The devil took my hand

di KingRose_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Da quando era stato rinchiuso, e rinchiuso era la parola giusta dal momento in cui non aveva avuto scelta, erano passati sei mesi.

Erano stati i mesi migliori e peggiori della sua vita. I migliori perché aveva la possibilità di studiare. Poche cose lo facevano sentire bene come il profumo della carta, il rumore sottile che fanno le pagine mentre sono sfogliate. Aveva letto molti libri durante la sua breve vita, ma in quei mesi le sue letture erano notevolmente aumentate, e non erano più libri  per ragazzi, no. Leggeva diritto, religione, storia e, le poche volte in cui riusciva a non farsi scoprire, scienze e alchimia. Ed era qui che arrivavano le note negative.

Secondo i monaci, i suoi istruttori, leggere quei libri era peccato: tutto ciò di cui l’uomo aveva bisogno Dio glielo aveva fornito, non c’era alcun motivo per cui dovessero porsi domande alle quali Lui non voleva avessero una risposta.

Tuttavia i libri erano lì, ordinati in ordine alfabetico sui polverosi scaffali della biblioteca, e per il giovane Frollo questo gli dava il diritto di poterli leggere.

Le regole del monastero erano molto severe, questo Claude lo imparò presto. E non si limitarono a lasciarlo a digiuno per un giorno la seconda volta che lo trovarono con un libro che trattava tra le mani.

Gli dissero che faceva parte del diventare uomo peccare, ma doveva essere punito per averlo fatto. La frusta calò su di lui con una forza che nessun uomo avrebbe usato su un bambino di dodici anni, ma i frati non provavano pietà per peccatori, di qualsiasi età essi fossero.

E l’urlo uscì con prepotenza dalle sue labbra sottili, senza che riuscisse a controllarlo. Urlò ancora prima che il dolore gli esplodesse al centro della schiena, per poi diffondersi a tutto il resto del corpo. Per un tempo che non riuscì a definire, ma che gli sembrò enormemente lungo, non ci furono altro che urla e dolore, e buoi.

 

“Non voglio andarmene da qui, maman.”.

Era all’incirca la decima volta che Corinne Frollo andava a trovare il figlio. Non era mai stata particolarmente convinta della vita ecclesiastica alla quale stavano indirizzando il suo secondogenito, tuttavia si era tenuta ben lontana da esprimere il suo parere.

In quel momento più che mai, però, era convinta che quella fosse una pessima scelta. Suo figlio aveva dodici anni (dodici anni, di grazia, era ancora un bambino!) e lo avevano fustigato come un criminale. I monaci avevano giustificato l’accaduto dicendo che era il loro metodo d’insegnamento, e Claude non se n’era minimamente lamentato, ma lei si era accorta che qualcosa non andava.

Gli aveva proposto di tornare a casa ma la sua risposta era stata così decisa da stupirla. Non l’aveva pronunciata in modo maleducato o impertinente, ma la decisione che traspariva da quelle parole rasentava l’autorevolezza.

Era cresciuto molto, il suo Claude, in quei pochi mesi in cui erano stati separati. Era sempre stato un bambino introverso, ligio ai doveri e amante dello studio, ma il ragazzo che aveva incontrato in quella piccola stanzetta illuminata appena dal sole, sebbene avesse le fattezze del suo bambino, era un piccolo uomo. Capace di discutere con un adulto di un qualsivoglia argomento sul piano intellettuale.

Riuscì a trattenere le lacrime a stento e, per nasconderle, si avvicinò al figlio per dargli un leggero bacio sulla fronte prima di congedarsi. Quando si chiuse la porta alle spalle capì che quella precauzione era stata del tutto inutile: suo figlio sapeva esattamente come si sentiva.

 

 

Sebbene il contesto in cui vivesse gli rendesse le cose leggermente più difficili, Claude Frollo aveva sempre amato l’arte, in tutte le sue forme. In quel momento, tuttavia, per quanto impegno ci stesse mettendo, non riusciva a trovare nulla di più sublime del suono del tamburello suonato dalle aggraziate e leggiadre mani della zingara che ballava sul sagrato di Notre Dame.

Era rimasto incantato da quella danza, si era appoggiato al davanzale della finestra del suo studio, sporgendosi leggermente per vedere meglio, e non era più riuscito a muoversi.

La gitana nel frattempo aveva finito la sua danza, e raccoglieva con un sorriso gli applausi che il pubblico, entusiasta, le dedicava. Solo allora, e con un notevole sforzo di volontà, l’arcidiacono si allontanò dalla finestra, consapevole del fuoco interiore che quella visone gli aveva procurato si stava trasformando in un dolore fisico.

Così prese una decisione che da anni aveva evitato con cura. Prese la frusta che conservava dai tempi della sua giovinezza e, toltosi la toga e la camicia, iniziò a colpirsi, sperando di eliminare il desiderio peccaminoso che la zingara aveva acceso nel suo corpo. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Salve a tutti!
Non ho voluto inserire le note dell’autore nel primo capitolo perché mi sembrava brutto. Ci sono però un paio di cose da dire: intanto questa storia non seguirà il corso degli eventi narrati nel romanzo; probabilmente il carattere dei personaggi potrà risultare OOC, anche se mi auguro vivamente di no.
Ringrazio chi ha letto il primo capitolo e vi chiedo una piccola recensione, come dico sempre qualsiasi critica/consiglio è ben accetta, anche un “ritirati perché le tue storie fanno pena”, ma sto deviando. Il continuo della storia, comunque, dipende soltanto da voi. Sentitevi responsabili u.u
Ora vi lascio.
Spero vi piaccia.
 
