La corsa del Drow

di Aleena
(/viewuser.php?uid=27691)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L’inizio della fine ***
Capitolo 2: *** Una prigione di roccia ***
Capitolo 3: *** Gioco d'azzardo ***
Capitolo 4: *** La Corsa ***
Capitolo 5: *** Jaracas ***
Capitolo 6: *** La luce del Sole ***
Capitolo 7: *** La vera libertà ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** L’inizio della fine ***



 


  L’ultimo vero giorno di libertà di Rakartha fu quello in cui perse il suo nome.
Fino a quel momento aveva vissuto come in un limbo, isolata in un mondo in cui niente era reale, nemmeno lei. Se n’era accorta solo anni dopo, quando quella ragazzina non esisteva più.
Oh, non bisogna fraintendere: aveva sempre saputo di essere un prodotto con una data di scadenza, ma fino ai sessantanove anni aveva vissuto una vita più agiata di quella che si sarebbe potuta aspettare.
Una vita orgogliosa avrebbe detto poi, cercando di nascondere l’invidia e la nostalgia dietro un velo di violenza. Una vita falsa
La rimpiangeva, ovvio - chi sarebbe stata così stupida da non farlo? – e odiava quello che le aveva lasciato, quel senso di distanza e inutilità che la assillava ogni notte da quando era stata cacciata. Due volte rifiutata! Questo era troppo per qualunque jalill.
L’avevano portata in uno dei carceri-dormitorio più vicini alle fornaci della Terra e il caldo era infernale, una tortura appositamente studiata per fiaccare i ribelli e sfidare la resistenza fisica degli Ilythiiri – cosa che con lei stava funzionando. Prima c’era stata la necessità di aria fresca, pressante e opprimente, poi la sete e infine il disagio più grande, quello che rischiava davvero di farla impazzire: il bisogno di lavarsi.
Il suo corpo era coperto di sudore e i capelli, madidi, le cadevano il lunghi rivoli argentati sulla schiena, ormai quasi del tutto liberi dall’acconciatura che aveva sfoggiato fino a… quando?
Poche ore prima, valutò, analizzando il senso di fame appena accennata e la cicatrizzazione delle ferite.
Poche ore…
Non riusciva a credere che quella sarebbe stata la sua vita, d’ora in avanti e fino al giorno della sua morte… liberazione benedetta! Non contava più di sopravvivere alla Corsa, non aveva più speranze: quelli come lei erano destinati al macello.
Come lei… certo. Non c’era mai stato nessuno come lei ma, sfortunatamente, Che’el Phish ne era piena. Traboccante. Straripante! L’ironia avrebbe potuto ucciderla. 
Esasperata dal ricordo Rakartha gridò, mettendo tutta la frustrazione che aveva in quello sfogo vano. Avrebbe voluto demolire quella cella mattone per mattone – e forse avrebbe potuto, se non fosse stata così sfinita. Qualcuno doveva aver pensato che la sua furia sarebbe stata distruttiva perché nella stanza non c’era nessun oggetto, solo solida roccia e il ferro surriscaldato della porta.
Per le otto zampe della Dea, quant’è umiliante tutto questo! Si ripeteva in un’ossessiva litania mentre le sue mani chiare passavano fra i capelli bianchi senza accorgersene, in maniera ossessiva, pettinandoli come era solita fare una volta. Ogni tanto qualcuna delle pietre che aveva inserito fra i nodi delle trecce cadeva a terra, tintinnando sommessamente prima di fermarsi a guardarla, terribilmente simile a un occhio vitreo. Un sassolino cavo e sferico, liscio, troppo piccolo per costituire una vera minaccia per le guardie e troppo grande per tentare di infilarlo in gola e porre fine a quel martirio.
Non che la via del suicidio l’allettasse molto, in realtà: aveva ancora abbastanza amore per sé stessa da trovare quell’ipotesi inconcepibile… ma quella cella aveva tanto tempo per farle cambiare idea.
Da qualche parte, là fuori, qualcuno – diversi qualcuno, a giudicare dall’eco dei passi – avanzò lungo il corridoio, chiacchierando piano. Guardie, probabilmente. Al limitare del suo campo d’ascolto, Rakartha fu sicura di aver sentito il suono di una risata e la sua furia si riaccese. Parlavano di lei e di quel Generale, senza dubbio!
Il solo nome di Dresden era diventato come una maledizione: era lui, lui!, la causa di tutto. Incarnava tutte le caratteristiche dell’imbecillità maschile: borioso, sicuro di sé e un completo incapace sotto ogni punto di vista. Era stata gente come lui a darle una speranza e a strappargliela di dosso insieme ai vestiti e all’orgoglio, lasciandola solo con la vergogna, degli stracci e quelle sfere di pietra senza valore né utilità. Come lei.
Quei sassi che la fissavano, giudicandola come facevano tutti da quando era nata. Ne raccolse uno quasi senza rendersene conto e lo tenne in mano, fissandolo con odio mentre nella sua testa tutto ricominciava, ancora.
 “Cos’è questa?” le aveva chiesto Dresden, togliendo una sferetta di pietra da sotto il fianco e mostrandola nel palmo.
“Una Rakartha.” gli aveva risposto lei, contraendo le labbra in quella piega affascinante che aveva provato per giorni. “È una pietra comune, facile da lavorare ed estremamente resistente.” Aveva accentuato il sorriso e si era seduta a sua volta sul letto, accanto al Generale, sollevando l’orlo della gonna scura fino quasi al fianco sinistro con un movimento apparentemente casuale.
“Questo lo so. Ma che ci fa qui?”
“Deve essere sfuggita.” Rakartha si era accorta da subito dell’eccitazione di quello jaluk. Non le aveva tolto gli occhi di dosso da quando, assieme alle altre, aveva sceso la scalinata della casa d’addestramento. Lei era la più bella, quella sera, e lo sapeva: il trucco pesante accentuava la sensualità dei suoi occhi e la morbidezza dei lineamenti da ragazzina appena più di quanto lo facessero le figure scialbe e patetiche delle tre compagne al suo fianco. Anni di servilismo e pettegolezzi le avevano fatto guadagnare il privilegio di poter chiedere a una maestra l’abito che, nella prigione, ancora indossava: una veste rossa ampia e morbida che le lasciava scoperte solo le braccia e la schiena, fin quasi al sedere. Meraviglioso prima e ora ridotto a un brandello di stracci sporchi.
“La tua acconciatura è alquanto singolare, ragazza.” Aveva commentato Dresden, asciutto. L’imbarazzo era in costante lotta con l’orgoglio, in lui, e la facilità con cui Rakartha l’aveva capito dimostrava quanto profonda fosse la debolezza del maschio. Non ragiona, come tutti loro.
Dresden credeva di aver vinto, di star vivendo il momento più bello per uno jaluk: quello in cui poteva essere lui a scegliere una femmina e a farle quello che voleva.
“Non è una semplice acconciatura. Sono io. Quella…” aveva spostatole mani, lentamente, sul viso maturo dello jaluk, in una carezza che aveva il sapore graffiante delle unghie affilate. Poi si era avvicinata col viso a quello dell’altro e aveva ruotato il capo per mostrare le altre sfere di pietra che le adornavano i capelli. “è il mio nome. Anche io sono Rakartha. Ricordalo.” Era sensuale e languida mentre le dita scivolavano alla camicia di lino bianca, slacciando i piccoli bottoni d’osso. Il generale si era lasciato sfuggire un gemito di soddisfazione, e Rakartha quasi una risata di scherno.
Non aveva ancora capito che era lei che ci guadagnava. Sognava di perdere la verginità da anni, ormai - da quando il suo corpo aveva cominciato a passare dall’infanzia all’adolescenza. E ora che era una jalill adulta aveva finalmente l’occasione di mettere alla prova l’arte della seduzione che così duramente aveva imparato.
“C’è qualcosa che desideri, Generale Dresden?” aveva domandato Rakartha, ben sapendo di star stuzzicando un nervo scoperto… in tutti i sensi. Sentiva il corpo dell’altro irrigidirsi mentre le sue labbra scivolavano lungo il petto scuro, lasciando segni vermigli di rossetto sulla pelle scoperta. Lui non si muoveva: non era in grado di prendere l’iniziativa, non lo sarebbe stato nemmeno sotto tortura.
Anche il corpo di Rakartha rispondeva: era vicina a soddisfare una curiosità che nutriva da tempo e questo la eccitava molto più del maschio che le affondava le mani nei capelli, spingendola verso il basso con urgenza.
Fin da quando le era stato detto che jalill e jaluk erano diversi, Rakartha aveva provato una genuina curiosità verso l’altro sesso, un mistero sconosciuto in una casa di sole femmine. Cosa c’era di diverso in loro rispetto a lei? Si domandava, osservandoli e desiderando. Provava un’attrazione quasi irresistibile per i maschi, per il loro corpo: cos’è che avevano che poteva interessare una jalill abbastanza da accoglierli nella propria intimità?
Niente di così eclatante, pensò con rabbia. Solo la prima di una serie di grandi delusioni.
Ma in quella camera, quando era ancora sé stessa, il mistero era l’unica cosa che le faceva sopportare le debolezze e l’odore di Dresden – lo stesso dolciastro olezzo che sentiva su di sé nella prigione e che la nauseava, catapultandola ancora indietro, ancora a lui.
Dresden l’aveva lasciata andare e aveva preso ad armeggiare con la lampo dei pantaloni. Lei l’aveva lasciato fare e si era avvicinata, troppo presa dalla scoperta.
Fu quando il sesso dello jaluk fu completamente libero che Rakartha capì che c’era qualcosa che non andava.
Aveva accettato le somiglianze tra loro con la passiva, tranquilla accettazione che è la conseguenza dell’ignoranza, ma ciò che vide l’atterrì, sconvolgendola. Un attimo di panico fu tutto quello che le occorse per scrollarsi di dosso la delusione e la sorpresa prima che il suo cervello, allenato a sopravvivere più che a ogni altra cosa, la spingesse ad agire.
Si era sollevata di scatto, con tutta la violenza che l’adrenalina poteva scatenare, e si era allontanata dal maschio di un paio di spanne prima che lui l’afferrasse a una caviglia.
“Eh no, ragazzina, non funziona così.” Le aveva detto, gli occhi folli che continuavano a guardarla con una passione malsana. “Ho riportato una grande vittoria e tu… tu sei l’unico premio che avrò. Quindi te ne starai zitta e buona o ti ci farò stare io.”
In quel momento Rakartha non aveva pensato più a niente se non a fuggire via da quell’essere. Si era girata, scalciando e aggrappandosi alla struttura del letto, ma lui le aveva afferrato il vestito e aveva tirato, sbilanciandola. Dresden si era allora gettato in avanti e l’aveva sovrastata, sollevandole il vestito e scoprendo le natiche.
Se solo avessi chiesto... ricordava di aver pensato, disperata. Aveva avuto meno di un vago accenno sul sesso dalle sue insegnanti e tanto le era bastato. Lo scoprirò da sola, sarà più divertente si era detta. Bell’affare!
“Resta… Resta così…” aveva provato a dire, sperando che quelle parole avessero il senso che lei intuiva. Doveva essere stato così perché sentì l’altro cominciare a farsi strada… prima di fermarsi.
“No, ragazzina. Non così. Io non sono una bestia da soma. Voglio guardarti in faccia.” Le disse, tirandola indietro. Lei gridò e chiuse gli occhi, cercando una vita di fuga nel panico della sua mente.
Ricordava un frusciare di vesti, il suono dei suoi piedi che sbattevano contro il petto di Dresden un paio di volte prima di venire allontanati... e poi il silenzio.
“Ma che cazzo…” aveva detto il Generale, rimanendo immobile. E Rakartha, improvvisamente lucida, aveva aperto gli occhi in tempo per vedere la sorpresa sul suo volto trasformarsi in rabbia e imbarazzo.
Lui aveva impiegato più di lei a reagire. Si era ripreso quando ormai Rakartha era già corsa verso il fodero della pistola, abbandonato sull’unica sedia della stanza, accanto alla giacca di pelle di drago del maschio. Ricordava tutti i dettagli della corsa con estrema precisione: la sua mano chiara che si allungava; l’urlo di rabbia alle sue spalle; il pavimento gelido sotto i piedi; la sensazione di vuoto quando il vestito l’aveva tradita per la seconda volta, fermandola a pochi centimetri dalla fondina.
Ricordava tutto con precisione fino a lì, e poi era solo confusione: il rumore delle guardie che entravano e il suono dei calci, il dolore che aveva provato quando Dresden l’aveva colpita al volto e al sesso, ripetutamente, e l’eco agghiacciante delle sue parole.
“Chi ha organizzato questo scherzo del cazzo?” urlava, isterico. Dalla stanza si era trovata nell’atrio e poi giù, scaraventata dalle scale in una caduta che l’aveva costretta, poi, a ri-articolare il braccio. E improvvisamente non erano più soli, improvvisamente c’erano le altre jalill della casa che gridavano e gli uomini della guardia che si scusavano, le si stringevano intorno, le strappavano il vestito per vederla.
“Chi cazzo è stato?” aveva continuato Dresden e poi, come una sentenza definitiva, aveva gridato “Chi cazzo ha messo un maschio travestito da jalill nel mio letto?”
Non c’era stato posto per altro, dopo quello.
Rakartha non ricordava nulla del processo che era seguito, né delle accuse che le avevano mosso. Sapeva che qualcuno aveva voluto metterla a morte e che qualcun’altra – una Maestra, forse? – aveva detto che sarebbe stato più divertente “rimetterlo al suo posto”.
Una parte di Rakartha era d’accordo con quel verdetto: la metà più sadica e femminile di lei, quella che era ancora convinta che, se lo avesse voluto, si sarebbe liberata da quell’arnese che le causava vergogna e le impediva di tornare a essere una jalill. Di tornare a sperare di poter sopravvivere alla Corsa.
Un’altra parte di lei, però, avrebbe voluto prendere un’arma e sparare in bocca a quella stronza… e, per buona misura, a tutti quelli che l’avevano ridicolizzata.
Non lo avrebbe mai potuto fare, lo sapeva, ma era sempre meglio sognare la loro morte che pensare alla propria. Infondo, non c’è molto altro da fare in questa prigione.
Se avesse potuto provare pena per qualcuno all’infuori di sé stessa, avrebbe cominciato a dispiacersi per la vita che la sua gente aveva imposto agli jaluk… ma non ne era capace. Come avrebbe potuto vivere come un maschio? Lei non era come loro! Non poteva esserlo!
Dei passi pesanti rimbombavano nel corridoio, seguiti dal ritmico cozzare di chiavi di ferro e serrature. Gli altri prigionieri sciamavano fuori in silenzio, per la maggior parte, incamminandosi subito lungo i corridoi e fino a chissà quale lurida fogna. Quando anche la sua cella venne spalancata lei non si mosse che per coprirsi il sesso. La guardia, un maschio senza un occhio, estrasse una pisola dalla fondina con la calma dell’abitudine.
«Non fare il difficile, principessa, o sarò costretto a spararti nelle palle.» le disse, col tono falso di chi abbia preparato la battuta in anticipo, e qualcuno alle sue spalle rise sguaiatamente. Un maschio completamente calvo si affacciò e la squadrò, seguito a ruota da altri due.
«Per la Dea! Non solo è albino ma… tutto quel trucco! È la cosa più schifosa che abbia mai visto. Quasi peggio di te, Zirag.» disse il pelato con una smorfia, e gli altri risero.
«Sta attento a quello che dici, coglione, o alla fine del turno te lo faccio trovare nel letto.» minacciò il primo, estraendo la pistola come avvertimento.
«Non lo toccherei nemmeno se fosse Matrona Chelyrra in persona a ordinarmelo!»
«Davvero? Allora muoviti e vallo a prendere. E tienilo coperto: non ho voglia di vedere se le storie che dicono sono vere!»
«Paura che ce l’abbia più grosso del tuo?» domandò il pelato afferrando una corda di metallo che teneva legata alla cintura. Avanzò di qualche passo nella piccola cella e fissò Rakartha con malcelato disprezzo mentre tendeva  il cavo. Poi si mosse e lei non riuscì a sopportare l’idea di venire costretta ancora una volta. Si alzò con uno scatto, ringraziando la Dea per averle donato un addestramento decisamente migliore di quello che avevano avuto quegli animali che si credevano Ilythiiri.
«Non mi toccare, jaluk, o ti spezzo la mano.» disse, allungando un dito chiaro davanti alla faccia, in tono di sfida. L’unghia, fino a poche ore prima laccata di rosso, era spezzata. «Mettete giù quelle armi, imbecilli. Se voi non toccate me con quelle luride mani, io non toccherò voi, e forse mi risparmierò qualcuna delle malattie che vi portate addosso. E trovatemi dei vestiti, per la Dea!» sbottò, in un tono di comando che la mise a suo agio. Era quello, il suo posto.
L’uomo abbassò le mani e le fece un cenno beffardo, indicandole la porta senza abbassare gli occhi – un gesto di sfida aperta che lei raccolse. Fu questo, forse, a distrarla: i tre alla sua destra le furono addosso prima che avesse avuto il tempo di rendersene conto. La ripresero di nuovo a calci nelle palle e, mentre ancora sperava che a forza di dolore e percosse quelle inutili appendici le cadessero, le guardie la costrinsero ad alzarsi e a camminare, scalza e nuda, lungo un corridoio e fino a una porta aperta, oltre la quale c’era solo terra battuta e una grande fossa. La spinsero sul bordo e la costrinsero a guardar giù, verso i maschi coperti di sangue che si azzuffavano a meno di tre metri da lui.
«Benvenuto a Obsul Renor, brutto scherzo della natura.» gli disse una guardia – forse il pelato, forse uno dei ragazzini che avevano riso tanto – prima di dargli una spinta. «Non vedo l’ora di vederti Correre!»


