Dashes di Overlook (/viewuser.php?uid=468925)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tutti i colori dell'evidenza ***
Capitolo 2: *** Due prede, quanti predatori? ***
Capitolo 3: *** Epilogo - Un vero piacere ***
Capitolo 1 *** Tutti i colori dell'evidenza ***
Il primo capitolo di "Dashes", ad opera di Overlook è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Dashes
Di
Overlook, 2015©
____________________________
Capitolo
I - Tutti i
colori dell'evidenza
Per
quanto, sin dalla notte dei tempi,
vizi e virtù siano estremamente volubili, nei più
svariati
contesti e nelle più indefinite situazioni, niente rende gli
uomini
più vulnerabili, ed al contempo belligeranti, della pioggia.
Essa
scroscia, dilaga tra le fughe disegnate dalle strade sulla
maiolicatura cittadina, è più veloce e funesta di
un virus influenzale tra i
corridoi di una scuola dell'infanzia, frusta le spalle troppo scoperte
ed appesantisce gli indumenti troppo abbondanti. Irrompe dispettosa
soltanto nel momento in cui può star sicura di prendere alla
sprovvista se non tutto, almeno la maggior parte del creato,
sciogliendone la maschera di civile convivenza sullo stesso suolo;
svelando l'essere umano per null'altro di quel che è:
un'indecente
belva feroce, opportunista, irrimediabilmente intrappolata nella
propria stessa stupidità, alla stregua di un ratto che si
trovi a
fiutare una possibile via di scampo tra i muri invalicabili di un
labirinto creato da chimici e ricercatori scientifici. Esso non sa e
non potrà mai sapere che quella sua ricerca nient'altro
è che
l'obbiettivo di chi l'osserva dall'alto; allo stesso modo, l'uomo o
la donna che cerchino forsennatamente riparo per le proprie giacche
inamidate e chiome cotonate sotto a pensiline e tendoni di negozi,
eseguono il mero volere di un plumbeo cielo che sovrasta le loro
teste. Per riuscire nella propria fuga, essi si spintonano, se ne
fregano dell'altrui handicap o di posti già occupati,
diventano sguaiati e morbosi, bestiali e... Cattivi.
Bulma Brief,
ormai, di umano, probabilmente poteva vantare solo il proprio sangue,
giacchè dal momento in cui aveva rimesso piede, incredula,
nella propria camera da letto, aveva avuto l'opportunità di
tirar le somme su quella sua esistenza sino ad allora costellata di
peripezie al limite dell'immaginazione, tanto densamente quanto una
notte d'Agosto è intrisa di stelle e... zanzare.
Dopo
essersi sbarazzata dell'ultima, con un abilissimo colpo di pantofola
all'angolo del muro, gli occhi azzurri e ancora stanchi s'erano posati
sulla polaroid effettuata
a bordo della navicella spaziale, durante il viaggio verso il pianeta
Namecc. I capelli a caschetto, ancora in piega, impreziositi dal
cerchietto in raso rosso, lambivano il suo viso terso e raggiante,
trasudante l'allegria d'esser lì a compiere un memorabile
autoscatto in compagnia del piccolo Son Gohan, teneramente ridicolo con
il papillon
ben annodato e l'amico Crilin, spensieratamente abbigliato come un
turista intergalattico.
Certo che ne aveva visto
di stramberie, lei. Praticando la professione di
scienziata meccanica, s'era un tempo illusa che le stranezze le avrebbe
avute davanti agli occhi soltanto sottoforma di prodotti ultimati,
bizzarri e geniali, presso la sede della Capsule Corporation, la sua
stessa dimora. A quanto pareva, la sorte le aveva invece
riservato un posto in prima fila -ed altrettanti nel cast principale-
per il susseguirsi di vicende assurde che da quando aveva conosciuto
Son Goku riempivano e quasi soffocavano ogni anno, ogni giorno, ogni
momento della vita. "E
pensare che mi sarebbe bastato un bel fidanzato...!",
aveva pensato ad alta voce, mentre misurava con le dita di entrambe le
mani il perimetro di quella fotografia.
Yamcha stesso, non era affatto un uomo qualunque. Per la
verità, fin troppe volte aveva messo in discussione il fatto
che si potesse definire
uomo, tale
era stata da sempre la sua immaturità pur avendo superato da
un pezzo i canonici diciotto anni. Alzando gli occhi al cielo e
sbuffando indolente, ricacciava indietro quel flusso di pensieri.
Sconnessi di primo acchito, d'un tratto, senza avvisare, trovavano la
solidità del cemento totalmente asciutto su cui poggiarsi,
tra le aguzze guglie disegnate dai ciuffi della chioma folta e corvina
del tremendo alieno che d'impulso
s'era offerta d'ospitare sotto il suo stesso tetto.
Vegeta.
A Bulma era giunta molto prima la fama, che il nome, di quello
scellerato aguzzino che aveva decretato la prematura morte di Yamcha e
che aveva ridotto in fin di vita Son Goku. Su Namecc inaspettatamente e
con orrore ne aveva fatto diretta conoscenza, troppo avviluppata nel
timore egli potesse essere davvero tanto spietato da farle del male,
per accorgersi della perversa sicurezza che, quell'alieno, non le
avrebbe mai torto un capello.
Nessun problema, comunque, giacchè di questo -e di ben
altro, di lì a poco- aveva potuto accorgersi in tutta
calma tra le rassicuranti mura della propria dimora, sin dai primi
giorni di permanenza del principe del popolo Saiyan.
L'odore -avrebbe voluto parlare di profumo, ma la decenza ed il pudore
s'erano alleati contro di lei- che Vegeta lasciava nell'aere ad ogni
passo, muschiato, maschile, empio, vissuto e pungente, accarezzava le
sue minute narici con la stessa insistenza con cui la nube fuoriuscente
dalla sigaretta di suo padre la istigava a farlo entrare nei suoi
polmoni illibati.
Il fumo crea letale dipendenza, Bulma lo sapeva bene, non era certo una
sprovveduta. Quel che la allarmava era la conseguente analogia, del
tutto inconscia, con l'odore dell'alieno.
Ma cosa, la intimidiva?
Era forse impaurita dai ricordi di morte e sangue che quell'aroma
portava dentro di sè? Era per caso intimorita dal sentore
troppo differente dal resto della popolazione terrestre?
No, era spaventata a morte dall'evidenza che quel
profumo
-sì, per la
miseria, è profumo,
ciò che conturba ed aggrada all'olfatto- avesse iniziato a
piacerle da impazzire, a mancarle quasi fosse ossigeno vitale, quando
per più di qualche ora quell'assassino interspaziale non si
palesava nella stessa stanza ove era lei; a prendersi gioco dei suoi
più profondi sogni, quando al mattino si svegliava di
soprassalto avvolta da una vergognosa sensazione di dispiacere, nel
trovarsi tra le proprie lenzuola candide e non tra quelle insudiciate
di fango e sforzi sovrumani del letto di qualche stanza avanti.
Yamcha aveva impiegato davvero pochissimo tempo, a divenire null'altro
che una faticosa zavorra morale da trascinarsi dietro, un peso sulla
coscienza con cui dover fare i conti, quando all'imbrunire del giorno
il pensiero chiosante era "Fortunatamente
ha gli allenamenti con la squadra, questo fine settimana".
Era tornato alla vita da relativamente poco, ma la gioia di riaverlo
per sè era perdurata nel tempo di un abbraccio
più intimo, di un tentativo più adulto da parte
del giovane guerriero. Le aveva chiesto se quella sera avessero potuto
dormire insieme, per la primissima volta, in verità. Lo
sguardo scioccato e gli strepiti di indignazione avrebbero dovuto
suonare a tutti e due come un gran bel campanello d'allarme, ma
inevitabilmente s'era finito per sigillarsi adirati ognuno nelle
proprie stanze, chi a smaltire la carica sospesa davanti a certi
giornaletti, chi a ragionare su quale nugolo di polvere stesse
inceppando tanto decisamente l'ingranaggio del comune evolversi di una
relazione sentimentale.
Ed era proprio lì, l'inghippo su cui Bulma tutte le volte
scivolava malamente e per medicarsi utilizzava il lavoro, il cuscino e
le riviste di moda: Si trattava davvero, alla fine dei conti, di una relazione sentimentale?
O forse sarebbe stato meglio per tutti aprire definitivamente le porte
a quella che era una splendida e profonda amicizia fraterna? Bulma non
era certo una persona poco incline ai cambiamenti ed alle sorprese,
anzi, ella stessa fino a quel momento ne aveva fatto un carburante
esistenziale. Per cui non si poteva dire fosse reticente a dare quella
svolta decisiva alla sua vita. Si poteva invece urlare a gran voce che
ciò che la tratteneva era la sempre più fondata
consapevolezza che non avrebbe giulivamente galleggiato da una sponda
all'altra del torrente della sua gioventù, una volta
conclusa la loro... Storia. No,
si sarebbe arenata violentemente sullo scoglio impervio e tempestoso i
cui profili più alti ricordavano le fattezze di una fiamma
vivace, con la stessa naturalezza con cui la gazzella agguantata e
assediata dal branco di leoni si lascia andare alle loro fauci
fameliche.
