OBLIVION - La cerchia

di esotericism
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


OBLIVION –
La cerchia


 
Capitolo primo

Quell’assordante ed orribile trillare mi si ficca nel cervello, quasi distruggendolo neanche un elettroshock: mi percorre interamente facendomi quasi rabbrividire, dal pollice del piede destro, fino all’ultimo capello sul cuoio capelluto. Pare anche irrefrenabile e tanto determinata nel dar luogo alla disperata ricerca di un otorino per i miei stressati timpani, tali da oramai sette anni. La sveglia è sul comodino, o almeno, lo era: la mancina subito che scatta quasi furiosa sulla fonte del suono, ponendo fine alle mie sofferenze, visto questa caduta per terra nell’ennesimo tonfo. Rimango, ad ogni modo –come di mio-, per almeno altri dieci minuti, ignorando il richiamo –questa volta no di “Trilly”, ma della nonna-, con il capo sotto il cuscino ed ambedue le mani che poggiano su di questo, appena rialzato.
«Sheeeeelley! Sei in ritardo: vuoi alzarti da quel letto o devo gettarti per terra?!» Buongiorno anche a te, nonna: il suo strillare certo ora non più tanto irrilevante –anzi, tutt’altro: preferisco la sveglia-.
«Mio Dio…» Poi, anche un’imprecazione, sempre da parte sua - pur se quasi impercettibile-: scosto appena il cuscino, trascino il capo fino al bordo del letto ed apro gli occhi ad intermittenza per la troppa luce che sembrerebbe di già penetrare nella stanza, dalla finestra.                                  
«Shell, vuoi anche un Caffè?» La nonnetta spiritosa è proprio qui, dinanzi a me a toni beffardi, con le mani ai fianchi ed uno sguardo da rimprovero ad intendere tutto: intransigente come pochi, quando si parla di scuola. Finalmente sul punto di mettere meglio a fuoco l’immagine che mi si prospetta dinanzi, ovvero una sveglia dal vetro infranto –ecco, si è pure rotta-, su di una moquette che alla fine non sbrilluccica come oro colato, i raggi ultravioletti del Sole sembrerebbero ora mandare a fuoco l’intera stanza: nonna Abilene ha spalancato le tende.
 «Sono quasi le otto: su, dai!» Neanche un attimo di tregua: passa poco, ancora una volta, che faccio per aprire le iridi, adocchiando di già l’orario sullo schermo digitale della sveglia.                        
«Oh diamine!» È tardi, ed io rizzo subito a sedere sul letto, strofinandomi energicamente gli occhi, con la coda di uno dei due, che intercetta il sorriso sul volto della nonna che sembrerebbe nel frattempo scendere le scale per il piano inferiore della casa. Catapultata in bagno traballando neanche un dopo-sbornia –ed effettivamente, questo potrebbe esserlo: non ricordo-, apro il rubinetto rigorosamente dell’acqua calda e subito mi lavo in tutta fretta e furia: un altro ritardo con allegato –in omaggio, eh-, il rimprovero del professore nevrotico di Fisica stamattina non ci sta proprio per niente. Un maglione castano un po’ largo ad accompagnare la chioma, un jeans scuro attillato e con qualche strass, il giubbotto verde scuro aperto che arriva alle ginocchia, la tracolla scesa con all’intero qualche quaderno pasticciato, e via che si scende in cucina. Secondo la nonna, ho l’aria di una stracciona –e non che abbia tutti i torti, eh-: i capelli castani raccolti in una sottospecie di crocchia ed eccomi lì nel bere dalla tazza il latte caldo. 
«Più bollente no, vero?» Mi scotto la lingua e l’intero senso del gusto sfasa: l’interrogazione retorica, al che riprendo avviandomi di già verso l’uscita a passo felino, salutando ed afferrando le chiavi dell’auto da un centrotavola su di un mobile all’entrata. «Ci vediamo a pranzo.»
La porta cigola e me la chiudo alle spalle, aprendo poi lo sportello del Ferrari in giardino –come no-. Metto in moto, retromarcia e subito si parte verso scuola accompagnata dalla voce di una radio-telecronista, al che non si dilegua, dando spazio ad un pezzo rock mai sentito prima. Avvolta da un alone di rabbia –è Lunedì-, e di stanchezza, arrivo a meta: posteggio l’auto nel parcheggio della scuola e la maledizione ha inizio. Passo fiancheggiante e nel mentre salo le scale, mi squadro qualche bel fusto poggiato alla ringhiera, dando tutta l’aria di volermeli portare a letto –o almeno secondo le loro “leggi psichiche”-, nonostante completamente indifferente e rigida dall’espressione –anche se sì: me li porterei, sempre non l’abbia già fatto-. La mancina alla tracolla e la destra che apre la porta d’ingresso dell’istituto: entro, e di già il macello più assoluto, diretta al mio armadietto. «Ciao. » Saluto qualche tizia di passaggio nel corridoio, e poggio la borsa per terra, accingendomi di seguito nel comporre la combinazione esatta per sbloccare il lucchetto dell’armadietto: prendo qualche libro, e riparto in men che non si dica, ora diretta verso l’aula di Fisica. 
