbero stati utili al figlio perché potesse vivere al sicuro dai loro nemici. Le ultime parole della lettera erano un invito al figlio nel desistere nel cercare vendetta ma al contrario vivere come una persona normale la vita che gli si prospettava davanti. Otello, rassegnatosi alle parole della madre e per onorare la sua memoria, si diresse nella città indicata nella lettera…Venezia.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo l: La crescita del Corvo ***


Capitolo I:
La crescita del Corvo
 
Seguendo le indicazioni di mia madre,arrivai nell'edificio indicato dalla lettera. Calle Contarina non sembrava molto popolata, c’erano solo alcuni giovani rampolli di famiglia facoltosa che correvano freneticamente. La cinghia di cuoio che avvolgevano una pila di volumi non lasciavano dubbi: si stavano sicuramente recando all'università.
Cercando di non urtare gli universitari mi diressi verso la mia abitazione in fondo alla Calle, scrutando con lo sguardo gli edifici circostanti.
La casa si sviluppava su due piani: appena entrato, la prima cosa che notai furono degli affreschi di carattere religioso sul soffitto e dei bassorilievi con decorazioni floreali che adornavano le pareti. La porta d’ingresso dava su un ampio salone, dove torneggiava al centro un grande tavolo in legno laccato, contornato da una schiera di sedie con degli intagli minuziosi sui braccioli e sugli schienali. Il tutto poggiava su un elegante e raffinato tappeto importato dalla Persia, i cui colori s’intrecciavano tra le trame dei fili.
Posando il mio sguardo sul muro adiacente alla cucina, notai una porta che dava su un canale,il quale confluiva nelle acque delle principali vie della città. Probabilmente era stato utilizzato a lungo per il trasporto di merci, poiché c’era abbastanza spazio per il passaggio di una barca da carico. 
Il piano superiore aveva una stanza da letto con pareti foderate in seta, interrotte solo da tende di tessuto bianco dai ricami dorati, le quali facevano filtrare i raggi di sole dalle finestre. Al centro della stanza c’era un imponente letto a baldacchino, sopra cui erano piegate delle lenzuola in pizzo bianche. La camera era spoglia ma confortevole. 
Nella parete di destra vi era una porta che conduceva allo studio, dove una scrivania di mogano faceva da protagonista al centro della stanza. Di fronte c’era un divano color terra bruciata che fiancheggiava un piccolo tavolo da tè con la parte superiore in vetro lavorato. Dietro il divano si erigeva una libreria, dove erano riposti alcuni vecchi libri mastri delle attività commerciali della famiglia di mia madre.
Guardandomi intorno capii che non potevo più tornare indietro, la mia nuova vita cominciava da lì. 

All'inizio dell’anno seguente mi iscrissi  alla facoltà di medicina e chirurgia dell’università. Qui conobbi un famoso chirurgo che insegnava in corsi avanzati ai quali partecipavo con entusiasmo; il suo nome era Gabriele Zano. Nonostante provenisse da una famiglia facoltosa, il suo aspetto sembrava quello di un ordinario borghese. I capelli color castano scuro tenuti corti e la barba incolta davano l’impressione di una persona che curava il suo aspetto solo quando se ne ricordava. 
Dietro alle lenti bifocali degli occhiali che toglieva e rimetteva continuamente durante le lezioni, si celavano degli occhi grigi con riflessi più scuri. Erano gli occhi di chi aveva visto molte cose, così tante da non provare più nessun tipo di interesse per il mondo che lo circondava. La pelle era di un particolare colore olivastro, a prima vista avrei giurato venisse dal Sud della penisola. Indossava degli abiti formali di tessuto cuciti con cura ed era sua consuetudine portare una spilletta attaccata al bavero del cappotto con raffigurata una piuma. Durante le lezioni di anatomia era solito appoggiare la giacca sulla sedia della cattedra e indossare il grembiule di cuoio arricciandosi le maniche della camicia fino al gomito. Eseguiva tutte le procedure in modo estremamente metodico, non c’era spazio per le imperfezioni. Era così anche nella vita: freddo, calcolatore e alla costante ricerca dell’eccellenza.
Tutti noi studenti guardavamo increduli la maestria e la precisione dei movimenti che eseguiva per sezionare il corpo anatomico poggiato sul grande banco di legno al centro dell’aula. 

Dopo alcuni mesi di lezione, il dottor Zano cominciò a osservare con particolare interesse i miei progressi in chimica e anatomia. MI disse di essere rimasto affascinato dal mio modo di procedere e dall'intelligenza che avevo dimostrato di avere e spesso, terminate le lezioni, rimanevamo a discutere di medicina, chimica, anatomia e a volte persino della genealogia dell’animo umano.
In breve tempo io e il dottor Zano diventammo amici, tanto che in alcune occasioni mi chiese di assisterlo nelle varie operazioni che eseguiva in tutta la città, fino a che non diventò una consuetudine. Purtroppo il mio stomaco non gradiva molto la vista del sangue e delle membra delle persone sottoposte agli interventi, e questo finiva costantemente con la mia folle corsa alla latrina o al canale più vicino.
Nonostante le difficoltà pratiche, ero lusingato di essere stato scelto da un tale luminare come il suo unico assistente. Nessun altro nella facoltà aveva questo privilegio, o almeno non nelle prime settimane. Poi le cose cambiarono: fu così che la conobbi.

