.Undertone.

di Ardespuffy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Imprinting. ***
Capitolo 2: *** Elegy. ***
Capitolo 3: *** Anew. ***



Capitolo 1
*** Imprinting. ***


C’è questo ricordo, nato fra le lenzuola per errore

E  u n  b a c i o  s p o r c o  s a   

c o m e  u n  m i l i a r d o  d i  u o m i n i .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

 

C’è questo ricordo, nato fra le lenzuola per errore.

Eravamo agli inizi, col gruppo. Non potevo ancora vantare un truccatore tutto mio, né tanto meno solevo figurarmi il giorno in cui ne avrei avuto uno.

Mi ero messo in testa di collaudare una nuova matita per occhi, dunque. Nella mia fervida immaginazione da poco più che adolescente ero convinto mi avrebbe regalato lo sguardo perforante che andavo allora disperatamente cercando.

Non ottenni null’altro che una perforante irritazione.

Immagino sia stata una reazione allergica dovuta a qualche componente del colore. Quel pungere vivo e bollente, acuto da accecare, diluito nei veli di lacrime stranite e umiliate; l’intorpidimento sordo delle palpebre, mai tanto pesanti e tanto calde, come terrificanti ghigliottine a serrare il raccapricciante spettacolo delle iridi sgomente. Non potrei dimenticarlo in alcun caso, ritengo. Né lo strazio in sé, né l’idea strana che si portò dietro, e ancora latita nei meandri del me che vive in musica.

Bruciava come solo una ferita può fare, come solo uno squarcio, come solo un’immensa eruzione di sangue umano.

Continuavo a toccarmi e scoprivo nuove ondate di fluido torrido, quasi sperando, allora, nel conforto logico della conseguenza attesa. Perché è pura logica che un dolore tanto vivo si rovesci all’esterno, in visibili scie di un rosso che parli da sé e faccia parlare, vistoso come sognavo d’essere e altrettanto perforante.

Non giunse mai. Quelle detestabili lacrime ingannevoli furono la mia dannazione in più d’un senso.

Ancora recalcitro nell’affidarmi alle cure dei make-up artists – che oggi, benedetti cicli del tempo, farebbero follie per il privilegio di concentrarsi sui miei occhi. E permango nella delusione mai sopita di ferite che non sanno sanguinare, di ferite inutili e discrete.

Ho dovuto scoprire che ne esistono di tipi innumerevoli.

Tuttora non mi stanco di odiarne il silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Provo ad inspirare. Sarebbe più semplice, senza il dolce peso che mi ostruisce lo stomaco.

In verità Matt è sottile. Talmente magro e stretto, sopra ogni cosa, da contrastare curiosamente con l’allungarsi del mio corpo fra le lenzuola. Sono sempre stato piccolo io stesso, nient’affatto imponente; dev’essere questo che m’impedisce d’abituarmi alla sua presenza.

Me lo tiro addosso, letteralmente.

È strana la sensazione che dà. Riesce a farmi sentire una madre, un coniglio e una puttana tutt’insieme, e a scucirmi un sorriso adirato per questo.

Lascio la presa sul suo braccio, deciso a rubarmi un momento d’oblio. Peccato per quel gomito sporgente che mi penetra bruscamente le carni, all’altezza dell’esofago, mozzandomi contemporaneamente il fiato e strozzandomi un gemito sul fondo della gola.

Fortuna che non è così goffo anche quando scopa.

Matt non può semplicemente ricadermi addosso e mettersi tranquillo, concedendomi un benedetto istante di quiete. Nossignore. Deve sentire il bisogno impellente di affondare gomiti e strattonare lenzuola e divincolarsi, in genere, strusciando quel corpicino duro e stretto in modi spesso poco ortodossi.

Mi fa diventare matto; – mi fa ridere; – a volte mi commuove.

Eccitante, persino. Lo è. Negarlo non sarebbe giusto, benché la più nobile delle azioni perda tutta la sua nobiltà se non supportata dalle giuste ragioni.

La tragica inconsapevolezza dietro ogni suo singolo atteggiamento, questo lo svaluta immensamente. Mi fa impazzire. Mi fa impazzire la grandezza del valore che assume poi, ai miei occhi asciutti, contro ogni rigor di logica.

Dunque tutto quel muoversi e sfiorare resta accidentale, benedetto ragazzo, e lo spoglia d’ogni intenzione suggestiva.

Abbandono il pensiero in fretta, più del dovuto. Su di me, fra le coltri agguantate con malagrazia, Matt continua a vivere – e mi distrae a sufficienza.

La sua pelle è una mappa curiosa di gradi, più calda in certi punti e più intensa negli altri, profumata a intermittenza. Un velo di sudore ricopre la fronte, le tempie, le curve fini tra le spalle, la linea del ventre. Il bacino. Le gambe no, quelle restano fredde e lontane, avvinte alle mie nell’abbraccio della coperta.

Mi sta gelando, ma non lo faccio presente.

Pigramente, con casualità, scorro lungo i versanti del suo corpo, scoprendo i fianchi ossuti e le costole, quasi visibili oltre la pelle tesa. Lo avverto rilassarsi al tocco, istantaneamente, mentre dita leggere d’aria giocano all’amore con la sua schiena.

Non riesco a mantenermi casto troppo a lungo. L’innocenza mi fa difetto da sempre, almeno da quando il sempre d’oggi ha avuto inizio.

Lo vizio e illudo, prima di spingermi con la stessa dolcezza irreale a sfiorargli le natiche. Traccio larghi cerchi distratti, per poi insinuarmi nella fessura scura senza forzarla.