«Shelley!» Qualcuno richiama la mia attenzione a sé: una voce maschile, ed io subito mi giro di scatto, fermandomi in mezzo la mischia di studenti diretti alle varie lezioni, dovuti nello scansarmi, ritrovandomi quindi ad incassare tante di quelle spallate. L’anima mi si ghiaccia dentro per lo spavento: la figura me la ritrovo proprio dinanzi nel momento in cui mi giro, con la destra di questa sulla mia spalla.
«Mio Dio, Aaron: mi hai fatto prendere un colpo.» Lui: l’unico mio miglior amico che non mi scopo quotidianamente per svago. È dolce, moltissimo: ha i capelli della mia stessa tonalità, carnagione più che chiara –un latticino in realtà-, e due Smeraldi al posto delle iridi. Siamo praticamente pappa e cicca, identici in tutto e per tutto, tranne che per il suo carattere troppo fine, aggraziato e gentile: insomma, mi avete vista? Siamo davanti l’aula di Fisica, e lui sembrerebbe riprendere. 
«Non sai quanto possa dispiacermi.» Sì, certo, come no: i toni sono ironici, accompagnati da un’alzata di spalle a sottolineare la presa per il culo. Controbatto in una chiara e più che ovvia falsa risata, come il tutto fosse per davvero divertente. «Ah-ah-ah, simpatico.»
Di seguito sorrido anche, prendendo posto nell’ultima fila dell’aula, con il docente che di già non sembrerebbe risparmiarsi la solita battutina provocatoria, a toni più che antipatici. «Signorina Moore, la sua sconfinata puntualità del giorno mi stupisce; i suoi progressi lo fanno: dovrei preoccuparmi o semplicemente ringraziare la divina corte celeste?» No, ma io mi chiedo: oggi vi sentite tutti più simpatici del dovuto? Inutile dire certo io non godi della più totale stima da parte del “signor simpaticone vincitore dell’anno”. In un sorriso a trentadue denti, ad ogni modo, poi riprendo nascondendo quanto più possibile il mio essere non poco irritata dal suo atteggiamento. «Fossi in lei, la divina corte celeste la ringrazierei se trovassi la sua auto solo in fiamme.» E nonostante sia praticamente una minaccia bella e buona, i toni non sono poi così tanto arroganti o provocatori: cerco di mantenermi il più possibile nelle mie, non apparendo quindi neanche tanto maliziosa; lo stile non mi manca di certo, c’è da dire. La classe esplode in una risata, ed io sotto i baffi la imito, al che Mrs. Simpatia sembrerebbe azzittire tutti i presenti prendendo la spiegazione del giorno. Semplicemente, io con il capo chinato e poggiato sul banco, spero l’ora passi il più rapidamente possibile: secondo Aaron, sono una radiolina con batterie Duracell con servizio costantemente continuo, ventiquattro ore su ventiquattro. 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo.

