Just Give Another Try

di GiuliaStark
(/viewuser.php?uid=679309)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** What dosn't kill you makes you stronger ***
Capitolo 2: *** I'll be there whenever you need it ***
Capitolo 3: *** Seven days without you ***
Capitolo 4: *** Halloween Night ***



Capitolo 1
*** What dosn't kill you makes you stronger ***


Saaaaaalve a tutti!! sono GiuliaStark e mi sono letteralmente innamorata di questa serie! Comunque bandoalle ciance! Ho iniziato a vedere American Horror Story circa due settimane fa ed ho finito la prima stagione in due giorni e, come potete notare da questa Fan Fiction, Tate mi ha rubato il cuore. Oltre ad essere un bellissimo ragazzo la cosa che mi ha colpio molto è stata l sua personalità e la sua psicologia essendo estremamente complicata. Per questa storia ho decisodi seguire più o meno i fatti avvenuti nella prima stagione (per questo ho messo come avvertenza lo Spoiler perchè non so chi tra di voi ha già finito di guardare la prima serie). Cosa importante: purtroppo non mi sono mai cimentata nell'horror come scrittura, per questo ho deciso che non descriverò proprio nel dettaglio gli episodi legati a quel tema che si manifesteranno. Bhè spero di aver detto tutto e non vi resta che lggere! 😉 

 

POV AXEL
What does not kill you makes you stronger
Mi ero da poco trasferita a Los Angeles con la mia famiglia e già odiavo tutto di questa città… l’unica cosa che mi piaceva era la casa in cui vivevamo; molti la chiamano la Casa degli Omicidi ma invece a me trasmetteva un insensato sentimento di sicurezza, come se nonostante tutti i mali che vi ci erano capitati, una parte era ancora buona e pura. Mia madre, Anne, era un’insegnante molto devota ai suoi alunni a tal punto che a volte si dimenticava perfino di avere una figlia, c’era da dire che però io non la giudicavo, dopotutto chi l’avrebbe mai voluta una figlia come me? Mio padre, John, era uno psicoterapeuta che aveva pensato bene di allestire nello studio della casa una stanza per ricevere i pazienti. Il motivo del nostro trasloco non mi era ancora ben chiaro e forse neanche avevo intenzione di conoscerlo, sapevo solo che a New York eravamo sommersi dai problemi ed ora stavamo scappando cercando di buttarci tutto alle spalle e ricominciare. Ma come si poteva ricominciare? Come si poteva dimenticare ciò che era successo neanche un anno fa? Semplice. Indifferenza. Fredda e pura indifferenza. Le nostre vite ne erano colme fino all’orlo, ci convivevamo ormai da tempo immemore che alla fine era diventata parte di noi e non c’era modo per scacciarla, solo ignorarla. Fu così che cominciarono le forti liti quando vivevamo ancora nella Grande Mela, ignorare i problemi non era servito, seppellirli sotto un cumulo di ricordi felici che apparteneva al passato non bastava, si doveva per forza cambiare vita. Ed ora eccoci qua: nuova città, nuova casa ma la stessa solita, vecchia indifferenza che non ci abbandona mai. Forse era quello l’unico punto stabile della nostra famiglia. Come se non bastasse la scuola a cui ero stata iscritta non era delle migliori: stracolma di bulletti, di gente che crede di essere il centro del mondo, altri che il tuo mondo te lo spezzano e poi, per ultimi, quelli che nascondono la loro tristezza ed amarezza dietro una maschera sorridente che riesce ad ingannare solo i più cechi, ma in questo mondo lo siamo tutti no? Ecco perché funziona. Alla fine della “gerarchia” scolastica ci sono quelli come me che fanno finta di non esistere affatto senza il bisogno di indossare una maschera, passiamo per i corridoi consapevoli di ciò che ci circonda e del fatto che non vogliamo farne parte, non per cattiveria od egoismo, solo perché non abbiamo ancora trovato il nostro “Porto Sicuro”, la nostra ancora di appiglio per permetterci di affrontare tutto il resto. Siamo i più inutili, invisibili e spezzati, eppure eccoci qua… siamo una specie di sopravvissuti, è così che mi piace definire quei pochi come me. Lottiamo, ci feriamo, cadiamo e non ci rialziamo, ci crogioliamo nel nostro dolore e nel nostro fallimento finché non troviamo la nostra Ancora ed è solo a quel momento che mostriamo ciò che nascondiamo all’interno. Io mi sono sempre sentita così. Divisa in due. Schiacciata ed oppressa dalle due parti che albergavano in me: luce ed oscurità che continuano a lottare l’uno contro l’altro per dominare. Comunque in quella stramaledettissima scuola non avevo molti amici, se non quasi inesistenti; anche a New York era così ma in tutta sincerità non mi importava affatto di quanta gente frequentassi, alla fine, più che per altro, era un modo per non sentirsi soli ed in balia della vita che scorreva senza che io me ne accorgessi. Sicuramente c’era stato un tempo in cui non ero così, dove sapevo quello che volevo dalla vita ed ero una ragazza dolce e solare che si preoccupava per il prossimo, si… doveva esserci pur stato un periodo così nella mia vita. Ma io non lo ricordavo. A volte quando credo di percepirne gli sprazzi cerco di ricordare anche se è impossibile, ma nonostante ciò mi concentro con tutta me stessa, cosa spero di ottenere ogni volta proprio non lo so, ma almeno ci provo; anche se resto delusa continuo a farlo, magari un giorno succederà, magari un giorno tornerò ad essere felice. Fortunatamente era sabato, fortunatamente i miei non c’erano e fortunatamente, o stranamente, mi sentivo particolarmente di buon umore e ciò mi sorprendeva piacevolmente. Ero nella mia camera, stereo acceso con i Nirvana che cantavano quelle che sembravano le colonne sonore della mia vita, e ne approfittavo per mettere in ordine quegli ultimi scatoloni che erano rimasti così da avere un po’ più di spazio. Improvvisamente sentii uno strano rumore, così mi fermai e mi misi in ascolto, il rumore si ripeté ma non riuscivo a capire da che parte venisse così uscii dalla stanza ed iniziai a girovagare per la casa; mi accorsi solo in quel momento di quanto era grande, lussuosa, ed antica, piena di ricordi, di un passato che non era il nostro e di un presente ancora da scoprire. Chissà come si erano sentite le persone che erano vissute qui prima di noi, chissà se anche loro si sentivano soli e spaesati nella grandezza del mondo, se avevano trovato il loro appiglio in tutto questo disastro. Sperai di si. Tornai di sopra mentre canticchiavo tra me e me Hearth-Shaped Box ma quando arrivai sulla soglia della mia camera mi bloccai allibita: all’interno, girato di spalle, c’era un ragazzo della mia età, abbastanza alto, sicuramente più di me, con i capelli biondi che stava guardando tra i miei cd mentre anche lui intonava il ritornello della canzone che usciva dallo stereo. Chi era quel ragazzo? E perché era qui? :
- Hai intenzione di entrare o resterai sulla soglia per tutto il giorno? –
Ebbi un tuffo al cuore. Come sapeva che ero dietro di lui? Il ragazzo si girò permettendomi di vederlo bene in faccia e mi sorrise; era uno di quei sorrisi strani a metà tra la pazzia e la dolcezza. Si lo so. Uno strano mix. Ma a me piaceva. Non dissi nulla e lentamente, passo dopo passo, entrai nella mia camera senza distogliere lo sguardo da quello del ragazzo; i suoi occhi erano di un profondo color cioccolato, ma avevano qualcosa al loro interno che non mi spiegavo, qualcosa che assomigliava alla curiosità ed alla paura messe assieme:
- Chi sei? – domandai cauta mentre lui si voltava nuovamente di spalle e ricominciava a frugare tra i miei cd.
- Devo congratularmi con te, hai degli ottimi gusti musicali – rispose ignorando la mia domanda.
- Ti ringrazio, ma ora dimmi chi sei e come hai fatto ad entrare –
- Ehi, ehi calmati quanta fretta! – esclamò con una leggera risatina che mi fece salire un brivido mai provato prima lungo la schiena.
Il ragazzo si voltò completamente verso di me; il cd dei Nirvana continuava a suonare in sottofondo, poi cominciò ad avvicinarsi, l’andatura a tratti incerta e gli occhi colmi di quella che sembrava speranza. Poi mi tese la mano e parlò nuovamente:
- Mi chiamo Tate Langdon ed abito qui di fianco-
Mi avvicinai a lui ancora incerta, ma quando gli fui abbastanza vicina gli presi la mano e gliela strinsi mentre lui tirava fuori un altro strano sorriso:
- Axel- dissi semplicemente, poi continuai- Perché sei qui e come hai fatto ad entrare? –
- Beh se non erro tuo padre è uno strizzacervelli –
- Più o meno…- annuii aspettando che continuasse.
- Beh mi servirebbe il suo aiuto con una cosa, così quando ho visto la porta sul retro aperta sono entrato- fece spallucce con ancora il sorrisetto sulle labbra.
- Ok…- lo guardai incerta- Ma mi dispiace dirti che non è in casa e non ho la minima idea di quando tornerà, ti conviene ripassare un’altra volta-
- Vuoi davvero che me ne vada? – mi domandò con uno strano tono di voce mentre si avvicinava ancora di più con quello sguardo innocente che non lasciava i suoi occhi.
- Beh, ho da fare e neanche ti conosco – risposi alzando un sopracciglio.
- Potremmo farlo! – esclamò all’improvviso pervaso da un inaspettata gioia- Posso aiutarti se vuoi! -
Chi era questo ragazzo? E cosa voleva da me? Non sapevo rispondermi. L’unica cosa certa era che qualcosa di inspiegabile mi attraeva verso di lui, un forte senso di solitudine e sicurezza. Ma come facevo a fidarmi? Se i miei lo verrebbero a sapere s’infurierebbero di sicuro. Cosa dovevo fare? :
 - Axel! Siamo tornati! – esclamò mio padre.
- È mio padre, se vuoi ora puoi parlarci – sorrisi leggermente mentre cercavo di decifrare il suo sguardo.
- Ti ringrazio – annui ricambiando il sorriso.
- Ok, ma stai al gioco, non voglio finire nei guai! – stavolta mi scappò anche una risata e lui mi seguì a ruota.
Scendemmo assieme le scale e ci dirigemmo verso la cucina, dalla quale sentivo provenire le loro voci; mi sentivo strana in presenza di Tate… forse perché lo conoscevo da quanto? Venti minuti? Ma ero sicura che c’era più di questo, qualcosa impossibile da spiegare. Mi affacciai sulla soglia della cucina e mi schiarii la voce per attirare la loro attenzione. Avevano litigato. Si vedeva chiaramente sui loro volti e nei loro occhi… i segni della stanchezza, dell’esasperazione e la mia preferita l’indifferenza:
- Ciao- dissi in un sussurro
- Ciao cara – sorrise mia madre.
Mio padre stava per dire qualcosa quando all’improvviso si zittì e guardando alla mia sinistra sbatte le palpebre un paio di volte finché non parlò:
- Axel, tesoro, chi è questo ragazzo? –
- È Tate Langdon, abita qui vicino ed era passato per darci il benvenuto nel quartiere –
- Oh, ma che gentile – rispose mia madre ancora sorridendo- Ti ringrazio Tate -
- Di nulla signora – sorrise anche lui
- Mentre gli offrivo qualcosa da bere mi ha detto di aver trovato il tuo nome papà nella lista medica e vorrebbe parlare con te –
- Certamente Tate, che ne dici se facciamo domani alle dieci qui? –
- Perfetto! – esclamò con nuovamente quell’espressione di pura gioia negli occhi- La ringrazio –
- Figurati – annuì mio padre.
Sorrisi forzatamente ad entrambi poi mi congedai dalla cucina seguita da Tate; insieme ripercorremmo il corridoio fino a fermarci davanti la porta d’ingresso, mi voltai e lo guardai dritto negli occhi… cosa c’era che non andava lì dentro? :
- Sembra proprio che domani ci rivedremo – mi sorrise e sulle sue guance notai delle fossette.
- A quanto pare…  – sorrisi anch’io abbassando leggermente la testa.
- Allora ciao Axel –
- Ciao Tate –
Aprì la porta e mi rivolse un ultimo sorriso prima che se la chiudesse alle spalle. Ok, dovevo ammettere che era un ragazzo piuttosto strano conosciuto in un modo altrettanto particolare, ma forse era quello più normale con cui avessi parlato da quando ci eravamo trasferiti qui. Tornai in cucina dai miei e mi sedetti sullo sgabello mentre poggiavo i gomiti sull’isola nel bel mezzo della stanza e continuavo a pensare:
- Tipo strano quel Tate…- cominciò mio padre.
- Hai già fatto una diagnosi? Ma quanto sei bravo – risposi leggermente infastidita.
- Axel… - mi rimproverò bonariamente mia madre.
- Sto solo dicendo che se si è rivolto a me ci sarà pure una ragione, no? –
- Se lo dici tu… - borbottai mentre mi alzavo dalla sedia ed uscivo dalla cucina.
- Dove vai? –
- A finire di sistemare le cose nella mia camera –
Salii nuovamente le scale a passo lento mentre pensavo a Tate, non potevo negare che quel ragazzo mi incuriosisse più del normale, forse perché lui era il primo a non esserlo. Sorrisi tra me e me mentre mettevo piede sul corridoio del secondo piano e sempre con la testa fra le nuvole entrai in camera; il cd ormai aveva smesso di suonare, così lo rimisi da capo e continuai a mettere in ordine. Alla fine verso le cinque di pomeriggio avevo svuotato tutti gli scatoloni e reso decente la mia nuova camera; avevo saltato perfino il pranzo, un po’ perché avevo da fare ed un po’ perché non mi andava di assistere all’insulso teatrino che i miei genitori mettevano su ogni giorno dall’anno scorso. Scesi giù in cucina e vi trovai, sul tavolo, un piatto con sopra un panino con prosciutto e formaggio e vista la fame non pensai due volte a prenderlo e cominciare a mangiarlo:
- Il panino è di suo gradimento signorina? – domandò Moira, la cameriera, mentre entrava in cucina.
- Si Moira, ti ringrazio e per favore, chiamami solo Axel – sorrisi gentilmente e lei annuì cortesemente mentre accennava un sorriso – Posso farti una domanda? –
- Ma certamente – rispose mentre metteva in ordine.
- Da quanti anni lavora in questa casa? –
- Oh, molti, mia cara, ero giovane quando cominciai-
- E non ha mai pensato di fare qualcosa di diverso? – chiesi mentre davo un altro morso al panino.
- Un tempo forse si, ma poi vi rinunciai –
Stavo per farle un’altra domanda quando in cucina entrò mio padre e non appena vide Moira si irrigidì all’improvviso: serrò la mascella e deglutì pesantemente, ancora dovevo capire perché aveva questa reazione ogni volta che la vedeva; poi si voltò verso di me mentre mandavo giù l’ultimo boccone del panino ed iniziò con la sua solita predica mentre la domestica usciva:
- Potevi scendere per il pranzo – sospirò pesantemente.
- Non avevo molta fame, e poi avevo da fare –
- Axel, ascoltami bene, so che per te è un momento difficile per via del trasloco e tutto il resto ma ce la faremo, ti prometto che ce la faremo e che tutto tornerà come prima – non avevo mai sentito tante bugie uscire dalla sua bocca, credo che ora avesse battuto il record.
- Ancora non capisco perché la mamma ti abbia dato una seconda occasione, ormai è tutto rovinato! Lo capisci?! Hai rovinato tutto!! – alzai la voce e le lacrime automaticamente vennero giù come un fiume in piena, un fiume di dolore che non riuscivo a trattenere.
- Axel, tesoro, calmati… io e tua madre ci amiamo ancora per questo… - ma non lo lasciai finire.
- Sono tutte cazzate! È quasi un anno e non avete lontanamente risolto neanche un minimo del problema! – in quel momento arrivò anche mia madre in cucina, con lo sguardo scioccato e confuso.
- Axel, che succede, perché stai urlando e piangendo così? –
- Come hai potuto? – dissi girandomi di scatto verso di lei con la rabbia che montava dentro fino a trasformarsi in lacrime- Mettere in scena una menzogna del genere! Fingere che vada bene di fronte agli altri e poi inabissarti nella consapevolezza che è tutto sbagliato! - poi mi rivolsi ad entrambi -Perché continuate a recitare? Non siamo più una famiglia… - terminai con un sussurro.
- Axel… - chiamò mia madre abbassando la voce e cercando di avvicinarsi per afferrarmi un braccio, ma io mi scansai di getto; alla fine smisi di fissarli inutilmente e corsi i camera mia sbattendo forte la porta.
Crollai all’indietro sul materasso mentre mi asciugavo furiosamente gli occhi e le guance cercando di distrarmi fissando il soffitto. Ho sempre odiato piangere, forse perché ultimamente non facevo altro, ma non potevo evitarlo, le lacrime iniziavano a scendere giù automaticamente senza che io le potessi controllare. Iniziavo ad odiare tutto, la tristezza sostituita dalla rabbia, la rabbia che mano a mano si tramutava in disperazione e poi in depressione; conoscevo fin troppo bene questo processo, c’ero passata tante di quelle volte che, ormai, neanche me ne rendevo più conto, mi lasciavo scivolare tutto addosso e basta, forse, nella speranza che mi avrebbe aiutato a costruirmi una salda armatura che mi avrebbe protetta da tutto, un po’ come quel famoso detto: “Ciò che non ti uccide ti rende più forte”. Alla fine scoprii a mie spese che erano tutte cazzate. Niente ti rende più forte. Magari la prossima volta sarai più preparato e saprai cosa aspettarti, ma alla fine stai male comunque, ti uccide come la prima volta è questa la verità. Si soffre e basta. Non c’è modo per evitare il dolore, ne ho provate talmente tante che se ci fosse stato ero più che certa che, arrivata a questo punto, l’avevo già trovato da un pezzo. Mi sentivo tradita e presa in giro, eravamo qui da neanche due settimane che le cose già cominciavano a peggiorare e tutto ciò perfino senza un influenza esterna. Si stavano rovinando a vicenda e non lo capivano, continuavano a recitare come se alla fine avrebbero vinto un qualche premio; invece stavano solo perdendo tempo.


ANGOLO AUTRICE
Spero che questo piccolo capitolo vi abbia incuriosito, come potete vedere ho presentato fin da subito, anche se brevemente, il nostro amato Tate perchè ho mooooolte cose da scrivere su di lui ahahaaha. Comunque se vi va recensite e ftemimsapere cosa nevpensate e se vale la pena coninuare a scrivere! Un bacione a tutti coloro che leggeranno e recensiranno!!

P.S. Se tra di voi ci sono fan dello Hobbit vi invito a leggere la storia che sto scrivendo! Il titolo è: E alla fine quando meno te lo aspetti tutto cambia
un bacioooo 😁

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** I'll be there whenever you need it ***


Saaaalve!! Scusate il clamoroso ritardo ma ero un pò a corto di idee 😆 Comunque ecco qua un nuovo capitolo, spero vi piaccia e mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate!! Un bacione a tutti!!!



