La Coltre Rossa

di KillingJoker
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Prologo- ***
Capitolo 2: *** -La fine- ***
Capitolo 3: *** -Segreti pt.1- ***
Capitolo 4: *** -Tribù- ***
Capitolo 5: *** -Sacrifici- ***
Capitolo 6: *** -Segreti pt.2- ***
Capitolo 7: *** -Insidie- ***
Capitolo 8: *** -Dannati- ***
Capitolo 9: *** -La Coltre Rossa- ***
Capitolo 10: *** -Cambio di direzione- ***
Capitolo 11: *** -Casa- ***
Capitolo 12: *** -Prospettive- ***
Capitolo 13: *** -La morte viene dal basso!- ***
Capitolo 14: *** -Traditore- ***
Capitolo 15: *** -La Foresta- ***



Capitolo 1
*** -Prologo- ***


La Coltre Rossa

-Prologo-

‘Guarda fuori dalla finestra. Se è una bella giornata esci a godere del profumo della tua collina, il verde prato intorno alla tua casa. Se non lo è resti dentro, e lavori a qualcosa. Non è forse così? Ma mi chiedo che cosa… che profumo senti? A cosa lavori? Ci sono tante cose che non conosco di te, Agristan.’

Si svegliò di soprassalto. Di nuovo. Chi diavolo era? Chi conosceva il suo nome e le sue abitudini? E soprattutto cos’altro sapeva di lui? Ogni notte lo tormentava da ormai tre giorni. Finché non fosse andato da lui a cercarlo, gli andava bene. O era forse una donna? Non riusciva a capirlo. Quella voce era così… lontana. Assente, eppure sempre presente. Come se non fosse di nessuno, o di tutti.

Agristan si alzò, lentamente. Guardò fuori dalla finestra, che tempo faceva? Un tempo strano. Di quelli che a lui proprio non piacciono. Non ci sono nuvoloni, non tira vento. Non minaccia di piovere. Eppure il sole non c’è. E’ tutto così cupo. Non vi è mai capitato di trovare un tempo così? Ma sì, prima o poi capita a tutti. E quindi cosa poteva fare con un tempo così? Era davvero indeciso. Poi capì. Vide dei bambini correre davanti alla sua casa, facendo volare un aquilone. Di vento neanche l’ombra, eppure l’aquilone volava. ‘Ma certo!’, intuì. ‘Non serve il vento per farlo volare, basta volere a tutti i costi che voli’. Pensò a tutte le volte che aveva rinunciato a qualcosa perché non aveva trovato le condizioni giuste per ottenerla, e sorrise amaramente. Poi il filo si spezzò, e l’aquilone cadde. Era evidentemente troppo vecchio. “E ora cosa faranno?” mormorò. Ma i bambini sono sempre pieni di mille sorprese. E allora fecero un bel nodo al filo, e poi un altro, per essere sicuri che reggesse, e ricominciarono a correre. Agristan pensò a tutte le volte che aveva rinunciato a qualcosa perché il suo filo si era spezzato, e sorrise amaramente.

Ma un bambino cosa avrebbe fatto al suo posto? Ci pensò a lungo. Poi prese uno dei lacci di cuoio che usava per i suoi lavori ed uscì di casa. Fermò i bambini e con la dolcezza di una madre si prese cura del loro aquilone: tolse il vecchio e malridotto filo di spago e lo sostituì con quello di cuoio. Poi, senza nemmeno aspettare che lo ringraziassero, sorrise e rientrò in casa. “Se solo sapessero…” mormorò.

Decise che avrebbe costruito qualcosa. Non pioveva, non c’era il sole. Doveva fare una scelta, ed aveva scelto così. Il comignolo della sua bellissima casa di mattoni rossi incominciò ad esalare un denso fumo grigio. Era lento, e saliva verso il cielo. Sembrava volesse raggiungere le nuvole, e nel viaggio spogliarsi di quell’abito grigio per tornare candido, bianco come la neve. Poi iniziò. Era un rumore acuto e regolare. Si ripeteva in continuazione. Il cozzare del metallo sul metallo. Una guerra all’ultimo colpo. Un contrasto impressionante, verrebbe da pensare, con l'inesorabilità di quel fumo che volava su un panorama tanto tranquillo. Eppure questo era il paradosso di quella casa.

La battaglia infuriò per tutta la mattina, interrompendosi a tratti, come per riprendere fiato, e poi ricominciare. Era straordinario sentire come, in tutto quel baccano, fosse proprio il silenzio a produrre il rumore più forte. Un altro paradosso. Passarono le ore, venne il tempo di mangiare e la battaglia si interruppe. Riprese dopo poco, ma era destinata a non durare. Dopo qualche ora, infatti, i rumori cessarono e fu silenzio. Il lento vagabondare del denso fumo grigio, condotto dalle alte correnti in luoghi lontani, ebbe una fine.

‘Che straordinario silenzio’, pensò Agristan. I bambini non sarebbero tornati il pomeriggio, lo sapeva. 'Perché oggi è giorno di mercato, e le madri portano i loro figli in piazza ad aiutarle'. Che posto pacifico, Cantolumino. Per questo l’aveva scelto, lo sapeva, ma ogni volta si sorprendeva di scoprire quanto un paesino di pochi abitanti al confine della regione potesse essere così tranquillo e rigoglioso. La gente del luogo era accogliente e riservata. Quando era arrivato in sella ad un cavallo, con i pochi spiccioli che gli erano rimasti, lo avevano ospitato e gli avevano dato da mangiare e bere. Non avevano fatto domande per non creare l'imbarazzo di rifiutargli una risposta. Non avevano chiesto soldi. Gli avevano dato un posto dove dormire ed un lavoro. Poi, quando era stato in grado di muoversi di nuovo, si era costruito in riva al lago, appena fuori dal villaggio, una casa di mattoni con un grande comignolo e vi si era trasferito. Continuava a lavorare per la gente del villaggio ormai da 8 anni, e in 8 anni mai una domanda sul suo passato o su cosa l’avesse portato da loro. Semplicemente lo accettavano e lui glie ne era grato. “Se solo sapessero…” mormorò.

 

Quel pomeriggio, un pomeriggio senza sole e senza pioggia, un pomeriggio anonimo come tanti altri visti nella sua lunga vita, Parthon cavalcava verso est. Erano passati giorni, settimane da quando era partito da Alfertia. Ma il suo viaggio era ben lontano dal vedere una fine, poiché egli aveva un compito. Né lui né tanto meno il suo cavallo potevano fermarsi. Il loro dovere era di primaria importanza su tutto. Sulla carità, sul riposo, sul cibo e persino sulla stessa vita. Nulla avrebbe dovuto fermarli. Nulla avrebbe osato...

Era la prima volta che se ne rendeva conto: la sua presenza, il suo aspetto, la sua essenza. Tutto di lui era atto, e adatto, al suo unico scopo. Niente avrebbe osato rivolgersi a lui o interromperlo in alcun modo. Sorrise, o almeno si convinse di averlo fatto, e spronò il destriero, accelerando il passo.

Mentre cavalcava senza sosta, si rese conto che stava entrando nelle Pianure di Smeraldo; lo capì vedendo in lontananza un fiume e la terra intorno ad esso: la riva alla quale si stava avvicinando era smorta, con poca erba e radici a tenere insieme la terra. Ma l'altra riva, tutto ciò che gli si parava davanti era la natura nel suo massimo splendore. Oltre il fiume si estendeva a perdita d'occhio una pianura di vegetazione incontaminata e pura, così resistente che le città stesse che vi erano sorte avevano dovuto chiedere il consenso alla terra per poter porre pietra su pietra. 'Questa è la potenza dell'antica magia elfica', fu il primo pensiero di Parthon mentre vedeva come tutto in quel territorio pulsava di energia naturale. Sembrava di essere tornati agli albori di questo mondo, quando le maledizioni non camminavano tra gli esseri viventi. Quando la morte era solo una conseguenza della vita, non un atto di scellerata follia.

'Se i primi viventi avessero saputo ciò che so io, non avrebbero osato spargere il loro stesso sangue'. Se lo ripeteva ogni volta che pensava alla morte. Ma i suoi macabri pensieri furono bruscamente interrotti una volta arrivato al ponte: per la prima volta da quando era partito, una volta messo lo zoccolo sull'ultima asse del ponte, il suo cavallo si fermò. Inutile spronarlo, lo sapeva. Un cavallo del genere non si ferma per riprendere fiato, né perché non ha voglia di proseguire. Si era fermato perché non poteva proseguire.

Parthon smontò. “Se non riesci ad avanzare tu, amico mio, allora lo farò io”. Fece il primo passo, poi il secondo. Gridò il suo dolore e crollò a terra. Fu una fatica indescrivibile quella per tornare sul ponte, ma era troppo vicino ormai, non poteva arrendersi. “E va bene. Ti ringrazio per il tuo aiuto, Achiraon, ma ora proseguo da solo”, disse fissando il destriero negli occhi, o meglio, lì dove una volta c'erano degli occhi. Era sorprendente vedere che in delle cavità oculari vuote da ormai troppo tempo splendeva una inquietante luce scarlatta, anche per lui che era abituato a questo macabro spettacolo.

Il cavallo sbuffò, appoggiando il muso alla sua guancia. Poi chinò il capo, così che Parthon potesse accarezzarlo dietro alle orecchie come a lui piaceva tanto. E fu lì che il suo cavaliere pronunciò le parole. Una lingua sconosciuta ai Popoli, che aveva imparato ormai tanti anni fa. Estrarre un osso da un corpo non è un gesto che i più ritengono piacevole, ma immaginate ora di vedere quel corpo sparire nella polvere lasciando solo poche altre ossa a terra e conoscerete l'orrore di Parthon.

“Arrivederci, amico”.

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Capitolo 2
*** -La fine- ***


-Cap. 1, “La Fine”-

 

“Speriamo non faccia troppe storie” - disse l'umano mentre cavalcava al fianco del suo compagno. “Che storie vuoi che faccia? Quello non vede l'ora di ritornare a muoversi. Uno come lui non può semplicemente chiudersi in una casetta in collina a fare il campagnolo” - rispose l'altro - “E adesso sbrighiamoci, voglio finire questa faccenda prima possibile. Il nostro amico verrà con noi, che lo voglia o no”.

I due spronarono i cavalli. “Certo che voi elfi rossi non vi perdete in chiacchiere” - fu la frase che concluse la conversazione.

 

Quella stessa mattina Agristan stava riparando il tetto della stalla del villaggio. Era intento ad inchiodare una nuova asse, quando in lontananza scorse sulla strada due figure che si muovevano velocemente verso l'ingresso del villaggio. Turisti? Impossibile, non avrebbero tutta questa fretta, 'E poi che c'è da vedere a Cantolumino?'. Magari viandanti di passaggio? Un po' fuori strada per essere capitati in un villaggio così lontano dai grandi centri abitati. Allora forse soldati? Ma no, non vedeva certo scintillare le loro armature. Chi potevano essere? Di sicuro era meglio informare il signor Darrick, il capovillaggio. Edward Darrick, questo il nome dell'uomo, ma tutti lo chiamavano Ed, era una persona tranquilla. Non voleva problemi e non voleva crearne. Accolse i visitatori senza troppe domande e, una volta che ebbe sentito la frase che voleva sentirsi dire: - “Non siamo qui per creare trambusto” - accompagnata da un cortese - “Non si preoccupi della nostra presenza” - li lasciò entrare.


 

Nello stesso momento, ma in un altro luogo, Parthon stava attraversando le Pianure di Smeraldo a passo svelto. Essere costretto ad abbandonare la sua cavalcatura, il suo più fedele compagno, lo aveva preoccupato, da un lato perché ciò significava che l'energia magica che permeava quel luogo era più potente di quanto potesse aspettarsi, ma soprattutto perché dall'altro correva il rischio di non arrivare in tempo. Dopotutto era la prima volta che si addentrava in quella regione e cominciava a pensare che poteva non essere stata una buona idea affidare proprio a lui quella missione. Chissà cosa aveva in mente il Sire. Perché aveva posto la situazione in questo modo?

 

Il dolore era quasi insopportabile per lui. Si sentiva come se l'erba, la terra, la natura stessa lo respingesse. Ed, in effetti, non aveva poi tutti i torti, questa natura: lui era una creatura del tutto innaturale. Un tempo uomo, ora non più, era stato dannato per sempre. E la natura non perdona i Dannati, specialmente quella intrisa di ancestrale magia elfica. Un ennesimo contrasto in quel luogo così meraviglioso. Un corpo coperto di nero, avvolto da una strana e traslucida bolla violacea che camminava come una mosca bianca in quella sconfinata pianura di un verde così lucente da far quasi male agli occhi, a prima vista. Ciò che inquietava maggiormente era che, ovunque lui passasse, l'erba e le piante appassivano ad una velocità sconcertante, per poi rifiorire poco dopo. 'Speriamo che questo incantesimo resista fino al prossimo villaggio, o sarò davvero nei guai' – pensò Parthon. 'Se solo avessi ancora te, Achiraion...'. Aveva un volto triste, o almeno si convinse di averlo. Poi vide infine la prima casa.