«Sì certo, come no: ciao sfigato!» Ad Aaron: sto parlando con lui, sì. La mano destra sul punto di aprire la portiera del guidatore dell’auto, nel mentre la mancina quasi in direzione del busto, saluta il ragazzo. Mi getto letteralmente in macchina con tutta la noncuranza del mondo, e dal palmo della sinistra, le chiavi balzano su quello dell’altra: metto in moto, ed il sorriso precedentemente dovuto alla squallida battuta –più che squallida, effettivamente- di Aaron, va pian piano scemando scemando. Frizione, ingrano la marcia, ed accelero, già lì che impreco così precariamente nel vano tentativo di accendere la radio –inutile dire sia distrutta anche quella, come il resto dell’auto, infondo-. La giornata è stata una di quelle: “mio Dio, oggi ho Matematica, Cinese, Aramaico, Egiziano e lettura Runica; riuscirò mai a sopravvivere e a ritornare a casa viva, vegeta ed illesa?!”. Ebbene, sì, ce l’ho fatta: esco dai cancelli e la musica sembrerebbe partire per qualche miracolo eccelso. La scuola è piuttosto distante da casa –in realtà, abito in un paesino non molto lontano-: mi ritrovo su di un rettilineo circondata dal nulla, se non da quella vasta distesa d’erba, ricoperta dalle foglie secche degli alberi che toccano il tutto nei loro colori autunnali. Canto –strido, sbraito, veramente- una canzone dei Daughter data miracolosamente in radio –ed io li adoro-, con le mani che poggiano entrambe, tutto meno che salde, sul manubrio, nel mentre le iridi verdognole scure lì che fissano la strada –o forse no, visto quasi sembro dimenarmi in contemporanea alla performance-, desolata e completamente abbandonata dal traffico. Mi separa da casa, praticamente solo e soltanto una lunga strada rettilinea, ed io non posso far altro che sfrecciare come mai, al che il cellulare non sembrerebbe prendere a squillare in quella più che orribile suoneria: d’istinto perdo velocità e lo sguardo nei pressi del cambio, sotto lo stereo, in cerca della vibrazione. Afferro il telefono con la destra e lo porto all’orecchio chinando il capo verso questo, quasi come per mantenerlo sulla spalla e riportare la mano al suo compito originale. «Sono impegnata, quindi chiunque tu sia fai in fretta.» Inutile dire il mio essere sia sempre così tanto schietto e sfacciato con tutti, sì: se poi parliamo di gente che non ha neanche il privilegio di finire nella mia rubrica –come nel caso-, allora credo la cosa sia più scontata dei prodotti al mercatino dell’usato. «Pronto?» Nessun dire: né una parola, né altro; semplicemente un respiro affannato e pesante, quasi inquietate, nonostante ci voglia ben altro per traumatizzare e intimorire la buona e cara Shelley. Taccio per qualche istante in attesa di una risposta, ma niente. «Se è uno scherzo, ti è uscito male; se mi hai chiamata solo per godere della mia affabile voce, disperatamente innamorato della scopata di qualche notte fa –sempre tu non sia poi così orrido da guardare-, sta’ pur certo ti impiccherai tra non molto.» I toni lì che sembrano quasi arroganti e altezzosi, nel mentre il fiatone dell’”uomo-misterioso” sembrerebbe continuare ed aumentare sempre più di intensità, quasi persuasivo ed ipnotico. Il piede destro fermo sull’acceleratore, mi diventa quasi sempre più pesante col passare della più irrilevante frazione di tempo; le iridi involontariamente quasi mi scivolano, portandosi su quella linea a dividere le due corsie, ora gialla. Ho la certezza quel respiro tanto profondo sia di un uomo: la convinzione io lo conosca da una vita, praticamente mi pervade interamente, rendendomi in qualche maniera, quasi incosciente. Rimango lì immobile e muta, ammaliata a fissare la strada, nel mentre quel colore tanto acceso, insieme alla linea stessa, sembrerebbe entrarmi anche nel cervello, passando dapprima dal bulbo oculare, quasi accecata. «Ssssh..» Quella voce tanto desiderata, ora mi riecheggia fastidiosa e sottile nella testa: è come qualcuno fosse entrato nel mio corpo, e lo dico nonostante io non conosca neanche minimamente una sensazione simile, ma sembro esserne infinitamente convinta, per qualche strano motivo. La strada si perde nei miei occhi sempre più rapidamente: il piede ora preme come non mai sull’acceleratore , e nonostante il rumore del motore sia udibile perfino ad un sordo –vista la velocità-, non posso far altro che rimanere lì, bloccata ed impossibilitata in qualunque