 


Piccolo Spazio-Me: questa storia è un esperimento, nato da un'idea assurda di cui vi siete già fatti un'idea, credo :D 
Fatemi sapere che ne pensate mi raccomando ;)

Passate a trovarmi anche qui > RELEESHAHN


 




Storia vincitrice dell'Oscar per la miglior descrizione fisica del personaggio (Rakartha/Rakhart). Sono troppo fiera di questa ragazza :'D




 

Piccolo dizionario:
 
Jalill: Femmina appartenente alla razza Drow
Jaluk: Maschio appartenente alla razza Drow
Ilythiiri: “Drow” in lingua drowish
 
“Maschio” e “femmina” sono, come mio solito, preferiti a “uomo” e “donna” perché questi ultimi indicano i due sessi nella razza umana, quindi sarebbero troppo specifici in un universo fantasy.
 
Lolth (la Regina Ragno): è la dea più venerata e potente nella società Drow, è capricciosa e crudele ed è solita mettere i suoi seguaci uno contro l’altro, affinché solo i più forti, i più crudeli e i più infidi sopravvivano per servirla. Solo le femmine Drow possono diventarne sacerdotesse.
 
Jaracas: è il nome di una specie di vampiro brasiliano che si presenta sotto forma di serpente. Per questo l’ho scelto per il mio personaggio.
 
Qualche info:
 
Drow (o elfi scuri ): sono splendidi ma malvagi elfi dai capelli bianchi e dalla pelle nera come l'ebano. Sono di bassa statura e hanno lineamenti aggraziati, ma a differenza degli altri elfi hanno la pelle sempre e solo nera (con rari casi di albinismo, nel qual caso la pelle è di color bianco avorio) e capelli bianchi fin dalla nascita, che ingialliscono o ingrigiscono con l’avanzare dell’età. La maggior parte dei Drow ha occhi rossi e sono in grado di vedere anche nel buio totale grazie all’infravisione: la capacità di avvertire trame di calore attraverso l’aria e la roccia. Hanno inoltre un udito e un senso tattile estremamente fini e posseggono un'intelligenza e una prontezza mentale che gli offrono un vantaggio intellettuale su gran parte delle altre creature.
La società drow è composta da una gerarchia matriarcale: le donne occupano tutte le posizioni di potere (tra le quali quelli di capofamiglia e di sacerdotessa di Lolth), mentre i maschi, sia nobili sia popolani, devono sottostare al volere delle loro Matrone (coloro che comandano le famiglie nobili) e vengono impiegati come guerrieri o incantatori o mercanti, un ruolo considerato degradante e quindi riservato esclusivamente agli uomini.
Altro QUI
 
Variazioni personali:
 
Innanzitutto, l’universo in cui i miei personaggi si muovono non è quello di D&D ma il mio personale, anche se riprendo la mitologia tipica della razza.
Per quanto riguarda la vita media, a seconda del manuale (o sito) che si consulta le informazioni cambiano. Nel mio caso il ciclo di sviluppo di un Drow (infanzia/fine adolescenza) è di circa 200 anni, e la loro vita ha durata potenzialmente infinita (come quella degli Elfi di superficie), con un invecchiamento progressivamente più lento che è visibile solo dopo il primo millennio. Ovviamente quasi nessuno arriva oltre i primi 600/700 anni di vita, data la forte competizione interna alla società.
Le femmine Drow sono sacerdotesse con magia innata, che deriva dal favore dalla Dea ed è attiva solo nel suo dominio d’influenza (sottosuolo). I maschi Drow sono quasi esclusivamente combattenti, raramente maghi: non hanno magia innata. Non possono presenziare ad alcun rito (tranne che come offerte sacrificali) e vivono la religione tramite il servizio e la devozione alle Matrone e Sacerdotesse, sotto l’occhio vigile della Dea.
Gli albini non sono rari a Che’el Phish, la città più grande e popolosa del sottosuolo: la Dea li usa come segno del proprio scontento. Hanno la pelle di tinte dall’avorio al grigio pallido, capelli bianchi e occhi rossi, raramente viola cupo (estremamente inusuale fra le razze del sottosuolo dunque considerato di cattivo auspicio). La loro infravisione è meno potente, rendendogli necessaria almeno un po’ di luce per vedere correttamente. L’insofferenza al sole e alle fonti luminose è minore, ma queste comunque li danneggiano. Nella società, le femmine albine sono considerate alla stregua dei mercanti (“tollerabili finché sono utili e con pochi diritti”) anche se molti dei maschi, vuoi per il condizionamento o per la paura della sfortuna, non infieriscono troppo su di loro, tributando il rispetto minimo. Gli albini maschi, invece, hanno un valore appena superiore aglio schiavi, ma nettamente inferiore al più stupido e inutile dei Drow “puri”. Entrambi i sessi vengono allevati alle tradizioni e alla cultura del proprio popolo sia nel caso sopravvivano e si dimostrino utili, sia perché questa consapevolezza aumenta la sofferenza e la frustrazione degli albini, soprattutto delle femmine.
Essendo contemporaneamente poco graditi alla stessa Dea e un “dono” inviato ai suoi schiavi, essi non possono essere sacrificati da infanti nel Tempio e devono essere allevati, possibilmente per uno scopo. Nell’antichità venivano spesso usati come “carne da macello” negli eserciti ma, dopo la Grande Catastrofe (di cui si accenna nella prima storia che fa parte di questa raccolta, “L’angolo nel Buio”, attualmente in fase di revisione), si è evitato di dar loro ruoli che potessero portarli ad accumulare troppo potere o sviluppare ambizioni. Nel tempo attuale, la Corsa è un espediente accettato per eliminare la vergogna.
Un albino è trattato dal popolino alla stregua di uno iettatore: toccarlo, parlargli o stargli troppo vicino equivalgono a cercare la sfortuna – essendone consapevoli, spesso gli albini giocano su questa superstrizione, minacciando, terrorizzando o intimidendo per scopi personali o per puro divertimento. 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Una prigione di roccia ***



