Virginea di MaCk_a (/viewuser.php?uid=237820)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'annuncio ***
Capitolo 2: *** L'incontro ***
Capitolo 3: *** Equivoco ***
Capitolo 4: *** Gli sguardi e l'anello ***
Capitolo 5: *** Delitto e castigo ***
Capitolo 6: *** La verità ***
Capitolo 7: *** Elio e Silvia - parte 1 ***
Capitolo 8: *** Elio e Silvia - Parte 2 ***
Capitolo 9: *** Decisioni ***
Capitolo 10: *** Virginia ***
Capitolo 11: *** 1913 ***
Capitolo 12: *** Valle ***
Capitolo 13: *** Monte Janara ***
Capitolo 14: *** Via ***
Capitolo 15: *** Sette anni dopo ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** L'annuncio ***
Virginia alzò gli occhi verso sua madre.
“Un fidanzato?”
“Ma certo, mia cara”, spiegò sorridendo la signora Gaetani, con una dolcezza che non aveva mai usato prima. “Non sei forse contenta?”.
La ragazza sbatté le palpebre, chiedendosi se fosse umanamente possibile gioire per un matrimonio combinato.
“È un ottimo partito, uno dei migliori sulla piazza”, proseguì giuliva sua madre, camminando avanti e indietro tra le quattro mura, “ed è ovviamente un onore ch’egli voglia unirsi a te”.
La giovane poggiò il libro che stringeva tra le mani sul tavolino in legno accanto alla poltrona e si alzò, turbata. I capelli raccolti in un austero chignon la facevano apparire ancora più alta di quanto già fosse, e l’espressione perplessa che aveva sul viso lo rendeva più magro e pallido dell’usuale.
“E perché mai desidera unirsi a me, se neanche mi conosce?”.
La donna guardò la figlia; sapeva già che avrebbe obiettato. Quella ragazza aveva creato sempre problemi, in ogni circostanza, sin dalla sua nascita; averla era stata una vera maledizione, e sopportarla un’opera di estremo martirio.
“Se leggessi meno sciocchezze, mia cara Virginia, sapresti che un’intima conoscenza non è indispensabile in un matrimonio” disse riacquistando l’abituale freddezza, “ e gioiresti della fortuna che ti sta capitando. Non essere ingrata, bambina! Non hai sempre desiderato lasciarci? Oh, non fare quella faccia, so bene che è così! Ecco, ora ti si offre la concreta occasione di abbandonare questa famiglia che odi tanto; una volta sposata seguirai tuo marito e inizierai una nuova vita, lontano da qui”.
Virginia abbassò gli occhi, imbarazzata da tanta schiettezza. Volse una rapida occhiata alla porta-finestra: attraverso i vetri vedeva il Sole splendere sul loro giardino.
“Non è detto che nel matrimonio io trovi la felicità”.
La baronessa Gaetani sospirò profondamente e ammise, assumendo un’espressione severa, che non aveva davvero idea di cosa potesse rendere felice una persona tanto pretenziosa, cocciuta ed evidentemente viziata.
Degli uccellini si poggiarono sulle lastre in marmo del balcone; nonostante le imposte fossero chiuse, il loro cinguettio era perfettamente udibile. Cosa avrebbe dato quella bella fanciulla per unire il proprio canto al loro! Cosa avrebbe fatto per ottenere la loro libertà!
“Fossi in te non farei tanti capricci, signorina” riprese con calma la baronessa, andando verso il divano, “anche perché tuo padre ha già accettato la proposta, e questa sera stessa incontrerai il tuo futuro marito”.
La ragazza rimaneva immobile. Andrà tutto bene, continuava a ripetersi. Andrà tutto bene, Virginia: stasera lo vedrai e scoprirai che il destino ha voluto farti un regalo; troverai libertà, felicità e amore. Dirai addio al passato e non penserai più alle sofferenze patite. Non ti sentirai più sbagliata. Sarai amata per quello che sei. Sarai amata come meriti.
Parzialmente consolata dalle proprie fantasie tornò ad alzare lo sguardo, e vide che la madre le faceva segno di raggiungerla. Obbedì e le si sedette accanto.
“Ora, bambina, bisogna che il tuo fidanzato ti trovi all’altezza delle sue aspettative; ha detto a tuo padre di aver sentito parlar benissimo di te! Gli hanno riferito che non esiste nella nobiltà locale fanciulla più aggraziata, seria e silenziosa; nessuno ha mai visto creatura più pacata; nessuno potrebbe immaginare persona più compita”.
Virginia deglutì, terrorizzata da quell’infedele ritratto e dalla tranquillità che la madre ostentava nel dipingerlo. Qualsiasi domestico avrebbe potuto garantire che la signorina Gaetani fosse una gran chiacchierona; quando i padroni di casa erano fuori, Virginia correva nelle cucine e raccontava alle cuoche dell’ultimo romanzo che aveva letto; chiedeva con insistenza che le insegnassero a preparare i suoi piatti preferiti e rideva sonoramente alle battute a volte un po’ volgari delle sue “maestre”. Se i genitori non erano in casa, lasciava sciolti i lunghi capelli ricci, si alzava la gonna e correva, scalza, tra i corridoi o, quando possibile, in giardino: lì rincorreva farfalle, cercava di attirare uccellini col canto e danzava con ballerini invisibili. Quando poi Anna, la donna che l’aveva allattata ed era poi rimasta presso la sua famiglia come cuoca, andava a richiamarla, ricordandole che presto i signori sarebbero rientrati, Virginia sospirava; controvoglia andava a lavarsi, si vestiva, imprigionava i riccioli castani, e attendeva i genitori a tavola, assieme ai fratelli maggiori, sperando che un nuovo giorno di libertà potesse arrivare al più presto.
Se qualcuno l’aveva definita pacata, silenziosa e seria, era perché costrizioni e ricatti l’avevano obbligata a mostrarsi così in pubblico. I coniugi Gaetani non avevano mai apprezzato quell’ indole “impudica e selvaggia” che sempre aveva caratterizzato la figlia e, nel tentativo di reprimerla, avevano redatto una serie di regole che Virginia avrebbe dovuto rispettare: i capelli andavano legati, e il corpo coperto: non volevano peccasse di vanità; coltivare la passione della lettura era giusto, ma i libri dovevano essere approvati da loro e cinque ore al giorno sarebbero state dedicate ai testi sacri; correre all’aria aperta come una campagnola era assolutamente vietato; parlare senza essere interrogata, inammissibile; se la danza e la musica le piacevano, com’era evidente, avrebbe avuto dei maestri pronti a indirizzarla in maniera sana verso tale discipline, e le lezioni sarebbero state sorvegliate da un membro della famiglia.
Virginia non avrebbe voluto contrariare i genitori, ma non poteva certo cambiare la sua natura vivace e curiosa, e non era riuscita a obbedire perfettamente: a ogni infrazione, era seguita una severa punizione. A ogni punizione, l’amore di Virginia per i genitori era diminuito, fino a scomparire del tutto.
Aveva quindici anni quando la famiglia aveva deciso di presentarla alla società, e non erano mancate delle calde raccomandazioni: le regole che doveva rispettare in casa valevano il doppio quando era tra la gente, e un’infrazione avrebbe causato una doppia punizione; e poiché Virginia era stata condannata a dieci ore di preghiera ininterrotta per esser stata sorpresa a capelli sciolti dalla madre, a cinque giorni di digiuno dopo esser stata scoperta scalza in giardino, e a una settimana di reclusione nella propria stanza (in assoluta solitudine, senza libri e con poco cibo) per aver osato rimproverare Elio, il maggiore dei suoi fratelli, non fu difficile convincere la ragazza a obbedire.
Per questa ragione, la nobiltà locale la riteneva una specie di suora mancata. E se all’inizio Virginia aveva sperato di trovare consolazione nelle sue uscite, si accorse ben presto che l’ambiente frequentato dalla sua famiglia era falso e malato. Gli uomini guardavano le fanciulle come se fossero merce: sembravano valutarne il valore, che si esprimeva unicamente in dote e bellezza; non interessava loro conoscerle: sarebbe bastato averle. E mentre eseguivano i perversi calcoli, si fingevano candidi, innocenti e disinteressati. Le sue coetanee, poi, erano sciocche, pettegole e cattive, e pensavano unicamente ad arricchirsi, o a mantenere le proprie ricchezze.
Proprio durante uno di questi ricevimenti, a quanto pareva, il suo fidanzato l’aveva notata.
“Madre”, sussurrò la ragazza, tentando di contenere le proprie emozioni, “che senso ha mostrare a quest’uomo una persona che non esiste? Sapete bene che non sono come mi avete descritta; fargli credere il contrario sarebbe un inganno”.
“Cosa dici, Virginia?”, esclamò la madre con finto stupore, “non ti capisco; in mia presenza sei silenziosa e docile, non sempre, è vero, ma solitamente lo sei”
“Lo sono perché voi mi obbligate a esserlo, madre!” sbottò, contrariata. “Conoscete la mia vera natura, sapete che quanto vedete è frutto dei vostri ricatti e non della mia indole; non sarebbe onesto lasciare che quest’uomo mi conosca – che mi conosca davvero - , e capisca così se davvero sia giusto sposarsi?”
La signora Gaetani sorrise. Non si somigliavano, lei e la figlia, in nulla. Non si erano mai somigliate.
“E cosa intendi dire al tuo futuro sposo? Lo inviterai a giocare a nascondino? Gli chiederai di rotolarsi con te nella terra? Gli racconterai di tutte le porcate che fai quando i tuoi genitori sono lontani? Ah, piccola ingenua!”, scoppiò a ridere, “credi che nessuno mi venga a riferire come passi le giornate quando siamo lontani? Credi che i tuoi fratelli non ti sentano quando, di notte, passi le ore a chiacchierare con la tua amica sguattera? Non voglia il cielo che tuo marito scopra le tue stranezze, non ti vorrebbe più! Tu continui a credere che la tua famiglia ti odi, Virginia, ma non è così: la tua famiglia ti ama, e vuole proteggerti: qualunque uomo, una volta scoperta quella che definisci la tua vera indole, ti abbandonerebbe. Vuoi restar sola per tutta la vita? Vuoi che, alla nostra morte, la tua tutela passi a Elio?”.
Virginia rabbrividì. Tutto, ma non dipendere da Elio.
“No, madre. Voglio sposarmi. Voglio dei bambini”.
“Bene”, sorrise lei, e si alzò. “Mi aspetto che ti comporti bene, questa sera”.
La ragazza annuì, e dopo qualche secondo sentì la porta chiudersi. Rimase qualche istante ferma, a riflettere, poi si mosse verso il balcone: gli uccellini erano volati via.
Tornò alla poltrona dove era seduta prima che la madre giungesse, e riprese in mano la sua copia del Romeo e Giulietta di Shakespeare. La guardò, e la gettò contro una parete; ma dopo neanche un minuto si pentì e, piangendo, corse a riprenderla: la strinse tra le braccia, la cullò.
Oh, se avessi anch’io modo di procurarmi un veleno.
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Capitolo 2 *** L'incontro ***
Per i coniugi Gaetani non era stato semplice scegliere il nome dei propri figli: nome omen, lo sapevano bene, e non si poteva rischiare di assegnare alla progenie un destino infausto; in seguito a lunghe riflessioni, avevano infine deciso di chiamare Elio il loro primogenito; dopo tre anni era arrivato Leonardo e, dopo tre anni ancora, Quirino.
I baroni erano entusiasti dei propri figli e particolarmente lieti della ricorrenza del numero tre: i tre ragazzi, nati a tre anni di distanza l’uno dall’altro, facevano loro ricordare la Santissima Trinità, e il signore e la signora Gaetani speravano che la famiglia non si allargasse ulteriormente; cosa probabile, dato che la baronessa non era più giovanissima.
Quirino era solo un bimbetto quando, durante un giorno d’Estate, aveva guardato con una strana occhiata la madre. “Stai diventando un po’ grassa”, le aveva detto, ed era rimasto sgomento nel constatare che la pancia della sua mamma cresceva sempre più, sempre più! “Prima o poi scoppierà”, pensava, e in effetti accadde: il 28 Gennaio 1893 una bambina vide la luce.
Quirino aveva quattro anni.
La creaturina appena nata aveva privato il numero tre di tutto il suo valore, di tutto il suo significato. La creaturina, sì: era una bambina. E che nome dare a una bambina?
A Elio era stato augurato di risplendere quanto il Sole, a Leonardo di essere forte, coraggioso, un leone; a Quirino di distinguersi tra gli altri, come il Quirinale si era sempre distinto dagli altri colli romani. Inoltre, sicuri che sarebbe nato un altro maschio, i coniugi avevano già scelto il nome Vittorio, che però non sarebbe stato adatto a una donna; l’avrebbe resa ambiziosa.
Un’intera notte di riflessione era servita al barone per fargli prendere una decisione: la bambina avrebbe avuto tre nomi.
Virginia,
per indirizzarla verso la castità.
Bianca,
per farle capire che mai e poi mai avrebbe dovuto macchiarsi.
Maria,
per suggerirle una figura da emulare.
Crescendo, Virginia non aveva mai capito per quale motivo a lei non fosse stato augurato di vivere nella luce, nel coraggio o nell’unicità. Conservarsi puri era piuttosto un sacrificio.
E se la volevano pura, perché le avevano combinato quel fidanzamento?
“Sorridi, signorinella!” aveva cinguettato Anna, mentre le spazzolava i capelli, “se il tuo futuro marito ti vede così, se ne scappa”.
Se fosse, Anna. Se fosse.
Anche Silvia l’aveva amorevolmente rimproverata, dicendo che non era giusto affliggersi prima di conoscere questo signore, perché forse sarebbe stato bello, e buono, e affabile, e sposarlo sarebbe stato gradevole.
Virginia non si sentiva ottimista a riguardo, ma si sforzò di sorridere: Silvia, figlia di Anna, aveva la sua età ed erano state sorelle di latte; vi era tra loro un sincero affetto, e ognuna riteneva l’altra una preziosa amica. Per la signorina Gaetani, quell’umile cameriera rappresentava in realtà l’unica ascoltatrice e fedele confidente. I baroni sapevano di quella simpatia e non la apprezzavano, ovviamente; tuttavia le due ragazze si rivolgevano parola solo lontano dai loro occhi, e la cosa diminuiva il loro fastidio.
Camminando verso il salone, Virginia non si era sentita molto emozionata; pensava solo che, se fosse dipeso da lei, avrebbe scelto un abito più colorato per presentarsi al futuro sposo, e lasciato sciolti i capelli, anche. Ma nulla dipendeva o sarebbe dipeso mai da lei.
Avvicinandosi alla porta, aveva udito la voce di Elio, e questo l’aveva indisposta: se Quirino e Leonardo l’avevano sempre ignorata, limitandosi a criticarla in sua assenza, Elio si era preoccupato costantemente di vigilarla, sorvegliarla, sgridarla, mortificarla. Se Virginia parlava, lui la rimproverava per la bizzarria e l’irriverenza delle idee espresse; se taceva, le faceva notare quanto irritante fosse quel broncio che ostentava.
E ora Elio era in quella stanza, e parlava col suo fidanzato. E se il suo fidanzato riusciva a parlare con Elio, doveva essere odioso quanto lui.
Varcò la soglia con circospezione, e non poté trattenersi dall’alzare un sopracciglio, stupita, quando vide che l’uomo accanto a suo fratello era molto più bello e giovane di quanto avesse immaginato. I coniugi Gaetani sedevano accanto al camino e sorrisero, quando la videro. Anche Elio e l’ uomo si voltarono.
“Virginia cara! Mia amata sorella!”
La ragazza rimase impietrita, confusa, chiedendosi se il fratello fosse impazzito: Elio le veniva incontro, sorridente, e le poggiava le mani sulle spalle con affetto, spingendola con delicatezza verso il focolare.
L’uomo che li osservava, e che si presentò poi come Francesco De Martino, muoveva gli occhi dall’uno all’altra, curioso.
“Cielo!”, esclamò, “è come vedere la stessa persona!”.
In effetti, Elio e Virginia si somigliavano in maniera impressionante: i ricci castani, le sopracciglia che disegnavano due archi non sottili ma ben definiti, i grandi occhi sempre attenti, il naso delicato, la forma delle labbra: tutto era identico. Mentre però la bellezza a tratti efebica di Elio era ostentata quasi con sfacciataggine, quella di Virginia appariva repressa, costretta dal rigido abbigliamento, dalle rigide pettinature, dal rigido stile di vita; la carnagione diafana la rendeva simile a una bambola di porcellana e, proprio come una bambola di porcellana, aveva l’espressione triste e, a tratti, inquietante e inquietata.
Ma Francesco non era un grande osservatore, e non notò nulla di strano nella fanciulla; la trovò anzi graziosa, bella, compita e, sebbene gli sembrasse che a volte la baronessina fosse timorosa di aprir bocca, piacevole. Virginia, dal canto suo, scoprì in Francesco un ragazzo simpatico e sorridente e si sentì sollevata nell’apprendere che, in realtà, la domanda di fidanzamento non era stata ancora formulata; semplicemente, il ragazzo aveva chiesto il permesso di frequentare quella casa, sperando di potere in seguito proporsi alla fanciulla.
“Allora ti piace?”
Silvia pendeva letteralmente dalle labbra di Virginia: era corsa nella sua stanza non appena le luci erano state spente, ma non voleva rimanere troppo: si sentiva fuori luogo, seduta su quel letto a baldacchino, e temeva che qualcuno le sentisse.
Virginia sospirò, pensierosa. “Non che non mi piaccia”, esordì, “ma non credo di conoscerlo abbastanza per giudicare”.
Cosa aveva appreso di lui, in fondo? Quasi nulla: era venuta a conoscenza della sua posizione sociale e delle sue idee politiche, nient’altro. Si era mostrato gradevole nella conversazione e gentile nelle maniere, ma non le sembrava abbastanza per sostenere un matrimonio, e certamente non era abbastanza per far nascere in lei l’Amore; sarebbe stato abbastanza, però, se ella avesse cercato nell’unione coniugale una semplice scusa per abbandonare una volta per tutte la propria famiglia.
E di abbandonare quella famiglia ne aveva voglia, disperatamente.
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Capitolo 3 *** Equivoco ***
Le visite di Francesco proseguivano, sebbene il livello di conoscenza e intimità tra lui e Virginia non variasse affatto: non era mai accaduto loro di trovarsi da soli, e in presenza dei genitori o dei fratelli la ragazza si guardava bene dal mostrarsi troppo loquace; ragion per cui i loro incontri finivano con l’essere momenti di colloquio tra Francesco e i coniugi Gaetani, o tra Francesco ed Elio, e se Virginia era comunque presente fisicamente, la sua mente vagava altrove. Fin da bambina, aveva avuto la tendenza a sedere sulle poltrone più vicine alle finestre, per aver la possibilità di contemplare il paesaggio e aiutare la mente a volar via, oltre le mura di quella casa e i confini di quella città, in un mondo che non aveva nulla di quello reale e fondeva in sé le caratteristiche di tutti i luoghi che Virginia aveva conosciuto tramite i libri letti; in questo mondo la giovane viveva rocambolesche avventure che di logico e plausibile avevano ben poco e spesso, durante le assurde fantasticherie, la fanciulla non poteva fare a meno di sorridere estasiata. E Francesco, che la conosceva poco, fraintendeva i sorrisi, credendo fossero rivolti a lui, o almeno provocati da lui.
La proposta di matrimonio, comunque, non era stata ancora formulata.
“Dev’essere colpa di quella sciocca!” aveva inveito Elio, che nell’ultimo periodo appariva nervoso e suscettibile. “Non apre bocca se non per dargli l’arrivederci, è ovvio che lui non si decida! Deve temere che sposandola si condanni a una vita di silenzio!”
Virginia non aveva alzato gli occhi dal piatto, ma era tranquilla: si passò il tovagliolo sulle labbra e fece segno a un cameriere di versarle l’acqua.
“Credevo che la mia famiglia mi volesse silenziosa”, ammise in tutta sincerità.
“Silenziosa non vuol dire muta!” replicò il fratello, prima che chiunque altro potesse reagire. “Ti reca troppo fastidio partecipare a una conversazione?
Possibile che non esista un argomento in grado di interessarti?”
La ragazza aveva alzato gli occhi. “Evidentemente”.
“Forse dovremmo chiedere alla servitù” aveva ironizzato Elio, sorridendo al padre che sedeva a capotavola, accanto a lui. “Pare che con loro parli, non è che così? Allora, questa rispettabile signorina potrebbe dirci di cosa ami discorrere la nostra cara Virginia?”.
Virginia si era irrigidita. La rispettabile signorina era Silvia, che in quel momento stava servendo a tavola; e Virginia non voleva che Silvia fosse in qualche modo danneggiata a causa sua, né che venisse coinvolta in questioni spiacevoli o imbarazzanti. Dal canto suo, la cameriera non aveva reagito; con i begli occhi chiari rivolti unicamente alle portate, rimaneva in austero silenzio, ma l’apparente tranquillità era stata distrutta quando Elio, insoddisfatto, le aveva afferrato il polso con forza, ricordandole che bisognava sempre rispondere alla domanda di un padrone.
“Elio, lasciala!”
Virginia, sbattendo le mani sulla tavola, si era alzata in piedi. “Sei in collera con me: continua a turbare me, dunque! Non sfogarti su persone che nulla hanno fatto per contrariarti! Vuoi che parli a quell’uomo? Lo farò, se ciò può bastare a concludere questa assurda discussione!”
“Virginia, sei pregata di sederti”, l’aveva esortata il padre con voce pacata ma fredda, e la ragazza aveva obbedito, mentre Elio, un sorriso strafottente sul volto, aveva lasciato il polso di Silvia.
“Dunque, ora sappiamo come incoraggiare il nostro angelo al decoro e all’ubbidienza; è sufficiente minacciare le sue preziose amicizie”.
Quella sera Virginia non aveva risposto ad altre provocazioni, ma l’immagine dell’amica toccata dal fratello l’aveva turbata enormemente e, quando Francesco tornò a farle visita, fece del suo meglio per prestare attenzione a ogni singola parola del ragazzo, sperando che questi affrontasse argomenti meno noiosi del solito. In effetti, il suo futuro sposo (continuava a pensare a lui in questi termini, sebbene ancora non fossero ufficialmente fidanzati) aveva parlato della sua famiglia d’origine, che stando alle sue parole era molto numerosa, e Virginia si ritrovò a provare una sincera curiosità per quella che, forse, sarebbe divenuta anche la sua famiglia. Francesco aveva molti fratelli minori, e il più piccolo di loro aveva poco meno di dieci anni; “mi piacerebbe molto conoscerlo”, aveva quietamente affermato la ragazza, creando nell’uomo un certo stupore: era quasi un privilegio poter udire la voce di quella creatura.