Incubi… era tutto ciò che mi terrorizzava. Ciò che mi teneva sveglia la notte fino ad orari improponibili con gli occhi sbarrati dal terrore, finché, verso l’alba, non crollavo esausta tra le braccia di Morfeo e l’altra notte non era stata diversa dal solito. Non ricordavo con precisione quando iniziai a soffrirne ma erano così frequenti che davano l’impressione di esserci sempre stati, come qualcosa che si nasconde per poi saltar fuori al momento giusto. Ciò che più odiavo era la sensazione che lasciavano: il vuoto. Ogni maledettissima mattina mi svegliavo con quella sensazione che mi opprimeva il petto; ormai era diventata una costante nella mia vita, quindi dopo un paio d’ore non ci facevo più caso ma sapevo che c’era, che non mi lasciava mai, come se fossi condannata a sentirmi così per chissà quanto tempo. Ad ogni risveglio ero sempre nelle stesse condizioni, anche se appena gli occhi si aprivano dimenticavo le immagini che la notte mi avevano dato tormento: ero madida di sudore, gli occhi sbarrati dai quali uscivano fiotti di lacrime e tremavo come una foglia. La parte più difficile era nascondere la paura. Mi teneva stretta nella sua morsa senza lasciarmi andare facendomi sentire impotente. Odiavo quella sensazione, per questo cercavo di nasconderla, perfino a me stessa, facendo finta di nulla, ma una parte di me sapeva; era ben consapevole che appena faceva buio questo terrore che tenevo a bada per tutto il giorno diventava indomabile e scalpitava per venir fuori perché era cosciente che il suo momento era arrivato. E lo odiavo. Odiavo essere impotente davanti a questo lato di me, odiavo non riuscire a controllare la paura, ma soprattutto odiavo combattere una guerra contro lo stesso fronte. Sicuramente era mattina, sentivo i caldi raggi provenienti dalla finestra arrivare fino al mio letto e scaldare la parte sinistra del mio volto; sempre ad occhi chiusi tirai un sospiro e mi girai di spalle evitando così la luce mentre mi passavo una mano tra i capelli. All’improvviso sentii una strana sensazione insinuarsi dentro di me, la sentivo a pelle che mi scorreva su tutto il corpo, ma non era fastidiosa, anzi, era come un sollievo, come se mi stesse curando dal male che per tutta la notte mi aveva tormentata. Il bordo del letto si incrinò contro il peso di qualcosa che vi si poggiava; ebbi un tuffo al cuore ma non aprii gli occhi, rimasi ferma, immobile cercando di capire chi fosse; poi una voce calda e dolce parlò:
- So che sei sveglia -
Spalancai definitivamente gli occhi. Il cuore iniziò a martellare e la mente ad offuscarsi sotto il peso delle domande. Riconobbi quella voce ma era impossibile, sicuramente stavo ancora dormendo; eppure mentre cercavo di autoconvincermi che fosse tutto frutto della mia immaginazione, una parte di me già aveva preso coscienza ed elaborato cosa era successo. Non mi voltai, rimasi di spalle, se era veramente tutto reale e non un sogno, non volevo che mi vedesse in questo stato:
- A quanto vedo ti piace intrufolarti nella mia camera – cercai di sembrare irritata.
- Beh mi avevi detto che oggi ci saremmo visti ma quando sono arrivato non c’eri – rispose; potevo sentire il sorriso sulle sue labbra mentre parlava.
- Aspetta… - ripensai alle parole che aveva detto – Ma che ore sono? –
- Le undici passate, ho finito poco fa con tuo padre –
- E così hai pensato bene di venire qui? Se ti dovessero scoprire passeresti dei guai –
- Non c’è pericolo, tranquilla –
Ci fu un momento di silenzio. Potevo sentire il rumore del suo respiro, tutto taceva, sia fuori che dentro la casa come se il tempo si fosse fermato. Sentii nuovamente il peso sul bordo del letto muoversi, le molle del materasso cigolarono e pensai che forse se ne stava andando. Era meglio così, preferivo rimanere sola e probabilmente lui l’aveva capito; invece no. Il suo peso tornò a far incrinare il materasso, stavolta in un punto più vicino a me, mi irrigidii e trattenni il respiro. Cosa voleva fare? Rimasi lì ferma, immobile a fissare il muro, il cuore che già batteva all’impazzata aumentò ancora di più il suo battito; percepivo una certa incertezza da parte sua, poi parlò di nuovo:
- Perché non ti volti? – mi chiese con un sussurro, ma io non risposi. E cosa potevo dirgli? Di certo non la verità. Silenzio. Altro silenzio per circa cinque minuti, poi Tate sospirò – Axel, cosa è successo? –
- Tate, è meglio se vai, non vorrei che i miei salissero e ti trovassero qui –
- Tranquilla sono usciti entrambi, ora, cosa ti è successo? -
- Perché ti importa, neanche mi conosci! – esclamai nascondendo il volto nel cuscino.
- Perché sei diversa Axel, sei diversa da tutta la merda che abita questo mondo e l’ho capito dal primo momento che ti ho guardata negli occhi –
Qualcosa si smosse dentro di me. Nessuno mi aveva mai detto certe cose, soprattutto qualcuno che per me era un totale sconosciuto, eppure nonostante ciò quel senso di sicurezza che mi pervadeva ogni volta che lui era nei paraggi era reale e mi dava sollievo. Potevo fidarmi? Ci pensai un attimo e senza neanche indugio mi diedi una risposta: Si. Sentivo di potermi fidare di lui, sentivo che non mi avrebbe fatto del male e che mi avrebbe capita; fin da ieri avevo percepito un qualcosa di speciale che mi attraeva a lui e forse questa ne era la prova. Decisi di non farmi più domande per ora, ma bensì di seguire l’istinto e vedere dove mi avrebbe condotta.  Rilassai i muscoli e sospirai, poi lentamente cominciai a girarmi: i raggi del sole mi investirono nuovamente il volto e socchiusi gli occhi permettendogli così di abituarsi lentamente alla luce; Tate era seduto lì sul letto e mi guardava con un piccolo sorriso e quegli occhi colmi di… cos’era? Speranza? I capelli mossi e biondi gli ricadevano sulla fronte e gli occhi. Mi tirai su a sedere e poggiai la schiena alla spalliera del letto; sentivo il suo sguardo addosso, mi stava scrutando come se sapesse che c’era qualcosa che non andava e aveva ragione. Il terrore degli incubi era ancora lì insinuato dentro di me talmente in profondità che me lo sentivo strisciare nelle ossa e lui era come se riuscisse a vederlo; all’improvviso nei suoi occhi si posò un’ombra, si rabbuiò ed abbassò le spalle come se fosse improvvisamente triste. Si avvicinò ancora di più verso di me e prese una delle mie mani tra le sue:
- Che ti è successo? –
I suoi occhi erano piantati nei miei ma ogni tanto vagavano sul mio viso scrutandolo e leggendo sopra ogni emozione, aggrottò le sopracciglia cercando di individuare quale fosse la fonte del mio malessere; potevo immaginare in che stato fossi: le borse sotto gli occhi, il viso accaldato, le labbra pallide e le mani fredde. Un disastro. Una ragazza in balia di se stessa e dei suoi demoni, era così che apparivo la mattina:
- Ho avuto un incubo… - sussurrai.
- Mi dispiace… che tipo di incubo? –
- Non lo so, non ricordo – distolsi lo sguardo.
- Puoi parlare con me, sono l’unico di cui puoi fidarti Axel, e lo sai – si, lo sapevo.
- Accade ogni notte – spiegai – Incubi terribili dei quali al risveglio non ricordo molto. L’unica cosa che mi lasciano è il terrore che possano tornare – lo guardai negli occhi.
- Vieni con me –
Aveva un sorriso stampato sul volto e gli occhi che brillavano; io lo guardavo attonita, ed ora che gli era saltato in mente? Continuai a fissarlo, poi sorrisi ed annuii mentre lui si alzava dal letto tirandomi con se e quasi non caddi. Lui rise ed anche io. Scendemmo le scale, la mia mano ancora nella sua, fino ad arrivare al piano di sotto:
- Dove e stiamo andando? –
- In giardino – si voltò mentre lo diceva e mi fece l’occhiolino.
- In giardino? – ripetei confusa – Sul serio? -
- Oh, andiamo Axel, fidati! –
Aprì la porta principale ed una calda luce entrò nell’ingresso illuminandolo con una sfumatura dorata; questa casa mi stupiva ogni volta per la sua bellezza, era come se avesse un’anima, anzi due, quella notturna che nascondeva oscuri segreti e rumori misteriosi e quella diurna che era tranquilla, silenziosa e baciata dal sole. Uscimmo fuori ed una leggera brezza ci scompigliò i capelli. Era un sollievo quell’aria fresca, sia per il mio umore che per la pelle ancora leggermente imperlata di sudore; respirai a pieni polmoni e mi concentrai usando tutta la forza che avevo in corpo per scacciare definitivamente i demoni dell’incubo. Nel frattempo Tate continuava a camminare in direzione del grosso albero che c’era nel retro del giardino ed io, come se non potessi fare altro, lo seguii; ci sedemmo lì sotto con la schiena contro il tronco a guardare il cielo azzurro di Los Angeles. Visto da così tutto sembrava avere una luce migliore: non c’erano problemi familiari, non c’era indifferenza, non c’erano le mie paure, niente… solo la calma, solo un’altra giornata di sole:
- Ascolta il vento tra i rami, gli uccelli; senti il sole che ti riscalda, respira, libera la mente e non pensare più –
Disse quelle parole come una nenia, probabilmente era merito della sua voce calda, e dopo un po’ cominciai a sentire che era passato veramente il peggio. Mi sentivo nuova, come se mi fossi rigenerata, come se solo la sua compagnia mi aiutava. Perché questo ragazzo perlopiù sconosciuto aveva un tale effetto su di me? – Meglio? –
- Si… - sospirai con un sorriso.
- Visto? Ne è valsa la pena fidarti! – sorrise con di nuovo quel barlume di follia nello sguardo che gli avevo visto il giorno prima.
- Grazie – annuii
- Sai qual è una cosa che adoro? – disse tutto ad un tratto; scossi la testa ed aspettai una risposta con ancora il sorriso stampato sul volto – Le foglie che cadono e il vento mentre le fa muovere in aria –
- Piace anche a me – il suo sorriso si allargò ancora di più.
- Quando arriverà l’autunno dovremmo guardarle assieme! – esclamò esaltandosi; quel ragazzo non faceva altro che mostrarmi varie sfaccettature di se stesso che continuavano ad aumentare il grande puzzle che stavo cercando di costruire su di lui.
- Non ti ho mai visto a scuola, come mai? -
- Perché non ci vado – rise mostrando le fossette – Preferisco studiare a casa –
- Ah… - rimasi stupita – E perché? –
- Perché ci andavo prima ma odiavo tutti – fece spallucce guardando a terra – Erano tutti degli stronzi pieni di se, non se ne salvava nessuno. Fidati di me, non farti amico nessuno di loro, stagli lontano, fidati –
- Ok… - risposi leggermente confusa.
Tate sorrise mentre mi guardava dritta negli occhi, ogni volta che lo faceva sembrava come se volesse leggermi dentro, come se bramasse di sapere le cose che celavo a chiunque. Era una sensazione strana ma al tempo stesso piacevole perché per la prima volta avevo trovato qualcuno a cui interessava di me e di come mi sentivo:
- Conosci la storia di questa casa? – mi chiese facendo un cenno verso di essa.
- In realtà no –
- Beh forse è meglio così, altrimenti avresti paura a vivere qui – mi guardò come se mi stesse sfidando.
- Mi stai provocando per caso? – domandai alzando un sopracciglio – Io non ho paura di questa casa –
- Sicura? – domandò mentre si apriva lentamente in un sorriso come se avesse già la vittoria in mano.
- Si –
- Bene allora non ti dispiacerà sapere che chi la costruì negli anni venti era un famigerato medico chirurgo che, pur di racimolare qualche soldo in più per far contenta la moglie, praticava illegalmente l’aborto. Un giorno una delle donne si lasciò sfuggire l’informazione con il fidanzato e questi si vendicò rapendo il figlio della coppia; giorni dopo la polizia bussò alla loro porta consegnando uno scatolone contenente dei barattoli con all’interno i pezzi del loro bambino. La moglie era fuori di sé per il dolore e dette la colpa al marito che, anche lui devastato, cercò di rimettere insieme i pezzi del figlio creando così un mostro che si dice viva ancora nello scantinato – terminò il racconto con un sorriso soddisfatto.
- Molto interessante, davvero, ma non ci sono prove che confermino questa storia –
- Non preoccuparti, ti accorgerai da sola che quella casa non è come tutte le altre – sorrise di nuovo.
- Ne parli come se tu la conoscessi alla perfezione – dissi incuriosita dal modo in cui il suo sguardo era cambiato quando aveva cominciato a parlare della casa, era cupo, molto più cupo.
- Nah! – ridacchiò - È solo che ci ero già stato qualche volta a trovare i vecchi proprietari – annuii.
- Com’è andata con mio padre? – decisi di cambiare discorso, parlare di quella casa e delle cose che vi erano successe nel corso degli anni mi mettevano a disagio.
- Oh, alla grande! – esclamò – Dice che può aiutarmi ad essere meno pazzo, forse anche a guarire del tutto – sorrise.
Meno pazzo? Era così che si definiva? Pazzo? Per me era tutt’altro, forse perché, anche se cercavo di evitare l’evidente, io lo capivo, riuscivo a comprendere i sottili messaggi sotto le righe durante i suoi discorsi. No, Tate non era pazzo e neanche io. Il mondo lo era. Questo maledetto posto era malato, saturo di putredine che camminava a piede libero ed infettava chiunque gli capitasse sotto mano. No, non eravamo pazzi, o asociali, ma solo fuori dal comune, diversi dal resto degli individui; chi poteva dire con certezza che eravamo noi i pazzi e non gli altri? Chi poteva mettere nero su bianco che quelli sbagliati eravamo noi? Solo perché non trovavamo il nostro posto nel mondo dovevamo sentirci inadeguati, per la società era così. O ti adegui e segui le regole o vieni considerato uno squilibrato. Non avevo dubbi che perfino mio padre la pensasse così su di me visto che già in passato, d’accordo con mia madre, aveva cercato di psicanalizzarmi, senza successo, alla fine ritennero più facile definirmi leggermente instabile e chiudere lì la questione come se fossi io il fallimento e non il loro modo di fare i genitori. Si erano liberati del problema così… senza pensarci due volte e senza rimorsi, solo delusione perché non ero la loro figlia perfetta ma solo un giocattolo rotto:
- Mi dispiace per prima, non volevo che mi vedessi così – abbassai lo sguardo e mi passai una mano tra i capelli, anche se sapevo che non c’era bisogno di chiedergli scusa lo feci lo stesso. In un certo senso mi sentivo in debito con lui.
- Ehi, no – si staccò dal tronco e prese nuovamente la mia mano, poi si avvicinò ancora; i suoi occhi erano come due calamite – Non chiedermi scusa, non devi, ti prometto che ci sarò ogni volta che avrai bisogno di me –
- E come saprai quando accadrà? – domandai con un sussurro.
- Lo sentirò –
Le sue parole mi colpirono. Il cuore perse un battito ed io non potevo fare a meno che perdermi nei suoi profondi occhi marroni, talmente bui che ti disorientavano. C’era qualcosa in lui, nel suo essere, che ammettevo mi spaventasse un po’; le cose che diceva, i gesti, come se sapesse cosa fare al momento giusto, come se sapesse di cosa io avevo bisogno in quel momento. Da dove veniva questo ragazzo? Perché sembrava conoscermi meglio di me stessa? Mentre lo guardavo ancora negli occhi sentii un rumore di pneumatici: i miei erano tornati. Mi voltai di scatto verso la strada e li vidi uscire dall’auto con alcune buste in mano; mi alzai di scatto lasciando la mano di Tate, avevo paura di ciò che avrebbero detto se lo avessero visto perché sicuramente mi avrebbero proibito di frequentarlo ed io non volevo:
- Diamine Tate, se ti vedono è la fine! –
- Non possono impedirmi di vederti – rispose con una piccola risata.
- Si che possono fidati, e lo faranno – mi voltai e lo guardai negli occhi.
- Che ci fa lui ancora qui! –
Calò il gelo. Non avevo sentito i passi di mio padre avvicinarsi mentre discutevo con Tate; non sapevo cosa fare, era come se fossi interamente paralizzata dalla sorpresa ma al tempo stesso furiosa per essere sempre trattata da irresponsabile, come se non fossi in grado di badare a me stessa. Decisi di voltarmi e fronteggiarlo, lui non poteva decidere per me lo aveva fatto troppe volte nel corso della mia vita ed ora ero stanca, stanca di lui, anzi, di loro e della loro falsità:
- Stavamo parlando –
Incrociai le braccia come per sfidarlo e lui indurì ancora di più lo sguardo mentre mia madre, pochi passi più indietro, mi guardava confusa e disorientata. Mio padre guardò Tate con astio ed una certa paura. Cosa aveva contro di lui? Ai miei occhi era, per la maggiore, un ragazzo molto solo:
- Ti avevo detto di andare subito via dopo la seduta – disse duramente.
- Ha ragione, non se la prendi con sua figlia è colpa mia, volevo solo salutarla – rispose Tate facendo qualche passo in avanti.
- Va subito via – disse a denti stretti mentre cercava di mantenere la calma.
- Ma papà… - non mi fece neanche finire di parlare.
- Sta zitta Axel! –
Cercai di trattenere l’urlo di frustrazione che mi era salito su per la gola con tutte le mie forze; Tate si voltò a guardarmi e mi sorrise, poi andò via mentre salutava cortesemente mio padre. Ero fuori di me. Sentivo la rabbia crescere man mano e non sapevo se sarei riuscita a non darle sfogo, così guardai mio padre per un ultima volta ed entrai in casa a passo spedito; sapevo perfettamente che la faccenda non era finita lì e che presto ci sarebbe stata una furiosa lite ma per ora non volevo neanche guardarlo in faccia, così entrai in casa e mi diressi a passo spedito verso la mia camera sbattendomi la porta alle spalle. Non passò molto tempo che già entrambi i miei genitori entrarono nella mia stanza con un’espressione contraria sul volto, soprattutto quella di mio padre:
- Devi stare lontano da quel ragazzo –
- E perché dovrei? – chiesi con tono accusatorio mentre mi alzavo dal letto mettendomi in piedi davanti a loro.
- Perché non è un ragazzo affidabile! –
- Lo diciamo per te tesoro – aggiunse mia madre.
- Ma per favore… - risi di quelle bugie, non ero niente per loro – Quando mai vi è importato di me! – esclamai – Vi siete mai chiesti perché a New York è andata così? –
- Questo è un altro discorso… - sussurrò mia madre guardando altrove.
- Oh si, certo! Ignoriamo i fatti -
- Axel smettila! – urlò mio padre fuori di se lasciandomi momentaneamente disorientata – Tu starai lontana da quel ragazzo, fine della storia! –
- Perché dovrei?! Eh? Perché è diverso dagli altri? Perché è un ragazzo tormentato? –
- No, perché non è un ragazzo di cui ci si può fidare! – sopirò e cercò di clamarsi, poi si avvicinò un po’ a me e continuò – Axel, devi capire che Tate è mentalmente instabile –
Sicuramente non si rese conto di ciò che disse o forse non si ricordò proprio. Lo guardai negli occhi e vi trovai solo rifiuto nei confronti di un ragazzo che non aveva fatto nulla di male e l’unica colpa che aveva era quella di essere solo:
- Beh secondo la tua diagnosi di qualche anno fa anche io sono instabile, ricordi? – lo sfidai – Anzi, lo pensavate entrambi -
- Non è la stessa cosa – non sapevano dove andare a parare, li avevo colti nel segno.
- Ah no? – la rabbia crebbe ancora e tornai ad essere sarcastica – È stato facile per te farmi quella diagnosi liquidando così il problema, dirmi che non sono completamente normale! Ma hai pensato mai a come l’avessi presa? –
