Panacea Project di LadyRealgar (/viewuser.php?uid=783442)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1461 giorni ***
Capitolo 2: *** Dove si impara quanto sia importante avere un telefono tra le strade di New York ***
Capitolo 3: *** Il Caffé Quotidiano ***
Capitolo 4: *** R(h)umor et silentium ***
Capitolo 5: *** Ricordi e cicatrici ***
Capitolo 6: *** Dove Peter viene coinvolto nelle attività del Daily Coffee e onora l'impegno preso con zia May ***
Capitolo 1 *** 1461 giorni ***
Disclaimer:
i personaggi e le situazioni relative al mondo Marvel (fumettistica e
MCU) non mi appartengono, ma sono frutto della fervida fantasia di
Stan Lee e degli altri autori.
1.
1461 giorni
-Nella
storia
dell’uomo il tempo ha assunto connotazioni e caratteristiche-
gracchiava la voce del professor Miller,
dell’università di
Harvard, resa metallica dagli altoparlanti della vecchia televisione
–Differenti
e varie sulla base della civiltà
in cui tale concetto veniva preso in analisi. Nella cultura classica,
come anche quella indiana, esso era rappresentato da un ciclo,
assimilabile al trascorrere delle stagioni, per cui vi è la
nascita,
lo sviluppo, l’invecchiamento e, infine, la morte, a cui
segue un
nuovo ciclo di nascita, sviluppo, eccetera. Nel contesto biblico e
coranico, invece, possiamo rappresentare il succedersi degli eventi
come una linea retta,
in
cui le azioni umane sono irreversibili e destinare a rimanere tali
per l’eternità. Sebbene la teoria di Lavoisier,
con il concetto di
eternità di massa e materia, tenda ancora ad avvicinarsi
all’idea
di tempo ciclico, gli studi newtoniani escludono questa visione,
considerando, ad esempio, l’irreversibilità di
alcuni processi
chimico-fisici. La fisica moderna, invece, sembra ritornare al
tempo-ciclo, anche se con alcune variazioni, come, ad esempio, la
concezione a spirale formulata da Einstein nella Teoria della
Relatività.
Mentre
serviva l'ultimo caffè della giornata a una guardia notturna
che
stava per iniziare il suo turno di sorveglianza nel centro
commerciale lì vicino, Chiara non avrebbe saputo spiegare la
teoria
di Einstein riguardo allo scorrere del tempo, ma di una cosa era
certa: i suoi ultimi 1461 giorni1
se li sentiva tutti sulle spalle, con tutto il peso delle 35.064 ore
passate da quando il Bifrost l'aveva fatta atterrare nel campo di
grano da poco mietuto della famiglia Rossi, suoi vicini di casa.
Quando
la tazza di ceramica giallo limone fu piena, la guardia la
ringraziò
con un sorriso, mostrando il vuoto creato dalla mancanza del quarto
incisivo inferiore, e cominciò a zuccherare abbondantemente
la
bevanda scura.
-Arianne-
chiamò una voce roca da dietro la porta della cucina -Puoi
venire un
momento?
Chiara
appoggiò in fretta la brocca del caffè, ormai
vuota, sul bancone
del bar e, saltando il pavimento bagnato che la sua collega Talia,
armata di mocho, stava pulendo prima della chiusura della tavola
calda, arrivò alla porta della cucina, il cui
oblò di vetro faceva
intravedere l'interno del locale.
La
ragazza spinse la vecchia porta di legno, che cigolando
ruotò sui
cardini arrugginiti, e un forte puzzo di bruciato le
impregnò
violentemente le narici, mentre un leggero borbottio di disappunto le
giungeva alle orecchie da un vano del bancone alle sue spalle, in cui
un cane meticcio, accoccolato sopra un cuscino di tela verde pisello,
osservava la scena e sembrava molto contrariato da quel puzzo.
-Cosa
succede, mr Bailey?- domandò Chiara, correndo ad aprire la
finestra
per arieggiare la cucina e far uscire la nuvola nera che si era
formata sul soffitto.
-Dev'essere
ancora quel maledetto fusibile!- imprecò il corpulento uomo,
togliendo dal forno una teglia su cui una torta carbonizzata
troneggiava tristemente, emanando fumi grigi.
Il
signor Charles Bailey, proprietario del bar-tavola calda il Daily
Coffee
presso cui Chiara lavorava, era un uomo di colore di sessant'anni,
dalla splendida voce baritonale, purtroppo resa
roca e aspra
dalle innumerevoli sigarette che fumava quotidianamente, e dai grandi
occhi color ebano che rispecchiavano la sua natura gioviale e
cortese.
Il
signor Bailey, posata la teglia sul lavandino, si sfilò
dalle mani
callose i guanti da forno e rimase per un attimo ad osservare con
disappunto il cadavere della torta di carote che giaceva davanti a
lui: amava il suo lavoro più di qualunque altra cosa,
eccezion fatta
per la signora Bailey, e in quello che faceva metteva tutto il suo
impegno e tutti i suoi cinquant'anni di esperienza, perciò,
ogni
qualvolta che un dolce si bruciava o un piatto gli scivolava dalle
mani, la prendeva come una forma di sconfitta personale.
-Doveva
essere molto buona!- disse la ragazza, cercando di risollevargli un
po' il morale.
-È
tutta colpa di quello stupido forno!- disse il signor Bailey,
indicando l'elettrodomestico incriminato con l'indice teso, quasi
fosse stato davanti a un giudice in un tribunale.
-Quel
povero forno sarà più vecchio di te!-
esordì Talia, entrando in
cucina con le ultime stoviglie da lavare su un vassoio di latta
-Sarà
prossimo alla discarica.
-È
un oggetto vintage!- ribatté quasi offeso l'uomo, mentre
buttava il
blocco carbonizzato nel cestino e si avvicinava al forno per
esaminarlo meglio.
-Sarà
anche vintage- riprese Talia, ridacchiando -Ma se un giorno la cucina
prende fuoco io sarò quella che scapperà per
prima!
Nel
frattempo il proprietario del locale, facendo attenzione a non
scottarsi, aveva staccato la presa e aveva rigirato il forno, per poi
estrarre un piccolo fusibile annerito e fumante: -Eccolo qua, il
piccolo criminale!- esclamò Charles, poi, rivolgendosi a
Chiara,
chiese: -Lo so che è la seconda volta questo mese, ma
potresti
chiede al tuo amico se può fare di nuovo il suo miracolo?
Chiara
riusciva a leggere il senso di disagio che permeava quella domanda:
il signor Bailey era un uomo di profondo orgoglio, che nella vita
aveva sempre lavorato sodo per non dover mai chiedere niente a
nessuno, ma quelli erano tempi difficili per il Daily
Coffee,
che lottava contro la spietata concorrenza delle grandi catene in
franchising di caffetterie, ed era necessario stringere un po' la
cinghia per tirare avanti.
Tempo
addietro il signor Bailey aveva ricevuto dalla banca un avviso di
pignoramento per via del debito che aveva contratto per mettere in
regola l'impianto elettrico e quello idraulico secondo la nuova
normativa: da mesi il signor Bailey, impegnato a pagare, oltre allo
stipendio delle sue dipendenti, la clinica che si occupava della
moglie affetta dal morbo di Ahlzeimer, non era riuscito a pagare le
rate del mutuo.
E
ora sulla sua testa pendeva la minaccia dello sfratto,
perciò spese
come la sostituzione di un vecchio elettrodomestico dovevano
attendere momenti più rosei.
-Lo
pagherò non appena avrò sistemato le cose con la
banca- aggiunse
l'uomo -Deve solo dirmi la cifra.
Chiara
sospirò e, prendendogli dalle mani il piccolo oggetto di
metallo,
disse: -Non ti preoccupare, non è tipo che ha bisogno di
essere
pagato per questi lavoretti. Lo fa praticamente per hobby.
-In
ogni caso, troverò il modo di ringraziarlo per i suoi
miracoli!-
sorrise Bailey, la cui indole allegra non gli permetteva di restare
arrabbiato per più di dieci minuti.
"La
vita è troppo breve per sprecarla in tristezza" era solito
dire.
-Il
pavimento della sala è uno specchio- disse Talia, mettendosi
i
guanti di gomma rosa per i piatti -La macchina del caffè
è stata
pulita e ora rimangono solo gli ultimi piatti per concludere la
cerimonia della chiusura.
-Ottimo
lavoro, ragazze- sorrise Bailey, puntellando le grosse mani sui
fianchi -Ora però si è fatto tardi,
perciò voi andate pure. Ci
penserò io ai piatti sporchi.
-Ma
mr Bailey...- tentò di protestare Chiara, interrotta,
però,
dall'uomo che con un gesto della mano chiuse il discorso: -Siete
giovani, non potete certo rimanere a fare la muffa qui dentro! Andare
a riposarvi. Ci vediamo domani, ragazze!
Le
due cameriere si lanciarono un'occhiata complice: tentare di
discutere con Charles era come cercare di abbattere un muro a
testate, impossibile e controproducente. Rassegnate, salutarono
educatamente il proprietario del caffè,
si tolsero i grembiuli e, seguite a ruota dal cane, uscirono dal
locale, facendosi investire dalla fresca e umida aria di fine
Settembre. Per le strade di quel popoloso quartiere di Brooklyn
c'erano già festoni, zucche, fantasmi fosforescenti e
streghe di
plastica in attesa della notte di Halloween; -Dovremmo cominciare
anche noi ad addobbare il Daily-
considerò con tono vago Talia, intenta ad accendersi una
sigaretta,
osservando una testa del mostro di Frankenstein di carta pesta che
ondeggiava da un balcone del palazzo a fianco.
-Credo
che Bailey voglia preparare qualche dolcetto a tema- rispose Chiara,
agganciando il guinzaglio
al
collare dell'animale -Spero solo che non ci chieda di vestirci da
zombie come l'anno scorso!
-Con
le occhiaie che ci ritroviamo? Non avremo bisogno di travestirci!-
ridacchiò la ragazza, espirando una nuvoletta di denso fumo
grigio.
-E
Annibale lo travestiamo da lupo mannaro- rise Chiara rivolgendosi poi
al meticcio che al suo fianco annusava interessato
l'asfalto del marciapiede -Che ne dici, giovanotto?
Quello
alzò il muso e iniziò a scodinzolare, avvicinando
il naso alla
gamba della padrona per ottenere delle carezze: -Con questo musino
dolce?- chiese Talia, facendo un buffetto sul naso dell'animale -Non
spaventerebbe nessuno.
-Forse
hai ragione- rispose Chiara, osservando distrattamente il quadrante
del suo orologio da polso: erano le 22.11.
-Che
farai stasera?- le chiese la squillante e armoniosa voce dell'amica.
-Andrò
subito a trovare il mio amico elettricista o domani mattina non ci
saranno brioches da servire- rispose vaga la ragazza iniziando a
cercare nella borsa l'abbonamento dell'autobus ed estraendolo dopo
qualche secondo dalla tasca laterale -Tanto dovevo già
passare da
lui.
-Passi
molto tempo da questo elettricista- esordì maliziosa Talia,
spegnendo il mozzicone della sigaretta sul cestino più
vicino e
buttandolo -Non è che per caso è
un po' più di un amico?
Chiara
alzò un sopracciglio: -Credimi, no. No, davvero-
rimarcò il
concetto notando l'espressione incredula dell'amica -Non ho
né tempo
né voglia di impegnarmi con qualcuno e, te lo assicuro, lui
sarebbe
l'ultima persona con cui vorrei fare coppia. E poi è
già fidanzato e anche da qualche anno, oramai.
-Peccato-
sospirò la cameriera mentre si incamminavano verso la
fermata
dell'autobus -Sarebbe carino sentirti parlare di ragazzi. O di
ragazze. O di qualunque persona che possa attirare il tuo interesse.
-Forse
un giorno- ridacchiò Chiara, avvolgendole le spalle con un
braccio
-Ma non ci spererei troppo! Tu, piuttosto, come è andata con
Thomas?
Non te ne ho più sentito parlare dall'ultima volta che siete
usciti
insieme. Quando è stato? Una settimana fa?
-Due
settimane e mezzo, a dire il vero- precisò l'altra,
stringendosi
nella giacca a vento -Sembrava andasse piuttosto bene: era carino,
simpatico e tutto, ma poi ha detto che Spiderman è un
criminale al
pari di quelli che pretende di catturare. Ti lascio immaginare in che
modo l'abbia piantato.
-Avevi
qualcosa di liquido in mano?
-Sì,
una cioccolata calda- ridacchiò Talia.
-Povero
ragazzo, l'avrai ustionato! Ma nessuno può osare toccare il
tuo
Spidey!
-No,
nessuno, nemmeno J. Jonah Jameson!- la risolutezza dell'amica non
fece altro che incrementare il riso di Chiara -Lo difenderò
fino
alla fine dei miei giorni.
-O
dei suoi- ribatté asciutta la ragazza -Non vorrei davvero
trovarmi
nei suoi panni con tutti i criminali che lo vogliono morto.
-Ma
lui sarà sempre una ragnatela avanti a loro!
Un
paio di grossi fanali gialli, sormontati dalla scritta luminosa
"Midtown, Manhattan" si avvicinarono alla pensilina e le
due ragazze di salutarono in fretta, permettendo così a
Chiara di
salire sul mezzo e, mostrato l'abbonamento al conducente, di prendere
posto in uno degli ultimi sedili in fondo. A quell'ora non c'erano
molti viaggiatori e praticamente tutti i sedili erano vuoti, ma
quella era un'abitudine che aveva acquisito ai tempi del liceo, in
cui i posti in fondo sono quelli dei "fighi", e che non si
era riuscita a togliere. Più per scaramanzia che altro. E
inoltre le
piaceva sentire il ronzio del motore sulla schiena e sotto al sedere:
era quasi come essere cullati e su di lei aveva un effetto distensivo
e rilassante.
Sentì
il muso di Annibale appoggiarsi delicatamente sulle sue ginocchia e,
accarezzandogli la testa affusolata, si mise ad osservare il
caleidoscopio di luci della New York notturna. Era stata in una notte
come quella, si ritrovò a pensare la ragazza, che la vecchia
Ford di
Clint aveva attraversato il ponte di Brooklyn, lasciandosi alle
spalle la luccicante Manhattan e addentrandosi nelle strade ben
più
sobrie del distretto di Brooklyn, nel Long Island.
Non
era la prima volta che lei e Clint arrivavano in una nuova
città, ma
quella era stata diversa: non sarebbero stati lì solo il
tempo delle
visite e delle analisi di consuetudine tra le quattro mura di una
clinica, ma si sarebbero trasferiti a tempo indeterminato.
Così
aveva deciso Fury dopo essere tornato dalla tomba in cui si credeva
giacesse freddo e riempito di piombo: gli esperimenti dovevano essere
mandati avanti, ma con discrezione. Dovevano nascondersi, celarsi
agli occhi dell'HYDRA e apparire come comuni cittadini; quale posto
migliore per nascondersi se non la frazione più popolosa
della città
più caotica di tutti gli States?
Se
Chiara ripensava al viaggio che aveva programmato di fare in America
per festeggiare la laurea, le veniva quasi da ridere: non poteva
certo immaginare che sarebbe stata l'America stessa a venirla a
prendere.
Era
appena tornata da casa di Marco e gli occhi le bruciavano dopo il
pianto fatto in macchina lungo tutta la strada del ritorno, l'unica
cosa che desiderava era infilarsi nella doccia e continuare a
piangere e non fece caso alla macchina nera che era parcheggiata
dietro casa.
Lasciò
l'automobile al suo posto abituale e corse alla porta, aprendola di
scatto e trovando nel proprio salotto quella che sembrava essere una
piccola riunione tra la sua famiglia e due sconosciuti: un uomo di
colore in long coat nero di pelle e una benda sull'occhio e una donna
dai capelli rossi in jeans e camicia lillà.
Il
gruppo si voltò a guardarla non appena ebbe aperto la porta
e suo
padre le fece cenno di avvicinarsi. Sul volto dei suoi familiari
Chiara lesse sgomento e la presenza dei due estranei non le suggeriva
nulla di buono.
-Chiara,
tesoro- esordì suo padre con un sorriso forzato -Ti presento
il
signor Fury e la signorina Romanoff, dall'ambasciata statunitense.
Sono venuti qui per farti delle domande riguardo quello che ti
è
capitato.
L'uomo
chiamato Fury si alzò dalla poltrona su cui sedeva e le
strinse
solennemente la mano; la sua stretta era ferma e salda. Chiara
sentì
la forza di quell'arto nascosto dal cuoio nero: avrebbe potuto
romperle il metacarpo come se fosse stato fatto di cartapesta, ma le
dita che si strinsero attorno al suo palmo erano perfettamente
controllate.
La
donna, invece, non si avvicinò per svolgere i consueti riti
di
presentazione, ma si limitò a studiarla con i suoi freddi
occhi blu
e a sorridere cordiale. Per la ragazza fu come trovarsi di fronte a
una pantera: affascinante ma al contempo pericolosa.
-Cosa
c'entrano gli USA con quello che mi è capitato?- chiese
diretta
Chiara ai due sconosciuti.
-Forse
avrai letto sui giornali o sentito alla televisione dei fatti
accaduti a New York- la pronuncia della donna era piuttosto incerta,
con cadenze e suoni tipiche della lingua inglese, ma la grammatica
era impeccabile -Abbiano saputo che in queste zone si è
verificato
di un fenomeno simile, con l'arrivo improvviso di creature non
terrestri attraverso un passaggio interdimensionale. Abbiamo fatto le
nostre ricerche ed esse ci hanno condotto a te.
-Specifico
la domanda, allora- riprese la ragazza cercando di mantenere il
sangue freddo -Cosa volete da me?
-Solo
parlarti- rispose la signorina Romanoff -Per il momento-
rettificò
un secondo dopo -Dipende da quello che apprenderemo dal nostro
colloquio.
I
suoi familiari capirono l'antifona e uscirono in fretta dal salotto,
lasciando i tre a discorrere in tranquillità; tra i due era
Romanoff
l'unica che parlava l'italiano perciò era anche quella che
poneva le
domande, ascoltava le risposte e le riferiva, tradotte in inglese,
all'uomo. Fury ascoltava attento e osservava: per tutta la
conversazione e gli anni a seguire in cui fu in stretto contatto con
Nick Fury, Chiara si sentì quell'occhio scuro puntato su di
sé
senza un attimo di sosta, mettendola piuttosto a disagio.
Le
chiese di raccontare quello che le era capitato, di descrivere fatti,
luoghi e persone e, quando si arrivò a parlare di Phoneus e
dei
mezzi di trasporto degli Elfi chiari Chiara vide la Romanoff
sporgersi in avanti e strizzare leggermente gli occhi, come un gatto
in agguato. Per tutto il tempo Chiara fece attenzione a non nominare
la figura di Loki.
Quando
la Romanoff ebbe concluso le domande e riferito le ultime cose al suo
superiore, i due si misero a confabulare fittamente in inglese;
Chiara non era mai stata molto brava nelle lingue straniere ma
riuscì
a distinguere una frase che la fece rabbrividire: We must bring her
to Washington.
A
quel punto fu, finalmente, Fury a parlare: -È necessario per
la tua
sicurezza che vengano fatti degli accertamenti. Domani mattina
verremo a prenderti alle 4, fatti trovare pronta.
La
pronuncia era pessima e l'accento era caduto più volte sulla
sillaba
sbagliata, ma aveva proferito quelle parole con sicurezza: doveva
essersi preparato quella battuta prima di incontrarla. Il che
significava che per tutto quel tempo era già stato deciso
cosa ne
sarebbe stato di lei.
-Non
voglio.
I
due sconosciuti si bloccarono a metà della stanza, da cui
stavano
uscendo per avvisare i suoi genitori della decisione presa, e
rimasero a fissarla per qualche secondo.
-Non
vado da nessuna parte- ripeté la ragazza -Chi mi dice che
posso
fidarmi di voi?
I
due si scambiarono un'occhiata eloquente e la Romanoff, emettendo un
sospiro, le si avvicinò; il suo primo istinto fu quello di
retrocedere ma si impose di rimanere ferma dove si trovava: non
doveva mostrare timore.
-Chiara-
iniziò la rossa -Ti ricordi di quello che è
capitato a New York un
paio di anni fa? Il signor Fury ed io facciamo parte di
un'organizzazione antiterroristica che si occupa di affrontare
emergenze di questo tipo e quello che ti è successo fa parte
della
nostra amministrazione: se quello che ci hai raccontato è
vero, le
conoscenze che hai acquisito potrebbero esserci di grande aiuto per
prevenire eventuali altri attacchi. Potresti impedire che altri
civili vengano coinvolti in guerre e attentati da parte di forze
aliene. Terresti la tua famiglia al sicuro.
Un
sobbalzo dell'autobus e il suono del clacson la svegliarono
bruscamente, le ci volle una frazione di secondo per capire dove si
trovasse e perché l'uomo al volante le stesse dicendo di
scendere,
ma quando comprese di essere giunta al capolinea, prese il proprio
zaino dal sedile accanto e condusse Annibale fuori dal mezzo.
Attorno
a loro la scintillante e rumorosa Manhattan li avvolgeva con la sua
luce e il suo smog, che anche a quell'ora della sera non mancava mai
di appestare l'atmosfera; il cielo a mala pena si vedeva tra le teste
degli alti grattacieli pieni di uffici solitamente brulicanti di
persone e appartamenti lussuosi. In alto all'edificio che
maggiormente svettava nello skyline della Grande Mela la scritta
luminosa STARK era come un faro tra le correnti di un mare di
macchine, negozi, rumori di ogni sorta e odori di ogni tipo, la cui
luce la ragazza si apprestò a seguire non appena fu scattato
il
verde dell'attraversamento pedonale.
Come
sempre quando andava da Stark, la hall di ingresso alla Tower era
buia e inanimata, ma dall'altoparlante del citofono una familiare
voce la accolse pochi secondi dopo che ebbe premuto una combinazione
di tasti: -Buonasera Miss Watson- la voce artificiale le
arrivò
gracchiante ai timpani, appena percettibile in quella bolgia di suoni
di motori di automobili -Il signor Stark la sta aspettando all'ultimo
piano.
-Grazie,
Jarvis- rispose Chiara attraversando le porte di vetro antiproiettile
che si erano aperte per farla entrare.
-Posso
chiederle di lasciare il canide fuori dall'edificio?- riprese
l'intelligenza artificiale sfruttando gli altoparlanti della hall,
mentre i due nuovi arrivati la percorrevano in direzione
dell'ascensore.
-No,
Jarvis- ribatté Chiara -Per l'ennesima volta.
Ding!
squilò allegro il campanello dell'ascensore raggiungendo il
piano
terra e aprendo le sue porte. Chiara entrò e premette il
bottone con
il numero 31, i meccanismi si attivarono di nuovo e la scatola
metallica iniziò a salire lenta.
-Devo
forse rammentarle che il canide ha quasi urinato sui miei circuiti
l'ultima volta che è venuta a farci visita, Miss Watson?-
chiese
l'I.A.
-"Quasi",
Jarvis- sottolineò Chiara con la voce -Se ben ricordi l'ho
portato
fuori prima che potesse fare alcunché. Questa volta,
inoltre, mi
sono assicurata che abbia fatto tutto prima di portarlo qui. Puoi
stare tranquillo per i tuoi circuiti.
L'assistente
computerizzato di Stark non disse più nulla e nell'ascensore
gli
altoparlanti diffusero la melodia della Primavera di Vivaldi come
sottofondo della lunghissima ascensione verso il loft del
miliardario. Annibale sbadigliò annoiato e si distese sul
pavimento
di metallo dell'ascensore.
Sulla
porta un piccolo schermo si illuminava mostrando dei numeri in
progressione e Chiara seguì con lo sguardo sul quadrante i
piani
raggiunti: 9...10...11...12...13...14...
Sospirò,
cercando di ricordare quante volte aveva aspettato quegli
interminabili 30
piani prima di raggiungere il genio/milionario/playboy/filantropo che
aveva realizzato la H.A.D.: Health and Analysis Device, la macchina
che, in pratica, teneva sotto controllo la sua vita da quasi due
anni.
"Clint,
tesoro" aveva chiamato Laura dalla finestra della cucina che si
affacciava al granaio, dove Occhio di Falco stava piallando un'asse
di legno che avrebbe fatto parte della nuova porta del piano di sopra
"Al telefono!".
Chiara,
seduta sul divano a guardare la televisione assieme alla figlia
minore della coppia, aveva teso istintivamente le orecchie: le uniche
telefonate che i Barton ricevevano erano da parte dei genitori di
Laura e, solitamente, avvenivano tra le 18 e le 20. Erano soltanto le
16.37 e chiunque avesse chiamato di certo non era la nonna di Kate,
che giocava con le bambole al suo fianco, mentre la televisione
trasmetteva le immagini dell'abbattimento del Quartier Generale dello
S.H.I.E.L.D. a Washington DC. "Attacco terroristico agli uffici
del Triskelion" diceva la scritta che scorreva veloce sul fondo
dello schermo "Steve Rogers aka Capitan America risulta
disperso".
Alle
sue spalle la porta si aprì e i familiari passi dell'agente
Barton
attraversarono il corridoio di ingresso e raggiunsero la cucina; con
uno scatto felino, Chiara si alzò dal divano e, fingendo di
scegliere un dvd dalla videoteca, drizzò le orecchie,
concentrando
tutta la sua attenzione sull'ascolto.
-Ma
come diavolo...?- udì Barton imprecare alla cornetta poi il
silenzio. Dopo circa un minuto Clint parlò di nuovo, la sua
voce di
nuovo fredda e controllata: -Sì, signore. Saremo
lì.
Il
click del tasto del telefono wireless decretò la fine della
conversazione e Chiara poté facilmente immaginare quale
espressione
si fosse disegnata sul viso dell'agente dall'altra parte del muro.
Un'espressione molto probabilmente simile alla sua: che Chiara
sapesse c'era solo una persona a cui Clint Barton si rivolgeva con
quell'appellativo. Ed era morta circa una settimana fa.
-Va
tutto bene?- chiese istintivamente all'uomo sconvolto che le si era
avvicinato.
-Prepara
la valigia- rispose l'agente puntandole contro le sue iridi color del
ghiaccio -Stasera abbiamo un appuntamento e ritengo che sia meglio
essere preparati ad ogni evenienza.
-Chiara
va via?- Kate aveva messo da parte i suoi giochi e li osservava dal
divano con un'espressione preoccupata.
-Può
darsi- le rispose Clint, prendendola in braccio e stampandole un
grosso bacio sulla guancia, facendola ridere per il solletico che la
sua barba di tre giorni le aveva procurato -Ma poi ritorna- aggiunse
poi, rivolgendo a Chiara un sorriso, che però lei non
ricambiò: le
piacevano i Barton e in loro aveva trovato quel calore familiare che
da due anni le mancava, dormire in una vera casa, abitata da persone
vere e non da agenti federali con una pistola sempre attaccata alla
cintola, era un'oasi verde nel bel mezzo di un deserto di cemento
armato, asfalto e vetro
antiproiettile.
Rifugiarsi presso di loro era stata la cosa migliore che le fosse
capitato in quegli ultimi mesi e, se solo avesse potuto, sarebbe
rimasta lì a oltranza, ma l'incanto dell'idillio era
svanito, come
spesso accade, troppo presto e quella notte, messi a dormire i
bambini e stretto un'ultima volta in un abbraccio la cara Laura,
Chiara e Annibale salirono sulla vecchia Ford di Clint, viaggiando
nell'oscurità.
In
pochi minuti raggiunsero un locale notturno sull'autostrada, sporco,
rumoroso e pieno di gente dall'aria poco raccomandabile, ma oramai,
pensò Chiara quando ebbe oltrepassato la soglia
dell'edificio, posti
del genere non la spaventavano più. Non sapeva dire,
però, se fosse
dovuto al numero spropositato di motel che aveva frequentato negli
ultimi mesi o per la presenza rassicurante di Clint.
"Forse
entrambe le cose" si disse, quando vide l'agente lanciare
un'occhiata intimidatoria a un uomo ubriaco che la stava osservando e
che, spaventato dallo sguardo del Falco, aveva immediatamente
focalizzato la sua attenzione sul bicchiere vuoto che aveva davanti.
-Hai
detto che avevamo un appuntamento- bisbigliò la ragazza al
suo
protettore -Con chi?-; la risposta di Barton fu un veloce cenno del
capo in direzione del tavolo in fondo alla sala, a fianco delle slot
machines, e Chiara capì, paralizzandosi sul posto.
-Oh
mio Dio...- sussurrò, riconoscendo nell'uomo in maglione
scuro e
berretto da baseball che sedeva al tavolo proprio il presunto defunto
capo dello S.H.I.E.L.D.,
Nick Fury.
-Buonasera-
le sorrise Fury, emettendo un sospiro di sollievo -Pensavi
già di
esserti liberata di me?
-Lo
credevamo tutti- intervenne il Falco prendendo posto al tavolo e
lanciando una veloce occhiata alla stanza -Natasha in persona mi ha
chiamato per dirmi che un pazzo con una protesi di metallo ti aveva
freddato, che l'Hydra si era infiltrata nell'agenzia e che tutti i
files sul progetto Panacea erano spariti dai server e dalla banca
dati. Poi ho visto al telegiornale il Quartier Generale venire
ridotto a un cumulo di macerie e nessuna notizia né da Nat
né da
Steve né dalla Hill mi è pervenuta! Per l'amor
del Cielo, hai idea
della condizione in cui mi sono trovato?
-Lo
capisco, Barton- disse con tono conciliante il capo dello
S.H.I.E.L.D. -E credimi quando ti dico che mi dispiace, ma le
condizioni e i tempi hanno richiesto l'inscenamento della mia morte.
Nemmeno Romanoff aveva idea di quello che stava accadendo.
-Questo
non mi rassicura- sbuffò Clint, ancora molto nervoso -Che ne
è
stato dei files?
-Se
l'Hydra fosse riuscita a mettere mano sul progetto Panacea, a
quest'ora avreste avuto ogni singolo agente corrotto e traditore alle
spalle e, anche se sono sicuro che gli avresti dato diverso filo da
torcere, non ci sarebbe stato un solo posto sicuro in cui rifugiarvi.
Nemmeno il tuo Nido, Falco.
-Quindi
dove sono?- sbottò impazientemente la ragazza.
-New
York.
New
York le si aprì luminosa davanti agli occhi
allorché le porte
dell'ascensore sparirono nelle pareti perfettamente bianche del loft
elegante del miliardario dall'abito di ferro; era uno spettacolo
mozzafiato ammirare l'Empire State Building, la Statua della
Libertà
e Central Park dall'alto, dorati delle migliaia di luci che mai si
spegnevano nella città insonne.
-Anne,
tesoro!- l'accolse una voce flautata, accompagnata dal ritmo secco e
cadenzato dei tacchi -Come stai?
-Ciao
Pepper!- le sottili braccia della donna la avvolsero in un abbraccio
amichevole e caldo, nonostante il freddo colore delle sue occhiaie,
che facevano apparire il suo viso stanco e provato -Sembri
affaticata, da dove sei tornata questa volta? Bombay?
-New
Delhi- precisò l'imprenditrice con un sorriso stanco, ma
felice;
Chiara adorava Pepper, era praticamente il suo idolo: intelligente,
determinata, sveglia, paziente e bellissima, persino con quelle
brutte occhiaie che le rigavano il viso. La ragazza avrebbe fatto
carte false per essere come lei, soprattutto quando la mattina si
svegliava con lo strascico degli incubi avuti durante la notte.
-Ah!-
esclamò, facendo scivolare una spallina della borsa e
iniziando a
frugarci dentro -Ti ho portato la commissione.
Sotto
lo sguardo impaziente della donna, Chiara estrasse un parallelepipedo
rigido avvolto nel pluriball e con un nastrino dorato malamente
annodato in un angolo e glielo porse: -Spero ti piaccia, non sono del
tutto sicura di essere riuscita a cogliere lo sguardo che avevi nella
foto che mi hai dato e poi...
-Anne,
è bellissimo!- esclamò Pepper, dopo aver scartato
l'oggetto con
l'entusiasmo di una bambina alla mattina del 25 dicembre e aver
rivelato un dipinto su tela della dimensione di un foglio A4.
-Le
hai fatto il naso storto.
Un
Tony Stark in jeans, camicia bianca e due flute di champagne in mano
apparve da dietro il bar con il suo solito sorriso beffardo di chi
crede di avere il mondo ai propri piedi. E quello che lo rendeva
ancora più insopportabile alla ragazza era il fatto che in
effetti
il mondo era veramente
ai
suoi piedi.
-Il
fatto che tu abbia il naso di Cirano di Bergerac non significa che
sia il resto della popolazione mondiale ad avere il naso storto-
sputò velenosa la ragazza. Come faceva una donna
meravigliosa come
Pepper a sopportare un uomo infantile e fastidioso dello stampo di
Tony?
-Uuuh,
sbaglio o si è abbassata la temperatura qui dentro?-
ridacchiò Tony
con fare superiore, ma la voce metallica di Jarvis si intromise:
-Negativo, signore, la temperatura è sempre di 25°C.
-Jarvis,
dobbiamo lavorare sul sarcasmo- sospirò l'uomo appoggiando i
flute
sul tavolino di vetro accanto alle donne -Coraggio, Arianne, andiamo.
Sospirando
impercettibilmente, Chiara lasciò cadere all'ingresso la
propria
borsa e, seguita a ruota dal suo fedele Annibale, percorse il
lussuoso loft dai pavimenti in marmo variegato e il ricercato
mobilio, fino al vecchio laboratorio privato di Stark, convertito a
infermeria
dopo il suo trasferimento a Brooklyn. Ora Tony aveva dedicato due
interi piani dell'edificio ai suoi giocattoli (per non parlare di
quello che si trovava nella sua casa in California), mentre quella
grande stanza era stata arredata con un lettino, una sobria scrivania
con un largo schermo piatto, uno schedario e un armadio pieno di kit
per il prelievo del sangue e delle urine. Sarebbe apparso un comune
ambulatorio medico se metà dell'ambiente non fosse stato
occupato
dall'imponente H.A.D., costituente il 50% del progetto Panacea.
La
restante metà era Chiara.
Appena
entrato, il signor Stark prese posto alla scrivania, sulla cui
superficie comparì una tastiera luminescente; l'uomo
digitò la
password e sullo schermo apparve la foto di Chiara, affiancata da una
serie di numeri e sigle: -L'ultima volta che ci siamo visti avevi la
pressione un po' bassa e il colesterolo nel sangue era ai minimi
accettabili. Hai mangiato un po' meglio in questo ultimi giorni?-
chiese Tony, leggendo pensieroso i dati sul computer.
-Sì,
sì, non ti preoccupare- quella finta apprensione che il
milionario
ostentava ogni volta che si incontravano le dava ai nervi. Come se
fosse stato veramente preoccupato per la sua salute.