 

Passarono i giorni, tutti uguali nel loro susseguirsi così monotono. Ne aveva visti tanti di giorni, Parthon. Durante questi ultimi però aveva potuto ammirare lo splendore della maledizione che affliggeva questi luoghi: non c'è un punto, in tutte le Pianure di Smeraldo, dove la natura non abbia il controllo assoluto. Campi coltivati ricchi di grosse verdure, degne dei migliori raccolti. Piante curate che riflettono la luce del sole con i loro colori accesi. Animali selvatici che vagano placidamente per le praterie. Per le Razze questo doveva essere un paradiso in terra. Ma non sapevano, o non volevano ricordare, che questo luogo li aveva dannati tutti. Come aveva dannato lui. Pensò che l'unica differenza tra lui e loro stava nel suo essere consapevole, a confronto con la loro ignoranza. Per la prima volta dopo tanti anni si sentì di nuovo, vagamente, umano.

 

Arrivò infine il giorno in cui Parthon giunse al villaggio che cercava, per raggiungere il quale aveva tanto sofferto. Lo stesso giorno in cui qualcuno bussò alla porta di Agristan. Lo stesso giorno in cui i due viaggiatori che erano arrivati cavalcando a Cantolumino trovarono la persona che stavano cercando.
 

“Salve sir” - era il più basso dei due a parlare.

“Mi scusi, ma lei chi è” - disse Agristan al suo interlocutore.

“Sono solo un viandante mandato con il suo compagno a trovarla sir”

“Di che stai parlando? Come puoi aver cercato proprio me

se io non so nemmeno chi sei?”

“Sono venuto da lei perché la sua presenza è richiesta dal mio maestro, sir.

Intende venire con noi? Le sarei molto grato”

“Perchè mai dovrei seguire una persona mai vista prima? Uno come te per giunta.

Io sono solo un povero falegname che lavora per questa gente”

“Sappiamo entrambi che lei è molto più di questo sir.

Noi possiamo riportarla alla sua vita passata”

“Capisco”

 

Questo è il giorno in cui due viaggiatori arrivati a Cantolumino da chissà dove mettono un sacco in testa ad un pover'uomo per poi stordirlo e caricarlo su di un cavallo, lasciando velocemente il villaggio verso nord.

 

Questo è il giorno in cui un viandante misterioso appena arrivato a Cantolumino aiuta un uomo a caricare le sue cose in sella al suo cavallo per poi partire verso est.

 

“Ma come ve lo devo dire?? IO NON SONO AGRISTAN FORCHESTER!!”

 

“Piacere di conoscerti, Parthon. Ti prego di perdonare la mia maleducazione”

“Non penarti, Agristan. In 150 anni mi sono abituato a ben peggio”

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Capitolo 3
*** -Segreti pt.1- ***


-Cap. 2, “Segreti e giochi di potere pt.1”-

 

 

Nonostante tutto, Cantolumino non è veramente il luogo più lontano dalla cosiddetta civiltà: è un piccolo villaggio a nord-est di Lepnor, ultimo centro cittadino delle Pianure di Smeraldo. La realtà è che siamo solo a metà della regione: tutto ciò che si trova più ad est di Cantolumino è considerato, dai più, terra selvaggia. Questo perché la magia elfica che vi ristagna si fa più forte man mano che ci si avvicina alla Foresta Sacra, ma facciamo un po' di ordine:

Il continente di Maruar è un vastissimo insieme di regioni dalle più varie caratteristiche, in cui la maggior concentrazione di stranezze è reperibile ad est. Anticamente, le Razze (così viene comunemente chiamato l'insieme dei popoli civili che abitano il continente) comprendevano, oltre ad Umani, Nani, Gnomi e Dhariar, anche una particolare linea di sangue elfico chiamata Elfi Rossi, antichi progenitori degli Elfi che conosciamo oggi, nient'altro che dei lontanissimi discendenti nati da sangue misto. Questi elfi, non molto diversi dai loro parenti dalla pelle chiara e le orecchie a punta, differivano in maniera evidente in una sola cosa: avevano tutti, indistintamente, i capelli e gli occhi di un colore rosso porpora, da cui deriva appunto il nome. Ciò che il popolo di oggi non sa è che c'era un'altra, enorme differenza tra i due antichissimi retaggi. Gli Elfi Rossi, molto più dei comuni Elfi, erano inclini e predisposti alla magia, caratteristica che molti secoli prima li aveva portati ad essere una delle razze più amate di Maruar. Erano arrivati dal Grande Fiume (il confine a sud del continente), così raccontano gli anziani, ed avevano portato prosperità e splendore ovunque camminassero. Gli Umani li ammiravano, gli Gnomi esaltavano la loro capacità di creare manufatti di incredibile precisione, gli stessi Nani controllavano la loro superbia di fronte a loro. Loro d'altro canto ricambiavano l'ospitalità e l'ammirazione che gli veniva offerta con doni e magie che migliorassero la vita dei popoli: erano in grado di trasformare un terreno arido e privo di fertilità nel campo più florido che degli occhi avessero mai visto. Donarono alle Razze la magia, gli insegnarono alcuni dei loro incantesimi, quelli meno pericolosi. Nonostante le pressioni degli Umani, non rivelarono mai alcuna delle loro magie naturali, né tanto meno dissero loro che esistevano poteri magici che erano stati loro proibiti da antiche divinità perché considerati troppo potenti per essere gestiti.

Successe 3 secoli fa, dopo che gli Elfi Rossi si furono insediati in qualsiasi regione del continente come se fossero sempre vissuti lì: avevano insegnato agli umani che esistono due tipi di magia, quella elementale e quella arcana. Gli avevano spiegato che nonostante fossero molto portati per l'apprendimento, la loro razza non era in grado, come invece lo erano loro, di gestire più di un tipo di magia alla volta. Gli avevano detto di non mescolare mai gli elementi, e di non creare mai una roccia sopra ad un disco arcano per costruire gli edifici. Gli avevano spiegato quanto fosse pericoloso intrecciare le trame della magia. “Sarebbe come tessere un abito con fili di lana, di seta e d'oro” - avevano detto. Ed avevano ragione, i loro avvertimenti erano stati accorati e sinceri.

Ma gli Umani, si sa, non si saziano mai. Per loro un abito tessuto con lana, seta ed oro è un oggetto prezioso, a prescindere da quanto possa far male alla pelle indossarlo. Tentarono di applicare la magia alle cose materiali: iniziò tutto con una scopa, che un anziano troppo vecchio per fare le pulizie di casa incantò perché pulisse da sola. Un consigliere di guerra suo amico lo vide e gli chiese spiegazioni su come avesse fatto. Poi il consigliere riferì ai maghi di corte del Re di Alfertia (la capitale centrale del continente), che da tempo cercavano invano di applicare le loro conoscenze a porte e finestre, ciò che aveva visto e sentito. La notizia li lasciò alquanto imbarazzati, ma alla fine riuscì ad indirizzarli sulla giusta strada. E fu così che, in pochi anni, ogni guardia del regno aveva una spada fiammeggiante, o dei bracciali in grado di fargli sollevare un carro con tanto di cavalli. Scoppiò il delirio: i Nani scendevano dalle montagne per far incantare le loro armi, gli Gnomi inventavano balestre e cannoni in grado di scagliare munizioni esplosive, e dilagarono le guerre.

Fu allora che gli Elfi Rossi si ritirarono. Avevano visto quanto poteva essere terrificante la sete di potere di quei popoli, e la ripudiavano. Andarono ad est, oltre il fiume Shaktaär, perché lì i Draghi li avrebbero protetti. I Draghi erano gli unici esseri sul continente in grado di utilizzare la magia prima del loro arrivo. Da loro impararono l'antichissima arte di farsi gli affari propri. Fu coniato addirittura un antico detto elfico dedicato a loro, che recita così: “ora capisci perché i Draghi stavano sulle montagne?”. Il significato è di facile comprensione e tende a sottolineare il fatto che le antiche e maestose creature erano rimaste nei loro nidi senza mai scendere ad insegnare nulla alle Razze. Li avevano osservati sin dalla loro creazione, perciò sapevano quanto potesse essere pericoloso per loro stessi anticipare la naturale evoluzione. Ma gli Elfi Rossi non sapevano niente di tutto ciò, per questo i Draghi non li biasimavano.

Il fiume Shaktaär era il confine perfetto per i loro insediamenti: permeava di antica magia draconica, che era incompatibile con la loro. Ciò avrebbe impedito a qualsiasi cosa, o essere, intriso di magia elfica di attraversarlo e portare distruzione in quelle terre. Per loro fortuna le popolazioni già insediate in quei luoghi erano a conoscenza della situazione ed erano felici di sapersi al sicuro. Accolsero i rifugiati come meglio poterono, ma, nonostante ciò, non c'era abbastanza spazio per tutti. Dopotutto come può una intera razza insediarsi in una regione già abitata e popolata da altre tre? Così andarono ancora più ad est. C'era un piccolo bosco all'estremo est di quelle pianure ed ovviamente bastava a malapena per un clan, ma gli Elfi Rossi decisero che, essendo un luogo incontaminato e lontano dalla “civiltà” delle Razze, andava benissimo. Così usarono la loro magia per fare in modo che crescesse molto velocemente. In pochi anni nacque la Foresta Proibita: una foresta così fitta che persino un Minotauro sarebbe in grado di perdersi al suo interno, e così selvaggia che un orso potrebbe facilmente passare da predatore a preda in pochi attimi. Fu quella la loro patria e nessuno osava oltrepassarne i confini, tanto che tutt'ora, ai tempi della nostra storia, la foresta è rimasta inviolata come tanti anni fa.

 

Ciò che gli Elfi Rossi non potevano sapere era che il lungo periodo in cui si erano insediati ad est del fiume dei Draghi aveva fatto permeare la magia che sprigionavano attraverso la terra stessa, e i potenti incantesimi che avevano ripetutamente e prolungatamente operato sulla Foresta avevano amplificato la mutazione. Ciò ha trasformato quelle terre nella regione che oggi conosciamo come Pianure di Smeraldo, un luogo dove la magia viene emanata dalla natura stessa. E, come si sa, se la natura muta, mutano anche i suoi figli. Per questo le terre ad est di Cantolumino, quelle che più si avvicinano alla Foresta Proibita, sono disabitate: le bestie sono diventate più aggressive e selvagge, le piante sono cresciute a dismisura ed ogni cosa in quei luoghi respinge gli estranei.

 

Ma quello che ora Agristan Forchester e Parthon Zelor si stanno chiedendo, mentre cavalcano verso ovest in direzione del fiume Shaktaär, è: 'cosa può spaventare di più un uomo? Ciò che si trova ad est di questi villaggi che attraversiamo? La terra selvaggia e piena di pericoli? O forse quelle terre ad ovest che noi chiamiamo civiltà?'.

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Capitolo 4
*** -Tribù- ***


-Cap.3, “Tribù”-

 

Una delle abilità necessarie per essere un buon cacciatore è la pazienza. Questo lo sanno anche i bambini. Ma un fatto meno noto è che ci sono cacciatori in grado di sopperire alla mancanza di tale virtù. Faraes Naïlo è uno di questi: egli discende dalla nobile casata dei Naïlo, una stirpe di grandi cacciatori e guerrieri. Si dice che un loro antenato salvò il continente da una minaccia che questo mondo non aveva mai visto, ma sono solo leggende. Ciò che si trova nel mondo reale è, invece, suo padre Vashtam e il suo clan. Gli elfi sono sempre stati famosi per essere arcieri infallibili e mantengono tutt'ora il primato nell'arte di scovare e catturare qualsiasi tipo di preda, ma il Clan Brezza Notturna è considerato tra tutti il migliore in assoluto. Essere il figlio di un capo-clan non è facile, ma non è altrettanto difficile immaginare le aspettative che pendono sulle spalle di Faraes.

Crescere sapendo di doversi contenere, sognare di essere libero e vedere catene ai propri piedi. Questa era la sua visione della realtà. A ciò conseguì una grande mancanza di pazienza, la fretta di finire in tempi brevi il proprio lavoro per avere modo di pensare ad altro. In molti, specialmente suo padre, lo rimproveravano per la sua impulsività, ma dopotutto i suoi colpi centravano i bersagli e gli obbiettivi venivano sempre completati e non rimaneva molto da criticare.

 

L'unica persona che non aveva mai dissentito, né si era mai opposta alle opinioni di Faraes, era Falandria, sua amica d'infanzia e confidente. E fu proprio a lei che pensò, mentre rincorreva l'ultimo obbiettivo della giornata. Lei avrebbe capito perché odiava fermarsi sui rami di un albero ad osservare per minuti interminabili quel cervo. Non avrebbe avuto bisogno di chiedergli perché sprecava le sue energie a rincorrerlo invece di colpirlo alla gola con un colpo preciso ed improvviso come gli era stato insegnato. Lei avrebbe visto, avrebbe apprezzato e sorridendo avrebbe applaudito quando lui, dopo aver esitato un po' nell'inseguimento, aveva preso con un ampio e fluido movimento la freccia dalla faretra per poi incoccarla e, mentre saltava giù dall'albero, scagliarla. La freccia emise un leggero sibilo nel breve tragitto che la separava dalla zampa posteriore destra del cervo. L'elfo atterrò a qualche passo di distanza.

