Virginea

di MaCk_a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'annuncio ***
Capitolo 2: *** L'incontro ***
Capitolo 3: *** Equivoco ***
Capitolo 4: *** Gli sguardi e l'anello ***
Capitolo 5: *** Delitto e castigo ***
Capitolo 6: *** La verità ***
Capitolo 7: *** Elio e Silvia - parte 1 ***
Capitolo 8: *** Elio e Silvia - Parte 2 ***
Capitolo 9: *** Decisioni ***
Capitolo 10: *** Virginia ***
Capitolo 11: *** 1913 ***
Capitolo 12: *** Valle ***
Capitolo 13: *** Monte Janara ***
Capitolo 14: *** Via ***
Capitolo 15: *** Sette anni dopo ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** L'annuncio ***


Virginia alzò gli occhi verso sua madre.

“Un fidanzato?”

“Ma certo, mia cara”, spiegò sorridendo la signora Gaetani, con una dolcezza che non aveva mai usato prima. “Non sei forse contenta?”.

La ragazza sbatté le palpebre, chiedendosi se fosse umanamente possibile gioire per un matrimonio combinato.
“È un ottimo partito, uno dei migliori sulla piazza”, proseguì giuliva sua madre, camminando avanti e indietro tra le quattro mura, “ed è ovviamente un onore ch’egli voglia unirsi a te”.

La giovane poggiò il libro che stringeva tra le mani sul tavolino in legno accanto alla poltrona e si alzò, turbata. I capelli raccolti in un austero chignon la facevano apparire ancora più alta di quanto già fosse, e l’espressione perplessa che aveva sul viso lo rendeva più magro e pallido dell’usuale.

“E perché mai desidera unirsi a me, se neanche mi conosce?”.

La donna guardò la figlia; sapeva già che avrebbe obiettato. Quella ragazza aveva creato sempre problemi, in ogni circostanza, sin dalla sua nascita; averla era stata una vera maledizione, e sopportarla un’opera di estremo martirio.

“Se leggessi meno sciocchezze, mia cara Virginia, sapresti che un’intima conoscenza non è indispensabile in un matrimonio” disse riacquistando l’abituale freddezza, “ e gioiresti della fortuna che ti sta capitando. Non essere ingrata, bambina! Non hai sempre desiderato lasciarci? Oh, non fare quella faccia, so bene che è così! Ecco, ora ti si offre la concreta occasione di abbandonare questa famiglia che odi tanto; una volta sposata seguirai tuo marito e inizierai una nuova vita, lontano da qui”.

Virginia abbassò gli occhi, imbarazzata da tanta schiettezza. Volse una rapida occhiata alla porta-finestra: attraverso i vetri vedeva il Sole splendere sul loro giardino.

“Non è detto che nel matrimonio io trovi la felicità”.

La baronessa Gaetani sospirò profondamente e ammise, assumendo un’espressione severa, che non aveva davvero idea di cosa potesse rendere felice una persona tanto pretenziosa, cocciuta ed evidentemente viziata.

Degli uccellini si poggiarono sulle lastre in marmo del balcone; nonostante le imposte fossero chiuse, il loro cinguettio era perfettamente udibile. Cosa avrebbe dato quella bella fanciulla per unire il proprio canto al loro! Cosa avrebbe fatto per ottenere la loro libertà!

“Fossi in te non farei tanti capricci, signorina” riprese con calma la baronessa, andando verso il divano, “anche perché tuo padre ha già accettato la proposta, e questa sera stessa incontrerai il tuo futuro marito”.

La ragazza rimaneva immobile. Andrà tutto bene, continuava a ripetersi. Andrà tutto bene, Virginia: stasera lo vedrai e scoprirai che il destino ha voluto farti un regalo; troverai libertà, felicità e amore. Dirai addio al passato e non penserai più alle sofferenze patite. Non ti sentirai più sbagliata. Sarai amata per quello che sei. Sarai amata come meriti.

Parzialmente consolata dalle proprie fantasie tornò ad alzare lo sguardo, e vide che la madre le faceva segno di raggiungerla. Obbedì e le si sedette accanto.

“Ora, bambina, bisogna che il tuo fidanzato ti trovi all’altezza delle sue aspettative; ha detto a tuo padre di aver sentito parlar benissimo di te! Gli hanno riferito che non esiste nella nobiltà locale fanciulla più aggraziata, seria e silenziosa; nessuno ha mai visto creatura più pacata; nessuno potrebbe immaginare persona più compita”.

Virginia deglutì, terrorizzata da quell’infedele ritratto e dalla tranquillità che la madre ostentava nel dipingerlo. Qualsiasi domestico avrebbe potuto garantire che la signorina Gaetani fosse una gran chiacchierona; quando i padroni di casa erano fuori, Virginia correva nelle cucine e raccontava alle cuoche dell’ultimo romanzo che aveva letto; chiedeva con insistenza che le insegnassero a preparare i suoi piatti preferiti e rideva sonoramente alle battute a volte un po’ volgari delle sue “maestre”. Se i genitori non erano in casa, lasciava sciolti i lunghi capelli ricci, si alzava la gonna e correva, scalza, tra i corridoi o, quando possibile, in giardino: lì rincorreva farfalle, cercava di attirare uccellini col canto e danzava con ballerini invisibili. Quando poi Anna, la donna che l’aveva allattata ed era poi rimasta presso la sua famiglia come cuoca, andava a richiamarla, ricordandole che presto i signori sarebbero rientrati, Virginia sospirava; controvoglia andava a lavarsi, si vestiva, imprigionava i riccioli castani, e attendeva i genitori a tavola, assieme ai fratelli maggiori, sperando che un nuovo giorno di libertà potesse arrivare al più presto.

Se qualcuno l’aveva definita pacata, silenziosa e seria, era perché costrizioni e ricatti l’avevano obbligata a mostrarsi così in pubblico. I coniugi Gaetani non avevano mai apprezzato quell’ indole “impudica e selvaggia” che sempre aveva caratterizzato la figlia e, nel tentativo di reprimerla, avevano redatto una serie di regole che Virginia avrebbe dovuto rispettare: i capelli andavano legati, e il corpo coperto: non volevano peccasse di vanità; coltivare la passione della lettura era giusto, ma i libri dovevano essere approvati da loro e cinque ore al giorno sarebbero state dedicate ai testi sacri; correre all’aria aperta come una campagnola era assolutamente vietato; parlare senza essere interrogata, inammissibile; se la danza e la musica le piacevano, com’era evidente, avrebbe avuto dei maestri pronti a indirizzarla in maniera sana verso tale discipline, e le lezioni sarebbero state sorvegliate da un membro della famiglia.

Virginia non avrebbe voluto contrariare i genitori, ma non poteva certo cambiare la sua natura vivace e curiosa, e non era riuscita a obbedire perfettamente: a ogni infrazione, era seguita una severa punizione. A ogni punizione, l’amore di Virginia per i genitori era diminuito, fino a scomparire del tutto.

Aveva quindici anni quando la famiglia aveva deciso di presentarla alla società, e non erano mancate delle calde raccomandazioni: le regole che doveva rispettare in casa valevano il doppio quando era tra la gente, e un’infrazione avrebbe causato una doppia punizione; e poiché Virginia era stata condannata a dieci ore di preghiera ininterrotta per esser stata sorpresa a capelli sciolti dalla madre, a cinque giorni di digiuno dopo esser stata scoperta scalza in giardino, e a una settimana di reclusione nella propria stanza (in assoluta solitudine, senza libri e con poco cibo) per aver osato rimproverare Elio, il maggiore dei suoi fratelli, non fu difficile convincere la ragazza a obbedire.

Per questa ragione, la nobiltà locale la riteneva una specie di suora mancata. E se all’inizio Virginia aveva sperato di trovare consolazione nelle sue uscite, si accorse ben presto che l’ambiente frequentato dalla sua famiglia era falso e malato. Gli uomini guardavano le fanciulle come se fossero merce: sembravano valutarne il valore, che si esprimeva unicamente in dote e bellezza; non interessava loro conoscerle: sarebbe bastato averle. E mentre eseguivano i perversi calcoli, si fingevano candidi, innocenti e disinteressati. Le sue coetanee, poi, erano sciocche, pettegole e cattive, e pensavano unicamente ad arricchirsi, o a mantenere le proprie ricchezze.

Proprio durante uno di questi ricevimenti, a quanto pareva, il suo fidanzato l’aveva notata.

“Madre”, sussurrò la ragazza, tentando di contenere le proprie emozioni, “che senso ha mostrare a quest’uomo una persona che non esiste? Sapete bene che non sono come mi avete descritta; fargli credere il contrario sarebbe un inganno”.

“Cosa dici, Virginia?”, esclamò la madre con finto stupore, “non ti capisco; in mia presenza sei silenziosa e docile, non sempre, è vero, ma solitamente lo sei”

“Lo sono perché voi mi obbligate a esserlo, madre!” sbottò, contrariata. “Conoscete la mia vera natura, sapete che quanto vedete è frutto dei vostri ricatti e non della mia indole; non sarebbe onesto lasciare che quest’uomo mi conosca – che mi conosca davvero - , e capisca così se davvero sia giusto sposarsi?”

La signora Gaetani sorrise. Non si somigliavano, lei e la figlia, in nulla. Non si erano mai somigliate.

“E cosa intendi dire al tuo futuro sposo? Lo inviterai a giocare a nascondino? Gli chiederai di rotolarsi con te nella terra? Gli racconterai di tutte le porcate che fai quando i tuoi genitori sono lontani? Ah, piccola ingenua!”, scoppiò a ridere, “credi che nessuno mi venga a riferire come passi le giornate quando siamo lontani? Credi che i tuoi fratelli non ti sentano quando, di notte, passi le ore a chiacchierare con la tua amica sguattera? Non voglia il cielo che tuo marito scopra le tue stranezze, non ti vorrebbe più! Tu continui a credere che la tua famiglia ti odi, Virginia, ma non è così: la tua famiglia ti ama, e vuole proteggerti: qualunque uomo, una volta scoperta quella che definisci la tua vera indole, ti abbandonerebbe. Vuoi restar sola per tutta la vita? Vuoi che, alla nostra morte, la tua tutela passi a Elio?”.

Virginia rabbrividì. Tutto, ma non dipendere da Elio.

“No, madre. Voglio sposarmi. Voglio dei bambini”.

“Bene”, sorrise lei, e si alzò. “Mi aspetto che ti comporti bene, questa sera”.

La ragazza annuì, e dopo qualche secondo sentì la porta chiudersi. Rimase qualche istante ferma, a riflettere, poi si mosse verso il balcone: gli uccellini erano volati via.

Tornò alla poltrona dove era seduta prima che la madre giungesse, e riprese in mano la sua copia del Romeo e Giulietta di Shakespeare. La guardò, e la gettò contro una parete; ma dopo neanche un minuto si pentì e, piangendo, corse a riprenderla: la strinse tra le braccia, la cullò.

Oh, se avessi anch’io modo di procurarmi un veleno.  

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Capitolo 2
*** L'incontro ***


Per i coniugi Gaetani non era stato semplice scegliere il nome dei propri figli: nome omen, lo sapevano bene, e non si poteva rischiare di assegnare alla progenie un destino infausto; in seguito a lunghe riflessioni, avevano infine deciso di chiamare Elio il loro primogenito; dopo tre anni era arrivato Leonardo e, dopo tre anni ancora, Quirino.

I baroni erano entusiasti dei propri figli e particolarmente lieti della ricorrenza del numero tre: i tre ragazzi, nati a tre anni di distanza l’uno dall’altro, facevano loro ricordare la Santissima Trinità, e il signore e la signora Gaetani speravano che la famiglia non si allargasse ulteriormente; cosa probabile, dato che la baronessa non era più giovanissima.

Quirino era solo un bimbetto quando, durante un giorno d’Estate, aveva guardato con una strana occhiata la madre. “Stai diventando un po’ grassa”, le aveva detto, ed era rimasto sgomento nel constatare che la pancia della sua mamma cresceva sempre più, sempre più! “Prima o poi scoppierà”, pensava, e in effetti accadde: il 28 Gennaio 1893 una bambina vide la luce.

Quirino aveva quattro anni.

La creaturina appena nata aveva privato il numero tre di tutto il suo valore, di tutto il suo significato. La creaturina, sì: era una bambina. E che nome dare a una bambina?

A Elio era stato augurato di risplendere quanto il Sole, a Leonardo di essere forte, coraggioso, un leone; a Quirino di distinguersi tra gli altri, come il Quirinale si era sempre distinto dagli altri colli romani. Inoltre, sicuri che sarebbe nato un altro maschio, i coniugi avevano già scelto il nome Vittorio, che però non sarebbe stato adatto a una donna; l’avrebbe resa ambiziosa.

Un’intera notte di riflessione era servita al barone per fargli prendere una decisione: la bambina avrebbe avuto tre nomi.
 
Virginia,
per indirizzarla verso la castità.
Bianca,
per farle capire che mai e poi mai avrebbe dovuto macchiarsi.
Maria,
per suggerirle una figura da emulare.
 
Crescendo, Virginia non aveva mai capito per quale motivo a lei non fosse stato augurato di vivere nella luce, nel coraggio o nell’unicità. Conservarsi puri era piuttosto un sacrificio.

E se la volevano pura, perché le avevano combinato quel fidanzamento?

“Sorridi, signorinella!” aveva cinguettato Anna, mentre le spazzolava i capelli, “se il tuo futuro marito ti vede così, se ne scappa”.

Se fosse, Anna. Se fosse.

Anche Silvia l’aveva amorevolmente rimproverata, dicendo che non era giusto affliggersi prima di conoscere questo signore, perché forse sarebbe stato bello, e buono, e affabile, e sposarlo sarebbe stato gradevole.

Virginia non si sentiva ottimista a riguardo, ma si sforzò di sorridere: Silvia, figlia di Anna, aveva la sua età ed erano state sorelle di latte; vi era tra loro un sincero affetto, e ognuna riteneva l’altra una preziosa amica. Per la signorina Gaetani, quell’umile cameriera rappresentava in realtà l’unica ascoltatrice e fedele confidente. I baroni sapevano di quella simpatia e non la apprezzavano, ovviamente; tuttavia le due ragazze si rivolgevano parola solo lontano dai loro occhi, e la cosa diminuiva il loro fastidio.

Camminando verso il salone, Virginia non si era sentita molto emozionata; pensava solo che, se fosse dipeso da lei, avrebbe scelto un abito più colorato per presentarsi al futuro sposo, e lasciato sciolti i capelli, anche. Ma nulla dipendeva o sarebbe dipeso mai da lei.

Avvicinandosi alla porta, aveva udito la voce di Elio, e questo l’aveva indisposta: se Quirino e Leonardo l’avevano sempre ignorata, limitandosi a criticarla in sua assenza, Elio si era preoccupato costantemente di vigilarla, sorvegliarla, sgridarla, mortificarla. Se Virginia parlava, lui la rimproverava per la bizzarria e l’irriverenza delle idee espresse; se taceva, le faceva notare quanto irritante fosse quel broncio che ostentava.

E ora Elio era in quella stanza, e parlava col suo fidanzato. E se il suo fidanzato riusciva a parlare con Elio, doveva essere odioso quanto lui.

Varcò la soglia con circospezione, e non poté trattenersi dall’alzare un sopracciglio, stupita, quando vide che l’uomo accanto a suo fratello era molto più bello e giovane di quanto avesse immaginato. I coniugi Gaetani sedevano accanto al camino e sorrisero, quando la videro. Anche Elio e l’ uomo si voltarono.

“Virginia cara! Mia amata sorella!”

La ragazza rimase impietrita, confusa, chiedendosi se il fratello fosse impazzito: Elio le veniva incontro, sorridente, e le poggiava le mani sulle spalle con affetto, spingendola con delicatezza verso il focolare.

L’uomo che li osservava, e che si presentò poi come Francesco De Martino, muoveva gli occhi dall’uno all’altra, curioso.

“Cielo!”, esclamò, “è come vedere la stessa persona!”.

In effetti, Elio e Virginia si somigliavano in maniera impressionante: i ricci castani, le sopracciglia che disegnavano due archi non sottili ma ben definiti, i grandi occhi sempre attenti, il naso delicato, la forma delle labbra: tutto era identico. Mentre però la bellezza a tratti efebica di Elio era ostentata quasi con sfacciataggine, quella di Virginia appariva repressa, costretta dal rigido abbigliamento, dalle rigide pettinature, dal rigido stile di vita; la carnagione diafana la rendeva simile a una bambola di porcellana e, proprio come una bambola di porcellana, aveva l’espressione triste e, a tratti, inquietante e inquietata.

Ma Francesco non era un grande osservatore, e non notò nulla di strano nella fanciulla; la trovò anzi graziosa, bella, compita e, sebbene gli sembrasse che a volte la baronessina fosse timorosa di aprir bocca, piacevole. Virginia, dal canto suo, scoprì in Francesco un ragazzo simpatico e sorridente e si sentì sollevata nell’apprendere che, in realtà, la domanda di fidanzamento non era stata ancora formulata; semplicemente, il ragazzo aveva chiesto il permesso di frequentare quella casa, sperando di potere in seguito proporsi alla fanciulla.
 


“Allora ti piace?”

Silvia pendeva letteralmente dalle labbra di Virginia: era corsa nella sua stanza non appena le luci erano state spente, ma non voleva rimanere troppo: si sentiva fuori luogo, seduta su quel letto a baldacchino, e temeva che qualcuno le sentisse.

Virginia sospirò, pensierosa. “Non che non mi piaccia”, esordì, “ma non credo di conoscerlo abbastanza per giudicare”.

Cosa aveva appreso di lui, in fondo? Quasi nulla: era venuta a conoscenza della sua posizione sociale e delle sue idee politiche, nient’altro. Si era mostrato gradevole nella conversazione e gentile nelle maniere, ma non le sembrava abbastanza per sostenere un matrimonio, e certamente non era abbastanza per far nascere in lei l’Amore; sarebbe stato abbastanza, però, se ella avesse cercato nell’unione coniugale una semplice scusa per abbandonare una volta per tutte la propria famiglia.

E di abbandonare quella famiglia ne aveva voglia, disperatamente.

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Capitolo 3
*** Equivoco ***


Le visite di Francesco proseguivano, sebbene il livello di conoscenza e intimità tra lui e Virginia non variasse affatto: non era mai accaduto loro di trovarsi da soli, e in presenza dei genitori o dei fratelli la ragazza si guardava bene dal mostrarsi troppo loquace; ragion per cui i loro incontri finivano con l’essere momenti di colloquio tra Francesco e i coniugi Gaetani, o tra Francesco ed Elio, e se Virginia era comunque presente fisicamente, la sua mente vagava altrove. Fin da bambina, aveva avuto la tendenza a sedere sulle poltrone più vicine alle finestre, per aver la possibilità di contemplare il paesaggio e aiutare la mente a volar via, oltre le mura di quella casa e i confini di quella città, in un mondo che non aveva nulla di quello reale e fondeva in sé le caratteristiche di tutti i luoghi che Virginia aveva conosciuto tramite i libri letti; in questo mondo la giovane viveva rocambolesche avventure che di logico e plausibile avevano ben poco e spesso, durante le assurde fantasticherie, la fanciulla non poteva fare a meno di sorridere estasiata. E Francesco, che la conosceva poco, fraintendeva i sorrisi, credendo fossero rivolti a lui, o almeno provocati da lui.

La proposta di matrimonio, comunque, non era stata ancora formulata.

“Dev’essere colpa di quella sciocca!” aveva inveito Elio, che nell’ultimo periodo appariva nervoso e suscettibile. “Non apre bocca se non per dargli l’arrivederci, è ovvio che lui non si decida! Deve temere che sposandola si condanni a una vita di silenzio!”

Virginia non aveva alzato gli occhi dal piatto, ma era tranquilla: si passò il tovagliolo sulle labbra e fece segno a un cameriere di versarle l’acqua.

“Credevo che la mia famiglia mi volesse silenziosa”, ammise in tutta sincerità.

“Silenziosa non vuol dire muta!” replicò il fratello, prima che chiunque altro potesse reagire. “Ti reca troppo fastidio partecipare a una conversazione?

Possibile che non esista un argomento in grado di interessarti?”

La ragazza aveva alzato gli occhi. “Evidentemente”.

“Forse dovremmo chiedere alla servitù” aveva ironizzato Elio, sorridendo al padre che sedeva a capotavola, accanto a lui. “Pare che con loro parli, non è che così? Allora, questa rispettabile signorina potrebbe dirci di cosa ami discorrere la nostra cara Virginia?”.

Virginia si era irrigidita. La rispettabile signorina era Silvia, che in quel momento stava servendo a tavola; e Virginia non voleva che Silvia fosse in qualche modo danneggiata a causa sua, né che venisse coinvolta in questioni spiacevoli o imbarazzanti. Dal canto suo, la cameriera non aveva reagito; con i begli occhi chiari rivolti unicamente alle portate, rimaneva in austero silenzio, ma l’apparente tranquillità era stata distrutta quando Elio, insoddisfatto, le aveva afferrato il polso con forza, ricordandole che bisognava sempre rispondere alla domanda di un padrone.

“Elio, lasciala!”

Virginia, sbattendo le mani sulla tavola, si era alzata in piedi. “Sei in collera con me: continua a turbare me, dunque! Non sfogarti su persone che nulla hanno fatto per contrariarti! Vuoi che parli a quell’uomo? Lo farò, se ciò può bastare a concludere questa assurda discussione!”

“Virginia, sei pregata di sederti”, l’aveva esortata il padre con voce pacata ma fredda, e la ragazza aveva obbedito, mentre Elio, un sorriso strafottente sul volto, aveva lasciato il polso di Silvia.

“Dunque, ora sappiamo come incoraggiare il nostro angelo al decoro e all’ubbidienza; è sufficiente minacciare le sue preziose amicizie”.

