Londra 1812

di Lyter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Notte ***
Capitolo 2: *** 1817 ***
Capitolo 3: *** 1819 ***
Capitolo 4: *** Agosto-1819 ***
Capitolo 5: *** Settembre-1819 ***



Capitolo 1
*** Notte ***


Notte





8 Luglio 1812
Un pianto si levò stridulo dalla parte più interna del marciapiedi smussato, un pianto di odiosa lamentela e famelica rabbia. Velocemente si spandeva per le grigie strade di East Town e, qualche secondo dopo, un altro lamento, ma questo più strascicante e meno stridulo, si aggiungeva pesantemente al primo.
L’aria sembrò fermarsi: la Notte e le sue Stelle osservavano con occhi supplici i due bambini.
Tutti ignoravano il loro pianto disperato e, con lentezza tormentata, la notte passò umida così come era venuta. Quando il sole illuminò del tutto il pallore delle due faccine una donna dalle vesti di pura e sottile seta raccolse il cesto dentro il quale i due corpicini erano stati adagiati delicatamente dalle mani dell’ipotetica madre.
Il bambino stringeva gracilmente il piede destro della bambina e, insieme, dormivano un sonno quasi del tutto mortale.
Ci vollero giorni di cure prima che la piccola riuscisse ad aprire un vispo occhietto e, dopo qualche ora, come richiamato dalla vitalità della sorella, anche il bambino diede i primi segni di guarigione.
“Sono troppo piccoli. Non posso garantire che riusciranno a sopravvivere” mormorò il dottore alla balia che si prendeva cura dei neonati all’orfanotrofio.
“Sembra che stiano bene” la voce della donna era impregnata di speranza. I tempi duri che Londra stava affrontando non avevano di certo giovato alla salute dei neonati che, negli ultimi tempi, avevano abbandonato la vita troppo facilmente. La donna non voleva ritrovarsi a gettare pure i loro corpicini nelle fosse comuni.
“Non le garantisco niente” riprese il dottore strappandola dai suoi pensieri e, con un secco gesto del capo, si congedò lasciandola sola con i due neonati.
Essi la guardavano con la curiosità tipica dei bambini a quell’età, vogliosi di imparare e di crescere.
Avevano bisogno di un nome, pensò sorridendo.
Oscar e Diana Anderson, sarebbero stati i loro nomi.

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Capitolo 2
*** 1817 ***


1817





Le ciocche rosse dei capelli crespi ricadevano con passiva eleganza lungo il lavabo de lavandino. Una lunga macchia vermiglia lo percorreva fino alla bocca del tubo per poi scomparire in esso.
Diana ne aveva visti tanti di lavandini così nell’Orfanotrofio e sapeva alla perfezione che ve ne era solo uno bianco e pulito come nei racconti della balia: quello del ‘Signore’ E ricordava anche la punizione che le avevano inflitto quando l’avevano scoperta in ambienti non consoni ad una ragazzina ospitata dalla struttura. Ne portava ancora i segni sulle braccia.
Un singhiozzo lo scappò dalle labbra e la balia, che le stava accuratamente tagliando i capelli, la strinse con remota delicatezza le spalle. “Ricresceranno” la rassicurò con la sua solita voce sbrigativa “Questione di anni”
La bambina si concentrò per qualche secondo sui boccoli che cadevano, con una lentezza quasi studiata, nel lavabo "Quando?” richiese con la voce tremante
“Due anni, probabilmente” la voce della donna le giunse lontana, quasi strascicata.
S’irritò, Diana, s’irritò per quell’abuso alla quale la stavano sottoponendo. “Sono una ragazza” dichiarò con ostentata solennità.
La balia alzò le sopracciglia e la guardò come se notasse per la prima volta quel dettaglio “Lo sei” disse annuendo.
Diana, lo sconforto giunto quasi alle stelle, si irritò ancora di più. Le ragazze avrebbero dovuto portare i capelli lunghi, ben acconciati e morbidi sul capo. Perché le stavano infliggendo quella pena? Perché proprio a lei? Era stata buona negli ultimi giorni, aveva abbassato il capo a tutti gli inservienti dell’orfanotrofio eppure, nonostante questo, le stavano togliendo ciò che reputava più bello nel suo corpo. “Ci sono i pidocchi” continuò la balia ignorando le sue lacrime “dobbiamo evitare che vengano pure a te, se abbastanza grande per capirlo”.
E lo era! Diana credeva fermamente di essere abbastanza grande per comprendere qualcosa ma proprio quell’atto, quell’azione impura, proprio quella non riusciva a comprenderla! Sapeva qualche lettera dell’alfabeto, a soli cinque e, forse, un giorno, avrebbe imparato a leggere!
Era grande sì, non lo metteva in dubbio, ma non capiva la motivazione per la quale i suoi capelli si stavano sacrificando “Non posso mettermi quella cosa?” chiese allora fissando, attraverso lo specchio rotto, la cuffia che la balia portava sempre.
“Il Signore non ha soldi per dare a tutti le cuffiette”
Diana sbuffò.
 