“Da una distanza così ravvicinata anche un neonato sarebbe capace di colpire al collo” - disse il giovane Garlaoram, che lo stava osservando. Ma stavolta la freccia che Faraes scoccò volò per settantadue metri prima di attraversare la mela che il ragazzo teneva in mano, sottraendola alla sua presa e inchiodandola ad un tronco poco distante.

“La tua giovane età ti concede di mancare di saggezza, ma non di rispetto. Se fossi impreciso come sostieni, ora la tua mano avrebbe un indice in meno. Sono il figlio dello Shonder da 153 anni, ho imparato tutti i trucchetti che servono ad impressionarti”. Il cacciatore si avvicinò all'animale, mentre prendeva una sottile striscia di stoffa dalla sua sacca.

“Perché non l'hai ucciso allora?” - chiese Garlaoram, mentre cercava di cancellare dal suo volto l'espressione terrorizzata che era sicuro di avere. Faraes estrasse la sua spada e vibrò un fendente verso il basso, a pochi centimetri dall'orecchio del cervo.

“Ciò che mi hanno chiesto sono le sue corna, non la sua vita. Ed io non intendo certo privarlo di tale dono per il tuo piacere” - rispose vibrando un secondo fendente. Raccolse infine le corna e con molta accortezza estrasse la freccia che lui stesso aveva scagliato, affrettandosi a bendarla con la stoffa.

“Ora va'. Io ti raggiungerò tra poco, intanto informali che l'ordine è stato eseguito”.

Mentre il giovane elfo si allontanava, Faraes si chinò sul povero animale che soffriva ai suoi piedi. Non riusciva a togliersi dalla testa quel pensiero... 'Un giorno ci malediranno per questo'.

Iniziò a pronunciare la formula che ormai conosceva a memoria. Era uno dei pochi incantesimi che venivano insegnati ai cacciatori, ma di sicuro era anche una delle parti fondamentali del loro equipaggiamento. A chiunque, perfino al più esperto, può capitare di rimanere ferito durante una missione. In quel momento, quando ci si trova sull'orlo di un baratro, conoscere anche soltanto un piccolo incantesimo di guarigione può fare la differenza tra la vita e la morte.
Sentì l'animale gemere, sapeva benissimo che la magia andava risparmiata, perché essa è un'alleata volatile e malevola. E' capace di fare più male del bene che promette di portare. Ma il dolore che gli squarciava il cuore era troppo grande per ignorarlo come gli avevano insegnato a fare. Togliere la vita ad un animale per fame, o per bisogno, è parte del ciclo naturale della vita. Una volta ucciso non si può tornare indietro e si riesce a dimenticare. Ma lui aveva fatto quel passo che nessun cacciatore dovrebbe mai fare: aveva lasciato aperta una possibilità di redenzione.
Il suo odio per le tradizioni, che lo costringevano ad uccidere senza una reale necessità di farlo, lo aveva portato a commettere un errore imperdonabile: quello della pietà. Ed ora, mentre le lacrime gli bagnavano il viso, era certo che sarebbe stato condannato per quel misero tentativo di rimediare.

 

 

Tornò che il sole era già tramontato, ma questo non rendeva affatto difficile individuarlo. Non per la sua gente. La prima a vederlo però, con sua grande amarezza, fu proprio Falandria.

“Faraes, per gli Dei... cosa hai fatto??” - la voce le si strozzò in gola, mentre singhiozzava.

Il suo clan lo guardava come si guardano i condannati. E lui effettivamente lo era.

La sua più cara amica piangeva per lui. E lui stesso piangeva per sé.

Suo padre lo guardava con aria delusa. Ed anche lui era deluso.

Si accarezzò ancora una volta i capelli, sentendoli ancora una volta crespi e ben più corti di quando aveva lasciato la sua casa al mattino. Il cervo, in piedi al suo fianco, appoggiò il muso al suo braccio sinistro, attizzando le braci del dolore che lo affliggeva. Le ferite lo martoriavano, ma ciò che provava in quel momento, il patto che lui stesso aveva inciso sulla sua pelle, non gli procurava alcun fastidio. Il sangue che colava sul suo petto, misto alle lacrime, era un tributo che era pronto a pagare per il perdono della sua gente.

Gettò le corna a terra, davanti alla porta della sua casa, ai piedi di suo padre.

“Questo è ciò che mi è stato richiesto. Ho compiuto la mia missione, Shonder”.

Accarezzò ancora una volta la testa priva di corna del suo compagno, pensando ancora una volta che i suoi capelli non potevano risultare uno scambio equo per ciò che lui aveva portato via a quel cervo. “Ti ripagherò” - sussurrò, mentre, tornando sui suoi passi, si allontanava dal villaggio.

Suo padre continuava ad osservarlo. Poi, lentamente, si avvicinò al dono che gli era stato lasciato nella polvere. Lo raccolse.

“Hai indubbiamente compiuto la missione, ma a quale prezzo, figlio mio?”.

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Capitolo 5
*** -Sacrifici- ***


-Cap.4, “Sacrifici”-

 

 

Faraes si svegliò alle prime luci dell'alba, ai piedi di una grande quercia. Scansò delle formiche che avevano fatto della sua gamba destra un ponte per un nuovo quartier generale. Il cervo lo fissava, di fronte a lui. “Hai vegliato su di me tutta la notte? Ti ringrazio”.

Si alzò pigramente, stirò i muscoli e si rimise in sesto. Doveva lavorare quel giorno. Doveva prepararsi per la sua nuova vita. E decise di iniziare dalla sua casa: si addentrò nel fitto della foresta, era molto lontano dal suo villaggio. Già, chissà cosa pensavano di lui ora...

Aveva deluso suo padre, ne era certo. Aveva infranto le tradizioni del suo clan e aveva rinnegato la sua tribù. Ma, tra tutte, l'unica cosa che lo faceva soffrire era la lontananza da Falandria. Senza di lei si era sempre sentito perso e di sicuro lei non avrebbe più voluto vederlo: fare un patto di sangue con un animale è un concetto folle per qualsiasi Cacciatore, ma diventare addirittura un Accolito è considerato ai limiti del sacrilego.

Per i Cacciatori, ed il clan Brezza Notturna è considerato il primo fra questi, gli animali sono prede, obbiettivi; così come gli umani, o i nani, o qualsiasi essere vivente possa avere causato eventi che gli abbiano posto un bersaglio sulla testa. Non è una visione sadica della vita, né tanto meno desiderio di uccidere. È piuttosto il loro modo di percepire la natura: così come esistono i predatori, esistono anche i cacciatori; è nella loro natura agire in tal modo. La loro essenza è nella caccia.

Ciò che lui aveva promesso, il contratto stipulato sul suo corpo con il sangue come inchiostro, è l'esatto contrario di questo principio.

 

La Natura, secondo gli antichi scritti, segue il suo ciclo in equilibrio. Nulla viene semplicemente preso, o regalato. Esiste uno scambio equo. E non bisogna mai prendere senza dare nulla in cambio, questo dicono gli scritti. Ma la domanda che segue è 'come faceva Faraes ad averli letti?'. La risposta giace qualche settimana prima della nostra storia: l'elfo stava studiando nella biblioteca di famiglia, secondo il volere di suo padre. Egli non aveva mai, in tutta la sua vita, osato contraddirlo, tanto meno deluderlo. Così studiava, controvoglia, le tradizioni e la cultura antica del suo popolo; finché non scoprì che esisteva una storia che non gli era stata insegnata. I primi antenati degli Elfi, gli Elfi Rossi, avevano tracciato i confini della loro civiltà proprio nella foresta dove lui viveva, chiamandola Eden. Mentre a lui era stato insegnato che il nome di quel luogo era 'la Foresta Proibita', aveva appena scoperto che quello sconfinato intreccio di alberi e piante di ogni sorta non era nato per essere una prigione, o una fortezza naturale. Era bensì un luogo di preghiera e pace, dove allontanarsi dalla morte violenta e dagli spargimenti di sangue. Ma perché non ne sapeva nulla?

Fece varie ricerche nelle biblioteche del villaggio. Ogni nobile ne ha una e non la chiuderebbero mai ad un giovane e promettente successore del capo clan. Scoprì che la tradizione obbliga ogni Shonder a tenere una intatta copia degli antichi scritti, perché essi sono la verità e l'origine. Contengono la guida che aveva ispirato gli antenati nella loro grandezza. Ma dove? Perché non ne aveva mai visto traccia?

 

Fu mentre si poneva questa domanda che lesse una citazione dagli antichi scritti. Era una frase di poco significato, presa da sola. Ma per lui significava moltissimo. Era una frase che suo padre gli leggeva sempre da bambino, mentre gli raccontava favole di antichi guerrieri e potenti maghi. Ci rifletté, tentando di ricordare, finché non lo vide. Sì, era certo di ricordarlo, il libro si trovava nelle stanze dei suoi genitori. Vi si recò, attendendo un momento in cui entrambi erano assenti, e scoprì l'inizio della catena di eventi che lo avrebbe portato alla sua condanna. Scoprì che il libro che suo padre gli leggeva altro non era che una serie di fiabe ispirate alle scritture, narrate in modo da tradurre gli insegnamenti anche ai più piccoli. Cercò ancora e trovò un pannello nascosto dietro alla libreria, all'interno del quale si trovava ciò che cercava.

Si recò lì per giorni, ogni volta che i suoi genitori si assentavano, fino a che non ebbe letto tutte le antiche scritture. E lì lesse tutto ciò che i suoi antenati avevano appreso e tramandato per anni ed anni sull'equilibrio. Apprese la potenza della Natura. Apprese come legarsi ad essa. Apprese però anche come ripagare un torto fattole. Lesse degli Accoliti, devoti alla Natura che dedicavano il proprio corpo e la propria anima alla sua difesa. Ma Lei chiede fedeltà. Chiunque si leghi alla Natura in qualche modo, non può mai più tornare indietro e per questo motivo gli Accoliti rinunciavano a qualsiasi forma di amore diverso da quello per Lei. Il loro compito era proteggere l'equilibrio naturale delle cose ed evitare così che il ciclo subisse interferenze, che si sarebbero poi riversate sugli esseri viventi. Ma si parlava di tanto tempo fa, e lo stesso Faraes si rese conto che di Accoliti non ne aveva mai visti. Eppure gli scritti erano giusti. Lui credeva a quelle parole, sentiva che erano ciò che si era sempre tenuto dentro.

 

Venne infine il giorno della caccia, in cui Faraes prese le corna di un cervo.

Mentre curava la ferita che gli aveva inflitto, scusandosi tra le lacrime per ciò che aveva fatto, si rese conto che quell'animale non lo odiava. Lo lesse nei suoi occhi. Vedeva qualcosa di diverso dalla rabbia, o dall'odio puro. Era molto più simile a... pietà. E fu proprio quella pietà la scintilla che accese la sua furia. Era lui ad odiare sé stesso per essersi sottomesso ad un gioco di potere al quale non apparteneva, per non essersi imposto su decisioni che non condivideva. Non riusciva a perdonarsi di essere stato tanto debole da accettare passivamente quella barbarie, doveva rimediare. Fu istintivo: pensò a cosa aveva da dare in cambio delle corna, e non trovò altro che i suoi capelli dorati, del colore del grano. Erano fonte di infiniti complimenti da parte dei viziosi e ruffiani nobili che lo circondavano. Erano un prezzo troppo basso, ma era contento di liberarsene. Anche se Falandria li adorava. Li tagliò con la spada.

Ma non erano di certo uno scambio equo. Ripensò a tutte le prede che aveva ucciso. Sangue per sangue, era questo il prezzo: sarebbe diventato un Accolito, per impedire a qualcun altro di commettere i suoi errori. Avrebbe salvato altri giovani come lui ed altri animali come quel cervo.

 

Prese una freccia e ne spezzò la punta; si tolse i vestiti, sapeva cosa fare. Aveva letto più volte quelle pagine negli antichi scritti. Il Libro dei Fiori di Noce conteneva un intero capitolo sui rituali utilizzati dagli Accoliti. Così iniziò, partendo dalle gambe, ad incidere le rune ed i sigilli necessari sulla sua pelle. Arrivato al torso iniziò a perdere le forze, sentendo il dolore che aumentava a dismisura. Le braccia furono la parte più difficile, ma strinse i denti e non si fermò. Svenne solo una volta finite le incisioni e l'ultima cosa che vide fu il cervo corrergli incontro.

 

Quando si svegliò, le voci dell'intera foresta riecheggiavano nella sua mente. Era un Accolito.

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Capitolo 6
*** -Segreti pt.2- ***


-Cap. 5, “Segreti e giochi di potere pt.2”-

 

 

Era notte, l'elfo era ancora all'inizio del suo lavoro. Aveva progettato un sistema che gli permettesse di tenere sotto controllo gran parte di quella parte di foresta: avrebbe costruito un rifugio nel folto degli alberi, con un sistema di ponti sospesi e corde posti in punti strategici, così da salire e scendere rapidamente dagli alberi. Dopotutto era un arciere elfico; ciò per cui era stato addestrato fin da piccolo era tirare da punti nascosti e rialzati. Doveva solo adattare il territorio al suo stile di caccia. Per ora aveva appena iniziato a radunare il legno che gli sarebbe servito alle costruzioni, ma gli serviva al più presto un rifugio per passare la notte. Il cuore della foresta non è affatto tenero come i confini dove era abituato a vivere, lo sapeva bene e ciò che era diventato lo aiutava costantemente a ricordarlo.