-Dunque,
procediamo!- esclamò l'uomo, accendendo una piccola
videocamera e
puntandola verso di lei: -Lei è Arianna Watson?- chiese poi,
simulando la voce di Nick Fury; con una mano si copriva l'occhio
sinistro, imitando la benda, mentre con l'altra faceva scorrere sullo
schermo il file con le domande che aveva l'obbligo di porre alla sua
cavia ogni volta prima di procedere al trattamento.
-Affermativo-
rispose Chiara in uno sbuffo -Seriamente, dobbiamo fare tutte le
volte questa sceneggiata?
-Nata
a Washington DC il 12 Aprile del 1992?-
continuò l'uomo, ignorando la domanda.
-Affermativo.
-Dichiara
libertà allo S.H.I.E.L.D. di eseguire le dovute analisi sul
suo
metabolismo e di sottoporle i farmaci necessari per perpetrare le
suddette analisi?
L'obiettivo
della piccola telecamera appoggiata sul tavolo brillò di un
bagliore
freddo alle luci delle lampade, mentre su di essa una piccola spia
rossa lampeggiava a intermittenza.
-Affermativo-
rispose per l'ennesima volta la ragazza, abituata oramai a rispondere
a quella serie di domande come una macchinetta.
-Ha
assunto farmaci non prescritti, sostanze alcoliche e/o stupefacenti
negli ultimi tre giorni?- continuò Stark, dondolandosi sulla
sedia.
-Negativo-
rispose asciutta Chiara.
-È
in stato di gravidanza o ritiene di esserlo?
-Negativo.
-Ha
accusato sintomatologie quali affaticamento, asma, nausea, vomito,
vertigini e/o mal di testa persistenti?
-No,
ma mi sta arrivando un gran mal di testa proprio adesso, se
continuiamo con queste assurde domande- sbottò la ragazza,
infastidita e a disagio -Si sta facendo tardi e gradirei tornarmene a
casa il prima possibile.
-Molto
bene, allora procediamo- l'uomo spense la videocamera e la ripose in
un cassetto della scrivania, poi si alzò e si mise ad
armeggiare con
l'H.A.D per metterla in moto, mentre Chiara iniziava a sfilarsi il
maglione.
Un
brivido freddo le percorse
tutta la lunghezza della schiena quando, sfilati anche i pantaloni e
le calze, toccò il pavimento di marmo con i piedi nudi.
-Dovresti
seriamente prendere in considerazione di fare installare un sistema
di riscaldamento a induzione sul pavimento- suggerì fredda
Chiara,
rimasta oramai solo in intimo, mentre si sdraiava sul lettino.
-Ho
appena preso un appunto mentale- le sorrise il milionario, digitando
dei comandi sullo schermo della macchina -Dammi il via quando sei
pronta.
"Inspira"
fece entrare aria dal naso, con calma, concentrandosi sul rilassare
le spalle e il collo "Espira".
-Potrebbe
bruciare all'inizio- disse l'uomo dai folti ricci bruni al suo
fianco, mentre disinfettava con cura l'incavo del suo braccio
sinistro. Le sue mani erano ferme, ma il suo tocco era delicato, come
se avesse avuto paura di poterle spezzare le ossa applicando anche
solo una leggera pressione: -Se ti fa troppo male, non hai che da
dirlo e fermiamo tutto, d'accordo?
Ecco
quello che le faceva piacere così tanto il dottor Banner: la
sua
premura. Di medici, luminari, specialisti e infermieri ne aveva
incontrati a mazzi negli ultimi mesi e tutti, dal primo all'ultimo,
guardandola vi avevano visto un affascinante mistero della medicina
da risolvere ad ogni costo. Chiara era la loro sfida e loro
rispondevano ai trattamenti andati a vuoto con proposte e prodotti
ancora più aggressivi e radicali.
Poi
la sua strada si era incrociata con quella di un uomo dai grandi
occhi timidi, che quando aveva letto la sua cartella clinica era
inorridito e aveva passato un buon dieci minuti di esercizi di
respirazione per mantenere la calma.
-Arianne-
le aveva detto -Ora ti prendo i parametri vitali e un campione di
sangue in maniera da assicurarmi che tu stia bene, poi desidero che
tu esca di qui e ti prenda un paio di settimane di assoluto riposo.
Non voglio che metti piede in una clinica finché non te lo
dico io,
è chiaro?
Dopo
circa un mese dal loro ultimo incontro, il dottor Banner era venuto
di persona al Triskelion in compagnia del signor Stark e di diverse
casse di legno imbottito di Etaphoam, che avevano fatto portare nella
sua stanza e disposte sul pavimento.
Quando
aveva ricevuto quella visita inaspettata, Chiara aveva percepito
subito una discreta tensione tra gli agenti che di norma
pattugliavano quel piano, le cui mani scattavano continuamente al
fodero della pistola al minimo rumore. Non riuscì a
giustificare
quell'insolito comportamento.
I
due uomini, accompagnati da Fury, le avevano chiesto di spogliarsi e
di distendersi sul letto, mentre loro iniziavano ad estrarre i
macchinari dalle casse e a montarli, disseminando bulloni, viti e
varie componenti metalliche sul pavimento.
-Questo
è un siero- spiegò Banner, inginocchiandosi a
fianco del letto e
mostrandole la siringa che teneva in mano -Te lo inietterò
in vena e
poi verrà attivato con le radiazioni emesse da quella specie
di
grossa lampada di Wood che vedi lì- indicò il
macchinario che Stark
stava finendo di montare -Terremo monitorati i tuoi parametri vitali
e la tua attività cellulare e, se tutto andrà
bene, non dovrai più
girare come una trottola per tutta la nazione.
Chiara
annuì in silenzio, porgendogli l'arto e preparandosi a
ricevere
l'ennesimo medicinale in corpo, ma Banner la guardò per un
momento e
disse calmo: -Nessuno ti impone di ricevere questa cura, se hai paura
o non te la senti, sei libera di rifiutarti.
-Sono
pronta.
Non
c'era esitazione nella sua voce: riportare alla memoria le parole del
dottor Banner l'aiutava ogni volta a ricordare per cosa e,
sopratutto, per chi aveva accettato di seguire gli agenti fino
all'altro capo dell'Atlantico.
Stark
passò il cotone imbevuto di disinfettante sulla pelle del
braccio e,
trovata la vena, vi affondò la punta dell'ago con un gesto
pulito e
preciso, nonostante il leggero tremore della mano, tipico di chi ha
assunto per molto tempo grandi quantità di alcolici. Lo
stantuffo
iniziò a scendere e il liquido rosa cominciò a
pizzicarle sotto la
pelle.
Aveva
imparato a convivere con quel bruciore e, con il susseguirsi delle
sedute, aveva quasi smesso di sentirlo. Attese che il serbatoio della
siringa da insulina venisse completamente svuotato, poi
ordinò ad
Annibale, che per tutto quel tempo l'aveva osservata a fianco del
lettino con i suoi grandi occhi nocciola, di andare dietro la
scrivania; quello obbedì e Tony, riposta la siringa in un
sacchetto
che sarebbe finito nell'inceneritore, lo seguì, per poi
azionare a
distanza H.A.D., che iniziò a vibrare mentre i suoi
meccanismi si
mettevano all'opera.
Una
piccola spia rossa si accese sul macchinario e Chiara chiuse gli
occhi, mentre il suo corpo veniva irraggiato delle radiazioni emesse
da H.A.D.; poteva sentire il siero correrle veloce nel suo sistema
circolatorio, infiltrandosi nel ventricolo destro, venire spinto
nell'atrio destro e poi pompato fino ai polmoni, per poi tornare ad
attraversare il suo corpo fino a raggiungere il ventricolo sinistro,
l'atrio sinistro e l'aorta.
Ovunque
esso andasse, qualunque cosa toccasse, era come una scintilla
sull'erba secca, mandando le sue cellule a fuoco; nel frattempo le
sue orecchie potevano udire il computer sulla scrivania riprodurre il
battito del suo cuore sempre più accelerato.
-Coraggio,
Anne- la rassicurò l'uomo dall'altra parte della stanza -È
quasi finito e tu ti stai comportando alla grande.
-Facile
per te!- ridacchiò la ragazza, ma la sua voce
uscì più gutturale e
cupa del previsto e fu costretta a schiarirsi la gola, facendo
abbaiare Annibale.
Non
potendo aprire gli occhi per evitare che le radiazioni le rovinassero
i cristallini, Chiara gli diede il comando di silenzio con la mano e
quello si acquietò, pur continuando a brontolare tra i denti.
Dopo
dieci minuti di quel trattamento, finalmente H.A.D. si fermò
e il
suono di un campanello decretò la conclusione della seduta:
-Potresti pensare di aggiungere una lampada abbronzante a questo
trabiccolo, almeno avrei una tintarella invidiabile tutto l'anno!-
disse la ragazza sollevandosi dal lettino e dando una carezza al suo
fedele animale domestico che era andato ad accertarsi che la sua
padrona stesse bene.
-Meglio
di no- rispose Stark, osservando sullo schermo la scansione che la
macchina aveva fatto della paziente durante il trattamento -A meno
che tu non voglia avere il colore di un pollo arrosto e un bel po' di
melanomi qua e là.
-No
grazie- Chiara infilò le gambe nei jeans e li abbottonò
-Hannibal, jumper!- ordinò e il cane trotterellò
fino all'angolo
dove giaceva il maglione, lo prese delicatamente in bocca e glielo
portò, scodinzolando tutto contento.
-Good
boy!- lo premiò la fanciulla estraendo dalle tasche un
sacchetto di
biscotti per cani, sotto gli occhi affascinati di Tony, il quale,
salvati i dati acquisiti quella sera, chiese con ammirazione: -Ora sa
anche distinguere gli indumenti?
-Solo
qualcuno- rispose Chiara, mentre si allacciava le scarpe -Conosce
jumper, socks e scarf. Confonde ancora gloves e shirt, ma sta
imparando. Ah!- esclamò poi, portando la mano alla tasca
-Stavo per
dimenticare.
Estrasse
il fusibile dal pantalone e lo lanciò all'uomo, che lo
afferrò al
volo e iniziò a studiarlo, mentre si lasciavano l'infermeria
alle
spalle e rientravano in salotto: -Fammi indovinare- disse Tony -Di
nuovo il forno?
-Già-
rispose asciutta -Puoi aggiustarlo?
-Sai
che al centro commerciale vendono degli ottimi elettrodomestici?-
domandò il milionario, ma l'eloquente occhiataccia della
ragazza gli
intimò di concentrarsi sul fusibile e, così,
proseguì -C'è da
sostituire il filo conduttore con uno della stessa portata
amperometrica, dovrei avere qualcosa del genere in qualche cassetto.
Ci metto un attimo.
Le
porte dell'ascensore si aprirono al suo passaggio e in un attimo
l'uomo sparì, diretto al suo laboratorio, mentre Pepper
stava già
scegliendo dove collocare il ritratto appena ricevuto.
-Mettiti
pure comoda- le disse la donna, mentre sollevava il quadro contro una
parete -Fa' pure come se fossi a casa tua.
"Una
casa sei
volte più grande e molto, molto più costosa"
pensò la
ragazza, confrontando il lussuoso loft con il suo bilocale preso in
affitto a Brooklyn, ma, con un sorriso di cortesia cristallizzato
in volto, rispose con un educato: -Grazie.
-Anne-
riprese qualche minuto dopo la donna, avendo finalmente trovato il
porto adatto per il dipinto -Stavamo per metterci a tavola. Vuoi
unirti a noi?
-No,
Pepper, ti ringrazio. Preferirei tornare a casa il prima possibile:
domani dovrò essere a lavoro molto presto per avviare il
forno.
In
realtà sarebbe rimasta anche piuttosto volentieri: Pepper
era una
cuoca spettacolare e, di sicuro, avrebbe sfoderato qualche
bell'aneddoto sul suo viaggio in India, ma non voleva fare da terzo
incomodo alla coppia. Per via del lavoro di entrambi, i due fidanzati
avevano ben poco tempo da trascorrere insieme e Chiara non aveva
intenzione di rovinare quel loro momento assieme con la sua scomoda
presenza.
Il
suo stomaco sarebbe stato soddisfatto una volta tornata a Brooklyn.
Trascorse
una mezzoretta di piacevoli chiacchierate e pettegolezzi prima che
Tony riemergesse dal laboratorio con la sua scintilla di
soddisfazione quando portava a termine con successo un lavoro: -A
voi, madame!- disse, porgendole con un gesto plateale il fusibile
tornato come nuovo e accuratamente riposto in una scatola imbottita
di polistirolo.
-Grazie,
Tony- Chiara prese la scatola e la infilò in borsa, poi fece
scivolare il cappotto sulle spalle -Sarà meglio che torni a
casa,
ora.
-È
piuttosto tardi- considerò l'uomo accompagnandola
all'ascensore -È
pericoloso uscire a quest'ora. Vuoi un passaggio?
-Con
una delle tue macchine da corsa o con la limousine?- rise la ragazza
-Meglio di no, attireremmo troppo l'attenzione. È
già un miracolo
che nessuno mi abbia ancora vista entrare qui. Prenderò
l'autobus,
come al solito. In fondo non è così
tanto
tardi.
Tony
la squadrò dall'alto in basso con i suoi grandi occhi scuri,
per
niente convinto di quella soluzione, ma alla fine dovette cedere e
chiese: -Hai il teaser che ti ho dato?
-Sì,
tranquillo- sbuffò Chiara.
-Vedere-
ordinò il milionario, porgendo la mano.
-Non
ti fidi?
-Voglio
solo verificare che funzioni bene.
La
ragazza sospirò e, frugato nel caos della borsa per un
momento,
estrasse da una tasca laterale la scatoletta di plastica con due
piccole sporgenze, da cui partirono delle scosse blu quando l'uomo
premette il pulsante di accensione.
Tony
studiò l'oggetto per qualche secondo, poi, soddisfatto, lo
restituì
alla proprietaria: -Mettilo dove puoi estrarlo rapidamente o non
servirà a niente.
-Va
bene, va bene!- esclamò esasperata quella, mettendosi il
teaser in
tasca -Posso andare ora?
-Ok,
va'
pure, ma stai attenta e se succede qualcosa, usa il comunicatore. Ce
l'hai quello, vero?- chiese inquisitorio.
"Merda,
l'ho lasciato a casa!" pensò Chiara, ma, esibendo un largo
sorriso, rispose: -Ovvio
che
ce l'ho! Per chi mi hai presa? Davvero, Tony, la tua mancanza di
fiducia mi offende.
-Va
bene, non ti agitare!- ridacchiò l'uomo sotto ai baffi, poi,
dopo
aver lasciato un abbraccio a Pepper, la ragazza e il suo cane
poterono finalmente ridiscendere l'edificio e tornare in strada.
1
corrispondono
a quattro anni
Angolo
dell'autrice:
salve a tutte e benvenute alla fine del primo capitolo di Panacea
Project!
:D Spero che queste pagine vi abbiano incuriosito e che vogliate
continuare a scoprire cosa accadrà alla nostra Chiara nella
lontana
New York.
Sono
veramente contenta di essere riuscita finalmente a pubblicare il
sequel de La
sua paura,
anche se, mi rincresce dovervelo dire, non sarò in grado
questa
volta di mantenere il ritmo di una pubblicazione a settimana: sono
appena uscita da un brutto blocco dello scrittore e la stesura della
storia non è avanzata quanto mi piacerebbe, inoltre
quest'anno
universitario si preannuncia particolarmente tosto e impegnativo.
Farò il possibile per mantenere una cadenza mensile, ma, se
non sarò
sempre puntualissima, spero mi perdonerete.
Dunque,
come avrete notato, questa storia, a differenza della prima, non
è
ambientata principalmente ad Asgard, ma per buona parte
vedrà New
York come teatro degli eventi che accadranno e coinvolgerà
nuovi
personaggi (della Marvel e non), creando un ampio crossover.
Personalmente mi emoziona molto l'idea di far interagire Chiara con
personaggi non appartenenti al mondo di Thor, voi che ne pensate?
Comunque non temete: Thor e la sua crew si rifaranno vivi ad un certo
punto.
Nel
frattempo, che impressioni avete avuto di quello che avete letto
finora? Cosa pensate della situazione in cui Chiara si è
trovata e
delle relazioni che ha intrecciato?
Vi
mando un grossissimo abbraccio e un bacione, spero di ritrovarvi
presto!
Lady
Realgar
Ps.
Riferendomi alla figlia di Clint (mi riaggangio a The
Avengers: Age of Ultron)
mi riferisco a lei con il nome di Kate per due ragioni: la prima
è
che non ricordo se nel film le viene dato un nome o se resta
“etichettata” semplicemente come la figlia
di Barton;
la seconda per fare un piccolo omaggio al personaggio di Kate Bishop
(Occhio di Falco negli Young Avengers), che è stata
completamente
dimenticata nel MCU. Ad ogni modo, se vorrete segnalare il vero nome
della bambina, provvederò a sostituirlo per amor di
precisione.
Grazie
mille e un abbraccio!
|
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Capitolo 2 *** Dove si impara quanto sia importante avere un telefono tra le strade di New York ***
Uno
dei vantaggi di
attraversare Manhattan a quell'ora di notte, a cavallo tra il
giovedì
e il venerdì, era la notevole riduzione del numero di
automobili in
circolo nella ragnatela di asfalto che percorreva l'isola, eccezion
fatta per qualche taxi e gli autobus notturni.
Un
soffio di aria
gelida si infiltrò nella spessa trama della sciarpa colorata
che le
avvolgeva il collo, facendola rabbrividire e stringere ancora di
più
nel cappotto di lana cotta. Al suo fianco, apparentemente
indifferente alla fredda temperatura della Manhattan notturna,
Annibale zampettava allegramente sull’asfalto, che risuonava
secco
sotto le sue unghie.
Le
luci al neon dei
market ancora aperti si riflettevano sulla liquida superficie delle
pozzanghere scure che precedevano i tombini, da cui emergeva un
maleodorante vapore caldo e denso, mentre in lontananza si udiva il
suono lamentoso di una sirena e qualche clacson.
“New York, la
città che non sta mai zitta” pensò la
ragazza, dando un leggero
strattone al guinzaglio per guidare il cane dall’altra parte
della
strada dove si trovava la pensilina del suo autobus.
Sebbene
fosse
abituata da quasi due anni al trattamento dell'H.A.D., ogni volta che
lo subiva poi incorreva un persistente senso di stanchezza e di fame:
il suo stomaco brontolò vivacemente, facendo scattare
sull’attenti
Annibale, che rispose emettendo un ringhio.
Chiara
ridacchiò al
pensiero che il suo cane e la sua pancia stessero avendo una
conversazione, ma dopo qualche secondo Annibale non aveva ancora
smesso di ringhiare e, abbassate le orecchie, si era messo in
posizione di attacco, puntando verso un vicolo alle loro spalle.
-Non
è prudente per
una ragazza sola passeggiare per le strade di notte- sentì
dire -C’è
un sacco di gente pericolosa a quest’ora.
Dall’oscurità
emerse un uomo sulla quarantina alto e dinoccolato con spettinati
capelli biondo cenere che emergevano dalla cappuccio della felpa,
calato sul capo per nascondere il viso; i jeans che indossava erano
larghi e strappati sulle ginocchia e Chiara poté notare una
vistosa
protuberanza a L nella tasca destra.
"Maledizione
a
me e a quel cavolo di comunicatore!"
-Grazie
per il
consiglio- rispose, trattenendo Annibale per il guinzaglio
-Farò
attenzione.
L’uomo
avanzò di
qualche passo, ponendosi sotto la luce del lampione, che
disegnò
delle ombre affilate lungo il suo viso: -Quella borsa che porti
sembra essere piuttosto pesante- disse calmo -Perché non mi
fai
vedere cosa c’hai dentro, così ti aiuto ad
alleggerirla.
La
distanza tra loro
si faceva sempre più breve e, quando fu arrivato a soli due
metri
dalla sua padrona, Annibale iniziò ad abbaiare; innervosito,
l’uomo
mise la mano in tasca e ne estrasse fulmineo una pistola calibro 22,
che puntò contro la testa dell’animale: -Fallo
stare zitto o gli
faccio saltare il cervello!- sbraitò l’uomo.
-Ok,
amico, calmati-
rispose la ragazza, accarezzando il cane per ammansuetirlo, ma quello
non smise di ringhiare -Non c’è bisogno di
prendersela con lui-
nel frattempo la sua mano iniziò ad avvicinarsi lentamente
alla
tasca dei jeans, ma contro un proiettile il teaser cosa avrebbe
potuto fare?
Tenendo
la canna
della pistola sempre puntata contro l’animale,
l’uomo allungò la
mano verso la ragazza, facendole cenno di dargli la borsa, quando una
seconda voce si alzò dall’oscurità:
-Come iscritto al WWF non
posso tollerare che qualcuno punti un’arma contro un povero
animale
innocente!
L’uomo
sobbalzò
dallo spavento e diresse la pistola alle sue spalle, senza
però
trovare un bersaglio da colpire: -Acqua, bello!- disse di nuovo la
voce -Prova più in alto.
Chiara
e il
rapinatore alzarono entrambi lo sguardo e sul lampione videro una
grossa macchia scura dalla forma di … un uomo! Il criminale
sparò
istintivamente due colpi, ma la macchia li evitò agilmente
con un
balzo e atterrò leggero sul marciapiede; l’uomo
gli puntò di
nuovo contro l’arma, ma prima ancora di riuscire a premere il
grilletto, una rete viscosa gli colpì la mano, disarmandolo.
-Non
è molto carino
da parte tua sparare in presenza di una signora…- lo
schernì il
vigilante, ma non riuscì a completare la frase
perché il
rapinatore, in preda alle convulsioni, cadde al suolo con un tonfo.
Alle sue spalle Chiara teneva in mano un piccolo oggetto che emanava
scariche elettriche blu.
-Ehi!-
esclamò
Spiderman -Quello è il mio lavoro!
-Tu
l’hai
catturato, io l’ho neutralizzato- rispose Chiara, facendo
spallucce
e riponendo il teaser in borsa -E a chi avresti dato della signora?
Non ho mica sessant’anni!
-Cercavo
solo di
essere gentile- ribatté il vigilante, intento ad avvolgere
con le
ragnatele il bandito, sotto gli occhi incuriositi di Chiara, che
domandò: -Hai intenzione di lasciarlo qui?
-Di
solito faccio
servizio a domicilio, il nostro amico si sveglierà tra
qualche ora
dietro le sbarre di una cella della stazione di polizia.
Ci
fu qualche
secondo di silenzio, in cui Annibale si avvicinò a studiare
il nuovo
arrivato, annusando tutto interessato lo spantex della tutta, per poi
iniziare a leccargli le mani e a scodinzolare.
-Ciao
bello!- dietro
la maschera rossa si poteva intravedere l’increspatura di un
sorriso, mentre il vigilante, impacchettato per bene il malvivente,
accarezzava con delicatezza la pelliccia bruna del cane -Quel
cattivone non ti ha fatto del male, vero?
Chiara
si soffermò
per qualche secondo a osservare la bizzarra figura dell’eroe
mascherato, così sottile, ben diversa dal modello di
paladino grosso
e muscoloso che aveva conosciuto in Clint e Steve, avvolta nello
spantex blu e rosso e piegata sulle ginocchia per giocare con il suo
cane, che, a quel che pareva, sembrava adorarlo. Era uno spettacolo
buffo e a Chiara non riuscì di trattenere un sorriso davanti
a tanta
dolcezza: -Annibale si è fatto un nuovo amico, vedo.
-Annibale?-
chiese
il vigilante, alzando di nuovo lo sguardo su di lei -Sei
un’appassionata dell’A-Team?
-Sì,
ma non è per
Hannibal Smith che l’ho chiamato così- rispose
Chiara sorridendo e
lasciando una carezza sulla testa pelosa dell’animale, che
ricambiò
scodinzolando ancora più vistosamente -E poi il mio
preferito era
Murdock!
Il
vigilante si alzò
in piedi di scatto e iniziò a sventolare la mani aperte a
ventaglio:
-Anche il mio!- esclamò entusiasta.
-Allora
siamo
proprio fatti per stare insieme noi due!- ribatté Chiara
scherzosamente.
-Sbaglio
o i miei
sensi di ragno percepiscono un alto tasso di sarcasmo in questo
momento?- disse Spiderman, puntellando i pugni sui fianchi. Rimasero
per qualche secondo a fissarsi in silenzio, finché, alla
fine,
Chiara non scoppiò in una grossa risata di sollievo, imitata
subito
dopo dall’uomo in costume.
-Sai,
ho un’amica
che è pazza di te- Chiara riprese fiato dalle risate e
passò
l’indice sotto la palpebra dell’occhio sinistro per
fermare una
lacrima -Se sapesse che ti ho incontrato mi ucciderebbe di domande!
-Sì,
lo so, di
solito faccio questo effetto.
La
ragazza richiamò
Annibale, ancora intento ad annusare l’eroe mascherato:
-Lavoriamo
assieme al Daily
Coffee,
a Brooklyn, all'incrocio della trentottesima. Facciamo degli ottimi
pancakes e il caffè è sempre caldo…
passa pure quando vuoi.
-Ti
ringrazio per
l’invito- rispose l’uomo, grattandosi il capo -Ma,
sai…
-Sì
lo capisco- lo
anticipò lei -L’identità segreta,
mantenere un profilo basso, non
avvicinarsi troppo alle altre persone… Davvero, è
una storia che
ho già sentito. Ho solo consigliato all’uomo sotto
alla maschera
dove può andare a fare colazione. Non ho altro modo per
ringraziarti
di avermi aiutata.
-In
questo caso,
sarò ben lieto di venire a trovarti.
Chiara,
con un largo
sorriso disegnato in volto, fece cenno di saluto con la mano e
riprese il suo cammino verso la pensilina, quando un pensiero
improvviso le passò in testa e non poté
trattenersi
dall'esprimerlo: -Dovresti alterare la tua voce.
-Come
scusa?- chiese
Spiderman, affacciandosi da una scala anti-incendio su cui si stava
arrampicando.
-È
per l’identità
segreta- spiegò la ragazza -Non è semplice, ma
una persona con un
orecchio allenato potrebbe riconoscerla. Se vuoi essere più
tranquillo sull’efficacia della maschera, devi pensare anche
a
questi dettagli.
-Ehm...
grazie-
ribatté perplesso l’altro -Sembra che tu sappia un
sacco di cose
sulle identità segrete.
-Qualcosina-
fece
spallucce la ragazza -È solo che so cosa vuol dire
nascondersi
dietro una maschera per proteggere chi ami.
-Qual
è il tuo
nome?- chiese l’uomo dopo un attimo di silenzio.
-Chiara.
La
ragazza girò sui
tacchi e andò sotto la pensilina proprio nel momento in cui
l’autobus si stava avvicinando, salì al volo e si
impose di non
voltarsi a guardare il vigilante: non voleva incrociare lo sguardo
dell’uomo con il quale si era liberata, per un momento, della
propria maschera.
“Che stupida!”
pensò, mentre il motore del veicolo ronzava sotto di lei;
non
avrebbe dovuto, lo sapeva benissimo: Fury aveva passato le ore a
riempirle la testa di parole su quanto fosse importante mantenere il
segreto e non rivelare a nessuno nemmeno il più piccolo
dettaglio
sulla propria identità.
Però
quello non era
nessuno, era Spiderman. E se c’era qualcuno che sapeva quanto
fosse
importante rispettare un segreto era proprio lui.
Forse
era per quello
che aveva deciso di confidarsi e mostrare, anche se per solo un
momento, il proprio vero essere. Il proprio vero io.
"Cretina,
cretina, cretina" continuò a rimproverarsi per tutta la
tratta
"Basta che un qualunque fanatico in maschera sia carino con il
tuo cane per farti abbassare la guardia! Cretina!"
La
verità era che
era stufa marcia di mentire; poteva sopportare di fare la cavia da
laboratorio, poteva tollerare tutte le limitazioni e i divieti a cui
doveva attenersi per risultare un fantasma tra la folla, si era
addirittura rassegnata a dover sempre rendere conto a qualcuno delle
proprie azioni, ma la menzogna le risultava un peso che si stava
facendo sempre più insostenibile.
Aveva
assunto il
ruolo di Arianne
Watson da quando Fury le aveva finalmente permesso di mettere il naso
fuori dalle spesse e controllatissime mura del Triskelion e, sotto la
scorta e l’occhio vigile dell’agente Barton, aveva
iniziato a
viaggiare per tutti e 50 gli stati, passando di clinica in laboratorio e
di laboratorio in clinica. Da quel momento aveva dovuto mettere da
parte la sua vita, i suoi ricordi e la sua personalità, per
lasciare
il posto alla storia di quella ragazza che aveva trascorso infanzia e
giovinezza presso l’orfanotrofio cattolico di Santa Caterina,
a
Washington DC; aveva dovuto tingersi i capelli, abituarsi alle lenti
a contatto, a rispondere al nome di Arianne e, soprattutto, aveva
dovuto imparare a valutare con estrema attenzione ogni singola parola
che le usciva dalla bocca, stando sempre attenta a non lasciarsi
sfuggire la minima informazione che avrebbe potuto mandare
all’aria
la sua copertura.
Clint,
in tutto
questo, le aveva fatto da mentore, insegnandole a individuare le
telecamere di sorveglianza e a evitarne l’obiettivo, a
riconoscere
se qualcuno la stava pedinando e a far perdere le proprie tracce (in
uno scomparto nascosto della borsa, infatti, aveva sempre un cambio
d’abito e una parrucca), e a prendere tutte quelle piccole
precauzioni indispensabili per mantenere la propria copertura, come,
ad esempio, non fidarsi di nessuno e evitare di stringere relazioni.
Per
quanto c’avesse
provato, l’ultimo dettame era stato il più
difficile da mettere in
pratica: ovunque andassero, Chiara riusciva sempre ad attirare le
simpatie di qualcuno e a fare amicizia, ma, per quanto Clint
apprezzasse quella sua innata spontaneità,
essa
rappresentava un enorme rischio per
la segretezza che la missione imponeva, così, una volta
trasferitisi
a Brooklyn, l’agente aveva eseguito
un’accuratissima ricerca sui
profili dei loro condomini, dei vicini più stretti del
quartiere e,
successivamente, anche del signor Bailey e di Talia. Aveva passato
giorni interi a raccogliere informazioni, sia al computer che sul
campo, pedinando le sue “vittime” e scattando
un’incredibile
quantità di fotografie, che avevano fatto dubitare alla
povera
Chiara, a cui l’uso del bagno, occasionalmente convertito in
camera
oscura, era stato precluso, della piena sanità mentale del
suo
coinquilino.
Dopo
lunga e
faticosa ricerca, Clint aveva potuto ritenersi pienamente
soddisfatto: quelle persone erano risultate pulite e, finalmente, la
vita di Chiara aveva conosciuto un po’ di
normalità.
Le
ruote
dell’autobus stridettero quando questo si fermò a
pochi metri
dalla vecchia palazzina in cui Fury aveva trovato il bilocale presso
cui Chiara e, occasionalmente, Clint avevano residenza; raggiunto il
portone di ingresso al condominio, estrasse il suo mazzo di chiavi
dalla borsa e ne infilò una dentro la grossa serratura della
vecchia
porta di ferro, che si aprì cigolando e si chiuse
altrettanto
rumorosamente quando la ragazza ebbe oltrepassato la soglia.
“Devo ricordarmi
di mettere un po’ di olio lubrificante ai cardini”
si appuntò
mentalmente Chiara, oltrepassando l’androne e iniziando a
salire le
scale, dove, oltrepassato il primo piano, si ritrovò faccia
a faccia
con una graziosa donna mulatta di mezza età:
-¡Hola, Arianna!-
esclamò sorpresa, ma cortese -¿Acabas
de trabajar ahora?1
-Sì,
Carmen-
rispose Chiara, facendosi da parte per farla passare: teneva in mano
un borsone da palestra piuttosto ingombrante e la scala non era
abbastanza grande per farcele stare comodamente entrambe
-¿Por qué
sigues despierta? ¿Vas al hospital?
-Empiezo
mi turno en oncología pediátrica en media hora-
rispose la portoricana -He
tomado algunos viejos juguetes de Carlos para los niños
- aggiunse, poi, accennando al borsone.
-Saludale
de mi parte a Carlos cuando te llame-
disse Chiara, mentre la donna scendeva le scale di gran carriera:
-Claro. Buenas Noches.- si congedò quella sparendo dal
portone.
-¡Buenas
Noches y
suerte!
Alla
chiusura del
portone alle spalle dell’infermiera, sul palazzo
tornò il silenzio
e la ragazza si trovò in pochi attimi davanti
all’appartamento 3A,
al terzo piano, aprì la porta e lasciò cadere la
borsa a fianco
dell’appendiabiti all’ingresso, mentre Annibale
correva alla
propria ciotola dell’acqua per dissetarsi.
La
ragazza chiuse
accuratamente la porta alle proprie spalle e, finalmente, si
sentì
libera di mettersi comoda: premette l’interruttore della
luce, si
sfilò sciarpa e cappotto, ripose le scarpe nella scarpiera
e,
oltrepassata la cucina, dove Annibale aveva attaccato la ciotola del
cibo, si lasciò cadere per un momento sul divano. Era
sfinita.
Dopo
qualche minuto
di totale immobilità, il suo stomaco riprese a brontolare,
così si
rimise in piedi e si diresse verso il frigorifero, che però,
una
volta aperto, rivelò sotto alla gialla luce della lampadina
il magro
contenuto che la ragazza già conosceva: una confezione di
yogurt
alla fragola, qualche carota, un cartone di latte mezzo vuoto, una
bottiglia di acqua frizzante e una busta di insalata prelavata.
-Domani
facciamo
spesa, che ne dici giovanotto?- disse Chiara ad Annibale, che era
spuntato da sotto il suo braccio e annusava incuriosito il
frigorifero; estrasse la busta e la pose sulla penisola, prese dalla
credenza una scodella e la riempì con l’insalata,
che iniziò a
mangiare svogliatamente, osservando il cavalletto nel piccolo salotto
su cui il quadro finito la sera precedente se ne stava ad asciugare.
Era
una
rappresentazione di Upper New York Bay, con i mercantili in viaggio e
una piccola imbarcazione di pescatori su un mare rosa increspato di
blu; le ci erano voluti ben dieci tramonti per completarlo, con il
rischio di prendersi anche un bel raffreddore, ma almeno il risultato
era soddisfacente.
“Dovrò trovare un
posto dove metterlo” considerò la ragazza,
guardandosi intorno: in
giro per la casa si
potevano contare una cinquantina di tele completate e ammassate in
ogni angolo su fogli di pluriball. Se n’erano aggiunte un bel
po’
da quando Clint era andato a “caccia di streghe”,
come diceva
quando veniva chiamato per una missione, e non sarebbe stato molto
contento dello spazio che tutti quei quadri toglievano alla sala. Da
un po’ di tempo, inoltre, Chiara aveva notato che i telai che
comprava già pronti, con le loro tele belle bianche e lisce,
tendevano dopo poco a screpolarsi, facendo cadere tutta la pittura,
così si era comprata da un colorificio di Manhattan (e
pagando anche
una bella sommetta) un grosso rotolo di tela di lino, del gesso in
polvere e della colla di coniglio, che ora ingombravano il mobile
della televisione.
