Assassin's Creed Descendance

di Vitriolic Sheol
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Capitolo 1
Uroboro
 
Benvenuta cara creatura. Probabilmente tu non hai idea di chi io sia… ma io conosco te.
Sono uno dei tre demoni che ti sono stati assegnati al momento della tua nascita; vedi, mia cara, alcune  persone vengono al mondo destinate alla grandezza, altre alla felicità di una vita vissuta in modo appagante. Altre ancora vengono affiancate dalla dolce stella della fortuna, o dall’effimero bagliore del successo… Tu, sfortunatamente, non fai parte di queste categorie, ed è nostro compito rendertene pienamente consapevole.
 
Chi siamo noi? Oh, certo, che maleducazione da parte mia. Permettimi quindi di presentarci come si conviene:
 
Vergogna è mio fratello più piccolo, il demone sulla tua spalla sinistra. Vergogna ti sussurra che sei un mostro, che i pensieri fluttuanti nella tua mente non sono normali, che non arriverai mai a nulla e che sarai solo destinata a cadere. Vergogna è colui che ti mormorò all’orecchio parole di disonore, quando ti sorpresero la prima volta ad esplorare e deliziare il tuo corpo, colui che ti offre un riflesso pieno di odio e di disprezzo ogni qualvolta il tuo sguardo si osserva nello specchio.
 
Passiamo ora a Paura, colui che siede sulla tua spalla destra. Lui è mio fratello maggiore, “anziano” quanto la vita stessa; Paura riempie e satura ogni angolo buio con mostri, incubi e visioni che attinge direttamente dalla tua mente… gli dà forma, vita, “colore”, se mi concedi l’eufemismo. Egli trasforma ogni sentimento in una probabile fonte di dolore, ogni persona attorno a te in un potenziale traditore od in un nemico, ti dice che sarebbe meglio rinunciare anziché fallire nel tentativo.
Paura, essenzialmente, mia cara creatura, è colui che ti spinge a crearti la tua stessa prigione.
 
Chi sono io, infine? E’ questo ciò che vuoi sapere? Io sono il peggiore dei tuoi demoni, il più distruttivo ed il più letale… ma, ingenuamente, appaio ai tuoi occhi come un alleato. Tu ti rivolgi a me quando più nulla ti è rimasto, quando tutto ti sembra svanito, perso; sono colei che invochi mentre affondi nelle acque nere della disperazione, che chiami come ultima àncora di luce in un profilarsi di tenebra sempre più denso.
E sai perché lo fai? Perché io vivo nel tuo cuore, albergo nel tuo sangue, mi avviluppo nel tuo respiro… Io sono colei che ti spinge a sopportare. Quella che altro non fa, che prolungare il tuo tormento.
“Possa la tua vita scorrere felice e serena, creatura”…vorrei potertelo promettere, ma le false promesse non sono da me.
 
Con affetto,
Speranza.
 
 
                                               
           

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Capitolo 2
*** 2 ***


Capitolo 2
Aquila
 
La notte su Roma è qualcosa di magico; l’oscurità sembra avvilupparsi attorno a monumenti e palazzi come braccia d’amante, scivolando sui rilievi, esaltando i fregi, guizzando sulle immortali statue di fasti passati e presenti con bagliori di vita.
Roma di notte è qualcosa di meraviglioso…. Se sei al sicuro. O se il tuo cuore e la tua coscienza non hanno nulla da temere.
 
L’uomo corre. Corre in maniera scomposta, senza meta precisa. Il respiro spezzato, lo sguardo sbarrato, l’adrenalina che l’istinto di sopravvivenza instilla nel suo cuore non gli fanno sentire i dolori della corsa, le gambe indolenzite, il respiro che sembra aver assunto la forma di stilettate ghiacciate nei suoi polmoni.
Lo aveva visto. Il demonio vestito di bianco era venuto a prenderlo, era lì per lui. Sapeva bene cosa si dicesse di lui, quali fossero le innumerevoli storie circolanti su quell’enigmatica quanto inquietante figura, avvolta nel bianco candido che innumerevoli volte si era tinto di vermiglio.  Lo sapeva.. e non poteva non esserne impaurito.
Una volta che il demonio bianco ti appare davanti agli occhi, non hai più scampo.
 
Presto o tardi, egli verrà a prenderti.
 
                                                                  
**

"Prima della fine e di ciò che ne seguì noi tentammo di salvare il mondo."
Un sogno, non poteva essere altrimenti… quella figura così evanescente, frasi scomposte, pronunciate una distaccata dall’altra e con una serie di flash disconnessi di immagini e situazioni che mai aveva visto o vissuto prima di allora.
 
Si rigira nel letto, cercando conforto… chiunque, in quel momento, avrebbe visto le sue sopracciglia aggrottarsi, rilassarsi appena e poi aggrottarsi di nuovo, accompagnate da un lieve lamento.
 
"Il sapere di ogni cripta fu trasmesso in un unico luogo. Era nostro dovere, mio, di Merva e di Uni,  smistare e provare tutto ciò che era stato raccolto."
 
