Orfeo

di AAVV
(/viewuser.php?uid=228827)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Da qualche parte, lontano ***
Capitolo 3: *** 2. Il serpente punse il piede ***
Capitolo 4: *** 3. Una lettera dagli Inferi ***
Capitolo 5: *** 4. Vorrei saltare, ma ho paura di colpire il suolo ***
Capitolo 6: *** 5. Un nastro rosso ***
Capitolo 7: *** 6. La chiave che apre tutte le porte ***
Capitolo 8: *** 7. Apnea ***
Capitolo 9: *** 8. Se mi stendessi qui ti stenderesti con me e dimenticheresti il mondo? ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO
 
Paura.
Poteva quasi sentirne l’odore.
La paura dell’uomo, gli occhi bendati, le mani in avanti alla ricerca di qualche ostacolo nel cammino, aleggiava tutta intorno alle sue narici, unita all’odore acre del sudore. Nonostante lo stesse osservando da una telecamera, riusciva a sentirlo, così come udiva il suo respiro affannato e l’accelerare del battito del cuore. Musica per le sue orecchie.
Alla fine, quelle ore passate ad affinare udito e olfatto erano servite. Adesso, era davvero il sovrano assoluto del suo regno.
Gli Inferi non mi incutono più alcun timore.
L’uomo che stava osservando aveva appena trovato un ostacolo e adesso ne stava tastando la durezza. Le sue mani seguivano la superficie della pietra, fino ad arrivare all’angolo e si fermavano. Allungava di nuovo le mani di fronte a sé e proseguiva il cammino.
Aveva ancora una lunga strada da percorrere. Se l’amore che provava per la sua Euridice era più forte  della mancanza di vista, allora Orfeo sarebbe riuscito a ritrovarla. Se così non fosse... per la sua amata non vi sarebbe stata alcuna possibilità di salvezza. La sua vita era nelle mani di Orfeo. A quel punto, l’uomo avrebbe dovuto scegliere chi salvare, se la sua Musa o la donna che amava.
Nel cuore di Ade, aumentava il desiderio di vedere Orfeo perderle entrambe. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. Da qualche parte, lontano ***


CAPITOLO 1. Da qualche parte, lontano.
 
Due mesi prima.
 
Cecilia sbatté la porta dell’appartamento in cui vivevano. «Si può sapere cosa ho fatto di male?» le chiese Sebastian.
Lei si tolse le scarpe col tacco e andò in cucina, mentre lui si sfilava la cravatta. Andavano avanti così da mesi, ormai, e il motivo era sempre diverso. Cecilia non gli rivolgeva la parola per un po’, finché ad un certo punto scoppiava e il litigio era assicurato. Che fosse per via di un bambino con una storia problematica o perché si era dimenticato di fare qualcosa, non aveva importanza. Qualsiasi cosa poteva trasformarsi in un pretesto per litigare. A volte Sebastian sospettava che a lei piacessero quei litigi.  Anche il motivo più banale poteva accendere la miccia che viveva in lei.
C’erano dei momenti in cui a Sebastian non dispiaceva essere testimone della focosità della donna, ma per la maggior parte del tempo non sapeva come gestirla. Lui non era il tipo a cui piacessero le sfuriate e non si scaldava mai troppo per una questione. Ammirava la tenacia di Cecilia e forse avrebbe voluto avere un briciolo della sua passione, ma ciò non rientrava nella sua natura. Per questo motivo, lasciava che lei si sfogasse, sputandogli in faccia tutto quello che voleva dirgli, insultandolo magari, e quando fosse arrivato il momento lui le avrebbe detto le tre paroline magiche che ogni donna vuole sentirsi dire: ‘’hai ragione, tesoro’’. Tuttavia, non sempre Cecilia apprezzava il suono di quelle parole; era chiaro che volesse un vero e proprio scontro e solo lui sapeva quante volte avesse provato ad accontentarla, fallendo miseramente.
Comunque, che lei fosse scocciata o meno dalla sua totale remissione, i litigi finivano tutti con la pace da entrambe le parti. Non importava se il giorno dopo avrebbero continuato a bisticciare, se Sebastian avesse avuto la certezza che ogni scontro si sarebbe concluso a quel modo. Con la pace più bella che possa esistere.
«Allora?» insisté lui, provando ad accontentare il suo istinto di lottatrice. Perlomeno, voleva capire cosa c’era che non andasse questa volta.
Cecilia aprì l’anta del frigorifero e il suo viso fu illuminato dalla luce all’interno. Si chinò per nascondere il volto e il suo vestito corto si sollevò leggermente.
«Continuerai così ancora per molto?»
A quel punto, lei alzò la testa e chiuse il frigorifero. «Credi che mi piaccia litigare?» fece.
Be’, sì, pensò Sebastian. Gettò la giacca sul divano in soggiorno, comunicante con la cucina, e allargò le braccia. «Io... Voglio solo sapere perché sei arrabbiata.»
«Perché sono arrabbiata?» Cecilia sbuffò. «Mi chiedi perché sono arrabbiata?»
Sebastian si dondolò sui talloni, sulla difensiva. «Immagino che dovrei già saperlo il perché.»
«Esatto!»
«In questo momento, però, mi sfugge.»
Cecilia lo guardò fisso negli occhi e lui si sentì quasi intimorito da quello sguardo. Si chiese cosa lei stesse pensando dei suoi occhi, di quel nocciola ridicolo a confronto con il suo verde intenso. «Hai detto a mia madre che vogliamo sposarci» disse lei incrociando le braccia.
«E non è la verità?»
«Sì, ma non adesso!» Cecilia sciolse le braccia e percorse il piccolo appartamento che condividevano da quattro anni, fino ad arrivare alla zona adibita da camera da letto.
«Io non ho detto che vogliamo sposarci adesso» disse seguendola. «Ho solo detto che è nelle nostre intenzioni. Per un prossimo futuro.»
Cecilia gli lanciò un’occhiataccia. «Mia madre non concepisce l’espressione ‘un prossimo futuro’.» Si sfilò il vestito che aveva indossato per l’incontro con la madre, l’unico che la donna avrebbe considerare adeguato. Il Natale era alle porte e la madre aveva voluto a tutti i costi venire dalla Sardegna- regione natia di Cecilia- alla Toscana, dove lei viveva ora. «Starà già facendo i preparativi per le nozze» aggiunse dopo che Sebastian l’ebbe aiutata con il vestito, rimanendo con addosso una sottile vestaglia bianca e l’intimo. «È stata proprio una bella trovata!»
«Mi ha chiesto se avessi intenzione di sposare sua figlia. Cosa volevi che dicessi? ‘No, signora, non mi è passata neanche per l’anticamera del cervello un’idea del genere’?»
Cecilia fece il giro del letto, togliendosi le calze sfilate all’altezza delle natiche, un punto in cui sua madre non avrebbe potuto vedere. Disse, senza dare la minima prova di avergli dato ascolto: «Oh, e quando scoprirà che faremo una cerimonia ortodossa! Vorrei proprio vedere la sua faccia!»
Lui si sporse oltre il letto. «Se non vuoi una cerimonia ortodossa basta dirlo. Sei stata tu ad insistere che io dovessi tenere alle mie origini.»
«Ortodossa o cattolica, a me non interessa. Fosse per me neanche ci sposeremmo.»
«Ed è per questo motivo che tua madre è tanto preoccupata» disse lui.
Cecilia s’immobilizzò con una delle calze a metà gamba. «Dal tono in cui lo dici sembra che lo sia anche tu.»
Sebastian aggrottò la fronte, su cui ciuffi di capelli castani giacevano in maniera confusionaria. «Tono? Non ho usato nessun tono.»
«Invece sì! Ed era il tono di chi non crede che io possa fare una cosa del genere.» Tirò giù la calza e nel farlo si creò un buco ancora più grosso di quello già esistente. «Maledizione!» fece sfilandola via dal piede.
Lui le si avvicinò. «Se ho usato quel tono, ti giuro che non era mia intenzione» disse.
Cecilia abbandonò la calza per terra e guardò Sebastian in volto. «Sai che per il matrimonio non conta nulla. Ma tu a queste cose ci credi e non voglio che vi rinunci a causa mia.»
Sebastian le prese le mani e lei non si ritirò al suo tocco, segno che l’ardore si stava già spegnendo. «Mi ami?» domandò.
Lei sospirò e si limitò a fare segno di sì con la testa. Sebastian sorrise. «A me basta questo» disse. Portò la mano alla guancia di lei e le alzò il viso. Lei desistette un poco, ma alla fine cedette al bacio. E fu così che quella piccola fiamma si spense, come, d’altronde, succedeva sempre. E sempre lui avrebbe potuto affrontare i suoi sbalzi d’umore e scoppi d’ira se ciò avesse portato a quel momento, in cui gli era possibile perdersi in lei, assaporare ogni centimetro della sua pelle.
Liberò il suo corpo dall’intimo e Cecilia fece lo stesso con i vestiti e i boxer di lui. Fecero l’amore in quella maniera dolce e affannosa ormai tanto cara ad entrambi e più volte lui sussurrò il nome di lei al culmine del piacere.
Non avrebbe mai smesso di pensarlo: quella, era la pace più bella.
 
«Te lo ricordi?»
La voce di Cecilia era tornata ad avere un ritmo naturale, dopo l’affanno del sesso, la guancia appoggiata al petto di lui.
«Cosa?» chiese lui, anche se sapeva dove voleva andare a parare.
«Il giorno in cui ci siamo incontrati.» Sebastian sorrise. Succedeva spesso che ripercorressero quei ricordi. Come poterlo dimenticare? L’immagine di quella ragazza dai capelli biondo rossicci e gli occhi verdi aveva fatto fatica fin da subito ad allontanarsi dalla sua testa.
«Ero appena uscita dalla biblioteca» iniziò Cecilia «quando tu mi sei corso dietro con in mano il libro che avevo dimenticato. Avevi un italiano pietoso.»
Sebastian rise. «Non sono mai stato bravo con le lingue.»
«Però hai imparato in fretta. Comunque, io ti ringrazia appena e me ne andai senza nemmeno guardarti in faccia.»
«Ti comportasti da maleducata.»
«Non eri il mio tipo, tutto qui. Sembravi davvero un ragazzo scapestrato. Avevo già capito che non mi avresti portato nulla di buono.»
«E quando ci incontrammo non mi riconoscesti neppure.»
«Mi ero appena lasciata con il mio ragazzo. E poi c’era il lavoro che faticava ad arrivare.» Lei cominciò a disegnare cerchi sul petto di lui, pensierosa. «Un giorno mi alzai dalla mia postazione in biblioteca, lasciando dei libri sul tavolo.»
«Aspettai il momento in cui ne avresti aperto uno in particolare. Ma non l’hai fatto. Te ne sei andata senza nemmeno dare un’occhiata a quelle pagine.»
«Lo feci quando tornai a casa. Avevi scritto il tuo nome e il numero, più una frase scritta da te.» Rifletté qualche istante chiudendo gli occhi, poi disse: «Se tutte le lacrime versate, riunendosi nel mare, potessero diventare di gioia prosciugherei il mondo intorno per vedere un tuo sorriso.» Per qualche secondo ci fu solo silenzio. «Mi sembrò molto banale come frase» disse lei. «Ma significava che mi avevi visto piangere, quando ero convinta che nessuno mi avesse visto.»
«In effetti, penso di essere stato l’unico ad accorgersene.»
«Aspettai due settimane a telefonarti. Ma alla fine lo feci.»
«Già.»
Quel periodo era bene impresso nella loro memoria. Erano usciti un paio di volte e fu piacevole, ma non sembrava che fosse una storia destinata a durare. Poi, Sebastian era dovuto tornare al suo Paese natio, la Grecia, a causa di un lutto in famiglia. Il periodo in Italia non aveva portato l’ispirazione che cercava e rimanere in Grecia sembrava l’unica possibilità. Non poteva permettersi di restare in Italia e non aveva alcuna ragione per tornarci. Tranne, forse, la ragazza che aveva conosciuto e per cui aveva provato dei sentimenti. Ma Cecilia non chiamava e, più il tempo passava, più l’idea che lei lo avesse dimenticato si faceva largo nella mente di lui.
Tuttavia, un giorno, Sebastian aveva preso il primo traghetto per la Sicilia e da lì per l’isola d’Elba, fino ad arrivare al cuore della Toscana.
Cecilia viveva ancora nello stesso posto e aveva trovato lavoro come insegnante di sostegno in una scuola elementare. La sorpresa che lo assalì quando, vedendolo, lei si mise a piangere e lo abbracciò fu tanto grande per lui quanto per lei. In quei mesi, aveva capito che quel ragazzo che voleva diventare cantante, senza alcun altro sogno nella vita, aveva conquistato il suo cuore.
Sei mesi dopo già convivevano e da allora erano passati quattro anni.
Avevano dovuto affrontare tutte i problemi della convivenza, tutte le spese economiche e i problemi legati al lavoro. I soldi non erano mai abbastanza, entrambi dovettero rinunciare a qualche sfizio. Ogni anno, si presentava qualche bambino problematico nella scuola di Cecilia, che le causava qualche grattacapo. A volte, Sebastian la sorprendeva piangere in bagno o guardare fisso nel vuoto.
Per ben due occasioni, Sebastian era stato vicino a firmare un contratto con una casa discografica e in entrambi casi l’affare era andato a rotoli. Cecilia era sempre pronta a incoraggiarlo nel suo sguardo ma, nonostante lui riuscisse ad ottenere qualche lavoretto in più, era lei a portare a casa gran parte dei loro risparmi e la cosa gli pesava molto. Per compensare il senso di colpa, ogni tanto, lui le comprava qualche tela nuova su cui dipingere. Cecilia non aveva nessuna intenzione di vendere i suoi quadri a qualche mostra- per lei la pittura doveva rimanere una semplice passione- inoltre, non credeva che i suoi quadri meritassero tanta attenzione. Forse Sebastian era di parte, ma per lui quelle immagini di paesaggi incantati erano dei più belli che lui avesse mai visto.
Alla fine, era lei l’artista di casa.
«Vuoi fare qualcosa per me?» domandò lei alzando il viso.
«Certo. Cosa?»
«Scappiamo via. Andiamo lontano, in uno di quei luoghi da cartolina. Molliamo tutto e ci sposiamo da qualche parte, lontano, dove nessuno ci verrà mai a cercare.»
«Cecilia...»
«Andiamo in Islanda. Ti va di andare in Islanda?»
«Sarebbe fantastico. Ma non possiamo, lo sai.»
Lei tornò ad appoggiare la guancia sul petto di lui. Pensò a come sarebbe potuta essere la loro vita in un altro luogo, ricominciare tutto d’accapo. Ma quello era un sogno e il luogo che lei cercava era solo utopia.
«Sì, lo so.»