Proprio mentre raccoglieva delle foglie per fare un giaciglio sentì arrivare qualcuno. Non era un animale, altrimenti l'avrebbe percepito. No. Era un elfo, tradito da un passo troppo leggero; un cacciatore per l'esattezza, lo si capiva dall'andamento allenato per non fare rumore; quelli che sentiva erano suoni che conosceva molto bene. Si rese conto che li riconosceva fin troppo bene in realtà, dovevano essere di qualcuno che conosceva. Forse qualcuno del suo villaggio che lo aveva seguito, magari... “Falandria!”.

“Ciao Faraes. È bello vedere che stai bene” - disse l'elfa. Ma il suo volto lasciava trasparire un'inquietudine mal celata. “Cosa ci fai qui?” - chiese sorpreso lui. “Sono venuta a vedere come stai. Te ne sei andato senza salutare, senza dirmi nulla. Perché non me ne hai parlato?”.

“Di cosa avrei dovuto parlarti? Del fatto che non avevo più motivo per seguire le tradizioni del nostro clan? Che avrei dovuto lasciare la mia famiglia?”

“No” - rispose la ragazza - “ma avresti potuto dirmi che dovevi lasciare me”.

A quelle parole Faraes non sapeva rispondere. Era stata dura, ben conscia di esserlo stato: lo aveva colpito nell'unico punto in cui sapeva che non si sarebbe potuto difendere, quello della loro amicizia.

I due passarono la serata parlando. Lui le raccontò cosa aveva visto nelle stanze di suo padre, cosa aveva letto e appreso. Le disse tutto, si svuotò. E poi si maledisse per aver scaricato tutti quei pesi su di lei. Lei che era fuggita di nascosto solo per trovarlo e sapere come stava, lei che stava lì ad ascoltarlo senza proferir parola. Lei, che c'era sempre stata e che, come sempre, anche adesso era lì sotto la luna insieme a lui. Si maledisse per tutto: per averle detto tutto, per averle dato la responsabilità di mantenere il suo segreto, per averle permesso di essere lì, al suo fianco, illuminata d'argento. La luce della luna ne tracciava il contorno ed i lunghi capelli dorati risplendevano, lungo le sue spalle, dandole l'aspetto di uno spirito notturno. La pelle candida metteva in risalto gli occhi, due prigioni di ghiaccio che lo avevano appena catturato: intorno a lui c'era il nulla, un nulla del colore dei fiori di ciliegio che si espandeva in dolci curve, per poi prendere improvvisamente una deviazione in un rosa più acceso che si muoveva ipnotico. Rimbombavano dei suoni intorno a lui ma non riusciva a distinguerli, perché, ora che si era spostato cercando una via d'uscita, aveva visto ciò che sicuramente lo avrebbe incatenato dove si trovava, per sempre. Fu prigioniero del diamante e la sua anima si smarrì in un azzurro così freddo da congelare ogni pensiero, rinchiuso per sempre in una prigione di ghiaccio capace di fermare perfino un cuore così inquieto come il suo.

 

“Allora, mi rispondi? Ma che ti prende? Mi stai fissando come se avessi visto un fantasma!”

Si riscosse. All'improvviso fu libero. “Si, scusa” - disse confuso - “cosa dicevi?”. Non riuscì a dire altro.

“Ti ho chiesto se per te va bene se resto qui nei prossimi giorni, così ti aiuto” - ripeté Falandria.

“No! Sei pazza? Ti cercherà tutto il villaggio e se ti trovano con me penseranno che hai voluto abbandonarli come ho fatto io! Ti puniranno, ed io non posso permetterlo. Devi andartene”. Sì. Era esattamente questo che avrebbe voluto dirle, e lo pensava così intensamente che era quasi certo che lei lo avrebbe sentito. Ma in realtà l'unica cosa che riuscì a dire fu - “Certo, grazie”.

Calò la notte e i due approntarono un riparo improvvisato. Falandria aveva viaggiato tutto il giorno seguendo le tracce dell'amico e crollò quasi subito per la stanchezza, ma non fu così per Faraes, che invece non riuscì a chiudere occhio. Si addormentò una volta sola, per poi svegliarsi di colpo dopo aver visto di nuovo quegli occhi. Decise che avrebbe passato la notte a vegliare su di lei, ma altro non era che una scusa per giustificare a sé stesso il fatto che continuasse a guardarla.

 

Fu mattino in un attimo. Lei si svegliò guardandolo negli occhi ma aveva qualcosa di diverso. Lo guardava con sguardo più serio. “C'è qualcosa che devi vedere” gli disse. Lui la vide mentre si slacciava le maniche della casacca, mentre allentava i nodi che le stringevano la maglia sul petto. Sentiva il sangue che gli pulsava nelle tempie ed il cuore che gli usciva dalla gabbia toracica. Poi capì cosa intendeva lei: vide i primi segni e riconobbe le rune, si accorse subito delle cicatrici. “Sono come te, l'ho fatto per te” disse.

Lui gridò. Gridò così forte da svegliarsi, madido di sudore, mentre la sua amica lo chiamava.

Dopo averlo calmato chiese - “Faraes che ti succede? Da ieri sei strano, non capisco cosa ti sia successo... che ti hanno fatto?” - chiese lei preoccupata. Ma lui non rispose. La strinse invece. La strinse a se così forte da toglierle il fiato. Non c'erano cicatrici né rune e la casacca (per fortuna o meno) era chiusa da nodi ben saldi. La mano sinistra dell'elfo si era già spostata sull'impugnatura dell'arco, che giaceva accanto a lui. Afferrò l'arma e la cintola della faretra con quella mano, mentre l'altra si posava delicatamente sul viso della giovane. “Che succede?” - chiese sempre più preoccupata. Era certa di non aver sentito alcun rumore.

“Non fare niente di stupido, e non seguire la mia strada, o ne morirei” - le disse mentre le accarezzava una guancia.

 

Fu fulmineo. Così veloce che non si rese nemmeno conto se era davvero successo o se la sua mente aveva sognato tutto. L'elfa cercò di ripetere la scena nella sua testa, per capire. Il suo migliore amico, Faraes, aveva impugnato l'arco, quasi come se ci fosse un pericolo imminente; poi l'aveva guardata, con uno sguardo così dolce che le aveva fatto perdere per un attimo la concentrazione, e, in un battito di ciglia, si era avvicinato a lei, troppo. Aveva sentito, ora ne era certa, il suo respiro. Avvertiva il calore che il suo corpo emanava. D'un tratto le labbra le stavano pulsando, e solo adesso ne comprendeva il motivo. Fu un bacio sfuggito alla realtà, così come le era sfuggito lui, saltando giù dall'albero per sparire nel fitto del bosco.

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Capitolo 7
*** -Insidie- ***


-Cap.6, “Insidie”-

 

 

Parthon non era certo di compagnia, ma la cosa non infastidiva Agristan. Ciò che l'uomo voleva era capire in cosa era stato coinvolto.

“Siamo quasi al fiume, ben lontani dai villaggi ed in una zona abbastanza scoperta da essere certi che orecchie indiscrete non ascoltino. Risponderai alle mie domande?” - chiese rallentando il passo.

“Non sono in condizione di spiegare la situazione, signor Forchester. Sono solo stato inviato a svolgere un compito, ma al fine della mia missione vi dirò ciò che so: una minaccia incombe, signor Forchester”.

“Agristan” - rispose l'altro - “Chiamami Agristan, ormai siamo compagni”.

“Bene. Una minaccia incombe, Agristan. E voi servite alla nostra causa”.

“Hai detto 'vostra'. Chi siete? Per conto di quale esercito agisci?”.

“Io faccio parte di una organizzazione, una 'gilda', se così volete chiamarla. Non posso dirvi nulla a riguardo purtroppo, il mio giuramento lo vieta. Ma credo che avrete molto presto risposta alle vostre domande. Una volta arrivati ad Alfertia ci recheremo immediatamente nella nostra sede. Ciò che invece intendo dirvi è che noi non abbiamo parte in una guerra, né siamo una parte 'in causa', per così dire. Non è questo il nostro interesse. A noi importa che l'equilibrio resti immutato, e c'è qualcuno che intende sfruttare un antico potere per cambiare le carte in tavola”

“Di che si tratta? E cosa c'entro io?” - chiese Agristan senza scomporsi.

“Non so dirvi che ruolo abbiate, ma un guerriero della vostra fama non può certo meravigliarsi di essere chiamato in causa quando una guerra incombe. Specialmente se si protrae nelle vostre zone di origine. Posso certo immaginare la logica strategica dietro la vostra chiamata. E non mi sorprende allo stesso modo che la parte interessata ad evitare una vostra eventuale interferenza si sia già preoccupata di togliervi di mezzo prima che ciò avvenisse” - rispose Parthon.

“Io ho smesso di combattere molto tempo fa. Ora sono un normalissimo fabbro. Non mi interesso di guerre, tanto meno se si tratta di aiutare i Nani, così avidi e vanitosi da aver attirato la fame degli Orchi”

“Le cose non stanno così. Nessuno vi chiede di combattere con una delle due fazioni. Ciò che ci interessa è fare in modo che una terza parte non prenda parte al conflitto, poiché se tale evento si verificasse vedremmo entrambe gli eserciti, nanici ed orcheschi che siano, spazzati via. E ciò muterebbe l'equilibrio in modi che perfino io non comprendo. Ma voi incontrerete il Sire, che sicuramente vi dirà quello che avete bisogno di sapere per avere una chiara idea degli eventi e delle cause riguardanti la vostra convocazione”

“Non ne sono più così convinto, Parthon Zelor. Ma mi hai salvato da morte certa, e ti seguirò per ascoltare cosa questo tuo Sire ha da dirmi. Ad ogni modo ricorda sempre che anni fa feci una scelta. Io sono un normale fabbro come tanti altri ne esistono, non più un guerriero” - disse l'uomo sforzandosi di apparire più serio e deciso di quanto già non fosse.

“Ed un normale fabbro metterebbe nella propria valigia attrezzi e materiali per la creazione di armi manufatte di grande potenza? Il vostro istinto vi tradisce, Agristan Forchester” - rispose il suo compagno di viaggio, spronando il cavallo.

 

Giunsero al fiume Shaktaär a notte inoltrata. Era davvero impressionante la notte, in quei luoghi. Il fiume traccia da sempre il confine naturale delle Pianure di Smeraldo, ma questo non ha impedito alle Razze di aggiungere il loro contributo per rendere tutto più evidente: ogni notte da secoli ormai, quando il sole cala e le tenebre divorano la terra, lungo tutto il fiume migliaia di magiche lanterne si accendono lentamente una dopo l'altra, inseguendo il buio che altrettanto lentamente si estende. Ciò crea un panorama spettacolare in grado di incantare perfino un uomo in fuga. Decisero di accamparsi lungo il fiume per la notte.

Fu all'alba, svegliandosi alle prime luci, che Agristan si rese conto che il suo compagno di viaggio era rimasto tutta la notte a vegliare su di lui senza svegliarlo per il turno di guardia. Ma quando domandò spiegazioni fu liquidato immediatamente con poche parole riguardanti la fretta e la necessità di arrivare velocemente ad Alfertia, così ripartirono non appena furono pronti. Varcarono il ponte a piedi e Parthon rispedì i due cavalli indietro per la loro strada.

“Perché li hai mandati via? Come arriviamo a destinazione adesso?” - chiese alterato Agristan.

“Conosco un mezzo più veloce, oltre questo fiume” - fu la risposta.

E così l'uomo vide per la prima volta in vita sua qualcuno rovesciare delle ossa a terra pronunciando una formula; e vide per la prima volta in vita sua delle ossa tornare insieme tra loro per dare forma ad un sinistro destriero avvolto nelle ombre.

“Cosa diavolo è questo abominio?” - chiese sorpreso.

“E' il mio più fedele compagno di viaggio” - disse l'altro allungando una mano verso il suo interlocutore, il quale ricambiò la stretta e salì a cavallo, afferrandosi alla tunica di Parthon. Fu molto sorpreso di notare quanto il suo compagno fosse magro, ma non si fece troppe domande ed il cavallo partì troppo in fretta (perfino lui si rese conto che era troppo per un cavallo che sostiene due persone) per permettergli di cambiare idea.

 

Viaggiarono per un intero giorno, per poi fermarsi alla cittadina di Bereagor, un centro abitato divenuto ricco grazie agli scambi commerciali tra le tue sponde del fiume. Fu poco dopo che Parthon aveva congedato il suo fedele Achiraion facendolo tornare alla sua originale forma, chiuso in una sacca di velluto, che quattro uomini armati di spade e balestre sbucarono dal boschetto che circonda la strada maestra.

“Ma guarda! Briganti!” - esclamò Agristan con aria seccata - “Sono davvero sorpreso”.

“Non preoccuparti, sarà una cosa veloce e nessuno si farà male” - rispose Parthon.

