My old man is a tough man

di BukowskiGirl2
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


-Victoria Lewis, vent’anni. Sono qui per il ruolo di Andrea, la protagonista.-
-Bene, hai il copione. E’ come un gioco ad eliminazione, non ci sono mezzi termini: capirai se hai la parte, dal fatto che rimarrai fino alla fine. Se ti faccio sostituire, vuol dire che il ruolo non è tuo. Se vedi che il tuo partner cambia, non bloccarti, e fai finta che non sia successo niente.- disse. –Come d’altronde ci si aspetta da te.- aggiunse.
 
Tu credi in me?
Certamente, ti credo.
Lo dici con quell’espressione, la classica di chi pensa di aver vinto. Hai vinto cosa, esattamente? Che vittoria ottieni dalla mia sconfitta? Che sadico piacere deriva dal mio dolore?
 
Il suo partner, come previsto, fu sostituito più e più volte. Ma lei no, lei restava lì, come se non ci fosse nessuno. Mentre la gente continuava ad entrare, nell’anfiteatro, lei, con la massima dimestichezza, si rivolgeva al suo compagno che, a causa dei cambi, spesso era inesistente. La si vedeva parlare col vuoto, come se fosse l’unica cosa che da sempre faceva.
 
Ti ho detto molte volte di non essere così teatrale, mia cara.
Teatrale, io. Con la sofferenza che provo e il dolore che mi hai arrecato. Marco, vorrei fossi un bambino, per schiaffeggiarti.
Puoi farlo comunque, se vuoi.
 
-Stop, stop!-
-Qualcosa non va?-
-No, va benissimo, signorina Lewis. Semplicemente il provino è finito e tu puoi andare.-
-Questo significa che…-
-Che riceverai una lettera, fra qualche giorno, in cui sono spiegate tutte le cose che devi fare, i giorni in cui devi venire e tutti gli orari e le riunioni. Ti arriverà anche, in un pacco, il copione per intero. Cerca di studiarlo, anche se non tutto. -
-Vi ringrazio infinitamente, grazie.-
-Basta così, signorina. Per oggi può andare.-
-Grazie. Arrivederci.-
Uscì dallo studio con un’espressione inesistente. la cugina la accolse con un grosso sorriso, emozionata sicuramente più di lei. Intuì dall’espressione che, magari, non aveva passato il provino. Pensò quindi al mondo in cui consolarla: -Se non è andato bene non fa niente… Lo sai che puoi sempre riprovare con qualcosa di minore…-
-Mi hanno presa.-
-Cosa?-
-Mi hanno presa, la parte è mia.-
Quasi non credette alle sue orecchie e iniziò a saltellare, strattonandola: -E allora?! Cos’è quella faccia?
-Niente, sono molto stanca. Andiamo.-
La povera donna era sfinita dall’indifferenza dell’attrice, ma fece finta di essere collaborativa perché conosceva il suo pessimo carattere. Arrivarono ad una strada che sembrava non finire. Da lontano si vedevano case su case e palazzi tutti uguali, fiori, alberi, decorazioni inutili. La casa era una delle prime: i genitori l’avevano comprata di proposito, per riconoscerla fra le tante.
Victoria entrò senza aggiungere parola e, dopo aver poggiato lievemente lo zainetto sul tavolo, entrò in bagno, chiudendosi la porta alle spalle.
Lo sguardo stranito della madre, incontrò quello della cugina, che rispose facendo spallucce e giustificandola: -E’ solo molto stanca.-
Uscendo dal bagno con delle orribili borse sotto gli occhi, la ragazza comunicò con leggerezza alla madre quello che sarebbe accaduto prossimamente: -Mi traferirò in un’altra città, ovviamente, perché il lavoro che farò lo richiede. Lo stipendio sarà sufficiente a non rompervi la testa ogni mese per l’affitto.-
-Vicky, come farai senza tutto il tuo ambiente?-
-Il mio ambiente, mamma? Cos’è il mio ambiente?-
-Lo sai, i tuoi amici, la tua compagnia del sabato.-
-Il sabato, per la cronaca, non esco mai. Ti ho ripetuto decine di volte che odio questa città e le mie amiche, quelle che tu chiami mie amiche, sono le persone che mi chiedono di uscire solo per sembrare più belle di qualcuno.-
La madre le sfiorò il viso con la mano, cercando di trattenerla: -Tu sei molto, molto bella. Non hai bisogno di conferme da persone che non ti meritano.-
-Mamma, voglio lasciare uscire la mia ambizione.-
-Va bene. E dove andrai?-
-In Italia, probabilmente a Roma.-
-Te la senti di tornare in Italia?-
-Evidentemente sì.-
Fu breve il tempo di attesa, la giovane Victoria preparò i bagagli pochi giorni dopo e si diresse, con la madre, all’aeroporto di Heathrow. Guardava fuori dalle grosse vetrate dell’edificio, apprendendo lentamente che forse era un po’ in anticipo. La madre l’aveva salutata qualche ora prima, quando lei aveva finto di andare al gate, mentre andava semplicemente in bagno: la povera donna non era fatta per quell’ambiente e non ne conosceva le caratteristiche.
Era vestita di lino, il suo corpo scheletrico si intravedeva sotto il tessuto bianco. Si avvicinò ad una piccola edicola, osservò a lungo un giornale che parlava di cinema e nuove scoperte.
Lucano has found a new shining star, Victoria
Non ne fu entusiasta, non si aspettava sicuramente di trovare il suo nome su una copertina, ancora prima di avere iniziato. Sedutasi ad attendere, pensò a tutte le volte che avrebbe odiato se stessa per aver fatto quella scelta. Pubblicizzare la propria vita è tanto pericoloso quanto noioso e frustrante, si disse.
La voce solitamente incomprensibile dell’annunciatrice al microfono, la invitò a dirigersi verso l’uscita che l’avrebbe portata fuori da tutto quello in cui era radicata. Fece quindi dodici passi, in maniera naturale, prima di bloccarsi. Durò poco la sua insicurezza.
Sull’aereo realizzò che era davvero stanca e che avrebbe chiesto al suo compagno di viaggio di svegliarla, appena arrivati all’aeroporto di Fiumicino.
-Senta, scusi.- cercò di catturare lo sguardo del passeggero che scappava al suo, cercando qualcosa fra i piedi.
-Ha perso qualcosa?- ripeté per farsi sentire.