Non aspettai neanche una risposta da parte loro che subito uscii dalla stanza e scesi le scale fino ad arrivare al seminterrato. Da quando ci eravamo trasferiti ero scesa poche volte quaggiù, ogni volta mi sentivo strana, come se fossi osservata o seguita, non sapevo come spiegare quella strana sensazione ma c’era ed io non riuscivo a mandarla via. Nonostante tutto però questo posto mi faceva sentire protetta, nascosta e a mio agio con me stessa; era una grande stanza sempre nella penombra colma di vecchi oggetti che i precedenti proprietari avevano abbandonato lì, l’aria qui sotto era umida e ti entrava dentro facendoti rabbrividire. La cosa che più mi piaceva era il silenzio. Era come se tutti i rumori della casa e del mondo fuori, qui non fossero ben accetti, come se si trovasse in un universo parallelo nascosto agli altri. Il silenzio mi piaceva ma dovevo ammettere che era assordante. Delle volte aveva perfino la meglio su di me. Sembrava che in esso ci fossero mille grida mute e disperate che sentivo infestare la mia testa portandomi a lottare contro di esse e contro me stessa per non cadere nell’oblio. Non sapevo quanto tempo ero rimasta lì sotto rannicchiata con le gambe strette al petto, ma per tutto quel tempo avevo sentito lo sguardo di qualcuno, o qualcosa, posarsi su di me e non lasciarmi mai; la sensazione di bruciante disagio mi invadeva tutto il corpo facendo crescere in me un leggero terrore, ma nonostante tutto non riuscivo ad alzarmi e scappar via, ero come immobilizzata, incatenata lì, curiosa di saperne di più su questa casa che aveva visto tante tragedie. All’improvviso sentii un rumore ed alzai di scatto la testa, non ero sicura se quello che vidi era frutto della paura o era reale, fatto sta che nel buio ci fu un movimento come se qualcosa vi passasse nel mezzo, poi un luccichio di uno sguardo famelico il tutto nel giro di qualche secondo. Ripresi controllo del mio corpo alzandomi di scatto e risalendo le scale di corsa con ancora la bruciante sensazione di essere osservata; quando arrivai in cima mi scontrai con qualcuno ed istintivamente lanciai un piccolo urlo stridulo:
- Axel, cosa è successo? – era mia madre.
- Niente, mi hai spaventata – riposi con il fiato corto.
- Perché eri lì sotto? –
- Volevo starmene un po’ da sola – evitavo il suo sguardo.
- Tesoro, sicura di star bene? –
- Si, mamma – calcai sulla parola con leggero astio – Sto bene –
- La cena è quasi pronta –
- Ok… -
Quella sera cenammo in silenzio, mio padre e mia madre tirarono nuovamente giù il velo dell’indifferenza recitando così la parte della famiglia felice ignorando i problemi che invece ci stavano sommergendo. Quando finii di mangiare mi alzai da tavola senza dire niente e mi diressi nella mia stanza, chiudendomi la porta alle spalle e restando poggiata contro di essa per qualche minuto mentre cercavo di rimettere insieme i pezzi di me stessa. Era stata una giornata cominciata male che poteva terminare bene, ma che invece finì ancora peggio; sospirai pesantemente e mi staccai dalla porta, poi nonostante la paura che mi cresceva dentro per via degli incubi mi cambiai e mi infilai nel letto. Non so quanto tempo dopo mi addormentai ma fu in seguito ad una sensazione di sicurezza che pian piano cominciò a scorrermi addosso, la stessa sensazione che avevo quando ero con Tate. La mattina dopo mi svegliai consapevole che gli incubi non erano venuti a farmi visita, era la prima volta che accadeva da non sapevo nemmeno io quando e ciò mi rendeva felice, felice come non ero mai stata. Scesi a fare colazione ed in cucina trovai mia madre già pronta per uscire mentre parlava con Moira, la cosa che mi fece fermare dietro l’angolo ed ascoltare di nascosto fu sentire il mio nome:
- Non so Moira, sono molto preoccupata per lei… è così strana e distante –
- Non si preoccupi signora, la ragazza è giovane, è confusa sono cose tipiche della sua età. Non si ricorda com’era lei da adolescente? –
- Si – ridacchiò mia madre – Ero proprio come lei: solitaria a volte, socievole altre, sempre arrabbiata con il mondo; ma ora la situazione mi sta sfuggendo di mano, non capisco più quale dei suoi comportamenti sia normale e quale no. Axel è una ragazza particolare, fuori dal comune e sicuramente ha qualche problema di cui non vuole parlare ed io non so che fare –
- Mi permette un consiglio signora? –
- Ma certamente –
- La lasci stare, quando sarà pronta a parlarle verrà a cercarla, vedrà, nel frattempo le dia un po’ più di fiducia –
Non aspettai la risposta di mia madre, mi bastò ascoltare le sue parole precedenti per accertarmi che non mi aveva mai conosciuto come invece lei affermava; entrai in cucina ed accennai un flebile saluto, poi presi la mia tazza di thè e la cominciai a bere con calma, mia madre non disse più nulla finché non si alzò ed uscì; io non avevo intenzione di parlare almeno non ora e non con lei. Quando finii la colazione salutai Moira e mentre stavo per uscire vidi mio padre scendere le scale: mi limitai a guardarlo con profonda delusione e prima che potesse dire qualsiasi cosa aprii la porta d’ingresso per poi chiudermela alle spalle. Iniziai a camminare verso la scuola, l’aria della mattina mi aiutava a schiarirmi le idee recandomi sollievo da una mente troppo affollata. A quest’ora il quartiere dove abitavamo non era molto frequentato, Los Angeles non era ancora sveglia, troppo stanca dalla notte precedente passata a mantenere vive tutte le sue luci per alzarsi così presto; adoravo camminare, in qualche modo riusciva a rilassarmi, cosa che negli ultimi giorni non riuscivo a fare spesso. Ad ogni passo mi sentivo sempre più libera come se potessi andare ovunque solo se l’avessi voluto, ma mano a mano mi avvicinavo alla scuola il peso nel petto ricominciava a crescere ricordandomi quanto odiassi quel posto ed ogni persona che c’era al suo interno. Il più delle volte mi domandavo come tanta gente così falsa potesse ritrovarsi tutta nello stesso posto, ma poi, nei giorni in cui mi sentivo particolarmente comprensiva, pensavo che dopotutto la falsità era una forma di difesa come un’altra: una specie di scudo che si usava per prevenire che la gente usasse la tua stessa arma nei tuoi confronti. E chi poteva giudicarli? Di certo non io. Arrivai a scuola in anticipo ma già c’era un po’ di gente, dato che avevo tempo trovai un posto isolato e fuori dagli sguardi altrui, poi presi le sigarette e ne accesi una; non fumavo molto, solo nei momenti in cui volevo perdermi nei miei pensieri e dimenticarmi del mondo e questo era decisamente uno di quei momenti. Non mi importava se il piccolo oggetto che tenevo tra le dita un giorno, lontano o meno, mi avrebbe uccisa, prima o poi sarei dovuta morire anche io, quindi che differenza faceva il modo in cui accadeva? Ormai anche se respiravo ancora mi sentivo morta, morta dentro, e questo nessuno avrebbe potuto cambiarlo:
- Vedo che qualcun altro ha scoperto questo posto –
Non avevo sentito arrivare nessuno, eppure qualcuno alle mie spalle aveva parlato, una voce sconosciuta che mi aveva fatto venire un brivido lungo la schiena; mi voltai e vidi un ragazzo alto con i capelli mossi e castani, gli occhi verdi ed interamente vestito di nero:
- Non sapevo fosse tuo, me ne vado subito – cominciai a raccogliere la mia borsa ma il ragazzo si avvicinò e si sedette accanto a me.
- Non ti ho detto di andare via – mi voltai a guardarlo – Me ne offrì una – disse indicando con un cenno della testa il pacchetto che avevo in mano, io senza dirgli niente glielo porsi e lui ne prese una – Ti ringrazio – se la mise tra le labbra, poi l’accese – Qual è il tuo nome? -
- Axel –
- Piacere mio, io sono Ryan –
- Sei nuovo anche tu, vero? – domandai con un leggero sorriso.
- Come hai fatto a capirlo? – ridacchiò mentre dalle labbra gli uscivano dei leggeri sbuffi di fumo.
- Non ti ho mai visto in giro – alzai le spalle.
- Tu sei di qui? –
- No, mi sono trasferita qui qualche settimana fa da New York, tu da dove vieni? – chiesi mentre aspiravo altro fumo dalla sigaretta.
- Anche io da New York – sorrise ed io ricambiai.
- È piccolo il mondo delle volte -
- Già… - mi sorrise – Come mai sei qui tutta sola? –
- Perché non mi piacciono le persone che ci sono qui, si credono di essere tutte migliori di chiunque altro ma invece sono solo tante facce anonime –
- Già, l’ho notato – sorrise amaramente guardando a terra – Ti lanciano solo merda addosso –
- Esatto – annuii – Delle volte mi piacerebbe andar via, lontano, magari in un posto isolato dove non sia costretta a fingere di essermi adattata a questo schifo –
- Non è affatto male come idea, sai? –
- Ti ringrazio -
- E non è che c’è spazio anche per me nel tuo piano? – domandò inarcando le sopracciglia e sorridendo.
- Per ora no, senza offesa ma non ti conosco ancora – presi la mia borsa e mi alzai mentre lui rimase ancora lì a fissarmi incuriosito.
- Allora rimedierò a questa mancanza –
- Vedremo Ryan, vedremo – sorrisi e mi incamminai verso l’entrata.
La giornata passò lentamente come al solito tra le parole noiose degli insegnanti e la mia poca voglia di far parte del mondo in quel momento della giornata. Il mio pensiero volò inconsapevolmente verso Ryan, fino ad ora era l’unico in quella scuola che la pensasse come me, forse per la prima volta avrei trovato un amico e non sarei stata più sola in questa giungla. Quando giunse l’ora di uscita presi le mie cose e mi diressi verso il corridoio gremito di studenti che spingevano per passare, raggiunsi l’armadietto e lo aprii per fare il cambio dei libri quando ad un tratto sentii qualcuno bussarmi sulla spalla e mi voltai:
- Cosa vuoi Max? –
- Ciao anche a te raggio di sole! – ridacchiò – Stavo pensando a quale fortuna avevi a vivere in una casa così famosa –
- Se vuoi puoi trasferirti lì – mi voltai e chiusi l’armadietto di scatto mentre stavo per perdere la pazienza.
- Non così in fretta raggio di sole! – mi sbarrò la strada e sogghignò – Perché non ti fermi un po’ con noi? I miei amici ci aspettano fuori –
- No, grazie non mi va – cercai di oltrepassarlo ma mi bloccò nuovamente, iniziavo a perdere la pazienza.
- Su, andiamo, sai che ho scoperto cosa ti è successo nella vecchia scuola? Non vorrai che tutti lo vengano a sapere – sorrise nuovamente con quel ghigno malefico.
Era impossibile che sapesse, nessuno, a parte il preside ne era a conoscenza nell’istituto. Allora perché Max appariva così sicuro di se? Strinsi le mani a pugno per la rabbia ed iniziai a tremare:
- Non ti credo, stai dicendo solo un mucchio di stronzate! Ed ora lasciami andare –
Per l’ennesima volta cercai di oltrepassarlo, ma mi prese per un braccio impedendomi di andare oltre; aveva una presa d’acciaio e cominciava a farmi davvero male, tutti quelli nel corridoio sembravano non essere interessati:
- Mi pare che ti abbia detto di lasciarla andare – Ryan…
- E tu chi sei? –
- Quello che ti spaccherà la faccia se non fai come dico! –
La sua voce era ferma e roca che spaventò anche me, Max lasciò andare la presa poi mi guardò con disprezzo e se ne andò lasciandomi lì con la paura che avesse veramente scoperto tutto:
- Stai bene? – mi domandò Ryan.
- Si ti ringrazio – risposi mentre mi riscuotevo pian piano dall’intorpidimento legato al viscido terrore che era comparso dentro di me.
- Che voleva quel tizio? –
- Niente – mentii.
- Non sembrava niente – insistette mentre aggrottava le sopracciglia e mi guardava preoccupato.
- Non sono cose che ti riguardano ed ora scusami ma devo tornare a casa –
Mi voltai e mi incamminai verso il cancello. Forse avevo esagerato, dopotutto lui si era comportato bene con me, ma al momento ero troppo impegnata a pensare ad altro: e se Max fosse riuscito a scoprire perché mi avevano cacciato dall’altra scuola? Sicuramente lo avrebbe detto a tutti e poco importava che io dessi la mia versione o meno, nessuno mi avrebbe ascoltata. Cercai di non pensarci ed alla fine decisi di aspettare, magari era solo un colpo basso per intimorirmi, si, doveva trattarsi di quello. Quando giunsi davanti casa mia mi sentii leggermente sollevata, entrai e mi beai della pace che regnava lì dentro; mia madre era ancora al lavoro mentre mio padre era sicuramente chiuso nel suo studio. Andai da lui e trovai le porte accostate e da dentro delle voci parlare, bussai ed aspettai:
- Avanti - aprii una delle porte e mi affacciai: era nel mezzo di una seduta e sapevo anche con chi. Tate era seduto di spalle e fissava davanti a se, credevo che dopo l’episodio di ieri mio padre si fosse rifiutato di aiutarlo ma fui contenta che non l’aveva fatto, forse avrebbe potuto aiutarlo come non sapeva fare con me - Axel ti serve qualcosa? – domandò.
- No, ero solo passata per avvertirti che ero tornata –
- Bene, ci vediamo quando ho finito. Per oggi ho altri due appuntamenti –
- Si, non preoccuparti, almeno aiuterai qualcuno che ne ha veramente bisogno – gli lanciai una frecciatina e richiusi la porta.
Passarono all’incirca venti minuti da quando ero salita in camera e nel frattempo l’unica cosa che avevo voglia di fare era rimanere sdraiata sul letto a fissare il soffitto; Tate non mi aveva salutata e capii anche il perché, la sua era una bella idea ma non sarebbe servita a rendere mio padre meno sospettoso anche se io sperai di si. Passarono altri dieci o quindici minuti quando sentii bussare al vetro della finestra, incuriosita mi voltai e vidi Tate in bilico sulla soglia che mi faceva segno di aprire; sbarrai gli occhi e corsi ad aprire il vetro, lui entrò con tranquillità come se fosse passato dalla porta principale mentre io non riuscivo a smettere di guardarlo con preoccupazione e stupore:
- Tu sei fuori di testa! – esclamai mentre richiudevo la finestra.
- Lo so – ridacchiò.
- Tate, non è divertente! – mi voltai verso di lui.
- Oh, andiamo! Un po’ lo è stato, ammettilo – sorrise.
- No! Ti saresti potuto fare veramente male! –
- Ti preoccupi per me ora? – domandò avvicinandosi lentamente verso di me.
- Lasciamo stare – sospirai e mi passai una mano nei capelli – Comunque, pensavo che mio padre dopo ieri non ti avesse voluto più in cura –
- In realtà era così, poi gli ho promesso che non mi sarei più avvicinato a te e si è convinto – fece spallucce.
- Noto con piacere che mantieni le tue promesse – dissi con sarcasmo.
- Come se non fossi contenta di vedermi – si avvicinò ancora convinto delle sue parole e con un sorriso smagliante; amavo e odiavo questa caratteristica nelle persone.
- Dov’è ora mio padre? Perché non hai mai paura di essere sorpreso? –
- Sta ricevendo un altro paziente e non ho paura perché non ho niente da perdere –
- Ok… - risposi poco convinta.
- Com’è andata oggi a scuola? –
- Non mi lamento – feci spallucce – C’è un nuovo ragazzo però –
- Ah si? –
La sua espressione cambiò radicalmente, ora sembrava più attento ed interessato alla conversazione; aveva uno strano sguardo con un luccichio negli occhi che non gli avevo mai visto prima. Continuava a guardarmi come se stesse cercando di comunicarmi qualcosa; la sua mente vagava all’impazzata, potevo notarlo dalla sua espressione concentrata; cos’era che ora lo turbava? :
- Si… - risposi alla sua domanda con cautela, poi continuai – Si chiama Ryan e non è male come persona –
- Axel non devi fidarti, non devi fidarti di nessuno te l’avevo detto – disse quasi implorandomi.
- Tate lui è diverso, è il primo dentro quella scuola a pensarla come me –
- No, no, no… - scosse la testa – Non devi cadere nella sua trappola! –
- Tate, ma che… - sussurrai.
Dovevo ammettere che mi stavo preoccupando. Sembrava che il panico e la paura si fossero impadroniti di lui; si guardava attorno con gli occhi sbarrati e le mani chiuse a pugno, era come se stesse pensando a qualcosa ma doveva farlo in fretta. Che gli prendeva? Era per qualcosa che avevo detto? Forse si trattava di Ryan, si, era quello il problema, ma perché? :
- Ti porterà via da me! – disse in tono disperato.
Si girò a guardarmi e vidi che la disperazione non era solo nella sua voce ma anche stampata sul suo volto, gli occhi si erano arrossati segno che stava per piangere, poi si voltò nuovamente e cominciò a fissare un punto impreciso sul pavimento; vederlo così mi provocava delle strane emozioni ma al tempo stesso non poteva proibirmi di farmi nuove amicizie, di costruirmi una nuova vita e magari di sentirmi un po’ più felice. No, non poteva. Lui non era nessuno per impedirmelo:
- Tate, smettila! – alzò nuovamente lo sguardo su di me; nei suoi occhi c’era tanta rabbia ed altrettanta paura. Mi avvicinai e gli presi il volto tra le mani e lo guardai con fermezza – Perché fai così? -
- Axel, non fidarti! Ti farà del male, perché non lo vuoi capire! –
- No, non succederà, oggi mi ha perfino difesa da uno dei bulli della scuola – sospirai
Scosse nuovamente la testa, poi tolse le mie mani dal suo volto per stringerle tra le sue; teneva la testa bassa mentre giocherellava con le mie dita, sembrava che si fosse calmato un po’ e lo sperai con tutta me stessa perché iniziai veramente a spaventarmi. Capivo perfettamente che Tate era un ragazzo solo e che non si trovava bene con gli altri, ma questa paura che potessero portarmi via da lui, da una persona che conoscevo a malapena, era assurda:
- Solo io posso proteggerti… - disse con un sussurro mentre catturava nuovamente il mio sguardo nel suo – Nessuno è in grado di farlo – una lacrima gli scese lungo la guancia ed involontariamente qualcosa si incrinò dentro di me.
- Allora torna a scuola - Sussurrai - Se sei così sicuro che Ryan possa farmi del male torna per proteggermi –
- Non posso…  - scosse la testa e strinse di più le mie mani – Non sai quanto lo vorrei –
- Perché non puoi?! Diamine Tate, non mi dici nulla su di te e pensi che io possa fidarmi! – mi liberai dalla sua stretta e la disperazione nei suoi occhi aumentò.
- Mi dispiace Axel ma non sei ancora pronta per sapere –
- Sapere cosa? – non ci stavo capendo più nulla, forse mio padre aveva ragione stavolta, Tate era pericoloso – Lo sai che ti dico? Non mi interessa – scrollai le spalle e scossi la testa – Mi dici di non fidarmi degli altri quando non so nulla su di te, dici che sono in pericolo ma non hai il coraggio di venir fuori a difendermi. Le tue sono solo parole… -
- No, Axel, ti prego credimi! –
Stavo per voltarmi dandogli le spalle ma lui me lo impedì bloccandomi per un braccio; lo guardai dritto negli occhi e, come ogni maledetta volta che lo facevo, mi persi lì dentro mentre cercavo di capire cosa lo tormentasse a tal punto da renderlo così disperato. Non lo conoscevo eppure mi preoccupavo, avevo paura che ciò che lo tormentava, qualsiasi cosa fosse, potesse prendere il controllo su di lui e sovrastarlo e non era una cosa piacevole visto che era successo anche a me:
- Adesso è meglio che vai – presi la sua mano e la tolsi dal mio braccio, quel gesto sembrò ferirlo ancora di più.
- Non mandarmi via – gli tremò la voce mentre lo disse – Tu hai bisogno di me –
- Basta Tate, tu non sai nulla su di me, non sai di cosa ho bisogno, non lo so nemmeno io! – dissi esasperata – Tu hai bisogno di aiuto ma non da me, mio padre avrà anche i suoi difetti ma il suo lavoro lo sa fare, lui può aiutarti, non io, devi capirlo! Da me non riceverai niente, niente di buono almeno, dato che sono la prima ad essere difettosa! Io non… –
La frase rimase in sospeso. Tate mi prese la testa tra le mani e si avvicinò colmando così la distanza tra di noi poi accadde tutto nel giro di pochi secondi senza che io me ne rendessi conto: le sue labbra erano sulle mie e si muovevano dolcemente ma al tempo stesso con disperazione, come se avesse un forte bisogno di sentire e appartenere a qualcosa. Rimasi immobilizzata da quel gesto inaspettato, non sapevo cosa fare e come muovermi, sembrava tutto così surreale che non mi sarei stupita se fosse stato un sogno. Ma non lo era. Tate era veramente qui e mi stava baciando con tutta la disperazione che serbava dentro di se da chissà quanto tempo. Era come se il tempo si fosse fermato e niente avesse più importanza, avere le sue labbra fresche e morbide contro le mie era una sensazione impagabile ma al tempo stesso sapevo che era sbagliato; Tate aveva bisogno di aiuto ed io, per quanto mi fossi affezionata a lui in questo poco tempo, non potevo darglielo. Mi staccai bruscamente da ed indietreggiai, lui cercò di afferrarmi nuovamente ma gli sfuggii; mi guardava con sguardo perso e ferito e diamine se non avrei voluto stringerlo a me ma non potevo, non ora almeno. Avevo bisogno di tempo per capire, era successo tutto così in fretta… e poi avrei dovuto parlare con mio padre e pregarlo di aiutare Tate meglio che poteva:
- Ti prego, va via… -
Dissi quelle parole con un nodo alla gola e le lacrime agli occhi, Tate annuì impercettibilmente e distolse lo sguardo puntandolo a terra, era stravolto e molto triste. Nonostante gli avessi detto di andare via qualcosa dentro di me sapeva che quella non era l’ultima volta che ci saremmo visti e avremmo parlato e dopotutto, anche se sapevo era sbagliato, non vedevo l’ora.