La luce aumenta, il sogno si sfoca appena in una profusione di luce dorata, in cui ai suoi occhi pare di scorgere…. Un oggetto sferico? Luminescente come il sole stesso?
 
**
 
Lo segue da quando lo ha scorto in quel palazzo, con la fredda calma che caratterizza un predatore feroce e “navigato”;  il demonio non ha fretta quando deve chiamare un’anima a sé, non ha timore di perderne le tracce. Ed ora che la sua vista muta da quella normale ad una sorta di buio sfondo in cui si muovo fluorescenti bagliori di colore, un lieve ghigno incurva l’angolo spezzato delle sue labbra. Eccolo là, contorcentesi come un topo in trappola, rosso carminio come il sangue che presto sarà versato.  Un lieve balzo e, chiunque avesse scorto quella figura bianca appollaiata su uno dei tetti patrizi della capitale, dopo un battito di ciglia avrebbe scorto soltanto il cielo scuro e gonfio di nuvole.
 
Quando la morte sta per avvicinarsi, quando le sue fredde ed ossute dita stanno per ghermirti,  è l’unico momento in cui puoi toccare, percepire, assaporare la vera essenza della disperazione; ne avverti la nera, vischiosa intensità colarti addosso come pece,  incollartisi alla pelle ed al sangue , intossicarti l’anima fino a che, completamente satura, essa non si consegni spontaneamente alla Morte, pur di far smettere quel tormento… Sono i tuoi ultimi istanti di vita, uomo. Prega, piangi, grida od impreca, fa quel che più senti legittimo e liberatorio fare. La tua vita sta per terminare. Ora.
 
Lo scorgi di nuovo, il demonio bianco; appare dal fondo del buio vicolo cieco in cui ti sei rifugiato, scioccamente pensando di poterti salvare. Egli incede con calma, con passo elastico ma cadenzato. Lo sa… lo sa che sei allo stremo, lo sa che non puoi fuggire, sa anche che ti consegnerai a lui senza una protesta, senza un tentativo di lotta; ha giocato con te, come un gatto con il topo, ti ha fatto correre, stancare, sfiancare… non rendendoti conto che stavi solamente correndo all’interno di un percorso già predisposto e pianificato da lui stesso.
 
E tutti questi pensieri visitano la tua mente nel suo ultimo momento di lucidità, appena un secondo prima che la sua lama affondi lentamente nella carne, morbida e calda del tuo collo….  Senti il sangue, caldo e denso cominciare a sgorgare, scivolare sulla tua spalla, macchiarti gli abiti… ti sembra quasi di scorgere uno scintillio sotto quel buio cappuccio che ti sta innanzi, dove ipoteticamente dovrebbero esserci gli occhi del tuo personale traghettatore degli inferi. Ma è troppo tardi. La caccia si è conclusa ed il demonio libera il tuo corpo mortale e morente dalla sua presa ferrea.
 
Scivoli a terra senza un lamento, come un fantoccio il tuo corpo segue il profilo del muro a cui si è appoggiato prima di accasciarsi, completamente prono, a terra mentre una chiazza di sangue comincia ad allargarsi.
 
E mentre esali l’ultimo respiro ed i tuoi occhi si chiudono per sempre, il grido di un’aquila risuona in cielo.
 
 **
 
"Devi andare lì, nel luogo in cui operammo, operammo e perdemmo. Prendi le mie parole, passatele dalla fronte alle mani.”
 
L’ultima frase, gli ultimi flash ed un accecante bagliore interrompono il sonno e, di conseguenza il sogno. Si sveglia bruscamente, di soprassalto, levandosi a sedere nel letto con il respiro leggermente affannato ed un’espressione corrucciata.
“Niente di tutto ciò ha senso…” si ritrovò a pensare, massaggiandosi appena le tempie. “Un sogno… si. E’ stato solo un sogno.” conclude mentalmente.
 
Ma mentre il suo volto istintivamente si volta verso sinistra, ad incontrare la finestra, il verso di un’aquila risuona nella notte.
 
 
 

 
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Sono sempre stata poco incline a “contaminare” la narrazione con aggiunte esterne…preferisco che le mie storie parlino per me, ma alcune volte mi trovo costretta a farlo. Chiedo preventivamente scusa a coloro che si aspettano capitoli chilometrici sin dal primo, mi spiace ma questa storia non potrebbe funzionare se non strutturata così. I primi capitoli sono corti e “sibillini” per una ragione che la mia testa (ed i miei fogli) hanno già disegnato completamente; sappiamo tutti che le parti iniziali di una storia sono sempre le più complicate, da scrivere e da leggere.. tutto deve essere settato, organizzato, ben disposto per creare armonia ed un filo coerente nella narrazione. Con questo non sto dicendo che tutti i capitoli saranno così; se avrete la pazienza (e la voglia) di seguirmi, vedrete che presto manterrò fede alle mie parole. Nel momento in cui questo capitolo verrà pubblicato, io starò già lavorando al terzo che conto di pubblicare al più presto.
 