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. Il serpente punse il piede ***


 CAPITOLO 2. Il serpente punse il piede
 
 
 
La suoneria del telefonino proveniente dalla sua borsa la fece trasalire. Cecilia rovistò all’interno della borsetta e quando riuscì a trovare l’aggeggio elettronico fu troppo tardi; sul display illuminato era comparsa la scritta ‘Una chiamata persa: Mamma ’.
Cecilia si chiese se fosse il caso di richiamarla, ma optò subito per il no. Difficilmente la madre la chiamava dal telefonino, ma quando succedeva di solito non vi era dietro un motivo importante. Probabilmente aveva voluto soltanto parlare della serata di una settimana prima, chiederle quando lei e Sebastian avessero intenzione di convolare a nozze, e via discorrendo. Era dalla sera della cena che non parlava con la madre e dopo ciò che era venuto fuori durante la cena la donna avrebbe sicuramente preteso di conoscere i dettagli. Questa era una di quelle ragioni per cui ci si aspettava lei avrebbe chiamato.
Ogni tanto la madre le inviava qualche sms, aggiornandola sulle condizioni di salute dello zio, il quale sembrava essere sempre sull’orlo del precipizio, o per dirle che questa o quella sua vecchia amica d’infanzia aspettava un bambino o era incinta. Cecilia a volte le rispondeva, altre no. Madre e figlia avevano stipulato l’accordo di non telefonarsi a vicenda; un po’ perché Grazia, la madre, odiava restare con il telefono incollato all’orecchio e, una volta finita la conversazione, non riusciva più a sentire dal suddetto organo, ma soprattutto perché Cecilia aveva sviluppato una piccola fobia dei telefoni, da quando aveva sedici anni. Grazia era a conoscenza di questo suo piccolo terrore di rispondere ad un telefono ed anche per questa ragione evitava di chiamarla troppo spesso.
Quanti anni hai, figliola?
Chiuse gli occhi, cercando di scacciare via dalla mente quella telefonata di quattordici anni prima.
Sorrise ad un bambino seduto di fronte a lei sull’autobus, che la stava guardando, e il suo sguardo cadde sulle dita del bimbo intrecciate a quelle della madre. Non doveva avere più di sei anni e tra poco sarebbe tornato sui banchi di scuola, dopo le vacanze natalizie. Cecilia cercò di immaginarselo in mezzo ai compagni. Da come le aveva ricambiato lo sguardo sembrava essere un bambino socievole, a cui piaceva giocare con i suoi coetanei e sempre pronto a fare amicizia con gli estranei.
Il bambino aprì bocca per rivolgerle la parola, ma la madre lo fermò prima ancora che potesse proferire sillaba. Si chinò sul suo orecchio e disse qualcosa che a Cecilia sfuggì. Forse un non parlare con gli sconosciuti o un non disturbare la signora.
Cecilia non si sentì offesa, capì i timori della madre nonostante lei non facesse parte di quella categoria. Aveva conosciuto parecchi genitori, anche di bambini di cui lei non si occupava. Erano principalmente loro ad avere qualche rimostranza su chi rivolgesse la parola ai propri figli. Padri e madri di bambini senza alcun problema di apprendimento, i quali nutrivano seri dubbi che, in un classe in cui vi era anche un solo bambino bisognoso di più attenzioni degli altri, i propri figli potessero imparare qualcosa.
Pensò alle sue classi, ai suoi bambini problematici, e al fatto che al rientro a scuola non avrebbe più varcato la soglia di una classe in particolare. In quell’aula il suo lavoro era finito.
È meglio così, le aveva detto il padre del suo alunno più difficile. La sua nuova scuola è più adatta per bambini come lui. Giacomo si troverà bene.
Cecilia non aveva dubbi che Giacomo si sarebbe trovato bene nella nuova scuola; ovunque lo mettevi, quel bambino era felice. Semplicemente, non era giusto.
Non era giusto che la madre del bambino avesse dovuto alzarsi prima del solito la mattina per portare suo figlio in una scuola lontana.
Non era giusto che Giacomo dovesse frequentare un istituto speciale solo perché non era stato accettato in un’altra scuola, una scuola elementare normale, come se facesse parte di un’altra specie, non fosse nemmeno umano, ma appartenente ad una razza aliena, piombato sul loro territorio all’improvviso, senza che nessuno avesse richiesto la sua presenza lì.
Cecilia vide di fronte a sé l’immagine del bambino dal viso, dagli occhi ingenui che, anche crescendo, avrebbero sempre assunto quell’espressione infantile, e provò una stretta allo stomaco.
No, non era giusto.
Si alzò, spinse il bottone rosso e attese che il conducente fermasse l’autobus alla sua fermata. Le porte scorrevoli si aprirono e prima di scendere lei lanciò uno sguardo al bambino con la madre, che però non le rivolse la stessa attenzione di prima.
Scese l’unico gradino e si ritrovò di nuovo con i piedi sull’asfalto, da sola, e fu a quel punto che sentì la testa girarle vorticosamente. Un ciclista riuscì appena in tempo a non investirla, ma non fu quello il motivo del giramento. Succedeva da un po’ di settimane, ormai- Cecilia non avrebbe saputo dare un numero preciso, ma era abbastanza perché la cosa cominciasse sembrarle strano.
Girò lo sguardo intorno a sé, ma non vide niente che potesse sembrarle sospetto. Tuttavia, era certa che questo- il giramento alla testa- più il formicolio alla nuca significava una cosa soltanto.
Qualcuno la stava spiando.
 
Più tardi, Sebastian fece ritorno a casa, le buste della spesa in mano. Era passato al supermercato più vicino, ma senza una lista si era reso conto di non sapere bene cosa mancasse in frigorifero. Sapeva che Cecilia era in casa, ma aveva evitato di chiamare perché era certo che lei non avrebbe risposto. Alla fine, aveva comprato ciò che riteneva avessero bisogno.
Mentre faceva spesa, era tornato con la mente al colloquio di lavoro avuto quel pomeriggio. Era andato piuttosto bene e sperava di ricevere una telefonata di conferma a breve. Non si trattava di nulla di che, semplice pianista in un lussuoso albergo e la paga era minima. Non il sogno della sua vita, certo, ma sempre meglio di niente.
Aveva anche proposto al proprietario un numero con la chitarra e l’uomo sembrava averci voluto pensare sul serio. Chissà, magari un giorno qualche serio produttore discografico avrebbe potuto sentirlo e proporgli un contratto.
Artisti riconosciuti mondialmente avevano iniziato con lavori ancora più umili del suo.
In fondo, non era così male.
«Cecilia?» chiamò chiudendosi la porta d’ingresso alle spalle. Voleva parlarle del colloquio e chiederle come fosse andata la sua, di giornata. La mattina si era recata a scuola per la riunione con gli insegnanti prima delle riprese delle lezioni e Sebastian sapeva che per lei non doveva essere stato facile. Non dopo quello che era successo con quel bambino. Cecilia non glielo rivelò mai, ma lui aveva capito fin dall’inizio che quello era il suo alunno preferito.
 «Cecilia?» chiamò di nuovo, senza ottenere risposta.
Camminò per il piccolo corridoio e arrivato in soggiorno posò le buste a terra. L’appartamento era ridotto ad un cumolo di oggetti sparpagliati per terra. Anche in cucina vi erano le prove di una lotta, come in un campo di battaglia.
Per un attimo, Sebastian pensò che Cecilia fosse stata presa da un raptus di follia. Spinta dalla rabbia che provava a causa del lavoro, aveva gettato a terra oggetti e spostato i mobili.
Si diresse alla loro camera da letto e trovò il lenzuolo scostato di lato, come se nel sonno qualcuno lo avesse scalciato via. Di Cecilia nessuna traccia.
Controllò in bagno, nella doccia, tornò indietro in soggiorno, in cucina, dietro i mobili, come se lei fosse inspiegabilmente diventata minuscola, al punto da nascondersi anche negli angoli sul soffitto.
Uscì dall’appartamento gridando il suo nome, andò fuori all’aria aperta ma a chiunque gridasse il nome di lei nessuno sapeva dargli una risposta. Allora tornò dentro, schivò i condomini preoccupati dal suo comportamento e rientrò all’appartamento.
«Cecilia!» gridò di nuovo e di nuovo fece il giro delle stanze, finché le stanze non finirono. Quindi si soffermò sui dettagli.
I segni di una lotta erano ovunque, tranne in bagno, ma non c’erano tracce di sangue e quello doveva significare che, qualsiasi cosa fosse successa, lei non era ferita.
Andò in camera e trovò sul comodino il cellulare di Cecilia. Premette un tasto qualsiasi e sullo schermo apparve una scritta che annunciava tre chiamate perse da parte di sua madre. Stava per tornare indietro in soggiorno quando notò un foglio di carta bianco, sotto la sveglia a forma di Topolino che Cecilia gli aveva regalato per il suo ventinovesimo compleanno.
Era piegato in due e con mani tremanti Sebastian lo aprì. Poche frasi scritte a computer recitavano così:
Il serpente punse il piede
alla giovial fanciulla
che un grido lanciò:
‘’ Oh, morte s’appresta!’’ gridò.
La giovane lira mesta
di colui che cotanto ella ha amato
segnò i suoi ultimi respiri.
E quindi ella spirò.
 
Sebastian lesse due volte quelle poche righe senza senso. Rimase immobile e accartocciò il foglio, stringendolo in pugno.
Quando il proprietario dell’edificio condominiale entrò nell’appartamento, avvisato dello strano atteggiamento dell’uomo, la sua entrata fu accompagnata dal grido di Sebastian.
«Cecilia!»