 
Si vociferava di rivoluzione. Non che la rivoluzione non fosse già presente nelle industrie ma il tipo di rivoluzione di cui si parlava era, più che altro, una… insurrezione. O almeno così l’avevano chiamata.
Oscar non sapeva bene che cosa significasse quel termine così altolocato per un bimbo di soli cinque anni e questo lo spaventava ancora di più. Se ne stava appollaiato sotto tutti i cappotti che il Signore teneva in quell’armadio, con il fetore dolceamaro di sudore che gli invadeva le narici e gli occhi che faticavano a vedere nell’oscurità di quell’armadio.
Aveva fatto in tempo a nascondersi lì dentro prima che il Signore entrasse con altri due aristocratici e discutesse di… rivoluzioni e insurrezioni.
E se l’avessero scoperto…
Le voci si quietarono per un attimo ed il secondo dopo Oscar tentò di spiare da uno spiraglio, notando che ora lo studio era vuoto.
Qualche secondo dopo, mentre l’adrenalina gli scorreva veloce nelle vene, si ritrovava sul tetto a correre fra le tegole smussate. Arrivò in un punto nel quale si apriva una piccola concavità e fu lì che si fermò mentre un pianto gli giungeva alle orecchie. Conosceva quel pianto. Dannazione se conosceva quel pianto. Non aveva bisogno di vedere per sapere chi era. “Diana?” il pianto si arrestò immediatamente e, dall’ombra, una piccola figura emerse. “Dove sono i tuoi capelli?” le chiese Oscar quando capì la motivazione di quel pianto.
“Me li hanno tagliati” rispose con la sua piccola vocina Diana “La balia mi ha detto che è per i… per i …”
“Pidocchi?” completò Oscar per lei sapendo perfettamente di cosa sua sorella parlasse.
Fu nel momento in cui Diana annuì che il sole scomparve del tutto e l’ombra primeggiò sulla luce. I due bambini rimasero immobili e, dopo qualche minuto, piccole luci andarono a delineare i profili delle case e dei vari edifici.
Oscar abbracciò sua sorella e le pose un bacio delicato sulla nuca “Non piangere”
Londra si mostrò loro in tutto il suo splendore notturno ed entrambi videro una promessa in quella visione.
Erano a Londra, dopo tutto.
Ed era il 1817