Posso distinguere la tensione montargli in tutto il corpo, nel tremore della spina dorsale. Resiste per una manciata di secondi, più stoicamente di quanto avrei creduto – devo dargliene atto. Poi il saltellare smaliziato dei miei polpastrelli tanto vicini alla sua apertura diventa troppo promettente, troppo allettante perché possa concedermelo ancora. Lo avverto spostarsi con uno sbuffo seccato, come se avessi in qualche modo distrutto il suo giocattolo del cuore, e tuttavia restarmi addosso, fra le gambe schiuse per inerzia. A prendersi il calore che posso dargli in risarcimento.

È un compromesso; lo tengo per me.

Ritiro prudentemente le dita, tornando a concentrarmi sulle venature fini della sua schiena, ora nuovamente rilassata, mentre si adagia pesantemente contro il mio torace.

È strano. Di solito non sembra tanto accogliente. Nessuno è mai riuscito a farlo sembrare tanto accogliente, questo fisico da ragazzina, eppure Matt vi si adatta con tutti i suoi spigoli alla perfezione. Ne consegue la più improbabile delle armonie.

Pian piano riprende a muoversi, con una cautela che m’intenerisce, dopotutto. La guancia affondata su uno dei pettorali, le cosce che vanno scaldandosi fra le mie; i capelli ancora umidi, irresistibilmente profumati, di quella fragranza tutta speciale che sa di uomo dopo il sesso.

Una definizione quanto mai incompleta, lo ammetto.

Chi diavolo sei tu, Bellamy? Un ragazzino nel corpo d’un uomo, o un uomo chiuso nel guscio d’un adolescente?

Certe volte fatico così tanto anche solo a domandarmelo.

Ciò che inizialmente non mi raggiunge se non come lo strusciare anonimo di pelle calda quanto è calda una pelle qualunque, fa in fretta a mutare nella percezione netta del suo braccio che mi scorre in su, protettivo e bisognoso, lieve e tanto importante, tutt’insieme – è questo tutt’insieme, può esserlo, lui, lo è. Non capisco come faccia. A darmi tutte queste sensazioni sovrapposte. O parallele. Tutte ordinatamente in file disgiunte e tutte presenti e vive e tangibili.

Io, tanto monocromatico e tanto tranquillo.

Semplicissimo anche nell’isteria. Persino nell’arte.

E tutto a un tratto che cos’è questa esplosione di luce e colore all’altezza del petto, me lo spieghi? Cosa, eh? Cosa?

Mi accorgo un attimo più tardi dei movimenti che compie. A sostenerlo nella scalata intrepida del mio busto non ha che la sola forza delle dita – dita da pianista, dita lunghe e agili e immensamente energiche, decise, allenate. Robuste e fiere e maschili e materne. Sanno di latte e di metallo. Io le adoro, Matt, le adoro.

Resto a fissarle, incuriosito dalla forma aliena ed estranea che sono. Mi si arrampicano tenaci come piccoli ragni affamati su per le costole, superando il capezzolo senza interesse né malizia. Trainano il braccio pressoché inerte, infaticabili lavoratrici quali figurano nel libro paga del corpo.

Sorrido al pensiero, ma più al frusciare timido dei suoi peli contro il mio dorso glabro.                 

E non so cosa succeda, di colpo. Corrode in modo dissacrante, massacra e sfinisce. Una pulsione urgente da soddisfare con la paura di lui allacciata fra i denti.

Porto il braccio destro a circondarlo, quello sinistro a premere un fianco.

E stringo. Stringo come non ci fosse un domani, come non ci fosse un letto, un condom, un lenzuolo, un mondo da cambiare e un mondo da scrivere, un dono da scartare, un anno per crescere, un bacio senza sesso e un sesso senza baci, un angelo e un bullone, un vascello, un sogno, un’invenzione.

Tira su col naso. Lo fa talmente piano, talmente bene, con intelligenza; ma me ne accorgo ugualmente.

Non si premura di fornire una replica più chiara, Matt. Non lo fa mai, non ci riesce – il suo corpo parla nei toni che sa, calibrando i fiati e lo sgorgare e il fluire, e la lubrificazione dei modi e dei timbri. Una macchina perfetta che funziona da sé in una disfunzione massima e costante:  incomprensibile, impenetrabile, vuota ed estremamente estetica.

Finisce così com’è iniziata. Allento la presa bruscamente, esagero. Non avevo previsto che le mie braccia ricadessero ai lati del letto con quella forza, non proprio. Così non vanno bene, sanno d’un artefatto che non passa inosservato. E questa è per dirne una. Avrei il mio bel daffare se scegliessi di delineare nel dettaglio i tratti dell’ansia che sale come nausea, ma lascio che muoia senza essere udita. La condanno senza appello né equo processo.

Personalmente vengo assolto, però, lo so; lo apprendo dal silenzio che Matt sembra drappeggiarci tutt’intorno.

Mi fa rabbia quanto straordinariamente bravo sia in queste cose. Supera momenti simili senza scomporsi e senza scoprirsi. Cerca persino di non mettermi a disagio, ci prova sul serio. Se lo colpisce o se opta per un netto taglio auto-inferto, non permette che traspaia. Non vuole che io capisca. L’ho accettato. Ci sono parti di lui – un gran numero di parti, un numero illimitato e spaventoso – che devono allontanarmi per necessità, perché sono programmate a farlo. E ci sono parti che mi respingono con razionalità. Nel nome di un bene maggiore e comune ad entrambi.

Non l’ho realmente accettato. L’ho compreso.

Sono sceso a patti persino con me stesso, stuprando le convinzioni degli altri e raggiungendo il mio equilibrio. Ho preso il suo corpo e l’ho usato perché custodisse in maniera almeno un po’ graziosa la proiezione di qualcosa che ho espulso per sopravvivere.