“Lo conoscerai di certo”, le aveva risposto con dolcezza, per poi avventurarsi nella descrizione dettagliata di ogni giovane De Martino, divertendo Virginia con i racconti delle varie marachelle combinate da uno o dall’altro ragazzino.
L’atmosfera era stranamente piacevole: Virginia si stava sentendo, per la prima volta, in affinità con quello che fino ad allora aveva considerato quasi uno sconosciuto; e persino la presenza di Elio la turbava poco, poiché anche questi pareva soddisfatto dal quadretto idilliaco che si era venuto a creare. Poi, però, Francesco aveva concluso il discorso con un “Prego Dio che mi risparmi dall’avere marmocchi come quelli. Non sopporto i bambini”.
Per Virginia era stato un fulmine a ciel sereno.
“Dunque non vorreste avere figli?”
“Sì, certo che ne voglio! Non mi sposerei, altrimenti… ma uno, due al massimo”.
La ragazza aveva sbattuto le palpebre, perplessa e, soprattutto, delusa. Aveva sempre adorato i bambini, e l’idea del matrimonio la allettava soprattutto perché sperava di diventar madre di decine di bambini che avrebbe educato con amore e rispetto, facendoli crescere in assoluta libertà. Come madre, avrebbe dato ai propri figli ciò che sua madre non aveva dato a lei; e la voglia di donare era tanto grande da farle desiderare di avere molti, moltissimi bambini da cullare, coccolare e viziare.
“Io ne vorrei molti, invece”, aveva affermato con sicurezza, rendendosi conto troppo tardi che, forse, sarebbe stato più cortese (e saggio) tacere.
Elio aveva aggrottato le sopracciglia; Francesco, un po’ imbarazzato, abbozzava un sorriso.
“È ovvio che, se la nostra frequentazione proseguirà, uno di noi dovrà cedere”.
… e quella dovrei essere io, pensò Virginia.
***
“Lasciami immediatamente, Elio!”
Le proteste erano tanto appassionate da spaventare chiunque udisse la voce della ragazza; Anna aveva abbandonato il proprio lavoro per correre a vedere cosa diavolo stesse accadendo, e l’immagine che si era trovata davanti non le era piaciuta affatto: Elio teneva stretto il polso della sorella, e la trascinava con forza lungo il corridoio.
“Signore!”
“Apri le porte della sala, Anna! Questa screanzata avrà quel che si merita!”
Dopo aver gettato una rapida occhiata a Virginia, troppo intenta a cercare di liberarsi per prestarle attenzione, Anna aveva obbedito ad Elio: i coniugi Gaetani erano nella stanza, seduti a un tavolino, occupati l’una a ricamare, l’altro a fumare una pipa. La donna si chinò lievemente prima di lasciar entrare i due fratelli, e si posizionò in un angolo, decisa a proteggere, per quanto possibile, la ragazza.
Il signor Gaetani si era alzato, già stanco. “Posso sapere cosa sta accadendo?”
Elio liberò dalla presa sua sorella, lasciandole sulla pelle candida un’impronta delle proprie dita.
“Questa ragazzina indegna ha turbato il suo pretendente con discorsi ai limiti della decenza; ha rivelato in sua presenza una natura egoista e lussuriosa, e questo mi riempie enormemente di vergogna!”
Anna, come Virginia, aveva in volto un’espressione di puro sgomento. La ragazza era tanto sconvolta da non riuscire a parlare; era abituata a essere accusata ingiustamente, ma di solito le accuse avevano un piccolo fondo di verità; che la si accusasse di lussuria, ora, era assolutamente assurdo, anche perché tutto ciò che poteva riguardare quell’argomento le era completamente ignoto.
“Non hai nulla da dire, Virginia?”
La voce della signora Gaetani aveva risvegliato la fanciulla dall’oblio dei propri pensieri: guardò Elio, contrariata, poi i suoi genitori, poi ancora Elio. “E cosa dovrebbe dire, questa sciagurata?”, aveva aggiunto questi, creando nella ragazza un senso di nausea.
“Come puoi affermare tali sciocchezze?” aveva sussurrato, incredula. “Cos’avrei detto di inappropriato o volgare?”
Elio aveva scrutato nei suoi occhi per qualche istante, in silenzio, ma quando aveva risposto non stava più guardando lei.
“Padre... madre… vostra figlia ha affermato di non veder l’ora di concepire decine e decine di bambini”
I signori Gaetani erano impalliditi, e anche Virginia. “Non è vero!” aveva esclamato, indignata; “non ho detto questo!”
“Madre, dovete credermi!” aveva implorato, sovrastando Elio che continuava ad accusarla, “le mie parole erano diverse! Ho detto di desiderare dei bambini, è vero, ma perché il signor De Martino aveva appena affermato di non volerne! E che senso ha sposare un uomo, se non è intenzionato ad avere una famiglia? E cosa c’è di volgare nel desiderare molti figli?”
Anna, triste, aveva lasciato la stanza. Aveva già visto troppo.
“Anche lui condivide il mio punto di vista, in realtà”, aveva proseguito indicando il fratello, “o si sarebbe già sposato!”
Il barone, a questo punto, era intervenuto, per evitare che la figlia entrasse in un argomento ormai divenuto quasi proibito. “Basta così”, aveva sentenziato. “Credo che effettivamente vi sia stato un malinteso: Virginia non aveva cattive intenzioni”
La ragazza aveva aperto la bocca pronta a ribattere, ma poi si era dovuta fermare, stranita: davvero suo padre l’aveva difesa?
“A volte capita, Elio, che persone con molta esperienza, come te e me, scorgano in ogni frase i significati più nascosti; occorre tuttavia ricordare, figliolo, che al mondo esistono anche persone ingenue come tua sorella. Non parlare, so cosa vuoi dire: non è una fanciulla perfetta, ma è innocente, di questo sono certo. Dimentichiamo tutto: parlerò io con Francesco, se sarà necessario; ma non credo servirà”.
*****
Quella giornata era stata turbolenta per Virginia, che ora non riusciva a tranquillizzarsi: se da un lato era felice perché il padre le aveva dimostrato una sottospecie di affetto, dall’altra si sentiva turbata da un pensiero che, fino ad allora, non aveva mai accarezzato.
Vivendo in una quasi totale solitudine e conoscendo poco l’universo maschile, la ragazza non aveva riflettuto molto sulle relazioni tra uomini e donne: le era capitato di fantasticare leggendo alcune storie romantiche, ma la sua immaginazione si era sempre limitata agli aspetti platonici dell’amore, tralasciando completamente quelli pratici.
Che esistesse un tipo d’amore detto carnale lo sapeva, ma non sapeva in cosa consistesse esattamente; una volta aveva parlato con una suora, e questa le aveva spiegato che l’unione tra uomo e donna era necessaria ai fini della riproduzione, ma doveva avvenire solo tra persone sposate, e solo per procreare, appunto, o sarebbe stata condannata dalla Chiesa. Ciò che non le aveva spiegato, però, era come avvenisse questa unione.
Essendo una ragazza particolarmente intelligente e istruita, Virginia si era spesso segretamente vergognata di quella sua lacuna e, per consolarsi, si era detta che l’ignoranza in materia non avrebbe recato grossi danni finché fosse stata nubile. Ora, però, la prospettiva di un matrimonio diveniva sempre più vicina, e lei temeva di ritrovarsi ad affrontare situazioni che non era pronta a fronteggiare. Cosa avrebbero fatto, lei e Francesco, la prima notte di nozze? Sarebbero entrati nello stesso letto – questo l’aveva capito – ma, dentro quel letto, cosa sarebbe accaduto?
“Anna, dovrei chiederti una cosa”, sussurrò esitante, mentre la donna le spazzolava i capelli. “Ma non voglio che tu mi fraintenda; non devi ritenermi sfacciata! Vedi, non so a chi rivolgermi, e non… non posso sposarmi se non scopro prima questa cosa…”
Anna si era fermata, e inarcava un sopracciglio.
“Anna, cosa dovremo fare io e Francesco… la notte? Intendo dire, la prima notte di nozze?”
Una sonora risata aveva riempito la stanza, creando malcontento nella ragazza.
“Oh, smettila!” aveva obiettato, “E non farti sentire, o si insospettiranno!”
Anna allora si era asciugata una lacrima e, ancora ridendo e scuotendo la testa, aveva preso posto sul letto della baronessina.
“Che il Signore m’assista! Anche questa mi doveva capitare!”
Virginia aveva ascoltato con attenzione le spiegazioni della donna, arrossendo a ogni momento, anche perché Anna non era abituata a usare eufemismi e aveva sottoposto alle orecchie della giovane la descrizione più cruda che potesse esser formulata sul rapporto sessuale.
Quando la cameriera si era interrotta, Virginia le si era avvicinata, andando a prender posto sulle sue gambe: Anna era una donna robusta, e toccarla e abbracciarla era un piacere per lei, come per Silvia: sembrava di affondare in un’immensità di tenerezza
“Ma Anna, è mostruoso… che schifo!” aveva esclamato con sincerità, ridendo. I commenti erano stati molteplici, nessuno entusiasta, per la verità, e Anna aveva appreso (con un po’ di preoccupazione) che davvero quel Francesco De Martino non era riuscito a creare desideri di alcun tipo nella dolce fanciulla.
“Ah, non farai tante storie quando lo vedrai nudo, stanne certa!” aveva sdrammatizzato infine, dando alla ragazzina una pacca sul sedere che la fece ridere ancora.
“Va’ a dormire, ora, e non pensare troppo a quello che farete, o va a finire che tuo fratello ti legge nel pensiero e poi chi se lo sente…”
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Capitolo 4 *** Gli sguardi e l'anello ***
Il barone e la baronessa Gaetani non avevano previsto che Virginia fosse la prima a sposarsi; ormai, però, le visite di Francesco si erano fatte tanto frequenti da render palese la sua buona disposizione alle nozze, e la signora Gaetani capì che la sua ultimogenita, l’unica per cui non era stato contratto un fidanzamento durante l’infanzia, avrebbe presto abbandonato il nido familiare; questo la riempiva di gioia, ma non poteva fare a meno di temere ciò che gli altri avrebbero pensato.
Che Leonardo e Quirino non avessero ancora condotto all’altare le proprie fidanzate era normale, perché queste avevano meno di quindici anni; il problema era Elio.
La promessa sposa di Elio risiedeva in un borgo di montagna, e apparteneva a una famiglia non nobile, ma ricca, influente e molto potente; il suo nome era Emma, aveva diciannove anni e non vi era nulla, in lei, che potesse dispiacere a un uomo. Eppure un problema c’era. Nessuno ne parlava, molti lo ignoravano del tutto, ma Virginia ne era venuta a conoscenza origliando una discussione tra sua madre e suo fratello: il corpo di Emma non aveva mai vissuto un ciclo mestruale, ed Elio non aveva alcuna intenzione di sposare una donna sterile, per cui il matrimonio sarebbe stato rinviato fino a quando la natura non avesse compiuto il suo intervento.
La gente, vedendo il rampollo dei Gaetani ancora celibe nonostante il secolare fidanzamento, immaginò i motivi più assurdi per giustificare il continuo rinvio del matrimonio, e molte nobildonne, vista la posizione e la ricchezza dei Gaetani, speravano di poter proporre le proprie figlie per quel giovane che ormai, a ventotto anni, tanto giovane non era più.
Dal canto suo, Virginia aspettava la proposta di matrimonio solo perché aveva capito che, sposandosi, avrebbe in un certo senso umiliato il fratello… e come avrebbe gioito, se fosse riuscita addirittura ad avere un figlio prima di lui! Quanto ne avrebbe sofferto, Elio! Certo, suo fratello aveva sempre desiderato e incoraggiato le nozze tra lei e Francesco, ma era impossibile non notare quanto ogni discorso riguardante l’eventuale festa nuziale lo turbasse: una volta era persino giunto a incollerirsi con la madre, ricordandole che la proposta non era ancora arrivata, ed era inutile organizzare eventi che esistevano solo nelle loro speranze. Da allora, la signora Gaetani aveva evitato di affrontare l’argomento dinanzi a lui, chiedendo a Virginia di fare lo stesso: richiesta semplice da esaudire, dato che la ragazza quasi non apriva bocca in presenza dei familiari. E poi, i suoi pensieri erano ormai occupati da un solo pensiero: la prima notte di nozze.
*****
Virginia aprì gli occhi, ritrovandosi immersa nel buio della camera da letto; aveva fatto di nuovo quel sogno: Francesco la spogliava e, vedendo il suo corpo magro, rideva di lei; tentava poi di avvicinarsi, di darle un bacio, ma Virginia lo schivava e si allontanava, provando a ogni tocco di lui un dolore ustionante.
Sospirò, tentando inutilmente di distinguere qualche forma nell’oscurità, ed esitante, nascosta da strati di coperte, mosse una mano verso il seno. Sapeva che toccare il proprio corpo era peccato, ma sapeva anche che Francesco l’avrebbe toccato, eccome!, e voleva prepararsi; tuttavia nella sua innocenza non riusciva a spingersi oltre qualche timida carezza ai seni, che le causava sensi di colpa, più che piacere; ben presto riportò dunque la mano sul grembo, giungendola all’altra, e rimase immobile. Da qualche giorno, una settimana o poco più, un nuovo pensiero era entrato nella sua mente e, sebbene la distraesse dalle preoccupazioni riguardanti Francesco, la turbava: Elio guardava Silvia. Se fossero sguardi lussuriosi o meno, Virginia non era in grado di capirlo, ma la guardava, e non era mai successo prima. Innegabilmente Silvia era molto bella, con quei capelli biondi, gli occhi come un cielo sereno, le guance rosee, il corpo prosperoso… ma era sempre stata così, ed Elio la guardava solo ora.
Durante i pasti, Silvia compariva ed Elio alzava lo sguardo dal piatto; se Silvia si trovava a spolverare qualche stanza, Elio finiva casualmente lì; se lei era nelle cucine, lui scendeva a ordinare i piatti da preparare.
Non le rivolgeva mai la parola, ma non le toglieva gli occhi di dosso. E nei suoi sguardi non c’era niente di positivo.
Aveva sentito parlare, Virginia, della tendenza di molti nobili a cercarsi amanti tra le domestiche, e temeva che Elio mirasse a qualcosa del genere: Silvia, però, era fidanzata, e se anche non lo fosse stata non avrebbe acconsentito a fare cose tanto abiette.
La ragazza sospirò, rigirandosi nel letto, e chiuse gli occhi. L’avrebbe messa in guardia, avrebbe detto all’amica di stare attenta.
L’occasione si presentò prima del previsto, durante una giornata in cui i baroni Gaetani si erano recati fuori città per delle visite, ed Elio era chiuso nelle sue stanze.
Silvia entrò in camera di Virginia con meno cautela del solito.
“Virginia, sono così contenta che tu mi abbia chiamato! Devi essere la prima a sapere!”
La signorina Gaetani sorrise ma, quando vide ciò che l’amica intendeva mostrarle, capì che sarebbe stato meglio evitare il discorso su Elio: Silvia aveva all’anulare sinistro un anellino d’oro, senza pietra alcuna, ma molto grazioso.
“Ci sposiamo, Virginia! Mario ha detto che appena riesce a mettere da parte un po’ di soldi mi sposa!”
“Oh, cara Silvia!”, la baronessina l’abbracciò, felice, “è meraviglioso!”
“Sì”, rispose l’altra, ricambiando la stretta, “sì. Mi dispiace solo… ah, ma sarebbe accaduto comunque al tuo matrimonio… mi dispiace…”
L’abbraccio si allentò gradualmente.
“Non ha intenzione di rimanere qui, Mario… vuole provare a cercare fortuna… da qualche altra parte”.
Virginia aprì le labbra, senza emettere suono alcuno: aveva una leggerissima fitta al cuore. Silvia era la persona che più amava al mondo, con lei si era sempre confidata, con lei poteva parlare liberamente, con lei poteva essere ciò che era, senza dover fingere; e aveva pensato, in realtà, che dopo il matrimonio con Francesco avrebbe chiesto ai genitori di lasciare che Anna e Silvia la seguissero nella sua nuova dimora. Non aveva calcolato che Mario – che lei non aveva mai incontrato personalmente – potesse avere progetti diversi.
“Sei triste, Virginia?”
La ragazza sbatté le palpebre, e scosse la testa. “E come potrei esserlo, Silvia, quando tu sei felice?”
Non vi furono accenni al dolore della separazione, nei loro discorsi: ognuna tentò di vedere esclusivamente il lato positivo della cosa, e se Virginia promise che, dopo il matrimonio, le avrebbe scritto ogni giorno, Silvia propose di trascorrere al meglio i mesi che le avrebbero viste ancora unite, se unite si potevano definire in quell’amicizia coltivata di nascosto.
Quando si fece ora di tornare nelle cucine, la ragazza si congedò dalla signorina con un altro abbraccio, e lasciò la stanza senza aver udito affatto il nome di Elio.
Che Silvia servisse a tavola non era una novità, e nessuno badava a lei, o almeno così era sempre sembrato.
Il signor Gaetani non aveva interrotto il proprio discorso quando gli era stata servita la prima portata della cena, e come lui aveva fatto sua moglie. Elio, invece, che per tradizione era il terzo ad esser servito, aggrottò le sopracciglia in maniera inquietante: chi lo conosceva sapeva che quel gesto fosse presagio di tempesta.
“In passato ti avrebbero tagliato la mano, per ciò che hai fatto”, proruppe.
I genitori si interruppero e lo guardarono, come anche i fratelli e la sorella, chiedendosi con chi stesse parlando; l’unica a proseguire nelle proprie mansioni fu proprio Silvia, che dava per scontato che nessuno le rivolgesse parola.
“Cosa dici, mio caro?” sussurrò la signora Gaetani, alquanto preoccupata.
“Quella sguattera, ha iniziato anche a rubare, ora?”
Gli sguardi si spostarono con rapidità da Elio a Silvia che, a quel punto, capì d’essere l’oggetto della discussione.
La signora Gaetani chiese nuovamente al figlio delle spiegazioni, ed egli ordinò alla povera cameriera di mostrare a tutti l’anello che aveva al dito. “Non credo proprio che abbia i soldi per comprarsene uno”, spiegò, spazientito; “è ovvio che l’ha rubato, a voi, madre… o più probabilmente a Virginia”.
Silvia provò a spiegare da dove provenisse quell’anello, ma nessuno si mostrò interessato ad ascoltarla fino a quando la signora non ebbe appurato che, in effetti, quel “misero anello” non fosse mai appartenuto alla famiglia Gaetani.
“Dunque, paghiamo forse troppo bene i nostri dipendenti, se possono permettersi certi lussi” commentò il barone, facendo arrossire Silvia per l’imbarazzo e Virginia per la rabbia.
“Signore, non ho comprato io quest’anello… mi è stato regalato dal mio… ecco, dal mio fidanzato. Stiamo pensando di sposarci”.
A quel sposarci, nessuno lo notò tranne Virginia, Elio ebbe un sussulto: l’espressione nei suoi occhi si incupì e le labbra presero una piega orribile.
“L’avrei detto, ma ora non so ancora nulla di certo, e perciò… comunque l’avrei detto, perché poi andrò via…”
Quirino sbuffò sonoramente: aveva fame e non capiva perché stessero perdendo tempo con quella ragazza. “Possiamo continuare con la cena? Vi faccio presente che ci sono ancora persone che aspettano d’essere servite”.
Silvia colse l’occasione per trarsi fuori da quel discorso, e servì Leonardo, Quirino, e Virginia che le lanciò un’occhiata complice; poi lasciò la sala in silenzio.
“Avrebbe dovuto avvertirci prima”, sbottò Elio, “dovremo trovare una sostituta, quando lei andrà via... non ha pensato alle noie che ci darà? Questi servi diventano ogni giorno più ingrati…”
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Capitolo 5 *** Delitto e castigo ***
“Tutto in lui è delizia”.
Silvia, interdetta, abbandonò le pulizie e si voltò verso l’amica.
“Davvero ci sono scritte queste cose?”, domandò, sporgendosi per guardare la pagina. “E com’è che ti permettono di leggerle?”
Virginia sorrise dello sguardo stupito della ragazza, e alzò un sopracciglio. “Perché non lo sanno, quegli ipocriti, cosa c’è scritto in questo libro. Secondo me, non l’hanno neanche mai aperto”, esclamò. Sin da piccina, le era stato imposto di dedicare tre ora giornaliere alla lettura dei testi sacri, e all’inizio la cosa non era risultata pesante: anzi, la baronessina era stata entusiasta di potersi dedicare a un libro antico come la Bibbia, anche perché la religione le piaceva abbastanza e durante le sacre funzioni il suo cuore esultava nell’udire quegli strani racconti in cui i pani si moltiplicavano, i mari si aprivano e gli ammalati guarivano. Tuttavia, leggere sempre le stesse righe, anno dopo anno, l’aveva stancata, e si sarebbe annoiata parecchio se non avesse riscoperto per caso una delle sezioni che da bambina aveva ignorato: il Cantico dei cantici. Dal giorno in cui, aprendo delle pagine a caso, l’aveva trovato, se n’era innamorata perdutamente; e quello, sì, l’avrebbe davvero letto all’infinito, anche se sarebbe stato inutile, perché ormai l’aveva imparato a memoria.
“Comunque sembra bello”, ammise Silvia, tornando a spazzare il pavimento.
Virginia richiuse il pesante volume e se lo poggiò in grembo; gettò un’occhiata all’amica, si guardò intorno e notò che la porta era socchiusa. Si alzò, la serrò completamente facendo attenzione a non farla sbattere, e tornò a sedersi.
“Tu hai paura, Silvia, di quando sarai sola con Mario?”, chiese distrattamente, giocherellando con un ricciolo che era sfuggito dalla pettinatura. Silvia non comprese bene la domanda e rispose di essersi già trovata faccia a faccia col fidanzato, qualche volta, e per quando le fosse sembrato bello non era stato poi un avvenimento tanto sconvolgente; solo quando le fu fatto presente che era di situazioni più “intime” che si parlava, sorrise, imbarazzata dal proprio errore.
“No che non ho paura!”, esclamò sicura, “Perché dovrei, scusa? È una cosa naturale”.
Le stesse parole che aveva usato Anna, pensò Virginia. Eppure lei proprio non ci riusciva a vederla come una cosa naturale.
“Forse tu non hai paura perché ami il tuo fidanzato”.