Certo, che la gazzella sarebbe volentieri fuggita, ma ormai... E poi,
così è la legge di natura.
Allo stesso modo, Bulma distingueva sempre meno nettamente i contorni
della paura di un tale pensiero, non riusciva nemmeno più a
scorgere le ombre funeste del passato di quell'inquilino da cui
chiunque si teneva ben alla larga, da quando aveva deciso di accettare
l'invito della scienziata.
Ancor più infame era la spontaneità
con cui quei pensieri permanevano nei meandri della mente,
benchè ben viva fosse la riminescenza delle ultime parole a
lei rivolte dall'alieno durante il giorno.
"Levati di
mezzo".
"Non ho tempo da perdere
con una patetica Terrestre".
"Che hai, da fissare?
Pensa agli affari tuoi".
Dove diamine
stavano il cenno, il gesto, la parola che avessero ambiguità
tale da suggerirle simili elucubrazioni? Da nessuna parte!
Eppure, il prosieguo di quelle diapositive mentali in movimento,
picconava inesorabile alla base ogni tentativo razionale di rimettere ordine in testa.
"Principe dei miei
stivali, mi leverei volentieri di mezzo, se non avessi conciato il
lavello peggio di un porcile! Pulisci tu, forse?!".
"E io non ho certo tempo da perdere con un maniaco della guerra senza
un briciolo di civiltà! Perciò... Ti saluto!".
"Ti sarebbe piaciuto, che ti stessi fissando, caro mio! Per la
verità mi dava da pensare quel quadro lì, proprio
dietro di te. Non trovi che sia... Un po' storto...?".
Tutto quel sottile e malizioso sfidarsi, rincorrersi,
violentarsi e punirsi, per poi liberarsi ancora, si librava nell'aere
inarrestabile come la carica negativa d'un elettrone che incontri
quella positiva di un protone. Essi si scontrano, ma si cercherebbero,
in ogni caso. Sono agli antipodi, ma sono uno il complemento dell'altro.
Di nozioni e dogmi scientifici ne aveva a sufficienza da redigere un
trattato, Bulma, ma fegato e temerarietà per ammettere la
specularità con la sua situazione, quelli sorprendentemente
scarseggiavano da tempo. Eppure non ci aveva pensato su un minuto di
più, quando s'era trattato di raggiungere il luogo
d'atterraggio di Freezer.
Yamcha era diventato di nuovo un lontanissimo atomo immerso
nell'iperspazio della sua coscienza.
***
"Procurami indumenti che
non siano così vomitevolmente... Rosa, se vuoi che mi levi
di dosso la tuta da combattimento, è chiaro?",
le aveva sbraitato in faccia Vegeta, paonazzo di rabbia ed imbarazzo
per quel patetico teatrino di cui si ritrovava ad essere, suo malgrado,
marionetta principale.
A nulla erano valse risatine e tentativi vari di sdrammatizzare tanto
astio, Vegeta s'era rinchiuso tra le mura concave della Gravity Room
posta in un angolo remoto del giardino e da lì
non era
più uscito. Neppure per sfamarsi.
La finta, spensierata noncuranza di Bulma s'era spenta sotto i
riflettori ben più potenti di un alone di preoccupazione
reale, per le condizioni dell'alieno.
Conscia che bussare al portellone sarebbe servito solo a far
sì che da lì Vegeta non sarebbe davvero uscito
mai più o, ancor
peggio, avrebbe nuovamente azionato i motori della
navicella, pronto ad abbandonare un'altra volta quel pianeta, s'era
risolta a tuffarsi, letteralmente, tra i fradici marciapiedi della
città, quello stesso fine settimana, alla volta del centro
commerciale, dove avrebbe investito un bel po' del proprio
generosissimo capitale, tra must
have modaioli per lei e, finalmente, qualche sobrio abito
scuro per quel bell'alieno.
S'era finta scocciata dalla mansione, ma tant'è, quando sua
madre l'aveva avvisata dalla cucina che al telefono la stava cercando
insistentemente Yamcha, in palestra dal mattino, ella aveva calzato gli
stivaletti in gomma nera, lucida ed infilato alla svelta il cappottino
in velluto mélange,
verdone, sbraitando sguaiata dall'ingresso che lei sarebbe dovuta
uscire e che quello non era proprio il momento adatto per ricevere
telefonate.
L'insistente scrosciare della pioggia sul tessuto ben teso
dell'ombrellino tascabile appena scapsulato non le permetteva
d'avvertire in anticipo i passi delle persone che, ad onor del vero,
finivano per scontrare i propri ombrelli, uno ad uno, con il suo, quasi
fosse stata la sola ad andare nella direzione opposta a quella della
gente ammassata sotto ai vari tendoni e alle numerose pensiline.
"Accidenti, ma vuole
fare un po' più d'attenzione?!", aveva inveito
contro l'ennesimo signore grassoccio le si era parato davanti
intenzionato a non muoversi d'un millimetro, ora che quella precaria
decina di centimetri quadrati al riparo era stata conquistata. Che
fossero tutti squallidamente sordi al richiamo dell'educazione, in quel
frangente, era vero. Ma che Bulma, in meno di un chilometro percorso a
piedi verso il centro commerciale, avesse già le mani
occupate da almeno quattro grossi sacchetti recanti loghi di lusso, lo
era altrettanto.
"C'è chi
può e chi non può", si risolveva
sempre a pensare in casi come quello, quando le pacchiane signorine sue
coetanee, dai bordi inzaccherati del marciapiede su cui sostavano
inzuppate e furenti, la osservavano verdi d'invidia, più che
nere di rabbia per l'acquazzone improvviso, distruttore di messe in
piega. Lei faceva già parecchia beneficenza, insieme a suo
padre, la coscienza se la puliva di sovente. Non amava neppure la
disciplina dello shopping
più o meno compulsivo, perciò quando decideva di
farne, non avrebbe dovuto sentir volare neppure una mosca. Guai a chiunque,
altrimenti.
Con non poca fatica e con la gola arsa dagli insulti urlati a destra e
a manca, incapsulato l'ombrello, Bulma aveva fatto il suo ingresso
all'interno dell'enorme centro commerciale da poco aperto in pieno
centro nella Città dell'Ovest. Su più piani, esso
racchiudeva tutto il mondo modaiolo. Negozi di vestiti, di scarpe, di
borse, di gioielli e persino di animali, considerati alla stregua
d'accessori, dall'emisfero benestante.
Questo la indisponeva parecchio, proprio lei che, seppure non fosse a
questi troppo legata, ne aveva sempre ospitati a dozzine, presso gli
spazi esterni gestiti dal dottor Brief. Constatare però, una
volta giunta proprio di fronte all'insegna, che i clienti fossero
bambini e bambine desiderosi di prendersi cura di un amico a quattro -
o due o otto che fossero- zampe col beneplacito dei genitori, la fece
sorridere impercettibilmente, rincuorata e ricaricata dell'energia
necessaria per affrontare la calca accumulatasi di fronte alla nuova
filiale Charmante appena
inaugurata.
***
Nonostante lo zigomo continuasse a pulsare arrossato, Bulma aveva
definitivamente rifiutato la cortese offerta da parte del titolare
della rinomata gioielleria di porgerle quantomeno del ghiaccio con cui
tamponare la contusione. La screanzata che s'era malamente interposta,
puzzolente e malvestita, tra lei e la vetrina principale del negozio,
aveva agitato un po' troppo le mani, con quel suo fare provinciale,
nella speranza un commesso le venisse in aiuto prima che ad altre. Uno
di quei pugni chiusi e maldestri era finito contro il suo niveo viso,
facendola andare su tutte le furie e scatenando l'ira di tutta la
clientela, benestante e compita, sommessamente parlottante, in ordinata
coda per le vetrine d'esposizione.
Incapsulate
le numerose buste ormai d'impiccio, s'era decisa a
spostarsi nel settore d'abbigliamento, ove un graziosissimo giacchetto
corto e smanicato in jersey arancione faceva sfoggio di sè
su di un manichino a cui Bulma non aveva proprio
nulla da
invidiare , anzi, fosse stato animato, avrebbe avuto quello,
qualcuno su cui rodersi il fegato. Si presentava come sbarazzino
soprabito di una blusa lillà più lunga,
traforata, i cui bottoni riprendevano la forma di simpatici musi di
gatto stilizzati. Il pantalone che le commesse avevano abbinato era di
un verde militare piuttosto largo, informe, di quei modelli che erano
andati almeno due stagioni prima e che con tutta probabilità
rappresentavano un esubero di magazzino da rendere appetibile al
più presto, per evitare perdite economiche. Storcendo il
naso poco convinta, Bulma tornò ad osservare il taglio
estremamente comodo, ma pure attillato dello smanicato, immaginandolo
sopra a quel crop top color
sangue che sua madre le aveva comprato durante uno dei meticolosi raid presso le
boutiques della periferia cittadina. Le stava divinamente, non fosse
stato per il fastidioso dettaglio che a livello del seno, esso
risultava forse troppo morbido, non perfettamente fasciante, quasi a
volerle insinuare il dubbio fosse lei ad essere poco procace.