Quella sera Virginia non aveva risposto ad altre provocazioni, ma l’immagine dell’amica toccata dal fratello l’aveva turbata enormemente e, quando Francesco tornò a farle visita, fece del suo meglio per prestare attenzione a ogni singola parola del ragazzo, sperando che questi affrontasse argomenti meno noiosi del solito. In effetti, il suo futuro sposo (continuava a pensare a lui in questi termini, sebbene ancora non fossero ufficialmente fidanzati) aveva parlato della sua famiglia d’origine, che stando alle sue parole era molto numerosa, e Virginia si ritrovò a provare una sincera curiosità per quella che, forse, sarebbe divenuta anche la sua famiglia. Francesco aveva molti fratelli minori, e il più piccolo di loro aveva poco meno di dieci anni; “mi piacerebbe molto conoscerlo”, aveva quietamente affermato la ragazza, creando nell’uomo un certo stupore: era quasi un privilegio poter udire la voce di quella creatura.

“Lo conoscerai di certo”, le aveva risposto con dolcezza, per poi avventurarsi nella descrizione dettagliata di ogni giovane De Martino, divertendo Virginia con i racconti delle varie marachelle combinate da uno o dall’altro ragazzino.

L’atmosfera era stranamente piacevole: Virginia si stava sentendo, per la prima volta, in affinità con quello che fino ad allora aveva considerato quasi uno sconosciuto; e persino la presenza di Elio la turbava poco, poiché anche questi pareva soddisfatto dal quadretto idilliaco che si era venuto a creare. Poi, però, Francesco aveva concluso il discorso con un “Prego Dio che mi risparmi dall’avere marmocchi come quelli. Non sopporto i bambini”.

Per Virginia era stato un fulmine a ciel sereno.

“Dunque non vorreste avere figli?”

“Sì, certo che ne voglio! Non mi sposerei, altrimenti… ma uno, due al massimo”.

La ragazza aveva sbattuto le palpebre, perplessa e, soprattutto, delusa. Aveva sempre adorato i bambini, e l’idea del matrimonio la allettava soprattutto perché sperava di diventar madre di decine di bambini che avrebbe educato con amore e rispetto, facendoli crescere in assoluta libertà. Come madre, avrebbe dato ai propri figli ciò che sua madre non aveva dato a lei; e la voglia di donare era tanto grande da farle desiderare di avere molti, moltissimi bambini da cullare, coccolare e viziare.

“Io ne vorrei molti, invece”, aveva affermato con sicurezza, rendendosi conto troppo tardi che, forse, sarebbe stato più cortese (e saggio) tacere.

Elio aveva aggrottato le sopracciglia; Francesco, un po’ imbarazzato, abbozzava un sorriso.

“È ovvio che, se la nostra frequentazione proseguirà, uno di noi dovrà cedere”.

… e quella dovrei essere io, pensò Virginia.
 
***
 
“Lasciami immediatamente, Elio!”

Le proteste erano tanto appassionate da spaventare chiunque udisse la voce della ragazza; Anna aveva abbandonato il proprio lavoro per correre a vedere cosa diavolo stesse accadendo, e l’immagine che si era trovata davanti non le era piaciuta affatto: Elio teneva stretto il polso della sorella, e la trascinava con forza lungo il corridoio.

“Signore!”

“Apri le porte della sala, Anna! Questa screanzata avrà quel che si merita!”

Dopo aver gettato una rapida occhiata a Virginia, troppo intenta a cercare di liberarsi per prestarle attenzione, Anna aveva obbedito ad Elio: i coniugi Gaetani erano nella stanza, seduti a un tavolino, occupati l’una a ricamare, l’altro a fumare una pipa. La donna si chinò lievemente prima di lasciar entrare i due fratelli, e si posizionò in un angolo, decisa a proteggere, per quanto possibile, la ragazza.

Il signor Gaetani si era alzato, già stanco. “Posso sapere cosa sta accadendo?”

Elio liberò dalla presa sua sorella, lasciandole sulla pelle candida un’impronta delle proprie dita.

“Questa ragazzina indegna ha turbato il suo pretendente con discorsi ai limiti della decenza; ha rivelato in sua presenza una natura egoista e lussuriosa, e questo mi riempie enormemente di vergogna!”

Anna, come Virginia, aveva in volto un’espressione di puro sgomento. La ragazza era tanto sconvolta da non riuscire a parlare; era abituata a essere accusata ingiustamente, ma di solito le accuse avevano un piccolo fondo di verità; che la si accusasse di lussuria, ora, era assolutamente assurdo, anche perché tutto ciò che poteva riguardare quell’argomento le era completamente ignoto.

“Non hai nulla da dire, Virginia?”

La voce della signora Gaetani aveva risvegliato la fanciulla dall’oblio dei propri pensieri: guardò Elio, contrariata, poi i suoi genitori, poi ancora Elio. “E cosa dovrebbe dire, questa sciagurata?”, aveva aggiunto questi, creando nella ragazza un senso di nausea.

“Come puoi affermare tali sciocchezze?” aveva sussurrato, incredula. “Cos’avrei detto di inappropriato o volgare?”

Elio aveva scrutato nei suoi occhi per qualche istante, in silenzio, ma quando aveva risposto non stava più guardando lei.

“Padre... madre… vostra figlia ha affermato di non veder l’ora di concepire decine e decine di bambini”

I signori Gaetani erano impalliditi, e anche Virginia. “Non è vero!” aveva esclamato, indignata; “non ho detto questo!”

“Madre, dovete credermi!” aveva implorato, sovrastando Elio che continuava ad accusarla, “le mie parole erano diverse! Ho detto di desiderare dei bambini, è vero, ma perché il signor De Martino aveva appena affermato di non volerne! E che senso ha sposare un uomo, se non è intenzionato ad avere una famiglia? E cosa c’è di volgare nel desiderare molti figli?”

Anna, triste, aveva lasciato la stanza. Aveva già visto troppo.

“Anche lui condivide il mio punto di vista, in realtà”, aveva proseguito indicando il fratello, “o si sarebbe già sposato!”

Il barone, a questo punto, era intervenuto, per evitare che la figlia entrasse in un argomento ormai divenuto quasi proibito. “Basta così”, aveva sentenziato. “Credo che effettivamente vi sia stato un malinteso: Virginia non aveva cattive intenzioni”

La ragazza aveva aperto la bocca pronta a ribattere, ma poi si era dovuta fermare, stranita: davvero suo padre l’aveva difesa?

“A volte capita, Elio, che persone con molta esperienza, come te e me, scorgano in ogni frase i significati più nascosti; occorre tuttavia ricordare, figliolo, che al mondo esistono anche persone ingenue come tua sorella. Non parlare, so cosa vuoi dire: non è una fanciulla perfetta, ma è innocente, di questo sono certo. Dimentichiamo tutto: parlerò io con Francesco, se sarà necessario; ma non credo servirà”.
 
*****
 
Quella giornata era stata turbolenta per Virginia, che ora non riusciva a tranquillizzarsi: se da un lato era felice perché il padre le aveva dimostrato una sottospecie di affetto, dall’altra si sentiva turbata da un pensiero che, fino ad allora, non aveva mai accarezzato.

Vivendo in una quasi totale solitudine e conoscendo poco l’universo maschile, la ragazza non aveva riflettuto molto sulle relazioni tra uomini e donne: le era capitato di fantasticare leggendo alcune storie romantiche, ma la sua immaginazione si era sempre limitata agli aspetti platonici dell’amore, tralasciando completamente quelli pratici.

Che esistesse un tipo d’amore detto carnale lo sapeva, ma non sapeva in cosa consistesse esattamente; una volta aveva parlato con una suora, e questa le aveva spiegato che l’unione tra uomo e donna era necessaria ai fini della riproduzione, ma doveva avvenire solo tra persone sposate, e solo per procreare, appunto, o sarebbe stata condannata dalla Chiesa. Ciò che non le aveva spiegato, però, era come avvenisse questa unione.

Essendo una ragazza particolarmente intelligente e istruita, Virginia si era spesso segretamente vergognata di quella sua lacuna e, per consolarsi, si era detta che l’ignoranza in materia non avrebbe recato grossi danni finché fosse stata nubile. Ora, però, la prospettiva di un matrimonio diveniva sempre più vicina, e lei temeva di ritrovarsi ad affrontare situazioni che non era pronta a fronteggiare. Cosa avrebbero fatto, lei e Francesco, la prima notte di nozze? Sarebbero entrati nello stesso letto – questo l’aveva capito – ma, dentro quel letto, cosa sarebbe accaduto?

“Anna, dovrei chiederti una cosa”, sussurrò esitante, mentre la donna le spazzolava i capelli. “Ma non voglio che tu mi fraintenda; non devi ritenermi sfacciata! Vedi, non so a chi rivolgermi, e non… non posso sposarmi se non scopro prima questa cosa…”

Anna si era fermata, e inarcava un sopracciglio.

“Anna, cosa dovremo fare io e Francesco… la notte? Intendo dire, la prima notte di nozze?”

Una sonora risata aveva riempito la stanza, creando malcontento nella ragazza.

“Oh, smettila!” aveva obiettato, “E non farti sentire, o si insospettiranno!”

Anna allora si era asciugata una lacrima e, ancora ridendo e scuotendo la testa, aveva preso posto sul letto della baronessina.

“Che il Signore m’assista! Anche questa mi doveva capitare!”
 


Virginia aveva ascoltato con attenzione le spiegazioni della donna, arrossendo a ogni momento, anche perché Anna non era abituata a usare eufemismi e aveva sottoposto alle orecchie della giovane la descrizione più cruda che potesse esser formulata sul rapporto sessuale.
Quando la cameriera si era interrotta, Virginia le si era avvicinata, andando a prender posto sulle sue gambe: Anna era una donna robusta, e toccarla e abbracciarla era un piacere per lei, come per Silvia: sembrava di affondare in un’immensità di tenerezza

“Ma Anna, è mostruoso… che schifo!” aveva esclamato con sincerità, ridendo. I commenti erano stati molteplici, nessuno entusiasta, per la verità, e Anna aveva appreso (con un po’ di preoccupazione) che davvero quel Francesco De Martino non era riuscito a creare desideri di alcun tipo nella dolce fanciulla.

“Ah, non farai tante storie quando lo vedrai nudo, stanne certa!” aveva sdrammatizzato infine, dando alla ragazzina una pacca sul sedere che la fece ridere ancora.

“Va’ a dormire, ora, e non pensare troppo a quello che farete, o va a finire che tuo fratello ti legge nel pensiero e poi chi se lo sente…”

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Capitolo 4
*** Gli sguardi e l'anello ***


Il barone e la baronessa Gaetani non avevano previsto che Virginia fosse la prima a sposarsi; ormai, però, le visite di Francesco si erano fatte tanto frequenti da render palese la sua buona disposizione alle nozze, e la signora Gaetani capì che la sua ultimogenita, l’unica per cui non era stato contratto un fidanzamento durante l’infanzia, avrebbe presto abbandonato il nido familiare; questo la riempiva di gioia, ma non poteva fare a meno di temere ciò che gli altri avrebbero pensato.

Che Leonardo e Quirino non avessero ancora condotto all’altare le proprie fidanzate era normale, perché queste avevano meno di quindici anni; il problema era Elio.

La promessa sposa di Elio risiedeva in un borgo di montagna, e apparteneva a una famiglia non nobile, ma ricca, influente e molto potente; il suo nome era Emma, aveva diciannove anni e non vi era nulla, in lei, che potesse dispiacere a un uomo. Eppure un problema c’era. Nessuno ne parlava, molti lo ignoravano del tutto, ma Virginia ne era venuta a conoscenza origliando una discussione tra sua madre e suo fratello: il corpo di Emma non aveva mai vissuto un ciclo mestruale, ed Elio non aveva alcuna intenzione di sposare una donna sterile, per cui il matrimonio sarebbe stato rinviato fino a quando la natura non avesse compiuto il suo intervento.

La gente, vedendo il rampollo dei Gaetani ancora celibe nonostante il secolare fidanzamento, immaginò i motivi più assurdi per giustificare il continuo rinvio del matrimonio, e molte nobildonne, vista la posizione e la ricchezza dei Gaetani, speravano di poter proporre le proprie figlie per quel giovane che ormai, a ventotto anni, tanto giovane non era più.

Dal canto suo, Virginia aspettava la proposta di matrimonio solo perché aveva capito che, sposandosi, avrebbe in un certo senso umiliato il fratello… e come avrebbe gioito, se fosse riuscita addirittura ad avere un figlio prima di lui! Quanto ne avrebbe sofferto, Elio! Certo, suo fratello aveva sempre desiderato e incoraggiato le nozze tra lei e Francesco, ma era impossibile non notare quanto ogni discorso riguardante l’eventuale festa nuziale lo turbasse: una volta era persino giunto a incollerirsi con la madre, ricordandole che la proposta non era ancora arrivata, ed era inutile organizzare eventi che esistevano solo nelle loro speranze. Da allora, la signora Gaetani aveva evitato di affrontare l’argomento dinanzi a lui, chiedendo a Virginia di fare lo stesso: richiesta semplice da esaudire, dato che la ragazza quasi non apriva bocca in presenza dei familiari. E poi, i suoi pensieri erano ormai occupati da un solo pensiero: la prima notte di nozze.
*****
 
Virginia aprì gli occhi, ritrovandosi immersa nel buio della camera da letto; aveva fatto di nuovo quel sogno: Francesco la spogliava e, vedendo il suo corpo magro, rideva di lei; tentava poi di avvicinarsi, di darle un bacio, ma Virginia lo schivava e si allontanava, provando a ogni tocco di lui un dolore ustionante.

Sospirò, tentando inutilmente di distinguere qualche forma nell’oscurità, ed esitante, nascosta da strati di coperte, mosse una mano verso il seno.  Sapeva che toccare il proprio corpo era peccato, ma sapeva anche che Francesco l’avrebbe toccato, eccome!, e voleva prepararsi; tuttavia nella sua innocenza non riusciva a spingersi oltre qualche timida carezza ai seni, che le causava sensi di colpa, più che piacere; ben presto riportò dunque la mano sul grembo, giungendola all’altra, e rimase immobile. Da qualche giorno, una settimana o poco più, un nuovo pensiero era entrato nella sua mente e, sebbene la distraesse dalle preoccupazioni riguardanti Francesco, la turbava: Elio guardava Silvia. Se fossero sguardi lussuriosi o meno, Virginia non era in grado di capirlo, ma la guardava, e non era mai successo prima. Innegabilmente Silvia era molto bella, con quei capelli biondi, gli occhi come un cielo sereno, le guance rosee, il corpo prosperoso… ma era sempre stata così, ed Elio la guardava solo ora.

Durante i pasti, Silvia compariva ed Elio alzava lo sguardo dal piatto; se Silvia si trovava a spolverare qualche stanza, Elio finiva casualmente lì; se lei era nelle cucine, lui scendeva a ordinare i piatti da preparare.

Non le rivolgeva mai la parola, ma non le toglieva gli occhi di dosso. E nei suoi sguardi non c’era niente di positivo.

Aveva sentito parlare, Virginia, della tendenza di molti nobili a cercarsi amanti tra le domestiche, e temeva che Elio mirasse a qualcosa del genere: Silvia, però, era fidanzata, e se anche non lo fosse stata non avrebbe acconsentito a fare cose tanto abiette.

La ragazza sospirò, rigirandosi nel letto, e chiuse gli occhi. L’avrebbe messa in guardia, avrebbe detto all’amica di stare attenta.


 
L’occasione si presentò prima del previsto, durante una giornata in cui i baroni Gaetani si erano recati fuori città per delle visite, ed Elio era chiuso nelle sue stanze.

Silvia entrò in camera di Virginia con meno cautela del solito.

“Virginia, sono così contenta che tu mi abbia chiamato! Devi essere la prima a sapere!”

La signorina Gaetani sorrise ma, quando vide ciò che l’amica intendeva mostrarle, capì che sarebbe stato meglio evitare il discorso su Elio: Silvia aveva all’anulare sinistro un anellino d’oro, senza pietra alcuna, ma molto grazioso.

“Ci sposiamo, Virginia! Mario ha detto che appena riesce a mettere da parte un po’ di soldi mi sposa!”

“Oh, cara Silvia!”, la baronessina l’abbracciò, felice, “è meraviglioso!”

“Sì”, rispose l’altra, ricambiando la stretta, “sì. Mi dispiace solo… ah, ma sarebbe accaduto comunque al tuo matrimonio… mi dispiace…”

L’abbraccio si allentò gradualmente.

“Non ha intenzione di rimanere qui, Mario… vuole provare a cercare fortuna… da qualche altra parte”.

Virginia aprì le labbra, senza emettere suono alcuno: aveva una leggerissima fitta al cuore. Silvia era la persona che più amava al mondo, con lei si era sempre confidata, con lei poteva parlare liberamente, con lei poteva essere ciò che era, senza dover fingere; e aveva pensato, in realtà, che dopo il matrimonio con Francesco avrebbe chiesto ai genitori di lasciare che Anna e Silvia la seguissero nella sua nuova dimora. Non aveva calcolato che Mario – che lei non aveva mai incontrato personalmente – potesse avere progetti diversi.

“Sei triste, Virginia?”

La ragazza sbatté le palpebre, e scosse la testa. “E come potrei esserlo, Silvia, quando tu sei felice?”

Non vi furono accenni al dolore della separazione, nei loro discorsi: ognuna tentò di vedere esclusivamente il lato positivo della cosa, e se Virginia promise che, dopo il matrimonio, le avrebbe scritto ogni giorno, Silvia propose di trascorrere al meglio i mesi che le avrebbero viste ancora unite, se unite si potevano definire in quell’amicizia coltivata di nascosto.

Quando si fece ora di tornare nelle cucine, la ragazza si congedò dalla signorina con un altro abbraccio, e lasciò la stanza senza aver udito affatto il nome di Elio.


 
Che Silvia servisse a tavola non era una novità, e nessuno badava a lei, o almeno così era sempre sembrato.

Il signor Gaetani non aveva interrotto il proprio discorso quando gli era stata servita la prima portata della cena, e come lui aveva fatto sua moglie. Elio, invece, che per tradizione era il terzo ad esser servito, aggrottò le sopracciglia in maniera inquietante: chi lo conosceva sapeva che quel gesto fosse presagio di tempesta.

“In passato ti avrebbero tagliato la mano, per ciò che hai fatto”, proruppe.

I genitori si interruppero e lo guardarono, come anche i fratelli e la sorella, chiedendosi con chi stesse parlando; l’unica a proseguire nelle proprie mansioni fu proprio Silvia, che dava per scontato che nessuno le rivolgesse parola.

“Cosa dici, mio caro?” sussurrò la signora Gaetani, alquanto preoccupata.

“Quella sguattera, ha iniziato anche a rubare, ora?”

Gli sguardi si spostarono con rapidità da Elio a Silvia che, a quel punto, capì d’essere l’oggetto della discussione.

La signora Gaetani chiese nuovamente al figlio delle spiegazioni, ed egli ordinò alla povera cameriera di mostrare a tutti l’anello che aveva al dito. “Non credo proprio che abbia i soldi per comprarsene uno”, spiegò, spazientito; “è ovvio che l’ha rubato, a voi, madre… o più probabilmente a Virginia”.

Silvia provò a spiegare da dove provenisse quell’anello, ma nessuno si mostrò interessato ad ascoltarla fino a quando la signora non ebbe appurato che, in effetti, quel “misero anello” non fosse mai appartenuto alla famiglia Gaetani.

“Dunque, paghiamo forse troppo bene i nostri dipendenti, se possono permettersi certi lussi” commentò il barone, facendo arrossire Silvia per l’imbarazzo e Virginia per la rabbia.

“Signore, non ho comprato io quest’anello… mi è stato regalato dal mio… ecco, dal mio fidanzato. Stiamo pensando di sposarci”.

A quel sposarci, nessuno lo notò tranne Virginia, Elio ebbe un sussulto: l’espressione nei suoi occhi si incupì e le labbra presero una piega orribile.

“L’avrei detto, ma ora non so ancora nulla di certo, e perciò… comunque l’avrei detto, perché poi andrò via…”

Quirino sbuffò sonoramente: aveva fame e non capiva perché stessero perdendo tempo con quella ragazza. “Possiamo continuare con la cena? Vi faccio presente che ci sono ancora persone che aspettano d’essere servite”.

Silvia colse l’occasione per trarsi fuori da quel discorso, e servì Leonardo, Quirino, e Virginia che le lanciò un’occhiata complice; poi lasciò la sala in silenzio.

“Avrebbe dovuto avvertirci prima”, sbottò Elio, “dovremo trovare una sostituta, quando lei andrà via... non ha pensato alle noie che ci darà? Questi servi diventano ogni giorno più ingrati…”  

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Capitolo 5
*** Delitto e castigo ***


“Tutto in lui è delizia”.

Silvia, interdetta, abbandonò le pulizie e si voltò verso l’amica.

“Davvero ci sono scritte queste cose?”, domandò, sporgendosi per guardare la pagina. “E com’è che ti permettono di leggerle?”

Virginia sorrise dello sguardo stupito della ragazza, e alzò un sopracciglio. “Perché non lo sanno, quegli ipocriti, cosa c’è scritto in questo libro. Secondo me, non l’hanno neanche mai aperto”, esclamò. Sin da piccina, le era stato imposto di dedicare tre ora giornaliere alla lettura dei testi sacri, e all’inizio la cosa non era risultata pesante: anzi, la baronessina era stata entusiasta di potersi dedicare a un libro antico come la Bibbia, anche perché la religione le piaceva abbastanza e durante le sacre funzioni il suo cuore esultava nell’udire quegli strani racconti in cui i pani si moltiplicavano, i mari si aprivano e gli ammalati guarivano. Tuttavia, leggere sempre le stesse righe, anno dopo anno, l’aveva stancata, e si sarebbe annoiata parecchio se non avesse riscoperto per caso una delle sezioni che da bambina aveva ignorato: il Cantico dei cantici. Dal giorno in cui, aprendo delle pagine a caso, l’aveva trovato, se n’era innamorata perdutamente; e quello, sì, l’avrebbe davvero letto all’infinito, anche se sarebbe stato inutile, perché ormai l’aveva imparato a memoria.