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Seven days without you ***


Saaaalvee!! Scusate l'attesa ma ho avuto un pò di cose da fare, comunque ecco qua il nuovo capitolo e buona lettura!!! 😁😉


Sette giorni. Erano passati sette lunghissimi maledetti giorni. Lo scandire del tempo sembrava essersi fermato da quando avevo detto a Tate di lasciarmi stare e da quel momento tutto ciò che era successo lo avevo preso come qualcosa di contorno, come se fosse lì solo per riempire un pezzo mancante. Sapevo che veniva ancora a casa mia per le sedute, o meglio, lo percepivo; era una cosa assurda, si, ma ogni volta era come se dentro si accendesse una lampadina che mi segnalava la sua presenza e costantemente dovevo lottare contro me stessa e la sensazione di correre da lui. In questa settimana le cose non erano cambiate più di tanto a parte il fatto che i miei cercavano di parlarsi di più senza urlare e fare più caso a me, ma tutto ciò mi riportò alla mente quando successe la stessa cosa a New York prima di trasferirci qui. Anche lì avevano cercato di cambiare ed avevano fallito miseramente. Stavolta, nonostante le mie aspettative, sperai sul serio che si sarebbe risolto qualcosa. A scuola le cose erano sempre uguali ma essendomi scusata con Ryan per come gli avevo riposto, ora almeno avevo qualcuno che mi faceva sentire meno sola; Max non mi dava quasi più fastidio e quando ci provava il mio nuovo amico era sempre lì per difendermi e in quei momenti cominciavo a chiedermi cosa ci fosse di sbagliato in me. Ryan era un bravo ragazzo, nel corso della settimana avevo imparato a conoscerlo meglio e scoprii che la mia opinione su di lui non era affatto sbagliata, ma nonostante tutto ciò in mente avevo un chiodo fisso: non era Tate. In fin dei conti, però, se non pensavo a lui potevo perfino definire questi giorni i migliori da tempo immane ma in me albergava la paura che presto sarebbero potuti finire, che mi sarei svegliata una mattina e mi sarei accorta che tutto questo non era nient’altro che uno stupido sogno prima dell’incubo del risveglio. Per questo non mi permettevo di essere felice più di quanto bastava per far credere, primi fra tutti ai miei genitori, che andava tutto bene cosicché da non averli costantemente con il fiato sul collo. Era un processo arduo visto che nonostante mi impegnassi con tutta me stessa mi sentivo sempre come se fossi sull’apice del baratro a pochi millimetri dal precipitare, così preferivo ignorare i miei sentimenti ed andare avanti a stenti. Di notte, se prima gli incubi mi concedevano qualche ora di sonno ora invece mi tenevano sveglia fino all’alba senza farmi riuscire a chiudere occhio anche solo per qualche minuto e presto quell’unica serata che avevo passato senza averne cominciò a sembrarmi solo un’allucinazione; la casa ultimamente aveva cominciato a scricchiolare di più e strani rumori facevano breccia dal nulla portandomi a controllare ogni volta tutta la struttura, gli sguardi che percepivo nel seminterrato ora mi seguivano anche nei piani superiori ma decisi di attribuire il tutto alla mancanza di sonno. Alla fine dopo tanto rigirarmi nel letto mi tirai su sedendomi a gambe incrociate a fissare la luce dei lampioni che si rifletteva sul vetro della finestra creando un’ombra sul pavimento; sospirai e mi passai le mani sul volto per tirare indietro i capelli, mi voltai verso la sveglia ed il display dalla luce verde segnava le 03:30 della mattina, perfetto ed ora che avrei fatto fino all’alba? Decisi di alzarmi e presi una felpa e la infilai sopra il top che avevo: nonostante fosse quasi la fine di ottobre e nonostante ci trovassimo a Los Angeles sembrava che la temperatura notturna si fosse abbassata di qualche grado; aprii la finestra e poggiai i gomiti sulla soglia guardando fuori. Il cielo era stellato senza nuvole di un blu scuro e profondo, la luna brillava maestosa irradiando la sua luce argentea sul quartiere tingendo tutto di una leggera sfumatura biancastra; a quest’ora il centro si era animato già da qualche ora. Me lo immaginavo, con le sue luci, la musica ad alto volume, i bar, le discoteche e la folla che li riempiva. Sembrava come se la città fosse divisa in due: da un lato c’era la parte sempre attiva e vitale e dall’altra quella tranquilla e silenziosa dei quartieri più in periferia. Come le due parti che abitavano in me. Due facce della stessa medaglia. Solo che già da un po’ di tempo una aveva presa il sopravvento sull’altra e non c’era neanche bisogno di spiegare quale; la strada era deserta, solo di tanto in tanto una macchina di passaggio la illuminava con i fari per qualche secondo per poi farla tornare nuovamente sotto la protezione mistica della luce lunare. Sentii nuovamente dei rumori ma non mi scomodai ad andare a vedere, mi limitai a chiudere la finestra e sedermi nuovamente sul letto poggiando la schiena contro la spalliera e, consapevole che non potevo dormire, accesi la lampada vicino il letto e prendendo il libro che avevo sul comodino lo aprii a dove mi ero fermata l’ultima volta e ripresi a leggere. Avevo letto questo libro minimo dieci volte, ma non mi stancavo mai, ogni volta mi dava nuovi insegnamenti, il libro in questione era uno di Jack Keurac “Sulla Strada” per precisare. Avrei voluto anche io fare un viaggio on the road dimenticandomi di tutto e partire all’avventura con niente di certo davanti ma con la consapevolezza che mi avrebbe aiutata a trovare me stessa. Il mio era un profondo desiderio di fuga ma sapevo perfettamente che scappare non serviva a nulla, tanto i problemi mi avrebbero aspettata al mio ritorno e sarebbero stati anche più grandi e difficili da risolvere. La mattina finalmente arrivò ed io nel frattempo avevo nuovamente terminato il libro; arrivata l’ora di prepararmi per la scuola mi alzai di malavoglia ed andai a farmi una doccia rilassante che mi rigenerò un po’, mi guardai allo specchio e notai le occhiaie che cominciavano a formarsi sotto i miei occhi, avevo dimenticato questo effetto collaterale e non era decisamente bello a vedersi visto che mi dava un’aria abbastanza malaticcia. Mi sistemai al meglio e poi andai a vestirmi prendendo degli skinny neri strappati, degli anfibi altrettanto neri con una t-shirt dei Nirvana e sopra una camicia di tartan; quando scesi di sotto la luce proveniente dalla vetrata in salotto mi abbagliò portandomi a coprire la visuale con una mano, raggiunsi la cucina e vi trovai entrambi i miei genitori: mio padre leggeva il giornale mentre sorseggiava del caffè mentre mia madre controllava il suo programma giornaliero a scuola. Alzai le sopracciglia e sospirai esasperata per la scena da film che avevo davanti mentre mi sedevo davanti alla mia fumante tazza di thè:
- Buongiorno tesoro – disse mio padre mettendo da parte il giornale per guardarmi con un sorriso.
- ‘Giorno – risposi bofonchiando.
- Hai dormito bene? – domandò mia madre.
Ma stava scherzando? Si vedeva chiaramente che erano giorni che non dormivo. O forse semplicemente lo ignorava, come del resto tutto quello che mi riguardava:
- Oh, si benissimo! – risposi con una nota di sarcasmo che evidentemente non notarono.
- Bene – sorrisero entrambi.
- Che programma hai per oggi? – domandò mia madre a mio padre fingendo di interessarsi.
- Inizio alle nove con qualche paziente – rispose lui senza neanche voltarsi a guardarla – Dovrei finire per pranzo –
- Vedrai Tate oggi? – chiesi a voce bassa mentre fissavo il liquido nella mia tazza.
- Cos’hai detto cara? – quell’affermazione mi fece scappare una risata irritata.
- Hai capito benissimo – alzai lo sguardo verso di lui.
- Axel, non ti deve interessare di quel ragazzo – rispose lui con un sospiro che nascondeva un po’ di irritazione abbassando nuovamente lo sguardo sul giornale.
- Ti ho solo fatto una domanda – insistetti – Mi hai proibito di vederlo e sto mantenendo la promessa ed anche lui, quindi chiederti solo se continua la terapia non ci vedo nulla di male –
- Si verrà – sospirò – Sarà il primo appuntamento –
- Lo hai fatto apposta perché io a quell’ora non sono in casa – non era una domanda ma un’affermazione.
- Axel… - mi richiamò mia madre.
- Tranquilla mamma non ho intenzione di litigare – tornai a bere il mio thè mentre entrambi mi osservavano con uno strano sguardo dipinto sul volto.
- Perché ti interessa tanto di quel ragazzo tesoro? – domandò gentilmente mia madre.
- Vorrei solo che stia meglio, tutto qui – terminai guardando verso mio padre.
- È un bel pensiero –
Non risposi. Mi alzai posando la tazza nel lavello, poi accennai un mezzo saluto ed uscii dalla cucina. Prima di uscire presi la tracolla e mentre stavo per aprire la porta ed andar via entrò Moira:
- Buongiorno Moira – la salutai con un sorriso sincero.
- Buongiorno mia cara – sorrise – Esci di già? –
- Si, preferisco essere in orario. Ci vediamo quando torno –
Uscii chiudendomi la porta alle spalle e cominciai ad incamminarmi verso la scuola con le mani in tasca e le cuffie con la musica nelle orecchie. Quella mattina non avevo voglia di pensare, così spensi il cervello per un po’ e mi concentrai sulla musica e sulle parole della canzone:

When you're strange
Faces come out of the rain
When you're strange
No one remembers your name
When you're strange

Mi rispecchiavo perfettamente in quelle parole. Era proprio così che mi sentivo quando ero in mezzo alla gente. Arrivai a scuola con qualche minuto di anticipo e mentre avanzavo a passo lento verso l’entrata guardavo la corrente di ragazzi e ragazze che mi passava affianco senza neanche notare la mia presenza; all’improvviso mentre ero concentrata sul flusso dei miei pensieri sentii un braccio circondarmi le spalle e l’improvviso contatto mi fece sobbalzare:
- Buongiorno Axel! –
- Cavolo Ryan, mi hai spaventata! –
Lui ridacchiò ed ai lati delle guance spuntarono due piccole fossette. Ryan aveva un sorriso allegro e malizioso al tempo stesso ed in questa settimana ci eravamo avvicinati quel tanto che bastava da considerarci amici; tolsi le auricolari e le rimisi in borsa:
- Scusa – sorrise dandomi una piccola spinta amichevole.
- Stamattina sei piuttosto allegro –
- E tu strana – disse fermandosi davanti a me ed una volta che mi esaminò bene aggrottò la fronte perplesso – Che ti è successo? Hai una faccia! –
- Sempre gentile, eh? – risposi sarcastica e con un mezzo sorriso.
- Dai, lo sai cosa volevo dire! – diventò serio improvvisamente – Che hai? –
- È un paio di giorni che non riesco a dormire – sospirai distogliendo lo sguardo dal suo.
- Come mai? –
- Non lo so… - mentii.
Mi voltai a guardarlo nuovamente e lo trovai a scrutarmi con attenzione come se fosse poco convinto delle mie parole, poi rilassò le spalle ed infilando le mani nelle tasche dei jeans strappati mi guardò come se fossi una bambina colta a rubare caramelle dai genitori:
- Axel – trattenne una risata – Non dirmi cazzate, dai! –
- Mi capita di avere degli incubi, ok? – sbuffai riprendendo a camminare con lui che mi seguiva.
- Beh li avrei anche io se vivessi in quella casa! – rise.
- Anche tu con questa storia! La casa non centra nulla – alzai gli occhi al cielo – Ne soffrivo già anche quando ero a New York – feci spallucce.
- Oh, scusa, non lo sapevo - rispose imbarazzato.
- Non importa – feci una pausa, poi ripresi – Andiamo in classe, forza – gli sorrisi e trascinandolo verso l’entrata ci dirigemmo verso la nostra aula.
La mattinata trascorse tra il lento scorrere delle ore e le piccole risate che Ryan di tanto in tanto riusciva a strapparmi; era decisamente un bravo ragazzo ed un buon amico, l’unico che avessi avuto da… da sempre credo. Con lui vicino ero certa che sarei stata al sicuro. Non sapevo spiegare con precisione ciò che percepivo quando ero in sua compagnia, ma fatto sta che mano a mano, solo grazie alla sua presenza, la scuola non mi sembrava più un posto tanto orribile. Ryan era più grande di due anni, infatti mi spiegò di essere stato bocciato due volte per il numero di assenze che aveva fatto perché era “annoiato dalla scuola e da ciò che si faceva lì “(parole sue). Anche a me la scuola per la maggior parte del tempo faceva quell’effetto ma con due genitori come i miei non potevo di certo permettermi il lusso di fare come lui, anche se mi sarebbe piaciuto. Ogni volta che passavo per i corridoi e mi capita a di incontrare Max, lui mi guardava dall’alto in basso con un sorriso diabolico sul viso; non avevo più ricevuto minacce da parte sua nell’ultima settimana, ma ciò non toglieva che il pensiero mi tornasse a ciò che mi aveva detto e questo bastava per mettermi in allarme. A Ryan non avevo detto nulla nonostante mi facesse sempre la stessa domanda da giorni. Non è che non mi fidassi, anzi, cominciavo a lasciarmi andare un pochino di più ogni volta cominciando ad abbassare le difese che avevo innalzato attorno a me con il tempo, il “problema” era un altro: Non avrebbe capito. Ma nonostante Ryan riusciva a tenermi la mente impegnata per qualche ora non potevo evitare di pensare a Tate. Guardai l’orologio appeso al muro bianco, ormai rovinato, della classe, le lancette segnavano le 10:45. A quest’ora aveva già finito da un pezzo la terapia con mio padre. Avrei voluto rivederlo. Era come se fosse una necessità, una piccola richiesta egoistica che mi tormentava per tutto il giorno, tutti i giorni, nonostante la parte razionale del mio cervello sapesse che era profondamente sbagliato. Quando suonò la campanella che segnava la fine della giornata feci un grosso sospiro di sollievo e con un leggero sorriso cominciai a sistemare le cose in borsa per poi uscire dall’aula a passo spedito; vicino l’uscita incontrai Ryan che mi aspettava:
- Com’è andata quest’ora senza di me? – mi domandò.
- Noiosa – feci spallucce – Non vedo l’ora di tornare a casa, sono esausta – dissi passandomi una mano nei capelli.
- Dovresti prenderti qualcosa che ti aiuti a dormire, non puoi andare avanti così –
- Vedremo – sospirai – Ne parlerò con mio padre. È il suo lavoro risolvere i problemi mentali della gente – riposi con un po’ di sarcasmo.
Dopo aver salutato Ryan mi incamminai verso casa con nuovamente la musica nelle orecchie a farmi compagnia, questo era il mio modo di rilassarmi ed uscire temporaneamente fuori dalla realtà ed entrare in un universo parallelo tutto mio. Quando mi chiusi la porta di casa dietro le spalle tirai un sospiro di sollievo. Nonostante tutto questa casa mi faceva sentire al sicuro. Mia madre era ancora al lavoro mentre mio padre era in studio, potevo sentire la sua voce assieme a quella del suo paziente; poggiai la borsa accanto la porta e prima che salissi le scale sentii un rumore ed un ombra provenire dalla cucina. Deglutii rumorosamente ed il mio battito cardiaco aumentò, sbattei le palpebre un paio di volte e a passo lento mi diressi verso la cucina; chi poteva essere? Mi stava venendo una paura matta ma al tempo stesso una strana curiosità mi spingeva ad andare avanti. Lentamente iniziai a mettere un piede davanti l’altro cercando di fare il meno rumore possibile e nella mia mente cominciai già a pensare il peggio, avrei voluto chiamare mio padre ma qualcosa mi bloccava la voce, forse era la paura. Quando arrivai all’angolo della porta della cucina socchiusi gli occhi e presi un bel respiro, poi facendomi coraggio entrai e ciò che trovai mi sorprese non poco. Davanti a me c’era una ragazza non molto alta che aveva sicuramente la sindrome di down, i suoi capelli erano marrone scuro lunghi fino alle spalle, decorati da un cerchietto bianco con un piccolo fiocco mentre per il resto aveva un vestito azzurro a maniche corte con delle ballerine nere. Mi guardava con quello sguardo interrogativo e lentamente sulle labbra sottili le comparve un sorriso alquanto inquietante; non credevo che mi stessi immaginando tutto era fin troppo reale, ma chi era quella ragazza? Cosa voleva? E soprattutto come aveva fatto ad entrare? :
- E tu chi sei? – le domandai alzando un sopracciglio.
- Non sarai mai felice qui dentro – rispose con una voce quasi allegra che in confronto a ciò che disse mi fece venire un brivido d’orrore lungo la schiena.
- Come scusa? –
Mi avvicinai, lei cacciò un risolino quasi isterico e corse attorno all’isolotto della cucina facendo cadere un bicchiere ed io sobbalzai; si fermò improvvisamente e ricominciò ad osservarmi con quello sguardo vacuo e smarrito, poi fu come si risvegliò da una catalessi e cominciò ad agitarsi:
- Mi, mi dispiace! Non volevo! – disse rivolgendosi al bicchiere che era caduto chinandosi per raccogliere i pezzi.
Sbattei le palpebre e mi avvicinai inginocchiandomi accanto a lei per aiutarla e cercare di tranquillizzarla:
- Non importa, davvero, tranquilla – cominciai a raccogliere i frammenti di vetro dal pavimento e li poggiai sulla cucina, poi mi voltai verso di lei e le sorrisi ricevendone uno anche io da parte sua.
Mentre cercavo di ripulire sentii dei passi frettolosi entrare in cucina:
- Axel, cosa è successo? – domandò mio padre – E chi è questa ragazza? –
- Tranquillo è solo caduto un bicchiere – mi voltai verso di lui e mi alzai, poi guardai nuovamente la ragazza che nel frattempo faceva roteare lo sguardo in tutte le direzioni incuriosita e quando tornai a posare gli occhi su mio padre scrollai le spalle – Non lo so, quando sono entrata era già qui –
- Come ti chiami? – le domandò mio padre.
- Non te lo dico – rispose ridendo mentre si dondolava sulle punte dei piedi avanti e indietro.
Mio padre sospirò e mentre stava per parlare nuovamente sentii altri rumori provenire dal corridoio vicino il seminterrato e poco dopo una signora alta e con i capelli biondi entrò nella nostra cucina con un’espressione agitata ed innervosita al tempo stesso, ma che diamine stava succedendo? Ci guardò di sfuggita, poi il suo sguardo si spostò sulla ragazza e sopirò come sollevata:
- Adelaide! – le si avvicinò con fare urgente ed indispettito – Che ci fai qui!? –
- Si può sapere cosa sta succedendo in casa mia? – domandò mio padre infastidito.
- Oh, mi scusi signor… - si interruppe.
- Knight –
- Le faccio le mie scuse per l’irruzione di mia figlia, sa, non riesco sempre a starle dietro –
- Va bene ma si assicuri che non succeda più –
- Ci proverò, ma fin da quando ci siamo trasferiti qui Adelaide ha sempre avuto una strana ossessione per questa casa – disse guardandosi attorno.
Nel mentre di tutta questa assurda situazione sentimmo aprirsi la porta principale e poco dopo mia madre si ritrovò in cucina con due persone a lei estranee ed una espressione altrettanto perplessa sul viso mentre faceva vagare lo sguardo tra mio padre e la signora bionda:
- Abbiamo ospiti? –
- Lei deve essere la signora Knight – si avvicinò a mia madre – È piacere conoscerla –
- E lei chi è? –
- Che sbadata non mi sono neanche presentata! Sono Costance la vicina e questa è mia figlia Adelaide –
- Che si è intrufolata in casa nostra – aggiunse mio padre.
- Come? – chiese mia madre aggrottando la fronte perplessa.
- La porta del seminterrato – rispose Costance – Non vi siete accorti che ha la serratura rotta? –
- La faremo controllare allora – annuì mia madre.
- Bene, mi avrebbe fatto piacere conoscervi in una situazione differente, ma ahimè, questa peste – fece un cenno verso la figlia – Non mi fa respirare un secondo – fece spallucce mentre si sistemava con una mano la complicata acconciatura.
- Beh è il lavoro di noi genitori seguire i nostri figli –
Mi voltai verso mia madre con le sopracciglia inarcate dallo stupore. Davvero lei si definiva una persona dedita a sua figlia? O lo stava dicendo tanto per vantarsi che io, pur se problematica, almeno non mi intrufolavo in casa d’altri? Beh se era così fu davvero una bassezza da parte sua:
- E questa deve essere la vostra cara figlia – Costance si avvicinò a me con un sorriso sul volto che sicuramente non gli apparteneva dato che con lo sguardo mi scrutava da capo a piedi come se mi stesse studiando o giudicando; mi sentii a disagio ma cercai di non mostrarlo. Questa donna non era il massimo della normalità – Qual è il tuo nome, cara? –
- Axel – risposi con tono deciso che non faceva trasparire alcuna emozione.
- Un nome davvero bello per una ragazza che lo è altrettanto – allargò ancora di più il sorriso mentre con una mano mi sistemò una ciocca dietro l’orecchio sinistro facendomi percepire qualcosa di strano con quel contatto.
- La ringrazio –
- Bene Costance – intervenne mia madre – Non vorremmo essere scortesi ma abbiamo molte cose da fare –
- Certamente cara, non preoccuparti, sono certa che ci sarà l’occasione di rivederci molto presto –
- Ne sono sicura – annuì mia madre con l’espressione, che ormai conoscevo bene, di chi sperava il contrario.
- Andiamo Adelaide, saluta, da brava –
Prese la figlia per mano e la condusse verso la porta d’entrata e mentre mi passarono accanto la ragazza mi sorrise ed io ricambiai:
- Ciao, Axel –
- Ciao –
Una volta che si chiusero la porta alle spalle mi voltai nuovamente verso i miei genitori che si guardarono come chi non aveva una minima idea di ciò che era appena accaduto, poi mia madre sospirò e mentre si toglieva il cappotto disse:
- La prima cosa che faremo domani è far sistemare quella serratura, non voglio trovarmi di nuovo quella ragazza che gira in casa nostra –
- Per non parlare della madre – aggiunse mio padre alzando le sopracciglia.
- Dopotutto non ha fatto nulla di male – dissi alzando le spalle.
- Beh resta il fatto che non la voglio in casa mia – insistette lei – Sono inquietanti entrambe –
Dopo lo strano incontro pranzammo tutti assieme e stavolta i miei genitori si sforzarono di iniziare una conversazione che andava oltre il << Come andata oggi al lavoro? >> e << Hai impegni per il pomeriggio? >> chiedendo anche a me di partecipare raccontando la mia giornata. Mi sentivo strana e a disagio nel farlo visto che era la prima volta che si interessavano a qualcosa che facevo, quindi semplicemente liquidai la loro domanda con la classica risposta di ogni studente:
- Non è successo niente di particolare –
- Non ti sei ancora fatta degli amici? – domandò mio padre.
Alzai lo sguardo dal piatto e lo puntai su entrambi. Ma perché dovevano farmi tutte queste domande? Perché interessarsi solo ora? Di certo così non rimediavano agli errori fatti in passato ma evidentemente loro la pensavano in modo diverso. Li osservai senza dir nulla mentre aspettavano una risposta; di certo non gli avrei parlato di ciò che mi succedeva, o almeno non ancora, dovevano prima riconquistare la mia fiducia:
- Perché vi interessa? –
- Perché ci preoccupiamo per te –
- Potevate farlo prima, ci saremmo risparmiati molti drammi –
- Stiamo cercando di rimediare Axel – disse mia madre – Ma se tu non ci dai una possibilità come possiamo farlo? –
Li guardai nuovamente: ero indecisa se fidarmi o meno. Avevo paura che mi avrebbero deluso di nuovo ed essere ignorata dai propri genitori è la cosa più brutta che possa accadere a qualcuno; ma, anche se aveva ragione, ancora non ero del tutto convinta, quindi accennai solo una piccola parte:
- Ci sto provando – sospirai – Odio quella scuola, ma ci sto provando… -
- Ci fa piacere tesoro – sorrise mio padre.
Dopo il pranzo e l’imbarazzante modo dei miei di interessarsi alla mia vita mi chiusi in stanza mentre mio padre riceveva altri pazienti e mia madre progettava di rinnovare l’arredamento di alcune stanze della casa. Quando mi chiusi la porta alle spalle andai a sedermi sul letto con alcuni libri di scuola in mano e cominciai a studiare almeno un po’. Stavolta volevo davvero impegnarmi, anche se la scuola e chi la frequentava non mi piaceva, avrei voluto dimostrare a me stessa che non ero solo uno scarto della società ma che valevo qualcosa e che se ne avevo voglia sapevo come impegnarmi ed ottenere risultati appaganti. Una seconda opportunità. Era così che mi sforzavo di vedere tutto ciò, un modo per ricominciare e riprendere in mano la mia vita. Delle volte era proprio così che la pensavo, da ottimista, ma sapevo benissimo che in quei momenti non ero io a parlare ma il riflesso della figlia perfetta che avrebbero voluto i miei genitori. E presto tornavo in me. Tornavo ad essere la ragazza cronicamente depressa e disinteressata nei riguardi di quello che le accadeva intorno. Odiavo i miei sbalzi d’umore, odiavo dover mentire a me stessa quando mi ripetevo che “sarebbe andato tutto bene”, quando evidentemente sapevo che non era così. In più ci si metteva la privazione del sonno che se sarebbe continuata avrebbe messo seriamente a rischio la mia sanità mentale già per metà compromessa per quello che succedeva in questa casa. Richiusi i libri scolastici e li accantonai sopra la scrivania, poi mi distesi sul letto ed incominciai a fissare il soffitto come se attendessi una risposta per tutto quello che mi stava accadendo e che non sapevo gestire. Non so quanto passò se cinque minuti o cinque ore, fatto sta che in quel piccolo frangente del mio mondo lo scorrere del tempo non aveva importanza, tutto era fermo e privo di movimento, tutto era sotto il mio controllo. Forse era questa la causa principale dei miei problemi: l’aver perso il controllo su me stessa. Era come se mi fossi persa in una specie di limbo dal quale non si poteva far ritorno; anni fa mi costruii un limite da non superare mai in modo tale da consentirmi sempre un modo per fuggire, ma ora non ero più tanto sicura di aver rispettato le regole. Ero andata troppo in là. Avevo fatto delle cose di cui mi ero pentita, degli errori commessi solo per disperazione ma che continuavo a ripetere e da quel punto di vista si trasformarono in abitudini. Malsane, si, ma pur sempre abitudini, pur sempre una parte di me. Sospirai guardandomi attorno; fuori mano a mano si stava facendo buio e tra poco il terrore avrebbe preso possesso di me impedendomi nuovamente di chiudere occhio. Improvvisamente percepii qualcosa di strano nella stanza, mi sentivo osservata ma sapevo che non c’era nessuno. Come poteva accadere dopo tutto? Eppure la sensazione non mi lasciava, persisteva e la sentivo scorrere su tutto il corpo ed insinuarsi sotto pelle; chiusi gli occhi e cercai di distogliere la mente da quella sensazione ma l’unica cosa alla quale mi venne da pensare fu quella donna, Costance, e sua figlia Adelaide. Fu uno strano incontro, ma ancor più strane furono le parole di quella ragazza << Non sarai mai felice qui dentro >>. Non riuscivo a togliermele dalla testa, come se fossero un oscuro presagio di ciò che mi avrebbe riservato il futuro; tentavo di non crederci ma qualcosa me lo impediva ed in quel momento la parte più remota della mia razionalità prese in considerazione l’idea che dopotutto quelle parole potevamo essere vere. Un’altra cosa che mi fece rimanere perplessa da quell’incontro fu proprio Costance. Quella donna aveva una strana aura che la circondava. Quel suo modo di guardare, soprattutto quando si era rivolta a me, che mi aveva messa in forte disagio. Era come se stava scavando fino ad arrivare nl profondo, assorbendo ogni dettaglio con quel suo sguardo impenetrabile ed in quel frangente percepii da parte sua come una certa ostilità mista al senso di disprezzo che solitamente si riserva alle persone indesiderate. Non mi mossi più dal letto neanche quando Moira mi venne a cercare per la cena, semplicemente mi scusai dicendo che ero troppo occupata con lo studio e fortunatamente nessuno mi venne più a cercare. Erano le 20:55 e davanti avevo una lunga nottata insonne fino al mattino e non sapendo come mantenermi occupata ripresi i libri scolastici dalla scrivania e stavolta cominciai a studiare sul serio. Passarono sicuramente molte ore e solo quando mia madre venne a bussarmi alla porta per augurarmi la buonanotte mi resi conto che avevo perso la cognizione del tempo:
- Ancora sveglia? –
- Che ore sono? – domandai sospirando mentre chiudevo il libro che avevo in mano.
- Quasi l’una – disse lei entrando e sedendosi di fronte a me.
- Non mi ero resa conto di quanto tempo fosse passato – dissi più rivolta a me stessa che a lei.
- Cosa c’è che non va? – mi chiese mentre poggiava una mano sul mio ginocchio.
- Sono solo stanca – non era una bugia, anzi, era la cosa più vicina alla realtà che le avessi mai detto da nemmeno ricordavo quando.
- È per via della scuola? –
- In parte – evitavo il suo sguardo nonostante lei continuasse a cercarlo; non le avrei permesso di guardarmi dentro, non ancora almeno.
- Ti va di parlarne? –
- No –
- Sicura? – insistette.
- Si, mamma – risposi con un sospiro esasperato – Sono solo stanca e vorrei riposare –
- Come vuoi tesoro, ma per qualsiasi cosa ci sono, ok? -
- Sei ancora poco credibile sai? – mi voltai a guardarla con astio. Davvero pensava che avrei cancellato così facilmente tutti gli anni in cui mi aveva ignorata?
Lei non disse niente e si limitò ad uscire. Mi sdraiai nuovamente mentre un sospiro mi usciva dalle labbra, avrei voluto crederle, davvero, lo desideravo con tutta me stessa ma c’era qualcosa che ancora me lo impediva ed io mi fidavo delle mie sensazioni. Il tempo passò così in fretta che neanche me ne accorsi e all’improvviso mi ritrovai a fissare la luce verde della sveglia per la decima notte di seguito; già erano dieci giorni che non riuscivo a chiudere occhio e mi sentivo veramente uno schifo come se fossi finita sotto un treno due volte. La parte più difficile era che i miei occhi bramavano di chiudersi ma la mia mente li costringeva a restare aperti e nonostante combattessi con tutta me stessa non riuscivo mai a vincere questa sfida. Ben presto la mente cominciò a vagare libera ed io la lasciavo fare e senza neanche rendermene conto all’improvviso mi ritrovai a pensare a lui: Tate. Dannazione, dovevo togliermelo dalla testa una volta per tutte, era sbagliato. Tutto lo era. Il pensare a lui, il solo immaginare il suono della sua voce, il suo volto che infestava i miei pensieri. No. Dovevo smetterla. Dopotutto ero stata io a mandarlo via quel giorno, ma ora come ora non potevo che chiedermi se avessi fatto la cosa giusta; avevo avuto paura di lui quel giorno non potevo negarlo, ma ripensandoci ora dopo giorni e giorni senza vederlo mi fece prendere in considerazione qualcosa alla quale prima non avevo pensato: Tate aveva solo bisogno dell’affetto di qualcuno. Perché avesse scelto proprio me ancora mi rimaneva oscuro, ma questa era una possibile risposta alla sua disperazione quando gli parlai di Ryan, si, doveva trattarsi di questo. Mi dispiaceva per la sua situazione complicata visto che io ne stavo vivendo una abbastanza simile, ma davvero credeva che qualcuno come me, così pessimista, cinica e danneggiata poteva salvarlo? No, non potevo. Continuavo a ripetermelo e ne ero consapevole, forse lo facevo solo per aiutare me stessa a crederci… in fin dei conti era un’opzione probabile. Ora la sveglia puntava le 02:20 ed io, stanca di pensare, mi alzai e come la notte precedente andai alla finestra e cominciai a guardare fuori nel tentativo di distogliere la mente da quei pensieri malsani; osservai il cielo ed anche oggi la luna era là, coperta solo da qualche piccola nube dalla quale filtravano i raggi argentei formando delle piccole scie di luce. Non so come ma in quel preciso istante lo sguardo mi cadde sul giardino della casa, a primo impatto non notai nulla ma poi una strana sensazione mi portò ad abbassare nuovamente lo sguardo e fu proprio in quell’istante che distinsi un ombra vicino l’albero al centro del giardino. Mi irrigidii di colpo sentendo che man a mano la paura si stava impossessando di me, ma nonostante il mio terrore non riuscivo a muovere neanche un muscolo o solo distogliere lo sguardo. Niente. Avevo paura ma ero inchiodata a quella figura come una calamita. Improvvisamente si mosse e ben presto la mia inquietudine si tramutò in una specie di curiosità; l’ombra intanto continuava ad avanzare a passo lento e quando fu sotto i raggi lunari lo riconobbi in un attimo: Tate. Era proprio lì, sotto la mia finestra e guardava verso di me. Era come se lo avessi chiamato, come se in quel momento condividessimo gli stessi pensieri. Scossi la testa e cercai di tornare alla realtà, cercai di ripetermi che era uno sbaglio e che la mente vedeva solo ciò che voleva vedere ma detestavo darmi della stupida da sola. Tate era lì, era reale e dovevo decidere cosa fare. Tornai a guardare verso di lui e notai un piccolo sorriso formarsi sulle sue labbra mentre mi faceva un cenno con la mano; che avrei fatto adesso? Mio padre mi aveva impedito di vederlo e per una settimana avevo mantenuto la promessa, ma adesso che Tate era proprio davanti a me le cose erano decisamente più difficili e di certo non potevo comportarmi da ipocrita fingendo che d’improvviso mi preoccupava infrangere una promessa fatta ai miei genitori solo perché si trattava di lui ed io non sapevo come gestire la cosa:
- Cosa ci fai qui? – gli domandai cercando di non farmi sentire troppo.
- Devo parlarti, per favore fammi salire –
- No, Tate, va a casa –
- Ti prego… -
Non riuscivo a vederlo in faccia ma dal tono che usò per pronunciare quella parola mi fece intuire la sua espressione, sicuramente ora i suoi occhi sarebbero stati colmi di speranza ma anche paura per un eventuale rifiuto e le sue mani sicuramente chiuse a pugno così forte da avere le nocche bianche perché era troppa la tensione e lui non riusciva a reggerla. Mi stupii di quanto lo conoscessi bene e ciò mi condusse a pormi una domanda: Ero anch’io un libro aperto per lui? Da un lato lo speravo, mentre dall’altro ne ero alquanto spaventata perché in quel caso avrebbe voluto dire che non ci sarebbe voluto molto prima che anche lui capisse che in fondo stargli accanto mi piaceva. Lo guardai ancora una volta, poi annuii mentre socchiudevo gli occhi come in segno di abbandono ad un desiderio che andava ben oltre la mia volontà; Tate sorrise e pian piano cominciò ad arrampicarsi sull’albero vicino la mia finestra finché non vidi spuntare la sua figura sul mio davanzale, poi con un piccolo salto entrò nella mia camera:
- Ciao – mi salutò con un piccolo sorriso.
- Ciao… - sussurrai – Allora, cosa volevi dirmi? –
- Volevo scusarmi per quel giorno, so che ti ho spaventata, ti assicuro che non era mia intenzione ma ho avuto paura – gli dispiaceva veramente, potevo sentirlo dal tono della sua voce.
- Paura di cosa? – domandai aggrottando le sopracciglia.
- Di rimanere nuovamente solo – sospirò avvicinandosi – Sei l’unica persona a cui tengo – i suoi occhi si stavano arrossando nuovamente e all’improvviso sentii una morsa al petto; non mi piaceva vederlo così... e poi le sue parole… sapevano sempre dove colpirmi.
- Non ha più importanza – scossi la testa
- Cos’hai? Sei strana… -