Un’ultima cosa… io sono incline a scrivere con una “colonna sonora” che a volte scelgo con istinto ed altre volte con mirata ricerca. Alcune volte troverete la canzone appuntata in cima al capitolo, prima che la narrazione inizi; non è un obbligo, non prendetelo come tale… è solo un invito ad ascoltare qualcosa che, magari, potrà farvi calare ancora di più nella lettura. 
 
Ringrazio tutti coloro che leggeranno, seguiranno, ascolteranno e recensiranno. Al prossimo capitolo.
 
Dead Rose Gardener.

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Capitolo 3
*** 3. ***


Capitolo 3
Civetta
 
La ragazza cammina di fretta, i piccoli piedi che risuonano appena nella maestosa pavimentazione di fronte al Pantheon e le braccia occupate da una grande cesta in vimini, ricolma di rose bianche e rosse; il viso è serio ma rilassato, senza nessun’ombra di preoccupazione a gravare sui lineamenti giovani e delicati. Il signore era stato chiaro, cento rose rosse delle più orgogliose e cento rose bianche delle più pure…. Ella non si è domandata la ragione di quella strana richiesta, in qualunque caso non avrebbe ottenuto risposte consone a soddisfare la sua curiosità; perciò si limita ad incedere attraverso la capitale, cercando di tenere la grossa cesta al meglio tra le sue braccia, mentre schiva mercanti, soldati, nobili e cortigiane che si intersecano al suo tracciato. Dopo circa quindici minuti, ecco che comincia a scorgere l’elegante facciata del palazzo che rappresenta la sua destinazione e la liberazione da quel cesto che, con i suoi intrecci, stava cominciando a lasciare nitidi segni rossastri sul pallido incarnato. Ella, mentre si avvicina, nota un fervente viavai di servitù entrare ed uscire dal portone, correre su e giù per le scale, portare e prendere oggetti di vario genere e fattura, sebbene tutti accomunati dal fulgido risplendere dell’abbienza; “sembrano i preparativi per una festa” si ritrova a pensare, mentre muove i primi passi all’interno dell’entrata dell’edificio “o per un avvenimento estremamente importante”. Nel mentre di questi pensieri, la giovane ha il tempo di fermarsi, di guardarsi attorno… e di ammirare. Ammirare gli splendidi fregi di un soffitto a cassettoni intarsiato con fregi a foglia d’oro, che raffigurano paffuti e teneri cherubini rincorrersi l’un l’altro, sorridersi e giocare, in una sorta di personale bolla di beautitudine; lo sguardo poi scende dal soffitto, e va a toccare il candore estremo dei muri, la lucidità delle porte lignee i cui stipiti sono cinti dal pregiato, fosco abbraccio del marmo di Portoro che viene ripreso anche dal pavimento, dove crea eleganti decori geometrici con il candido ed opposto gemello a cui è inframmezzato.

“TU! RAGAZZINA!” tuona la profonda voce maschile di uno domestici, facendola destare dalle sue fantasie “NON RESTARE LI’ IMBAMBOLATA E PORTA QUI QUELLE ROSE!”
 
Un semplice movimento della testa, gli occhi bassi e timorosi ed eccola avvicinarsi all’uomo che l’ha così bruscamente ammonita e che celere le libererà le braccia dall’ingombro della gerla. I preparativi attorno a lei fremono, una ventina di domestici e governanti svolazzano silenziosi e concentrati nel pulire, decorare, spolverare… non fatica a pensare che anche al piano superiore ve ne siano altrettanti, intenti a svolgere le stesse mansioni.
 
E’ un giorno come gli altri per lei, caratterizzato dal morbido tepore di una primavera che, lentamente, sta andando a morire verso l’estate… è il 5 maggio 1503.

Un giorno normale…. Ma non per tutti.
 
***
Nel mentre, in una stanza da letto troppo grande per una persona sola, nulla di tutto ciò che è appena successo viene contemplato; accolta da un palazzo lontano da quello appena visitato, la stanza è immersa in quel tipico silenzio che caratterizza un lungo sonno in corso, niente pare muoversi, tutto è cristallizzato dalla coltre  di Morfeo… coltre che viene tirata via soltanto pochi istanti dopo, quando un piccolo lamento di un risveglio non desiderato apporta una vibrazione differente all’atmosfera che grava sulla stanza. Ecco quindi spuntare una piccola, bianca manina dal groviglio di coperte e cuscini scarlatti, seguita poi da un polso sottile, un braccino esile ed una spalla; dopo quella, apparirebbe un lungo groviglio di capelli castano ramati, molto lunghi, che una volta rassettati mostrerebbero il loro essere movimentati da morbidissime onde. La creaturina si muove, scivola maggiormente verso il lato sinistro del letto alla ricerca tattile di quel comodino che oggi pare ancora più lontano del solito.
Un muovere di dita, una volta che la mano incontra il legno dell’oggetto, un cercare qualcosa, un controllare…
 
“MERDA!”
 
