Dashes

di Overlook
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tutti i colori dell'evidenza ***
Capitolo 2: *** Due prede, quanti predatori? ***
Capitolo 3: *** Epilogo - Un vero piacere ***



Capitolo 1
*** Tutti i colori dell'evidenza ***


Licenza Creative Commons
Il primo capitolo di "Dashes", ad opera di Overlook è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.


Dashes

Di Overlook, 2015©


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Capitolo I - Tutti i colori dell'evidenza



Per quanto, sin dalla notte dei tempi, vizi e virtù siano estremamente volubili, nei più svariati contesti e nelle più indefinite situazioni, niente rende gli uomini più vulnerabili, ed al contempo belligeranti, della pioggia. Essa scroscia, dilaga tra le fughe disegnate dalle strade sulla maiolicatura cittadina, è più veloce e funesta di un virus influenzale tra i corridoi di una scuola dell'infanzia, frusta le spalle troppo scoperte ed appesantisce gli indumenti troppo abbondanti. Irrompe dispettosa soltanto nel momento in cui può star sicura di prendere alla sprovvista se non tutto, almeno la maggior parte del creato, sciogliendone la maschera di civile convivenza sullo stesso suolo; svelando l'essere umano per null'altro di quel che è: un'indecente belva feroce, opportunista, irrimediabilmente intrappolata nella propria stessa stupidità, alla stregua di un ratto che si trovi a fiutare una possibile via di scampo tra i muri invalicabili di un labirinto creato da chimici e ricercatori scientifici. Esso non sa e non potrà mai sapere che quella sua ricerca nient'altro è che l'obbiettivo di chi l'osserva dall'alto; allo stesso modo, l'uomo o la donna che cerchino forsennatamente riparo per le proprie giacche inamidate e chiome cotonate sotto a pensiline e tendoni di negozi, eseguono il mero volere di un plumbeo cielo che sovrasta le loro teste. Per riuscire nella propria fuga, essi si spintonano, se ne fregano dell'altrui handicap o di posti già occupati, diventano sguaiati e morbosi, bestiali e... Cattivi.
Bulma Brief, ormai, di umano, probabilmente poteva vantare solo il proprio sangue, giacchè dal momento in cui aveva rimesso piede, incredula, nella propria camera da letto, aveva avuto l'opportunità di tirar le somme su quella sua esistenza sino ad allora costellata di peripezie al limite dell'immaginazione, tanto densamente quanto una notte d'Agosto è intrisa di stelle e... zanzare.

Dopo essersi sbarazzata dell'ultima, con un abilissimo colpo di pantofola all'angolo del muro, gli occhi azzurri e ancora stanchi s'erano posati sulla polaroid effettuata a bordo della navicella spaziale, durante il viaggio verso il pianeta Namecc. I capelli a caschetto, ancora in piega, impreziositi dal cerchietto in raso rosso, lambivano il suo viso terso e raggiante, trasudante l'allegria d'esser lì a compiere un memorabile autoscatto in compagnia del piccolo Son Gohan, teneramente ridicolo con il papillon ben annodato e l'amico Crilin, spensieratamente abbigliato come un turista intergalattico.
Certo che ne aveva visto di stramberie, lei. Praticando la professione di scienziata meccanica, s'era un tempo illusa che le stranezze le avrebbe avute davanti agli occhi soltanto sottoforma di prodotti ultimati, bizzarri e geniali, presso la sede della Capsule Corporation, la sua stessa dimora. A quanto pareva, la sorte le aveva invece riservato un posto in prima fila -ed altrettanti nel cast principale- per il susseguirsi di vicende assurde che da quando aveva conosciuto Son Goku riempivano e quasi soffocavano ogni anno, ogni giorno, ogni momento della vita. "E pensare che mi sarebbe bastato un bel fidanzato...!", aveva pensato ad alta voce, mentre misurava con le dita di entrambe le mani il perimetro di quella fotografia.
Yamcha stesso, non era affatto un uomo qualunque. Per la verità, fin troppe volte aveva messo in discussione il fatto che si potesse definire uomo, tale era stata da sempre la sua immaturità pur avendo superato da un pezzo i canonici diciotto anni. Alzando gli occhi al cielo e sbuffando indolente, ricacciava indietro quel flusso di pensieri. Sconnessi di primo acchito, d'un tratto, senza avvisare, trovavano la solidità del cemento totalmente asciutto su cui poggiarsi, tra le aguzze guglie disegnate dai ciuffi della chioma folta e corvina del tremendo alieno che d'impulso s'era offerta d'ospitare sotto il suo stesso tetto.
Vegeta.
A Bulma era giunta molto prima la fama, che il nome, di quello scellerato aguzzino che aveva decretato la prematura morte di Yamcha e che aveva ridotto in fin di vita Son Goku. Su Namecc inaspettatamente e con orrore ne aveva fatto diretta conoscenza, troppo avviluppata nel timore egli potesse essere davvero tanto spietato da farle del male, per accorgersi della perversa sicurezza che, quell'alieno, non le avrebbe mai torto un capello.
Nessun problema, comunque, giacchè di questo -e di ben altro, di lì a poco- aveva potuto accorgersi in tutta calma tra le rassicuranti mura della propria dimora, sin dai primi giorni di permanenza del principe del popolo Saiyan.
L'odore -avrebbe voluto parlare di profumo, ma la decenza ed il pudore s'erano alleati contro di lei- che Vegeta lasciava nell'aere ad ogni passo, muschiato, maschile, empio, vissuto e pungente, accarezzava le sue minute narici con la stessa insistenza con cui la nube fuoriuscente dalla sigaretta di suo padre la istigava a farlo entrare nei suoi polmoni illibati.
Il fumo crea letale dipendenza, Bulma lo sapeva bene, non era certo una sprovveduta. Quel che la allarmava era la conseguente analogia, del tutto inconscia, con l'odore dell'alieno.
Ma cosa, la intimidiva? Era forse impaurita dai ricordi di morte e sangue che quell'aroma portava dentro di sè? Era per caso intimorita dal sentore troppo differente dal resto della popolazione terrestre?
No, era spaventata a morte dall'evidenza che quel profumo -sì, per la miseria, è profumo, ciò che conturba ed aggrada all'olfatto- avesse iniziato a piacerle da impazzire, a mancarle quasi fosse ossigeno vitale, quando per più di qualche ora quell'assassino interspaziale non si palesava nella stessa stanza ove era lei; a prendersi gioco dei suoi più profondi sogni, quando al mattino si svegliava di soprassalto avvolta da una vergognosa sensazione di dispiacere, nel trovarsi tra le proprie lenzuola candide e non tra quelle insudiciate di fango e sforzi sovrumani del letto di qualche stanza avanti.
Yamcha aveva impiegato davvero pochissimo tempo, a divenire null'altro che una faticosa zavorra morale da trascinarsi dietro, un peso sulla coscienza con cui dover fare i conti, quando all'imbrunire del giorno il pensiero chiosante era "Fortunatamente ha gli allenamenti con la squadra, questo fine settimana".
Era tornato alla vita da relativamente poco, ma la gioia di riaverlo per sè era perdurata nel tempo di un abbraccio più intimo, di un tentativo più adulto da parte del giovane guerriero. Le aveva chiesto se quella sera avessero potuto dormire insieme, per la primissima volta, in verità. Lo sguardo scioccato e gli strepiti di indignazione avrebbero dovuto suonare a tutti e due come un gran bel campanello d'allarme, ma inevitabilmente s'era finito per sigillarsi adirati ognuno nelle proprie stanze, chi a smaltire la carica sospesa davanti a certi giornaletti, chi a ragionare su quale nugolo di polvere stesse inceppando tanto decisamente l'ingranaggio del comune evolversi di una relazione sentimentale.
Ed era proprio lì, l'inghippo su cui Bulma tutte le volte scivolava malamente e per medicarsi utilizzava il lavoro, il cuscino e le riviste di moda: Si trattava davvero, alla fine dei conti, di una relazione sentimentale? O forse sarebbe stato meglio per tutti aprire definitivamente le porte a quella che era una splendida e profonda amicizia fraterna? Bulma non era certo una persona poco incline ai cambiamenti ed alle sorprese, anzi, ella stessa fino a quel momento ne aveva fatto un carburante esistenziale. Per cui non si poteva dire fosse reticente a dare quella svolta decisiva alla sua vita. Si poteva invece urlare a gran voce che ciò che la tratteneva era la sempre più fondata consapevolezza che non avrebbe giulivamente galleggiato da una sponda all'altra del torrente della sua gioventù, una volta conclusa la loro... Storia. No, si sarebbe arenata violentemente sullo scoglio impervio e tempestoso i cui profili più alti ricordavano le fattezze di una fiamma vivace, con la stessa naturalezza con cui la gazzella agguantata e assediata dal branco di leoni si lascia andare alle loro fauci fameliche.
Certo, che la gazzella sarebbe volentieri fuggita, ma ormai... E poi, così è la legge di natura.
Allo stesso modo, Bulma distingueva sempre meno nettamente i contorni della paura di un tale pensiero, non riusciva nemmeno più a scorgere le ombre funeste del passato di quell'inquilino da cui chiunque si teneva ben alla larga, da quando aveva deciso di accettare l'invito della scienziata.
Ancor più infame era la spontaneità con cui quei pensieri permanevano nei meandri della mente, benchè ben viva fosse la riminescenza delle ultime parole a lei rivolte dall'alieno durante il giorno.