 
CAPITOLO II
UNA PRIGIONE DI ROCCIA



 
  La seconda cosa che dovette abbandonare fu il suo orgoglio. 
lo capi lì nell'arena, il primo giorno, quando sette jaluk le si strinsero intorno, spade corte alla mano, e le lanciarono un’arma, sogghignando. 
L’attaccarono che era ancora a terra e solo grazie all’allenamento riuscì a scansarli. Fu allora che si rese conto di dover decidere tra i resti dell’abito rosso e il dolore; scelse di combattere, nuda come un tanth1, e lo fece come meglio poteva, rispondendo a un assalto più violento di quanto mai avesse immaginato. 
Perse, senza riuscire nemmeno a cancellare il sorriso a uno di loro. 
Ma come poteva vincere? Era a pezzi, schiacciata da una fatica che non aveva mai provato e accecata dal trucco, che le colava negli occhi assieme al sudore. Doveva essere orribile, e la cosa la feriva tanto quanto lo facevano le spade.  
Più volte si trascinò fuori dall’arena e venne ributtata dentro, ancora e ancora, fin quando una sirena stridula richiamò i Corridori per la cena. Allora si rialzò un’ultima volta e guardò la folla scorrere intorno, dandole spallate nel tentativo di abbatterla, forse di schiacciarla di nuovo. 
Rakartha reagì col silenzio, soffocando l’orgoglio ferito e la rabbia. Nessuno avrebbe mai più considerato la sua parola come qualcosa di definitivo – come un ordine. Poteva sentire quegli avanzi della società ridere di lei, cercando modi sempre più rozzi per infliggerle dolore, e mostrarsi debole sarebbe stato come accettare i loro soprusi. Come invitarli a distruggerla. 
C’era un unico modo per poter sperare di non soccombere: doveva rinunciare a sé stessa, a Rakartha e a tutto quello che il suo nome comportava. Doveva diventare un maschio e far capire loro che era lei… lui, che comandava. E doveva farlo presto, prima che uno di quei pezzi di merda si spingesse troppo oltre, ridicolizzandola in maniera definitiva. 
Cercò prima di smettere di pensare al femminile, e fu come perdere un’altra volta sé stessa. Non abbandonò mai l’abitudine, ma questa dualità poteva rafforzarla: essere stata Rakartha le aveva insegnato come sopravvivere in un mondo ben più competitivo di quello maschile, e poteva contare su un addestramento che quei jaluk non avevano ricevuto. 
Poi scelse un nuovo nome, uno che rispecchiasse chi era. Rakarth, l’equivalente maschile, non aveva un vero significato nella lingua Iliithyri ma ne aveva uno profondo per lei, che vedeva come una piccola perdita non modificasse più di tanto un individuo. 
Infine valutò la sua situazione con tutta l’oggettività che le era possibile avere mentre si leccava le ferite, stesa su una branda incandescente. Rakartha era stata allenata per il comando e la furtività, per la sensualità e i veleni, per la magia e per le armi da fuoco di precisione a lunga gittata. Rakarth avrebbe invece dovuto imparare a combattere in una mischia, corpo a corpo, con lo scudo energetico e la spada, con le pistole a medio-corto raggio. Come il resto di quelle bestie, non  avrebbe potuto conoscere la magia ma, giacché l’aveva, nulla gli vietava di usarla. 
Se la velocità era l’arma fondamentale per una jalill, la forza fisica lo era per uno jaluk. L’idea di dover temprare il suo corpo non le piacque, ma lo fece: si allenò nelle palestre anche quando non avrebbe dovuto, nel tentativo di recuperare lo svantaggio sugli altri maschi. Sfruttò l’agilità nell’arena e, mentre gli altri cercavano di starle dietro, imparò a fortificare i muscoli e combattere con la forza bruta. Il risultato fu che, in meno di dieci anni, pochi maschi potevano competere con Rakarth – i più anziani, quelli la cui vita era quasi finita. Le nuove leve, che a gruppi disomogenei arrivavano dalle Case d’Allevamento, guardavano a Rakarth come a un capo da temere. Oh, sapevano la sua storia, non ne dubitava, ma solo i più coraggiosi ne parlavano. I più stupidi, in effetti, perché scontavano quell’affronto nell’Arena, pagandolo caro. Rakarth era brava a raccogliere pettegolezzi e dicerie: non una frase veniva detta senza che qualcuno gliela riferisse.
Poi l’ottantasettesimo anno volse al termine, e una delegata del Tempio venne a raccogliere i corridori. 
Arrivò su una portantina d’ossidiana trasportata da dieci schiavi per lato, com’era usanza fin dai tempi antichi. Una Sacerdotessa dai lunghi capelli bianchi e la pelle più nera del peccato, avvolta in una veste grigia e rossa e attorniata da guardie scelte fra l’elite degli ufficiali. Fra loro c’era anche Dresden, con lo sguardo basso e il portamento fiero. 
A nessuno degli schiavi era permesso fissare la Sacerdotessa, ma Rakarth indugiò su di lei quanto più a lungo glielo consentì la posizione distante, prima di abbassare il capo e inchinarsi come facevano gli altri. La invidiava tanto da odiarla, e soffocò il desiderio folle di attaccarla solo pensando che non sarebbe riuscita ad arrivare a lei neanche volendo. Doveva stare calmo e aspettare un momento migliore, una via d’uscita, una falla…
«La Dea si compiace del vostro sacrificio.» attaccò la Sacerdotessa. Aveva la voce isterica e annoiata di chi sia stato destinato a un compito ingrato e cerchi di svolgerlo il meno peggio possibile. Deve aver appena finito di ripetere questa tiritera alle femmine… e non vede l’ora di lasciare questa fogna e il suo puzzo.
«Che la gloria della Dea regni su ogni popolo.» risposero meccanicamente tutti gli jaluk. 
«Ottantotto anni sono passati dall’ultima Tangin Thata, e gli otto giorni di festività sacra dedicati a Lolth inizieranno fra meno di un mese. Il quarto giorno, come da tradizione, voi Correrete, offrendo il vostro sangue come sacrificio alla Dea Ragno. Gioite, perché perdendo la vita farete scendere la Benedizione di Lolth sulla Sacerdotessa che vi avrà sacrificato.» 
Un grido di esultanza partì dalle guardie e si diffuse ai Corridori, condizionati a obbedire alle parole d’una femmina nobile. 
«Correte come se fosse la Dea stessa a inseguirvi, con la sua frusta in mano. Combattete e rendete forti voi stessi, così da donare maggior onore e gloria alla Sacerdotessa che vi sacrificherà.»
Altre esaltazioni, più deboli stavolta. Rakarth represse una smorfia. Se ripete ancora Sacerdotessa o sacrificio la ammazzo pensò, cercando di non tradire in volto altro che un cieco servilismo. Come ci si aspetta da uno jaluk.
«Questo Tangin Thata accoglierà tutti gli jaluk che abbiamo compiuto almeno ottantotto anni, come vuole la tradizione. Le vittime previste sono novantacinque. Fatevi avanti e venite al sacrificio colmi del timore che la Dea Ragno esige.»
«Pensano che ricordarci costantemente che dobbiamo morire sia d'aiuto?» sussurrò Khalan all’orecchio di Rakarth, dissimulando il nervosismo con un tono ironico. Si era salvato dalla corsa perché dodici giorni più giovane del minimo richiesto: doveva sentire sul collo i morsi della paura. 
«Le Sacerdotesse sanno cosa è giusto. La Dea parla tramite loro e le loro scelte sono in conseguenza insindacabili e giuste.» rispose Rakarth con tono appena più alto, mantenendo gli occhi fissi sui Corridori che si facevano avanti, uno a uno. Non credeva alle sue parole, almeno non fino in fondo: le Sacerdotesse sbagliavano eccome, e i risultati dei loro errori erano presenti a dozzine in quel mucchio via via sempre meno numeroso. Maschi in sovrannumero e i tanti, troppi Albini erano la risposta di Lolth alle disastrose decisioni prese dalle sue adepte durante la guerra ai nani di Khara’duh. Almeno quelle perfette bambine correranno tanto, quest’anno. Quanto saranno numericamente inferiori? Una a dieci?
Non doveva pensarci, non ora: un segno di ribellione o eresia bastava a farti passare sei mesi in una cella umida e soffocante, un buco scavato nella roccia vicina alle fornaci della Terra e foderato di alluminio.
«Come la Dea comanda.» rispose fra i denti Khalan, usando le parole rituali, cercando di tenere nascosto il risentimento - ma questo era trapelato comunque. 
Un falso senso di comunanza aveva unito quel maschio a lei: l’attirava col suo bell’aspetto e la lingua tagliente, affascinandola come non avrebbe ritenuto possibile. Al contempo, ne era sedotto per il singolare addestramento che aveva: era stato un membro della Milizia Esterna prima di decidere che violentare una femmina al servizio di Casa Vuzieth fosse un passatempo piacevole. 
Khalan aveva evitato la condanna capitale grazie alla sua giovane età e alla stessa jalill che aveva aggredito: lei voleva il suo sangue ma era ancora una Novizia e non avrebbe potuto sacrificarlo con le sue mani. La femmina avrebbe cercato Khalan alla corsa e il piacere che lui doveva aver provato le sarebbe stato restituito, amplificato dall’amore per la vendetta a lungo pianificata: una jalill imparava a tessere con calma la sua tela già dalla tenera età. 
Rakarth tollerava la mancanza di rispetto insita nelle parole di Khalan anche in virtù di questa rivelazione: provava una gioia sadica sapendo della sua nemica e della fine dolorosa che il maschio avrebbe patito. E, nell’attesa, lui era più utile come alleato: Rakarth aveva imparato molto dall’esperienza dell’altro come Guardia. 
«… Gloria della Dea!» stava gridando la Sacerdotessa. La sua voce tuonava ancora nella grotta mentre la sua portantina si allontanava, rapida come se temesse che quel luogo avrebbe potuto infettarla. È così, credimi pensò Rakarth, voltandosi. A un cenno i membri del suo gruppo ristretto – quattordici jaluk in tutto – lo seguirono, ignorando le guardie che strillavano ordini. Sarebbero andati al campo d’addestramento come ogni giorno, il più in fretta possibile. 
Avevano dei bambini nuovi da piegare e altri ottantotto anni solamente per rendersi più forti di quelle femmine, e nessuno di loro aveva intenzione di sprecarli.
Camminando a testa alta, Rakarth cercò di convincersi che il fatto di avanzare con rapidità fosse dovuto solo all’adrenalina che gli faceva pompare il cuore all’impazzata e non alla figura di Dresden che si stagliava, dritta e inflessibile, alle sue spalle, fissando con odio i Corridori. 


 

 
1 verme

Piccolo Spazio-Me: oddio, questo racconto già dal primo capitolo mi ha dato più soddisfazioni di quanto avrei potuto immaginare! Vi ringrazio tutti tanto per aver letto, commentato è messa la storia tra le preferite/seguite *_* e mi scuso per l'aggiornamento a rilento: prometto di non farvi più aspettare tanto a lungo un capitolo :S
Al solito, fatemi sapere che ne pensate di questo nuovo capitolo mi raccomando ;)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Gioco d'azzardo ***