-No, no. Qui è troppo stretto, troppo stretto!-
-Stretto.-
-Esatto, stretto. E’ strettissimo! Guardi, c’è a malapena lo spazio per le gambe!-
-Dovrebbe stare più tranquillo.-
-No, no! Io voglio scendere!-
-La smetta, siamo in fase di decollo.-
-Comandante, comandante!-
Alzò lentamente il bracciolo, prese un respiro profondo e con aria indemoniata si voltò verso la persona al suo fianco: -LA SMETTA DI URLARE! CI LASCI IN PACE!-
La hostess la osservò con riconoscenza e Victoria tornò al suo posto, come se nulla fosse successo.
Farfugliò qualcosa fra sé e sé: -Mi è anche passato il sonno, porca miseria.-
Il volo fu molto breve e silenzioso, il viso terrorizzato del suo compagno di viaggio non servì a farla sentire in colpa. All’aeroporto la aspettavano un autista, un’assistente (o comunque una donna che aveva tutta l’aria di essere un’assistente) e Lui in persona, il regista, l’uomo onnipotente che aveva avuto la capacità di farle cambiare vita.
-Buongiorno, mia cara.-
Li osservò tutti e tre, lentamente, uno dopo l’altro. Ci pensò un attimo, poi aggiunse: -Buongiorno.-
-Spero il volo sia andato bene. Se solo mi avessi detto che volevi subito partire, avrei prenotato per te un jet.-
-Andava bene la economica, grazie. Vogliamo andare?-
-Certamente. Per il momento ti abbiamo un appartamento in torno alla zona in cui lavoreremo. Più tardi potrai scegliere qualcosa da sola.-
-Va bene.-
I tre si guardarono in viso, sorpresi dal mancato entusiasmo della ragazza.
Salirono in macchina, una Mercedes nera brillante. Victoria si sentì scivolare il passato addosso. E fu dolce quel suo momento. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


-Bene, posa pure tutto qui. A queste cose pensiamo dopo. Loro sono Lorenzo, Antonia, Giuliano, Matteo e Giuditta.-
-Antonia, sei tu?-
La ragazza la guardò stranita, poi le si illuminò lo sguardo: -Victoria? Oh Dio, la Gran Bretagna a Roma! Fatti abbracciare.-
Le saltò letteralmente addosso, non riscontrando certo il suo pieno consenso.
-Forza, dobbiamo ancora fare un lungo percorso.-
L’Uomo della Pace la trascinò via, salvandola da quello che, a parere di lei, era uno scenario disgustosamente mieloso. Si diressero - passando attraverso tende, tendoni, riflettori e microfoni - verso un tavolo al quale erano seduti quattro uomini eleganti e invitanti.
-Lui è Andrea Guidi, il produttore. Qui abbiamo Mario Germani, Luca Sentiero e Michelangelo Bevilacqua: sceneggiatore, costumista e direttore tecnico. Imparerai a compiacerli.-
Gli uomini la guardarono con sguardo affamato e fecero a turno un sorrisetto malizioso. Victoria non si sentì a disagio, certamente le serviva per nutrire il suo ego.
-Ah, dimenticavo. Amelia! Amelia! Eccola. Lei è Amelia, sarà la tua manager. Sai, tipo consigli professionali, accompagnamento fisico, gestione dei tuoi impegni.-
-Impegni.-
-Sì, sai, interviste, conferenze, programmi televisivi.-
-Certamente… Posso parlarti?-
-Qualche problema?-
Si misero in disparte.
-Io… Sai, può sembrare stupido e sorprendente insieme, per voi che cercate qualcuno di assolutamente professionale. Ma io…non sono abituata a tutto questo. Come faccio ad abituarmi così velocemente? Non so ancora mai stata su un set vero e proprio, mai con altri attori come me, mai a contatto con le telecamere. Dico solo, come fai a puntare tutto questo su di me?-
-Ascoltami, mia dolce, dolcissima Vicky. Il tuo viso è stato considerato singolare da ogni essere vivente che respira, qui dentro. Sono rientrato e tutti erano tipo “Giorgio, ma come hai fatto!”, “Giorgio, è una favola!”. Io non rovinerò il lavoro di 4 mesi per le tue stupide paure.-
-E se questo non dovesse piacermi?-
-A chi non piace, mia cara? Avanti, non pensarci. Per oggi è tutto, Amelia ti accompagnerà al tuo appartamento.-
Lo guardò un attimo, sperando di intimorirlo. Il suo stupido sorriso soddisfatto non voleva staccarsi dal suo viso. Mentre le certezze della vulnerabile Victoria cadevano rovinosamente a pezzi, la donna dal nome generalmente francese le si avvicinò, le mise una mano sulla spalla e le riferì: -La strada non è lunga, presto potrai rilassarti e fare un bagno caldo.-
Pochi minuti dopo, era già immersa fino al collo in una brodaglia al profumo di rose e latte. Magari latte di rose. Il dolce rumore dell’acqua e il nauseante fragore del suo corpo rotante, le conciliavano un sonno leggero, simbolo di un rilassamento ben riuscito. Il suo raggiungimento del nirvana fu bloccato dal suono sgraziato del campanello. Qualcuno, dietro il suo portone d’ingresso, fremeva, spostando i piedi velocemente e sospirando. Ebbe il tempo di farsi abbracciare dall’accappatoio e lentamente percorse il lungo corridoio che divideva il bagno dalla sala d’entrata. Il campanello suonò una seconda volta e lei sbuffò. Mentre apriva si accorse che i suoi capelli grondavano d’acqua e coprì interamente la sua testa, compreso il viso, con l’asciugamani. La persona dietro la porta mostrò di avere una voce e disse con tono incerto: -Allora sei tu…Victoria?-
Rispose di sì prima ancora di vedere il volto dell’ospite. Scostato il telo dagli occhi, potette meravigliarsi dovutamente. I suoi occhi si spalancarono e con fare lesto chiuse per bene l’accappatoio che lasciava intravedere il suo seno.
-Io sono davvero… lo sa, mi dispiace. Non mi aspettavo di…insomma, sa…- sospirò –Chi è lei?-
L’uomo era insicuro quanto lei, della riuscita di quella visita. Non seppe spiegarsi il reale motivo del suo arrivo, semplicemente disse: -Sono l’inquilino del pian terreno. Sono come il segretario della portinaia, che sta di fronte a me. Ho comunque sentito che… che tu sarai la protagonista di un importante film, che tu… perché posso darti del Tu, no?-
-Oh, certamente.-
-Bene, il fatto è che, niente, abito al primo piano. E allora mi è sembrato carino che non ti dovessi sentire a disagio, a scoprirlo solo dopo. No, no. Forse la verità è che volevo proprio vedere chi era Victoria. Sai com’è, non è importante se sono del primo piano o no, l’importante è che se vuoi maggiori informazioni su qualsiasi cosa, o sulla città o sul condominio, dillo pure.-
-E’ molto gentile, ti ringrazio. Tu sei…?-
-Alfonso. Mi chiamo Alfonso.-
Aveva un viso angelico, Alfonso. E i capelli biondissimi, Alfonso. Pensandoci bene non era un nome che le piaceva, Alfonso. Ma si sa che, rimanere folgorati da qualcuno, è facile come inciampare e cadere in una pozzanghera. Forse troppo difficile da nascondere.