È venuto tutto a galla, inevitabilmente. Quando quella specie di giornalista con velleità da strizzacervelli in erba mi ha interrogato sull’intera Questione Bellamy, allora io ho provato esattamente a spiegarglielo. A spiegarle cosa succede quando hai vicino qualcosa che non vuoi realmente o che non ti vuole, e allora finisci col crearti qualcosa di migliore a partire dai bisogni, dal talento e dalle immagini. Nasce in te, cresce, si sviluppa fino allo svezzamento. Allora sì che puoi gettarlo fuori, e proiettarlo, come nella legge dell’imprinting, sul primo corpo che capiti a tiro – e bada bene sia quello giusto, o tutto il lavoro architettato con amore nella gestazione andrà perduto.

Matt è un contenitore efficiente e delizioso, il più delle volte. Le sue piccole ribellioni non mi turbano, al più persuadono.

Ho provato esattamente a spiegare tutto questo. Ci ho provato in una rubrica tv con una stupidissima pettegola troppo furba che accavallava le gambe per provocarmi.

Dopo, i telefoni hanno squillato per un po’.

E mi manda fuori di testa, sul serio, perché Matt non ne ha parlato. Non vi ha neppure accennato di striscio, né per sbaglio; non con la casualità ipocrita del suo manager, né con la ferocia isterica della mia.

Ha lasciato correre e ora prova a dormirmi addosso.

Tira su col naso. Posso sentirlo.

Le sue dita giungono alla meta anelata. Forti e superbe fino alla fine, s’inerpicano su per l’ultima curva, quella del mento, dove accettano di svenire e riposarsi. Sembrano perdere di botto tutta la vita che sanno; mi muoiono sulla pelle inondandola di colpa.

Forse non significa nulla, certo. Forse non è che il filare di un fuso o mille croci in campi di vetro.

Per un momento afferro la voglia astrusa della sua voce.

Svanisce in una fretta crudele.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli occhi non sanguinano. Ed è terribilmente ingiusto, quando avrebbero tanto da ledersi a vicenda, per quanto vedono ogni giorno.

Di tutte quelle sciocche ferite secche la più lieve è sempre distesa sotto i tendini e i lacci del corpo che sostengo. Curiosamente è anche l’unica a dolere in privato.

Posso amarne il peso nel momento del bisogno, e poi gettarlo via come un tubo da cui aspirare l’aria.

Stringere e respingere nominano i nuclei in tumulto sotto le palpebre. Per reagire e agire e manifestare, e uscire fuori e rompere gli schemi, e mantenere la sacralità dello squilibrio.

Come una madre, un coniglio e una puttana che vivono insieme senza scontrarsi.

Quale sia il loro segreto, non ho che da immaginarlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Parte uno di tre per quella che sarà una saga di autentici trip mentali.

Cerchiamo di non correre. Per ora mi limito a spiegare brevemente il contenuto dietro questo primo capitolo, narrato – o meglio, vissuto – da un Brian particolarmente ermetico.

Contesto: in un Mondo Ideale dove Placebo e Muse hanno smesso di ignorarsi, fans e mass media notano qualcosa di ambiguo nei rapporti tra i frontmen delle due bands. La cosa si trascina nel silenzio finché Brian ammette, in quel suo modo contorto che chiamerò semplicemente “teoria dell’imprinting”, la storia che ha con Matt. I telefoni squillano e i rispettivi managers impazziscono, ma Bells non fa una piega. Il momento in cui questo scorcio di introspezione vuole coglierli è un classico afterglow, l’attimo dopo il sesso, con un Brian combattuto e stranito che si ritrova ad amare l’altro per un brevissimo istante. E a fare i conti con le ferite inutili dispiegate nell’incavo tra i loro corpi uniti.

Disclaimer: non solo i personaggi di cui si parla non mi appartengono, ma neppure lo fanno i lyrics d’apertura. (E un bacio sporco sa… come un miliardo di uomini.) Tratti da La Vedova Bianca degli Afterhours. 

A grandi linee non c’è altro da aggiungere. Il concetto di imprinting proviene dall’etologia, la scienza che studia il comportamento degli animali: quando viene al mondo, un esemplare di qualsiasi specie tende a riconoscere e a identificare immediatamente il primo ente cui è posto dinnanzi. Una serie di autorevoli comportamentisti ha condotto degli studi sui pulcini, riportando risultati singolari a favore della teoria.

Quindi, ecco, l’amore di Molko è come un pulcino.

Detto così suona veramente sciocco ^_^ .

Attendo chiunque voglia continuare a seguirmi al prossimo capitolo, immerso invece nel mondo di Meffiu. Grazie di cuore alle mie lettrici abituali – Stregatta, narcissus_kiss e nainai, su tutte – e a quelle che lasceranno un commentino a questa sega mental… inaugurazione di fic.

 

Vostra, in mente e spirito. <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Elegy. ***


E u n b a c i o s p o r c o s a

E  u n  b a c i o  s p o r c o  s a

s p o g l i a r m i  i l  c u o r e  d a g l i  i n c u b i .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

Sei dentro.

 

Io non so come sia successo. È una di quelle cose che capitano e – no, non potrei. Non posso fare questo.

Tu sei così bello. Semplicemente tanto bello. Devo averlo pensato sempre, ma mi ci è voluto un po’ prima di vedere appieno la perfezione macchiarti in superficie. Sui tuoi occhi è stato detto di tutto, forse perché in pochi ne hanno compreso il colore; e se mai Arte ha codificato i tratti di una bocca perfetta, allora è adagiata con casualità sul tuo viso. Carnosa e gonfia, delineata. Morbidissima, mostruosamente. E la pelle che hai, è liscia. Così liscia che scivola, come acqua, come vento.