“Comunque sembra bello”, ammise Silvia, tornando a spazzare il pavimento.

Virginia richiuse il pesante volume e se lo poggiò in grembo; gettò un’occhiata all’amica, si guardò intorno e notò che la porta era socchiusa. Si alzò, la serrò completamente facendo attenzione a non farla sbattere, e tornò a sedersi.

“Tu hai paura, Silvia, di quando sarai sola con Mario?”, chiese distrattamente, giocherellando con un ricciolo che era sfuggito dalla pettinatura. Silvia non comprese bene la domanda e rispose di essersi già trovata faccia a faccia col fidanzato, qualche volta, e per quando le fosse sembrato bello non era stato poi un avvenimento tanto sconvolgente; solo quando le fu fatto presente che era di situazioni più “intime” che si parlava, sorrise, imbarazzata dal proprio errore.

“No che non ho paura!”, esclamò sicura, “Perché dovrei, scusa? È una cosa naturale”.

Le stesse parole che aveva usato Anna, pensò Virginia. Eppure lei proprio non ci riusciva a vederla come una cosa naturale.

“Forse tu non hai paura perché ami il tuo fidanzato”.

La baronessina aveva ciglia tanto lunghe che, quando abbassava le palpebre, sembrava che un velo nero le scendesse sugli occhi: e ora Silvia, guardandola, ebbe l’impressione di vedere una di quelle madonnine addolorate che a volte esponevano in chiesa.

“Virginia… non siete ancora fidanzati. Hai tutto il tempo per imparare ad amarlo! E poi… devi approfittare della situazione, sposatelo questo De Martino che tanto male non pare, non farti tanti problemi… è da quando siamo piccole che dici di voler lasciare la tua famiglia e di volere dei bambini… Francesco è utile in questo senso! Soprattutto per la seconda cosa…” aggiunse ridendo. “Secondo me non c’è da aver paura… nessuno farebbe figli, se fosse tanto brutto”.
*****
Il periodo della Quaresima era appena iniziato, quando Francesco disse a Virginia che sarebbe partito per un viaggio di piacere in Francia: sarebbe rimasto fuori dall’Italia fino al mese di Settembre, e promise di scriverle, col consenso dei baroni; disse anche che avrebbe sentito la mancanza della giovane, e che un giorno gli sarebbe piaciuto viaggiare in compagnia di una moglie, e dicendo ciò sorrise.

In seguito, il barone Gaetani confessò alla figlia di aver parlato privatamente col caro Francesco, che aveva espresso chiaramente l’intenzione di sposare la ragazza; il barone aveva dato la sua benedizione, ma per Francesco non bastava: egli intendeva ricevere una risposta dalla diretta interessata, e poiché non gli sembrava intelligente formulare una richiesta di matrimonio il giorno prima della sua partenza, avrebbe aspettato Settembre.

In ogni caso, poiché il consenso di Virginia era sottinteso da lui come dai coniugi Gaetani, i due potevano considerarsi fidanzati, e finalmente parlare di matrimonio divenne lecito.

Virginia era felice di quella specie di riguardo che il fidanzato aveva avuto nei suoi confronti, ma a turbarla ora era Silvia, che inspiegabilmente si faceva sempre più triste e silenziosa. Solo durante la settimana santa si capì perché.

Silvia entrò in camera di Virginia, come aveva fatto spesso in passato, ma non ultimamente; e l’espressione che aveva in volto sembrava suggerire che la sua non fosse una visita di piacere.

“Virginia, io…”

Si fermò, pensierosa. Forse sarebbe stato meglio tacere. Forse era una richiesta troppo audace. Ma il suo matrimonio con Mario non poteva aspettare ancora… dunque prese coraggio, e parlò senza neanche più prender fiato.

“Virginia, io e Mario non abbiamo soldi. Mi vergogno, ma sono costretta a chiederti aiuto. So che non puoi fare chissà cosa, ma… anche un tuo vecchio vestito… vendendolo, riusciremmo a guadagnare qualcosa… perché ecco, Virginia, noi potremmo anche sposarci in realtà, ma se poi non abbiamo i soldi per vivere… e Mario vuole anche spostarsi da qui…”

La camera era molto buia, e Virginia non poté vedere quanto l’altra fosse mortificata; tuttavia lo intuì, e pensò di metter fine a quel supplizio.

“L’assenza di un abito si noterebbe subito. No, Silvia. Troveremo qualcos’altro, qualcosa di meglio”.

Elaborare un piano degno di esser chiamato tale non fu troppo complicato: si decise di metterlo in atto dopo Pasqua e Virginia chiese a Silvia di procurarsi un sacco di tela piuttosto capiente, perché in un’ora tarda della notte, magari tra l’una e le due, si sarebbero recate insieme nella vecchia soffitta del palazzo, che ospitava oggetti vecchi e abbandonati ma certamente di valore; avrebbero portato a Silvia e Mario un bel po’ di soldi, e la loro mancanza non sarebbe stata notata da nessuno, per il semplice fatto che nessuno saliva mai in quella soffitta.

Silvia ritrovò l’allegria, Virginia non si era mai sentita tanto utile: entrambe attendevano con ansia la fatidica notte.

Che arrivò in un batter d’occhio.

Pasqua era passata, e il Lunedì dell’angelo, e anche il martedì. Erano le due di notte e, mentre tutti riposavano, due figure si mossero silenziosamente ma con gioia; Silvia e Virginia, che si erano date appuntamento in uno dei corridoi meno frequentati del palazzo, svoltarono per giungere alle scale che portavano alla soffitta.

Illuminate da una sola candela, trovarono difficile evitare di far rumore, dati i cigolii prodotti dalle vecchie porte di quell’ala, e fu faticoso anche impedirsi di tossire, vista la polvere; tuttavia resistettero.

Silvia aprì il sacco di tela, e Virginia lo riempì di oggetti d’ogni tipo: vecchi soprammobili, candelabri inutilizzati da tempo, portagioie antichi, argenteria ormai fuori moda… cose che avrebbero permesso ai futuri sposi di guadagnare un bel gruzzoletto, senz’altro. Chiusero il sacco ora pesante, lo sollevarono insieme e si prepararono a tornare giù, con la stessa accortezza che avevano usato per salire.

Quando, durante la discesa, Virginia ebbe la sensazione di scorgere una nuova fonte d’illuminazione, seppur fioca, si arrestò; ma servì a poco, poiché la luce avanzava verso di loro, divenendo sempre più intensa.

C’era una cosa che le ragazze ignoravano.

Quando Silvia, prima della Pasqua, aveva chiesto quel “favore” all’amica, qualcuno aveva origliato la conversazione. Qualcuno che aveva pazientato una settimana per coglierle con le mani nel sacco. Qualcuno che, proprio come loro, aveva elaborato un piano preciso e dettagliato, per giungere dritto al proprio scopo.

E quando la candela mostrò il viso di chi la portava in mano, le ragazze si sentirono morire.

“Mia amata sorella, credo tu mi debba delle spiegazioni”.

Virginia sostenne lo sguardo di Elio, ma davvero non sapeva cosa dire; biascicò qualche frase incompleta, dicendo che avrebbe spiegato tutto, ma non riuscendo a trovare neanche una parola per spiegare cosa stessero facendo; e quando Elio domandò cosa ci fosse in quel pesante sacco e, prima ancora di poter ricevere una risposta, lo aprì, fu il panico a suggerire alla ragazza un’idea, seppur non brillante.

“Ascolta, Elio…”, sussurrò, perché non dovevano assolutamente far rumore, i suoi genitori non avrebbero mai dovuto scoprire, “io volevo solo fare un regalo a Silvia… si sposa, andrà via, e io… sai che le voglio bene… sono oggetti che nessuno utilizza da tempo, non valgono niente… era solo per farle un regalo…”

Virginia guardò Silvia, resa muta dallo spavento, poi di nuovo Elio, che guardava con aria scettica il portagioie che era stato della loro nonna, e che aveva certamente gran valore, essendo completamente d’oro.

“Per favore, Elio… non dirlo ai nostri genitori…

Virginia non si era mai rivolta al fratello con tanta dolcezza, né le era mai capitato di chiedergli protezione, e in realtà non credeva che lui l’avrebbe mai aiutata; tuttavia la situazione le era sembrata talmente disperata, e il desiderio di aiutare l’amica era tanto grande, che si sarebbe persino inginocchiata ai piedi del ragazzo.

Elio, dal canto suo, ripose gli oggetti senza far rumore, e guardò la sorella con aria grave.

“Una piccola serpe ingrata come te, che ruba in casa propria, tradendo la propria famiglia, complottando con una serva… osa chiedermi di avere riguardo nei suoi confronti? Cosa avevate intenzione di fare con i soldi guadagnati, sciagurate?”, domandò a voce stranamente bassa, avanzando minacciosamente verso Virginia, “cosa…”

“Per favore, signore, lasciate stare la baronessina!”

Silvia si era aggrappata al braccio dell’uomo, tirandolo verso di lei e allontanandolo dall’altra; lo sguardo che Elio le rivolse le fece capire quanto il gesto fosse stato avventato, e dunque lasciò la presa, ma non smise di parlare.

“La signorina non ha colpe, se non quella di essere troppo buona. Sono stata io a chiederle aiuto… per il mio matrimonio. Ho… ho bisogno di soldi e ho chiesto a lei di aiutarmi. La signorina si è commossa e ha acconsentito, e questo è tutto. So di meritare una punizione, signore, e non mi ribellerò: ma per favore, lasciate stare la baronessina, perché davvero è innocente!”.

“Oh, ma questo cambia tutto”.

Elio conosceva perfettamente la verità sin dall’inizio; ma per raggiungere il suo fine, era stato costretto a fingere il contrario, nella speranza che qualcuno confessasse: e questo accadde.

“Ti prego, Elio, non lo dire ai nostri genitori. Non far licenziare Silvia”. Virginia aveva gli occhi colmi di lacrime, che non riusciva più a contenere, e che non commossero affatto Elio.

“In qualche modo deve pagare”, sostenne, risoluto. “Decideremo insieme come… da soli”.

Virginia esitò, titubante, ma poi abbassò gli occhi e scese un gradino, credendo di dover tornare in camera: ma Elio non voleva ciò. Le afferrò il braccio con prepotenza, prese con l’altra mano il sacco della “refurtiva” e si trascinò così fino alla soffitta. “Così sono sicuro che non sgattaiolerai via”.

La ragazza non gridò né protestò, decisa a non creare scompiglio: si ritrovò chiusa a chiave, sola e al buio. Le ultime parole che udì furono quelle di Silvia che chiedeva ad Elio di lasciare alla ragazza almeno una candela, e la risposta del ragazzo che affermava che, per una strega del genere, l’oscurità non avrebbe certo rappresentato un problema. Ascoltò il rumore lieve dei loro passi, poi fu silenzio assoluto.

Che Elio avesse deciso – almeno così sembrava – di tacere su ciò che aveva visto, era positivo, ma aveva paura di cosa avrebbe fatto per punire Silvia: era già capitato, in passato, che suo fratello decidesse di provvedere personalmente ai castighi destinati ai poveri servitori disobbedienti, e molte volte licenziamenti e “multe” erano stati sostituiti da frustrate tremende… ed Elio non avrebbe risparmiato Silvia perché era una donna, né perché era giovane, né per nessun altro motivo.

Non seppe mai quanto tempo passò tra i vecchi e polverosi bauli, ma quando Elio tornò a liberarla il cielo si era leggermente schiarito.

I due non si rivolsero parola. Scesero le scale in silenzio assoluto, e solo quando giunsero dinnanzi alla camera di lei, la ragazza domandò con preoccupazione se Silvia stesse bene.

“Non l’hai picchiata, Elio, non è vero?” chiese speranzosa.

Il fratello disse solo che Silvia era stata fortunata, e che nessun altro mai se l’era cavata tanto facilmente; “ma sappi che non tollererò altre sciocchezze. Quella ragazza non dovrà mai più rivolgersi a te, per nessun motivo; lo sa, l’ho avvertita. Bada bene, Virginia, neanche uno sguardo sarò disposto a sopportare tra voi: se vi scopro a passare del tempo insieme, racconterò tutto a tutti”.

Virginia abbassò il capo ed entrò nella sua stanza. Tutti, quel giorno, ebbero modo di notare che la fanciulla fosse più malinconica e silenziosa del solito; e anche Silvia, che neanche tentò di spiare il volto della vecchia amica, non era mai apparsa tanto afflitta e lugubre.

Erano gli inizi di Aprile e quel mese trascorse tristemente, come anche Maggio. Poi, ai primi di Giugno, Virginia sospettò che Silvia avesse qualcosa da dirle.   

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Capitolo 6
*** La verità ***


Gli uccellini cinguettavano festosi, il 5 Giugno 1911, e anche Virginia si sentiva felice: i suoi genitori erano partiti quella mattina assieme ad Elio, e per una settimana sarebbe stato Leonardo ad amministrare la casa.
Non si somigliavano, lei e quel fratello: Leonardo aveva i capelli lisci, di un castano chiaro, come Quirino; Quirino, però, era sempre stato malaticcio, - o si era finto tale, nessuno era riuscito a capirlo - e il suo corpo gracile e scarno era triste da vedere; Leonardo, invece, era un ragazzo di grande fascino e, come Elio, aveva fatto breccia nel cuore di parecchie fanciulle; ma, al contrario di Elio, aveva un carattere indubbiamente piacevole.

Alla nascita di Virginia, egli aveva sette anni, età in cui si è poco interessati ai neonati e alle femmine; ragion per cui l’aveva ignorata. Crescendo le cose non erano cambiate di molto, poiché certamente il ragazzo si era reso conto che quella sorella fosse strana e desse anche parecchie noie, ma non l’aveva mai detestata, e questo Virginia l’aveva percepito. Tra l’altro quando, qualche ora dopo l’alba, la carrozza con i coniugi Gaetani aveva lasciato il palazzo, Virginia e il fratello si erano sentiti vicini… vicini nello sconcerto.

“Chissà cosa gli è preso”, aveva commentato Leonardo, e Virginia sapeva bene a chi si riferiva.

Elio ultimamente aveva stupito tutti: non era mai stato tanto allegro, solare e ben disposto; dispensava sorrisi a chiunque – persino alla sorella! – e da mesi pareva esser divenuto il più pacifico degli uomini; quando aveva annunciato poi di voler recarsi a far visita alla fidanzata, assieme ai baroni Gaetani, la famiglia era rimasta di stucco, perché mai Elio si era dimostrato interessato ad Emma; tuttavia quel giovane sembrava cambiato in meglio, e nessuno si sarebbe sognato di indagare sul perché di tanta improvvisa giovialità.

Virginia, dal canto suo, stentava a riconoscere il fratello, ma al momento era fuori di sé dalla contentezza: perché, se Elio non c’era, avrebbe potuto parlare con Silvia – stando attenta a non farsi scoprire da Leonardo, certo, ma Leonardo non aveva interesse alcuno a sorvegliarla come un cane da guardia; e bisognava solo attendere il momento più adatto.

L’occasione non si presentò, come Virginia aveva previsto, perché da tempo ormai Silvia evitava di adempiere mansioni che l’avrebbero troppo “esposta”, limitandosi a stare nelle cucine o a svolgere le faccende domestiche lontana dagli occhi dei suoi padroni, come Elio le aveva ordinato la notte in cui l’aveva scoperta a rubare.


 
Per due giorni Virginia aveva pazientato, dedicandosi alla lettura e rileggendo con scarso interesse le lettere di Francesco che già avevano ricevuto risposta; poi, la terza notte dopo la partenza dei genitori, prese coraggio e si avviò, scalza e in abbigliamento notturno, verso l’ala del palazzo riservata ai servitori.

Non era raro sentire rumori durante la notte, da quelle parti, anzi; in realtà era strano non sentirne, dato che i turni di pulizia mattutini iniziavano presto, e si finiva di lavorare tardi in cucina. Non era insolito udire rumore di passi, o di porte che si aprivano e chiudevano; sarebbe stato strano, invece, sentire qualcuno bussare alla porta, perché la pratica non era diffusa, e Virginia lo sapeva; ragion per cui entrò senza troppi preamboli nella piccola stanza destinata ad Anna e Silvia.

Aveva immaginato di destare stupore, la ragazza, ma furono le altre due a stupire lei: alla debole luce di una candela quasi completamente consumata, Silvia singhiozzava disperatamente, e Anna le era accanto, col viso rigato dalle lacrime e l’espressione arrabbiata; guardarono Virginia, ma quell’apparizione non riuscì a distrarle dal proprio dolore: si limitarono, o meglio, Anna si limitò a trascinarla dentro, per poter subito richiudere la porta. Dovettero passare dei minuti, però, prima che qualcuno riuscisse a proferir parola, e questo qualcuno fu Virginia, che si scusò per esser piombata lì senza preavviso e in un momento evidentemente sbagliato.

“Oh, figuriamoci”, aveva sbottato Anna, asciugandosi la faccia e invitando la figlia a calmarsi, “sapevo che saresti venuta appena si levava di torno quel… quel mascalzone”, biascicò, tentando di contenersi; sospirò, passandosi una mano sulla fronte, ma non riusciva proprio a calmarsi, e lasciò le ragazze sole, raccomandando a Silvia di sfogarsi con l’amica perché ormai nessuno aveva più nulla da perdere, e se c’era qualcuno che poteva aiutarle era proprio la giovane baronessa.

Le parole usate da Virginia furono molte e dolci, ma non fu facile interrompere quel flusso di disperazione che agitava l’amica; solo in seguito a un lungo abbraccio, che cancellò la distanza di quegli ultimi mesi, Silvia si decise ad aprir bocca, per quanto penoso e umiliante le sembrasse.

“Virginia… Mario mi ha lasciata! Non ci sarà più nessun matrimonio, non ci sarà più nulla! E io… io sono rovinata ma di questo non m’importa, ma Mario… io lo amo, Virginia! Io l’ho sempre amato davvero!”

“Ma Silvia… come ha potuto annullare tutto?”

Gli occhi dell’umile fanciulla si rabbuiarono. Virginia non era riuscita a tenere a freno la lingua e ora parlava in termini poco cordiali di quel giovane, dicendo che un comportamento del genere era davvero disdicevole, che non era possibile abbandonare una donna dopo averla chiesta in matrimonio, che non era moralmente corretto giocare con i sentimenti altrui; ma Silvia scuoteva la testa. “Non offenderlo, Virginia, non poteva fare altrimenti, vista la situazione”.

“Virginia”, proseguì, accarezzandosi il ventre, “io aspetto un bambino. E no, non è figlio di Mario. Mario non mi ha mai toccata. Mi pare logico se non vuole più sposarmi… quale uomo vorrebbe? Sapevo già che avrebbe reagito così… quando gli ho parlato già piangevo, perché immaginavo la reazione. Ma non potevo mica aspettare che se ne accorgesse da solo, vedendo la pancia crescere. E poi io lo amo, e lui meritava di sapere la verità… ovviamente non mi ha creduto, come avevo già previsto… ma dovevo dirlo… dovevo per forza… non ce la facevo più a tenermi tutto dentro… dovevo parlarne con qualcuno… dovevo dirlo…”.

Una personcina con più esperienza del mondo non avrebbe avuto bisogno di chiedere spiegazioni, e forse avrebbe intuito la verità nel momento stesso in cui quella cosa era accaduta; Virginia era intelligente, ma trascorreva troppo tempo in un mondo fatto di fantasia e spesso dimenticava come funzionasse quello reale; perciò si trovò costretta a indagare, con un certo imbarazzo, sul motivo che aveva portato l’amica a tradire il fidanzato.

“Io non avrei mai tradito Mario!”, spiegò la ragazza, un po’ offesa, e le lacrime ricominciarono a invaderle gli occhi: e tra le lacrime espose il suo triste racconto, un racconto poco lineare che Virginea faticò a ricostruire, perché i singhiozzi coprivano le parole. E quando la giovane ebbe finalmente un’idea chiara di ciò che realmente era successo, si ritrovò a desiderare di non aver mai saputo. Anche lei pianse, e più dell’amica, e si sentì in colpa, perché forse se lei non avesse avuto quella strampalata idea di saccheggiare la propria casa, le cose sarebbero andate in maniera diversa.

Ormai però il passato non poteva esser cambiato, e Silvia portava in grembo il figlio di Elio.

L’aveva violentata, ma era stato furbo; prima di cacciarla fuori dalle sue stanze, perché lì aveva condotto “quella serva” mentre Virginia era chiusa nella soffitta, aveva promesso di non parlare a nessuno del tentativo di furto, a patto che la ragazza non rivolgesse mai più la parola a sua sorella; e aveva aggiunto che, in realtà, quello che era stato consumato tra loro non era una violenza. Se lui avesse voluto semplicemente violentarla, infatti, l’avrebbe fatto e basta, perché la sua posizione gliel’avrebbe consentito; la cosa, invece, era avvenuta solo per ripagarlo del silenzio che avrebbe mantenuto. “Non mi pare che tu abbia altri modo per pagare, d’altronde”, aveva concluso.

Dopo quella notte, comunque, non si era più fatto vedere, e Silvia ne era stata felice. Era stato difficile nascondere l’accaduto a sua madre, anche perché Elio non era stato gentile, e lei aveva il corpo pieno di lividi, segni della resistenza che aveva tentato di opporre; e se era stato difficile allora, era divenuto poi impossibile quando si era accorta della gravidanza.

A Mario aveva raccontato tutto, ma lui non le aveva creduto, innanzitutto perché sapeva che Elio Gaetani era solito frequentare luoghi di piacere affollati da donne sicuramente più affascinanti di una ragazzina semplice e sempre sporca, e in secondo luogo perché aveva sentito dire che i rampolli della nobiltà locale avessero qualcosa – non aveva capito la natura di questo qualcosa – che riuscisse a impedire le gravidanze; dunque, se anche Elio avesse violentato una donna, non sarebbe stato tanto idiota da generare un figlio illegittimo.