D'altronde però, quella piccolezza così
lievemente si
notava che ella non aveva fatto altro che sospirare noncurante davanti
alla specchiera, ponendo l'indumento ben piegato nell'armadio,
aspettando il periodo delle festività primaverili
tradizionali nella sua città, dove sistematicamente riusciva
a prendere quel paio di chili in più che, per una volta, le
avrebbero giovato.
Non
calcolò neppure la possibilità di adeguarsi
all'abbinamento proposto dal negozio, ne uscì soddisfatta
con il solo pezzo di suo interesse, l'ultimo disponibile peraltro,
lasciando che un impudente manichino con la testa mozzata
s'infreddolisse con la sola camiciola e i pantaloni desueti a coprirne
le plastiche nudità.
***
Non
aveva mai avvertito il bisogno di uniformarsi alle altre, coetanee o
meno che fossero. Bionde, more, brune, lei senz'altro spiccava per il
colore acceso e cristallino che la caratterizzava sin dalla nascita,
con quell'unico ciuffetto in fronte che Bunny Brief le aveva saputo
acconciare in milioni di modi differenti. Certo, quei suoi naturali
connotati tanto particolari necessitavano di una maggiore attenzione
nel corredo del vestiario, tant'è che, seppur grande
appassionata di stravaganze e appariscenze varie, Bulma aveva sempre
posto un occhio di riguardo agli abbinamenti in tinta all'interno del
proprio guardaroba. Il più delle volte sfoggiava armoniosi ton-sur-ton
riprendenti quelle marine movenze, altre volte le piaceva giocherellare
con contrasti azzardati, come quello che da qualche tempo usava
indossare: un morbido abitino a maniche lunghe, rosso, rigato da
sottili linee orizzontali parallele, di colore scuro. A proteggerle le
spalle freddolose v'era sempre un gilet in cotone color tramonto,
simile a quello appena acquistato, ma logoro e un poco sgualcito ai
fianchi. S'era concessa da qualche tempo una leonina permanente ai
lunghi capelli, giusto per dare un taglio netto alla traumatizzante
esperienza interplanetaria.
Di tante tinte con cui aveva da tutta la vita giocato abilmente, la blu era quella con
cui il suo sex appeal
giovanile si trasformava in un suadente fascino avvolto nel mistero, il
mistero da cui gli amici erano incuriositi, di come fosse, la vita,
alla Capsule Corporation, da quando l'alieno più
belligerante e spietato di sempre s'era stabilito sotto quello stesso
tetto...
"Già, Vegeta!",
aveva ricordato a voce bassa sgranando un poco gli occhi; era giunta
sin lì per acquistare abiti a lui, non chincaglierie e
capricci per lei. Fluido come l'acqua pura che stilli da una ferita tra
le rocce impervie, il pensiero di Bulma si sviluppò in
un indeciso e analitico scandagliare ogni sfumatura maschile
che avrebbe reso onore al fisico disumanamente bello del principe dei
Saiyan. Il colore nero le pareva quasi tedioso, abbinato allo stesso
tono di quegli occhi seducenti e di quella chioma ribelle e selvaggia.
Il bianco donava a quella pelle sempre incurantemente abbronzata, ma
cozzava violentemente con la sua stessa persona. Con una mano a
reggerle il mento dubbioso e l'altra a farsi strada tra le porte
girevoli dell'ennesima boutique, Bulma intercettò il proprio
sguardo assorto con quello inanimato di un mezzobusto nudo,
troneggiante su un grande scaffale, defilato dagli altri, su cui
poggiavano quiete e severe due pile di abiti: pantaloni comodi e
robusti color castagna e maglie a manica lunga con scollo tondo, color
della notte. Blu.
Non servì affatto che Bulma provasse ad immaginare Vegeta
con quei vestiti addosso, perché fu il suo stesso spettro
nell'immaginazione a palesarlesi davanti agli occhi in un austero
fascino ineguagliabile.
"Ecco, prendo questi! Mi
faccia la cortesia di togliere già i cartellini, grazie".
Non aveva intenzione di sentirlo sciorinare la solita trafila d'insulti
a denti stretti perchè quei... Cosi in plastica
gli davano fastidio addosso. Anzichè staccarli, aveva
disintegrato più volte la biancheria intima che gli aveva
fatto trovare sul letto.
"Ma, signorina... E se
poi non dovessero andar bene?", s'era azzardato il
gentile commesso alla cassa, preoccupato che visto il costo della
merce, non fosse poi più possibile il cambio in caso di
errore nella taglia.
"Mi creda, so
perfettamente, cosa va bene e cosa no". Ma Bulma,
l'immagine di quell'alieno, terribilmente magnetica ad ogni ora del
giorno... E della notte, l'aveva stampata in mente più
precisa di quella dei prototipi a cui stava lavorando.
Era andata ad occhio, con il pantalone color ocra e la camicia rosata e
non aveva sbagliato d'un millimetro.
Il peso di quel pacchetto poteva esser tranquillamente retto tra le
dita, perciò si risolse a non incapsularlo e a concludere il
suo ramingo girovagare con una sosta al bar in voga, al piano terra di
quell'enorme edificio, corroborandosi con un cappuccino sporcato
dall'eccessiva spolverata di cacao amaro.
***
Il fiato era corto non solo per la corsa, ma pure per il pungente
freddo che quel giorno insolitamente aveva investito la regione. Erano i primi giorni di autunno,
mica pieno inverno!, bofonchiava sin dal mattino.
Eppure, anche per un guerriero senz'altro fuori dal comune come lui, la
maglia lunga e candida in cotone, quel giorno pareva non bastare. Gli
mancava da percorrere qualche metro, al ciottolato antistante la grande
dimora emisferica presso la quale alloggiava spesso, più
come ospite che come colui ch'era convinto di essere da -e per- sempre.
Il gattino trasformista faticava a stare al suo passo spedito e
pesante, ma una volta raggiunto il pannello di controllo digitale per
l'ingresso gli si posò sulla spalla, ansimante.
"Adesso mi sente... Non
è sempre stata lei, a rimproverarmi di non ricordare mai
nulla?!".
Lì dentro, il tepore dei termosifoni accesi e del forno
sempre in funzione riusciva a coccolare anche l'animo più
adirato. Yamcha s'era subito disteso, il suo viso s'era fatto meno
rosso e contratto, sciolta la tensione accumulata con l'aroma
dolciastro proveniente dalla cucina.
"È...
È permesso, scusate?". S'era annunciato in tal
modo, all'ingresso dell'enorme stanza ospitante i coniugi Brief ed il
paffuto micio nero, acciambellato sopra il microonde.
"Oh, ciao, caro! Che
bella sorpresa, sei venuto a far visita a Bulma? Che tesoro. Purtroppo
però lei non c'è, ma se vuoi unirti a noi per un
buon caffè caldo accomodati, non fare complimenti!".
Bunny gli aveva cinguettato il sempre cordiale invito a trattenersi, ma
in quel momento a lui interessava sapere dove si fosse cacciata
quell'impertinente di Bulma.
"La ringrazio, ma a dire
la verità vorrei proprio sapere dov'è finita sua
figlia, sono ore che provo a contattarla... Ricorda? Ho telefonato
anche prima... È ancora fuori?".
"Beh, sì.
Almeno, io non l'ho ancora vista tornare, ma magari potrebbe esserti
d'aiuto Vegeta. È almeno un'ora che se ne sta lì
davanti alla finestra! Che caro, ci tiene molto alla salute di mia
figlia, con questo freddo, sarà preoccupato anche lui!".
Da quando la giuliva donna gli aveva nominato quel nome, il
resto del discorso s'era automaticamente eclissato in sordina,
lasciando posto solo ad uno stridulo fischio all'interno dei
padiglioni, mentre lento, basito, voltava il capo in direzione della
vetrata davanti al quale s'ergeva pacata e comodamente assisa la figura
di quell'alieno assassino, la cui schiena era tutt'uno col muro
portante e le cui gambe erano distese sul davanzale interno,
tranquillamente poggiate sul termosifone ardente. Tra le mani grandi,
ma lisce, stava una tazza in ceramica scura, fumante, dalla quale
doveva provenire senz'altro una parte di quel caffè
precedentemente offertogli dalla signora Brief, altrimenti non si
sarebbe spiegato il paio di ridicoli baffi disegnati appena attorno
alle labbra sottili del temuto principe.
"V-Vegeta... Cosa ci...
Cosa ci fai, qui...", era stata l'unica cosa gli era
venuto istintivo
chiedere, più timoroso della possibile risposta, che del
fatto stesso d'avergli rivolto parola.
"Correggimi se sbaglio,
ti prego, ma mi risulta che questi non siano affari tuoi",
gli aveva affettato sarcastico e maligno Vegeta, senza nemmeno
rivolgergli un'occhiata.
Notata la tensione nuovamente galoppante nelle viscere del fidato
amico, Pual si era parato innanzi a Yamcha suggerendogli di attendere
Bulma in salotto, ma soltanto la voce pacifica del dottor Brief
riuscì a catturare la sua attenzione.
"Andiamo, andiamo
Yamcha, sai bene che Vegeta non vuole essere disturbato. Bulma
sarà sicuramente andata al nuovo centro commerciale,
figuriamoci! Ti consiglio di cercarla lì, perchè
senz'altro non ha in programma di tornare a breve, visto il forfait che
mi ha dato in laboratorio". E spingendolo delicatamente
con entrambe le mani nuovamente verso il portone d'ingresso, l'aveva
finalmente convinto a desistere da quel duello impari che lui
senz'altro avrebbe voluto sostenere.