-Suppongo tu voglia sapere qualcosa di più sul film alla quale stiamo lavorando.-
-Oh, sarebbe così bello… grazie.-
-Peccato che ne so forse meno di te. Sono arrivata ieri e mi hanno presentato così tante persone, così tante indicazioni, istruzioni. Insomma, tante cose da seguire. Non so nemmeno con chi lavorerò e come.-
-Ah, io lo so. Ci saranno Caroline Clare, Jeremy Irons e Justin Letman.-
-Credo di capire che ti si può trovare agli angoli del red carpet, con una rosa rossa e cento lacrime. E’ così?
Sorrise abbassando la testa: -Probabilmente.-
-Ti ringrazio delle informazioni, ma se non ti dispiace io tornerei al mio bagno rilassante.-
-Oh! Certamente. Che maleducato, mi dispiace. Vai pure, io torno nella mia casa. Sai, al primo piano.-
-Non era il piano terra?-
-Sì, sì. Piano terra, certo.-
-Arrivederci, allora.-
-Sì. Ehm…sì. Arrivederci.
Si chiuse la porta alle spalle e scese le scale frettolosamente, con l’aspetto di chi sta per andare a raccontare una nuova storia da fan sfegatato a qualcuno.
Victoria non tornò nel suo latte di rose ma, entrata nella sua stanza e presa in mano la Polaroid, simulò un autoscatto: il trucco colato sul viso, i capelli ancora bagnati e l’espressione impaurita. Sosteneva fossero pezzi della sua storia, quelle fotografie. E dato che aveva aperto un nuovo capitolo, ne servivano delle nuove. La solitudine, in una casa grande come quella, iniziava a farsi sentire e la sera non le era mai stata amica. Accese la televisione e capì subito perché lei e la sua famiglia si erano traferiti in Inghilterra. Appena la sua tazza di Earl Grey fu vuotata, Victoria si diresse verso la stanza da letto. Il suo giaciglio era coperto da un lenzuolo di seta color perla. Morbido e rotondeggiante, la invitava a stendersi. Tirò fuori dal borsone il suo quotidiano Baricco: Senza sangue, questa volta. La fortuna la accolse, le bastarono poche righe perché i suoi occhi si facessero pesanti e minacciassero di scendere rovinosamente. Si concesse alle braccia di Morfeo, dormendo fino alle primissime ore del mattino quando, in modo assai brusco, venne infastidita dal suono del suo cellulare.
-Pronto?-
-Vicky, dove sei?-
-Come, scusami?-
-E’ da tre quarti d’ora che ti aspettiamo. C’è tutto il cast, in riunione.-
-Cosa? Tu non mi avevi detto…-
Non ebbe il tempo di finire, che già la chiamata era terminata. Si vestì lesta, mettendo su un vestito scandalosamente corto e nero. Fuggì dal suo appartamento, accompagnata dallo sguardo stalker di Alfonso, che spuntava dal vetro del balcone.
L’edificio era esattamente di fronte al condominio e Victoria pensò subito a come si sarebbe sentita osservata nei giorni successivi. Come all’inizio di un celebre film che probabilmente lei non aveva mai voluto vedere, la signorina fuori dalla Stanza Riunioni le disse: -Mr. Lucano la stava aspettando, venga.-
Appena le fu spiegato dove andare, iniziò progressivamente a correre, precipitando poi nella stanza e attirando l’attenzione di tutti. Fu aiutata ad alzarsi dal regista, che la guardò con un sorriso piuttosto strano, tutt’altro che dispiaciuto. Fu invitata a sedersi accanto ad un uomo, che le offrì la sua bottiglietta d’acqua ancora sigillata, con un sorriso accennato e uno sguardo penetrante.
-Bene, adesso che ci siamo tutti, volevo intanto ringraziarvi di aver tenuto duro e di aver sopportato il mio comportamento esaltato e sicuramente diverso dal solito. Volevo ringraziare in particolare la Lewis, quella bella fanciulla ritardataria…- fece per indicarla -…che mi ha salvato dalla rassegnazione. E mi ha condotto nel mondo di meraviglie che si racchiude in lei.-
Trovò quelle parole particolarmente enfatiche ed esagerate, tanto che si sentì di controbattere: -Sono molto sopravvalutata in questo momento, Giorgio. Vedo che tutti sono così armonici e concentrati qui dentro e non credo mi spettino le tue lodi gratuite, dato che non ho ancora fatto molto.-
L’uomo ‘della bottiglietta’ la guardava insistentemente, tenendo gli occhiali sulla punta del naso. Era enormemente affascinato da lei, consapevole di quanta superbia ci fosse, in realtà, sotto quel finto velo di modestia. Credette fosse opportuno aggiungere qualcosa. Così, a bassa voce, disse: -Magari ha visto in Lei quello che non aveva visto nella Jolie. Cara Victoria, la prego di accorgersi che siamo molto diversi. Non solo fra noi, qui dentro. Ma anche diversi da tutta la stupida gente che c’è fuori. Ci sentiamo schifosamente privilegiati. Ma mi creda, è talmente lecito che impazzirei, se non avessi qualcuno che continua a ripetermi che siamo tutti all’altezza di tutto questo.-
Non osò rispondere. La riunione finì presto: dopo un sacco di indicazioni tecniche fornite da Lucano, furono tutti fuori in poco tempo.
L’uomo che prima l’aveva zittita era fuori, davanti all’ingresso, con una sigaretta accesa fra le labbra. Lei correva fuori spinta da chissà quale vento.
-Victoria.- disse trasparente.
La ragazza si voltò di colpo, incontrando il suo sguardo.
-Non ci siamo presentati.-
Ancora con uno sguardo fra il sorpreso e il cinico insopportabile, gli si avvicinò.
-Io la conosco già.-
-Può darsi, non ho mai detto il contrario.- le porse la mano a mezz’aria –Jeremy.-
Gli strinse la mano continuando a guardarlo negli occhi, a testa bassa.