"Levati di mezzo".
"Non ho tempo da perdere con una patetica Terrestre".
"Che hai, da fissare? Pensa agli affari tuoi".

Dove diamine stavano il cenno, il gesto, la parola che avessero ambiguità tale da suggerirle simili elucubrazioni? Da nessuna parte! Eppure, il prosieguo di quelle diapositive mentali in movimento, picconava inesorabile alla base ogni tentativo razionale di rimettere ordine in testa.

"Principe dei miei stivali, mi leverei volentieri di mezzo, se non avessi conciato il lavello peggio di un porcile! Pulisci tu, forse?!".
"E io non ho certo tempo da perdere con un maniaco della guerra senza un briciolo di civiltà! Perciò... Ti saluto!".
"Ti sarebbe piaciuto, che ti stessi fissando, caro mio! Per la verità mi dava da pensare quel quadro lì, proprio dietro di te. Non trovi che sia... Un po' storto...?".

Tutto quel sottile e malizioso sfidarsi, rincorrersi, violentarsi e punirsi, per poi liberarsi ancora, si librava nell'aere inarrestabile come la carica negativa d'un elettrone che incontri quella positiva di un protone. Essi si scontrano, ma si cercherebbero, in ogni caso. Sono agli antipodi, ma sono uno il complemento dell'altro.
Di nozioni e dogmi scientifici ne aveva a sufficienza da redigere un trattato, Bulma, ma fegato e temerarietà per ammettere la specularità con la sua situazione, quelli sorprendentemente scarseggiavano da tempo. Eppure non ci aveva pensato su un minuto di più, quando s'era trattato di raggiungere il luogo d'atterraggio di Freezer.

Yamcha era diventato di nuovo un lontanissimo atomo immerso nell'iperspazio della sua coscienza.



***


"Procurami indumenti che non siano così vomitevolmente... Rosa, se vuoi che mi levi di dosso la tuta da combattimento, è chiaro?", le aveva sbraitato in faccia Vegeta, paonazzo di rabbia ed imbarazzo per quel patetico teatrino di cui si ritrovava ad essere, suo malgrado, marionetta principale.
A nulla erano valse risatine e tentativi vari di sdrammatizzare tanto astio, Vegeta s'era rinchiuso tra le mura concave della Gravity Room posta in un angolo remoto del giardino e da lì non era più uscito. Neppure per sfamarsi.
La finta, spensierata noncuranza di Bulma s'era spenta sotto i riflettori ben più potenti di un alone di preoccupazione reale, per le condizioni dell'alieno.
Conscia che bussare al portellone sarebbe servito solo a far sì che da lì Vegeta non sarebbe davvero uscito mai più o, ancor peggio, avrebbe nuovamente azionato i motori della navicella, pronto ad abbandonare un'altra volta quel pianeta, s'era risolta a tuffarsi, letteralmente, tra i fradici marciapiedi della città, quello stesso fine settimana, alla volta del centro commerciale, dove avrebbe investito un bel po' del proprio generosissimo capitale, tra must have modaioli per lei e, finalmente, qualche sobrio abito scuro per quel bell'alieno.
S'era finta scocciata dalla mansione, ma tant'è, quando sua madre l'aveva avvisata dalla cucina che al telefono la stava cercando insistentemente Yamcha, in palestra dal mattino, ella aveva calzato gli stivaletti in gomma nera, lucida ed infilato alla svelta il cappottino in velluto mélange, verdone, sbraitando sguaiata dall'ingresso che lei sarebbe dovuta uscire e che quello non era proprio il momento adatto per ricevere telefonate.
L'insistente scrosciare della pioggia sul tessuto ben teso dell'ombrellino tascabile appena scapsulato non le permetteva d'avvertire in anticipo i passi delle persone che, ad onor del vero, finivano per scontrare i propri ombrelli, uno ad uno, con il suo, quasi fosse stata la sola ad andare nella direzione opposta a quella della gente ammassata sotto ai vari tendoni e alle numerose pensiline.
"Accidenti, ma vuole fare un po' più d'attenzione?!", aveva inveito contro l'ennesimo signore grassoccio le si era parato davanti intenzionato a non muoversi d'un millimetro, ora che quella precaria decina di centimetri quadrati al riparo era stata conquistata. Che fossero tutti squallidamente sordi al richiamo dell'educazione, in quel frangente, era vero. Ma che Bulma, in meno di un chilometro percorso a piedi verso il centro commerciale, avesse già le mani occupate da almeno quattro grossi sacchetti recanti loghi di lusso, lo era altrettanto.
"C'è chi può e chi non può", si risolveva sempre a pensare in casi come quello, quando le pacchiane signorine sue coetanee, dai bordi inzaccherati del marciapiede su cui sostavano inzuppate e furenti, la osservavano verdi d'invidia, più che nere di rabbia per l'acquazzone improvviso, distruttore di messe in piega. Lei faceva già parecchia beneficenza, insieme a suo padre, la coscienza se la puliva di sovente. Non amava neppure la disciplina dello shopping più o meno compulsivo, perciò quando decideva di farne, non avrebbe dovuto sentir volare neppure una mosca. Guai a chiunque, altrimenti.

Con non poca fatica e con la gola arsa dagli insulti urlati a destra e a manca, incapsulato l'ombrello, Bulma aveva fatto il suo ingresso all'interno dell'enorme centro commerciale da poco aperto in pieno centro nella Città dell'Ovest. Su più piani, esso racchiudeva tutto il mondo modaiolo. Negozi di vestiti, di scarpe, di borse, di gioielli e persino di animali, considerati alla stregua d'accessori, dall'emisfero benestante.
Questo la indisponeva parecchio, proprio lei che, seppure non fosse a questi troppo legata, ne aveva sempre ospitati a dozzine, presso gli spazi esterni gestiti dal dottor Brief. Constatare però, una volta giunta proprio di fronte all'insegna, che i clienti fossero bambini e bambine desiderosi di prendersi cura di un amico a quattro - o due o otto che fossero- zampe col beneplacito dei genitori, la fece sorridere impercettibilmente, rincuorata e ricaricata dell'energia necessaria per affrontare la calca accumulatasi di fronte alla nuova filiale Charmante appena inaugurata.




***



Nonostante lo zigomo continuasse a pulsare arrossato, Bulma aveva definitivamente rifiutato la cortese offerta da parte del titolare della rinomata gioielleria di porgerle quantomeno del ghiaccio con cui tamponare la contusione. La screanzata che s'era malamente interposta, puzzolente e malvestita, tra lei e la vetrina principale del negozio, aveva agitato un po' troppo le mani, con quel suo fare provinciale, nella speranza un commesso le venisse in aiuto prima che ad altre. Uno di quei pugni chiusi e maldestri era finito contro il suo niveo viso, facendola andare su tutte le furie e scatenando l'ira di tutta la clientela, benestante e compita, sommessamente parlottante, in ordinata coda per le vetrine d'esposizione.
Incapsulate le numerose buste ormai d'impiccio, s'era decisa a spostarsi nel settore d'abbigliamento, ove un graziosissimo giacchetto corto e smanicato in jersey arancione faceva sfoggio di sè su di un manichino a cui Bulma non aveva proprio nulla da invidiare , anzi, fosse stato animato, avrebbe avuto quello, qualcuno su cui rodersi il fegato. Si presentava come sbarazzino soprabito di una blusa lillà più lunga, traforata, i cui bottoni riprendevano la forma di simpatici musi di gatto stilizzati. Il pantalone che le commesse avevano abbinato era di un verde militare piuttosto largo, informe, di quei modelli che erano andati almeno due stagioni prima e che con tutta probabilità rappresentavano un esubero di magazzino da rendere appetibile al più presto, per evitare perdite economiche. Storcendo il naso poco convinta, Bulma tornò ad osservare il taglio estremamente comodo, ma pure attillato dello smanicato, immaginandolo sopra a quel crop top color sangue che sua madre le aveva comprato durante uno dei meticolosi raid presso le boutiques della periferia cittadina. Le stava divinamente, non fosse stato per il fastidioso dettaglio che a livello del seno, esso risultava forse troppo morbido, non perfettamente fasciante, quasi a volerle insinuare il dubbio fosse lei ad essere poco procace. D'altronde però, quella piccolezza così lievemente si notava che ella non aveva fatto altro che sospirare noncurante davanti alla specchiera, ponendo l'indumento ben piegato nell'armadio, aspettando il periodo delle festività primaverili tradizionali nella sua città, dove sistematicamente riusciva a prendere quel paio di chili in più che, per una volta, le avrebbero giovato.