Certo,
ora le sue
tele erano molto più resistenti e la qualità
della superficie
ottimale, ma se Clint fosse entrato in casa in quel momento, avrebbe
dato di matto: il suo impiego da spia lo aveva reso incredibilmente
attento all’ordine, maniacale a detta di Chiara, e si
aspettava che
anche la ragazza mantenesse il rigore con cui aveva organizzato la
casa.
Quello
che la spia
desiderava era che, in caso di necessità, Chiara potesse
fuggire
dall’appartamento in massimo venti minuti, prendendo il
necessario
e senza lasciar traccia del proprio passaggio dietro di sé,
ma la
ragazza, non avendo altro luogo in cui riporre le sue opere, aveva
dovuto lasciarle nell’appartamento e ora quelle avevano preso
il
sopravvento, assieme a tutti gli album e i fogli volanti pieni di
schizzi a carboncino.
Non
potendo tenere
fotografie di amici e parenti (a pensarci bene, nemmeno le aveva), i
suoi quadri l’aiutavano a vedere quell’appartamento
come una casa
e non come l’ennesima gabbia in cui era stata rinchiusa, ma,
doveva
riconoscerlo, non poteva continuare ad ammassarli in 50 metri quadri
di appartamento.
“Verranno a
registrare un episodio di Sepolti
in Casa
se non trovo un posto dove conservarli” rifletté
Chiara, finendo
di cenare e lavando scodella e forchetta nel lavandino “La
lavanderia del condominio è esclusa: è umida da
far schifo e poi
dovrei aspettare la prossima riunione condominiale per chiedere il
permesso. Meglio evitare!”
Cercando
di trovare
una soluzione a quel problema, si diresse in bagno e, spogliatasi dei
suoi indumenti, si infilò in doccia; il getto di acqua calda
le
massaggiava delicatamente il collo e spalle, rilassando i muscoli
tesi e lavando via il freddo e la tensione di quella serata.
Non
era la prima
volta che qualcuno la minacciava, d’altro canto lei e Clint
tra un
viaggio e l'altro avevano frequentato un discreto numero di motel di
periferia, non sempre ben frequentati, e capitava abbastanza di
frequente che qualcuno, per l’alcool o per
l’abitudine, vedendo
una ragazza tentasse di rapinarla, ma la presenza (e un paio di volte
anche l’intervento) di Clint avevano sempre scongiurato la
minaccia. Quella sera era stata la prima volta in cui si era trovata
a fronteggiare un rapinatore da sola.
Era
stata molto
fortunata che ci fosse stato Spiderman a intervenire o si sarebbe
ritrovata in guai seri.
-Maledizione…-
imprecò sottovoce la ragazza, alzando la testa per ricevere
il getto
sulla fronte: se Fury fosse venuto a sapere di quel fatto, della sua
negligenza nell’aver dimenticato il comunicatore di Stark a
casa,
le avrebbe tolto di certo persino quel poco di libertà che
le aveva
concesso.
Sperò
con tutte le
sue forze che lo S.H.I.E.L.D. non avesse assunto Spiderman tra i suoi
supereroi o di certo il guercio sarebbe venuto a sapere persino che
aveva rivelato il suo vero nome.
Aveva
fatto un sacco
di storie quando aveva scoperto del suo tatuaggio, non ci teneva
certo a sapere come avrebbe reagito a quella notizia.
Chiuse
l’acqua e
uscì dalla doccia, rabbrividendo al contatto della pelle
bagnata con
l’aria fredda dell’autunno, che le tolse dagli
occhi tutta la
stanchezza che prima li appesantivano; sapendo di non riuscire a
dormire, si infilò nella tuta che era solita indossare in
casa e
andò in salotto, dove estrasse un foglio bianco da una
risma, prese
un carboncino da un astuccio di latta e si mise alla penisola a
disegnare.
*
L’alba
stava per
sorgere dietro agli alti palazzi tra i quali Peter Parker aveva preso
l’abitudine di dondolarsi, come una scimmia tra i rami, per
tenere
sotto controllo le strade.
Era
stata una notte
tutto sommato tranquilla, fatta eccezione di quel tentativo di furto
sulla ventinovesima, e l’unica cosa che Spiderman era
riuscito a
prendere era stato un gran freddo.
“Dovrei pensare di
fare una versione invernale della tuta” pensò il
vigilante,
mentre, saltando di tetto in tetto, raggiungeva la casa della zia e,
assicuratosi di non essere visto, passava per la finestra aperta
della propria stanza. Il filo della ragnatela che aveva lasciato tra
gli stipiti era ancora intatto, nessuno era passato da lì.
Si
sfilò la
maschera dal volto e, passatosi una mano tra i capelli schiacciati,
si lasciò cadere sul materasso: -Che noia…-
sbuffò il ragazzo,
osservando distrattamente il soffitto; certo, da un lato era contento
che le strade ultimamente fossero state più tranquille del
solito,
ma dall’altro fremeva dalla voglia di partecipare a un vero
scontro
e sfogare la sua forza su qualche cattivone.
Dopo
aver spedito
Rhino dietro le sbarre del carcere di massima sicurezza, la fama di
Spiderman aveva ripreso a crescere, incutendo timore nel cuore dei
ladruncoli, che per lo più preferivano starsene a casa
piuttosto che
rischiare di ritrovarsi invischiati in una ragnatela.
L’ultimo
caso
interessante che gli era capitato aveva riguardato un gruppo di
trafficanti di droga che distribuivano schifezze sintetiche nelle
discoteche, ma oramai erano passate settimane!
Peter
si tolse i
guanti e gli spara ragnatele e iniziò a sbottonarsi la tuta:
aveva
disperatamente bisogno di una doccia calda.
“Se non altro ho
incontrato una fan” pensò il ragazzo, sfilandosi
la parte
superiore e iniziando a slacciare quella inferiore con una certa
fatica: con quel freddo lo spantex si era irrigidito e toglierlo gli
stava costando più impegno del previsto.
“Che strana tipa”
considerò il ragazzo, mentre piegava la tuta e la nascondeva
in un
angolo del suo armadio “Non sembrava essere spaventata dal
rapinatore. Ha avuto un bel sangue freddo!”
L’acqua
calda ci
mise un po’ ad arrivare e Peter fu bloccato
nell’angolo
diametralmente più lontano dal getto per una manciata di
minuti,
poi, finalmente, la temperatura si fece più gradevole e il
vigilante
mascherato poté finalmente godersi la meritata doccia: alle
nove di
quella mattina avrebbe avuto lezione in università e voleva
riuscire
a rilassarsi abbastanza da prendere sonno e riposarsi quelle poche
ore che gli rimanevano.
“L’idea della
voce alterata non è affatto male” il ragazzo si
insaponò in
fretta e si strofinò i muscoli delle braccia con una spugna
“Forse
con il microfono delle vecchie cuffie potrei arrangiare qualcosa di
utile”.
Non
era insolito per
lui interagire con le persone che salvava: gli piaceva incoraggiare
il malcapitato con qualche parola di conforto per aiutarlo a superare
il trauma di un’aggressione e, il più delle volte,
quello
ringraziava con veemenza o chiedeva un autografo (una volta una
ragazza gli aveva persino chiesto di andare al cinema con lei in
costume!), ma mai, prima di quella sera, qualcuno gli aveva dato un
consiglio su come difendere la sua identità segreta. Un
consiglio
intelligente, per di più, sapendo quanto gli piacesse
parlare
durante i combattimenti!
“Quella ragazza…
Chiara, sembrava saperla lunga in merito” Peter
girò le manopole e
il flusso d’acqua scemò fino a smettere, poi
allungò un braccio
verso l’asciugamano e se lo avvolse in vita “So
solo cosa vuol
dire nascondersi dietro una maschera per proteggere chi
ami…”
Cosa
voleva dire con
quell’affermazione? Quale maschera poteva mai avere una
sparuta e
imprudente ragazza di New York?
Si
frizionò i
capelli con l’asciugamano e, indossati un paio di boxer, si
buttò
di nuovo a letto, ma ormai il tarlo di quella strana conversazione
gli era entrato nel cervello e aveva iniziato a scavare, lento e
inesorabile.
Iniziò,
dunque, a
rivivere mentalmente i minuti trascorsi in quella strada buia,
analizzando ogni singolo dettaglio che riusciva a ricordare, ogni
più
piccolo indizio che poteva aiutarlo a sciogliere il rebus (era
già
arrivato a considerarlo tale) che quella ragazza gli aveva lanciato e
più ci pensava, più gli sembrava di sentire odore
di bruciato.
Poi,
all’improvviso,
gli si accese una lampadina e nella sua mente apparve nitida
l’immagine del teaser con cui la ragazza aveva messo KO il
rapinatore: sulla plastica scura dell’oggetto si leggeva
chiaramente la scritta argentata Stark.
Da
quando era
tornato dall’Afghanistan, Tony Stark aveva chiuso tutte le sue
attività nel campo della fabbricazione e della vendita di
armi,
convertendo le sue aziende alla produzione di impianti per la
depurazione dell’acqua dai residui incombusti dei carburanti
navali
e per la generazione di energia pulita. Per quanto ne sapeva Peter,
le Stark Industries non vendevano più da anni alcun tipo di
strumento bellico o di autodifesa e avevano provveduto a ritirare dal
commercio anche le vecchie partite di prodotti già
distribuiti per
il globo, perciò era alquanto strano che una ragazza
possedesse un
teaser marchiato Stark.
Quello
era un buon
punto di partenza per la sua indagine e, ricaricato da
quell’intuizione, in un balzo arrivò alla sedia
della scrivania,
accese il computer e iniziò a cercare informazioni riguardo
quel
modello di teaser.
Traduzione
del
dialogo
1Carmen:
Ciao Arianna, hai finito di lavorare adesso?
Chiara:
Sì, Carmen.
Perché sei ancora sveglia? Vai all'ospedale?
Carmen:
Comincio il
mio turno a oncologia pediatrica tra mezzora. Ho preso alcuni vecchi
giocattoli di Carlos da portare ai bambini.
Chiara:
Saluta Carlo
da parte mia quando ti chiama.
Carmen:
Certo, buona
notte.
Chiara:
Buona notte
e buona fortuna.
Angolo
dell'autrice
Salve
a tutte e
bentrovate alla fine del secondo capitolo di Panacea Project!
Per prima cosa vorrei ringraziare con tutto il cuore AlessiaOUAT e
Ragdoll_Cat per aver inserito la storia tra le preferite e MARS88 e
Glendolina per aver cominciato a seguirla! Il vostro sostegno e le
vostre belle parole sono un grandissimo incoraggiamento a proseguire
e ve ne sono grata ^_^
Siamo
a Novembre (cit. Robert Downey Jr. in Sherlock
Holmes,
2009) e come promesso ecco il nuovo capitolo *esulta*! Spero con
tutto il cuore che sia stato di vostro gradimento :)
Come
annunciato, ecco che dal nulla appare un certo supereroe di quartiere
;) nonstante le circostanzepoco piacevoli, vi è piaciuto il
loro
incontro?
Un
passo alla volta si comincia anche ad apprendere cosa è
accaduto nei
quattro anni che separano il rietro a casa della nostra eroina dal
presente e, a quanto pare, non siamo i soli ai quali interessa
saperne di più. ;) Che ne dite di Clint in versione
casalinga
stalker? XD
Vorrei
ringraziare anche Kinnabaris per il suo aiuto nella traduzione ^_^
Rinnovo,
dunque, la mia speranza nel fatto che vi sia stato gradito,
invitandovi a lasciare un'opinione e/o, se lo riterrete opportuno,
qualche suggerimento per migliorarmi.
Ci
vediamo alla prossima!
Un
grosso abbraccio!
Lady
Realgar
Ps.
Mi scuso per la brevità del capitolo, ma purtroppo i tempi
che ho a
disposizione sono quelli che sono. Cercherò di rimediare con
i
prossimi aggiornamenti. Grazie per la comprensione! :*
|
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Capitolo 3 *** Il Caffé Quotidiano ***
Il
rumore di un
clacson in lontananza fece sobbalzare la ragazza sulla sedia e una
scarica di dolore lungo tutta la schiena le mozzò per un
momento il
respiro: si era addormentata piegata sulla penisola, circondata da
una decina di fogli di carta imbrattati di graffite e sanguigna. Il
soggetto di tutti quegli schizzi era uno solo: Spiderman.
Chiara
si alzò
lentamente in posizione eretta, già percependo il principio
di
quello che sarebbe divenuto da lì a poco un forte mal di
testa;
-Ohi, ohi..- si lamentò, intontita dal sonno, mentre
Annibale,
comodamente disteso sul divano, se la dormiva nella grossa.
-Bella
la vita, eh?-
ridacchiò, osservando le labbra del cane sollevarsi
leggermente
durante i profondi respiri che l’animale, rilassato,
emetteva; si
strofinò gli occhi con i pugni chiusi e rimase per un
momento ad
osservare la produzione di quella notte d’ispirazione: aveva
ritratto il vigilante in varie pose molto dinamiche e complicate,
cercando di mettere su carta l’agilità e la
velocità dei
movimenti a cui aveva assistito durante quel breve combattimento.
Non
aveva mai visto
nulla del genere e ne era rimasta affascinata, ma tra quei disegni
non ve n’era uno che si avvicinasse abbastanza alla
realtà. Non
c’era nulla che suggerisse tanta abilità e lei,
come artista,
agognava riuscire a catturarla e a fissarla nel colore.
Mentre
si
massaggiava il collo, l’occhio le cadde
sull’orologio appeso al
muro a lato della porta e un “Porcavacca!” le
scappò di bocca:
erano le 6.23 e lei avrebbe dovuto essere al Daily
da almeno venti minuti.
Si
gettò in bagno
come una furia, lavandosi e vestendosi a tempo di record, poi,
infilato in borsa il sacchetto del cibo di Annibale,
agganciò il
cane al guinzaglio ed entrambi corsero alla fermata
dell’autobus,
riuscendo a prenderlo per un soffio.
Pur
non essendoci il
solito traffico mattutino che solitamente bloccava tutte le strade di
Brooklyn, la corsa parve alla ragazza infinita e, quando finalmente
raggiunse il Caffè, le sembrò strano che il
signor Bailey stesse
ancora alzando la saracinesca davanti alla vetrina: -Arianne,
eccoti!- le sorrise cordialmente, prendendo tra le dita la sigaretta
che stava fumando ed emettendo una densa nuvoletta grigia -Ho finito
da poco di farcire i croissant, se il tuo amico ha fatto la sua magia
anche questa volta puoi andare a scaldare il forno.
-Mi
scusi per il
ritardo…- esordì Chiara, ma l’uomo
sventolò la mano con
noncuranza, come per dire “Non ti preoccupare”, e
le indicò con
un’occhiata la cucina attraverso la vetrina, così
la ragazza,
risollevata nel morale, corse dentro al Caffè e
sistemò il fusibile
al suo posto.
Sopra
i fornelli ben
tre teglie piene di panciuti croissant erano in attesa di essere
infornate e, mentre il forno, ora di nuovo funzionante, raggiungeva
la giusta temperatura, Chiara accese la macchina del caffè e
iniziò
a distribuire le tovagliette di carta sopra i tavolini, mentre
Annibale, a cui la padrona aveva riempito la ciotola di croccantini,
faceva la sua colazione in un angolo della sala.
Quando
Chiara ebbe
messo la prima teglia in forno, il campanello all’ingresso
suonò e
una trafelata Talia entrò al Daily,
lanciando il cappotto sull’appendiabiti e inforcando il
grembiule,
sbiascicando scuse sul suo ritardo per via di un autobus non passato.
Finalmente
tutto il
personale aveva raggiunto il posto di lavoro e il Daily
Coffee poté
accogliere propriamente la sua
affezionata clientela: il primo a far suonare il campanello
d’ingresso fu il signor Hevon, che accompagnava il nipotino
Trevor
a scuola.
-Buongiorno-
salutò
l’anziano signore, aiutando il nipote ad accomodarsi sugli
alti
sgabelli del bancone.
-Buongiorno!-
rispose allegramente Talia -Allora, Trevor, come è andato il
test di
matematica?
-Bene,
bene- disse
evasivo il bambino, la cui attenzione era concentrata maggiormente
sul vassoio di brioches che non sulla conversazione -Posso avere
quella?- chiese poi puntando il ditino verso la più grossa.
-Certamente,
tesoro!
E lei cosa gradisce, signor Hevon?
-Delle
uova e un po’
di pane bianco abbrustolito, per favore.
-Arrivano!
La
ragazza entrò in
cucina e Chiara iniziò a distribuire il caffè a
signor Hevon e a un
paio di altri uomini in abito da ufficio che si erano seduti a un
tavolo.
-Buongiorno
signor
Hevon! Trevor!- salutò la ragazza, mentre riempiva la tazza
all’anziano uomo, che rispose sorridendo: -Ciao Arianne, come
stai?
-Come
se mi avesse
investito un’automobile- rise quella -Ma per il resto va
bene. Come
sta sua figlia? È da un po’ che non viene a
trovarci.
-Mamma
lavora un
sacco, ultimamente- lo anticipò il piccolo Trevor, che
già era
riuscito a impiastricciarsi la faccia di marmellata -Però ha
detto
che verrà al saggio di musica ad Halloween!
Il
nonno gli diede
una carezza sul capo, mentre con l’altra mano gli porgeva un
tovagliolo -Trevor è stato nominato primo clarinetto della
banda
quest’anno- disse l’uomo, i cui occhi brillavano di
orgoglio.
-Allora
dovresti
accompagnarmi al provino di oggi- si intromise Talia, rientrando in
sala con un grosso piatto pieno di uova strapazzate -Tu suoni e io
canto.
*
Aveva
passato la
notte in bianco e le occhiaie che gli si erano formate sotto agli
occhi liquidi ne erano la prova lampante. Quando zia May
l’aveva
visto scendere in cucina con una faccia da zombie, aveva insistito
per fargli misurare la febbre, ma Peter, adducendo come motivo la
severa politica dei professori sulla puntualità, aveva
afferrato il
sacchetto del pranzo ed era letteralmente scappato fuori di casa.
In
fondo, si disse
poi mentre scendeva le scale che portavano alla metropolitana, quella
scusa non era poi così falsa: quello era il suo secondo anno
alla
facoltà di Biotecnologie e, dato che la retta era stata
pagata per
la maggior parte da sua zia, ci teneva a dare il massimo e, dati i
primi esami, a risultare il primo tra i suoi compagni di corso.
Lo
doveva a zia May
e lo doveva a Gwen.
Dopo
la sua morte,
Peter aveva passato un anno terribile, trascorrendo le sue giornate
in piedi di fronte alla lapide che riportava il nome di Gwen Stacy.
La sua Gwen.
Sua
zia si era
dimostrata molto comprensiva e disponibile a dargli tutto
l’aiuto
possibile, credendo di comprendere appieno i sentimenti del ragazzo,
ma il dolore di Peter non stava solo nella perdita, bensì a
fondo,
molto più a fondo. Quello che lo distruggeva
dall’interno era il
senso di responsabilità.
Di
giorno rivedeva i
grandi occhi verdi della ragazza che lo guardavano mentre cadeva nel
baratro, di notte sentiva nel rumore dei rami che ondeggiavano al
vento il suono del suo collo che si spezzava per il contraccolpo
della ragnatela che si tendeva.
Aveva
perso
l’appetito e, con esso, diversi chili, riducendosi ad essere
ancora
più gracile e allampanato di quanto già non fosse
e questo,
aggiunto alla mancanza di sonno, lo aveva reso estremamente
instabile, portandolo a oscillare tra
l’irritabilità e l’apatia.
Nel
frattempo,
l’indice di criminalità era aumentato
vertiginosamente e la
polizia aveva avuto un bel da fare per tenere a bada tutti quei
malviventi che, non vedendo più in giro il vigilante in
maschera
rossa, potevano delinquere in tutta libertà.
Poi,
finalmente, un
atto di coraggio aveva risvegliato in lui il Peter determinato e
intrepido che si era nascosto sotto la coltre di depressione, ed era
tornato a indossare la sua maschera; questo non significava che il
suo senso di colpa si fosse attenuato, ma, almeno, aveva trovato un
modo per tentare l’espiazione del peccato che gli macchiava
indelebilmente la coscienza.
Facendo
del bene,
anche il suo umore era migliorato e, finalmente, si era deciso a
riprendere gli studi: gli ottimi voti con cui si era diplomato al
Midtown High gli avevano aperto le porte
dell’università, ma la
retta era comunque una bella batosta per la finanza familiare,
così
zia May aveva richiesto di poter fare gli straordinari in ospedale,
presso cui era infermiera, e lui tentava di racimolare qualcosa
vendendo le sue foto e facendo qualche lavoretto per i vicini.
Il
vagone della
metropolitana in cui salì era incredibilmente pieno e per
tutta la
tratta a Peter sembrò di essere un’acciuga in una
scatola di
latta, ma quando fu ridisceso i suoi polmoni poterono tornare a
respirare e l’ambiente stimolante
dell’università gli fece quasi
dimenticare di essere uscito senza aver fatto colazione.
Peccato
però che a
metà mattinata il suo stomaco decise di esibirsi nel canto
della
balena, proprio durante la lezione del più burbero dei suoi
professori, che commentò l’accaduto affermando che
mai si sarebbe
aspettato di ritrovarsi un cetaceo come allievo. Inutile dire che per
la vergogna il povero Peter cercò malamente di nascondersi
dietro
allo zaino appoggiato sul banco.
Durante
la pausa, si
precipitò in caffetteria, dove si servì con del
caffè freddo e un
muffin che, da quanto era vecchio e malconcio, probabilmente aveva
militato in Vietnam.
Annusando
diffidente
il muffin veterano, Peter non poté fare a meno di pensare
all’invito
che quella ragazza aveva avanzato la notte precedente e, di
improvviso, si rivide davanti agli occhi tutti i siti internet e le
pagine che aveva consultato per individuare quel modello di teaser,
ma il risultato era stato: zero. Il nulla assoluto.
Sembrava
quasi che
le Stark Industries non avessero mai prodotto un simile oggetto e
questo non faceva altro che incrementare i suoi sospetti; era
addirittura arrivato a pensare che potesse essere una criminale, ma
aveva subito scartato quell'ipotesi: era alquanto improbabile che le
aziende di proprietà di Tony Stark alias Iron Man fossero
coinvolte
in attività illegali e, in secondo luogo, un furfante non
avrebbe
avuto ragione di dargli suggerimenti su come proteggere la sua
identità segreta.
Ma
allora cosa si
nascondeva sotto?
Ad
un tratto
un’ombra gli si parò davanti e una deliziosa voce
femminile gli
domandò: -Scusa se ti disturbo, ma sto cercando
l'auditorium, puoi
indicarmi dove si trova?
Peter
alzò
svogliatamente gli occhi dal proprio caffè e per poco non si
strozzò
con l’ultimo sorso che aveva appena bevuto: in piedi davanti
a lui,
vestita con un paio di leggins neri e una giacca a vento rossa, stava
una ragazza dai lineamenti piú graziosi che avesse visto da
diverso
tempo. Il suo viso era un ovale perfetto, in cui erano racchiusi un
paio di profondi occhi a mandola e una bocca dalle carnose labbra
colorate da un leggero velo di rossetto, il personale era sottile e
armonico e le mani, che sbucavano appena dalle maniche della giacca a
vento, erano molto curate. I capelli, invece, neri e lucenti, le
scendevano morbidi lungo le spalle e una simpatica frangetta le
incorniciava il viso.
La
ragazza aveva uno
sguardo gentile e gli sorrideva cordiale, ma il silenzio si stava
protraendo un po’ troppo, così Peter si impose di
concentrarsi
sulla risposta: -Secondo piano, quarta porta a sinistra- disse in un
lampo, poi, accorgendosi di quanto fosse stato brusco, aggiunse -Vuoi
che ti accompagni?
-No,
grazie- declinò
quella, accennando un sorriso -Credo di potermela cavare. E comunque,
se fossi in te, eviterei di mangiare quel muffin, sembra uno zombie
di The Walking Dead.
-Eh
già- ridacchiò
il ragazzo, pensando a una frase intelligente da dire, ma quella era
già uscita dalla caffetteria prima ancora che potesse
proferire
mezza parola.
-Idiota-
mugugnò
contro se stesso il ragazzo, facendo cadere la fronte sul piano del
tavolo. Quella giornata era cominciata davvero male!
Nel
corso delle
lezioni successive, Peter cercò con lo sguardo quella
ragazza e,
passando davanti all'auditorim, buttò un occhio attraverso
il vetro
della porta, ma non gli parve di scorgerla, così si
rassegnò alla
figuraccia fatta e, una volta conclusa l’attività
scolastica, si
diresse dal suo fotografo di fiducia per far sviluppare i suoi ultimi
scatti.
Questa
volta si era
concentrato maggiormente sul quartiere di Hell’s Kitchen:
aveva
sentito che da qualche tempo un nuovo vigilante mascherato era
apparso in quella zona, dando diversi grattacapi alla
criminalità
organizzata che l’appestava.
Le
foto di
Spiderman, oramai, vendevano poco o niente e, inoltre, sarebbe stato
pericolosamente sospetto se il suo nome fosse stato associato a una
grande quantità di scatti dell’Uomo Ragno,
così aveva provato a
dare la “caccia” al nuovo collega, ma i risultati
non erano stati
quelli che aveva sperato: a differenza sua, il vigilante di
Hell’s
Kitchen non era un tipo loquace, ma, al contrario, preferiva agire
nell’ombra e non lasciar parlare molto di sé.
Nessuno
scatto del
vigilante e nessuna notizia, ma in compenso i ritratti di vita urbana
gli erano parsi molto buoni e sperava di riuscire a piazzarli a
qualche giornale locale.
Compiuta
anche
quella commissione, i pensieri di Peter tornarono a focalizzarsi
sull’incontro della sera precedente e sui suoi sospetti,
decise,
dunque, dato che erano le tre del pomeriggio passate e che non aveva
ancora mangiato adeguatamente da quando si era alzato dal letto
quella mattina, di andare a fare una visita al Daily
Coffee.
Il
viaggio in
aereo da Roma Fiumicino a Washington Dulles National Airport. con uno
scalo di tre ore a Madrid in compagnia di Nick Fury era durato
quindici, interminabili ore, trascorse con il cuore pesante come un
pezzo di piombo, al punto tale che, se fossero precipitati in acqua,
Chiara era sicura che sarebbe andata irrimediabilmente a fondo.
Fury,
abbigliato
come un turista con grossi Rayaban scuri, un cappellino da baseball
calato sulla fronte, una felpa degli Yankees sulle spalle e un paio
di larghi blue jeans, teneva tutto e tutti sotto controllo, mentre
Natasha, che aveva preso un secondo volo per Los Angeles assieme a
una terza agente abbigliata alla stessa maniera di Chiara, aveva il
compito di depistare eventuali inseguitori.
Dio
solo, pensava
Chiara, sapeva chi accidentaccio potesse essere interessato a lei
oltre che a quei due pazzi americani.
Al
check out
dell’aeroporto, mimetizzato tra la folla, un uomo dalla
mascella
squadrata e i capelli biondo cenere tagliati a spazzola era giunto ad
accoglierli: -Chiara, I'd like you to meet Agent Barton- aveva detto
Fury, mentre l’uomo lo aiutava a caricare i bagagli su una
vecchia
Ford grigia e anonima.
L’agente
l’aveva squadrata dall’alto della sua statura, il
suo sguardo era
freddo e impassibile e Chiara se lo sentì addosso come una
doccia
gelata.; stanca e a disagio, poté solo sbiascicare un vago:
-Ciao.
Clint
Barton non
era un uomo di molte parole e durante il tragitto, in cui lui aveva
avuto il ruolo di autista, non proferì verbo né
tentò di fare
conversazione, ogni tanto però, notò Chiara,
lanciava occhiate allo
specchietto retrovisore per studiarla e lei sentì quei
glaciali
occhi azzurri scrutarla attraverso il vetro, sforzandosi di
ignorarli. Troppe erano le emozioni da gestire in quel momento per
poter pensare anche a quegli occhi: certo, non era lontana da casa
come quando era finita ad Asgard, ma ugualmente si sentiva sperduta e
intimorita da ciò che quelle persone, che
l’avevano allontanata
dalla sua famiglia dall’oggi al domani, volessero da lei; la
sua
maggior preoccupazione, però, era quanto tempo sarebbe
durato quella
forzata
separazione.
Seduta
sul sedile
posteriore dell’automobile, guardava distrattamente il
paesaggio
all’esterno, cogliendo solo le luci che si stagliavano sulla
grande
città notturna, ma senza effettivamente vedere
alcunché.
Dopo
circa
un’ora, la vettura si arrestò nel parcheggio
interno di un enorme
edificio che svettava sopra un’isola nel bel mezzo del
Potomac
River e allora i due uomini scesero ed estrassero le borse dal
bagagliaio: -Please, come- disse il Falco, aprendole la portiera,
sulle spalle teneva lo zaino in cui Chiara aveva stipato lo stretto
necessario per partire. Alla luce delle lampade, la ragazza
notò che
indossava un paio di jeans, una camicia a scacchi e una giacca di
tela nera, era molto informale e i suoi modi, sebbene distaccati,
erano tutt’altro che bruschi.
Con
il sedere
ancora dolorante per tutte le ore trascorse seduta in aereo, scese
riluttante dal veicolo e seguì i due uomini attraverso il
parcheggio
senza dire una parola; era un ambiente piuttosto cupo, illuminato qua
e là da qualche neon, e la ragazza notò che,
pochi metri più a
destra della Ford, era parcheggiata anche una BMW nera.
I
tre entrarono
in un ascensore, Fury premette il tasto 11 e la scatola metallica
salì silenziosamente.
-Hill
is already
here, I saw1- disse Fury, fissando la porta
dell’ascensore
davanti a lui.
-Yes,
she said
she couldn’t wait ‘till tomorrow- rispose
l’agente Barton
-How
thoughtful.
-She
couldn't
wait for listenin'
to
what she has to tell. The
lab-rats said that the amount of energy was massive, lots more
intense than the last time Thor visited us.
“Sanno di
Thor?”Chiara riuscì a cogliere il nome
dell’amico nella
conversazione e tutti i suoi nervi iniziarono a fremere.
-Yeah-
sospirò
Fury, togliendosi il cappello da baseball e passandosi una mano sulla
pelle del capo -This time was necessary to move the population of an
entire city, we never considered how many people the so called
“Bifrost” can bring and take away.
-But
asgardians
are our allies, aren’t they?- c’era un velo di
inquietudine nella
sua voce e Chiara non seppe se essere felice di scoprire che anche
quello strano uomo provasse emozioni o se essere spaventata da cosa
le avesse provocate.
-Yes,
they are,
but we don’t know who else can use that tecnology. Do you
remember
the Chitauris, don’t ya?
-Pretty
clearly,
sir.
-Well,
we must
find out more about this stuff and something interesting about the
girl came out too, but some researches are needed to prove it.
-What
do you
mean?- la conversazione doveva essere volta attorno a lei,
perché
Barton si girò fulmineo a guardarla -She’s just a
kid, what help
can she bring to us?
-We’ll
see-
sospirò l’uomo -By now she can give us her
knowledge. Did I
mention that she went to Asgard?
Il
campanello
dell’ascensore suonò e il trio si
ritrovò in un corridoio lungo e
affiancato da numerose porte di uffici, sul viso di Barton si era
dipinta un’espressione piuttosto sconcertata e Chiara, in
qualche
modo, sapeva di esserne stata la causa.
Venne
scortata
attraverso il corridoio, fino all’ultimo ufficio,
l’ultimo in
fondo, sulla cui porta stava appesa una targhetta di metallo nera con
una scritta argentata che diceva: “Maria Hill,
commander”.
Dling
dlong.
Lo
squillante suono
del campanello appeso all’ingresso della tavola calda
annunciò
l’arrivo di Talia, avvolta dalla sua inseparabile giacca a
vento
rossa; la ragazza appese giacca e sciarpa all’appendiabiti,
inforcò
il grembiule e svanì dietro la porta della cucina senza dire
una
parola.
Chiara
la fissò
sconcertata, la bocca semiaperta dallo stupore: da quando si erano
conosciute, circa un anno prima, Talia si era sempre dimostrata
cordiale e aperta, sempre con il sorriso sulle labbra e una parola
gentile nei confronti di tutti. Mai e poi mai si sarebbe aspettata di
vederla attraversare il locale come una furia senza nemmeno rivolgere
un saluto ai clienti abituali e senza sommergerla di parole,
raccontandole con abbondanza di dettagli lo sviluppo del provino
e…
“Il provino!” la
ragazza si batté la mano aperta sulla fronte, realizzando
finalmente
la causa di quello strano comportamento dell’amica e, servito
il
caffè a un cliente al banco, si affacciò
timidamente dalla porta
della cucina, dove in un angolo, seduta su una cassa vuota di
gassosa, Talia singhiozzava.
-Ehi…-
sussurrò
la ragazza, rivolgendole il sorriso più caldo di cui fosse
capace,
che divenne una risatina trattenuta quando vide l’amica
sobbalzare
dalla sorpresa -Avanti, dimmi chi devo picchiare per farti tornare il
sorriso!
Talia
si passò
velocemente le dita sotto agli occhi, cercando di celare il
più
possibile le lacrime, ma Chiara, avvicinatasi e inginocchiatasi di
fronte a lei per poterla guardare in
viso, le porse
una manciata di tovaglioli:
-Se vuoi far finta di niente, pulisciti almeno la faccia dai rivoli
di mascara, anche se ti suggerisco di tenere in considerazione la
possibilità di travestirti da Alice Cooper per Halloween.
Ora che ti
guardo bene, gli somigli abbastanza.
Talia
prese i
tovaglioli e iniziò a strofinarseli sulle guance, mentre il
suo
volto assumeva un’espressione indecifrabile; passarono
qualche
secondo in completo silenzio, finché la cantante, dopo aver
preso un
profondo respiro, si decise a parlare, anche se con voce piuttosto
tremula e incerta: -Gallina strozzata…- singhiozzò
-Mi hanno chiamata così, senza nemmeno permettermi di
completare la
canzone. Quei… quei…
-Lasciali
perdere!-
la interruppe Chiara, prevedendo un nuovo sfogo di pianto e
anticipandolo -Erano soltanto gli organizzatori di una stupida festa
universitaria! Cosa vuoi che ne sappiano di musica? E comunque quanto
ti avrebbero pagata per esibirti? 20 dollari a dire tanto!