Ne era convinto, lui. E sebbene Silvia fosse offesa dal fatto che lui non le avesse creduto, non riusciva a biasimarlo, e soprattutto, non riusciva a smettere di amarlo.

Virginia aveva nascosto il viso tra le mani, e credeva seriamente che non sarebbe più riuscita a scoprirlo, troppo umiliata da ciò che aveva compiuto uno che diceva di avere il suo stesso sangue e ora magari riposava tranquillo, e passava le sue giornate a corteggiare una povera ragazza, facendosi credere da lei un cavaliere senza macchia.

“Mi aiuterai, Virginia?”

La fanciulla si asciugò le guance con la camicia da notte, e guardò l’amica. “Parlerò con i miei genitori, Silvia. Ed Elio si prenderà le sue responsabilità, e…”

“NO!”, la interruppe l’altra, allarmata. “No, Virginia… io non voglio sposare Elio! Io voglio Mario! Se tu… se tu parlassi solo con Elio, lascia perdere i tuoi genitori… parla con lui… chiedigli se… ecco, Virginia, se solo lui dicesse a Mario, solo a Mario, non serve che lo sappiano gli altri! Ma se lui dice a Mario la verità… allora lui tornerà da me!”.
Virginia esitò, balbettò, provò a spiegare che la cosa non le sembrava saggia, tornò a dire che sarebbe stato meglio parlare direttamente ai genitori, perché forse le avrebbero creduto… ma poi si rese conto di quanto improbabile fosse che i genitori le credessero, di quanto fosse assurda l’idea che Elio venisse costretto a fare qualcosa, e si convinse ad accettare la richiesta di Silvia.

“Farò come vuoi tu” assicurò, prima di lasciarla, “non appena tornerà, gli parlerò… e dirò che è stata Anna a parlarmi, così non scoprirà che gli ho disobbedito”.

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Capitolo 7
*** Elio e Silvia - parte 1 ***


Virginia aveva pensato e ripensato al discorso da fare al fratello. Si era detta e ridetta che sarebbe stato bene rivolgersi a lui in maniera gentile, perché se l’avesse indisposto Elio non avrebbe certamente collaborato, ed era solo la sua collaborazione che serviva; certo, avrebbe preferito urlargli contro lo schifo che provava nei suoi confronti, avrebbe voluto rivelare al mondo intero la verità, rendendo così giustizia alla cara amica oltraggiata, ma Silvia non voleva.
Silvia sperava solo che Elio potesse confessare qualcosa che sarebbe rimasto tra lui e Mario. E Virginia sperava che Mario, una volta conosciuta la verità, avrebbe ucciso Elio.
 

Il ritorno dei coniugi Gaetani e di Elio aveva destato molto stupore, nella servitù e non solo. I tre erano apparsi quanto mai gioviali, avevano portato con sé un’enorme quantità di doni e, dal loro arrivo, non c’era stato modo di farli tacere. Neanche la pomposa cena che Leonardo si era preoccupato di far preparare era riuscita a zittire la baronessa, che aveva raccontato a tutti di quanto Elio fosse stato gentile, e galante, e perfetto. La giovane Emma (e anche i suoi genitori) ne era stata a dir poco ammaliata e aveva promesso di scrivere ogni giorno e di ricambiare la visita; intanto, poiché Elio le aveva parlato molto della sua adorata sorella, Emma aveva inviato a Virginia un regalo: si trattava di un braccialetto d’oro, semplice, ma con un bel ciondolo a forma di sole; e assieme ad esso le era stato inviato un bigliettino, il quale esprimeva il forte desiderio, da parte di Emma, di avere finalmente una sorella.
 

Virginia, dal canto suo, rabbrividiva nel pensare all’inganno che suo fratello stava giocando a quella povera fanciulla – perché Elio era un farabutto, e la sua fidanzata non l’avrebbe mai saputo, probabilmente – e continuava a dirsi che bisognava agire, e presto, anche, perché Silvia meritava giustizia, almeno in parte.
Il problema era che Silvia si era ricreduta su alcuni punti. Se inizialmente aveva creduto saggio far parlare Virginia con Elio, si era poi detta che sarebbe stato ancor meglio affrontarlo personalmente, una volta per tutte, senza intermediari: anche perché, con molta probabilità, Virginia avrebbe finito per farlo infuriare, e allora addio sogni di pace, addio matrimonio, addio Mario.
 

Aveva preso l’abitudine, il maggiore tra i giovani Gaetani, di sostare in biblioteca dopo cena, e di rimanervi fino a notte inoltrata; allora tutti gli altri componenti della famiglia dormivano, ma la servitù era ancora attiva, e il fatto che Silvia si recasse dal giovane barone per portargli una camomilla non destò stupore. Non tra gli altri camerieri, almeno. Perché Elio, invece, fu alquanto sbalordito dall’entrata della ragazza.
 

«Non ricordo di avere ordinato da bere».

Silvia abbassò gli occhi, già pieni di lacrime. Per mesi aveva evitato quell’uomo, e ora che lo rivedeva, gli stavano tornando in mente tutti i particolari di quella maledetta notte.

«Vorrei parlarvi di una questione, signore», esordì, senza guardarlo negli occhi. Elio richiuse il libro che aveva tra le mani, lo poggiò su un tavolino.

«Ecco, signore, ormai non ho più dubbi. Io aspetto un bambino».

Elio si raddrizzò sul divanetto, il viso leggermente incupito.

«In che modo questo dovrebbe interessarmi?»

Una lacrima solcò il viso di Silvia. Ne seguì un’altra, e un’altra ancora.

«Mario non vuole più sposarmi, signore, perché ovviamente il bambino non è suo. Il mio matrimonio è stato annullato»

Elio la guardava con un’espressione fredda e impenetrabile; accennò un breve sorriso, scosse la testa e si alzò.

«Cose che capitano quando non si sanno tenere le gambe chiuse, non ti pare?»

Gli occhi di Silvia, un mare in tempesta, si levarono verso quelli scuri di lui.

«Signore, vi supplico! Se voi diceste a Mario la verità… sono sicura che lui capirebbe, che mi vorrebbe ancora! Cosa vi costa, signore? Dovreste parlarne solo a lui, e non lo saprebbe nessun altro! Dite pure che mi avevate sorpresa a rubare, non m’importa! Ma per carità, dite che sono stata costretta…»

«Costretta?», rise. «E chi ti ha costretta? Io volevo solo che il mio silenzio fosse pagato, avresti potuto pagare col denaro…»

«Sapete bene che non ne ho!»

«Tu vorresti che io, un barone, andassi a parlare con quel pezzente del tuo innamorato, per dire che hai passato una notte nel mio letto? E in che modo potrebbe consolarlo, una rivelazione del genere? Dovrei fargli credere che ti ho presa con la forza? Ma questo è quello che piace credere a te, brutta sgualdrina, perché io non ti ho costretta. Hai ragione quando dici che parlare al tuo Mario non mi costerebbe nulla, perché la mia posizione mi permette di fare qualsiasi cosa con te e quel morto di fame non potrebbe neanche azzardarsi a mettersi contro un Gaetani, se anche ti avessi usato violenza… ma vedi, Silvia, non ho interesse alcuno ad aiutarti. E sono sicuro che il bastardo che ti porti in corpo non sia figlio mio. Chissà quanti altri hai pagato come hai pagato me».

Silvia non riusciva neanche più a fiatare. Tremava tutta, per la rabbia ma anche per la paura. Quello non era un uomo, era un demonio.

«Signore», riuscì infine a sussurrare, «potete pensare di me ciò che volete, ma io vi giuro di non aver mai sfiorato nessun uomo, oltre voi. E vi giuro anche che se riuscissi a sposare Mario me ne andrei di corsa da qui, e voi non avreste più notizie di me, né del bambino. Vi scongiuro, signore, aiutatemi. Se avete un cuore, aiutatemi».

Elio la guardò, chiedendosi perché in passato l’avesse desiderata tanto. Era scialba, insipida, spenta. Non c’era in lei nulla, assolutamente nulla di attraente.

«Va’ via, e riportati indietro quella roba. Non ricordo di aver ordinato da bere».

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Capitolo 8
*** Elio e Silvia - Parte 2 ***


Erano stati movimentati, quei giorni, al palazzo Gaetani. Apparentemente, nulla era cambiato: la servitù seguitava a svolgere le proprie funzioni, i baroni ancora parlavano della visita alla giovane Emma, le lettere di Francesco continuavano a giungere e ad esser lette da Elio, e poi da Virginia. I caldi giorni e le notti si erano alternati senza che nulla di particolare accadesse, e nessuno avrebbe potuto immaginare quanto gli abitanti di quella dimora fossero turbati.

Ognuno aveva dato sfogo ai propri dolori in maniera silenziosa.

Silvia non aveva parlato direttamente con Virginia: era stata Anna a raccontare alla baronessina di quanto Elio fosse stato ignobile, e Virginia si era odiata per la sua debolezza, si era odiata perché era nata donna; se fosse stata un uomo avrebbe picchiato Elio, l’avrebbe costretto a prendersi le proprie responsabilità o, se lui non avesse ceduto, l’avrebbe ucciso; ma era una donna, non aveva diritti, non aveva potere, e tutto ciò che poteva fare era mettere il broncio, lanciare occhiate disgustate e sguardi velenosi, cose che, comunque, Elio non notava, perché troppo preso da pensieri altri.

Le idee di etica e morale sono - e sempre saranno - relative, e nessun uomo venuto su come era stato cresciuto Elio Gaetani avrebbe provato rimorso o pietà per una ragazza come Silvia. Se da bambini si apprende che tra gli uomini esistono delle differenze, che i nullatenenti non valgon niente, soprattutto se paragonati a chi nei soldi ci nuota, e che una donna non ha lo stesso valoredi un maschio, allora è inevitabile che da adulti si vedrà il mondo in un certo modo.

Perciò, Elio non era assolutamente in pena per la ragazza oltraggiata, né si riteneva in qualche misura colpevole o responsabile nei suoi confronti; il problema era il bambino. Se davvero era figlio suo - e in effetti era plausibile – non avrebbe potuto lasciarlo crescere in mezzo a una strada; certamente non l’avrebbe mai riconosciuto, ma neanche si poteva permettere che un suo “parente” facesse la fine di un pezzente.

Avevano parlato, Elio e suo padre. Elio non aveva detto tutta la verità, qualche particolare a suo giudizio insignificante era stato modificato, e così il barone Gaetani aveva capito che tra suo figlio e Silvia ci fosse stata una liaison liberamente voluta da entrambi e certo, i due erano stati sconsiderati, ma d’altra parte la cosa era accaduta una sola volta, e se la ragazza era rimasta incinta, ecco, era stata anche una questione di sfortuna. Il barone era rimasto molto più colpito di quanto non avesse dato a vedere, in realtà, e non gli era stato facile trovare le giuste parole per tranquillizzare il figlio; tuttavia riuscì a rassicurare il ragazzo, garantendo che Silvia e il bambino sarebbero stati sistemati, avrebbero trovato presto un modo, ed Elio non avrebbe avuto noie: anzi, se per caso avesse voluto, si sarebbe tenuto informato sulla vita della creatura, senza che quest’ultima sapesse di essere imparentata con lui.

«Hai sbagliato, ma è uno sbaglio che fanno in molti, soprattutto da giovani. Anch’io, ai miei tempi, mi sono fatto un po’ trascinare dalle esigenze del corpo», gli aveva detto.

 

… E la baronessa Gaetani lo sapeva bene. E quando venne a sapere che l’adorato Elio aveva commesso lo stesso errore del padre ella non parlò, non fiatò se non per chiedere come pensassero di “risolvere la questione”, ma si sentì il cuore ingabbiato dal dolore.

Almeno, si disse, Elio aveva fatto quel che aveva fatto prima di sposarsi; ma quanto disgraziato e cattivo era stato il destino… !

Posando la testa sul cuscino, la baronessa ripensò a quando, meno di vent’anni prima, si era vista costretta ad accettare a palazzo la presenza di colei che era stata l’amante di suo marito. Ricordava bene quel giorno.

Le temperature erano alte e Virginia, che a tre anni era ancora una brava bambina, sedeva tra le sue braccia intenta a osservare il volo delle farfalle. Quirino era accanto a loro, impegnato nella lettura di un qualche libretto per bambini, e Leonardo ed Elio stavano simulando una specie di giocosa lotta; poi, era comparso il barone. «Stanno arrivando», aveva sussurrato, e la baronessa aveva volto lo sguardo verso il giardino, attraversato a grandi passi da una donna che si trascinava dietro una bambina bionda. Non era bella, quella donna. Era grossa, mascolina, volgare. «Da oggi abbiamo una nuova domestica», aveva spiegato il barone ai bambini, che non si erano mostrati interessati alla novità. E lei non aveva parlato. Lei non aveva fiatato. Si era solo detta che quella era la cosa giusta da fare. Aveva solo sperato che tra quella rozza contadinella e suo marito non accadesse più nulla.

E in effetti non era accaduto.

***

 

Il mutismo di Virginia era ormai divenuto la norma: nessuno tentava più di farla parlare, men che meno a tavola, dove già era un miracolo riuscire a farle aprire la bocca per mangiare. I primi giorni Leonardo si era mostrato preoccupato, ma dopo qualche inutile tentativo aveva rinunciato a capire cosa avesse nella testa sua sorella. Era evidente, da come lo guardava, che avesse motivi seri per odiare Elio – o meglio, per odiarlo più del solito – e nessuno l’aveva mai vista indossare il braccialetto inviatole da Emma.

La serata, la baronessina la trascorreva con lo sguardo fisso sul piatto, muovendosi solo per bere di tanto in tanto e per recitare la preghiera prima del pasto, perché che lei non mangiasse era anche accettabile, ma che non pregasse era assolutamente fuori discussione.

Il 23 Giugno, si respirava una strana aria a tavola: aria di tensione, attesa, e inganno. Tutti, non solo la baronessina, tacevano, si muovevano a scatti, si osservavano con una certa inquietudine; ma Leonardo e Quirino erano stati coinvolti semplicemente da quell’atmosfera infetta, e non nel crimine vero e proprio.

Quando Anna spalancò la porta e, con una furia indecorosa, entrò nella stanza, fu chiaro a tutti che qualcosa di grave doveva essere successo.

«Cos’è questa storia?» gridò, con la voce alterata da una rabbia feroce.

Virginia guardò sua madre, Quirino suo padre, Leonardo si volse verso Elio: ma quei tre erano tranquilli come se nella stanza fosse entrata una mosca.

«C’è una carrozza, quaggiù, dicono che devono portare Silvia in convento! Cosa significa? Cosa accidenti vi passa per la testa?»

Virginia si alzò, decisa ad affacciarsi dalla finestra per controllare, ma la madre le afferrò con forza il polso, costringendola a risedersi.

«Anna, non credo ci sia altra scelta», disse finalmente il barone, continuando a mangiare, «non possiamo tenerla qui in quelle condizioni»

«In quelle condizioni? Aspetta un bambino, non ha la peste! Che problemi vi darà? Non ero anch’io una ragazza senza marito, quando sono venuta qui con lei? E non sono stata accolta? Perché Silvia non può rimanere? È perché quel mascalzone che vi sta accanto ha paura di vedere un bambino che gli somigli?»

Quirino e Leonardo rimasero fermi, basiti e interdetti, gli occhi sgranati verso Elio e la bocca serrata. Virginia non fiatava.

«Un’altra parola contro di me e sei licenziata», proruppe Elio con tranquillità. «E ringrazia per ciò che facciamo. Non è detto che quell’essere sia figlio mio. Sto facendo anche troppo»

«Via, via!», il barone si alzò, muovendo qualche passo verso Anna. «Elio e Silvia hanno fatto qualcosa che non avrebbero dovuto fare, e sono stati sfortunati, perché è successo l’irreparabile» spiegò il barone, «e in un’altra situazione magari l’avrei lasciata qui, Silvia, in fondo se sapesse mantenere il segreto… ma vedi, se Emma venisse a farci visita e sentisse qualche voce… santo cielo, non oso immaginare cosa penserebbe! E se poi veramente il bambino somigliasse ad Elio, che faremmo? Insomma, bisogna prendere provvedimenti.».

Anna strinse i denti. Molte erano state le ipotesi che Silvia aveva considerato, nelle ultime settimane, e da poco si era decisa a tenere il bambino; certo, avrebbero vissuto come reietti, chiusi in quella casa, ma magari lei sarebbe riuscita a mettere da parte qualche soldo, e il bambino, una volta cresciuto, sarebbe riuscito a lasciare quel luogo e a costruirsi una vita dignitosa. E ora, invece, tutto andava distrutto.

«Se ne andrà in un convento. Non possiamo certo dimenticare la fedeltà e il rispetto che avete sempre mostrato verso di noi, se ne starai lì, già abbiamo parlato con le suore, non è un problema, l’aiuteranno loro col parto e tutto il resto… sarà protetta da ogni offesa, dal mondo che guarda male a una donna come lei, da ogni tentazione di peccare ancora. Il bambino, dopo la nascita, sarà mandato in qualche collegio e, quando avrà l’età giusta, prenderà i voti come lei.»

«E così avrete sistemato ogni cosa!» proruppe Virginia, in un impeto di rabbia. «Offrite una soluzione del genere e vi dite un essere giusto? Santo cielo, padre!», proseguì, ignorando le proteste della madre, «Se si trattasse di vostra figlia, se fossi io ad aspettare un bambino, non obblighereste il padre della creatura a sposarmi? Perché non fate lo stesso con Elio?».

Elio sorrise, giocherellando con le posate. «Mia cara sorella, non dici sempre che sono un uomo orribile? Ebbene, perché vuoi che la tua cara amica sposi me? Tralasciando il fatto che sarebbe una cosa del tutto assurda, ti stai contraddicendo in maniera impressionante»

«Virginia ha ragione!», gridò Anna contro il barone. «Io ho fatto un patto con voi, signore, e non lo tradirò, ma non state rispettando gli accordi! Quando venni qui, mi diceste che avreste protetto Silvia. Ebbene, non lo state facendo! Se fosse capitato a Virginia…»

«Virginia non è una puttana come tua figlia!»

Anna guardò Elio con occhi di fiamme. «Lavati la bocca prima di nominare mia figlia, ragazzo! Virginia, malgrado tutto, ha avuto la fortuna di essere sempre protetta, per questo non è stata mai aggredita da porci come te!»

Fu Leonardo a gettarsi su Elio, per evitare che questi si avventasse su Anna. Elio urlò ad Anna di fare le valigie e di andarsene a lavorare di un bordello, e il barone non poté trovare un motivo valido per salvare Anna dal licenziamento, un licenziamento, tra l’altro, voluto fortemente dalla baronessa.

Virginia provò ad opporsi, ad appellarsi al buonsenso del padre, ma fu inutile perché la sua voce era sovrastata dalle grida di Elio, il quale giurò solennemente che, se Silvia non avesse lasciato quella casa entro la mattina seguente, se non si fosse recata in quel convento, lui sarebbe stato anche capace di farle perdere il bambino a suon di calci. E tra le urla e le offese che Anna indirizzava ad Elio, gli sforzi assurdi di Leonardo che non riusciva più a tener fermo il fratello, Quirino che fingeva attacchi di emicrania e i tentativi vani del barone che tentava di metter pace in quel trambusto, Virginia non poté che restare immobile ad osservare quanto marcio ci fosse tra quelle mura. Le grida si fecero lontane, la ragazza vedeva sua madre quasi accapigliarsi con Anna, ma il fatto che si fosse estraniata da quella situazione le impedì di cogliere alcune frasi che, se ascoltate attentamente, avrebbero fatto capire a lei e ai suoi fratelli quanto la situazione fosse più drastica e orribile di quanto non apparisse. Perché il dramma era chiaro completamente solo a tre persone: la baronessa, il barone ed Anna.

La lite ebbe fine solo quando Anna sputò in faccia ad Elio, e allora fu proprio Virginia a trascinarla fuori dalla stanza, capendo che Leonardo non avrebbe retto ancora a lungo contro quel leone che si dimenava come un dannato per liberarsi.

Corsero fino alla camera di Virginia, le due, e si chiusero a chiave. Incredibilmente, nessuna pianse: la rabbia era troppa. Anna non riusciva neanche a parlare in maniera lineare, disse solo che avrebbe preparato le valigie al più presto, e che avrebbe detto a Silvia di andare in convento, perché non c’era altro da fare, perché lei era ormai troppo vecchia per trovare un nuovo lavoro, non ne avrebbe trovato di certo uno decente, e dunque sarebbe stato meglio, per Silvia, chiudersi davvero in un chiostro, così almeno avrebbe mangiato, e sarebbe stata lontana da Elio. E il bambino… per il bambino si sarebbe trovata una soluzione, e forse col tempo sarebbero anche riusciti a far uscire Silvia… e insomma, ora era tardi e doveva davvero andare, perché aveva intenzione di lasciare quella casa in meno di ventiquattro ore. Gli addii furono rimandati a un secondo momento, e Virginia disse che sarebbe andata a salutare Silvia la mattina seguente, perché quella sera erano già successi troppi casini.

Non tornò nella sala da pranzo, la ragazza. Si mise a letto, e tentò di calmarsi. Silvia in convento… sì, ma l’avrebbe vista ancora. Era possibile far visita alle suore? Non lo sapeva, ma lei ci sarebbe riuscita, e l’avrebbe aiutata ad uscire, e a tenere il bambino. L’avrebbe fatto da sposata, sì, perché sposando Francesco sarebbe stata più libera, e Francesco era in fondo un uomo buono… e se Elio avesse tentato di ostacolarla, allora lei avrebbe minacciato di raccontare tutto ad Emma. Sì, avrebbe sistemato tutto. E anche Anna, l’avrebbe assunta lei, una volta divenuta la signora De Martino. Che sciocca, era tutto così semplice! Sì, si sarebbe sposata al più presto, avrebbe assunto Anna, e liberato Silvia, e poi avrebbe trovato il bambino, e avrebbe salvato anche lui dalla vita collegiale e monacale.