E sei freddo. Non freddo come il ghiaccio, o come tutte quelle cose stupide che si dicono per tentare di spiegarlo. È una temperatura, spiegarla non si può. Però si può sentire, e io sento che nulla ha la tua freddezza affilata. Non è perché te ne stai sulle tue, perché parli quanto basta, perché hai uno sguardo tanto distratto. Non ha nulla a che vedere con questo; il punto è che tu non sembri pensare a niente. Provare niente. Sembra che tutto quello che hai dentro scivoli e scivoli e scivoli, e corra sul posto per andare chissà dove; il fatto è che corre tanto svelto da impedirmi di vederlo. Dunque è come se dentro non avessi proprio un bel nulla.

Non so se accade con tutti, per il semplice fatto che sono gli altri, che sono quelli fuori. Ma so che con te non è mai successo diversamente.

Qualcosa è cambiato, naturale. Non era lo stesso, prima. Prima c’era come una barriera, di vetro appannato dai fiati dei tentati contatti. C’era una barriera, e c’ero io, da un lato, e tutto il mio mondo, la mia musica, la mia vita, e tutte le mie belle astrazioni. E dall’altro c’eri tu, irraggiungibile e incorruttibile, e credi, Brian, mai una volta ho coscientemente desiderato di abbattere quel muro.

Devi essere passato attraverso senza che me ne accorgessi, perché ora so cosa vedo. La barriera c’è ancora, ma adesso tu sei con me, dalla mia parte, mentre tutto il mio mondo neppure compare. Come fosse in una terza dimensione la cui profondità continua a sfuggirmi. E dal tuo lato della barriera non vedo altro che il nostro riflesso; l’immagine speculare dei me e te che abitano il mio cosmo. E il giorno in cui le due immagini si dissoceranno, e i me e te che stan dall’altra parte verranno a reclamare porzioni di vetro, allora li vedrò gemelli, pallidi in volto, e turbati, premere contro la barriera e dirci che il tempo è scaduto. E saprò che sei uscito dalla mia vita per sempre.

Fino ad allora, fino a quell’Apocalisse intima cui guardo con terrore, non ho che da chiedermi di te, congetturare della tua presenza così irreale nel mio ecosistema.

Perché sei irreale. Lo sei tanto.

Sarà colpa della tua pelle che scivola e della tua freddezza, e di quel sembrare vuoto e insensibile e tanto inerte, come un fiume che di continuo inverte il proprio corso, finendo in stasi imperitura. Certo è che nessuno dei miei sforzi vale uno solo dei tuoi sguardi, e nessuno dei miei sforzi può portarmi più vicino.

Dove voglio andare io, le distanze s’annullano. Io voglio entrarti dentro.

Non lo so, Brian. Potrebbe essere solo l’ennesima delle mie stupide astrazioni – quelle che ci siamo negati, noi due, perché la banalità non ci è concessa. La paventiamo, non possiamo permettercela. Siamo artisti, modelli, siamo quelli cui si guarda con occhio diverso perché è chiaro, conseguente che siano persone diverse. Sono speciali perché devono esserlo, perché sembra che abbiano un mondo di cose da dire – e se lo sembra dev’essere vero.

Astrazioni, dunque.

Non posso parlare d’amore, non me lo perdoneresti. Tanto meno potrei concedermi d’andare più a fondo di così, e hai anche solo la minima idea di quanto sia difficile fugare la convenzione? Pertanto non cercherò di coinvolgere i sentimenti; ma dovrai consentirmi una perifrasi che mi tormenta da quando hai eluso la mia barriera.

Sei qualcosa che mi è dentro costantemente. Un pensiero latente che pulsa, spesso doloroso.

Hai risvegliato demoni orribili, in me. Aperto una voragine di buio tale da sconcertarmi, per quanto repentinamente è nata.

E io vorrei tanto sapere che lo stesso è per te. Che siamo in grado di condividere questo malore agghiacciante, sordo e subdolo, perché quanto proviamo l’uno per l’altro non sarà giusto, ma ci tiene uniti.

Se finisse con l’oscurarci del tutto, eclissare i nostri ego e sigillare ciò che siamo stati, insomma, avrebbe forse reale importanza? Non pensi valga la pena di mutare in automi, o, al peggio, in uomini diversi, pur di conservare il più piccolo stralcio di verità che è nel bene della nostra insania?

Non lo so, Brian. Vorrei solo scoprirmi capace di toccarti, almeno una volta.

E sentirti vero. Ed esserlo, io stesso, per te.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’è un curioso mix di rabbia gelida e muta disapprovazione, nel modo in cui mi fissi.

“Hai scritto tutto questo perché io lo leggessi?”

Mi affretto a negare, paladino illuso di un’onestà che non esiste.

“No, no, davvero. Io… mi dispiace.”

Una nuova sfumatura a velarti gli occhi, come lo strato di colore supplementare dato dal pennello di un pittore solerte.

“Di cosa?”

“Beh, che tu l’abbia letta. E che te la sia presa. Non avrei dovuto lasciarla in giro, mi dispiace.”

Ancora.

“E non ti spiace forse d’avermi mentito?”

Mi tendo sotto il tuo scrutinio vago, troppo per non mettermi a disagio.

Te ne rendi conto? Neppure la tua rabbia sembra vera.

“Non l’ho fatto.”

“Invece sì. Non avrei trovato questo foglio se non fosse stata tua intenzione lasciarlo in giro.”

“Davvero Brian, non è come pensi.”

“Smettila di rifilarmi le tue scuse. Non m’interessa.”

Ti avvicini a me, ed ogni passo brucia sull’orlo della voragine scura che mi scavi dentro.

“Lascia solo che metta in chiaro qualcosa, con te.”

Non voglio. Dio solo sa quanto tu mi faccia paura, adesso, nella tua irrealtà che parla del fantasma dei miei incubi. E non ho neanche il coraggio di evocare alla mente la mia barriera: mi terrorizza il pensiero di ciò che potrei vedere.

Devo essermi perso il tuo incedere perfetto, perché affondo nella tua bellezza tutto a un tratto, senza possibilità di resa. Sento il calore incerto delle nostre carni che scivolano insieme, una contro l’altra, mentre la tua bocca disegnata mi sfiora la linea del mento.