Non appena il rumore della porta gli assicurò l'assenza di
Yamcha da quella casa, Vegeta non potè fare a meno di
trattenere un'ombra di ghigno compiaciuto; il vecchio non era poi tanto
male, come tipo. Se non altro, pareva aver per primo capito come
comportarsi al suo cospetto.
***
"Amico mio, non fare così, dopotutto sai che provocare quel
Vegeta non è mai una buona idea...".
"Non mi interessa, Pual,
quello lì dovrebbe essere confinato in quella diamine di
navicella, non libero di gironzolare in quella casa... In casa m-".
Dovette arrestarsi, Yamcha. Se non per amor del vero, almeno per buon
senso. Quella non
era, casa sua e a voler ben vedere lui non era mai stato
così ospite,
lì dentro, come da quando Vegeta aveva fatto fortuito
ritorno sulla Terra schiantandosi con la navicella gravitazionale con
cui era tempo prima fuggito nell'iperspazio. Poco a poco, giorno dopo
giorno, l'importanza da sempre riservatagli dai genitori di lei e da
Bulma stessa, che teoricamente ancora ricopriva il ruolo di sua ragazza, era venuta
meno, sino a trasformarlo in un personaggio accessorio, da salutare
cortesemente quando lo si incrociava tra i corridoi dell'immenso
edificio, ma della cui assenza non farsi cruccio quando la notte
preferiva l'aria salmastra dell'Isola del Genio delle Tartarughe.
Bulma, che mai in ogni caso aveva voluto saperne di lasciarsi andare ad
atteggiamenti più intimi di un bacio, gli aveva
già da tempo messo in chiaro bruscamente che c'era un
motivo, per cui i letti delle loro stanze erano singoli, regalandogli
il sapore legnoso di una porta chiusa dritta in faccia. Quante volte
s'era immaginato di sorprenderla, entrambi eccitati e nudi, come mai
nella realtà s'erano osservati, con l'abilità
dimostratagli tra le dita, la lingua ed oltre. A che cosa sarebbe
servito, altrimenti, tutto quel ramingo transitare da un letto
all'altro, agli angoli più squallidi di quella frenetica
città?
Invece, questo tipo di pensieri periva senza eccezioni tra le urla
furenti di lei e le risatine nervose di lui, per minimizzare la gaffe assai poco
lusinghiera. Non gli pareva plausibile che una tipa come Bulma avesse
in programma di mantenersi una vergine per tutta la vita.
Il passo celere e iracondo aveva cominciato a rallentare non appena
giunto di fronte all'ingresso del centro commerciale. Vi si sarebbe
fiondato deciso, se non avesse intravisto, dietro alla vetrata
illuminata, la figura snella e procace di Bulma, prossima all'uscita,
con in mano soltanto una busta di medie dimensioni, in cartonato
leggero, lucido e scuro, recante la firma di un noto atelier d'alta
moda maschile. Lo sguardo tornò a distendersi, le mani
tornarono ad aprirsi dentro alle tasche dei pantaloni, le spalle
tornarono a sciogliersi e la bocca ritrovò una piega
sorridente. Era stato il solito impaziente, la sua ragazza
s'era prodigata tutto il giorno per trovare il regalo adatto per il suo compleanno e
lui in cambio era stato intenzionato a piantarle una scenata coi
fiocchi! Che stupido.
Bulma non s'avvide della presenza di Yamcha sino al momento in cui si
guardò attorno per capire se dover riaprire l'ombrello o
meno; la permanente andava salvaguardata anche dalla più
misera pioggerella residua.
"E tu che ci fai, qui?",
le era venuto naturale
domandare a quell'incosciente che inebetito se ne stava lì
davanti a fissarla sorridente, con addosso solo una maglia in cotone.
"Eh eh, ciao, Bulma!
Sapessi, le mie intenzioni erano quelle di cantartene quattro, ma poi
ho visto il pacchetto... Che sciocco, credevo ti fossi dimenticata del
mio compleanno!".
Senza neppure valutare un'opzione più ipocrita, ma
più cortese, Bulma per
istinto
riuscì solo ad esclamare, come caduta dalle nuvole: "Oh, dici questo? Sono i nuovi
abiti che ho comprato per Vegeta, me li ha... Chiesti... Lui stesso!",
sorridendo
mansueta e spensierata, con lo sguardo gentile rivolto ai manici in
corda di quella busta.
Non trascorse più d'una manciata di secondi, prima che il
suo sguardo si facesse sgomento e sbarrato, offrendo consona compagnia
a
quello dell'altro.
Eccolo di nuovo lì, il lontanissimo atomo immerso
nell'iperspazio della sua coscienza ormai logora.
-Fine-
*Mi
pare corretto, prima
ancora che assai piacevole, linkare qui
un altro racconto -per me IL racconto- in cui potersi beare di
simpatici baffi disegnati attorno alla bocca del principe dei Saiyan.
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Capitolo 2 *** Due prede, quanti predatori? ***
Il secondo capitolo di "Dashes", di Overlook è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Dashes
Di
Overlook, 2015©
____________________________
Capitolo II - Due prede, quanti predatori?
Nell'incontro
erotico vi è un'altissima probabilità di imparare
la tecnica, ma mai d'apprendere un sentimento e quello è
l'elemento imprescindibile, poichè l'arte di procurare
piacere all'altro si configura come la medesima arte
dell’amore e della devozione. In assenza d'amore o di un
bocciolo di questo, la tecnica più precisa, la maestria
più perfetta risultano infine prive di valore e di
significato, involvendo solo verso un artificio senz'anima.
***
Si
sarebbero potuti indovinare l'aroma ed il gusto di quelle
ombreggiature invitanti, trotterellanti sul manto candido sopra di
loro. Esse davvero parevano gelatine di frutta, omogeneamente spalmate,
ancora tiepide, su quel soffitto immobile e solido. Ma erano soltanto i
giocherelloni riflessi che il sole, prossimo al tramonto, proiettava
tra le mura, ostacolato dal traslucido tessuto di cui erano composte le
leggere tende che appena velavano l'abissale lontananza tra la quiete
del giardino esterno e l'infernale aria umida e rovente,
appesantita, di quella camera esagitatamente occupata.
Così
come un vecchio gigante ormai stanco poggia le
pantagrueliche membra al suolo, affondando in esso croci e rimpianti, i
piedi del letto, lucidi e scuri parevano inabissarsi
nell'impiantito come ciocchi di legno nel mare in tempesta,
strenuamente intenzionati a reggere ancora la palafitta di cui hanno la
piena responsabilità. Irreale sarebbe stata
l'atmosfera, per chiunque si fosse trovato a passeggiare da quelle
parti, tanto assordante era il silenzio oltre la porta ben chiusa a
doppia mandata; tanto ammutolente era il frastuono di due soli cuori
danzanti all'impazzata nell'immobilità di quei corpi fusi
insieme.
***
Bulma
non si era capacitata di come la chiave inglese da trentadue
millimetri appena utilizzata per svitare l'ennesimo bullone troppo
intestardito tra due lamiere fosse letteralmente svanita nel nulla. Lei
era un meccanico, e che
meccanico, si poteva ben dire!
Pioniere
di numerose tecniche e procedimenti d'assemblaggio e creazione
chimico-materialistica, con suo padre formavano la piccola, ma tuttora
invincibile squadra di scienziati ingegneristici che per primi avevano
pensato, progettato e dato vita al connubio tra libertà di
movimento nello spazio e prigionia del proprio peso entro le leggi
della fisica: la stanza gravitazionale.
Se
in principio quella aveva avuto la sola funzione di consentire a Son
Goku un recupero lesto del tempo perduto in ospedale, in vista del
raggiungimento del pianeta Namecc, chi invece ne aveva davvero
subìto un'attrazione fatale era stato colui per la cui
sconfitta era stata resa quasi indistruttibile. Il principe del popolo
Saiyan.
Nell'ultima
frenesia della lunga fuga intergalattica alla ricerca
dell'acerrimo rivale, egli aveva scoperto, a bordo dell'ampia navicella
sottratta ai Terrestri che l'avevano riportato in vita, un sofisticato
pannello ricoperto di tasti alfanumerici, ricollegabili ad un piccolo
schermo rettangolare entro cui lampeggiava insistente la scritta "0 G".
Vegeta, che dei rudimenti di tecnologia ne aveva sempre dovuto
conoscere quantomeno le basi, si era incuriosito di fronte a tale
dicitura e senza esitare aveva premuto da subito il tasto "2 G",
azionando in pochi secondi il dispositivo di modifica della forza
gravitazionale all'interno di quelle mura concave, trasformandole in
oppressive lamiere infuocate desiderose d'arderlo vivo. Con il fiato
corto ed un ghigno paradossalmente eccitato, egli aveva così
compreso che la stessa innovativa miglioria utilizzata da Kaharot tempo
addietro, ora giaceva alla sua, di mercé, offrendogli la
possibilità di sostenere un pari allenamento che, forse, lo
avrebbe condotto all'aureo livello tanto agognato. Il flusso violento
ed impetuoso di quei pensieri mai tanto errati si era dovuto
interrompere, frustato malamente dallo stridulo suono d'allarme che
avvisava il pilota automatico della navicella di un'avaria al motore,
causata dalla mancanza di carburante e, quindi, del conseguente impatto
imminente sulla superficie Terrestre, nella medesima area da cui
inizialmente era partita.