La mattina seguente avrebbe spiegato il suo piano ad Anna e Silvia. Tutto si sarebbe risolto. Bastava avere un po’ di pazienza.

 

***

 

Il trambusto le fece aprire gli occhi. Aveva fatto bei sogni, quella notte, e il ritorno alla realtà fu decisamente brusco. Si alzò a sedere, ancora intontita: rumori di passi veloci, di urla, di pianti, venivano dal corridoio. Credette di essersi svegliata tardi, forse Silvia stava partendo, e anche Anna, e lei neanche avrebbe fatto in tempo a parlar loro del piano, né a salutarle: decise che vestirsi non era necessario, si gettò sulle spalle uno scialle solo per non sentire i rimproveri della madre, e aprì la porta.

Vide Quirino, in vestaglia, far ritorno in camera sua bisbigliando qualcosa. Intravide in lontananza la sagoma di Leonardo: correva, ed anche lui era in abbigliamento notturno. Guardò l’orologio e scoprì che in effetti erano solo le 6.30: cosa stava succedendo? Possibile che stessero ancora litigando?

Iniziò ad attraversare il corridoio, sorpresa dalla servitù che, senza alcun riguardo, le sbatteva addosso senza neanche scusarsi. Uscì dalla zona riservata alle camere da letto e, seguendo quell’andirivieni, si ritrovò ad imboccare un corridoio della zona giorno. Si accorse che qualcuno aveva sussurrato a Leonardo del suo arrivo, perché il fratello, che era sulla soglia della porta che dava nella sala da pranzo, si voltò di scatto e le corse incontro, tentando di ostacolare il suo cammino. Virginia lo scansò dando poco peso alle sue parole, capendo solo che le stava suggerendo di non guardare perché si sarebbe spaventata, ma la curiosità della ragazza era troppa e, poiché si stava mischiando a un certo cattivo presentimento, ignorò suo fratello, e si fermò solo quando giunse all’ingresso della sala.

Non fece in tempo a vedere gli sguardi attoniti dei suoi genitori, né il viso straziato di Anna: udì le sue urla, ma fu per poco.

Volgendo gli occhi verso l’alto, si sentì morire: l’immagine che andò a riflettersi nelle sue pupille le fece gelare il sangue nelle vene, e la ragazza non ebbe la forza di gridare, né di piangere: ogni energia l’abbandonò, e cadde inerme tra le braccia di Leonardo, che tentò invano di farle riprendere i sensi.

«Cosa diavolo sta succedendo?»

Leonardo, la sorella tra le braccia, si voltò verso Elio, che solo in quel momento giungeva. «Che le prende?»

«è svenuta»

«E per uno svenimento fanno tutto questo baccano?»

Leonardo scosse la testa: «non è per lei», spiegò, e con un movimento del mento invitò il fratello ad affacciarsi nella sala.

Leonardo vide l’espressione del fratello cambiare: alzando lo sguardo verso l’alto, verso il semplice lampadario della sala, proprio come era successo a Virginia, Elio non poté fare a meno di spalancare gli occhi e la bocca, che però subito richiuse. Anna lo vide e gli vomitò addosso tutti i peggiori appellativi che conoscesse, ma neanche si capiva ciò che diceva, tante erano le lacrime.

Elio, comunque, non la sentiva. Continuava a fissare il corpo di Silvia che, ormai senza vita, penzolava nel bel mezzo della stanza.

 

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Capitolo 9
*** Decisioni ***


Anna se n’era andata. Non aveva provato neanche a dire la verità, non aveva più rivolto parola a nessuno: dopo il funerale, al quale Virginia non si era recata perché impedita dalla famiglia, la donna era andata a salutarla. Le aveva detto di averla amata tanto, quasi quanto una figlia; le aveva promesso di pregare per lei, perché potesse un giorno essere felice, e le aveva confessato di non avere più il cuore di restare in quel paese, né di combattere: avrebbe voluto solo andar via, lontano, per non avere più a che fare con i Gaetani.

Che Silvia fosse la sua sorellastra, ch’ella aveva amato un tempo suo padre, Anna non volle dirlo alla ragazza, per lo stesso motivo per cui non volle dire alla gente la verità sulla morte di Silvia: i Gaetani credevano di poter governare il mondo, e spesso ci riuscivano. Chiunque desse problemi, chiunque non riuscisse a mantenere il proprio posto da subalterno nel loro microcosmo, veniva schiacciato. Annullato, distrutto.

Fu detto che Silvia, data la gravidanza, era stata licenziata assieme alla madre, e probabilmente la ragazza non aveva retto a tanta vergogna. Se ne parlò per qualche giorno, ma poi la cosa fu dimenticata perché, come si dice, chiodo scacchia chiodo, e il nuovo argomento era decisamente più interessante.

Che la baronessina fosse amica della giovinetta era risaputo, almeno tra i domestici, ma nessuno si aspettava che l’amichevole affetto portasse a tanto.

Dopo aver visto il corpo senza vita di Silvia, Virginia era svenuta: i fratelli l’avevano fatta stendere, i genitori erano accorsi, e avevano atteso tutti insieme il suo risveglio. La ragazza era apparsa sotto shock, non aveva aperto bocca, si guardava attorno con occhi sbarrati e, poiché non offendeva Elio, sospettarono anche che avesse perso la memoria. Quando parlò, fu per dire che voleva recarsi al funerale. Apparve calma e decisa, e la sua non era tanto una richiesta quanto un’esigenza. Se ne stette buona, anche troppo, e quando sua madre la raggiunse, spiegandole che essendo morta suicida la ragazza non avrebbe avuto un vero funerale, e che comunque lei era una signora, e l’altra una serva, e insomma non era stata predisposta nessuna carrozza per farla accompagnare, e ogni entrata era stata chiusa per impedirle di uscire, Virginia non si scompose. Con gli occhi vuoti – perché non c’era odio, né risentimento, né rabbia: non c’era niente – chiese solo alla madre se era sicura delle sue parole perché – e lo stava promettendo – se non l’avessero fatta andare a quella cerimonia, davvero lei avrebbe rovinato la vita a tutti.

Ed ecco l’argomento di cui la servitù ora parlava: la baronessina, che al funerale non c’era potuta andare, sembrava un’indemoniata. Non urlava, non strepitava, ma era intrattabile e imprevedibile: innanzitutto, era difficile convincerla a vestirsi: solitamente bisognava costringerla con maniere molto forti – cioè quasi legarla – ed era comunque inutile perché, una volta sola, Virginia finiva poi col tornare a indossare la camicia da notte e la vestaglia; e se vestirla era difficile, pettinarla era impossibile. Ogniqualvolta qualcuno riusciva per caso a raccoglierle i capelli, lei li slegava, e così, in abbigliamento notturno, coi capelli ricci sempre sciolti, lo sguardo vuoto e le labbra assolutamente serrate, pallida come un lenzuolo, la baronessina faceva paura.

Non era possibile portarla fuori casa – neanche a messa! – perché allora era probabile che iniziasse a parlare ad alta voce, o a canticchiare, o a sbadigliare, e lo stesso accadeva se qualcuno si recava a farle visita. Dopo un paio di volte che cose del genere erano accadute, i genitori avevano deciso di segregarla, ma a nulla era servito. A tavola, non riuscivano a farla star seduta composta. Se non aveva fame, e qualcuno voleva forzarla, la ragazza gettava dove capita piatti e bicchieri; e anche se la lasciavano in pace, era probabile che Virginia distruggesse qualche soprammobile, o qualche lampada, o qualsiasi altra cosa, senza apparente motivo.

Se un medico andava a farle visita, la ragazza appariva assolutamente normale, perché sorrideva, parlava, e metteva dolcezza in ogni sua azione; a livello di salute, poi, non c’era alcun problema. Dunque il medico di turno andava via pensando che i baroni stessero uscendo fuori di testa e, una volta allontanatosi il dottore, Virginia tornava alle proprie stranezze.

Il primo Settembre, la baronessina sedeva, stranamente vestita, sull’erba del giardino. Da quando si fingeva pazza, le era accordata un po’ più di libertà, ed erano tutti felici di saperla all’aria aperta, tranquilla, a intrecciare corone di fiori da mettersi tra i capelli o a scrutare il cielo: almeno non avrebbe rotto nulla, e comunque qualcuno era sempre nei dintorni per sorvegliarla. Quel giorno c’era Elio, che aveva mandato via la cameriera in carica.

Elio e Virginia non parlavano da mesi. Il ragazzo – che si era preoccupato di mentire a Francesco dicendogli che la sorella stava affrontando un periodo particolare, che aveva detto all’amico che Virginia stesse probabilmente soffrendo di “mal d’amore” e per questo aveva suggerito di interrompere la corrispondenza, perché leggendo le lettere avrebbe sofferto ancor di più, la poveretta – non aveva creduto mai che quella sciagurata fosse impazzita. Virginia si stava vendicando e aveva scelto la maniera più intelligente di farlo, perché simulando una malattia mentale nessuno avrebbe potuto toccarla, ma anche perché quella “malattia” metteva in serio imbarazzo la famiglia.

Quando Elio le si avvicinò, e sedette sull’erba accanto a lei, Virginia iniziò a canticchiare, come ormai era solita fare se non era disposta ad ascoltare chi le stava attorno. Elio guardò a destra e a sinistra e, appurato che non ci fosse nessuno, si schiarì la voce.

«Francesco torna tra una settimana»

Virginia tacque. Rimase in silenzio per un po’ poi, continuando a intrecciare i fiori, «non mi ha scritto più», ammise.

«Ha scritto a me», specificò lui, «e so che ti chiederà in sposa».

Virginia guardò soddisfatta la corona che aveva creato, e se la mise in capo.

«Quali sono le tue intenzioni?», indagò il barone. «Ti farai trovare seminuda, e spettinata come una selvaggia? Inizierai a cantare quando vorrà proporsi, e gli sbatterai in faccia qualcosa?»

«No», rispose con tranquillità Virginia, «queste sono cose che faccio solo con voi».

Rise, Elio, rialzandosi. «Lo so bene!», urlò. «Come so che sei solo una streghetta, niente di più, niente di meno! Ma cara sorella mia, devi sapere che io so essere peggio di te, e voglio ricordarti che alla morte dei nostri genitori tu sarai sotto la mia tutela. E allora io non esiterò tanto a mandarti nel convento che aspettava anche la tua amica»

Virginia si voltò di scatto, rivolgendogli quell’occhiata d’odio che lui ben conosceva.

«Se fossi in te mi darei una sistemata, e cercherei di comportarmi bene in presenza di Francesco, perché ti assicuro che lui ti tratterebbe meglio di me, dato che per ora l’azione più dolce che mi ispiri è di prenderti a schiaffi».

La ragazza riprese a canticchiare, e a lui non rimase che andar via.

 

La baronessa Gaetani quasi pianse dalla commozione nel rivedere sua figlia così bella, con neanche una ciocca di capelli fuori posto, con l’abito più costoso che possedeva, l’espressione soave e un sorriso amabile sul volto.

Francesco, incontrandola, era rimasto senza parole: baciatale la mano, aveva preso a raccontarle ogni dettaglio del suo soggiorno all’estero, si era detto spiacente per averla fatta attendere tanto, le aveva chiesto come avesse trascorso quei mesi e, nell’ascoltare quella voce melodiosa, ne era stato tanto incantato da decidere che la proposta andava fatta subito, al momento, perché non avrebbe potuto aspettare ancora.

«Mia cara Virginia», iniziò, «certamente avrete capito che le mie visite qui non sono mai state casuali, e non crederete certo che io abbia scritto a ogni persona di mia conoscenza con la frequenza che avevo nello scrivere a voi. Io… ecco, se i vostri genitori e vostro fratello non hanno nulla in contrario, vorrei parlarvi… da solo»

Il barone e la baronessa assicurarono che non ci fosse problema alcuno, e fu Elio a suggerire ai due di andarsene in giardino. Virginia poggiò la mano sul braccio di Francesco senza che il contatto le portasse la minima emozione, e si incamminarono.

«Ecco, Virginia» riprese lui, mentre passeggiavano tra gli alberi verdi, «io avevo in mente già da tempo di prender moglie, ma non avevo trovato nessuna… nessuna all’altezza. Ma voi, così bella, di una bellezza così sobria… sempre tanto composta, mai inopportuna, silenziosa e pronta ad ascoltare… coi vostri timidi sorrisi e il vostro riserbo, mi avete ammaliato. Io non sono un uomo molto vivace, lo avrete notato; e cercavo una donna posata come me, dall’animo sereno e pacato, intelligente e saggia, non come la maggior parte delle ragazzette che mi era capitato d’incontrare, così sciocche, pigre e capricciose».

Virginia osservò il cielo, pensosa. Aveva riflettuto a lungo sul da farsi, ma ora titubava: dopotutto, la sua intera esistenza dipendeva da quel momento.

«Io voglio sposarvi, Virginia. Vorreste diventare mia moglie?»

Lei lo guardò. Rivolse un’ultima volta gli occhi verso l’azzurro, e prese coraggio. Le labbra finalmente si schiusero, e parlò.

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Capitolo 10
*** Virginia ***


Sono lusingata dalla vostra proposta; durante questi mesi siete stato gentile con me, premuroso e sempre onesto, e io non meritavo tanto. Vi prego, non dite che sono umile; non è così. Voglio solo esser sincera.

Ebbene, posso dirvi che l’idea del matrimonio non mi è mai dispiaciuta. Da bambina, leggendo le fiabe, sognavo d’incontrare un principe… e voi lo siete, così buono, intelligente e bello!

Il problema… il problema è che un uomo come voi non può desiderare una donna con me. Il problema è che voi non mi conoscete.

Avete detto di apprezzare in me il riserbo, la compostezza, la sobrietà… e mi sono sentita scossa dai brividi e dal rimorso, perché ho capito che siete la vittima di un inganno, dato che la donna che lodavate non esiste. O almeno, non sono io.

La verità è che se io fossi una persona libera mi straccerei questa roba da dosso, e… voi non credete che tanti abiti siano inutili? A me basterebbe indossare una vestaglia, anzi, un velo! E non per coprire il mio corpo, ma per vederlo gonfiarsi e svolazzare, agitato dal vento! Se fossi stata libera… voi avreste visto i miei capelli sciolti, spettinati, ornati solo da fiori o foglie! Se dipendesse da me, non oserei mai imprigionarli in quelle acconciature assurde e blasfeme… blasfeme, sì! A voi non sembra un oltraggio nascondere e mortificare ciò che di bello ci è stato donato?

Se fosse dipeso da me, avrei approfittato dei nostri incontri per inondarvi di domande, avrei voluto conoscere tutto di voi, della vostra vita, della vostra famiglia! E mi sarei confidata, forse, vi avrei parlato dell’odio sconfinato che nutro nei confronti della mia famiglia, e voi avreste saputo quanta sofferenza può infliggere un’educazione rigida, un’educazione che mira ad annullare ogni sentimento, un’educazione che costringe una bambina a reprimere ogni desiderio, perché desiderare, e sognare, e ridere, e correre, ogni cosa, ogni cosa è un peccato secondo la gente “per bene”!

Voi siete stato ingannato… la Virginia che si è mostrata a voi, la Virginia che appare in pubblico è frutto di ricatti, perché i miei cari genitori non sono mai riusciti ad accettare l’indole “impudica e selvaggia” che mi caratterizza e, dopo innumerevoli quanto inutili tentativi per ammaestrarmi, hanno ben pensato di obbligarmi a comportarmi come loro volevano almeno dinnanzi agli estranei, perché altrimenti sarei stata disprezzata, e non avrei mai trovato un marito. Capite, secondo loro è impensabile che qualcuno possa amarmi per ciò che sono, e forse hanno ragione, ma non potrei mai saperlo con sicurezza se non provassi a far conoscere la vera me!

So benissimo che ora ci stanno spiando dalle finestre della biblioteca, e immagino che siano turbati, perché vedono che io sto parlando! Se non ci fossero stati loro, lassù, a controllarmi coi loro sguardi da avvoltoi, vi avrei preso per mano e avrei corso con voi su questo prato, per farvi capire cosa sento nei miei rari momenti di libertà e per scoprire se le vostre emozioni e le mie sono simili!

Non so cos’altro dire. Immagino che le vostre intenzioni ora siano cambiate, e non vi biasimo; ma se foste ancora interessato a sposarmi… devo avvisarvi che non ho intenzione di rendere la mia vita una commedia, non ho intenzione di fingere anche con mio marito.

E i miei figli saranno liberi, e non permetterò mai a nessuno di inculcar loro idee bigotte, né di iniziarli a comportamenti ipocriti.

Se ci sposeremo, vi sarò fedele: so che voi probabilmente non farete lo stesso, perché non ci amiamo, e immagino che per gli uomini sia normale avere una o più amanti, soprattutto quando non si desiderano molti figli.

In tutta sincerità, riterrei giusto poter usufruire degli stessi diritti, ma sarebbe una forzatura: perché tradirvi con altri uomini, se non amo loro più di voi? Se esistesse un uomo capace di farmi tremare il cuore, di capirmi, di apprezzarmi… se esistesse una persona come me, ostile alle rigidità di questo mondo e amante del lato più spontaneo dell’esistenza… se mi capitasse di posare gli occhi su un altro essere vivente e capire in quell’istante di aver trovato un’anima affine alla mia, proprio come accade nelle fiabe… allora non esiterei a tradirvi. Dopotutto, voi e tutti gli altri ritenete che il matrimonio sia solo un’alleanza. La comunione delle anime non vi riguarda, è una cosa troppo fantasiosa e sciocca per voi.

Ma non fate quella faccia, per carità! Non vi tradirò, perché forse mia madre ha ragione: non esiste un essere in grado di amarmi davvero. E non esiste, aggiungo io, perché questo mondo è deviato.

Tornando alla vostra domanda… sì, sono disposta a sposarvi, se ancora lo desiderate. Tuttavia bisogna ancora chiarire alcuni dettagli.

Durante i ricevimenti - a patto che questi eventi abbiano luogo sporadicamente - apparirò perfetta, se potrà farvi felice: ma non dovrete azzardarvi a limitare la mia libertà altrove, né dovrete in alcun modo tentare di cambiarmi.

I miei figli saranno allevati, curati e istruiti da me sola: sono abbastanza colta e paziente per farlo.

Vi darò il mio corpo quando lo vorrete, i miei soldi, e l’onore che credete di trovare nel matrimonio con una baronessa.

Ma l’anima e il cuore… quelli, temo, nessuno potrà mai possederli.

 

 

 

Angolo dell’autrice (si chiama così?): Questo capitolo si differenzia dagli altri, perché ho preferito far parlare direttamente Virginia. Dal prossimo, tutto tornerà alla normalità!

Grazie mille a chi segue questa storia e mi fa sapere le sue impressioni, la vostra collaborazione è davvero preziosa!

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Capitolo 11
*** 1913 ***


Dal 1910 al 1913, i Gaetani non si erano certo annoiati.

Spiando dall’alto della biblioteca la conversazione tra Francesco e Virginia, Elio era stato preoccupato dal fatto che sua sorella avesse parlato tanto; non era stato possibile udire le sue parole, ma l’espressione sempre più spiazzata di Francesco gli aveva fatto intuire che non si trattasse di nulla di buono. E infatti…

Quando Virginia aveva chiuso quella boccaccia, l’altro era rimasto fermo, quasi pietrificato. Aveva fissato l’erba verde, poi il cielo, poi la finestra dietro la quale si celava Elio. Infine aveva rivolto alla fanciulla un’occhiata piena di sdegno, e si era allontanato.

Dopo una decina di minuti li aveva visti rientrare in biblioteca, Elio, uno rosso di rabbia e visibilmente offeso, l’altra tranquilla e placida come mai prima di allora, e quanto mai serena.

«Mi dispiace, Elio. Mi dispiace davvero» aveva balbettato Francesco, imbarazzato e nervoso. Si era dissetato col liquore che il barone aveva preparato per brindare al matrimonio, quel povero ragazzo, mentre tutti sbirciavano Virginia. Solo Elio aveva osato avvicinarsi e afferrarle con forza un braccio, chiedendole a bassa voce, sibilando come un serpente, cosa diavolo avesse detto.

Francesco si era rivolto a coloro che avrebbero dovuto divenire i suoi suoceri.

  «Sono costretto a dirvi addio, signori» aveva affermato con voce tremante. «So che tutti voi speravate in un nostro matrimonio e lo facevo anch’io; ma, ora come ora, un’unione tra me e vostra figlia mi appare davvero tanto assurda da essere impensabile. Vi prego di scusarmi»

Elio aveva tentato di trattenerlo, parlando di un’improbabile depressione che avrebbe colpito altrimenti Virginia che, dal canto suo, si era limitata a salutare con un gentile cenno del capo l’ormai non più futuro marito; aveva pianto la baronessa, lamentandosi della maledizione che il cielo le stava infliggendo, ricoprendola di vergogna; infine, aveva chiesto spiegazioni, il barone, dicendo che non era possibile abbandonare una fanciulla così, senza neanche spiegarsi chiaramente.

«Virginia era vostra fidanzata», aveva obiettato il signore, «e tutti sapevano delle vostre visite qui. Cos’ha la fanciulla che non vi aggrada? Non è forse bella, e intelligente, e mansueta? Per quale motivo non volete più sposarla? Non pensate al disonore che le causerete, così facendo? Sapete come vanno queste cose, inizieranno a dire in giro che non l’avete voluta, e non solo la sua reputazione sarà rovinata, ma finiremo anche col non riuscire più a maritarla… che ne sarà allora di lei?»