…ed un catapultarsi fuori dal letto a guisa di una molla scattata, nel rendersi conto di essere in un terribile ritardo.
 
Una doccia lampo, una truccata leggera e l’infilarsi i primi abiti trovati nell’armadio con saltelli frettolosi per la camera, rivelano che sotto a quell’inziale ammasso di capelli dai riflessi rossastri, braccia, mani e coperte si nasconde una giovane donna di circa 25 anni, piccola e minuta, dai grandi occhi verdi scattanti di fretta.
 
La donna, una volta pronta, corre verso la porta dell’abitazione che chiude frettolosamente a doppia mandata, scende a rotta di collo per le scale dello stabile e si catapulta in strada. Un ultimo sguardo all’orario prima di dirigersi verso il mezzo di locomozione che la condurrà alla propria destinazione, una seconda dimostrazione dell’abissale ritardo in cui si trova.
 
E’ il 5 maggio 2012...e dato il giorno, dovrebbe essere l’ultima persona al mondo ad essere in ritardo.
 
***
 
Lo guarda con l’aria di chi abbia appena terminato di ascoltare una favola dei fratelli  Grimm…davvero si aspetta che creda alle sue parole?
 
“Shaun, se questo è uno scherzo lo trovo di pessimo gusto… oppure sei veramente un cane a raccontare favole.”
 
Uno sguardo inceneritorio lo colpisce da dietro gli occhiali dell’interpellato, che va ad osservarlo piccato.
 
“Benchè mentalmente tu possa essere adatto alle favole, biologicamente risulti troppo cresciuto per loro, simpaticone. Ti paio forse tipo da frottole? Tieni, guarda e controlla tu stesso.”

Alla risposta acida, un fascicolo beige scivola lungo il tavolo, da lui al primo interlocutore, che lo afferra e comincia a consultarlo con sguardo scettico… scetticismo che piano piano lascia spazio e forma allo stupore, quando si rende conto che Shaun, effettivamente, non gli ha raccontato frottole.
 
“Mi stai dicendo davvero che esistono persone che possono fare questa cosa? Ma… ma come?”
 
“Non “possono”, “può”. E’ l’unica per ora di cui ho riscontrato l’esistenza e credo che rimarrà così; e no” aggiunge saccente, nel vedere l’altro aprire la bocca per rimarcare il secondo interrogativo “Non so come possa avvenire.”

“In sostanza, professorino, cos’è che sai?” si trova ad aggiungere, con palese sfumatura di ironia, a cui l’altro contrattacca con altrettanta acidità.
 
“So solo che si chiama Varcatrice e che dobbiamo trovarla. Al più presto.”

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Capitolo 4
*** 4. ***


Capitolo 4
Do ut des
 
L’uomo cammina per l’ambiente. E’ inquieto, i suoi occhi d’ombra lo rivelano tramite la luce nervosa che guizza nelle iridi mentre a grandi falcate, sicure e virili, compone il suo percorso sul pavimento di cotto dell’edificio; da una settimana a quella parte, Niccolò non aveva fatto altro che parlare di… “questa cosa”, come lui stesso la definiva. Sconcerto a parte, non avrebbe saputo dare una definizione precisa al suo stato d’animo attuale… confusione? curiosità? scetticismo? In tutta onestà, l’idea che potesse esistere una persona in grado di fare “quello”, lo lasciava leggermente interdetto.
Continua ad incedere, immerso nei suoi pensieri, rivolgendo saluti distratti e frasi smozzicate a coloro che incontrano il suo cammino e che gli riservano inchini del capo colmi di rispettosa deferenza.

“Stasera ci sarà la svolta, l’alleato che noi tutti attendevamo.” le parole dell’amico ancora gli risuonano nelle orecchie, assumendo però sfumature radicalmente diverse rispetto a quelle cariche di aspettative di Niccolò.

Solo quando arresta i propri passi e si guarda attorno, si rende conto di essere giunto nella sala maestra dove, addossato al muro a lui parallelo e coperto da un pesante velo di velluto rosso, giace placido il mezzo che servirà a celebrare tale alleanza….

“Non so chi tu sia, non conosco il tuo volto né ho mai udito la tua voce… ma ti attendo, Varcatrice.”
 
…. Ma mentre osserva quel velo, si rende conto che, forse, squarciarlo e guardarvi attraverso non sarà poi così di facile adempienza.
 
***
 
Caos.
Se le avessero chiesto di descrivere la propria famiglia in quella precisa giornata, “caos” sarebbe stata la parola più adatta.
Dopo aver sfrecciato per le vie di Roma, beccandosi anche qualche impropero decisamente colorito da alcuni pedoni, la giovane riesce finalmente a parcheggiare la moto sotto il palazzo signorile che identifica la dimora dei genitori; mentre sfila il casco e riavvia con una mano i lunghi capelli castano ramati, sente chiaramente sua madre interagire con il fratello riguardo un servizio di piatti, un giocoso ridacchiare infantile e l’esclamazione divertita di una seconda voce femminile…e sorridendo, si dirige verso il portone principale, andando a schiacciare il rotondo bottoncino metallico del citofono. Un solo “buzz” è sufficiente per creare un festoso, movimentato brusio nella casa.
 