 
CAPITOLO III
GIOCO D'AZZARDO



 
  Ottantotto anni erano passati sempre più veloci, come se il tempo stesso non vedesse l’ora di far correre Rakarth.
A volte, chiuso nella sua stanza, lo jaluk si immaginava il tempo come una jalill con la frusta in mano, bramosa del suo sangue. Spesso aveva le sembianze di una delle jalill conosciute nella casa, altre ancora somigliava a Rakartha in una maniera impressionante. Sapeva perché: una parte di lei lo voleva morto, e non poteva biasimarla – ma se Rakarth perdeva, perdevano entrambi.
Poi, una mattina, le guardie non avevano aperto la porta della sua prigione. Rakarth era rimasto immobile, pronto a tutto: spesso i carcerieri sceglievano un lotto di prigionieri per sfogare la loro frustrazione. Bhe, se così doveva essere, lei non sarebbe stata a guardare.
Avrebbero sperimentato sulla loro pelle cosa voleva dire sfidarla.
Il silenzio era scivolato sulla roccia calda per un tempo interminabile prima che le voci cominciassero a essere percepibili.
Rumori discordanti, echi di accenti sconosciuti e lingue barbare che ridevano, discutevano e litigavano. Rakarth drizzò le orecchie a punta e chiuse gli occhi, cercando di distinguere fra quei suoni parole che gli fossero familiari. Non le trovò che in brevi accenni, pezzi di frasi irridenti rivolte alle guardie, ordini. Ordini! C’erano tante, troppe note maschili in quelle voci. Che stava succedendo?
Sporse il volto affilato oltre le sbarre e, con la coda dell’occhio, vide di non essere stato l’unico a farlo. E, mentre osservava le figure emergere dalla semioscurità del corridoio – preceduti dalla luce vivida delle torce al led – Rakarth si rese conto che tutti quelli che erano rimasti rinchiusi erano i Corridori di quel Tangin Thata. Poi la luce si alzò, troppo vicina, e i suoi occhi si riempirono di fuoco e lacrime. Con un ringhio si tirò indietro, accecata.
Per lunghi minuti Rakarth fu conscia solamente del proprio dolore, interamente assorbita da una tortura che non aveva mai sperimentato – poi le ombre si fecero più sottili e, a ogni battito di ciglia, qualcosa emergeva dal bianco luminoso stampato sulla retina, finché tutto tornò normale.
Allora lo vide.
C’era un maschio in piedi davanti alla porta, intento a osservarla. Teneva la testa alta e gli occhi puntati nei suoi, nella maniera di chi cerca botte… ma non sembrava volerlo sfidare. Lo osservava piuttosto con una curiosità appena nascosta.
Come si guarderebbe una bestia esotica pensò Rakarth. Come io guardo lui si disse, di sfuggita, accorgendosi che era vero solo quando il pensiero ebbe avuto il tempo di decantare.
Il volto dell’altro era morbido e affilato come quello degli Ilythiiri, e anche le orecchie avevano un accenno dell’aguzza eleganza tipica della sua razza, ma quelle erano le uniche cose che li accomunavano. Era alto, tanto alto: Rakarth dubitava di riuscire ad arrivargli alle spalle in punta di piedi. La pelle del maschio era pallida e rosea, una sfumatura innaturale anche confrontata con la sua; aveva gli occhi grigi come l’argento e i capelli neri, lunghi fin quasi al petto. Indossava una maglia di tessuto nero che metteva in mostra ogni piega del suo corpo esile sotto una giacca di pelle dello stesso colore, dall’aria vissuta. In mano teneva un contenitore cilindrico in vetro lavorato a rilievi d’argento, dentro il quale si agitava un liquido luminescente d’un blu argentato. Il maschio lo lanciava distrattamente in aria, riafferrandolo senza neanche guardarlo.
Tutta la sua attenzione pareva essere per Rakarth, che sollevò il mento, ben deciso a non perdere la sfida – un gesto che divertì l’altro. Con un’eleganza che tradiva modi ben più nobili di quelli che l’abbigliamento suggeriva, il maschio si chinò, appoggiando la testa e i gomiti alle sbarre della cella, mentre le braccia si avvolgevano al metallo.
«Mi hanno raccontato una storia curiosa su di te, sai?» disse il maschio nella lingua di Che’el Phish, l’accento esotico appena percepibile nella maniera in cui ammorbidiva le consonanti. Fece cenno a Rakarth di avvicinarsi, e lei l’ignorò.
«Ah, non ho dubbi. Posso indovinare?»
«Hanno detto che c’era un maschio, in queste segrete, che un tempo era stato una femmina. Una notizia a dir poco sconvolgente, non trovi?» C’era una nota tremenda nel suo alito, quando parlava: l’odore del sangue, vecchio e appena accennato, ma persistente - un’ospite gradito, come nell’arena.
«Incredibile.» Rakarth modulò la voce a una noia distratta. Staccandosi dalla parete di fondo, allargò le braccia e roteò le mani, indicando il corpo nudo dalla cinta in su, con vanità. «Soddisfatto?»
«Non molto. Mi spettavo uno di quegli esseri che mettono in mostra nei circhi.»
La risposta non piacque a Rakarth che, quasi senza rendersene conto, finì per trovarsi troppo vicina all’altro, furiosa. «Non ho idea di cosa siano.» Soffiò, stizzita.
«Lascia stare. Sei pronto?»
«A morire? Pensi che si possa essere pronti?»
«A correre, imbecille. A uccidere e tradire per guadagnarti la libertà.» Il tono dell’altro non le piaceva: la trattava come un bambino, come una stupida.
«Io sono uno jaluk, coglione d’un maschio! Io corro solo per morire. Che vuoi da me?»
«Offrirti questo.» Il visitatore non sembrava offeso, solo tremendamente divertito. Le allungò il cilindro con un gesto morbido, tenendo la mano tesa anche quando lei non accennò a toccarlo.
«Che veleno c’è lì dentro?» domandò Rakarth, alzando un sopracciglio. Aveva incrociato le braccia al petto, un gesto difensivo solo in parte. Non voleva cedere alla tentazione di esaminare quel che l’altro le offriva.
«Questi saranno i tuoi colori. Non ne avrai altri, credimi: mi sono assicurato che le scelte degli altri cadano su soggetti meno interessanti.» Con un cenno della testa indicò alle sue spalle. Rakarth distolse lo sguardo senza accorgersene e vide altri maschi e femmine dall’aspetto grottesco e gli abiti eleganti che camminavano fra le file di celle, osservano i Corridori. Ognuno di loro era seguito da un altro individuo – uno schiavo? – che trascinava piccole casse fluttuanti stracolme di cilindri pieni di identico liquido colorato. Ognuna di quelle creature infernali aveva il suo colore, brillante e luminescente.
Rakarth li fissò, cercando di nascondere la curiosità che era il suo vizio peggiore, ma l’altro dovette individuarla perché chiese: «Oh, non sai come funziona, vero?» ridendo come un bambino.
«Chi diavolo siete?»
«Come ti chiami?»
«Che cazzo di risposta è?» Rakarth era infastidita, e non si preoccupava di nasconderlo. Quello sguardo troppo divertito le faceva saltare i nervi come poche altre cose al mondo.
«Una risposta per una risposta. È equo, no?»
«Rakarth…» cominciò, fermandosi appena prima che la “a” finale gli sfuggisse dalle labbra.
«E…?»
«E basta. Ora dimmi chi siete!»
«Hai proprio il temperamento di una jalill, tu.» Rise l’altro. Con un dito fece cenno a Rakarth di avvicinarsi e abbassò la voce fino a un sussurro. «Vedi, Rakarth, la verità è che le femmine nobili sono delle bamboline viziate. Non possono essere colpite, danneggiate, maltrattate, punite… o almeno, non come una volta. Il risultato è che sono più deboli. Cinquecento anni fa nessuna di loro sarebbe sopravvissuta alla pubertà.» Rakarth fece una smorfia, sperando che il disprezzo fosse più evidente della soddisfazione. Oh, le parole del maschio erano senza dubbio vere, ma ammetterlo era una condanna a morte certa.
È stupido o molto protetto? Si chiese, ma non aprì bocca, lasciando che l’altro continuasse a parlare.
«Voi siete più forti, anche con l’allenamento troncato che avete ricevuto. E loro lo sanno. Così hanno avuto un’idea geniale.» Rise ancora, forte, un suono che ferì le orecchie sensibili di Rakarth. Si era avvicinato tanto senza accorgersene, abbastanza da sentire l’alito caldo dell’altro sulla tempia. «Questo liquido è indelebile e luminescente. Ve lo spalmeranno addosso prima della partenza e lo useranno per individuarvi nell’arena. Così…»
«Non dovranno nemmeno avvicinarsi.» Rakarth aveva l’amaro in bocca. L’idea in sé era ottima, senza dubbio, ma il significato! Quelle femmine li temevano! «E voi in tutto questo che c’entrate?» disse, per togliersi quel pensiero imbarazzante dalla testa.
«Noi siamo qui per scommettere. Tutta la Corsa è trasmessa in diretta e gli spettatori, sugli spalti, possono decidere su quale nome puntare. Esistono delle quotazione che… bhe, specchi per le allodole.» Il maschio arricciò il naso, inorridito. «Sono numeri a caso, basati sulle statistiche. Nessuna analisi è molto più di una presa per il culo, secondo la mia esperienza. I veri giocatori, quelli che amano puntare forte, non si limitano ai nomi o ai numeri: scelgono in base alle sensazioni, agli auspici e a ciò che l’occhio gli suggerisce. Per questo siamo qui. Ora, puoi prendere il mio colore e correre per me, o puoi lasciare che ti dipingano del giallo accesso che hanno gli schiavi che nessuno vuole. A te la scelta.»
Rakarth strinse le labbra, disgustato. O divento il suo svago o finisco nel mucchio degli anonimi. Non era una scelta difficile, per lei. Rapida, afferrò il cilindro e lo strinse con forza.
«Tu… sei un bugiardo. Mi hai scelta prima ancora di vedermi.»
«Mi sono informato. Ma non ti avrei dato il cilindro se tu non fossi stato… se non avessi visto anche lei.» il maschio allungò una mano e la passò lungo la mascella di Rakarth, accarezzando la curva del mento e poi su, fino alla bocca piena, che saggiò col pollice. Lei lo lasciò fare: le piaceva quel maschio, e che male c’era a giocare un po’ con lui?
«Tu hai un solo cilindro. Perché?»
«Preferisco ottenere una grande vittoria assoluta. Io non gioco per i soldi.» le disse, avvicinando il suo volto a quello dello jaluk.
«Che tipo di scommessa hai intenzione di fare?» sussurrò Rakarth sulle labbra dell’altro; questi allungò la lingua e la passò sulle sue, lentamente. Poi gli afferrò il collo e lo tirò a sé, stringendo la gola in una morsa dolorosa e innocua. Il maschio dischiuse le labbra e, mentre la lingua si faceva strada nella bocca di Rakarth, lei prese a muovere anche la propria.
Il sapore di sangue si fece più intenso, ma lo jaluk non vi badò: ad annebbiargli la mente c’era parte di quel desiderio che, dalla notte con Dresden, non aveva mai soddisfatto – ma più forte, amplificato dallo sconosciuto. Una mano di Rakarth si mosse verso il maschio, scivolando sul petto di lui per pochi centimetri prima che l’altro si allontanasse di scatto, sorridendo divertito.
«La mia scommessa è un mio problema. Tu devi solo sopravvivere.» disse, leccandosi le labbra rosse lentamente, in maniera volgare.
Rakarth sentì la vergogna invaderla: era stato lui a usare lei! Come aveva potuto permetterglielo?
«Sono un maschio, per la Dea! Un maschio. Lo vedi? Lo capisci oppure sei completamente stupido? Io devo morire, là dentro!» gridò a voce troppo alta, stringendo gli occhi. Se avesse potuto, avrebbe avvolto il collo dell’altro con le braccia fino a sentire il crack dell’osso che si frantumava.
«E io sono un giocatore del tipo peggiore: amo rischiare ma non mi piace perdere.»
«Allora scommetti su di me, vivo dopo la ventiquattresima ora. E spera di non essere anche un maledetto iettatore!» Gli gridò Rakarth, ma quello si era già allontanato. Gli voltò le spalle e agitò la mano nell’aria stantia della grotta, in un saluto irridente. «Testa di cazzo.» sussurro Rakarth.
Rimase a guardarlo allontanarsi, indifferente alle chiacchiere che si facevano intorno a lui. Aveva ancora il cilindro fra le mani e lo stringeva con la stessa enfasi con cui avrebbe stretto l’altro, ora.
Fino a ucciderlo.

 


 

 

Piccolo Spazio-Me: vorrei ringraziare innanzitutto chi è arrivato fin qui: ci tengo tanto a questa storia e mi fa piacere vedere che c'è qualcuno che la segue! Poi mi scuso: le mie giornate sono state più piene di quello che avrei creduto :S cercherò di non farvi aspettare molto il prossimo aggiornamento e farò in modo di affrettarmi a scrivere i capitoli mancanti :)
Al solito, fatemi sapere che ne pensate di questo nuovo capitolo mi raccomando ;) 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La Corsa ***