movimento possibile ed inimmaginabile. «Ti cercano… Ti stiamo cercando…» Una strana sensazione ora completamente fa da padrona ad ogni mio minimo tentativo di liberarmi da quella stretta, invisibile: investita dalla più acuta percezione di spensieratezza; incredibilmente beata, stranamente immersa nella più totale tranquillità; i muscoli rilassati. «La Setta ti avrà… Ti faremo nostra.» Le parole mi rimbombano sempre più nella testa, flebili. Il silenzio; poi riprende allo stesso modo. «Conoscerai il vero potere, e ne vorrai altro, ed altro; e ne avrai… Uccidere. Uccidere. Farai tuo il male, e ne sarai la padrona.» Il tutto si interrompe con il classico, sonoro e ripetitivo suono di fine chiamata. La figura di un bambino, mano nella mano con la madre, mi si disegna a qualche metro di distanza dall’auto, ancora lì che sfreccia neanche Flash. Li investo. Una sottospecie di nebbia, fitta e dal colore scuro , completamente mi appanna il vetro, facendo disperdere quelle figure tanto apparentemente reali. Inchiodo e prendo a muovere il capo da sinistra a destra, in rapidi movimenti, come per riprendermi dallo shock. Rimango pietrificata per qualche istante, con lo sguardo rivolto all’airbag e lo smartphone che oramai giace per terra. Solo quando mi rendo conto di aver investito una donna ed un bambino, prendo a girarmi e a rigirarmi sul sedile, in cerca di qualche corpo ipoteticamente sfregiato per lo schianto, sull’asfalto, ma niente, tutta un’illusione. Inspiro, espiro, incredula. Riafferro il telefono, lo squadro, e lo ripongo nell’incavo sotto lo stereo, ponendo entrambe le mani sul manubrio e spingendo la spalla allo schienale, nella disperata ricerca di ritrovare l’oramai persa –chissà dove-, calma.  Penso, penso e ripenso, più che confusa, al che il silenzio del posto non viene bruscamente interrotto da un clacson di un’auto: sussulto e lo sguardo segue l’auto che sembrerebbe sorpassarmi in tutta la velocità del mondo. Subito mi rimetto in gareggiata e riprendo, ora più cautamente, sommersa da una valanga di domande: chi era? Perché non ho avuto controllo del mio corpo ed ho immaginato di investire una madre e un figlio? E se richiamassi quel numero? Ragiono e lo rifaccio ancora, ma no: nessuna risposta; Aaron sarà felice di aiutarmi. Ad ogni modo, passa poco, che finalmente arrivo a casa: parcheggio l’auto proprio dinanzi il garage, ed entro. «Ciao nonna.» I toni sono distrutti, stracciati e avviliti, mentre lei è lì allegra in cucina a preparare una delle sue prelibatezze –spero sia qualche ciambella al cioccolato, perché ne ho decisamente bisogno-. «Ciao Shell!» Lascio le chiavi della macchina all’ingresso, salgo al piano superiore e dritta in camera. Quasi scaravento lo zaino per terra, menefreghista –chiaro i compiti non si facciano- e, nonostante le temperature non siano poi così alte –visto anche la stagione-, mi spoglio del giubbotto, riponendolo sul letto. Chiudo la porta e via che cerco risposte su internet: vediamo di quale “setta” parlava quel tizio. 

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Capitolo terzo.

Oscurità; e buio, ovunque. Mi dimeno a quelle catene che afferrano i miei polsi e le attaccano ad una superficie legnosa, ruvida; e poi mi arrendo. Mi dimeno, di nuovo, a quelle funi tanto strette che avvolgono le mie caviglie, e l’intero busto, tanto da schiacciarmi la cassa toracica e farmi rigettare fuori quasi un Polmone. Fiacca, debole, mi manca il respiro; mi arrendo di nuovo, impotente a quell’ostacolo. Mi dimeno ancora, ed ancora, scrutando quell’oscurità che completamente mi avvolge, occultandomi la realtà e rendendomi cieca. Abbasso lo sguardo: un mare di cadaveri ammassati l’uno sull’altro, spogli, privi di dignità, mi fanno da tappeto a circa trenta metri di distanza dai piedi. La bocca mi si spalanca d’istinto nel guardare quell’immagine tanto orribile, ed urlo, senza neanche io lo voglia: avvolta dal panico più assoluto, sarei rimasta –se solo ne avessi avuto la possibilità-, muta, rannicchiata in qualche angoletto e con il capo nascosto, poggiato sulle ginocchia, coperto dalle braccia, impaurita. Le iridi mi balzano involontariamente verso l’alto, come per evitare quella scena plagiata dal sangue, plasmata alla morte, come non fossero mie; come io non avessi il controllo su di esse: non vedo nulla, se non altro che altre catene che si avvolgono l’una