Non calcolò neppure la possibilità di adeguarsi all'abbinamento proposto dal negozio, ne uscì soddisfatta con il solo pezzo di suo interesse, l'ultimo disponibile peraltro, lasciando che un impudente manichino con la testa mozzata s'infreddolisse con la sola camiciola e i pantaloni desueti a coprirne le plastiche nudità.



***




Non aveva mai avvertito il bisogno di uniformarsi alle altre, coetanee o meno che fossero. Bionde, more, brune, lei senz'altro spiccava per il colore acceso e cristallino che la caratterizzava sin dalla nascita, con quell'unico ciuffetto in fronte che Bunny Brief le aveva saputo acconciare in milioni di modi differenti. Certo, quei suoi naturali connotati tanto particolari necessitavano di una maggiore attenzione nel corredo del vestiario, tant'è che, seppur grande appassionata di stravaganze e appariscenze varie, Bulma aveva sempre posto un occhio di riguardo agli abbinamenti in tinta all'interno del proprio guardaroba. Il più delle volte sfoggiava armoniosi ton-sur-ton riprendenti quelle marine movenze, altre volte le piaceva giocherellare con contrasti azzardati, come quello che da qualche tempo usava indossare: un morbido abitino a maniche lunghe, rosso, rigato da sottili linee orizzontali parallele, di colore scuro. A proteggerle le spalle freddolose v'era sempre un gilet in cotone color tramonto, simile a quello appena acquistato, ma logoro e un poco sgualcito ai fianchi. S'era concessa da qualche tempo una leonina permanente ai lunghi capelli, giusto per dare un taglio netto alla traumatizzante esperienza interplanetaria.
Di tante tinte con cui aveva da tutta la vita giocato abilmente, la blu era quella con cui il suo sex appeal giovanile si trasformava in un suadente fascino avvolto nel mistero, il mistero da cui gli amici erano incuriositi, di come fosse, la vita, alla Capsule Corporation, da quando l'alieno più belligerante e spietato di sempre s'era stabilito sotto quello stesso tetto...
"Già, Vegeta!", aveva ricordato a voce bassa sgranando un poco gli occhi; era giunta sin lì per acquistare abiti a lui, non chincaglierie e capricci per lei. Fluido come l'acqua pura che stilli da una ferita tra le rocce impervie, il pensiero di Bulma si sviluppò in un indeciso e analitico scandagliare ogni sfumatura maschile che avrebbe reso onore al fisico disumanamente bello del principe dei Saiyan. Il colore nero le pareva quasi tedioso, abbinato allo stesso tono di quegli occhi seducenti e di quella chioma ribelle e selvaggia. Il bianco donava a quella pelle sempre incurantemente abbronzata, ma cozzava violentemente con la sua stessa persona. Con una mano a reggerle il mento dubbioso e l'altra a farsi strada tra le porte girevoli dell'ennesima boutique, Bulma intercettò il proprio sguardo assorto con quello inanimato di un mezzobusto nudo, troneggiante su un grande scaffale, defilato dagli altri, su cui poggiavano quiete e severe due pile di abiti: pantaloni comodi e robusti color castagna e maglie a manica lunga con scollo tondo, color della notte. Blu. Non servì affatto che Bulma provasse ad immaginare Vegeta con quei vestiti addosso, perché fu il suo stesso spettro nell'immaginazione a palesarlesi davanti agli occhi in un austero fascino ineguagliabile.
"Ecco, prendo questi! Mi faccia la cortesia di togliere già i cartellini, grazie". Non aveva intenzione di sentirlo sciorinare la solita trafila d'insulti a denti stretti perchè quei... Cosi in plastica gli davano fastidio addosso. Anzichè staccarli, aveva disintegrato più volte la biancheria intima che gli aveva fatto trovare sul letto.
"Ma, signorina... E se poi non dovessero andar bene?", s'era azzardato il gentile commesso alla cassa, preoccupato che visto il costo della merce, non fosse poi più possibile il cambio in caso di errore nella taglia.
"Mi creda, so perfettamente, cosa va bene e cosa no". Ma Bulma, l'immagine di quell'alieno, terribilmente magnetica ad ogni ora del giorno... E della notte, l'aveva stampata in mente più precisa di quella dei prototipi a cui stava lavorando.
Era andata ad occhio, con il pantalone color ocra e la camicia rosata e non aveva sbagliato d'un millimetro.
Il peso di quel pacchetto poteva esser tranquillamente retto tra le dita, perciò si risolse a non incapsularlo e a concludere il suo ramingo girovagare con una sosta al bar in voga, al piano terra di quell'enorme edificio, corroborandosi con un cappuccino sporcato dall'eccessiva spolverata di cacao amaro.



***



Il fiato era corto non solo per la corsa, ma pure per il pungente freddo che quel giorno insolitamente aveva investito la regione. Erano i primi giorni di autunno, mica pieno inverno!, bofonchiava sin dal mattino.
Eppure, anche per un guerriero senz'altro fuori dal comune come lui, la maglia lunga e candida in cotone, quel giorno pareva non bastare. Gli mancava da percorrere qualche metro, al ciottolato antistante la grande dimora emisferica presso la quale alloggiava spesso, più come ospite che come colui ch'era convinto di essere da -e per- sempre. Il gattino trasformista faticava a stare al suo passo spedito e pesante, ma una volta raggiunto il pannello di controllo digitale per l'ingresso gli si posò sulla spalla, ansimante.
"Adesso mi sente... Non è sempre stata lei, a rimproverarmi di non ricordare mai nulla?!".
Lì dentro, il tepore dei termosifoni accesi e del forno sempre in funzione riusciva a coccolare anche l'animo più adirato. Yamcha s'era subito disteso, il suo viso s'era fatto meno rosso e contratto, sciolta la tensione accumulata con l'aroma dolciastro proveniente dalla cucina.
"È... È permesso, scusate?". S'era annunciato in tal modo, all'ingresso dell'enorme stanza ospitante i coniugi Brief ed il paffuto micio nero, acciambellato sopra il microonde.
"Oh, ciao, caro! Che bella sorpresa, sei venuto a far visita a Bulma? Che tesoro. Purtroppo però lei non c'è, ma se vuoi unirti a noi per un buon caffè caldo accomodati, non fare complimenti!".
Bunny gli aveva cinguettato il sempre cordiale invito a trattenersi, ma in quel momento a lui interessava sapere dove si fosse cacciata quell'impertinente di Bulma.
"La ringrazio, ma a dire la verità vorrei proprio sapere dov'è finita sua figlia, sono ore che provo a contattarla... Ricorda? Ho telefonato anche prima... È ancora fuori?".
"Beh, sì. Almeno, io non l'ho ancora vista tornare, ma magari potrebbe esserti d'aiuto Vegeta. È almeno un'ora che se ne sta lì davanti alla finestra! Che caro, ci tiene molto alla salute di mia figlia, con questo freddo, sarà preoccupato anche lui!". Da quando la giuliva donna gli aveva nominato quel
nome, il resto del discorso s'era automaticamente eclissato in sordina, lasciando posto solo ad uno stridulo fischio all'interno dei padiglioni, mentre lento, basito, voltava il capo in direzione della vetrata davanti al quale s'ergeva pacata e comodamente assisa la figura di quell'alieno assassino, la cui schiena era tutt'uno col muro portante e le cui gambe erano distese sul davanzale interno, tranquillamente poggiate sul termosifone ardente. Tra le mani grandi, ma lisce, stava una tazza in ceramica scura, fumante, dalla quale doveva provenire senz'altro una parte di quel caffè precedentemente offertogli dalla signora Brief, altrimenti non si sarebbe spiegato il paio di ridicoli baffi disegnati appena attorno alle labbra sottili del temuto principe.
"V-Vegeta... Cosa ci... Cosa ci fai, qui...", era stata l'unica cosa gli era venuto istintivo chiedere, più timoroso della possibile risposta, che del fatto stesso d'avergli rivolto parola.
"Correggimi se sbaglio, ti prego, ma mi risulta che questi non siano affari tuoi", gli aveva affettato sarcastico e maligno Vegeta, senza nemmeno rivolgergli un'occhiata.
Notata la tensione nuovamente galoppante nelle viscere del fidato amico, Pual si era parato innanzi a Yamcha suggerendogli di attendere Bulma in salotto, ma soltanto la voce pacifica del dottor Brief riuscì a catturare la sua attenzione.
"Andiamo, andiamo Yamcha, sai bene che Vegeta non vuole essere disturbato. Bulma sarà sicuramente andata al nuovo centro commerciale, figuriamoci! Ti consiglio di cercarla lì, perchè senz'altro non ha in programma di tornare a breve, visto il forfait che mi ha dato in laboratorio". E spingendolo delicatamente con entrambe le mani nuovamente verso il portone d'ingresso, l'aveva finalmente convinto a desistere da quel duello impari che lui senz'altro avrebbe voluto sostenere.
Non appena il rumore della porta gli assicurò l'assenza di Yamcha da quella casa, Vegeta non potè fare a meno di trattenere un'ombra di ghigno compiaciuto; il vecchio non era poi tanto male, come tipo. Se non altro, pareva aver per primo capito come comportarsi al suo cospetto.