 
CAPITOLO IV
LA CORSA



 
  Non meno di duecento schermi erano disposti lungo il perimetro della grotta di partenza, a intervalli regolari. I grandi palchi d'acciaio erano gremiti di Ilythiiri esaltati con in mano le strisce di carta delle loro scommesse. Le quotazioni dei singoli Corridori – il tempo di sopravvivenza previsto – lampeggiavano per tre secondi sotto i volti e i nomi delle vittime, ripresi in tempo reale dalla piccola telecamera che girava intorno al recinto in cui i maschi erano stati ammassati, pigiati come bestie.
Una strana mescolanza cromatica si alzava dal gruppo: la luminescenza tenue dei tatuaggi da scommessa. Governava il giallo, forte e pulsante, che copriva l’intera superficie del corpo di più di tre quarti dei Corridori.
Saranno i primi a morire aveva pensato Rakarth, vedendoli, spiccano come fari. Beh, non devono divertire nessuno d’importante, no?
Erano le scommesse del popolino, quelli che dovevano morire in fretta per non frustrare troppo le femmine nobili.
Il pensiero di essere scampata a quella vergogna finale inorgogliva Rakarth almeno quanto lo soddisfacevano i glifi men che vistosi che sfoggiava. Era stato un servo del suo protettore a tracciare quei segni: l’aveva chiamato fuori dall’arena d’allenamento e, con un ago che mandava un ronzio infernale, aveva cominciato a dipingere la sua pelle con il pigmento blu-argento, apparentemente senza uno schema preciso… o almeno chiaramente visibile. Aveva lavorato sul suo corpo per l’intera giornata, partendo dal viso e scendendo con ordine meticoloso fino alla pianta del piede, sotto il quale aveva tracciato una specie di “K” rovesciata.
La sua firma si era detto Rakarth.
Usava i piccoli pensieri per distrarsi dal dolore che l’ago gli procurava: minuscole punture di serpe che gli ferivano la carne ancora e ancora – mai sazie, mai soddisfatte. Rakarth tratteneva il respiro finché sentiva di non farcela più e stringeva di denti, cercando di non far uscire nemmeno un grido.
Sapeva che, se si fosse mostrato debole, gli altri non avrebbero esitato un istante ad affossarlo. Eppure invidiava quelli che, intorno a lui, gridavano a pieni polmoni la loro rabbia impotente. Quella notte sarebbero stati puniti dalla sua squadra – e da lui stesso, se avesse avuto la forza di muoversi – ma in quel momento erano liberi di sfogarsi.
Ne avevano effettivamente pestato uno fino a rompergli una gamba, poi. Yeurl l’avrebbe volentieri ucciso, ma Rakarth l’aveva fermato prima che li mettesse nei guai.
«Se lo ammazzi noi veniamo frustati e lui scampa la corsa. No, lascialo così… non togliergli la gioia di venir braccato e fatto a pezzi per primo, da sveglio.» aveva detto lei e Khalan aveva ridacchiato, punzecchiando la gamba sanguinante della vittima.
Era stato un bel diversivo, senza dubbio, ma non era servito a sfogare la tensione che cresceva di ora in ora, minacciando di esplodere in una furia omicida che a stento restava confinata nell’arena. Rakarth stesso era stato aggredito nei corridoi da un maschio che non ricordava di aver mai conosciuto. L’aveva sbattuto a terra e aveva cominciato a tempestargli il petto di pugni finché Rakarth, accecata dalla rabbia, si era trovata a cavalcioni di un corpo senza vita, intenta a mischiare scatola cranica e cervello con la polvere del pavimento.
Aveva trasportato il cadavere fino a una delle tante aperture che davano sulle fornaci della terra, che scorrevano rosse e calde diversi chilometri sotto di loro, e l’aveva osservato cadere. Non avrebbe subito una punizione per colpa di un maledetto suicida! Se anche qualcuno aveva visto, non aveva parlato… liberandola dalla seccatura di far volare altri cadaveri nel cuore della terra.
Il boato della folla riportò Rakarth al presente. All’unisono, l’intera arena voltò le teste verso la grotta principale, dalla quale la delegazione delle nuove sacerdotesse faceva il suo ingresso. Ventuno femmine perfette, abbigliate in strette tute nere e armate fino ai denti stavano in piedi su antiche portantine rituali, sorrette da due schiavi ciascuna. Intorno a loro danzavano cristalli fluttuanti multicolore, così traboccanti di potere da sembrare fragili e plastiche sacche pulsanti.
Gli altoparlanti diffondevano un canto di guerra rimasto immutato dai tempi della Fondazione di Che’el Phish, quando ancora i Mondi non erano stati unificati. Aveva note barbare e feroci che sapevano infondere coraggio ai carnefici e terrorizzare le vittime; le neo-sacerdotesse ne gridavano le parole con fervore, gli occhi rossi accesi di una luce folle e gioiosa. Dietro Rakarth, qualcuno cominciò a tremare violentemente, e l’eco della sua paura parve contagiare il gruppo come un’onda nefasta.
Iettatore del cazzo! Pensò lo jaluk, toccandosi quei maledetti arnesi che gli pendevano fra le gambe.
Una delle otto Grandi sacerdotesse che sedevano sul palco d’onore lanciò un grido e tutto tacque. Gli schermi si riempirono dell’effige sacra della Dea Ragno, crudele e feroce, e una sua immagine venne proiettata perfino sui Corridori – il ritratto di Lolth nella sua forma aracnoidea che tesseva una ragnatela attorno alla gabbia, catturandoli.
Perfino tra la folla ci fu chi esalò un grido strozzato, vedendola: era così dannatamente reale che Rakarth si trovò a cercare di farsi scudo di chiunque gli fosse al fianco pur di sfuggire alle Sue zampe, ai Suoi mille occhi voraci…
«Si dia il via alla corsa!» tuonarono all’unisono le Gran sacerdotesse. I recinti metallici si aprirono di scatto liberando la folla, che spingeva per fuggire.
I più fortunati morirono subito, schiacciati dai piedi nudi delle vittime terrorizzate in fuga.
Rakarth spinse a terra due maschi con un colpo violento, scivolando oltre le chiazze di sangue fresco. Davanti a lui, circondata dagli spalti delle tribune come da un orrendo mostro metallico dalle mille teste, si apriva la gola di una grotta, riflessa a intermittenza dagli schermi che inquadravano ora il massacro che si lasciava dietro, ora la via di fuga davanti alle vittime.
Rakarth non aveva bisogno di guardare quelle immagini: i rumori liquidi e le grida strozzate alle sue spalle gli davano un’idea piuttosto precisa di cosa stesse accadendo. Le femmine lanciavano incantesimi e proiettili quasi all’unisono, cercando di abbattere più vittime possibili. Ogni volta che una di loro atterrava un maschio, lanciava un urlo di vittoria e otteneva un piccolo glifo sotto la sua foto, proiettata sulla grande parete nera alle spalle delle Sacerdotesse.
Dietro di me.
Qualcuno spinse Rakarth da una parte, distogliendolo dai pensieri di morte che si stava lasciando alle spalle. Le gambe allenate risposero al fiotto d’adrenalina che gli fece pompare il cuore più velocemente e lo portarono avanti, ancora e ancora, verso l’incerta sicurezza dei tunnel.
Poi l’orlo della grotta l’avvolse, cancellando come per magia le grida esultanti della folla. L’aria umida della caverna, coperta di piante contorte e funghi giganti, era umida e stantia, così calda da mozzare il respiro. Il soffitto era basso in maniera opprimente e dalla volta pendevano, come occhi maligni, le piccole telecamere fluttuanti che li avevano seguiti da quando erano entrati, nudi, nell’arena.
Rakarth si guardò intorno, continuando ad avanzare in linea retta per diversi passi prima di tentare una svolta a sinistra. Il terreno, in lieve pendenza e coperto da ciottoli affilati come rasoi, sembrava volerlo guidare verso una fra le tante imboccature dei tunnel che si aprivano da quella prima grotta-anticamera.
Un labirinto!
Rakarth l’assecondò per svoltare, all’ultimo istante, in un tunnel stretto che si apriva a mezzo metro d’altezza dal suolo. Strisciando sulle ginocchia, percorse il tunnel per almeno tre metri prima di rendersi conto che era un vicolo cieco. Una trappola. Allora si acquattò ancora di più e, ignorando il bruciore allo sterno, si avvicinò alla pallida luminescenza dell’imboccatura. Sporse la testa quel minimo che gli occorreva per guardare sotto di sé senza che i suoi tatuaggi rivelassero la sua presenza.
Tre femmine scivolavano furtive fra gli alberi, le armi strette fra le mani. Una di loro – stupida idiota! – stringeva fra le dita una frusta al plasma, le cui estremità erano simili a serpi vive, pronte a balzare. Quell’aggeggio emanava una luce così vivida da penalizzare gli occhi sensibili, senza dubbio. Le altre due le stavano lontane, lanciandole occhiate disgustate senza però avvertirla del pericolo. Rakarth, col cuore a mille, attese, pregando la Dea di concedergli l’occasione.
Un rumore secco, l’eco di uno sparo in una caverna. Al limite del campo visivo di Rakarth due figure si mossero, correndo in direzioni opposte. Le due femmine, più vicine all’altro lato della grotta, si lanciarono all’inseguimento di un maschio dalla pelle marchiata di rosso mentre l’idiota con la frusta corse verso Rakarth, cercando di prenderne un’altro. Rakarth attese, richiamando alla mente le parole arcane della lingua magica. Raccolse una scheggia affilata e si ferì l’indice, facendo uscire sangue denso e nero con il quale tracciò spire e lettere sul braccio e sul petto. Poi, con uno scatto feroce, abbandonò la precaria sicurezza del rifugio e si gettò all’inseguimento della femmina con la frusta.
La stupida sacerdotessa non si accorse di Rakarth finché lei non gli fu addosso. Le strinse la bocca in una morsa di ferro e torse finché non sentì le ossa del volto frantumarsi. Il suo corpo, ora protetto da un velo di aura color acciaio, respinse le due coltellate che la sacerdotessa agonizzante gli indirizzò – poi l’arma le sfuggì di mano, finendo vicina al ginocchio di Rakarth, che recuperò la frusta e l’avvolse intorno al collo nero e esile della sacerdotessa. Strinse fin quando non vide il bianco degli occhi e ancora, sfogando su quel corpo ormai privo di vita tutta la rabbia che l’avvelenava dal giorno in cui aveva lasciato l’ala femminile.
«Whol ib'ahalii de' Lolth!» sputò nella lingua natia, dedicando quel sangue alla Dea. Sorrideva ora, le mani macchiate di rosso ormai prive della difesa dell’incanto.
Qualcosa di gelido scivolò fulmineo alla gola esposta di Rakarth, che sollevò la testa di scatto, ferendosi. Accanto a lui, l’arma in mano, c’era Shinzâr, una delle femmine con cui Rakartha era cresciuta. Era lei a sorridere, adesso.
«Hai davvero osato tanto, Rak.» le disse lei in tono confidenziale, lo stesso che usava un tempo, quando voleva sparlare delle compagne o delle maestre.
«Faccio quello che Lolth vuole. Come te.» le rispose Rakarth, modulando la voce a una calma forzata. Il petto si abbassava lento ma gli occhi dovevano tradire la sua agitazione, saettando rapidi da una parte all’altra della grotta, come in cerca di una via di fuga.
«Già. Non era granché. Poco male, no?» Shinzâr  le si avvicinò quel tanto che bastava per cominciare ad afferrare le armi.
È sempre stata una dannatissima ingorda! Pensò Rakarth, cercando di trattenere un sorriso. Doveva mostrarsi spaventata, senza speranza.
Lentamente, le dita si muovevano a tracciare nella polvere del suolo un simbolo spigoloso, nascoste dal dubbio riparo del suo piede.
«Ti ringrazio di avermi procurato tutte queste belle armi, Rak. Ma ora devi morire, lo sai vero?» continuò Shinzâr, caricando il movimento. Rakarth sporse ancor più il corpo nudo, spostandosi in modo che l’altra potesse osservare cos’aveva in mezzo alle gambe. Funzionò. La mano della femmina si fermò appena in tempo, facendo spillare solo poche gocce di sangue. Lei sorrise, gli occhi carichi di malizia, curiosità e di quel desiderio che non doveva aver soddisfatto poi molto, dopo i Generali.
«Cos’è quello sguardo? Avresti voluto farti un giro?» disse Rakarth, laido, cercando di tirar fuori il suo miglior tono virile.
«Se avessi saputo prima che eri uno jaluk avrei tentato. Ho sempre voluto metterti sotto, Rak.» disse Shinzâr girandosi appena per guardarlo in volto. Per sfidarla.
Il coltello si spostò quel tanto che bastava perché Rakarth potesse muoversi senza rischiare di ammazzarsi da solo. La lama aprì uno squarcio profondo sulla mascella del maschio, lasciandosi dietro una scia di pungente gelo. Rakarth spostò un ginocchio verso la pancia dell’altra, spingendola lontana da lui. Lei gridò, offesa e infuriata, e la sua voce coprì l’invocazione magica di Rakarth.
Lame di roccia sorsero dal terreno davanti alla mano protesa dello jaluk, saettando come fossero vive. Dilaniarono la carne di Shinzâr senza trovare alcuna resistenza e poi le si avvolsero intorno, inglobandola assieme alla non-sacerdotessa morta. Nel giro di qualche secondo solo due cumuli di terra irregolare e alcune armi sparse segnavano il luogo in cui si era svolto il combattimento.
«Stupida puttana!» disse lo jaluk, sputando – e la sua voce era quella di Rakartha, morbida e sensuale.
Raccolse in fretta le armi e riprese la sua corsa folle, scivolando attraverso tunnel scelti arbitrariamente. Evitava le grida e il buio, preferendo passaggi silenziosi in cui i funghi luminescenti le permettessero di mimetizzarsi. Lanciava preghiere alla Dea ogni volta che svoltava un angolo e, ben presto, cominciò a pensare di essere entrata nelle Sue grazie, data la fortuna che stava avendo. Non incontrò che pochi maschi disarmati, che finì a colpi di frusta o con il coltello – come una sacerdotessa. Dedicava il loro sangue a Lolth e scappava oltre, convinto che nessuno avrebbe battuto una pista che, evidentemente, una Cacciatrice stava già percorrendo.
Fu quando una luce vermiglia si riflesse alla fine di un tunnel che Rakarth cominciò a pensare alla superficie. Quelle gallerie sarebbero verosimilmente potute sbucare da qualche parte… un luogo in cui avrebbe potuto nascondersi e riposare. Il petto si alzava frenetico, i polmoni dolevano per il bisogno di ossigeno in quell’aria umida. Era coperto di sudore e aveva i muscoli in fiamme, le ferite che gli bruciavano. Con un fiotto di speranza si costrinse ad avanzare a ritmo sostenuto solo per trovarsi fermo col cuore in gola, davanti a un fiume di lava che scorreva a meno di dieci metri da lui.
La delusione riempì d’amaro la sua bocca, dandogli la nausea. Il calore lo stordiva come mai aveva fatto, facendo pulsare il sangue nelle orecchie a un ritmo che lo assordava.
Rimase a fissare il fiume vermiglio e pensò che non sarebbe stato male, che finire in un rivolo color sangue o col sangue che scorreva a rivoli non era poi tanto diverso. Era quella, la vera libertà?
Non ebbe il tempo di rispondere che qualcuno lo afferrò alle spalle, tirandolo indietro. Il coltello gli cadde di mano, perdendosi nel fiume incandescente con un tonfo sordo che invase la mente di Rakarth, estraniandolo dalla realtà. Cercò di lottare ma un altro paio di mani gli serrarono le gambe, facendolo crollare a terra. Corde di ferro gli si avvolsero intorno, immobilizzandolo, e prima che potesse anche solo realizzare di essere fottuto si trovò a scivolare sul terreno, ferendosi il fianco.
I due lo trasportarono per alcuni metri, fino all’ennesimo tunnel. Lo depositarono alla bocca del passaggio e lo spinsero rudemente. Rakarth precipitò per alcuni secondi prima di incontrare una superficie fredda e metallica. Il buio lo circondava, impedendogli di capire dove o cosa fosse. Cercò di muovere le mani per creare un globo di luce, ma non gli fu possibile… e comunque, con la bocca bendata non poteva fare molto. Allora aspettò, preparandosi a lunghi giorni di agonia prima di una morte per stenti.
Lasciò che il buio lo avvolgesse e trattenne una bestemmia alla sua Dea, che lo aveva guidato a una fine tremenda solo per il proprio divertimento. E forse lei lo sentì, perché tante piccole creature presero a strisciare sul suo corpo inerme.
I ragni dei Lolth sono venuti per la mia carne pensò, mentre sentiva uno di loro morderlo al collo.
Sperò che facessero in fretta.  