La baronessina aveva ciglia tanto lunghe che, quando abbassava le palpebre, sembrava che un velo nero le scendesse sugli occhi: e ora Silvia, guardandola, ebbe l’impressione di vedere una di quelle madonnine addolorate che a volte esponevano in chiesa.
“Virginia… non siete ancora fidanzati. Hai tutto il tempo per imparare ad amarlo! E poi… devi approfittare della situazione, sposatelo questo De Martino che tanto male non pare, non farti tanti problemi… è da quando siamo piccole che dici di voler lasciare la tua famiglia e di volere dei bambini… Francesco è utile in questo senso! Soprattutto per la seconda cosa…” aggiunse ridendo. “Secondo me non c’è da aver paura… nessuno farebbe figli, se fosse tanto brutto”.
*****
Il periodo della Quaresima era appena iniziato, quando Francesco disse a Virginia che sarebbe partito per un viaggio di piacere in Francia: sarebbe rimasto fuori dall’Italia fino al mese di Settembre, e promise di scriverle, col consenso dei baroni; disse anche che avrebbe sentito la mancanza della giovane, e che un giorno gli sarebbe piaciuto viaggiare in compagnia di una moglie, e dicendo ciò sorrise.
In seguito, il barone Gaetani confessò alla figlia di aver parlato privatamente col caro Francesco, che aveva espresso chiaramente l’intenzione di sposare la ragazza; il barone aveva dato la sua benedizione, ma per Francesco non bastava: egli intendeva ricevere una risposta dalla diretta interessata, e poiché non gli sembrava intelligente formulare una richiesta di matrimonio il giorno prima della sua partenza, avrebbe aspettato Settembre.
In ogni caso, poiché il consenso di Virginia era sottinteso da lui come dai coniugi Gaetani, i due potevano considerarsi fidanzati, e finalmente parlare di matrimonio divenne lecito.
Virginia era felice di quella specie di riguardo che il fidanzato aveva avuto nei suoi confronti, ma a turbarla ora era Silvia, che inspiegabilmente si faceva sempre più triste e silenziosa. Solo durante la settimana santa si capì perché.
Silvia entrò in camera di Virginia, come aveva fatto spesso in passato, ma non ultimamente; e l’espressione che aveva in volto sembrava suggerire che la sua non fosse una visita di piacere.
“Virginia, io…”
Si fermò, pensierosa. Forse sarebbe stato meglio tacere. Forse era una richiesta troppo audace. Ma il suo matrimonio con Mario non poteva aspettare ancora… dunque prese coraggio, e parlò senza neanche più prender fiato.
“Virginia, io e Mario non abbiamo soldi. Mi vergogno, ma sono costretta a chiederti aiuto. So che non puoi fare chissà cosa, ma… anche un tuo vecchio vestito… vendendolo, riusciremmo a guadagnare qualcosa… perché ecco, Virginia, noi potremmo anche sposarci in realtà, ma se poi non abbiamo i soldi per vivere… e Mario vuole anche spostarsi da qui…”
La camera era molto buia, e Virginia non poté vedere quanto l’altra fosse mortificata; tuttavia lo intuì, e pensò di metter fine a quel supplizio.
“L’assenza di un abito si noterebbe subito. No, Silvia. Troveremo qualcos’altro, qualcosa di meglio”.
Elaborare un piano degno di esser chiamato tale non fu troppo complicato: si decise di metterlo in atto dopo Pasqua e Virginia chiese a Silvia di procurarsi un sacco di tela piuttosto capiente, perché in un’ora tarda della notte, magari tra l’una e le due, si sarebbero recate insieme nella vecchia soffitta del palazzo, che ospitava oggetti vecchi e abbandonati ma certamente di valore; avrebbero portato a Silvia e Mario un bel po’ di soldi, e la loro mancanza non sarebbe stata notata da nessuno, per il semplice fatto che nessuno saliva mai in quella soffitta.
Silvia ritrovò l’allegria, Virginia non si era mai sentita tanto utile: entrambe attendevano con ansia la fatidica notte.
Che arrivò in un batter d’occhio.
Pasqua era passata, e il Lunedì dell’angelo, e anche il martedì. Erano le due di notte e, mentre tutti riposavano, due figure si mossero silenziosamente ma con gioia; Silvia e Virginia, che si erano date appuntamento in uno dei corridoi meno frequentati del palazzo, svoltarono per giungere alle scale che portavano alla soffitta.
Illuminate da una sola candela, trovarono difficile evitare di far rumore, dati i cigolii prodotti dalle vecchie porte di quell’ala, e fu faticoso anche impedirsi di tossire, vista la polvere; tuttavia resistettero.
Silvia aprì il sacco di tela, e Virginia lo riempì di oggetti d’ogni tipo: vecchi soprammobili, candelabri inutilizzati da tempo, portagioie antichi, argenteria ormai fuori moda… cose che avrebbero permesso ai futuri sposi di guadagnare un bel gruzzoletto, senz’altro. Chiusero il sacco ora pesante, lo sollevarono insieme e si prepararono a tornare giù, con la stessa accortezza che avevano usato per salire.
Quando, durante la discesa, Virginia ebbe la sensazione di scorgere una nuova fonte d’illuminazione, seppur fioca, si arrestò; ma servì a poco, poiché la luce avanzava verso di loro, divenendo sempre più intensa.
C’era una cosa che le ragazze ignoravano.
Quando Silvia, prima della Pasqua, aveva chiesto quel “favore” all’amica, qualcuno aveva origliato la conversazione. Qualcuno che aveva pazientato una settimana per coglierle con le mani nel sacco. Qualcuno che, proprio come loro, aveva elaborato un piano preciso e dettagliato, per giungere dritto al proprio scopo.
E quando la candela mostrò il viso di chi la portava in mano, le ragazze si sentirono morire.
“Mia amata sorella, credo tu mi debba delle spiegazioni”.
Virginia sostenne lo sguardo di Elio, ma davvero non sapeva cosa dire; biascicò qualche frase incompleta, dicendo che avrebbe spiegato tutto, ma non riuscendo a trovare neanche una parola per spiegare cosa stessero facendo; e quando Elio domandò cosa ci fosse in quel pesante sacco e, prima ancora di poter ricevere una risposta, lo aprì, fu il panico a suggerire alla ragazza un’idea, seppur non brillante.
“Ascolta, Elio…”, sussurrò, perché non dovevano assolutamente far rumore, i suoi genitori non avrebbero mai dovuto scoprire, “io volevo solo fare un regalo a Silvia… si sposa, andrà via, e io… sai che le voglio bene… sono oggetti che nessuno utilizza da tempo, non valgono niente… era solo per farle un regalo…”
Virginia guardò Silvia, resa muta dallo spavento, poi di nuovo Elio, che guardava con aria scettica il portagioie che era stato della loro nonna, e che aveva certamente gran valore, essendo completamente d’oro.
“Per favore, Elio… non dirlo ai nostri genitori…
Virginia non si era mai rivolta al fratello con tanta dolcezza, né le era mai capitato di chiedergli protezione, e in realtà non credeva che lui l’avrebbe mai aiutata; tuttavia la situazione le era sembrata talmente disperata, e il desiderio di aiutare l’amica era tanto grande, che si sarebbe persino inginocchiata ai piedi del ragazzo.
Elio, dal canto suo, ripose gli oggetti senza far rumore, e guardò la sorella con aria grave.
“Una piccola serpe ingrata come te, che ruba in casa propria, tradendo la propria famiglia, complottando con una serva… osa chiedermi di avere riguardo nei suoi confronti? Cosa avevate intenzione di fare con i soldi guadagnati, sciagurate?”, domandò a voce stranamente bassa, avanzando minacciosamente verso Virginia, “cosa…”
“Per favore, signore, lasciate stare la baronessina!”
Silvia si era aggrappata al braccio dell’uomo, tirandolo verso di lei e allontanandolo dall’altra; lo sguardo che Elio le rivolse le fece capire quanto il gesto fosse stato avventato, e dunque lasciò la presa, ma non smise di parlare.
“La signorina non ha colpe, se non quella di essere troppo buona. Sono stata io a chiederle aiuto… per il mio matrimonio. Ho… ho bisogno di soldi e ho chiesto a lei di aiutarmi. La signorina si è commossa e ha acconsentito, e questo è tutto. So di meritare una punizione, signore, e non mi ribellerò: ma per favore, lasciate stare la baronessina, perché davvero è innocente!”.
“Oh, ma questo cambia tutto”.
Elio conosceva perfettamente la verità sin dall’inizio; ma per raggiungere il suo fine, era stato costretto a fingere il contrario, nella speranza che qualcuno confessasse: e questo accadde.
“Ti prego, Elio, non lo dire ai nostri genitori. Non far licenziare Silvia”. Virginia aveva gli occhi colmi di lacrime, che non riusciva più a contenere, e che non commossero affatto Elio.
“In qualche modo deve pagare”, sostenne, risoluto. “Decideremo insieme come… da soli”.
Virginia esitò, titubante, ma poi abbassò gli occhi e scese un gradino, credendo di dover tornare in camera: ma Elio non voleva ciò. Le afferrò il braccio con prepotenza, prese con l’altra mano il sacco della “refurtiva” e si trascinò così fino alla soffitta. “Così sono sicuro che non sgattaiolerai via”.
La ragazza non gridò né protestò, decisa a non creare scompiglio: si ritrovò chiusa a chiave, sola e al buio. Le ultime parole che udì furono quelle di Silvia che chiedeva ad Elio di lasciare alla ragazza almeno una candela, e la risposta del ragazzo che affermava che, per una strega del genere, l’oscurità non avrebbe certo rappresentato un problema. Ascoltò il rumore lieve dei loro passi, poi fu silenzio assoluto.
Che Elio avesse deciso – almeno così sembrava – di tacere su ciò che aveva visto, era positivo, ma aveva paura di cosa avrebbe fatto per punire Silvia: era già capitato, in passato, che suo fratello decidesse di provvedere personalmente ai castighi destinati ai poveri servitori disobbedienti, e molte volte licenziamenti e “multe” erano stati sostituiti da frustrate tremende… ed Elio non avrebbe risparmiato Silvia perché era una donna, né perché era giovane, né per nessun altro motivo.
Non seppe mai quanto tempo passò tra i vecchi e polverosi bauli, ma quando Elio tornò a liberarla il cielo si era leggermente schiarito.
I due non si rivolsero parola. Scesero le scale in silenzio assoluto, e solo quando giunsero dinnanzi alla camera di lei, la ragazza domandò con preoccupazione se Silvia stesse bene.
“Non l’hai picchiata, Elio, non è vero?” chiese speranzosa.
Il fratello disse solo che Silvia era stata fortunata, e che nessun altro mai se l’era cavata tanto facilmente; “ma sappi che non tollererò altre sciocchezze. Quella ragazza non dovrà mai più rivolgersi a te, per nessun motivo; lo sa, l’ho avvertita. Bada bene, Virginia, neanche uno sguardo sarò disposto a sopportare tra voi: se vi scopro a passare del tempo insieme, racconterò tutto a tutti”.
Virginia abbassò il capo ed entrò nella sua stanza. Tutti, quel giorno, ebbero modo di notare che la fanciulla fosse più malinconica e silenziosa del solito; e anche Silvia, che neanche tentò di spiare il volto della vecchia amica, non era mai apparsa tanto afflitta e lugubre.
Erano gli inizi di Aprile e quel mese trascorse tristemente, come anche Maggio. Poi, ai primi di Giugno, Virginia sospettò che Silvia avesse qualcosa da dirle.
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Capitolo 6 *** La verità ***
Gli uccellini cinguettavano festosi, il 5 Giugno 1911, e anche Virginia si sentiva felice: i suoi genitori erano partiti quella mattina assieme ad Elio, e per una settimana sarebbe stato Leonardo ad amministrare la casa.
Non si somigliavano, lei e quel fratello: Leonardo aveva i capelli lisci, di un castano chiaro, come Quirino; Quirino, però, era sempre stato malaticcio, - o si era finto tale, nessuno era riuscito a capirlo - e il suo corpo gracile e scarno era triste da vedere; Leonardo, invece, era un ragazzo di grande fascino e, come Elio, aveva fatto breccia nel cuore di parecchie fanciulle; ma, al contrario di Elio, aveva un carattere indubbiamente piacevole.
Alla nascita di Virginia, egli aveva sette anni, età in cui si è poco interessati ai neonati e alle femmine; ragion per cui l’aveva ignorata. Crescendo le cose non erano cambiate di molto, poiché certamente il ragazzo si era reso conto che quella sorella fosse strana e desse anche parecchie noie, ma non l’aveva mai detestata, e questo Virginia l’aveva percepito. Tra l’altro quando, qualche ora dopo l’alba, la carrozza con i coniugi Gaetani aveva lasciato il palazzo, Virginia e il fratello si erano sentiti vicini… vicini nello sconcerto.
“Chissà cosa gli è preso”, aveva commentato Leonardo, e Virginia sapeva bene a chi si riferiva.
Elio ultimamente aveva stupito tutti: non era mai stato tanto allegro, solare e ben disposto; dispensava sorrisi a chiunque – persino alla sorella! – e da mesi pareva esser divenuto il più pacifico degli uomini; quando aveva annunciato poi di voler recarsi a far visita alla fidanzata, assieme ai baroni Gaetani, la famiglia era rimasta di stucco, perché mai Elio si era dimostrato interessato ad Emma; tuttavia quel giovane sembrava cambiato in meglio, e nessuno si sarebbe sognato di indagare sul perché di tanta improvvisa giovialità.
Virginia, dal canto suo, stentava a riconoscere il fratello, ma al momento era fuori di sé dalla contentezza: perché, se Elio non c’era, avrebbe potuto parlare con Silvia – stando attenta a non farsi scoprire da Leonardo, certo, ma Leonardo non aveva interesse alcuno a sorvegliarla come un cane da guardia; e bisognava solo attendere il momento più adatto.
L’occasione non si presentò, come Virginia aveva previsto, perché da tempo ormai Silvia evitava di adempiere mansioni che l’avrebbero troppo “esposta”, limitandosi a stare nelle cucine o a svolgere le faccende domestiche lontana dagli occhi dei suoi padroni, come Elio le aveva ordinato la notte in cui l’aveva scoperta a rubare.
Per due giorni Virginia aveva pazientato, dedicandosi alla lettura e rileggendo con scarso interesse le lettere di Francesco che già avevano ricevuto risposta; poi, la terza notte dopo la partenza dei genitori, prese coraggio e si avviò, scalza e in abbigliamento notturno, verso l’ala del palazzo riservata ai servitori.
Non era raro sentire rumori durante la notte, da quelle parti, anzi; in realtà era strano non sentirne, dato che i turni di pulizia mattutini iniziavano presto, e si finiva di lavorare tardi in cucina. Non era insolito udire rumore di passi, o di porte che si aprivano e chiudevano; sarebbe stato strano, invece, sentire qualcuno bussare alla porta, perché la pratica non era diffusa, e Virginia lo sapeva; ragion per cui entrò senza troppi preamboli nella piccola stanza destinata ad Anna e Silvia.
Aveva immaginato di destare stupore, la ragazza, ma furono le altre due a stupire lei: alla debole luce di una candela quasi completamente consumata, Silvia singhiozzava disperatamente, e Anna le era accanto, col viso rigato dalle lacrime e l’espressione arrabbiata; guardarono Virginia, ma quell’apparizione non riuscì a distrarle dal proprio dolore: si limitarono, o meglio, Anna si limitò a trascinarla dentro, per poter subito richiudere la porta. Dovettero passare dei minuti, però, prima che qualcuno riuscisse a proferir parola, e questo qualcuno fu Virginia, che si scusò per esser piombata lì senza preavviso e in un momento evidentemente sbagliato.
“Oh, figuriamoci”, aveva sbottato Anna, asciugandosi la faccia e invitando la figlia a calmarsi, “sapevo che saresti venuta appena si levava di torno quel… quel mascalzone”, biascicò, tentando di contenersi; sospirò, passandosi una mano sulla fronte, ma non riusciva proprio a calmarsi, e lasciò le ragazze sole, raccomandando a Silvia di sfogarsi con l’amica perché ormai nessuno aveva più nulla da perdere, e se c’era qualcuno che poteva aiutarle era proprio la giovane baronessa.
Le parole usate da Virginia furono molte e dolci, ma non fu facile interrompere quel flusso di disperazione che agitava l’amica; solo in seguito a un lungo abbraccio, che cancellò la distanza di quegli ultimi mesi, Silvia si decise ad aprir bocca, per quanto penoso e umiliante le sembrasse.
“Virginia… Mario mi ha lasciata! Non ci sarà più nessun matrimonio, non ci sarà più nulla! E io… io sono rovinata ma di questo non m’importa, ma Mario… io lo amo, Virginia! Io l’ho sempre amato davvero!”
“Ma Silvia… come ha potuto annullare tutto?”
Gli occhi dell’umile fanciulla si rabbuiarono. Virginia non era riuscita a tenere a freno la lingua e ora parlava in termini poco cordiali di quel giovane, dicendo che un comportamento del genere era davvero disdicevole, che non era possibile abbandonare una donna dopo averla chiesta in matrimonio, che non era moralmente corretto giocare con i sentimenti altrui; ma Silvia scuoteva la testa. “Non offenderlo, Virginia, non poteva fare altrimenti, vista la situazione”.
“Virginia”, proseguì, accarezzandosi il ventre, “io aspetto un bambino. E no, non è figlio di Mario. Mario non mi ha mai toccata. Mi pare logico se non vuole più sposarmi… quale uomo vorrebbe? Sapevo già che avrebbe reagito così… quando gli ho parlato già piangevo, perché immaginavo la reazione. Ma non potevo mica aspettare che se ne accorgesse da solo, vedendo la pancia crescere. E poi io lo amo, e lui meritava di sapere la verità… ovviamente non mi ha creduto, come avevo già previsto… ma dovevo dirlo… dovevo per forza… non ce la facevo più a tenermi tutto dentro… dovevo parlarne con qualcuno… dovevo dirlo…”.
Una personcina con più esperienza del mondo non avrebbe avuto bisogno di chiedere spiegazioni, e forse avrebbe intuito la verità nel momento stesso in cui quella cosa era accaduta; Virginia era intelligente, ma trascorreva troppo tempo in un mondo fatto di fantasia e spesso dimenticava come funzionasse quello reale; perciò si trovò costretta a indagare, con un certo imbarazzo, sul motivo che aveva portato l’amica a tradire il fidanzato.
“Io non avrei mai tradito Mario!”, spiegò la ragazza, un po’ offesa, e le lacrime ricominciarono a invaderle gli occhi: e tra le lacrime espose il suo triste racconto, un racconto poco lineare che Virginea faticò a ricostruire, perché i singhiozzi coprivano le parole. E quando la giovane ebbe finalmente un’idea chiara di ciò che realmente era successo, si ritrovò a desiderare di non aver mai saputo. Anche lei pianse, e più dell’amica, e si sentì in colpa, perché forse se lei non avesse avuto quella strampalata idea di saccheggiare la propria casa, le cose sarebbero andate in maniera diversa.
Ormai però il passato non poteva esser cambiato, e Silvia portava in grembo il figlio di Elio.
L’aveva violentata, ma era stato furbo; prima di cacciarla fuori dalle sue stanze, perché lì aveva condotto “quella serva” mentre Virginia era chiusa nella soffitta, aveva promesso di non parlare a nessuno del tentativo di furto, a patto che la ragazza non rivolgesse mai più la parola a sua sorella; e aveva aggiunto che, in realtà, quello che era stato consumato tra loro non era una violenza. Se lui avesse voluto semplicemente violentarla, infatti, l’avrebbe fatto e basta, perché la sua posizione gliel’avrebbe consentito; la cosa, invece, era avvenuta solo per ripagarlo del silenzio che avrebbe mantenuto. “Non mi pare che tu abbia altri modo per pagare, d’altronde”, aveva concluso.
Dopo quella notte, comunque, non si era più fatto vedere, e Silvia ne era stata felice. Era stato difficile nascondere l’accaduto a sua madre, anche perché Elio non era stato gentile, e lei aveva il corpo pieno di lividi, segni della resistenza che aveva tentato di opporre; e se era stato difficile allora, era divenuto poi impossibile quando si era accorta della gravidanza.
A Mario aveva raccontato tutto, ma lui non le aveva creduto, innanzitutto perché sapeva che Elio Gaetani era solito frequentare luoghi di piacere affollati da donne sicuramente più affascinanti di una ragazzina semplice e sempre sporca, e in secondo luogo perché aveva sentito dire che i rampolli della nobiltà locale avessero qualcosa – non aveva capito la natura di questo qualcosa – che riuscisse a impedire le gravidanze; dunque, se anche Elio avesse violentato una donna, non sarebbe stato tanto idiota da generare un figlio illegittimo.
Ne era convinto, lui. E sebbene Silvia fosse offesa dal fatto che lui non le avesse creduto, non riusciva a biasimarlo, e soprattutto, non riusciva a smettere di amarlo.
Virginia aveva nascosto il viso tra le mani, e credeva seriamente che non sarebbe più riuscita a scoprirlo, troppo umiliata da ciò che aveva compiuto uno che diceva di avere il suo stesso sangue e ora magari riposava tranquillo, e passava le sue giornate a corteggiare una povera ragazza, facendosi credere da lei un cavaliere senza macchia.
“Mi aiuterai, Virginia?”
La fanciulla si asciugò le guance con la camicia da notte, e guardò l’amica. “Parlerò con i miei genitori, Silvia. Ed Elio si prenderà le sue responsabilità, e…”
“NO!”, la interruppe l’altra, allarmata. “No, Virginia… io non voglio sposare Elio! Io voglio Mario! Se tu… se tu parlassi solo con Elio, lascia perdere i tuoi genitori… parla con lui… chiedigli se… ecco, Virginia, se solo lui dicesse a Mario, solo a Mario, non serve che lo sappiano gli altri! Ma se lui dice a Mario la verità… allora lui tornerà da me!”.
Virginia esitò, balbettò, provò a spiegare che la cosa non le sembrava saggia, tornò a dire che sarebbe stato meglio parlare direttamente ai genitori, perché forse le avrebbero creduto… ma poi si rese conto di quanto improbabile fosse che i genitori le credessero, di quanto fosse assurda l’idea che Elio venisse costretto a fare qualcosa, e si convinse ad accettare la richiesta di Silvia.
“Farò come vuoi tu” assicurò, prima di lasciarla, “non appena tornerà, gli parlerò… e dirò che è stata Anna a parlarmi, così non scoprirà che gli ho disobbedito”.