"Dannazione...", fu la sola parola
riuscì a sibilare ad occhi stretti e ben serrati, con le
mani a proteggere il capo chino, supino sull'impiantito gelato in
precipitazione.
S'era
aspettato assai più rischioso, quell'atterraggio
inaspettato e violento; invece, era sceso dalla sferica bomba ad
orologeria ormai disinnescata con un abile balzo, trovandosi disgustato
di fronte ad un patetico Terrestre che ricordava a malapena di aver
fatto fuori. Anzi, no,
lui non aveva nemmeno dovuto sporcarsi le mani, col rammollito.
L'irritazione montatagli in corpo a sentir proferire proprio da quella
bocca infima interrogativi ed accuse, quando l'unico che, a parer suo,
sarebbe stato in pieno diritto di farlo era soltanto lui stesso, era
scemata di colpo lasciando posto ad imbarazzo e stizza protagoniste di
quell'amara sottomissione all'indecente sfrontatezza della donna che
gli si era piazzata davanti, appuntandogli il pessimo odore che da
giorni emanavano lui e la tuta da combattimento ormai da buttare.
Il
pensiero a proposito di quella stanza dai poteri inequiparabili,
capace di confondere l'implacabile volere della natura, assoggettandolo
ad una piccola, semplicissima tastiera, s'era fatto nuovamente pulsante
solo tempo dopo, precisamente quando, al rientro dalla landa desolata
in cui avevano fatto ritorno il tirannico Freezer e l'odiato Son Goku,
il rendersi adeguatamente pronti all'epico scontro previsto
all'indomani di tre anni da quel giorno s'era fatto strada prepotente
tra le sue membra belligeranti e smaniose di affronto fisico; se non
altro per godere di quel perverso piacere che solo un
esponente di quella sua stessa razza avrebbe potuto ben comprendere, o
forse nemmeno questi, fino in fondo. Deciso a sfruttare appieno le
potenzialità del vecchio ingegnere, padre di quell'irritante
turchina che l'aveva inaspettatamente
ospitato a tempo indeterminato, s'era a lui rivolto non troppo
educatamente per la costruzione di un macchinario in grado di
racchiudere le stesse capacità di quella navicella, ma che
fosse pure più potente, idoneo ad un allenamento a
gravità superiore a duecento. Inutili erano stati i
tentativi del dottor Brief di spiegargli quanto rischioso avrebbe
potuto essere un tale sforzo, i pugni serrati di Vegeta davanti
all'asciutto viso baffuto erano stati di gran lunga più
convincenti.
Se,
al termine dei lavori, all'alieno non era balenato in testa neppure
un alone di stupore, altrettanto non si sarebbe potuto dire
dell'espressione decisamente sorpresa alla notizia che piccoli
macchinari mobili, telecomandati autonomamente per la simulazione di
uno scontro a due, erano stati aggiunti al corredo d'allenamento dalla
collega, nonchè figlia, Bulma.
Si
dava il caso che a Vegeta non fosse stato fatto mistero,
sin da subito, che proprio quella donna irritante e sfacciata,
irriverente e... Particolare, fosse la mente ingegnosa antistante a gran
parte delle curiose ed innovative trovate di quell'azienda dal nome
tanto efficacemente riassuntivo, Capsule
Corporation. Ma che davvero vi fossero quella massa di
capelli gonfi e ribelli, quel paio di occhi azzurri e fiammeggianti
dietro quello sprint aggiuntivo, ecco, questo l'aveva lasciato in
qualche modo interdetto. Forse, quel che più lo maciullava
nelle viscere, era proprio la consapevolezza che l'interdizione verso
quella petulante bellezza
umana fosse assolutamente positiva, quasi... Orgogliosa, o giù di lì.
Ne conosceva a malapena il nome, ne traeva utilità soltanto
nel momento in cui aveva bisogno di sfogare la propria arrogante
parlantina presuntuosa, avendo compreso da subito di trovarsi davanti
all'unico pane per i suoi denti affilati. Non s'era fatto sfuggire,
tuttavia, l'innegabile bellezza che ogni tratto del volto e del corpo
trasudava impudente, calibrando per la prima volta in vita sua i canoni
estetici dell'alieno apaticamente distante da certe questioni che egli
era sempre stato.
***
"Oh, uffa, ma
dove ti sei cacciata, insomma...!".
Bulma,
accaldata e inviperita dalla propria stessa evidente
sbadataggine, aveva il viso rigato da macchie di grasso lubrificante e
residui di ruggine maleodorante a cesellarle i ciuffi ribelli, raccolti
in un elastico slabbrato sopra la nuca. Supina al di sotto della parte
inferiore della navicella gravitazionale, o quel che ne rimaneva dopo
l'ennesima esplosione, nell'operazione di restauro s'era fatta aiutare da un sottile carrello a rotelle, tra l'impiantito e il marasma caotico di cavi
elettrici sottostanti alla base portante del marchingegno; in tale,
rischiosa posizione si trovava già da più d'un
paio d'ore, come Vegeta aveva potuto irrequieto constatare
nell'immobile silenzio del suo osservarla eclissato dalla parte opposta
del vasto laboratorio.
"Cerchi... Questa?",
aveva proferito tagliente, squarciando il silenzio di quel sereno primo
pomeriggio invernale. Il violento colpo alla testa che Bulma
ricevette in cambio dallo spavento al suono improvviso della voce, di quella voce,
l'aveva fatta lamentare imprecando sguaiata, scoprendo il busto sino ad
allora celato dal telaio metallico. I piedi e i polpacci, coperti da
robusti anfibi marroni, fecero lo sforzo di far muovere l'asse di legno
su cui poggiava la schiena, rivelando un paio di pantaloni scuri e
larghi, insozzati di olio motore, un niveo lembo di pelle tonica
sfregiata solo dal minuscolo ombelico ed una maglietta a manica corta
striminzita e logora, riportante il marchio aziendale, invitantemente
deformato dal profilo generoso di un seno importante, rispetto al
minuto resto di sè. Gli occhi indecifrabilmente spaventati o
adirati, la fronte madida ed arrossata nel punto in cui aveva
subìto il colpo, i capelli appiccicati nel residuo di una
pettinatura abbozzata.
Non
era certo la prima volta, in quei due anni che s'erano rincorsi
veloci sulla Terra, che Vegeta scorgeva la propria amante in quelle
condizioni. Si divertiva sempre abbastanza, quando appunto non aveva a
disposizione la propria stanza gravitazionale, ad indispettirla con
quegli stupidi giochetti
che a lei causavano sempre dei veri e propri colpi al cuore. Se la
prima volta il giochetto
era valso la candela, vista la conturbante passione con cui lui l'aveva
letteralmente ghermita su quello stesso impiantito caoticamente
disordinato, facendola godere improvvisamente,
senza controllo,
furiosamente, adesso che quello stesso brutale tormento meraviglioso ed
ossessivo si consumava implacabile al sicuro della camera da letto
d'uno o dell'altra, durante la notte, a Bulma risultava
controproducente e maligno, quell'interromperla al solo scopo di
schernire e confonderne la razionalità.
"Maledizione, Vegeta, da
quanto tempo sei qui?! Si può sapere perchè non
mi hai passato subito questa dannata chiave inglese?". Il
tono della voce s'era alzato in crescendo, togliendo malamente dalle
mani di lui l'attrezzo a lungo cercato tra i mille sparsi accanto a
sè.
"Rilassati, non
è mia intenzione intrattenermi in tua compagnia un minuto di
più", l'aveva immediatamente liquidata,
spazzando in un sol colpo tutti i pudici ragionamenti che lei s'era
propinata in mente poco prima.
"Mi spieghi, allora, che
sei venuto a fare? Solo ad interrompermi? Stavo per spaccarmi la testa,
sotto quelle lamiere, mi verrà un livido gigantesco proprio
qui, in mezzo alla fronte...", s'era messa a piagnucolare,
a metà strada tra l'isterico ed il puerile, mentre con le
dita affusolate aveva preso a massaggiarsi i lombi infiammati.
"Tsk, come se degli
altri segni ti fosse mai importato qualcosa. O mi sbaglio?".
Sapendo d'avere ragione, Vegeta aveva voluto in ogni caso godersi lo
sguardo imbarazzato e basso di Bulma, cui dinanzi si parava l'immagine
dei propri polsi striati di viola e di giallognolo, a segnare
l'età dei rapporti intimi con il principe dei Saiyan al pari
degli anelli al cuore del fusto di una quercia. Non solo. Erano
entrambi ben consci che se Bulma aveva smesso di indossare collant
velati e gonnelline svolazzanti era perchè all'interno di
quelle toniche cosce si trovavano ancora pulsanti i segni di un'arcata
dentale completa e famelica, infingarda ed arrogante, che a lei tanto
piaceva sentire stretta attorno alle parti più carnose di
sè.