-Uno
di loro era il
docente di musica…- sussurrò piena di vergogna la
ragazza,
nascondendo il volto in un fazzoletto.
-E
allora?- sospirò
Chiara, facendo spallucce -Hai la voce più bella che abbia
mai
udito, hai iniziato a studiare canto quando avevi appena sei anni e,
te lo giuro sulla sacra macchina del caffè di Bailey, che
troverai
un paio di orecchie abbastanza sturate da riuscire ad apprezzare il
tuo talento. E, stanne certa, non le troverai tra quei vecchi
tromboni!
La
risata di Talia
tolse al cuore della ragazza un grosso peso: Chiara non poteva
definirsi un’esperta di musica e del suo business, se
possibile, ne
sapeva ancora meno, ma pensava sinceramente che la sua amica fosse
dotata di una voce e di una passione nel canto invidiabile e, come
sua fan n°1 ufficiale, aveva il sacro compito di spronarla a
non
arrendersi.
Le
avvolse, così,
le braccia attorno al collo e la strinse forte, cercando di
trasmetterle tutto il suo sostegno; abbraccio che la ragazza
ricambiò, sospirando forte e godendo della vicinanza
dell’amica,
ma il tintinnio del campanello all’ingresso spezzò
presto quel
momento di serenità e le due cameriere dovettero inforcare
di nuovo
i loro grembiuli e tornare in sala, dove un ragazzo allampanato con i
capelli spettinati e una Reflex appesa al collo, si guardava attorno
come un turista a Times Square.
*
Le
ruote
dell’autobus stridettero sull’asfalto
allorché il mezzo fermò
la sua corsa, le porte si aprirono sbuffando e Peter scese con un
balzo sul marciapiede. Non era tanto male usare i mezzi pubblici, di
quando in quando: non sprecava il liquido per le ragnatele, non
sforzava inutilmente i muscoli delle braccia e poteva sfruttare il
maggior tempo impiegato per svuotare la propria mente da ogni
pensiero.
Ne
aveva avuto
parecchio da riflettere negli ultimi tempi: prima di tornare a
indossare la maschera si era nascosto dietro al muro dei propri
pensieri al punto tale che, completamente assorbito dalle sue
riflessioni, aveva trascorso giorni interi senza nemmeno proferire
mezza parola, con grande preoccupazione da parte di zia May, abituata
da anni a sentirlo parlare per ore ininterrottamente.
Tornare
alla sua
attività di vigilante di New York City era stata, senza
ombra di
dubbio, la migliore delle decisioni prese dopo tanto pensare.
“Appena in tempo
per fermare Rhino” pensò tra sé e
sé il ragazzo, aggiustandosi
lo zaino sulle spalle e guardandosi attorno alla ricerca
dell’insegna
luminosa del Daily
Coffee:
era abituato a osservare Brooklyn da un punto di vista ben
più alto
e di bar in quella sola frazione di New York City ve n’erano
un’infinità. Non era cosa facile cercarne uno
specifico nel
labirintico intreccio di strade della penisola.
Una
folata di vento
gelido lo fece stringere nelle spalle: avrebbe dovuto stare a sentire
zia May e indossare il maglione che gli aveva regalato a Natale
(anche se era decorata con un raccapricciante motivo a renne
stilizzate). Il solo pensiero della pessima figura che avrebbe fatto,
se fosse andato in giro con addosso le renne stilizzate, lo fece
rabbrividire più del vento newyorkese.
“Mille volte
meglio affrontare il gelo!”
Per
sua fortuna il
campanello di una bicicletta attirò la sua attenzione e,
alle
proprie spalle, trovò quello che stava cercando: il neon blu
dell’insegna stile anni ’70 del Daily
mandava allegri
bagliori nella sua direzione,
mentre sull’ampia vetrina l’invitante immagine di
una pila di
caldi e soffici pancakes gli fece brontolare lo stomaco.
-Ora
di merenda!-
esclamò Peter, attraversando in fretta la strada e spingendo
la
porta d’ingresso, mentre l’allegro tintinnio del
campanello
annunciava il suo arrivo.
L'ambiente
era più
piccolo di quello che ci si poteva aspettare dall'esterno, c'erano
solo quattro tavoli, ordinatamente separati dalle corte file dei
divanetti foderati in sintetico color verde bottiglia e, sul lato
opposto della vetrina, il bancone si estendeva solo per metà
della
lunghezza della parete; nonostante ciò, le luci, il profumo
di caffé
e l'arredamento vintage riuscivano a rendere l'ambiente caldo e
accogliente.
Una
serie di cornici
ordinatamente appese sulla parete a lato del bancone attirò
l'attenzione di Peter, che vi si avvicinò: lungo tutta
l'area che da
un metro e mezzo da terra arrivava fino al soffitto erano esposte
decine di fotografie, poster e fogli di spartito riguardanti il mondo
del jazz. Vi erano ritratti in bianco e nero di Louis Armstrong,
Benny Gooodman, Duke Ellington, Cab Calloway, Woody Herman, Count
Basie, Chick Webb, Ella Fitzgerald, Artie Shaw, Glenn Miller, Billie
Holiday e molti, moltissimi altri; un paio di essi erano addirittura
stati autografati.
Era
una collezione
vasta e invidiabile e persino lui, che di musica non poteva
considerarsi un esperto, rimase affascinato da quella piccola Hall of
Fame di straordinari artisti. In mezzo a quel mare di cellulosa e
albumina dal sapore retrò, Peter notò che vi era
una sola
fotografia a colori: rappresentava un quartetto di musicisti, di cui
tre uomini in giacca e camicia e una donna in un lungo abito rosa, su
un modesto palcoscenico di teatro intenti a suonare e a cantare, sui
loro visi la fotografia aveva impresso per i posteri il fuoco della
passione che ardeva in loro.
Non
poté resistere
alla tentazione: tolse il coperchio dall'obiettivo della macchina
fotografica, fece un paio di passi indietro e, aggiustata la messa a
fuoco, scattò una fotografia della parete.
-Cosa
stai
combinando, di grazia?
Quella
domanda
inaspettata lo fece sobbalzare e per un pelo la Reflex non gli
scivolò dalle mani: -Ehm, io... ecco...- balbettò
Peter, sentendosi l'imbarazzo arrossargli le guance e le orecchie.
-Non
volevo
spaventarti, scusami- proseguì la cameriera, il cui ghigno
sulle
labbra tradiva il divertimento che la sua reazione le aveva provocato
-Ma dovresti chiedere prima al proprietario se puoi fare fotografie
al suo Jazz Wall. Ne è molto geloso.
Peter,
riconoscendo
nella cameriera la ragazza incontrata la sera precedente durante la
ronda, boccheggiò per un altro mezzo secondo, mentre il suo
cervello
riordinava le idee, soprattutto quando notò che sulla
targhetta
appuntata sul suo
grembiule era stato scritto a penna, con una calligrafia tonda e
semplice, il nome Arianne.
-Posso
aiutarti in
qualche modo?- domandò di nuovo la ragazza, che iniziava a
spazientirsi (ma che accidenti aveva quel giorno?).
-Sì,
io- esordì
finalmente Peter, esibendo un largo sorriso -Ecco, vorrei ordinare
dei pancakes!
-Va
bene, con
cioccolata o sciroppo d'acero?- riprese la ragazza, appuntandosi
l'ordine su un blocchetto di fogli che aveva prontamente estratto
dalla tasca laterale del grembiule.
-Cioccolata,
per
favore- rispose Peter, scrutandola attentamente: era possibile che la
ragazza che aveva salvato la sera precedente avesse una sorella
gemella?
-La
cioccolata è
per i poppanti!- urlò un uomo seduto al bancone, brandendo
una tazza
ricolma di caffè e agitandola nella loro direzione -Solo lo
sciroppo
d'acero è il condimento dei veri americani.
-Si
comporti bene
signor Frederick- lo intimò scherzosamente la cameriera -Non
mi
spaventi così i nuovi clienti!
-È
lui quello che
ha ordinato la cioccolata!- ribatté convinto il signor
Frederick.
-Mi
arrendo, vada
per lo sciroppo- sospirò Peter, disorientato, soprattutto
quando
l'uomo, lanciatagli un'occhiataccia penetrante, emise uno sbuffo,
borbottando sottovoce un "L'avevo detto che lo sciroppo era
meglio" per poi tornare silenziosamente sulla sua tazza di
caffé.
-Accomodati
pure- lo
invitò Arianne, indicandogli con la penna un tavolo libero
-I tuoi
pancackes saranno pronti tra due minuti. Vuoi anche qualcosa di caldo
da bere? Oggi si gela.
-Sì,
grazie. Del
caffè
nero sarebbe ottimo.
La
ragazza si
congedò con un sorriso e svanì in cucina,
così Peter, chiuso
l'obiettivo della macchina e appoggiatala cautamente sul tavolo (era
stata l'ultimo regalo di zio Ben), poté lasciarsi cadere
sulla
soffice imbottitura delle panche e scaldarsi un po', mentre la sua
mente elaborava le informazioni appena acquisite.
Sebbene
non fosse
del tutto improbabile che potesse avere una sorella omozigote, il suo
istinto gli suggeriva che ci fosse qualcosa di poco chiaro dietro
l'identità di quella strana ragazza e che fosse necessaria
un'indagine più approfondita.
"Perché
mai
una cameriera di Brooklyn" si chiese il ragazzo, giocando a far
scivolare la zuccheriera sul piano del tavolo "Dovrebbe avere un
nome falso e un teaser Stark post-Afganistan?".
Il
cigolio della
porta della cucina gli arrivò stridente alle orecchie e si
girò
istintivamente in quella direzione, aspettandosi di vedere
Arianne/Chiara/chiunque fosse uscire con i suoi pancakes, ma una
lunga e ondeggiante chioma corvina gli suggerì che non si
trattava
della bassa ragazza con i capelli corti che aveva preso la sua
ordinazione.
Gli
ci volle una
frazione di secondo per riconoscere nella cameriera, che ora si era
messa al bancone a preparare una nuova brocca di caffé, la
stessa
ragazza che aveva incontrato in università quella mattina.
Che
coincidenza! E
dire che New York è una città enorme!
Seguì
con lo
sguardo i movimenti della ragazza, mentre estraeva una scatola di
latta colma di caffè macinato, ne metteva una certa
quantità dentro
il filtro della macchina con un cucchiaio, inseriva l’acqua e
poneva la brocca nel suo incastro all’interno della macchina
del
caffè. La sicurezza e la fluidità di quei gesti
denotavano una
ripetitività nella loro esecuzione e, per quanto banali,
Peter si
scoprì ad ammirarli, affascinato dalla grazia e dalla
leggerezza di
quelle dita sottili che si destreggiavano sul bancone.
In
pochi minuti la
bevanda fu pronta e la ragazza la versò in una grossa tazza
verde,
pose la tazza su un vassoio e la affiancò ad un cucchiaino,
un
tovagliolo e un tubo di panna montata, prese il tutto e si
avvicinò
al suo tavolo.
“Ok Parker, è la
tua occasione per rimediare alla figuraccia! Sii calmo e divertente,
come tuo solito”
-Ehi,
questo caffè
sembra molto meglio di uno zombie di The
Walking Dead!-
esclamò, appoggiandosi
all’imbottitura dello schienale e distendendo le braccia su
di
esso, cercando si assumere una posa disinvolta.
Quello
che ne seguì
fu un silenzio imbarazzante, freddo e pesante come una cappa di
ghiaccio sui due ragazzi, che si fissarono per qualche istante: Talia
con un'espressione sconcertata e incredula e Peter con lo sguardo di
qualcuno che avrebbe desiderato venire risucchiato dal sottosuolo per
la vergogna.
-Fammi
sapere se hai
bisogno di altro- si congedò la cameriera, lasciando sul
tavolo il
contenuto del vassoio, per poi fuggire dietro al bancone.
"Calmo
e
divertente un corno, testa di ragnatela!" si rimproverò
Peter,
abbassando lo sguardo sul suo caffè e, brandito il barattolo
della
panna, ve ne versò una generosa quantità: un po'
di dolce forse lo
avrebbe tirato su di morale.
Iniziò
a
sorseggiarlo con calma, concentrando la propria forza di
volontà sul
non fissare Talia come un idiota: per quel giorno aveva già
fatto
abbastanza; il tocco umido di qualcosa dalla consistenza spugnosa
sulla mano sinistra sotto al tavolo lo portò istintivamente
a
guardare in basso e i suoi occhi si incrociarono con quelli larghi e
dolci di un cane meticcio dal manto color nocciola.
-Ciao
Annibale!-
salutò sottovoce Peter, accarezzandogli la testa pelosa
mentre
quello gli leccava le dita, scodinzolando allegramente -Come stai
oggi, bello?
In
tutta risposta,
l'animale alzò la testa e, annusando l'aria, si
voltò di scatto
nella parte opposta da cui Chiara, portando un abbondante piatto di
pancackes, stava arrivando: -Annibale!- chiamò la ragazza
-Quante
volte ti ho detto di lasciar stare i clienti? Torna nella tua cuccia,
sciò!
-Non
da nessun
fastidio, davvero- si intromise Peter, lasciando un'altra carezza al
vello dell'animale, che, concentrato sui pancackes ora appoggiati sul
tavolo, iniziò a dimenare la coda ancora più
velocemente.
La
cameriera gli
rivolse un ampio sorriso, poi, sporgendosi con il busto,
continuò a
bassa voce: -Ti chiedo scusa per il signor Frederick: può
sembrare
un po' strano sulle prime, ma è un cliente affezionato e, te
lo
assicuro, innocuo. Gli manca solo un venerdì (e forse anche
un
sabato), ma è un uomo gentile.
-Non
c'è problema-
ripeté Peter -Ne ho visti di peggiori.
-Questo
non è uno
di quei lussuosi bar di Broadway, ma abbiamo una clientela molto
selezionata e più pittoresca- ammiccò l'altra -Se
tornerai a
trovarci, te ne accorgerai. Comunque, se vuoi la cioccolata ti porto
un barattolo di sciroppo d'acero pieno di quella.
-Sono
a posto così,
grazie...Arianne- Peter si sporse, leggendo il cartellino sul
grembiule -È un bel nome! È francese?
-Deriva
dal greco, a
dire il vero. Dalla principessa di Creta.
-Io
sono Peter-
riprese il ragazzo, anticipando la ritirata della cameriera, che gli
lanciò un'occhiata interrogativa -Piacere...- disse poi,
tornandosene in fretta a servire gli altri clienti.
*
-Hai
notato quello
strano tipo al tavolo tre?- chiese Talia all'amica, intenta a
scaldare un piatto di zuppa a un cliente: -Quello carino ma che
sembra non aver mai intavolato una conversazione in
vita sua?-
domandò Chiara.
-Esatto,
lui- annuì
-L'ho incontrato stamattina in
università.
-Spero
per la sua
salute che non fosse una di quelle teste di rapa dell'audizione.
-No,
no, non temere-
sorrise divertita Talia -È uno studente, o almeno credo. Che
coincidenza ritrovarlo qui, non trovi?
Chiara
appoggiò sul
bancone le stoviglie che stava adoperando e concentrò tutta
la sua
attenzione sull'amica: -Già, davvero una strana
coincidenza!-
esclamò con un tono eloquente, che fece alzare gli occhi al
cielo
alla cantante: -Non cominciare a fare strane congetture-
ridacchiò
Talia -Magari si tratta davvero di una coincidenza.
-Ti
ricordi mio
cugino Clint?- domandò Chiara, lanciando una veloce occhiata
a
Peter, che mangiava il suo dolce sotto lo sguardo torvo del signor
Frederick -Lui dice sempre che le coincidenze sono in realtà
fatti i
cui collegamenti non ci appaiono ancora chiari, ma a me questo sembra
piuttosto lampante.
-Non
ti seguo-
ammise la cantante, svuotando la lavastoviglie dai bicchieri e
riponendoli in bell'ordine nella vetrina accanto alla macchina del
caffè.
-New
York conta 8
milioni di abitanti- iniziò Chiara -La sola Brooklyn ne
vanta 2, di
milioni, e non oso nemmeno immaginare quanti bar e tavole calde ci
siano distribuiti sui suoi 789km². A te non sembra bizzarro
che un
ragazzo incontrato in un'università di Midtown si presenti
lo stesso
giorno nel bar in cui lavori a Brooklyn?
-Magari
vive qua
vicino oppure è venuto a trovare degli amici o...-
iniziò Talia, le
cui guance cominciarono a imporporarsi vistosamente mentre le sue
dita si attorcigliavano nervose attorno a una ciocca di capelli
corvini; -Pensala come vuoi- ammiccò Chiara, divertita -Ma
sono
pronta a scommettere che tu ti sia appena procurata un ammiratore. E
comunque, questo qua è mooolto più carino di
Thomasstempiatura.
-Aveva
solo la
fronte un po' ampia- ribatté la cantante, afferrando al volo
l'occasione di cambiare discorso; -Solo un po'?- rise Chiara -Nemmeno
la Piazza Rossa è così ampia.
-Sei
crudele, ma ti
voglio bene lo stesso- ammiccò Talia -Stasera cinese e film
spazzatura da te?
-Certamente.
Note
1.
Traduzione del dialogo
F:
Hill è già qui, ho visto.
C:
Già, ha detto che non poteva aspettare fino a domani.
F:
Che premurosa.
C:
Non poteva aspettare di sentire quello che ha da dire. I ratti di
laboratorio (gli scienziati in termine gergale-dispregiativo) hanno
detto che la quantità di energia era imponente. Molto
più intensa
dall'ultima volta che Thor è venuto a farci visita.
F:
Sì, questa volta era necessario spostare la popolazione di
un'intera
città. Non abbiamo mai considerato quanta gente il
così detto
Bifrost può prendere e portare via.
C:
Ma gli argardiani sono nostri alleati, vero?
F:
Sì, ma non sappiamo chi altro può usare quella
tecnologia. Ti
ricordi dei Chitauri, vero?
C:
Molto chiaramente, signore.
F:
Beh, dobbiamo scoprire di più su questa roba e qualcosa di
interessante riguardo alla ragazza è saltato fuori, ma sono
necessarie delle ricerche per provarlo.
C:
Cosa intende? Lei è solamente una bambina, che aiuto
può portarci?
F:
Vedremo. Per il momento può darci la sua conoscenza. Ho
detto che è
stata su Asgard?
Angolo
dell'autrice:
buonasera a tutte quante e benvenute al capitolo di Dicembre di
Panacea
Project!
Come prima cosa, vorrei mandare un grossissimo abbraccione a Angel27, Emily Mortensen e Calliope82 per aver iniziato a seguire la storia e Stardust97 che l'ha inserita tra le preferite! Grazie!! ^-^
In
secondo luogo, questo capitolo è incentrato sulla
quotidianità dei
nostri protagonisti e li seguiamo sui loro luoghi di lavoro/studio e
nelle loro relazioni con chi li circonda. Spero di non avervi troppo
annoiate ^-^"
Entriamo
per un po' anche nella testa di Peter e iniziamo un po' a vedere come
ha affrontato il lutto per Gwen e la ripresa dei suoi eroici intenti.
Che ve n'é parso? Spero di essermi mantenuta attinente al
personaggio e di non averlo reso troppo ridicolo.
Sono
cominciate al contempo le indagini di Peter, che, non del tutto
convinto di questa storia del teaser, vuole saperne di più.
Cosa
succederà?
Ma,
soprattutto, vi è piaciuto quello che avete letto? Spero
tanto di sì
e che, alla fine della lettura, non abbiate avuto la sensazione di
aver perso tempo ^-^"
Riguardo
al dialogo in inglese (prometto che è l'ultimo pezzo in
lingua
straniera che inserisco, ma qui era necessario per far capire che
Chiara non ha ancora dimestichezza con la lingua), questa volta non
sono stata corretta da una persona più competente di me,
perciò,
qualora trovaste orrori grammaticali, vi prego di segnalarmeli in
maniera tale che possa correggerli (e imparare anche qualcosina ^-^).
Ad
ogni modo, vi ringrazio per essere passate di qua, spero di avervi
intrattenute piacevolmente e che ci rivedremo presto!
Un
abbraccio forte
Lady
Realgar
Ps.
Per ricambiare la gentile cortesia fattami, se siete interessate a
leggere fanfiction a tematica Captain America, vi consiglio
caldamente Certe
cose non cambiano mai
di Ragdoll_Cat (non sono capace a mettere il link, perciò
potete
cercarla tra le mie seguite o direttamente nella sezione Capitain
America).
|
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Capitolo 4 *** R(h)umor et silentium ***
Aveva
trascorso
l'intero pomeriggio incollato alla poltroncina dalla foderatura verde
bottiglia (tra l'altro sorprendentemente comoda), alzandosi
sì e no
un paio di volte per andare ai servizi; l'ambiente del Daily
si era rivelato essere molto rilassante, eccezion fatta per il signor
Frederick, e, dopo circa una mezzora da quando aveva fino i suoi
pancakes, Peter aveva estratto i suoi quaderni di appunti e le
dispense e aveva iniziato a studiare: se per un eroe dalla grande
fama come Spiderman era piuttosto facile attaccare bottone con una
ragazza senza sembrare strano o impacciato, per il comune Peter
Parker la vita non era altrettanto semplice. Non poteva pretendere
che una fanciulla aprisse spontaneamente il proprio cuore a un
perfetto sconosciuto, così decise di prendersi del tempo e
imporre
la propria presenza come cliente finché la ragazza del
mistero non
avrebbe iniziato ad abbassare la guardia.
Il
fatto che questo
suo piano gli avrebbe permesso di rivedere Talia era una mera e
assolutamente casuale conseguenza aggiuntiva; anzi, se fosse riuscito
a ingraziarsi la sua amica, sicuramente Chiara sarebbe stata
più ben
disposta nei suoi confronti e, quindi, più incline al
dialogo.
"Parker,
sei un
genio!" gongolò il ragazzo tra sé e
sé, facendo roteare la
matita tra le dita, mentre ai suoi piedi, accoccolato sotto al
tavolo, Annibale ronfava nella grossa.
Il
telefono
cellulare vibrò nella tasca sinistra della giacca, lo prese
e lesse
sullo schermo luminoso:
Zia
May: h.19.07
Vieni
a casa per cena?
Non
si era accorto
di quanto si fosse fatto tardi: -h.19.08
Sì, ma farò un po' di ritardo- digitò in
fretta e furia sul vetro dello schermo, poi, riposte le sue cose
nello zaino, si avviò alla cassa.
-Già
ci lasci?-
chiese ironica Chiara da dietro il macchinario, digitando il prezzo
della consumazione -Non credo che quella poltroncina abbia mai dovuto
sostenere per così tanto tempo il peso di qualcuno.
-Mi
ha conciliato lo
studio- ammise ridacchiando Peter, porgendo il denaro alla ragazza
-Mai stato tanto produttivo in un solo pomeriggio.
-Lo
sciroppo d'acero
ti ha dato l'energia giusta per studiare- ammiccò Chiara,
che
ridacchiò sommessamente quando sentì il signor
Frederick al bancone
borbottare qualcosa che assomigliava a un "L'avevo detto".
-Già...-
disse vago
Peter, cercando di ignorare il commento dell'uomo e guardando di
sfuggita lo scontrino, per poi aggiungere sorpreso: -Non mi hai
segnato il caffè.
-Lo
offre la casa ai
clienti che vengono qui per la prima volta- spiegò la
cameriera,
chiudendo la cassa.
-Ma
ne ho bevuto a
litri!- insistette Peter.
-È
il volere del
mio capo- Chiara gli lanciò un'occhiata interrogativa:
nessuno si
era mai lamentato per quella piccola tradizione del locale -Il signor
Bailey sostiene che sia un piccolo incentivo per la clientela a
tornare.
-Molto
generoso da
parte sua. Di solito è già tanto se non ti fanno
pagare delle cifre
spropositate per un solo bicchiere d'acqua.
-Non
ti ci abituare,
però- sorrise la ragazza -Dalla prossima volta dovrai pagare
anche
il bere, se vorrai tornare a trovarci.
"Eccome
se
tornerò!" sorrise tra sé Peter, leggendo in
quell'affermazione
il primo passo per la realizzazione del suo piano: -Basterebbe anche
solo il ricordo dei pancackes a condurmi di nuovo qui.
-Bene-
esclamò la
cameriera, accarezzando la testa di Annibale, che si era svegliato e
le si era seduto a fianco in cerca di coccole -Allora a presto,
Peter.
-A
presto, Arianne-
salutò quello, avviandosi alla porta, dove Talia stava
passando il
mocho dove un bambino, poco prima, aveva rovesciato una tazza di
latte: -Ciao- salutò timidamente Peter, prima di svanire
dietro alla
porta.
-Strane
cose, le
coincidenze. Non trovi?- chiese ad alta voce Chiara verso l'amica,
distratta a seguire con lo sguardo il ragazzo appena uscito dal bar e
che, per tutta risposta, le rivolse una linguaccia, per poi tornare a
pulire il pavimento.
Sul
suo viso però,
notò Chiara, si era delineato l'abbozzo di un sorriso e fu
sicura
che la tristezza del provino fosse sparita del tutto.
*
Non
appena svoltato
l'angolo, Peter era andato alla ricerca di un vicolo abbastanza
nascosto e poco frequentato per cambiarsi: le lancette dell'orologio
correvano veloci e l'ora di cena era prossima, non poteva permettersi
di perdere tempo nel caos del traffico serale o zia May avrebbe
dovuto attenderlo davanti a una cena ormai fredda.
Volteggiando
tra gli
alti palazzi, in direzione del Queens, il vento fresco della notte
che calava gli solleticava il volto attraverso lo spandex della
maschera, mentre vigilava sulle strade sotto di lui: quella non era
una vera e propria ronda, ma il crimine, come si suol dire, non dorme
mai e Spiderman non era certo da meno.
Per
la maggior parte
delle volte era sufficiente farsi vedere ondeggiare tra i tetti per
spaventare i piccoli criminali di quartiere, ma talvolta qualcuno
più
coraggioso degli altri sfidava la sorte nel tentativo di mettere a
segno un colpo e allora il suo intervento era richiesto.
Oltrepassando
Brooklyn, Peter sperò con tutto il cuore che per quella sera
a
nessun ladro venisse in mente di entrare in azione, ma, purtroppo, la
sua buona stella aveva diretto la sua luce da un'altra parte,
perché
proprio a metà strada da casa incappò in una
rapina a mano armata a
danno di una farmacia.
Sospirando
un'imprecazione, Peter atterrò sul tetto dell'edificio e,
calandosi
a testa in giù con una ragnatela, sbirciò
l'interno del negozio
attraverso una vetrina: due uomini in passamontagna neri puntavano
delle pistole contro il farmacista, intento a riempire una grossa
borsa di tela con il contenuto della cassa.
"Cattivi
due,
ostaggio uno, rischio personale prossimo allo zero, rischio
dell'ostaggio prossimo al 73%. Troppo alto. Priorità:
disarmare i
cattivi e garantire l'incolumità dell'ostaggio. Tempo
richiesto: 2
minuti."
Atterrò
sul
marciapiede, assicurandosi che nelle vicinanze non ci fossero
automobili accese in attesa dei due criminali, poi, senza alcuna
esitazione, entrò nella farmacia esclamando a gran voce:
-Buonasera,
vorrei un antiinfiammatorio muscolare. Sapete, fare l'amichevole
Spiderman di quartiere alla sera lascia tutto un dolore alle spalle!
I
malviventi,
superata la prima sorpresa dovuta all'intrusione, puntarono le
pistole contro di lui, pronti a fare fuoco, mentre uno dei due
strappava di mano dal farmacista la borsa con il denaro.
-Che
noia le
pistole- esclamò Peter, lanciando una ragnatela
sull'apertura della
canna della prima e tirandola contro la seconda, facendole cadere
entrambe a terra -Mai una volta che un cattivone si ingegnasse con
qualcosa di insolito. Per esempio, nessuno mi ha mai minacciato con
una balestra o dei nunchako o una mazza masai...
Con
la coda
dell'occhio il vigilante notò un bagliore provenire dalla
mano di
uno dei furfanti e con un calcio lo colpì, facendo volare
quello che
si rivelò essere un coltello a serramanico, che
scivolò sulle
piastrelle azzurre della farmacia con un sottile stridio metallico.
-Awwwn-
sbadigliò
teatralmente Peter, immobilizzando il malvivente con una ragnatela
-Un coltello. Ma non mi dire, che novità!
Non
potendo fare
altrimenti, i due uomini, scambiatisi un'occhiata sconfitta, alzarono
leggermente le mani in segno di resa, mentre il commesso, ancora
tremante per lo spavento, componeva il 911 sul cellulare per chiamare
i soccorsi.
Peter
raccolse le
armi da terra, rimosse i proiettili dai caricatori delle pistole e,
riposto il tutto in un sacchetto che consegnò al farmacista,
attese
le sirene della polizia prima di svanire di nuovo nella giungla di
asfalto del Queens.
Erano
passati ben
più dei due minuti previsti e già la sua fantasia
gli mostrava
l'immagine della zia seduta da sola al tavolo della cucina di fronte
a due piatti vuoti: maledetta la sua boccaccia larga!
"Dovevo
proprio
mettermi a fare il pagliaccio come mio solito?!" si
rimproverò
atterrando nel buio di un vicolo vuoto a un isolato di distanza da
casa; si guardò attorno con circospezione, cercando le
testimonianze
della presenza di qualche curioso, e una volta che fu sicuro che
nessuno lo stesse osservando, estrasse dallo zaino i suoi vestiti
civili e si sfilò la maschera dal volto.
Se
avesse agito
subito, si ritrovò a pensare mentre infilava le gambe nei
jeans e si
abbottonava la camicia a quadri sul petto, senza stare a blaterare
come un idiota avrebbe potuto disarmare i due uomini in pochi
secondi, colpire il primo allo stomaco, il secondo al volto e
lasciarli KO sul pavimento senza perdere altro tempo.
Avrebbe
potuto
farlo, ma alla vista dell'ostaggio qualcosa dentro di lui era
scattato, una paura colpevole lo aveva attanagliato e la sua risposta
era stata, come ogni qualvolta che si trovava in difficoltà,
lo
humor.
Ogni
volta che
accadeva, ossia molto più spesso di quanto gli piacesse
ammettere,
diceva a se stesso che si trattava di strategia: distrarre i
criminali dagli ostaggi e risultare abbastanza irritante da
costringerli a puntare le loro armi contro di lui.
Lui
era Spiderman,
con tutti i vantaggi che il morso del ragno gli aveva conferito, e
poteva gestire una raffica di proiettili che fischiano attorno a lui,
cercando di forargli la carne, ma gli altri no. I restanti 7.999.999
abitanti di New York non avevano le sue capacità e nulla
avrebbero
potuto contro il fuoco di un'arma.
Lui
era il loro
paladino, il loro ragno custode avvolto nello spandex blu e rosso e,
anche se i suoi metodi erano poco ortodossi e una grossa fetta dei
suoi "protetti" lo reputava un criminale (in buona parte
per colpa dei servizi del giornalista J.Jonah Jameson), ogni giorno
votava il proprio dono alla sua città.
E
lo humor era la
sua firma.
Attraversò
il
piccolo giardino e sentì il familiare scricchiolio delle
vecchie
scale di legno sotto ai suoi piedi, poi iniziò a frugare
nello zaino
alla ricerca delle chiavi di casa, ma lo scatto della serratura lo
anticipò e il volto sorridente della zia lo accolse in casa.
-Peter,
finalmente!-
esclamò May Parker, lasciando un leggero bacio sulla tempia
del
nipote non appena egli fu entrato nell'ingresso -Non ti sei fatto
sentire per tutto il giorno e quando ha cominciato ha fare buio ho
iniziato a preoccuparmi.
-Zia
May...- iniziò
il ragazzo, mentre la donna lo accompagnava verso la sala da pranzo,
dove il tavolo era stato apparecchiato per due, ma quello lo
interruppe -Sì, lo so, sei un adulto grande e vaccinato e
non dovrei
trattarti come un ragazzino, ma ai miei occhi tu resterai sempre il
mio bambino e non potrò smettere mai di preoccuparmi.
Senza
nemmeno
tentare di ribattere, Peter l'afferrò delicatamente per un
polso e
la tirò a sé, avvolgendola in un abbraccio: forse
era solo la
stanchezza o un brutto scherzo della sua immaginazione, ma la
sentì
magra e fragile tra le sue braccia le incolpò i turni
interminabili
che faceva in ospedale come infermiera.
La
forza
proporzionale a quella di un ragno, che aveva acquisito qualche anno
addietro, avrebbe potuto spezzare con il minimo sforzo la colonna
vertebrale di un uomo dieci volte più grosso e muscoloso di
lei e,
anche se aveva imparato molto bene come controllarla e calibrarla a
seconda delle occasioni, Peter, stringendola a sé, ebbe per
un
momento paura che la sua corporatura esile si sarebbe infranta sul
suo petto.
Istintivamente
allentò la presa, ma May Parker non era tipo da lasciarsi
sfuggire
così facilmente una di quelle rare occasioni in cui suo
nipote era
in vena di affettuosità (non che Peter fosse un tipo freddo,
ma i
loro orari di lavoro erano spesso incompatibili e di rado trovavano
del tempo da trascorrere assieme), così, prima che potesse
sfuggirle, lo agguantò di nuovo e, accarezzandogli
delicatamente
l'attaccatura dei capelli lungo il collo, si lasciò invadere
dal
calore del suo amato nipotino.
Era
incredibile
quanto, ogni giorno che passava, somigliasse sempre di più
al suo
Ben, sopratutto negli occhi: così grandi e gentili,
macchiati solo
da un velo di malinconia...
-Zia
May- sussurrò
Peter dall'incavo della spalla della zia, dove la sua testa era stata
arpionata -Non respiro...
-Oh
scusa tesoro!-
esclamò May, lasciando la presa sul nipote -Non volevo
sofforcarti.
È che non mi capita più tanto spesso di averti
così vicino e
poi... non so... mi era sembrato che avessi bisogno di conforto: hai
uno sguardo così triste...
-Triste?
Io?- rise
Peter, esibendo un largo sorriso, che gli fece comparire delle
piccole rughette agli angoli degli occhi -Ma mi hai visto? Emergente
fotografo e giovane promessa delle biotecnologie, sostenuto dalla zia
migliore del mondo. Come mai potrei essere triste?
“Senza considerare
migliore supereroe di New York! Beccati questa Iron Man!”
pensò
tra sé e sé, mentre sua zia gli sorrideva di
rimando e lo invitava
a sedersi al suo posto al tavolo.
In
pochi secondi i
lori piatti vennero riempiti di polpettone e insalata e i due
iniziarono a mangiare, mentre zia May, ritrovata la propria indole
allegra, raccontava la sua giornata in ospedale; dopo qualche minuto
in cui la zia aveva descritto la frattura scomposta
dell’avambraccio
che un ragazzino si era procurato andando con lo skateboard,
ringraziando il Cielo che Peter avesse finalmente smesso di andarci,
la mente del ragazzo iniziò a vagare nel mare dei suoi
pensieri,
riportando alla memoria gli eventi degli ultimi giorni.