“Le astrazioni di cui parli non esistono, Matthew. Ci sei solo tu e il caos di demoni che contieni a stento; il fuori non importa. Non ha senso. Tutto ciò che puoi sentire viene da te, dalla mente, dal corpo.”

Le labbra risalgono verso il lobo di un orecchio, il collo, la nuca. Respiri lievemente, ma Dio, Brian, puoi immaginare cosa mi fai?

“Io non sono affatto dentro di te. Non sono neppure dentro me stesso.”

Trema ogni singola fibra del mio essere. Ti sento strusciare, sfregare, plasmare e piegare alle voglie di quella tua bocca assurda centimetro dopo centimetro della mia pelle. Mi sfugge un sospiro nervoso, strozzato dalla sorpresa. Le tue mani sono su di me.

“Se riuscissi a penetrarti tanto a fondo, credi, mi sentiresti.”

E ti sento, sì, maledizione, checché ne dica. Chiudo gli occhi, sperando di serrare all’esterno – quell’esterno che sostieni non esistere – la pressione decisa e torrida delle tue dita sul cavallo dei jeans.  

“Dimmi, Matty… sono tanto freddo, adesso?”

Fondo come cera in gemiti di piacere frustrato e sconnesso, travolto dalla tua lingua che risale, lenta e ferma, e dalle mani che lavorano fra le mie cosce – forti, fortissime, insinuanti, e come diavolo riesci a toccarmi in quel modo, strapparmi via un orgasmo dopo l’altro e lasciarmi a chiedere di più?

“Se vuoi entrarmi dentro devi solo scoparmi.”

Mormori ad un soffio dalle mie labbra; prendendole, infine, e forzandomi in un bacio morbido e bagnato, caldissimo, morbido e bagnato, così caldo e maledettamente erotico, così allusivo, così morbido, bagnato, sensuale, così pieno di sesso e, cristo, mi scopro addosso un bisogno disperato. Spingo contro e verso di te, nelle tue mani. E loro mi assecondando, incalzandomi a mugolare sulla tua lingua – mentre la forza del tuo tocco si mesce alle immagini oscene, non sai quanto, che mi affollano la testa.

Quando credo di non poter raggiungere una pressione maggiore ti affretti a smentirmi.

Con le dita duelli e vinci la chiusura dei miei jeans, aprendoli in uno scatto che è tanto affamato da suonare violento. Affondi all’interno, la precisione inarrestabile di un’arma dell’eros.

Il tuo bacio si rompe, permettendomi di rilasciare il fiato in un gemito tremante. Provo a inarcarmi ancora per sentirti lì dove ne ho più bisogno, e solo adesso comprendo che qualcosa è cambiato.

Ti allontani, serio in volto come non ricordo d’averti già visto.

“...O restare a guardare.”

Giuro, lo giuro, non riesco a seguirti. Tutto ciò che so è che mi tocca fermarmi qui, imbambolato, mentre mi dai le spalle, raccogli il soprabito e giungi alla porta.

"B-Brian..."

Sosti sulla soglia, un piede già fuori.

E vorrei poter ignorare quel che significa. Che il linguaggio del tuo corpo continua a comunicare, lampeggiando come un unico led impazzito.

"Impara a vedere, Matt. Ora hai qualcosa da aspettare."

Non potrei fermarti neanche se fossi fisicamente in grado di raggiungerti.

Lo scatto della serratura mi riconsegna al silenzio interrotto del mio appartamento, improvvisamente immenso, deforme, indisioso. Mi ero abituato a viverlo in funzione di te, della tua presenza, ingombrante anche nelle visite passeggere.

Non tento neppure di evocare il limbo della mia barriera. Mi casca addosso, letteralmente, con la chiarezza di un incubo che viene al reale.

Ed è come pensavo. La tua figura è ancora al mio fianco, ma inizia a sbiadire. Dall'altro lato i nostri riflessi hanno rotto gli argini.

Sento le ginocchia cedere; le lascio fare. Il muro mi è da supporto. Compassionevole, assorbe la gravità del peso che ho sulle spalle e accoglie il loro muto sfogo.

Mi hai lasciato con un pensiero di vetro.

Chissà se arriverei mai a ribellarmi, fossi uno specchio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono passati quattro mesi da quando Brian se n’è andato. 

Io sto bene. Riesco di nuovo a sentirmi tranquillo; contento, se non sereno. Posso interagire con me stesso e con gli altri senza trovarlo poi troppo complicato, e questo rinvenuto benessere si ripercuote sulla mia musica e il mio lavoro.

Dom dice che non mi ha mai visto tanto allegro.

Probabilmente ha ragione. D’altronde mi conosce meglio della maggior parte delle persone con cui ho a che fare ogni giorno: la sua opinione conterà pure qualcosa. Deve aver un fondamento di verità, o almeno esser sincera nell’intenzione.         

Brian mi è ancora dentro, certo.

Ma ora è più simile a una presenza di sfondo, un background agrodolce. Parte del mio cervello vi è perennemente connessa, come fosse adibita alla sola funzione di pensarlo, costruire l’idea di lui a partire dai ricordi e dai sentimenti. Il resto invece va avanti. Si concentra su altro e si lascia distrarre, facilmente, in fretta.

Suppongo di esser regredito ad uno stadio di ovattata superficialità.

Alle astrazioni ci credo ancora. Non sono stato in grado di separare ciò che avverto come reale dalla dimensione soprasensibile delle essenze, e neppure stabilire un legame fra loro. In sintesi, le parole di Brian mi suonano tuttora estranee, quindi non è il momento giusto per ricongiungermi a lui.