“E’ arrivata! Isaia, per favore, vai ad aprire a tua sorella!”
La giovane donna ridacchia leggermente al sentire il concitato entusiasmo materno e dopo aver sentito il meccanismo del portone sciogliersi, scivola leggera all’interno dell’edificio andando poi a salire una marmorea, imponente rampa di scale.
 
“Meno male che sei arrivata… mamma cominciava a dare di matto, ancora qualche minuto ed avrebbe telefonato alla Farnesina…”
 
La divertita voce maschile che pronuncia tali parole, la portano ad arrestarsi a metà rampa e sollevare il viso sorridente verso l’alto, verso l’uscio dove un giovane uomo sulla trentina, dal fisico asciutto ed i capelli castani, la attende poggiato con la spalla allo stipite, le braccia conserte ed un affettuoso sorriso.
 
“Non ho sentito la sveglia, scusa…” si trova a mormorare con un sorriso lieve, mentre si avvicina all’uomo appellato con il nome di Isaia per poi abbracciarlo dolcemente; egli ricambia l’abbraccio con altrettanto affetto ed un lieve bacio sulla guancia femminile.
“L’importante è che sei arrivata… ciao sorellina.” le risponde, guidandola poi all’interno e richiudendo la porta alle proprie spalle.
 
***

Avrebbe voluto dare un pugno a qualcosa. Od a qualcuno. Preferibilmente ad una persona il cui nome iniziasse per “N” e finiva con “iccolò”, per l’ansia che gli aveva trasmesso con quel suo continuo parlare del fantomatico evento della serata.
Ansia…. Ma poi, si ritrovò a pensare, perché provarla? Per quale motivo lui, uomo “navigato” e con esperienza di anni, ermetico nelle emozioni come nei sentimenti, si era ritrovato a contorcersi le mani e le sinapsi nell’attesa di qualcosa completamente oscuro e sconosciuto? Niccolò gli aveva assicurato più di una volta che non avrebbero incontrato altro che un alleato, quindi perché tormentarsi tanto?
 
Eppure l’inquietudine non dava nessuno accenno del volersene andare.
 
***
 
Una famiglia è un organismo complesso e di difficile decifrazione. E’ strano come possa cambiare, nel corso del tempo, per gli occhi di un individuo che vi si ritrova a farne parte. Da bambini, la famiglia è il mondo perfetto e dorato che non vorremmo mai abbandonare; tutti ci coccolano, ci viziano e ci coprono d’attenzione. Siamo gli ultimi arrivati, le bamboline di porcellana da proteggere sotto piccole campane di cristallo forgiate d’amore materno e paterno. Durante l’adolescenza, la campana si spezza, la famiglia diventa una gabbia, una prigione di schematicità, regole ed imposizioni di quieto vivere da cui vorremmo scappare il più lontano possibile; insofferenza e ribellione si muovono dentro di noi, che sembriamo avere come unico scopo, il portare scompiglio nella vita dei placidi genitori che, da vezzose bamboline di porcellana, ci vedono trasformarci in strani ibridi con pensieri nascosti ed emotività altrettanto confuse. Ecco quindi comparire i primi piercing, i primi tatuaggi eseguiti in sordina, le prime sigarette ed i tentativi di far sparire l’odore di fumo da alito e abiti prima del rientro a casa; i litigi, le discussioni, i ritardi e i cosiddetti “scontri generazionali”, uno strano e mal definito termine di cui forse ancora nessuno ha capito bene il significato.
 
Per Adria, “dall’alto” dei suoi venticinque anni, la famiglia era un placido porto di sicurezza e sostegno da cui tornare per leccarsi le eventuali ferite. Non si scambi però tale definizione con mero e bieco opportunismo. Adria teneva in altissima considerazione il proprio nucleo famigliare, amando i pregi ed i difetti di ognuno e ringraziando mentalmente loro ogni giorno per amare e sopportare i suoi. E quindi, seduta al signorile tavolo in stile liberty della sala, dove si stava svolgendo il pranzo in onore del suo compleanno, Adria si ritrovò ad osservare ognuno dei commensali che la circondavano. Partì proprio da lui, seduto capotavola e prima colonna della famiglia, suo padre; Manfredi Antinori, medico, un uomo affascinante dai capelli brizzolati e gli occhi grigi sempre attenti ed animati dalla vitalità dello spirito che racchiudevano. Da lui, Adria, aveva preso la sete per la conoscenza, la curiosità dell’andare sempre oltre il primo velo delle cose… ed una certa dose di testardaggine e savoir faire; con una risata mentale ed un sorriso corporale, la giovane si ricordò degli anni del liceo, e di come fosse possibile che ogni amica che varcasse la soglia di casa, si ritrovasse ammaliata dalla figura di suo padre.
 