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. Una lettera dagli Inferi ***


CAPITOLO 3. Una lettera dagli Inferi
 
 
 
‘’Pronto?’’
‘’Pronto, parlo con la figlia del signor Manfredi?’’
‘’Sì.’’
‘’Tuo padre dov’è?’’
‘’In questo momento non c’è...’’
[...]
‘’Quanti anni hai, figliola?’’
 
Cecilia aprì gli occhi, risvegliandosi dal sogno. Era successo di nuovo. Quella telefonata era tornata a farle visita nei sogni, l’incubo di quasi tutta una vita.
Sollevò la testa di qualche centimetro e una fitta alla nuca la investì in pieno. Allora dimenticò il sogno e tutto ciò che da esso ne derivava e altri ricordi affollavano la mente.
Il suono del campanello, qualcuno era alla porta...
Lei era andata ad aprire.
Qualcuno... Qualcuno che non conosceva e di cui non ricordava i tratti era lì.
Era entrato nell’appartamento, Cecilia non ricordava con quale scusa.
E poi...
Lei era andata in camera da letto e stava frugando dentro qualcosa.
Ad un certo punto aveva afferrato il lenzuolo e il lenzuolo era finito per terra.
Flash, lampi accecanti nella mente.
La lampadina sul comodino che cadeva.
Buio. Poi un’altra immagine.
Lei che sbatteva contro qualsiasi oggetto incontrasse nel cammino.
Buio.
Una mano le afferrava la bocca.
Buio. Una serie di lamenti soffocati, solo quello, ma nessuna immagine che potesse ricordare.
Era riuscita a scappare- scappare... ma da chi?- ma chiunque avesse avuto intenzione di portarla via con sé doveva essere riuscito a riprenderla, perché adesso Cecilia si trovava in un letto che non era il suo, in una stanza che non conosceva.
Provò di nuovo ad alzare la testa, ma di nuovo la fitta la percorse.
Perse i sensi. Nel mondo dei sogni aveva la cornetta del telefono premuta contro l’orecchio e adesso stava rispondendo ad una domanda.
‘’Sedici.’’
 
Il commissario Poletti lesse per la seconda volta le parole impresse in un foglietto. Seduto all’altra parte della scrivania, Sebastian teneva la testa china e lo sguardo fisso. Il colletto della camicia era aperto e la cravatta pendeva malamente dal suo collo. La fronte grondava sudore. Cristo, era proprio ridotto male.
«Sa cosa possa significare?» domandò allo straccio di uomo seduto di fronte a sé. Quello si limitò a scuotere la testa.
L’agente Di Francesco si fece avanti, protendendo le mani per ricevere il foglio. I suoi occhi scorsero velocemente le righe. «Sembra una poesia» disse.
Poletti guardò il suo miglior agente e ancora una volta pensò che fosse troppo giovane per quel titolo. «Già.»
«Anche piuttosto banale, direi.»
Il commissario fece spallucce. «Non abbiamo a che fare con un grande poeta.»
Di Francesco gettò il foglietto di carta sulla scrivania e a quel punto Sebastian alzò lo sguardo. Di nuovo, quelle otto righe occuparono la sua visuale.
«Signor Portokalos, sa che, per il momento, non possiamo dare l’allarme» disse Poletti, rivolgendosi nuovamente a Sebastian. Di Francese gli si sedette accanto. «Devono passare minimo quarantotto ore per denunciare la scomparsa di una persona.»
«In quel caso, mobiliteremo la migliore squadra per cercare la sua compagna» intervenne Di Francesco.
A Sebastian tutto ciò sembrava un’assurdità. Quarantotto ore! Cecilia è scomparsa, è stata rapita, e in questo momento potrebbe essere ferita o...
 «Per adesso non possiamo fare altro che cercare di capire chi possa averla aggredita in casa sua» continuò Di Francesco. «Stiamo già controllando se vi siano impronte o qualche altro tipo di prove nel suo appartamento.»
«Ma ci serve il suo aiuto per cercare di capire quella poesia» disse Poletti, lanciando un’occhiata al pezzo di carta. «Lei ci garantisce di essere stato l’unico, a parte noi due, ad aver toccato quel foglio?»
Sebastian guardò prima l’uno poi l’altro. Il poliziotto più giovane aveva biondi capelli tagliati corti e portava un completo grigio. Agli angoli degli occhi cominciavano a spuntare già le prime rughe, che tuttavia non gli conferivano un aspetto più maturo. L’altro, il commissario, era un uomo robusto, sulla cinquantina, con una folta capigliatura nera, pelle abbronzata e occhi scuri. Sembravano entrambi capaci nel loro lavoro, eppure Sebastian sentiva che qualcosa non andava nella loro parvenza.
«Sì» rispose dopo degli interminabili secondi.
«Bene» fece Poletti. «Procederemo subito con le impronte digitali. Anche se non credo ne troveremo.» Si fermò un attimo, sovrappensiero. «Inoltre, controlleremo da quale computer è stata stampata questa... poesia.» Un’altra pausa. «La dobbiamo informare, però, che non sempre queste ricerche portano a risultati concreti.»
Di Francesco si sporse oltre la sedia e afferrò di nuovo il foglio. «Non vi è nulla a Lei familiare in questi versi, signor Portokalos?»
Sebastian fece di no con la testa.
L’agente parlò rivolgendo lo sguardo alla poesia. «Parlano di una ragazza morsa da un serpente. E di una lira...»
Nella mente di Sebastian qualche ingranaggio prese moto. Come aveva fatto a non rendersene conto prima? «Orfeo e Euridice» disse.
«Come, scusi?»
«Il mito di Orfeo e Euridice.» Vedendo che gli uomini non capivano, spiegò: «È un antico mito greco. I due erano amanti, ma un giorno lei viene morsa da un serpente. Distrutto, Orfeo decide di scendere negli Inferi per riprendere la sua amata.» Questo era ciò che ricordava. Il ricordo del mito era confuso nella sua mente.
«E vi è qualcosa che possa riportare Lei a questo mito?» domandò Poletti.
«No, non proprio. Orfeo era un musicista, e lo sono anch’io. Ma le analogie finiscono qui.»
Poletti tamburellò con le dita sul tavolo. Passarono dei minuti interi senza che nessuno dei presenti parlasse, ognuno di loro perso nei propri pensieri.
Perché se ne stanno qui con le mani in mano? Perché non si muovono?
Cecilia, dove sei?
Erano queste le domande che affollavano la mente di Sebastian, ripetute più e più volte. Cosa pensassero i due, a Sebastian non era dato saperlo.
Una donna in uniforme fece capolino dentro l’ufficio. «Capo, è arrivato un pacco per Lei» disse.
Poletti le fece cenno di entrare. Mentre si dirigeva verso la scrivania del commissario, la donna lanciò uno sguardo a Sebastian, ma lui parve neanche accorgersi della sua presenza.
«Grazie» disse il commissario accomiatando l’agente, che subito fece dietrofront.
Il pacco aveva la forma di un parallelepipedo e incartato con del cartone marrone. Poletti stava per gettarlo in mezzo alle scartoffie sulla scrivania, ma qualcosa attirò la sua attenzione. «Ma che diavolo...»
Mostrò la parte frontale del pacco all’agente Di Francesco, il quale per un attimo si fece sfuggire il dettaglio che aveva appena scorto il suo capo. Sotto l’etichetta su cui vi era scritto l’indirizzo in cui il pacco doveva essere recapitato, un’anonima scritta a mano, in pennarello nero indelebile, aggiungeva: Pianeta Terra.
Chi diavolo poteva scrivere una cosa del genere sotto un comune indirizzo di un commissariato di polizia?
Sotto, impresso a computer nella carta, la scritta: Da far ricevere ESCLUSIVAMENTE al commissario P.
Poletti cominciò a scartare l’involucro. Chiunque avesse mandato quel pacco, doveva conoscere il suo nome, o almeno l’iniziale.
Quando il contenuto del pacco fu scoperto, Poletti corrugò ancora di più la fronte. Infilò una mano dentro ed estrasse una parte di ciò che vi era all’interno, mostrandola al suo agente. Stretto contro il palmo dell’uomo, vi era una soffice pagnotta dal profumo invitante.
«Cosa cavolo...?» fece Poletti frugando tra altre pagnotte.
Di Francesco si allungò per controllare con i suoi occhi l’interno del pacco e mentre il commissario rimestava tra il pane ne estrasse dell’altro, qualcosa di completamente diverso. Sebastian osservava la scena, senza però sentirsi parte di essa. Solo quando l’agente Di Francesco tornò al suo con in mano quella che sembrava a tutti gli effetti una lettera, Sebastian concepì davvero l’idea di trovarsi in quell’ufficio.
«Capo...» mormorò Di Francesco dopo aver finito di leggere.
«Cosa c’è scritto?»
Il giovane poliziotto, che non doveva avere molti più anni di Sebastian, guardò l’uomo seduto al suo fianco, dubbioso se leggere ad alta voce in sua presenza. «Non so se sia il caso...»
«Leggi quella lettera!»
Di Francesco indugiò ancora. Era chiaro che non volesse che Sebastian ciò che vi era scritto. È una lettera di Cecilia?  Guardò speranzoso i due uomini.
Di Francesco si schiarì la voce.
 
Benvenuti agli Inferi!
Euridice è qui con me e per il momento sta bene. Volevo che Orfeo lo sapesse. Dopotutto, si tratta comunque della sua amata.
Oh, l’amore! Che nobile passione!
Mi chiedo se dopo questa avventura la lira di Orfeo sarà più fortunata.
Ma non perdiamo troppo tempo. Questo pacco non è destinata all’innamorato che ha perso la sua musa.
No, questo è un regalo per i miei cerberi, che hanno già iniziato a darmi la caccia.
Ho preparato io stesso questo pranzo per voi. Mangiate col cuore e non temete; cadrete al massimo in un sonno profondo.
È ciò che vi aspetta per la caccia.
Non potete pensare di prendermi.
Io sono il vostro padrone.
Ade.

 
Di Francesco mostrò la lettera al suo capo. I caratteri a computer erano gli stessi della poesia lasciata nell’appartamento di Sebastian. La differenza stava nello stile di scrittura.
Ade... Il dio degli Inferi, colui che tratteneva Euridice nel suo regno.
«Cristo...» imprecò Poletti.
Sebastian strinse i pugni, trattenendo la rabbia. Avrebbe voluto strappare all’agente quella lettera di mano e ridurla a brandelli. Non poteva pensare alla sua Cecilia in mano ad uno psicopatico.
Adesso muoverete quel culo dalla sedia?
Immaginò di trovare quel mostro per strada, riconoscerlo con un’occhiata, picchiarlo a sangue finché non le avesse detto dove teneva nascosta Cecilia. Avrebbe lasciato il pazzo alla polizia, affinché lo chiudessero per sempre dentro una cella, e sarebbe corso da Cecilia.
Dalla sua amata, la sua musa, la sua Euridice.  