Il
volgerle la schiena sprezzantemente e il risalire la scala che
precedentemente lo aveva condotto fin lì, le fece sbraitare "Sei impossibile!",
così, d'istinto,
come se lo sforzo di mantenersi incurante almeno durante il giorno non
fosse risultato sufficiente ad arginare l'incedere della larva d'affetto che
le si era annidata nel cuore.
Voltò
solo lo sguardo affilato, tetro e suadente.
"Tu no, invece. Per me,
nulla lo è".
***
S'era
chiuso la porta alle spalle con fare indagatore e poco convinto.
Il fatto di non aver più visto Bulma gironzolare per casa
gli dava da insospettirsi che si fosse un'altra volta intrufolata di
soppiatto in quella sua stessa stanza, desiderosa di prendersi la
rivincita fisica all'amara sconfitta verbale incassata ore prima. Lo
sguardo scontroso e il disegno increspato delle labbra sottili
spifferavano alla realtà che piuttosto che un impiccio, quel
sospetto fosse invece una speranza, seppur vaga, ma impellente. Da
quando aveva saggiato il beato contorcersi sopra o sotto quel corpo
snello e leggero, prorompente e smaliziato, non aveva avuto mai la
minima reticenza a proporsi nuovamente volontario per quel continuo
esperimento sensoriale. Le aveva visto stillare improvviso un
rivolo di sangue, a decretare la fine della castità di
quegli anfratti umidi e bisognosi; un sapore agrodolce aveva investito
la sua lingua guizzante quando per primo - unico ed ultimo - ne aveva
accarezzato i contorni morbidi e roventi, già ammaestrati al
giusto movimento ritmato tra le dita abili e lisce.
Aveva
colto il turgore delle estremità di quei seni madidi e
pesanti, troppo pesanti, perfettamente
pesanti rispetto a quel busto tanto minuto e gracile da farlo
somigliare a quello d'una creatura fatata ed eterea.
Aveva
goduto di quel gusto dolciastro al sapore di gomma da masticare
alla fragola che si ritrovava di rimando in bocca, quando mordeva e
succhiava quelle labbra struccate gonfie e febbricitanti. S'era beato
della morbidezza ineguagliabile di quella chioma ribelle e marina,
ondeggiante sul cuscino di raso mentre lui ne indovinava i profili
annebbiato dall'incedere delle spinte di quei loro bacini congiunti.
***
Sapeva
d'essersi introdotta laddove, per uscire, avrebbe dovuto pagare
il prezzo della propria sottomissione a quella tortura tanto
avvolgente, tanto elettrizzante, indomabile da farle perdere ogni controllo.
Era un paio d'anni che, quasi ogni notte, ma con rare eccezioni pure al
tramonto del giorno, lei e Vegeta si spogliavano dei propri abiti e
delle proprie fredde maschere imperturbabili per lasciar liberi i
propri corpi ed i propri animi di ricongiungersi in un unico essere
indomito ed orgasmico, per poi, ripreso il pieno controllo di
sè, nascondere tutto sotto al manto del mero fabbisogno
sessuale che quelle loro fattezze tanto selvagge ed attraenti, quelle
loro lingue tanto taglienti e scattanti scatenavano ogni volta. Aveva
il terrore di lasciarsi uscire di bocca, annegato tra i gemiti
emancipati, la reale natura di quel legame, da parte sua, con l'alieno
più temibile e temuto esistesse nell'intero universo. Se non
fosse stata corrisposta, l'insopportabile vergogna di essersi mostrata
tanto disponibile nei suoi confronti e l'insostenibile peso d'essersi
spontaneamente resa marionetta di un teatrino gestito solo e soltanto
da lui sarebbero stati letali. Se non alla vita, a quel qualcosa che
lei - come lui - metteva addirittura al primo posto: il proprio orgoglio.
Eppure,
ad ogni palesarsi di tale scellerato dubbio tra i suoi
pensieri, un sentore sottile e impalpabile come uno spettro angelico si
adagiava delicato sulle sue ansimanti preoccupazioni, scaldandone i
raggelanti confini con un accenno di certezza in grado di ridarle fuoco
alle iridi color del cielo, trasformandole in un infernale varco
spalancato verso il baratro della propria rettitudine.
Terminata
la corroborante doccia bollente, aveva avvolto la chioma in
un telo di lino e per il corpo aveva utilizzato l'ampio asciugamano in
spugna che Vegeta impiegava solo alla stregua di un riparo pudico tra
la stanza da bagno e la cassettiera contenente la propria biancheria.
Frizionato
il capo energicamente per ravvivare il riccio ribelle fresco
di nuova permanente, aveva deciso di non perdere tempo tra spazzole ed
asciugacapelli, preferendo invece coccolarsi con un unguento dall'aroma
speziato lungo le gambe stanche e sfibrate. Gli occhi s'erano chiusi a
voler concentrare su quell'intenso profumo tutta l'attenzione
disponibile, facendo del naso sottile l'unico strumento di contatto con
la realtà inebriante di quel momento. Il corpo nudo,
rilassato da quel massaggio lento e delicato lungo le linee flessuose
dei propri arti, s'era seduto al bordo del letto rassettato dai robot
domestici sin dal primo mattino e le cosce tiepide avvertivano
alternatamente la liscezza del cotone delle lenzuola e la ruvida
lanosità della coperta che ne foderava la maggior parte.
Soltanto il fioco lume dell'abat-jour
di rado accesa, ad illuminare, birichina, contorni
proibiti ed altri più genuini, mentre le unghie laccate di
rosso procedevano ora con un lento striare il profilo della cervice,
roteante sotto le nocche delle mani vellutate ed unte.
Ferita
dall'incedere dei raggi del Sole morente, s'era risolta a
spegnere la luce, lasciando che il silenzio circostante ed il tepore
dei termosifoni in funzione la cullassero, sino all'arrivo del predatore.
***
L'ingresso
di quella camera era leggermente differente dalle altre, o
almeno, da quella in cui lui era solito metter piede nel cuore
più profondo delle prime ore della notte inoltrata.
Anziché dare immediatamente sull'arredo essenziale del
letto, della cassettiera in faggio, del comodino e dell'armadio in
coordinato, essa s'inerpicava in uno stretto atrio
raccolto, ospitante una specchiera ed uno scrittoio che davano da
pensare che quel vano fosse appartenuto in precedenza ad una femmina o
comunque che quelle mura fossero state studiate per ospitare un individuo
di quel genere. Vegeta aveva trovato piuttosto aggradante, invece, tale
conformazione della stanza, non fosse stato altro per la
comodità di potersi spogliare dei vestiti maleodoranti
senza portarne l'olezzo sin nell'area del letto, su cui s'era scoperto
assai sensibile a suoni ed esalazioni che non fossero del tutto silenti
durante il proprio riposo. Da due anni a quella parte, la
comodità di quel percorso s'era fatta un'arma a doppio
taglio, per il fatto che essa celava alla perfezione l'eventuale
presenza di Bulma sul bordo o al centro di quel suo sterile giaciglio
sempre ben rassettato al suo rientro, impedendogli così
d'avere il preventivo e pieno controllo delle proprie azioni in
entrambe le evenienze: che lei ci fosse o meno.
Così,
egli aveva finito per superare la soglia di quel
particolare ingresso, cogliendo subito il profilo flessuoso della
schiena e dei fianchi della donna, impassibile ai segnali che annunciavano l'irrompere dell'alieno lì dentro. Anzi, s'era
voltata appena, con gli occhi socchiusi e la bocca maliziosamente
sorridente, quasi a domandargli giustificazione, a tanta attesa
subìta.
"Mi pareva d'aver capito
non volessi essere sfregiata da altri segni", aveva dato
fiato alle corde vocali lui per primo, avanzando felpato sino a finire
seduto proprio dietro di lei. Le pupille infuocate, abbassate e
compiaciute sul livido a forma di palmi di mano nella zona del coccige
di lei e le labbra increspate in un sorriso altezzoso ed affamato.
"Infatti. Mi hai forse
sentita chiederti di toccarmi? A me non sembra", fu la
risposta tagliente e risoluta di Bulma, impegnata nuovamente a
massaggiare i polpacci contratti.
La
presa salda, ma sufficientemente delicata del principe, tuttavia, ne
domò l'insolenza a partire dai fianchi, risalendo lento e
inarrestabile lungo la scalinata delle vertebre dorsali.
"Ma guarda... E io che
invece mi ero fatto la strana idea che ti fossi intrufolata qui per
godere un altro po'...". Il suo alito caldo e profumato di
caffè amaro le fece vibrare il midollo dell'epidermide.
L'aveva afferrata di
scatto, prepotente, ma complice, come suo solito, senza
darle il tempo di pulirsi le mani, lasciando ch'ella ungesse i ciuffi
corvini della sua chioma e che il balsamico aroma li avvolgesse
entrambi, completamente.
"Vegeta... I-io non...
Non voglio essere la tua...".
" 'La mia'... 'La mia' cosa,
Bulma?". La voce di Bulma era
arrendevole, quella di Vegeta carica di un impeto tanto
vulnerabile da dover essere sussurrato, mentre le braccia sollevavano
la donna sino a posizionarla supina di fianco a lui, scavandosi poi lo
spazio con le spalle tra le sue gambe, diligentemente preparato a
stuzzicare quella morbidezza sacra su cui lui amava bestemmiare
attraverso i denti e la lingua.