«Potreste portarla in un circo» tuonò lui, ormai accecato dal rancore. «Forse lì la gente troverà divertenti le sue parlate. Forse lì rideranno nel vedere un essere con l’aspetto di una fanciulla angelica e… e il cuore di un animale incivile. Ma tenetela lontana dagli uomini per bene, per carità: rischierebbe di far perder loro ogni fiducia nei confronti delle donne.»

Inutili erano stati i tentativi di ostacolare la sua dipartita. Vane le moine di Elio e del barone, come le lacrime della baronessa.

«Smettetela di umiliarvi in maniera tanto indecorosa» aveva proferito tranquillamente Virginia, rendendo così fulminea la scomparsa di Francesco, «vi state rendendo davvero ridicoli.»

Ci aveva provato, Elio, a minacciarla: ma lei aveva sorriso, guardandolo negli occhi senza un briciolo di paura. «Puoi anche uccidermi, Elio», gli aveva sussurrato, «prova anche a tormentarmi come meglio ti riesce: ciò che più poteva ferirmi l’hai già fatto, e sono sopravvissuta. Ora tocca a me, e vedrai se sono o no alla tua altezza.»

 

Dopo un annetto, nessuno poteva più riposare. I tentativi di fuga della fanciulla, inizialmente sporadici, erano ormai abituali: era divenuto necessario far dormire assieme a lei qualche cameriera, ma ancora non si poteva star sicuri, perché non appena quelle avessero chiuso gli occhi, Virginia sarebbe sgattaiolata via. E se la fanciulla si sforzava d’essere silenziosa quanto un felino, scoppiava poi in grida furiose e selvagge quando veniva catturata: ragion per cui nascondere le fughe era divenuto impossibile, e nella piccola cittadina, tutti sapevano che l’ultima Gaetani fosse pazza.

Le vecchie signore che chiacchieravano al mercato dicevano che la baronessina era impazzita perché abbandonata dal fidanzato, ignorando quanto fosse diversa (e certamente più interessante e divertente) la realtà. Alla fine la baronessa, capendo che l’onore della figlia s’era volatilizzato assieme a Francesco, pensò di andare fino in fondo. Tanto, peggio di così non poteva andare.

Dunque, un prete, poi un altro, poi un altro ancora, insomma, un’infinità di preti si era succeduta come in processione alla dimora dei Gaetani per esorcizzare la fanciulla. Virginia si era mostrata ben disposta a dialogare con loro, aveva affermato di credere nei dogmi nella Chiesa, come credeva anche ad altre cose, la magia, per esempio; e quando l’ultimo dei sacerdoti che aveva incontrato le aveva fatto presente che tra la magia e la religione ci fosse una bella differenza, Virginia aveva risposto di esserne cosciente, poiché Dio era spesso più crudele delle magiche creature di cui aveva letto.

Alla fine, comunque, ogni prete si era rifiutato di esorcizzarla, dicendo che la ragazza non era certo indemoniata. Forse in un’altra epoca sarebbe stata condannata per stregoneria, ma ora era solo una pazza.

 

 

Il 28 Gennaio 1913 Virginia compì vent’anni, ma nessuno le fece gli auguri, a colazione (ora si recava regolarmente a consumare i pasti con gli altri, nella speranza di esasperarli).

I coniugi Gaetani avevano rinunciato a combattere con lei: che facesse la matta, se le piaceva tanto; ma l’avrebbe fatto chiusa per sempre in quella casa, sarebbe stata sola, e probabilmente, con nessuno disposto a rivolgerle la parola, sarebbe impazzita davvero.

Elio, Leonardo e Quirino, per motivi diversi, avevano scelto di essere altrettanto silenziosi; Elio perché l’aveva sempre odiata, e non aveva più motivo di comunicare con lei, dal momento che mai e poi mai gli avrebbe portato qualcosa di buono; Leonardo era stato molto deluso e amareggiato dallo strano comportamento della sorella, che era riuscita a mettere in imbarazzo l’intera famiglia; Quirino, semplicemente, era troppo concentrato sui propri dolori immaginari per dedicarsi a lei.

Dunque, al fatto che Virginia giocasse col cibo, costruendo mirabili opere d’arte con i molti scarti dei suoi pasti, nessuno badava più. Di tanto in tanto Elio le lanciava un’occhiata schifata, ma si limitava a ciò.

Elio, in quegli anni, aveva maturato un senso di insoddisfazione assai acuto; di Silvia non gli era importato molto, ed era stato impressionato dall’immagine di quel corpo penzolante più che dal gesto del suicidio in sé. Si era detto, Elio, che togliersi la vita per certe sciocchezze era assolutamente assurdo, aveva trovato di cattivo gusto la scelta di ammazzarsi proprio in quella maniera e in quel luogo, ed era stato molto infastidito dalle noie “involontariamente” causategli da Silvia: era stato infatti necessario inventare scuse varie per giustificare la rabbia di Anna e nascondere la verità. Comunque, tutto ciò apparteneva al passato, ed Elio non ci pensava più. Il problema era Emma.

Da quando l’aveva incontrata, Elio aveva iniziato a sperare ardentemente che quello splendido corpo iniziasse a funzionare come Dio comandava; prima, Emma era stata poco più di un nome; dopo, vedendola, Elio se n’era davvero invaghito, e il desiderio di averla lo stava consumando; persino leggere le lettere che la ragazza scrupolosamente gli inviava era divenuto un tormento, perché Elio era ormai prossimo ai trent’anni e, se la situazione di Emma non fosse cambiata presto, il matrimonio sarebbe stato annullato.

Quando uno dei domestici giunse nella sala portando su un vassoio due lettere – abitudine che per qualche strana ragione divertiva Virginia – Elio afferrò con noia quella indirizzata a lui, sapendo già cosa vi avrebbe trovato scritto: parole colme d’amore e speranza, auguri di cose che forse mai sarebbero accadute, inviti a visite che probabilmente non sarebbero state fatte. Ripiegò il foglio e lo mise in tasca, e solo allora notò che anche il barone aveva ricevuto qualcosa.

Il signor Gaetani abbozzò vari sorrisetti durante la lettura e, quando ebbe finito, prese la mano della moglie. «Finalmente una buona notizia. Elio si sposa»

Elio sgranò gli occhi; e mentre Leonardo gli dava sonore pacche sulle spalle e Quirino borbottava, nervoso già al solo pensiero di dover presenziare a un matrimonio, il primogenito Gaetani chiese più volte cosa volesse dire suo padre.

«Mio caro, non c’è più alcun impedimento» sorrise la baronessa, sbirciando la lettera. «Emma è ormai una donna, e nulla vi impedisce di sposarvi. Io spero a questo punto che entro la fine dell’anno…»

«La fine dell’anno?» urlò Elio, già fuori di sé. «Io ed Emma ci sposeremo entro Luglio! Non sono intenzionato ad aspettare oltre!»

Aveva riso Leonardo, canzonando il fratello per quella fretta, e la baronessa aveva quasi pianto dalla gioia. Elio aveva gridato ai camerieri – causando un mal di testa a Quirino - di servire dello spumante, non gli importava nulla se era mattina, dovevano brindare! E solo quando cinque calici furono riempiti e la domestica chiese se era il caso di far bere anche la signorina, Elio ricordò di avere una sorella, cosa che aveva piacevolmente dimenticato negli ultimi dieci minuti.

«E tu, Virginia? Sei felice per me?»

Virginia non era più abituata a mentire, e infatti non lo fece, rivelando quanto la gioia di lui la lasciasse indifferente e ammettendo che, in realtà, l’unico sentimento che le riuscisse di provare era compassione, e pena, per la povera Emma; tutti erano troppo felici per dar vita a un litigio, quindi la ignorarono, e quando Elio, dopo che tutti avevano lasciato la stanza, si fermò a domandarle se avesse intenzione di fare la guastafeste, Virginia assicurò che si sarebbe comportata come una vera signora. Al cospetto di Emma avrebbe agito in maniera irreprensibile, mostrandosi un’amica, o anche una sorella.

«Si affezionerà tanto a me, Elio. Così sarà pronta a prender sempre le mie parti, anche contro di te»

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Capitolo 12
*** Valle ***


Angolino dell’Autore: Questa storia era stata concepita come prequel – che serviva più che altro a farmi capire meglio i personaggi – di un racconto dai toni diversi, tendenti al soprannaturale. Mi rendo conto che il capitolo seguente rompa un po’ con ciò che l’ha preceduto… ma è perché si sta avvicinando al clima dell’altra storia, quella “vera e propria”.

Ringrazio le persone che continuano a leggere e commentare il mio lavoro, siete davvero preziose!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Virginia non aveva viaggiato molto, nella sua vita. Le era capitato di spostarsi in altre città per assistere a spettacoli d’opera, ma non aveva avuto tempo per osservare    il luogo; ragion per cui, sebbene il tragitto dalla sua cittadina al paese di Emma non avesse nulla di bello o interessante da mostrare, lei lo apprezzò. Era un paesello di montagna – che però, per qualche strano motivo, si chiamava Valle – e la strada che percorsero per raggiungerlo non era delle migliori, ma era l’unica, e quindi la signora Gaetani dovette rassegnarsi.

Camminavano su sassolini, la carrozza saltellava in continuazione, e Virginia lo trovava assai divertente. Il problema era il caldo, perché essendo gli inizi di Giugno le temperature erano alte, ma presto si trovò una soluzione: man mano che si avvicinavano a Valle, le temperature scendevano, fino a creare sulla pelle coperta della ragazza dei leggeri brividi.

Un aspetto colpì maggiormente la baronessina, quando giunsero a destinazione: Valle sembrava un luogo fuori dal mondo, non solo per la lontananza fisica dagli altri paesi – che era notevole – ma soprattutto per le sensazioni che evocava: la natura, lì, era la padrona. L’uomo non aveva potuto far nulla per dominarla: certo, ce n’erano di case, ma sembravano gentili concessioni del bosco. Il verde padroneggiava incontrastato: per le strade c’erano più alberi che persone, quasi tutte le abitazioni erano avvolte da piante rampicanti, e l’umile centro abitato era circondato da piccole alture.

«Un paesino sulla cima di una montagna… circondato da altre montagne?»

Era molto strano. Era come se la montagna vera e propria si fosse a un certo punto fermata, creando quella pianura che aveva permesso la crescita del paesino, per poi riprendere a crescere con rinnovata forza, creando tante sporgenze che circondavano minacciosamente Valle. Ecco, quello era davvero inquietante: Valle era circondata dalle montagne, e l’unica via di scampo era la stradina malmessa che i Gaetani avevano percorso.

«Io credo che non siano abbastanza alte per essere considerate montagne, anche se le chiamano così», precisò Elio, felice di vedere che la sorella parlasse: almeno sarebbe sembrata normale, ad Emma e ai futuri suoceri. «Quelli che stai fissando tu» proseguì, ammirando anch’egli le due alture completamente vestite di boschi, unite tra loro da una piccola valle, «formano il Monte Janara.»

«E perché si chiama così?»

«Potrai chiederlo alla nonna di Emma, è il suo argomento preferito»

 

 

Angela Cardaniese, nonna paterna di Emma Cardaniese, era una signora tanto anziana quanto simpatica. Sotto le pesanti stoffe dei suoi abiti e dietro il ventaglio che mai allontanava troppo dal viso, si celava una donna sveglia e vivace e, se in pubblico ostentava un certo contegno, appena si ritrovava sola con la famiglia tornava ad essere la vecchietta schietta e spesso imbarazzante che Emma conosceva e amava.

Emma, da lei, non aveva ereditato molto oltre all’amore per la vita e per ogni essere vivente: Virginia si accorse, conoscendola, che quella ragazza non aveva mai conosciuto la sofferenza, e sperò che continuasse a vivere nell’ignoranza, speranza che pareva ben riposta dato che Elio ed Emma sembravano davvero innamorati.

Emma fu gentile e dolce con la cognata, ma era talmente presa dal fidanzato che non riuscì a dedicarle più di un quarto d’ora, durante il quale le assicurò che in quel mese sarebbero diventate come sorelle, dopotutto era ancora il primo giugno e il matrimonio sarebbe stato celebrato solo il 24, quindi ne avrebbero avuto di tempo! E poi Virginia doveva assolutamente assistere ai preparativi, anzi, sarebbe certamente servito il suo aiuto, perché una ragazza tanto carina e fine e simpatica doveva anche avere molto gusto, Emma ne era certa.

La signora Angela fu lieta di veder la nipote uscire dalla stanza. Poiché Lucrezia, la madre di Emma, era intenta a parlare con la baronessa Gaetani, non risultò strano – né sospetto – che la vecchietta si rivolgesse a Virginia.

 «Mi stai simpatica», le disse a voce bassa, nascondendo la bocca col ventaglio. Virginia si voltò, sorpresa: lanciò uno sguardo veloce alla madre e rispose, utilizzando la stessa sincerità, che forse diceva così perché non la conosceva. La vecchina rise e, in un lamento, espresse il suo desiderio di andar fuori all’aria aperta; la signora Gaetani, allora, esortò la figlia ad accompagnare la signora, e Virginia obbedì. Per la prima volta dopo molto tempo, tornò a esaudire una richiesta della madre.

 

 

«Ti ho capita subito, a te!» sghignazzava la vecchietta, «solo delle cecate come Lucrezia possono non accorgersene. Si vede già dai capelli» disse, indicando la chioma di Virginia che, per l’occasione, era stata raccolta da un nastro bianco «le signorine calme hanno i capelli lisci lisci»

«Ma i vostri sono ricci!»

«Appunto! Io tale e quale a te ero»

La signora Angela era stata sempre la croce della sua famiglia, e nessuno pensava che si sarebbe sposata. «E chi mi si poteva mai pigliare? Ero una matta, e non lo nascondevo, io, in questo siamo diverse. Per fortuna ho trovato uno più matto di me, e ci siamo messi assieme».

Come il suo marito pazzo fosse riuscito a guadagnare soldi e una posizione, Angela non era mai riuscita a spiegarselo: fatto sta che c’era riuscito, e quindi Mario, il loro bambino, era cresciuto nella bambagia: per questo era venuto su “così rammollito” e s’era preso “a quella bambola cretina di Lucrezia”. «Quei due pensavano solo ai soldi, e già erano insopportabili. Poi hanno cominciato pure a pensare al titolo nobiliare, e sono diventati anche peggio.

«A me tuo fratello piace, non dico di no, ma non è che puoi combinare un matrimonio solo perché quello è un barone. A Emma lui piace e quindi va tutto bene, ma se non si piacevano? Già è difficile stare tutta la vita con uno che ami, figuriamoci con uno che schifi…»

Fu presto chiaro a tutti che Virginia ed Angela fossero diventate amiche e complici: non si lasciavano un minuto, chiacchieravano di continuo e avevano anche stanze comunicanti. «Se qualcuno deve trovarmi morta stecchita preferisco che sia lei, almeno sono certa che non mi ruberà i gioielli», aveva detto la signora.

Quell’amicizia faceva piacere a tutti, perché tutti trovavano l’anziana un peso, ed erano felici che Virginia la intrattenesse in qualche modo; l’unica ad amare davvero la donna era Emma, ma Emma ormai si era persa negli occhi scuri di Elio, e non riusciva a dedicarsi ad altri che a lui.

Virginia, dal canto suo, aveva deciso di vuotare il sacco, e di raccontare alla signora Angela la sua vita, operando però una censura su ciò che riguardava Elio e quindi Silvia: aveva semplicemente detto di aver perso una cara amica a causa della famiglia, confessando di nutrire un odio alquanto profondo verso genitori e fratelli, e ammettendo di aver tentato varie volte la fuga.

 «Oh, a Valle è una cosa che proprio non puoi fare. Dove te ne scappi?»

«Potrei scappare nei boschi», rise la ragazza. «Ce ne sono tanti!»

La signora Angela, per la prima volta, si fece seria, e apparve più vecchia. «Non scherzare su queste cose, Virginia. Voi giovani siete miscredenti, ma guarda che la situazione è seria.

Non ti hanno raccontato la storia del bosco? E se anche non l’hanno fatto… non ti sei accorta che, dal lato dove affacciano le nostre finestre, non c’è anima viva dopo il tramonto?»

A Virginia nessuno aveva raccontato niente, ma in quel momento le venne in mente ciò che in quei giorni aveva dimenticato: il Monte Janara. Quando chiese alla signora se esistessero legami tra quel monte e i pericoli del bosco, la vecchia sorrise, con quel sorriso amaro e un po’ saccente che spesso esibiscono gli anziani, quando sanno che i giovani pendono dalle loro labbra.

«Sul Monte Janara sono sempre accadute cose strane, altrimenti non si sarebbe chiamato così, ti pare? Ma le streghe non c’entrano, quelle non hanno mai fatto male a nessuno; saranno anche dispettose, ma non ammazzano. Ecco, Virginia, io non ho vissuto sempre qui, te l’ho detto: sono venuta solo quando è venuto qui mio figlio per sposarsi quella Lucrezia… e Lucrezia non è che ha voluto spiegare bene le cose, comunque qualcosa l’ho saputo.

«Dunque, su quella montagna ci vivevano dei nobili, e quando Lucrezia era una ragazza c’erano un conte e suo figlio. Il ragazzo – non me lo ricordo il nome, non era italiano, perché la mamma non era italiana – era una cattiva persona, così diceva Lucrezia, almeno, e così dicevano tutti quanti. Con tutto che era una cattiva persona, comunque, non aveva mai ammazzato nessuno: e invece lui fu ammazzato, e proprio sul Monte Janara, mentre tornava a casa il 28 Gennaio 1893. Chi l’ha ammazzato, non si seppe mai; comunque il conte decise di lasciare Valle, e la loro abitazione rimase vuota.

«Lucrezia dice che era un castello tanto grande che a Valle, in paese, lo vedevano, nonostante i boschi che coprono il monte… e adesso invece? L’hai visto tu? No, non c’è. Non è che non si vede: non c’è proprio più. Anche se sali sul Monte Janara, non lo trovi. Comunque a questo puoi anche non credere, alla fine l’ha detto Lucrezia, quindi io stessa non ci metterei la mano sul fuoco. Quello che posso assicurarti, è altro… ma mi stai ascoltando o no?»

Virginia non fiatava e si era per un attimo smarrita tra i suoi stessi pensieri. Il 28 Gennaio 1893. Quel ragazzo era stato assassinato il 28 Gennaio 1893. Quando lei era venuta al mondo.

«Vi supplico, proseguite» la implorò, tornando in sé. «Cos’è che potete assicurarmi?»

La vecchia tornò a sorridere, e si schiarì la voce.

« Se vai di notte a Monte Janara

senti la voce di un grande spettro

che grida, saltando da una rupe all’altra,

invocando vendetta »

 

«Non capisco» sussurrò Virginia, stranamente eccitata. «Che vuol dire?»

La signora Angela la osservò, tutta soddisfatta. «Ora ti spiego»

 

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Capitolo 13
*** Monte Janara ***


 

Virginia non badava molto al trambusto che aveva attorno, né ad Emma che continuava a chiederle un parere sull’abito da sposa; se ne stava persa nel suo mondo, imbambolata, preoccupandosi solo di annuire di tanto in tanto, giusto per non insospettire più del solito.

Il giovane conte, il conte della montagna. Non riusciva a pensare ad altro, o ad altri.

«Sono passati sette anni, e posso dirti pure che giorno era, perché la sera prima avevamo festeggiato il compleanno di Emma. Il 24 Giugno, di mattina, uno del villaggio… pace all’anima sua, ma era proprio un ubriacone… disse di aver incontrato un ragazzo, la notte prima. Nel bosco.

«Il ragazzo, secondo quest’uomo, gli aveva parlato dicendo che il bosco di Monte Janara, oltre il quale sorgeva un tempo il castello dei conti, era di sua proprietà. Se anche una sola persona  fosse tornata a metter piede in quelle terre, avrebbe pagato il dazio con la vita.»

Il 24 Giugno del 1906. Allora Virginia aveva solo 13 anni. Anche la giovane Gaetani ricordava bene quella data, come ricordava lo sgomento che l’aveva colta quella calda mattina, quando si era accorta di aver perso tanto sangue. Lei, che neanche sapeva cosa fossero le mestruazioni.

«Si sa che gli uomini non credono a ciò che non vedono, e vollero vedere. Nel giro di un’ora si riunì un gruppetto che andò a perlustrare la zona… e niente, non trovarono niente e nessuno. Allora il vecchio Peppe, così si chiamava, protestò con forza, difendendo la propria verità e continuando a sostenere che il ragazzo lui l’aveva vista davvero. Suggerì di tornare nel bosco la notte, perché il ragazzo era certamente una creatura di un altro mondo e le creature dell’altro mondo compaiono di notte. Oh, non lo avesse mai detto…

«Tornarono a salire su Monte Janara, quella notte... da allora, nessuno li ha più visti.»

Una frase passò nella mente di Virginia, attraversandola come un lampo: li aveva avvertiti. Non era colpa sua, non si poteva parlar male di lui: in fondo, li aveva avvertiti. Ma come pronunciare una frase che le causava tanta vergogna al solo pensiero? Stava difendendo un assassino, un assassino che non conosceva neanche. Perché si sentiva solidale verso quel fantomatico ragazzo? Era solo perché si trattava di una creatura “fantastica”, in un certo senso?

«E non finisce qui, perché la stupidità umana non ha fine. Altri uomini salirono sul monte, alla ricerca di quelli che erano scomparsi. Niente, non tornarono più. Infine… Dio, la curiosità a volte spinge l’uomo a cose mostruose… quando ormai avevamo perso una trentina di uomini – in tre giorni, Virginia! Trenta uomini in tre notti! – pensarono… non so chi lo fece… pensarono di provare una cosa nuova. Gli uomini che avevamo perso erano entrati nel bosco decisi a trovare il ragazzo, ma… se qualcuno vi si fosse trovato solo per caso? Insomma, forse il ragazzo voleva semplicemente che non lo si andasse a cercare… e avrebbe perdonato chi, invece, fosse capitato da quelle parti… per sbaglio.