 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Jaracas ***



 
CAPITOLO V
JARACAS



 
  Rakarth aveva immaginato la tela della Dea come una tortura infinita, un nodo appiccicoso e stretto in cui le zampe di Lolth si sarebbero mosse come sul ghiaccio, scivolando con facilità fino alla vittima per nutrirsene ancora e ancora, per l’eternità, dilaniando il suo spirito e facendolo tessere di nuovo durante il giorno, dai ragni suoi servi.
L’inferno in cui si trovava ora, però, era ben diverso. Una coltre tiepida e morbida lo avvolgeva fasciando quello che era, senza alcun dubbio, il suo corpo nudo ancora integro. Rumori di vita arrivavano ovattati da una parete e rimbombavano sui muri di roccia di quella che doveva essere una piccola stanza. L’eco di tutti quei suoni mandava segnali che le orecchie fini di Rakarth non avrebbero potuto equivocare. Eppure lo jaluk tenne gli occhi serrati, timoroso che quella comodità non fosse altro che un perfido inganno.
Strinse a sé la coperta leggera e si girò, tuffando il volto nel cuscino, e sentì un peso trattenere le coltri. S’irrigidì.
«So che sei sveglio.» disse una voce familiare. Le molle del letto cigolarono appena mentre il peso si spostava, allungandosi verso di lui. «O preferisci che dica “sveglia”?»
Rakarth aprì gli occhi, tutti i sensi all’erta. Era in una piccola stanza fiocamente illuminata da lampadine al neon, verificò, una camera con molti armadi e grandi specchi su quasi tutte le pareti, interrotti solo dalla porta semichiusa di quello che pareva un piccolo bagno. C’erano tappeti a terra e due poltrone, inframmezzate da un tavolino. Alla sua destra, una porta di legno massiccio, oltre la quale erano ancora percepibili i rumori di chiacchiere e passi.
Rakarth registrò ogni dettaglio dell’arredamento, apprezzandone il gusto ricercato mentre ne valutava l’affidabilità come arma. Non c’era poi molto per colpire: le poltrone sarebbero state troppo pesanti per lui e gli armadi non sarebbero certo stati carichi di pistole! Avrebbe potuto rompere uno specchio e usare un vetro per minacciare il maschio, certo, ma avrebbe dovuto prima allontanarsi da lui…
Il pensiero non impiegò più di un secondo a formarsi nella mente e Rakarth lo nascose sotto una maschera di confusione ben studiata.
«Perché sono qui?» disse, calibrando le parole a un’assonnata lentezza.
«Sei diretta, eh? Non vuoi sapere prima dove sei?» Il maschio era vestito di pelle, come prima della Corsa: una giacca aperta sul petto chiaro e un volto da giocatore d’azzardo, imperscrutabile e irrisorio.
«Rispondimi!» ordinò Rakarth, sollevando il busto. Per la Dea, com’era pesante la testa!
«Sei qui perché io ti voglio, mia bellissima creatura. Sei qui perché è da decenni che aspetto un’arma così… unica.» Il maschio sembrò gustare le parole a una a una sulle labbra prima di lasciarle andare. Osservava Rakarth con uno sguardo avido.
«E la corsa?»
«Finita. I miei uomini ti hanno prelevato prima che una telecamera decidesse di infilarsi in quel tunnel quindi tranquilla… nessuno sa che sei viva. Ho espresso molto chiaramente il mio disappunto per la sconfitta, sugli spalti.» tagliò corto lui, agitando una mano nell’aria.
«Smettila!» sibilò Rakarth fra i denti, scagliandosi in avanti – un movimento che mise a dura prova il precario equilibrio della sua mente. La stanza prese a danzare intorno a lui, sfocandosi.
«Di fare cosa?»
«Smettila di rivolgerti a lei direttamente! Non ci piace.» disse Rakarth, prendendo la testa fra le mani. Tracce del veleno con cui dovevano averlo sedato pulsavano ancora nel suo sangue, confondendolo.
«Capisco. Chiedo perdono.»
«Mh.» disse Rakarth e ricadde all’indietro, evitando per un pelo di sbattere la nuca sulla testiera del letto. «Chi sei?»
«Chiamami pure Jaracas. Sono il tuo nuovo sponsor.» disse il maschio, alzandosi e muovendosi verso un piccolo schermo.
«Che significa?»
«Lo capirai.» Jaracas spinse un pulsante e la luce fredda e blu invase la stanza. Il maschio digitò una sequenza e l’intensità calò, poi scorse il menù e premette un tasto, ancora. «Benvenuto, Rakarth.» concluse, voltandogli le spalle.
La porta si aprì e tre femmine entrarono, tenendo lo sguardo basso. Non aprirono mai bocca mentre portavano Rakarth nel piccolo bagno e lo lavavano della polvere dell’arena con gesti esperti. Poi le coprirono il corpo di olio profumato e aprirono gli armadi – e Rakarth rimase senza fiato. I colori vividi degli abiti femminili e quelli più scuri e marcati dei vestiti maschili facevano uno strano contrasto con l’oro e l’argento che i cassetti nascondevano. Monili e trucchi che non aveva mai visto le vennero fatti sfilare davanti e le fu permesso di scegliere, per la prima volta nella sua vita, cosa indossare o quale parte di sé essere.
La vestirono, le curarono viso e mani e, spruzzato un profumo dall’aroma pungente, la lasciarono sola con un maschio più basso di lei, che le spiegò le regole della casa.
Avrebbe avuto tutti i servi, i gioielli e i lussi che desiderava perché il Signore l’aveva scelto come suo campione. Avrebbe gareggiato per lui nell’arena di Endressa, la capitale sotterranea in cui si trovavano, guadagnando gloria e onore per sé e per Jaracas. Le disse che il suo Signore era compiaciuto di aver trovato un combattente così di talento e l’adulò con tali e tante parole che, quando infine la porta si chiuse nella stanza solitaria, Rakartha rivolse una preghiera carica di amore alla Dea, che l’aveva premiata per il sangue che aveva fatto scorrere alla Corsa.
Ora Rakarth era libera, finalmente – libera e ricca. L’aspettavano anni di gloria e piacere, e per la prima volta rise felice, liberandosi di quella paura che l’aveva attanagliata per tutta la vita.
Pregò Jaracas di farla scendere nell’arena per la prima volta il giorno successivo; sentiva forte la necessità di offrire un tributo a Lolth, come ringraziamento per la buona sorte a cui l’aveva condotta. Le vennero date una corta lama ricurva e una frusta, le armi rituali di una sacerdotessa, e con quelle Rakarth tolse la vita a tre combattenti, gridando di gioia ogni volta che vedeva il sangue allargarsi sulla sabbia scura.
Lottava quasi nudo, con un perizoma di stoffa a coprire i genitali e i piedi scalzi, i muscoli che si tendevano nell’impeto della battaglia, torcendo i tatuaggi luminescenti di cui aveva imparato ad andare fiero. Erano il suo segno distintivo, il marchio della sua unicità, e sospettava che fosse per quelli che tanta gente veniva a trovarlo, dopo la lotta.
Alcuni scommettitori volevano congratularsi con lei, molti altri scoparselo. A Rakarth piaceva: indossava il belletto e lasciava che quelle creature lo prendessero con una passione che variava a seconda di quanto era costoso il monile che le portavano in dono. Sapeva che a guadagnarci era lei, sempre – e comunque, quando il maschio che era in lei alzava la testa per protestare, c’erano sempre gli schiavi su cui sfogare la propria rabbia.  
Rakartha provava un risentimento feroce per le femmine, di qualunque razza fossero: invidiava il loro corpo e ciò che a lei mancava, e mal sopportava quella strana, innaturale ossessione che il suo lato maschile aveva per loro. Quella prima notte, e per molte a seguire, chiamò femmine nella sua camera a coppie, per prenderle e poi ucciderne una di fronte all’altra, come sfregio verso loro stesse e ciò che rappresentavano. Lo faceva dedicando il loro sangue a Lolth, che pure doveva odiarla per questo, dato che non operava su di lei il mutamento che tanto desiderava. Ma quello delle femmine era un compromesso che aveva dovuto accettare per quietare il maschio: scendere a compromessi, ricavando però un vantaggio per sé sola alla fine, era accettabile.
L’unico punto in cui concordavano entrambe le sue anime era Jaracas.
Il Signore della casa pareva non vivere per altro che vederla combattere: sedeva nell’arena lontano da tutti, isolato, silenzioso e con la testa poggiata alle dita incrociate, e non le staccava gli occhi di dosso, mai.
Delle volte, camminando per i corridoi, l’aveva sentito vantarsi del “fenomeno” che aveva scovato in una grotta e che ora faceva parte della sua collezione. Allora Rakarth rideva in silenzio pensando che quell’idiota, che dopo ogni battaglia apriva le gambe per lui, non aveva ancora capito che era lei ad avere il controllo.
Jaracas era la creatura prediletta di Rakarth, la più preziosa: l’animaletto che le garantiva una vita di lusso. Un cucciolo anche fastidioso, a volte: continuava a far domande sul suo passato quando lui meno se lo aspettava, pretendendo risposte con un’arroganza che Rakarth tollerava a stento. Spesso lo zittiva con un bacio, altre volte preferiva punirlo prendendolo con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Quella sera avevano già consumato la loro abituale ginnastica da letto e attendevano, distesi sul materasso ampio della camera di Jaracas, che l’eco dell’orgasmo si spengesse.
«Cos’è che ti ha reso… così?» domandò Jaracas, osservandolo da sopra una spalla. Aveva parlato con la calma indifferenza di una domanda studiata da tempo, e questo mise a proprio agio Rakarth.
«La Dea deve aver perso qualche scommessa. Ha puntato su di noi e noi abbiamo fallito. Io sono la punizione per la mia gente.» spiegò lo jaluk, allungando il collo. Aveva ancora dolori in tutto il corpo, alcuni dei quali più vecchi di quella notte.
«Raccontami come hanno fatto a scambiarti per una femmina.» Jaracas si era girato su un fianco e lo guardava. Così, con i capelli lunghi sciolti sulla spalle nude, aveva perso un po’ di quell’aria aliena che aveva nelle grotte. La nudità di Jaracas metteva Rakarth a proprio agio: la faceva sentire superiore, sicura di essere l’unica armata. Era lei ad avere il controllo, ora. Forse per questo cominciò a raccontare.
«I… i neonati sono una maledizione. Piangono, mangiano e cacano. Nessuna Matrona se ne occupa mai. Li mettono al mondo e poi li lasciano alle schiave… che i bambini siano figlie PrimeNate o abomini maledetti.» attaccò, richiamando alla mente parte di quei ricordi che venivano dai bisbigli nella scuola. «Tutti i figli destinati alla Corsa sono raccolti e mandati a svezzare nella Casa. Vengono tenuti insieme, maschi e femmine, anche se…. anche se alle jalill viene data una schiava migliore. Bisogna imparare a competere fin da piccoli, capisci? Per lo spazio, per il cibo, per l’angolo di pavimento in cui si dorme. Bisogna imparare a non avere vergogna.» Jaracas annuì, facendo al contempo un gesto vago con la mano. “Salta la parte noiosa” voleva dirle. Rakarth lo ignorò. «Quando i bambini hanno raggiunto il trentesimo anno di vita li si fa uscire fuori per la prima volta. Per la città, con le schiave. C’è… si ha paura. Che’el Phish è così… è infinita. E violenta.» fece una pausa, chiudendo gli occhi. Ricordava gli odori, le ombre e gli sguardi di quel primo giorno, nitidi come fosse ora. Un’istantanea dolce e dolora, indelebile nella sua mente. «Mi ricordo che la vecchia umana mi stringeva a sé con forza, sussurrando parole di coraggio a cui non credeva, e io mi aggrappavo agli abiti logori, pregando che prendessero lei e non me. Ci… facemmo il giro della piazza del mercato Est e poi tornammo indietro. Nell’atrio della Casa una femmina ci consegnò un coltello corto e ci mostrò…»
«L’hai uccisa?» tagliò corto Jaracas, annoiato.
«Le tagliai la gola da sinistra a destra, guardandola in quegli occhi fradici. E lei gridava e gridava, come uno spirito, lottando. E io… io ero piccolo, ancora, a stento le arrivavo alle ginocchia. Era la nostra prima prova, capisci? Il bagno di sangue.» disse senza enfasi Rakarth. Si era spostato sopra a Jaracas, ora, e teneva un immaginario coltello nella mano destra, con cui attentava alla vita dell’altro.
«La pietà non è per le razze che vivono nell’ombra.» disse Jaracas con una saggezza velata di ironia. Cercò di spingere via Rakarth ma lei non si mosse.
«Già. Ma non bastava. Ricordo che passai giorni a pulire il cranio dal sangue e dalla carne, levigandolo sotto l’acqua gelida. E poi… poi venimmo radunati e ci venne chiesto l’osso di chi ci aveva curati, in cambio della nostra vita.» mentre lo diceva la sua voce era tenera, di una dolcezza melensa che dava i brividi. Accarezzava i capelli di Jaracas come fosse una bambola, la sua preferita.
«Quanti passarono la prova?»
«Sono molti meno di quanti credi. A volte le schiave lo capiscono e riescono a ucciderci, contando sul fatto che noi siamo molto più piccoli di loro. Raramente qualcuno si affeziona e non riesce ad ammazzarla o a scuoiarla. Quelli…»
«Naturale.» Jaracas si girò di scatto, immobilizzando Rakarth sotto di lui. Avvicinò il bacino al suo, premendo l’erezione dura contro la parte bassa dello stomaco dello jaluk. «E in tutto questo quando sei diventato femmina?»
«Quando ho pagato per la vita. Le guardie ci divisero in due gruppi e io finii con le femmine.» Stavolta Rakarth tagliò corto davvero. Avvolse Jaracas con le braccia, improvvisamente impaziente, ma questi lo respinse ancora.
«Correggimi se sbaglio, ma già dovevi averlo il…» Attaccò, facendo scende una mano verso l’inguine di Rakarth.
«Tu cosa credi?» S’infiammò Rakarth. L’allusione a quel coso aveva trasformato il desiderio in rabbia in meno di un istante – come era sempre stato, d’altronde. «Non ci hanno spogliati, imbecille. Una jalill non può essere costretta a niente da un maschio.»
«Ma tu sei stato costretto a qualcosa, mh?» cercò di calmarlo Jaracas, tornando a stendersi su di lui. Aveva di nuovo modulato la voce a quel tono sottile e ipnotico, ma ora non riusciva a penetrare la calda rabbia di Rakarth.
«Quelli erano maschi nobili.» sibilò fra i denti, come fosse la cosa più ovvia al mondo.
«Ah, si. Capisco. O meglio, no, ma ho rinunciato a cercare di comprendere le vostre assurde leggi dopo il primo anno a Che’el Phish.» disse Jaracas, tentando ancora di ammaliarlo. Rakarth si alzò in piedi di scatto, allontanando il giovane da sé con violenza.
«Cosa c’è da capire? Maschio inferiore uguale seghe o bordello, a meno che qualcuna non lo richieda esplicitamente. Maschio superiore uguale jalill… se queste lo vogliono.» spiegò sommariamente, raccogliendo i primi vestiti che gli capitavano a tiro da terra.
«Non credo tu ti ascolti, quando parli.» Jaracas tentava di mantenere un tono divertito e sensuale, ma era chiaramente infuriato come Rakarth, se non di più.
«Stronzo» concluse il maschio che era in lei: una risposta troppo debole che non colpì il bersaglio. Lasciò correre e aprì la porta, cercando di trovare un po’ di controllo assieme alla strada per la sua stanza.
Jaracas gli ordinò tre volte di tornare indietro; due di troppo giudicò Rakarth, sbattendo la porta in faccia a quegli ordini che ancora gli tormentavano la mente. Chiamò uno schiavo e gli intimò di portare tre femmine e tre maschi dalla pelle scura e i capelli chiari entro mezz’ora, pronti per soddisfare i suoi desideri.
Gliene portarono cinque, tre femmine e due maschi con la pelle chiara come la luna, ma almeno i loro tratti erano elfici. Una delle femmine era abbastanza giovane da essere ancora vergine, e prenderla fra le sue grida di dolore e paura fu un inaspettato piacere per Rakarth.
Poi la jalill che era in lui decise che era il suo momento e scacciò tutte le femmine, restando sola con i due maschi.
Uno dei due tremava. Era giovane e umano, uno di quelli catturati da poco. Aveva le mani delicate, gli occhi affilati e la vita stretta, da femmina. Uno delle tribù dell’Est, senza dubbio. L’altro aveva condiviso spesso le notti di Rakarth da qualche tempo a quella parte: era un uomo talmente massiccio da far sospettare che da quale parte, fra i suoi antenati, doveva esserci un orco – o un nano molto possente, magari. Aveva una particolare avversione per lui, e questo era chiaro dal modo in cui Rakarth aveva dovuto combattere per poterglielo infilare dentro. Anche avvolto da corde o incantesimi, il mezzo-umano aveva continuato a fulminarlo con gli occhi, maledicendolo con pensieri così pesanti che Rakarth credeva di averli uditi, un paio di volte.
Il suo primo ordine fu per quello più massiccio. Scagliò un incantesimo sulla sua fronte e gli ordinò di scoparsi quello più piccolo. Il secondo fu per il ragazzino: doveva occuparsi di lui mentre l’altro lo prendeva senza riguardo, soffocando sul suo membro le proteste e il dolore.
A Rakarth piaceva quel suono: lo faceva sentire potente come poche altre cose, tranne uccidere, potevano – e per un po’ riuscì a godersela; poi il ragazzino ebbe la geniale idea di mozzicargli l’uccello per cercare aria. Prima ancora che il ragazzino potesse cominciare a scusarsi – o a pregare, forse – Rakarth aveva già stretto la sua gola fra le mani. Il rumore dell’osso del collo che si spezzava non lo lasciò soddisfatto come accadeva di solito. Quella sera sembrava destinata a farla dare di matto! Nulla si metteva per il vesto giusto!
L’uomo massiccio spinse il cadavere da una parte e restò immobile, dritto sulle ginocchia. Rakarth lo guardò e sciolse l’incantesimo con un cenno pigro della mano, afferrando il coltello per ogni evenienza – ma l’altro non l’attaccò. Si limitò a osservarlo mentre componeva la sequenza numerica sul piccolo schermo e chiamava i servitori perché cambiassero la biancheria da letto e spostassero il cadavere.
Rakarth sprofondò in una poltrona, ancora nudo, e rimase in attesa, l’uomo in piedi al suo fianco. Percepiva una tensione anomala in lui e ne era incuriosita. Perciò non si sorprese quando, non appena la porta si fu chiusa, l’altro cominciò a parlare.
«Sarai soddisfatto. Due cadaveri in una sola notte.» disse, sputando tutta la rabbia che aveva in corpo.
«No. Quando chiamo degli schiavi per scopare, voglio scopare, non restare con un lago di sangue e insoddisfatta.» Rakarth aveva la voce annoiata e la testa poggiata su un braccio, mollemente. Non guardava l’altro ma il letto, ora perfettamente pulito e tirato.
«Ipocrita.» sibilò l’uomo, stringendo le mani al petto. Tremava appena, la mascella contratta. «Immagino che tu non abbia pensato bene a chi era quel ragazzino.»
«Primo, non sono ipocrita. Ipocrita è chi dice il contrario di quello che fa, mh? Io prima scopo e poi ammazzo, non il contrario. Secondo: non me ne può fregare di meno della storia lamentosa di una vita inespressa, una famiglia in lacrime e il lutto. Se avesse aperto la bocca e si fosse impegnato a quest’ora sarebbe tornato a dormire in quella fogna che chiamava casa, e io sarei stata soddisfatta.» Lo divertiva rimbeccare lo schiavo. Quell’uomo era più grosso e si riteneva più intelligente di lei, senza dubbio, ma sarebbe comunque finito sconfitto… che scegliesse il confronto fisico o quello mentale.
«Sei ottuso, come tutti gli animaletti del serraglio di Jaracas. No, non parlavo di lui in sé, ma del suo ruolo. Sapevi chi era?»
«Uno schiavo?» lo provocò Rakarth.
«Un cucciolo del serraglio di Jaracas.» rispose l’altro, ora assurdamente più calmo. Era perfino
quasi sull’orlo di un sorriso!
«Beh, la cosa non cambia. Era pur sempre uno schiavo.»
«E tu cosa credi di essere?»
«Io sono un privilegiato, razza di idiota. Io vivo qui, nella parte nobile della casa. Io mi scopo il tuo padrone e lo faccio gridare come una prostituta! Io ho controllo su di lui! Tu… e quel cadavere maledetto dalla Dea, siete le mie bambole. Jaracas è la mia puttana. E questo posto… questo posto è mio, anche se siete tutti così idioti da non rendervene conto.» Rakarth aveva iniziato a urlare senza accorgersene, sbattendo perfino i pugni sui braccioli della poltrona.
«Sai cosa si dice dalle mie parti? “La libertà si misura dalla possibilità di andarsene”. Se questo posto è tuo, se sei così importante da non poter essere disubbidito, vattene! Che ci guadagni a restare in una grotta quando c’è un mondo intero che ti cammina in testa?» domandò lo schiavo, ora apertamente divertito.
«Nessuno può camminarmi in testa, idiota!»
«Cosa credi, che esista solo questa oscurità ripugnante? Che il mondo sia avvolto dalla roccia? Hai mai alzato lo sguardo al soffitto? C’è una luce chiara che viene e va, ed è il sole. Bagna terre dove l’occhio può vagare all’infinito senza incontrare altro che aria! E tu potresti camminare per chilometri circondato dal vuoto…»
«Pazzo! Queste cose non possono esistere! Vattene!» Rakarth si era alzato in piedi e aveva raggiunto lo schermo, cominciando a digitare freneticamente il codice giusto. Dovette rifarlo due volte, tanta era la rabbia che provava. «Guardie, levatemelo dai piedi!» gridò quando due troll fecero irruzione nella camera. Li osservò trascinare via lo schiavo, nudo e divertito, senza realmente vederli.
La sua mente era altrove, divorata dalla curiosità verso la visione allettante e impossibile che quell’uomo aveva evocato.    