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Capitolo 7 *** Elio e Silvia - parte 1 ***
Virginia aveva pensato e ripensato al discorso da fare al fratello. Si era detta e ridetta che sarebbe stato bene rivolgersi a lui in maniera gentile, perché se l’avesse indisposto Elio non avrebbe certamente collaborato, ed era solo la sua collaborazione che serviva; certo, avrebbe preferito urlargli contro lo schifo che provava nei suoi confronti, avrebbe voluto rivelare al mondo intero la verità, rendendo così giustizia alla cara amica oltraggiata, ma Silvia non voleva.
Silvia sperava solo che Elio potesse confessare qualcosa che sarebbe rimasto tra lui e Mario. E Virginia sperava che Mario, una volta conosciuta la verità, avrebbe ucciso Elio.
Il ritorno dei coniugi Gaetani e di Elio aveva destato molto stupore, nella servitù e non solo. I tre erano apparsi quanto mai gioviali, avevano portato con sé un’enorme quantità di doni e, dal loro arrivo, non c’era stato modo di farli tacere. Neanche la pomposa cena che Leonardo si era preoccupato di far preparare era riuscita a zittire la baronessa, che aveva raccontato a tutti di quanto Elio fosse stato gentile, e galante, e perfetto. La giovane Emma (e anche i suoi genitori) ne era stata a dir poco ammaliata e aveva promesso di scrivere ogni giorno e di ricambiare la visita; intanto, poiché Elio le aveva parlato molto della sua adorata sorella, Emma aveva inviato a Virginia un regalo: si trattava di un braccialetto d’oro, semplice, ma con un bel ciondolo a forma di sole; e assieme ad esso le era stato inviato un bigliettino, il quale esprimeva il forte desiderio, da parte di Emma, di avere finalmente una sorella.
Virginia, dal canto suo, rabbrividiva nel pensare all’inganno che suo fratello stava giocando a quella povera fanciulla – perché Elio era un farabutto, e la sua fidanzata non l’avrebbe mai saputo, probabilmente – e continuava a dirsi che bisognava agire, e presto, anche, perché Silvia meritava giustizia, almeno in parte.
Il problema era che Silvia si era ricreduta su alcuni punti. Se inizialmente aveva creduto saggio far parlare Virginia con Elio, si era poi detta che sarebbe stato ancor meglio affrontarlo personalmente, una volta per tutte, senza intermediari: anche perché, con molta probabilità, Virginia avrebbe finito per farlo infuriare, e allora addio sogni di pace, addio matrimonio, addio Mario.
Aveva preso l’abitudine, il maggiore tra i giovani Gaetani, di sostare in biblioteca dopo cena, e di rimanervi fino a notte inoltrata; allora tutti gli altri componenti della famiglia dormivano, ma la servitù era ancora attiva, e il fatto che Silvia si recasse dal giovane barone per portargli una camomilla non destò stupore. Non tra gli altri camerieri, almeno. Perché Elio, invece, fu alquanto sbalordito dall’entrata della ragazza.
«Non ricordo di avere ordinato da bere».
Silvia abbassò gli occhi, già pieni di lacrime. Per mesi aveva evitato quell’uomo, e ora che lo rivedeva, gli stavano tornando in mente tutti i particolari di quella maledetta notte.
«Vorrei parlarvi di una questione, signore», esordì, senza guardarlo negli occhi. Elio richiuse il libro che aveva tra le mani, lo poggiò su un tavolino.
«Ecco, signore, ormai non ho più dubbi. Io aspetto un bambino».
Elio si raddrizzò sul divanetto, il viso leggermente incupito.
«In che modo questo dovrebbe interessarmi?»
Una lacrima solcò il viso di Silvia. Ne seguì un’altra, e un’altra ancora.
«Mario non vuole più sposarmi, signore, perché ovviamente il bambino non è suo. Il mio matrimonio è stato annullato»
Elio la guardava con un’espressione fredda e impenetrabile; accennò un breve sorriso, scosse la testa e si alzò.
«Cose che capitano quando non si sanno tenere le gambe chiuse, non ti pare?»
Gli occhi di Silvia, un mare in tempesta, si levarono verso quelli scuri di lui.
«Signore, vi supplico! Se voi diceste a Mario la verità… sono sicura che lui capirebbe, che mi vorrebbe ancora! Cosa vi costa, signore? Dovreste parlarne solo a lui, e non lo saprebbe nessun altro! Dite pure che mi avevate sorpresa a rubare, non m’importa! Ma per carità, dite che sono stata costretta…»
«Costretta?», rise. «E chi ti ha costretta? Io volevo solo che il mio silenzio fosse pagato, avresti potuto pagare col denaro…»
«Sapete bene che non ne ho!»
«Tu vorresti che io, un barone, andassi a parlare con quel pezzente del tuo innamorato, per dire che hai passato una notte nel mio letto? E in che modo potrebbe consolarlo, una rivelazione del genere? Dovrei fargli credere che ti ho presa con la forza? Ma questo è quello che piace credere a te, brutta sgualdrina, perché io non ti ho costretta. Hai ragione quando dici che parlare al tuo Mario non mi costerebbe nulla, perché la mia posizione mi permette di fare qualsiasi cosa con te e quel morto di fame non potrebbe neanche azzardarsi a mettersi contro un Gaetani, se anche ti avessi usato violenza… ma vedi, Silvia, non ho interesse alcuno ad aiutarti. E sono sicuro che il bastardo che ti porti in corpo non sia figlio mio. Chissà quanti altri hai pagato come hai pagato me».
Silvia non riusciva neanche più a fiatare. Tremava tutta, per la rabbia ma anche per la paura. Quello non era un uomo, era un demonio.
«Signore», riuscì infine a sussurrare, «potete pensare di me ciò che volete, ma io vi giuro di non aver mai sfiorato nessun uomo, oltre voi. E vi giuro anche che se riuscissi a sposare Mario me ne andrei di corsa da qui, e voi non avreste più notizie di me, né del bambino. Vi scongiuro, signore, aiutatemi. Se avete un cuore, aiutatemi».
Elio la guardò, chiedendosi perché in passato l’avesse desiderata tanto. Era scialba, insipida, spenta. Non c’era in lei nulla, assolutamente nulla di attraente.
«Va’ via, e riportati indietro quella roba. Non ricordo di aver ordinato da bere».
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Capitolo 8 *** Elio e Silvia - Parte 2 ***
Erano stati
movimentati, quei giorni, al palazzo Gaetani. Apparentemente, nulla era
cambiato: la servitù seguitava a svolgere le proprie
funzioni, i baroni ancora
parlavano della visita alla giovane Emma, le lettere di Francesco
continuavano
a giungere e ad esser lette da Elio, e poi da Virginia. I caldi giorni
e le
notti si erano alternati senza che nulla di particolare accadesse, e
nessuno
avrebbe potuto immaginare quanto gli abitanti di quella dimora fossero
turbati.
Ognuno aveva
dato sfogo
ai propri dolori in maniera silenziosa.
Silvia non aveva
parlato direttamente con Virginia: era stata Anna a raccontare alla
baronessina
di quanto Elio fosse stato ignobile, e Virginia si era odiata per la
sua
debolezza, si era odiata perché era nata donna; se fosse
stata un uomo avrebbe
picchiato Elio, l’avrebbe costretto a prendersi le proprie
responsabilità o, se
lui non avesse ceduto, l’avrebbe ucciso; ma era una donna,
non aveva diritti,
non aveva potere, e tutto ciò che poteva fare era mettere il
broncio, lanciare
occhiate disgustate e sguardi velenosi, cose che, comunque, Elio non
notava,
perché troppo preso da pensieri altri.
Le idee di etica
e
morale sono - e sempre saranno - relative, e nessun uomo venuto su come
era
stato cresciuto Elio Gaetani avrebbe provato rimorso o pietà
per una ragazza
come Silvia. Se da bambini si apprende che tra gli uomini esistono
delle
differenze, che i nullatenenti non valgon niente, soprattutto se
paragonati a
chi nei soldi ci nuota, e che una donna non ha lo stesso valoredi
un maschio, allora è inevitabile che da adulti si
vedrà il mondo in un certo
modo.
Perciò,
Elio non era
assolutamente in pena per la ragazza oltraggiata, né si
riteneva in qualche
misura colpevole o responsabile nei suoi confronti; il problema era il
bambino.
Se davvero era figlio suo - e in effetti era plausibile – non
avrebbe potuto
lasciarlo crescere in mezzo a una strada; certamente non
l’avrebbe mai
riconosciuto, ma neanche si poteva permettere che un suo
“parente” facesse la
fine di un pezzente.
Avevano parlato,
Elio e
suo padre. Elio non aveva detto tutta la verità, qualche
particolare a suo
giudizio insignificante era stato modificato, e così il
barone Gaetani aveva
capito che tra suo figlio e Silvia ci fosse stata una liaison liberamente
voluta da entrambi e certo, i due erano stati sconsiderati, ma
d’altra parte la
cosa era accaduta una sola volta, e se la ragazza era rimasta incinta,
ecco,
era stata anche una questione di sfortuna. Il barone era rimasto molto
più
colpito di quanto non avesse dato a vedere, in realtà, e non
gli era stato
facile trovare le giuste parole per tranquillizzare il figlio; tuttavia
riuscì
a rassicurare il ragazzo, garantendo che Silvia e il bambino sarebbero
stati
sistemati, avrebbero trovato presto un modo, ed Elio non avrebbe avuto
noie:
anzi, se per caso avesse voluto, si sarebbe tenuto informato sulla vita
della
creatura, senza che quest’ultima sapesse di essere
imparentata con lui.
«Hai
sbagliato, ma è
uno sbaglio che fanno in molti, soprattutto da giovani.
Anch’io, ai miei tempi,
mi sono fatto un po’ trascinare dalle esigenze del
corpo», gli aveva detto.
… E
la baronessa
Gaetani lo sapeva bene. E quando venne a sapere che l’adorato
Elio aveva
commesso lo stesso errore del padre ella non parlò, non
fiatò se non per
chiedere come pensassero di “risolvere la
questione”, ma si sentì il cuore
ingabbiato dal dolore.
Almeno, si
disse, Elio
aveva fatto quel che aveva fatto prima di sposarsi; ma quanto
disgraziato e
cattivo era stato il destino… !
Posando la testa
sul
cuscino, la baronessa ripensò a quando, meno di
vent’anni prima, si era vista
costretta ad accettare a palazzo la presenza di colei che era stata
l’amante di
suo marito. Ricordava bene quel giorno.
Le temperature
erano
alte e Virginia, che a tre anni era ancora una brava bambina, sedeva
tra le sue
braccia intenta a osservare il volo delle farfalle. Quirino era accanto
a loro,
impegnato nella lettura di un qualche libretto per bambini, e Leonardo
ed Elio
stavano simulando una specie di giocosa lotta; poi, era comparso il
barone.
«Stanno arrivando», aveva sussurrato, e la
baronessa aveva volto lo sguardo
verso il giardino, attraversato a grandi passi da una donna che si
trascinava dietro
una bambina bionda. Non era bella, quella donna. Era grossa, mascolina,
volgare. «Da oggi abbiamo una nuova domestica»,
aveva spiegato il barone ai
bambini, che non si erano mostrati interessati alla novità.
E lei non aveva
parlato. Lei non aveva fiatato. Si era solo detta che quella era la
cosa giusta
da fare. Aveva solo sperato che tra quella rozza contadinella e suo
marito non
accadesse più nulla.
E in effetti non
era
accaduto.
***
Il mutismo di
Virginia
era ormai divenuto la norma: nessuno tentava più di farla
parlare, men che meno
a tavola, dove già era un miracolo riuscire a farle aprire
la bocca per
mangiare. I primi giorni Leonardo si era mostrato preoccupato, ma dopo
qualche
inutile tentativo aveva rinunciato a capire cosa avesse nella testa sua
sorella. Era evidente, da come lo guardava, che avesse motivi seri per
odiare
Elio – o meglio, per odiarlo più del solito
– e nessuno l’aveva mai vista
indossare il braccialetto inviatole da Emma.
La serata, la
baronessina la trascorreva con lo sguardo fisso sul piatto, muovendosi
solo per
bere di tanto in tanto e per recitare la preghiera prima del pasto,
perché che
lei non mangiasse era anche accettabile, ma che non pregasse era
assolutamente
fuori discussione.
Il 23 Giugno, si
respirava una strana aria a tavola: aria di tensione, attesa, e
inganno. Tutti,
non solo la baronessina, tacevano, si muovevano a scatti, si
osservavano con
una certa inquietudine; ma Leonardo e Quirino erano stati coinvolti
semplicemente da quell’atmosfera infetta, e non nel crimine
vero e proprio.
Quando Anna
spalancò la
porta e, con una furia indecorosa, entrò nella stanza, fu
chiaro a tutti che
qualcosa di grave doveva essere successo.
«Cos’è
questa storia?»
gridò, con la voce alterata da una rabbia feroce.
Virginia
guardò sua
madre, Quirino suo padre, Leonardo si volse verso Elio: ma quei tre
erano
tranquilli come se nella stanza fosse entrata una mosca.
«C’è
una carrozza,
quaggiù, dicono che devono portare Silvia in convento! Cosa
significa? Cosa
accidenti vi passa per la testa?»
Virginia si
alzò,
decisa ad affacciarsi dalla finestra per controllare, ma la madre le
afferrò
con forza il polso, costringendola a risedersi.
«Anna,
non credo ci sia
altra scelta», disse finalmente il barone, continuando a
mangiare, «non
possiamo tenerla qui in quelle condizioni»
«In
quelle condizioni?
Aspetta un bambino, non ha la peste! Che problemi vi darà?
Non ero anch’io una
ragazza senza marito, quando sono venuta qui con lei? E non sono stata
accolta?
Perché Silvia non può rimanere? È
perché quel mascalzone che vi sta accanto ha
paura di vedere un bambino che gli somigli?»
Quirino e
Leonardo
rimasero fermi, basiti e interdetti, gli occhi sgranati verso Elio e la
bocca
serrata. Virginia non fiatava.
«Un’altra
parola contro
di me e sei licenziata», proruppe Elio con
tranquillità. «E ringrazia per ciò
che facciamo. Non è detto che quell’essere sia
figlio mio. Sto facendo anche
troppo»
«Via,
via!», il barone
si alzò, muovendo qualche passo verso Anna. «Elio
e Silvia hanno fatto qualcosa
che non avrebbero dovuto fare, e sono stati sfortunati,
perché è successo
l’irreparabile» spiegò il barone,
«e in un’altra situazione magari l’avrei
lasciata qui, Silvia, in fondo se sapesse mantenere il
segreto… ma vedi, se
Emma venisse a farci visita e sentisse qualche voce… santo
cielo, non oso
immaginare cosa penserebbe! E se poi veramente il bambino somigliasse
ad Elio,
che faremmo? Insomma, bisogna prendere provvedimenti.».
Anna strinse i
denti.
Molte erano state le ipotesi che Silvia aveva considerato, nelle ultime
settimane, e da poco si era decisa a tenere il bambino; certo,
avrebbero
vissuto come reietti, chiusi in quella casa, ma magari lei sarebbe
riuscita a
mettere da parte qualche soldo, e il bambino, una volta cresciuto,
sarebbe
riuscito a lasciare quel luogo e a costruirsi una vita dignitosa. E
ora,
invece, tutto andava distrutto.
«Se ne
andrà in un
convento. Non possiamo certo dimenticare la fedeltà e il
rispetto che avete
sempre mostrato verso di noi, se ne starai lì,
già abbiamo parlato con le
suore, non è un problema, l’aiuteranno loro col
parto e tutto il resto… sarà
protetta da ogni offesa, dal mondo che guarda male a una donna come
lei, da
ogni tentazione di peccare ancora. Il bambino, dopo la nascita,
sarà mandato in
qualche collegio e, quando avrà l’età
giusta, prenderà i voti come lei.»
«E
così avrete
sistemato ogni cosa!» proruppe Virginia, in un impeto di
rabbia. «Offrite una
soluzione del genere e vi dite un essere giusto? Santo cielo,
padre!», proseguì,
ignorando le proteste della madre, «Se si trattasse di vostra
figlia, se fossi
io ad aspettare un bambino, non obblighereste il padre della creatura a
sposarmi? Perché non fate lo stesso con Elio?».
Elio sorrise,
giocherellando con le posate. «Mia cara sorella, non dici
sempre che sono un
uomo orribile? Ebbene, perché vuoi che la tua cara amica
sposi me? Tralasciando
il fatto che sarebbe una cosa del tutto assurda, ti stai contraddicendo
in
maniera impressionante»
«Virginia
ha ragione!»,
gridò Anna contro il barone. «Io ho fatto un patto
con voi, signore, e non lo
tradirò, ma non state rispettando gli accordi! Quando venni
qui, mi diceste che
avreste protetto Silvia. Ebbene, non lo state facendo! Se fosse
capitato a
Virginia…»
«Virginia
non è una
puttana come tua figlia!»
Anna
guardò Elio con
occhi di fiamme. «Lavati la bocca prima di nominare mia
figlia, ragazzo!
Virginia, malgrado tutto, ha avuto la fortuna di essere sempre
protetta, per
questo non è stata mai aggredita da porci come te!»
Fu Leonardo a
gettarsi
su Elio, per evitare che questi si avventasse su Anna. Elio
urlò ad Anna di
fare le valigie e di andarsene a lavorare di un bordello, e il barone
non poté
trovare un motivo valido per salvare Anna dal licenziamento, un
licenziamento,
tra l’altro, voluto fortemente dalla baronessa.
Virginia
provò ad
opporsi, ad appellarsi al buonsenso del padre, ma fu inutile
perché la sua voce
era sovrastata dalle grida di Elio, il quale giurò
solennemente che, se Silvia
non avesse lasciato quella casa entro la mattina seguente, se non si
fosse
recata in quel convento, lui sarebbe stato anche capace di farle
perdere il
bambino a suon di calci. E tra le urla e le offese che Anna indirizzava
ad
Elio, gli sforzi assurdi di Leonardo che non riusciva più a
tener fermo il
fratello, Quirino che fingeva attacchi di emicrania e i tentativi vani
del
barone che tentava di metter pace in quel trambusto, Virginia non
poté che
restare immobile ad osservare quanto marcio ci fosse tra quelle mura.
Le grida
si fecero lontane, la ragazza vedeva sua madre quasi accapigliarsi con
Anna, ma
il fatto che si fosse estraniata da quella situazione le
impedì di cogliere
alcune frasi che, se ascoltate attentamente, avrebbero fatto capire a
lei e ai
suoi fratelli quanto la situazione fosse più drastica e
orribile di quanto non
apparisse. Perché il dramma era chiaro completamente solo a
tre persone: la
baronessa, il barone ed Anna.
La lite ebbe
fine solo
quando Anna sputò in faccia ad Elio, e allora fu proprio
Virginia a trascinarla
fuori dalla stanza, capendo che Leonardo non avrebbe retto ancora a
lungo
contro quel leone che si dimenava come un dannato per liberarsi.
Corsero fino
alla
camera di Virginia, le due, e si chiusero a chiave. Incredibilmente,
nessuna
pianse: la rabbia era troppa. Anna non riusciva neanche a parlare in
maniera
lineare, disse solo che avrebbe preparato le valigie al più
presto, e che
avrebbe detto a Silvia di andare in convento, perché non
c’era altro da fare,
perché lei era ormai troppo vecchia per trovare un nuovo
lavoro, non ne avrebbe
trovato di certo uno decente, e dunque sarebbe stato meglio, per
Silvia,
chiudersi davvero in un chiostro, così almeno avrebbe
mangiato, e sarebbe stata
lontana da Elio. E il bambino… per il bambino si sarebbe
trovata una soluzione,
e forse col tempo sarebbero anche riusciti a far uscire
Silvia… e insomma, ora
era tardi e doveva davvero andare, perché aveva intenzione
di lasciare quella
casa in meno di ventiquattro ore. Gli addii furono rimandati a un
secondo
momento, e Virginia disse che sarebbe andata a salutare Silvia la
mattina
seguente, perché quella sera erano già successi
troppi casini.
Non
tornò nella sala da
pranzo, la ragazza. Si mise a letto, e tentò di calmarsi.
Silvia in convento…
sì, ma l’avrebbe vista ancora. Era possibile far
visita alle suore? Non lo
sapeva, ma lei ci sarebbe riuscita, e l’avrebbe aiutata ad
uscire, e a tenere
il bambino. L’avrebbe fatto da sposata, sì,
perché sposando Francesco sarebbe
stata più libera, e Francesco era in fondo un uomo
buono… e se Elio avesse
tentato di ostacolarla, allora lei avrebbe minacciato di raccontare
tutto ad
Emma. Sì, avrebbe sistemato tutto. E anche Anna,
l’avrebbe assunta lei, una
volta divenuta la signora De Martino. Che sciocca, era tutto
così semplice! Sì,
si sarebbe sposata al più presto, avrebbe assunto Anna, e
liberato Silvia, e
poi avrebbe trovato il bambino, e avrebbe salvato anche lui dalla vita
collegiale e monacale.
La mattina
seguente
avrebbe spiegato il suo piano ad Anna e Silvia. Tutto si sarebbe
risolto.
Bastava avere un po’ di pazienza.
***
Il trambusto le
fece
aprire gli occhi. Aveva fatto bei sogni, quella notte, e il ritorno
alla realtà
fu decisamente brusco. Si alzò a sedere, ancora intontita:
rumori di passi
veloci, di urla, di pianti, venivano dal corridoio. Credette di essersi
svegliata tardi, forse Silvia stava partendo, e anche Anna, e lei
neanche
avrebbe fatto in tempo a parlar loro del piano, né a
salutarle: decise che
vestirsi non era necessario, si gettò sulle spalle uno
scialle solo per non
sentire i rimproveri della madre, e aprì la porta.
Vide Quirino, in
vestaglia, far ritorno in camera sua bisbigliando qualcosa. Intravide
in
lontananza la sagoma di Leonardo: correva, ed anche lui era in
abbigliamento
notturno. Guardò l’orologio e scoprì
che in effetti erano solo le 6.30: cosa
stava succedendo? Possibile che stessero ancora litigando?
Iniziò
ad attraversare
il corridoio, sorpresa dalla servitù che, senza alcun
riguardo, le sbatteva
addosso senza neanche scusarsi. Uscì dalla zona riservata
alle camere da letto
e, seguendo quell’andirivieni, si ritrovò ad
imboccare un corridoio della zona
giorno. Si accorse che qualcuno aveva sussurrato a Leonardo del suo
arrivo,
perché il fratello, che era sulla soglia della porta che
dava nella sala da
pranzo, si voltò di scatto e le corse incontro, tentando di
ostacolare il suo
cammino. Virginia lo scansò dando poco peso alle sue parole,
capendo solo che
le stava suggerendo di non guardare perché si sarebbe
spaventata, ma la
curiosità della ragazza era troppa e, poiché si
stava mischiando a un certo
cattivo presentimento, ignorò suo fratello, e si
fermò solo quando giunse
all’ingresso della sala.