«Per farla breve, mandarono un bambino. Nessuno si oppose perché era un orfanello, e non aveva nessuno. Se ci penso, quella povera creatura… dev’essersi spaventata a morte…»

Virginia trattenne il fiato: amava i bambini e non avrebbe mai potuto giustificare una violenza rivolta a qualche piccino. «Si prese anche lui?»

La signora sorrise amaramente.

«No, non lo fece. Il bambino tornò… poco prima dell’alba. Disse di avere incontrato un ragazzo che gli aveva parlato, chiedendogli se si fosse perso; lui, mentendo perché spaventato, aveva detto di sì. Allora il ragazzo lo aveva affidato a un lupo per farlo scortare… e l’animale l’aveva accompagnato fuori dal bosco»

Parlava agli animali. Il ragazzo parlava ai lupi e aveva un cuore: non aveva toccato il bambino.

«Al villaggio non ci arrivarono al fatto che il ragazzo avesse risparmiato la creatura perché in tenera età; pensarono che l’avesse fatto perché il bambino aveva detto di essersi perso… che idioti. Ah, Virginia, ti assicuro che l’altra gente che si è trovata da quelle parti, incredula o temeraria che fosse, non è più tornata indietro. E negli ultimi anni qualche ragazzotto pure l’abbiamo perso… questi ventenni – come te! – che non credono a nulla e vanno alla ricerca di prove di coraggio da affrontare, per fare vedere agli altri quanto sono bravi… santo cielo, una prova di coraggio che vale la vita…»

Avrebbe pagato oro, Virginia, perché la signora Angela ricordasse il nome di quel giovane conte. Non poteva che essere lui lo “spirito della montagna”, come aveva preso a chiamarlo la ragazza.

«Io non ti ho raccontato questa storia per farti fantasticare, ragazzina» aveva protestato la signora Cardaniese, «ma per farti capire che i pericoli esistono, qui, e se ci tieni alla pelle devi startene a casa, la notte.»

Ma la notte non era il giorno.

 

 

 

 

 

Elio sbuffava, e stentava a celare il proprio malcontento; l’unica cosa positiva di quella “escursione” era Emma che, titubante, si aggrappava al braccio del fidanzato in cerca di sostegno. Virginia li precedeva, seguendo il pastore che avevano pagato per far loro da guida, incantata dalle fronde che creavano un fresco riparo dal caldo Sole di Giugno.

«Ma non siamo già passati da questa parte?»

Elio fece una smorfia e guardò la sorella, felice di poter in qualche modo sfogare la propria rabbia. «Come potremmo esser già passati di qui, se stiamo salendo?»

Il pastore abbassò la testa, mentre Emma approfittava della sosta per liberare le scarpine dalle pietre che erano penetrate all’interno e Virginia continuava a sostenere, imperterrita, di esser sicura di ciò che diceva. «Non è poi tanto alto, questo monte; avremmo dovuto già raggiungere la cima, visto da quanto tempo siamo in marcia»

Il pastore tossicchiò e, teso, volse un’occhiata fugace ad Emma. «Cara Virginia, non credo sia possibile arrivare in cima… non avevo capito che fosse quella la tua intenzione» disse lei.  «Vedi, io credo che da Valle non ci si renda conto di quanto il monte sia effettivamente alto… sembra piccino, ma non lo è. Lo dimostra proprio il fatto che nessuno riesca mai a raggiungerne la cima»

«Confermo» intervenne il pastore, poco rassicurante. «Io dico che possiamo pure tornare giù… ormai quello che c’era da vedere lo abbiamo visto»

Tacquero, divenendo silenzioso pubblico di un concerto di grilli. Il pastore taceva perché non voleva spiegare: i Gaetani erano stranieri e in paese avevano deciso di non spaventare gli stranieri con quella strana storia; Emma aveva accettato di prender parte alla passeggiata per compiacere la cognata, ma la situazione stava diventando difficile e, peggio ancora, Elio era palesemente annoiato; Elio, dal canto suo, non aveva mai amato la natura e malediceva silenziosamente grilli, rami, foglie e, soprattutto, sua sorella. Virginia si vide costretta a cedere e acconsentì a tornare a Valle, piuttosto soddisfatta: in effetti, qualcosa l’aveva scoperto.

Il bosco li aveva ingannati. Il bosco era vivo, ma non come lo erano gli altri boschi in cui la vita palpitava attraverso piante e animaletti; quel bosco aveva anche una mente. Il castello dei conti, pensava la ragazza, esisteva ancora, ma il bosco impediva a chiunque di vederlo o raggiungerlo: in tre ore, il gruppetto aveva percorso più e più volte gli stessi sentieri… perché il bosco ce li aveva riportati, impedendo loro di andare avanti, bloccando il loro passaggio. Non aveva percepito ostilità da parte di quel luogo, Virginia, ma riserbo: la natura, lì, non voleva l’uomo.

Ma io non appartengo agli uomini, caro bosco. Io appartengo a te.

«Sarebbe bello essere un albero» disse ad alta voce, sperando di essere udita dagli spiriti di quel luogo, più che dai suoi compagni. Purtroppo, però, a sentirla furono questi ultimi ed Elio, rosso di rabbia e vergogna, dovette fingere di trovare divertente quella battuta della sorella.

 

Non sarebbe stato difficile muoversi, neanche di notte, a patto che la Luna avesse illuminato il sentiero.

La Luna sarebbe stata piena il 18 Giugno. Elio ed Emma si sarebbero sposati il 22 e questo voleva dire che la notte tra il sabato e la domenica nessuno avrebbe badato a lei. La Luna, allora, sarebbe stata ancora abbastanza tonda.

Nessuno l’avrebbe trovata, nel bosco, semplicemente perché nessuno si sarebbe mai sognato di seguirla o cercarla sul monte Janara.

Sarebbe stata libera. Questa volta, sarebbe riuscita a fuggire.

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Capitolo 14
*** Via ***


Non c’era il trambusto che Virginia aveva previsto: i Cardaniese ed i Gaetani avevano preparato ormai ogni cosa e, la sera precedente il matrimonio, tutti avevano ritenuto giusto e saggio andare a riposare di buon’ora. Era già stato stabilito che Elio avrebbe raggiunto la chiesetta del paese nella prima mattinata, per confessarsi e permettere alla sposa di prepararsi in santa pace. L’abito (che ovviamente Elio non aveva visto!) era semplice e grazioso come Emma, di cui accentuava la bellezza, ma anche le parenti degli sposi avrebbero fatto bella figura! La signora Gaetani osservò soddisfatta il vestito di Virginia: era di un color rosa tenue decorato con strani disegni che s’intrecciavano tra loro e la ragazza, quando l’aveva indossato per la prova, era apparsa una damina assolutamente delicata e fine, coi bei capelli raccolti sulla nuca.

«Sarai davvero stupenda, mia cara!»

Virginia, intenta a scrutar fuori dalla finestra, si voltò: quella era forse la frase più gentile che sua madre le avesse mai rivolto, sebbene la baronessina non fosse d’accordo con lei; al contrario, trovava l’abito ridicolo e pomposo. Parlò ancora, la signora Gaetani, ma la ragazza non ascoltava. Osservava la madre con curiosità, tentando invano di scorgere nei tratti di lei qualcosa di se stessa; per un attimo si disse che avrebbe dovuto imprimere bene nella mente quel viso che non avrebbe più rivisto, ma presto cambiò idea: tanto meglio se fosse riuscita a dimenticare tutto e tutti. Abbozzò un sorriso gentile quando la donna uscì dalla stanza raccomandandole di mettersi subito a letto e pensò a Giulietta Capuleti: ecco come doveva essersi sentita la sua eroina preferita quando, la notte della sua finta morte, aveva fatto credere a tutti di essere buona e sottomessa…

Seduta sul letto, tentò di pazientare: era in camicia da notte e questo andava bene, non le sarebbero serviti abiti eleganti e scomodi sul monte Janara; i piedi erano scalzi, per far meno rumore durante la fuga; i capelli ricci, liberi, le ricadevano a ciocche dinanzi agli occhi come lunghe, morbide molle, facendola sorridere. Sarebbe stato bello tenerli sempre così, sciolti. Nelle giornate di vento li avrebbe esposti ai soffi d’aria e sarebbe stata la pioggia a lavarli. La nuova vita era vicina, bastava solo aspettare che tutti andassero a letto.

Aveva fatto in modo di scambiare una parola con ogni membro della sua famiglia, quella sera, giusto per evitare eventuali rimorsi; non c’erano state parole dolci o affettuose, ma aveva augurato la buonanotte al padre prima di ritirarsi nella sua stanza, chiesto a Quirino se si sentisse bene durante la cena e sorriso gentilmente a Leonardo quando, al momento di lasciare la sala da pranzo, lui l’aveva fatta passare avanti rivolgendole un galante inchino. Con Elio non aveva parlato, ma a lui teneva poco; in compenso era stata con la nonna Cardaniese a scherzare su quanto il matrimonio sarebbe stato noioso, con tutti quei parenti antipatici e il prete che, come diceva la nonna, parlava come se non ci fosse un domani. L’aveva abbracciata con energia prima di salutarla, con le lacrime agli occhi.

«Che hai da piangere, ragazzina? Sopravvivremo a domani, su!»

«Oh, no. Piango di gioia, perché incontrarvi è stata una fortuna»

 

Le campane della chiesa rintoccarono la mezzanotte e Virginia capì che era ora di andare: dopotutto, già da un pezzo non si sentivano più rumori. Non trovò difficile muoversi al buio in quella casa, perché già molte volte aveva percorso quei corridoi; il fatto di non indossare calzature l’aiutava ad esser silenziosa come una gatta e giunse presto alla finestra del primo piano che aveva notato durante il suo primo giorno in quella casa. I possenti rami di un’antica quercia erano vicinissimi a quella finestra e per lei, che più di una volta aveva tentato la fuga da casa sua ricorrendo a mezzi simili, era cosa da nulla aggrapparsi a uno di quei rami per poi scendere dall’albero.

Aprì le imposte lentamente e la bianca luce della Luna ancora tondeggiante le illuminò il viso. Esitò qualche istante, ma subito le tornarono alla mente le parole udite quel giorno: Elio aveva detto ad Emma – lei aveva origliato mentre i due erano in salotto – che, alla morte dei genitori, Virginia sarebbe stata spedita in convento, dove avrebbe vissuto tranquilla e serena.

Al diavolo Elio e al diavolo i conventi.

 

 

Elio non era una persona ansiosa e non aveva motivi di preoccuparsi, poiché ogni aspetto della cerimonia era stato preparato con largo anticipo; se non riusciva a prender sonno, era semplicemente perché si sentiva troppo felice per dormire. Finalmente Emma sarebbe stata sua… e visto come avrebbe trascorso la notte successiva, pensò eccitato, forse sarebbe stato meglio riposare! Questo pensiero gli passò per la testa proprio mentre, insoddisfatto del panorama offertogli dalla finestra di camera sua, stava accingendosi a chiudere le imposte. Capita spesso di guardarsi attorno con poca attenzione e notare solo in un secondo momento, quando lo sguardo è ormai altrove, di aver intravisto qualcosa di interessante. Elio, che era al buio, aveva dapprima ignorato la bianca figura vicina al cancello; ma quando il cervello elaborò meglio l’immagine ed egli tornò a guardarla, il ragazzo si sentì invadere dall’ira. Sua sorella era appena uscita dal cancello.

La signora Gaetani, Emma e anche sua madre piangevano come delle pazze, pensando al matrimonio rovinato. Se non avessero ritrovato Virginia, come avrebbero potuto sposarsi, Emma ed Elio? Come avrebbero giustificato l’assenza della ragazza, con una bugia? Ma qualora Virginia non avesse mai fatto ritorno, cosa sarebbe accaduto? Certo tutta la gente li avrebbe criticati per aver celebrato il rito nonostante la sparizione della ragazza, senza contare che le persone coinvolte, quelle estranee alla famiglia, avrebbero parlato.

Elio percorreva la stanza a grandi passi, troppo nervoso per poter badare alle donne. Non c’era andato a cercare la sorella, lui. In realtà era stato complicato trovare qualcuno disposto a farlo. Quando aveva fatto irruzione nei corridoi gridando come un forsennato, domestici e parenti erano sbucati fuori dalle proprie camere: alcuni zii si erano infatti recati a Valle con qualche giorno di anticipo. Inizialmente, il signor Gaetani sarebbe partito alla ricerca della figlia anche in pigiama, seguito da tutti gli uomini della famiglia con la sola eccezione di Quirino e dai membri della servitù che si erano portati dietro: dopotutto, erano abituati a cose del genere; le avevano affrontate in passato uscendone vittoriosi.

A far tentennare il coraggio del branco fu Angela Cardaniese, che aveva ascoltato in silenzio, lasciando che le lacrime le bagnassero il viso. Contrariamente alle altre donne, però, lei piangeva la perdita di Virginia, non il fatto di dover rimandare il matrimonio. «Non pensateci neanche. Virginia… sono sicura che sia andata sul monte Janara. L’abbiamo persa, lasciate stare: nessuno torna vivo da lì. Non fate gli sciocchi. Almeno voi, salvatevi»

Sebbene spaventati, gli uomini avevano per un attimo mantenuto la propria posizione, ma Emma aveva pianto tanto, arrivando persino ad inginocchiarsi ai piedi di Elio per non farlo andare, che quelli dovettero desistere. A salire sul monte Janara furono i domestici dei Gaetani, ignari del pericolo e quindi impavidi.

 

***

 

Sarebbe stato tutto più semplice, se avesse avuto delle calzature ai piedi. Erano avvantaggiati gli uomini che la inseguivano, con quelle scarpe, quelle lanterne e… quei pantaloni. La camicia da notte era meno comoda di quanto avesse previsto.

Sarebbe stato tutto più semplice soprattutto se si fossero trovati in un posto normale; ma come fare a fuggire, se era il bosco a decidere dove portarti? Le sembrava di procedere, eppure non riusciva mai a seminare i suoi inseguitori, nonostante il vantaggio di quasi un’ora che aveva avuto nella fuga. Gli uomini gridavano il suo nome e lei si imponeva di non urlare, neanche quando i piedi si ferivano a causa delle pietre, neanche quando riusciva a intravedere la luce delle lanterne, simbolo di pericolo… iniziò a credere che forse i suoi piani di comunione totale col regno animale non erano stati realistici, semplicemente perché quel bosco pareva deserto. Al villaggio, quella notte, udirono i lupi ululare: ma chi era nel bosco non riusciva a sentirli. Peccato, perché il loro canto avrebbe rincuorato la ragazza.

Non c’erano animali, non c’erano lupi, forse non c’era neanche il ragazzo della montagna. C’erano solo lei ed i suoi inseguitori, che l’avrebbero presa, ne era sempre più convinta. Ma lei non voleva, non voleva tornare a casa…

Era talmente preoccupata, la poveretta, talmente concentrata sulla sua fuga, da non rendersi conto dell’improvviso silenzio e del buio totale; quando poi si accorse che nessuno la chiamava più e che le luci delle lanterne non si vedevano, il suo spavento crebbe: era di certo una trappola. Stavano fingendo di aver lasciato perdere proprio per riuscire a prenderla di sorpresa. Ah, ma lei non avrebbe abboccato! Non si sarebbe fermata, avrebbe continuato a correre anche tutta la notte…

 

 

Cadde. Stanchezza, tristezza e panico la tennero schiacciata sull’erba, concedendole di rialzarsi solo dopo qualche minuto, quando il bisogno di fuggire vinse nuovamente il sonno.

Risollevando il capo, si ritrovò faccia a faccia con un lupo. L’animale la guardò negli occhi, o più probabilmente guardò oltre gli occhi ed iniziò a ululare. Virginia abbassò le palpebre e rimase in ascolto, momentaneamente tranquillizzata. Le parve di innalzarsi verso la Luna assieme a quel canto e solo quando questo finì tornò nel mondo reale. Allora capì che il lupo aveva chiamato i suoi compagni, che la circondavano.

All’interno del cerchio, solo lei e un ragazzo – o un uomo, non riusciva a vederne bene i lineamenti al buio – che se ne stava in piedi a osservarla, elegante, immobile come una statua. Vestiva di nero e Virginia pensò che, illuminati dalla Luna, sarebbero sembrati un lupo nero e un coniglio bianco.

«Questo posto non è per gli uomini» proferì improvvisamente lui, facendola sobbalzare: quella voce era tanto bassa e grave da turbare chi la udisse e fu strano quando, con la sua vocetta da uccellino, la ragazza rispose con un deciso “lo so”.

Il ragazzo inarcò un sopracciglio vedendola rialzarsi e guardarsi intorno, agitata. Erano quasi uguali in altezza, lui la superava di pochi centimetri.

«So che non è un posto per uomini, ma… se solo potessimo discuterne in un secondo momento…» Tremò, udendo uno scoiattolo muoversi su qualche ramo. «Mi stanno cercando!» sbottò esasperata, quasi piangendo. «Il bosco è colmo di uomini che mi inseguono… se solo riuscissi a nascondermi per qualche ora, dopo giuro che…»

«Ti sbagli» la interruppe lui, tranquillo. «Oltre agli animali, in questo bosco ci siamo solo tu ed io.»

«Mi inseguono, ti dico! Non è la prima volta che lo fanno e ti assicuro che non si arrenderanno tanto facilmente!»

«Gli uomini che ti inseguivano non sono più nel bosco» ripeté. «Né in nessun altro luogo» aggiunse, lanciando un’occhiata d’intesa ai lupi.

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Capitolo 15
*** Sette anni dopo ***


 

Non era semplice giungere a Valle, come non è mai stato facile raggiungere località montane; il lungo viaggio da affrontare, la scarsa stabilità della strada piena di curve e il clima gelido della zona aumentavano l’isolamento del paesello che, durante l’Inverno, manteneva col resto del mondo solo i contatti indispensabili per procurarsi il cibo. In Estate, però, gli abitanti di Valle vedevano passeggiare nella piazzetta gente “nuova”, educata e ben vestita, recatasi in quell’oasi perché attratta dall’aria fresca e pulita. In effetti, Valle sarebbe stata davvero un posto tranquillo e piacevole, se non fosse stato per quei boschi… per fortuna, tutti tacevano a riguardo. Sì, i turisti si sentivano ripetere fino allo sfinimento di evitare monte Janara a causa delle bestie feroci che lo popolavano, ma tutto finiva qui.

Finiva qui perché il consiglio era sempre accolto.

L’ultimo “incidente” aveva avuto luogo nel 1913. Oh, certo, nessuno avrebbe mai dimenticato la notte in cui Virginia Gaetani era scomparsa assieme ai dodici servitori della famiglia che, ingenui, erano andati a cercarla; tredici morti, nessun corpo ritrovato, il matrimonio rimandato, i Gaetani che avevano minacciato di far finire la notizia su tutti i giornali. Ma quale giornale avrebbe mai pubblicato una notizia del genere, in un periodo come quello? Alla fine il caso era stato archiviato (per alcuni risolto: lo “spirito del bosco” se li era presi tutti, non c’era altro da dire o spiegare) ed Emma Cardaniese aveva sposato Elio nel 1914, dopo l’anno di lutto dovuto alla memoria di Virginia.

Leonardo Gaetani era stato l’unico membro della famiglia a provare una reale tristezza per l’inspiegabile scomparsa della sorella; Quirino non aveva trovato rilevante l’accaduto ed Elio, come i genitori, era troppo furioso e imbarazzato per poter pensare al dispiacere; anzi, era giunto alla conclusione che senza quella peste si stesse meglio e si convinse che la sua morte fosse stata una salvezza per tutti.

***

Nel 1920, Angela Virginia Gaetani aveva cinque anni ed era identica a suo padre: solo il carattere pacato e l’innata delicatezza rivelavano che fosse figlia anche di Emma. A Emma, comunque, andava il merito di aver educato la bambina, una dama in miniatura buona, gentile e al contempo assolutamente orgogliosa del proprio casato. La piccola non aveva mai conosciuto le donne di cui portava i nomi, perché entrambe erano morte, ma la mamma le aveva raccontato di come la bisnonna Angela fosse stata forte e di quanto la zia Virginia fosse bella. Ritratti delle due non ne aveva visti, ma la bimba era troppo piccola per essere incuriosita da cose del genere; preferiva interessarsi a fiorellini, animali e cappellini. I morti erano morti e non facevano parte del suo mondo, pensava: dunque, la sua vita girava attorno ai nonni, all’adorato cagnolino, alla mamma e, soprattutto, al papà. Emma, innamorata, non aveva mai pensato che il marito fosse una brutta persona; dalla nascita di Angela, poi, era arrivata a convincersi d’aver sposato l’uomo migliore al mondo. Chi aveva conosciuto davvero Elio Gaetani, sapeva che non era mai stato uno stinco di santo; tuttavia, gli stessi che avevano conosciuto la sua insensibilità e la sua arroganza, si erano visti costretti a riconoscere in lui un cambiamento innegabile, dovuto al matrimonio o, più probabilmente, alla paternità.

Elio era oggettivamente un padre perfetto. Sapeva esser severo se necessario, ma solitamente trattava la figlia con una dolcezza tenerissima: Angela si addormentava tra le sue braccia, appariva in pubblico solo se accompagnata da lui e sentiva la necessità urgente di baciarlo ogni dieci minuti; dal canto suo, Elio l’amava a tal punto da voler quasi rinunciare a un figlio maschio: così Angela avrebbe avuto sempre più attenzioni, più amore… e tutta l’eredità.

Ogni desiderio – desiderio, non capriccio! – di Angela andava esaudito, ogni suo sogno realizzato.

Solo l’aspetto di quella bambina aveva, in principio, turbato suo padre: Angela era identica a Virginia. Passasse il secondo nome, che Elio aveva accordato solo perché lo riteneva una specie di formale obbligo, ma la somiglianza… ! Si era cominciata a notare quando aveva tre anni e per gli altri non era stata una sorpresa: Virginia ed Elio erano stati come due gocce d’acqua e i riccioli castani di Angela, i suoi occhi grandi dalle lunghe ciglia… ricordavano l’uno come l’altra. Semplicemente, Angela era una bimba che somigliava a suo padre.