sull’altra, andando a crearne una e massiccia; robusta. È infinita, o almeno così pare: sbuca dall’alto, dall’oscurità ed afferra dall’estremità quel piano in legno su cui poggia il mio intero corpo, punto e pizzicato da tante di quelle schegge. Penzolo; sono sospesa a mezz’aria, appiccicata a quella croce in legno, e le braccia distese in fuori, nel mentre le gambe si accostano, avvicinandosi sempre più, man mano scendendo, al quando le caviglie ed i piedi accavallati, stretti e resi di quel colore tanto violaceo che interamente ricopre il mio corpo. Le corde e le catene cigolano, ed il tutto mi riecheggia più del dovuto nella testa, e nel petto, quasi l’udito fosse amplificato nell’ascoltare; un’aria gelida, fredda, mi attraversa e accarezza le venature ora più che mai evidenti: priva di qualsivoglia indumento, sono nuda. Spaventata, stracciata moralmente ed ancor più che fisicamente; terrorizzata, afflitta, avvilita e debole, perdo sangue dalle cicatrici sparse, accompagnate dai numerosi lividi, ed il suono di quando questo cade, rigettandosi e sfociando in un vero e proprio oceano di plasma, goccia dopo goccia, quasi il tutto sembrerebbe aumentare di apatia. Le palpebre spalancate, nonostante praticamente in lontananza solo e soltanto nero: nient’altro. Mi lascio andare, e con i muscoli rilassati, chino il capo, ora immersa nella più assoluta e totale apatia: voglio morire. Aspetto, attendo, e poi la compagnia, finalmente –o forse no-. «Hai paura: è normale, perché è nella natura dell’uomo, averne.» La voce è metallica, e allo stesso tempo, alternatamente, sottile e flebile, quasi sensibile, decisamente tranquilla; inquietante. «Nella natura dell’uomo, anche, il primordiale istinto di.. uccidere.» Si conclude quasi in un sussurro. La voce è maschile, proveniente da chissà dove, e ci metto qualche istante, prima di arrivarci: è la stessa dell’”uomo-misterioso” al telefono. «Il male ti avrà, e tu una volta sua, avrai lui, tutto per te... Ti avremo.» I toni pacati e sussurrati, poi un tonfo immenso che mi rimbomba sempre più, insieme alla stessa voce, assottigliandosi col passare dei secondi. Improvvisamente, poi, dinanzi, mi si disegnano in un battito di ciglia, la figura di una madre, mano a mano col figlio: la stessa che apparentemente ho investito poco fa. Mi si schiantano addosso, frantumandosi di seguito, in tanti frammenti di vetri che mi si conficcano nella pelle, in profondità: sussulto. Un ghigno di dolore, due, tre, ed in realtà, urlo dimenandomi ora più che mai per il dolore che di già persisteva. «Sei stata tu… Hai ucciso tu quelle donne, e quei bambini; uomini anziani, figli e padri... ASSASSINA!» L’urlo finale, quasi denso e colmo di rabbia, accompagna i morti che giacevano nell’oscurità: ora di scatto s’innalzano, ponendosi alla mia stessa altezza ed esplodendo di seguito in una miriade di coriandoli e colori, andando a creare quasi un arcobaleno. «Shelley, su, dai!» Letteralmente balzo. «È solo un sogno.» Gli occhi mi si spalancano di scatto e la spalla subito si pone dritta. Un sogno, secondo nonna Abilene: fantastico. Io direi un incubo, piuttosto. Ad ogni modo, rizzo, confusa, a sedere, grattandomi energicamente il capo con la destra. «Sì…» L’approvo, annuendo e con le iridi altrettanto palesemente sconvolte che fissano il pavimento. «Cos’hai sognato? Non hai fatto altro che sbraitare.» Curiosona; in realtà, no: semplicemente molto protettiva, già. In ogni caso, ci metto un po’, prima di degnare la nonna di ulteriori attenzioni: i toni sono i classici dopo un risveglio tanto traumatico. «Non ricordo…» Mento: ricordo tutto alla perfezione, per filo e per segno. «Ma.. che ore sono?» Ora no: ho perso per davvero il senso cognitivo del tempo. «Le diciotto, quasi.» Mi risponde guardandosi l’orologio al polso della mancina: la sveglia digitale si è rotta completamente, maledizione. Mi alzo, scostando e facendo appena da parte la donna, che, nel frattempo, sembrerebbe allo stesso modo scendere al piano inferiore. «Vuoi qualcosa da mangiare?!» Chiudo la porta e trascuro l’interrogazione. Non ricordo praticamente nulla, o meglio: stranamente, l’incubo mi è apparso così talmente reale, da riuscir a rendere i ricordi dell’accaduto in macchina, più vaghi e frammentati di quanto non lo fossero già, come il tutto fosse accaduto a distanza di anni dal momento. Per non parlare, poi, del fatto io