***



"Amico mio, non fare così, dopotutto sai che provocare quel Vegeta non è mai una buona idea..."
.
"Non mi interessa, Pual, quello lì dovrebbe essere confinato in quella diamine di navicella, non libero di gironzolare in quella casa... In casa m-". Dovette arrestarsi, Yamcha. Se non per amor del vero, almeno per buon senso. Quella non era, casa sua e a voler ben vedere lui non era mai stato così ospite, lì dentro, come da quando Vegeta aveva fatto fortuito ritorno sulla Terra schiantandosi con la navicella gravitazionale con cui era tempo prima fuggito nell'iperspazio. Poco a poco, giorno dopo giorno, l'importanza da sempre riservatagli dai genitori di lei e da Bulma stessa, che teoricamente ancora ricopriva il ruolo di sua ragazza, era venuta meno, sino a trasformarlo in un personaggio accessorio, da salutare cortesemente quando lo si incrociava tra i corridoi dell'immenso edificio, ma della cui assenza non farsi cruccio quando la notte preferiva l'aria salmastra dell'Isola del Genio delle Tartarughe. Bulma, che mai in ogni caso aveva voluto saperne di lasciarsi andare ad atteggiamenti più intimi di un bacio, gli aveva già da tempo messo in chiaro bruscamente che c'era un motivo, per cui i letti delle loro stanze erano singoli, regalandogli il sapore legnoso di una porta chiusa dritta in faccia. Quante volte s'era immaginato di sorprenderla, entrambi eccitati e nudi, come mai nella realtà s'erano osservati, con l'abilità dimostratagli tra le dita, la lingua ed oltre. A che cosa sarebbe servito, altrimenti, tutto quel ramingo transitare da un letto all'altro, agli angoli più squallidi di quella frenetica città?
Invece, questo tipo di pensieri periva senza eccezioni tra le urla furenti di lei e le risatine nervose di lui, per minimizzare la gaffe assai poco lusinghiera. Non gli pareva plausibile che una tipa come Bulma avesse in programma di mantenersi una vergine per tutta la vita.

Il passo celere e iracondo aveva cominciato a rallentare non appena giunto di fronte all'ingresso del centro commerciale. Vi si sarebbe fiondato deciso, se non avesse intravisto, dietro alla vetrata illuminata, la figura snella e procace di Bulma, prossima all'uscita, con in mano soltanto una busta di medie dimensioni, in cartonato leggero, lucido e scuro, recante la firma di un noto atelier d'alta moda maschile. Lo sguardo tornò a distendersi, le mani tornarono ad aprirsi dentro alle tasche dei pantaloni, le spalle tornarono a sciogliersi e la bocca ritrovò una piega sorridente. Era stato il solito impaziente, la sua ragazza s'era prodigata tutto il giorno per trovare il regalo adatto per il suo compleanno e lui in cambio era stato intenzionato a piantarle una scenata coi fiocchi! Che stupido.
Bulma non s'avvide della presenza di Yamcha sino al momento in cui si guardò attorno per capire se dover riaprire l'ombrello o meno; la permanente andava salvaguardata anche dalla più misera pioggerella residua.
"E tu che ci fai, qui?", le era venuto naturale domandare a quell'incosciente che inebetito se ne stava lì davanti a fissarla sorridente, con addosso solo una maglia in cotone.
"Eh eh, ciao, Bulma! Sapessi, le mie intenzioni erano quelle di cantartene quattro, ma poi ho visto il pacchetto... Che sciocco, credevo ti fossi dimenticata del mio compleanno!".
Senza neppure valutare un'opzione più ipocrita, ma più cortese, Bulma per istinto riuscì solo ad esclamare, come caduta dalle nuvole: "Oh, dici questo? Sono i nuovi abiti che ho comprato per Vegeta, me li ha... Chiesti... Lui stesso!", sorridendo mansueta e spensierata, con lo sguardo gentile rivolto ai manici in corda di quella busta.
Non trascorse più d'una manciata di secondi, prima che il suo sguardo si facesse sgomento e sbarrato, offrendo consona compagnia a quello dell'altro.
Eccolo di nuovo lì, il lontanissimo atomo immerso nell'iperspazio della sua coscienza ormai logora.




-Fine-



*Mi pare corretto, prima ancora che assai piacevole, linkare qui un altro racconto -per me IL racconto- in cui potersi beare di simpatici baffi disegnati attorno alla bocca del principe dei Saiyan.

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Capitolo 2
*** Due prede, quanti predatori? ***


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Il secondo capitolo di "Dashes", di Overlook è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.



Dashes
Di Overlook, 2015©

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Capitolo II - Due prede, quanti predatori?







Nell'incontro erotico vi è un'altissima probabilità di imparare la tecnica, ma mai d'apprendere un sentimento e quello è l'elemento imprescindibile, poichè l'arte di procurare piacere all'altro si configura come la medesima arte dell’amore e della devozione. In assenza d'amore o di un bocciolo di questo, la tecnica più precisa, la maestria più perfetta risultano infine prive di valore e di significato, involvendo solo verso un artificio senz'anima.




***



Si sarebbero potuti indovinare l'aroma ed il gusto di quelle ombreggiature invitanti, trotterellanti sul manto candido sopra di loro. Esse davvero parevano gelatine di frutta, omogeneamente spalmate, ancora tiepide, su quel soffitto immobile e solido. Ma erano soltanto i giocherelloni riflessi che il sole, prossimo al tramonto, proiettava tra le mura, ostacolato dal traslucido tessuto di cui erano composte le leggere tende che appena velavano l'abissale lontananza tra la quiete del giardino esterno e l'infernale aria umida e rovente, appesantita, di quella camera esagitatamente occupata.
Così come un vecchio gigante ormai stanco poggia le pantagrueliche membra al suolo, affondando in esso croci e rimpianti, i piedi del letto, lucidi e scuri parevano inabissarsi nell'impiantito come ciocchi di legno nel mare in tempesta, strenuamente intenzionati a reggere ancora la palafitta di cui hanno la piena responsabilità. Irreale sarebbe stata l'atmosfera, per chiunque si fosse trovato a passeggiare da quelle parti, tanto assordante era il silenzio oltre la porta ben chiusa a doppia mandata; tanto ammutolente era il frastuono di due soli cuori danzanti all'impazzata nell'immobilità di quei corpi fusi insieme.