Finalmente uno degli uomini riuscì a prendere la parola: “Piantatela di blaterare! Dateci quello che avete se non volete finire squartati come maiali!”. Purtroppo la frase fu interrotta al culmine del pathos da una mano non più guantata; una mano dal colorito grigiastro, rinsecchita e diafana.

“Io preferirei dell'ottima frutta secca, sono vegetariano” - rispose il proprietario della mano dalla stretta ferrea. Il bandito cercò di replicare con un fendente di spada, ma l'arma lo abbandonò cadendo a terra, e così fecero le sue intere forze. Era come se la sua energia vitale gli venisse aspirata. Stava velocemente mutando in modo sempre più somigliante alla mano che lo aveva afferrato, la quale al contrario riprendeva colore e vigore.

“Che cosa gli stai facendo Parthon??” - gridò questa volta con sincera sorpresa Agristan Forchester, che non aveva nemmeno visto scendere il suo compagno dal cavallo.

In pochi secondi il brigante cadde a terra; la sua pelle aveva l'aspetto di una foglia secca, pronta a scricchiolare frantumandosi sotto lo stivale di un passante, ed il colore della nebbia sopra ad una grande città.

“Tranquillo, non morirà. Tra qualche giorno sarà di nuovo in grado di parlare e muovere gli arti, e di sicuro smetterà di fare questo tipo di vita. Si troverà un lavoro onesto e sfamerà la sua onesta famiglia. Così come voi, dico bene ragazzi?” - si rivolse ai compagni dell'uomo-foglia, mentre indossava nuovamente il guanto.

Per tutta risposta gli uomini gettarono le armi a terra e cominciarono a correre fuggendo come dei ladri di fronte al capitano delle guardie. Purtroppo non era un semplice capitano delle guardie quello dal quale stavano fuggendo. Caddero tutti quanti, uno dopo l'altro, afferrati da lunghe braccia inesistenti. L'unico di loro che riuscì a vedere cosa stava succedendo distinse solo la sua ombra ghermita da enormi arti più oscuri del buio stesso.

“Non lascerete il vostro compagno qui. Senza il vostro aiuto morirà, e non è questa la lezione che avreste dovuto imparare oggi. Riportatelo a casa e prendetevi cura di lui. Se lo abbandonerete al suo destino verrò personalmente a mietere le vostre anime”.

 

Montò in sella, come un normale cavaliere. Afferrò saldamente le briglie e spronò il cavallo, come un normale cavaliere.

“Dovresti reggerti a me o rischierai di cadere, Agristan. Non devi aver paura di toccarmi, almeno finché della stoffa ti separa dalla mia pelle” - aggiunse.

 

“Che cosa sei, Parthon Zelor?”.

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Capitolo 8
*** -Dannati- ***


-Cap. 7, “Dannati”-

 

 

“Così ci chiamano, almeno quei pochi che sanno della nostra esistenza. È un nome appropriato in fondo: quelli come me altro non sono che il risultato di una maledizione. Al tuo contrario, io sono nato e cresciuto nelle Pianure di Smeraldo, dove gli Elfi Rossi si rifugiarono centinaia di anni fa. Non è conoscenza comune, ma una persona bene istruita sa che quella regione permea di residui di magia elfica, che vengono assorbiti da ogni creatura viva al suo interno. In parole semplici: più si passa del tempo in presenza di questa magia stagnante, più essa si insinua all'interno del corpo e della mente.

Io non sapevo nulla di tutto questo, poiché due secoli fa queste conoscenze erano ben poco note, e non ebbi idea del cambiamento che avveniva in me finché non si palesò dinnanzi ai miei occhi. Sviluppai delle capacità magiche naturali, che col tempo divennero sempre più potenti. Mi allontanai dalla mia famiglia, vagai per il continente alla ricerca di istruzione e potere. Volevo imparare, diventare più forte. Non avevo cattive intenzioni, ma ero ambizioso. Troppo.

Un giorno mi avventurai in dei cunicoli sotterranei da solo. Avevo saputo di un'antica reliquia contenuta al loro interno, in grado di sprigionare una grandissima energia magica. Fui avido e non volli portare nessuno con me e questa fu la mia rovina: quei cunicoli erano nient'altro che la tana di una banda di briganti; la reliquia, una menzogna. Mi avevano attirato lì con l'inganno e ci ero caduto in pieno. Opposi resistenza, confidando nella mia magia; un altro errore. Una freccia mi colpì dritto al collo prima che riuscissi a pronunciare la formula del mio più potente incantesimo. Mi lasciarono lì, agonizzante, riprendendosi addirittura la freccia, con poca cortesia, e mi depredarono di tutti i miei averi. Purtroppo per loro, se non fossero stati a loro volta sufficientemente avidi da estrarre la freccia per recuperarla, adesso sarebbero ancora vivi ed io sarei ancora morto.

La condanna delle Pianure di Smeraldo mi colpì pochi giorni dopo, in piena notte. Mi svegliai sopra ad un mucchio di spazzatura, ammassata in un angolo per pigrizia, mentre tutti dormivano. Non sapevo cosa fosse successo, ero convinto di essere morto... e non ero poi così tanto in errore. Mi sentivo strano, avevo paura ed ero affamato ed assetato. Notai che degli avanzi di cena erano rimasti ancora nei piatti e con prudenza li presi e li mangiai, senza ottenere alcun giovamento; anzi, mi venne la nausea, non sopportavo la consistenza del cibo né la sensazione di qualcosa che scendesse nel mio stomaco. Smisi subito di mangiare e vidi che uno dei briganti si stava svegliando. Scattai lanciandomi su di lui, nel tentativo di tappargli la bocca prima che potesse svegliare gli altri, quando mi accorsi che al mio tocco la sua pelle raggrinziva... e la mia fame si placava. Assorbivo la sua vita, che diventava la mia. Feci lo stesso con gli altri, uno dopo l'altro, nel sonno; poi venne lei, l'unica donna che abitasse in quei cunicoli. Non volevo uccidere anche lei, me ne resi conto e subito dopo mi resi conto di aver realmente ucciso. Avevo ucciso 5 persone senza il minimo rimorso o senso di repulsione. La mia mano era ad un soffio dalla sua guancia. Potevo ucciderla con una semplice carezza... esitai.

Esitai abbastanza perché si svegliasse. Mi guardò in volto e fu terrorizzata dal mio aspetto, motivo per cui non permetto nemmeno a te che sei mio compagno di viaggio di guardare sotto questa maschera che indosso. Io feci qualche passo indietro cercando di farle capire che non volevo farle del male, con la stupida convinzione che non avrebbe avuto nulla da ridire con un mostro che aveva appena ucciso la sua unica 'famiglia' nel sonno. Lei impugnò una lama e corse verso di me. Prima che potessi dirle di fermarsi, poiché non volevo aggredirla, mi trafisse, passandomi a fil di spada da una parte all'altra. 'Ecco che muoio di nuovo come un povero idiota' pensai. Ma la vista non si appannò, e non uscì sangue dalla ferita. Non mi mancarono le forze e non sentii la mia mente allontanarsi dalla realtà. Lei estrasse la spada e tentò un nuovo colpo. Io le bloccai i polsi d'istinto e come era prevedibile la donna appassì tra le mie mani. Con stupore mi accorsi che, mentre la sua forza diventava mia, lo squarcio aperto dalla spada nel mio ventre si chiudeva.

Uscii correndo da quelle caverne, perdendomi tra i cunicoli più volte prima di trovare l'uscita, e tornai alla città coprendomi il volto come potevo. I miei conoscenti mi credevano morto, nessuno si era preoccupato per me durante quei giorni, mi resi conto di non avere dei veri amici. Così mi nascosi e costruii con le mie mani questa maschera, intagliandola nel legno. Vissi per anni vagando di città in città rubando la vita degli altri. Mi piaceva, adoravo la sensazione di tornare vivo; ma l'effetto durava troppo poco e tornavo subito dopo a cercare una nuova vittima. Lo facevo sempre più spesso, al punto che la gente iniziò a parlare di me.

Divenni il 'ladro di anime', ricercato in più di 10 feudi, senza essere mai visto. Ma, come mio solito, osai troppo. Presi come obbiettivo un mago che avevo visto in una taverna, per provare la sensazione di assorbire la vita da un corpo intriso di magia. Volevo provare la differenza, se ce n'era davvero una. Lo seguii fuori dalla taverna finché non svoltò in un vicolo poco in vista, dopo di che mi preparai ad aggredirlo. Non iniziai mai il mio assalto. La realtà è che mi stava aspettando. Sapeva cosa ero e mi aveva condotto lì di sua volontà. Per la prima volta in vita mia riflettei attentamente invece di avventarmi alla carica su quel 'testimone scomodo'. Conversai con lui per poco. Mi disse che sapeva cosa ero e che voleva aiutarmi. Mi parlò degli altri che avevano subito il mio stesso destino e della maledizione che mi aveva colpito.

Da lui appresi che la cosiddetta 'maledizione' delle Pianure di Smeraldo era in realtà una reazione magica di un corpo intriso di magia naturale che perde la vita. L'energia in esso contenuta tende a mantenerlo in vita, ma ha bisogno di essere costantemente nutrita con altra energia naturale, come ad esempio la linfa vitale di un altro essere vivente.

Quello che poi divenne per me 'il Sire' mi prese con se e mi portò in un luogo dove altri come me imparavano a controllare i loro bisogni, a mantenersi in vita grazie a fonti che non fossero altri esseri viventi e, in caso di estrema necessità, a nutrirsi senza uccidere. Non feci troppe domande riguardo al luogo, e ti prego di non farne a me, poiché presto lo vedrai con i tuoi occhi. Ciò che il Sire mi disse, però, era che ormai facevo parte di una famiglia e che le persone e gli esseri che avevo visto e conosciuto lì dentro erano miei fratelli e sorelle. Non capii da principio cosa intendeva, ma il suo concetto di 'famiglia' si rivelò più vicino a me di quanto potessi immaginare. Ed è così che io, il Sire ed i miei fratelli e sorelle formiamo la Coltre Rossa, mio caro compagno Agristan.”

 

“Devo dire che mi incuriosisci Parthon. A tratti sembri un freddo e calcolato gregario che esegue gli ordini, quando d'un tratto emani una umanità sconvolgente. Beh, portami dalla tua famiglia allora, siamo arrivati ad Alfertia.”

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Capitolo 9
*** -La Coltre Rossa- ***


-Cap.8, “La Coltre Rossa”-

 

 

Giunsero alle porte della città mentre il sole si nascondeva tra le montagne, dopo aver nuovamente congedato il loro sinistro destriero. Alfertia apparve come una colossale fortezza. Imponenti mura di pietra la circondavano, solcate da torrioni dai quali spuntavano balliste ed altre macchine da guerra. Lungo le mura si stavano scambiando il turno le guardie, proprio mentre, qualche decina di metri più in basso, Agristan e Parthon venivano fermati da soldati in armatura.

“Lascia parlare me” - disse Parthon - “c'è un motivo se ci siamo dovuti allontanare da quel villaggio, Bereagor, senza fermarci come avevamo pianificato: qui bisogna rispettare un'apparenza”.

I soldati si avvicinarono lentamente, la spada al fianco e una grande alabarda in mano, ma non sembravano ostili, o almeno questo era il pensiero di Agristan.

“Chi siete? Avete documenti di riconoscimento?” - chiese uno dei soldati. “Si signore, io ne ho. Ma il mio compagno di viaggio... beh lui non è mai stato qui, quindi ne è sprovvisto” - rispose un comune umano le cui fattezze ricordavano vagamente Parthon Zelor.

“Dovremo identificarlo, in questo caso. Non si preoccupi” - disse il soldato rivolto ad Agristan - “è una procedura standard, serve ad essere sicuri che chi entra in città non abbia la stupida idea di infrangere la legge e squagliarsela. Ora, se vuole seguirci abbiamo bisogno delle sue generalità”.

L'uomo seguì due dei soldati in una piccola casupola a qualche metro dall'imponente cancello che bloccava l'accesso alla città. L'interno era malamente arredato: un tavolo, qualche sedia, una libreria, un focolare, dei bauli. L'unica cosa che attirò l'attenzione di Agristan fu uno strano tavolo in un angolo della stanza. Era di forma esagonale, con strani simboli intagliati e artigli in osso che spuntavano dai sei angoli del tavolo. E fu proprio lì che lo condussero, dicendogli di sedersi e togliersi i guanti; poi, di posare una mano sul tavolo. Nonostante fosse restio a fidarsi di questi uomini, la presenza di Parthon tranquillizzava e così, esitando, obbedì mettendo la mano destra sul tavolo.

“Stia tranquillo, quella che stiamo per attivare è una magia di sigillo per registrare le sue informazioni, di modo che le sue generalità siano sempre a nostra disposizione e permettendoci di sapere quando lei entra o esce dalla città” - disse il soldato che aveva preso l'iniziativa di chiarire la situazione.

E fu lo stesso soldato a pronunciare una breve formula, la quale sembrò attivare i simboli sul tavolo, che si illuminarono di una debole luce violacea.