-Potrei offrirle un caffè?-
-Non so se posso accettare.-
-Vorrei tanto che Lei lo facesse.-
-E’ inutile dire che non ho orari da rispettare o persone che potrei deludere. Quindi, può andare.-
Si incamminarono, a passo estremamente lento. Lui teneva le mani congiunte dietro la schiena e guardava basso. Lei si teneva stretta alla sua borsa, quasi non sapesse dove collocarsi. A volte lo guardava, così, di scatto, magari per vedere qual era la sua espressione. Essa non cambiava, sempre seria e composta. Arrabbiata, si sarebbe detto.
-Eccoci, siamo arrivati.-
Si guardò intorno. I luoghi luminosi, nei momenti bui della sua esistenza, riuscivano a metterla di buon umore. Si sedettero ad un tavolo, in disparte, e prima che potessero dire qualsiasi cosa, una donna si avvicinò a loro con un sorriso smagliante.
-Lei è… Oh mio dio, Lei è…-
-Vuole una foto?- anticipò, per evitare che la cosa si dilungasse. Scattarono la foto e la donna si dileguò umilmente.
-Ci dev’essere abituato.-
-Oh, si. E’ una cosa che non si può evitare. Sii scortese una volta e lo ricorderanno. Per carità.-
Ordinarono un caffè ristretto e un cappuccino. Insieme a quest’ultimo arrivò anche un krapfen semplice, che lui avvicinò a sé lentamente. Teneva in mano il suo tazzone per farlo raffreddare, mentre pensava a quale interpretazione psicologica avrebbe dovuto dare a quel caffè ristretto, che lei aveva bevuto senza nemmeno aggiungere dello zucchero.
-Tingerò i miei capelli.-
-Gliel’ha chiesto Giorgio?-
-No, ma ha detto che posso farlo.-
-Che colore saranno?-
-Rossi, credo. Quasi arancioni. Carota, forse. Ma non è questo il punto. Vorrei che Lei venisse con me.-
-Davvero me lo sta chiedendo?-
-Mi dispiace se ho detto qualcosa di inopportuno.-
-Ma no, assolutamente no. Lo chiedo perché sono lieto che mi consideri all’altezza di accompagnarla in un viaggio di cambiamento.-
Lo guardò negli occhi, aggrottando la fronte: -Viaggio di cambiamento.-
Si impose un sorriso cortese e senza troppo imbarazzo gli riferì che era molto stanca e che avrebbe preferito tornare nel suo appartamento o andare in una libreria.
-Vuole comprare dei libri?-
-Sì, Giorgio mi ha fatto trovare testi molto stupidi nella mia libreria. Voglio comprare qualcosa di più serio.-
-Serio come…?-
-Come De Luca, o come Benni. O Baricco.-
-Quale preferisce dei tre?-
-Il terzo, assolutamente.-
-Bene. Le consiglio una libreria, qui in centro. Non è molto fornita, ma per una persona che legge De Luca credo conti l’atmosfera, più che la sostanza.-
-Questo vuol dire che verrà anche Lei?-
-Posso accompagnarla e andarmene, se vuole.-
-No! No… Dicevo solo che, insomma… Se vuole venire, può farlo.-
Lui sorrise, spostando dalla mente di lei tutti gli anni che li dividevano e tutte le lacune che probabilmente – a parer suo – lei aveva.
Giunsero alla più grande libreria che i suoi occhi avessero mai visto, piena zeppa di scaffali e colma di libri impolverati.
Si guardava intorno, non servivano più le parole. Un posto buio, umido, chiuso, non l’aveva mai presa così tanto. Sfiorava le copertine dei libri, senza leggere i titoli. “Conta l’atmosfera, non la sostanza”.
Quasi si rincorrevano, in quel posto magico, ignorando la presenza degli spettatori e di donne-autografo. Lei spariva dietro una libreria, lui la cercava disperatamente e lei ricompariva con in mano un libro estremamente interessante o estremamente stupido.
Tenendo uno di quei testi in mano, sbucò da dietro una libreria, accanto a lui e, poggiando la testa ad uno scaffale, si trattenne dal ridere: -Il parto del cavalluccio marino…-
Lui si guardò intorno assicurandosi che non ci fosse nessuno a vederli, poi si lasciò andare in una risata piena.
Era così poco concentrato su sé stesso, che Victoria stentava a crederci. Nel viaggio di ritorno verso casa sua, dopo averlo salutato con una stretta di mano, osservava il suo nuovo libro, che non era né di Baricco, né di De Luca e neppure di Benni. Era un libro di un autore, con una piccola dedica sul fronte: “A colei che precipita in altri mondi e resta sempre la stessa”.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Tornata a casa ebbe il piacere di scoprire che aveva nuovi ospiti. Un uomo e una donna – più probabilmente una fanciulla e un garzone – attendevano davanti alla porta d’ingresso della sua dimora.
-Cercate qualcuno? –
-Victoria, tesoro, sono io. Pronto?! Celestina. –
Guardò indifferentemente e con aria nauseata e stanca il volto illuminato di quella teatrale figura.
-Certo… Celestina. E tu sei… -
-Marco. Assolutamente. – disse mentre infilava la chiave nella serratura – Mi ricordo della profonda aria di originalità e inventiva che aleggiava nella vostra famiglia, nel vostro cerchio di… cerchio di relazioni, di amicizie. –
I due si guardarono in viso e ripensarono a quanto fosse stata sbagliata la loro idea di sorpresa.
-Precisamente, cosa ci fate qui? Vi sapevo a Milano. O da qualche parte, a fare i grandi modaioli. –
Nuovamente, si scrutarono a vicenda, per poi accennare un falso sorriso che sarebbe dovuto servire a farsi spazio in quell’aria irrespirabile di ostilità.
-No… cioè, sì. Viviamo un bel po’ a nord, ormai. Ma siamo venuti a farti una visita. Penso proprio che però prenderemo una stanza in qualche albergo, per non darti fastidio. –
-No, per carità. Cosa raccontate poi ai tuoi genitori, che mi credono ancora la dolce bambina di una volta, la good girl dei bei tempi? E’ bella e grande questa casa: vi lascerò il mio letto, che è matrimoniale. Se dovete fare le vostre cose la notte, vi prego di avere l’accortezza di chiudere la porta: solitamente, io, la notte dormo. –
-No, no… - rispose con cortesia la donzella, sorridendo ingenua.