Il
profilo frontale del viso di lei s'era ormai eclissato dietro ai
contorni travolgenti dei seni agitati, soltanto qualche parola,
travestita da gemito, si fece strada: "Io ci tengo a te, Vegeta,
nemmeno immagini quanto. Non voglio che tutto questo sia solo sesso, lo
capisc-". L'ennesimo bacio schioccato sulle labbra assai
meno sfacciate di quelle del viso, ne interruppe il flusso di parole e
pensieri, dandole solo il tempo d'udire, incerta se reali o allucinate,
le ultime parole proferite d'istinto
dal principe, senza pensarvi su un solo istante, prima che
da quella bocca straripasse il suo piacere più liquido.
"Se fosse solo sesso,
Bulma, a quest'ora non saresti di certo viva, te lo posso garantire".
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Capitolo 3 *** Epilogo - Un vero piacere ***
Il terzo ed ultimo capitolo di "Dashes", di Overlook, è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Dashes
Di
Overlook, 2015©
____________________________
Capitolo III (Epilogo) - Un vero piacere
I
due sporgenti, piccoli nasi recuperavano all'unisono quanta
più aria
possibile, prima di liberarla nuovamente sopra le loro teste. I radi
capelli e i dritti baffi traslucidi danzavano docili alla nenia che
l'alito di vento altalenante intonava, investendo i loro corpi
sonnolenti, mentre un paio di mani morbide, candide, affusolate ne
copriva i contorni con uno smanicato in jersey alla stregua
di una
coperta.
Una
farfalla dalle ali rosate, senz'altro più coraggiosa delle
compagne,
s'era avvicinata a tentoni su quel piccolo cumulo di vita, finendo
per corroborarsi qualche istante sulla punta del finto orecchio
felino di color blu scuro, tanto rassomigliante al paio nero che
giaceva subito accanto.
Il
manto celeste si presentava terso, come poche volte nel corso quei
tre anni era stato. L'esalazione pungente e piacevole dell'erba
appena falciata farciva le narici di uno strano impeto a sorridere e
a socchiudere gli occhi al sole, pur essendo quello, di tanti che
s'erano rincorsi veloci, il giorno meno adatto a lasciarsi andare a
simili tentazioni.
“Voglio
venire anche io”,
disse d'un tratto
Bulma, priva del caratteristico brio, ma ferma nelle proprie
intenzioni, senza smettere
di fissare corrucciata il piccolo Trunks ed il micio nero del padre,
accoccolati l'uno sull'altro, accanto a lei, su di un lato del
dondolo in giardino.
“È
troppo tempo, che me ne resto chiusa in casa, ora basta”.
Gli occhi
grandi, appena truccati con il mascara, azzurri, forse meno vispi, ma
senz'altro più profondi, quelli d'una giovane madre sola,
accompagnavano severi il docile movimento delle dita tra i sottili
primi capelli del figlioletto, ancora indeciso se destarsi totalmente
o se rimanersene immobile e mezzo addormentato un altro po'.
"Starai
scherzando, vero? …E a tuo figlio, al piccolo Trunks, non ci
pensi?”. Yamcha, che aveva incontrato nuovamente
Bulma soltanto un
paio di mesi prima, nei pressi del parco di periferia, alle volte si
prendeva libertà e confidenze senza che nessuno, lei in
primis, gli
avesse mai dato il minimo permesso. Quella era una di tali occasioni.
Un
po' gli piaceva, rotolarsi, al pari d'un cane randagio zeppo di
pulci, nella fangosa
illusione d'aver colto la palla al balzo,
ritrovando l'amica. Bella, bellissima,
anche più di prima; sola, con
un figlio in fasce da crescere. Non si rendeva conto di quanto
ridicolo potesse apparire agli occhi di chi, abbandonata, ma fiera,
sola, ma innamorata,
lo degnava appena dell'attenzione necessaria a
far sì che non s'inerpicasse in strane iniziative assai
rischiose.
Per lui,
beninteso.
Il
cipiglio s'inarcò infastidito. “È
ovvio, che Trunks verrà con me, non ti pare? Lo allatti
tu... O il
gatto, altrimenti, forse?!”. Inutile dire che la
vena altezzosa e
anche un po' spocchiosa della giovane donna non aveva mutato i propri
connotati di una virgola. Alzandosi risoluta dal comodo giaciglio,
afferrando delicatamente il neonato per nulla favorevole all'idea e
prossimo alle lacrime urlanti, l'aveva sorpassato funesta e irritata,
prima di destarlo malamente dai torbidi sogni ad occhi aperti che
inconsciamente le immagini evocate gli avevano suggerito: “Allora,
vuoi ripetermi le coordinate del luogo d'incontro? Verrò
comunque,
che tu me le dica o meno, perciò faresti meglio a parlare
subito, mi
eviteresti di girovagare a vuoto!”.
Tossicchiando colto nel
flagrante di certi pensieri, imbarazzato e paonazzo aveva fatto
scivolare velocemente lo sguardo sulla scala in crescendo che partiva
dai piedi ben nascosti all'interno delle scarpe sportive, poi alle
gambe, lunghe, più
morbide, affusolate, fasciate in un candido
pantalone alla caviglia e terminanti su quel punto vita da vespa
ornato solo dal crop
top
color sangue che ora
calzava divinamente, sul seno gonfio ed
esuberante. I capelli, tornati lisci e addomesticati in un caschetto
squadrato, nascondevano le fini sopracciglia inferocite grazie alla
frangetta, ma non riuscivano ad ostacolare le fiamme fuoriuscenti da
quella bocca carnosa e tinta di rosso ciliegia.
“Si
può sapere che hai da fissare?! Ti decidi o no?!”.
Ironico, quanto
quelle pose e quel parlare fossero del
tutto simili a quelli tanto
rimproverati all'alieno mefistofelico che parecchi mesi prima aveva
abbandonato Bulma lì, incinta, come si fosse trattato di un
impiccio
occasionale e passeggero. La rabbia che covava nei confronti di quel
perfido principe tracimava dalle iridi d'ebano, se tanto faceva di
ricordare che quel corpo, quel cuore, quella presenza erano stati
donati per primo ed
ultimo a quell'aguzzino e non a lui, che, sì,
di
brutti vizi ne aveva, ma che era sicurissimo non avrebbe mai nemmeno
pensato di lasciare amata e figlio, alla volta dello spazio.
Già,
amata...
E chi poteva dirlo, se quel bastardo
l'avesse mai davvero anche solo
tenuta in considerazione come persona e non come oggetto del
desiderio. Quello lì sarebbe stato capace di qualunque cosa,
ma di
amare, no,
nemmeno per sogno.
Eppure
Bulma pareva sempre così ferma, sempre tanto motivata e
grintosa...
Che Vegeta fosse venuto a far visita a lei e a Trunks, di tanto in
tanto, per caso? Ma no, no, che sciocchezze andava pensando, Vegeta
era il principe dei Saiyan, non un Terrestre come tanti. Non... Uno
come lui. E poi, la donna era stata chiarissima: “Io
e Vegeta non stiamo più insieme, lui è partito
per non so dove ad
allenarsi ancor più duramente, io sono qui, come vedi e sto
benissimo!”.
Tossì
ancora una volta, chiudendo gli occhi e recuperando il controllo
della situazione. “Come
puoi essere tanto ingenua... È
dei famigerati cyborgs,
che stiamo parlando, mica di nemici
qualunque! Se a quelli viene in mente di farti fuori,
basterà loro
la forza del pensiero, ma non lo capisci?”.
“Lo
capisco perfettamente, invece. Ma, voglio dire, cos'abbiamo, da
perderci? Quelli hanno intenzione di distruggere tutta
l'umanità in
ogni caso, hai sentito cos'ha detto quel ragazzo, sono comunque molto
più forti di tutti voi messi assieme. Perciò...
Tanto vale che mi levi il
pensiero adesso. Voglio almeno provarci, a godermi uno scontro
simile! Se poi non si faranno vedere subito o le cose si faranno
troppo rischiose, beh, vorrà dire che allora me ne
tornerò
indietro, okay?”. Con quell'espressione
fintamente accomodante, Bulma sperò di togliersi da quella
grana.
Ma
Yamcha era tutto tranne che rassicurato, da tanta
inaspettata incoscienza.
“
'Okay'
un accidenti, Bulma! Non dire fesserie, guarda che questa volta non
sono sicuro di riuscire a proteggert-”. Si
fermò di colpo, come
d'improvviso
conscio d'aver superato il confine tacitamente imposto
da quando tra i due correva solo una salda amicizia.
La voce di lei si fece austera,
le braccia sottili si strinsero maggiormente attorno al
fagottino piagnucolante. “Come
hai detto, scusa?”.
“I-io...
Io non intend-”. Il giovane guerriero
indietreggiò di qualche
passo malfermo.
“Tu
intendevi eccome, invece. Non essere bugiardo. Sappi che io non ho
mai avuto, men che meno avrò ora, assolutamente bisogno,
della tua
protezione, ti è chiaro!?”.
Gli
occhi trasudavano le lacrime che l'orgoglio arginava ai lati delle
orbite. Chi era, lui, per permettersi di trattarla come la donzella
in difficoltà che non era mai stata in tutta la
vita, eh?