“È solo che so
cosa vuol dire nascondersi dietro una maschera per proteggere chi
ami”
ricordò Peter, masticando con
attenzione il saporito polpettone di carne che aveva davanti.
-Peter?-
il ragazzo
scattò sull’attenti, sentendosi chiamare -Mi stai
ascoltando?-
domandò May, alzando un sopracciglio.
-Sì,
scusami- si
affrettò a rispondere Peter, grattandosi la nuca imbarazzato
-Ero
solo un po’ distratto dalla bontà del tuo
polpettone, sei la
miglior cuoca del Queens.
-Allora
posso
contare su di te?- domandò zia May, lanciandogli uno sguardo
di
sfida che diceva “Voglio proprio vedere se hai prestato
attenzione”.
-Ceeerto,
zia-
sorrise di nuovo Peter, maledicendosi per non aver ascoltato una
parola di quello che gli aveva detto –Non ti preoccupare.
“Parker, sei un
idiota”
-Molto
bene, allora.
Finisci la cena e aiutami a sparecchiare.-
concluse May, finendo di masticare l'ultimo boccone e portando il
proprio piatto al lavandino, dove iniziò a insaponare le
pentole.
A
Peter non restò che obbedire a orecchie basse e sperare che
qualunque cosa le avesse promesso si sarebbe rivelata, prima o poi.
"Meglio
prima" si disse il ragazzo, porgendo alla zia le ultime
stoviglie e lasciandole un leggero bacio della buonanotte sulla
guancia, prima di ritirarsi nella sua stanza: voleva riposarsi una
mezzoretta prima di uscire per la ronda notturna.
Attraversando
di nuovo la sala da pranzo, la sua mano accarezzò
leggermente il
legno liscio e consunto della terza sedia posta attorno al tavolo:
quella di zio Ben.
-Buonanotte
zia May- salutò -Domani farà freddo,
perciò ricordati di coprirti
bene o dovranno ricoverare anche te in ospedale e sappiamo bene
entrambi che con i dottori non vai d'accordo!
-Hai
ragione, tesoro, grazie- ridacchiò May e fu lì
che Peter vide la
propria maschera riflessa nel sorriso della zia: non quella di
Spiderman, bensì una molto più sottile, eppure
più coprente.
Il
suo volto, le sue azioni e le sue parole erano ben nascosti dal suo
stesso humor.
Ora
che ci pensava bene, mentre saliva le scale e si rifugiava nel buio
della propria camera, quello era l'unico modo che conosceva per
difendersi. Non da ladruncoli e spacciatori, e nemmeno da criminali
dello stampo di Rhino o di Lizard (il suo cervello si
rifiutò anche
solo di nominare il Goblin), ma dalle sue insicurezze, dalle sue
paure, dalle sue debolezze... In parole povere, da se stesso.
Sciorinare
battute, talvolta anche infelici, nei momenti di tensione era il suo
modo per autoconvincersi di avere il pieno controllo della
situazione; certo, quando aveva iniziato a interpretare il ruolo del
vigilante mascherato, lo humor era dettato più dall'eccesso
di
adrenalina che non da altro: la straordinarietà dei suoi
poteri lo
mandava letteralmente su di giri e ogni scontro era come un giro in
giostra.
Poi
aveva iniziato progressivamente a capire la gravità del suo
ruolo,
delle sue responsabilità, e la memoria dello zio defunto
aveva
iniziato a schiacciarlo.
Non
che il ricordo dello zio Ben fosse associato a sensazioni negative,
anzi! Fatta eccezione della mancanza, Peter non riusciva a ricordare
un solo brutto momento passato assieme allo zio. Quello che lo
opprimeva era l'impegno che si era preso in suo nome.
-Da
grandi poteri derivano grandi responsabilità-
ascoltò la propria
voce sussurrare al buio, una volta che si fu disteso sul letto.
Aveva
fatto di quella frase, una delle più ricorrenti tra le
pillole di
saggezza di Ben Parker, il proprio motto o, più
accuratamente, il
proprio comandamento. Gli ci era voluta una pallottola piantata nello
stomaco dello zio per farla riaffiorare nella sua memoria, una
vendetta mai compiuta contro il ladro che lo aveva reso ancora
più
orfano per comprenderla e una vertebra spezzata nel collo della sua
donna per imprimerla a sangue nella sua anima.
Lui
era il solo responsabile. E lo humor lo aiutava, almeno un po', ad
alleviare quella consapevolezza.
Si
svegliò di soprassalto con la schiena sudata e i piedi e le
mani
freddi come il ghiaccio, mentre le immagini del sogno che stava
facendo sbiadivano sempre di più nella sua memoria, per
essere poi
irrimediabilmente perdute quando, afferrato con uno scatto da
leopardo l'orologio da polso appoggiato al comodino, Peter si rese
dolorosamente conto di essere rimasto addormentato per molto
più del
dovuto e di essere in terribile ritardo per la ronda notturna.
Si
infilò nella tuta di spandex il più velocemente
che potè e si
assicurò che i caricatori del liquido per ragnatele fossero
pieni,
poi uscì sulle punte dei piedi fuori dalla sua camera, nel
buio del
corridoio, e, scostata appena la porta della stanza da letto di zia
May, si assicurò che dormisse.
Tornò nella sua stanza e sgattaiolò fuori dalla
finestra, per poi
iniziare a dondolarsi tra gli edifici a tutta la velocità
che la
legge del pendolo gli permetteva: da quello che aveva potuto leggere
sulla porta del Daily
Coffee, mancava
meno di mezzora alla chiusura del locale e Peter voleva essere
lì in
tempo per poter pedinare la fanciulla del mistero e scoprire tutto il
possibile su di lei e i suoi spostamenti.
Sorvolò
il Queens senza incappare in rapine o sparatorie, né
udì,
incredibilmente, il lamentoso suono delle sirene della polizia:
quella sembrava essere una serata particolarmente tranquilla e Peter
si augurò che quell'andamento positivo si estendesse almeno
fino al
mattino.
L'irregolare
profilo degli alberi di tasso di Prospect Park, le cui fronde
ingiallite dall'autunno brillavano di mille calde sfumature alle luci
dei lampioni e delle insegne, lo accolse nel quartiere che ospitava
l'accogliente Daily
Coffee, le cui
vetrine, però, quando atterrò sul tetto della
palazzina di fronte,
erano chiuse dalle saracinesche e l'insegna al neon spenta.
-Dannazione!-
imprecò sottovoce il ragazzo, cercando con lo sguardo la
presenza
delle due ragazze, ma invano.
Rimase
per qualche secondo a riflettere sul da farsi: non poteva sperare di
ritrovarle in quel groviglio di strade, tanto più che era
arrivato
in ritardo di quasi un'ora, vanificando sul nascere qualsiasi
tentativo di ricerca.
Decise,
così, di riprendere il suo abituale giro di pattuglia e, nel
frattempo, di pensare alla prossima mossa.
*
-Sai
già quale film vuoi vedere stasera?- chiese Chiara, facendo
scattare
la serratura della saracinesca e assicurandosi che la porta di
ingresso fosse ben chiusa.
-Ooh
sì!- ululò Talia, appendendosi al suo braccio e
simulando una
risatina maligna -Vedrai che ci faremo una bella risata!
-Così
mi spaventi!- rise Chiara, infilandosi il mazzo di chiavi in borsa e
assicurandosi di avere il telefono di Stark nel taschino laterale
-Coraggio, Annibale, torniamo a casa.
Il
cane le si affiancò docilmente e seguì le due
ragazze verso la
fermata dell'autobus, dove pochi minuti dopo, nel vento autunnale che
iniziava a soffiare gelido, arrivò il mezzo, in cui i tre si
rifugiarono.
-Per
prima cosa dobbiamo fermarci da Blockbuster per prendere il film-
continuò a spiegare Talia, slacciandosi la giacca a vento
-Poi ci
facciamo portare la cena a casa. Ho proprio una gran voglia di riso
alla cantonese e maiale in agrodolce! È ancora aperto quel
ristorante take-away... come si chiamava? Ah sì, il Pechino
Blossom?
-Che
io sappia sì...- iniziò Chiara, che fu
però interrotta: -Meno
male! Lì fanno gli involtini primavera più buoni
del creato! Io non
so cosa ci mettano ma per me è come una droga- rise la
ragazza,
dando una veloce carezza sul muso di Annibale, che scodinzolava
allegramente.
Chiara
si perse per un momento ad osservare i suoi amici e non poté
trattenersi dal sorridere: -Si può sapere cosa avete da
essere così
agitati stasera?- domandò scherzosamente la ragazza, dando
un
colpetto al braccio dell'amica -Sembra quasi che tu non abbia mai
mangiato cibo cinese in vita tua!
Talia
si voltò a guardarla negli occhi, rispondendo al sorriso con
uno
ancora più largo e sgargiante: -Sono solo felice di poter
finalmente
trascorrere un po' di tempo in tua compagnia fuori dal Daily:
Ultimamente siamo state così impegnate da non fermarci
nemmeno a
chiacchierare dopo il lavoro. Mi mancavi.
-Awwww!-
esclamò commossa Chiara, avvolgendole le spalle con un
braccio e
appoggiando la testa sulla sua guancia -Anche tu mi sei mancata! Sono
così contenta di vederti tanto allegra stasera.
-Dici
per il provino?-chiese Talia, la cui voce si era improvvisamente
abbassata di un paio d'ottave (Chiara aveva imparato a comprenderne
l'umore sulla base dell'acutezza della sua voce) -Che vadano al
diavolo, quei vecchi bacucchi! Io sono un'artista nuova!
-Così
mi piaci!- Chiara la strinse ancora di più: Talia era molto
suscettibile circa il parere delle altre persone e, quando qualcuno
metteva in dubbio la sua abilità, le ci voleva parecchio
tempo per
riprendersi; il fatto che stesse reagendo così positivamente
a una
critica richiedeva da parte sua uno sforzo notevole, che Chiara
riconosceva e apprezzava.
Passarono
il resto della corsa così, a tenersi vicine l'una all'altra,
bisognose dell'affetto che si trasmettevano, mentre Annibale,
sdraiato sui sedili di fronte a loro, sonnecchiava pigramente,
aprendo ogni tanto un occhio per assicurasi che la sua padrona fosse
ancora seduta al suo posto.
Giiunte
alla loro fermata, le ragazze scesero dal mezzo e diressero i loro
passi verso il Blockbuster all'angolo della strada, dove si
separarono: i cani non erano ben accetti all'interno del negozio e,
inoltre, Talia voleva che il film rimanesse per l'amica una sorpresa
fino all'ultimo momento. Chiara rimase, così, all'esterno a
far fare
i bisogni ad Annibale, mentre Talia si aggirava per le corsie del
negozio in cerca del DVD che desiderava.
Il
comandante Hill aveva ascoltato con attenzione ogni singola parola
che Chiara aveva detto, traducendola all'agente Barton e al direttore
Fury in inglese, poi, al termine del racconto, aveva chiesto a Clint
di accompagnare la ragazza in una delle stanze destinate
alle
reclute, mentre lei si soffermava a discorrere con il direttore di
quello che aveva appena udito.
Chiara
aveva annuito con il capo, troppo stanca per poter ancora pronunciare
anche solo mezza parola (che comunque non sarebbe stata ascoltata,
dato che la Hill aveva completamente distolto la propria attenzione
da lei, per concentrarsi unicamente su Fury), e si era affiancata
all'agente, ma, quando egli si era chinato per prenderle lo zaino,
quella lo aveva fermato e si era caricata il baglio sulle spalle,
lanciandogli un'occhiata infastidita: era perfettamente in grado di
farcela da sola.
L'agente
aveva risposto allo sguardo con un'alzata di spalle e, congedatosi,
era uscito dall'ufficio, seguito a ruota da Chiara. Ancora non lo
sapeva, ma quella sarebbe stata solo la prima di una lunga serie di
volte in cui si sarebbe affidata a Clint Barton per farsi guidare.
Riattraversarono
il corridoio, ma questa volta, invece di prendere l'ascensore,
passarono per una rampa di scale piuttosto stretta, che scendeva
lungo tutta l'altezza dell'edificio. Quando Chiara ebbe imparato
l'inglese abbastanza bene da poter intavolare una conversazione,
Clint le spiegò quella scelta, affermando di volerle
insegnare come
muoversi nell'edificio senza essere notata, dato che in pochi
preferivano le scale antincendio al più comodo ascensore, ma
all'epoca la ragazza credette che quella fosse una sorta di vendetta
per non avergli lasciato prendere lo zaino e iniziò a provare
antipatia
l'agente Barton.
Il
primo incontro con Occhi di Falco non fu dei migliori, soprattutto
quando, giunti al piano, egli la condusse ad una stanza piccola e
parcamente arredata con un letto, un armadio a una sola anta e una
piccola scrivania di legno con una sedia; l'illuminazione era fornita
da una sola lampadina appesa al soffitto e il bagno era dietro una
porticina in fondo alla camera. Nulla in quella stanza era anche solo
lontanamente accogliente e Chiara venne colpita da una profonda
nostalgia di casa, che per poco non la fece scoppiare in lacrime.
Riuscì
a trattenerle con successo, ma non poté impedirsi di tirare
su con
il naso, cosa che non sfuggì all'agente Barton, il quale la
osservò
da capo a piedi con l'aria di chi non sa cosa fare, ma che non vuole
darlo a vedere.
-Puoi
anche andartene, adesso- sputò velenosa Chiara, buttando lo
zaino
sul letto ed estraendone un pacchetto di fazzoletti; non era del
tutto certa che l'uomo alle sue spalle non la comprendesse, ma non le
importava: aveva bisogno di sfogarsi, di lasciare uscire tutta la
frustrazione e la malinconia, di piangere fino a sentirsi bruciare
gli occhi e quell'uomo, con la sua presenza, glielo impediva. Voleva
che se ne andasse, continuava a sentire il suo sguardo su di
sé e lo
odiava. Voleva essere lasciata sola.
-Ho
detto: vattene!- ripeté, questa volta alzando la voce e,
dopo pochi
istanti, finalmente sentì la porta chiudersi e lo sguardo
dell'agente svanire. Era sola adesso, ma non si sentiva affatto
meglio.
-Eccomi!-
esclamò gioiosa Talia, uscendo dal negozio con un sacchetto
di
plastica in mano -Pronta per andare a casa.
-Un
attimo- rispose Chiara, raccogliendo con un sacchetto gli escrementi
di Annibale e buttandoli in un cestino della spazzatura -Ok, andiamo
pure.
Talia
l'arpionò a braccetto e la trascinò entusiasta
davanti al portone
del condominio, dove Chiara estrasse le chiavi ed aprì il
cancello,
ma, superati appena due piani, Annibale tirò il guinzaglio
verso la
porta del 2B, dove un bambino biondo dai grandi occhi azzurri
sbirciava l'esterno attraverso la porta socchiusa.
-Ciao,
piccolo!- gli sorrise raggiante Talia, ma il bimbo, scuotendo la
testa, si ritrasse, chiudendo maggiormente la porta;
Talia, sorpresa da quell'atteggiamento, chiese aiuto con lo sguardo
all'amica, che rivolgendole un mezzo sorriso di consolazione, le
disse: -Non è colpa tua. È solo un po' timido.
Ciò
detto, la ragazza si avvicinò alla porta e iniziò
a gesticolare,
sotto lo sguardo attonito dell'amica, che divenne ancora più
sorpreso quando vide il bambino rispondere a quei gesti con un largo
sorriso sulle labbra.
-Ti
apro l'appartamento, poi, per favore, puoi ordinare tu la cena?-
chiese Chiara, mentre il bambino svaniva dietro la porta -Io ti
raggiungo tra dieci minuti.
-Va
bene- rispose confusa Talia, seguendo l'amica al piano superiore e,
una volta entrate nell'appartamento,
la vide
prendere una busta di cibo per gatti dal mobile della cucina e
svanire di nuovo sul pianerottolo.
Quando
Chiara fu ridiscesa, il bambino la stava aspettando davanti alla
porta del
suo appartamento,
ben coperto da una giacca a vento celeste e una spessa sciarpa di
lana.
-Hai
perso un altro dentino, vedo-
gli disse Chiara con il linguaggio dei segni.
-Sì-
rispose l'altro tutto soddisfatto, mostrando con orgoglio la finestra
tra l'incisivo superiore sinistro e il canino superiore sinistro
-Stasera la fata
dei denti verrà e mi lascerà un dollaro sotto al
cuscino.
-Sai
già come spenderlo?-
domandò la ragazza, mentre scendevano le scale e passavano
attraverso la porta sul retro.
-Alla
mamma piacciono i fiori-
spiegò il bambino, chiudendosi meglio la giacca sul collo
per
ripararsi dal freddo -Volevo
comprarne uno per lei, visto che tra poco ci sarà il suo
compleanno.
-È
un pensiero molto carino, Vincent; sono sicura che le
piacerà un
sacco! Ma ti basterà un dollaro?
-Ho
gli altri dei denti prima-
ridacchiò Vincent, tutto soddisfatto della propria
lungimiranza
-Adesso però
chiamiamo i gatti?
A
quella richiesta, Chiara annuì con il capo, sorridendo, e
scosse
vigorosamente la busta di croccantini; bastarono pochi secondi e il
vicolo, presso cui erano disposti a ridosso dei muri di mattone i
cassoni della spazzatura, si riempì di una dozzina di gatti
miagolanti.
Da
un angolino ben nascosto da un cumulo di mattonelle rotte, Chiara
estrasse delle scodelle in cui, aiutata dall'emozionatissimo Vincent,
versò il contenuto della busta e i due, allontanatisi di
qualche
passo, si sedettero sulle scale della porta ad osservare la cena dei
gatti randagi.
Pochi
giorni dopo che lei e Clint si erano trasferiti nel condominio di
Foster Avenue, l'appartamento 2B era stato occupato da una operatrice
di call-center, ragazza madre di Vincent, un bambino sordomuto con
cui avevano fatto amicizia, sopratutto dopo aver scoperto la colonia
di gatti randagi che abitava nel retro del palazzo e che
l'amministratrice, una donna di mezz'età scorbutica e
odiosa, aveva
cercato di sterminare lasciando in giro bocconcini avvelenati con il
veleno per topi.
Disgustati
da quella crudeltà, Clint e Chiara avevano subito provveduto
a
rimuovere e distruggere quelle trappole, sotto gli occhi ammiranti di
Vincent, con cui avevano iniziato una campagna di salvataggio segreta
per quei poveri gatti randagi: quasi ogni sera, infatti, i tre o i
due (quando Clint, come quella sera di autunno, era a caccia di
streghe) scendevano di nascosto nel vicolo e distribuivano
croccantini.
Dopo
la prima volta, lei e Clint avevano iniziato a studiare il linguaggio
dei segni e, settimana dopo settimana, erano finalmente riuscire a
comunicare con Vincent, felice più che mai di aver trovato
qualcuno,
oltre a sua madre e l'insegnante di sostegno della sua scuola, con
cui chiacchierare.
Per
Chiara, osservare Vincent che guardava estasiato quegli animali era
uno spettacolo unico: era un bambino estremamente curioso e
interessato a tutto quello che lo circondava, che amava trascorrere
le sue giornate a leggere libri sulla
natura,
sui dinosauri e sullo spazio. Una volta le aveva addirittura proposto
di andare sul tetto del palazzo per osservare le stelle e cercare nel
cielo le costellazioni che erano disegnate sul suo libro, ma,
purtroppo, le luci di Brooklyn avevano reso impossibile scrutare il
cielo notturno, costringendoli a rinunciare a quell'impresa.
Nonostante
ciò, Vincent non si era perso d'animo e, la volta dopo, era
arrivato
con un libro di botanica e una busta piena di foglie raccolte nel
parco, spiegandole a quali alberi appartenevano attraverso
il confronto
con le immagini del libro.
Ad
un tratto il bambino la strinse per un braccio, indicandole con il
dito un angolo buio del vicolo da cui, riluttanti, erano
appena usciti quattro gattini di pochi mesi; i micetti si
avvicinarono sospettosi a una delle ciotole e, annusatone il
contenuto, iniziarono a mangiare, permettendo ai due spettatori di
osservarli meglio: erano quattro gattini a pelo corto, di una razza
indefinibile, ma tutti caratterizzati da una coda molto lunga e da
orecchie ampie con un simpatico ciuffetto sulla punta. Due di loro
erano a pelo grigio con delle striature brune, il terzo era
completamente nero e il quarto, il più piccino, era un
albino dal
pelo bianco e gli occhi rossi.
-Dobbiamo
dargli dei nomi!-
gesticolò entusiasta Vincent, agitando le gambe che, per
l'emozione,
non riusciva proprio a tener ferme.
-Va
bene- rispose
Chiara -Comincia
tu.
-Quello
nero si chiama Baghera, come la pantera de Il libro della giungla.
-Allora
quello striato a destra si chiama Raja-
ribatté, ridacchiando, Chiara.
-Quell'altro
a sinistra lo voglio chiamare Doppler, perché le sue righe
mi
ricordano il disegno del mio libro che descrive l'effetto Doppler.
-E
quello bianco come lo chiamiamo?-
chiese Chiara, divertita e al contempo sorpresa dal fatto che un
bambino di sette anni conoscesse anche solo l'esistenza dell'effetto
Doppler.
-Quello
bianco si chiama...-
Vincent rimase per qualche istante a osservare il vuoto, alla ricerca
del nome perfetto per l'ultimo gattino; era talmente concentrato che
Chiara poteva quasi vedere gli ingranaggi del suo cervello muoversi
freneticamente: -Quello
lì si chiama Sirio-
stabilì alla fine Vincent -Come
la stella bianca della costellazione del Cane Maggiore.
-È
un nome perfetto! Non avrei potuto sceglierne uno migliore. Ora,
però, è ora di andare a dormire.
-Ma
domani non ho scuola!-
ribatté contrariato Vincent, aggrappandosi con le mani allo
spigolo
del gradino; Chiara alzò gli occhi al cielo e
incrociò le braccia,
spogliandosi del vestito dell'amica-complice e assumendo il ruolo
dell'adulta a cui si deve prestare ascolto e, così, dopo una
stregua
resistenza (ulteriormente indebolita dal fatto che stava crollando
dal sonno) Vincent si arrese. I due nascosero le ciotole vuote e
rientrarono nel condominio, si salutarono sul pianerottolo del
secondo piano e, una volta che il bambino fu scomparso dietro la
porta, Chiara fece ritorno al suo appartamento, dove Talia,
comodamente distesa
sul divano, aveva tolto il rotolo di tela di lino e i barattoli di
gesso e colla dal mobile e aveva inserito il DVD nel lettore.
-Finalmente
sei tornata!- esclamò la cantante, sentendo la porta
dell'appartamento chiudersi -Pensavo che quel bambino ti avesse
rapita e imprigionata a Narnia.
-Ti
sorprenderà, ma non mi lamenterei proprio se qualcuno mi
portasse a
Narnia- rispose Chiara, che aggiunse un attimo dopo -Scusa se ti ho
fatta aspettare, ma Vincent non voleva saperne di tornare in casa.
-Che
bambino timido...-
considerò la cantante, voltandosi nella direzione dell'amica
e
incrociando le braccia sullo schienale del divano.
Chiara
rimise la busta del cibo per gatti nel mobile della cucina e, presa
quella delle crocchette di Annibale, gli riempì la ciotola e
rimase
per qualche istante fissa a osservarlo mangiare: -Devi perdonarlo se
non ti ha risposto- rispose alla fine -È sordomuto e non sa
ancora
leggere bene il labiale.
-L'avevo
capito quando ti sei messa a fare tutti quei gesti con le mani-
ribatté Talia, tornando a distendersi sul divano -Non sapevo
conoscessi il linguaggio dei segni.
-So
solo qualche gesto... le parole più comuni, l'alfabeto...
insomma,
il minimo indispensabile per comunicare, ma sono ben lontana dal
conoscerla
bene.
Chiara
appese la giacca sull'appendiabiti e si sfilò le scarpe,
poi,
raggiunto il salotto, si buttò a peso morto sul divano,
emettendo un
lungo sbuffo: -Sono sfinita: questa giornata non finiva mai! Hai
già
ordinato la cena?
-Sì,
mia cara- rispose Talia, mostrando il proprio telefono cellulare -Ho
ordinato il tuo cibo preferito, spero vada bene.
-Andrà
benissimo, grazie. Posso sapere ora che film stiamo per vedere?
-No,
non ancora- ammiccò la cantante, nascondendo la custodia del
DVD
dalla vista dell'amica -Non lo saprai finché non
sarà arrivata la
cena e potremo mangiarla durante la visione.
-Quanti
misteri per un film noleggiato da Blockbuster!- rise Chiara,
accarezzando la schiena di Annibale, che, finita la pappa, era salito
con loro sul divano.
Talia
rise di gusto e ammiccò all'amica con l'aria di chi la sa
lunga e,
finalmente, il citofono suonò, annunciando l'arrivo del
corriere del
ristorante cinese. Chiara si alzò a rispondere e, riferiti
al
fattorino il piano e il numero dell'appartamento, andò ad
accoglierlo, per poi rientrare in casa con due buste cariche di cibo
profumatissimo.
-È
il momento di rimpinzarsi!- esclamò allegra Talia,
fregandosi le
mani; Chiara appoggiò i sacchetti sulla penisola della
cucina,
proprio sopra i disegni della notte precedente, dimenticati e
abbandonati là sopra, ma che attirarono l'attenzione di
Talia:
-Attenta!- esclamò, correndo a sfilare i fogli da sotto le
buste.
Prima
che Chiara potesse reagire, la cantante, cogliendo l'occasione, si
mise a sbirciarli, restando a bocca aperta: -Arianne sono bellissimi!
-No,
sono solo degli schizzi fatti di fretta- rispose quella, facendo
spallucce -Figurati che me li ero dimenticati.
La
cantante rimase per qualche istante a studiare con attenzione la
grafite impressa sulla superficie rugosa della carta e nei suoi occhi
l'ammirazione venne sostituita dal sospetto: -Pensavo che non fossi
una grande fan di Spiderman, come mai hai fatto dei disegni su di
lui? Il mio compleanno sarà solo tra sei mesi.
Chiara,
tra il ritardo della mattina e la crisi di Talia per il provino,
aveva totalmente rimosso dai suoi pensieri l'incontro con il
vigilante, che, riaffiorato nella sua memoria, era tornato a
tormentarla con il senso di colpa per la leggerezza commessa.
Dall'altra parte, però, le offriva l'occasione per far
dimenticare
alla sua amica, una volta per tutte, il brutto ricordo del provino.
-Oh
nulla di che- iniziò Chiara, ostentando un tono fintamente
noncurante -Mi è solo capitato di incontrarlo ieri notte.
L'espressione
che si disegnò sul viso di Talia fu impagabile e ogni volta
che,
anche diverso tempo dopo, Chiara tornava a pensarci, doveva fare un
notevole sforzo di autocontrollo per non scoppiare a ridere: gli
occhi della ragazza si sgranarono, diventando il doppio della loro
larghezza, la bocca si aprì come se la mascella stesse per
cadere ai
suoi piedi e le narici si dilatarono. Se fosse stato uno di quei
vecchi flipper, pensò Chiara, sulla sua fronte sarebbe
comparsa la
scritta Tilt.
-Co...cosa
vuol dire che lo hai incontrato?- balbettò finalmente Talia,
il cui
cervello stava elaborando lo shock.
-Che
tornando a casa mi ha salvata da un rapinatore e ci siamo fermati a
scambiare due parole- rispose tranquillamente Chiara, godendosi fino
all'ultimo tic facciale la reazione dell'amica.
-E
cosa aspettavi a dirmelo, brutta antipatica? E...- iniziò
infervorata Talia, che improvvisamente si bloccò, poi, con
un tono
di voce più basso, chiese: -Aspetta, un rapinatore ti ha
minacciata?
Improvvisamente
la sua espressione cambiò, come un giorno di sole muta in
pioggia
battente, e i suoi occhi si velarono di lacrime, lasciando Chiara,
che tutto si sarebbe aspettata tranne quello, esterrefatta.
Talia
le si avvicinò e, afferrandola per le spalle, disse con voce
rotta:
-Dannazione, Arianne, come è successo? Ti ha fatto del male?
Perché
non mi hai chiamata? Sarei corsa ad aiutarti! Chissà che
paura avrai
avuto... E io che ero così giù per il mio provino
mentre tu avevi
rischiato la vita! Mi dispiace, tesoro!
Davanti
alle lacrime dell'amica, Chiara sentì come una secchiata
d'acqua
gelata caderle addosso: non aveva immaginato che Talia potesse
reagire in quel modo. Abituata ad avere a che fare con persone di ben
poco valore morale (e un mostro dello stampo di Phoneus), per Chiara
essere minacciata da un criminale, per quanto pericoloso, non era poi
gran cosa; non aveva pensato che per Talia la situazione sarebbe
stata ben diversa e si sentì una stupida per averla fatta
preoccupare in quel modo.
-Talia-
sospirò, abbracciandola e facendole appoggiare il capo sulla
sua
clavicola -Sto bene, davvero. Non mi è capitato proprio
nulla e mi
dispiace tantissimo per non avertelo detto subito, ma era tardi e non
volevo farti preoccupare inutilmente. E poi c'era Spiderman!
È stato
davvero un eroe: ha avvolto quel criminale nella sua tela prima
ancora che potesse anche solo toccarmi con un dito.
A
quelle parole e sotto le carezze rassicuranti dell'amica, i respiri
di Talia, da brevi e irregolari, interrotti dai singhiozzi, tornarono
ad essere progressivamente lunghi e rilassati e, dopo qualche
secondo, sciolse abbraccio per guardare Chiara direttamente negli
occhi: -Promettimi che da adesso in avanti, se ti capiterà
qualcosa
me lo dirai subito e mi permetterai di aiutarti. Promettilo!
-Potrei
prometterti di non cacciarmi più nei guai- cercò
di metterla sul
ridere la ragazza, ma lo sguardo di Talia le fece comprendere che
quella richiesta era molto più seria di quanto si
aspettasse.
Emise
un lungo, pesante sospiro: -Va bene- concesse alla fine
-Però adesso
ci mettiamo a mangiare o si raffredderà tutto e non ho
proprio
voglia di cinese riscaldato al microonde.
Soddisfatta
della promessa ricevuta, la cantante sbozzò un mezzo sorriso
e,
prendendo dai sacchetti sul tavolo gli involucri di stagnola ancora
caldi, disse con voce roca: -Accidenti... Oggi è stata
proprio la
giornata delle lacrime.
-Può
ancora finire in risata!- ammiccò Chiara, prendendo la sua
razione
di cibo e lasciandosi cadere sul divano -Sto ancora aspettando di
scoprire che film hai scelto.
-Hai
ragione!- tornò a sorridere la cantante, riaquisendo la sua
naturale
vivacità -Sono certa che ti piacerà un sacco!
Talia
prese la sua scatola di cibo dal sacchetto, inforcò le
bacchette e
seguì l'amica sul divano, dove agguantò il
telecomando e premette
il tasto Play.
Il
televisore si accese e sullo schermo apparve la scritta Zombieland
Chiara
lanciò uno sguardo interrogativo alla ragazza al suo fianco,
la
quale, già addentato un gustoso involtino primavera, rispose
con un
occhiolino e si voltò di nuovo verso lo schermo.
Angolo
dell'autrice:
salve a tutte e
bentrovate alla fine del capitolo 4 di Panacea
Project
! Grazie per la
grande pazienza che state portando: poter pubblicare un solo capitolo
al mese è una gran rottura -__-" Spero, ad ogni modo, che
quello che avete letto finora sia valsa l'attesa.
Dunque,
in primo luogo vorrei ringraziare _Adamma_ per aver iniziato a
seguire la storia e fera_JD per averla inserita tra le preferite! ^-^
Inoltre, uno speciale ringraziamento va a AlessiaOUAT96, Glendolina,
Emily Mortensen e Ragdoll_Cat che mi accompagnano in questo percorso,
sotenendomi con le loro bellissime recensioni e ripagandomi
dell'impegno e del tempo speso nella scrittura! Grazie di cuore! ^-^
Anyway,
eccoci di nuovo qui: con un passettino minuscolo dopo l'altro la
storia prosegue e, grattando sulla superficie, scopriamo che sotto il
lucente strato dorato dell'eroe di Manhattan, si nasconde il male
della ruggine. Pensieri, ricordi e parole che corrodono e intaccano
la solidità dello spirito del nostro ragnetto. Fortuna che
c'è zia
May!
Notiamo
anche che la nostra Chiara non ha perso il suo naturale istinto di
protezione nei confronti dei bambini e, memore della piccola Myria
nella lontana Asgard, ha stretto amicizia con l'entustiasta Vincent.
Flashback
e lacrime anche in questo capitolo non mancano, spero che non suoni
troppo ridondante per voi, in caso contrario fatemi sapere e
cercherò di migliorarmi più avanti.
Lo
facciamo un gioco? Ma sì, facciamolo! Dunque, in questo
capitolo c'è
un piccolissimo Easter Egg, il primo che lo trova vince in anteprima,
come messaggio privato, la prima riga del prossimo capitolo ;)
Aiutini:
1. L'avevo già sugerito in un capitolo precedente; 2. È
all'infuori del MCU.
Vi
mando un grosso abbraccio e alla prossima!
Lady
Realgar
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Capitolo 5 *** Ricordi e cicatrici ***
Aprì
la bocca per incamerare nei polmoni quanta più aria
potessero
contenere, come se quello fosse stato il suo primo respiro, ma
ciò
che percepì fu come un fuoco che le si accendesse in gola,
bruciandole il palato, la lingua e il petto. Faceva male, le dava la
sensazione di soffocare e gli occhi erano impastati di un viscoso
liquido giallastro dall'odore di uova marce.
Afferrò
i lati della vasca con entrambe le mani e fece forza su
quell'appoggio nel tentativo di sollevarsi, ma la gamba destra era
come bloccata e tutto quello che poté fare fu lasciarsi
cadere di
peso fuori dal sarcofago. Il pavimento di pietra risultò
freddo e
rugoso sulla sua pelle quando vi cadde, ma anche lì l'aria
continuava a bruciarle la gola.
Una
risata grave e profonda la fece sussultare, ricordandole
perché si
era svegliata: "Non farò mai in tempo!" pensò,
sentendosi
il cuore batterle impazzito dietro lo sterno e le orecchie fischiare
acute.
Cosa
poteva fare lei? Non era nemmeno stata capace di morire, come poteva
pretendere di sconfiggere Phoneus? Ad un tratto qualcosa di caldo le
sfiorò la mano, come una carezza, e, dischiuse appena le
palpebre,
vide Gungnir, abbandonata tra le pietre del suolo, che brillava. In
mezzo all'opprimente oscurità della catacomba, quello
scintillio era
uno spettacolo incantevole e, Chiara stentava a crederlo, sembrava
fatto apposta per lei. Per attirare la sua attenzione.