“Nome”

“Agristan Forchester”

“Luogo di nascita”

“Città della Grande Torre”

“Luogo di residenza”

“Attualmente non ne ho uno, credo che appena potrò

permettermelo acquisterò un'abitazione qui ad Alfertia”

“Professione”

“Di professione sono un fabbro, ma mi piace costruire di tutto”

“Esperienze in campo militare o bellico? Sa usare armi?

Non ne vedo tra le sue cose. Ne è in qualche modo in possesso?”

“Sono stato un soldato. Sono in grado di usare tutte le armi standard in dotazione.

Non sono, ad ogni modo, in possesso di alcuna arma. Gli unici oggetti pericolosi

che ho con me sono gli strumenti con cui lavoro”

 

Il soldato recitò una nuova formula. La luce che illuminava i simboli aumentò di intensità, per poi condensarsi in una scheggia di pura luce che tracciò un sigillo sulla mano di Agristan. Pochi secondi dopo la luce era sparita, i simboli sul tavolo erano tornati alla loro normalità e nessuna traccia del sigillo era rimasta sulla mano dell'uomo. Il soldato aggiunse:

“Tutto quello che ha dichiarato è stato registrato in quel sigillo ed in una nostra copia identica. Ciò le consentirà l'accesso ad Alfertia, che verrà comunque registrato. Ad ogni modo, se dovessimo scoprire che ciò che ha dichiarato è falso, questo sarebbe ritenuto un reato ed in base all'intensità del crimine lei potrebbe anche essere arrestato. Le sembreranno misure rigide, ma è grazie a queste se la nostra città continua ad essere la capitale del continente. Ora controlleremo il corretto funzionamento del suo sigillo e verificheremo anche quello del suo compagno, poi potrete entrare”.

Estrasse una gemma dalla bisaccia, per passarla sul dorso della mano di Agristan, poi su quella di Parthon. Entrambe le volte la gemma emise un bagliore che confermava la validità dei documenti. Così i due furono accompagnati all'ingresso della città ed una porta più piccola, ricavata all'interno del portone principale, fu aperta per loro.

 

Nonostante fosse ormai passata l'ora di cena la città era ancora più che attiva. Le botteghe erano illuminate e dalle taverne usciva un chiasso che riempiva le strade. Nonostante la situazione in cui versava, Agristan si permise il lusso di stupirsi delle dimensioni della città, oltre che dell'altissima concentrazione di abitazioni ed edifici vari. Ma non c'era tempo per guardarsi intorno. Seguì il suo compagno, che nel frattempo aveva nuovamente coperto il suo aspetto originale con un grande cappuccio ed una sciarpa spessa. La tentazione era forte, ma rinunciò all'idea di scrutare sotto quelle vesti per scoprire il vero aspetto di quell'essere, “Dannato” si era definito.

Si accorse di aver vagato per qualche minuto tra i vicoli dei bassifondi quando ormai era troppo tardi per riprendere l'orientamento. La figura di Parthon era fissa davanti a lui, e lui continuava a camminare alle sue spalle, finché giunsero in un vicolo completamente vuoto. Gli sembrò strano visto che finora i vicoli che avevano attraversato pullulavano di barboni e mendicanti. Ed infatti fu proprio lì che si fermarono. Il suo compagno di viaggio estrasse una chiave dalle vesti e la girò in una serratura quasi invisibile tra i mattoni di un edificio.

 

La serratura scattò ed aprì una botola a terra, a pochi passi da loro. Parthon estrasse la chiave e scese le scale a pioli che si inabissavano nel sottosuolo. Agristan lo seguì e la botola si richiuse sopra di loro. I suoi piedi toccarono il pavimento di un cunicolo molto ampio, un vero e proprio tunnel di pietra che correva sotto la città. Il tutto era illuminato da una inquietante luce rossastra che nasceva da una serie di lanterne appese al soffitto.

 

“Benvenuto a casa mia” - disse Parthon. “Benvenuto nella Coltre Rossa”.

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Capitolo 10
*** -Cambio di direzione- ***


-Cap.9, “Cambio di direzione”-
 
 
Falandria Spiranel era una ragazza semplice. Coscienziosa, sempre attenta ai pericoli sia fuori che dentro al villaggio. Si era sempre preoccupata di 'proteggere' Faraes, il suo amico d'infanzia, dalla sua stessa testardaggine. Sempre, fino ad ora. Era passata l'intera mattinata e ancora non riusciva a spiegarsi il gesto del suo amico. Non perché fosse una cosa così inspiegabile: dopotutto lei stessa aveva pensato più volte alla loro amicizia in modo più... stretto. Quello che non riusciva a spiegarsi era “Perché ora? Perché così?”. Continuava a ripeterselo da quando lui era sparito. Lo chiedeva a se stessa ed alla foresta, alle piante ed agli animali che potevano sentirla. Non riusciva a capire se fosse stato un semplice sfogo, dovuto forse alla confusione derivata da quei giorni assurdi... 'sì, deve essere così', pensava, '...oppure...'
 
Ad ogni modo, non poteva stare ad aspettare il ritorno di Faraes senza fare nulla. Era lì per aiutarlo, doveva darsi da fare. Migliorò il rifugio, un piccolo riparo costituito di rami e foglie intrecciati a formare un piccolo tetto, utilizzando la legna accumulata dall'amico il giorno prima. Costruì una rudimentale capanna, non molto grande, ma per loro due sarebbe bastata. Lavorò fino a sera, intrecciando corde e fasci d'erba, per poi legare tra loro i rami più grandi.  Il risultato non era certo un'abitazione confortevole, ma poteva bastare per ora.
Una volta finito il lavoro, Falandria si rese conto che da quando era arrivata in quel luogo non si era ancora nemmeno guardata intorno. Alzando lo sguardo vide un fuoco rosso sparire tra gli alberi, un tramonto come pochi ne aveva visti, in quella foresta. Rimase ad osservare le luci perdere intensità, vide uccelli che tornavano ai loro nidi ed animali uscire dalle tane. Dall'altezza del loro rifugio la vista era confusa oltre una certa altezza e le chiome degli alberi apparivano come un grande mare verde, che pesava sopra la sua testa. Ebbe un pensiero, che quei luoghi fossero tanto antichi e sacri da nascondersi perfino agli occhi degli Dei. Si sentì un'estranea, in una natura incontaminata come quella. Si sentì irrispettosa, per aver calpestato quel suolo così puro. E capì infine perché Faraes aveva scelto proprio quel luogo per rifugiarsi.
 
Tornò che era ormai tramontato il sole. Non disse una parola, portava un involucro fatto con larghe foglie nella mano. “Bentornato Faraes” – disse Falandria – “sei stato via a lungo, non ti dispiace se nel frattempo ho sistemato un po’ il rifugio, vero?”. Lui non rispose, si sedette ed aprì l’involucro, mostrando al suo interno frutti e bacche freschi. “Questo dovrebbe bastarti per la cena. Purtroppo è tutto ciò che sono riuscito a procurarmi dalla foresta. Ancora non sono stato riconosciuto dalla foresta, non posso procurarti della carne”. L’elfa lo guardò interrogativa. “Tu non mangi?” – chiese. “La Natura provvede a nutrirmi con la sua energia, non ho bisogno di cibo, così non sarò mai costretto a cacciare” – rispose lui.
Passarono molto tempo in silenzio. Falandria mangiava, mentre Faraes meditava. Ma quel silenzio era destinato ad interrompersi, e fu proprio lei a farlo.

“Credo che dovremmo parlare” – disse all’improvviso.
“Di cosa?” – chiese lui, fingendo di non capire.
“Di cosa ci sta succedendo. Lo sai bene”
“Cosa vuoi sapere?” – rispose freddo.
“Che cosa farai, cosa ne sarà di me, cosa ne sarà di noi…”
“Sarò il guardiano di questo sacro bosco, lo sai bene” – disse Faraes,
mentre un brivido gli attraversava la schiena.
“Non prendermi in giro, Faraes. Ci conosciamo da quando ancora
non sapevamo camminare. Sii serio con me” – rispose seccata.
 
“Cosa vuoi che ti dica Falandria? Che andrà tutto bene e che tornerò a casa? Che sarà di nuovo tutto come prima? Non è così. Ho fatto un giuramento che non può essere infranto. La Natura non permette ai suoi figli di abbandonarla, vuole dedizione per tutta l’eternità” – si stava sfogando dopo tutto il silenzio a cui si era costretto. Forse troppo.

“Non mi importa di tornare a casa! Credi che non sappia cosa comporti quello che hai fatto? Non ti ho chiesto quale sarà il futuro del villaggio o della tua famiglia. Voglio sapere cosa ne sarà di noi! Dimmi chiaramente cosa provi!” – le parole le si bloccarono in gola. Si pentì immediatamente di averle pronunciate, voleva riprendere fiato per dirgli di dimenticarsene, si era sbagliata. Ma lui non le permise di correggersi.

La guardò negli occhi, gli stessi occhi in cui si era perso. Il suo sguardo la faceva tremare, metteva in mostra tutto il suo dolore. L’elfa si sentì sprofondare, aveva rovinato tutto.

“Vuoi sapere cosa provo? Provo un dolore indescrivibile. Provo un odio profondo… verso me stesso” – Falandria trasalì – “Ho fatto una scelta che condizionerà per sempre la mia vita, e poco dopo averla fatta mi sono reso conto di quanto valeva davvero per me ciò che stavo perdendo”. Lei sentiva che il suo amico sarebbe scoppiato a piangere da un momento all’altro.

“…cosa vuoi dire Faraes?” – chiese ingenuamente.

“Voglio dire che dopo aver giurato eterna fedeltà a questa foresta, un giuramento che mi lega qui per tutta la vita, mi sono reso conto che c’era qualcosa che non avevo mai detto onestamente a me stesso né tantomeno a te. Io ti amo Falandria. E non ho mai potuto confessarmelo fino al giorno in cui ho capito che non ti avrei più rivista. E quando l’ho capito tu sei arrivata dal nulla come se mi avessi sentito” – ora stava piangendo – “ed io… io non so cosa fare!”.

“Faraes io… io non posso credere che per tutto questo tempo tu non abbia capito quanto io tenessi davvero a te. Ma dopotutto che potevo aspettarmi? Sei sempre il solito” – lo abbracciò, stringendolo più forte che poteva – “cosa faremo ora? Potremmo vivere qui, insieme. Potremmo avere un futuro in questa foresta”.

“Lo sai bene. Io sono legato per sempre. Non ci sarà mai posto dentro di me per altro amore che per la Natura. Non potrei mai prendermi cura di te come un compagno, né progettare un futuro con te. Ho scelto di incatenare la mia anima a questi luoghi”.

“Allora sarò io a prendermi cura di te. Spezzerò le tue catene, che tu lo voglia o no. E sai perché? Io penso che una scelta che si fa per tutta la vita debba essere fatta con la consapevolezza di tutte le possibilità che abbiamo. E tu questa consapevolezza, quando hai deciso di legarti a questa foresta, non la avevi. Quindi ti libererò dal tuo giuramento. E quando lo avrò fatto, sceglierai di nuovo. Io non mi opporrò a qualunque decisione prenderai. Ma non permetterò che ciò che potremmo essere sia perso nel vento perché te ne sei reso conto troppo tardi” – Faraes la guardava allibito. Lei capì di essersi alterata troppo – “E ora vieni più vicino e chiedi scusa” – disse.
E lo baciò.

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Capitolo 11
*** -Casa- ***


-Cap.10, “Casa”-

 

Vagavano per quei cunicoli rossastri da un tempo indefinito. Agristan non riusciva più nemmeno a rendersi conto di quanto tempo avessero trascorso lì dentro. Tutto ciò che vedeva erano corridoi, con una serie interminabile di porte. Ogni porta recava dei simboli incisi, ma non avrebbe saputo dire cosa rappresentassero.

 

“Quanto manca?” – chiese al suo compagno dopo l’ennesima svolta.

“So come ti senti, mi sentii anch’io disorientato come te la prima volta che sono venuto qui. Potrà non sembrarti possibile, ma ci troviamo in un vero e proprio quartiere sotto la città. Ad ogni modo non siamo scesi da più di mezz’ora e ne servirà altrettanta per arrivare a destinazione, quindi non tentare di mantenere il senso del tempo altrimenti impazzirai. Credimi, piano piano ti abituerai a tutto questo. Col tempo...” – la voce di Parthon culminò in un sussurro.

“Col tempo? Intendi dire che vi aspettate che io mi trasferisca qui sotto e viva con voi? Beh devo ammettere che l’immaginazione non ti manca, ma ti avverto che per ottenere quello che chiedi dovrete avere degli argomenti davvero convincenti.” – rispose divertito l’uomo.

 

Continuarono a seguire un ignoto percorso che Agristan immaginò essere ben chiaro nella mente del suo accompagnatore. Fece varie domande su dove si trovassero e come fosse organizzata questa base sotterranea, domande alle quali ottenne ben poche risposte.

 

La Casa, così la chiamavano i suoi abitanti, era stata costruita ormai quasi un secolo fa da un gruppo di avventurieri stanchi di versare, e veder versare, sangue per il solo gusto dell’avventura. Investirono tutto quello che avevano nella costruzione di queste strade e stanze sotterranee, sfruttando la loro fama per ottenere il permesso dal Re e dal Consiglio. Ciò che offrivano era semplice: loro avrebbero vissuto sotto la città, lontani dalle vendette e dai conti in sospeso che pendevano sulle loro teste e che avrebbero alimentato una spirale di morte infinita, ed in cambio avrebbero protetto la città da qualsiasi attacco.