non riesca a distinguere la realtà, dal sogno stesso, visto le idee malsane che mi ritrovo a galleggiare nel cervello, altrettanto confuse. Se fosse stato tutto un sogno? Alla fine, sono entrambi “eventi paranormali”. Mi siedo dinanzi la scrivania, e, sin da subito, adocchio una finestra del browser predefinito aperta. «La Setta…» Leggo quanto ricercato, ma lo schermo, semplicemente nero. Torno indietro, e porto il cursore su di un altro risultato, ma niente: tutti quanti i vari siti portano alla stessa ed identica pagina oscurata. «Non sono pazza. Non sono pazza.» Me lo ripeto in un sussurro, giusto perché l’idea io possa essere per davvero una “pazza”, è già lì presa in considerazione. Eppure, è stato tutto così reale: il dolore letteralmente l’ho sentito perir sulla mia stessa pelle, ed ancora lo percepisco formicolare dalla punta del mignolo del piede destro, fino all’ultimo dente molare; la paura, l’essere così tanto terrificata ed impotente, ancora incombe, ed io non posso far altro che infilarmi il giubbino e filare in cucina. «Io esco: ci sarò per cena.» Sempre qualcuno non mi rapisca e mi stupri: il tutto solo perché la paura il sogno possa realizzarsi per davvero è alta; non si sa mai, eh. «A dopo!» Ricambio, ancora una volta, il saluto con un sorriso a trentadue denti e una sventolata della mano destra, giusto per non esteriorizzare tanto la preoccupazione, afferrando le chiavi dell’auto, infilandomi poi dentro ed eccomi lì via che parto: direzione Aaron; sicuramente vorrà venire in biblioteca con me, ed una “secchia” come lui, in casi come questi, non può far altro che bene, no? Mi accompagna la fedele radio, o almeno fino a quando non posteggio l’auto e mi ritrovo dinanzi la casa del mio miglior amico. «Ehi ehi ehi, eccomi qui!» Teatralmente, distendo le braccia in fuori, rimanendo sulla soglia della porta ancora per poco. «Su, entra: non c’è nessuno.» No: non è sempre così freddo. Il tutto, comunque sia, lo direbbe incarnando un sopracciglio e mantenendo quell’espressione da: “cosa fai? No, perché sei patetica, lo sai?”. Lo so: è comprensibile. Entro in caso e mi siedo sul divano in salotto, nascondendo –non solo ad Aaron, ma anche a me stessa-, il casino che solo in poche ore, mi ha praticamente traumatizzata –o quasi, certo: non sono mica una ragazza acqua e sapone, eh-. «Fortuna non ci sono i tuoi: devo parlarti di alcune cose.» I toni ora appena più seri, nel mentre l’altro sembrerebbe imitarmi nel sedersi proprio sulla poltrona posta dinanzi il divano su cui giaccio. «Devo preoccuparmi? Spara, su su.» Non perdo ulteriore tempo, e, praticamente, in men che non si dica, gli racconto morte, vita e miracoli su di tutto, a partire dall’accaduto in macchina, fino al sogno e alla ricerca su internet. «Va bene…» Inutile direi i toni di lui siano decisamente esitanti, nonostante poi, si fanno appena più confortevoli. «Io ti credo, ma cosa dovremmo fare ora? Potrebbero essere solo delle coincidenze, o magari dovresti andare da un dottore, e non perché alludo al fatto tu sia uno schizzata mentale: magari hai qualche altro problema, visto in macchina, a quanto pare, non sei riuscita a muoverti.» Taccio per qualche altro istante, al quando, in contemporanea al mio stesso dire, determinata, mi alzo, con o senza di lui. «No no, non ci vuole nessun dottore: qui c’è sotto molto di più, te lo garantisco… Non so spiegartelo, ma io vado in biblioteca: vieni?» Fedele come mai, eccolo lì che mi segue sino a meta: vediamo cosa troviamo, almeno tra i libri –che bello-.

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Capitolo quarto.

Siamo immersi in quel disordine, tra i libri, patologico per me, e quasi dispersivo per Aaron. Per terra, a gambe incrociate, con il “best” dinanzi e un tomo per parte di lingua incomprensibile, che mi schiaccia le cosce. Pagina settecento: sfoglio, sfoglio e lo rifaccio in quella tortura mortale, come se il solo leggere –probabilmente un qualcosa che si avvicina molto al Latino-, non fosse già abbastanza. Letteralmente il sangue mi bolle nelle vene: centinaia di ingiallite pagine e pagine per cosa? Nulla, se non quel senso di nausea e stanchezza mentale che di già perisco. Mi immagino quasi un circuito mandato in fiamme da quella sferica forma, densa e colma di tanta elettricità, rapida e felina nel percorrere ogni singola ramificazione dell’intera psiche che ora, allo