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Capitolo 3
*** 1819 ***


1819




Quell’uomo era fradicio.
Gli occhi gli uscivano di fuori, la mano tremante alzata in segno di aiuto, tessa verso il cielo plumbeo. Il sangue zampillava vermiglio e giocoso, quasi come fosse un fiume in piena, dalla gola del morente.
Opportunamente qualche goccia di pioggia andò ad incontrarsi con maestria con la pozza di sangue attorno a quello che, in vita, doveva essere stato un barbone.
Era stato questo lo spettacolo cruento che aveva accolto Oscar e un altro gruppo di orfani all’entrata del mercato. La grigia Londra, ogni giorno, donava ai cimiteri delle nuove reclute per l’esercito dei morti che si stava venendo a creare.
Joffrey, un orfanello mingherlino caduto in disgrazia dopo la morte dei suoi genitori all’età di due anni,  si voltò verso la sua destra e vomitò anche l’anima.
Gli altri si burlarono di lui, del suo non essere “uomo” ma Oscar sapeva perfettamente che ognuno di loro era rimasto impressionato dalla scena che gli si era parata davanti. E, forse, ancora più impressionabile era stata la reazione della giovane donna che si era ritrovata la gonna macchiata di sangue quando aveva camminato sulla pozza di sangue non accorgendosi del morto. Aveva sbuffato e se n’era andata.
Il gruppo di bambini si fece forza e , fra le risate di finto scherno, superarono il cadavere e si introdussero nel mercato.
La massa di uomini e donne li accolse con occhi straniti e mormorii di disgusto. Qualcuno stava probabilmente pensando, e dicendo, che fossero bambini contagiati dal morbo. Non si vedevano molti bambini, in giro, e l’essere lì faceva capire a tutti chi erano: orfani.
Le donne urlavano fra di loro, gli uomini abbaiavano il prezzo di ciò che vendevano, qualcuno svuotava il vaso da notte dalla finestra e, per questo, era sempre meglio non stare troppo vicini ai palazzi.
Si diedero appuntamento oltre il pescivendolo e da lì si separarono.
Quel giorno Oscar si era alzato con un unico intento: mangiare. Era affamato da giorni e sapeva che anche Diana avrebbe voluto assaggiare volentieri qualcosa di fresco e non sempre pane duro come la pietra o formaggio andato a male. Ma lei non chiedeva. Sapeva che lo avrebbe messo nei guai se avesse chiesto qualcosa in più.
Quando il momento divenne propizio il bambino uscì dal suo nascondiglio con la nonchalance che mostrava ogni qual volta doveva rubare e si diresse verso la bancarella del pane.
Due pagnotte. Fu tutto quello che riuscì a recuperare senza essere visto. Avrebbe potuto far assaggiare a Diana qualcosa di buono. Alla fine della giornata solo uno dei ragazzi più grandi era stato preso dalla polizia.
Oscar poté sospirare di sollievo.
 
Odiava la balia che rifaceva il letto. Odiava la puzza di lercio che lasciava fra le coperte e i denti gialli che scopriva quando ghignava e il rispetto che un essere putrido come quello pretendeva dalle bambine dell’orfanotrofio.
La piccola scosse i capelli rossi che ormai le arrivavano alle spalle e li legò con un nastro vermiglio che si confondeva fra le ciocche. Lo specchio macchiato le rimandò la visione di un viso carino ma anche troppo magro per il suo corpicino.
“Diana!” la voce di sua fratello le giunse ovattata da dietro la finestra
La bambina corse ad aprirgli e quello entrò nel dormitorio delle bambine senza problemi “Ti ho detto mille volte di non farlo, se ti vedono…”
“Non mi vedono” fece quello zittendola
“Dove sei stato oggi?” Diana giunse le braccia al petto come, Oscar immaginava, avrebbe fatto loro madre se non li avesse abbandonati da neonati “Al mercato”
“Oscar!” la bambina lo rimproverò a bassa voce. Non poteva permettersi di farsi scoprire “Sai cosa succede se ti prendono?”
“Non ce la faranno, sono troppo veloce per loro! Dobbiamo mangiare, Diana” solo in quel momento si accorse che sua sorella indossava il vestito più carino che aveva. Oscar realizzò che non era domenica, non si doveva andare a messa “Perché indossi quell’abito?” le chiese con il sospetto che si annidava fra le sue parole.
Sospetto, paura, orrenda consapevolezza.
Non ci fu bisogno di parole che confermassero la sua teoria, bastava lo sguardo limpido della bambina che si offuscava per le lacrime, le labbra che venivano morse in un tic nervoso compulsivo.
“Starai meglio” le disse Oscar abbracciandola. Ma dentro di sé qualcosa si mosse: invidia, gelosia forse. Perché lei sì e lui no? Perché lei avrebbe potuto avere una seconda possibilità mentre lui sarebbe rimasto intrappolato in quel circolo vizioso?
“Senza di te” le lacrime che la bambina aveva trattenuto iniziarono a sgorgare senza sosta, facendola singhiozzare.
Quella promessa… non poteva mantenerla.
Dannata vita!

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Capitolo 4
*** Agosto-1819 ***