Eppure per Elio era tanto strano vedere quanto il suo piccolo amore somigliasse alla sciocca sorella… l’essere che più amava, uguale a quello che più aveva odiato.

Non potendo cambiare la realtà, Elio decise dunque che, se Angela somigliava a Virginia, Virginia doveva essere guardata con occhi diversi. Angela non poteva ricordare qualcosa di negativo. Somigliava a Virginia? Bene, allora Virginia era stata buona. Buona, dolce e bella. Lui forse non l’aveva compresa, si era sbagliato sul suo conto… ora non importava. L’importante era convincersi che l’immagine di Virginia, nella sua memoria, divenisse pulita e perfetta, così Angela avrebbe potuto somigliarle tranquillamente.

Nonostante ciò, i ritratti di Virginia Gaetani rimasero a giacere in cassetti chiusi, lontani dagli occhi di tutti.

 

Come molte bambine amate, Angela era molto sicura di sé e piuttosto coraggiosa; non si era mai allontanata da casa perché, come il padre, apprezzava ogni agio; tuttavia, il mondo non la spaventava, come non la spaventava il buio, né i mostri delle storie che a volte le raccontavano. Non condivideva neanche la paura di essere abbandonata, comune a molti bimbi: credeva ciecamente ai suoi genitori e sapeva con certezza che mai e poi mai l’avrebbero lasciata sola.

Quando Emma disse ad Elio che era necessario recarsi a Valle, perché i suoi genitori erano ormai anziani e non era saggio far loro affrontare un lungo viaggio per vedere la nipotina dato che Angela era ormai abbastanza grande per spostarsi senza fare troppi capricci, il ragazzo non fu contento. Valle non gli era mai piaciuta e, dalla scomparsa di Virginia, la riteneva ovviamente pericolosa. Solo quando gli fu assicurato che più nulla era accaduto, che tutto ormai sembrava “normale” e che, comunque, era sempre stato sufficiente tenersi lontani dal bosco durante la notte, Elio si decise.

 

***

 

Nel grande e cupo castello che, invisibile a chi non fosse gradito, troneggiava su monte Janara, il conte e la contessa trascorrevano una vita tranquilla, tra libri, strumenti musicali e pennelli. Il fatto di non poter vedere il giorno e di non aver contatti con altri uomini non rappresentava per loro un grande problema, perché amavano la notte e la solitudine; ognuno bastava all’altro e, se proprio avessero voluto discorrere con una terza persona, avrebbero potuto contare su quel vecchio che avevano preso come maggiordomo. Nessuno lo sapeva, ma dopo quella di Virginia Gaetani c’era stata un’altra sparizione; nessuno lo sapeva, perché quel vecchio era giunto a Valle in silenzio ed era salito sul monte senza farsi vedere in paese.

Solo una cosa intristiva la contessa: lei e suo marito non avevano e non avrebbero mai potuto aver figli… e lei, amante dei bambini, aveva sempre sognato di esser madre; non aveva parlato della sua sofferenza per non addolorare anche il marito, ma questi l’aveva notata e, deciso a vederla felice, le aveva suggerito un’idea ottima.

Non aveva mai provato su nessun essere umano l’ipnosi e non era sicura di riuscire a chiamare qualche bambino vista la distanza che separava il castello dal paese; tuttavia i bimbi hanno delle menti “aperte”, come amava definirle lei, il che avrebbe dovuto rendere più semplice la comunicazione. In ogni caso, tentare non avrebbe fatto male a nessuno… e lei non voleva mica rapirli, i piccoli. Quando fossero cresciuti, o se avessero per caso espresso il desiderio di tornare a casa, li avrebbe lasciati andare.

 

 

«Vieni da me!»

Angela aprì gli occhietti di scatto. Si sentì spaesata per qualche secondo, poi ricordò di trovarsi a Valle, a casa della nonna, in una stanzetta che era stata arredata appositamente per lei! Ma chi era che l’aveva chiamata? Non era la voce della mamma, questo lo sapeva. Si guardò attorno, senza scorgere nessuno.

«Vieni da me!»

Le sembrò di tornare a dormire, ma gli occhietti erano aperti. Era strano, non le era mai capito prima: era proprio come dormire, o sognare… ma con gli occhi aperti e senza essere stesi.

«Vieni da me!»

La terza chiamata fu come il canto di una sirena per un marinaio: la piccola balzò giù dal letto, infilò le belle pantofoline e aprì la porta. Piccola e silenziosa com’era, non svegliò i familiari addormentati e riuscì senza troppe difficoltà (e senza sapere come) a sbloccare la serratura del portone. Guidata da una forza che non la spingeva ma la attirava, come se una cordicella fosse legata al suo corpicino e la conducesse dolcemente verso chi ne teneva le redini, Angela camminò in un sentiero disabitato pieno di alberi e in salita; quando giunse nel cuore del bosco, dove ogni direzione le sembrava uguale, fu un lupo a mettersela in groppa e portarla a destinazione. Lei, ancora in trance, non ebbe paura.

 

Il conte non aveva mai visto sua moglie tanto agitata: si sfregava le mani con ansia e spiava il cancello attraverso la finestra.

«Non verrà nessuno» sussurrò mortificata, «devo aver fallito»

«Mia cara, dovresti concedere a questa creatura il tempo di raggiungerci». Sorrise e, avvicinatosi, prese tra le sue le mani di lei. «Hanno le gambe corte, non puoi pretendere che siano veloci»

Come sempre, il tocco di lui la tranquillizzò. La contessa tese le labbra e, quando quelle di lui le raggiunsero, si sentì libera da ogni timore e incertezza: il resto del mondo non la turbava e non le interessava, finché era con Lui. Riaprendo gli occhi lo vide sorridere: col mento le indicò che l’ospite stava arrivando.

Lo baciò nuovamente e, con enfasi, corse a spalancare il portone: un esserino dai riccioli scuri avanzava verso di lei a passo deciso e con lo sguardo perso.

«Buonasera, mia cara» esclamò la stessa voce che aveva chiamato Angela. La bimba sbatté le palpebre e vide una bella signora accovacciata davanti a lei; dietro la signora, in piedi, vi era un uomo vestito elegantemente, che la osservava con stupore. «Hai adescato la persona giusta» lo sentì dire, «potrebbe essere davvero tua figlia… ti somiglia»

«Potrebbe essere davvero nostra figlia», lo corresse la signora senza distogliere lo sguardo dalla bambina.

«Non avevo mai visto un castello» ammise la piccola, meravigliata, dicendo la prima cosa che le venisse in mente. Non aveva paura, perché la signora le sorrideva e la accarezzava… e somigliava anche un po’ al suo papà.

«Vorresti vedere com’è fatto dentro?» domandò la signora alzandosi e mostrando così la maestosità del lungo abito nero.

La piccola esitò. Le vennero in mente le parole dei genitori riguardo gli estranei e si sentì improvvisamente stupita: perché quella signora non le aveva ancora detto chi era?

«Non vuoi sapere il mio nome?» indagò, per preparare il terreno alla domanda successiva.

«No, mia cara, non è necessario; non m’importa conoscere il tuo nome… puoi scegliere tu un nuovo nome con cui farti chiamare»

Angela sorrise, divertita: le sembrava un bel gioco. «Allora voglio esser chiamata Neve!» decise dopo una veloce ma attenta riflessione: la neve era certamente una delle cose più belle che avesse mai visto. «Ma tu chi sei?» tornò a domandare quando, felice, la signora la invitò a entrare nel castello.

«Io sono la contessa di questo paese… e lui è mio marito» spiegò semplicemente, scostando una ciocca di capelli ricci che le aveva coperto gli occhi.

Ancora le parole di Elio ed Emma sull’importanza del non dare confidenza agli estranei si affacciarono nella testolina della bimba, assieme alle immagini di alcune fiabe in cui i bambini venivano puniti per aver disobbedito ai genitori e seguito qualche sconosciuto. Quella signora però viveva in un castello ed era una contessa… e una contessa non poteva essere molto diversa da una principessa. E se quella donna era una principessa, non era una strega, ed era buona.

«Dunque, piccola mia? Vuoi entrare?» La signora aveva una voce tanto dolce da accarezzarla e le tendeva la mano. La bimba la afferrò e, guardandola negli occhi, annuì con un sorriso. Fu il conte a richiudere il portone.

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


Angela era stata felice di poter rimanere in quel bel castello per qualche giorno – dieci, ma lei non lo sapeva, non li aveva contati – e si era divertita molto con la signora che chiamava semplicemente “la contessa”: non era un’adulta, o almeno non si comportava come tale, perché pensava solo a giocare assieme a lei e a divertirla e a farle scoprire tante cose interessanti, come i luoghi in cui vivevano gli scoiattoli e i lupacchiotti. Non uscivano mai dal castello durante il giorno ma questo non era stato un problema per Angela – o Neve, come si faceva chiamare adesso – dato che il castello era talmente grande da poter offrire continuamente nuove attività da svolgere, talmente grande da fare, a volte, un po’ paura. Nei momenti in cui la bimba sembrava spaventata, cosa che accadeva solitamente all’ora di andare a letto, la contessa la abbracciava forte, le cantava ninna-nanne o le raccontava fiabe; nel peggiore dei casi, si era mostrata persino disposta a farla dormire nel lettone assieme a lei e al conte e questo aveva placato l’animo della bimba che, nella donna, rivedeva un po’ il suo papà.

Sebbene la persona più affezionata ad Angela fosse la contessa, non si poteva dire che gli altri due inquilini del luogo fossero cattivi: il conte non parlava molto con la bambina, ma le sorrideva ed era evidente che fosse felice di averla come ospite; in realtà, la felicità dell’uomo non aveva tanto a che vedere con l’ospite quanto piuttosto con l’effetto che l’ospite creava sulla contessa… ma Angela ignorava certi particolari e quindi seguitava a sentirsi benaccolta; il vecchio maggiordomo, di cui la bimba non ricordava o forse neanche conosceva il nome, era poi come una specie di nonno, la nutriva, le chiedeva sempre cosa volesse mangiare e tentava in ogni modo di accontentarla; inoltre, qualche volta, la prendeva in disparte e le chiedeva di giocare assieme a lui perché, diceva, era opportuno che la contessa e il conte stessero un pochettino da soli, di tanto in tanto.

Cullata nel benessere, incantata dalla strana dimora in cui si era ritrovata e convinta di vivere in una sorta di fiaba, Angela aveva finito per allontanare dalla mente il pensiero dei suoi genitori; ovviamente li ricordava, ma come si ricorda qualcosa di sbiadito: sapeva che essi vivevano e l’aspettavano e, tuttavia, non vedeva la necessità di far ritorno tanto presto da loro. La contessa, dal canto suo, sperava che il momento della separazione non dovesse mai giungere e finì con l’accordare alla bimba sempre più autonomia, lasciandola libera di scorrazzare da una stanza all’altra come meglio credeva: per qualche strano motivo, il luogo preferito di Angela era la biblioteca. Ovviamente non sapeva leggere, era troppo piccola, ma alcuni libri avevano delle figure e poi c’erano tante scale a chiocciola, lì: avrebbe passato ore ed ore a percorrerle, su e giù!

Un giorno, poi, accadde che Angela si stancò di salire e scendere per quelle scale e decise di sfogliare qualche libro. Quando la contessa entrò e si avvicinò allo schienale della poltrona, trovò il volume macchiato di lacrime e la bimba singhiozzante. Angela guardava e rimirava il disegno di una bambina abbracciata da un uomo: era il finale di una qualche fiaba illustrata che mostrava appunto il ricongiungimento di una creaturina con l’adorato padre.

«Sono stanca di star qui, voglio tornare a casa. Voglio andare dal mio papà» balbettò la piccola, tirando su col naso.

«Neve cara! Non c’è davvero bisogno di piangere, tu puoi tornare a casa quando vuoi, basta dirlo! Ma sei davvero sicura di volermi lasciare? Non stai bene qui?»

«Non mi chiamo Neve!» sbottò la bimba, in preda quasi a una crisi isterica. «Io sono Angela Virginia Gaetani e voglio tornare a casa mia!»

Era, quello, il suo modo tipico di comportarsi quando era nervosa: nei momenti in cui faceva i capricci per qualcosa o si sentiva oltraggiata, la baronessina sbatteva il piedino a terra, ricordava a tutti il suo nome per intero – simbolo di autorità, come le aveva sempre detto suo padre – e ordinava il suo desiderio, che veniva prontamente esaudito.

La contessa, però, invece di attivarsi per farla tornare a casa, la guardava con gli occhi sbarrati e le labbra tremanti. Se c’era una cosa di cui era sempre stata certa, era che i membri della sua famiglia non stessero a Valle: l’unico che avrebbe avuto modo o motivo di stabilirsi lì era il maggiore dei suoi fratelli che, però, si era sempre rifiutato categoricamente di farlo, asserendo  di voler vivere nella secolare dimora di famiglia, nella loro cittadina natale.

«Andrai a casa, mia cara» assicurò la donna, tentando di darsi con contegno; la voce però tremava e gli occhi avevano assunto una strana espressione che un po’ spaventava la bambina. «Tu vivi a Valle, non è così? Dove vuoi che ti riportino i lupi?»

«Io non vivo a Valle» precisò la bimba, leggermente rassicurata «ma i lupi possono accompagnarmi a casa della mia nonna. Eravamo da loro, in vacanza… la mamma e il papà mi aspettano lì, io lo so!»

La contessa deglutì. Ora la somiglianza tra lei e quella bimba le appariva netta e assoluta. Non aveva sospettato di poter chiamare a lei una sua parente, perché era certa di non averne, a Valle…e invece… era logico che l’ipnosi agganciasse proprio lei, sangue del suo sangue. Se almeno fosse stata figlia di Leonardo, o di Quirino… dopotutto, che poteva saperne, lei? Da quando si era sposata, chissà quante cose potevano esser accadute! Forse anche gli altri due fratelli si erano accasati a Valle… tuttavia, se la bambina si chiamava Angela…

«Molto bene, mia cara. Dimmi solo come si chiamano la tua mamma e il tuo papà, così dirò ai lupi di cercarli.»

«La mia mamma si chiama Emma. Il mio papà Elio»

Saperlo con certezza fu come ricevere un colpo al cuore. Un brivido scosse tutto il corpo della donna, cosa strana, dato che da anni non provava più sensazioni così “umane”.

«Tu sei la figlia di Elio?» domandò con un filo di voce, sperando assurdamente che la bimba dicesse di no.

La bimba, al contrario, si sentì esplodere in cuore la gioia. «Conosci il mio papà? Allora mi porterai presto da lui? Mi manca tanto, io voglio rivederlo subito, non ce la faccio più a stare senza di lui! Lui è il papà più bravo del mondo e…»

 

 

 

 «E tu cosa fai qui?»

Angela, seduta sul gradino più alto di quella lunga scalinata, si voltò verso il conte rivelandogli gli occhietti rossi. Tra i singhiozzi spiegò l’accaduto, dicendo che aveva espresso il desiderio di andarsene e che la contessa, all’inizio, aveva detto di sì: poi però forse lei aveva detto qualcosa di male e la contessa si era arrabbiata e lei aveva urlato di uscire fuori da lì e adesso lei si sentiva tanto male e voleva davvero rivedere il suo papà…

Non fu certo come stare col proprio papà, ma per la piccola fu confortevole essere sollevata dalle braccia del conte ed esser messa a letto da lui con la promessa di poter presto tornare a casa; egli la salutò con un leggero bacio sulla fronte e, quando la vide addormentata, si recò in biblioteca. Sua moglie era in lacrime.

«La figlia di Elio!» urlò lei, vedendolo comparire.

«Suvvia, mia cara. Che se ne torni da dov’è venuta, cosa ci importa? Ne chiamerai un altro…»

«Non capisci!»

La donna si avvicinò al marito che poté scorgere un fuoco nei suoi occhi; il conte sapeva esattamente cosa sua moglie avesse in mente, ma non condivideva tale progetto.

Come ella rivelò a cuore aperto, la questione era semplice: le si era presentata, a sorpresa, l’occasione di vendicarsi. Privando Elio dell’essere che più amava, la contessa si sarebbe sentita ripagata per tutti i torti subiti e avrebbe reso giustizia a Silvia, dopo tanto tempo. Sarebbe stato sufficiente recarsi ora nella stanza della piccola… e poi il corpo l’avrebbero restituito e lei avrebbe lasciato anche un biglietto addosso al cadavere, così avrebbe saputo, Elio, che alla fine lei aveva vinto e l’aveva punito, ergendosi allo stato di una giusta potenza divina. Tuttavia, se il piano accendeva lo sguardo di lei di una sinistra enfasi, era pur vero che gli occhi continuavano a lacrimare: non ci sarebbe stata alcuna vendetta perché lei non ne aveva il cuore e piangeva, di rabbia e di sofferenza.

«Cosa devo fare?» domandò supplicante, aggrappandosi al marito. Questi le accarezzò il viso con delicatezza, tentando di calmarla.

«Nulla ti impedisce di ucciderla, se può farti piacere, ma temo che la cosa ti danneggerebbe senza portarti soddisfazione alcuna. La bambina è entrata nel bosco perché chiamata da te, altrimenti non l’avrebbe fatto; avevamo stabilito di lasciare andare le persone chiamate da noi. Certo, è una legge creata da noi e abbiamo ogni diritto di non rispettarla, nessuno ci giudicherà; tuttavia continuo a credere che, data la tua natura, finiresti col pentirtene.

«Anima mia» proseguì, avvicinando il viso tanto da riuscire a notare anche le lacrimucce che erano state imprigionate dalle ciglia «tu non sei come tuo fratello; perché pretendere di emularlo compiendo un’azione simile?»

 

 

In casi di tragedie, non esistono vie di mezzo: o le coppie coinvolte prendono ad odiarsi o, cercando rifugio l’uno nell’altra, stringono un legame ancor più forte. Emma ed Elio non si erano accusati a vicenda, consci del fatto che, proprio com’era accaduto anni prima, c’era di mezzo qualcosa di estraneo al loro mondo; restava da chiedersi come e perché Angela si fosse allontanata ma a questo nessuno pensava, troppo occupati a pregare – lei – e a minacciare le autorità. Elio aveva pensato più e più volte di recarsi personalmente su quella maledetta montagna, ma Emma l’aveva fermato dicendo che non avrebbe ritrovato la piccola, perdendo comunque la vita nella ricerca.

Non sapeva perché, Emma, ma aveva sentito il bisogno di vedere un ritratto della defunta cognata: da un’ovale polveroso, ora Virginia la guardava con aria pacata ma assolutamente triste, ascoltando le preghiere di quella povera mamma. Come sua nonna, Emma credeva al soprannaturale e sperava che lo spirito di Virginia, se ancora vagava nel bosco assieme alle altre anime che lì avevano trovato la morte, avesse protetto la nipotina mai conosciuta.

Ogni sera, fino a mezzanotte, Emma ed Elio rimanevano alzati, vagando da una finestra all’altra; ad ogni ombra insolita scorta nel giardino, aprivano le vetrate e chiamavano il nome della figlia, invano; a ogni lieve rumore tendevano l’orecchio, sapendo già di farlo inutilmente. Non trovavano riposo neanche se andavano a coricarsi ed erano certi che non avrebbero mai più chiuso occhio.

Erano le undici e trenta quando Elio suggerì a sua moglie di chiudere le imposte dato che, come sempre, aspettare oltre non sarebbe stato fruttuoso; Emma lo sapeva e per questo non protestò. Avvicinatasi però all’ultima finestra rimasta aperta, la donna temporeggiò: si sporse e, strizzando gli occhi, riconobbe la sagoma di un lupo. «Ci manca solo che invadano anche il paese» si disse.

Elio stava guardando il ritratto della sorella poggiato sul tavolino e avrebbe chiesto alla moglie perché lo aveva preso, se solo non avesse sentito canticchiare. Era la canzoncina che Angela canticchiava quando era buio e aveva paura; la cantava per farsi coraggio, come le aveva insegnato sua madre. Marito e moglie si guardarono negli occhi ed Elio corse alla porta.

Se non fosse stata tanto felice di aver ritrovato i suoi genitori, Angela avrebbe avuto paura della violenza con cui suo padre e sua madre le si fiondarono addosso per abbracciarla, baciarla e bagnarla con le loro lacrime. Fu meraviglioso dormire assieme a loro e ricevere tante coccole e, sebbene parlare con la polizia non fosse piacevole, Angela sopportò la cosa e, nei giorni successivi al suo ritorno, ripeté dettagliatamente – per quanto lo ricordava – l’accaduto: un lupo l’aveva portata nel bosco ed erano giunti a un grande castello, dove vivevano il conte e la contessa di Valle assieme a un vecchio maggiordomo. La contessa era la donna di cui Emma possedeva un ritratto.

Per un mesetto circa, dall’alba al tramonto, vari gruppi di persone salirono a ispezionare monte Janara, ma del castello non c’era traccia.

FINE

 

 

Angolo dell’autrice.

Saaalve. Ebbene mi rendo conto che non è un gran finale, ma per ora si conclude così. Ringrazio tantissimo chi ha seguito questa storia e ancor di più le persone che mi hanno aiutato comunicandomi i propri pareri.

Faccio anche una furbata. A titolo informativo (so che non ci credete… e fate bene) comunico che la storia “Un medico”, appena iniziata, è in qualche modo parallela a questa.

Ho sempre detto che Virginea nasce come prequel di un’altra storia che per ora non mi sento di scrivere… ecco, per Un medico vale la stessa cosa. Ovviamente i legami verranno a tessersi man mano… lo dico per evitare di essere linciata. XD

Grazie ancora a tutti… è stato bello sentire che Virginia è stata amata.

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