Cominciò a guardarmi intensamente nel tentativo di percepire qualcosa, ma io puntualmente evitavo il suo sguardo. In realtà non ne conoscevo il motivo, forse perché avevo paura che vedesse ciò che mi impauriva. Si avvicinò ancora e prese le mie mani tra le sue stringendole con una tale forza che mi trasmise sicurezza, poi, senza che neanche me ne accorgessi, la sua mano mi sfiorò delicatamente una guancia, portandomi a rivolgere il mio sguardo stanco verso di lui:
- Cosa c’è Axel? – sussurrò con dolcezza.
- Nulla… -
- Sono i tuoi incubi non è vero? – mi sorpresi di come aveva capito tutto così in fretta – Continuano a tormentarti – stavolta prese il mio viso con entrambe le mani e con i pollici mi sfiorò delicatamente le guance.
- Non riesco più dormire – alla fine confessai, sentivo il bisogno di parlarne con qualcuno, di parlarne con lui – Sono dieci giorni che non chiudo occhio e mi sento letteralmente a pezzi -
- Non preoccuparti, adesso ci sono io –
- E cosa intendi fare? –
- Aiutarti – sorrise – Non ricordi? Ti avevo promesso di esserci sempre ogni volta che ne avessi avuto bisogno –
Vero. Lo aveva promesso, ma sinceramente non avrei creduto che avrebbe mantenuto la promessa, non dopo tutto quello che era successo. Eppure era qui davanti a me e mi guardava con una dolcezza innata, quasi ingenua, e visto che sapevo che non era qualcosa che solitamente gli apparteneva la reputai una specie di mia esclusiva, un qualcosa tra me e lui solamente. I raggi della luna filtravano attraverso i vetri andando a posarsi sul volto di Tate illuminandolo per metà e facendo risaltare la sua bellezza; come potevo resistergli? Come potevo non cedere a qualcosa di così simile a me eppure così diverso? :
- Non sei qui solo per scusarti vero? – domandai notando qualcosa nei suoi occhi.
- Beccato – rise mostrando le fossette e abbassando lo sguardo verso il pavimento.
- Sapevi che avevo bisogno di te? – sussurrai quasi timorosa della risposta.
- Si – annuì guardandomi dritta negli occhi.
- Come? –
- L’ho sentito – fece spallucce – Percepisco quando hai bisogno di me, è come un impulso che mi scatta dentro; non so come spiegarlo –
- È tutto così… -
- Strano? – terminò lui al mio posto.
- Si… - annuii distogliendo lo sguardo.
- Sdraiati – disse con un cenno della testa mentre ricominciò ad accarezzarmi il volto.
- Tate, no, io… - mi impedì di continuare a parlare poggiando l’indice sulle mie labbra.
- Rimarrò con te –
Annuii e mi lasciai guidare da lui fino al mio letto dove mi sdraiai ancora un po’ riluttante dato che sapevo che non sarebbe cambiato assolutamente nulla, ma come ogni volta c’era quel qualcosa in lui che mi portava sempre a fidarmi ciecamente nonostante avessi i miei dubbi. Una volta che mi fui coricata misi il braccio sinistro dietro la testa e poggiai la mano destra sulla pancia e cominciai a fissare il soffitto; sentivo lo sguardo di Tate su di me, potevo percepire la sua incertezza mista ad un po’ di disperazione… quel ragazzo per me rimaneva per la maggior parte del tempo un incognita della quale avrei voluto scoprire tutte le sfaccettature. Il materasso si incrinò leggermente, segno che si stava avvicinando; il cuore cominciò a battere forte ed improvvisamente la mente si annebbiò con mille e più domande: Cosa sarebbe successo ora? Rilasciai un lungo sospiro che mi accorsi di aver trattenuto fino a quel momento e cercai di rilassarmi ma con Tate che continuava ad avvicinarsi era impossibile. Alla fine si sedette a gambe incrociate accanto a me, sentivo che c’era una certa tensione ma sapevo che non sarebbe passato molto tempo prima che avesse cercato un contatto con me ed infatti pochi minuti dopo cominciò a far scorrere le dita tra i miei capelli provocandomi la pelle d’oca. Ora averlo così vicino mi fece realizzare quanto in realtà mi fosse mancato. Si, lo avevo ammesso. Tate mi era mancato in questi lunghissimi giorni. Per un po’ rimanemmo in silenzio beandoci solo della reciproca compagnia, con lui accanto la notte non mi faceva più paura e gli incubi erano solo un lontano ricordo; ad un tratto sentii la sua mano fredda poggiarsi sul mio addome in cerca della mia finché entrambe si trovarono intrecciandosi in una stretta quasi disperata. Alzai lo sguardo su di lui che era intento a fissare le nostre mani con un leggero sorriso dipinto sul volto, sicuramente era raro vederlo così tranquillo, lo capivo dai suoi occhi ma nonostante mi sforzassi non riuscivo a capire quale fosse la fonte del suo malessere:
- Posso stringerti a me? –
I nostri sguardi si incrociarono ed improvvisamente il suo tornò ad essere serio e, con mio stupore, intriso di paura e preoccupazione. Sembrava così fragile ed indifeso che avrei voluto proteggerlo da tutto quello che lo faceva star male, cancellare la sua sofferenza in modo tale che avrebbe finalmente vinto contro i suoi demoni. Tate attendeva una mia risposta ed ogni secondo in più di silenzio non faceva che aumentare l’oscurità nei suoi occhi e la stretta sulla mia mano si irrigidì; in tutta risposta sorrisi leggermente ed annuii, lui si rilassò visibilmente e ricambiò il sorriso mostrando quelle adorabili fossette. Si sdraiò di fianco a me senza mai abbandonare la mia mano o il mio sguardo; mi sistemai anch’io finché non ci ritrovammo uno di fronte all’altro, poi passò il braccio attorno ai miei fianchi avvicinandomi a lui lasciando tra di noi pochi centimetri di spazio. Sentire il suo respiro fresco sul volto mi provocò dei brividi lungo la schiena che mi fecero capire quanto desiderassi rimanergli così vicina. Ognuno guardava negli occhi dell’altro cercando in quegli specchi frammenti delle nostre anime, pezzi dimenticati del nostro essere più profondo che rimaneva nascosto per la maggior parte del tempo; Tate sorrise con uno sguardo pensieroso, poi si sporse quel poco che bastava per poggiare le labbra sulla mia fronte lasciandoci dei piccoli e delicati baci come per rassicurarmi che lui c’era e ci sarebbe stato sempre. Stavolta fui io a prendere l’iniziativa ed avvicinarmi di più in cerca di un contatto poggiando la fronte contro il suo petto leggermente muscoloso ed ispirando il suo profumo; lo sentii ridacchiare e mi beai di quel dolce suono:
- Mi dispiace di averti mandato via e soprattutto di averti evitato per tutti questi giorni – dissi in un sussurro.
- Non ti preoccupare – rispose dandomi un leggero bacio sulla tempia – Adesso non ci separerà più nessuno, lo prometto –
Quelle parole suonavano strane ma non me ne preoccupai perché tutto ciò di cui avevo bisogno era averlo accanto, in che modo ancora non lo sapevo ma sentivo che presto lo avrei scoperto. Dovevo ammettere che la parte più razionale di me aveva ancora i suoi subbi su questo ragazzo ma in questo istante nulla importava più della sua vicinanza e della sensazione di protezione che mi trasmetteva:
- Mi sei mancato… - alla fine lo ammisi anche ad alta voce nascondendomi nell’incavo del suo collo.
Lo sentii di nuovo sorridere mentre mi stringeva ancora di più a se:
- Anche tu Axel – sussurrò – Non sai quanto… -
Non so quanto rimanemmo in quella posizione, fatto sta che lentamente cominciai a sentirmi sempre più rilassata fino a che la familiare sensazione del sonno che arrivava mi circondò cullandomi dolcemente e prima di cadere tra le braccia di Morfeo alzai il volto verso quello di Tate lasciandogli un bacio vicino la curva delle labbra:
- Grazie… -
- Non ringraziarmi, ora riposa, ci sono io a vegliare su di te –
E con quelle parole e le affusolate dita di Tate che continuavano a giocherellare con le ciocche dei miei capelli lentamente mi abbandonai all’oscura dolcezza del sonno dopo molto tempo. Quando mi svegliai mi sentivo confusa e stordita. I ricordi della notte precedente mi riempivano i pensieri e notando la sua assenza temetti che tutto faceva parte di uno stupidissimo sogno (o incubo) e che lui non c’era mai stato, che non mi aveva stretta a se e che io ancora combattevo contro l’indecisione nel rivederlo. Mi misi a sedere e mi guardai attorno in cerca anche del più piccolo segno che poteva confermarmi la sua presenza lì, passai una mano sulla parte del letto che aveva occupato e… niente. Era fredda. Fredda come il ghiaccio. Fredda come il mio cuore in quel momento. Mentre ero nel pieno di una disperazione mai provata fino ad ora la mano scivolò su qualcosa accanto al mio cuscino che sembrava carta, così afferrai il piccolo foglietto stropicciato e lo lessi:
«Averti così vicina ieri notte è stata la cosa più bella che mi fosse successa dopo molto tempo. Spero di averti convinta che sei l’unica cosa che conta per me»
Sorrisi leggermente al pensiero che era stato tutto reale. Finalmente avevo finito di chiedermi in ogni istante il perché avevo permesso a mio padre di lasciarmi influenzare così tanto dal suo giudizio ed iniziai a godermi quella poca felicità che mi provocava l’avere Tate, anche se, almeno per ora, solo per amico. Guardai fuori e notai che era pomeriggio inoltrato e ciò mi lasciò basita. Per quanto avevo dormito? Decisi di scendere in cucina e trovai mia madre intenta a sistemare la spesa assieme a Moira:
- Ben svegliata tesoro! – sorrise mia madre.
- Quanto ho dormito? – domandai con voce ancora assonnata mentre mi stropicciavo gli occhi stanchi.
- All’incirca quattordici ore –
Sgranai gli occhi dalla sorpresa. Quattordici ore. Non avevo mai dormito così tanto e bene, soprattutto, ed era solo merito di Tate:
- Dovevi essere molto stanca cara – aggiunse Moira.
- Si, erano alcuni giorni che non riuscivo a dormire bene –
- Come ti senti ora? – chiese mia madre.
- Molto meglio, grazie – poi mi guardai attorno notando che mancava qualcosa – Dov’è papà? – domandai aggrottando la fronte perplessa.
- Lo hanno chiamato questa mattina molto presto dal vecchio studio a New York dicendogli che in questi giorni ci sarebbe stato un importante convegno e se voleva partecipare, così è partito subito –
- Perché mi sembri sollevata? – domandai sospettosa mentre mi sedevo su uno degli sgabelli.
- Perché lo sono! – annuì lei – Credo che farà bene ad entrambi stare un po’ di tempo separati –
- Le cose sarebbero molto più facili se ti decidessi a lasciarlo – borbottai.
- Non sempre le cose giuste da fare sono le più semplici – disse guardandomi dritta negli occhi con sguardo serio.
- Se lo dici tu… - sospirai.
- Voglio dargli fiducia stavolta, voglio riprovarci e non solo per te ma anche per me stessa –
- Se sei felice così non dirò altro –
- Dovresti concedergli anche tu una seconda opportunità, ci tiene molto a te –
- Non posso, non ora almeno – distolsi lo sguardo.
- Lui ha bisogno del tuo affetto, Axel –
- Beh, in questo periodo non se lo è di certo guadagnato! – risposi sarcastica.
- Cerca di fare solo ciò che ritiene meglio per te –
-  Per me o per lui? – sospirai pesantemente.
- Ci tiene davvero tanto a te, vedrai presto te ne accorgerai –
- Ma come fai ad avere ancora belle parole da spendere nei suoi confronti dopo ciò che ha fatto? – dissi iniziando ad alzare la voce
- È stato un incidente – scosse la testa lei.
- Incidente? – domandai incredula – È quasi morta una persona a causa sua! Era ubriaco al volante e tu pur di tenerlo con te hai mentito dicendo che aveva lasciato una festa e si stava recando di corsa da un paziente che aveva bisogno di lui! Facendogliela passare liscia con soli pochi mesi di carcere ed una salata cauzione! –
- Tesoro… -
- No, mamma, risparmiamelo, ti prego –
Mi alzai ed uscii dalla cucina. Ciò che aveva fatto mio padre era imperdonabile e mia madre lo aveva difeso a spada tratta nonostante tutto e in più insisteva che un giorno avrei capito il perché. No. Era assurdo e fuori di testa. Mio padre non si meritava una seconda occasione dopo aver rischiato di togliere la vita ad una ragazza innocente. Rimasi seduta in salotto finché Moira non andò via e prima che mia madre mi raggiungesse per la seconda parte della predica “Perdona tuo padre” mi alzai e mi diressi verso le scale, fortunatamente lei non mi seguì perché suonarono alla porta. Salii le scale fino in cima e mentre stavo per entrare nella mia camera sentii un rumore provenire dal piano di sotto così scesi nuovamente e prima che potessi entrare in salotto mi resi conto che il rumore proveniva dal seminterrato, così prendendo un profondo respiro, scesi lì sotto e nell’oscurità comincia a guardarmi attorno. Forse era nuovamente entrata in casa quella ragazza, Adelaide, ma dopo un’accurata ricognizione mi accorsi che non c’era nessuno, così tornai sui miei passi ed entrai nel corridoio davanti la porta d’ingresso; c’era qualcosa di strano, lo sentivo:
- Mamma? – chiamai ma nessuna risposta; nel frattempo mi stavo dirigendo verso il salotto quando sentii un forte rumore, come di qualcosa che si rompeva, provenire dalla cucina – Mamma? Cosa è succes… -
Improvvisamente una mano mi coprì la bocca ed una presa d’acciaio mi circondò entrambi i polsi facendomi sobbalzare dal dolore:
- Lasciami andare! – mugugnai attraverso la mano che mi impediva si parlare.
- Shh piccola, ti consiglio di non fiatare e fare quello che ti diciamo altrimenti puoi immaginare cosa può succedere – mi sussurrò nell’orecchio una profonda voce maschile intrisa dall’odore dell’alcol.
L’uomo mi trascinò di peso verso il salotto dove vidi che c’erano due donne vestite interamente di nero con un’ascia a testa nelle mani, quando entrai ed ebbi la visuale completa notai che c’erano due sedie e ad una di quelle c’era mia madre legata:
- Mamma! – esclamai non appena la vidi.
- Axel, tesoro, vi prego non fatele del male! –
- Sta zitta signora – disse una delle due donne puntandole l’scia alla gola.
L’uomo tolse la mano davanti la mia bocca e mi affidò alla donna bionda che mi legò stretta alla sedia. Una nuova fitta di dolore mi attraversò i polsi e le caviglie ed un paio di lacrime mi scesero giù per le guance. Ed ora cosa ci sarebbe successo? Saremmo morte? :
- Cosa volete da noi! – dissi alzando la voce fuori di me.
- Mi piace la ragazzina, è tosta – disse l’uomo davanti a me guardandomi in modo strano ed in quel momento ebbi paura di ciò che stava pensando.
- Mie care signore avete l’onore di sacrificarvi per compiere un grande gesto! – esultò euforica la ragazza mora.
- Vivete in questa casa ma non sapete tutto al suo riguardo – continuò la bionda – Qui nel 1968 si consumò il duplice omicidio di due infermiere da parte di un vero e proprio maestro e stanotte nell’anniversario dell’accaduto voi due ci aiuterete a riprodurre la scena ma non come in un film, dovete morire realmente! – terminò ridendo.
- Ma voi siete fuori di testa! – disse mia madre cercando di liberarsi senza però ottenere niente.
- Forse – rispose l’uomo – Ma almeno così passeremo alla storia per aver partecipato alle sequela di disgrazie avvenute in questa casa –
- Lasciateci andare, vi daremo dei soldi e non diremo nulla alla polizia! – insistette mia madre.
- Nah grazie – ridacchiò la mora – Preferiamo vedervi sanguinare –
- Bene possiamo iniziare – disse l’uomo – Beth, Lysa preparate la signora e raccogliete qualche oggetto di valore, io intanto mi occupo di questa bella ragazza qui – disse guardandomi con un ghigno.
- Non ti azzardare a toccare mia figlia, bastardo maniaco! –
Cercai di chiamare mia madre ma l’uomo mi coprì nuovamente la bocca con la mano, intanto le due donne e mia madre erano sparite ed io cominciai ad avere veramente paura; quell’uomo mi guardava in modo disgustoso e sperai con tutta me stesse che per la mente non gli stesse passando ciò che pensavo. Ma purtroppo i miei desideri non si realizzarono. Mi sciolse dalle corde e mi fece alzare afferrandomi per entrambe le braccia, cercai di divincolarmi ma era troppo forte, però, nonostante tutto non mi arresi e lo colpii con un calcio nelle parti basse; lui grugnì dal dolore e mi lasciò andare e ne approfittai per correre via e magari raggiungere il telefono e chiamare qualcuno. Purtroppo le mie speranze furono vane e mal riposte visto che l’uomo si riprese quasi subito e mi corse dietro per poi prendermi per i fianchi cercando di tirarmi indietro verso di lui; prontamente mi aggrappai allo stipite della porta cercando di sfuggire alla sua morsa ma fu inutile, con forte strattone riuscì a farmi staccare da dove mi ero aggrappata e mi gettò a terra. Toccai il parquet con un tonfo sordo e sbattei violentemente la testa, mi faceva male dappertutto e non riuscivo a muovermi per il dolore; ben presto l’uomo mi fu addosso, urlai cercando di togliermelo di dosso ma l’unico risultato che ottenni furono un paio di schiaffi che mi lasciarono senza fiato e con le lacrime che scorrevano come un fiume in piena. L’intruso tirò fuori un coltellino dalla tasca della giacca e me lo puntò alla gola, sentivo la fredda lama di metallo sfiorarmi la pelle e tutto ciò che provai in quel momento fu paura e rassegnazione per un destino fuori dal mio controllo:
- Se fai uscire un altro suono da quella bocca giuro che ti taglio la gola e sarebbe un peccato visto che prima preferisco divertirmi con te –
- Ti prego… no.. lasciami… - dissi tra i singhiozzi mentre socchiudevo gli occhi.
- Che ti ho detto piccola? Non devi parlare! Ora ti faccio vedere cosa ottieni a disobbedirmi! – spostò lentamente il coltello dalla mia gola percorrendo con la lama il petto fino al braccio sinistro dove strappò la manica della camicia fino ad affondare l’arma nella carne ed un dolore acuto che non avevo mai sentito prima mi attraversò per intero; lanciai un urlo attutito dalla sua mano che tornò a coprirmi la bocca – Non dire che non ti avevo avvertito tesoro – lo sentii dire con una mezza risata che mi provocò brividi di terrore.
Il dolore che mi attraversava il braccio era indescrivibile, potevo sentire ogni nervo bruciare ed il sangue scorrere fuori dalla ferita fino a formare una piccola pozza che si espanse fino alla mano. Dovevo cercare di reagire o avrebbe fatto di me il suo giocattolo, ma cosa potevo fare quando il dolore e la paura mi avevano immobilizzata a tal punto che trattenni il respiro per qualche secondo? Per cosa lottare visto che ora come ora tutto ciò in cui speravo era che mi uccidesse il più in fretta possibile? Mentre mi stavo lasciando scivolare via l’uomo strappò i bottoni della mia camicia con foga e lacrime silenziose scesero dai miei occhi ormai persi nel vuoto. Era come se fossi finita in uno dei miei incubi e non riuscivo a svegliarmi, ma stavolta non sarei arrivata al mattino seguente, non mi sarei svegliata di colpo urlando, no, stavolta ero sveglia e non c’era alcuna via d’uscita, stavolta sarei stata inghiottita dall’oscurità della morte. Mentre ero confusa ed in balia del mio aggressore ebbi un ultimo piccolo barlume di lucidità che mi spinse a reagire, aprii gli occhi e voltai lentamente la testa e notai che a terra non molto lontano da me c’era un soprammobile che di sicuro era caduto quando cercavo di fuggire; senza farmi notare cercai di raggiungerlo con la punta delle dita mentre lui era impegnato a cercare di togliermi di dosso il resto dei vestiti. Con un ultimo sforzo sfiorai con la punta delle dita l’oggetto e dopo averlo spinto verso di me lo afferrai e facendo leva su quelle poche forze che mi erano rimaste lo colpii forte alla testa. Approfittai di quel breve momento per mettermi in ginocchio e cercare di fuggire via ma quell’uomo era più resistente di quanto pensassi e con un rapido gesto mi afferrò per la caviglia tirandomi verso di se facendomi cadere di nuovo; nel giro di qualche secondo fu ancora una volta sopra di me, mi voltò verso di lui afferrandomi con forza per una spalla e con lo sguardo traboccante di pazzia parlò ancora:
- Allora non vuoi proprio capire eh? La lezione di prima non ti è bastata vero? – rise – Bene, te ne darò un’altra molto volentieri!! – strillò fuori di se.
Con un’espressione malata sul volto sollevò il coltello con entrambe le mani e prima che potessi evitare il colpo lo andò a conficcare nel mio addome provocandomi un’altra ondata di dolore ancora più forte ed intensa della prima portandomi ad urlare ancora di più. Ormai era finita. Avevo provato a fare tutto ciò che potevo per salvarmi ma non era stato abbastanza ed ora era giunto il mio momento; sperai che avrebbero risparmiato mia madre e che magari qualche vicino si fosse accorto delle urla e avesse chiamato la polizia ma qualcosa in me mi diceva di non sperarci più di tanto. L’aggressore continuava a ridere fuori di se mentre io l’unica cosa alla quale pensai in quel momento fu Tate. Al suo viso, ai suoi occhi e alle parole che ci eravamo scambiati la notte scorsa e lo chiamai nella mia testa con tutta me stessa, urlai il suo nome fino a superare il rumore del mondo che mi scivolava tra le dita e sperai con quella poca forza di volontà che mi era rimasta in corpo che in qualche modo mi avrebbe sentita. L’uomo disse qualcos’altro ma giunta a quel punto tutto stava perdendo importanza e non ascoltai, ma mentre stavo per socchiudere gli occhi sentii un grido profondo e roco così li riaprii a fatica e vidi il mio aggressore steso a terra con una grossa pozza di sangue che cominciava a formarsi attorno a lui. Non vidi chi altro c’era nella stanza, la mia vista si stava man a mano annebbiando ma sentii dei passi frettolosi scendere le scale ed altre urla stavolta provenienti da due voci femminili distinte. Volevo lasciarmi andare, scappare dal dolore che mi scorreva per tutto il corpo come una scarica elettrica ma nella nebbia dei miei pensieri vidi chinarsi accanto a me una figura familiare dai capelli biondi e mossi e gli occhi profondi come l’universo: Tate. In quell’istante pensai che ormai avevo lasciato quel mondo pieno di sofferenza e che questo era il paradiso ma il continuo dolore che sentivo mi fece ricredere portandomi a realizzare che lui si trovava veramente lì accanto a me:
- Axel, Axel no!! –
Gridava il mio nome con la voce colma di disperazione ed il volto straziato dal dolore e dalle lacrime, avrei voluto fare qualcosa per consolarlo, per dirgli che sarebbe andato tutto bene ma non ero certa che me la sarei cavata. Tate cercava di premere la sua camicia sulla ferita che avevo sull’addome mentre si guardava attorno pervaso dal panico e cercava di rassicurarmi passandomi una mano sul viso dolcemente e continuando a ripetermi che tutto sarebbe andato per il meglio. Sentii altri passi scendere dalle scale ed avvicinarsi a me, poi vidi la figura scioccata di mia madre accanto a quella di Tate; singhiozzavano entrambi incontrollabilmente ma mia madre era decisa a non perdermi così la vidi afferrare il telefono e comporre dei numeri. Tutto ciò che desideravo in quel momento era scivolare via ma la presa di Tate attorno alla mia mano me lo impediva, come se lui mi stesse tenendo ancorata a quella poca vita che mi rimaneva. Sentivo che tutto quello che mi circondava andava man mano sfumando trasformandosi in suoni ovattati e nebbia che volevano insidiarsi nella mia mente; Tate continuava a chiamarmi, poi sentii la sua fronte poggiarsi sulla mia, aprii lentamente gli occhi e lo vidi piangere disperatamente mentre era scosso da singhiozzi:
- Non lasciarmi, ti prego, Axel, non lasciarmi resta con me, ti prego… ti prego piccola non andartene… -
Continuava a ripetere quelle parole con sempre più disperazione rispetto alla volta precedente e nonostante mi trovassi in bilico tra la vita e la morte stavo male a vederlo soffrire così, avrei voluto poterlo stringere a me, dire qualcosa ma nonostante le forze mi stavano abbandonando ci provai:
- T.. Tate – sussurrai il suo nome.
- Axel! – aprì gli occhi di colpo e mi guardò con una piccola scintilla di speranza negli occhi – Mi dispiace sarei dovuto arrivare prima, perdonami! – disse tra i singhiozzi.
- N… non è colpa tua… - cercai di sorridere ma fallii trasalendo dal dolore – Non… non piangere -
- Oh, Axel perdonami!! – continuò a ripetere mentre mi lasciava dei delicati baci sulla fronte e sulle guance.
- Ok, l’ambulanza sta arrivando – sentii dire a mia madre – Tesoro tieni duro – aggiunse tra i singhiozzi.
La sentii scambiarsi qualche parola con Tate ma non riuscii a percepirle, tutto quello a cui mi ero aggrappata fino a quel momento stava svanendo lasciandomi andare alla deriva; avevo la sensazione di galleggiare sull’acqua ma ero consapevole che lentamente sarei annegata e la sensazione mi piaceva… il dolore mi stava lentamente abbandonando dandomi la pace che cercavo, nulla aveva più importanza, tutto perdeva significato mano a mano che le tenebre mi stavano raggiungendo per portarmi con loro, magari in un posto migliore. Mentre sentivo da molto lontano le sirene dell’ambulanza avvicinarsi alla casa, la presa che avevo attorno alla mano di Tate cedette sembrandomi improvvisamente troppo pesante da mantenere e fu così che con un piccolo gesto la mia mano scivolò via andando a sbattere contro il pavimento in legno. Sentii la voce di Tate urlare dalla disperazione mentre dalle sue labbra uscivano suoni simili a parole ma dove mi stavo recando in quel momento non servivano e così si persero nell’aria. C’erano dei rumori che provenivano da qualche parte nel corridoio e percepii più persone accanto a me mentre continuavo ad essere inghiottita dal livello dell’acqua che lentamente continuava a salire lasciando ancora poco di me a galla; qualcuno mi sollevò da terra e mi poggiò su una superficie più morbida. Altre voci. Altre urla. Passi frettolosi. Sirene. Rumori confusi. Tutto era rallentato. Il tempo si congelò come se quello che stava accadendo non fosse più di sua competenza. Ciò su cui giacevo cominciò a muoversi ma si fermò bruscamente ed una voce forte e chiara fece breccia nel muro d’acqua e disse una sola parola:
- Resisti… -
Era Tate… il suo nome mi riecheggiò nella mente e forse lo sussurrai anche ma tutto si perse quando mi lasciai inghiottire completamente dall’acqua scura.