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4. Vorrei saltare, ma ho paura di colpire il suolo ***


CAPITOLO 4. Vorrei saltare, ma ho paura di colpire il suolo
 
 
 
L’agente Di Francesco gettò un’ultima occhiata alla lettera firmata Ade, ora conservata dentro un foglio di plastica. Il compagno della vittima se ne era appena andato, scortato da uno degli agenti di polizia; nessuno dei due si era sentito di lasciarlo guidare nelle condizioni in cui si trovava e, inoltre, l’uomo doveva rimanere sorvegliato.
«Non c’è stata nessuna richiesta di riscatto» disse Di Francesco, più a se stesso che al suo capo.
«Già» annuì l’altro. «Quel povero ragazzo non ha una lira. Ci sarebbe mancato solo che gli avessero chiesto un mucchio di soldi...»
«Io non credo sia questo il punto.»
Poletti sollevò un sopracciglio. «Ah, no?»
«Questo... Ade, o comunque si voglia far chiamare, deve provare una qualche forma di piacere nel tenere con sé la ragazza. Non sessualmente, almeno non credo. Trae piacere dal semplice fatto di averla rapita. Deve far tutto parte di un piano.»
Poletti sospirò, pensieroso. Di Francesco continuò: «Abbiamo a che fare con un sociopatico.»
«Cosa te lo fa pensare?» domandò il commissario.
«Si crede il dio degli inferi. Non basta?»
Il silenzio cadde nella stanza. Di Francesco spostò lo sguardo dalla scrivania alle pareti della stanza. La bandiera italiana era riposta dentro un contenitore a forma di vaso, contro il muro, e da quella prospettiva avrebbe potuto essere una qualsiasi bandiera di un qualsiasi Paese al mondo, il pezzo di stoffa che compiva ampi giri intorno all’asta. Per il resto, l’ufficio sembrava un comune ufficio di un commissario di polizia, così come se ne vedevano alla tivù.
Di Francesco tornò a posare lo sguardo sul suo capo. «Cosa facciamo adesso?» chiese.
«Il ragazzo è sorvegliato?»
«Sì, certo.» Era logico. Quando una donna scompariva gli occhi di tutti erano puntati su un solo uomo, almeno finché non fossero usciti fuori altri sospettati; che si tratti del marito, convivente o ex fidanzato non faceva alcuna differenza. Come se l’ultimo uomo che avesse condiviso il letto con quella donna dovesse avere sempre un movente per farla scomparire.
A volte era così, altre no. Di Francesco non credeva fosse questo il caso.
Poletti alzò le spalle. «Aspettiamo.»
Quello doveva essere il momento del congedo, ma l’agente aveva ancora un’altra domanda da chiarire. «Possibile che nessuno abbia visto un uomo uscire con quella ragazza?»
«È andata esattamente così. Molti erano fuori casa, e chi era rimasto nel proprio appartamento c’è restato. Nessuno ha sentito grida o cose del genere.»
«E il portinaio?»
«Non era al suo posto in quel momento.»
«Nessuna telecamera di sicurezza?»
«Le telecamere ci sono. Ma servono più che altro a scoraggiare i ladri. Non vengono mai accese» rispose Poletti.
La rassegnazione assalì Di Francesco. Erano proprio con il culo per terra. Una situazione alquanto scomoda.
Se non si fosse fatto avanti nessuno nell’arco di quarantotto ore, il compagno della donna si sarebbe trovato in una situazione ancora più scomoda, pur essendo del tutto innocente. Di Francesco ne era sicuro; le reazioni dell’uomo gli erano sembrate sincere fin dall’inizio, niente di troppo esagerato o troppo trattenuto. L’esperienza nel suo lavoro, però, gli aveva insegnato che non sempre ciò che appare trova riscontro nella realtà.
Sconfitto, Di Francesco si congedò dal suo capo. Poletti osservò ogni suo movimento mentre si allontanava, pensando a quanto questo caso lo avrebbe sfiancato, come avrebbe sfiancato entrambi.
Quando la porta dell’ufficio fu chiusa, cercò nei cassetti il pacchetto delle sue Camel. Evitando il più possibile con lo sguardo il pacco che era arrivato quel giorno, ne accese una, espirando una grande boccata.
Quindi, buttò poi fuori tutto il fumo.
 
«Cerchi di riposare, signor Portokalos.»
L’agente di polizia che lo aveva scortato lo lasciò lì, di fronte la porta dell’appartamento. L’appartamento in cui non erano state trovate tracce di chi aveva preso Cecilia.
Sebastian gettò la giacca a terra, insieme con il suo stesso corpo, il duro muro dell’appartamento contro la schiena. Si nascose il viso tra le mani e poi passò quelle stesse mani tra i capelli, arruffati e sporchi.
Guardò l’appartamento, che una mano gentile aveva cercato di riordinare dopo che nessuna prova era venuta fuori.
Cecilia non c’era.
Cecilia era stata portata via.
Cecilia era tra le grinfie di Ade.
Cecilia non c’era.
Cecilia era stata portata via.
Cecilia era...
Ripeté questo mantra nella testa, finché non sentì quest’ultima esplodere.
Forza, cerca di ricordare. Come finiva quel mito?
Nulla, neanche il più piccolo ricordo. Possibile che avesse dimenticato quella storia?
Avrebbe potuto accendere il computer che non aveva, accedere ad una connessione Internet che non possedeva e cercare il mito di Orfeo e Euridice. O, semplicemente, sarebbe potuto uscire dall’appartamento e recarsi alla biblioteca più vicina. Lì avevano sicuramente una rete Wi-Fi e avrebbe potuto fare le sue ricerche.
Non fece niente di tutto ciò.
Invece, raccolse la sua chitarra dimenticata in un angolino del soggiorno e cominciò a suonare, le note che venivano fuori da sé.
«Misery likes company, I like the way that sound» cominciò a cantare. E mentre suonava un’ombra iniziò a delinearsi sulla poltrona in soggiorno. Seduta, l’ombra ascoltava le note prendere forma dalle sue mani e le parole uscire dalle labbra. «Staring out the window, it’s such a long way down. I’d like to jump, but I’m afraid to hit the ground.»
Ed ecco l’ombra prendere un contorno più definito.
A pochi passi da lui, Cecilia ascoltava la voce di Sebastian cantare quella canzone. Indossava un completo nero semplice, lo stesso del loro primo appuntamento ufficiale.
A quella vista, Sebastian si sentì motivato a suonare.
«I can’t write a love song, the way I feel today. I can’t sing no song of hope, I got nothing to say.»
Cecilia gli sorrise e anche lei prese a sussurrare la canzone, accompagnandolo fino alla fine. Sebastian accelerò il ritmo, gridò le parole dal profondo della gola.
«I sing this song to you, wherever you are. As my guitar lies bleeding in my arms.
As my guitar lies bleeding in my arms.»
Giunse alla fine e quando la chitarra suonò le sue ultime note Cecilia gli sorrise per l’ultima volta. Quindi, così come era apparsa, scomparve.
Sebastian rimase immobile di fronte l’assolversi lento di quell’immagine. Si alzò dalla sua postazione contro il muro, impugnò la chitarra per il manico e con gesti veloci prese a sbatterla contro la parete, gli immobili, il tavolo in cucina, le sedie, fino a che dello strumento non rimase che qualche scheggia.
Solo quando ebbe finito il lavoro, Sebastian si accorse di avere il fiato corto. Fece cadere sul pavimento il manico della chitarra e si guardò la mano.
Visibile sotto la pelle, una scheggia scura aveva penetrato parte del palmo.
 
Cecilia aprì gli occhi.
A un metro di distanza dal letto, appoggiato allo stipite della porta, un uomo la stava osservando. D’istinto, lei afferrò le coperte e se le portò fin sotto il mento.
«Non ti farò del male» disse l’uomo, l’accento straniero nella voce, insieme ad una malinconia velata.
Dove sono? Che cosa ci faccio qui?
Ebbe appena il tempo di porsi quei pensieri, che le immagini di ciò che era successo qualche ora prima tornarono alla mente. Uno sconosciuto era entrata in casa sua, lei non ricordava il volto, l’aveva aggredita e l’aveva portata via. Un blocco mentale si sovrappose tra il momento in cui era stata rapita a quando era riuscita a scappare. Poi, più nulla.
A quanto poteva vedere, la sua fuga non era servita a nulla.
Guardò l’uomo, cercando di ricordare se fosse il tipo che era entrato nel suo appartamento ma, di nuovo, non ricevette nessuna immagine in cambio. Per quanto ricordava, poteva essere stato lui ad aggredirla come chiunque altro.
L’uomo era in penombra, coperto dal buio della vicina notte. Che ore erano? Da quanto tempo sono qui?, si chiese Cecilia.
Dalla sua postazione riusciva a distinguere solo la maglietta bianca che l’uomo indossava. Rimasero per un po’ a fissarsi, ognuno cercando di scrutare l’altro.
«Hai fame? Sete?» le chiese l’uomo.
Cecilia sentì lo stupore crescere dentro a quelle domande. Ho a che fare con un sequestratore educato, pensò.
Non riuscì a fare altro che muovere la testa in su e in giù. A quel cenno, l’uomo scomparve.
Ancora scossa dal risveglio, Cecilia si tolse di dosso le coperte. Devo muovermi. Non conosceva la casa in cui si trovava- o qualsiasi altro posto fosse- ma doveva comunque provare un tentativo.
Mise un piede nudo sul pavimento, poi l’altro, quindi si mosse velocemente. Pessima mossa. In un lampo, avvertì una fitta alla caviglia sinistra e dal dolore cadde a terra, gridando. Doveva essersi slogata la caviglia, ma quando? Anche quel preciso momento non rientrava nei suoi ricordi.
Subito, il rumore di passi la raggiunse. L’uomo si chinò accanto a lei, allarmato. «Stai bene?» le domandò. Allungò una mano per toccarle il braccio, ma lei si ritrasse a quel tocco. Adesso poteva vederlo, poiché si trovavano entrambi sotto il fascio di luce proiettato dalla finestra nella parete a destra.
Portava davvero un maglione bianco con il colletto a V; indossava un paio di jeans e i piedi erano nudi. Aveva la carnagione scura, tipica dei paesi mediorientali, e i folti capelli erano neri. La mascella era ricoperta da una barba incolta, i tratti leggermente ampio, lunghe ciglia e sopracciglia folte gli donavano un’aria accigliata. Ma erano gli occhi ad aver attirato l’attenzione di Cecilia, occhi dal colore simile all’oro.
Gli angoli della bocca di lui si curvarono in una specie di sorriso, ma era chiaro che fosse stato ferito dal rifiuto di lei al suo tocco. «Non ho nessuna intenzione di farti del male» ripeté e le pose la mano, in un gesto di aiuto. «Mi chiamo Khalid» disse.
Cecilia non riuscì a proferire parola.
Dopo un’infinità di tempo, cedette al suo aiuto e gli afferrò la mano, i loro palmi che si toccarono, uniti. 

*testo canzone: My guitar lies bleeding in my arms- Bon Jovi
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5. Un nastro rosso ***


CAPITOLO 5. Un nastro rosso
 
 
 
Khalid la fece sdraiare comodamente sul letto e le prese la caviglia tra le mani. Con mosse semplici tastò la parte dolorante, massaggiandola. Appoggiò il palmo della mano sulla pianta del piede, costringendola ad una violenta torsione.
Cecilia sussultò per il dolore. Lui alzò gli occhi, sollevando un sopracciglio. «Non fa così male» disse.
«Ho una soglia del dolore molto bassa» rispose lei, seccata. Era lei la vittima lì, quella che era stata rapita, doveva anche sentirsi una stupida?
Lui riportò lo sguardo sul piede. «Vista la caduta che hai fatto, non è niente. Devi solo tenerla a riposo per un po’.»
Di quale caduta sta parlando?, si chiese lei. Per quanto si sforzasse di ricordare, Cecilia non vedeva altro che il vuoto. Probabilmente era caduta nel tentativo di fuggire; doveva essere per questo motivo che lui era riuscito a riprenderla. Tutta colpa di una caduta...
Ancora sotto shock per gli ultimi avvenimenti, quasi senza pensarci, Cecilia disse: «Che cosa ci faccio qui?»
Khalid la guardò confuso, senza rispondere.  «Mi hai rapita?» continuò allora lei. «Hai intenzione di chiedere dei soldi per il riscatto? Perché se è così, ti avverto subito che non ho una lira, né io, né la mia famiglia, né Sebastian...»
Sebastian...
Il pensiero del suo compagno le causò una fitta alla testa. Quell’uomo aveva fatto del male anche a lui? Era ferito? Lo aveva portato in quella casa assieme a lei e rinchiuso in qualche angolo remoto dell’abitazione?
Oppure non sapeva nulla su dove lei fosse e la stava cercando?
Fissò il suo aguzzino negli occhi e lui parve quasi intimorito da quello sguardo. «Non ti ho rapita» mormorò lui. «Non ricordi nulla di quello che è successo?»
Non si trattare di ricordare o meno, si disse Cecilia. Che l’avesse rapita era un dato di fatto, altrimenti non si sarebbe ritrovata in casa di uno sconosciuto con la caviglia slogata nel tentativo di scappare da lui. Allora perché lui sosteneva il contrario?
«Se non vuoi farmi del male» fece lei cambiando discorso «allora lasciami andare.»
«Non posso.»
«Perché? Perché non puoi?» Vedendo che lui non accennava a rispondere Cecilia continuò: «Ti do tutto quello che possiedo, tutti i soldi che vuoi, basta che non chiedi un centesimo a Sebastian. Ma ti prego, lasciami andare.»
 «Non voglio soldi.»
«E allora cosa vuoi? Vuoi il mio corpo? Vuoi possedermi?»
Khalid si ritrasse da lei di qualche centimetro, nel volto un’espressione offesa. «Non voglio farti del male» disse di nuovo.
La calma con cui ripeté quelle parole le fece perdere la testa. «E allora che cosa vuoi?» gridò Cecilia, gli occhi prossimi a lacrimare, e subito un’altra fitta alla testa la costrinse a rimanere in silenzio. Si portò le mani alle meningi, una smorfia di dolore sul viso.
«Che cos’hai?» le chiese Khalid, avvicinandosi. «Ti fa male? Non ti ho visto sbattere la testa...»
«Non è niente. Sto bene.»
Lui fece finta di non averla sentita e la costrinse a chinare il capo tra le sue mani, in cerca di qualche ferita. Cecilia si dibatté, ma la presa dell’uomo fu più forte e alla fine cedette.
«Non c’è nessun taglio, niente di niente» disse lui allontanando le mani. «Non hai sbattuto la testa, quindi non ci può essere nemmeno un’emorragia interna.»
«Sei un dottore, per caso?»
«No, ma lo era mio padre. Mi ha insegnato un po’ di cose.»
Cecilia socchiuse gli occhi. «Potrebbe essere grave. Portami in ospedale, te ne prego.»
«Ti ripeto che...»
«Non mi interessa quello che dici! Devo andare all’ospedale!»
«Non posso portartici. Ti troverebbero. Devi solo cercare di riposare.»
Ti troverebbero, chi? Intendeva la polizia? Aveva paura che l’ospedale sporgesse denuncia e che quindi la polizia avesse scoperto che l’aveva rapita?
Khalid si passò una mano tra i folti capelli scuri. «Adesso è ora di cena e devi mangiare. Ti preparo qualcosa» disse, alzandosi dal letto.
«Non voglio nulla da te.»
«Devi mangiare.»
Lei si sdraiò su un fianco, dandogli la schiena.
«Se devo costringerti a farlo, lo faccio. Non ci sono problemi.» Nessuna risposta, neanche il più lieve movimento. Khalid sospirò. «Pensaci. Se io fossi uno psicopatico non ti avrei mai permesso di trattarmi come mi hai trattato fino ad ora. Non credi?»
Così dicendo uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
 