Guardando l’orologio insistentemente, sperava le comunicassero da un momento all’altro che sarebbero usciti e – dettaglio aggiuntivo che l’avrebbe sicuramente compiaciuta – non fossero tornati mai più a disturbare la sua tranquillità. Decise però che sarebbe stata lei, ad uscire, perché la voglia di risultare ciniche e terribilmente scontata, le mordeva l’orgoglio.
Chiusa la porta alle sue spalle, cercò disperatamente di estrarre il telefono dalla tasca.
-Oh, dannati aggeggi. Dannata tecnologia. –
Rubrica
-A, b, c…g, h, i….J! Jeremy Coso. –
Estrasse anche il pacchetto di sigarette da una fantomatica tasca nascosta e - sorreggendo decine di cose, fra le quali occhiali, telefono, pacchetto, sigaretta e accendino – aspirò il primo alito fumoso e compose il numero.
Continuare a camminare sarebbe stato anche troppo, dunque si bloccò appena fuori dal suo appartamento con addosso il costantemente presente sguardo di Alfonso.
-Sir. –
-Miss Lewis. –
-Mi ascolti bene. Lei salverebbe mai un animale raro dall’estinzione? –
-Con tutti i mezzi a mia disposizione, Miss. –
Boccata di fumo.
-Mi salvi, per favore. –
Silenzio. Boccata di fumo.
-Casa sua è a due passi dal Bar di Venezia. La aspetto lì. Ah, poco sgomento per il fatto che conosco il suo domicilio, grazie. –
Le telefonate fra italiani si concludono sempre con un saluto più o meno caloroso. Victoria non era una nazionalista.
Con l’aspetto da brava ragazza e l’alito da camionista, si incamminò verso una meta comune per la popolazione romana. Camminando osservava intorno a sé i luoghi della sua infanzia. Li guardava con immenso disprezzo, erano qualcosa da dimenticare necessariamente. Erano stati un tradimento, per lei, come per la sua storia. La famosa illusione dell’essere felici. Ma guardare il mondo con gli occhi di chi può comprarselo, lascia accettare l’orribile e l’inguardabile, il dolorante.
-Una volta sono stata a Singapore. – disse una voce femminile, dal tavolo accanto, mentre i due sedevano uno di fronte all’altra in silenzio.
-Le hanno mai spento una sigaretta addosso? – chiese la giovane.
-No, che pensiero osceno. –
-Un tale, una volta, mi ha raccontato che a suo fratello hanno dovuto farlo. Aveva tipo un pungiglione o qualcosa del genere. Non dev’essere una bella sensazione, no. –
Sospiri e sguardi. Sguardi, sospiri e labbra pallide. Capelli lucidi ma non come quando sono unti, no.
-Non voglio che ogni volta che ci incontriamo debba essere un ammanco economico per le sue tasche. –
-Ammanco economico per le mie tasche. – replicò sorridente. Poi le guardò le gambe.
-E’ interessante come l’uomo moderno non abbia minimo pudore nello sbavare davanti alle gambe di una donna. –
-Oh, avanti. Sarebbe fin troppo scontato anche per un uomo ignorante, fare una cosa del genere. Stavo guardando le sue francesine. Perché si chiamano così, no? –
-E’ una cosa che mi chiedo costantemente. Credo di sì, comunque. Più volte penso al fatto che se fossi un uomo comprerei solo questo tipo di scarpe. Oppure i mocassini. Oh, i mocassini. –
-La apprezzerei davvero, da uomo. Ma da donna, oh, da donna è sensazionale. –
-Anche questo è fin troppo scontato per uomo elegante come lei, no? –
-Sì, volevo solo sentire l’ebrezza dell’ovvio. –
Restarono a fissarsi per qualche secondo. Dentro di lei sentiva il normale imbarazzo crescere e prendere spazio, ma voleva essere scontrosa, non voleva perdere un attimo, un angolo, un riflesso solo, di lui.
-Lei viveva qui prima, vero? –
-Molto prima, sì. –
-E perché se n’è andata? –
-Perché mia madre era stanca di stare qui, perché tutti eravamo abbastanza stanchi di stare qui. Quando ti cuci la tua storia addosso, senti che non c’è modo di cambiarla. Ma puoi sempre scappare. Alle volte mi sentirà fare queste metafore del cavolo e anche un po’ random, ma spero solo che qualcuno qualche volta non si spinga oltre il “cosa intendi?”. –
-No, la preferisco cento volte di più quando usa tutto come una metafora. –
-Io le odio le metafore, figuriamoci. –
-Posso fermarmi a di che storia parla? –
-E’ già molto oltre. Ma oggi mi va di parlare solo con persone potenzialmente pericolose, e non con due babbei che si presentano a casa tua come se foste fratelli. –
Sgranchì le mani, poi si voltò a guardare un bambino che passava, sorridendo alla sua mamma. Lo guardò con il classico sguardo di chi deve iniziare un discorso difficile e davvero non ce la fa.
-So che è stupido serbare rancore, ricordare per anni, non dimenticare. Ma ci sono cose che nessuno ti spiega e che mai capisci. Come quella stronza pseudo secchiona alle medie. –
Tentava di fare uscire i peggiori aggettivi senza risultare volgare, ma lasciando intendere quanto odio e rancore provasse ancora.
-Lei era sempre seduta con me, mi seguiva sempre. Capitava di rado che litigavamo, o se lo facevamo era colpa dei suoi genitori. Sì, dire che si intromettessero nella sua vita è un eufemismo. Era la classica santarellina, sempre studiosa, sempre pronta a spiegare, ad essere interrogata. Sempre con la lacrimuccia in bilico, se sa di cosa sto parlando. Be’, forse perché ero più intelligente di lei, riuscivo a sopportarla, a sottomettermi ai suoi discorsi enfatizzati all’esaurimento. Ma una cosa è sicura, quei suoi genitori, mai potei capirli. –
Lui la guardava serio, con il corpo in ascolto e apprendimento. Non avrebbe osato interrompere l’eloquio per nulla al mondo.
-Purtroppo, quando racconto delle persone, lo faccio perché mi hanno fatto male, perché mi hanno fatto un torto. Così possono essere anche mondiali portatori di pace, dei; ma esce dalla mia descrizione solo il loro peggio. Dunque riduca al minimo ciò che le sto raccontando fin ad ora. –
Annuì.