***



Bulma non si era capacitata di come la chiave inglese da trentadue millimetri appena utilizzata per svitare l'ennesimo bullone troppo intestardito tra due lamiere fosse letteralmente svanita nel nulla. Lei era un meccanico, e che meccanico, si poteva ben dire!
Pioniere di numerose tecniche e procedimenti d'assemblaggio e creazione chimico-materialistica, con suo padre formavano la piccola, ma tuttora invincibile squadra di scienziati ingegneristici che per primi avevano pensato, progettato e dato vita al connubio tra libertà di movimento nello spazio e prigionia del proprio peso entro le leggi della fisica: la stanza gravitazionale.
Se in principio quella aveva avuto la sola funzione di consentire a Son Goku un recupero lesto del tempo perduto in ospedale, in vista del raggiungimento del pianeta Namecc, chi invece ne aveva davvero subìto un'attrazione fatale era stato colui per la cui sconfitta era stata resa quasi indistruttibile. Il principe del popolo Saiyan.
Nell'ultima frenesia della lunga fuga intergalattica alla ricerca dell'acerrimo rivale, egli aveva scoperto, a bordo dell'ampia navicella sottratta ai Terrestri che l'avevano riportato in vita, un sofisticato pannello ricoperto di tasti alfanumerici, ricollegabili ad un piccolo schermo rettangolare entro cui lampeggiava insistente la scritta "0 G". Vegeta, che dei rudimenti di tecnologia ne aveva sempre dovuto conoscere quantomeno le basi, si era incuriosito di fronte a tale dicitura e senza esitare aveva premuto da subito il tasto "2 G", azionando in pochi secondi il dispositivo di modifica della forza gravitazionale all'interno di quelle mura concave, trasformandole in oppressive lamiere infuocate desiderose d'arderlo vivo. Con il fiato corto ed un ghigno paradossalmente eccitato, egli aveva così compreso che la stessa innovativa miglioria utilizzata da Kaharot tempo addietro, ora giaceva alla sua, di mercé, offrendogli la possibilità di sostenere un pari allenamento che, forse, lo avrebbe condotto all'aureo livello tanto agognato. Il flusso violento ed impetuoso di quei pensieri mai tanto errati si era dovuto interrompere, frustato malamente dallo stridulo suono d'allarme che avvisava il pilota automatico della navicella di un'avaria al motore, causata dalla mancanza di carburante e, quindi, del conseguente impatto imminente sulla superficie Terrestre, nella medesima area da cui inizialmente era partita.
"Dannazione...", fu la sola parola riuscì a sibilare ad occhi stretti e ben serrati, con le mani a proteggere il capo chino, supino sull'impiantito gelato in precipitazione.
S'era aspettato assai più rischioso, quell'atterraggio inaspettato e violento; invece, era sceso dalla sferica bomba ad orologeria ormai disinnescata con un abile balzo, trovandosi disgustato di fronte ad un patetico Terrestre che ricordava a malapena di aver fatto fuori. Anzi, no, lui non aveva nemmeno dovuto sporcarsi le mani, col rammollito. L'irritazione montatagli in corpo a sentir proferire proprio da quella bocca infima interrogativi ed accuse, quando l'unico che, a parer suo, sarebbe stato in pieno diritto di farlo era soltanto lui stesso, era scemata di colpo lasciando posto ad imbarazzo e stizza protagoniste di quell'amara sottomissione all'indecente sfrontatezza della donna che gli si era piazzata davanti, appuntandogli il pessimo odore che da giorni emanavano lui e la tuta da combattimento ormai da buttare.
Il pensiero a proposito di quella stanza dai poteri inequiparabili, capace di confondere l'implacabile volere della natura, assoggettandolo ad una piccola, semplicissima tastiera, s'era fatto nuovamente pulsante solo tempo dopo, precisamente quando, al rientro dalla landa desolata in cui avevano fatto ritorno il tirannico Freezer e l'odiato Son Goku, il rendersi adeguatamente pronti all'epico scontro previsto all'indomani di tre anni da quel giorno s'era fatto strada prepotente tra le sue membra belligeranti e smaniose di affronto fisico; se non altro per godere di quel perverso piacere che solo un esponente di quella sua stessa razza avrebbe potuto ben comprendere, o forse nemmeno questi, fino in fondo. Deciso a sfruttare appieno le potenzialità del vecchio ingegnere, padre di quell'irritante turchina che l'aveva inaspettatamente ospitato a tempo indeterminato, s'era a lui rivolto non troppo educatamente per la costruzione di un macchinario in grado di racchiudere le stesse capacità di quella navicella, ma che fosse pure più potente, idoneo ad un allenamento a gravità superiore a duecento. Inutili erano stati i tentativi del dottor Brief di spiegargli quanto rischioso avrebbe potuto essere un tale sforzo, i pugni serrati di Vegeta davanti all'asciutto viso baffuto erano stati di gran lunga più convincenti.
Se, al termine dei lavori, all'alieno non era balenato in testa neppure un alone di stupore, altrettanto non si sarebbe potuto dire dell'espressione decisamente sorpresa alla notizia che piccoli macchinari mobili, telecomandati autonomamente per la simulazione di uno scontro a due, erano stati aggiunti al corredo d'allenamento dalla collega, nonchè figlia, Bulma.
Si dava il caso che a Vegeta non fosse stato fatto mistero, sin da subito, che proprio quella donna irritante e sfacciata, irriverente e... Particolare, fosse la mente ingegnosa antistante a gran parte delle curiose ed innovative trovate di quell'azienda dal nome tanto efficacemente riassuntivo, Capsule Corporation. Ma che davvero vi fossero quella massa di capelli gonfi e ribelli, quel paio di occhi azzurri e fiammeggianti dietro quello sprint aggiuntivo, ecco, questo l'aveva lasciato in qualche modo interdetto. Forse, quel che più lo maciullava nelle viscere, era proprio la consapevolezza che l'interdizione verso quella petulante bellezza umana fosse assolutamente positiva, quasi... Orgogliosa, o giù di lì. Ne conosceva a malapena il nome, ne traeva utilità soltanto nel momento in cui aveva bisogno di sfogare la propria arrogante parlantina presuntuosa, avendo compreso da subito di trovarsi davanti all'unico pane per i suoi denti affilati. Non s'era fatto sfuggire, tuttavia, l'innegabile bellezza che ogni tratto del volto e del corpo trasudava impudente, calibrando per la prima volta in vita sua i canoni estetici dell'alieno apaticamente distante da certe questioni che egli era sempre stato.



***



"Oh, uffa, ma dove ti sei cacciata, insomma...!".
Bulma, accaldata e inviperita dalla propria stessa evidente sbadataggine, aveva il viso rigato da macchie di grasso lubrificante e residui di ruggine maleodorante a cesellarle i ciuffi ribelli, raccolti in un elastico slabbrato sopra la nuca. Supina al di sotto della parte inferiore della navicella gravitazionale, o quel che ne rimaneva dopo l'ennesima esplosione, nell'operazione di restauro s'era fatta aiutare da un sottile carrello a rotelle, tra l'impiantito e il marasma caotico di cavi elettrici sottostanti alla base portante del marchingegno; in tale, rischiosa posizione si trovava già da più d'un paio d'ore, come Vegeta aveva potuto irrequieto constatare nell'immobile silenzio del suo osservarla eclissato dalla parte opposta del vasto laboratorio.

"Cerchi... Questa?", aveva proferito tagliente, squarciando il silenzio di quel sereno primo pomeriggio invernale. Il violento colpo alla testa che Bulma ricevette in cambio dallo spavento al suono improvviso della voce, di quella voce, l'aveva fatta lamentare imprecando sguaiata, scoprendo il busto sino ad allora celato dal telaio metallico. I piedi e i polpacci, coperti da robusti anfibi marroni, fecero lo sforzo di far muovere l'asse di legno su cui poggiava la schiena, rivelando un paio di pantaloni scuri e larghi, insozzati di olio motore, un niveo lembo di pelle tonica sfregiata solo dal minuscolo ombelico ed una maglietta a manica corta striminzita e logora, riportante il marchio aziendale, invitantemente deformato dal profilo generoso di un seno importante, rispetto al minuto resto di sè. Gli occhi indecifrabilmente spaventati o adirati, la fronte madida ed arrossata nel punto in cui aveva subìto il colpo, i capelli appiccicati nel residuo di una pettinatura abbozzata.
Non era certo la prima volta, in quei due anni che s'erano rincorsi veloci sulla Terra, che Vegeta scorgeva la propria amante in quelle condizioni. Si divertiva sempre abbastanza, quando appunto non aveva a disposizione la propria stanza gravitazionale, ad indispettirla con quegli stupidi giochetti che a lei causavano sempre dei veri e propri colpi al cuore. Se la prima volta il giochetto era valso la candela, vista la conturbante passione con cui lui l'aveva letteralmente ghermita su quello stesso impiantito caoticamente disordinato, facendola godere improvvisamente, senza controllo, furiosamente, adesso che quello stesso brutale tormento meraviglioso ed ossessivo si consumava implacabile al sicuro della camera da letto d'uno o dell'altra, durante la notte, a Bulma risultava controproducente e maligno, quell'interromperla al solo scopo di schernire e confonderne la razionalità.
"Maledizione, Vegeta, da quanto tempo sei qui?! Si può sapere perchè non mi hai passato subito questa dannata chiave inglese?". Il tono della voce s'era alzato in crescendo, togliendo malamente dalle mani di lui l'attrezzo a lungo cercato tra i mille sparsi accanto a sè.
"Rilassati, non è mia intenzione intrattenermi in tua compagnia un minuto di più", l'aveva immediatamente liquidata, spazzando in un sol colpo tutti i pudici ragionamenti che lei s'era propinata in mente poco prima.
"Mi spieghi, allora, che sei venuto a fare? Solo ad interrompermi? Stavo per spaccarmi la testa, sotto quelle lamiere, mi verrà un livido gigantesco proprio qui, in mezzo alla fronte...", s'era messa a piagnucolare, a metà strada tra l'isterico ed il puerile, mentre con le dita affusolate aveva preso a massaggiarsi i lombi infiammati.
"Tsk, come se degli altri segni ti fosse mai importato qualcosa. O mi sbaglio?". Sapendo d'avere ragione, Vegeta aveva voluto in ogni caso godersi lo sguardo imbarazzato e basso di Bulma, cui dinanzi si parava l'immagine dei propri polsi striati di viola e di giallognolo, a segnare l'età dei rapporti intimi con il principe dei Saiyan al pari degli anelli al cuore del fusto di una quercia. Non solo. Erano entrambi ben consci che se Bulma aveva smesso di indossare collant velati e gonnelline svolazzanti era perchè all'interno di quelle toniche cosce si trovavano ancora pulsanti i segni di un'arcata dentale completa e famelica, infingarda ed arrogante, che a lei tanto piaceva sentire stretta attorno alle parti più carnose di sè.
Il volgerle la schiena sprezzantemente e il risalire la scala che precedentemente lo aveva condotto fin lì, le fece sbraitare "Sei impossibile!", così, d'istinto, come se lo sforzo di mantenersi incurante almeno durante il giorno non fosse risultato sufficiente ad arginare l'incedere della larva d'affetto che le si era annidata nel cuore.
Voltò solo lo sguardo affilato, tetro e suadente.
"Tu no, invece. Per me, nulla lo è".