Alla destra paterna, Isaia, il primogenito e medico chirurgo come il padre. Trentuno anni di vita mescolati con la freschezza di uno sguardo azzurro-grigio che alcuni ciuffi di capelli nascondevano e rivelavano sapientemente. Ecco la seconda, grande “cotta” delle amicizie liceali della ragazza… ma su questa, Adria non doveva sperticarsi troppo per comprenderne il perché; era legatissima ad Isaia, sentimento che il fratello non si era mai dimostrato avaro nel ricambiare. Stranamente, lui era stato il suo sostegno negli anni dell’adolescenza, il suo confidente e consolatore alle prima emotività amorose non corrisposte od infrante; crescendo poi, l’unicità di quel ruolo si era sdoppiata, consentendo anche ad Adria di poterlo assumere nei momenti di bisogno del fratello. Fratello che ora, dopo anni tribolazioni e fidanzate sbagliate, aveva trovato stabilità ed equilibrio emotivo in Annalisa, placidamente seduta al suo fianco, con un occhio sempre a controllare la piccola Eva sonoramente addormentata del grande divano dietro di lei. Annalisa Orsini, di solo due anni più giovane di lui, la bella e bionda rampolla di una delle famiglie più antiche e rinomate di Roma; si erano incontrati all’università e da allora sembrava fosse impossibile vederli separati, di matrimonio ancora non se n’era parlato, ma avendo già una figlia di cinque anni, Adria sapeva ormai che la cosa sarebbe stata imminente.
All’altro capo della tavola, opposta al padre, ecco apparire la seconda colonna portante della famiglia: Beatrice Antinori, cinquantasei anni di dolcezza ed educazione come gli occhi nocciola ed i capelli color miele scuro suggerivano. La donna possedeva innata eleganza e compostezza, unite alla fantasia e sensibilità che i suoi studi da ex professoressa di lettere le avevano donato, un mix che Adria aveva sempre segretamente ammirato; vedeva sua madre come una creatura strana, leggermente fuori posto in questo mondo moderno e razionale, una damina vittoriana caduta per sbaglio nella buca dei viaggi nel tempo e catapultata nel 2012 contro la sua volontà. Adria era convinta che, se ci fosse stata l’opportunità di tornare nel passato, sua madre non ci avrebbe pensato due volte ad accettare.
 
Ed infine lei. Adria Antinori, la festeggiata, la secondogenita, l’unica figlia femmina, l’animo artistico ed il giullare della casa, grazie ad un lavoro come restauratrice ed un senso dell’umorismo che faceva da interessante cornice ad un bel viso con grandi occhi grigio chiaro e lunghi capelli castano ramati leggermente ondulati. Adria, che dopo questa lunga e silenziosa speculazione, si riscuote dal suo momentaneo “stand-by” e va ad apportare, con sorrisi e battute, il suo personale contributo alla conversazione già in corso.
 
***
 
Attendere. Che verbo fastidioso. Un verbo dalla doppia faccia, dalla doppia accezione; nel positivo, è il trepidante e festoso preludio di qualcosa che arriverà a breve, un oggetto necessario, un regalo da scartare, un’occasione colta al momento giusto… nel senso positivo, appunto. Ma per lui, al momento si poteva parlare di tutto tranne che di positività.
Aveva camminato in lungo ed in largo per tutto l’edificio, facendo anche più di una volta una parte del percorso, aveva cercato di tenere la mente occupata con qualsiasi mezzo gli fosse capitato, fisico o mentale che fosse… ma niente da fare, la sua mente e la sua attenzione tornavano sempre , a quella stanza, a quell’oggetto coperto da un drappo scarlatto che pareva prendersi beffardamente gioco di lui. Più di una volta la tentazione di correre là e dare una sbirciata lo aveva colto…ma poi si era reso conto che sarebbe stata un’ammissione di debolezza, lusso che non si era mai potuto permettere prima, e che non avrebbe davvero cominciato adesso a prendere.
Perciò aveva atteso. Per ore. Interminabili ore che lo avevano condotto non solo alla notte, ma anche ai venti minuti cruciali che lo separavano dall’evento.
 
***

Il pomeriggio era trascorso in fretta, come sempre quando si passa del tempo piacevole. L’orologio a pendolo della sala aveva appena segnato le 23.40, quando Manfredi si alzò dalla poltrona, chiuse il libro che aveva catturato la sua attenzione e si diresse verso la figlia.

“Adria, tesoro… puoi venire un secondo con me?”

A quelle parole, vi fu un’impercettibile variazione di atmosfera nell’aria, mentre Beatrice, Isaia ed Annalisa assunsero all’unisono l’espressione del viso che farebbe chi sa che è arrivato il momento di attuare una cosa già pianificata da tempo.
 