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Capitolo 3
*** Capitolo II:Il dolore del Corvo ***


Capitolo II:
Il dolore del Corvo
 
Isabella frequentava le lezioni di farmacologia che il dottore teneva all’università.
I più che la incontravano per la prima volta pensavano subito che fosse una ragazza fragile e delicata; i capelli bruni raccolti in una lunga treccia che si posava sulla spalla destra, gli occhi di uno splendido castano lucente; con un piccolo neo sulla guancia sinistra. Purtroppo quelle persone non potevano essere più in errore, infatti aveva un carattere forte e deciso, non si lasciava abbattere o influenzare da niente e nessuno e non mancava di schernirmi nei momenti in cui le operazioni del dottore mi procuravano la nausea. Si divertiva a tormentarmi, in special modo a farmi sentire male scherzando e giocando con gli scarti degli interventi.
In un’occasione abbiamo assistito il dottor Zano in un’amputazione di una mano in cancrena e lei trovò che fosse simpatico nascondere un dito dell’arto nella tasca del mio soprabito. La cosa peggiore è che mentre tornavo a casa mi fermò un uomo della guardia cittadina insospettito dal cattivo odore del quale ero ormai pregno, quando trovò la falange mi portò in prigione pensando che fossi un assassino o qualcosa del genere. Servì l’intervento del dottore per convincere la guardia dell’accaduto.
Nonostante la sua indole amichevole e ilare, non fu facile entrare in confidenza con lei, anzi, fu piuttosto difficile. Era come se avesse costruito un muro impenetrabile, protetto dalle parole taglienti che pronunciava con tanta naturalezza.
Riusciva a convincere tutti quando parlava, persino sé stessa. Le parole avevano un suono fiero, orgoglioso, convinto.. solo gli occhi la tradivano. Quando li guardavo intravedevo in loro una scintilla di paura che riusciva a scuotermi ogni volta, facendo riaffiorare i ricordi di quella maledetta notte.
 
Il febbraio di quell’anno fu particolarmente freddo, tanto che Isabella si ammalò e non poté partecipare alle lezioni di farmacologia, ne tantomeno svolgere il suo ruolo di infermiera. Per qualche motivo che non riuscivo a capire la sua assenza e la mancanza dei suoi dispetti durante gli interventi del dottore mi rendeva triste, così un giorno andai a trovarla a casa. Mi accolse la nonna, una donna anziana ma ancora arzilla e vivace, dopo averla conosciuta capii da chi avesse ereditato quel suo caratterino esuberante. Venni accompagnato nella camera della ragazza, era sdraiata sul letto con una pezza umida sulla fronte, le coperte di pelle lavorata le arrivava fino al mento e le guance erano rosse e lucide; vederla in quel modo mi fece stranamente sorridere e senza che me ne accorgessi arrossii anch’io. Isabella mi guardò con i suoi occhi marroni, solo per un istante, poi girò la testa e si tirò le coperte fin sopra la fronte mugugnando con tono imbarazzato da sotto le coperte: “Co-cosa ci fai qui?”; io risposi: “Ero preoccupato perché non ti ho più vista e mi chiedevo se stessi bene”. La ragazza fece un cenno col capo e si tranquillizzò, io mi sedetti accanto al letto e incominciammo a parlare, non di medicina come facevamo sempre, ma della nostra vita privata. Mi raccontò che sua madre era morta dandola alla luce e che il padre era morto di tifo quando lei era poco più di una ragazzina; da allora fu cresciuta dalla nonna ed intraprese gli studi di farmacologia per seguire le orme del padre.
Fu in quel momento che cominciai a parlarle del mio passato. Non lo avevo mai raccontato a nessuno prima, ma con lei accadde in modo naturale. Ogni respiro portava con se un ricordo e, ogni ricordo scorreva dentro il mio cuore per poi tramutarsi in parole. Per qualche motivo era facile parlare con lei, era come se la conoscessi da sempre.
Per la prima volta vidi nei suoi occhi qualcosa di diverso, qualcosa che non avevo mai visto prima sul suo volto. Che fosse compassione? In quell’istante la sua attenzione fu catturata dalla collanina argentata che si intravedeva sotto il colletto del mio vestito, così mi chiese cosa fosse; io la sfilai dal collo e gliela porsi in modo che potesse vederla meglio, le spiegai che quella era la collana d’argento che mia madre era solita portare sempre al collo e che io la presi quando la trovai morta sul suo letto. Per la seconda volta, sul suo viso comparse quell’espressione; ora ne ero certo, era proprio compassione. Improvvisamente mi riaffiorò il ricordo di mio padre, il suo ultimo sguardo fu proprio come quello che Isabella aveva in questo momento. Solo Dio sa perché mi piacesse tanto vederglielo sul quel suo viso delicato.

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