Come diavolo si era permesso di dirle una cosa del genere?
Più Cecilia ci pensava più non riusciva a capacitarsene. Era lei la vittima lì dentro, lei soltanto, non poteva- e non doveva- sentirsi in colpa per avergli urlato contro.
Nonostante ciò, aveva provato un certo disagio quando lui le aveva fatto notare di non essere stata molto gentile nei suoi confronti. Forse era stato il suo tono calmo e gentile, forse il suo fascino, fatto sta che lei non riusciva a togliersi di dosso quella sensazione.
Io sono la vittima. Io sono la vittima. Si ripeté questo mantra fino a perdere il conto. Io sono la vittima.
Io sono la...
Un suono improvviso la riscosse. Quando si ripeté di nuovo, capì che proveniva dalla sua pancia. Cavolo, aveva fame davvero. Ma non avrebbe toccato per nulla al mondo il cibo che lui le avrebbe portato. Mai e poi mai.
L’unico uomo a cui avrebbe permesso di cucinarle la cena era Sebastian, anche se non era mai stato un cuoco provetto. Tornò con la memoria a quando l’aveva invitata a cena per la prima volta a casa sua; quella volta aveva bruciacchiato il polpettone e l’espressione delusa sul viso di lui le aveva fatto tenerezza.
«Mi dispiace» aveva detto, abbattuto.
Lei gli aveva sorriso e cominciato a mangiare. Era buono, sempre meglio di qualunque pietanza avrebbe potuto cucinare lei, e quando gliel’aveva fatto notare il morale di Sebastian era salito.
Era stata una cena tranquilla, perfetta, la prima di molte altre a venire. Più si conoscevano, più la loro intimità era migliorata.
Adesso che si trovava rinchiusa in casa di un uomo che non conosceva capì quanto si fosse comportata da stupida tutte le volte che aveva inscenato un litigio. Avrebbe dato qualunque cosa per scusarsi con lui e promettergli che non si sarebbe più comportata come un’emerita stronza. Qualunque cosa pur di abbracciare l’uomo che amava.
Qualunque.
 
Khalid le aveva lasciato un vassoio per le pietanze con dentro della pasta, piatto, forchetta, tovagliolo e una bottiglietta d’acqua sul comodino accanto al letto. Uscendo, lei non gli aveva rivolta neanche un’occhiata.
Quando tornò a controllare che avesse mangiato, vide il piatto sporco di sugo con la forchetta posata sopra e lei sdraiata su un fianco, addormentata.
Alla fine aveva ceduto e pareva che le fosse anche piaciuto, poiché si era quasi mangiata tutta la porzione.
Khalid riportò il tutto in cucina, facendo il minor rumore possibile, e si mise subito a lavare piatto e forchetta.
La zona cucina comunicava direttamente con il salotto e la casa aveva un solo bagno e due stanze da letto. Meglio di niente, di certo una delle migliori sistemazione che potesse trovare nei d’intorni, lì, sperduta tra la campagna toscana.
C’era una sola abitazione nel raggio di chilometri, proprietà di un vecchio contadino. La sistemazione ideale per chiunque volesse un po’ di privacy. Soprattutto, per chi non volesse essere trovato.
Quando ebbe finito di lavare, si asciugò le mani da acqua e sapone pensando alle ultime ore trascorse e al dialogo avuto con Cecilia. Prima che lei si fosse risvegliata, aveva trovato per terra un foglio ripiegato molte volte in modo da entrare nella tasca dei pantaloni. Doveva esserle caduto proprio da lì e si era chiesto distrattamente se lei si portasse quel foglio ovunque andasse.
Lo aveva aperto e aveva visto un disegno che la ritraeva, fatto molto probabilmente da un bambino di non più di sei anni, accompagnato dalla scritta Cecilia. Era stato così che aveva scoperto il suo nome.
Il foglio era quasi completamente vuoto, a parte la figura storpiata della donna e il suo nome; non c’erano un cielo e un sole a fare sfondo al disegno, tipici dei bambini. Solo una donna, la quale avrebbe potuto essere benissimo una bambina, etichettata con il proprio nome.
Aveva appoggiato il foglio accanto al libro di poesie in cucina e se ne era quasi dimenticato, almeno fino ad ora che lo aveva davanti. Si chiese chi avesse potuto donarle quel disegno.
Cecilia aveva fatto cenno ad un uomo, un certo Sebastian- il compagno? Il marito?- ma nessun cenno a qualche possibile figlio e Khalid escludeva che ne avesse. Era giovane, non più di trent’anni, e anche se sapeva benissimo che c’erano ragazze madri molto più giovani di lei non gli era sembrato il tipo di donna da avere già un figlio.
Magari si trattava di un nipote o il figlio di un’amica. Oppure, poteva avere a che fare con il suo lavoro.
Khalid sorrise. Non credeva che potesse essere una babysitter o un’insegnante delle elementari. Con il caratterino che si ritrovava, come minimo sarebbe impazzita avendo a che fare con un’orda- ma anche uno solo- di marmocchi confusionari. Perlomeno, questa era l’immagine che si era fatta di lei.
Prese il libro di poesie e lo aprì alla pagina segnata con un nastro rosso. Sfiorò quel nastro ricordando la bambina che glielo aveva donato, quindi cominciò a leggere a bassa voce, soffermandosi su dei versi in particolare.
‘’ Non si possono contare le lune che brillano sui suoi
tetti,
né i mille splendidi soli che si nascondono dietro i suoi
muri.’’

Era un’antica poesia che parlava della sua città natale, Kabul, una città che non aveva mai conosciuto da bambino, ma che aveva visto da adulto martoriata dalla guerra.
Era la città della caccia agli aquiloni che lui non aveva mai vissuto, mai giocato in vita sua, ma soprattutto era la città della bambina con il nastro rosso, con i capelli corti e la testa spaccata in due. 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6. La chiave che apre tutte le porte ***


CAPITOLO 6. La chiave che apre tutte le porte.
 
 
 
«La polizia locale sta effettuando le ricerche per il ritrovamento della donna», la giornalista nello schermo pronunciò queste parole. Nelle ultime ventiquattro ore, Sebastian doveva averle sentite almeno cinque volte.
Mentre la donna parlava, la sua immagine venne sostituita con una foto di Cecilia sorridente, un chiaro abito sottolineava le sue curve. Sebastian ricordava bene quel giorno.
Erano stati invitati entrambi al matrimonio di una delle amiche di lei e l’immagine era stata scattata durante il ricevimento. Telegiornali e quotidiani avevano inondato le case degli italiani di immagini come questa, tagliando la parte di foto in cui erano presenti altri invitati. Sebastian era seduto accanto a lei, ma la sua presenza poteva essere percepita solo da una parte di mano che stringeva quella di Cecilia, le dita intrecciate.
Non riusciva a capire perché avessero tagliato quella parte di foto, mentre ne avevano fatto girare altre in cui erano presenti entrambi, i sorrisi stampati sui volti. Chiunque avesse visto quelle immagini avrebbe pensato a come quella coppia sembrasse aliena dai litigi. Mentre guardava i loro sguardi sereni, Sebastian pensò che fossero riusciti nell’intento.
Sembrare una coppia senza alcun problema al mondo.
Cecilia era scomparsa da due giorni e in quel lasso di tempo gli occhi dei media si erano tutti puntati su di lui. Non che gli sembrasse strano, anzi; alla notizia di una donna scomparsa, anche lui reagiva, più o meno, come chiunque altro cittadino, ovvero immaginava che dietro vi fosse il marito o compagno. Il più delle volte, la donna non veniva mai ritrovata e se ciò avveniva non avrebbe mai potuto dire il nome di chi l’avesse rapita.
Lo sanno tutti, anche i bambini: i morti non parlano.
Sebastian spense il televisore alla vista della sua figura sullo schermo, sul viso un’espressione confusa. Un agente gli aveva proposto di coprire il viso di fronte ai giornalisti, ma lui aveva categoricamente rifiutato. Non c’era alcun bisogno di nascondersi, lui non aveva nulla da mascherare. Pensava che i media non si sarebbero poi concentrati così tanto su di lui, almeno non subito. Avrebbero potuto gettare gettargli del fango addosso, questo sì, ma non credeva che sarebbe successo ciò che in quello stesso momento viveva.
Non gli avevano nemmeno dato il tempo di far passare un’altra notte, che alcune orde di giornalisti si erano accalcati alla sua porta.
Avevano scavato sulla sua vita, scoprendo che era un musicista in erba, e addirittura vi era stato chi lo avesse accusato di aver nascosto- o ucciso- la compagna per raggiungere la notorietà, il suo attimo di gloria.
Se pensava di aver sentito tutto e di più sul suo conto, la gente riusciva sempre a sorprenderlo.
Il telecomando gli scivolò di mano, ma Sebastian quasi non se ne accorse. Cadde sulla poltrona del soggiorno e socchiuse gli occhi.
Sapeva che, a pochi metri dalla porta dell’appartamento, due agenti della polizia sorvegliavano i dintorni. Sapeva anche che se si fosse sporto alla finestra qualcuno avrebbe potuto osservarlo.
Ma soprattutto sapeva che se  avesse chiamato il nome di Cecilia non avrebbe ricevuto alcuna risposta.
«Faremo tutto il possibile per ritrovare la sua compagna» gli aveva detto l’agente Di Francesco e Sebastian gli credeva. Sì, avrebbero fatto tutto il possibile per trovarla e riportarla a casa; il punto era se lei sarebbe tornata con le proprie gambe o all’interno di una sacca nera, una mano guantata di bianco che chiudeva la cerniera.
Per quanto potesse essere pessimista, qualcosa nel profondo di sé gli diceva che quella mano avrebbe chiuso la cerniera di un sacco contenente un’altra persona, non Cecilia. Cecilia non avrebbe fatto quella fine.
«Prenderemo quel figlio di puttana, glielo garantisco» aveva continuato Di Francesco.
Già, Ade.
Ovviamente, la notizia della strana lettera era trapelata e i mass media avevano già iniziato a ruotare intorno al mito collegato con il caso. Era sorprendente la velocità con cui certe notizie venivano diffuse. Solo allora, Sebastian aveva ricordato il finale della storia.
Commossa dalla musica di Orfeo, Persefone era riuscita a convincere il dio degli inferi a far discendere l’innamorato nel regno dell’oltretomba e ricondurre la sua amata tra i vivi. Una sola condizione: non avrebbe potuto voltarsi a guardare Euridice, altrimenti quest’ultima sarebbe stata inghiottita di nuovo dall’oscurità. Nessuna seconda possibilità concessa.
Così, Orfeo aveva intrapreso quel percorso e guidato Euridice verso la luce ma, a pochi passi dalla fine, preso da un irresistibile impulso, si era voltato a guardarla.
Sebastian si sentì mancare il fiato al pensiero di vedere Cecilia venire trascinata nel buio, tra i sussurri dei morti.
 