Oh, sì, so perfettamente che quel momento arriverà. È la lezione che mi è stato imposto d’imparare, previa una solitudine annichilente che ha rischiato di farmi a pezzi – finendo col solo distruggere quel baratro di demoni che mi portavo dietro. Posso ancora percepire la minaccia delle loro ombre scure, ma lo squarcio d’incubi con cui iniziavo a fondere è sparito completamente.

Quanto ai ragazzi, loro non sanno cos’è successo. Pensano che con Brian sia semplicemente finita, ma non è così. Non lo è. Soprattutto, né Dom, né Chris, né Tom né nessun altro ha la minima idea di quello che è cambiato in me. Tutti loro hanno visto lo stato in cui ero fino a qualche mese fa, e ne hanno preso atto senza incolpare – direttamente ed esplicitamente – l’uomo che, nel bene o nel male, ha annientato in un mosaico e ricomposto le tessere delle mie convinzioni. Brian ha avuto il merito di farmi vedere le cose sotto una luce diversa, in un’ottica più disincantata e meno disperatamente irrazionale. È stata una doccia gelida: orribilmente penosa, infinitamente salutare. Il punto è che gli altri non possono neppure iniziare a comprendere quanto profondo sia stato l’impatto che perdere la testa in quel modo ha avuto sulla mia vita.

E c’è dell’altro. Credo di aver compiuto il primo passo verso la cognizione dei miei difetti logici.

Non esiste più alcuna barriera fra il mondo e me; stimoli e istinti passano per i soliti vecchi filtri, quelli innocui del buonsenso e dell’abilità civile. Temo sia stato, in realtà, nulla più di un sistema protettivo d’emergenza: senza Brian a dare un ordine spietato al mio spazio non avrei più saputo dove collocare le mie mura di vetro. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non ero pronto a rivederti tanto presto.

Le ore e i giorni, e i giri d’orologio, le albe e il colore del mercurio sui termometri. Posso sentire tutto, vedere tutto, capire tutto, assorbire tutto quello che ci ha separati per necessità negli ultimi mesi. Sapere di non averlo condiviso con te – chiedermi se tu l’abbia persino vissuto, questo ciclo di tempo in spirali acciaio – vi dà e toglie valore. Proverei a chiederti cosa ti è successo, se non sei forse rimasto immobile in un angolo, aspettando di arrivare ad un’illuminazione tale da rischiarare il buio del tuo cantuccio. Ci proverei, se il dubbio non mi attanagliasse ad innumerevoli, spessi livelli.

Quel che è certo, ci crederesti?, è che non ti ricordavo tanto piccolo.

Ho voglia di toccarti come non ho mai fatto. Senza quella fame disperata, quella brama inestinguibile di prendere quanto eri disposto a darmi. Senza l’ansia di donarmi completamente, pur non persuaso della tua volontà di ricevermi.

“Mi fai entrare?”

È così buffo che tu lo chieda. Lo sento nel modo in cui le pronunci, sai esattamente qual è il peso di queste parole. Saresti una perfetta macchina da gioco, non fosse per l’assenza di goliardica passione nelle tue mosse.

“Certo, scusami.”

Guadagno un’occhiata storta, contrariata. Me la sono meritata appieno e, ti dirò, l’avevo prevista. Inizio forse a cogliere la tua visione del mondo?

La risposta è lampante nel momento in cui mi baci.

Aderisci alle mie labbra con forza e precisione, le braccia sui miei gomiti, a mantenere il controllo. Mi provochi con quella tua dolcezza fittizia – perché è così che l’ho avvertita sempre, Brian – in un’altalena leggera di bocche che si accarezzano senza entrare in contatto, solo spostando masse su masse d’aria bollente.

Toccarti. Ti afferro e attiro e stringo, la mia lingua ad affondarti dentro: disperatamente puerile e cieca e sciocca, come se il tempo non fosse esistito.

Catturi una delle mie gambe e arretri, fino a sentire il muro contro le spalle. Mi spingi a caracollarti addosso, pressi i nostri corpi insieme.

Immagino potrei fermarmi e chiederti che intenzioni hai. Solo che non lo farò. E se in parte dipende dalla meraviglia che mi penetra nel sentirti sulla pelle, posso giurarti che non si tratta dell’eccitarmi nei tuoi baci. Del volerti sotto innumerevoli aspetti.

È solo la lezione che sto imparando.

Mi hai chiesto di stare a guardare, Brian. Te lo ricordi?

Spingi un ginocchio fra le mie cosce, strappandomi un sospiro urgente. C’è un bisogno insolito e palese nella frequenza dei tuoi gemiti, e vorrei dirti che non mi stupisce, perché ormai ho compreso ogni cosa. Però non è così. E un po’ mi interrogo, mentre sussurri la voglia sulle linee della carne e ti esponi alla mia indagine, aprendoti e svelandoti, caldissimo, inebriante, hai un profumo diverso, te ne sei accorto?

Ti cerco sotto i palmi, sussultando quasi alla percezione del denim teso a mille.

Voglio spogliarti, suggerisce malevola una scossa di lascivia. La assecondo, senza negarmi della calma elegante nell’estrarre i bottoni dalle asole della camicia, e tirare già la zip dei jeans. Non mi fermo alla rivelazione erotica del tuo addome, liscio, accaldato, né alla ruvidità sgradita dei boxer sotto i polpastrelli. Prendo di più, prendo ogni cosa, i bordi dei vestiti e li spingo in giù. E semi spogliato, eccitato, esposto, ancora puoi allontanarmi e costringermi a riconoscere la tua presenza.

Mugoli più del dovuto, come se potessi regalarti un piacere immenso solo forzando la stoffa lungo le tue anche. Poi cerchi di attrarre di nuovo le mie labbra. Mi fissi, confuso in modo delizioso, devo ammetterlo, quando mantengo le distanze.

Ho bisogno di guardarti negli occhi. Spero tu possa perdonarmi.