Come
mossa da fili di burattino, le mani della ragazza si allungarono
sulla sottile asta dell'arma, avvolgendola con le dita, e la
sentirono tiepida e fremente.
Il
solo tocco dell'arma sacra bastò a infonderle speranza e,
colma di
una nuova fiducia, puntò la cuspide in direzione della coda
del
mostro, alzata in aria per vibrare il colpo di grazia.
Prese
un profondo respiro, incurante del bruciore e concentrò ogni
particella del suo corpo sul bersaglio, ogni nervo a fior di pelle,
ma l'attesa cresceva e nulla accadeva. L'asta diveniva sempre
più
fredda e l'aculeo, raggiunto il suo apice, era pronto a cadere
impietoso sulla sua vittima, accasciata al suolo, immobile.
-No!
No!- implorò Chiara, scuotendo l'arma nella speranza di
farla
funzionare, ma quella non diede alcun segno di attività e,
sotto gli
occhi attoniti della ragazza, il grosso pungiglione nero
calò veloce
sulla gola dell'uomo, recidendola.
-NO!-
gridò con quanto fiato avesse in corpo Chiara, sentendo
Annibale
sobbalzare ai suoi piedi e ringhiare. Aprì gli occhi e tutto
tornò
buio e silenzioso attorno a lei; un buio familiare che
l'aiutò a
calmare il respiro, mentre grosse gocce di sudore scendevano lente
lungo la fronte e la schiena.
-Anne,
stai bene?- chiese nel buio la voce sonnolenta di Talia.
-Sì-
ansimò la ragazza, passandosi il braccio sul volto per
tergere il
sudore alla bell'e meglio -Solo un brutto sogno. Ora è
passato.
Attese
qualche secondo e alle orecchie le giunse il respiro di Talia, reso
tranquillo e profondo dal sonno, poi, quasi per istinto, le sue dita
andarono a cercare attraverso il tessuto dei pantaloni la cicatrice
sulla coscia, prodotta dal taglio della lama elfica.
Il
piccolo bozzo oblungo era ancora lì, liscio e regolare, a
memoria
perenne della sua impresa a Eitur Myri.
"Chissà
Loki dove si trova in questo momento?" si ritrovò a
domandarsi
la ragazza, mentre, confortato Annibale con qualche carezza, cercava
di riprendere sonno.
Quella
era una domanda che negli ultimi anni si era sforzata di non porsi
mai o, se non altro, il meno possibile: pensare al Dio degli Inganni
era per lei fonte di sentimenti estremamente contrastanti, che
oscillavano dall'odio alla malinconia, dalla rassegnazione alla
speranza di vederlo comparire alla sua porta, con lo stesso sorriso
beffardo con cui si era presentato a lei la prima volta nelle
prigioni asgardiane.
Il
ricordo del suo risveglio ad Asgard ebbe come effetto quello di
toglierle dagli occhi ogni traccia di sonno, così, facendo
attenzione a non svegliare di nuovo Talia, che dormiva accucciata
sull'altra metà del divano strettamente avvolta in un plaid,
scivolò
sui cuscini e si alzò in piedi, dirigendosi verso la cucina,
dove
giacevano i resti della cena cinese.
Accese
la lampadina sopra ai fornelli e, nel più assoluto silenzio,
iniziò
a fare ordine: tenersi impegnata era un buon modo per distrarsi e non
pensare a tutte quelle volte in cui, sdraiata sul letto della sua
stanza al Triskelion, aveva osservato il soffitto grigio cercando di
percepire la presenza di Loki. Non aveva detto lui stesso che tra
loro esisteva un legame? Il Vincolo
Sacro, da quello
che ne sapeva, avrebbe dovuto tenerli uniti in qualche modo,
perciò,
se Loki aveva detto di essere in grado di trovarla grazie ad esso,
perché lei non avrebbe potuto fare altrettanto?
Aveva
trascorso ore e ore cercando anche la più piccola traccia
del dio,
ma nulla, nemmeno un sussurro o un frammento di immagine aveva
ripagato i suoi sforzi. Alla fine, col passare delle settimane, aveva
smesso di cercare e un nuovo pensiero era giunto ad aggravare quella
solitudine che l'aveva abbracciata nella lontana Washington: era
stata dimenticata.
Sigyn
la Vittoriosa, la Salvatrice di Asgard era stata dimenticata dagli
stessi amici con cui aveva combattuto e che con lei avevano salvato i
Nove Regni.
A
conti fatti, si era detta, tutti quei titoli si erano rivelati solo
parole vuote e l'amicizia che quei valorosi guerrieri le avevano
dimostrato sul campo di battaglia svaniva quando non c'era alcuna
guerra da combattere. Cosa si era aspettata da un popolo di
divinità
guerriere? Che vegliassero su di lei, pronti ad accorrere in suo
soccorso nel momento di difficoltà?
Non
c'era più alcun mostro da combattere, nessuna minaccia
gravava su
Asgard e i problemi di Chiara erano soltanto i suoi, non di Thor, non
di Fandral, non di Volstagg né di Sif. Solo suoi e da sola
doveva
affrontati.
Gettò
le confezioni di cartone e la carta stagnola sporca nel sacco della
spazzatura, chiudendolo accuratmente e trascinandolo fuori dalla
porta; accese le luci sulle scale e, in punta di piedi, scese fino al
pianterreno. Aprì la porta sul retro e gettò il
sacco dentro uno
dei cassonetti, facendo scappare con il rumore un gatto randagio dal
suo nascondiglio; non appena ebbe chiuso il cassonetto, un insolito
silenzio scese sul vicolo al punto tale che alle orecchie della
ragazza il suo stesso respiro pareva fare un gran fracasso.
Sopra
di lei il cielo era scuro e senza stelle, coperte da una fitta coltre
di nuvoloni carichi di pioggia. Alzò lo sguardo su quella
cortina
scura e trasse un profondo sospiro, mentre si stringeva le braccia
attorno al corpo nel tentativo di proteggersi dal freddo.
-Heimdall-
sussurrò -Davvero non mi vedi?
Attese
per qualche secondo, le orecchie ben drizzate e gli occhi puntati
verso il cielo nella speranza di udire o vedere quel familiare fascio
di luce, che più volte aveva sognato di scorgere attraverso
la
finestra dell'ennesimo motel in cui lei e Clint avevano fatto sosta
prima di riprendere il viaggio. Passando per il New Mexico, una
volta, Clint le aveva addirittura indicato in mezzo alle dune il
luogo dove aveva puntato per la prima (nonché ultima) volta
il suo
arco contro Thor. Inutile dire quanto avesse fantasticato per tutta
la durata della trasferta che il Bifrost si aprisse di nuovo in quel
deserto rovente.
La
sirena di un'ambulanza la fece sussultare, destandola da quei
ricordi, e con un sospiro incastrato tra i denti rientrò nel
condominio: era inutile perdere tempo in un passato ormai remoto, ora
la sua vita era lì a New York e tra poco il sole sarebbe
sorto,
dando inizio a una nuova giornata di lavoro.
“Qui
e ora” pensò Chiara, rientrando in casa
“Devo pensare al qui e
all'ora. Sigyn non c'è più, ora è il
tempo di Arianne”.
Quando
rientrò nell'appartamento Talia dormiva ancora, occupando
tutta la
lunghezza del divano, mentre Annibale la aspettava impaziente
all'ingresso e inizò a scodinzolare vistosamente non appena
la vide
aprire la porta.
-Ciao
ragazzone- sussurrò Chiara, accarezzando la testa
dell'animale -Ci
siamo svegliati! Ma la zia Talia è ancora tra le braccia di
Morfeo-
aggiunse poi, sentendo l'amica russare sul divano.
Camminando
sulle punte dei piedi, Chiara si infilò il cappotto,
agganciò il
guinzaglio ad Annibale ed uscì di nuovo di casa, chiudendo a
chiave
la porta alle sue spalle.
Quando
uscì dal portone del condominio, i primi raggi dell'aurora
avevano
iniziato a fare capolino in uno spiraglio tra due grosse nubi grige,
suscitando in Chiara un sorriso aperto: dietro ai giorni più
bui si
nasconde sempre la luce della speranza.
Rinfrancata
da quel pensiero, la ragazza si incamminò lungo la via che
le si
apriva davanti, in cui i negozi più mattineri avevano appena
iniziato ad aprire serrande e saracinesche per il nuovo giorno;
nonostante quel piccolo sprazzo di sole, l'aria era ancora fredda e
umida, a previsione di una bel periodo di pioggia, che, si
augurò la
ragazza, sarebbe finito prima della notte di Halloween: sebbene non
fosse il tipo da andare in giro di casa in casa a chiedere
“dolcetto
o scherzetto” in costume (Clint sarebbe inorridito anche alla
sola
idea), adorava vedere i bambini sfilare per le strade travestiti da
mummie, vampiri, zombie e supereroi (spesso capitava che un mini Iron
Man e un mini Capitain America litigassero su chi dei due fosse il
più forte o avesse il costume più bello).
Inoltre
la notte di Halloween era una delle più redditizie
dell'anno, in
quanto il Daily
Coffee rimaneva
aperto ad orario continuato fino all'alba, permettendo a bambini e
genitori di rifocillarsi durante il giro del quartiere, e le mance
che venivano lasciate di solito erano eccezionalmente generose (anche
se spesso in caramelle).
Dovette
scansarsi di scatto a lato del marciapiede quando il furgone della
nettezza urbana vi salì sopra per raccattare i sacchi dei
rifiuti,
ma in due balzi raggiunse la sua meta: un market aperto 24/24h.
Sebbene
la sera prima la cena fosse stata rimediata al Pechino
City, il
frigorifero del bilocale era ancora miseramente vuoto ed era
necessario procurarsi delle vettovaglie; legò Annibale fuori
dal
negozio, gli diede il comando di attesa e si infilò tra le
porte
automatiche, accolta dall'aria condizionata e dall'odore delle
confezioni appena rimosse dai cartoni.
Prese
da un angolo un cestino di plastica e, entrata nella prima corsia,
iniziò a rimuovere dagli scaffali il necessario per la
colazione.
La
graffiante voce di un uomo alla radio raccontava dei quarti di finale
din un torneo nazionale di football, ma Chiara, sdraiata sul letto, a
mala pena stava a sentire: erano trascorse alcune settimane da quando
era arrivata a Washington DC e ancora doveva attendere degli orari
ben precisi per poter uscire dalla sua stanza e da lì a
qualche
minuto finalmente avrebbe potuto mettere il naso fuori dalla porta.
Con il passare del tempo la sua mente aveva iniziato a porsi diverse
domande, scandite dai turni di lavoro delle reclute che abitavano
quel piano assieme a lei: non li aveva mai visti, né,
dall'altra
parte, loro avevano mai visto lei, ma ogni mattina li sentiva uscire
dalle loro stanze per l'addestramento e ogni sera li udiva rientrare;
aveva imparato i loro nomi e, un po' alla volta, aveva iniziato a
comprendere anche i loro discorsi. Da queste loro conversazioni,
assieme a tutto il tempo libero di cui disponeva, il suo cervello
aveva iniziato a elaborare dei quesiti, primo tra tutti:
perché non
poteva uscire quando voleva?
Sentiva
i ragazzi discutere di strategie, allenamenti, esami... se lei era
stata messa tra loro, era perché Fury e Hill volevano
reclutarla? E
allora perché la tenevano rinchiusa?
Non
riusciva nemmeno a capacitarsi del fatto che, quasi ogni giorno, la
interrogassero circa i fatti vissuti ad Asgard , talvolta mostrandole
immagini di creature mostruose o di antiche rune, domandandole se ne
riconosceva qualcuna.
Per
quanto si sforzasse, nessuna di quelle immagini aveva fatto accendere
in lei una lampadina, ma questo non sembrava scoraggiare i suoi
interrogatori , che tornavano la volta dopo con nuove fotografie e
nuove domande.
-Puoi
uscire se vuoi- disse una voce dalla porta, facendola sobbalzare di
sorpresa. Quando si voltò, la porta era stata aperta e,
appoggiata
allo stipite, Natasha la osservava con il suo solito sguardo felino,
un mezzo sorriso disegnato sulle labbra carnose -Coraggio- insistette
la donna -Sarai affamata.
A
conferma di quelle parole, lo stomaco di Chiara emise un brontolio e
la ragazza, dovendo riconoscere di aver bisogno di mangiare qualcosa,
seguì la spia lungo le scale anti-incendio,
finché non sbucarono
nell'ampio locale della mensa, apparentemente ancora più
grande per
il fatto di essere completamente vuoto.
Natasha
si versò una tazza di acqua calda, prese una bustina di
té e un
cucchiaino e si sedette ad uno dei tavoli vicini alla porta, da cui
poteva tenere d'occhio sia l'ingresso, sia Chiara che, frugando in
giro, aveva trovato del pane e del formaggio in bustine.
Assemblato
il suo panino, la ragazza prese posto al tavolo dove Natasha
sorseggiava il suo té e iniziò a mangiare
lentamente, meditando
sulle sue domande e chiedendosi se fosse il caso di parlarne con la
rossa: da quanto ne sapeva, era l'unica, oltre alla Hill, in grado di
parlare italiano, ma, dall'altra parte, Chiara dubitava che avrebbe
acconsentito a condividere con lei alcun tipo di informazione.
Totalmente
immersa nelle sue riflessioni, la ragazza non si accorse di essere
arrivata a mangiare fino al tovagliolo che avvolgeva il panino e da
un momento all'altro si sentì in bocca un grosso boccone di
cellulosa asciutta, che la fece tossire.
-Mi
chiedevo quando te ne saresti accorta- ridacchiò dietro alla
tazza
la russa -Sei distratta.
Chiara
alzò lo sguardo verso la donna e si perse per un momento nei
suoi
grandi occhi blu, la cui freddezza lasciava trasparire
un'intelligenza fuori dal comune: -Prego?- domandò quando i
colpi di
tosse furono cessati.
-Sei
distratta- ripeté lentamente Natasha, appoggiando la tazza
quasi
vuota sul tavolo -Ma è comprensibile. In molti avrebbero
difficoltà
ad affrontare un simile trasferimento dopo quello che ti è
successo
ad Asgard.
-Asgard
non c'entra- ribatté Chiara, infastidita dal fatto che
quella donna
cercasse di trovare in lei una debolezza, giustificandola come
qualcosa di “normale” (solo il Cielo sapeva quanto
poco normale
fosse tutta quella situazione!) -Non risento di quello che è
capitato. Sto cercando di capire cosa sta succedendo adesso.
La
spia alzò un sopracciglio e il sorriso, che poco prima le
irradiava
il volto, svanì: -Cosa vuoi capire?- chiese calma.
La
giovane senese rimase sorpresa da quella domanda, cercandovi una
qualche traccia di sarcasmo o di rimprovero, ma non ne
trovò; al
contrario, la donna aveva appoggiato i gomiti sul tavolo e aveva
sporto il busto leggermente in avanti, nella tipica posa di chi
è
disposto ad ascoltare.
-Beh-
esordì Chiara, raccogliendo i propri pensieri -Ad esempio
come avete
fatto a trovarmi.
-Il
Bifrost si è aperto in quelle campagne per ben quattro volte
nell'arco di poche ore l'una dall'altra- rispose pazientemente
Natasha -Pur fingendo che un tale fenomeno non rilasci grandi
quantità di scariche elettromagnetiche anomale, facilmente
individuabili anche dal più rudimentale dei rilevatori, il
fatto che
un gigantesco arcobaleno compaia per ben quattro volte nello stesso
punto è un evento che difficilmente passa inosservato.
Soprattutto
se coinvolge diverse centinaia di persone appartenenti a un altro
pianeta, che sporoloquiano di un mostro leggendario e di una ragazza
terrestre che si è sacrificata per permettere la loro fuga.
-Sì-
ammise Chiara -Ma perché io? Ci sono altre famiglie che
abitano la
zona, altre ragazze...
-Sono
state scattate delle fotografie- la interruppe la donna -Un
giornalista, forse, o solo un curioso che si trovava lì
proprio nel
momento in cui sei atterrata l'ultima volta. Abbiamo cercato di
distruggere o alterare quei file, ma temiamo che delle copie siano
finite nelle mani sbagliate. È stato un miracolo se siamo
arrivati
per primi.
-Il
che spiega perché sono qui...- rifletté ad alta
voce la ragazza,
accartocciando il tovagliolo e stringendolo forte nella mano -E il
perché di tutte quelle precauzioni... Ma chi mai...?
-Potrebbe
essere interessato a quello che hai visto?- la interruppe di nuovo la
donna -Prova a rifletterci: dopo quello che è accaduto a New
York e
a Greenwich, l'interesse per gli alieni si è rafforzato
enormenente
e Asgard rappresenta uno dei punti di riferimento più
importanti per
alcune associazioni criminali: sia per la tecnologia militare (avrai
probabilmente sentito parlare di quello che è accaduto nel
New
Mexico alcuni anni fa), sia per l'uso di arti che, al momento, ci
sono per lo più sconosciute.
Per
una frazione di secondo Chiara rivide nella sua mente il tubicino
argentato del Vincolo Sacro arrotolarsi intorno al suo braccio e
collegarsi a quello di Loki. E capì a cosa Natasha si
riferiva.
-Da
quello che sappiamo- stava continuando la donna -Solo un uomo
è
arrivato a padroneggiare competamente queste conoscenze e la sua
buona fede è l'unica ragione per cui l'intero pianeta non si
trovi
sotto al suo dominio, ma molti altri, con intenti meno pacifici,
possiedono un grande interesse per questo genere di potere. E
strappare a una ragazzina indifesa le informazioni necessarie per
ottenerlo è per loro facile come bere un bicchiere d'acqua.
-Chi
sono “loro”?- domandò esasperata la
ragazza, stufa di tutti quei
misteri.
-Hai
mai sentito parlare della Mano?- chiese la spia, abbassando
involontariamente la voce al pronunciare quel nome.
-No...-
ammise Chiara, perplessa; -La mano ha cinque dita- iniziò a
recitare
Natasha, mostrandole la propria mano aperta a ventaglio -Ognuna delle
quali può esistere indipendentemente dalle altre, tuttavia,
quando
le cinque dita della mano si uniscono per un solo scopo unificato, la
mano diviene un oggetto di potere incrollabile- concluse, stringendo
il pugno attorno al manico della tazza, spezzandolo di netto in tanti
frammenti (e facendo sobbalzare Chiara di sorpresa).
-Continuo
a non capire- disse la ragazza, osservandola raccogliere i pezzi di
ceramica e ammucchiarli tutti sul tavolo; -Augurati di non doverlo
mai scoprire sulla tua pelle- rispose quella -E comunque è
solo uno
dei diversi candidati ai quali potrebbe fare gola quello che hai
visto.
-E
la mia famiglia?- domandò Chiara -Loro non sono in pericolo?
-Dopo
la tua partenza abbiamo piazzato degli agenti a protezione dei tuoi
congiunti, come precauzione, ma non sarebbero di alcuna
utilità per
gli assassini della Mano: sei tu quella che vogliono.
-Ma
allora perché mi tenete rinchiusa anche qui?-
domandò esasperata la
ragazza -Perché non posso girare liberamente per l'edificio?
Sono al
sicuro qui, no?
-Qui
non si tratta solo di tenere al sicuro te. Ogni persona che sa chi
sei e quello che ti è capitato è una potenziale
vittima delle trame
delle multinazionali del crimine. Meno gente sa chi sei e meglio
sarà
per tutti.
-Fanno
23 dollari e 80- disse la commessa, con voce nasale, mentre le
porgeva il sacchetto con la sua spesa; Chiara estrasse il portafogli
dalla tasca del cappotto e le porse tre banconote da dieci dollari,
ritirò il suo resto e, sciolto Annibale, ritornò
in strada nella
direzione opposta.
Tornata
nel suo appartamento, la ragazza notò che Talia non era
più sul
divano, così andò alla porta del bagno e,
sentendovi attraverso il
rumore della doccia, iniziò a preparare la colazione,
mettendo il
bollitore sul fuoco e disponendo in bell'ordine i biscotti al
cioccolato che aveva appena comprato. Estrasse dalla credenza la
propria tazza a righe gialle e bianche e ne prese una verde a
fiorellini viola per Talia e si mise a riordinare la spesa nel
frigorifero, mentre Annibale, contento della passeggiata, si stendeva
sul divano.
Qualche
minuto dopo, la cantante uscì dal bagno, avvolta da un lungo
asciugamano e una nuvola di vapore: -Sei tornata- esclamò
contenta
-Mi sono presa la libertà di farmi una doccia , ma non ti
preoccupare: non ho finito l'acqua calda.
-Ottimo-
rispose l'altra -L'acqua del tè si sta scaldando sul fuoco,
ti do il
cambio alla doccia e tra due minuti possiamo fare colazione. Ho preso
i tuoi biscotti preferiti. Non mangiarteli tutti!- rise, chiudendosi
in bagno e iniziando a spogliarsi.
Non
appena l'acqua tiepida ebbe iniziato a scorrere sulla sua pelle,
formando dei piccoli rivoli che percorrevano le sue curve come
cascatelle, un profondo senso di leggerezza avvolse le sue membra,
facendola rilassare: “Qui e ora” ripeté
nella propria mente,
mentre faceva cadere sulla mano un po' di bagnoschiuma al gelsomino
regalatole da Pepper e iniziava a strofinare.
“Io
sono qui e ora”, ma il mantra si interruppe quando le dita
scivolarono sopra il piccolo dosso pallido della cicatrice sulla
coscia destra e di nuovo le sua fantasia le mostrò le
immagini
dell'incubo di quella notte.
Non
era la prima volta che la sua psiche si divertiva a tormentarla con
scene come quella, ma ogni volta era più nitida e viva della
precedente. Come se, con il passare del tempo, i ricordi venissero
sostituiti da un presentimento che con gli anni si era insinuato nel
cuore della ragazza, che insistentemente cercava di ignorare, ma che
puntualmente tornava a presentarsi non appena faceva l'errore di
abbassare la guardia: e se gli eventi di Eitur Myri non fossero stati
sufficienti per tenere Loki in vita?
Chiara
alzò la testa verso il getto, in un istintivo tentativo di
lavare
via quel pensiero dalla sua mente: “È un
dio” si disse, mentre
lo spruzzo caldo le distendeva i muscoli della fronte.
*
Peter
non si curò nemmeno di chiudere la finestra alle proprie
spalle, ma,
stanco morto per la nottata di ronda, si lasciò cadere sulle
lenzuola del letto, ancora avvolto dal costume di spandex.
-Devo
metterlo a lavare- considerò il ragazzo, quando alle sue
narici
arrivò l'odore di sudore che il costume emanava; si
sfilò la
maschera dalla testa e, rigiratosi supino, rimase per qualche istante
ad ascoltare i rumori della casa: le tende bianche della finestra si
gonfiavano e sbattevano contro il vetro, un tubo nel muro fischiava
per la pressione dell'acqua, la lavatrice al piano di sotto ronzava e
lo strombazzare del clacson di un'automobile attraversò la
finestra.
Non
si udivano rumori di passi, né della doccia o di alcuna
altra
attività, il che suggerì a Peter che la zia fosse
già uscita;
ribellandosi al sonno che lo teneva arpionato al materasso, il
ragazzo si alzò in piedi e si spogliò del
costume, per poi gettarlo
nel lavandino del bagno, dove lo lasciò in ammollo in acqua
e
detersivo, mentre lui si lasciava avvolgere dal tepore di una bella
doccia bollente.
Dopo
qualche minuto ne uscì e, avvolto un asciugamano di spugna
attorno
alla vita, lavò a mano il costume nel lavandino, strofinando
vigorosamente per rimuovere tutto lo smog e il sudore rimasti
impiglati tra le maglie del sintetico. In poco tempo l'acqua si
colorò di rosa e azzurro, cosa che strappò al
ragazzo un mezzo
sorriso: la prima volta che aveva avuto bisogno di lavare il suo
costume, aveva fatto il madornale errore di metterlo nella lavatrice,
con il risultato di macchiare di blu e rosso tutti gli altri capi
che erano stati messi sventuratamente a lavare; quando zia May gli
aveva chiesto cosa aveva provocato quel disastro, si era
giustificato, sotto lo sguardo incredulo della donna, dicendo di aver
voluto lavare la bandiera americana.
Non
era stata una delle sue scuse migliori, ma non gli si era potuta
negare una certa prontezza di riflessi.
Quand'ebbe
finito, mise il tutto ad asciugare nella doccia e accese il
deumidificatore: zia May non sarebbe tornata prima di sera e per
allora il suo costume sarebbe stato ben asciutto e pronto all'uso.
Strofinandosi
i capelli umidi con un asciugamano, scese le scale,
attraversò il
salotto e si infilò in cucina, dove, sul tavolo apparechiato
semplicemente con una larga tazza blu e un cucchiaio, zia May gli
aveva lasciato il latte e i suoi cereali preferiti con un post-it.
Peter afferrò la scatola dei cereali e ne versò
un po' nella tazza,
poi, mentre aggiungeva il latte, prese il bigliettino e lesse la
calligrafia inclinata ed elegante della zia: Ti
ho lasciato il pranzo in frigorifero, mi raccomando per stasera, ci
conto.
Lesse
le ultime parole e rimase a fissarle per un tempo indefinito,
finché
non sentì qualcosa di freddo e umido bagnargli
fastidiosamente la
coscia sinistra; abbassò lo sguardo sulla proria gamba e la
vide
ricoperta di liquido bianco, che la sua mente, ancora intorpidita
dalla stanchezza, gli suggerì essere il latte, che,
strabordato
dalla tazza, aveva iniziato a scorrere lungo il tavolo e a cadere sul
pavimento i piccoli rivoli.
-Dannazione!-
imprecò il ragazzo, correndo a prendere una spugna dal
lavandino per
rimediare al pasticcio combinato.
Mentre
passava la spugna gialla sul piano del tavolo, Peter ripensò
alla
cena della sera precedente, tentando di riportare alla memoria
l'intera conversazione che aveva avuto con la zia, ma, a parte il
vago ricordo di qualcosa legato agli skateboards, non riuscì
a
ricordare nulla che fosse anche lontanamente collegato all'impegno
preso con zia May.
Strizzò
la spugna nel lavandino e si mise a mangiare i suoi cereali, ormai
divenuti molli come una pappetta, mentre nella mano libera studiava
il bigliettino, nella speranza che potesse dargli qualche
informazione per quella sera.
Girò
e rigirò più volte il pezzo di carta gialla tra
le dita, ma l'unica
cosa che ottenne fu di impiastricciarsi le mani con la colla del
post-it: non c'era assolutamente nulla di utile e si sentì
un
imbecille per non aver prestato attenzione al momento opportuno.
Non
sapendo cos'altro fare, misa la tazza, ormai vuota, nella
lavastoviglie e andò a vestirsi: “Il compleanno di
zia May è ad
Agosto” pensò mentre infilava la testa in una
t-shirt “Quello di
zio Ben a Dicembre... non possono essere queste le occasioni per cui
mi ha chiesto di fare qualcosa. Sì, ma cosa??”
Si
sedette alla scrivania e accese il computer, fece l'accesso alla mail
universitaria e controllò i nuovi messaggi, poi, notando
sull'orologio che non avrebbe avuto lezione prima di tre ore,
estrasse da un cassetto un vecchio auricolare, un paio di occhiali a
forte ingrandimento e un cacciavite e, sotto lo sguardo di Gwen, che
sorrideva nella foto appesa al muro, iniziò a lavorare al
modulatore
vocale suggeritogli da Chiara.
*
-Scendiamo
qui!- esclamò ad un tratto Talia, afferrando la propria
borsa con un
mano e il braccio di Chiara con l'altra e tirandola in mezzo alla
ressa di viaggiatori ammassati sull'autobus. La ragazza si
aprì la
strada a gomitate e i tre scesero sul marciapiede (non senza una
certa fatica, soprattutto per il povero Annibale, che dovette
zigzagare tra le gambe degli altri passeggeri).
-Perché
mi hai fatto scendere qua?- domandò Chiara con una punta di
fastidio, dato che nell'uscita uno dei passeggeri le aveva pestato un
piede senza nemmeno chiederle scusa -Mancano ancora tre fermate al
Daily!
-Oh,
andiamo!- la incalzò Talia -È una bella giornata,
siamo insieme e
qui c'è Prospect Park che si staglia davanti a noi in tutta
la sua
bellezza autunnale. È un'ottima occasione per farci una
passeggiata!
Vedendo
l'autobus svanire dietro l'angolo, Chiara alzò gli occhi al
cielo ed
emise uno sbuffo, ma Talia aveva già varcato i cancelli
d'ingresso
del parco, seguita a ruota da un gioioso Annibale, che sembrava
approvare quell'inaspettato cambio di programma, e così non
poté
far altro che stringersi meglio la sciarpa attorno al collo e
seguirli.
Conosceva
a memoria ogni singolo ettaro di quel parco: il lago, il ponte, il
pontile per le barche... ogni singola panchina le era nota tante
erano state le volte in cui vi si era rifugiata per cercare
ispirazione per un nuovo quadro o anche solo per lasciare Annibale
correre sui prati in libertà.
Era
uno dei suoi luoghi preferiti in tutta Brooklyn, l'unico in cui
potesse respirare senza sentire il puzzo dei tombini o dei gas di
scarico delle automobili, ma quella mattina non era proprio in vena
di passeggiate nel parco: voleva rifugiarsi nel caldo e accogliente
abbraccio del Daily
e aspettare la sera per andare da Stark.
Ma,
evidentemente, Talia e Annibale avevano un'opinione differente e si
erano messi a giocare con un bastone come se fosse la cosa
più
naturale da fare alle 6.30 della mattina.
-Ma
dove accidentaccio la trovate tutta quest'energia?- disse Chiara,
alzando la voce per farsi sentire -Io a mala pena riesco a camminare.
-Non
dovresti lamentarti- rispose Talia, prendendo il bastone che Annibale
le aveva riportato e scagliandolo su un prato -Non sei tu quella che
ha dovuto sentirti borbottare in italiano per tutta la notte!
-Ho
parlato?-domandò Chiara, sentendosi una scarica di paura
lungo la
schiena: non aveva controllo di quello che diceva nel sonno. Se
avesse detto qualcosa di troppo?
-Lo
fai tutte le volte che mi fermo a dormire da te- disse vaga Talia,
affiandosi a lei -Borbotti qualche parola strana finché non
ti do un
calcio e allora riprendi a dormire. Non ti si secca mai la gola?-
domandò poi, ridacchiando, ma, quando si accorse che
l'espressione
sul viso dell'amica era tutt'altro che divertita, aggiunse -Qualcosa
non va?
-No,
nulla- rispose Chiara di fretta. Un po' troppo di fretta, infatti
Talia, per niente convinta, le lanciò un'occhiata sospettosa
e
domandò di nuovo -Ha qualcosa a che fare con il tuo incubo?
“Da
oggi sono esattamente quattro anni che sono tornata da Asgard e che
la mia vita è andata a rotoli pezzo dopo pezzo, inoltre i
miei amici
mi hanno totalmente dimenticata e Loki non ha mai mantenuto la sua
promessa,; quindi, sì, l'incubo c'entra in qualche
modo”.
-Ho
solo rivissuto quella volta che Suor Christine mi ha chiusa
nell'armadio delle scope perché avevo rotto una finestra con
il
pallone- rispose Chiara con un sorriso forzato -Ogni tanto mi tornano
in mente i giorni a Santa Cecilia.
-Il
che spiega perché non borbotti mai in inglese-
annuì seria Talia
-Ma a che serve insegnarlo in un orfanotrofio, mi chiedo!
-Santa
Cecilia è un istituto cattolico popolato dal più
sfegatato fan club
del papa: le suore dicevano che se lui doveva sapere la lingua di
Roma per tenere messa, anche noi dovevamo impararlo per poterlo
guardare in tv la domenica. Potrei recitarti in italiano anche tutte
le preghiere conosciute!
-Se
non altro hai imparato una lingua in più-
considerò la cantante,
lanciando di nuovo il bastone ad Annibale -Ma, per favore, ricordami
la prossima volta che mi fermo da te di portarmi dietro anche i tappi
per le orecchie!
Una
fragorosa risata scoppiò tra le due amiche, che si presero a
braccetto e iniziarono a chiaccherare amabilmente del più e
del
meno: dei prossimi provini che Talia sperava di riuscire a fare, dei
nuovi progetti per dei quadri che Chiara aveva in mente (con
l'augurio da parte di Talia che, oltre all'ispirazione, trovasse
anche un posto migliore dove tenerli) e come organizzare il locale
per Halloween.
-Dovrebbe
esserci ancora qualche ragnatela finta nel retrobottega-
pensò ad
alta voce Talia -E mi sembra di aver visto un set di ragni e
pipistrelli finti a 20 dollari nel negozio per le feste sulla
diciottesima, potremmo metterne qualcuno nel vassoio delle brioches.
Già mi immagino Trevor che risate si farà!
-Meglio
evitare di mettere quelle schifezze vicino al cibo- commentò
Chiara,
mentre Annibale, ben stretto il suo bastone tra i denti, zampettava
allegramente al suo fianco, giocando ogni tanto con le foglie cadute
sul sentiero -Non oso pensare di quale plastica da due soldi siano
fatti! Meglio evitare che ci denuncino all'ufficio sanitario.
La
cantante sbuffò, ma non ribatté: sapeva bene che
l'amica aveva
ragione e si concesse qualche istante di silenzio per pensare a
qualche altra idea.
Nel
frattempo alle loro orecchie giunsero tutti quei suoni che le loro
voci avevano fino ad allora coperto: le foglie secche scricchiolavano
allegramente sotto i loro piedi, il vento muoveva le fronde degli
alberi, facendoli sussurrare una melodia lenta e grave, l'acqua del
fiume sotto di loro cantava a ritmo della corrente, mentre la sua
superficie, increspata dal vento, rifletteva i timidi raggi solari
che filtravano attraverso le nuvole.
Ad
un tratto la voce roca di Annibale si intromise in quella melodia
stagionale, ringhiando in direzione di un cespuglio, da cui, tenendo
una grossa noce tra le zampe, uno scoiattolo rosso uscì
saltellando;
l'istinto cacciatore dell'animale iniziò a emergere e,
abbassatosi
sulle zampe anteriori, si preparò per scattare alla rincorsa
del
roditore, ma venne bloccato dal comando della padrona, che lo
richiamò al suo fianco.
-Vieni
qui, Annibale, e lascia stare quel povero animale!- esclamò
la
ragazza, indicando con l'indice il terreno vicino ai suoi piedi.
-Cosa
c'è? Hai paura di inimicarti Squirrel Girl?- rise Talia -Non
siamo
mica a Central Park!