stesso modo, mi esplode per il forte mal di testa. Le pagine tanto invecchiate, che ritornano ad avere un contatto tra di loro, e il leggero echeggiare dell’impatto a fare compagnia al mio dire. «Basta, io mi arrendo.» Ripongo il libro-masso-macigno sulla moquette grigiastra e porto le iridi su quelle dell’altro, che, presto, prenderanno a studiarmi e scrutarmi neanche un caso disperato di psicologia occulta –ed effettivamente potrei esserlo-. «Non sappiamo neanche cosa veramente stiamo cercando, ed io sono stanca.» Mi alzo in un balzo, e concludo, nel mentre il volto di Aaron sembrerebbe trovare beatitudine dopo aver confessato il perché dell’aspetto tanto avvilito che mi ritrovo a presentare. «Andiamo, magari continueremo domani.» Circondata da una miriade di quelli che gli altri sembrerebbero chiamare “libri”, aspetto l’altro esca indenne dalla valanga di fogli volanti. Okay, è vivo, e non appena sembrerebbe aprir bocca, cesso nel mio intento di recarmi verso la bibliotecaria. «Dovremmo prima mettere un po’ di ordine.» Più che mettere ordine, il nostro sarebbe l’organizzare da zero un intero reparto della biblioteca. «Su, muovi quel culo.» Sbuffo teatralmente e ritorno indietro, ora speranzosa spunti nuovamente e per davvero qualche foglio-volante-killer. «Sei una palla.» Ribatto dopo il pugno ben assestato sul bicipite che l’altro si è ritrovato a soffrire, già presa nell’afferrare i tomi giacenti sul pavimento, formanti piramidi neanche fossimo in Egitto. «Hai trovato qualcosa?» Impegnata nel trovare la giusta locuzione di ogni singolo testo, ci metto un po’ prima di arrivare a dare una risposta. «No, nulla di specifico: i riferimenti alle “sette” sono troppi. Partono dal medioevo, con la stregoneria, e finiscono con i sette nani di oggi.» Va bene, sono particolarmente squallida nel far battute. «Shell, magari è solo uno scherzo…» Esitante, riprendo subito dopo. «Qui non parliamo né di assassini stupratori della notte, né di scherzi: ne sono convinta, te l’ho detto.» Ed Aaron potrebbe anche aver ragione, sì: il tutto potrebbe essere solo una banale coincidenza con un qualcos’altro di ancor più patetico, ma quella forte convinzione di sovrannaturale e desiderio di continuare a cercare risposte, ancora una volta mi nasce dentro crescendo sempre man mano. «Hai finito?» Lo spero bene, nel mentre lo raggiungo dalla parte opposta dello scaffale che precedentemente ci divideva, con –ahimè-, altri due libri da sbranare. «Dai, siamo gli unici sfigati a pulire ‘sto schifo.» Sì, è vero, sono voluta venire io in biblioteca, ma ehi: sono passate ore, e non ricordo sulla carta di identità ci sia scritto di professione “donna delle pulizie”. Il mio oblio, tra il fianco sinistro e il polso a schiacciarlo contro, imprigionandolo, e aiutato dal palmo della mancina nel sorreggerlo; sono i due libri, esatto. Le due cerniere del cappotto si chiamano l’un l’altra, la sciarpa mi pende, aggrappata al collo, ed arrivo dalla bibliotecaria che si contempla miracolosamente il titolo onorevole di “bibliotecaria così tanto raramente simpatica dell’anno”; perché sì: trovatemi una di queste che non vaghi per ventiquattro ore su ventiquattro, per gli scaffali del posto, neanche un’arpia centenaria, e di libri ne farò miei tanti quanti capelli in testa, lo prometto. Mi rivolge un sorriso, ed io non posso far altro che imitarla, avanzando i macigni, azzarderei, medievali, verso il bancone che ci divide. «Dovresti darmi i tuoi dati, e la scheda.» Una voce affabile e leggiadra mi distoglie dal mio improvviso rimaner immobile a guardare oltre la vetrata, all’esterno: piove, e poi ritorno alla realtà, con la commessa lì pietrificata a guardarmi dritta negli occhi, ed io pallida nei movimenti, che guardo Aaron, accanto a me. «Ehm.. la card, giusto! Aaron..?» Solo qualche istante dopo, mi si accende la lampadina: suppongo che per prendere i libri, ci sia bisogno della carta della biblioteca, no? E chi, meglio di Aaron potrebbe avercela? Finalmente, quindi, quell’imbarazzante “guarda-guarda”, tra la bibliotecaria e la sottoscritta, sembrerebbe venir meno nel momento in cui faccio del mio miglior amico, uno scudo umano da tutti quei dubbi –decisamente- esistenziali, del tipo: “ed ora che diavolo starà sparando la tizia, qui, eh?”