Ti cingo un fianco nudo con la sinistra, la destra sparisce. Ma tu la senti chiara e forte, sulla pelle viva, ed io provo a seguirne il percorso, che si snoda vizioso fra le tue gambe. 

Non ci riesco, Brian. Devo tornarti dentro a modo mio, studiando le espressioni in cui atteggi il viso da bambola. Pendendo dalle tue labbra dischiuse mentre ti abbandoni alle mie cure con inedita arrendevolezza.

È quando inizio a pensare sia solo lascivia che soffi via ogni paura.

Hai le mani ancora strette ai miei gomiti. La sinistra allenta la presa e corre verso il basso, su binari invisibili di stoffa, perentoria e muta, e perfettamente lucida e chiara. Non avremmo realmente bisogno, noi due, di dar voce ad alcunché; suppongo sia un tratto di convenzione cui, semplicemente, non possiamo rinunciare.

“Matt…”

Mi sarei fermato in ogni caso, lo sai. Ancor di più, adesso, perché il tuo non è un richiamo alla calma, non è un invito, non è un lamento. Non è desiderio e non è timore. Non è neppure disagio, no davvero, non ti si addice. E lo so, certo, di aver visto in te cose che alla tua immagine non si addicevano per nulla, e averle riconosciute come tue nondimeno; ma le eccezioni non cambiano l’uomo che sei. Non possono renderti migliore, né peggiore. Solo riempirti di pura essenza.

Le mie eccezioni non cambiano l’uomo che sono, Brian. Cerco di trasmettertelo, con quei brandelli di coscienza che mi restano, mentre trovo la pelle morbida dietro le orecchie e le dono un sussurro.

“Ti sono mancato?”

Tremi e ti allontani, senza respingermi.

Dubito che esista qualcun altro, in tutto il mondo, capace di farlo con la tua eleganza.

E di nuovo ti voglio. Voglio volerti, in realtà, più di quanto capricci veraci abbiano mai preteso; più di quanto con leziosità infantile e prepotenza abbiano saputo strapparmi.

Ma sei rapido a spegnermi, sgretolando il suolo sotto le mie mani che ancora ti cercano, senza riuscire a trattenerti.

“Fammi uscire.”

Devi ripeterlo mille, un milione di volte, mentre infine ti accasci fra le mie braccia e accetti il piacere. Lo ansimi nella mia bocca e tra i capelli, me lo scrivi addosso con le unghie. Lo disegni con la punta della lingua e me lo soffi negli occhi. Cerchi di imprimermelo a fuoco nel cervello, scavandovi solchi di memoria irriducibile e versando orgasmi.

Tento di capirlo. Riuscendo, forse.

L’assenza ha aperto in te lo stesso squarcio di male che ho trovato amandoti. 

Potrei liberarti, io soltanto. Ma quando mai conviene fidarsi degli altri per le cose che contano?

Sono certo apprezzeresti. È il mio modo di applicare i tuoi insegnamenti, ignorarti e farti spazio. Conservarti dentro comodo e caldo, sia pure contro il tuo volere.

Una teoria discutibile di cui non intendo vergognarmi. Te la illustro, persino – dopo l’amore, dopo la crisi. E una risata cancella ogni cosa, salvo quell’unica supplica che è il tuo istante di verità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fammi uscire.

O prenditi tutto, a chi vuoi che importi?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

mentre mi dai le spalle, raccogli il soprabito e raggiungi la porta.ito tremante.  è tanto affamato da suonare violento. orza d

 

                                    














Proprio con Elegy nasceva, non più di due mesi fa, l'idea di questa mini saga. Per qualunque spiegazione, più o meno necessaria, vi rimando al capitolo conclusivo. ^_^
Grazie di cuore a nainai , i cui complimenti mi lusingano e imbarazzano perché prevalentemente immeritati.
Dimenticavo! Buone feste, ragazze :) . E, in caso non tornassi da queste parti prima di allora, buon inizio di 2009! =D

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Capitolo 3
*** Anew. ***


C ’ è q u a l c o s a d i n u o v o p e r t e ,

C ’  è  q u a l c o s a  d i  n u o v o  p e r  t e ,

è  s b a g l i a t o  p e r c h è  n o n  h a  l i m i t i .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli uomini si utilizzano a vicenda.

Amano e cercano in funzione d’un potenziale asservirsi l’uno all’altro.

Quelli ancora restii ad accettarlo non comprendono come lasciarsi usare.

                                                                                                 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Disteso ad imprimere sempre la stessa sagoma su lenzuola diverse.

“Brian…”

Neppure tento di chiuderlo fuori.

Aprirebbe comunque, e farebbe il male che fa ogni sconfitta.

“Mh?”

“…Cosa si prova quando ti viene dentro qualcuno? Cosa provi quando ti vengo dentro io?”

Scrollo nervosamente le anche bagnate di sesso e sudore e strano imbarazzo.

“Insomma, lo senti? Davvero?”

Le aspettative, vorrei esternare, le aspettative sono il vero dilemma.

Mi hai tradito, Matt. Avevo riposto in te la creta di un calco ideale, chiedendoti solo d’aderirvi il più possibile. Abbastanza da annullarti e dimenticare una voce che non trova eguali in chissà che bocche d’argilla.

Invece sei diventato qualcosa di completamente diverso.

Rivolgo uno sbuffo al soffitto, espellendo col fiato un’adorazione che inizia a irritare sottopelle.

Sottovoce.

“Quando sei tu… lo sento, sì. Davvero.” 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E  a n c h e  t u  h a i  q u a l c o s a  p e r  m e ,

è  s b a g l i a t o  m a  c i  r e n d e  s i m i l i .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non c’è verso su questi guanciali.

Che direzione ha il tempo?

Il mio continua a crollarti fra le mani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amo le parole.