Con quale
coraggio si prodigava ora per la sua incolumità, quando per
più di
un decennio l'unica cosa che gli si era chiesta, di non avere occhi
che per lei – nemmeno avesse dovuto esservi, il bisogno di
chiederlo -, lui non era stato minimamente in grado di compierla?
D'accordo,
erano amici, lui teneva a lei e a quel bimbo tanto
sofferto, ma la linea di demarcazione tra quel che poteva essere un
bel gesto e la presunzione di credere di poter ricoprire la carica ed
il posto nel cuore
appartenenti ad uno
soltanto,
non certo lui, era stata ampiamente superata, a dirla tutta
sgominata,
incurantemente. Con le pupille infuocate ancora ancorate a quelle
tremanti di Yamcha, la mano sinistra s'affrettò svelta a
rovistare
nella tasca dello smanicato in jersey che reggeva con l'altro
avambraccio, estraendo infine la capsula numero 28, da cui, dopo un
contenuto boato, comparve poco distante un elicottero biposto munito
di apposito seggiolino per il piccoletto.
“Pensa
a quando ti... Vi... vedranno... Goku e gli altri, cosa
penseranno...?”.
Ma
Bulma stava già allacciando saldamente le cinture di
sicurezza attorno al
corpicino di Trunks.
“Per
me possono pensare quello che vogliono. Figurati, non sanno ancora
nulla, potrebbe pure essere un vero piacere, per loro, sai?! Avanti,
adesso vieni qui e dettami le coordinate, vi raggiungerò
subito”.
Davvero
impensabile, riuscire a tener testa a quella furia. Così
come
l'aveva a malincuore lasciata in balìa del principe dei
Saiyan, così
l'aveva ritrovata; se possibile, anzi, adesso era ancora più
spavaldamente cocciuta, per nulla abbattuta o segnata, dal triste
abbandono subìto. Effettivamente, quale tristezza si sarebbe
mai
potuta celare, dietro la partenza senza ritorno di un tale arrogante
alieno che senz'altro era stato meglio perdere, che trovare.
“D'accordo,
d'accordo. Hai vinto tu. Ma vedi di fare attenzione, a tutto quanto...
Io passo
a prendere Tenshinan e Jiaozi, prima di arrivare”.
“Non
preoccuparti” - proferì agguerrita
fissando eccitata il pannello
dei comandi mentre il portellone d'ingresso si richiudeva - “non mi
succederà
nulla, me lo sento. A dopo, allora!”
***
L'orologio
da polso segnalava che erano da poco trascorse le otto e un quarto
del mattino. Il cielo assolutamente sgombro e luminoso restituiva
alle acque ed alle terre emerse sottostanti un riverbero quasi
irreale, di quelli artefatti che potevano ammirarsi sulle copertine
patinate delle riviste di viaggio che a volte Bulma si dilettava a
sfogliare in cerca d'ispirazione. Le sarebbe piaciuta, una bella
vacanza al mare, ma si sarebbe accontentata pure di qualche settimana
trascorsa sull'Isola del Genio. Se solo non avesse dovuto essere
completamente disponibile ad ogni ora del giorno e della notte per il
piccolo Trunks... Ben inteso, lei amava
quel paffuto frugoletto, ma,
diamine,
quant'era dura avere a che fare con quei due limpidi
occhietti già tanto somiglianti nel corrucciato cipiglio a
quelli
del padre. Non se n'erano mai andati, quelli,
né dalla sua mente, né
tantomeno dal suo cuore. Per quanto, dopo essersi fatti i... Non
esattamente migliori auguri di buon proseguimento, lei avesse messo
su un'imperscrutabile maschera di menefreghismo e totale spavalderia
verso tutta la vicenda, non erano state rare le occasioni in cui,
sola in laboratorio, concentrata su tanto di quel lavoro da far
scoppiare le meningi a chiunque altro, si era fermata d'un tratto,
lasciando cadere a terra fogli, matite, attrezzi o qualunque altra
cosa avesse avuto tra le mani in quel momento, assolutamente certa di
aver sentito la voce di Vegeta nei paraggi o di averne udito
l'inconfondibile incedere verso quell'enorme stanza. Altrettante
volte s'era data della stupida, mentre con la bocca sorrideva amara e
con
la punta delle dita si asciugava il contorno degli occhi umido.
Il
principe dei Saiyan s'era pian piano abituato, a quel clima
terrestre, a quella quotidianità di risvegli simbiotici, di
languide
carezze e di onnipresenti premure. Non era ancora riuscito a
raggiungere l'oro.
Non avrebbe mai potuto permettere di farsi
cogliere tanto impreparato, nel momento in cui si sarebbero rivisti,
lui e Son Goku, sull'isola indicata dal misterioso giovanotto.
Lei
non gli aveva chiesto molto, l'aveva solo pregato di tornare, se
non per lei o per loro
due, almeno per il bambino che di lì a poco
sarebbe venuto al mondo. L'aveva pure implorato di rimanere almeno
sino alla nascita del sangue
del suo sangue, ma il gelido
menefreghismo con cui era stata infilzata durante quella funesta
mattina d'inverno le era bastato per barricarsi, da quell'istante,
dietro un pesantissimo muro di noncuranza, di spensierata
accettazione, di malinconica disillusione. Cos'altro
avrebbe dovuto
fare? Lo amava
forsennatamente, passionalmente, intensamente. Lei sapeva,
sapeva meglio d'egli stesso quanto potersi sentire fortunata ed
orgogliosa di portare in grembo l'unica cosa che li avrebbe legati
indissolubilmente
per il resto della vita, senza che lui gliel'avesse
mai
impedito. “Sono
affari tuoi, allora. Io ti ho già detto come
la penso e non cambio idea”, le aveva sputato in
faccia lapidario,
mentre si rivestiva impassibile all'indomani di una nottata
ciclonica. Era come se qualcosa,
di gran lunga superiore e più
potente delle stesse leggi dello spazio e del tempo, le avesse sempre
alitato nel cuore la fioca, impercettibile e sommessa certezza che
quel che avevano gettato l'uno sulle spalle dell'altra, non sarebbe
mai divenuto un addio.
Non
aveva la più pallida idea, adesso, di dove si
fosse cacciato, se
stesse bene, se la battle suite confezionatagli proprio qualche
giorno prima dell'irrevocabile decisione gli calzasse ancora. Quel
corpo massiccio e meraviglioso,
cesellato e marmoreo, lei, lei
sola
lo aveva visto irrobustirsi e pomparsi sotto le incessanti spinte
dell'orgoglio e della voglia di rivalsa, mentre famelici smembravano il
triste uomo ascoso
dietro gli arrogantemente magnetici tratti alieni.
Lo
stimava, stimava quella strenuità e quella fermezza d'animo,
malgrado tutto; gli voleva bene come
mai aveva smesso di
volergliene, nonostante in quell'arco di anni non vi fosse stato lo
spazio per una sola parola di conforto o d'affetto, nei
confronti di lei, da parte sua.
Però...
Però chi altri a parte lei, quale altro essere vivente
avrebbe mai potuto avere
quella fortuna, la sfacciata
ed intima fortuna
di godersi il suo sorriso appena accennato, anticipato dallo
scatto di schiena, quando aveva saputo senza troppi fronzoli che si
trattava di un maschietto. Il tocco, sorprendentemente delicato,
di
quelle mani avvezze a contorcere ed ammazzare, sul suo viso arrossato
dal primo sole estivo, quando la raggiungeva di sua sponte in camera
da letto. L'istante irripetibile
di smarrimento e di ricerca, in quegli occhi
severi e cupi, quando lei rispondeva ad un suo insulto con un
sorriso, senza fargli mancare mai nulla. Vegeta avrebbe potuto essere
ancora, il temuto e temibile principe dei Saiyan, ma ormai lei era
entrata in lui. L'ombra di buono, di bisognoso, di
combattuta
sofferenza avrebbero sempre smentito ogni movenza ed ogni parola
arrogante e intimidatoria si fosse apprestato a sfoggiare.
Il
lembo di terra indicato dal pannello di controllo s'avvicinava con lo
smeraldino dei suoi prati, con le coste
frastagliate e con le speronature delle rocce negli anfratti posti
più in alto. In quell'area deserta, avrebbe effettuato la
manovra d'atterraggio, accorgendosi
peraltro che Yamcha e Tenshinan erano già lì, nel
pieno degli
esercizi di riscaldamento.
“Sarà
un vero piacere...”, pensò a voce
alta, dando una veloce occhiata
al bimbo sonnecchiante. La bocca contrita in un grintoso ghigno
avrebbe potuto dire quel che voleva, a proposito dell'incontro con i
famigerati cyborgs, ma lo sguardo, dardeggiante, velato, ma fermo,
convinto, avrebbe comunque parlato per
primo, urlando in faccia a
tutti che rivedere il suo
Vegeta, quello,
era stato il suo primario
obiettivo. Perchè lui
sarebbe giunto lì, perchè lui non si
sarebbe tirato indietro. Perchè lui, solo lui, era
l'atavica e
subliminale ragione per cui Bulma, quel giorno, sentiva che nulla di
male le sarebbe accaduto.
-Fine-
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