Non fece in
tempo a
vedere gli sguardi attoniti dei suoi genitori, né il viso
straziato di Anna:
udì le sue urla, ma fu per poco.
Volgendo gli
occhi
verso l’alto, si sentì morire:
l’immagine che andò a riflettersi nelle sue
pupille le fece gelare il sangue nelle vene, e la ragazza non ebbe la
forza di
gridare, né di piangere: ogni energia
l’abbandonò, e cadde inerme tra le braccia
di Leonardo, che tentò invano di farle riprendere i sensi.
«Cosa
diavolo sta
succedendo?»
Leonardo, la
sorella
tra le braccia, si voltò verso Elio, che solo in quel
momento giungeva. «Che le
prende?»
«è
svenuta»
«E per
uno svenimento
fanno tutto questo baccano?»
Leonardo scosse
la
testa: «non è per lei»,
spiegò, e con un movimento del mento invitò il
fratello
ad affacciarsi nella sala.
Leonardo vide
l’espressione del fratello cambiare: alzando lo sguardo verso
l’alto, verso il
semplice lampadario della sala, proprio come era successo a Virginia,
Elio non
poté fare a meno di spalancare gli occhi e la bocca, che
però subito richiuse.
Anna lo vide e gli vomitò addosso tutti i peggiori
appellativi che conoscesse,
ma neanche si capiva ciò che diceva, tante erano le lacrime.
Elio, comunque, non la
sentiva. Continuava a fissare il corpo di Silvia che, ormai senza vita,
penzolava nel bel mezzo della stanza.
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Capitolo 9 *** Decisioni ***
Anna
se n’era andata. Non aveva provato neanche a dire la
verità, non aveva più
rivolto parola a nessuno: dopo il funerale, al quale Virginia non si
era recata
perché impedita dalla famiglia, la donna era andata a
salutarla. Le aveva detto
di averla amata tanto, quasi quanto una figlia; le aveva promesso di
pregare
per lei, perché potesse un giorno essere felice, e le aveva
confessato di non
avere più il cuore di restare in quel paese, né
di combattere: avrebbe voluto
solo andar via, lontano, per non avere più a che fare con i
Gaetani.
Che
Silvia fosse la sua sorellastra, ch’ella aveva amato un tempo
suo padre, Anna
non volle dirlo alla ragazza, per lo stesso motivo per cui non volle
dire alla
gente la verità sulla morte di Silvia: i Gaetani credevano
di poter governare
il mondo, e spesso ci riuscivano. Chiunque desse problemi, chiunque non
riuscisse a mantenere il proprio posto da subalterno nel loro
microcosmo,
veniva schiacciato. Annullato, distrutto.
Fu
detto che Silvia, data la gravidanza, era stata licenziata assieme alla
madre,
e probabilmente la ragazza non aveva retto a tanta vergogna. Se ne
parlò per
qualche giorno, ma poi la cosa fu dimenticata perché, come
si dice, chiodo
scacchia chiodo, e il nuovo argomento era decisamente più
interessante.
Che
la baronessina fosse amica della giovinetta era risaputo, almeno tra i
domestici, ma nessuno si aspettava che l’amichevole affetto
portasse a tanto.
Dopo
aver visto il corpo senza vita di Silvia, Virginia era svenuta: i
fratelli l’avevano
fatta stendere, i genitori erano accorsi, e avevano atteso tutti
insieme il suo
risveglio. La ragazza era apparsa sotto shock, non aveva aperto bocca,
si
guardava attorno con occhi sbarrati e, poiché non offendeva
Elio, sospettarono
anche che avesse perso la memoria. Quando parlò, fu per dire
che voleva recarsi
al funerale. Apparve calma e decisa, e la sua non era tanto una
richiesta quanto
un’esigenza. Se ne stette buona, anche troppo, e quando sua
madre la raggiunse,
spiegandole che essendo morta suicida la ragazza non avrebbe avuto un
vero
funerale, e che comunque lei era una signora, e l’altra una
serva, e insomma
non era stata predisposta nessuna carrozza per farla accompagnare, e
ogni
entrata era stata chiusa per impedirle di uscire, Virginia non si
scompose. Con
gli occhi vuoti – perché non c’era odio,
né risentimento, né rabbia: non c’era
niente – chiese solo alla madre se era sicura delle sue
parole perché – e lo
stava promettendo – se non l’avessero fatta andare
a quella cerimonia, davvero
lei avrebbe rovinato la vita a tutti.
Ed
ecco l’argomento di cui la servitù ora parlava: la
baronessina, che al funerale
non c’era potuta andare, sembrava un’indemoniata.
Non urlava, non strepitava,
ma era intrattabile e imprevedibile: innanzitutto, era difficile
convincerla a
vestirsi: solitamente bisognava costringerla con maniere molto forti
– cioè quasi
legarla – ed era comunque inutile perché, una
volta sola, Virginia finiva poi
col tornare a indossare la camicia da notte e la vestaglia; e se
vestirla era
difficile, pettinarla era impossibile. Ogniqualvolta qualcuno
riusciva per
caso a raccoglierle i capelli, lei li slegava, e così, in
abbigliamento
notturno, coi capelli ricci sempre sciolti, lo sguardo vuoto e le
labbra
assolutamente serrate, pallida come un lenzuolo, la baronessina faceva
paura.
Non
era possibile portarla fuori casa – neanche a messa!
– perché allora era
probabile che iniziasse a parlare ad alta voce, o a canticchiare, o a
sbadigliare, e lo stesso accadeva se qualcuno si recava a farle visita.
Dopo un
paio di volte che cose del genere erano accadute, i genitori avevano
deciso di
segregarla, ma a nulla era servito. A tavola, non riuscivano a farla
star
seduta composta. Se non aveva fame, e qualcuno voleva forzarla, la
ragazza gettava
dove capita piatti e bicchieri; e anche se la lasciavano in pace, era
probabile
che Virginia distruggesse qualche soprammobile, o qualche lampada, o
qualsiasi
altra cosa, senza apparente motivo.
Se
un medico andava a farle visita, la ragazza appariva assolutamente
normale,
perché sorrideva, parlava, e metteva dolcezza in ogni sua
azione; a livello di
salute, poi, non c’era alcun problema. Dunque il medico di
turno andava via
pensando che i baroni stessero uscendo fuori di testa e, una volta
allontanatosi il dottore, Virginia tornava alle proprie stranezze.
Il
primo Settembre, la baronessina sedeva, stranamente vestita,
sull’erba del
giardino. Da quando si fingeva pazza, le era accordata un po’
più di libertà,
ed erano tutti felici di saperla all’aria aperta, tranquilla,
a intrecciare
corone di fiori da mettersi tra i capelli o a scrutare il cielo: almeno
non
avrebbe rotto nulla, e comunque qualcuno era sempre nei dintorni per
sorvegliarla. Quel giorno c’era Elio, che aveva mandato via
la cameriera in
carica.
Elio
e Virginia non parlavano da mesi. Il ragazzo – che si era
preoccupato di
mentire a Francesco dicendogli che la sorella stava affrontando un
periodo
particolare, che aveva detto all’amico che Virginia stesse
probabilmente
soffrendo di “mal d’amore” e per questo
aveva suggerito di interrompere la
corrispondenza, perché leggendo le lettere avrebbe sofferto
ancor di più, la
poveretta – non aveva creduto mai che quella sciagurata fosse
impazzita.
Virginia si stava vendicando e aveva scelto la maniera più
intelligente di
farlo, perché simulando una malattia mentale nessuno avrebbe
potuto toccarla,
ma anche perché quella “malattia”
metteva in serio imbarazzo la famiglia.
Quando
Elio le si avvicinò, e sedette sull’erba accanto a
lei, Virginia iniziò a
canticchiare, come ormai era solita fare se non era disposta ad
ascoltare
chi le stava attorno. Elio guardò a destra e a sinistra e, appurato che
non ci fosse
nessuno, si schiarì la voce.
«Francesco
torna tra una settimana»
Virginia
tacque. Rimase in silenzio per un po’ poi, continuando a
intrecciare i fiori, «non
mi ha scritto più», ammise.
«Ha
scritto a me», specificò lui, «e so che
ti chiederà in sposa».
Virginia
guardò soddisfatta la corona che aveva creato, e se la mise
in capo.
«Quali
sono le tue intenzioni?», indagò il barone.
«Ti farai trovare seminuda, e
spettinata come una selvaggia? Inizierai a cantare quando
vorrà proporsi, e gli
sbatterai in faccia qualcosa?»
«No»,
rispose con tranquillità Virginia, «queste sono
cose che faccio solo con voi».
Rise,
Elio, rialzandosi. «Lo so bene!», urlò.
«Come so che sei solo una streghetta,
niente di più, niente di meno! Ma cara sorella mia, devi
sapere che io so essere peggio di te, e voglio ricordarti che alla morte dei nostri genitori tu
sarai
sotto la mia tutela. E allora io non esiterò tanto a
mandarti nel convento che
aspettava anche la tua amica»
Virginia
si voltò di scatto, rivolgendogli quell’occhiata
d’odio che lui ben conosceva.
«Se
fossi in te mi darei una sistemata, e cercherei di comportarmi bene in
presenza
di Francesco, perché ti assicuro che lui ti tratterebbe
meglio di me, dato che
per ora l’azione più dolce che mi ispiri
è di prenderti a schiaffi».
La
ragazza riprese a canticchiare, e a lui non rimase che andar via.
La
baronessa Gaetani quasi pianse dalla commozione nel rivedere sua figlia
così
bella, con neanche una ciocca di capelli fuori posto, con
l’abito più costoso
che possedeva, l’espressione soave e un sorriso amabile sul
volto.
Francesco,
incontrandola, era rimasto senza parole: baciatale la mano, aveva preso
a
raccontarle ogni dettaglio del suo soggiorno all’estero, si
era detto spiacente
per averla fatta attendere tanto, le aveva chiesto come avesse
trascorso quei
mesi e, nell’ascoltare quella voce melodiosa, ne era stato
tanto incantato da
decidere che la proposta andava fatta subito, al momento,
perché non avrebbe
potuto aspettare ancora.
«Mia
cara Virginia», iniziò, «certamente
avrete capito che le mie visite qui non
sono mai state casuali, e non crederete certo che io abbia scritto a
ogni
persona di mia conoscenza con la frequenza che avevo nello scrivere a
voi. Io…
ecco, se i vostri genitori e vostro fratello non hanno nulla in contrario,
vorrei
parlarvi… da solo»
Il
barone e la baronessa assicurarono che non ci fosse problema alcuno, e
fu Elio
a suggerire ai due di andarsene in giardino. Virginia poggiò
la mano sul
braccio di Francesco senza che il contatto le portasse la minima
emozione, e si
incamminarono.
«Ecco,
Virginia» riprese lui, mentre passeggiavano tra gli alberi
verdi, «io avevo in
mente già da tempo di prender moglie, ma non avevo trovato
nessuna… nessuna all’altezza.
Ma voi, così bella, di una bellezza così
sobria… sempre tanto composta, mai
inopportuna, silenziosa e pronta ad ascoltare… coi vostri
timidi sorrisi e il
vostro riserbo, mi avete ammaliato. Io non sono un uomo molto vivace,
lo avrete
notato; e cercavo una donna posata come me, dall’animo sereno
e pacato,
intelligente e saggia, non come la maggior parte delle ragazzette che
mi era
capitato d’incontrare, così sciocche, pigre e
capricciose».
Virginia
osservò il cielo, pensosa. Aveva riflettuto a lungo sul da
farsi, ma ora titubava:
dopotutto, la sua intera esistenza dipendeva da quel momento.
«Io
voglio sposarvi, Virginia. Vorreste diventare mia moglie?»
Lei
lo guardò. Rivolse un’ultima volta gli occhi verso
l’azzurro, e prese coraggio.
Le labbra finalmente si schiusero, e parlò.
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Capitolo 10 *** Virginia ***
Sono
lusingata dalla vostra proposta; durante questi mesi siete stato
gentile con
me, premuroso e sempre onesto, e io non meritavo tanto. Vi prego, non
dite che
sono umile; non è così. Voglio solo esser sincera.
Ebbene,
posso dirvi che l’idea del matrimonio non mi è mai
dispiaciuta. Da bambina,
leggendo le fiabe, sognavo d’incontrare un
principe… e voi lo siete, così
buono, intelligente e bello!
Il
problema… il problema è che un uomo come voi non
può desiderare una donna con
me. Il problema è che voi non mi conoscete.
Avete
detto di apprezzare in me il riserbo, la compostezza, la
sobrietà… e mi sono
sentita scossa dai brividi e dal rimorso, perché ho capito
che siete la vittima
di un inganno, dato che la donna che lodavate non esiste. O almeno, non
sono
io.
La
verità è che se io fossi una persona libera mi
straccerei questa roba da dosso,
e… voi non credete che tanti abiti siano inutili? A me
basterebbe indossare una
vestaglia, anzi, un velo! E non per coprire il mio corpo, ma per
vederlo
gonfiarsi e svolazzare, agitato dal vento! Se fossi stata
libera… voi avreste
visto i miei capelli sciolti, spettinati, ornati solo da fiori o
foglie! Se
dipendesse da me, non oserei mai imprigionarli in quelle acconciature
assurde e
blasfeme… blasfeme, sì! A voi non sembra un
oltraggio nascondere e mortificare
ciò che di bello ci è stato donato?
Se
fosse dipeso da me, avrei approfittato dei nostri incontri per
inondarvi di
domande, avrei voluto conoscere tutto di voi, della vostra vita, della
vostra
famiglia! E mi sarei confidata, forse, vi avrei parlato
dell’odio sconfinato
che nutro nei confronti della mia famiglia, e voi avreste saputo quanta
sofferenza può infliggere un’educazione rigida,
un’educazione che mira ad
annullare ogni sentimento, un’educazione che costringe una
bambina a reprimere
ogni desiderio, perché desiderare, e sognare, e ridere, e
correre, ogni cosa,
ogni cosa è un peccato secondo la gente “per
bene”!
Voi
siete stato ingannato… la Virginia che si è
mostrata a voi, la Virginia che
appare in pubblico è frutto di ricatti, perché i
miei cari genitori non sono
mai riusciti ad accettare l’indole “impudica e
selvaggia” che mi caratterizza
e, dopo innumerevoli quanto inutili tentativi per ammaestrarmi, hanno
ben
pensato di obbligarmi a comportarmi come loro volevano almeno dinnanzi
agli
estranei, perché altrimenti sarei stata disprezzata, e non
avrei mai trovato un
marito. Capite, secondo loro è impensabile che qualcuno
possa amarmi per ciò
che sono, e forse hanno ragione, ma non potrei mai saperlo con
sicurezza se non
provassi a far conoscere la vera me!
So
benissimo che ora ci stanno spiando dalle finestre della biblioteca, e
immagino
che siano turbati, perché vedono che io
sto
parlando! Se non ci fossero stati loro, lassù, a
controllarmi coi loro sguardi
da avvoltoi, vi avrei preso per mano e avrei corso con voi su questo
prato, per
farvi capire cosa sento nei miei rari momenti di libertà e
per scoprire se le
vostre emozioni e le mie sono simili!
Non
so cos’altro dire. Immagino che le vostre intenzioni ora
siano cambiate, e non
vi biasimo; ma se foste ancora interessato a sposarmi… devo
avvisarvi che non
ho intenzione di rendere la mia vita una commedia, non ho intenzione di
fingere
anche con mio marito.
E
i miei figli saranno liberi, e non permetterò mai a nessuno
di inculcar loro
idee bigotte, né di iniziarli a comportamenti ipocriti.
Se
ci sposeremo, vi sarò fedele: so che voi probabilmente non
farete lo stesso,
perché non ci amiamo, e immagino che per gli uomini sia
normale avere una o più
amanti, soprattutto quando non si desiderano molti figli.
In
tutta sincerità, riterrei giusto poter usufruire degli
stessi diritti, ma
sarebbe una forzatura: perché tradirvi con altri uomini, se
non amo loro più di
voi? Se esistesse un uomo capace di farmi tremare il cuore, di capirmi,
di
apprezzarmi… se esistesse una persona come me, ostile alle
rigidità di questo
mondo e amante del lato più spontaneo
dell’esistenza… se mi capitasse di posare
gli occhi su un altro essere vivente e capire in
quell’istante di aver trovato
un’anima affine alla mia, proprio come accade nelle
fiabe… allora non esiterei
a tradirvi. Dopotutto, voi e tutti gli altri ritenete che il matrimonio
sia
solo un’alleanza. La comunione delle anime non vi riguarda,
è una cosa troppo
fantasiosa e sciocca per voi.
Ma
non fate quella faccia, per carità! Non vi
tradirò, perché forse mia madre ha
ragione: non esiste un essere in grado di amarmi davvero. E non esiste,
aggiungo io, perché questo mondo è deviato.
Tornando
alla vostra domanda… sì, sono disposta a
sposarvi, se ancora lo desiderate. Tuttavia
bisogna ancora chiarire alcuni dettagli.
Durante
i ricevimenti - a patto che questi eventi abbiano luogo sporadicamente
-
apparirò perfetta, se potrà farvi felice: ma non
dovrete azzardarvi a limitare
la mia libertà altrove, né dovrete in alcun modo
tentare di cambiarmi.
I
miei figli saranno allevati, curati e istruiti da me sola: sono
abbastanza
colta e paziente per farlo.
Vi
darò il mio corpo quando lo vorrete, i miei soldi, e
l’onore che credete di
trovare nel matrimonio con una baronessa.
Ma
l’anima e il cuore… quelli, temo, nessuno
potrà mai possederli.
Angolo
dell’autrice (si chiama così?): Questo capitolo si
differenzia dagli altri,
perché ho preferito far parlare direttamente Virginia. Dal
prossimo, tutto
tornerà alla normalità!
Grazie
mille a chi segue questa storia e mi fa sapere le sue impressioni, la
vostra
collaborazione è davvero preziosa!
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Capitolo 11 *** 1913 ***
Dal
1910 al 1913, i Gaetani non si erano certo annoiati.
Spiando
dall’alto della biblioteca la conversazione tra Francesco e
Virginia, Elio era
stato preoccupato dal fatto che sua sorella avesse parlato tanto; non
era stato
possibile udire le sue parole, ma l’espressione sempre
più spiazzata di
Francesco gli aveva fatto intuire che non si trattasse di nulla di
buono. E
infatti…
Quando
Virginia aveva chiuso quella boccaccia, l’altro era rimasto
fermo, quasi
pietrificato. Aveva fissato l’erba verde, poi il cielo, poi
la finestra dietro
la quale si celava Elio. Infine aveva rivolto alla fanciulla
un’occhiata piena
di sdegno, e si era allontanato.
Dopo
una decina di minuti li aveva visti rientrare in biblioteca, Elio, uno
rosso di
rabbia e visibilmente offeso, l’altra tranquilla e placida
come mai prima di
allora, e quanto mai serena.
«Mi
dispiace, Elio. Mi dispiace davvero» aveva balbettato
Francesco, imbarazzato e
nervoso. Si era dissetato col liquore che il barone aveva preparato per
brindare al matrimonio, quel povero ragazzo, mentre tutti sbirciavano
Virginia.
Solo Elio aveva osato avvicinarsi e afferrarle con forza un braccio,
chiedendole a bassa voce, sibilando come un serpente, cosa diavolo
avesse
detto.
Francesco
si era rivolto a coloro che avrebbero dovuto divenire i suoi suoceri.
«Sono costretto a dirvi addio,
signori» aveva
affermato con voce tremante. «So che tutti voi speravate in
un nostro
matrimonio e lo facevo anch’io; ma, ora come ora,
un’unione tra me e vostra
figlia mi appare davvero tanto assurda da essere impensabile. Vi prego
di
scusarmi»
Elio
aveva tentato di trattenerlo, parlando di un’improbabile
depressione che
avrebbe colpito altrimenti Virginia che, dal canto suo, si era limitata
a
salutare con un gentile cenno del capo l’ormai non
più futuro marito; aveva
pianto la baronessa, lamentandosi della maledizione che il cielo le
stava
infliggendo, ricoprendola di vergogna; infine, aveva chiesto
spiegazioni, il
barone, dicendo che non era possibile abbandonare una fanciulla
così, senza
neanche spiegarsi chiaramente.
«Virginia
era vostra fidanzata», aveva obiettato il signore,
«e tutti sapevano delle
vostre visite qui. Cos’ha la fanciulla che non vi aggrada?
Non è forse bella, e
intelligente, e mansueta? Per quale motivo non volete più
sposarla? Non pensate
al disonore che le causerete, così facendo? Sapete come
vanno queste cose,
inizieranno a dire in giro che non l’avete voluta, e non solo
la sua
reputazione sarà rovinata, ma finiremo anche col non
riuscire più a maritarla…
che ne sarà allora di lei?»
«Potreste
portarla in un circo» tuonò lui, ormai accecato
dal rancore. «Forse lì la gente
troverà divertenti le sue parlate. Forse lì
rideranno nel vedere un essere con
l’aspetto di una fanciulla angelica e… e il cuore
di un animale incivile. Ma
tenetela lontana dagli uomini per bene, per carità:
rischierebbe di far perder
loro ogni fiducia nei confronti delle donne.»
Inutili
erano stati i tentativi di ostacolare la sua dipartita. Vane le moine
di Elio e
del barone, come le lacrime della baronessa.
«Smettetela
di umiliarvi in maniera tanto indecorosa» aveva proferito
tranquillamente
Virginia, rendendo così fulminea la scomparsa di Francesco,
«vi state rendendo
davvero ridicoli.»
Ci
aveva provato, Elio, a minacciarla: ma lei aveva sorriso, guardandolo
negli
occhi senza un briciolo di paura. «Puoi anche uccidermi,
Elio», gli aveva
sussurrato, «prova anche a tormentarmi come meglio ti riesce:
ciò che più
poteva ferirmi l’hai già fatto, e sono
sopravvissuta. Ora tocca a me, e vedrai
se sono o no alla tua altezza.»
Dopo
un annetto, nessuno poteva più riposare. I tentativi di fuga
della fanciulla,
inizialmente sporadici, erano ormai abituali: era divenuto necessario
far
dormire assieme a lei qualche cameriera, ma ancora non si poteva star
sicuri,
perché non appena quelle avessero chiuso gli occhi, Virginia
sarebbe
sgattaiolata via. E se la fanciulla si sforzava d’essere
silenziosa quanto un
felino, scoppiava poi in grida furiose e selvagge quando veniva
catturata:
ragion per cui nascondere le fughe era divenuto impossibile, e nella
piccola
cittadina, tutti sapevano che l’ultima Gaetani fosse pazza.