Il giorno precedente Cecilia non gli aveva rivolto la parola. Lo stesso si era ripetuto nelle ultime ore. Silenzio. Neanche il cenno di un lamento, la supplica di ricondurla a casa. Niente, solo lo sguardo truce che gli rivolgeva ogni volta che le portava da mangiare.
Khalid avrebbe preferito qualsiasi cosa, tutto tranne quel silenzio.
Cecilia usciva dalla sua stanza solo per andare in bagno, dove l’unica finestra veniva accuratamente sigillata ogni volta che era lui ad uscire dalla toilette.
Era stato costretto ad usare quei mezzi, non poteva farci nulla.
Perché lei non ricordava?
Perché non riusciva a capire?
Erano da poco passate le quattro del pomeriggio, lei si trovava lì da più di quarantotto ore, e la porta della camera in cui dormiva era chiusa. Se fosse riuscita a trovare la chiave, Khalid era sicuro che lei avrebbe provveduto a serrarla completamente. Una particolare serratura all’esterno non permetteva alla finestra della camera di aprirsi, a meno che non fosse lui a deciderlo, munito dell’apposita chiave. Faceva ventilare l’aria all’interno solo quando avesse avuto il pieno controllo su Cecilia, la quale normalmente rimaneva distesa sul fianco, fingendo di dormire.
Di certo, quella non era una situazione in cui si trovasse a suo piacimento, ma non aveva avuto scelta.
Una volta, Khalid era stato colui che salvava delle vite, non le rendeva un inferno. Aveva salvato tutte le vite che avevano avuto bisogno del suo aiuto. Tutte, tranne una.
Suo padre avrebbe detto che quello era un successo, che un solo caso su mille non poteva essere considerato una sconfitta, ma gli ambienti in cui lavoravano non erano gli stessi e il padre non avrebbe mai avuto modo di confrontarsi con casi simili a quelli a cui lui aveva assistito. L’abisso che li divideva era troppo profondo, ormai impossibile da rimarginare.
Khalid riempì un bicchiere d’acqua e bevve tutto d’un sorso, poi appoggiò il bicchiere sul lavandino. Rimase a fissare un punto imprecisato sul pavimento, pensando a cosa fare.
Finché non gli venne un’idea.
 
Cecilia era in procinto di addormentarsi quando sentì un frusciare in prossimità della porta. Si alzò dal letto, avvertendo subito i muscoli indeboliti contrarsi, e lanciò uno sguardo quasi di sfida alla finestra.
Aveva provato tre volte ad aprirla senza ottenere risultato, fino a che non aveva capito che poteva essere aperta solo dall’esterno con una chiave apposita. Il bastardo aveva programmato tutto fin nei minimi dettagli, addirittura installando una serratura speciale in modo che lei non riuscisse a scappare. In suo possesso era, inoltre, la chiave della camera e forse la chiave di tutte le porte.
Da quanto tempo progettava di tenere in ostaggio qualcuno?
Lei era stata, fin dall’inizio, la sua vittima designata?
Arrivò di fronte l’ingresso della stanza, il dolore alla caviglia ormai lieve, e si rese conto che il fruscio che aveva sentito non arrivava da qualche parte vicino alla porta, ma sotto. Un foglio bianco sporgeva dai pochi centimetri tra il legno e il pavimento.
Cecilia si sedette sulle mattonelle e raccolse il foglio bianco a righe, in cui vi era scritta a penna questa frase: Parlami di te.
Cecilia corrugò la fronte. Prima che potesse chiedersi cosa il suo aguzzino intendesse fare, da sotto la porta venne passata una penna blu. A quanto pareva, il tipo credeva che lei gli avrebbe risposto. Perché non stare al gioco?
Che cosa vuoi sapere? scrisse velocemente prima di far scivolare foglio e penna oltre la stanza.
La risposta tardò qualche secondo ad arrivare.
Che lavoro fai?
Cecilia indugiò prima di scrivere.
Perché vuoi saperlo?
Dall’altra parte, l’uomo scribacchiò queste parole: Sono un tipo curioso.
Leggendo la risposta, lei si chiese se davvero non lo sapesse. Anche se ciò avrebbe spiegato la sensazione di sentirsi spiata che aveva avvertito prima di essere stata rapita, forse non era vera la supposizione che lui la stesse spiando già da un bel po’. O, magari, stava semplicemente fingendo di non sapere quale lavoro facesse.
L’insegnante, scrisse senza specificare nulla.
Alle elementari?
Cecilia si morse il labbro. Non doveva essere una coincidenza che lui le avesse proprio chiesto se insegnava ai bambini e non ai liceali, giusto?
Sì. Rimase con la penna a mezz’aria, indecisa se aggiungere qualcosa. Alla fine, cedette alla tentazione. E tu? Hai un lavoro?
La domanda doveva averlo sorpreso, poiché aspettò a lungo prima di trascinare il foglio dall’altra parte. Per un attimo, Cecilia credette che si fosse già stancato del suo stesso gioco e appoggiò l’orecchio al legno per captare rumori di passi.
Alla fine, la risposta arrivò. Ce l’avevo.
Sei stato licenziato?
Non proprio.
Cecilia guardò il foglio, poi scrisse semplicemente un punto interrogativo vicino all’ultima affermazione di lui.
Khalid rispose: Diciamo che sono stato io stesso ad essermi licenziato.
Che lavoro era?
Non ha importanza.
Cecilia lesse la risposta, senza sapere che altro aggiungere, se usare un tono tagliente o meno, quando il foglio venne trascinato di nuovo da dove era venuto. Che cosa ti piace fare? le domandò Khalid e lei glielo scrisse.
Scrisse che le piaceva dipingere, allora lui le chiese quali fossero i suoi oggetti preferiti da rappresentare, su che tipo di tela disegnasse, che tipo di pennelli prediligesse. Si scambiarono opinioni riguardo i propri gusti cinematografici, letterali e musicali.
Khalid rimase sorpreso nello scoprire che a lei piacessero la musica metal e i romanzi horror, ma in alcuni punti si trovarono d’accordo. Fu costretto a prendere un altro foglio, poiché l’altro aveva esaurito lo spazio su cui era possibile scrivere. Dialogarono in questo modo per ore, quasi senza accorgersi del tempo che passava. Più volte Khalid percepì l’indugio di lei nel continuare e capì che in quei momenti lei stava pensando a tutt’altro; immaginò la mente di Cecilia vagare tra i ricordi, magari vissuti con il suo compagno, ricordi sollevati da un argomento che stavano affrontando.
In quei momenti, lui rimaneva in ascolto dietro la porta, aspettando tutto il tempo che lei ritenesse necessario, chiedendosi se fosse il caso di smetterla. Tuttavia, alla fine, la pagina tornava sempre indietro e una nuova scritta occupava il posto sotto a quella precedente.
Ad un certo punto, mentre lui stava aspettando una risposta, la porta della stanza si aprì. Khalid alzò gli occhi e vide Cecilia con il foglio in una mano e la penna in un’altra, gli occhi leggermente arrossati.
«Ho fame» disse lei, la voce fioca di chi non parla da molto tempo.
Lui si alzò, arrivando a superarla di almeno dieci centimetri. Fuori, il cielo cominciava ad imbrunirsi e l’ora di cena doveva essere vicina.
Khalid le sorrise e quando lei ricambiò con un sorriso appena accennato capì che nulla era ancora perduto, tutto si sarebbe potuto sistemare.
In qualche modo, era riuscito ad avvicinarsi a lei. 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7. Apnea ***


CAPITOLO 7. Apnea
 
 
 
L’auto dell’agente Di Francesco percorreva lenta la strada verso l’aeroporto di Roma. Si trattava di un viaggio di più di due ore e l’uomo si era offerto di accompagnarlo con la sua stessa macchina, a detta sua, per due diverse ragioni. Sebastian non voleva che Grazia, la madre di Cecilia, venisse scortata da qualche poliziotto; doveva essere lui la prima persona che doveva vedere. Per questo, Di Francesco si era preso il compito di guidare fino a Roma, certo che Sebastian non avrebbe potuto affrontare da solo quel viaggio. Di prendere posto al volante di una macchina, per lui, non si parlava proprio.
Ovviamente questo era solo il primo motivo, il motivo di facciata, per cui si trovava seduto sui sedili anteriori dell’auto di un estraneo.
A Sebastian non erano sfuggite le occhiate dell’agente dallo specchietto retrovisore.
Ogni tanto, però, gli era sembrato che quelle occhiate trasmettessero più compassione che altro. Era come se l’uomo e l’agente di polizia stessero combattendo all’interno di una stessa persona.
«Siamo quasi arrivati» disse Di Francesco rompendo il silenzio creatosi da più di un’ora, forse da un secolo. A Sebastian non importava quanto tempo fosse passato dal momento in  cui era salito su quel veicolo, né se fossero vicini o meno. Quando appoggiò la fronte sul vetro del finestrino non stava pensando a cosa avrebbe detto a Grazia, né alle sue reazioni, né al suo sguardo perso quando la polizia le avesse spiegato la situazione. Ovviamente, la donna era già a conoscenza dei dettagli- come non esserlo? Dopo tutto il gran dire nei giornali e in televisione?- ma sentire certe cose uscire dalle labbra di poliziotti era un’altra storia.
Non pensò nemmeno a quegli ultimi nove giorni, nove giorni senza la presenza di Cecilia nel loro appartamento, il calore del suo corpo dopo aver fatto l’amore, la sua voce dall’altra parte della stanza.
Chiuse gli occhi sotto lo sguardo pressante dell’uomo che lo stava scortando, fingendo di essersi assopito. Respirò a fondo e nell’attimo in cui i suoi polmoni si riempirono d’aria si ritrovò in un altro luogo, diverso da quell’auto impregnata del suo sudore, di finta empatia e finti sguardi di accusa.
 