“Certo papà,” fu la pronta risposta di Adria mentre si sollevava dal pavimento in cui era intenta ad intrattenere Eva; in pochi passi la giovane lo affiancò, osservandolo e facendo incontrare iridi dello stesso grigio, ma di tonalità differente: scure e tendenti all’ardesia quelli del padre, chiari e con sfumature di ottanio per la figlia. “eccomi… cosa succede?”
 
All’innocente e curiosa domanda della figlia, Manfredi si aprì in un lieve sorriso, muovendo corpo e braccio per invitare Adria a seguirlo nel suo studio. “Vieni con me tesoro…c’è qualcosa che devo farti vedere.”
 
***

“Allora?! L’hai trovata?!”

Come risposta gli arrivò un grugnito stizzito. Beh, meglio di quanto aveva sperato di ricevere.

“Me l’hai già chiesto dieci volte nell’arco di cinque minuti e la risposta non varia. No. Non l’ho ancora trovata. Sono uno storico non un hacker, e se pensi che la gente abbia microchip di localizzazione impiantati nella nuca, allora hai visto troppi film di fantascienza…dato che escluderei i libri.”
 
“Sono sempre più convinto che tu sia in quel periodo del mese perennemente, benchè tu sia un uomo. Con tutta quella roba che hai davanti ancora non sei riuscito a trovarla?”
 
All’ultima osservazione, ci manco poco che al primo individuo non prendesse un principio di infarto; voltandosi di scatto con la sedia girevole, fulminò il secondo con un’occhiata che avrebbe potuto competere con lo sguardo della Gorgone…. Se non fosse stata accompagnata da un poco intimidatorio e lieve tic nervoso all’occhio.
 
“Questa roba?!” esclamò con qualche ottava di più nella voce, che andò immediatamente ad abbassare. “Questa roba, ehm, questa roba non è niente di speciale, davvero, questa roba è solo la roba che impedisce a tutta la nostra operazione di andare a puttane.”
 
“Wow…” aggiunse una terza voce, femminile stavolta. “Hai ripetuto “questa roba” cinque volte nell’arco di un minuto e venti… il tuo record andrebbe aggiornato, prima era di un minuto e quaranta.”
 
Si aspettarono entrambi una risposta acida e tagliente di rimando… o almeno l’invito ad andare al diavolo. Invece no, niente. Tutto quello che ottennero fu una sorta di ringhio sommesso ed una schiena voltata per poter tornare al lavoro.
 
***

L’odore dello studio paterno l’aveva sempre fatta sentire a casa, in un certo qual modo. Libri antichi e profumati di corti rinascimentali, di polvere da sparo delle guerre, di colori ad olio ed inchiostro dei grandi pittori e scrittori.. ma anche l’odore del legno delle scaffalature, amorevolmente curate e cerate sommato, a volte, con quello pungente della lampada a cherosene, vezzo vintage che il padre aveva acquistato tempo addietro da un antiquario e che a volte si divertiva ad accendere per “un salto nella luce del passato”, come a lui piaceva chiamarlo.
Ma oltre a tutte quelle sensazioni, un dettaglio l’aveva particolarmente colpita; appoggiato alla scrivania vi era un oggetto di forma lunga e rettangolare, coperto da un lungo drappo nero che lo nascondeva completamente e vicino al quale Manfredi si fermò, rimanendo in piedi. Un nuovo pezzo d’antiquariato acquistato e che voleva mostrarle? Una tela da farle restaurare? Un ipotetico regalo di compleanno decisamente ingombrante? Non faceva fatica ad ammetterlo… stava bruciando di curiosità.

“Adria… tu sai chi sono gli Assassini vero?”

“Gli Assassini, anche noti come Confraternita degli Assassini, sono un ordine di sicari il cui scopo è preservare la pace e il libero arbitrio del genere umano. Essi sono attivi sin dall'alba del dominio degli uomini sulla Terra, e conseguono una secolare guerra contro l'Ordine dei Templari. Vorresti anche il motto? Eccotelo: Agiamo nell'ombra per servire la luce, siamo Assassini. Nulla è reale, tutto è lecito"
 
Fu la risposta tra il serio ed il faceto di Adria, che aveva impostato volutamente la voce a scimmiottare una lezione scolastica imparata a memoria, con un sorriso bonario sul volto.

“Scherzi a parte papà, certo che so chi sono gli Assassini… E’ da quando ho tredici anni che istruisci me ed Isaia a riguardo. Credo, Templari, frutti dell’eden… non mi manca nulla, ci hai fatto leggere e studiare forse tutto quello che aveva pagine scritte a riguardo.”
 
Manfredi ascoltò la figlia sorridendo lievemente, annuendo con la testa a conclusione delle ultime parole giovanili mentre la mano sinistra cominciava ad andare a posarsi sulla sommità dell’oggetto nascosto.

“Mi fa piacere vedere che tutto il tempo speso per tale motivo non è andato perduto.”