Le
vecchie signore che chiacchieravano al mercato dicevano che la
baronessina era
impazzita perché abbandonata dal fidanzato, ignorando quanto
fosse diversa (e
certamente più interessante e divertente) la
realtà. Alla fine la baronessa,
capendo che l’onore della figlia s’era
volatilizzato assieme a Francesco, pensò
di andare fino in fondo. Tanto, peggio di così non poteva
andare.
Dunque,
un prete, poi un altro, poi un altro ancora, insomma,
un’infinità di preti si era
succeduta come in processione alla dimora dei Gaetani per esorcizzare
la
fanciulla. Virginia si era mostrata ben disposta a dialogare con loro,
aveva
affermato di credere nei dogmi nella Chiesa, come credeva anche ad
altre cose,
la magia, per esempio; e quando l’ultimo dei sacerdoti che
aveva incontrato le
aveva fatto presente che tra la magia e la religione ci fosse una bella
differenza, Virginia aveva risposto di esserne cosciente,
poiché Dio era spesso
più crudele delle magiche creature di cui aveva letto.
Alla
fine, comunque, ogni prete si era rifiutato di esorcizzarla, dicendo
che la
ragazza non era certo indemoniata. Forse in un’altra epoca
sarebbe stata
condannata per stregoneria, ma ora era solo una pazza.
Il
28 Gennaio 1913 Virginia compì vent’anni, ma
nessuno le fece gli auguri, a
colazione (ora si recava regolarmente a consumare i pasti con gli
altri, nella
speranza di esasperarli).
I
coniugi Gaetani avevano rinunciato a combattere con lei: che facesse la
matta,
se le piaceva tanto; ma l’avrebbe fatto chiusa per sempre in
quella casa,
sarebbe stata sola, e probabilmente, con nessuno disposto a rivolgerle
la
parola, sarebbe impazzita davvero.
Elio,
Leonardo e Quirino, per motivi diversi, avevano scelto di essere
altrettanto
silenziosi; Elio perché l’aveva sempre odiata, e
non aveva più motivo di
comunicare con lei, dal momento che mai e poi mai gli avrebbe portato
qualcosa
di buono; Leonardo era stato molto deluso e amareggiato dallo strano
comportamento della sorella, che era riuscita a mettere in imbarazzo
l’intera
famiglia; Quirino, semplicemente, era troppo concentrato sui propri
dolori immaginari
per dedicarsi a lei.
Dunque,
al fatto che Virginia giocasse col cibo, costruendo mirabili opere
d’arte con i
molti scarti dei suoi pasti, nessuno badava più. Di tanto in
tanto Elio le
lanciava un’occhiata schifata, ma si limitava a
ciò.
Elio,
in quegli anni, aveva maturato un senso di insoddisfazione assai acuto;
di
Silvia non gli era importato molto, ed era stato impressionato
dall’immagine di
quel corpo penzolante più che dal gesto del suicidio in
sé. Si era detto, Elio,
che togliersi la vita per certe
sciocchezze era assolutamente assurdo, aveva trovato di
cattivo gusto la
scelta di ammazzarsi proprio in quella maniera e in quel luogo, ed era
stato
molto infastidito dalle noie “involontariamente”
causategli da Silvia: era
stato infatti necessario inventare scuse varie per giustificare la
rabbia di
Anna e nascondere la verità. Comunque, tutto ciò
apparteneva al passato, ed
Elio non ci pensava più. Il problema era Emma.
Da
quando l’aveva incontrata, Elio aveva iniziato a sperare
ardentemente che
quello splendido corpo iniziasse a funzionare come Dio comandava;
prima, Emma
era stata poco più di un nome; dopo, vedendola, Elio se
n’era davvero
invaghito, e il desiderio di averla lo stava consumando; persino
leggere le
lettere che la ragazza scrupolosamente gli inviava era divenuto un
tormento,
perché Elio era ormai prossimo ai trent’anni e, se
la situazione di Emma non
fosse cambiata presto, il matrimonio sarebbe stato annullato.
Quando
uno dei domestici giunse nella sala portando su un vassoio due lettere
–
abitudine che per qualche strana ragione divertiva Virginia –
Elio afferrò con
noia quella indirizzata a lui, sapendo già cosa vi avrebbe
trovato scritto:
parole colme d’amore e speranza, auguri di cose che forse mai
sarebbero
accadute, inviti a visite che probabilmente non sarebbero state fatte.
Ripiegò
il foglio e lo mise in tasca, e solo allora notò che anche
il barone aveva
ricevuto qualcosa.
Il
signor Gaetani abbozzò vari sorrisetti durante la lettura e,
quando ebbe
finito, prese la mano della moglie. «Finalmente una buona
notizia. Elio si
sposa»
Elio
sgranò gli occhi; e mentre Leonardo gli dava sonore pacche
sulle spalle e
Quirino borbottava, nervoso già al solo pensiero di dover
presenziare a un
matrimonio, il primogenito Gaetani chiese più volte cosa
volesse dire suo
padre.
«Mio
caro, non c’è più alcun
impedimento» sorrise la baronessa, sbirciando la
lettera. «Emma è ormai una donna, e nulla vi
impedisce di sposarvi. Io spero a
questo punto che entro la fine
dell’anno…»
«La
fine dell’anno?» urlò Elio,
già fuori di sé. «Io ed Emma ci
sposeremo entro
Luglio! Non sono intenzionato ad aspettare oltre!»
Aveva
riso Leonardo, canzonando il fratello per quella fretta, e la baronessa
aveva
quasi pianto dalla gioia. Elio aveva gridato ai camerieri –
causando un mal di
testa a Quirino - di servire dello spumante, non gli importava nulla se
era
mattina, dovevano brindare! E solo quando cinque calici furono riempiti
e la
domestica chiese se era il caso di far bere anche la signorina, Elio
ricordò di
avere una sorella, cosa che aveva piacevolmente dimenticato negli
ultimi dieci
minuti.
«E
tu, Virginia? Sei felice per me?»
Virginia
non era più abituata a mentire, e infatti non lo fece,
rivelando quanto la
gioia di lui la lasciasse indifferente e ammettendo che, in
realtà, l’unico
sentimento che le riuscisse di provare era compassione, e pena, per la
povera
Emma; tutti erano troppo felici per dar vita a un litigio, quindi la
ignorarono, e quando Elio, dopo che tutti avevano lasciato la stanza,
si fermò
a domandarle se avesse intenzione di fare la guastafeste, Virginia
assicurò che
si sarebbe comportata come una vera signora. Al cospetto di Emma
avrebbe agito
in maniera irreprensibile, mostrandosi un’amica, o anche una
sorella.
«Si
affezionerà tanto a me, Elio. Così
sarà pronta a prender sempre le mie parti,
anche contro di te»
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Capitolo 12 *** Valle ***
Angolino
dell’Autore:
Questa storia era stata concepita come prequel – che serviva
più che altro a
farmi capire meglio i personaggi – di un racconto dai toni
diversi, tendenti al
soprannaturale. Mi rendo conto che il capitolo seguente rompa un
po’ con ciò
che l’ha preceduto… ma è
perché si sta avvicinando al clima dell’altra
storia,
quella “vera e propria”.
Ringrazio
le persone che continuano a leggere e commentare il mio lavoro, siete
davvero
preziose!
Virginia
non aveva viaggiato molto, nella sua vita. Le era capitato di spostarsi
in
altre città per assistere a spettacoli d’opera, ma
non aveva avuto tempo per
osservare il
luogo; ragion per cui,
sebbene il tragitto dalla sua cittadina al paese di Emma non avesse
nulla di
bello o interessante da mostrare, lei lo apprezzò. Era un
paesello di montagna
– che però, per qualche strano motivo, si chiamava
Valle – e la strada che percorsero
per raggiungerlo non era delle migliori, ma era l’unica, e
quindi la signora
Gaetani dovette rassegnarsi.
Camminavano
su sassolini, la carrozza saltellava in continuazione, e Virginia lo
trovava
assai divertente. Il problema era il caldo, perché essendo
gli inizi di Giugno
le temperature erano alte, ma presto si trovò una soluzione:
man mano che si
avvicinavano a Valle, le temperature scendevano, fino a creare sulla
pelle
coperta della ragazza dei leggeri brividi.
Un
aspetto colpì maggiormente la baronessina, quando giunsero a
destinazione:
Valle sembrava un luogo fuori dal mondo, non solo per la lontananza
fisica
dagli altri paesi – che era notevole – ma
soprattutto per le sensazioni che
evocava: la natura, lì, era la padrona. L’uomo non
aveva potuto far nulla per
dominarla: certo, ce n’erano di case, ma sembravano gentili
concessioni del
bosco. Il verde padroneggiava incontrastato: per le strade
c’erano più alberi
che persone, quasi tutte le abitazioni erano avvolte da piante
rampicanti, e
l’umile centro abitato era circondato da piccole alture.
«Un
paesino sulla cima di una montagna… circondato da altre
montagne?»
Era
molto strano. Era come se la montagna vera e propria si fosse a un
certo punto
fermata, creando quella pianura che aveva permesso la crescita del
paesino, per
poi riprendere a crescere con rinnovata forza, creando tante sporgenze
che
circondavano minacciosamente Valle. Ecco, quello era davvero
inquietante: Valle
era circondata dalle montagne, e l’unica via di scampo era la
stradina malmessa
che i Gaetani avevano percorso.
«Io
credo che non siano abbastanza alte per essere considerate montagne,
anche se
le chiamano così», precisò Elio, felice
di vedere che la sorella parlasse:
almeno sarebbe sembrata normale, ad Emma e ai futuri suoceri.
«Quelli che stai
fissando tu» proseguì, ammirando
anch’egli le due alture completamente vestite
di boschi, unite tra loro da una piccola valle, «formano il
Monte Janara.»
«E
perché si chiama così?»
«Potrai
chiederlo alla nonna di Emma, è il suo argomento
preferito»
Angela
Cardaniese, nonna paterna di Emma Cardaniese, era una signora tanto
anziana
quanto simpatica. Sotto le pesanti stoffe dei suoi abiti e dietro il
ventaglio
che mai allontanava troppo dal viso, si celava una donna sveglia e
vivace e, se
in pubblico ostentava un certo contegno, appena si ritrovava sola con
la
famiglia tornava ad essere la vecchietta schietta e spesso imbarazzante
che
Emma conosceva e amava.
Emma,
da lei, non aveva ereditato molto oltre all’amore per la vita
e per ogni essere
vivente: Virginia si accorse, conoscendola, che quella ragazza non
aveva mai
conosciuto la sofferenza, e sperò che continuasse a vivere
nell’ignoranza,
speranza che pareva ben riposta dato che Elio ed Emma sembravano
davvero
innamorati.
Emma
fu gentile e dolce con la cognata, ma era talmente presa dal fidanzato
che non
riuscì a dedicarle più di un quarto
d’ora, durante il quale le assicurò che in
quel mese sarebbero diventate come sorelle, dopotutto era ancora il
primo
giugno e il matrimonio sarebbe stato celebrato solo il 24, quindi ne
avrebbero
avuto di tempo! E poi Virginia doveva assolutamente assistere ai
preparativi,
anzi, sarebbe certamente servito il suo aiuto, perché una
ragazza tanto carina
e fine e simpatica doveva anche avere molto gusto, Emma ne era certa.
La
signora Angela fu lieta di veder la nipote uscire dalla stanza.
Poiché
Lucrezia, la madre di Emma, era intenta a parlare con la baronessa
Gaetani, non
risultò strano – né sospetto
– che la vecchietta si rivolgesse a Virginia.
«Mi
stai simpatica», le disse a voce bassa,
nascondendo la bocca col ventaglio. Virginia si voltò,
sorpresa: lanciò uno
sguardo veloce alla madre e rispose, utilizzando la stessa
sincerità, che forse
diceva così perché non la conosceva. La vecchina
rise e, in un lamento,
espresse il suo desiderio di andar fuori all’aria aperta; la
signora Gaetani,
allora, esortò la figlia ad accompagnare la signora, e
Virginia obbedì. Per la
prima volta dopo molto tempo, tornò a esaudire una richiesta
della madre.
«Ti
ho capita subito, a te!» sghignazzava la vecchietta,
«solo delle cecate come
Lucrezia possono non accorgersene. Si vede già dai
capelli» disse, indicando la
chioma di Virginia che, per l’occasione, era stata raccolta
da un nastro bianco
«le signorine calme hanno i capelli lisci lisci»
«Ma
i vostri sono ricci!»
«Appunto!
Io tale e quale a te ero»
La
signora Angela era stata sempre la croce della sua famiglia, e nessuno
pensava
che si sarebbe sposata. «E chi mi si poteva mai pigliare? Ero
una matta, e non
lo nascondevo, io, in questo siamo diverse. Per fortuna ho trovato uno
più
matto di me, e ci siamo messi assieme».
Come
il suo marito pazzo fosse riuscito a guadagnare soldi e una posizione,
Angela
non era mai riuscita a spiegarselo: fatto sta che c’era
riuscito, e quindi
Mario, il loro bambino, era cresciuto nella bambagia: per questo era
venuto su
“così rammollito” e s’era
preso “a quella bambola cretina di Lucrezia”.
«Quei
due pensavano solo ai soldi, e già erano insopportabili. Poi
hanno cominciato
pure a pensare al titolo nobiliare, e sono diventati anche peggio.
«A
me tuo fratello piace, non dico di no, ma non è che puoi
combinare un
matrimonio solo perché quello è un barone. A Emma
lui piace e quindi va tutto
bene, ma se non si piacevano? Già è difficile
stare tutta la vita con uno che
ami, figuriamoci con uno che schifi…»
Fu
presto chiaro a tutti che Virginia ed Angela fossero diventate amiche e
complici: non si lasciavano un minuto, chiacchieravano di continuo e
avevano
anche stanze comunicanti. «Se qualcuno deve trovarmi morta
stecchita preferisco
che sia lei, almeno sono certa che non mi ruberà i
gioielli», aveva detto la
signora.
Quell’amicizia
faceva piacere a tutti, perché tutti trovavano
l’anziana un peso, ed erano
felici che Virginia la intrattenesse in qualche modo; l’unica
ad amare davvero
la donna era Emma, ma Emma ormai si era persa negli occhi scuri di
Elio, e non
riusciva a dedicarsi ad altri che a lui.
Virginia,
dal canto suo, aveva deciso di vuotare il sacco, e di raccontare alla
signora
Angela la sua vita, operando però una censura su
ciò che riguardava Elio e
quindi Silvia: aveva semplicemente detto di aver perso una cara amica a
causa
della famiglia, confessando di nutrire un odio alquanto profondo verso
genitori
e fratelli, e ammettendo di aver tentato varie volte la fuga.
«Oh,
a Valle è una cosa che proprio non puoi
fare. Dove te ne scappi?»
«Potrei
scappare nei boschi», rise la ragazza. «Ce ne sono
tanti!»
La
signora Angela, per la prima volta, si fece seria, e apparve
più vecchia. «Non
scherzare su queste cose, Virginia. Voi giovani siete miscredenti, ma
guarda
che la situazione è seria.
Non
ti hanno raccontato la storia del bosco? E se anche non
l’hanno fatto… non ti
sei accorta che, dal lato dove affacciano le nostre finestre, non
c’è anima
viva dopo il tramonto?»
A
Virginia nessuno aveva raccontato niente, ma in quel momento le venne
in mente
ciò che in quei giorni aveva dimenticato: il Monte Janara.
Quando chiese alla
signora se esistessero legami tra quel monte e i pericoli del bosco, la
vecchia
sorrise, con quel sorriso amaro e un po’ saccente che spesso
esibiscono gli
anziani, quando sanno che i giovani pendono dalle loro labbra.
«Sul
Monte Janara sono sempre accadute cose strane, altrimenti non si
sarebbe
chiamato così, ti pare? Ma le streghe non
c’entrano, quelle non hanno mai fatto
male a nessuno; saranno anche dispettose, ma non ammazzano. Ecco,
Virginia, io
non ho vissuto sempre qui, te l’ho detto: sono venuta solo
quando è venuto qui
mio figlio per sposarsi quella Lucrezia… e Lucrezia non
è che ha voluto
spiegare bene le cose, comunque qualcosa l’ho saputo.
«Dunque,
su quella montagna ci vivevano dei nobili, e quando Lucrezia era una
ragazza
c’erano un conte e suo figlio. Il ragazzo – non me
lo ricordo il nome, non era
italiano, perché la mamma non era italiana – era
una cattiva persona, così
diceva Lucrezia, almeno, e così dicevano tutti quanti. Con
tutto che era una
cattiva persona, comunque, non aveva mai ammazzato nessuno: e invece
lui fu
ammazzato, e proprio sul Monte Janara, mentre tornava a casa il 28
Gennaio
1893. Chi l’ha ammazzato, non si seppe mai; comunque il conte
decise di
lasciare Valle, e la loro abitazione rimase vuota.
«Lucrezia
dice che era un castello tanto grande che a Valle, in paese, lo
vedevano, nonostante
i boschi che coprono il monte… e adesso invece?
L’hai visto tu? No, non c’è.
Non è che non si vede: non c’è proprio
più. Anche se sali sul Monte Janara, non
lo trovi. Comunque a questo puoi anche non credere, alla fine
l’ha detto
Lucrezia, quindi io stessa non ci metterei la mano sul fuoco. Quello
che posso
assicurarti, è altro… ma mi stai ascoltando o
no?»
Virginia
non fiatava e si era per un attimo smarrita tra i suoi stessi pensieri.
Il 28
Gennaio 1893. Quel ragazzo era stato assassinato il 28 Gennaio 1893.
Quando lei
era venuta al mondo.
«Vi
supplico, proseguite» la implorò, tornando in
sé. «Cos’è che potete
assicurarmi?»
La
vecchia tornò a sorridere, e si schiarì la voce.
«
Se
vai di notte a Monte Janara
senti
la voce di un grande spettro
che
grida, saltando da una rupe all’altra,
invocando
vendetta »
«Non
capisco» sussurrò Virginia, stranamente eccitata.
«Che vuol dire?»
La
signora Angela la osservò, tutta soddisfatta. «Ora
ti spiego»
|
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Capitolo 13 *** Monte Janara ***
Virginia
non badava molto al trambusto che aveva attorno, né ad Emma
che continuava a
chiederle un parere sull’abito da sposa; se ne stava persa
nel suo mondo,
imbambolata, preoccupandosi solo di annuire di tanto in tanto, giusto
per non
insospettire più del solito.
Il
giovane conte, il conte della montagna. Non riusciva a pensare ad
altro, o ad
altri.
«Sono
passati sette anni, e posso dirti
pure che giorno era, perché la sera prima avevamo
festeggiato il compleanno di
Emma. Il 24 Giugno, di mattina, uno del villaggio… pace
all’anima sua, ma era
proprio un ubriacone… disse di aver incontrato un ragazzo,
la notte prima. Nel
bosco.
«Il
ragazzo, secondo quest’uomo, gli
aveva parlato dicendo che il bosco di Monte Janara, oltre il quale
sorgeva un
tempo il castello dei conti, era di sua proprietà. Se anche
una sola
persona fosse
tornata a metter piede in
quelle terre, avrebbe pagato il dazio con la vita.»
Il
24 Giugno del 1906. Allora
Virginia aveva solo 13 anni. Anche la giovane Gaetani ricordava bene
quella
data, come ricordava lo sgomento che l’aveva colta quella
calda mattina, quando
si era accorta di aver perso tanto sangue. Lei, che neanche sapeva cosa
fossero
le mestruazioni.
«Si
sa che gli uomini non credono a
ciò che non vedono, e vollero vedere. Nel giro di
un’ora si riunì un gruppetto
che andò a perlustrare la zona… e niente, non
trovarono niente e nessuno.
Allora il vecchio Peppe, così si chiamava,
protestò con forza, difendendo la
propria verità e continuando a sostenere che il ragazzo lui
l’aveva vista
davvero. Suggerì di tornare nel bosco la notte,
perché il ragazzo era
certamente una creatura di un altro mondo e le creature
dell’altro mondo
compaiono di notte. Oh, non lo avesse mai detto…
«Tornarono
a salire su Monte
Janara, quella notte... da allora, nessuno li ha più
visti.»
Una
frase passò nella mente di
Virginia, attraversandola come un lampo: li aveva avvertiti. Non era
colpa sua,
non si poteva parlar male di lui: in fondo, li aveva avvertiti. Ma come
pronunciare
una frase che le causava tanta vergogna al solo pensiero? Stava
difendendo un
assassino, un assassino che non conosceva neanche. Perché si
sentiva solidale
verso quel fantomatico ragazzo? Era solo perché si trattava
di una creatura “fantastica”,
in un certo senso?
«E
non finisce qui, perché la
stupidità umana non ha fine. Altri uomini salirono sul
monte, alla ricerca di
quelli che erano scomparsi. Niente, non tornarono più.
Infine… Dio, la
curiosità a volte spinge l’uomo a cose
mostruose… quando ormai avevamo perso
una trentina di uomini – in tre giorni, Virginia! Trenta
uomini in tre notti! –
pensarono… non so chi lo fece… pensarono di
provare una cosa nuova. Gli uomini
che avevamo perso erano entrati nel bosco decisi a trovare il ragazzo,
ma… se qualcuno
vi si fosse trovato solo per caso? Insomma, forse il ragazzo voleva
semplicemente che non lo si andasse a cercare… e avrebbe
perdonato chi, invece,
fosse capitato da quelle parti… per sbaglio.
«Per
farla breve, mandarono un
bambino. Nessuno si oppose perché era un orfanello, e non
aveva nessuno. Se ci
penso, quella povera creatura… dev’essersi
spaventata a morte…»
Virginia
trattenne il fiato: amava
i bambini e non avrebbe mai potuto giustificare una violenza rivolta a
qualche
piccino. «Si prese anche lui?»
La
signora sorrise amaramente.
«No,
non lo fece. Il bambino tornò…
poco prima dell’alba. Disse di avere incontrato un ragazzo
che gli aveva
parlato, chiedendogli se si fosse perso; lui, mentendo
perché spaventato, aveva
detto di sì. Allora il ragazzo lo aveva affidato a un lupo
per farlo scortare…
e l’animale l’aveva accompagnato fuori dal
bosco»
Parlava
agli animali. Il ragazzo
parlava ai lupi e aveva un cuore: non aveva toccato il bambino.