Cecilia era appena tornata a casa dopo la spesa. Quel giorno era toccato a lei rifocillare il frigorifero, quasi sempre vuoto.
Sebastian era in cucina e stava affettando dei pomodori per la cena. Si era voltato a guardarla, sorridendo, e subito si era accorto che lei, durante quelle ore da quando era uscita da scuola, doveva aver fatto di tutto tranne che andare al supermercato. Aveva alzato lo sguardo cercando quello di lei, invano, e subito aveva capito che avrebbe fatto meglio a non porle alcuna domanda.
Cecilia si era girata di scatto, dandogli le spalle, e aveva lanciato la sua borsa a tracolla per terra. Lui aveva immaginato i quaderni dei suoi alunni bisognosi sussultare dentro quella sacca.
Aveva avuto una giornata vuota, passata alla ricerca infruttuosa di un qualche lavoro, ed era stanco, ma guardandola aveva immaginato che a lei doveva essere andata peggio. Abbandonati i pomodori, l’unico prodotto commestibile in tutta casa, le si era avvicinato, prendendola per le spalle.
«Lasciami» aveva sbottato lei scrollando le sue mani di dosso.
Cecilia aveva camminato lungo il perimetro di casa, senza fermarsi un secondo. Sebastian l’aveva lasciata fare, consapevole che in quei casi era meglio non pressarla troppo. Non aveva bisogno di litigare, aveva bisogno di essere ascoltata e in seguito capita.
Non c’era voluto molto perché lei svuotasse il sacco.
Si era scostata i capelli dal volto, mostrando tutto il mascara colato sulle guance e aveva iniziato a parlare.
«Capisci che non è giusto?» aveva iniziato. Sebastian aveva risposto di sì con la testa.
«Tutto questo è sbagliato! Lui non si è mai mostrato violento con nessuno. È un bambino socievole e anche molto intelligente. Capisci?»
Nella mente di Sebastian si era formata l’immagine di un bambino dal viso paffuto, gli occhiali e lo sguardo che non mutava mai, come se fosse privo di espressione. Gli era capitato di vederlo qualche volta e sapeva che era l’alunno preferito di Cecilia. Giacomo era il suo nome, e Giacomo era un bambino affetto dalla sindrome di Down.
Giacomo era il figlio che loro non avevano mai avuto.
«Sì, capisco.»
«Loro non dovevano fargli questo. I bambini sanno essere così cattivi...»
«Lo so.»
«Non è giusto.»
Sebastian era riuscito a fermarla, placcandola in qualche modo, e con calma si era fatto spiegare cos’era successo.
Stanchi delle continue provocazioni dei compagni di classe, alla fine i genitori dei bambini avevano ceduto, ascoltando il consiglio delle maestre, e avevano preso la decisione di trasferire Giacomino in un istituto per bambini bisognosi.
Tutto ciò per cui Cecilia aveva lottato era crollato. Era stato come se avessero mandato in frantumi anni della sua vita.
Non avrebbe più rivisto il sorriso del suo alunno preferito, quel sorriso infantile, il sorriso di un bambino di sette anni, un bambino fatto di carne, dotato di un cervello perfettamente funzionante e un cuore. A volte Cecilia si era chiesta se quei bambini, i bambini normali, i loro genitori e le loro insegnanti sapessero cosa significasse avere un cuore.
Sebastian aveva cullato tra le sue braccia una Cecilia scossa dai singulti e anche lui aveva pianto. Aveva pianto perché il dolore di lei era diventato suo, perché anche lui aveva visto il sorriso di quel bambino.
In cucina, quella sera nessuno aveva toccato nulla.
Quella notte non c’era stato il tempo per fare l’amore.
 
«Siamo arrivati.» Di Francesco si voltò nella sua direzione. «Sebastian, stai bene?»
Sebastian fece cenno di sì. L’agente si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «Le ho dato del tu. Spero non Le dispiaccia.»
«Non c’è problema. Mi dia pure del tu, vista la situazione...»
Di Francesco annuì sovrappensiero. «Già. Allora sentiti in dovere di fare lo stesso con me.»
Sebastian annuì. Forse lo avrebbe fatto, forse no. Quel patto non stipulato avrebbe offerto troppe opportunità ad entrambi, e soprattutto troppa fiducia.
E nessuno dei due ne disponeva così tanta.
Tacitamente, senza che nessuno dei due aggiungesse dell’altro, scesero dall’auto e nel momento esatto in cui misero piede per terra entrambi seppero che avrebbero dovuto spalleggiarsi a vicenda.
Una donna li aspettava all’interno dell’aeroporto, una donna bisognosa di risposte. Il compito che si erano prefissi di adempiere, di certo, non era dei più facili.
 
La mattina dopo la loro prima ufficiale conversazione, Cecilia aveva trovato sul letto su cui dormiva una tela e dei pennelli.
Ogni giorno, al suo risveglio c’era ad attenderla qualcosa di nuovo.
Qualsiasi cosa chiedeva, Khalid usciva a comprargliela. Una volta lui si era dimenticato di chiudere a chiave la porta d’ingresso, ma al suo ritorno aveva trovato Cecilia mezza addormentata sul divano in soggiorno, le cuffie dell’mp3 che le aveva regalato alle orecchie. Il pensiero di fuggire, ormai, non occupava più la mente di lei, ma durante i pasti c’era sempre un velo a creare le distanze tra loro.
La sorprendeva spesso a guardare il vuoto, pensando all’uomo che l’aspettava a casa, e c’erano volte in cui era lui stesso, Khalid, l’oggetto del suo sguardo. Lo guardava con occhi accusatori, forse senza neanche rendersene conto, mettendolo sorprendentemente a disagio.
Non poteva biasimarla.
Finché non avesse ricordato, quegli sguardi non se ne sarebbero andati.
Da parte suo, lui stava facendo tutto il possibile per trovare il modo di riportarla alla sua vita.
Una mattina, si era recato nell’edificio dove lei viveva, osservando dei possibili sospetti, facendo domande al portinaio. Aveva cercato in tutti i modi di non sembrare indiscreto, fingendosi un turista curioso.
Ho sentito dire di una ragazza scomparsa da queste parti. Lei sa dirmi di cosa si tratta?
Ovviamente, non era riuscito a cavare nulla di buono dalle sue risposte. Doveva andare a scavare più a fondo, ma aveva paura di scoprirsi troppo.
Anche se gli era sembrata la scelta più giusta, aveva sbagliato fin dall’inizio. Tuttavia, era sicuro che chi stesse cercando non si sarebbe arreso tanto semplicemente.
Khalid aveva letto i giornali, saputo della lettera indirizzata al commissariato di polizia e la confusione lo aveva assalito. Cosa poteva significare? Perché mai quell’uomo- chiunque egli fosse- avrebbe dovuto fare una cosa del genere?
Si era sentito crescere l’ansia dentro e al solo leggere delle condizioni in cui era stato ritrovato l’appartamento gli era venuta la pelle d’oca.
Tra i quotidiani non mancavano le foto del compagno di lei. Nelle sue perlustrazioni, Khalid non si era mai imbattuto in lui, ma mentre lo guardava immortalato dalla macchina fotografica di un giornalista poco discreto era stato come se lo avesse già visto. Addirittura conosciuto.
La porta della camera di Cecilia si aprì ma lui non si voltò a guardarla. Udì quella del bagno chiudersi e aspettò di sentire il rumore dello sciacquone. A quel punto, lei sarebbe uscita dal bagno e, o gli avrebbe rivolto parola, o se ne sarebbe stata per conto suo.
Dopo poco, fu chiaro che aveva scelto la prima opzione. Khalid avvertì la presenza di lei a pochi passi da sé, nella zona cucina. Cecilia non accennò a dire parola.
«Come sta andando il disegno?» chiese lui, rompendo il ghiaccio.
A quanto ricordava, lei aveva da poco finito il volto di un bambino. «È a buon punto» rispose lei, laconica.
«Prima o poi mi dirai chi rappresenta?»
La risposta di lei tardò di qualche secondo ad arrivare. Khalid sentì tutto il peso del suo sguardo addosso. «Non penso» disse Cecilia alla fine.
Rimasero in silenzio per un paio di minuti, entrambi a disagio, finché lei disse: «Credo che andrò a fare un bagno.»
Khalid posò il coltello con il quale stava affettando del prosciutto e solo allora si girò a guardarla, proprio nel mentre in cui si stava alzando. Cecilia indossava degli abiti che lui aveva accuratamente scelto su misura per lei e che mai avrebbe pensato le sarebbero stati così bene; dei semplici jeans scuri le fasciavano gambe e fianchi e un maglione a girocollo le evidenziava il seno. Anche senza trucco, quella ragazza avrebbe sfigurato diverse bellezza della tivù.
Khalid rimase con le parole a mezz’aria, incapace di emettere alcun suono. Infine, riuscì a dire: «Se vuoi ti preparo l’acqua calda.»
«Non ce n’è bisogno» provò a replicare lei, ma lui si era già avviato verso il bagno.
«Resta qui. Faccio io.»
 
Il bagnoschiuma che lui aveva comprato apposta per lei sapeva di camomilla. Cecilia ne fece cadere un po’ nella vasca ricolma d’acqua prima di immergersi.
Infilò un piede nel liquido e provò una leggera fitta a contatto con l’acqua calda. Quando vi affondò con tutto il corpo la fitta divenne sicuramente di piacere.
La temperatura era perfetta.
Si abbandonò contro il poggiatesta della vasca e chiuse gli occhi, senza pensare a nulla. Né a Sebastian, né all’uomo che stava preparando la cena per lei e per sé a qualche metro di distanza, oltre quella parte.
Non aveva mentito a Khalid quando gli aveva detto che il suo dipinto stava venendo bene. Si sentiva quasi soddisfatta del suo lavoro, nonostante quel ritratto portasse alla mente ricordi dolorosi da ricordare.
Si lasciò cullare dal movimento fluido dell’acqua e ben presto la stanchezza la assalì. Fu come se non si trovasse nemmeno più in quel luogo, non in questa Terra, non in questa epoca, ma fosse trasportata in un continuum spazio-temporale di cui lei aveva trovato l’accesso. Fu galleggiare, sospesa sul pelo dell’acqua, poi trasportata verso il fondo, come in apnea.
 
Khalid finì di apparecchiare la tavola per la cena. Guardò l’orologio appeso alla parete, in attesa che lei uscisse dalla vasca. Erano passati più di venti minuti quando lui iniziò a preoccuparsi.
Si avvicinò alla porta del bagno e vi bussò piano. «Cecilia, è pronto» disse. Quando non ottenne risposta, chiamò il suo nome. «Cecilia?»
Nulla. Neanche il più piccolo rumore.
«Cecilia?» provò di nuovo, fallendo anche questa volta.
Sapeva che la porta era chiusa a chiave- quella era l’unica stanza della casa in cui le permetteva di chiudervisi dentro- ma provò comunque ad aprirla. «Cecilia?»
Si disse che probabilmente si era addormentata, ed era per questo che non gli rispondeva. Eppure, qualcosa nel suo subconscio lo mise in allarme, costringendo a colpire con la spalla la porta, più forte che poteva. Dovette faticare non poco prima che la serratura venisse distrutta e quando vi riuscì cadde a terra sul pavimento bagnato dall’acqua che era strabordata dalla vasca.
Quel dettaglio contribuì ad aumentare la sua preoccupazione.
Si alzò, quasi timoroso di vedere ciò che si aspettava, quasi volesse negare ciò che gli si presentò davanti; eppure lei era lì, sott’acqua, il volto pallido e le labbra viola.
La tirò su per le spalle, cominciando subito a scuoterla, ignorando i suoi seni e il suo corpo nudi. Provò ad estrarla dalla vasca, ma fu inutile.
Nonostante la temperatura tiepida dell’acqua, lei era fredda, fredda come mai avrebbe potuto essere, e le sue labbra... Le sue labbra erano più viola come mai qualsiasi rossetto al mondo avrebbe potuto farle diventare.
«Cecilia!» gridò, come se gridare il suo nome potesse farle aprire gli occhi e farla respirare.
Con tutte le energie che possedeva, le aprì la bocca, adagiandole delicatamente la testa contro la dura vasca. Premette le labbra contro quelle di lei e buttò tutta l’aria nei polmoni. Quindi, appoggiò entrambe le mani su un seno, eseguendo il massaggio cardiaco che tante volte aveva dovuto compiere. Le percentuali di ripresa in un suo paziente erano state poche, ma questa volta era diverso. Questa volta doveva farcela.
L’operazione durò un minuto intero, ma finalmente Cecilia mostrò cenni di ripresa. Il suo corpo ebbe un fremito, fu costretta rigettare una consistenze quantità d’acqua dai polmoni, tossì così forte che quasi sentì quei due organi infiammarsi.
Consapevole di aver ormai passato il pericolo, Khalid si alzò e recuperò l’asciugamano di lei. Glielo appoggiò sulle spalle mentre ancora lei tossiva, quindi l’aiutò ad alzarsi e a coprirsi il corpo.
«Mi sono addormentata» disse lei quando ritrovò voce. «Io... io mi sono addormentata.»
Lo sguardo che Khalid le rivolse, tuttavia, le fece intendere che a suo parere non era andata così.
 