-Dunque, al terzo anno, quello decisivo, non le andava a genio come le stavo sottraendo il posto di reginetta dell’intelletto. Doveva fare qualcosa, per togliermi di mezzo, per farmi apparire orribile, oscena. Diceva che da tempo respirava aria cattiva in quella classe, sosteneva che tutti ce l’avessero con lei: non lasciava copiare nessuno, rispondeva correttamente alle domande poste agli altri e spesso corrompeva con la sua dolcezza la mente fredda di molti insegnanti. Giuro che però fino all’ultimo (o penultimo, dovrei dire), l’avevo sempre difesa. Avevo sempre detto “Ma povera Imma, avrà il suo carattere, ha bisogno di comprensione”. No! No! Non andava mica bene. Ormai ero nella sua mira, nella mira dei suoi genitori. Doveva sparare, dovevano ferirmi. Così, uscì fuori la storia dei lividi e dei morsi. Secondo sue recenti e passate analisi scientifiche del corpo, aveva fotografato i danni riportati dai morsi e dai lividi che le avevo lasciato addosso. Neanche fossimo amanti, mr. Irons! Decidendo di mostrarle al direttore scolastico, innescò così la sua bomba. Il putiferio. I professori si servirono di uno dei nostri compagni per risalire alle nostre conversazioni in chat di gruppo, chat nelle quali avevo lasciati alcuni messaggi scurrili e con un linguaggio poco consono. Messaggi dove spiegavo il mio disappunto, dove dicevo che l’intervento della madre di Imma era anche esagerato e che darci ansia per niente, era il suo principale scopo. –
Gli occhi dell’uomo iniziarono ad illuminarsi. Mai aveva amato tanta teatralità.
-Può bene immaginare la reazione dei miei genitori, appena saputo l’accaduto sotto forma di versione dei genitori di Imma, meglio chiamata la versione di chi non sa ma adora raccontare. Il continuo del putiferio, insomma. O più semplicemente, per una ragazzina di dodici anni, la fine della sua vita, la perdita della credibilità, della fiducia e dell’affetto, del rispetto degli altri e della stima. Chiusa questa storia e aperto l’eterno litigio e la spietata indifferenza, iniziò un periodo di ansie, di odio da parte degli insegnanti, di puntualizzazioni inutili e ostacolanti e di divieti e negazioni. La maturità di donne e uomini sui cinquanta messa alla pari di quella di adolescenti. –
-E’ meglio che lei abbia vissuto questo in giovane età e che l’accaduto sia stato così poco grave. E’ riuscita comunque a recuperare il tutto, altrimenti non avrebbe l’ambizione di stare qui. –
-E’ facile dirlo. Sentirsi umiliati e soli è una sensazione che non finisce. Scorrono ancora nella mia testa le immagini della mia frustrazione, della sua vittoria e del loro menefreghismo. Non c’è bene che vinca, su questo mondo. -

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


-Sarà stato difficile, l’ambientarsi in Italia. –
-Mio padre mi ha sempre parlato in italiano, ma iniziare un liceo classico con delle basi più o meno sufficienti è da matti. –
Il cameriere porse il conto all’uomo, con garbo. Certi riti classici non andavano spezzati: Victoria estrasse il portafogli, lui le disse che avrebbe provveduto da sé e lei rimise la pochette nella borsa. La giornata poteva continuare, si erano disegnati certi schemi inviolabili.
-Come sono logorroica… e imbarazzata, adesso. Vorrei tornare a casa ed affrontare i miei ospiti, se permette. –
-Oh, non oserò sottrarla al suo destino. – rise animatamente.
Lui le posò una mano sul collo e avvicinandola a sé più che poteva, le baciò una guancia. Lei non era donna da bacio, non era donna da cerimonie e tuttalpiù non era donna garbata. Ebbe la sensazione che lui non l’avesse ascoltata, semplicemente perché non aveva aggiunto più di tanto. Il pensiero che fosse in verità un uomo così poco interessante la spaventava. Era il sodo che voleva, il centro del centro, non poteva essere la volta sbagliata.
Tornando verso casa ripensò al fatto che avrebbe dovuto programmare una di quelle liste dal titolo monotono come Propositi per il nuovo anno o Idee per un anno migliore o ancora Cose che prometto di fare e che non faccio mai anche chiamato Come farmi sembra molto più cattiva di quanto non sia già.
Il cellulare della donna, che ormai aveva il suono di un centralino, squillò di nuovo e di nuovo la terrificante vista di quel nome la impietrì.
-Pronto? – chiese come se servisse a qualcosa.
-Vicky, Caroline ha le sue cose. Avanti, hai capito! Per qualche giorno interrompiamo le riprese e tutto. –
Si chiese a cosa servisse la disposizione dell’egregia Carol, ma non osò domandare vocalmente.
-Cosa farò in questi giorni? Posso tornare a casa? –
-Tesoro, questo lo devi chiedere ad Amelia. Mettetevi d’accordo. Un abbraccio. –
Lui sistemava sempre tutto in maniera sconvolgentemente rapida, come i problemi non esistessero.
Aperta la porta di casa e guardatasi intorno per assicurarsi della mancata presenza dei due, gettò la borsa su un divano e si stese sull’altro. Analizzando la fantasia del copri-divano cercò, nel database del suo cervello, l’ultimo evento razionale che le fosse accaduto, escluso qualsiasi incontro contrattuale e non.
-E anche la macchina per il caffè americano. – disse al silenzio.
-E poi l’armadio Ikea, il divano Ikea, la porta Ikea, le mattonelle Ikea, il cibo Ikea. –
Si alzò in piedi, dirigendosi verso la parete attrezzata del soggiorno. Aprì più o meno tutti i cassetti che, vista la dimensione ridotta del soggiorno, avevano meccanismi geometrici imbattibili.
-Oh, dovrei sposarti signor Ikea. Almeno le farei io, le cose sporche, la notte, nel tuo letto. –
Immaginò i suoi futuri giorni felici e il fatto che un lavoro così non le sarebbe pesato abbastanza. Sedutasi alla postazione computer, digitò nella ricerca alcune parole chiave come “università”, “Roma” e “Lettere classiche”.
Il registino l’avrebbe uccisa, lapidata viva, ma amava vederlo urlare come una tartaruga in calore, quando si arrabbiava per la sfumatura sbagliata del grigio topo del vestito di Miss. Sonosolounacomparsa.
Decise in pochi minuti, rapida come mai prima, che l’indomani sarebbe andata in sede ad informarsi per le lezioni. Il costo fu l’ultimo dei suoi pensieri, ma ciò che avrebbero pensato di lei era al primo posto. La paura di fare una vita sregolata e senza limiti di tempo, le impedì di ripensarci. Così, nonostante la sera prematura e lo stomaco vuoto a metà, andò a dormire sul suo divano Ikea, sognando di quell’uomo che lo aveva creato.