«Al
villaggio non ci arrivarono al
fatto che il ragazzo avesse risparmiato la creatura perché
in tenera età;
pensarono che l’avesse fatto perché il bambino
aveva detto di essersi perso…
che idioti. Ah, Virginia, ti assicuro che l’altra gente che
si è trovata da
quelle parti, incredula o temeraria che fosse, non è
più tornata indietro. E
negli ultimi anni qualche ragazzotto pure l’abbiamo
perso… questi ventenni –
come te! – che non credono a nulla e vanno alla ricerca di
prove di coraggio da
affrontare, per fare vedere agli altri quanto sono bravi…
santo cielo, una prova
di coraggio che vale la vita…»
Avrebbe
pagato oro, Virginia,
perché la signora Angela ricordasse il nome di quel giovane
conte. Non poteva
che essere lui lo “spirito della montagna”, come
aveva preso a chiamarlo la
ragazza.
«Io
non ti ho raccontato questa
storia per farti fantasticare, ragazzina» aveva protestato la
signora
Cardaniese, «ma per farti capire che i pericoli esistono,
qui, e se ci tieni
alla pelle devi startene a casa, la notte.»
Ma
la notte non era il giorno.
Elio
sbuffava, e stentava a celare il proprio malcontento; l’unica
cosa positiva di
quella “escursione” era Emma che, titubante, si
aggrappava al braccio del
fidanzato in cerca di sostegno. Virginia li precedeva, seguendo il
pastore che
avevano pagato per far loro da guida, incantata dalle fronde che
creavano un
fresco riparo dal caldo Sole di Giugno.
«Ma
non siamo già passati da questa parte?»
Elio
fece una smorfia e guardò la sorella, felice di poter in
qualche modo sfogare
la propria rabbia. «Come potremmo esser già
passati di qui, se stiamo salendo?»
Il
pastore abbassò la testa, mentre Emma approfittava della
sosta per liberare le
scarpine dalle pietre che erano penetrate all’interno e
Virginia continuava a
sostenere, imperterrita, di esser sicura di ciò che diceva.
«Non è poi tanto
alto, questo monte; avremmo dovuto già raggiungere la cima,
visto da quanto
tempo siamo in marcia»
Il
pastore tossicchiò e, teso, volse un’occhiata
fugace ad Emma. «Cara Virginia,
non credo sia possibile arrivare in cima… non avevo capito
che fosse quella la
tua intenzione» disse lei. «Vedi,
io
credo che da Valle non ci si renda conto di quanto il monte sia
effettivamente
alto… sembra piccino, ma non lo è. Lo dimostra
proprio il fatto che nessuno
riesca mai a raggiungerne la cima»
«Confermo»
intervenne il pastore, poco rassicurante. «Io dico che
possiamo pure tornare
giù… ormai quello che c’era da vedere
lo abbiamo visto»
Tacquero,
divenendo silenzioso pubblico di un concerto di grilli. Il pastore
taceva
perché non voleva spiegare: i Gaetani erano stranieri e in
paese avevano deciso
di non spaventare gli stranieri con quella strana storia; Emma aveva
accettato
di prender parte alla passeggiata per compiacere la cognata, ma la
situazione
stava diventando difficile e, peggio ancora, Elio era palesemente
annoiato;
Elio, dal canto suo, non aveva mai amato la natura e malediceva
silenziosamente
grilli, rami, foglie e, soprattutto, sua sorella. Virginia si vide
costretta a
cedere e acconsentì a tornare a Valle, piuttosto
soddisfatta: in effetti,
qualcosa l’aveva scoperto.
Il
bosco li aveva ingannati. Il bosco era vivo, ma non come lo erano gli
altri
boschi in cui la vita palpitava attraverso piante e animaletti; quel
bosco
aveva anche una mente. Il castello dei conti, pensava la ragazza,
esisteva
ancora, ma il bosco impediva a chiunque di vederlo o raggiungerlo: in
tre ore,
il gruppetto aveva percorso più e più volte gli
stessi sentieri… perché il
bosco ce li aveva riportati, impedendo loro di andare avanti, bloccando
il loro
passaggio. Non aveva percepito ostilità da parte di quel
luogo, Virginia, ma
riserbo: la natura, lì, non voleva l’uomo.
Ma
io non appartengo agli uomini,
caro bosco. Io appartengo a te.
«Sarebbe
bello essere un albero» disse ad alta voce, sperando di
essere udita dagli
spiriti di quel luogo, più che dai suoi compagni. Purtroppo,
però, a sentirla
furono questi ultimi ed Elio, rosso di rabbia e vergogna, dovette
fingere di
trovare divertente quella battuta della sorella.
Non
sarebbe stato difficile muoversi, neanche di notte, a patto che la Luna
avesse
illuminato il sentiero.
La
Luna sarebbe stata piena il 18 Giugno. Elio ed Emma si sarebbero
sposati il 22
e questo voleva dire che la notte tra il sabato e la domenica nessuno
avrebbe
badato a lei. La Luna, allora, sarebbe stata ancora abbastanza tonda.
Nessuno
l’avrebbe trovata, nel bosco, semplicemente perché
nessuno si sarebbe mai
sognato di seguirla o cercarla sul monte Janara.
Sarebbe
stata libera. Questa volta, sarebbe riuscita a fuggire.
|
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Capitolo 14 *** Via ***
Non
c’era il trambusto che Virginia aveva previsto: i Cardaniese
ed i Gaetani
avevano preparato ormai ogni cosa e, la sera precedente il matrimonio,
tutti
avevano ritenuto giusto e saggio andare a riposare di
buon’ora. Era già stato
stabilito che Elio avrebbe raggiunto la chiesetta del paese nella prima
mattinata, per confessarsi e permettere alla sposa di prepararsi in
santa pace.
L’abito (che ovviamente Elio non aveva visto!) era semplice e
grazioso come
Emma, di cui accentuava la bellezza, ma anche le parenti degli sposi
avrebbero
fatto bella figura! La signora Gaetani osservò soddisfatta
il vestito di
Virginia: era di un color rosa tenue decorato con strani disegni che
s’intrecciavano
tra loro e la ragazza, quando l’aveva indossato per la prova,
era apparsa una
damina assolutamente delicata e fine, coi bei capelli raccolti sulla
nuca.
«Sarai
davvero stupenda, mia cara!»
Virginia,
intenta a scrutar fuori dalla finestra, si voltò: quella era
forse la frase più
gentile che sua madre le avesse mai rivolto, sebbene la baronessina non
fosse
d’accordo con lei; al contrario, trovava l’abito
ridicolo e pomposo. Parlò
ancora, la signora Gaetani, ma la ragazza non ascoltava. Osservava la
madre con
curiosità, tentando invano di scorgere nei tratti di lei
qualcosa di se stessa;
per un attimo si disse che avrebbe dovuto imprimere bene nella mente
quel viso
che non avrebbe più rivisto, ma presto cambiò
idea: tanto meglio se fosse
riuscita a dimenticare tutto e tutti. Abbozzò un sorriso
gentile quando la
donna uscì dalla stanza raccomandandole di mettersi subito a
letto e pensò a
Giulietta Capuleti: ecco come doveva essersi sentita la sua eroina
preferita
quando, la notte della sua finta morte, aveva fatto credere a tutti di
essere
buona e sottomessa…
Seduta
sul letto, tentò di pazientare: era in camicia da notte e
questo andava bene,
non le sarebbero serviti abiti eleganti e scomodi sul monte Janara; i
piedi
erano scalzi, per far meno rumore durante la fuga; i capelli ricci,
liberi, le
ricadevano a ciocche dinanzi agli occhi come lunghe, morbide molle,
facendola
sorridere. Sarebbe stato bello tenerli sempre così, sciolti.
Nelle giornate di vento
li avrebbe esposti ai soffi d’aria e sarebbe stata la pioggia
a lavarli. La
nuova vita era vicina, bastava solo aspettare che tutti andassero a
letto.
Aveva
fatto in modo di scambiare una parola con ogni membro della sua
famiglia,
quella sera, giusto per evitare eventuali rimorsi; non
c’erano state parole
dolci o affettuose, ma aveva augurato la buonanotte al padre prima di
ritirarsi
nella sua stanza, chiesto a Quirino se si sentisse bene durante la cena
e
sorriso gentilmente a Leonardo quando, al momento di lasciare la sala
da
pranzo, lui l’aveva fatta passare avanti rivolgendole un
galante inchino. Con
Elio non aveva parlato, ma a lui teneva poco; in compenso era stata con
la
nonna Cardaniese a scherzare su quanto il matrimonio sarebbe stato
noioso, con
tutti quei parenti antipatici e il prete che, come diceva la nonna,
parlava
come se non ci fosse un domani. L’aveva abbracciata con
energia prima di
salutarla, con le lacrime agli occhi.
«Che
hai da piangere, ragazzina? Sopravvivremo a domani, su!»
«Oh,
no. Piango di gioia, perché incontrarvi è stata
una fortuna»
Le
campane della chiesa rintoccarono la mezzanotte e Virginia
capì che era ora di
andare: dopotutto, già da un pezzo non si sentivano
più rumori. Non trovò
difficile muoversi al buio in quella casa, perché
già molte volte aveva
percorso quei corridoi; il fatto di non indossare calzature
l’aiutava ad esser
silenziosa come una gatta e giunse presto alla finestra del primo piano
che
aveva notato durante il suo primo giorno in quella casa. I possenti
rami di
un’antica quercia erano vicinissimi a quella finestra e per
lei, che più di una
volta aveva tentato la fuga da casa sua ricorrendo a mezzi simili, era
cosa da
nulla aggrapparsi a uno di quei rami per poi scendere
dall’albero.
Aprì
le imposte lentamente e la bianca luce della Luna ancora tondeggiante
le
illuminò il viso. Esitò qualche istante, ma
subito le tornarono alla mente le
parole udite quel giorno: Elio aveva detto ad Emma – lei
aveva origliato mentre
i due erano in salotto – che, alla morte dei genitori,
Virginia sarebbe stata
spedita in convento, dove avrebbe vissuto tranquilla e serena.
Al
diavolo Elio e al diavolo i conventi.
Elio
non era una persona ansiosa e non aveva motivi di preoccuparsi,
poiché ogni
aspetto della cerimonia era stato preparato con largo anticipo; se non
riusciva
a prender sonno, era semplicemente perché si sentiva troppo
felice per dormire.
Finalmente Emma sarebbe stata sua… e visto come avrebbe
trascorso la notte
successiva, pensò eccitato, forse sarebbe stato meglio
riposare! Questo
pensiero gli passò per la testa proprio mentre,
insoddisfatto del panorama offertogli
dalla finestra di camera sua, stava accingendosi a chiudere le imposte.
Capita
spesso di guardarsi attorno con poca attenzione e notare solo in un
secondo
momento, quando lo sguardo è ormai altrove, di aver
intravisto qualcosa di
interessante. Elio, che era al buio, aveva dapprima ignorato la bianca
figura
vicina al cancello; ma quando il cervello elaborò meglio
l’immagine ed egli
tornò a guardarla, il ragazzo si sentì invadere
dall’ira. Sua sorella era
appena uscita dal cancello.
La
signora Gaetani, Emma e anche sua madre piangevano come delle pazze,
pensando
al matrimonio rovinato. Se non avessero ritrovato Virginia, come
avrebbero
potuto sposarsi, Emma ed Elio? Come avrebbero giustificato
l’assenza della
ragazza, con una bugia? Ma qualora Virginia non avesse mai fatto
ritorno, cosa
sarebbe accaduto? Certo tutta la gente li avrebbe criticati per aver
celebrato
il rito nonostante la sparizione della ragazza, senza contare che le
persone
coinvolte, quelle estranee alla famiglia, avrebbero parlato.
Elio
percorreva la stanza a grandi passi, troppo nervoso per poter badare
alle
donne. Non c’era andato a cercare la sorella, lui. In
realtà era stato
complicato trovare qualcuno disposto a farlo. Quando aveva fatto
irruzione nei
corridoi gridando come un forsennato, domestici e parenti erano sbucati
fuori
dalle proprie camere: alcuni zii si erano infatti recati a Valle con
qualche
giorno di anticipo. Inizialmente, il signor Gaetani sarebbe partito
alla
ricerca della figlia anche in pigiama, seguito da tutti gli uomini
della
famiglia con la sola eccezione di Quirino e dai membri della
servitù che si
erano portati dietro: dopotutto, erano abituati a cose del genere; le
avevano
affrontate in passato uscendone vittoriosi.
A
far tentennare il coraggio del branco fu Angela Cardaniese, che aveva
ascoltato
in silenzio, lasciando che le lacrime le bagnassero il viso.
Contrariamente
alle altre donne, però, lei piangeva la perdita di Virginia,
non il fatto di
dover rimandare il matrimonio. «Non pensateci neanche.
Virginia… sono sicura
che sia andata sul monte Janara. L’abbiamo persa, lasciate
stare: nessuno torna
vivo da lì. Non fate gli sciocchi. Almeno voi,
salvatevi»
Sebbene
spaventati, gli uomini avevano per un attimo mantenuto la propria
posizione, ma
Emma aveva pianto tanto, arrivando persino ad inginocchiarsi ai piedi
di Elio
per non farlo andare, che quelli dovettero desistere. A salire sul
monte Janara
furono i domestici dei Gaetani, ignari del pericolo e quindi impavidi.
***
Sarebbe
stato tutto più semplice, se avesse avuto delle calzature ai
piedi. Erano
avvantaggiati gli uomini che la inseguivano, con quelle scarpe, quelle
lanterne
e… quei pantaloni. La camicia da notte era meno comoda di
quanto avesse
previsto.
Sarebbe
stato tutto più semplice soprattutto se si fossero trovati
in un posto normale;
ma come fare a fuggire, se era il bosco a decidere dove portarti? Le
sembrava
di procedere, eppure non riusciva mai a seminare i suoi inseguitori,
nonostante
il vantaggio di quasi un’ora che aveva avuto nella fuga. Gli
uomini gridavano
il suo nome e lei si imponeva di non urlare, neanche quando i piedi si
ferivano
a causa delle pietre, neanche quando riusciva a intravedere la luce
delle
lanterne, simbolo di pericolo… iniziò a credere
che forse i suoi piani di comunione
totale col regno animale non erano stati realistici, semplicemente
perché quel
bosco pareva deserto. Al villaggio, quella notte, udirono i lupi
ululare: ma
chi era nel bosco non riusciva a sentirli. Peccato, perché
il loro canto
avrebbe rincuorato la ragazza.
Non
c’erano animali, non c’erano lupi, forse non
c’era neanche il ragazzo della
montagna. C’erano solo lei ed i suoi inseguitori, che
l’avrebbero presa, ne era
sempre più convinta. Ma lei non voleva, non voleva tornare a
casa…
Era
talmente preoccupata, la poveretta, talmente concentrata sulla sua
fuga, da non
rendersi conto dell’improvviso silenzio e del buio totale;
quando poi si
accorse che nessuno la chiamava più e che le luci delle
lanterne non si
vedevano, il suo spavento crebbe: era di certo una trappola. Stavano
fingendo
di aver lasciato perdere proprio per riuscire a prenderla di sorpresa.
Ah, ma
lei non avrebbe abboccato! Non si sarebbe fermata, avrebbe continuato a
correre
anche tutta la notte…
Cadde.
Stanchezza, tristezza e panico la tennero schiacciata
sull’erba, concedendole
di rialzarsi solo dopo qualche minuto, quando il bisogno di fuggire
vinse
nuovamente il sonno.
Risollevando
il capo, si ritrovò faccia a faccia con un lupo.
L’animale la guardò negli
occhi, o più probabilmente guardò oltre gli occhi
ed iniziò a ululare. Virginia
abbassò le palpebre e rimase in ascolto, momentaneamente
tranquillizzata. Le
parve di innalzarsi verso la Luna assieme a quel canto e solo quando
questo
finì tornò nel mondo reale. Allora
capì che il lupo aveva chiamato i suoi
compagni, che la circondavano.
All’interno
del cerchio, solo lei e un ragazzo – o un uomo, non riusciva
a vederne bene i lineamenti
al buio – che se ne stava in piedi a osservarla, elegante,
immobile come una statua.
Vestiva di nero e Virginia pensò che, illuminati dalla Luna,
sarebbero sembrati
un lupo nero e un coniglio bianco.
«Questo
posto non è per gli uomini» proferì
improvvisamente lui, facendola sobbalzare: quella
voce era tanto bassa e grave da turbare chi la udisse e fu strano
quando, con
la sua vocetta da uccellino, la ragazza rispose con un deciso
“lo so”.
Il
ragazzo inarcò un sopracciglio vedendola rialzarsi e
guardarsi intorno,
agitata. Erano quasi uguali in altezza, lui la superava di pochi
centimetri.
«So
che non è un posto per uomini, ma… se solo
potessimo discuterne in un secondo
momento…» Tremò, udendo uno scoiattolo
muoversi su qualche ramo. «Mi stanno
cercando!» sbottò esasperata, quasi piangendo.
«Il bosco è colmo di uomini che
mi inseguono… se solo riuscissi a nascondermi per qualche
ora, dopo giuro che…»
«Ti
sbagli» la interruppe lui, tranquillo. «Oltre agli
animali, in questo bosco ci
siamo solo tu ed io.»
«Mi
inseguono, ti dico! Non è la prima volta che lo fanno e ti
assicuro che non si
arrenderanno tanto facilmente!»
«Gli
uomini che ti inseguivano non sono più nel bosco»
ripeté. «Né in nessun altro
luogo» aggiunse, lanciando un’occhiata
d’intesa ai lupi.
|
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Capitolo 15 *** Sette anni dopo ***
Non
era semplice giungere a Valle, come non è mai stato facile
raggiungere località
montane; il lungo viaggio da affrontare, la scarsa stabilità
della strada piena
di curve e il clima gelido della zona aumentavano
l’isolamento del paesello
che, durante l’Inverno, manteneva col resto del mondo solo i
contatti
indispensabili per procurarsi il cibo. In Estate, però, gli
abitanti di Valle
vedevano passeggiare nella piazzetta gente “nuova”,
educata e ben vestita,
recatasi in quell’oasi perché attratta
dall’aria fresca e pulita. In effetti,
Valle sarebbe stata davvero un posto tranquillo e piacevole, se non
fosse stato
per quei boschi… per fortuna, tutti tacevano a riguardo.
Sì, i turisti si
sentivano ripetere fino allo sfinimento di evitare monte Janara a causa
delle
bestie feroci che lo popolavano, ma tutto finiva qui.
Finiva
qui perché il consiglio era sempre accolto.
L’ultimo
“incidente” aveva avuto luogo nel 1913. Oh, certo,
nessuno avrebbe mai
dimenticato la notte in cui Virginia Gaetani era scomparsa assieme ai
dodici
servitori della famiglia che, ingenui, erano andati a cercarla; tredici
morti,
nessun corpo ritrovato, il matrimonio rimandato, i Gaetani che avevano
minacciato di far finire la notizia su tutti i giornali. Ma quale
giornale
avrebbe mai pubblicato una notizia del genere, in un periodo come
quello? Alla
fine il caso era stato archiviato (per alcuni risolto: lo
“spirito del bosco”
se li era presi tutti, non c’era altro da dire o spiegare) ed
Emma Cardaniese
aveva sposato Elio nel 1914, dopo l’anno di lutto dovuto alla
memoria di
Virginia.
Leonardo
Gaetani era stato l’unico membro della famiglia a provare una
reale tristezza
per l’inspiegabile scomparsa della sorella; Quirino non aveva
trovato rilevante
l’accaduto ed Elio, come i genitori, era troppo furioso e
imbarazzato per poter
pensare al dispiacere; anzi, era giunto alla conclusione che senza
quella peste
si stesse meglio e si convinse che la sua morte fosse stata una
salvezza per
tutti.
***
Nel
1920, Angela Virginia Gaetani aveva cinque anni ed era identica a suo
padre:
solo il carattere pacato e l’innata delicatezza rivelavano
che fosse figlia
anche di Emma. A Emma, comunque, andava il merito di aver educato la
bambina,
una dama in miniatura buona, gentile e al contempo assolutamente
orgogliosa del
proprio casato. La piccola non aveva mai conosciuto le donne di cui
portava i
nomi, perché entrambe erano morte, ma la mamma le aveva
raccontato di come la
bisnonna Angela fosse stata forte e di quanto la zia Virginia fosse
bella.
Ritratti delle due non ne aveva visti, ma la bimba era troppo piccola
per
essere incuriosita da cose del genere; preferiva interessarsi a
fiorellini,
animali e cappellini. I morti erano morti e non facevano parte del suo
mondo,
pensava: dunque, la sua vita girava attorno ai nonni,
all’adorato cagnolino,
alla mamma e, soprattutto, al papà. Emma, innamorata, non
aveva mai pensato che
il marito fosse una brutta persona; dalla nascita di Angela, poi, era
arrivata
a convincersi d’aver sposato l’uomo migliore al
mondo. Chi aveva conosciuto davvero Elio
Gaetani, sapeva che non era
mai stato uno stinco di santo; tuttavia, gli stessi che avevano
conosciuto la
sua insensibilità e la sua arroganza, si erano visti
costretti a riconoscere in
lui un cambiamento innegabile, dovuto al matrimonio o, più
probabilmente, alla
paternità.
Elio
era oggettivamente un padre
perfetto.
Sapeva esser severo se necessario, ma solitamente trattava la figlia
con una
dolcezza tenerissima: Angela si addormentava tra le sue braccia,
appariva in
pubblico solo se accompagnata da lui e sentiva la necessità
urgente di baciarlo
ogni dieci minuti; dal canto suo, Elio l’amava a tal punto da
voler quasi
rinunciare a un figlio maschio: così Angela avrebbe avuto
sempre più
attenzioni, più amore… e tutta
l’eredità.
Ogni
desiderio – desiderio, non capriccio! – di Angela
andava esaudito, ogni suo
sogno realizzato.
Solo
l’aspetto di quella bambina aveva, in principio, turbato suo
padre: Angela era
identica a Virginia. Passasse il secondo nome, che Elio aveva accordato
solo
perché lo riteneva una specie di formale obbligo, ma la
somiglianza… ! Si era
cominciata a notare quando aveva tre anni e per gli altri non era stata
una
sorpresa: Virginia ed Elio erano stati come due gocce d’acqua
e i riccioli
castani di Angela, i suoi occhi grandi dalle lunghe ciglia…
ricordavano l’uno
come l’altra. Semplicemente, Angela era una bimba che
somigliava a suo padre.
Eppure
per Elio era tanto strano vedere quanto il suo piccolo amore
somigliasse alla
sciocca sorella… l’essere che più
amava, uguale a quello che più aveva odiato.