Dopo essersi assicurato che lei fosse in grado di vestirsi da sola, Khalid era tornato in cucina e aveva iniziato a camminare avanti e indietro per un po’, prima di decidersi a sedersi sul divano in soggiorno. Si coprì il viso con le mani, lo shock che lentamente scivolava dal suo corpo.
Aveva sbagliato tutto, tutto.
Forse era davvero lui l’uomo da cui lei avrebbe dovuto scappare.
Le aveva rovinato la vita in modo tale da pensare che, per lei, sarebbe stato meglio non averla più, questa vita.
Era davvero diventato l’uomo che uccideva altre persone? Era davvero così diverso dagli uomini con in mano i fucili che, una volta, aveva cercato così disperatamente di combattere?
Dagli occhi cominciarono a scorrere lacrime, le lacrime più salate che le sue guance avessero mai incontrato.
Tutta la sua vita si era ridotto a questo: essere l’aguzzino di una donna innocente.
Khalid non si accorse che lei era arrivata alle sue spalle, finché non parlò: «Mi dispiace.» Lui sussultò al suono della sua voce e si voltò dalla sua parte, consapevole delle lacrime che gli rigavano il volto.
Le labbra di lei erano tornate di un colorito normale, ma lui in quel momento vide solo il viola. «So a cosa stai pensando» disse Cecilia, sedendosi sul bracciolo del divano, ad un braccio di distanza da lui. «Ma non è andata così. Ti prego di credermi. Mi sono addormentata.» Vide dai suoi occhi che lui non le credeva, quindi sospirò. Per tutto il tempo, parlò senza guardarlo negli occhi, la testa bassa.
«Quando ero ragazza mio padre perse il lavoro, senza riuscire a trovarne un altro» cominciò. «Eravamo praticamente in bancarotta, vivevamo solamente del necessario. A volte non riuscivo nemmeno ad avere i soldi per andare a scuola. Papà era disperato.» Si fermò qualche secondo prima di riprendere.
«Una mattina, non tornò a pranzo dopo una passeggiata. Mia madre mi disse di restare a casa mentre andava a cercarlo assieme ad altri paesani. Avevo sedici anni. Mentre aspettavo il telefono di casa squillò. Era un carabiniere, ma non lo scoprii subito. Mi chiese dove fosse mio padre, quanti anni avessi... Adesso capisco che cercò di calmarmi, ma allora pensai solo a quanto fossero importune le sue domande. Quando sentii mia madre gridare dall’altra parte del telefono capii. Si era impiccato ad un albero del vecchio cimitero.»
Le parole le uscirono di bocca come un fiume in piena, senza bisogno di fermarsi. «Venni a sapere che mio padre si era suicidato da quella telefonata. Da allora, ci furono diverse occasioni in cui ci pensai anch’io, al suicidio, finché non ho conosciuto Sebastian.» Solo allora, Cecilia incontrò gli occhi di Khalid. «Non farei mai una cosa del genere. Mai» concluse.
Il silenzio che si generò li inghiottì entrambi. Khalid capì che era vero: lei non avrebbe mai fatto una cosa del genere. E lo capì dai suoi occhi, da quegli occhi smeraldo, quegli occhi che nascondevano il dolore della perdita e dell’abbandono.
Non disse nulla, non ce ne fu bisogno. Semplicemente, diede a lei il tempo di ricomporsi e tornare in sé. Quindi si alzò e, senza mostrare il minimo cedimento, le porse la mano e Cecilia accettò il suo aiuto.
«Grazie» disse, trovando finalmente la forza di sollevarsi. 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8. Se mi stendessi qui ti stenderesti con me e dimenticheresti il mondo? ***


CAPITOLO 8. Se mi stendessi qui ti stenderesti con me e dimenticheresti il mondo?
 
 
 
La bambina tende una mano.
Sul cranio, simile a una spaccatura del terreno, l’impronta lasciata da un’ascia. Gli porge qualcosa di rosso, di un colore molto simile al sangue che doveva essere fuoriuscito dalla ferita. È un miracolo che sia ancora viva, se di miracolo si possa parlare. Quale Dio avrebbe mai permesso ad un uomo, creato a Sua immagine e somiglianza, di sfigurare a quel modo una bambina di appena sette anni?
Quale Dio avrebbe mai fatto in modo che la bambina sopravvivesse a quella tortura e portasse per tutta la vita i segni della violenza?
Mentre Khalid la guarda, guarda quel pezzo di stoffa, pensa che i miracoli, su questo mondo, non possano esistere. Che la bambina che gli sta rivolgendo la parola non sia la prova tangibile della bontà di un Dio, ma il frutto della Sua distruzione. Per quante belle parole siano state sprecate per vittime come lei, quella bambina non verrà mai completamente accettata nella società. Non conoscerà mai un uomo in grado di guardare oltre a quell’enorme squarcio sulla sommità della sua testa, non proverà il piacere di condividere il letto con un rappresentate dell’altro sesso. Gli altri la guarderanno tra la sorpresa e la compassione, desiderosi solo di dimenticare la sua immagine il prima possibile.
Sta pensando a tutto questo quando lei apre bocca. Gli dice qualcosa che lui non capisce, non conosce la sua lingua. La sua carnagione deve averla tratta in inganno, ha riconosciuto in lui un suo compatriota, ma Khalid non ha nulla a che fare con quella terra.
Lui non può saperlo, ma gli sta dicendo che, una volta, teneva sempre quel nastro rosso tra i capelli, prima che le fosse imposto il burqa e arrivassero gli uomini con l’ascia. Adesso non ha più bisogno di quel velo perché i capelli sono corti corti e tra poco li taglierà, dice, e mentre lo dice sorride, come se stesse raccontando di quella volta in cui aveva vinto alla gara degli aquiloni.
Khalid non dice nulla, resta in silenzio.  
L’uomo dormiente aspetta che se stesso nel sogno dica qualcosa, ma non lo fa, e il sogno si conclude così.
Non vi furono grida nella notte al suo risveglia, semplicemente si svegliò aprendo gli occhi. A fargli compagnia, il silenzio di quelle inutili parole non dette.
 
Grazia aveva il viso rosso quando entrarono nell’appartamento. Era un dettaglio che, ad un primo momento, era sfuggito a Sebastian (principalmente perché aveva evitato fin da subito di guardarla negli occhi), ma adesso non poteva sfuggire a quello sguardo.
«Così, siamo qui» sospirò la donna, la parte di pelle sotto il mento che andava sempre di più a gonfiarsi.
A Sebastian parve non vi fosse affermazione migliore. Come se, un dopo continuo girovagare, il destino avesse voluto portarli lì a tutti i costi.
«Già, siamo qui.»
Grazia non aveva pianto quando se lo era ritrovato di fronte. Non aveva pianto in macchina, durante il viaggio di ritorno assieme all’agente Di Francesco. Nessuna lacrima aveva percorso le sue guance quando il commissario Poletti le aveva spiegato la situazione, senza tuttavia esporle ulteriori chiarimenti.
Era rimasta impassibile per tutto il tempo. Sebastian si chiese da quanto tempo il suo viso avesse assunto quel colore purpureo. Se quella fosse l’unico segno di smarrimento che la consumava dall’interno.
Rimasero a lungo senza rivolgersi la parola, senza alzare lo sguardo. Poi, una voce fuoriuscì dal nulla, da qualche remoto luogo nella gola della donna. «Devo andare in bagno.»
Sebastian le indicò la direzione con una mano, nonostante Grazia si stesse già dirigendo da quella parte. Sentì i suoi passi percorrere la distanza fino alla porta del bagno e il chiudersi di quest’ultima. Attese i secondi prima di sentire un soffocare sommesso, il lieve rumore delle lacrime in uscita.
Restò in quella posizione a lungo, in piedi nel mezzo del salotto, dondolandosi sui talloni, mentre un rubinetto veniva aperto. L’acqua scorreva lenta e cristallina, finché non scrosciò in piena. Piccole gocce schizzavano sul lavandino, quando...
 
...quando lui aveva infilato una mano sotto il getto.
Cecilia, sdraiata su un fianco, il freddo pavimento sotto di sé, emetteva deboli respiri, la testa contro la parete. Rannicchiata su se stessa, sembrava più minuta che mai.
Sebastian aveva chiuso l’acqua e si inginocchiò di fronte a lei, che guardava dalla sua parte senza però vederlo realmente. Aveva appoggiato il palmo della mano sulla guancia sinistra di Cecilia, sentendola fredda.
A volte accadeva.
Accadeva che si chiudesse in bagno e si sdraiasse sul pavimento. Accadeva che qualcosa le ricordasse la vicenda del padre e, a volte, la sua reazione era quella.
Rimaneva lì sdraiata anche per un’ora intera finché non si decideva ad accettare la sua mano e alzarsi in piedi. Di solito, Sebastian doveva insistere un po’.
Quella volta, tuttavia, non lo fece.
Non le aveva pronunciato nessuna parola confortevole, nessuna supplica uscì dalla sua bocca. Aveva imparato che lei non aveva bisogno di questo.
Cecilia soffriva della sindrome dell’abbandono, sindrome che da quella mattina di più dieci anni prima non se ne era più andata. Aveva bisogno che qualcuno le stesse vicino, senza pretendere che proferisse parola, senza forzarla a fare qualcosa che non voleva fare.
Così, Sebastian si era sdraiato accanto a lei, viso contro viso, occhi contro occhi. E mentre guardava le iridi smeraldi di lei riempirsi di lacrime aveva capito che avrebbe potuto restare disteso in quel luogo tutta la vita, se solo avesse avuto la certezza che lei avrebbe accettato il suo aiuto per sempre.
 
Grazia uscì dal bagno e il ricordo si dissolse con la sua comparsa nella stanza. Come Cecilia sdraiata su quel duro pavimento, anche lei aveva pianto. Così come aveva pianto quattordici anni prima al suicidio del marito.
«Scusami» fece lei, asciugandosi l’angolo dell’occhio con la mano. Rovistò nella borsa che teneva stretta alla spalla in cerca del pacco di fazzoletti. Li trovò quasi subito e, voltandosi dall’altra parte, si soffiò il naso. Quindi, andò a sedersi sulla poltrona, indugiando qualche secondo prima di appoggiare il sedere, come se così facendo stesse commettendo qualche torto nei confronti della figlia.
Sebastian rimase in piedi.
«Raccontami cosa è accaduto» disse la donna, guardandolo forse per la prima volta negli occhi.
Non si riferiva a ciò che era emerso nei giornali, né a quello che le aveva detto Poletti. Voleva un suo chiaro resoconto dei fatti, dall’inizio alla fine.
Con non poca fatica, Sebastian la accontentò.
 
La poesia era stata scritta su un raro esemplare di macchina da scrivere, uno dei pochissimi rimasti in circolazione. Di Francesco non ne ricordava il nome, ma ne aveva vista un’immagine.
Non che fosse un esperto in materia, ma in vita sua non aveva mai avuto modo di osservare un modello vecchio come quello. O almeno, gli era sembrato vecchio.
«Come ti è sembrata?»
Di Francesco alzò gli occhi incontrando lo sguardo del suo capo. Nello stesso attimo, Poletti sputò dai polmoni una grossa quantità di fumo. «La madre della donna? Sincera. Piuttosto scossa, non ha fatto grandi scenate. Pulita, se è questo che intendevi.»
Poletti annuì. «Adesso che la madre è venuta qui, speriamo che non trapeli la notizia del suicidio della ragazza tra i media.»
«Sarebbe davvero inopportuno.»
Un’altra nube di fumo uscì dalla bocca del commissario. «I giornalisti campano con storie del genere. Ti immagini le storie che uscirebbero fuori? Donna finge il proprio rapimento e segue le orme del padre?»
Di Francesco non commentò e il silenzio cadde nell’ufficio. Gli argomenti di cui discutere si erano esauriti.
Nessuna novità dalla scientifica, nessuna traccia di prove nell’appartamento o sul pezzo di foglio.
Nessuna idea su chi potesse essere il presunto Ade.
A questo punto, un segno divino sarebbe parsa l’unica possibilità.
Il rumore delle nocche sulla porta dell’ufficio fece trasalire entrambi i due uomini. «Avanti» fece Poletti, e al suo comando entrò una giovane poliziotta in divisa.
«Signor commissario...» La poliziotta si interruppe improvvisamente, come se non trovasse più la voce per parlare.
«Sì?» la incalzò a proseguire Poletti.
«Signore, è arrivato un pacco per lei» sputò il rospo alla fine. «Si tratta di un’altra lettera.»

*Titolo tratto dal testo Chasing Cars, Snow Patrol

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3248188