Agosto-1819





Il mondo gli parve assumere una forma ben diversa rispetto al solito.
Solito… una parte di lui era stata brutalmente strappata dalla carne e ora la ferita brulicava di sangue e febbre. Una ferita indissolubilmente curabile. Dilaniata la pelle bruciava e ad ogni vampata di calore il suo corpo agonizzante si aizzava nel letto della morte.
Ma tutto questo avveniva solo dentro di lui. La sua carne era intatta, perfetta. La sua saluta stabile e fin quando essa era stabile, ovviamente, sensibilmente, tutto andava bene. Almeno per gli altri.
Una volta sua sorella gli aveva detto che sarebbero stati sempre insieme, una volta si erano fatti una promessa di fronte una Londra al tramonto, mentre ogni cosa prendeva le sfumatura grigia della notte. Parole vane, parole vuote che ormai il tempo si era portato via e, benché fossero passate solo poche settimane da quel giorno in cui Diana lo aveva salutato, gli sembravano passati ormai anni. Lui era cambiato, lei era cambiata e il luogo in cui viveva, anche se cristallizzato nella sua interminabile grottesca attesa della distruzione, pareva essere diventato più nero. Nero come il morbo che attanagliava le strade infime di Londra.
Ogni giorno esso distruggeva le famiglie e nuovi bambini venivano accolti nell’Inferno dell’Orfanotrofio. E i letti non bastavano più. Oscar divideva il suo con un bambino di circa tre anni che, durante la notte, mentre con una manina cercava disperatamente il seno della madre, piangeva disperatamente. Ogni giorno Oscar si svegliava con un livido in più nelle gambe o nelle braccia e ogni giorno era sempre più incerto se si sarebbe mangiato a cena. O anche a pranzo. ‘Andiamo al mercato domani?’ era quella la domanda che i bambini si ponevano regolarmente ogni giorno, ma non sempre era possibile fuggire da quella struttura demoniaca.
Ma che senso aveva andare al mercato se, alla fine, colei per il quale si preoccupava non risiedeva più con lui. Nessuno aveva voluto prenderlo con sé e allora che andassero tutti all’Inferno! Rubare non aveva più senso e lui si accontentava di un cozzo di pane duro la sera con un po’ di latte stagionato.
“Anderson!” quel cognome, quella parola… sembrava non volere più rispondere a quel richiamo. Era fatto per due e condividerlo da solo sarebbe stato qualcosa di oltremodo impensabile. La parola si ripeté fin quando il ragazzino non dovette voltarsi per incontrare gli occhi grigi di Cane.
“Che vuoi?” rispose a tono Oscar. Cane non gli era mai stato simpatico, con i suoi denti gialli e marci e quella voce che ringhiava ad ogni parola. Oscar non ricordava il suo vero nome ma, probabilmente, era così abituato a sentirsi chiamare Cane che lui stesso aveva perduto memoria del suo nome.
“Devi scendere di sotto” una parola, un abbaio. La voce raschiante colpì Oscar come un pugno. Qualcuno osava dargli ordini.
“Perché?”
“Non lo so! Ordini dall’alto” stava perdendo la pazienza, capì immediatamente Oscar. Gli piaceva far perdere la pazienza a quell’idiota di un Cane ma sapeva che dopo sarebbero venute le percosse e le percosse facevano male.
Lo avrebbe provocato, lo faceva sempre infischiandosene altamente delle percosse, lo avrebbe visto adirare ma quando stava per parlare le parole non gli giunsero in bocca. Qualcosa lo frenò, qualcosa gli disse di abbassare la testa e stare muto. ‘Non devi farti ridurre così, ti faranno più male la prossima volta’ gli aveva detto sua sorella qualche anno addietro. Ma lui non l’aveva mai ascoltata.