Componendo, sul suo telefono cellulare, le cifre di un numero telefonico senza nome, attese che il suono della chiamata si attivasse. Portò il dispositivo all’orecchio e attese.
-Pronto? –
-Julien? –
-Sono Paul, ti passo Julien. – gridando fuori dalla cornetta il nome. Pochi secondi e poi la voce calda di un ragazzo sui 18.
-Ti secca molto chiamarmi sul mio cellulare, piuttosto che far rispondere mio fratello a quello di casa. –
-Fino a prova contraria vivi con tua madre, Napoleone, dovrebbe rispondere lei. Comunque non mi dà poi tutto questo fastidio la voce di Paul, è lui un po’ orgoglioso. –
-Ti ha dimenticata. –
-Oh, menomale. Non ho dormito né mangiato per il pensiero! –
-Molto spiritosa. Hai già iniziato? –
-No, Carolina Ballerina ha il ciclo, ergo non si fa nulla. –
-E lui, com’è? –
-Lui? –
-Oh, per favore. –
-E’ molto formale, ma ospitale. Avevo dimenticato come gli inglesi potessero esserlo. Esteticamente non è nulla di esageratamente eclatante, ma ha una bella anima. O forse no. Sto cercando di non partire da un presupposto di ammirazione. –
-Ti ha mai sfiorata? –
-Oh, Julien, abbiamo già dei figli e stiamo per sposarci! –
-Ti preferivo cupa e temeraria. L’internazionalità ti sta dando alla testa. Comunque, devo staccare, sta per arrivare Antonio e devo prepararmi… -
-Esci ancora con quell’idiota? –
-E’ simpatico e frequenta cardiologia. –
-Grandi progressi. Ti lascio allora alle tue conquiste. –
Bruscamente chiuse la telefonata. Per la prima volta non si sentì in colpa. Le erano bastati pochi giorni per rendersi conto che i ritmi erano i seguenti e che non poteva fare niente per fermarli, l’avrebbero trascinata via. Calata la sera e finita la giornata, piuttosto che attendere il ritorno degli ospiti tanto agognati, si immerse nei pensieri e nell’acqua pura.
Attaccato al muro del bagno, pendeva uno specchio lungo: fissò il suo corpo nudo e bianco, disprezzando la sua magrezza e tirando via i capelli dal viso. Adagiando dell’acqua sulla pelle umida di vapore, toccò il suo collo conoscendolo per la prima volta. Pensò a sé stessa come una donna desiderata e non più solo desiderante. Si sentì provocazione e purezza insieme: era nuova.
Sfogliando le scene del pomeriggio, analizzò l’incontro. Con buona probabilità i suoi occhi erano belli abbastanza da essere fissati per interi e lunghi minuti. Forse anche le labbra, o il naso o il viso pulito, erano desiderabili. Il suo corpo fioriva, insieme a lei, e capì in quell’istante che per troppo tempo si era arenata, legandosi a cose che diventavano orrendi vizi ed abitudini, che le legavano le ali e le coprivano il capo. La madre, il padre, il fatto che non stessero più insieme, la sorella, le Migliori: tutte persone di cui è necessario circondarsi per non fare la vita dell’apparente frustrato.
Non c’era più niente da aggiungere, la giornata si era conclusa e, come molto tempo prima, ebbe l’impressione di vivere il giorno prima o quello dopo, tanto erano simili e monotoni. Cercò una sola soluzione e scrisse su carta, con la mano ancora calda:
“ricordarsi di splendere”
Si trasferì nella camera da letto, fantasticando sul domani, sperando sarebbe stato diverso, amando ogni centimetro del suo corpo. Prese fra le mani il biglietto da visita di un certo Mister Pseud, così soprannominato da lei. Dire che compose il numero suonerebbe ripetitivo e disarmante per il lettore, dunque il tizio rispose e basta:
-Studio del dottor Amico. –
Sospirò per l’inutilità del cognome.
-Mi chiamo Victoria Lewis, il mio principale ha già parlato con il dottore. Vorrei dunque prendere un appuntamento. –
-Domani mattina andrebbe bene, diciamo verso le 8? –
-Sarebbe ottimo, la ringrazio. –
-Grazie a lei. –


“È al mattino che bisogna nascondersi. La gente si sveglia, fresca ed efficiente, assetata d'ordine, di bellezza e di giustizia, ed esige la contropartita.”
Samuel Becket

Sentendo le voci dei suoi temporanei coinquilini, si scoraggiò, pensando a quanto paziente sarebbe dovuta essere durante la giornata. La vana speranza del giorno prima, che i due fossero morti o stati rapiti da qualche associazione mafiosa, era svanita nel nulla, quando il viso della femmina era spuntato dall’angolo della porta esclamante “Oh, allora sei sveglia!”. Con rammarico, nulla di poetico all’orizzonte, dolce Victoria.
-Ho la sveglia fra dieci minuti, grazie per avermi svegliata. Voi che ci fate svegli a quest’ora? –
-Volevamo ammirare l’alba. Dove sei diretta quest’oggi? Possiamo in qualche modo aiutarti nel tuo percorso? – chiese, rispondendo. Mossa da non usare con la signorina Lewis.
-No, ti ringrazio, per oggi non ho molto da fare. Ho un appuntamento con un dottore per cose di lavoro e tanto vale parta adesso. Fate come volete. Ho fatto una copia delle chiavi e l’ho lasciata sotto il vaso dell’Aloe. –
-Oh, sei gentilissima. Allora ci vediamo dopo. Ti chiamo, se ci dovesse servire qualcosa. – esclamò sorridendo. Come se stesse affermando il vero: Victoria era capace a mala pena di badare a sé stessa, offrire aiuto ad altre persone, così incoscienti tra l’altro, era troppo.
Preso il tram come chiunque a Roma, si mostrò non indifferentemente confusa all’uomo al quale chiese indicazioni geografiche. “E’ qualche porta più avanti”, disse, sottointendendo, da bravo romano, che lo studio del dottore si trovava più o meno a qualche chilometro da lì.
Così fu, la strada lunga, ma pianeggiante. Cresceva nel suo stomaco la sensazione provata anni prima: un nuovo mostro stava cercando di uscire dalla via sbagliata. Ma i mostri sono destinati a rimanere dentro, dove tutto è buio ed è pericoloso rimanere. Così, ricacciata dentro la creatura, si accomodò nella fredda sala d’attesa, ornata solamente da una striscia di carta da parati, in corrispondenza delle spalliere delle sedie.
-E’ il suo turno, signorina Lewis. – sorrise la Segretaria che ogni dottore si fa anche detta L’occhialuta ma ottimamente vedente.