Agristan ricordava questa storia, da bambino l’aveva sentita tante volte e in altrettante versioni diverse, ma ciò che non cambiava mai era il racconto dei grandi eroi tornati da un viaggio attraverso tutto il continente che avevano giurato di proteggere la capitale vivendo sotto di essa. Ciò che apprese solo ora era che questa non era solo una favola o una leggenda, né tantomeno gli eroi erano davvero eroi. Erano Dannati, che si erano rifugiati lontano dalla civiltà nascondendosi sotto di essa. Eppure nessuno era mai sceso lì sotto, nemmeno per pura curiosità? Questo si chiedeva, e domandava al suo compagno. Ma tutto ciò che ottenne come risposta era che bastava spargere le voci giuste per evitare problemi.

Finalmente arrivarono davanti ad un grande portone di legno rinforzato da placche di metallo. Agristan si ritrovò buffamente ad osservarlo valutandone la fattura. ‘Dopotutto sono un fabbro’, pensò.

Si fermarono a pochi passi dal portone. Parthon si tolse la cappa che lo aveva coperto finora. Ciò che essa aveva nascosto era un essere dalla forma decisamente umana, ma fin troppo esile, quasi scheletrica. La pelle diafana non era nuova all’uomo che stupefatto la osservava. Riconosceva quelle mani, le stesse che avevano ridotto in fin di vita un brigante solo poco tempo prima. Una volta calato il manto nero, però, ciò che attirò di più la sua attenzione, oltre a degli occhi rossi che indubbiamente lo inquietavano, fu l’interminabile cascata di capelli color perla che scese lungo le spalle di quella creatura così bizzarra e spaventosa che però, nonostante tutto, lo incuriosiva.

 

“Parthon Zelor chiede udienza, Sire.” – disse a voce alta ad un tratto la creatura, rivolta verso il portone.

“Vieni avanti, figlio mio.” – rispose una voce imponente dall’altra parte. E le porte si aprirono.

 

Il Sire sedeva su un modesto scranno di legno e velluto, posto davanti ad una scrivania sopra la quale si stendeva una mappa del continente, e non sembrava prestare la minima attenzione ai nuovi arrivati. Il suo aspetto era ben diverso da quello di Parthon: lunghi capelli castani, un corpo allenato e asciutto che metteva in mostra una modesta muscolatura attraverso il vestito senza maniche. L’unica cosa che sembravano avere in comune i due esseri erano gli occhi, rossi come il sangue.

 

Non appena misero piede nella stanza, il Sire, come se avesse sentito il profumo di una principessa, o di un delizioso banchetto, sollevò lo sguardo verso Agristan. I suoi occhi scintillavano di un bagliore sinistro carico di orgoglio, simili a quelli di un pirata davanti ad un forziere appena dissotterrato. Si alzò in piedi, rivelandosi in tutta la sua statura. Nonostante la corporatura, non era più basso dello stesso Agristan, il che contribuiva a dargli l’aspetto sinuoso di un serpente. Indossava una tunica senza maniche di seta rossa, intessuta con fili bianchi che la decoravano. L’uomo pensò di trovarsi davanti ad un’assurda combinazione tra un sacerdote ed un pericoloso assassino. Decise che rendersi amichevole era il modo migliore per non scoprire quanto la sua immaginazione fosse vicina alla realtà, e prese la parola.

 

“Salute a voi Sire, mi presento. Io sono…” – tentò un approccio formale.

“…Agristan Forchester.” – lo interruppe il Sire – “si, so chi siete amico mio. Sono stato io a farvi convocare dal mio buon Parthon. E non sapete quanto io sia felice di fare la vostra conoscenza. Immagino che sarete pieno di domande e che il vostro accompagnatore, come sempre ligio alle regole, non vi abbia fornito le necessarie risposte. Perciò permettetemi, se ciò vi aggrada, di chiarire ogni vostro dubbio e rispondere a tutti i vostri quesiti. Ma prima ditemi, cosa ne pensate della nostra Casa? E di me? Immagino sia la prima volta che vedete luoghi e creature del genere. E vorrei ben vedere che non fosse così! Ciò vorrebbe significare che non abbiamo svolto bene il nostro compito. Ma prego, dite, dite pure!” – finalmente sembrò lasciare spazio ad una risposta.

 

Agristan riordinò i pensieri e disse: “la vostra Casa è ben più grande di come la si immagina ascoltando le favole. E riguardo a voi, vi immaginavo… beh… più…” – cercava di trovare un termine che non risultasse offensivo.

 

“…silenzioso?” – rispose il Sire, intuendo il suo pensiero – “Non vi biasimo, signor Agristan. Io vi immaginavo più basso.”

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Capitolo 12
*** -Prospettive- ***


-Cap.11, “Prospettive”-

 

“Sarò diretto, Sire. Sono qui perché ho un debito verso Parthon Zelor ed ascolterò ciò che avete da dirmi, ma da quanto ho capito si parla di guerra. Io non prenderò parte a nessuna guerra, ciò che voglio essere è niente più che un fabbro.” – disse Agristan in tono serio.

“Non siete certo giunto fin qui per una piacevole passeggiata, amico mio.” – rispose il Sire – “Vi ho mandato a prendere, innanzitutto, perché perdere qualcuno del vostro calibro sarebbe un errore che la  nostra causa non può permettersi di compiere.”

L’uomo lo interruppe: “Quindi voi sapevate che qualcuno sarebbe venuto a cercarmi!”.

“Non esattamente. Non era difficile immaginarlo, piuttosto,  viste le circostanze. Se vorrete ascoltare tutta la storia, capirete voi stesso.”

“Avete tutta la mia attenzione.” – Agristan, scuro in volto, prese posto su una sedia. Parthon era accanto a lui.

 

“Moltissimi anni fa, durante l’era degli Elfi Rossi, questa era una terra pacifica e incontaminata. La storia comune non ci interessa, a tutti noi è stata raccontata almeno una volta. Ciò che non viene raccontato è quello che sarebbe dovuto accadere ma non è accaduto:

dopo il passaggio degli Elfi Rossi nelle terre dell’est e la loro permanenza nelle Pianure di Smeraldo, le piante non crebbero più come prima e gli animali nemmeno; all’interno della loro stessa foresta sacra, l’Eden, la fauna si trasformò interamente dando vita a bestie feroci e creature assurde mai esistite prima.

Molti popoli abitavano quelle terre e molte città e villaggi le costellavano. La forte concentrazione di magia, purtroppo, mutò anch’essi. Fortunatamente la porzione di esseri viventi, tra le Razze, che subisce mutazioni è estremamente bassa, ma ciò che conta è il risultato: esseri come me e il tuo nuovo compagno Parthon non sarebbero mai dovuti esistere, secondo le leggi della Natura. O almeno questo è ciò che pensano di noi i pochi che sanno della nostra esistenza. Personalmente la vedo in modo diverso; se la Natura è in continuo mutamento, allora noi siamo semplicemente mutati in modo diverso dagli altri, anche se ciò non significa che gli altri debbano per forza comprenderlo.

Io sostengo che quelli come me abbiano un onore, ma anche un onere, Agristan Forchester. Chi come me non invecchia, non subisce il peso degli anni, chi come me ha questo dono ha anche un dovere nei confronti del mondo intero: quello di osservare ed evitare che il corso degli eventi subisca terribili mutamenti come quelli che sono avvenuti secoli fa. Per questo ho creato la Coltre Rossa: per osservare gli eventi ed evitare che escano dal giusto sentiero. Cosa che sicuramente farà sorgere in voi un dubbio. Vi starete chiedendo ‘con quale autorità pensa costui di poter decidere in che direzione debbano andare gli eventi?’. Concedetemi una domanda. Quanti anni pensate io abbia, signor Forchester?“

Qualche secondo di silenzio.

“Non saprei. Guardandovi potrei indovinare circa quaranta, ma immagino di sbagliarmi.” – rispose Agristan, leggermente incuriosito da quella domanda.

“Ne ho quarantacinque, per l’esattezza. Ma ciò non corrisponde del tutto alla realtà dei fatti. Io ho quarantacinque anni da molto tempo.”

Agristan stava per cadere dalla sedia, volontariamente. “La vostra ironia mi spiazza talmente tanto che, se non fossi certo che Parthon mi fermerebbe, tenterei di uccidermi.”

“Non siete il primo a pensarla così ma credetemi, col tempo vi abituerete anche a questo.” – disse sorridente il Sire – “Ma tornando al nostro discorso, intendo delucidarvi su tutto.

Io ho più di quattro secoli amico mio. E li ho passati quasi tutti, escludendo la mia suddetta età, in queste condizioni: un corpo che non invecchia ma che, al contrario, è molto più sviluppato e in salute di qualsiasi altro normale umano. Ovviamente anche questa condizione ha dei difetti, ma in quattro secoli ci si abitua a tutto. La risposta alla vostra tacita domanda è, dunque, proprio questa.

Ho visto mutare il mondo davanti ai miei occhi. Sono stato uno dei primi a mutare con esso ed ho potuto osservare l’evolversi degli eventi. Quindi, se volete sapere con quale diritto affido a me stesso e alla mia famiglia il compito di sentenziare il corretto ordine della storia, la risposta è niente più e niente meno che: quattro secoli di esperienza. Ho visto gran parte delle cause che hanno condotto il nostro mondo alla rovina, quindi sono sufficientemente convinto di saper discernere un pericolo da una scaramuccia, quando lo vedo. Ma non sono uno stupido, signor Forchester.” – Agristan si stava sorprendendo sempre di più di come il suo interlocutore fosse in grado di cambiare il suo atteggiamento passando dall’essere formale ad informale in un batter d’occhio – “Ho radunato attorno a me, durante gli anni, gran parte di coloro che hanno subìto la mia stessa maledizione. Tra loro i più saggi siedono al mio fianco e controllano che io non commetta errori, mi consigliano e mi sostengono, o mi contrastano, in base alle loro personali esperienze.

Ora veniamo alla parte che interessa voi: come sicuramente saprete, la vostra città natale Ambages, a nord-ovest del continente, è stata distrutta in seguito alla guerra che si protrae ormai da decenni tra Nani ed Orchi. Posso immaginare che non nutriate particolare simpatia per nessuno dei due popoli e nessuno qui si aspetta diversamente. Non ci interessiamo di cose così banali. Ma vedete, il problema è una terza parte che sta per entrare in gioco. Non sappiamo chi lui o lei sia, né quali siano le sue intenzioni. Sappiamo solamente che sta risvegliando un antico potere, un oggetto magico estremamente pericoloso, il quale darà al nostro folle soggetto il potere necessario per spazzare via entrambe le fazioni ed iniziare una inarrestabile conquista di tutte le montagne del nord. Si, è vero che i Monti Senza Nome sono confine naturale pressoché infinito che limita interamente il nostro continente settentrionale, ma è da considerare anche che essi stessi sono la tomba di antichissime reliquie e di grandi poteri.

Signor Forchester, non vi nascondo che abbiamo raccolto informazioni su di voi. Conosciamo il vostro passato. Voi avete fatto parte dell’Esercito Indipendente del Nord per otto anni e, nonostante questo breve periodo, siete diventato uno dei maggiori esperti in ambito di oggetti magici dell’intero Maruar. Sappiamo anche dell’incidente che vi ha costretto a lasciare l’esercito, ma ciò che non sappiamo è perché vi siete nascosto per due anni fingendovi un comunissimo fabbro.”

 

Agristan iniziava a sentirsi nervoso. Quella gente sapeva troppo di lui, potevano sapere cose di cui egli stesso non era a conoscenza. Eppure erano lì a chiedere il suo aiuto.

“Perché dovrei dirvelo? Se c’è un motivo che mi ha spinto a fuggire e nascondermi, dev’essere qualcosa che non intendo rivelare, non credete?” – rispose, tenendosi sulla difensiva.

“Non vi sto chiedendo di fidarvi di me.” – rispose il Sire – “Piuttosto guardatevi intorno: siete in un luogo segreto sotto la più grande città del continente, all’interno di un’enclave popolata da esseri che, se scoperti, diverrebbero prede di una caccia spietata che li annienterebbe. Eppure voi siete libero di andarvene quando più vi aggrada. Mi sento di poter dire che siamo noi a fidarci di voi, signor Forchester.” – fece una pausa, per far sì che l’uomo assorbisse il significato di quelle parole, poi aggiunse: “Se non volete metterci a parte delle vostre motivazioni lo comprenderò, ma ciò che più mi preme è conoscere il motivo per cui fuggite così disperatamente da ciò che un tempo era la vostra unica e sola ragione di vita. Lo chiedo solo al fine di avere altre informazioni utili alla nostra causa.”

Calò il silenzio per pochi, interminabili secondi. Un profondo respiro. La tensione dell’uomo risoluto che prende una importante decisione. Agristan scelse di parlare.