Amo le mie parole nel momento in cui fuoriescono e rimbalzano sulle sue.

Perché crede che lo faccia, altrimenti?

È qualcosa di fisico. Ed è il mio bisogno di prolungarlo.

Parlare dopo il sesso è il legame che allontana le mie astrazioni.

“Quando sei tu… lo sento, sì. Davvero.” 

Brian svanisce tenue nel fumo, mentre l’odore acre della nicotina brucia i contorni delle lenzuola.

Deve credere sia tempo sprecato, lui.

Ma so che non potrebbe esserlo mai. Il mio ritmo gli appartiene.

“… Perché, vorresti provare?”

E sorride, un po’ amaro, sardonico. Convinto, evidentemente, che mi tirerò indietro come tante volte in passato.

“Sì. A dir il vero.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V i e n i  a  f a r e  u n  g i r o  d e n t r o  d i  m e

e  q u e s t o  f u o c o  s i  c o n s u m e r à  d a  sé .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualcosa di vecchio, prestato, di nuovo, di blu.

Comunione di pareti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi spingo all’interno, più lieve che posso.

E non c’è davvero bisogno di vivere, adesso. Basta sentire il suo dolore germogliarmi dentro e fuori.

Amo l’illimitato disastro che ha nell’intimo, perché Matt Bellamy è un’incudine abusata. Mia da prendere e buona da dividere.

Sbaglia nel modo in cui erra ogni dipendenza.

Lo sento avvolgermi e stringere, succhiarmi più a fondo. Senza confini e quindi imperfetto, dannatamente.

Non ha paura.

Non riesce ad averne paura.

Perché non puoi averne paura anche tu?  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E  s e  u n a  v i t a  f i n i s c e  q u a

q u e s t ’  a l t r a  v i t a  p r e s t o  c o m i n c e r à .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eco di passi nel mattino.

T’ amerò fino alla fine degli atomi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ti ringrazio.”

Non sono sicuro che capisca il perché delle mie parole.

Brian non è bravo con la gratitudine, o col rimorso.

“Figurati.”

Almeno continua a rispondere.

“Sapevo che avevi qualcosa da darmi.”

Non me l’hai dato tu.

Te l'ho strappato con le unghie e coi baci.

"Quando vuoi."

E lo rende ancora più grave.

"Scusa se ho cercato d’allontanarti."

Lo vedo irrigidirsi, visibilmente, ed è la fine dei giochi.

Brian non è bravo neanche col perdono.

"Ti ho chiesto mille volte di non scusarti per delle sciocchezze."

Qualcosa che non è fisico e non è astratto, ci siamo.

L’amplesso vorace e circospetto delle nostre parole.

"Ma Brian..."

Non permetterò a te neppure di portarmi via questo momento.

Ed è la ragione delle mie scuse.

Per quanto ancora fingerai di non capirlo?

"Torna a cuccia, Bells, e santo cielo, chiudi la bocca."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E  s e  u n a  v i t a  f i n i s c e  q u a

q u e s t ’  a l t r a  v i t a  p r e s t o  c o m i n c e r à .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amare è serrarti le labbra.

Una pellicola impressionata che urla vendetta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non posso amarti per quello che sei, ragazzino.

Non osare pretenderlo.

Ma ti libererò dall'impronta di ciò che volevo per te.

"Ora che succede?"

Matt si rigira svogliato fra le lenzuola, sorridendo sbilenco.

"Si ricomincia. Tutto daccapo."

Per una volta non temo di mostrargli quanto immensamente mi terrorizzi.

È il potere di tutte queste parole.

Le ingoierei una ad una, sul serio.

"Non sono sicuro di potercela fare. A partire da zero."

Ho perso il contatto coi fili che mi tengono all’erta, ma sembra non avere importanza.

Come tutto ciò che trascende la sua voce.

Che cos’hai da sorridere adesso, Bells?

"Allora vorrà dire che non sarà proprio zero. Diciamo, da metà. Che ne dici?"

Prova a barare, mi ricuce addosso verità unilaterali.

Non darmi una stupida bilancia da bambole, maledizione.

Hai idea di quali pesi mi porti dietro?

"Metà può andar bene."

Non era questo che intendevo, ma che importanza avrà mai ora che le parole mi hanno lasciato?

Vanno tutte a morirti fra i capelli. Tra i quadrati del tuo foglio di carta. Sulle linee e i punti del disegno che hai.

"Ti amo. Brian."

Sfrego via dalla pelle, con forza, questa voglia di correre.

"Sogni d’oro. Ragazzino."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_ * _

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Deluse? Io sì.

Non sono per nulla convinta del finale - ecco perché ci ho messo tanto a pubblicarlo. Solo che, comunque la mettessi, non mi è riuscito di cambiarne una sola virgola, quindi immagino che, alla fin fine, questa storia abbia scelto di cotninuare a scriversi da sola, come ha fatto sin dall'inizio.

Non escludo la possibilità di uno spin-off, vi annuncio. Per ora chiudo .Undertone., ma se terrete d'occhio il fandom probabilmente incapperete in altri dei miei esperimenti Mollamy '^^ . Yep, sono recidiva.

Grazie di tutto cuore alla Cri ^o^ (mi farebbe piacere continuare a sentirti! Se ti riesce di rubare di nuovo l'account di Maddy puoi darmi il tuo contatto msn) per i meravigliosi complimenti rivolti tanto a questa fic quanto al mio stile in generale. E naturalmente a echelon ed Endlessly. Per i preferiti ringrazio pozzina e Stregatta (ciao! ^^ davvero hai seguito anche questa storia? *w*)

 

Per i lettori di .:Second Sight:. : il prossimo aggiornamento arriverà fra pochissimo!

 

 

 

 

hai dato tu.

evi qualcosa da darmi.", o col rimorso. e.

 ivolte in passato.

 

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