Il suo cuore batteva forte e per pochi secondi odiò sé stessa e il ritorno delle sue paure. Come appunto anni prima, si trovava sola: questa volta in modo fisico e mentale.
-Buongiorno, signorina. – sorrise altrettanto accentuatamente l’uomo dietro la scrivania. Le sue rughe lo rendevano affascinante e aveva un’aria vagamente francese. Le sue mani risaltavano la sua bellezza delicatamente. Erano di quelle mani che parlano, la mani che sai che hanno già sfiorato tanto.
-Buongiorno a lei. –
-E’ in parte evidente che ogni direttore scenico obblighi le sue marionette a frequentare uno psicologo. Lei è d’accordo con questi appuntamenti? –
-Non so se la sua Margherita le ha riferito, ma ho chiamato io. Dunque sì, mi trovo più che d’accordo con gli appuntamenti che verranno. –
-Iniziare con un approccio diretto, ovvero stando in silenzio davanti a lei ed aspettandomi che lei esponga, mi pare molto limitato. Così le farò qualche test. –
-Alle signorine dice che “sta facendo dei test”? –
Sorrise.
-No, signorina. –
-Possiamo iniziare subito o questa seduta era a scopo secondo? –
-Possiamo pienamente iniziare. Lei perché è qui, se si sente qui? E se non si sente qui, perché? –
Victoria, che si era preparata a disegni astratti e frasi contorte, si lasciò andare sulla poltrona di fronte, ricurva verso fuori e morbidamente perfetta.
-Perché secondo la cultura che mi sono insegnata, che ho insegnato a me stessa, voi sapienti Dottori della Testa siete all’apice di uno schema piramidale infinito, sullo stesso piano di molti scrittori. –
-Mi dispiacerebbe deluderla, se così non fosse. –
-Non lo è già. Sono già amaramente delusa. Vorrei però andare avanti e capire, capirmi. –
-Oh, capirsi. Ecco, è una buona cosa. Ho parlato a lungo con mr. Lucano e… -
-Solo perché sono inglese non deve dire “Mr. Lucano”. –
-…e abbiamo parlato a lungo di lei. –
-Ah! Parlare a lungo di me. Come se mi conosceste, tutti e due. –
-Abbiamo parlato a lungo di lei, signorina Victoria e non è uscito dalla mia analisi un solo dettaglio positivo, santo cielo! Lei è un soggetto con disturbo della personalità borderline e deve curarsi abitualmente! Non può lasciarsi andare alla rassegnazione, porca miseria! –
In un attimo realizzò tutto, riavvolse il nastro. La gentilezza, la cordialità, la semplice allegria di ognuno di loro. Il modo “facile” in cui, sotto il suo punto di vista, aveva realizzato le cose. La gentilezza di Jeremy e la follia mista a delicatezza di Lucano. La manager così materna e tutti così vicini.
-Voi non mi conoscete per niente, non sapete nemmeno in parte chi sono. E vi permettete di farmi il profilo psicologico. Forse non vi rendete conto di quanto sta accadendo. – così disse, alzandosi e facendo per uscire.
-Io voglio solo aiutarla. Farle vedere con i suoi occhi il modo fastidioso in cui le persone la guardano e sviluppare in lei una ripresa. Non cerca di manipolarla, né tantomeno di dirle chi è lei. –
Con sguardo stravolto ma vuoto, tornò a sedersi.
-Vorrei che mi dicesse come si sente. Vorrei che lo facesse con sincerità, che dimenticasse la sua dignità e l’immagine che ha di sé stessa. –
-Non saprei cosa dire, mi dispiace davvero tanto. –
-Il suo principale mi ha detto che lei ha il cuore spento. Sue testuali parole. Vorrebbe, cortesemente, commentare? –
Sospirò, poi disse, mantenendo l’espressione seria: -È il fatto di trovarmi sola in mezzo a milioni di persone che si tengono per mano, che mi spegne un po’ il cuore. Con questo non voglio dare ragione al Cordialissimo, ma voglio solo spiegare la sua frase, con la sua mentalità. –
-Non deve usare dei tramite, quando parla del suo stato d’animo. Può, come ho già detto, denudarsi completamente, finendo per essere ciò che non immagina. Può inoltre iniziare a sentirsi in dovere, come dire, di soffrire e disperarsi – prese un foglio con alcune iscrizioni – per la separazione dei suoi genitori, per la perdita del suo amante omosessuale (mi riferisco ad Edoardo) e per tutto il resto, insomma, sarà abbastanza confusa dal fatto che conosco queste informazioni su di lei. –
Ella continuò a guardare fuori dalla finestra, l’inspiegabile bellezza della bougainvillea.
-Vorrei farle delle domande da protocollo. –
Si schiarì la voce, comprendendo che la donna lo stava ascoltando ma non avrebbe risposto.
-Dorme regolarmente, la sera, ultimamente? –
-No, probabilmente no. Torno tardi, sa, allora non molto tempo. –
-Riesce ad addormentarsi, quando decide di mettersi a letto. –
-No, mi addormento circa due ore dopo. –
-Bene. Crede di mangiare di meno o di più del solito, nell’ultimo periodo? Intendo, averte di più o di meno la fame, rispetto a prima? –
-Non mangio molto. Mangio solo a pranzo, di rado a colazione. –
-Prima era solita mangiare, a colazione? –
-Si, facevo anche lo spuntino. E, ovviamente, cenavo. –
-Ha, non ultimamente, magari solitamente, crisi di qualsiasi tipo, sensazione di solitudine, che sia fisica o di altro tipo? La prego di essere il più sincera possibile. –
-Esattamente, nel numero di persone che vengono qui da lei, perché dovrei lasciarmi curare, sentendomi sola, da qualcuno che tratta tutti allo stesso modo? Sotto questo principio, nessuno dovrebbe venire, lo so bene. Ma… -
-Cosa le fa credere che io non la tratti diversamente? –
Guardò l’orologio: -Per questa volta, vorrei fosse finita qui. La ringrazio della pazienza. –
-Spero vorrà prendere un altro appuntamento. –
-Deve dirmi lei. –
-Innanzi tutto – tornò dietro la scrivania – questo è il mio numero. Dopodiché, vorrei riceverla domani, allo stesso orario, per discutere meglio la sua depressione. –
Un martello particolarmente forzato le colpì lo stomaco, facendolo schizzare per tutto il cuore. Un peso fra i 25 e i 30 kg fu posto dentro ciascuno dei due lati della sua cassa toracica.
-A domani, signore. –

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