. «Eccola.» Aaron funziona: le tanto aspirate credenziali a garantire l’incolumità dei libri –e nel caso fanno bene a preoccuparsene-, arrivano subito. In men che non si dica, siamo fuori, ed una folata di vento gelido di già mi pervade interamente; rabbrividisco. Il cappotto mi oscilla alle spalle, ed i capelli precedentemente arruffati in quella famosa –e sempre quella-, sottospecie di crocchia, prendono aria. Alzo il passo e mi dirigo verso l’auto, seguita da Aaron. «Guida tu.» Afferro le chiavi dalla tasca dei jeans, e di già davanti la portiera del passeggero anteriore della vettura, gliele lancio: dopo gli avvenimenti ultimi, tutto tranne che guidare, voglio. Salgo in macchina e mi riparo dal fruscio del vento, accompagnato da quella sensazione di dipendenza, di pericolo imminente; di beatitudine mista al sapere convinto che da quella maledizione –quale?- non potremo –chi?- scappare. Ci rifletto su, ed il motore parte. Aaron non deve saperlo, è deciso: è già abbastanza incredulo a quanto di già conosce, figuriamoci. Sviamo dal posto, i tomi a schiacciarmi le gambe, le iridi azzurrognole che si riflettono sul finestrino, perse chissà dove, e in un battito di ciglia, un temporale; una tempesta, forse. L’oscurità della nottata fausta sembrerebbe venir illuminata, ed altro non faccio, che ancora rimaner annegata nell’oceano di domande e riflessioni che mi assalgono e affannano, strappandomi il respiro. Ci accompagna un brano di Benjamin Clementine, e lo fanno anche le gocce d’acqua che si schiantano sull’auto, al che il silenzio infranto. «Ti va di rimanere un altro po’ a casa? Potremmo vederci un film…» Propongo al moro, e taccio, guardandolo nelle iridi verdognole. «Ma sì, oppure potrei continuare a torturarti facendoti leggere un altro po’, che ne dici, mh?» Il sorriso che va pian piano espandendosi poi sul suo viso, dopo il dire ironico e beffardo. Non commento ulteriormente e prendo la risposta per un sì. Le note del Piano ancora lì che fuoriescono dallo stereo, il capo sorretto dal palmo della destra, e lo sguardo rivolto alla strada. Cosa dovremmo dirci? Nulla; c’è silenzio. Un’ombra va ingrandendosi sempre più, sul marciapiede, e fa sua la mia attenzione. Si solidifica, e prende le forme di un bambino; quel bambino. Il bambino che ho ucciso, nella mia testa; ora è qui. Lo fisso impallidita, e nonostante l’auto continui il suo libero andar, in quel quartiere desolato, il riflesso del mio malessere sembrerebbe quasi materializzarsi ogni qualche metro; ogni qualvolta i miei occhi lo perdono per la velocità dell’auto. Mi fissa, e ricambio. Panico e paura, beatitudine al qual tempo stesso, terrore; il sangue mi bolle nelle vene, ed una sensazione mai prima provata, di potenza, di potere, mi manda in corto circuito ogni muscolo, ancora una volta, paralizzandomi interamente. Sono cosciente: mi ribello, e faccio appello a tutte le mie forze; ed urlo, ma le labbra non sibilano suono. Vorrei poter riuscirmi a muovere; vorrei poter scendere dall’auto, ed uccidere quell’innocente; vorrei poter farlo soffrire, atrocemente, e in sofferenze che nessuno mai s’immaginerebbe. Sto urlando; dentro la mia testa, lo faccio, e mi dimeno anche, vedendomi riflessa nel vago ricordo di quell’incubo. Le palpebre mi si chiudono ad intermittenza, poi, il buio. Le corde ancora mi avvolgono, ed io sono catapultata forse in una dimensione parallela, esile. «NO! FERMATI! FERMATI!» Urlo, in contemporanea al tuono che riecheggia poi per isolati, come fosse per mio volere; come potessi sentirne l’elettricità uccidermi. Apro di scatto gli occhi, mi sgolo rivolta ad Aaron, lui inchioda ed io sfreccio via, con i libri di testo che cascano per terra. La portiera si apre, e sono fuori, bagnata dalla pioggia, invasa da quell’alone che si concentra poi in una sferica e densa carica d’elettricità. Qui, in questo momento, io mi sento forte; faccio la pioggia mia, come con la terra, e l’aria, ed il fuoco che dentro mi arde. Dentro mi si combattono il desiderio forzato di fare del male, e quello di esiliarlo, tale. Il vento mi accarezza, gelido; i tuoni mi riecheggiano nella testa, le gambe prendono a tremarmi, gli occhi nuovamente a chiudersi e ad aprirsi ad intermittenza. Il bambino, sotto il mio sguardo, poi, svanisce; vanamente cerco di avvicinarmi a lui che mi saluta, apatico e rigido nelle movenze; inquietante. Scompare, dissolvendosi nel nulla, ed io cado, al suolo, svenuta.

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