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La luce del Sole ***



 
CAPITOLO VI
LA LUCE DEL SOLE



 
  Rakarth strisciava lungo un tunnel troppo stretto per essere usato dalle guardie in servizio.
I rumori alle sue spalle erano ovattati dal rombo di una cascata sotterranea, che saltava per dieci metri fino al lago che aveva appena attraversato – ma Rakarth dubitava che i cacciatori di Jaracas potessero arrivare fino a lì.
Aveva scelto la via più lunga, quella che riteneva fosse la scelta meno probabile, perché sarebbe stato facile perdersi nel labirinto di tunnel. Erano gallerie scavate dai nani in cerca d’oro, più di duecento anni addietro; molti di questi passaggi erano ciechi, altri ancora finivano su strapiombi che, un tempo, dovevano essere collegati l’un l’altro da passerelle. Rakarth aveva mandato a mente ogni singola svolta, ripassando con ossessione il percorso anche durante le lotte nell’arena. Una distrazione che gli era costata qualche ferita, certo, ma che ora dava sicurezza ai suoi movimenti, nonostante il buio impenetrabile.
Non si era arrischiato a portare delle luci: in parte perché voleva poter avvistare il luccichio del sole da lontano, in parte perché sapeva che Jaracas avrebbe intuito le sue intenzioni.
Jaracas. Col senno di poi era stato stupido affrontarlo, ma ormai era fatta.
Aveva avuto fisso nella testa il pensiero della superficie da quella notte con lo schiavo muscoloso tanto che, sempre più spesso durante le pause, si era ritrovato a scavare fra i tomi della biblioteca personale di Jaracas alla ricerca di informazioni. Non che gli fosse piaciuto quello che aveva trovato: a quanto pareva la luce del sole era in grado di bruciare la pelle degli Ilythiiri fino forse ad arderli vivi – ma c’era la notte, no? Un periodo di buio luminoso, più congeniale a un albino della completa oscurità del sottosuolo.
La curiosità era sempre stata un suo vizio, mescolata con l’idea di superiorità, e questa combinazione le aveva fatto vincere la prudenza, quella notte. Aveva ancora la scena nella testa: le sue mani chiare infilate nei capelli neri di Jaracas che dettavano il ritmo della bocca di lui sul suo membro e l’immagine di una distesa liscia e rocciosa attorno a sé, completamente vuota. Lei che correva e la pressione sulla pelle sensibile del pene che aumentava e diminuiva al ritmo delle sue mani – un miscuglio che l’aveva eccitata come nient’altro fino a quel momento.
Era venuto nella bocca di Jaracas e l’aveva tenuto lì, incollato, fino a che anche l’ultimo brivido dell’orgasmo si era spento. Poi s’era girato, aprendo le gambe e lasciando che l’altro si spingesse con ferocia dentro di lui, che perdesse il controllo.
Sarebbe stato più facile soggiogarlo, dopo.
Il trucco nero che portava agli occhi era caduto sul cuscino, tracciando linee nette, e lei aveva gridato mentre faceva andare la sua mano su e giù, cercando ancora quel piacere di cui non era mai sazia.
Jaracas era venuto dentro di lui molto dopo Rakarth. Non aveva emesso un singolo suono e si era staccato immediatamente, lasciando i segni rossi dei denti sulla sua schiena. Gli piaceva morderlo, e Rakarth non si opponeva: ogni volta che la sua bocca lo toccava qualcosa in lei si accendeva.
Aveva aspettato che quel residuo di dolore che il sesso gli lasciava alle natiche si spegnesse prima di girarsi di lato. Allora aveva pronunciato le parole che l’avevano portato lì, ora.
«Voglio andare in superficie.» aveva detto, inspirando beata l’aria satura dell’odore del sesso. Jaracas le si era avvicinato e l’aveva fissato con occhi gelidi e feroci, che contrastavano col sorriso.
«Mai.»
«Non credo tu abbia capito. Non ti sto chiedendo il permesso, ma i mezzi. Avrò bisogno di schiavi fedeli che sappiano predisporre un campo e muoversi per…»
«Mai!» aveva ruggito Jaracas, fulminandolo con la sua gelida ferocia. E Rakarth aveva capito che quella appena infranta era l’ennesima illusione. Aveva allora baciato Jaracas e aveva annuito, mostrando una sottomessa dolcezza che la ripugnava più di qualunque altra cosa avesse mai fatto.
Non aveva più sollevato l’argomento, ma si era segretamente preparata per essere lì, in quel momento, a poche ore di viaggio dalla libertà.
Svoltò a sinistra in un tunnel che sapeva di funghi e chiuso. Nuvole di polvere gli danzarono attorno quando si tirò in piedi, cercando di mettere a fuoco qualcosa nel buio. Era il tratto più pericoloso, quello: passava accanto a un vecchio fortino nanico, talvolta presidiato dagli uomini degli schiavisti. Rakarth non prevedeva di arrivare abbastanza vicino da farsi scoprire, ma era meglio non sfidare la sorte.
La Dea è capricciosa.
Allargò le braccia fino a toccare, con la punta delle dita, le pareti irregolari e taglienti, e rimase così fino a quando non sentì le dita della destra incontrare il vuoto. Svoltò ancora e quello che vide le fece saltare il cuore in gola.
La luce non era simile a niente che avesse visto fino a quel momento. Scivolava in raggi d’oro e carminio che pulsavano lievemente, seguendo forse i capricci di una brezza o degli alberi di cui aveva letto. Era in alto rispetto alla sua posizione, ma illuminava la porzione di tunnel in pendenza. Concedendosi un ghigno di vittoria, Rakarth prese a correre verso quel traguardo.
Ignorò quella voce che la metteva in guardia sul fatto che il tunnel non fosse segnato, o che quel sole potesse bruciargli gli occhi: ce l’aveva fatta! E, per la Dea, l’aveva messa in culo a tutti quelli che la ritenevano una sciocca. Ignorò anche la prudenza, e questo le fu fatale.
Il sibilo di qualcosa che volava nell’aria – un insetto, forse? – la colpì, seguito da una puntura lieve che, lentamente, irradiò il suo dolore a tutto il corpo. La vista prese a tremare, confondendo ombre e luci in un caleidoscopio folle. Arrancò, cercando ancora di raggiungere la libertà che quel riverbero rappresentava, ma era come camminare nell’acqua, il suo corpo era pesante e non rispondeva alla sua volontà. Chiuse gli occhi per allontanare quella nebbia una volta, e un’altra ancora, più a lungo.
Il bagliore divenne più forte e il caldo la avvolse, ferendo la pelle delicata. Improvvisamente vigile e carico di una gioia soddisfatta, lo jaluk aprì gli occhi per vedere il mondo di superficie e l’astro che lo faceva soffrire.
Non era la luce del sole, ma le fiamme del camino.
Il misero inganno bruciò il volto di Rakarth, arse la pelle, gli straziò gli occhi e i capelli. Un urlo rauco gli abbandonò la gola stretta in un laccio mentre le mani annasparono in aria, in cerca della pietra su cui puntellarsi per spingersi indietro. La trovò, ma una mano gli afferrò la nuca e lo tenne premuto sui carboni ardenti.
«Ti è passata la voglia di correre, Rakarth?» domandò Jaracas vicino al suo orecchio. Rakarth cercò di aprire la bocca per ribattere ma non ci riuscì: aveva il volto ustionato in più punti e perfino respirare era un’agonia. Con la coda dell’occhio scorse la roccia grezza di un focolare da cucina e delle figure sfocate.
Tante, troppe figure.
«Che cosa ho sbagliato, spiegamelo? Ti ho dato una bella stanza, schiavi a volontà e bei vestiti che soddisfacessero la femmina che è in te. Hai avuto trucchi, gioielli… ti ho dato perfino il culo. È così che mi ripaghi? Scappando?» Jaracas aveva una nota folle e sofferente nella voce. Tremava violentemente, facendo bruciare ampie chiazze del viso di Rakarth – che si dimenò con violenza, cercando di sfuggire all’inferno che lo avvolgeva. «No, non ci provare. Ora stai zitto e mi ascolti bene, e cerca di farlo entrare in quel tuo cervellino da pazzo. Tu. Appartieni. A. Me. Ti è chiaro? Sei mio. E farai quello che dico se non vuoi finire in una gabbia di mezzo metro fra una lotta e l’altra. Hai capito?»
Rakarth gridò di dolore. Pezzi di pelle carbonizzati lasciarono gli angoli della bocca e le labbra.
«Hai capito, schiavo?» domandò Jaracas, avvicinandolo ancor più alle fiamme prima di tirarlo via con uno strattone violento, scaraventandolo su un pavimento meravigliosamente gelido. «Portatolo nella sua stanza. I drow sono una razza forte e si riprenderà in fretta, ma fate in modo che il suo viso ritorni bello come prima. Alcuni giocatori vengono solo per vedere questo fenomeno da baraccone truccato.»