Non
potendo cambiare la realtà, Elio decise dunque che, se
Angela somigliava a
Virginia, Virginia doveva essere guardata con occhi diversi. Angela non
poteva
ricordare qualcosa di negativo. Somigliava a Virginia? Bene, allora
Virginia
era stata buona. Buona, dolce e bella. Lui forse non l’aveva
compresa, si era
sbagliato sul suo conto… ora non importava.
L’importante era convincersi che l’immagine
di Virginia, nella sua memoria, divenisse pulita e perfetta,
così Angela
avrebbe potuto somigliarle tranquillamente.
Nonostante
ciò, i ritratti di Virginia Gaetani rimasero a giacere in
cassetti chiusi,
lontani dagli occhi di tutti.
Come
molte bambine amate, Angela era molto sicura di sé e
piuttosto coraggiosa; non si
era mai allontanata da casa perché, come il padre,
apprezzava ogni agio;
tuttavia, il mondo non la spaventava, come non la spaventava il buio,
né i
mostri delle storie che a volte le raccontavano. Non condivideva
neanche la
paura di essere abbandonata, comune a molti bimbi: credeva ciecamente
ai suoi
genitori e sapeva con certezza che mai e poi mai l’avrebbero
lasciata sola.
Quando
Emma disse ad Elio che era necessario recarsi a Valle,
perché i suoi genitori
erano ormai anziani e non era saggio far loro affrontare un lungo
viaggio per
vedere la nipotina dato che Angela era ormai abbastanza grande per
spostarsi
senza fare troppi capricci, il ragazzo non fu contento. Valle non gli
era mai
piaciuta e, dalla scomparsa di Virginia, la riteneva ovviamente
pericolosa.
Solo quando gli fu assicurato che più nulla era accaduto,
che tutto ormai
sembrava “normale” e che, comunque, era sempre
stato sufficiente tenersi
lontani dal bosco durante la notte, Elio si decise.
***
Nel
grande e cupo castello che, invisibile a chi non fosse gradito,
troneggiava su
monte Janara, il conte e la contessa trascorrevano una vita tranquilla,
tra
libri, strumenti musicali e pennelli. Il fatto di non poter vedere il
giorno e
di non aver contatti con altri uomini non rappresentava per loro un
grande
problema, perché amavano la notte e la solitudine; ognuno
bastava all’altro e,
se proprio avessero voluto discorrere con una terza persona, avrebbero
potuto
contare su quel vecchio che avevano preso come maggiordomo. Nessuno lo
sapeva,
ma dopo quella di Virginia Gaetani c’era stata
un’altra sparizione; nessuno lo
sapeva, perché quel vecchio era giunto a Valle in silenzio
ed era salito sul
monte senza farsi vedere in paese.
Solo
una cosa intristiva la contessa: lei e suo marito non avevano e non
avrebbero
mai potuto aver figli… e lei, amante dei bambini, aveva
sempre sognato di esser
madre; non aveva parlato della sua sofferenza per non addolorare anche
il
marito, ma questi l’aveva notata e, deciso a vederla felice,
le aveva suggerito
un’idea ottima.
Non
aveva mai provato su nessun essere umano l’ipnosi e non era
sicura di riuscire
a chiamare qualche bambino vista la distanza che separava il castello
dal
paese; tuttavia i bimbi hanno delle menti “aperte”,
come amava definirle lei,
il che avrebbe dovuto rendere più semplice la comunicazione.
In ogni caso,
tentare non avrebbe fatto male a nessuno… e lei non voleva
mica rapirli, i piccoli.
Quando fossero cresciuti, o se avessero per caso espresso il desiderio
di
tornare a casa, li avrebbe lasciati andare.
«Vieni
da me!»
Angela
aprì gli occhietti di scatto. Si sentì spaesata
per qualche secondo, poi
ricordò di trovarsi a Valle, a casa della nonna, in una
stanzetta che era stata
arredata appositamente per lei! Ma chi era che l’aveva
chiamata? Non era la
voce della mamma, questo lo sapeva. Si guardò attorno, senza
scorgere nessuno.
«Vieni
da me!»
Le
sembrò di tornare a dormire, ma gli occhietti erano aperti.
Era strano, non le
era mai capito prima: era proprio come dormire, o sognare…
ma con gli occhi
aperti e senza essere stesi.
«Vieni
da me!»
La
terza chiamata fu come il canto di una sirena per un marinaio: la
piccola balzò
giù dal letto, infilò le belle pantofoline e
aprì la porta. Piccola e
silenziosa com’era, non svegliò i familiari
addormentati e riuscì senza troppe
difficoltà (e senza sapere come) a sbloccare la serratura
del portone. Guidata
da una forza che non la spingeva ma la attirava, come se una cordicella
fosse
legata al suo corpicino e la conducesse dolcemente verso chi ne teneva
le
redini, Angela camminò in un sentiero disabitato pieno di
alberi e in salita;
quando giunse nel cuore del bosco, dove ogni direzione le sembrava
uguale, fu
un lupo a mettersela in groppa e portarla a destinazione. Lei, ancora
in
trance, non ebbe paura.
Il
conte non aveva mai visto sua moglie tanto agitata: si sfregava le mani
con
ansia e spiava il cancello attraverso la finestra.
«Non
verrà nessuno» sussurrò mortificata,
«devo aver fallito»
«Mia
cara, dovresti concedere a questa creatura il tempo di
raggiungerci». Sorrise e,
avvicinatosi, prese tra le sue le mani di lei. «Hanno le
gambe corte, non puoi
pretendere che siano veloci»
Come
sempre, il tocco di lui la tranquillizzò. La contessa tese
le labbra e, quando
quelle di lui le raggiunsero, si sentì libera da ogni timore
e incertezza: il
resto del mondo non la turbava e non le interessava, finché
era con Lui.
Riaprendo gli occhi lo vide sorridere: col mento le indicò
che l’ospite stava
arrivando.
Lo
baciò nuovamente e, con enfasi, corse a spalancare il
portone: un esserino dai
riccioli scuri avanzava verso di lei a passo deciso e con lo sguardo
perso.
«Buonasera,
mia cara» esclamò la stessa voce che aveva
chiamato Angela. La bimba sbatté le
palpebre e vide una bella signora accovacciata davanti a lei; dietro la
signora,
in piedi, vi era un uomo vestito elegantemente, che la osservava con
stupore. «Hai
adescato la persona giusta» lo sentì dire,
«potrebbe essere davvero tua figlia…
ti somiglia»
«Potrebbe
essere davvero nostra figlia»,
lo
corresse la signora senza distogliere lo sguardo dalla bambina.
«Non
avevo mai visto un castello» ammise la piccola, meravigliata,
dicendo la prima
cosa che le venisse in mente. Non aveva paura, perché la
signora le sorrideva e
la accarezzava… e somigliava anche un po’ al suo
papà.
«Vorresti
vedere com’è fatto dentro?»
domandò la signora alzandosi e mostrando così la
maestosità del lungo abito nero.
La
piccola esitò. Le vennero in mente le parole dei genitori
riguardo gli estranei
e si sentì improvvisamente stupita: perché quella
signora non le aveva ancora
detto chi era?
«Non
vuoi sapere il mio nome?» indagò, per preparare il
terreno alla domanda
successiva.
«No,
mia cara, non è necessario; non m’importa
conoscere il tuo nome… puoi scegliere
tu un nuovo nome con cui farti chiamare»
Angela
sorrise, divertita: le sembrava un bel gioco. «Allora voglio
esser chiamata
Neve!» decise dopo una veloce ma attenta riflessione: la neve
era certamente
una delle cose più belle che avesse mai visto. «Ma
tu chi sei?» tornò a
domandare quando, felice, la signora la invitò a entrare nel
castello.
«Io
sono la contessa di questo paese… e lui è mio
marito» spiegò semplicemente,
scostando una ciocca di capelli ricci che le aveva coperto gli occhi.
Ancora
le parole di Elio ed Emma sull’importanza del non dare
confidenza agli estranei
si affacciarono nella testolina della bimba, assieme alle immagini di
alcune
fiabe in cui i bambini venivano puniti per aver disobbedito ai genitori
e
seguito qualche sconosciuto. Quella signora però viveva in
un castello ed era
una contessa… e una contessa non poteva essere molto diversa
da una
principessa. E se quella donna era una principessa, non era una strega,
ed era
buona.
«Dunque,
piccola mia? Vuoi entrare?» La signora aveva una voce tanto
dolce da
accarezzarla e le tendeva la mano. La bimba la afferrò e,
guardandola negli
occhi, annuì con un sorriso. Fu il conte a richiudere il
portone.
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Capitolo 16 *** Epilogo ***
Angela
era stata felice di poter rimanere in quel bel castello per qualche
giorno –
dieci, ma lei non lo sapeva, non li aveva contati – e si era
divertita molto
con la signora che chiamava semplicemente “la
contessa”: non era un’adulta, o
almeno non si comportava come tale, perché pensava solo a
giocare assieme a lei
e a divertirla e a farle scoprire tante cose interessanti, come i
luoghi in cui
vivevano gli scoiattoli e i lupacchiotti. Non uscivano mai dal castello
durante
il giorno ma questo non era stato un problema per Angela – o
Neve, come si
faceva chiamare adesso – dato che il castello era talmente
grande da poter
offrire continuamente nuove attività da svolgere, talmente
grande da fare, a
volte, un po’ paura. Nei momenti in cui la bimba sembrava
spaventata, cosa che
accadeva solitamente all’ora di andare a letto, la contessa
la abbracciava
forte, le cantava ninna-nanne o le raccontava fiabe; nel peggiore dei
casi, si
era mostrata persino disposta a farla dormire nel lettone assieme a lei
e al
conte e questo aveva placato l’animo della bimba che, nella
donna, rivedeva un
po’ il suo papà.
Sebbene
la persona più affezionata ad Angela fosse la contessa, non
si poteva dire che
gli altri due inquilini del luogo fossero cattivi: il conte non parlava
molto
con la bambina, ma le sorrideva ed era evidente che fosse felice di
averla come
ospite; in realtà, la felicità
dell’uomo non aveva tanto a che vedere con
l’ospite quanto piuttosto con l’effetto che
l’ospite creava sulla contessa… ma
Angela ignorava certi particolari e quindi seguitava a sentirsi
benaccolta; il
vecchio maggiordomo, di cui la bimba non ricordava o forse neanche
conosceva il
nome, era poi come una specie di nonno, la nutriva, le chiedeva sempre
cosa
volesse mangiare e tentava in ogni modo di accontentarla; inoltre,
qualche
volta, la prendeva in disparte e le chiedeva di giocare assieme a lui
perché,
diceva, era opportuno che la contessa e il conte stessero un pochettino
da
soli, di tanto in tanto.
Cullata
nel benessere, incantata dalla strana dimora in cui si era ritrovata e
convinta
di vivere in una sorta di fiaba, Angela aveva finito per allontanare
dalla
mente il pensiero dei suoi genitori; ovviamente li ricordava, ma come
si
ricorda qualcosa di sbiadito: sapeva che essi vivevano e
l’aspettavano e, tuttavia,
non vedeva la necessità di far ritorno tanto presto da loro.
La contessa, dal
canto suo, sperava che il momento della separazione non dovesse mai
giungere e
finì con l’accordare alla bimba sempre
più autonomia, lasciandola libera di
scorrazzare da una stanza all’altra come meglio credeva: per
qualche strano
motivo, il luogo preferito di Angela era la biblioteca. Ovviamente non
sapeva
leggere, era troppo piccola, ma alcuni libri avevano delle figure e poi
c’erano
tante scale a chiocciola, lì: avrebbe passato ore ed ore a
percorrerle, su e
giù!
Un
giorno, poi, accadde che Angela si stancò di salire e
scendere per quelle scale
e decise di sfogliare qualche libro. Quando la contessa
entrò e si avvicinò
allo schienale della poltrona, trovò il volume macchiato di
lacrime e la bimba
singhiozzante. Angela guardava e rimirava il disegno di una bambina
abbracciata
da un uomo: era il finale di una qualche fiaba illustrata che mostrava
appunto
il ricongiungimento di una creaturina con l’adorato padre.
«Sono
stanca di star qui, voglio tornare a casa. Voglio andare dal mio
papà» balbettò
la piccola, tirando su col naso.
«Neve
cara! Non c’è davvero bisogno di piangere, tu puoi
tornare a casa quando vuoi,
basta dirlo! Ma sei davvero sicura di volermi lasciare? Non stai bene
qui?»
«Non
mi chiamo Neve!» sbottò la bimba, in preda quasi a
una crisi isterica. «Io sono
Angela Virginia Gaetani e voglio tornare a casa mia!»
Era,
quello, il suo modo tipico di comportarsi quando era nervosa: nei
momenti in
cui faceva i capricci per qualcosa o si sentiva oltraggiata, la
baronessina
sbatteva il piedino a terra, ricordava a tutti il suo nome per intero
– simbolo
di autorità, come le aveva sempre detto suo padre
– e ordinava il suo
desiderio, che veniva prontamente esaudito.
La
contessa, però, invece di attivarsi per farla tornare a
casa, la guardava con
gli occhi sbarrati e le labbra tremanti. Se c’era una cosa di
cui era sempre
stata certa, era che i membri della sua famiglia non
stessero a Valle: l’unico che avrebbe avuto modo o
motivo di
stabilirsi lì era il maggiore dei suoi fratelli che,
però, si era sempre
rifiutato categoricamente di farlo, asserendo
di voler vivere nella secolare dimora di famiglia, nella
loro cittadina
natale.
«Andrai
a casa, mia cara» assicurò la donna, tentando di
darsi con contegno; la voce
però tremava e gli occhi avevano assunto una strana
espressione che un po’
spaventava la bambina. «Tu vivi a Valle, non è
così? Dove vuoi che ti riportino
i lupi?»
«Io
non vivo a Valle» precisò la bimba, leggermente
rassicurata «ma i lupi possono
accompagnarmi a casa della mia nonna. Eravamo da loro, in
vacanza… la mamma e
il papà mi aspettano lì, io lo so!»
La
contessa deglutì. Ora la somiglianza tra lei e quella bimba
le appariva netta e
assoluta. Non aveva sospettato di poter chiamare a lei una sua parente,
perché
era certa di non averne, a Valle…e invece… era
logico che l’ipnosi agganciasse
proprio lei, sangue del suo sangue. Se almeno fosse stata figlia di
Leonardo, o
di Quirino… dopotutto, che poteva saperne, lei? Da quando si
era sposata,
chissà quante cose potevano esser accadute! Forse anche gli
altri due fratelli
si erano accasati a Valle… tuttavia, se la bambina si
chiamava Angela…
«Molto
bene, mia cara. Dimmi solo come si chiamano la tua mamma e il tuo
papà, così dirò
ai lupi di cercarli.»
«La
mia mamma si chiama Emma. Il mio papà Elio»
Saperlo
con certezza fu come ricevere un colpo al cuore. Un brivido scosse
tutto il
corpo della donna, cosa strana, dato che da anni non provava
più sensazioni
così “umane”.
«Tu
sei la figlia di Elio?» domandò con un filo di
voce, sperando assurdamente che
la bimba dicesse di no.
La
bimba, al contrario, si sentì esplodere in cuore la gioia.
«Conosci il mio
papà? Allora mi porterai presto da lui? Mi manca tanto, io
voglio rivederlo subito,
non ce la faccio più a stare senza di lui! Lui è
il papà più bravo del mondo
e…»
«E
tu cosa fai qui?»
Angela,
seduta sul gradino più alto di quella lunga scalinata, si
voltò verso il conte
rivelandogli gli occhietti rossi. Tra i singhiozzi spiegò
l’accaduto, dicendo
che aveva espresso il desiderio di andarsene e che la contessa,
all’inizio,
aveva detto di sì: poi però forse lei aveva detto
qualcosa di male e la
contessa si era arrabbiata e lei aveva urlato di uscire fuori da
lì e adesso lei
si sentiva tanto male e voleva davvero rivedere il suo
papà…
Non
fu certo come stare col proprio papà, ma per la piccola fu
confortevole essere
sollevata dalle braccia del conte ed esser messa a letto da lui con la
promessa
di poter presto tornare a casa; egli la salutò con un
leggero bacio sulla
fronte e, quando la vide addormentata, si recò in
biblioteca. Sua moglie era in
lacrime.
«La
figlia di Elio!» urlò lei, vedendolo comparire.
«Suvvia,
mia cara. Che se ne torni da dov’è venuta, cosa ci
importa? Ne chiamerai un
altro…»
«Non
capisci!»
La
donna si avvicinò al marito che poté scorgere un
fuoco nei suoi occhi; il conte
sapeva esattamente cosa sua moglie avesse in mente, ma non condivideva
tale
progetto.
Come
ella rivelò a cuore aperto, la questione era semplice: le si
era presentata, a
sorpresa, l’occasione di vendicarsi. Privando Elio
dell’essere che più amava,
la contessa si sarebbe sentita ripagata per tutti i torti subiti e
avrebbe reso
giustizia a Silvia, dopo tanto tempo. Sarebbe stato sufficiente recarsi
ora
nella stanza della piccola… e poi il corpo
l’avrebbero restituito e lei avrebbe
lasciato anche un biglietto addosso al cadavere, così
avrebbe saputo, Elio, che
alla fine lei aveva vinto e l’aveva punito, ergendosi allo
stato di una giusta
potenza divina. Tuttavia, se il piano accendeva lo sguardo di lei di
una
sinistra enfasi, era pur vero che gli occhi continuavano a lacrimare:
non ci
sarebbe stata alcuna vendetta perché lei non ne aveva il
cuore e piangeva, di
rabbia e di sofferenza.
«Cosa
devo fare?» domandò supplicante, aggrappandosi al
marito. Questi le accarezzò
il viso con delicatezza, tentando di calmarla.
«Nulla
ti impedisce di ucciderla, se può farti piacere, ma temo che
la cosa ti
danneggerebbe senza portarti soddisfazione alcuna. La bambina
è entrata nel
bosco perché chiamata da te, altrimenti non
l’avrebbe fatto; avevamo stabilito
di lasciare andare le persone chiamate da noi. Certo, è una
legge creata da noi
e abbiamo ogni diritto di non rispettarla, nessuno ci
giudicherà; tuttavia
continuo a credere che, data la tua natura, finiresti col pentirtene.
«Anima
mia» proseguì, avvicinando il viso tanto da
riuscire a notare anche le
lacrimucce che erano state imprigionate dalle ciglia «tu non
sei come tuo
fratello; perché pretendere di emularlo compiendo
un’azione simile?»
In
casi di tragedie, non esistono vie di mezzo: o le coppie coinvolte
prendono ad
odiarsi o, cercando rifugio l’uno nell’altra,
stringono un legame ancor più
forte. Emma ed Elio non si erano accusati a vicenda, consci del fatto
che,
proprio com’era accaduto anni prima, c’era di mezzo
qualcosa di estraneo al
loro mondo; restava da chiedersi come e perché Angela si
fosse allontanata ma a
questo nessuno pensava, troppo occupati a pregare – lei
– e a minacciare le autorità.
Elio aveva pensato più e più volte di recarsi
personalmente su quella maledetta
montagna, ma Emma l’aveva fermato dicendo che non avrebbe
ritrovato la piccola,
perdendo comunque la vita nella ricerca.
Non
sapeva perché, Emma, ma aveva sentito il bisogno di vedere
un ritratto della
defunta cognata: da un’ovale polveroso, ora Virginia la
guardava con aria
pacata ma assolutamente triste, ascoltando le preghiere di quella
povera mamma.
Come sua nonna, Emma credeva al soprannaturale e sperava che lo spirito
di
Virginia, se ancora vagava nel bosco assieme alle altre anime che
lì avevano
trovato la morte, avesse protetto la nipotina mai conosciuta.
Ogni
sera, fino a mezzanotte, Emma ed Elio rimanevano alzati, vagando da una
finestra all’altra; ad ogni ombra insolita scorta nel
giardino, aprivano le
vetrate e chiamavano il nome della figlia, invano; a ogni lieve rumore
tendevano l’orecchio, sapendo già di farlo
inutilmente. Non trovavano riposo
neanche se andavano a coricarsi ed erano certi che non avrebbero mai
più chiuso
occhio.
Erano
le undici e trenta quando Elio suggerì a sua moglie di
chiudere le imposte dato
che, come sempre, aspettare oltre non sarebbe stato fruttuoso; Emma lo
sapeva e
per questo non protestò. Avvicinatasi però
all’ultima finestra rimasta aperta,
la donna temporeggiò: si sporse e, strizzando gli occhi,
riconobbe la sagoma di
un lupo. «Ci manca solo che invadano anche il
paese» si disse.
Elio
stava guardando il ritratto della sorella poggiato sul tavolino e
avrebbe
chiesto alla moglie perché lo aveva preso, se solo non
avesse sentito
canticchiare. Era la canzoncina che Angela canticchiava quando era buio
e aveva
paura; la cantava per farsi coraggio, come le aveva insegnato sua
madre. Marito
e moglie si guardarono negli occhi ed Elio corse alla porta.
Se
non fosse stata tanto felice di aver ritrovato i suoi genitori, Angela
avrebbe
avuto paura della violenza con cui suo padre e sua madre le si
fiondarono
addosso per abbracciarla, baciarla e bagnarla con le loro lacrime. Fu
meraviglioso dormire assieme a loro e ricevere tante coccole e, sebbene
parlare
con la polizia non fosse piacevole, Angela sopportò la cosa
e, nei giorni
successivi al suo ritorno, ripeté dettagliatamente
– per quanto lo ricordava – l’accaduto:
un lupo l’aveva portata nel bosco ed erano giunti a un grande
castello, dove
vivevano il conte e la contessa di Valle assieme a un vecchio
maggiordomo. La
contessa era la donna di cui Emma possedeva un ritratto.
Per
un mesetto circa, dall’alba al tramonto, vari gruppi di
persone salirono a
ispezionare monte Janara, ma del castello non c’era traccia.
FINE
Angolo
dell’autrice.
Saaalve.
Ebbene mi rendo conto che non è un gran finale, ma per ora
si conclude così.
Ringrazio tantissimo chi ha seguito questa storia e ancor di
più le persone che
mi hanno aiutato comunicandomi i propri pareri.
Faccio
anche una furbata. A titolo informativo (so che non ci
credete… e fate bene)
comunico che la storia “Un medico”, appena
iniziata, è in qualche modo
parallela a questa.
Ho
sempre detto che Virginea nasce come prequel di un’altra
storia che per ora non
mi sento di scrivere… ecco, per Un medico vale la stessa
cosa. Ovviamente i
legami verranno a tessersi man mano… lo dico per evitare di
essere linciata. XD
Grazie
ancora a tutti… è stato bello sentire che
Virginia è stata amata.
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