***



S'era chiuso la porta alle spalle con fare indagatore e poco convinto. Il fatto di non aver più visto Bulma gironzolare per casa gli dava da insospettirsi che si fosse un'altra volta intrufolata di soppiatto in quella sua stessa stanza, desiderosa di prendersi la rivincita fisica all'amara sconfitta verbale incassata ore prima. Lo sguardo scontroso e il disegno increspato delle labbra sottili spifferavano alla realtà che piuttosto che un impiccio, quel sospetto fosse invece una speranza, seppur vaga, ma impellente. Da quando aveva saggiato il beato contorcersi sopra o sotto quel corpo snello e leggero, prorompente e smaliziato, non aveva avuto mai la minima reticenza a proporsi nuovamente volontario per quel continuo esperimento sensoriale. Le aveva visto stillare improvviso un rivolo di sangue, a decretare la fine della castità di quegli anfratti umidi e bisognosi; un sapore agrodolce aveva investito la sua lingua guizzante quando per primo - unico ed ultimo - ne aveva accarezzato i contorni morbidi e roventi, già ammaestrati al giusto movimento ritmato tra le dita abili e lisce.
Aveva colto il turgore delle estremità di quei seni madidi e pesanti, troppo pesanti, perfettamente pesanti rispetto a quel busto tanto minuto e gracile da farlo somigliare a quello d'una creatura fatata ed eterea.
Aveva goduto di quel gusto dolciastro al sapore di gomma da masticare alla fragola che si ritrovava di rimando in bocca, quando mordeva e succhiava quelle labbra struccate gonfie e febbricitanti. S'era beato della morbidezza ineguagliabile di quella chioma ribelle e marina, ondeggiante sul cuscino di raso mentre lui ne indovinava i profili annebbiato dall'incedere delle spinte di quei loro bacini congiunti.



***



Sapeva d'essersi introdotta laddove, per uscire, avrebbe dovuto pagare il prezzo della propria sottomissione a quella tortura tanto avvolgente, tanto elettrizzante, indomabile da farle perdere ogni controllo. Era un paio d'anni che, quasi ogni notte, ma con rare eccezioni pure al tramonto del giorno, lei e Vegeta si spogliavano dei propri abiti e delle proprie fredde maschere imperturbabili per lasciar liberi i propri corpi ed i propri animi di ricongiungersi in un unico essere indomito ed orgasmico, per poi, ripreso il pieno controllo di sè, nascondere tutto sotto al manto del mero fabbisogno sessuale che quelle loro fattezze tanto selvagge ed attraenti, quelle loro lingue tanto taglienti e scattanti scatenavano ogni volta. Aveva il terrore di lasciarsi uscire di bocca, annegato tra i gemiti emancipati, la reale natura di quel legame, da parte sua, con l'alieno più temibile e temuto esistesse nell'intero universo. Se non fosse stata corrisposta, l'insopportabile vergogna di essersi mostrata tanto disponibile nei suoi confronti e l'insostenibile peso d'essersi spontaneamente resa marionetta di un teatrino gestito solo e soltanto da lui sarebbero stati letali. Se non alla vita, a quel qualcosa che lei - come lui - metteva addirittura al primo posto: il proprio orgoglio.
Eppure, ad ogni palesarsi di tale scellerato dubbio tra i suoi pensieri, un sentore sottile e impalpabile come uno spettro angelico si adagiava delicato sulle sue ansimanti preoccupazioni, scaldandone i raggelanti confini con un accenno di certezza in grado di ridarle fuoco alle iridi color del cielo, trasformandole in un infernale varco spalancato verso il baratro della propria rettitudine.

Terminata la corroborante doccia bollente, aveva avvolto la chioma in un telo di lino e per il corpo aveva utilizzato l'ampio asciugamano in spugna che Vegeta impiegava solo alla stregua di un riparo pudico tra la stanza da bagno e la cassettiera contenente la propria biancheria.
Frizionato il capo energicamente per ravvivare il riccio ribelle fresco di nuova permanente, aveva deciso di non perdere tempo tra spazzole ed asciugacapelli, preferendo invece coccolarsi con un unguento dall'aroma speziato lungo le gambe stanche e sfibrate. Gli occhi s'erano chiusi a voler concentrare su quell'intenso profumo tutta l'attenzione disponibile, facendo del naso sottile l'unico strumento di contatto con la realtà inebriante di quel momento. Il corpo nudo, rilassato da quel massaggio lento e delicato lungo le linee flessuose dei propri arti, s'era seduto al bordo del letto rassettato dai robot domestici sin dal primo mattino e le cosce tiepide avvertivano alternatamente la liscezza del cotone delle lenzuola e la ruvida lanosità della coperta che ne foderava la maggior parte. Soltanto il fioco lume dell'abat-jour di rado accesa, ad illuminare, birichina, contorni proibiti ed altri più genuini, mentre le unghie laccate di rosso procedevano ora con un lento striare il profilo della cervice, roteante sotto le nocche delle mani vellutate ed unte.
Ferita dall'incedere dei raggi del Sole morente, s'era risolta a spegnere la luce, lasciando che il silenzio circostante ed il tepore dei termosifoni in funzione la cullassero, sino all'arrivo del predatore.



***



L'ingresso di quella camera era leggermente differente dalle altre, o almeno, da quella in cui lui era solito metter piede nel cuore più profondo delle prime ore della notte inoltrata. Anziché dare immediatamente sull'arredo essenziale del letto, della cassettiera in faggio, del comodino e dell'armadio in coordinato, essa s'inerpicava in uno stretto atrio raccolto, ospitante una specchiera ed uno scrittoio che davano da pensare che quel vano fosse appartenuto in precedenza ad una femmina o comunque che quelle mura fossero state studiate per ospitare un individuo di quel genere. Vegeta aveva trovato piuttosto aggradante, invece, tale conformazione della stanza, non fosse stato altro per la comodità di potersi spogliare dei vestiti maleodoranti senza portarne l'olezzo sin nell'area del letto, su cui s'era scoperto assai sensibile a suoni ed esalazioni che non fossero del tutto silenti durante il proprio riposo. Da due anni a quella parte, la comodità di quel percorso s'era fatta un'arma a doppio taglio, per il fatto che essa celava alla perfezione l'eventuale presenza di Bulma sul bordo o al centro di quel suo sterile giaciglio sempre ben rassettato al suo rientro, impedendogli così d'avere il preventivo e pieno controllo delle proprie azioni in entrambe le evenienze: che lei ci fosse o meno.
Così, egli aveva finito per superare la soglia di quel particolare ingresso, cogliendo subito il profilo flessuoso della schiena e dei fianchi della donna, impassibile ai segnali che annunciavano l'irrompere dell'alieno lì dentro. Anzi, s'era voltata appena, con gli occhi socchiusi e la bocca maliziosamente sorridente, quasi a domandargli giustificazione, a tanta attesa subìta.

"Mi pareva d'aver capito non volessi essere sfregiata da altri segni", aveva dato fiato alle corde vocali lui per primo, avanzando felpato sino a finire seduto proprio dietro di lei. Le pupille infuocate, abbassate e compiaciute sul livido a forma di palmi di mano nella zona del coccige di lei e le labbra increspate in un sorriso altezzoso ed affamato.
"Infatti. Mi hai forse sentita chiederti di toccarmi? A me non sembra", fu la risposta tagliente e risoluta di Bulma, impegnata nuovamente a massaggiare i polpacci contratti.
La presa salda, ma sufficientemente delicata del principe, tuttavia, ne domò l'insolenza a partire dai fianchi, risalendo lento e inarrestabile lungo la scalinata delle vertebre dorsali.
"Ma guarda... E io che invece mi ero fatto la strana idea che ti fossi intrufolata qui per godere un altro po'...". Il suo alito caldo e profumato di caffè amaro le fece vibrare il midollo dell'epidermide. L'aveva afferrata di scatto, prepotente, ma complice, come suo solito, senza darle il tempo di pulirsi le mani, lasciando ch'ella ungesse i ciuffi corvini della sua chioma e che il balsamico aroma li avvolgesse entrambi, completamente.
"Vegeta... I-io non... Non voglio essere la tua...".
" 'La mia'... 'La mia' cosa, Bulma?". La voce di Bulma era arrendevole, quella di Vegeta carica di un impeto tanto vulnerabile da dover essere sussurrato, mentre le braccia sollevavano la donna sino a posizionarla supina di fianco a lui, scavandosi poi lo spazio con le spalle tra le sue gambe, diligentemente preparato a stuzzicare quella morbidezza sacra su cui lui amava bestemmiare attraverso i denti e la lingua.
Il profilo frontale del viso di lei s'era ormai eclissato dietro ai contorni travolgenti dei seni agitati, soltanto qualche parola, travestita da gemito, si fece strada: "Io ci tengo a te, Vegeta, nemmeno immagini quanto. Non voglio che tutto questo sia solo sesso, lo capisc-". L'ennesimo bacio schioccato sulle labbra assai meno sfacciate di quelle del viso, ne interruppe il flusso di parole e pensieri, dandole solo il tempo d'udire, incerta se reali o allucinate, le ultime parole proferite d'istinto dal principe, senza pensarvi su un solo istante, prima che da quella bocca straripasse il suo piacere più liquido.
"Se fosse solo sesso, Bulma, a quest'ora non saresti di certo viva, te lo posso garantire".