 

Piccolo Spazio-Me: solo un minuto per scusarmi, in realtà. Mi spiace per il ritardo con cui, pur avando la storia già scritta, ho aggiornato: quest'estate non ho avuto praticamente mai Internet e col cellulare non è pensabile tentare di inserire una storia :D Spero che chi la seguiva non si sia arreso e che il caldo dell'estate non abbia bruciato la voglia di sapere cosa succederà a Rakarth. Fatemi sapre cosa ne pensate mi raccomando: i commenti sono sempre ben graditi :)
A presto (e questa volta per davvero)! 

PS: l'immagine è presa in prestito dalla galleria deviantArt di K-Koji che vi invito a visitare.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** La vera libertà ***












 


 
  Lo schiavo muscoloso era chinato su di lui, intento a spalmargli sul volto e sul petto una sostanza che odorava di pesce morto da giorni.
«Vuoi che ti apra un altro sorriso in gola?» furono le prime parole di Rakarth. Uscirono strozzate, simili a un rantolio stentato.
«Buongiorno, mio signore.» L’uomo sembrava insolitamente allegro. Apriva la bocca a ritmo regolare, quasi stesse per mettersi a canticchiare, e sfiorava la pelle di Rakarth con una delicatezza che lo jaluk non avrebbe creduto possibile, in lui.
«Vaffanculo.» La gola e l’interno della bocca scottavano come se vi ardesse un incendio. L’impiastro sul volto emanava un odore di zolfo che esasperava l’olfatto fine, dandogli capogiri violenti. Non sentiva le braccia, ma poteva essere ancora l’effetto della droga che gli avevano iniettato.
Non l’avrebbero mutilato. A cosa serviva un combattente senza braccia o gambe?
«Perché dovrei? Penso che tu possa raccontarmelo con più precisione. Com’è prenderlo in culo quando non lo vuoi?»
«Cerchi delle scuse, schiavo?»
«Sai, credo che se avessi qualche secolo di tempo le riceverei. Ma sono abbastanza soddisfatto di quel che vedo.» l’uomo si allontanò di mezzo passo, poggiando una scodella di plastica sul piccolo comodino. Rakarth cercò di girarsi, ma muovere la testa era un’utopia. Sentiva però gli occhi dell’altro su di sé, e improvvisamente si rese conto di quanto doveva essere vulnerabile. Inferiore, di nuovo!
«Mi hai fatto tentare la fuga di proposito!» Rakarth cercò di recuperare il fiato per gridare, ma fu una pessima scelta: la pelle ustionata del collo si spezzò mentre la tosse violenta tagliava le ultime sillabe. Un grumo di sangue salì alla gola, inondandogli il palato.
«Prima o poi l’avresti fatto comunque.» L’uomo prese a trascinare una delle pesanti poltrone al fianco del capezzale, producendo un rumore d’inferno – le grida di anime dannate torturate a morte. «Sai, credo che tu non abbia capito nulla di Jaracas. Non l’hai osservato, come non osservi nessuno di quelli che ti stanno intorno. Tu e lui… bhe, siete uguali. Fate sesso per mostrarvi superiori e cercare di sfogare le vostre frustrazioni. Tu combatti e lui scommette per lo stesso motivo. E per aver ragione, ovvio, per poter dire “te l’avevo detto”. E siete entrambi due bastardi di società che provano solo odio e disprezzo per voi.» Lo schiavo aveva le gambe incrociate e le mani protese. Usava le dita per contare le caratteristiche, come un bambino, e il movimento faceva traballare il corto coltello rituale che aveva poggiato sulle cosce. L’arma che Rakarth aveva usato su tanti schiavi, lì dentro. «Non lo sapevi, vero? Quello che ti tiene per le palle non è neanche potente. Suo padre, il vampiro antico, lo è; ma lui è un dampyr, il figlio bastardo di un vampiro e un’umana. Sai perché e finito fra i drow? Perché è figlio di un nobile, e come tale doveva avere una posizione privilegiata, ma allo stesso tempo è inferiore al più giovane fra i vampiri, quindi meno è fra loro meglio è. Nessun vampiro vuole vivere fra i drow: siete una razza talmente meschina e barbara che ovunque vi disprezzano. Quindi quale soluzione migliore che dargli soldi e prestigio mandandolo nelle fogne?» domandò, con calma. Il sorriso si era fatto ancora più largo, un’espressione di gioia soddisfatta che fece saltare l’ennesimo nervo allo jaluk.
«Perché stai continuando a parlare?»
«Perché voglio che tu sappia ogni cosa. Voglio che la consapevolezza ti ossessioni ogni giorno da qui alla fine della tua misera vita da schiavo. È l’ultima cosa che devo fare, e voglio farla per bene.»
«Te l’ha ordinato lui?» domandò Rakarth, cercando di inghiottire il sangue e la paura che aveva in bocca.
«Tu e Jaracas avete l’oro e i servi, ma non siete né liberi né potenti. Odiate voi stessi ma siete troppo vigliacchi per scappare. Io ti ho osservato e ho capito… e mi sono bastate due settimane.»
«Tu non hai capito un cazzo di niente!» gridò Rakarth, e questa volta il suono fu più squillante. Un rivolo di sangue scese lungo le labbra pallide, bagnando il cuscino, ma lo jaluk non se ne rese conto. L’uomo aveva sollevato l’arma e si chinava su di lui, adesso.
«E invece si. Ma lo accetterai anche tu, prima o poi… e allora soffrirai molto più di noi!»
«Che cosa stai dicendo?» strillò Rakarth, isterico.
«Noi, quelli che hanno avuto il coraggio di alzare la testa per davvero. Quelli che hanno avuto la forza di capire le alternative, le vere alternative.» L’uomo fece una pausa e sollevò lo sguardo al soffitto, gli occhi velati. «Sai, non c’è molta scelta. Quando arrivi qua sotto dopo… dopo tutta la libertà e l’infinito potenziale che c’è su, in superficie… beh, questa vita comincia a starti stretta. Io ho passato anni a pensare alle possibilità. Scappare e morire nell’arena non sono ipotesi tanto diverse: sono da vigliacchi entrambe, e da dove vengo io esserlo è un disonore. E poi, perché avrei dovuto cercare i tunnel? Per morire di pazzia nel buio o venir ripreso e finire… beh, come te? No. Non c’è onore a morire da schiavo nell’arena, combattendo per niente, come non ce n’è nella fuga. Il vero onore è qui.» Il coltello brillò nella luce fredda del neon mentre l’uomo lo portava al livello degli occhi di Rakarth. «Sai cosa si dice da me? “La vera libertà è quella che riposa sulla punta di un coltello.”» La testa dell’uomo scese lentamente finché il naso di lui non fu quasi a livello della fronte dello jaluk. Si puntava la lama alla gola con salda fermezza, senza nemmeno un tremito. Anche la voce era rimasta solida e decisa… e divertita. «Io sto per raggiungerla, e un paradiso di onore mi attende lassù. Tu, invece… dimmi, padrone, sai qual è la vera libertà? E sei abbastanza forte per raggiungerla?»
«Che cazzo…?» Rakarth cercò di dimenarsi, in preda a un panico che non faceva caso al dolore fisico.
«Che tu sia mille volte maledetto dal sangue, Rakarth il drow. Che tu possa avere una lunga vita, carica di dolore!» gridò l’uomo, e quando anche l’ultima lettera dell’anatema fu scagliata, il coltello gli squarciò la gola.
Un fiotto di sangue caldo scivolò sul volto di Rakarth, denso e ferrigno. Gli invase naso, occhi e bocca, entrò nella gola come dotato di vita propria e Rakarth lo deglutì, per non morire soffocato. Il corpo massiccio del suicida, scosso dagli spasmi sempre più deboli, cadde su quello fragile e provato di Rakarth, mozzandogli il respiro. Il sangue lo avvolse completamente, rivestendolo come un sudario – come il realizzarsi di una condanna.
«Maledetto… pazzo! Schiavi… Schiavi!» prese a urlare Rakarth, cercando di muovere le mani nell’aria e di scacciare quelle forme nere e rapide che gli danzavano davanti agli occhi come ragni. Sbatté le palpebre e calde lacrime tentarono di lavare via il rosso, senza riuscire. E quegli esseri striscianti si facevano più vicini, insinuandosi in lui, nella sua pelle chiara…
Poi qualcuno spalancò la porta e lo liberò dal peso del cadavere. Mani violente e dure gli pulirono il viso mentre una donna strillava, nel corridoio. Venne accesa una luce e portato un panno freddo da un maschio che gridava ordini in una lingua squillante e sottile. E sopra a tutto, sopra alle voci e ai rumori e al sibilo dei passi, la voce di Rakarth si alzava come un urlo, come l’eco di un coro di dannati.
«Ripulitelo! Levate via tutto questo maledetto sangue! E, per le otto dannatissime zampe della Dea, portatemi qualcosa per il dolore!»    

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Epilogo ***



 



 
  Quante battaglie aveva vinto in quell’arena?
Centinaia, migliaia forse. Cicatrici indelebili sul suo corpo restavano a testimonianza degli scontri più duri, quelli che avevano messo alla prova perfino la guarigione efficace tipica della sua razza.
Non ricordava le singole battaglie ma una confusione generale e fastidiosa: il suono delle armi e quello delle grida che si mischiavano. Colori, applausi, grida di odio e le braccia alzate al cielo, macchiate di rosso. Quante volte era successo?
I suoi occhi erano velati di piccole, sottili righe della pelle. I capelli avevano cominciato a ingrigire. I muscoli rispondevano più lentamente, adesso, anche se era ancora superiore alla maggior parte dei nemici. Ma per quanto tempo sarebbe sopravvissuto?
Lì, al centro dell’arena, se lo chiedeva per l’ennesima volta, rigirando nella testa domande che continuava a porsi, senza risposta.
Non gli era rimasto molto altro che quelle, ormai, e lo sapeva bene.
Avrebbe combattuto quella notte come lo aveva fatto ogni notte della sua vita, cercando di non morire. Avrebbe detto che era la rabbia a muoverlo, ma sarebbe stata la paura a spingere il sangue più velocemente nelle vene.
Rakarth eseguì il saluto rituale dei gladiatori verso gli spalti dei nobili e Jaracas rispose.
C’era un altro, accanto a lui: un vampiro pallido dall’aria nobile, coi capelli bianchi come la neve; Jaracas gli si rivolgeva con una speranzosa deferenza, scattando a ogni suo minimo cenno, ma l’altro non se ne curava, continuando a prestare gran parte della sua attenzione ai combattenti che sfilavano nell’arena.
Una parte di loro – la parte maschile – avrebbe voluto ridere di quel tentativo puerile ma lei, Rakartha, ne era disgustata. Per quanto tempo erano saltati intorno a Jaracas alla stessa maniera, elemosinando senza dignità?
Il drow spostò lo sguardo verso l’alto, cercando di cancellare quella scena, e lo portò al foro nella volta di pietra: un cerchio più piccolo di un anello, a quella distanza, che rifletteva un chiarore tenue e rossastro. Il tramonto, forse.
È lassù, la libertà? Si domandò, mentre l’odore familiare di un tunnel nel buio riempiva le sue narici. Immaginò di correre verso una luce e di entrarvi, per trovarsi in uno spazio senza volte e pareti di roccia – sconfinato, immenso.
No. Questa è la vera libertà una voce emerse dal suo ricordo, cancellando l’immagine di una superficie che non aveva mai visto, e il volto di un uomo si riempì di sangue chiaro mentre lui sorrideva, ancora e ancora.
Felice, appagato, libero.
La vera libertà.
Ma Rakarth non aveva quel coraggio.
Avrebbe combattuto fino alla fine, aggrappandosi a quella vita vergognosa con tutta la tenacia di cui era in grado, sicuro che, prima o poi, qualcuno più forte di lui sarebbe venuto a liberarlo.    

 
 
 
Piccolo spazio-Me:
bene, ci siamo. 
Spero che questo piccolo viaggio nel mio personale mondo dei Drow vi sia piaciuto. Io l'ho amato e, anche se non sono riuscita ad aggiongere quelle parti che mi ero ripromessa di ampliare (volevo parlare meglio di Jaracas... ma non è mai troppo tardi, no?) spero che voi siate riusciti ad apprezzarlo lo stesso. 
Mi farebbe tanto piacere ricevere suggerimenti, critiche o appunti: vorrei rimettere mano a questo racconto come agli altri, presto, e ho bisogno di sapere cosa c'è da cambiare e cosa è buono, che emozioni vi ha dato e perché. 
Perciò vi aspetto :)
A presto <3


PS: Il banner - come quasi tutti gli altri - è preso dalla galleria di Zeilyan. Buttateci un occhio mi raccomando!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3043773