Lo seguì lungo i corridoi crepati della struttura che mai, mai, avrebbe chiamato casa. Il sole stava lentamente ritirandosi ad Ovest e, con lui, gli ultimi bagliori di un giorno caldo e malato morivano nella luce brillante del cielo. Il caldo, quel caldo afoso che non lasciava respirare, odorava di morbo nero, di instancabile malattia e non dava spazio alla frescura del pomeriggio.
Scesero le scale scricchiolanti di legno fino alla Sala Comune, abbigliata in un modo alquanto inusuale: Oscar era abituato a vederla quasi del tutto deserta, sporca e con un odore di sudore che si aggirava per quel piccolo spazio. Quel giorno, invece, era brulicante di bambini di ogni età e sistemata quasi come una classe scolastica. Banchi a solo, penne riciclate e una pergamena bianco sporco ordinatamente sistemati sul banco.
Il Signore, come sempre accompagnato dal suo fedele panciotto e dall’irregolare orologio da taschino, parlava sommessamente con un uomo estraneo a quell’edificio, sia di nome, probabilmente, che di faccia. Non aveva il solito volto abbruttito dalla veneranda e malefica ordinanza degli uomini di quel posto, bensì presentava lineamenti morbidi e zigomi rotondi. Una bellezza che aveva giocato il gioco del tempo e che aveva perso. Come tutte le bellezze…
Oscar si fermò sulle scale e riconobbe i vari orfani. C’era Joffrey che si guardava intorno stranito, Robert con la sua micidiale stazza, grasso come un bue, forte come un toro, c’erano i gemelli Lose che si acchiappavano per i capelli e Vince e J-J e il nuovo membro Salvator. Erano in tanti, in troppi in quella sala che solitamente non ospitava più di dieci persone ed il caldo li faceva soffocare. Lo si vedeva nei loro volti. “Anderson!” la voce dura del Signore ridusse tutti al silenzio.
“Signore…” rispose il bambino alzando lo sguardo fiero. ‘Sguardo basso, Oscar, sempre’ gli ripeteva sua sorella.
“Siediti e tutti voi” passò uno sguardo minaccioso a tutta la sala “silenzio”. Bum. L’effetto magico dell’educazione di quel posto…
Il Signore iniziò a spiegare qualcosa, con parole semplici che tutti avrebbero capito, ma Oscar era troppo impegnato nello studiare la compostezza e la rigidità dell’uomo al fianco dell’ospite. Chi era? Sentiva un disperato bisogno di sapere chi fosse quell’uomo dallo sguardo tanto paterno ma dalla postura tanto rigida da sembrare un carceriere. E tutte quelle domande, con le varie supposizioni, lo portarono a scordarsi di stare attento alla spiegazione. Qualche minuto dopo tutti scarabocchiavano qualcosa sul proprio foglio. E ora? Cosa avrebbe fatto in quel momento? Iniziò a chiedere aiuto agli altri orfani con lo sguardo ma tutti erano troppo concentrati sul foglio “E tu?” la voce soffice lo colse di sorpresa e Oscar alzò gli occhi per incontrare quelli dell’uomo.
“Io n-non ho capito” un balbettio, un unico balbettio.
L’uomo lo fissò con più intensità. Aveva capito che stava mentendo “Allora sei stupido” fece con la sua voce soffice. Non c’era rimprovero in quella voce ma solo e soltanto curiosità. “Devi disegnare tutto quello che vuoi”
Ma nessuno dava dello stupido a Oscar, nessuno. “Non so disegnare”
“Allora non lo fare” rispose quello.
Alla fine dell’ora, il foglio di Oscar era l’unico bianco.
***
Aveva tentato la fuga.
Più volte.
Ma qualcuno era riuscito sempre a riprenderla e a gettarla in quella stanza che le era stata destinata, verso quella vita che lei non aveva mai voluto e che ora si ritrovava ad affrontare.
Aveva tentato la fuga.
Ma tutto era stato vano.
Dov’era Oscar? Dov’era suo fratello?