-Fine-




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Capitolo 3
*** Epilogo - Un vero piacere ***


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Il terzo ed ultimo capitolo di "Dashes", di Overlook, è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.


Dashes

Di Overlook, 2015©


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Capitolo III (Epilogo)
- Un vero piacere



I due sporgenti, piccoli nasi recuperavano all'unisono quanta più aria possibile, prima di liberarla nuovamente sopra le loro teste. I radi capelli e i dritti baffi traslucidi danzavano docili alla nenia che l'alito di vento altalenante intonava, investendo i loro corpi sonnolenti, mentre un paio di mani morbide, candide, affusolate ne copriva i contorni con uno smanicato in jersey alla stregua di una coperta.

Una farfalla dalle ali rosate, senz'altro più coraggiosa delle compagne, s'era avvicinata a tentoni su quel piccolo cumulo di vita, finendo per corroborarsi qualche istante sulla punta del finto orecchio felino di color blu scuro, tanto rassomigliante al paio nero che giaceva subito accanto.

Il manto celeste si presentava terso, come poche volte nel corso quei tre anni era stato. L'esalazione pungente e piacevole dell'erba appena falciata farciva le narici di uno strano impeto a sorridere e a socchiudere gli occhi al sole, pur essendo quello, di tanti che s'erano rincorsi veloci, il giorno meno adatto a lasciarsi andare a simili tentazioni.


Voglio venire anche io”, disse d'un tratto Bulma, priva del caratteristico brio, ma ferma nelle proprie intenzioni, senza smettere di fissare corrucciata il piccolo Trunks ed il micio nero del padre, accoccolati l'uno sull'altro, accanto a lei, su di un lato del dondolo in giardino.

È troppo tempo, che me ne resto chiusa in casa, ora basta”. Gli occhi grandi, appena truccati con il mascara, azzurri, forse meno vispi, ma senz'altro più profondi, quelli d'una giovane madre sola, accompagnavano severi il docile movimento delle dita tra i sottili primi capelli del figlioletto, ancora indeciso se destarsi totalmente o se rimanersene immobile e mezzo addormentato un altro po'.

"Starai scherzando, vero? …E a tuo figlio, al piccolo Trunks, non ci pensi?”. Yamcha, che aveva incontrato nuovamente Bulma soltanto un paio di mesi prima, nei pressi del parco di periferia, alle volte si prendeva libertà e confidenze senza che nessuno, lei in primis, gli avesse mai dato il minimo permesso. Quella era una di tali occasioni.
Un po' gli piaceva, rotolarsi, al pari d'un cane randagio zeppo di pulci, nella fangosa illusione d'aver colto la palla al balzo, ritrovando l'amica. Bella, bellissima, anche più di prima; sola, con un figlio in fasce da crescere. Non si rendeva conto di quanto ridicolo potesse apparire agli occhi di chi, abbandonata, ma fiera, sola, ma innamorata, lo degnava appena dell'attenzione necessaria a far sì che non s'inerpicasse in strane iniziative assai rischiose. Per lui, beninteso.

Il cipiglio s'inarcò infastidito. È ovvio, che Trunks verrà con me, non ti pare? Lo allatti tu... O il gatto, altrimenti, forse?!”. Inutile dire che la vena altezzosa e anche un po' spocchiosa della giovane donna non aveva mutato i propri connotati di una virgola. Alzandosi risoluta dal comodo giaciglio, afferrando delicatamente il neonato per nulla favorevole all'idea e prossimo alle lacrime urlanti, l'aveva sorpassato funesta e irritata, prima di destarlo malamente dai torbidi sogni ad occhi aperti che inconsciamente le immagini evocate gli avevano suggerito: “Allora, vuoi ripetermi le coordinate del luogo d'incontro? Verrò comunque, che tu me le dica o meno, perciò faresti meglio a parlare subito, mi eviteresti di girovagare a vuoto!”. Tossicchiando colto nel flagrante di certi pensieri, imbarazzato e paonazzo aveva fatto scivolare velocemente lo sguardo sulla scala in crescendo che partiva dai piedi ben nascosti all'interno delle scarpe sportive, poi alle gambe, lunghe, più morbide, affusolate, fasciate in un candido pantalone alla caviglia e terminanti su quel punto vita da vespa ornato solo dal crop top color sangue che ora calzava divinamente, sul seno gonfio ed esuberante. I capelli, tornati lisci e addomesticati in un caschetto squadrato, nascondevano le fini sopracciglia inferocite grazie alla frangetta, ma non riuscivano ad ostacolare le fiamme fuoriuscenti da quella bocca carnosa e tinta di rosso ciliegia.

Si può sapere che hai da fissare?! Ti decidi o no?!”. Ironico, quanto quelle pose e quel parlare fossero del tutto simili a quelli tanto rimproverati all'alieno mefistofelico che parecchi mesi prima aveva abbandonato Bulma lì, incinta, come si fosse trattato di un impiccio occasionale e passeggero. La rabbia che covava nei confronti di quel perfido principe tracimava dalle iridi d'ebano, se tanto faceva di ricordare che quel corpo, quel cuore, quella presenza erano stati donati per primo ed ultimo a quell'aguzzino e non a lui, che, sì, di brutti vizi ne aveva, ma che era sicurissimo non avrebbe mai nemmeno pensato di lasciare amata e figlio, alla volta dello spazio. Già, amata... E chi poteva dirlo, se quel bastardo l'avesse mai davvero anche solo tenuta in considerazione come persona e non come oggetto del desiderio. Quello lì sarebbe stato capace di qualunque cosa, ma di amare, no, nemmeno per sogno.

Eppure Bulma pareva sempre così ferma, sempre tanto motivata e grintosa... Che Vegeta fosse venuto a far visita a lei e a Trunks, di tanto in tanto, per caso? Ma no, no, che sciocchezze andava pensando, Vegeta era il principe dei Saiyan, non un Terrestre come tanti. Non... Uno come lui. E poi, la donna era stata chiarissima: “Io e Vegeta non stiamo più insieme, lui è partito per non so dove ad allenarsi ancor più duramente, io sono qui, come vedi e sto benissimo!”.

Tossì ancora una volta, chiudendo gli occhi e recuperando il controllo della situazione. “Come puoi essere tanto ingenua... È dei famigerati cyborgs, che stiamo parlando, mica di nemici qualunque! Se a quelli viene in mente di farti fuori, basterà loro la forza del pensiero, ma non lo capisci?”.

Lo capisco perfettamente, invece. Ma, voglio dire, cos'abbiamo, da perderci? Quelli hanno intenzione di distruggere tutta l'umanità in ogni caso, hai sentito cos'ha detto quel ragazzo, sono comunque molto più forti di tutti voi messi assieme. Perciò... Tanto vale che mi levi il pensiero adesso. Voglio almeno provarci, a godermi uno scontro simile! Se poi non si faranno vedere subito o le cose si faranno troppo rischiose, beh, vorrà dire che allora me ne tornerò indietro, okay?”. Con quell'espressione fintamente accomodante, Bulma sperò di togliersi da quella grana.

Ma Yamcha era tutto tranne che rassicurato, da tanta inaspettata incoscienza.

'Okay' un accidenti, Bulma! Non dire fesserie, guarda che questa volta non sono sicuro di riuscire a proteggert-”. Si fermò di colpo, come d'improvviso conscio d'aver superato il confine tacitamente imposto da quando tra i due correva solo una salda amicizia.

La voce di lei si fece austera, le braccia sottili si strinsero maggiormente attorno al fagottino piagnucolante. “Come hai detto, scusa?”.

I-io... Io non intend-”. Il giovane guerriero indietreggiò di qualche passo malfermo.

Tu intendevi eccome, invece. Non essere bugiardo. Sappi che io non ho mai avuto, men che meno avrò ora, assolutamente bisogno, della tua protezione, ti è chiaro!?”.