ANGOLO AUTRICE
Spero vi abbia soddisfatto! Devo dire che è stato un pò difficile scrivere la scena dell'aggressione ma spero che alla fine l'ho resa bene. Che altro aggiungere? Spero di aggiornare presto e mi raccomando fatemi sapere i vostri pareri attraverso le recensioni mi farebbe molto piacere!! Un bacio a tutti 😘😘😘
GiuliaStark

P.s se qualcuno se lo chiedesse la canzone è People are Strange dei Doors 😉

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Halloween Night ***


Beep… Beep… Beep…
Sentivo incessantemente questo rumore assordante da tempo. Tutto sembrava riecheggiare nel perenne vuoto in cui galleggiavo, ciò che vedevo o percepivo era costituito solo da buio ed oscurità. Mi sentivo persa, incorporea e paurosamente immobile, non sapevo cosa mi fosse successo… l’ultimo ricordo che avevo era la sensazione di annegamento, poi più niente. Il buio totale. Ero morta? Stavo per morire? Beh, se era così sperai che il Tristo Mietitore sarebbe giunto presto, almeno mi avrebbe strappato di dosso questa sensazione. Non sapevo spiegarla appieno, era più come un disagio: non riuscivo a percepire il mio corpo, né vederlo, era come se fossi diventata un tutt’uno con l’aria, come se non esistessi più; perfino la concezione di tempo mi era totalmente sconosciuta, qui, in questa specie di dimensione fuori dal mondo non c’era niente che potesse confermarmi che il mondo esterno esistesse davvero e se io ne facevo parte. Non so quanto trascorsi a crogiolarmi nel pensiero di quello che mi era accaduto, fatto sta che ad un tratto dei lampi illuminarono il buio e delle immagini apparvero a sprazzi mostrando un quadretto davvero poco rassicurante: non era molto preciso, anzi, i contorni erano quasi sfocati, come se lo stessi guardando attraverso un vetro appannato; cercai di concentrarmi sulla scena e focalizzare il tutto ma all’improvviso cambiò. Tutto iniziò a roteare vorticosamente mentre i colori si facevano più vivaci e si sentirono delle urla, urla di una voce che conoscevo bene: la mia; poi tutto si rivelò… sangue, sangue ovunque… io distesa a terra agonizzante. Sentivo il dolore, il mio dolore scorrermi addosso; una sensazione molto simile al panico mi invase completamente e cercai di scrollarmela via senza ottenere risultati. Altre voci si unirono alla confusione che già c’era e cominciai lentamente a sentirmi meno incorporea, meno persa; ci fu un forte scossone poi una grande luce si sostituì al buio ed alle immagini raccapriccianti che mi erano apparse poco fa. Bianco, un immenso e luminoso bianco puro. Sentii di nuovo il mio corpo mentre ne riprendevo possesso ed il dolore che continuava a scorrermi dentro risvegliando ogni terminazione nervosa, sentivo il mondo di nuovo girarmi attorno dicendomi che facevo parte della vita anche io, sentivo delle voci, voci sconosciute che mi gettarono addosso una nuova ondata di panico. Il bianco accecante cominciò a sfumare e temetti che presto sarebbe tornato il buio, ma invece vennero i colori ed attorno a me prese forma quella che doveva essere una stanza; mi guardai intorno e mi accorsi che di familiare non aveva proprio nulla: le pareti erano di un azzurro sfocato, quasi sicuramente sbiadito dal tempo, sul lato sinistro c’era una finestra sotto la quale prendeva posto una piccola cassapanca e per finire l’arredamento terminava con un comodino accanto al letto ed un armadio nella parete di fronte. Dov’ero? Che cos’era questa stanza? Perché non mi trovavo a casa mia? Davanti a me apparvero due figure interamente vestite di bianco che mi fissavano quasi studiandomi, poi si scambiarono qualche sussurro ed alla fine l’uomo parlò:
- Salve, sono il Dottor Jensen ti trovi in ospedale a seguito di un’aggressione, come ti senti? –
Fissai quell’uomo con una certa riluttanza non registrando appieno le parole che mi aveva rivolto; socchiusi le labbra per parlare ma non vi uscì alcun suono, sentivo la gola in fiamme e mentre cercavo di sforzarmi per parlare fu come se una lama mi trafiggesse il collo da parte a parte tirandomi fuori un suono strozzato ed alquanto inquietante. L’uomo si voltò rivolgendosi all’infermiera:
- Chiama i parenti e portale un bicchiere d’acqua – la donna annuì ed uscì senza dir nulla.
La stanza cadde nel silenzio più totale, mi guardavo attorno cercando di far mio quello che vedevo ma con scarso successo; puntai lo sguardo fuori la finestra ed ammirai il cielo azzurro e privo di nuvole che si intravedeva da essa, doveva essere sicuramente mattina inoltrata a giudicare dai raggi del sole che scaldavano la stanza. Mi voltai verso il dottore, che reggeva in mano una cartella scrivendoci sopra qualcosa, e lo fissai di sottecchi seguendo ogni sua mossa ma fui distratta dal cigolio della porta che si apriva. Nella stanza entrò nuovamente l’infermiera con in mano una caraffa d’acqua ed un bicchiere che mi porse fingendo un sorriso che non ricambiai. Bevvi a grandi sorsi beandomi della sensazione di fresco che si irradiò giù per la gola portandola a reidratarsi un po’; la porta, lasciata socchiusa, cigolò ancora aprendosi del tutto ed attirando il mio sguardo: da essa entrò mia madre con il volto a metà tra il sollevato e lo sconvolto, aveva i capelli legati in una coda scomposta e gli occhi ancora umidi, segno che aveva pianto. Subito dietro di lei c’era mio padre con il suo solito sguardo indecifrabile e la sua espressione severa che non mi sorprese affatto, dopotutto chi mi assicurava che per lui essere qui non era una scocciatura? Entrambi si avvicinarono, mia madre con passo incerto ma con un piccolo sorriso sul volto:
- Axel, tesoro, come stai? – mi chiese sedendosi sul letto facendolo cigolare.
- Sta bene signora, non si preoccupi – rispose il dottore al mio posto – È ancora un po’ scossa e frastornata, ma è normale visto l’accaduto –
- Quando potrà tornare a casa? –
- È difficile dirlo, è stata un’operazione complicata ed ha avuto perfino un collasso, quindi sarebbe meglio vedere come si evolve la situazione prima di prendere qualsiasi decisione –
- Va bene – mia madre annuì, poi spostò nuovamente lo sguardo su di me con lo stesso sorriso di prima – Non preoccuparti, starai presto bene –
- Cosa è successo? – parlai per la prima volta dopo svariato tempo e sentire nuovamente la mia voce mi apparve come qualcosa di strano e al quale dovevo fare nuovamente l’abitudine.
Il viso di mia madre cambiò di colpo espressione rabbuiandosi e spostando lo sguardo verso il dottore come per chiedere un aiuto silenzioso, mio padre invece indurì ancora di più l’espressione fissando la parete di fianco a lui:
- Non ricordi nulla? – mi chiese mia madre tornata a guardarmi.
- Non molto – socchiusi gli occhi e scossi lentamente la testa – È tutto confuso –
- Non allarmatevi signori Knight, in seguito ad un trauma del genere il cervello tende a rimuovere i fatti che hanno creato questo blocco, presto ricorderà tutto – mi guardò di sfuggita – Vi lascio soli – ed uscì assieme all’infermiera.
Aveva detto che avrei ricordato, ma io non volevo. Per niente al mondo avrei voluto rivivere quell’agonia e tornare a vedere quelle immagini; preferivo dimenticare, come se non fosse mai successo ma sapevo che con me il Fato non sarebbe stato buono neanche stavolta e che presto avrei ricordato tutto. Ogni singolo minuto che mi aveva avvicinata sempre di più alla morte. Non mi ero accorta di essermi estraniata per qualche secondo, così quando rialzai lo sguardo ed incrociai quello preoccupato di mia madre sospirai cercando di avere pazienza con lei, dopotutto era stata un’esperienza traumatica per entrambe:
- Sto bene mamma – annuii facendole un sorriso forzato che lei ricambiò asciugandosi gli occhi – Tu come stai? –
- Bene, tesoro… ancora un po’ scossa ma passerà presto –
Nel frattempo mio padre si era avvicinato ancora di più posizionandosi accanto a mia madre e da quella distanza notai che aveva leggermente addolcito lo sguardo e smussato la durezza del volto ora che eravamo rimasti soli; si protese verso di me e poggiò la sua mano grande e calda sulle mie e con un sorriso, che voleva essere rassicurante ma che a me parse invece molto nervoso, si decise a rivolgermi la parola:
- Sono contento che state bene entrambe – guardò anche mia madre che sospirò – Non sarei dovuto partire –
- Non potevi sapere cosa sarebbe successo – sussurrò mia madre con lo sguardo basso.
- Non sarei dovuto partire comunque –
Aveva uno sguardo strano, quasi colpevole. Che stesse nascondendo qualcosa? Cos’era successo mentre era via? Che le cose tra i miei fossero cambiate o addirittura peggiorate? In quel momento, attanagliata dai dubbi, desiderai tornare nel perenne buio in cui ero intrappolata prima.
- Da quanto tempo sono qui? –
- Quasi due settimane – disse mia madre con cautela.
Sgranai gli occhi. Due settimane. Avevo quasi speso due intere settimane in preda a quel Limbo oscuro e bloccata in un letto d’ospedale. Era impressionante per quanto tempo non ero stata padrona del mio corpo ed in quel momento mi chiesi se questa traumatica esperienza mi avrebbe in qualche modo cambiata, sperai di no perché ero sicura che non avrei retto alla nascita di un’altra nuova me, non stavolta. Sospirai e rivolsi nuovamente lo sguardo verso i miei genitori che mi osservavano con cautela indecisi se dire o fare qualcosa, così per toglierli dall’imbarazzo parlai io, avevo bisogno di risposte:
- E così ho avuto un collasso durante l’operazione…? – domandai spostando lo sguardo tra i due.
Mia madre sembrò rabbrividire, mentre mio padre socchiuse gli occhi e serrò la mandibola, se non lo conoscessi abbastanza avrei potuto pensare che di li a poco sarebbe scoppiato a piangere:
- Si… - rispose mia madre con la voce che tremava – Hanno dovuto rianimarti due volte nel corso dell’operazione –
La sua mano si poggiò sulla mia e la strinse leggermente come se tutta la forza che aveva le fosse scivolata via; le sue parole erano forti da sentire e recepire ma era fondamentale che lo facessi, che sapessi cosa mi era successo quella sera. Quel pensiero non faceva altro che risuonarmi in mente: ero morta. Per qualche secondo il mio cuore aveva smesso di battere, si era arreso al Destino e poi tutto ad un tratto era tornato a battere pompando la vita dentro di me. Ora che era realmente accaduto, anche se non riuscivo a capacitarmene appieno, mi chiesi se dopotutto rimanere in quello stato di perenne riposo mi avrebbe reso libera e se ne sarei stata soddisfatta. Beh, c’era da dire che una volta morti non credo che si abbia il modo di rendersene conto e ragionarci su, accade e basta e non si sa cosa viene dopo, sempre se c’era, se tu potevi vedere i tuoi cari trasformandoti in una specie di quegli spiriti di quei film horror che vedevo spesso. Dovevo ammettere che mi sarebbe piaciuto scoprirlo. Ok, si, era un pensiero molto distorto per chi come me aveva appena subito un’esperienza del genere, ma che potevo farci? Il fascino dell’Ignoto e dell’Oscurità avevano sempre avuto un certo effetto su di me:
- Quanto è durata l’operazione? – chiesi.
- Quasi sei ore, è stata complicata… la ferita era profonda –
- Mi dispiace… - sussurrai.
- Per cosa, tesoro? –
- Per averti fatta preoccupare così – ero sincera. Si forse i rapporti con mia madre non erano sempre dei migliori, ma ci tenevo molto a lei.
- Non è affatto colpa tua, ok? Sono quei pazzi che ti hanno fatto questo a doversi scusare – disse con un tono di voce più severo.
- Li hanno trovati? – domandai alzando un sopracciglio.
- Non ancora – scosse la testa.
Questa notizia la presi in modo strano… sapere che chi ci aveva fatto questo era ancora là fuori a piede libero mi metteva una certa ansia e preoccupazione. Cosa sarebbe successo se fossero tornati? O se li avessi incontrati per caso per strada mentre facevo una passeggiata? Poteva accadere di tutto ed in qualsiasi momento. Il terrore che avevo avuto in quei momenti, mentre quell’uomo mi faceva del male, era qualcosa di indicibile e talmente forte che solo a pensarci lo sentivo nuovamente scorrermi addosso e prendere il controllo. Giurai di poter ancora percepire le mani sudice e violente di quel mostro su di me. La mente andava a mille, elaborando tutto quello che fino al mio risveglio non avevo potuto fare ed il peso degli eventi e della paura che potessi rivivere una situazione del genere mi crollò improvvisamente sulle spalle provocandomi un’orribile sensazione che non sapevo, o non volevo, spiegare. Sentivo però che la testa cercava di mandarmi un messaggio attraverso i sentimenti cominciando dal farmi provare il presentimento che avevo dimenticato qualcosa, qualcosa di molto importante. C’era come un senso di mancanza e vuoto in me e il non capire appieno mi provocava un’enorme frustrazione, soprattutto perché poteva trattarsi di qualcosa di importante. Non sapevo se avevo tralasciato un dettaglio nel processo per ricordare, ma era certo che qualcosa mi sfuggiva. Stava tutto nel capire cosa:
- Axel, ascolta – iniziò mio padre interrompendo la linea dei miei pensieri – So che forse è presto per parlarne, ma… -
- No, John, ne abbiamo già discusso, non è il momento! – lo interruppe mia madre voltandosi a guardarlo. Non riuscivo a vedere la sua espressione, ma di certo potevo immaginare che non era affatto rassicurante e pacifica come al solito, visto il tono di voce aggressivo con cui gli si era rivolta.
- Anne, è una questione importante! – alzò la voce – Se quei mostri sono riusciti a scappare potete essere ancora in pericolo! -
- Non ora! – sottolineò mia madre a denti stretti.
Ne avevo abbastanza. Anche davanti a me in un letto d’ospedale reduce di un’esperienza traumatica non riuscivano ad evitare di urlarsi l’uno contro l’altro. Presi un lungo sospiro e nel mentre sentii un’acuta fitta di dolore dove c’era la ferita ma la ignorai e parlai comunque:
- Adesso basta! – dissi alzando la voce con molta fatica attirando la loro attenzione – Non potete fare a meno di discutere anche in un ospedale… – scossi la testa amareggiata.
- Scusaci, hai ragione – rispose mia madre abbassando lo sguardo.
- Cosa dovete dirmi? – presi un profondo respiro cercando ancora una volta di evitare il dolore crescente.
- Abbiamo parlato con la polizia – iniziò mio padre – Vorrebbero parlare con te riguardo l’aggressione, sapere i dettagli e magari riuscire ad avere un identikit di quelle persone –
- Va bene – annuii – Ma non ancora, vorrei aspettare un paio di giorni per… riprendermi – sussurrai evitando il suo sguardo.
- Ok, avviserò io gli agenti – annuii - Quella casa non fa che attirare pazzi decerebrati -
Le sue parole attirarono la mia attenzione. Sentivo che sotto di esse c’era qualcosa che premeva per essere detto, poi iniziai a far lavorare la testa, anche se stanca, elaborando tutto ciò che ricordavo e fu in quel momento che capii la sensazione di mancanza che avevo provato prima: Tate. Era come se tutto il mio corpo urlasse il suo nome ma io non ero riuscita a sentirlo. Mio padre si stava riferendo a lui e non solo ai maniaci che erano entrati in casa nostra ed ancora una volta odiai il modo in cui continuava a giudicarlo. Altri flash mi passarono davanti agli occhi, ricordi che tornavano a bussare alla porta della mia memoria e tra tutti ci fu un’immagine più nitida delle altre che ritraeva Tate che veniva in mio soccorso e subito dopo rannicchiato al mio fianco a pregarmi di resistere e di non andarmene. Provai una strana sensazione alla bocca dello stomaco che da piacevole divenne una tortura quando mi resi conto che non aveva mie notizie da quasi due settimane; alzai di colpo lo sguardo verso mio padre e parlai con decisione:
- In queste due settimane hai visto Tate? –
Alzò lo sguardo verso di me e dentro ci lessi talmente tanto disapprovo che potevo quasi sentire la sua rabbia che cresceva per riversarsi contro di me:
- In questo momento quel ragazzo dovrebbe essere l’ultimo dei tuoi pensieri – cercò di calibrare la voce ma capivo benissimo che si stava trattenendo.
- Rispondimi, ti prego! – insistetti sporgendomi in avanti nonostante le proteste di mia madre.
- No! Finché potrò ti terrò lontana da quel pazzo! –
- Quello che tu chiami pazzo mi ha salvato la vita!! – adesso ad urlare fui io – Se non fosse intervenuto sarei morta! –
- Axel, ti prego, calmati – disse mia madre poggiando la sua mano sulla mia, ma la ignorai completamente.
- E non ti domandi per quale motivo fosse lì?! Quel ragazzo ti gira troppo intorno, forse è lui che vuole farti del male! –
- Questa è bella! Se avesse voluto farmi del male non mi avrebbe salvata! –
Mi tirai completamente in avanti e realizzai solo in quel momento di aver osato troppo: sentii un dolore più acuto degli altri percorrermi interamente l’addome per poi propagarsi in tutto il corpo provocandomi uno spasmo ed un rantolo di puro dolore; mia madre si sporse velocemente per aiutarmi a distendermi nuovamente facendo molta attenzione. Nel frattempo continuavo ad avere lo sguardo puntato verso mio padre che in quel momento non sapeva come reagire:
- La stai facendo agitare, smettila! – lo rimproverò mia madre.
- Sto bene, sto bene… - dissi con la voce ridotta ad un sospiro.
- Axel, è meglio se riposi ora –
- Non finché non mi promettete che potrò vedere Tate –
- No! – tuonò mio padre.
Mia madre tornò a guardarlo con astio, poi si voltò ancora incontrando il mio sguardo addolcendo il suo e cercando di sorridermi:
- Ascolta tesoro… - la interruppi subito.
- No mamma, ascolta tu – mi schiarii la voce mentre poggiai una mano sull’addome nel vano tentativo di contenere il dolore crescente – Capisco la vostra preoccupazione – sottolineai quella parola più del necessario guardando verso mio padre – Ma, Tate mi ha salvato dal mio aggressore, anzi, ci ha salvate entrambe e vorrei vederlo per fargli sapere che è grazie a lui che sono ancora viva -
Mia madre sospirò chinando la testa e fissando il lenzuolo azzurro che mi copriva parzialmente, poi quando tornò a guardarmi mi sorrise leggermente ed in quel momento sperai con tutta me stessa che avesse potuto accontentare la mia richiesta:
- Ne parleremo, va bene? –
Annuii e distolsi lo sguardo puntandolo verso la finestra, sapevo che quello era il massimo che potevo ottenere al momento ma era sempre meglio di un no definitivo, ma in compenso non riuscivo a non sentire la rabbia scorrermi nelle vene e ribollire come acqua sul fuoco:
- Ha chiesto di me? – sussurrai tornando a guardarli entrambi.
- È venuto a casa un paio di volte… – ammise mia madre con uno sguardo che mi fece capire che c’era molto di più sotto.
- E cosa è successo che non volete dirmi? – aggrottai la fronte iniziando a preoccuparmi.
- È successo che il tuo amico si è rivelato per il pazzo che è – rispose mio padre duramente ma cercai di ignorarlo aspettando che mia madre continuasse.
- Ha dato un po’ di matto perché voleva sapere come stavi visto che non poteva venire in ospedale, ma tuo padre lo cacciava via –
- Dato un po’ di matto è una riduzione! Ha avuto una vera e propria crisi – scosse la testa – È assurdo che ancora vada in giro libero, dovrebbe essere rinchiuso in qualche struttura apposita – disse con una freddezza glaciale e senza la minima forma di umanità o pietà nei confronti di Tate.
- Ti farebbe piacere, non è vero? - sussurrai con lo sguardo puntato verso il basso mentre emettevo una risata sarcastica.
- Non lo nego, sarei più tranquillo di non vederlo più girare attorno a te –
- Mi ha salvato la vita, dannazione! Cos’altro serve per convincerti!? – urlai con le lacrime agli occhi.
Entrambi non dissero nulla, probabilmente sorpresi dal tono della mia voce. Dopo quello sforzo il dolore cambiò in un secondo: sentii un paio di fitte lancinanti sulla ferita, come se sentissi nuovamente il coltello conficcarsi nella mia carne più e più volte. Serrai gli occhi con forza e rilasciai un lamento portandomi le mani al ventre; era una sensazione orribile, sembrava che la pelle volesse strapparsi e come se non bastasse bruciava… bruciava da morire. Mi contorsi nel letto, mentre la paura cominciava a crescere in me; mia madre cercava di tenermi ferma e parlarmi, ma tutto quello che potevo percepire in questo momento era dolore, un immenso dolore che rischiava di farmi impazzire. Improvvisamente sentii la porta aprirsi, qualcuno entrò e nella confusione riconobbi la voce del medico:
- Tienila ferma, tu invece portami una siringa di tranquillante, presto! –
Non so quanto durò questa agonia, ma ad un tratto sentii qualcosa di appuntito conficcarsi nel braccio non ferito e nel giro di pochi secondi una sensazione di calma cominciò a scorrermi in tutto il corpo annebbiandomi la mente e la vista e prima che potessi accorgermene ripiombai nell’oscurità.
Quando riaprii gli occhi sentivo che era cambiato qualcosa, mi guardai attorno e voltandomi verso la finestra notai che la luce brillante del mattino si era affievolita mandando un po’ d’ombra all’interno della stanza. Cercai di mettermi su a sedere ma nel momento in cui ci provai sentii come una puntura al braccio sinistro e abbassando lo sguardo notai che avevo una flebo attaccata nell’incavo del braccio, mentre un’altra sul dorso della mano; sospirai e tornai nella posizione di prima iniziando a fissare il soffitto. Sarebbe stata una lunga degenza, me lo sentivo, l’unica cosa che mi piaceva nell’essere qui era che potevo restare il più lontana possibile da mio padre senza il continuo timore di scoppiare in una furiosa lite come era successo poco fa; mi passai la mano tra i capelli facendo attenzione ai tubi vari: fortunatamente la ferita che avevo sull’altro braccio non mi dava molti problemi, solo qualche fitta di tanto in tanto, quella a preoccuparmi però era quella sull’addome. Sarei guarita del tutto? La ferita era molto profonda e sapevo che i punti usati per chiuderla dopo l’operazione erano molti… mi provocava disagio perfino pensarci. La porta si riaprì per l’ennesima volta in quella giornata e la testa di mia madre apparve dalla fessura e notando che ero sveglia sorrise ed entrò:
- Ehi – si sedette nello stesso punto di prima e mi sistemò una ciocca dietro l’orecchio – Da quanto sei sveglia? –
- Qualche minuto credo – risposi con un sussurro.
- Come ti senti? –
- Assonnata… e molto stanca –
- È normale – sorrise annuendo – È il calmante che ti hanno somministrato –
- Quanto ho dormito? – domandai passandomi la mano sul volto.
- Quasi tre ore, hanno dovuto sostituirti un paio di punti –
- Ok… - distolsi lo sguardo.
- Tuo padre è andato a prenderti un po’ di cose a casa – non dissi nulla e lei continuò – Capisco il tuo punto di vista Axel, ma… -
- Non voglio parlarne – la interruppi subito continuando ad evitare il suo sguardo.
- Come vuoi – sospirò – Allora, di cosa vuoi parlare? – disse posando la sua mano sulla mia.
- Di nulla, non ne ho voglia, ok? Vorrei rimanere sola –
- Va bene, ma prima ascolta c’è una cosa importante che devo dirti –
- Cosa? –
- Tuo padre ha chiamato da casa dicendomi che era passato un ragazzo a chiedere di te, un certo Ryan se non sbaglio –
Spalancai gli occhi a quel nome e tornai a fissare mia madre che aveva un piccolo sorriso sul volto mentre scrutava la mia espressione. Non avevo pensato affatto a Ryan e questo mi fece sentire decisamente in colpa:
- Ryan? – sussurrai ancora incredula.
- Si, lo conosci? –
- È un compagno di scuola, beh, più un amico direi –
- Secondo tuo padre era davvero preoccupato per quello che ti era successo –
- Preoccupato? – domandai molto sorpresa.
-  Non faceva altro che chiedere se stessi bene – annuii pensierosa – Dev’essere un bravo ragazzo –
- Si, lo è – sussurrai.
Ryan era veramente eccezionale. Sempre disponibile, allegro, solare e positivo, tutto il contrario della sottoscritta. Si, era decisamente un bravo ragazzo, forse troppo per una come me che non faceva altro che finire nei casini; non li cercavo di proposito ma erano loro a trovare me, come se avessi attorno una strana aurea che li attirava. Per questo all’inizio ero stata reclutante a considerare Ryan come un amico, ma poi tutto venne così facilmente ed in poco tempo mi accorsi che avevo preso la decisione giusta, forse l’unica finora, ma guardandomi adesso dove ero e come c’ero finita mi faceva pensare: non volevo affatto che Ryan finisse immerso nei miei disastri. Sapevo che lui ne aveva già di suoi, anche se non me ne parlava, e trascinarlo nel fondo con me era l’ultima cosa che volevo per lui.
- Cosa c’è tesoro? Ti vedo strana –
- Nulla – scossi la testa – Che altro ti ha detto di Ryan? –
A quelle parole mia madre fece uno strano sorriso come se sapesse qualcosa che a me sfuggiva e questo nello stesso tempo mi rese sospettosa ed un po’ preoccupata:
- È qui, vuoi che lo faccia entrare? –
- Ryan è qui? – domandai sbalordita.
- Si, allora, vuoi vederlo? –
- Si – sussurrai.
- Lo vado a chiamare –
Mia madre si alzò ed uscì dalla porta; il cuore cominciò a martellare sempre più forte per le domande che mi riempivano la testa. Mi sorprendeva che Ryan si preoccupasse per me, ma mi piaceva. Era una bella sensazione sapere che qualcuno tiene a te fino a questo punto, l’unica cosa a rovinare il mio umore era il fatto che non potevo vedere Tate, ma soprattutto che lui non era mai venuto, neanche di nascosto. A riportarmi alla realtà fu la sensazione di essere osservata, alzai la testa ed incrociai le iridi verdi di Ryan, mi sorrise leggermente ed io ricambiai ma potevo notare, man mano che si avvicinava, che c’era qualcosa di strano in lui, come se qualcosa fosse cambiato. Indossava un paio di jeans neri aderenti e strappati al ginocchio, delle Vans nere ed una canotta dello stesso colore con i Ramones stampati sopra che lasciava in vista i muscoli delle braccia; i capelli castani erano raccolti in un codino scomposto, ma la cosa a preoccuparmi di più era l’espressione esausta che aveva sul volto. Quando fu vicino al letto mi scrutò per qualche istante senza dir nulla, poi si sedette sulla sedia in alluminio lasciando andare un lungo sospiro:
- Ehi – dissi con un piccolo sorriso.
- Ehi… - ripeté ricambiando il sorriso solo per metà – Come ti senti? –
- Potrei stare meglio, ma sono viva, quindi… - feci spallucce.
Annuì e lasciò andare un altro sospiro, c’era qualcosa che non andava, ne ero certa e questo cominciava a preoccuparmi perché non avevo mai visto Ryan così provato, esausto e smarrito:
- Cos’hai? – gli domandai guardandolo fisso negli occhi.
- Ero molto preoccupato per te – sorrise tristemente, poi intrecciò la sua mano con la mia e la strinse forte come per accertarsi che fossi veramente lì – Quando a scuola si è saputa la notizia sono subito uscito e venuto qui in ospedale ma non mi hanno fatto passare. Dicevano che eri in coma e che solo i familiari più stretti potevano vederti –
Rimasi allibita dalle sue parole. Non appena aveva saputo cosa era accaduto si era precipitato qui per vedere se stessi bene, anzi, se fossi viva. Il suo gesto mi fece capire quanto lui tenesse a me ed alla nostra amicizia e questo mi rese molto felice dato che in tutta la mia vita non avevo mai avuto un amico o un’amica al quale importasse di me così tanto:
- Sei uscito da scuola per venire fin qua!? – sbattei le palpebre ancora sorpresa.
- Già, mi sono beccato anche una settimana di sospensione -  sorrise e stavolta notai che era più vero e sincero, più… suo.
- Tu sei fuori di testa – ridacchiai un po’.
- Ma ne è valsa la pena – fece spallucce
- Grazie di essere qui, veramente… -
- È quello che fanno gli amici nel momento del bisogno –
Mi fece l’occhiolino sfiorandomi il dorso della mano con il pollice e notando l’ago che vi era conficcato fece una smorfia al dir poco buffa aggrottando la fronte ed arricciando le labbra in modo particolare, poi ad un tratto tornò l’espressione cupa:
- Ti fa male? –
Mentre parlava continuava a fissare la mia mano ancora nella sua, poi alzò lo sguardo e lo puntò nel mio con decisione: non avevo mai notato quanto fossero belli i suoi occhi fino a quel momento; erano di una sfumatura di verde particolare, non quella del bosco, più una sfumatura simile all’acqua cristallina dell’oceano nel suo punto più vicino alla riva dove si incontrava con la sabbia:
- È sopportabile – lui annuì silenziosamente e chinò la testa volgendo lo sguardo a terra
– Odio quei bastardi che ti hanno ridotto così! – disse a denti stretti mentre serrava l’altra mano in un pugno – Come hanno potuto fare una cosa simile?! – la sua tristezza si stava trasformando man mano in rabbia che rischiava di farlo esplodere da un momento all’altro – Dannazione! – si alzò di scatto dalla sedia facendomi sobbalzare. Si passò una mano sul volto mentre faceva vagare lo sguardo su tutta la stanza in cerca di chissà cosa – Dannazione!! – ripeté con più forza nella voce colpendo il muro con vigore. Quel suo gesto mi spaventò un po’. Non avevo mai visto Ryan così furioso e questo nuovo lato di lui mi fece rimanere interdetta; lo guardavo mentre era fermo ed immobile con ancora il pugno sul muro e lo sguardo perso nel vuoto, come se fosse caduto in una specie di trance oppure semplicemente il peso dei suoi pensieri era troppo da sopportare ed aveva spento il cervello. Vederlo così frustrato mi faceva un certo effetto, ma a dirla tutta non lo reggevo proprio, era più forte di me e il non sapere da dove proveniva tutto ciò mi turbava. Capii perfettamente che la paura che aveva attaccato Ryan per queste due lunghe settimane era dovuta ad un fatto comune: entrambi non avevamo nessun appoggio, né dalla famiglia, né dagli amici, eravamo l’uno l’ancora dell’altro. Forse per me era un po’ diverso perché nella mia vita era presente anche Tate, anche se “presente” è un parolone grosso riferendosi a lui:
 - Ryan – sussurrai – Ti prego, non fare così, ora sto bene… – cercai di rassicurarlo anche se io ero la prima ad essere incerta sulle mie condizioni.
Lui si voltò verso di me con gli occhi spalancati con tracce di quella che sembrava paura, dischiuse le labbra ma da esse non uscì alcun suono, poi si schiarì la voce e si avvicinò lentamente a me. Era come se si era momentaneamente estraniato dimenticandosi dov’era e cos’era successo per qualche secondo, poi quando tornò in se annuì leggermente e con uno sguardo da cane bastonato si avvicinò tornando a sedersi sulla sedia a testa bassa:
- Mi dispiace baby, non volevo spaventarti – scosse la testa sempre con lo sguardo altrove.
- Ciò che mi spaventa non sei tu – dissi in un sussurro.
- E cosa? – domandò mentre riprendeva la mia mano nella sua ed aggrottava le sopracciglia.