“Papà, non mi ci è voluto molto per capire che tutti quegli uomini seri e burberi che ogni tanto incontravi qui, fossero in realtà Assassini.. beh, ad Isaia magari è anche scappato detto qualcosa, ma chiunque si sarebbe accorto che non fossero semplici pazienti.”

“Accidenti…” ribattè il padre gentilmente scherzoso. “Credo di aver creato un mostro. Tuttavia, ho un’ultima domanda.. Sai chi è Ezio Auditore, giusto?

“Ezio Auditore da Firenze…un nobile fiorentino che divenne uno dei più grandi Mentori dell'Ordine degli Assassini. Papà certo che lo so, perché mi stai chiedendo l’ovvio?”

Un sorriso carico di soddisfazione incurvò le labbra ed illuminò gli occhi di Manfredi… si, era pronta. Sua figlia era quello che gli avevano pronosticato venticinque anni prima, il giorno della sua nascita.
 
“Mia cara, forse ora mi prenderai per pazzo e non potrei biasimarti; probabilmente io penserei la stessa identica cosa..”

“Papà, ora mi stai inquietando” lo interruppe per un attimo Adria, passando il peso del corpo dalla gamba destra a quella sinistra. “Dove vuoi arrivare? Che motivazione lega tutte queste domande, il mio compleanno, Ezio Auditore e quest’oggetto nascosto?”

La risposta di Manfredi non si fece attendere, semplice e concisa come soleva fare con le questioni importanti.

“Adria… io ti sto per offrire l’opportunità di incontrarlo.”

***

Quello?! Tutto quel trambusto e quella segretezza per quello?! La sala grande piena di candele e bracieri accesi chiusa a chiunque altro che non fosse lui, Machiavelli, sua madre e sua sorella… per quello?! Quando Niccolò andò a togliere il drappo carico della sua ansia dall’oggetto, rivelandone finalmente la natura e la forma, sulle prime pensò che l’amico fosse ammattito.

“Mi stai prendendo in giro per caso?” esordì con un tono di voce simile ad un ringhio ed a cui Machiavelli non fece una piega.

“Ti sembro qualcuno che ti stia prendendo in giro?” ribatté pacato.

“Direi di si, dato quello che mi si sta presentando davanti agli occhi! Non penserai davvero che possa funzionare o che io creda ad una simile cosa!”

“Ezio io non ho mai detto che ci devi credere.” Replicò l’uomo più anziano in tono calmo e naturale, come se gli stesse dicendo la cosa più naturale del mondo. “Ma solo che lo devi accettare così com’è.”

Un secondo ringhio, più profondo e piccato fu la risposta… odiava essere preso in giro, e se Machiavelli davvero si aspettava che lui accettasse una cosa del genere come fatto compiuto, beh.. si sbagliava di grosso.
 
***

Era ufficiale, suo padre era completamente partito di testa. Quella spiegazione, quel titolo che, secondo lui, lei portava sin da quando era nata.. e soprattutto quello che avrebbe dovuto fare, in relazione a tale nomea.

No. Decisamente no. Ulteriormente no, osservando il “filo conduttore” tra le due cose che Manfredi aveva terminato pochi istanti prima di spiegarle.

“Papà, se questo è uno scherzo, direi che è davvero di pessimo gusto… come pensi che possa credere a questa cosa?”

“Adria, in tutti questi anni quante volte ti ho dato motivo di dubitare di me?”

“Ehm… mai?”

“Esattamente… quindi, perché dovrei cominciare proprio ora? Lo so che può sembrare assurdo e surreale, e probabilmente lo è; ma ci sono cose a questo mondo che dobbiamo accettare così come sono.”

La giovane si trovò a riflettere su quelle parole… effettivamente suo padre non le  aveva mai mentito, quindi perché avrebbe dovuto, appunto, cominciare ora a farlo? E su una cosa così improbabile. Forse quello che le stava dicendo era davvero la verità… una verità che forse non avrebbe mai capito come potesse esistere, ma la realtà effettiva delle cose; mosse appena la testa, quel tanto sufficiente per guardarlo negli occhi.

“Quindi mi stai dicendo che…”

“Si.”

“E che io…”

“Si.”

“Con…"

“Si.”

“Ma che…”

“No.”

“Cos’è, stiamo giocando a –Completa la frase prima di Adria-?!” ribattè leggermente piccata, strappando una risata divertita a suo padre.

“Scusa tesoro, non volevo prenderti in giro…tra poco dovrai andare.”

“Cosa?! Ti aspetti sul serio che lo faccia? Da sola?”

“Oh no, certo che no…”

“Ah, Dio ti ringrazio…” fu l’osservazione femminile, con un piccolo sospiro di sollievo….

“Solo per stavolta io verrò con te.”

…. Che suo padre trasformò immediatamente in un pigolio strozzato.


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Wow. Stavolta lo dico io, vedendo che sono riuscita a pubblicare addirittura un giorno prima della scadenza. Discorsi a parte, scusate per l'attesa e grazie per essere arrivati sin qui.

Dead Rose Gardener
 

 

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