Gli occhi trasudavano le lacrime che l'orgoglio arginava ai lati delle orbite. Chi era, lui, per permettersi di trattarla come la donzella in difficoltà che non era mai stata in tutta la vita, eh? Con quale coraggio si prodigava ora per la sua incolumità, quando per più di un decennio l'unica cosa che gli si era chiesta, di non avere occhi che per lei – nemmeno avesse dovuto esservi, il bisogno di chiederlo -, lui non era stato minimamente in grado di compierla? D'accordo, erano amici, lui teneva a lei e a quel bimbo tanto sofferto, ma la linea di demarcazione tra quel che poteva essere un bel gesto e la presunzione di credere di poter ricoprire la carica ed il posto nel cuore appartenenti ad uno soltanto, non certo lui, era stata ampiamente superata, a dirla tutta sgominata, incurantemente. Con le pupille infuocate ancora ancorate a quelle tremanti di Yamcha, la mano sinistra s'affrettò svelta a rovistare nella tasca dello smanicato in jersey che reggeva con l'altro avambraccio, estraendo infine la capsula numero 28, da cui, dopo un contenuto boato, comparve poco distante un elicottero biposto munito di apposito seggiolino per il piccoletto.

Pensa a quando ti... Vi... vedranno... Goku e gli altri, cosa penseranno...?”.

Ma Bulma stava già allacciando saldamente le cinture di sicurezza attorno al corpicino di Trunks.

Per me possono pensare quello che vogliono. Figurati, non sanno ancora nulla, potrebbe pure essere un vero piacere, per loro, sai?! Avanti, adesso vieni qui e dettami le coordinate, vi raggiungerò subito”.

Davvero impensabile, riuscire a tener testa a quella furia. Così come l'aveva a malincuore lasciata in balìa del principe dei Saiyan, così l'aveva ritrovata; se possibile, anzi, adesso era ancora più spavaldamente cocciuta, per nulla abbattuta o segnata, dal triste abbandono subìto. Effettivamente, quale tristezza si sarebbe mai potuta celare, dietro la partenza senza ritorno di un tale arrogante alieno che senz'altro era stato meglio perdere, che trovare.

D'accordo, d'accordo. Hai vinto tu. Ma vedi di fare attenzione, a tutto quanto... Io passo a prendere Tenshinan e Jiaozi, prima di arrivare”.


Non preoccuparti” - proferì agguerrita fissando eccitata il pannello dei comandi mentre il portellone d'ingresso si richiudeva - “non mi succederà nulla, me lo sento. A dopo, allora!”




***




L'orologio da polso segnalava che erano da poco trascorse le otto e un quarto del mattino. Il cielo assolutamente sgombro e luminoso restituiva alle acque ed alle terre emerse sottostanti un riverbero quasi irreale, di quelli artefatti che potevano ammirarsi sulle copertine patinate delle riviste di viaggio che a volte Bulma si dilettava a sfogliare in cerca d'ispirazione. Le sarebbe piaciuta, una bella vacanza al mare, ma si sarebbe accontentata pure di qualche settimana trascorsa sull'Isola del Genio. Se solo non avesse dovuto essere completamente disponibile ad ogni ora del giorno e della notte per il piccolo Trunks... Ben inteso, lei amava quel paffuto frugoletto, ma, diamine, quant'era dura avere a che fare con quei due limpidi occhietti già tanto somiglianti nel corrucciato cipiglio a quelli del padre. Non se n'erano mai andati, quelli, né dalla sua mente, né tantomeno dal suo cuore. Per quanto, dopo essersi fatti i... Non esattamente migliori auguri di buon proseguimento, lei avesse messo su un'imperscrutabile maschera di menefreghismo e totale spavalderia verso tutta la vicenda, non erano state rare le occasioni in cui, sola in laboratorio, concentrata su tanto di quel lavoro da far scoppiare le meningi a chiunque altro, si era fermata d'un tratto, lasciando cadere a terra fogli, matite, attrezzi o qualunque altra cosa avesse avuto tra le mani in quel momento, assolutamente certa di aver sentito la voce di Vegeta nei paraggi o di averne udito l'inconfondibile incedere verso quell'enorme stanza. Altrettante volte s'era data della stupida, mentre con la bocca sorrideva amara e con la punta delle dita si asciugava il contorno degli occhi umido.

Il principe dei Saiyan s'era pian piano abituato, a quel clima terrestre, a quella quotidianità di risvegli simbiotici, di languide carezze e di onnipresenti premure. Non era ancora riuscito a raggiungere l'oro. Non avrebbe mai potuto permettere di farsi cogliere tanto impreparato, nel momento in cui si sarebbero rivisti, lui e Son Goku, sull'isola indicata dal misterioso giovanotto.

Lei non gli aveva chiesto molto, l'aveva solo pregato di tornare, se non per lei o per loro due, almeno per il bambino che di lì a poco sarebbe venuto al mondo. L'aveva pure implorato di rimanere almeno sino alla nascita del sangue del suo sangue, ma il gelido menefreghismo con cui era stata infilzata durante quella funesta mattina d'inverno le era bastato per barricarsi, da quell'istante, dietro un pesantissimo muro di noncuranza, di spensierata accettazione, di malinconica disillusione. Cos'altro avrebbe dovuto fare? Lo amava forsennatamente, passionalmente, intensamente. Lei sapeva, sapeva meglio d'egli stesso quanto potersi sentire fortunata ed orgogliosa di portare in grembo l'unica cosa che li avrebbe legati indissolubilmente per il resto della vita, senza che lui gliel'avesse mai impedito. “Sono affari tuoi, allora. Io ti ho già detto come la penso e non cambio idea”, le aveva sputato in faccia lapidario, mentre si rivestiva impassibile all'indomani di una nottata ciclonica. Era come se qualcosa, di gran lunga superiore e più potente delle stesse leggi dello spazio e del tempo, le avesse sempre alitato nel cuore la fioca, impercettibile e sommessa certezza che quel che avevano gettato l'uno sulle spalle dell'altra, non sarebbe mai divenuto un addio.

Non aveva la più pallida idea, adesso, di dove si fosse cacciato, se stesse bene, se la battle suite confezionatagli proprio qualche giorno prima dell'irrevocabile decisione gli calzasse ancora. Quel corpo massiccio e meraviglioso, cesellato e marmoreo, lei, lei sola lo aveva visto irrobustirsi e pomparsi sotto le incessanti spinte dell'orgoglio e della voglia di rivalsa, mentre famelici smembravano il triste uomo ascoso dietro gli arrogantemente magnetici tratti alieni.

Lo stimava, stimava quella strenuità e quella fermezza d'animo, malgrado tutto; gli voleva bene come mai aveva smesso di volergliene, nonostante in quell'arco di anni non vi fosse stato lo spazio per una sola parola di conforto o d'affetto, nei confronti di lei, da parte sua.

Però... Però chi altri a parte lei, quale altro essere vivente avrebbe mai potuto avere quella fortuna, la sfacciata ed intima fortuna di godersi il suo sorriso appena accennato, anticipato dallo scatto di schiena, quando aveva saputo senza troppi fronzoli che si trattava di un maschietto. Il tocco, sorprendentemente delicato, di quelle mani avvezze a contorcere ed ammazzare, sul suo viso arrossato dal primo sole estivo, quando la raggiungeva di sua sponte in camera da letto. L'istante irripetibile di smarrimento e di ricerca, in quegli occhi severi e cupi, quando lei rispondeva ad un suo insulto con un sorriso, senza fargli mancare mai nulla. Vegeta avrebbe potuto essere ancora, il temuto e temibile principe dei Saiyan, ma ormai lei era entrata in lui. L'ombra di buono, di bisognoso, di combattuta sofferenza avrebbero sempre smentito ogni movenza ed ogni parola arrogante e intimidatoria si fosse apprestato a sfoggiare.

Il lembo di terra indicato dal pannello di controllo s'avvicinava con lo smeraldino dei suoi prati, con le coste frastagliate e con le speronature delle rocce negli anfratti posti più in alto. In quell'area deserta, avrebbe effettuato la manovra d'atterraggio, accorgendosi peraltro che Yamcha e Tenshinan erano già lì, nel pieno degli esercizi di riscaldamento.

Sarà un vero piacere...”, pensò a voce alta, dando una veloce occhiata al bimbo sonnecchiante. La bocca contrita in un grintoso ghigno avrebbe potuto dire quel che voleva, a proposito dell'incontro con i famigerati cyborgs, ma lo sguardo, dardeggiante, velato, ma fermo, convinto, avrebbe comunque parlato per primo, urlando in faccia a tutti che rivedere il suo Vegeta, quello, era stato il suo primario obiettivo. Perchè lui sarebbe giunto lì, perchè lui non si sarebbe tirato indietro. Perchè lui, solo lui, era l'atavica e subliminale ragione per cui Bulma, quel giorno, sentiva che nulla di male le sarebbe accaduto.




-Fine-

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