-Io
non la sottovaluterei- ribatté seria Chiara, mentre
attraversavano i
cancelli e uscivano dal parco -Gli scoiattoli sono bestioline astute
e anche lei non mi sembra da meno. Non vorrei davvero dovermi
confrontare con lei.
-Bah!-
fece spallucce la cantante -A mio parere non è uno dei
supereroi che
si possono annoverare tra gli orgogli di New York.
Tornarono
così in mezzo al traffico, divenuto nel frattempo
più intenso, e
all'asfalto su cui i newyorkesi correvano come formiche verso i
rispettivi luoghi di lavoro, in un caos di pedoni, biciclette e
automobili che rendevano quell'ora della giornata particolarmente
viva e movimentata.
Quando
giunsero finalmente al Daily
il signor Bailey aveva già aperto la saracinesca e avviato
la
cucina, così, una volta entrate e inforcati i grambiuli, a
loro non
restò che dare una veloce pulita ai tavoli e accogliere la
clientela.
-Buongiorno,
ragazze!- esclamò Charles con la solità
giovialità, uscendo dalla
cucina con un vassoio di muffin alle noci appena sfornati -Come
è
andata ieri senza di me?
-Tutto
molto calmo in realtà- disse vaga Talia, sorridendogli di
rimando
-Nulla di nuovo dal solito e il forno ha retto tutta la giornata.
-E
abbiamo conosciuto il nuovo spasimante di Talia!- ammiccò
Chiara da
dietro la spalla della cantante, che si girò facendole la
linguaccia.
-È
solo un ragazzo incontrato all'università-
ribatté poi verso il
signor Bailey, che sorrideva divertito, mentre disponeva con cura i
muffin nella vetrina -Nulla a che fare con uno spasimante o simili!
-Ah,
la gioventù!- sospirò l'uomo con una risatina
-Quando ero giovane
io le cose erano un po' più semplici... No, a dire il vero
non è
cambiato poi molto- la sua risata baritonale scoppiò
nell'aria come
un tuono e, per un istante, a Chiara ricordò molto quella di
Volstagg e le immagini dei festeggiamenti dopo la sconfitta di
Phoneus le percorsero la mente, come un film proiettato nella parete
inferiore dei suoi occhi.
La
sala era gremita di gente quella sera, mille voci salivano verso il
soffitto, leggere come il fumo delle candele che si ammassava sugli
splendenti marmi che lo decoravano, per poi scivolare lente verso la
notte attraverso le finestre. Tutt'intorno l'oro dei piatti e dei
bicchieri abbacinava lo sguardo e il profumo delle prelibatezze e del
vino fruttato, preparati appositamente per quell'occasione speciale,
inebriava i sensi.
La
guerra sembrava già un ricordo lontano, nascosto dalle
costose e
ricercate vesti dei prestigiosi ospiti radunati alla corte di Odino,
che seduto sul suo trono, brindava in compagna di Regalrex; Thor e i
Tre Guerrieri, in un altro angolo della sala, chiacchieravano, o,
meglio, urlavano allegramente, sotto lo sguardo divertito di Sif, che
sorseggiava del vino scarlatto da una coppa.
Avrebbe
voluto unirsi a loro e godere della loro compagnia, ascoltando i
favolosi racconti delle loro avventure in giro per i Nove Regni, ma
più avanzava nella loro direzione e più essi si
allontanavano; più
tentava di richiamare la loro attenzione e più il frastuono
di voci
diveniva alto e forte, coprendo la sua. Iniziò a correre, ma
il
pavimento sotto di lei divenne improvvisamente molle, appiccicandosi
ai sandali e rallentandola, mentre le luci lentamente si abbassavano
e le figure attorno a lei svanivano, come miraggi, sostituiti da un
panorama di rocce spigolose e aguzze, avvolte da un cielo scuro, in
cui brillavano fredde delle stelle lontane.
Non
era così che era andata la serata! Era andato tutto
diversamente:
dov'erano i baldi guerrieri di Asgard? Dov'erano gli elfi e nani?
Dov'era Odino, che l'aveva proclamata Vittoriosa? Dov'era Loki, che
sulla tomba di Reicknar le aveva promesso un nuovo incontro?
Tutto
quello che ricordava non c'era più, sostituito da aspre
rocce e
oscurità, ma più osservava quel paesaggio e
più dentro di lei
cresceva la convinzione di esserci già stata.
Come
era possibile? Non ricordava nulla che potesse assomigliare anche in
maniera remota a quel luogo inospitale.
All'improvviso
vide la sua ombra allungarsi davanti a lei, avvolta da un caldo
bagliore, e incuriosita si voltò.
E
fuoco fu tutto quello che vide.
-Arianne?
Arianne?- la chiamò Talia, passandole una mano davanti agli
occhi
-Ci sei?
-Sì,
scusa- si affrettò a rispondere -Credo di aver avuto un calo
di
zuccheri improvviso.
-Che
strano. Eppure hai fatto colazione...
-Tutte
le scuse sono buone per assaggiare i miei muffin, non è
vero?- rise
il signor Bailey, porgendole un dolcetto e invitandola a sedersi
-Coraggio, da' un morso, così mi dici se sono buoni.
-Come
se non lo sapesse già!- si sforzò di sorridere la
ragazza, ma nella
sua mente aveva già iniziato a suonare un campanello
d'allarme:
quella che aveva avuto era stata una visione troppo nitida per essere
dovuta alla stanchezza o alla mancanza di glucosio nel sangue.
*
La
prima lezione del giorno era Statistica 1 e se c'era una cosa che
Peter odiava era proprio Statistica, ma il suo odio non si limitava
alla materia in sé, ma anche a tutto il contesto in cui essa
veniva
affrontata: l'aula, l'ammasso di gente accalcata sui banchi, il
professore... tutto ciò che faceva parte quella lezione
suscitava in
lui un profondo e istintivo rigetto, che lo portava a trascorrere
quelle due ore di agonia raggomitolato sul banco a prendere appunti e
a contare i minuti che lo separavano dal prossimo caffé.
L'unica
cosa che lo aiutava a sopportare quella tortura era la soddisfazione
di essere riuscito a ricavare dal microfono di una vecchia cuffia
sgangherata un modulatore vocale funzionante e dalle dimensioni
così
ridotte da non provocare alcun fastidio sotto la maschera.
Mentre
il professore, la cui voce bassa e lenta aveva già fatto
addormentare un paio di ragazzi davanti a lui, mostrava degli astrusi
diagrammi proiettati sulla parete, Peter estrasse dalla tasca il
prodotto del suo lavoro e se lo rigirò tra le dita per
qualche
istante ammirandolo soddisfatto: il design era estremamente semplice,
ma ogni linea era pulita e pensata per risultare totalmente
invisibile sotto allo spadex, anche a diverse condizioni di luce;
all'auricolare era collegato il micofrono che scendeva fino a
metà
dello zigomo.
Sfruttando
una vecchia radiolina, aveva anche ideato una trasmittente che,
collegata via radio al suo apparecchio, permetteva di udire suoni e
conversazioni fino a un kilometro di distanza.
Sì,
era estremamente soddisfatto del suo operato e non vedeva l'ora di
metterlo alla prova sul campo: -Ehi, tu! Là in fondo-
tuonò la voce
adirata del professore -Se ti becco di nuovo ad armeggiare con
diavolerie tecnologiche, giuro che non ti ammetto nemmeno agli esami.
Peter
alzò lo sguardo dal modulatore vocale e vide una sessantina
di occhi
puntati su di lui, mentre in fondo all'aula, da dietro la cattedra,
l'indice del professore lo puntava con fare accusatorio.
Sentì
il calore propagarsi dalla punta dei piedi fino alle orecchie e,
rimettendo lentamente in tasca l'oggetto, abbassò la testa
sui suoi
appunti, cercando di nascondere il rossore del viso a quegli sguardi
indesiderati.
Quanto
avrebbe desiderato lanciare una ragnatela oltre alla finestra e
svignarsela veloce come il vento! In questo caso il suo humor non
gli sarebbe stato di alcun aiuto contro quel burbero dell'insegnante,
così rimase con il naso sugli appunti per tutto il tempo e,
non
appena la lezione fu terminata, fu tra i primi ad uscire dalla
classe.
-Che
palle!- sospirò Peter, mentre inseriva le monetine nella
macchina
del caffé e premeva il pulsante alla voce Espresso.
“Due
figuracce in due giorni” rifletté prendendo il
bicchierino di
plastica “Sto per fare il record”; scorto un posto
libero a un
tavolo della mensa, vi si sedette e iniziò a sorseggiare il
suo
caffé: il sapore era quello stantio tipico del
caffé preso alle
macchinette, ma l'odore gli ricordò per un istante i polsi
sottili
di Talia mentre gli serviva il caffé al tavolo.
Non
poté trattenere un sorriso involontario, che si
affrettò a smorzare
non appena riprese il controllo di sé: “Mantieni
un minimo di
professionalità, Testa di Ragno! Devi rimanere concentrato e
attento, non puoi lasciarti abbagliare da un paio di occhi
dolci.”
L'arrivo
di un gruppo di studenti che conosceva di vista e che frequentavano
con lui il corso di Genetica, gli ricordò che la prossima
lezione
sarebbe stata tenuta di lì a un paio di minuti e che doveva
sbrigarsi; raccolse la sua roba e si accodò al gruppo e, per
il
momento, il problema venne archiviato.
A
differenza di Statistica, Genetica era per lui materia di grande
interesse e stimolo: dopo il morso del ragno nei laboratori Orscorp,
aveva cercato di comprendere meglio la sua mutazione e
l'approfondimento che quelle lezioni fornivano erano una grande
fonte di spunto per avvicinarsi alla soluzione. L'insegnante,
inoltre, era un giovane uomo di grande fascino, capace di
trasmettere, con il suo entusiasmo, tutta la sua passione per la
materia anche allo studente più svogliato.
Grazie
a lui il clima durante le lezioni era molto più disteso.
-Buongiorno
a tutti- salutò il professore, facendo il suo ingresso
nell'aula e
posando sulla cattedra la borsa in pelle -Prima di iniziare vorrei
annunciarvi che anche quest'anno il dipartimento di ricerca genetica
delle Stark Industries con sede a Midtown ha dato la sua
disponibilità a prendere alcuni stagisti di Biotecnologie
per tutto
il semestre. Dato che il numero di posti è piuttosto
ristretto,
verrà fatto un test d'ingresso. Da quello che so le domande
sono
piuttosto toste per degli studenti del vostro livello, ma l'occasione
è davvero ghiotta e vi consiglio caldamente, se siete
interessati,
di tentare: avere sul curriculum il nome di Stark è la
chiave per
aprire molte porte.
Terminato
l'annuncio, la lezione iniziò, anche se Peter
notò che molti degli
studenti erano troppo impegnati a borbottare tra di loro, valutando
se provare o meno a fare il test, per prestare attenzione a quello
che aveva da dire il professore, il quale dovette riportare
all'ordine un paio di ragazze che si erano messe a discorrere
sull'opportunità di abbordare il miliardario durante uno di
quegli
stage.
Per
quanto Peter cercasse di concentrarsi sulle diapositive e di
scrivere ogni singola parola che usciva dalla bocca del suo
professore, inevitabilmente la sua mente iniziò a valutare
l'opportunità che gli si presentava: al di là
della sua grande
stima per il genio e il coraggio di Tony Stark, doveva riconoscere
che per la sua formazione sarebbe stato di grandissimo interesse
avere la possibilità di girare per i laboratori
supertecnologici
delle Stark Industries, cercando di carpire anche il più
piccolo
segreto che in un futuro lavorativo avrebbe potuto fargli comodo. Un
battito di ciglia e già riusciva a immaginarsi a progettare
con Tony
Stark, davanti a una tazza di caffé bollente, un qualche
macchinario
rivoluzionario per migliorare la condizione di vita
dell'umanità.
Un
secondo battito di ciglia e volteggiava nella notte tra i palazzi di
New York, avvolto in un costume high tech di sua progettazione, in
compagnia di Iron Man: un nuovo supereroe era arrivato in
città e il
suo nome era Iron Spider.
Un
vivace brusio attorno a lui interruppe la sua visione, riportandolo
alla realtà in cui la lezione era conlusa e gli studenti
stavano
abbandonando l'aula, i più audaci fermandosi alla cattedra
per
ritirare il modulo di iscrizione al test.
Peter
raccolse in fretta e furia le sue cose, rimproverandosi per non
essere stato attento alla lezione e per aver preso sì e no
tre righe
di appunti (scritte male, per giunta), e si avviò a sua
volta verso
l'uscita, ma il professore lo chiamò: -Parker- disse,
sorridendogli
cordialmente sotto la barba lasciata leggermente incolta -Non sei
interessato allo stage? Mi sembra cosa che potrebbe destare
particolare interesse in uno studente diligente e ambizioso come te.
-Ambizioso,
prof?- chiese Peter, sorridendo imbarazzato -Cosa glielo fa credere?
-Oltre
al fatto che nei laboratori sei estremamente attento a procurarti il
materiale migliore e a fare gli interventi più
intelligenti?- Peter
sentì lo sguardo del suo insegnante studiarlo da cima a
fondo, come
se i suoi occhiali da vista gli permettessero di osservarlo anche
all'interno -Te lo si legge in faccia, Peter, che ambisci a fare
qualcosa di grande, a dare il tuo contributo in grande stile. Per
questo ti chiedo: davvero non sei interessato?
Il
ragazzo fissò per qualche istante il foglio che il
professore gli
porgeva, compilando mentalmente tutte le voci e spuntando tutti i
quadratini: era tentato, questo era certo, ma dentro di lui la voce
della sua coscienza gli suggeriva che no, non aveva il tempo di fare
tutto. Non poteva studiare, salvare New York, prendersi cura di zia
May e anche seguire uno stage; le giornate sono sempre composte da
sole 24 ore e già aveva rinunciato ad alcuni aspetti della
sua vita
che solo pochi anni prima riteneva indispensabili, come ad esempio
mantenere una vita sociale. Aveva ridotto le sue attività
fino
all'osso e sarebbe bastato poco per rompere quel fragile equilibrio
che aveva trovato.
-Io...-esordì
Peter a malincuore -Non credo che riuscirei a gestire il mio tempo se
aggiungessi ancora qualcosa alle attività che faccio
già.
-Ascolta,
Parker- continuò serio l'uomo -Non devi decidere adesso: il
modulo
deve essere consegnato tra una settimana. Prenditi il tempo
necessario per rifletterci, nel frattempo te ne terrò da
parte una
copia.
-Grazie
prof- sospirò -Ci penserò. Arrivederci.
-Arrivederci,
Parker.
Angolo
dell'autrice: salve
a tutte e
benvenute alla fine del quinto capitolo di Panacea
Project!!!
:) Dunque, dunque, vorrei ringraziare Alexia Dubhe Black e _Mollica_
per essersi unite al party, seguendo la storia (benvenute!) e alle
mie commentatrici che non mancano mai di lasciarmi una recensione,
riempiendomi il cuore di gioia con le loro belle parole!
Eccoci
qui: Chiara non ha perso il vizio di avere le sue visioni, che ne
dite, dovrebbe farsi vedere da qualcuno? Ma uno bravo? XD
Finalmente,
dopo lunga attesa, ecco che si comincia a capire cosa cavolo
è
successo alla nostra Chiara al Triskelion e perché la
tengono come
un uccellino in gabbia; inoltre non mancano le piccole citazioni
all'universo Marvel qua e là. A chi si riferiva Natasha
durante il
suo discorso sulle forze sconosciute? ;)
Per
quanto riguarda il giochino della volta scorsa, il riferimento "a
caccia di streghe" è connesso al film Hansel
& Gretel, cacciatori di streghe
(2013) in cui Jeremy Renner (il nostro Clint Barton) interpreta il
protagonista maschile. Ora, non so se l'avete visto e quale
impressione vi siate fatte, ma a me ha fatto piuttosto ridere per
quanto splatter e trash fosse e per il personaggio di Hansel, che per
la maggior parte del tempo sembra stufo marcio di tutte quelle
streghe che svolazzano in giro. Ad ogni modo, mentre lo guardavo, il
mio cervello bacato ha visto in Hansel un Occhio di Falco del XV
secolo e ha espresso il desiderio di un AU in cui gli Avengers
combattono in un'Europa rinascimentale.
Se
sapete dell'esistenza di qualcosa del genere, vi prego di
segnalarmelo perché brucio dalla voglia di leggerlo XD
Anyway,
spero che il capitolo vi sia piaciuto e che sia valsa l'attesa. Nel
frattempo mando un forte abbraccione a tutti quanti!
Alla
prossima,
Lady
Realgar
|
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Capitolo 6 *** Dove Peter viene coinvolto nelle attività del Daily Coffee e onora l'impegno preso con zia May ***
Cercò
a tastoni nel buio l'interruttore della luce e, quando le sue dita ne
sfiorarono la plastica fredda, attivò la lampadina che dal
centro
del soffitto penzolava diffondendo una fioca luce fastidiosamente
bianca e facendo brillare della medesima sfumatura i due surgelatori
che ronzavano a ridosso della parete.
Ma
non era interessata ai surgelatori (Yoghi e Bubu, come li chiamava
Talia, dato che uno era grosso e l'altro più piccolino),
bensì
alle scatole di cartone ammucchiate sugli scaffali di metallo fissati
con spesse viti alla parete opposta; con i pugni ben piantati sui
fianchi, iniziò a studiarli dal basso, cominciando a
escludere
quelli da cui uscivano ghirlande di pino e festoni dorati. Ne
adocchiò uno ben sigillato dal nastro adesivo su cui si
potevano
scorgere, scritte a pennarello, le lettere Hallow;
prese da un angolo una scaletta pieghevole, la dispose sotto alla
mensola e vi salì, sporgendosi per tutta la sua lunghezza in
direzione della scatola: “Questo sarebbe un pessimo momento
per
avere una visione” pensò tra sé e
sé, concentrandosi sul non
perdere l'equilibrio e rovinare sul pavimento.
-Avanti,
vieni qui!- sussurrò, sentendo le dita sfiorare il cartone
della
scatola, così si allungò ancora un po' e,
finalmente, riuscì ad
afferrarla -Presa!- esultò, trascinandola fuori dalla
mensola e
stringendola al petto per avere una presa migliore -Pensavi di
sfuggirmi, vero? E invece no!
-Parli
da sola anche da sveglia?- sentì dire da sopra le scale -Hai
trovato
la scatola?
-Sì,
ora la porto su- rispose ad alta voce Chiara, spegnendo la luce e
imboccando le scale, oltre le quali si lasciò alle spalle il
retrobottega e ritornò nel cuore del Daily
Coffee -È
questa?- chiese, poi, mostrando a Talia lo scatolone recuperato.
-Sì,
quella è una- rispose la ragazza, finendo di versare il
caffé a un
cliente -Ma dovrebbe essercene un'altra in giro. Se non ricordo male
l'anno scorso avevamo diviso i festoni dalle lanterne a forma di
zucca.
-Allora
dovrete procurarmi una scala più alta, perché
già per prendere
questa ho rischiato di strapparmi un tendine- ribatté,
appoggiando
la scatola sul bancone e frugando nei cassetti in cerca di un
coltello per tagliare il nastro adesivo.
Talia
le si affiancò dietro al bancone e studiò per un
secondo la
scatola: -Questa è quella dei festoni- disse ancor prima che
Chiara
togliesse lo scotch -Se fosse stata l'altra non saresti riuscita
nemmeno a sollevarla: non hai idea di quanto pesino quelle maledette
zucche!
-Ci
penserà Bailey, allora. Nel frattempo possiamo cominciare a
sistemare questi- passò il filo della lama al centro del
nastro
adesivo e svincolò le ali di cartone, che sollevò
riportando alla
luce un groviglio di pipistrelli, zucche ghignanti, ragni di plastica
e fantasmi fosforescenti.
-Gran
bel nodo gordiano...- considerò ad alta voce la ragazza,
tirando per
un'ala uno dei pipistrelli, che si trascinò dietro una rete
di
ragnatele e spago -Sarà difficile procurarsi una spada qui a
Brooklyn!- rise Talia, tirando un ragno, rimasto impigliato per una
zampa ad una zucca.
-Basterà
aspettare la prossima convention di fumetti, sono certa che qualche
Luke Skywalker sarà più che lieto di prestarci la
sua per un
secondo.
-Purtroppo
non possiamo aspettare così tanto: mancano due settimane ad
Halloween, perciò coraggio!- disse Talia, ponendole una mano
sulla
schiena per incoraggiarla, per poi sparire un attimo dopo dietro le
porte della cucina.
-A
noi due, allora- sospirò Chiara, rimboccandosi le mani e
iniziando a
sciogliere un po' per volta quell'informe ammasso di fili.
Si
era trasferita (forzatamente) in America da quattro anni, ma non era
ancora riuscita a comprendere la ragione di quel fermento e di
quell'agitazione che serpeggiava tra la gente all'avvicinarsi della
notte di Halloween: in Italia, essendo una festa importata,
rappresentava più un pretesto per travestirsi e andare a
fare
baldoria fino a tarda notte e lei per prima non aveva mai sentito la
necessità di farne parte. Nel nuovo continente, invece, vi
era una
cura e un'attenzione nell'organizzazione della Notte delle Streghe
tali da risultare normale la ricerca del costume più di un
mese
prima della fatidica data. E questa cosa non coinvolgeva solo i
bambini, ma anche, e soprattutto, gli adulti.
La
stessa Talia, l'anno prima, si era occupata personalmente della
realizzazione dei loro costumi, curando con attenzione ogni minimo
dettaglio.
"Quest'anno,
in effetti, non ha ancora tirato in ballo l'argomento...
Sarà stata
troppo impegnata a pensare all'audizione. Speriamo che non mi tiri
scema come l'anno scorso o...."
-Ma
che...?- esclamò Chiara, alzando distrattamente lo sguardo
sopra il
proprio lavoro e notando un foglio di carta familiare, appeso a
fianco della macchina del caffé.
Si
alzò di scatto e vi si avvicinò per studiarlo
meglio,
riconoscendovi uno dei suoi disegni a tema Spiderman: -Come
c'è
finito questo qui?- chiese a Talia, che stava uscendo dalla cucina
con un vassioio di dolci appena sfornati.
-Hai
detto che non ti piacevano- rispose la ragazza, disponendo i dolci
nella vetrina -Così ne ho salvato uno dall'oblio al quale
era
destinato. Ritengo che sia un bel modo per celebrare l'operato del
nostro eroe preferito e poi- proseguì sfoggiando un largo
sorriso
-Non sta benissimo lì appeso?
Chiara
si voltò di nuovo ad osservare il disegno, le diverse
sfumature
create dalla polvere di carbone e dal rosso della sanguigna, le linee
slanciate e sottili intrecciate a rappresentazione del corpo
dell'eroe, tutti quei piccoli difetti che avrebbe voluto correggere:
-Non lo so- mugugnò con una smorfia -Non amo che i miei
lavori
vengano esposti alla vista di tutti.
-Dovresti
valorizzare di più il tuo talento: hai davvero una bella
mano, è un
peccato che la tenga nascosta.
-Bah-
sospirò quella, tornando a sbrogliare la matassa -Se proprio
ti
piace, tienilo, ma decisamente non gli rende giustizia.
-Ora
non cominciare a tirartela solo perché lo hai visto di
persona- rise
Talia, avvolgendole la vita con un braccio -Prima o poi anch'io
riuscirò a parlarci.
-Ti
auguro solo di farlo in circostanze migliori delle mie- sorrise
Chiara, riuscendo a togliere dal nodo una ghirlanda di pipistrelli
di cartone.
Rispondendo
al sorriso, la cantante andò a prendere l'ordinazione di un
cliente
appena entrato nel locale, lasciando l'amica a terminare il lavoro.
Di
lì a pochi minuti tutti i festoni furono sciolti dal nodo e
la
ragazza, estratti la scala e del nastro adesivo dal retrobottega, si
mise ad appenderli lungo la vetrina, attraverso la quale poteva
osservare il fermento della strada.
Salita
sulla sommità della piccola scala, strappò un po'
di nastro
adesivo, con cui fermò un capo del festone con i ragni di
gomma, e
iniziò a decorare la vetrina.
Aveva
appena finito di appendere tutta la ghirlanda, quando l'arrivo di un
autobus attirò la sua attenzione e la figura ormai nota di
un
ragazzo alto ed allampanato le strappò un mezzo sorriso:
-Hai
visite, Talia!- disse ad alta voce appena prima che Peter, annunciato
dal tintinnio del campanello, entrasse nel locale.
-Buongiorno!-
salutò il ragazzo, facendo cenno a Chiara, che lo osservava
dall'alto della scaletta come un falco appollaiato sulla roccia
-Ciao, Peter- rispose -Sei tornato a trovarci.
-Ero
curioso di scoprire se il caffé che fate pagare è
buono quanto
quello che offrite ai nuovi clienti.
-Attento
a quel che dici- lo avvisò scherzosamente Chiara, scendendo
dalla
scaletta e spostandola di qualche metro per appendere la ghirlanda di
pipistrelli -Il signor Bailey è molto geloso del suo
caffé: sceglie
personalmente le miscele. Non è vero, signore?-
domandò poi, in
direzione della cucina da cui il proprietario del Caffé,
sentitosi
chiamare, si era affacciato.
-Ci
puoi scommettere, giovanotto!- esclamò l'uomo uscendo dalla
cucina e
pulendosi le mani nel grembiule -Piacere di conoscerti, ragazzo-
proseguì, offrendogli la mano callosa -Benvenuto al Daily
Coffee. Mi
chiamo Charles Bailey, qual è il tuo nome?
-Parker,
Peter Parker- rispose Peter, ricambiando la stretta (e ringraziando
di essere dotato di super forza: pur con quella percepì una
fastidiosa pressione attorno al metacarpo quando l'uomo gli strinse
vigorosamente la mano).
-Hai
una stretta di mano salda, Peter- disse con voce seria Charles
-Questo dice molto di un uomo.
-Questo
è il ragazzo di cui le parlavo- si intromise Chiara,
ammiccando
all'amica che, dietro al bancone, nascondeva malamente una risatina
-Quello che ieri ha fotografato la sua Hall of Fame del jazz.
Vedendo
il viso del signor Bailey rabbuiarsi improvvisamente, Peter si
sentì
un brivido freddo corrergli lungo la schiena e, quando
percepì la
pressione della grossa mano dell'uomo sulla propria spalla, si
aspettò che lo accompagnasse fuori dal locale;
già si preparava
alla tirata d'orecchi quando il signor Bailey, dirigendolo davanti
alla parete tempestata di ricordi, disse: -Strana cosa la fotografia-
la sua voce, dapprima vivace e squillante, si era fatta bassa e
profonda, colma di un'armonia inaspettata -Arte recente e
meravigliosa, ma molto ambiziosa: essa cattura momenti pensati per
svanire nell'oblio del tempo e nella fragilità della memoria
umana.
Li cattura e li ferma per sempre. Sono molto grato alla fotografia-
aggiunse dopo un attimo di pausa, in cui si era perso ad osservare
malinconico i volti appesi sulla parete -Senza di essa non potrei
più
ammirare il viso della mia Rebecca mentre cantava: abbiamo cominciato
così, noi due. Io suonavo il sax agli angoli delle strade e
lei
cantava, illuminando con la sua sola voce tutta Brooklyn. Poi con gli
anni il nostro duo è diventato un quartetto e dalle strade
siamo
passati ai locali dalle pareti impregnate di fumo di sigaretta, ma
per noi non c'era palco più prestigioso. Ah, che tempi,
ragazzo mio.
Che tempi!
Peter
ascoltava e non osava parlare: osservava rapito la fotografia
rappresentante il quartetto di cui Charles parlava, riconoscendovi
nel sassofonista lo stesso uomo che in quel momento lo teneva per la
spalla e gli raccontava con affettuosa malinconia la bellezza di quei
tempi passati.
-Adesso
è compito dei giovani rendere omaggio alla dea della Musica-
continuò Bailey, ritrovata la sua naturale
giovialità -Non appena
la nostra Talia avrà trovato un paio di orecchie buone,
sarà lei ad
incantare l'animo dei newyorkesi.
Sentendo
chiamare il nome della ragazza, istintivamente Peter si
voltò nella
sua direzione, incrociandone lo sguardo per un istante: -Quindi era
per l'audizione che eri venuta all'università-
considerò ad alta
voce -Per il party di Halloween. Come è andata?
-Non
molto bene a dire il vero...- rispose vaga la cantante, incapace,
però, di impedire al proprio viso di arrossire di imbarazzo,
cosa
che non sfuggì a Peter, che si affrettò ad
aggiungere: -Non me la
legherei al dito: il professore che gestisce questi eventi ha
insegnato musica tutta la vita, ma, da quel che si dice,
l'età lo
sta privando dell'udito e non è più nemmeno in
grado di distinguere
il suono di un violino da quelo di una chitarra. Sarebbe dovuto
andare in pensione l'anno scorso ma è un tizio piuttosto
caparbio.
Gli
occhi di Talia si spostarono verso l'amica, che ricambiò con
un'espressione che diceva: "Te l'avevo detto!". Sorrise e,
tornando verso Peter, disse: -Mi sento molto più sollevata,
ora.
All'inizio avevo temuto di dover appendere la chitarra al chiodo.
-Sciocchezze!-
si intromise Charles -Ti conosco abbastanza da poter dire che non ti
saresti lasciata abbattere dal primo venuto!
-E
in ogni caso- riprese Peter -Non avresti avuto comunque molta
audience: nessuno va mai al party di Halloween
dell'Università.
Dicono che sia un mortorio.
Un
colpo sordo improvviso fece sobbalzare tutti dallo spavento e si
voltarono verso dove il signor Bailey aveva battuto con enfasi la
mano sul bancone: -Ho deciso!- affermò con soddisfazione
-Organizzeremo un'esibizione dal vivo qui al Daily:
Talia potrà finalmente dar prova di sé davanti a
un pubblico vero e
il Daily
potrà farsi un po'
di pubblicità. La pubblicità è l'anima
del commercio!- citò
solennemente, esibendo un largo sorriso.
Talia
e Chiara si scambiarono un'occhiata emozionata, mentre il signor
Bailey, con la mente completamente immersa nel suo progetto, pensava
ad alta voce: -Sposteremo i tavoli verso la vetrina e libereremo
tutto quell'angolo per piazzare casse e microfono. Talia ed io
prepareremo una scaletta dei brani, mentre Arianne si
occuperà di
allestire le luci e fare qualche piccola decorazione qua e
là. E tu-
aggiunse poi puntando l'indice verso Peter -Ti occuperai delle
fotografie da apporre sui volantini pubblicitari. Se vuoi- aggiunse
più mestamente in un secondo momento, accorgendosi della
propria
imperiosità -Ovviamente ti darò un compenso per
il disturbo.
Peter
rimase per qualche istante interdetto da quella richiesta,
boccheggiando senza sapere cosa rispondere: "È l'occasione
giusta per indagare più da vicino" gli suggerì
una vocina dai
meandri della sua mente.
-Va
bene- rispose infine -Quando cominciamo?
-Subito!-
sorrise l'uomo, dandogli una sonora pacca sulla schiena.
*
-Non
vorrei impicciarmi dei suoi affari, mr.Bailey- esordì
Chiara,
entrando nella cucina e assicurandosi di chiudere bene le porte alle
proprie spalle.
-Ma?-
domandò l'uomo, allacciando meglio le corde del grembiule
che si
erano allentate sulla schiena e mettendo un piatto sporco nella
lavastoviglie.
-Ma
non le sembra di essere stato un poco avventato, assumendo quel Peter
Nonmiricordoilcognome?
-Dici
Parker?- sorrise l'uomo -Capisco quello che vuoi dire: è la
seconda
volta che mette piede nel mio locale e la prima in cui lo vedo in
faccia; non mi sorprende che tu sia confusa, anzi, mi preoccuperei
del contrario.
-Allora
perché?- insistette Chiara, affiancandosi al suo capo e
aiutandolo a
caricare la lavastoviglie.
-Ho
avuto a che fare con persone di tutti i tipi nel corso della mia
vita- spiegò Charles, passando una spugna insaponata nella
cavità
di un bicchiere sporco di succo di frutta -Belle persone, persone
mediocri e persino persone orribili. Ne ho viste davvero di tutti gli
stampi e, in qualche modo, ho imparato a riconoscerle. Non è
stato
sempre così: quando ero giovane ho spesso frainteso per
buona
volontà quello che non era altro che un pessimo scrupolo, ma
ho
imparato dai miei errori e oggi, alla luce di tutti quegli anni,
posso dirmi certo che quel Peter Parker è un bravo ragazzo.
Chiara
non ribatté, ma continuò a sciacquare piatti e a
riporli
nell'elettrodomestico in assoluto silenzio, finché Bailey
non
riprese: -C'é qualcosa che ti turba, mia cara?
-No...
non esattamente- rispose incerta la ragazza -Mi è solo
difficile
accettare pienamente un simile giudizio basato sul... niente, in
realtà.
“Insomma,
Clint per assicurarsi che solo nel condominio non ci fossero
terroristi ha impiegato quasi un mese di ricerche”.
-Capisco
il tuo punto di vista, mia cara- sorrise di nuovo Bailey -E, in
effetti, persino per me è difficile spiegare il mio metodo,
ma ti ho
mai dato motivo di dubitare delle mie scelte?
I
grandi occhi color ebano dell'uomo scrutarono la ragazza senza
freddezza, ma con grande serietà, a cui Chiara
sentì di rispondere
con altrettanta sincerità: -No, mai.
-Allora
abbi fede, Arianne, e concedi a quel ragazzo la possibilità
di
dimostrare che ho ragione. Sono certo che sia tu che Talia trarrete
giovamento dalla sua compagnia.
-Se
lo dice lei...- rispose dubbiosa la fanciulla, che dopo un attimo di
silenzio riprese: -Cosa ha visto in me il giorno in cui ho risposto
al suo annuncio sul giornale?
-Ritieni
che saperlo possa migliorare l'opinione che hai di te stessa?
-No-
rispose Chiara -Conosco il mio valore. Sono solo curiosa di sentire
un punto di vista diverso.
-Ed
è esattamente questo quello che ho visto in te quel giorno,
nonché
il motivo per cui ti ho assunta.
Scese
di nuovo il silenzio, interrotto solo dal rumore dell'acqua che
sgorgava dal rubinetto e dalla ceramica che batteva contro la
plastica degli scaffali della lavastoviglie.
-Aspetta
un momento- disse Chiara, alzando di scatto lo sguardo -“Sia
tu che
Talia trarrete giovamento dalla sua compagnia”? L'ha assunto
per
fare in modo che lui e Talia si frequentassero?
-Diciamo
che ho dato a quei due una piccola spinta- ammiccò il signor
Bailey,
suscitando la risata di Chiara.
*
Sotto
lo sguardo sospettoso del signor Frederick, Peter spostò
dalla
parete uno dei tavoli e, dopo averlo trascinato di qualche metro
più
lontano, prese uno sgabello da dietro il bancone e osservò
quello
che sarebbe stato il suo set per fotografare Talia.