- È questa situazione surreale, quello che è successo… non so come reagire, non so come prenderla ed ho paura che prima o poi possa crollarmi tutto addosso – dissi socchiudendo gli occhi cercando di non far scappare le lacrime.
Percepivo il suo sguardo addosso e per qualche motivo a me totalmente oscuro sentii il cuore sussultare e perdere un battito. Forse ero dannatamente egoista ma averlo qui, a preoccuparsi per me così tanto era una sensazione impagabile alla quale non avrei mai voluto rinunciare; Ryan mi piaceva ed ora che iniziavo ad esserne più cosciente, forse, non solo come amico. Ma in momenti come questi mi era impossibile non pensare a Tate, cosa dovevo fare? Dopotutto Ryan era qui e lui, la persona che mi aveva salvato la vita, non c’era… era come sparito e non aveva lasciato alcuna traccia di se, solo la petulante richiesta a mio padre di riferirgli le mie condizioni. Allora perché non era venuto personalmente? Per esperienza doveva sapere com’era il carattere di mio padre ma nonostante questo non gli era balenato in mente neanche un secondo di passare a vedere come stavo. Era difficile rimanere lucida in una situazione del genere: da un lato c’era la persistente mancanza di Tate che non mi dava pace, mentre dall’altro c’era Ryan e la sua estrema, e gradita, premura e preoccupazione mei miei confronti che, a modo suo, mi faceva sentire… amata. Riaprii gli occhi sorpresa da quel suo silenzio e mi voltai incrociando le sue iridi verde cristallino; lì dentro, in questi pochi minuti, era decisamente cambiato qualcosa, riuscivo a percepirlo. Lui continuava ad osservarmi senza dir nulla e per di più immobile, l’unico gesto che mi rassicurava che tutto non era frutto della mia immaginazione o di un illusione, era il suo continuo tracciare di spirali nel palmo della mia mano. Abbassai lo sguardo catturando con la vista quel dolce gesto e lo impressi a fuoco nella memoria sperando che non fosse mai fuggito da lì:
- Per questo non devi preoccuparti baby – si aprì in un sorriso rassicurante che faceva a pugni con la serietà dello sguardo – Se crollerai ci sarò io a sorreggerti – mi fece l’occhiolino ed io non potei evitare di sorridere.
- Ti stancherai presto di soccorrermi, vedrai – ridacchiai non riuscendo a nascondere un velo di tristezza.
- Io non credo – era serio, fin troppo, e questo mi fece pensare.
Sentivo che c’era qualcosa di diverso in lui, dal solito Ryan che mi aspettava all’ingresso del cortile della scuola per entrare assieme in classe e superare così quelle ore di tortura l’uno con il supporto dell’altro. La difficoltà era capire la radice di ciò che lo affliggeva così tanto da strappargli il sorriso luminoso che lo caratterizzava, anche se, ad essere sincera, temevo la risposta. E se fosse dipeso da me? Se fossi stata io a ridurlo così? Non me lo sarei mai perdonata, Ryan non si meritava di spegnersi così. C’era qualcosa che non mi stava dicendo e che lo turbava profondamente, così cercai di sistemarmi sul letto in modo tale da poterlo guardare direttamente negli occhi ma nel momento stesso in cui ci provai un forte dolore mi pervase proprio nel punto dove c’era la ferita portandomi ad emettere un lamento abbastanza acuto che portò Ryan ad alzare di scatto la testa.
- Ehi, ehi piano… - mi rimproverò gentilmente ma con il terrore negli occhi – Sei conciata piuttosto male eh? – disse con un sorriso cercando di ravvivare il clima.
- Ma sta zitto Ryan – ridacchiai con ancora una leggera smorfia di dolore mentre finivo di sistemarmi senza successo.
- Ferma, ti aiuto io – si alzò dalla sedia e si avvicinò ancora di più al letto, poi si chinò leggermente – Mettimi un braccio attorno al collo – feci come aveva detto e nel mentre non potevo non accorgermi della delicatezza che si stava impegnando ad usare per cercare di non farmi male. Con un braccio mi reggeva la schiena, mentre l’altro lo posizionò sotto le mie ginocchia sollevandomi dal letto per poi riadagiandomi con cautela in una posizione decisamente più comoda della precedente.
- Grazie –
- Figurati – mi sorrise e si risedette al suo posto.
Non so per quanto altro tempo rimase, ma non era decisamente abbastanza; infatti quando alla mia porta bussò l’infermiera dicendo che l’orario di visita era terminato, il sorriso che aleggiava sui nostri volti si affievolì fino a spegnersi del tutto. Ryan annuì verso la donna, poi tornò a voltarsi e dopo avermi rivolto un piccolo sorriso mi salutò con un bacio sulla fronte che durò alcuni secondi, poi andò via. La stanza tornò silenziosa ed improvvisamente mi sembrò incredibilmente triste e lugubre; per tutto il piano non si sentiva neanche un rumore e da fuori udivo ogni tanto il rumore delle macchine che passavano in strada e che illuminavano con i fari il muro accanto alla finestra. Sicuramente erano passate un paio d’ore ma non mi sorprese affatto che in compagnia di Ryan non mi fossi accorta di nulla; puntai lo sguardo verso il vetro della finestra e mi soffermai ad ammirare il limpido cielo blu che con il passare dei minuti si faceva sempre più scuro; di sicuro era passato da poco il tramonto e pensare che tra poco sarebbe giunta la notte mi fece scorrere un brivido lungo la schiena: era la prima notte che passavo da sveglia in questo ospedale ed il pensiero, oltre ad inquietarmi, mi metteva estremamente a disagio. Dopo circa una mezzora entrò nella stanza un’altra infermiera che trascinava, con poca voglia, un carrellino metallico fastidiosamente cigolante sul quale erano poggiati flaconi di medicine e flebo mentre, nella parte bassa, vi erano alcune decorazioni abbastanza particolari che mi fecero aggrottare la fronte perplessa. La ragazza si avvicinò con aria annoiata per cambiare la boccia della flebo e quando finì di sistemare il resto notò l’insistenza con la quale mi ero fissata a guardare i festoni:
- Sono per Halloween – disse facendo schioccare la gomma che aveva in bocca.
- Come scusa? – domandai sbattendo le palpebre come se mi fossi appena svegliata da una trance.
- Le decorazioni che stai fissando – le indicò con un cenno della testa – Sono per Halloween, sai hanno organizzato una piccola festa per i bambini in pediatria –
- Oh… - risposi inarcando le sopracciglia sorpresa – È già Halloween? –
- Si, non lo sapevi? – scossi la testa.
- Ho perso la cognizione del tempo –
- Purtroppo capita spesso negli ospedali, ora perdonami ma ho da fare –
Mi sorrise senza la minima gioia o intenzione ed io ricambiai con lo stesso entusiasmo, poi uscì chiudendosi la porta alle spalle. Era già Halloween… odiavo il modo in cui non riuscivo ad inserirmi nuovamente nel mondo dopo quelle maledette due settimane di coma; era come se tutto improvvisamente si fosse fatto troppo piccolo per coinvolgere anche me, ed ora mi ritrovavo a spingere per avere lo spazio che mi spettava senza il ben che minimo successo. Sospirai e continuai a guardarmi attorno, ed ora? Come pretendevano che avessi potuto trascorrere il tempo qui dentro? Di certo non fissando il soffitto. Mi voltai lentamente, cercando di stare attenta ai punti, e con la mano raggiunsi i cassetti del comodino traballante che avevo accanto al letto, aprii il primo cassetto e fui sorpresa dal trovare al suo interno qualche rivista ed un libro, ma non un libro qualsiasi, bensì il mio preferito. Sorrisi e lo tirai fuori con cura dal cassetto, sapevo che c’era lo zampino di mia madre e questo mi fece sorridere aumentando di qualche punto la fiducia nei suoi confronti, lo osservai per qualche secondo lisciando la copertina con le dita, poi mi rituffai, per l’ennesima volta, nella sua lettura. Probabilmente mi addormentai perché quando riaprii gli occhi la stanza era completamente buia a parte per il lieve fascio di luce che proveniva dal lampione sulla strada, mi guardai attorno leggermente frastornata per la lunga dormita e mentre mi passavo una mano sul volto per togliere gli ultimi residui di sonno, cercai di sistemarmi meglio facendo attenzione alla ferita. Quando mi guardai attorno nel buio percepii un forte disagio: era come tornare all’oscurità dalla quale mi ero svegliata, mi sentivo circondata dalle tenebre, come se fossi precipitata nel loro fondo più oscuro. Dagli angoli della stanza si ergevano lunghe ombre simili a figure che cercavano di protendersi verso di me nell’intento di afferrarmi e portarmi via con loro. Erano i miei demoni che erano usciti fuori dalla mia testa e avevano preso vita; ingenuamente avevo creduto che stando lontano dalla mia famiglia per un po’ avrebbe attenuato tutto, ma invece mi avevano inseguita fin qui per tormentarmi prendendomi ora che ero sola ed immobilizzata ed incapace di fuggire da loro. Iniziai a tremare, non sapevo se per la paura o perché sembrava che la temperatura della stanza si era improvvisamente abbassata, incurante delle fitte lancinanti all’addome; facevo saettare lo sguardo ovunque mentre iniziai a stringere i pugni e serrare gli occhi nella speranza di chiudere fuori qualsiasi cosa ci fosse lì dentro che mi provocasse questa sensazione. Un fruscio. Un leggero e quadi inudibile fruscio mi arrivò alle orecchie, tanto flebile che se non fosse per il silenzio assoluto nella stanza non lo avrei mai sentito. All’inizio lo attribuii all’ennesima pazzia della mia mente contorta, ma quando lo sentii nuovamente, e più forte, mi decisi che, almeno stavolta, non ero fuori di testa. Affilai lo sguardo e cercai qualcosa nel buio, qualcosa che avesse potuto creare quel rumore ma una volta che mi convinsi del fatto che sembrava non esserci nulla mi ricredetti vedendo che in un angolo della stanza c’era una figura scura ed immobile. Il cuore mi batteva talmente forte che sembrava volermi uscire dal petto, il panico iniziò a prendere possesso del mio corpo tanto che avrei voluto alzarmi e fuggire via ma mi era impossibile; improvvisamente la figura si mosse a piccoli passi verso il mio letto, come se avesse lui, o lei, timore di me. Avrei voluto parlare, urlare, fare qualcosa ma dentro di me c’era una parte che continuava a ripetermi di non far niente e rimanere calma, così, forse stupidamente, decisi di dar retta a quella voce; il tempo sembrò congelarsi e la sola cosa che mi confermava che continuava a scorrere era l’avanzare incerto di quella figura, socchiusi per un breve attimo gli occhi e quando li riaprii non c’era più niente. Mi sporsi in avanti e mi guardai attorno e… niente, chiunque fosse ora era sparito come se non c’era mai stato, come se fosse stato frutto di un incubo e rigettandomi nel dubbio che stavo tornado alla pazzia di un tempo. Questa improvvisa supposizione mi scosse come un’ondata di elettricità facendomi venire le lacrime agli occhi: non volevo tornare quella di un tempo, non volevo rivivere quegli orrori e sentirmi ancora in quel modo. No, avevo chiuso con il passato e soprattutto con quella parte; ora avevo cominciato una nuova vita, in una nuova città, con perfino un amico e non avrei permesso alla me stessa autodistruttiva di rovinare tutto di nuovo. Improvvisamente sentii la porta aprirsi e chiudersi di scatto facendomi sobbalzare e voltare verso di essa con nuovamente il terrore addosso, stavolta ciò che sentii fu solo il rumore di qualcuno che respirava pesantemente come chi aveva appena corso per un bel po’. Il silenzio ora aveva nuovamente invaso la stanza e dopo qualche secondo chi era entrato si staccò dalla porta e finì sotto il fascio di luce che proveniva dalla finestra e quando lo vidi il respiro mi si mozzò:
- Tate… - sussurrai con gli occhi sgranati.
Lui si avvicinò ancora di più e notai che fra i due, lui era di certo quello messo peggio: aveva i capelli disordinati come se ci avesse in continuazione passato le mani con l’intenzione di strapparseli, gli occhi erano gonfi segno che aveva pianto, la curva delle labbra piegata all’ingiù in un’espressione di estrema tristezza e l’intero volto straziato e sconvolto da qualcosa di completamente fuori dalla mia comprensione. Si avvicinò in piccoli e timorosi passi come se avesse paura; vederlo mi faceva uno strano effetto, non sapevo se essere felice o arrabbiata e questo mi rendeva fortemente insicura:
- Axel… - sussurrò lui con un singhiozzo che gli spezzò la voce.
Successe tutto in piccolo frangente lasciandomi spiazzata: Tate azzerò la distanza tra noi e mi strinse a se, il suo abbraccio era così rassicurante che mi rilassai all’istante, mi stringeva come se avesse paura che mi sarei dissolta da un momento all’altro. Sentire la sua presenza, il suo calore dopo che lo svevo desiderato così ardentemente era un sollievo, ma nonostante vederlo qui mi provocava una felicità inspiegabile non potevo non ignorare quel sentimento di rabbia e frustrazione nel pensare che mi aveva in qualche modo abbandonata per due intere settimane dopo che avevo rischiato di morire. Continuava a stringermi ed al tempo stesso ondeggiava lentamente avanti e indietro mentre seppelliva il volto nell’incavo del mio collo e si lasciava trasportare dal suo pianto sommesso; sentivo le lacrime bagnarmi la pelle e scendere lungo il petto ma ero completamente immobile, non avevo neanche ricambiato il suo abbraccio persa come ero nella folta coltre che mi annebbiava la mente riempendola di mille pensieri che potessero in qualche modo giustificare la sua assenza, ma, purtroppo, nessuna sembrava adeguata… semplicemente mi aveva lasciato da parte. E faceva male. Molto. Improvvisamente percepii quell’abbraccio come qualcosa di sbagliato facendomi sentire a pelle un forte senso di disagio che mi portò a staccarmi lentamente da Tate che invece da parte sua non appena avvertì i miei movimenti mi strinse ancora di più incapace di lasciarmi andare, la sua presa era così forte ora che mi fece emettere un leggero rantolo di dolore che lui non udì e per impedirgli di continuarmi a far male stavolta lo spinsi via con più forza. I suoi occhi trovarono i miei, era confuso, impaurito, disorientato e tremava; dischiuse le labbra rosee per dire qualcosa ma invece tacque, d’altro canto invece alzò lentamente un braccio e con le dita protese verso di me nel tentativo di sfiorarmi una guancia ma che io evitai girandomi dall’altra parte e sfuggendo non solo al suo tocco ma anche al suo sguardo. Sentii il fruscio che emise il suo braccio quando tornò a posarsi sul letto e le molle scricchiolare sotto il suo peso che si spostava; mi faceva male evitare un contatto con lui ma ero profondamente delusa a tal punto che anche la sua presenza mi metteva in leggero disagio. Avevo gli occhi chiusi e li stringevo con forza per cercare di evitare alle lacrime di scendere, sentivo il suo sguardo addosso immobile e colmo di paura, potevo percepirla anche a distanza per la sua intensità; Tate si avvicinò nuovamente afferrandomi con delicatezza la mano sinistra ma non appena sentii la sua pelle a contatto con la mia mi ritrassi con un sobbalzo portandomi la mano al petto. Un singhiozzo riempì il silenzio che da troppo tempo infestava questa maledetta stanza facendomi perdere un battito:
- A.. Axel… - mi chiamò con un sussurro e con la voce rotta dal pianto, ma io né risposi né mi voltai forse troppo orgogliosa o troppo stupida per farlo, ma lui non si arrese – Axel, ti prego, non fare così – emise un singhiozzo così forte che temetti si potesse soffocare con le sue stesse lacrime e fu quello a farmi voltare.
Il suo sguardo tornò a piazzarsi nel mio con la stessa intensità e dolcezza di ogni maledetta volta; mi sentivo scrutata, ammirata, spiata e talvolta giudicata da quelle scure pozze color cioccolato. Gli tremavano le labbra, segno che, nonostante cercasse di impedirlo, di lì a poco sarebbe scoppiato in un pianto sommesso. Addolcii lo sguardo che prima sentivo gelido come se tutto il freddo del mondo si fosse concentrato lì e sospirai abbassando lo sguardo e le spalle arrendendomi a me stessa:
- Io… i.. io… -
Cercò nuovamente di parlare ma era così fuori di se che non riusciva a mettere una parola dietro l’altra così decise di agire avvicinandosi nuovamente ma stavolta con leggero timore finché non poggiò la fronte contro la mia ed anche se stavolta non mi staccai distolsi ancora lo sguardo:
- Che ti è successo? – domandò con un sussurro sforzandosi al massimo per non scoppiare di nuovo a piangere.
Non risposi. Lasciai che il silenzio ed il respiro di Tate mi cullassero. Volevo estraniarmi da questa situazione ma dovevo affrontarla, dovevo capire e soprattutto sapere anche se avevo paura; mi staccai di pochi centimetri e puntai il mio sguardo nel suo, poi presi coraggio e parlai:
- Mi hai abbandonata – la confusione si impossessò completamente di lui – Sei sparito… come hai potuto! Mi sono svegliata dopo due settimane di coma e mi sarei aspettata di vederti ma tu non c’eri! – presi fiato e continuai – E come se non bastasse cosa vengo a sapere? Che in tutto quel tempo che sono stata incosciente non sei passato a vedere come stavo neanche una volta! – mentre parlavo fissavo il lenzuolo bianco che mi copriva fino alla vita e nel frattempo mi passai una mano nei capelli in un gesto di pura frustrazione – Non hai pensato neanche un secondo che sarei potuta morire… -
- Oh, Axel… no, ti prego perdonami… - singhiozzò mentre faceva passare la mano sulla mia nuca spingendomi a poggiare nuovamente la fronte contro la sua.
- No! – lo spinsi via di nuovo – Dimmi perché non sei mai venuto a trovarmi quando avevo più bisogno di te! –
- È complicato… - sussurrò come un lamento quelle parole, un lamento di pura agonia.
- Perché con te lo deve sempre essere?! Perché non puoi semplicemente rispondermi? –
- Mi dispiace, mi dispiace… - singhiozzò – Ti prego, perdonami! –
Mi accorsi di essere scoppiata in lacrime anche io nel momento in cui sentii le delicate e caute dita di Tate sfiorarmi le guance per asciugarle. Era sempre tutto così complicato con lui, sempre misterioso ed ambiguo e questo mi faceva soffrire perché percepivo tutto come una grossa farsa che prima o poi mi sarebbe crollata addosso ed io non volevo soffrire, non più. Non per colpa sua. Tate era sconvolto, si era messo le mani nei capelli e si dondolava avanti e indietro mormorando cose senza senso; vederlo così mi spaventava e al tempo stesso ne soffrivo… era un ragazzo fragile, fin troppo per un mondo come questo. Un ragazzo con un animo troppo profondo e poetico che percepiva ogni emozione amplificata che fosse di gioia o dolore. Cercai di calmarmi e misi da parte la rabbia e la tristezza per cercare di capire, così stavolta fui io a cercarlo poggiandogli una mano sul ginocchio:
- Tate – niente – Tate, ascoltami – sussurrai con delicatezza cercando di riportarlo indietro dall’abisso nel quale era precipitato.
Alzò la testa smettendo di dondolarsi e poggiò una mano sulla mia stringendola con cautela per via dell’ago che vi ci era infilato, mi guardò con ancora sul volto quell’espressione smarrita e ferita; riabbassò lo sguardo e lo puntò sulle nostre mani e nel frattempo, con la mano libera, cominciò a sfiorare con estrema delicatezza intorno a dove si conficcava la flebo:
- Mi dispiace – sembrava essersi calmato ed essere tornato, almeno un po’, in se – So che sarei dovuto venire prima, so che dovevo starti vicino – ricominciò a tremare leggermente mentre dei singhiozzi minacciavano di uscire dalle sue labbra – Ma non potevo, me lo hanno impedito… è tutto così complicato… -
Lasciò la mia mano e se le mise nuovamente nei capelli rischiando di perdersi nuovamente negli angoli bui della sua mente, così decisi che avrei lasciato perdere e, si, era ingenuo da parte mia ma ora avevo bisogno di lui:
- Ok, ok… – sussurrai poggiandogli una mano sul viso – Va bene, ti credo, ora basta piangere c’è stato abbastanza dramma –
Lui annuì lentamente e dopo essersi asciugato gli occhi mi prese nuovamente tra le sue braccia e mi poggiò delicatamente contro il suo petto e stavolta invece di oppormi ed allontanarmi affondai una mano nei suoi mossi capelli biondi sentendo da parte sua un mormorio di assenso. Quando ci staccammo Tate avvicinò il suo volto angelico al mio e mi posò un piccolo bacio sul naso che mi fece sorridere leggermente; mi sorrise mostrando le sue adorabili fossette ed io arrossii distogliendo lo sguardo e mordendomi il labbro inferiore. Il letto si mosse ancora facendomi roteare lo sguardo su Tate che nel mentre si era avvicinato così tanto che i nostri volti erano separati solo per pochi centimetri. Il suo sguardo mi arrivava dritto nell’anima, lo sentivo scavare ed indagare ma più lo faceva, più si intristiva rendendosi conto delle condizioni in cui ero:
- Mi hai salvato la vita… - sussurrai – Te ne sarò grata per sempre – gli passai una mano tra i capelli tirandoli leggermente indietro mentre lui si lasciava andare al mio tocco beandosi del contatto di quel momento.
- Non ringraziarmi – scosse la testa con decisione – Ucciderei per te – la serietà che era spuntata nel suo sguardo quando pronunciò quelle parole mi provocò uno strano brivido che non seppi pienamente identificare rimanendo incerta tra il sollievo e la paura.
- Mio padre vuole che parli con la polizia riguardo l’aggressione nella speranza di poter dare dei dettagli fondamentali per la cattura di quei criminali – sospirai, poi ripresi – Come se io in quel momento avessi potuto far attenzione ad altro che non fosse quell’uomo che cercava di uccidermi – scossi la testa rassegnata e con gli occhi lucidi.
- Ehi, no… Sei al sicuro, sei viva e presto tornerai a casa – sorrise posandomi dei leggeri baci sulla fronte – Dimentica questa storia –
- Non ci riesco… - quelle parole mi uscirono con un sospiro tremante, quasi come volessero spezzarsi – Ogni volta che provo a chiudere gli occhi ho paura di vedere ancora quelle scene… -
- Non ti daranno più fastidio, te lo prometto – mi prese il viso tra le mani reggendolo con estrema delicatezza.
- Tu li devi aver visti, magari puoi aiutare tu la polizia… - mi interruppe a metà frase.
- Mi dispiace Axel, io li ho solo colpiti alle spalle e poi sono corso da te – scosse la testa – Quando ti hanno portata via sono tornato a controllare ma erano già scomparsi –
- Ho paura Tate, ho paura che un giorno possano tornare – mi poggiai con le spalle contro i cuscini e guardai il soffitto con l’ansia che man mano mi cresceva dentro fino a diventare un peso insopportabile da portare e sopportare.
- Ti proteggerò io, te l’ho promesso, ricordi? – disse con dolcezza.
- Si… - sussurrai – Lo ricordo molto bene – annuii con un nodo alla gola che diventava sempre più stretto – Se non fosse stato per te sarei morta, ti devo tutto –
- Sono io quello grato che tu sia salva – disse con profonda serietà analizzando con cautela i punti dove comparivano i segni delle ferite infieritemi dai quei maniaci.
Il suo sguardo vagò per qualche istante sul mio corpo, poi si fermò sull’addome: non indossando più il camice dell’ospedale ma un semplice top e dei pantaloncini, si notava perfettamente la spessa fasciatura che lo avvolgeva per tenere i punti al riparo ed evitare che qualcuno si aprisse nuovamente. Tate sembrava fissare quel punto come se vi ci fosse qualcosa di estremamente strano sopra, invece il suo sguardo la diceva diversamente: era spento, triste come se si attribuisse la colpa di quella ferita. Si avvicinò lentamente fino a posare su di essa le labbra lasciandoci sopra dei delicati baci come a volerla curare solo attraverso il suo tocco. Sorrisi leggermente e gli passai una mano tra i capelli. Questo ragazzo mi spingeva a combattere contro me stessa: da una parte c’era la mia costante incertezza nei suoi confronti visto che non conoscevo nulla di lui, ma dall’altra non potevo negare i miei sentimenti. Tutt’altra storia invece era con Ryan. Alzò la testa ed incrociò il mio sguardo, sorrise e mi lasciò un piccolo bacio sul naso:
- C’era qualcuno qui, prima che tu arrivassi – sussurrai.
- Chi? – domandò lui aggrottando la fronte perplesso.
- Non lo so – scossi la testa – Ma era qui, ed ho visto i suoi occhi che mi guardavano – mi interruppi per qualche secondo, poi continuai – Erano luminosi e fissi su di me… c’era il male là dentro… - sussurrai.
- Forse stavi sognando – aggrottò la fronte mentre mi posava dei baci sul volto.
- No Tate – scossi la testa – Ero sveglia, proprio come lo sono ora –
- Beh… - mi prese il volto tra le mani – Qualunque cosa sia, ora ci sono io qui e non devi temere nulla, ok? – annuii semplicemente e cercai di non pensarci più e godermi questo momento con lui.
- Va bene… - sussurrai.
- Ti andrebbe di alzarti? –
- Non posso Tate – dissi mostrandogli i vari tubi ai quali ero collegata.
- Quando ti faranno uscire da questo posto infernale? – domandò con un sorriso amareggiato.
- Dicono tra una settimana – feci spallucce – Non ce la faccio più a stare qui dentro – sospirai – Odio gli ospedali – distolsi lo sguardo dal suo.
- Ehi… - mi prese ancora il volto tra le mani costringendomi a guardare i suoi occhi scuri – Pensa che presto sarai nuovamente a casa e potrò venirti a trovare con più libertà – sorrisi ed annuii poco convinta. Non sarebbe passato. Questa sarebbe stata l’unica visita.
Mi stampò un bacio sulla fronte poi, con delicatezza, mi aiutò a spostarmi finché non si posizionò dietro di me facendomi poggiare contro il suo petto. Iniziò, senza dir nulla, a passare delicatamente le punte delle dita sulle mie braccia provocandomi una leggera pelle d’oca; sorrise a quella reazione e poggiando le labbra sulla mia guancia iniziò a stamparci sopra dei piccoli baci che mi fecero sorridere:
- Mi sei mancata da morire – sussurrò tra un bacio e l’altro – L’angoscia mi stava divorando –
- Tate, basta – dissi staccandomi da lui – Non voglio parlarne, ok? – annuì leggermente.
- Mi dispiace… perdonami –
Mi riprese tra le braccia facendomi di nuovo poggiare contro il suo petto, mi abbandonai a quella sensazione e mentre Tate continuava a lasciarmi dei baci sulla testa mi addormentai. Al mattino seguente fu come quella sera nella mia stanza: non c’era nulla che testimoniasse la presenza di Tate la scorsa notte. Sospirai e lasciai perdere. Odiavo quando al mattino mi lasciava così in sospeso, ma non potevo farci nulla. Tate era così. Misterioso e sfuggente, ma ogni momento passato con lui era speciale. All’improvviso la porta si spalancò facendomi sobbalzare e da essa entrò Ryan con un sorriso sulle labbra ed una scatola di dolci in mano:
- Finalmente ti sei svegliata! – esclamò scoppiando a ridere.
- Che ore sono? – domandai confusa.
- Quasi ora di pranzo –
- Ryan – lo chiamai con un certo rimprovero.
- Che c’è? – alzò un sopracciglio fingendosi innocente
- Non dovresti essere a scuola!? – domandai esasperata mentre continuavo a guardarlo con attenzione seguendo ogni suo movimento finché non si sedette accanto a me.
- Si, ma sono uscito prima per venirti a trovare – fece spallucce e sorridendo talmente ampiamente da farsi uscire le fossette – Eri qui sola soletta e allora ho pensato di venir qua –
- Oh bene, adesso mi usi anche come scusa per saltare le lezioni – ridacchiai fingendomi offesa – Ma bravo! –
- Certo che no! – sorrise – Beh forse un po’ si – sussurrò ed io gli diedi scherzosamente un buffetto sul braccio che lo fece ridere ancora di più.
- Comunque mi fa piacere che sei passato – sorrisi – Qui dentro il tempo sembra non passare mai –
- Immagino – annuì – Per questo mi sono preparato una cosa da raccontarti – esclamò.
- Cosa? – domandai perplessa.
- Una storia che ci hanno raccontato ieri per Halloween – sorrise alzando le sopracciglia entusiasta.
- Va bene – sospirai mentre scuotevo la testa con un leggero sorriso sulle labbra – Forza, racconta –
- Nel 1994 nella nostra scuola ci fu una strage, un ragazzo venne a scuola armato di un lungo fucile ed iniziò a sparare da tutte le parti uccidendo all’incirca 15 studenti se non di più – inarcai le sopracciglia – L’ultimo posto dove andò fu la biblioteca. Lì dentro si erano chiusi un professore ed altri sei alunni; chi era nascosto sotto i banchi, chi dietro le librerie ma lui li trovò comunque, i ragazzi lo implorarono di lasciarli vivere, lo supplicarono in lacrime ma tutto ciò che ottennero prima che lui li uccise fu uno sguardo indifferente ed un sorriso malefico – fece una piccola pausa poi riprese – Se ne andò con tranquillità, come se non fosse successo nulla; tornò a casa e si chiuse nella sua stanza. Più tardi quel giorno entrarono nella villetta degli agenti delle forze speciali per arrestarlo, lui fece per afferrare il fucile ma prima che potesse farlo gli spararono contro una raffica di proiettili e morì nel giro di qualche secondo – terminò con un leggero sorriso amaro.
- Che storia… - sussurrai sconvolta – Ma perché raccontarmela? –
- Perché quello che non ti ho detto è che l’unico sopravvissuto della strage in biblioteca fu il professore, rimase paralizzato a vita ed ora è confinato su una sedia a rotelle ma è vivo ed è ancora a scuola –
- Oh mio Dio… - sussurrai – Ho capito di chi si tratta –
- Me l’ha raccontata un ragazzo del quinto che ho conosciuto in questi giorni –
- Hai fatto amicizia allora?! –
- Più o meno – fece spallucce – Diciamo che avevo trovato un sostituto temporaneo finché tu non ti saresti rimessa – ridacchiò.
Sorrisi leggermente, ma in testa avevo ancora la storia che mi aveva raccontato. Era qualcosa di agghiacciante. Come può una persona, anzi, un ragazzo, compiere un gesto del genere? Dentro di me sentivo una strana sensazione che mano a mano cresceva sempre più forte fino a che non si posizionò in gola come a voler uscire a forza. Qualcosa mi spingeva a parlare, a porre una strana domanda che per la mia parte più inconscia era di vitale importanza ma ne ignoravo completamente il motivo. Alla fine quando aprii bocca nemmeno me ne accorsi, fu come se qualcosa al di fuori di me comandava le mie azioni:
- Qual era il nome del ragazzo? – chiesi con un filo di voce
Ryan mi guardò per svariati istanti, poi in un sussurro che venne inghiottito dal silenzio della stanza rispose:
- Tate Langdon –

ANGOLO AUTRICE

Chiedo umilmente perdono per il clamoroso ritardo, ma purtroppo ero a corto d'idee. Spero che questo capitolo vi piaccia e di nuovo chiedo scusa per la lunga assenza. Detto questo, prometto che non farò più passare un'eternità prima di pubblicare ancora; inoltre ringrazio chiunque leggerà il capitolo e lascerà anche una piccola recensione per dire cosa ne pensa.
Un bacio a tutti

GiuliaStark
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2950528