 
Alla piccola Esmeralda la nuova città piaceva. Le avevano detto che era una città di tranito, di trasino, insomma, di passaggio.
Era un paesello molto grazioso: le case avevano tutte il tetto di tegole rosse e i muri di terra battuta, la piazza era uno spazio libero in cui le stradine di pietra si congiungevano ai piedi di una fontana rotonda, i cui spruzzi bagnavano i bambini che si riunivano lì per giocare.
Su un lato della piazza c’era una chiesa, piccola e costruita nel modo umile così caratteristico di quel paese ma Esmeralda sentiva comunque l’aura di sacralità che tutti gli edifici religiosi possedevano. All’interno era molto buia e umida, ma non fu questo a turbare la bambina, quanto gli sguardi e i sussurri che sentiva al suo passaggio, le occhiate di malcelato disgusto lanciate ai suoi piedini scalzi che accarezzavano il pavimento senza fare rumore. Si era inginocchiata di fronte a un dipinto illuminato da molte candele, ma la preghiera di ringraziamento che si era affacciata alla sua mente fu sostituita da un’altra che era quasi una supplica: il desiderio che nessuna di quelle persone le avrebbe fatto del male.
Era corsa fuori dalla chiesa quasi in lacrime, accettando il bacio del sole sulla pelle come una benedizione.
 
Esmeralda si chiese perché proprio in quel momento la sua mente le propose quel ricordo. Erano anni che non pensava a quel paese, si erano fermati per appena qualche giorno. Forse era perché davanti alla grande cattedrale di Notre Dame si sentì di nuovo quella bambina spaurita, ma era impossibile non restare impassibile a quella vista. Le guglie svettavano contro il cielo, quasi come per raggiungere il Dio che si adorava all’interno di quelle mura, e le campane facevano sentire i loro rintocchi con prepotenza.
Appena superato lo stupore a quella vista, le sorse spontaneo chiedersi come facessero i parigini a convivere ogni giorno con quell’imponente edificio senza sentirsi osservati e giudicati.
Si ripromise, tuttavia, di entrare all’interno a pregare, com’era solita fare all’arrivo in ogni nuova città. Ma non quel giorno, forse domani. E per cancellare quei pensieri poco lieti, che mal si associavano alla sua personalità, iniziò a ballare.
La folla iniziò presto a radunarsi intorno a lei, dai più piccoli che si divertivano ad ammirare la sua capretta, ai più grandi, gli uomini che guardavano in modo lascivo le gambe che si scoprivano ad ogni piroetta, e le donne, che semplicemente ammiravano la sua esibizione, distraendosi per un momento dalle faccende quotidiane.
Tra tutta la gente che accerchiava la bella gitana, soltanto due uomini riuscirono a cogliere la sua bellezza appieno. Uno la stava osservano dall’alto di una finestra di Notre Dame, e l’altro dalla groppa del suo cavallo bianco. Quest’ultimo, Phoebus de Chateaupers, capitano delle guardie, la stava guardando con un sorriso così malizioso che avrebbe fatto arrossire la più sfrontata fanciulla ma che la giovane zingara, nella sua innocenza, scambiò con piacere.
Per questo quando, alla fine della sua esibizione, quando l’uomo si avvicinò proferendosi in un inchino e in un baciamano palesemente irrisorio, accettò l’invito di fare una passeggiata per le vie della città, in modo che potesse orientarsi meglio.
 
-Allora, dimmi qualcosa di te!-.
Erano seduti in una taverna, davanti a un boccale di una strana bevanda che lui aveva detto chiamarsi birra.
Il lui in questione si era presentato come Phoebus, capitano delle guardie, e non le aveva mai tolto gli occhi di dosso, cose di cui Esmeralda si sentiva enormemente onorata. In più la guardava con uno sguardo carico di un sentimento che non avrebbe saputo definire, ma che la faceva arrossire ogni volta.
A quella domanda sgranò gli occhi, perché mai a nessuno era interessato qualcosa di lei. A nessuno se non a lui almeno. Si sentì piacevolmente lusingata e iniziò a parlare, senza accorgersi che lo sguardo dell’uomo era puntato solamente sulle sue labbra, senza che ascoltasse una parola.
 
La notte parigina era non si sarebbe mai potuta riassumere in una parola sola. Era come un diamante colpito dalla luce diretta del sole: pieno di sfumature che cambiano ad ogni movimento che ci vorrebbero anni per coglierle tutte.
Un osservatore attento avrebbe notato sicuramente il silenzio della maggior parte delle case, nelle quali i mariti stanchi erano appena tornati dal lavoro e finalmente si concedevano il meritato riposo, il silenzio completamente diverso di chi invece aspettava la notte per entrare in case sconosciute e cercare di rubare qualcosa, o per compiere un qualsiasi altro crimine. A questi silenzi si opponeva il frastuono degli uomini che si attardavano nei bordelli o per le strade, per festeggiare ognuno a suo modo. Lo stesso osservatore avrebbe però notato che ora si era aggiunta un’altra componente che rendeva accesa la notte di Parigi. Era la festa che tenevano gli zingari nella Corte dei Miracoli.
 
Esmeralda camminava per le vie poco illuminate verso il suo popolo, la mente resa leggera dell’alcool stava ripercorrendo ogni attimo passato con l’affascinante capitano, e già pregustava con accesa attesa l’incontro che avrebbero avuto la sera successiva.
Un osservatore ancora più attento si sarebbe accorto di quanti amori nascono nelle notti che animano la capitale francese.

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