-Arriva
molta luce dalla vetrina- considerò ad alta voce, lanciando
uno
sguardo al vetro -Ci sarà un contrasto piuttosto forte, ci
vorrebbero almeno un faretto e un diffusore.
-Devi
solo premere un pulsante- gracchiò il signor Frederick,
sventolando
la sua tazza di caffé nell'aria -Quando usavo io la mia
vecchia
Polaroid non mi lamentavo certo della luce!
-Ehi,
amico, sto solo cercando di fare un lavoro fatto bene- gli rispose
irritato il ragazzo -Ti dispiacerebbe tenerti per te i tuoi commenti?
-Ragazzi,
comportatevi bene- si intromise Talia, lanciando sguardi minacciosi
ai due litiganti -Non costringetemi a mettervi in due angoli
separati.
-È
lui quello che non è capace a schiacciare un bottone!-
ribatté il
signor Frederick, che però di fronte a un'occhiataccia della
cameriera, non poté far altro che riprendere a bere il
proprio caffé
e a osservare immusonito la scena.
-In
quanto a te- riprese la ragazza, rivolgendo la propria attenzione sul
fotografo -Mi dispiace che il signor Bailey ti abbia coinvolto in
questo progetto così su due piedi, ma non credere che mi
lascerò
fotografare senza un'adeguata preparazione. Non ho nessuna intenzione
di ritrovare la mia faccia da fine giornata di lavoro in giro per le
strade di Brooklyn, chiaro?
Peter
sgranò gli occhi e alzò le mani in
segnò di resa: -Ok, Superstar-
disse -Non avevo intenzione di farti un servizio fotografico nei
panni di cameriera, ma approfitterei comunque dell'occasione per fare
qualche scatto di prova per vedere come rende la composizione.
Ovviamente se mi si lascia lavorare in pace- aggiunse poi, alzando la
voce in direzione del signor Frederick, che borbottò
qualcosa di
incomprensibile in risposta.
-Ehi-
lo rimbeccò Talia, piazzandosi esattamente davanti a lui
-Non ti
permettere di usare quel tono con i nostri clienti.
I
due rimasero fissarsi per qualche istante, l'uno cercando un segno
di cedimento negli occhi dell'altra, ma non trovandone alcuno, Peter
non poté che emettere un leggero sospiro e, imbracciata la
propria
macchina fotografica, disse calmo: -Va bene. Cominciamo?
-Tra
un momento- rispose Talia, con l'ombra di un sorriso soddisfatto
proiettata sulle labbra -Prima devo servire un cliente.
Squadrò
per l'ultima volta i due uomini e, giratasi sui tacchi, prese un
vassoio dal bancone, per poi dirigersi verso un ragazzino che
aspettava impazientemente la sua cioccolata calda.
Dopo
qualche attimo, la ragazza tornò, nuovamente sorridente:
-Ok-
esclamò con un sospiro -Finché non arriva qualche
altro cliente,
possiamo fare tutte le fotografie che vuoi.
-Bene-
esclamò Peter, togliendo il coperchio dall'obiettivo della
macchina
e indicando lo sgabello con l'indice -Siediti lì e vediamo
come
vieni in foto.
Talia
si sfilò il grambiule di dosso e lo appoggiò con
cura su una sedia,
poi si sciolse i capelli, lasciando che cadessero disordinatamente
sulle spalle e lungo la schiena e, infine, si sedette sullo sgabello,
accavallando le gambe e osservando un punto lontano oltre il vetro.
-Proviamone
una così- disse, continuando a guardare fuori.
Per
un istante Peter si soffermò a studiare il profilo della
ragazza, i
suoi lineamenti delicati che si stagliavano contro le forti ombre
create dalla luce del tramonto, i riflessi quasi blu dei suoi capelli
alla luce fretta dei LED e il rosso carminio del suo rossetto; poi
inforcò la macchina fotografica, regolò il tempo
di esposizione e
inizò a scattare, spostandosi ogni tanto di qualche metro
per
catturare diverse pose e inquadrature.
Talvolta
si avvicinava per spostarle una ciocca di capelli fuori posto o per
darle indicazioni riguardo alla postura e Talia, dal canto suo, si
dimostrò essere una modella disciplinata e paziente,
ascoltando
attentamente i consigli del fotografo e mettendoli in pratica alla
perfezione, finché una coppia di donne non entrò
nel locale,
interrompedo quell'attività e costringendo la cameriera ad
allontanarsi dalla postazione per prendere le ordinazioni.
Mentre
Peter osservava sullo schermo digitale della macchina le fotografie
scattate, da dentro la cucina comparve Chiara con un vassoio di
biscotti al cioccolato appena sfornati e, porgendolo al ragazzo,
domandò: -Come procede?
-Stiamo
facendo qualche scatto di prova- rispose Peter, scegliendo dal
vassoio uno dei biscotti più grossi e dandogli un morso
deciso
-Giusto per valutare quali possono essere le pose e le luci migliori.
Diamine, questi biscotti sono fenomenali! Ad ogni modo, la prossima
volta dovrò portare un cavalletto e un faretto per ottenere
delle
foto ottimali.
-E
la modella come se la cava?- sorrise cordiale Chiara.
Il
ragazzo afferrò un secondo biscotto e, con la bocca ancora
piena del
primo rispose: -L'ha presa molto seriamente. Inoltre quando posa
sembra una statua di gesso: non muove nemmeno un muscolo. Certe volte
mi sembra che nemmeno respiri.
-È
una tipa molto atletica. Piuttosto, Peter, visto che sei in pausa, ti
andrebbe di darmi una mano a prendere una cosa?
-Di
cosa si tratta?
-È
uno scatolone di decorazioni di Halloween- rispose Chiara,
conducendolo nel retrobottega -Quello là in alto- aggiunse,
indicandolo col dito -Pesa un po' ed è in una posizione
scomoda. Mi
faresti la cortesia di prendermelo?
-Certo,
non c'è problema.- rispose Peter, osservando lo scaffale e
valutandone l'altezza -Hai una scala?
-Che
testa!- esclamò Chiara, dandosi una pacca sulla fronte -L'ho
lasciata di là in sala. Corro a prenderla.
Il
ragazzo aspettò che la cameriera fosse uscita e,
assicuratosi che la
porta fosse chiusa e che nessuno potesse vederlo, con un salto
raggiunse il soffitto e, appeso a testa in giù,
afferrò saldamente
lo scatolone; si staccò dal soffitto e con una capriola
tornò in
posizione eretta sul pavimento proprio un attimo prima che Chiara
rientrasse nel piccolo magazzino con in mano la scaletta pieghevole.
-Alla
fine non mi è servita- sorrise Peter in risposta allo
sguardo
sorpreso di Chiara, che, ripresasi, ribatté: -Lo sai che le
persone
alte soffrono maggiormente di problemi alla schiena in vecchiaia?
-Come
scusa?- domandò incredulo il ragazzo.
-Nulla,
solo invidia- ridacchiò Chiara, appoggiando la scaletta,
ormai
inutile, in un angolo della stanza -Grazie mille, posso chiederti di
portarlo in sala? Poi prometto di lasciarti in pace nella miglior
compagnia di Talia.
Peter
seguì di nuovo la cameriera lungo le scale e, ritornati
nell'ambiente principale del Daily
Coffee dove
Talia aveva finito di servire le due clienti e di ritirare le
stoviglie sporche, lasciò lo scatolone su un tavolo.
-Soldato
Parker- scherzò Chiara, impettendosi e raddrizzando la
schiena
-Missione compiuta. Riposo!
-Signorsì,
signora!- esclamò l'altro, facendo il saluto militare.
-Se
voi due avete finito- si intomise Talia, avvicinandosi e sfilandosi
di nuovo il grembiule -Possiamo riprendere con le fotografie. E
comunque il saluto si fa con la mano destra, Peter.
Peter
e Chiara si scambiarono una risatina imbarazzata e tornarono ai
rispettivi lavori, l'uno alla macchina fotografica e l'altra di nuovo
in cucina.
-Gli
scatti che abbiamo fatto finora sono piuttosto buoni-
considerò il
fotografo, mentre Talia riprendeva posto allo sgabello -Stasera li
trasferisco su pc e lunedì li mostro al signor Bailey. Se
volessi
portarti la tenuta da battaglia, potremmo anche concludere in circa
una mezzora.
-La
tenuta da battaglia?- domandò confusa Talia.
-Beh,
l'abbigliamento che vorresti avere sul volantino- rispose Peter -E
magari anche la chitarra, così mi fai sentire anche qualche
brano,
visto che fino ad adesso non ti ho sentito cantare nemmeno una nota.
-Se
farai un buon lavoro- rise Talia -Potrai ascoltare tutti i miei
concerti pagando un biglietto scontato del 10%!
-Ah,
grazie- rispose sarcastico l'altro -Che generosità!
Stava
per riprendere a scattare nuove fotografie quando il suo sguardo
cadde su un foglio di carta appeso a fianco della macchina del
caffé;
rimase per qualche istante a fissarlo, incredulo: -Che cos'é
quello?- chiese.
-Cosa?-
domandò a sua volta Talia, volgendo lo sguardo verso il
punto che
Peter stava fissando: -Oh, quello!- esclamò -L'ha fatto
Arianne. Non
ci crederai mai, ma è stata salvata da Spiderman!
Il
ragazzo si avvicinò abbastanza da poter studiare con
maggiore
attenzione il disegno e, più dettagli i suoi occhi scorgeva,
più
rimaneva sorpreso dalla dinamicità e dalla somiglianza del
ritratto:
era quasi come osservare una fotografia in bianco e nero.
-Sei
un fan di Spiderman?- sentì domandare da Talia alle proprie
spalle;
-In un certo senso sì...- rispose vago, quando
all'improvviso il suo
cellulare nella tasca sinistra dei pantaloni vibrò, lo prese
e,
sbloccato lo schermo, lesse quello che era un messaggio da parte
della zia.
Zia
May, h.18.27: Immagino che non ti sarai ricordato dell'impegno preso,
così ho pensato che sarebbe stato meglio, per la cara
Carmen, che ti
rinfrescassi la memoria. Ha comprato per il figlio un televisore
nuovo, ma non ha tempo di andare a prenderlo prima della chiusura del
negozio e non è capace di avviarlo, quindi dovresti andare
al
negozio di elettronica all'incrocio tra la Bredford e la Lincoln e
portargliela al numero 33 di Foster Avenue, appartemento 5B.
Così
impari la prossima volta a prestare attenzione.
Quando
ebbe finito di leggere il messaggio, per poco a Peter non venne un
colpo: totalmente preso dalla sua "missione", si era
scordato del post-it trovato quella mattina.
-Tutto
bene?- chiese Talia, alla quale non era sfuggita l'espressione
smarrita del ragazzo, che rispose prontamente: -Sì, non ti
preoccupare. Il generale May mi ha riportato all'ordine ricordandomi
una promessa che le avevo fatto.
-Chi
è? Tua madre?- domandò incuriosita e divertita la
ragazza.
-Quasi,
in realtà. May è mia zia, ma mi ha tirato su come
un figlio, perciò
per me è alla stregua di una mamma.
-Scommetto
che è una tipa tosta, per riuscire a tenerti in riga!
-Oh,
lo è eccome!- sorrise Peter, riponendo la macchina
fotografica nella
cusodia e infilando il tutto nello zaino -È la persona
migliore che
abbia mai incontrato, dopo mio zio, ma è meglio non farla
arrabbiare
o dalla dolce e affettuosa zia è capace di trasformarsi nel
Sergente
Istruttore Hartman.
-Non
l'ho mai incontrata, questa May- esordì Talia, alzandosi
dallo
sgabello e indossando nuovamente il grembiule -Ma già mi
piace!
Spero ce la porterai un giorno: dille che se racconterà
qualche
storia buffa della tua infanzia, avrà una fetta di torta in
omaggio.
Ovviamente la dimensione della fetta sarà proporzionale alle
risate
che ci faremo!
L'immagine
di zia May circondata dalle cameriere e dal proprietario del Daily,
mentre raccontava le sue figuracce davanti a un pezzo di torta, gli
provocò un brivido freddo lungo la schiena, che
dissimulò con una
risata imbarazzata e, salutando con la mano, scappò dal
locale,
promettendo di ritornare l'indomani.
*
Chiara,
spogliatasi del grembiule, prese la propria borsa da sotto il bancone
e, fatto segno ad Annibale, si avvicinò a Talia, che stava
raccogliendo i bicchieri vuoti di un paio di clienti: -Per oggi ho
finito il turno- esclamò stampandole un grosso bacio sulla
guancia
-Tutti i piatti sono già in lavastoviglie, a parte quei due
bicchieri, ovvio.
-Che
programmi hai per stasera?- domandò Talia con un gran
sorriso -Esci
con qualcuno?
-Certamente,
Annibale adora passeggiare per la città di sera! Piuttosto,
l'amico
Fritz che fine ha fatto?
-Peter?
Ha ricevuto un messaggio dalla zia ed è schizzato fuori come
una
lepre mentre tu stavi in cucina a lavare i piatti.
-Che
tipo strano...- considerò Chiara, aggiustandosi la borsa
sulle
spalle -Ad ogni modo, domani mattina ci vediamo per il jogging?
-Certamente,
stesso posto stessa ora.
-A
domani, cara.
-A
domani.
Affiancata
dal fedele Annibale, la ragazza uscì nel freddo della serata
e
attese che il suo autobus arrivasse, poi, trovato un posto a sedere
libero, si accomodò sulla plastica del sedile, aspettando di
giungere a destinazione: aveva ancora un po' di tempo prima di dover
andare da Tony, così ne avrebbe approfittato per farsi una
doccia e
cenare con calma.
Erano
passati quasi sei mesi da quando era arrivata a D.C. e, sdraiata sul
suo letto, Chiara stava cercando di concentrarsi sul testo di
grammatica spagnola che teneva in mano, ma, per quanto ci provasse,
la sua mente aveva iniziato a giocarle dei brutti scherzi: era da
circa sei settimane che aveva riscontrato serie difficoltà a
dormire, arrivando progressivamente a trascorrere intere notti a
fissare il soffitto nell'oscurità senza riuscire ad
addormentarsi.
Si
sentiva stanca ad ogni ora del giorno e della notte, le sue
capacità
di apprendimento erano rallentate e aveva smesso di trarre piacere
dai pasti.
"Come
se il cibo della mensa fosse vagamente appetibile" pensò la
ragazza, aprendo la zip della felpa che indossava: l'aria si era
fatta improvvisamente calda e difficile da respirare.
Aveva
la sensazione che le pareti attorno a lei si stringessero, come per
schiacciarla su quel letto, togliendole il respiro, affievolendole la
vista e costringendola in uno spazio angusto. Senza che se ne
rendesse conto, le sue mani iniziarono a tremare incontrollabilmente,
rendendola incapace di reggere ulterioremente il libro, che
finì
aperto al suolo; spaventata da quella reazione, incrociò le
braccia,
infilando le mani sotto le ascelle nel tentativo, inutile, di
fermarle, e iniziò a inspirare ed espirare profondamente,
concentrandosi sui battiti accelerati del proprio cuore, contandoli.
"Uno...due...tre...quattro..."
ma quell'esercizio, invece di aiutarla a calmarsi, non fece che
aumentare la sensazione di cluastrofobia; i respiri si fecero
affannosi e le orecchie presero a fischiare fastidiosamente, come una
teiera lasciata sul fuoco.
"Chiara,
calmati" si disse la ragazza, cercando di prendere fiato "Ti
prego, calmati".
Ribellandosi
a quella condizione, la ragazza tentò di alzarsi, ma non
appena le
ginocchia sentirono il peso del suo corpo, cedettero, facendola
rovinare sullo scendiletto.
Tentò
di chiamare aiuto, ma quando aprì bocca la sua voce le
morì in
gola; cercò, dunque, di strisciare, cercando un appiglio con
le
braccia e puntellando i piedi in un grottesco passo del giaguaro, in
direzione della porta.
Usando
le proprie mani come arpioni, spinse il suo corpo verso l'uscita
dalla stanza, ma a pochi metri dalla porta le sue forze la tradirono
e fu di nuovo incapace di muoversi.
Rimase
così, dunque, distesa al suolo, la schiena scoperta a
contatto con
il freddo pavimento, ad aspettare che qualcosa cambiasse;
sperò per
un momento che qualcuno, incuriosito da quella porta sempre chiusa,
cercasse di scoprire cosa vi si nascondeva dietro e la trovasse, ma
di nuovo le tornarono in mente le parole di Natasha: chiunque avesse
saputo di lei sarebbe entrato nel mirino dei "cattivi". E
questo non poteva permetterlo.
Si
mise, così, ad osservare il soffitto e, chiudendo gli occhi,
immaginò di vedervi il suo vecchio lampadario, poi,
abbassando lo
sguardo, l'ampia finestra che volgeva a oriente, verso i campi, il
suo letto, con tutti i suoi bei cuscini soffici e colorati, la
libreria con i suoi testi preferiti, la scrivania piena di fogli di
appunti e penne sparse in giro, la sua vecchia porta e, oltre di
essa, il corridoio, le scale, il salotto, la cucina, la veranda, il
giardino, la strada, la sua città...
Senza
quasi che se ne rendesse conto, il suo respiro tornò
normale, così
come i battiti del suo cuore, le mani smisero di tremare e le
ginocchia, tornate in forze, riusciro di nuovo a sostenerla;
esitante, tornò in posizione eretta.
-Toc
toc- sentì dire da Natasha dietro la porta.
-Avanti-
rispose, sforzandosi di avere un tono di voce normale; la porta si
aprì, mostrando una Natasha avvolta in abiti civili, che,
sorridendole, entrò nella camera: -Sono tornata da poco da
un lavoro
e volevo vedere come te la cavavi. Hai più disegnato
dall'ultima
volta che...
Ma
non riuscì a finire la frase, perché Chiara,
senza dire una parola,
si era buttata tra le sue braccia, stringendola a sé con
forza.
Finalmente
a casa, si tolse scarpe e cappotto e, riempita la ciotola di Annibale
con acqua fresca, andò nel bagno ad far scaldare l'acqua.
Ripensare
al suo primo attacco di panico le aveva messo addosso un gran freddo
e non vedeva l'ora di scaldarsi sotto il getto caldo della doccia;
dopo tanto tempo, il ricordo di quei momenti aveva ancora effetto su
di lei e, soprattutto, il responso dato dal consulente scientifico di
livello 8, il dottor Donald Blake, che Natasha e, conseguentemente,
Fury avevano interpellato dopo quell'episodio.
-Si
è trattato di un attacco di panico- aveva sentito dire
dall'uomo,
origliando attraverso la porta dell'ufficio del direttore Fury
-Quello, più l'insonnia e i valori di colesterolo e ferro
così
bassi emersi dalle analisi del sangue, sono sintomatici di un
disturbo depressivo in uno stadio non iniziale, ma nemmeno
eccessivamente avanzato. Se preso in tempo e curato adeguatamente,
può essere affrontato con successo.
-È
quello che abbiamo intenzione di fare- si intromise Natasha, che, a
giudicare dal rumore provocato dai suoi tacchi, era avanzata di un
passo in direzione del medico.
-Ne
sono certo- proseguì l'uomo -Ma è un'altra la
questione che mi
rende perplesso.
-Di
cosa si tratta?- chiese Fury.
Chiara
drizzò le orecchie, tutta l'attenzione concentrata
nell'ascolto: -La
ragazza ha una strana forma di leucocitosi, ma né dalla
visita né
dalla sua storia medica sono emersi altri sintomi che spesso
accompagnano questa anomala quantità di globuli bianchi.
Insomma,
bisognerà fare un'indagine più approfondita, ma
non ci sono segni
di infezioni, la ragazza non soffre di asma, non vi è
traccia di
alcuna malattia autoimmune diagnosticata... dovrei fare qualche
ecografia per scartare anche l'ipotesi del linfoma di Hodgikn e di
leucemia, ma sembra che non abbia alcuna correlazione con patologie
note.
Il
getto caldo l'accolse in un abbraccio rassicurante e rinvigorente,
che la liberò dalla stanchezza della giornata di lavoro e la
fece
sentire, quando la doccia fu terminata, come una farfalla appena
uscita dal bozzolo.
Percependo
il freddo pungente, Chiara si affrettò ad avvolgersi in un
asciugamano e a frizionarsi i capelli, poi, notando che lo specchio
si era coperto da una spessa patina di vapore, iniziò a
disegnarci
sopra con il dito, come quando era bambina. Disegnò
nell'angolo in
basso a sinistra una casa tra le colline, con tanto di staccionata
per il giardino, poi si spostò più un alto e
inizò a rappresentare
la sala del trono di Asgard, con le ampie finestre coperte da lunghi
drappeggi leggeri come brezza di primavera, e, infine, nell'angolo in
basso a destra, l'Albero degli Elfi Chiari, con le larghe piattaforme
e i ponti sospesi.
Dopo
il primo attacco di panico, ripensare ad ambienti noti si era
rivelato un piccolo aiuto per affrontare la tachicardia e la
calustrofobia, sicché, a furia di riportare alla memoria
tutti quei
dettagli che aveva avuto modo di apprezzare nel suo "viaggio",
si era decisa a riportarli su carta e, successivamente, su tela. I
primi tentativi erano risultati degli ammassi informi di colori e
forme indefinibili, ma con il tempo e la pratica, la sua mano era
diventata più obbediente e la sua mente più
accurata, finché non
era riuscita ad ottenere un risultato accettabile.
Il
suo primo dipinto su tela, infatti, rappresentava la veduta di Asgard
che aveva ammirato la prima volta dalla balaustra lungo la quale Thor
e Volstagg l'avevano condotta per l'interrogatorio con Odino. Quando
Natasha l'aveva visto, aveva espresso il desiderio di poterlo avere
in dono e così, lusingata da quella richiesta inaspettata,
Chiara
aveva acconsentito, anche come forma di ringraziamento per le
particolari attenzioni che la spia russa, nei mesi di permanenza
presso il Triskelion, le aveva riservato.
Oramai
il suo dito aveva calcato quasi tutta la superficie dello specchio,
lasciando solo poche aree bianche, troppo piccole per poterci
disegnare, così prese un asciugamano e pulì il
tutto, ritrovando il
proprio riflesso nella superficie riflettente. Era così
diversa
dalla ragazza che quattro anni fa viveva la sua vita normale nella
stupenda città di Siena. Ora quei grandi occhi scuri che la
guardavano non erano più i suoi, i capelli lunghi e
scompigliati
erano stati sostituiti da un caschetto corto, appiccicato al collo
dall'acqua.
Quell'espressione
infantile e irriverente che quattro anni prima l'avevano subito resa
simpatica al dio del Tuono era svanita, come i petali di una rosa
seccano alla bollente luce del mezzogiorno d'Agosto; da quelle ceneri
erano nate spine e da domestica, la rosa era divenuta un rovo.
Sospirò:
si vedeva invecchiata e sfinita, ma una sola cosa non era mutata in
tutto quel tempo. L'immagine che lo specchio le restituiva le
appariva ancora incompleta, una metà di un disegno
più grande.
Chiuse
gli occhi, fece un quarto di giro sul proprio asse e, stringendosi
nell'asciugamano, uscì dal bagno, in direzione della camera
da
letto, dove terminò di asciugarsi e vestirsi, sotto lo
sguardo
affettuoso di Annibale.
*
Se
spostarsi in metropolitana con uno zaino sulle spalle e una macchina
fotografica appesa al collo è complicato, Peter Parker
quella sera
scoprì quanto più difficile potesse esserlo
trasportando un
televisore da 32 pollici con tanto di scatola.
Per
il giovane vigilante dalla forza migliorata, il problema del
trasporto non risiedeva certo nel peso dell'oggetto né,
tantomeno,
nel mantenere l'equilibrio, bensì nel caos creato dai
newyorkesi,
che, ammassati sui vagoni della metropolitana, che lo spintonavano ad
ogni pié sospinto, rendendogli estremamente difficoltoso il
viaggio.
Quando,
finalmente, il treno raggiunse la fermata di Newkirk Avenue, il
ragazzo poté riprendere a respirare normalmente e,
appoggiato lo
scatolone sui piedi, di sgranchirsi un po'. Nonostante il sole fosse
ormai calato da tempo sulla città, l'illuminazione
artificiale
sopperiva perfettamente alla mancanza, illuminando a giorno la via
trafficata, così Peter, non volendo indugiare ulteriormente
per non
fare tardi alla ronda notturna, si caricò nuovamente il
televisore
sulle spalle e si incamminò con sicurezza in direzione dell
33 di
Foster Ave.: pattugliare la città nottetempo lo aveva reso
una sorta
di navigatore ambulante, sviluppandogli, inoltre, un certo sesto
senso circa la geografia della sua città. In pratica, aveva
visto
tante di quelle strade e tanti di quei quartieri, da riuscire a
individuare una serie standard che si ripetevano un po' ovunque.
Infatti, di lì a un quarto d'ora si ritrovò di
fronte al vecchio
portone di metallo del condominio, cercò il nome
dell'infermiera tra
quelli del citofono e suonò.
-¿Sì?-
chiese una voce femminile, resa metallica dall'altoparlante.
-Buenas
tardes signora, sono Peter, il nipote di May Parker- rispose il
ragazzo.
-Pedro!-
esclamò allegra la donna -Entra, niño!
Con
uno scatto la serratura del portone si aprì e Peter,
nascosto dietro
lo scatolone, scivolò nell'ingresso e iniziò a
salire le scale;
all'interno il palazzo era piuttosto anonimo: pavimento grigio,
pareti intonacate di bianco, vecchie scale scricchiolanti di legno e
numeri in ottone ossidato affissi su ogni porta. Insomma, un ambiente
ben diverso dalla villetta a schiera in cui abitavano lui e la zia.
Quello che, però, notò subito, fu il forte rumore
della strada, che
rimbombava sulle pareti in una fastidiosa eco.
"Non
riuscirei mai a prendere sonno qui dentro" considerò mentre
raggiungeva il quinto piano e, alla sua sinistra, la porta
contrassegnata dal 5B di ottone si apriva: -¡Hola Pedro!-
esclamò
una donna, che Peter dedusse fosse Carmen -Che piacere conoscerti!
May mi ha raccontato un sacco di cose su di te!
Il
ragazzo sorrise imbarazzato, ben sapendo quanto zia May tendesse ad
esaltare un po' troppo le sue qualità con amici e colleghi:
-Dove lo
porto?- chiese, riferendosi al televisore.
-Da
questa parte, prego- rispose prontamente la donna, addentrandosi
nell'appartamento e guidandolo attraverso l'ordine e la pulizia delle
stanze, finché non arrivarono davanti a una porta recante un
grosso
poster dei New York Giants.
"Scommetto
che questa è la stanza del figlio" sogghignò tra
sé il
ragazzo, ammirando i colori bianco, blu e rosso del logo della
squadra di football, mentre Carmen gli faceva strada: -Carlos compie
tra poco gli anni e verrà a trovarmi- stava raccontando
entusiasta
-È un ragazzo molto diligente e studioso e sarà
felicissimo di
trovare il telvisore nuovo al suo ritorno! Abbiamo guardato spesso il
football assieme quando era piccolo, ma ancora oggi non riesco a
ricordarmi tutte le regole.
Nel
frattempo gli aveva indicato un basso mobile bianco, accuratamente
predisposto ad accogliere il nuovo elettrodomestico, così
Peter
l'aveva appoggiato lì accanto ed aveva iniziato a studiare
la parete
per assicurarsi che vi fossero tutte le prese necessarie.
-Vuole
che glielo installi?- domandò.
-Sì,
por favor. Se non ti è di troppo disturbo.
-Nessun
disturbo, non si preoccupi- si affrettò a rispondere Peter
-Ci vorrà
solo qualche minuto in più.
Non
appena la donna l'ebbe lasciato da solo, aprì lo scatolone e
ne
estrasse il contenuto, collegando fili e prese di corrente ai loro
posti.
Si
accertò che il televisore si accendesse e che lo schermo non
avesse
difetti di sorta, poi iniziò a installare i vari canali,
assicurandosi che non ci fossero interferenze e che tutto funzionasse
adeguatamente.
Tale
attività lo assorbi completamente, facendogli perdere la
cognizione
del tempo, al punto tale che, quando Carmen rientrò nella
stanza
circa un'ora dopo, gli parve che non fosse passato nemmeno un minuto.
-Come
sta andando?- chiese la donna con un largo sorriso e porgendogli un
vassoio recante un grosso sandwich, un bicchiere di succo di frutta e
una grossa fetta di torta al cioccolato.
-Bene-
rispose Peter -È praticamente finito. Non doveva disturbarsi
a
prepararmi da mangiare.
-Vuoi
scherzare? È il minimo che possa fare per ringraziarti,
niño.
Un
leggero imbarazzo depose un velo di rossore sul volto di Peter, che
rispondendo al sorriso smagliante della donna con uno impacciato e
stiracchiato, iniziò a mangiare lentamente, mentre Carmen
guardava
entusiasta la televisione.
-Soy
così contenta che funzioni bene!- esclamò la
padrona di casa,
battendo le mani dalla gioia -Carlos sarà muy felice.
Potresti
venire a trovarci qualche volta! Tu segui il football?
Peter
terminò di bere il succo di frutta e, riposto il bicchiere
sul
vassoio, rispose: -Mio zio era un grande appassionato di sport; ha
cercato di trasmettermi il suo interesse, ma ha rinunciato quando mi
ha scoperto a leggere di nascosto un testo di chimica durante una
partita del Super Ball.
-Mi
ricordo di Benjamin- disse Carmen, suscitando lo stupore del ragazzo
-L'ho incontrato solo poche volte, purtroppo, ma si è sempre
dimostrato gentile. Una volta si è presentato in ospedale
con un
grosso mazzo di fiori per May! Mi è dispiaciuto molto quando
ho
saputo che...- fece una pausa imbarazzata, cercando di trovare le
parole adatte -Il Signore lo aveva chiamato a sé- concluse.
-Grazie-
sospirò Peter -Zio Ben era il migliore.
"Anche
Gwen lo era".
In
un battito di ciglia accadde un fatto che al ragazzo non parve subito
chiaro, ma quando egli sentì la pressione attorno al petto e
alla
schiena intensificarsi realizzò che quella gentile
sconosciuta lo
aveva cinto in un abbraccio caldo e materno, nel quale Peter si
concesse di sprofondare per qualche istante.
-Lo
siento- disse Carmen, sciogliendo l'abbraccio con la stessa
velocità
con cui vi aveva dato inizio -Mi sono lasciata trasportare.
-Non
c'è problema- ribatté educatamente Peter -Ora
però dovrei proprio
andare. Grazie della cena.
-Claro,
grazie a te per l'aiuto.
Carmen
attese che Peter avesse ripreso tutta la sua roba e lo condusse alla
porta, dandogli commiato con un ultimo sorriso e una carezza sulla
schiena, dopo i quali si ritirò nel suo appartamento,
lasciando il
ragazzo da solo sul pianerottolo.
Scendendo
le scale Peter ripensò a quell'abbraccio inatteso, il cui
calore,
nella sua mente, si stava già raffreddando al sospetto che
fosse
stato mosso dalla pietà. Non era corretto nei confronti di
Carmen
interpretare a tal modo quel gesto tanto spontaneo, Peter lo
riconosceva, ma, dall'altra parte, egli aveva sviluppato un inconscio
rigetto nei confronti di chi tentasse di consolarlo: dopo la morte di
Gwen sembrava che chiunque lo conoscesse si arrogasse la
facoltà di
comprendere i suoi sentimenti, esibendosi in frasi e in contatti
fisici che, a parer loro, avrebbero avuto l'effetto di farlo stare
meglio.
Inizialmente
aveva accolto educatamente quelle carinerie, apprezzando perfino
l'impegno e l'interesse, ma con il passare del tempo non era
più
riuscito a tollerare quella profusione di aiuti e sostegno, dietro
alla quale aveva iniziato a leggerci null'altro che pietà.
E
Peter Parker non aveva bisogno di essere compatito.
Carmen
era stata gentile, ma alla fine non si era dimostrata diversa da
tutti gli altri, vedendo in lui qualcuno per cui provare
pietà. Lo
scatto della maniglia di una porta lo distrasse dai suoi pensieri e
intravedendo la figura che ne uscì, scattò come
una molla verso il
soffitto, aggrappandocisi e rimanendo in attesa: la persona che era
uscita dall'appartamento e che stava scendendo le scale era proprio
Chiara.
Angolo
dell'autrice:
salve a tutte e benvenute alla fine di questo capitolo! Come sempre,
esordisco ringraziando di cuore AlessiaOUAT96, Glendolina e
Ragdoll_Cat per il loro sostegno, espresso in forma di splendide
recensioni di cui sono un'avida lettrice.
In
secondo luogo, ci terrei a precisare subito che io non sono un
medico, né uno psicologo, né studio queste
materie e che le
informazioni riguardo alla condizione di salute di Chiara provengono
da ricerche su internet, di conseguenza non sono medicamente
affidabili. Lo so, vi sembrerà una precisazione superflua ma
credo
sia importante metterla per iscritto (un po' come quando negli spot
televisi sui coltelli da cucinano mostrano un tizio che affetta al
volo un ananas con la scritta "Non fatelo a casa" in
sovrimpressione. A nessuno verrebbe in mente di farlo, ma è
giusto
che venga detto).
Detto
ciò, eccoci qui! L'università è una
brutta bestia, ma, anche se
sul filo di lana, sono riuscita a pubblicare questo capitolo
(urrà!).
Come avrete capito già dal titolo (molto originale) prima
ancora di
buttarvi sul capitolo, il nostro Peter è ufficialmente
diventato
parte dello staff del Daily,
anche se con una mansione un po' diversa. Voi che ne dite? Il
ragnetto urbano avrà gradito questo incarico? Questa nave
salperà?
;)
Come
in ogni capitolo, un nuovo episodio dei quattro anni trascorsi da
Chiara sotto l'ala dell'aquila dello S.H.I.E.L.D. è stato
svelato e
un nuovo carico di ottimismo arriva dallo schermo direttamente nelle
vostre case, non c'è bisogno che mi ringraziate. ^-^
Dulcis
in fundo, la
sorte è propizia al nostro sventurato Peter e l'oggetto
delle sue
indagini gli si manifesta sul cammino come un miraggio. Cosa
succederà? Quanti muri dovrà scalare e quanti
televisori dovrà
trasportare il nostro amichevole Spiderman di quartiere prima di
arrivare alla soluzione del mistero?
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e che abbia stuzzicato il vostro
interesse. Vi ringrazio per la lettura e, se ve la sentite, potete
lasciare un piccolo commento nello spazio delle recensioni, oppure
spedirlo al 33 di Foster Avenue, Brooklyn. Nella busta, mi
raccomando, mettete qualche francobollo in più per la
risposta ;)
Un
abbraccio a tutte voi e buona Pasqua!
Lady
Realgar
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