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Capitolo 5
*** Settembre-1819 ***


Settembre-1819


Orgogliosamente il petto di Oscar si gonfiava e si sgonfiava.
Era stato il primo. Fra tutti i bambini che avevano partecipato alla prova di coraggio in cortile, lui, era stato il primo. Aveva superato tutti gli ostacoli con un tempo record che avrebbe fatto invidia pure a Thomas, il ragazzo burlone che era più grande di tutti, e con gli occhi spiritati per la stanchezza si era gettato sopra il gelido tappeto di erba che contornava il cortile.
La luna era alta nel cielo e le stelle, dolcemente brillanti, le facevano da contorno conferendole un aspetto ancora più venereo. Sembrava che ognuna di loro tentasse di avvicinarsi sempre di più alla luna, in una prova di coraggio come quella che aveva sostenuto Oscar. Ma lui era stato il migliore, e lo sarebbe sempre stato.
Nella sua mente da bambino di sette anni vedeva il suo futuro come qualcosa di arduo ma pur sempre splendido e luccicante come un lago. Nel suo futuro c’era pure lei. Vivida, sorridente come l’aveva vista l’ultima volta. I rossi capelli sparpagliati al vento, gli occhi verdi che lo scrutavano riverenti. Quel pizzico di naturale dolcezza mista a violenta ribellione. Sì, lei c’era…
Lei c’era…
“Oscar” la voce da fanciullino di Derek lo raggiunse nel suo inferno chiamato Pensiero e lo fece tornare alla realtà “è tardissimo, sono tornati tutti a letto. Lo sai che succede se…?” in quel momento una luce dalla finestra del Signore si accese.
Lo scatto di Oscar fu fulmineo. Prese Derek da un braccio e lo trascinò dietro l’angolo più vicino, appiattendosi poi, con vero successo, contro la parete. Chiunque avrebbe detto che non c’era nessuno là dietro, vista la magrezza dei due. Sentiva Derek al suo fianco e si chiese perché avesse fatto quella prova di coraggio. Il bambino, infatti, non smetteva di tremare da capo a piedi, gli battevano i denti ma non si riusciva a capire se per il ‘freddo’ e per la paura. Lo capì quando sentì un odore sgradevole salire dal terreno.
Ma fece finta di niente.
Quando la luce si spense i due bambini corsero il più presto possibile verso il dormitorio. “Non facciamolo più” fece Derek una volta entrati e al sicuro sia dal Signore che dal Cane
Oscar lanciò uno sguardo ai suoi pantaloni bagnati “Ti consiglio di levarteli, altrimenti farai puzza per tutto il dormitorio” effettivamente l’odore che si respirava lì non era buono, la puzza d’urina se la voleva risparmiare.
“Sì, lo faccio” Derek, con il viso che era diventato del colore della porpora, si tuffò verso il suo letto e scomparì dietro il lenzuolo che fungeva da separé.
Settembre era appena iniziato e già l’umidità londinese aveva coperto tutta la città, soffocando l’aria malsana che proveniva dai corpi putrefatti lasciati per la città. Il Morbo, come solevano chiamarlo in quel piccolo posto, avanzava nella sua costante lotta con la vita, cercava ogni singolo uomo, lo stanava tranquillo nella sua casa, lo attaccava e, dopo qualche giorno, lo uccideva. Esso era là, incontrollabile e nelle sue forme più spietate non lasciava scampo a nessuno.
Sospirando, con la sua mente di bambino, Oscar si lasciò andare dolcemente all’immaginazione e, poi, al sonno ristoratore.
 
Le giornate passavano lente e disperate. L’una dopo l’altra si susseguivano in quel vortice infernale che risucchiava sempre di più il candore dell’anima fanciullesca di Diana. C’erano dei compiti, gli aveva detto il primo giorno la padrona di casa, e tutti dovevano rispettarli se non volevano essere sbattuti fuori casa. All’inizio, dopo aver capito che la fuga non sarebbe servita a niente, Diana tentò di rifiutare di assolvere ai suoi ‘compiti’, ma non ne aveva ricevuto in cambio la libertà.
Era rimasta ore, o forse giorni interi, non poteva saperlo con certezza, chiusa in quella stanza, senza un letto né una latrina. Doveva fare tutto in un unico angolo. Dopo qualche giorno, l’avevano ripescata da lì e le avevano detto che ormai quella era la sua vita e o l’accettava o moriva. Allora Diana aveva deciso di accettare.
“Sei una bambina, per ora” aveva detto la padrona di casa, Rosalynn, “quindi per ora non servi a niente. La mattina andrai al mercato a vendere delle stoffe, il pomeriggio e la sera assisterai le tue sorelle” e quando quella parola si era insediata nella mente di Diana, avrebbe voluto gridare che lei non aveva sorelle e che mai quelle ragazze lo sarebbero state. Ma Diana si atteneva alle istruzioni.
Andava a vendere le stoffe e quando poteva si faceva il giro del mercato per vedere se Oscar c’era, ma mai lo incontrò. Si chiese come fosse possibile che suo fratello non fosse più tornato a rubare. Eppure ogni giorno si alzava animata da quella speranza: che suo fratello fosse lì, pronto ad afferrare un stoffa.
E il pomeriggio le sue ‘sorelle’ le spiegavano come fosse il mestiere. Le spiegavano come muoversi, come cogliere gli uccelli in volo e, infine, come lasciarli andare dopo averli curati.
E Diana imparava.
 
Quello fu il giorno che gli cambiò la vita. O, almeno, fu il secondo giorno. Il primo era stato quando sua sorella Diana se n’era andata, il secondo in quel momento. Il signore dai baffi d’argento che gli aveva proposto il test lo stava fissando da capo a piedi con un sorriso malizioso “Verrai con me” gli disse
“Dove?”
“A casa mia. Io ti istruirò”
“E poi?” chiese Oscar. La paura cresceva dentro di lui.
“E poi diventerai grande”

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