 

“All’età di diciotto anni mi unii all’Esercito Indipendente del Nord, come voi sapete. Per otto anni ho collaborato con il Circolo dei Grandi Stregoni di Ambages specializzandomi nella creazione di oggetti magici. Diventai un esperto in quel campo e diedi vita a qualcosa di assolutamente fuori dal comune: oggetti con una loro volontà. Ero in grado di trasferire parte della coscienza di un soldato all’interno della sua stessa arma. Ciò non solo forniva le armi stesse di un grande potere, ma spostava ogni battaglia su un piano di superiorità numerica: un soldato armato che combatte conta per uno, ma un soldato che combatte al fianco della sua stessa arma è una cosa ben diversa. Avevo trasformato dei semplici pezzi di metallo in qualcosa in grado di consigliare strategie, avvertire di un attacco alle spalle e perfino addestrare i loro stessi utilizzatori. Dopotutto, se potessimo parlare con i cavalli, non sarebbero forse in grado loro stessi di insegnarci come spronarli ad andare ancor più veloce?

Eppure questo mio grande successo portò alla mia rovina. Gli eserciti nemici erano venuti a conoscenza di ciò che il Circolo faceva e più volte inviarono assassini ad ucciderci. Nonostante i nostri accorgimenti e le grandi difese di cui disponevamo, uno dopo l’altro, i miei maestri ed i miei amici lentamente cadevano o sparivano. Ma io non volevo abbandonare la mia città né i miei compagni. Così iniziai a lavorare ad un progetto. Qualcosa che un essere mortale non dovrebbe mai tentare: così come facevo per le armi, tentai di trasferire la mia coscienza in un oggetto, ma non al fine di potenziare l’oggetto stesso. Ciò che volevo creare era una copia esatta di me che fosse in grado, mentre io fuggivo portando i miei inseguitori con me, di aiutare la città esattamente come se io fossi presente. Provai qualsiasi tipo di oggetto: libri, specchi, cristalli… eppure nulla sembrava funzionare. Poi, una notte, venne il mio turno di diventare preda. Ero rimasto a lavorare fino a tardi nel mio laboratorio sotterraneo, ma i nemici sembravano non saperlo. Sentii il lieve rumore della porta di casa che si apriva e si richiudeva. Si aspettavano di cogliermi nel sonno. Presi una delle armi che io stesso avevo creato e, non avendo via di fuga, mi nascosi sperando che non trovassero l’accesso al laboratorio. Non fui fortunato. Li sentii scendere le scale e decisi di coglierli di sorpresa: mi lanciai contro di loro, per fortuna erano solo in due. Ma uno di loro era un mago e in poco tempo riuscì a bloccarmi. Mi ribellai alla sua morsa magica con tutte le mie forze, finché la spada che impugnavo, in un disperato tentativo di salvarmi, esplose in mille pezzi.

Da lì non ho più memoria. Il mio ricordo successivo risale al mio arrivo a Cantolumino, moribondo. Quella gente mi ha salvato la vita.” – era la prima volta che raccontava la sua storia a qualcuno, stava tremando.

“Ora capisco molte cose, Agristan Forchester.” – disse quasi sottovoce il Sire – “E se ce n’è una in particolare che ho compreso è che non vi interessa perdere tempo con lunghi discorsi che non portano a fatti concreti. Perciò sarò breve. Vi propongo un accordo: aiutateci nel nostro intento di fermare quel pazzo e vi prometto che la Coltre Rossa userà ogni risorsa a nostra disposizione per aiutarvi a recuperare i vostri ricordi, se questo è ciò che volete. Immagino non sia difficile per voi comprendere che abbiamo tutti i mezzi necessari per far si che ciò accada. Prendetevi il tempo che vi serve per decidere, sarete nostro ospite nel frattempo, ma sappiate che vi comprendo molto più di quanto non sembri e vi sono infinitamente grato di avermi raccontato la vostra storia.” – Agristan rimaneva in silenzio.

“Suvvia,” – proseguì il Sire – “ora basta con questi discorsi tristi. È tempo che vi presenti il resto della nostra numerosa famiglia!”

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Capitolo 13
*** -La morte viene dal basso!- ***


-Cap.12, “La morte viene dal basso!”-

 

Spostando per un attimo lo sguardo più a nord, verso i Monti Senza Nome, Damnerlun Iragrigia stava esplorando la superficie per la seconda volta questa mattina. I rumori si facevano sempre più vicini e insistenti, probabilmente avrebbero attaccato di nuovo oggi.

 

“Per la barba di Eribod odio questa sensazione…” – mormorò Damnerlun, accucciandosi dietro una roccia.

“Che ti prende fratello?” – una voce allegra giunge alle sue spalle – “Non sei eccitato all’idea di fare a pezzi qualche muso verde?”

“Zitto Dhokor, la tromba che hai al posto della gola ci farà scoprire prima o poi! E quel giorno ti prenderò per la barba e ti userò per aprirmi la strada fino a casa!” – rispose  Damnerlun.

 

Lentamente, quattro nani avanzavano per il sentiero nascosti alla vista di occhi indiscreti, tra un commento stupido ed un pugno sull’elmo. Erano ormai 5 anni che perlustravano ogni giorno le zone circostanti Forteacciaio. Erano più che abituati ai rumori della montagna ed erano ormai esperti nel riconoscere l’esercito di orchi che avanzava per un nuovo attacco. Quei dannati pelleverde non imparavano mai: ogni volta arrivavano con più soldati, ma sempre troppo rumorosi e male armati, e finivano sempre per farsi massacrare tornando a casa con la coda tra le gambe. Eppure non demordevano.

 

“Chissà perché diavolo insistono a scendere dalle montagne solo per farsi ammazzare? Voglio dire, lo sanno che non possono vincere se vanno avanti così, eppure continuano a portare i loro guerrieri nelle nostre terre.” – disse ad un certo punto Burgek Squarciapelle.

“Vuoi fare silenzio?” – Murgim Linguadipietra gli diede un altro pugno in testa per tappargli la bocca, e magari fargli mordere la lingua. Ma sapeva che la sua domanda aveva senso. Lui stesso aveva sempre avuto questo dubbio in testa.

 

“Zitti tutti! Ho sentito qualcosa!” – disse sottovoce Damnerlun, tendendo l’orecchio e scostando le folte trecce corvine per ascoltare meglio.

Tutti i suoi compagni lo imitarono.

 

Passi. Verso di loro. Uno solo. Corre.

Aspetta… Uno solo? Perché uno solo?

Non ha senso. Non si manda un solo esploratore, soprattutto non così di fretta. Doveva essere un messaggero, magari stavolta avevano deciso di organizzarsi. Se così fosse stato, sarebbe stata una grande festa a Forteacciaio. In quel piccolo avamposto la monotonia era di casa ed ogni piccola novità veniva vista come una buona scusa per festeggiare. E poi avrebbero potuto cogliere di sorpresa gli orchi una volta interrogato il messaggero.

 

Ecco, i passi si stavano avvicinando. I nani si disposero ai lati del sentiero, sapevano come nascondersi.

“Al mio via, tutti addosso.” – disse Damnerlun.

 

Eccolo, ancora pochi metri.

Più vicino.

Ancora un po’.

 

“ORA!”

 

Sbucarono fuori all’improvviso, lanciandosi tutti e quattro sulla creatura che ignara correva lungo il sentiero.

Dei nani esperti sanno che gli orchi non sono particolarmente intelligenti, ma compensano questa mancanza con forza bruta e furia sanguinaria.

Così la strategia che utilizzavano era la stessa usata dai loro antenati per abbattere gli orsi inferociti: saltargli sopra tutti insieme schiacciandoli sotto il loro peso e immobilizzandoli. Con gli orchi era più facile perché riconoscevano il freddo acciaio pendere sul loro grosso collo verde e smettevano presto di divincolarsi.

Ma qualcosa non andava… Era stato troppo semplice. Il bestione si era arreso troppo facilmente.

 

“Ma che diavolo di scherzo è questo??” – tuonò Dhokor Barbadifuoco.

“Che diavolo ci fa qui un ragazzo pelleverde??” – chiese stupito Burgek – “Avrà l’età di mio figlio!”

 

Capirono tutti che c’era qualcosa che non andava, poi videro il sangue. Sgorgava copioso dal torace del giovane orco, prono sulla pietra. La loro preda non accennava a muoversi, probabilmente era priva di sensi. Così lo voltarono con molta cautela, le armi in mano.

Lo sgomento li pervase…

Nonostante la lingua dei nani e degli orchi non fosse la stessa, le rune utilizzate per la scrittura erano pressoché identiche. Tutti e quattro riconobbero le rune usate per scrivere “traditore” incise con una lama sul petto del ragazzo.

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Capitolo 14
*** -Traditore- ***


-Cap.13, “Traditore”-

 

 

“Per i baffi di tua madre! Giuro di non aver usato l'ascia stavolta!” - disse Dhokor rivolgendosi a Damnerlun.

“Ti sembra il momento di fare il simpatico? Maledetto barile con le gambe! Che Eribod mi sia testimone, non lascerò morire un ragazzo davanti a me in questo modo. Nemmeno un traditore. Nemmeno un Orco! Svelti, portiamolo in infermeria”

 

Ci fu qualche attimo di silenzio tra i nani, che si guardavano sgomenti.

 

“Fratello, sei ubriaco? Vuoi portare un muso verde dentro le nostre mura?” - chiese allibito Murgim.

 

“È un ordine!”

 

Era la prima volta che lo vedevano così. Sembrava sconvolto. Ma sapevano bene che Damnerlun Iragrigia non era uno stupido e neppure un ingenuo, dopotutto se lo avevano eletto caposquadra c’era un motivo. Così i tre nani obbedirono, medicando come potevano quella che fino a poco prima sarebbe stata solo un’altra vittima di una guerra che da anni devastava quelle terre. Sollevarono il corpo del povero orco. Istintivamente stavano per adagiarlo sui loro scudi, come si fa per un compagno ferito o caduto in battaglia. Ebbero tutti e tre un senso di vomito. Decisero che sarebbe stato Murgim, il più forzuto tra loro, a portarlo sulle proprie spalle.

Arrivarono a Forteacciaio mentre gli ultimi raggi di luce si nascondevano sotto la fredda roccia dei Monti Senza Nome. Lo stupore si diffuse presto tra gli uomini dell’avamposto, mentre le voci correvano. Ben presto, un’orda di nani faceva la ressa per entrare in infermeria e dare il colpo di grazia al muso verde. Le guardie stesse faticavano a trattenerli, mentre il gruppo di ricognizione si riposava svuotando un boccale di birra dopo l’altro.

 

“Lo mangeranno vivo appena riusciranno a sfondare le porte, lo sai questo?” – disse in tono disinteressato Burgek Squarciapelle.

 

Con un grugnito Damnerlun lasciò cadere il suo boccale sul tavolo in pietra della mensa, non prima di averlo svuotato fino all’ultima goccia.

 

C’erano nani, nani ovunque, e tutti spingevano per entrare. Nessuno di loro fece caso al rumore del metallo che grattava sulla pietra del pavimento.

Ognuno di loro voleva sfondare le porte. Cozzavano sugli scudi delle guardie e nessuno sentì i passi di un nano furibondo che si avvicinava.

Urlavano e imprecavano. Non ascoltavano, quindi non si accorsero delle parole pronunciate in lingua arcaica da Damnerlun.

 

Nessuno di loro fece caso al martello del nano iracondo che si infrangeva con furia distruttiva su di una enorme bolla d’aria, causando un’onda d’urto poderosa che spazzò via chiunque sulla sua strada, seguita dal fragore di un tuono. L’ultima volta che aveva usato questa magia, il nano aveva sbaragliato un intero plotone di orchi.

Poi fu di nuovo rumore di metallo sulla pietra. Damnerlun trascinò il suo martello fino alle porte dell’infermeria.

 

“Quest’orco è mio prigioniero! Pertanto è sotto la mia custodia e protezione. Chiunque osi anche solo sfiorarlo si prepari a rinunciare per sempre a tenere un boccale di birra con le proprie mani. Sono stato chiaro razza di trogloditi che non siete altro???”

La sua voce, se possibile, superò in volume perfino il fragore della sua stessa magia.

 

Per tutta la notte i chierici di Forteacciaio si diedero il cambio usando tutta la magia in loro possesso per guarire il ragazzo. Non aveva ferite profonde, ma doveva aver perso molto sangue. Fortunatamente la magia curativa dei nani è efficace tanto quanto lo sono le loro armi, così, quando il sole raggiunse il suo apice nel cielo, il giovane orco aprì gli occhi.

Una volta abituato alla luce degli imponenti lampadari d’oro del dormitorio, si guardò attorno. Solo nani intorno a lui, il panico prevalse ed egli tentò di fuggire. Ma un dolore lancinante lo colpì al petto costringendolo a restare sdraiato, ringhiante.

 

“Ma guarda, sembra che dopotutto tu ce l’abbia fatta” – esordì Murgim Linguadipietra – “e dire che non ci speravo proprio.”

“Rak’nogra mus…” – furono le prime parole dell’orco prima che il nano lo interruppe.

“Se proprio devi parlare, sforzati di parlare una lingua che possa comprendere. Sempre che tu voglia mantenere la tua dentro a quella fogna che chiamate bocca.”

“D-dove… mi trovo?”

“Sei a Forteacciaio, sei nostro prigioniero. E prima che cominci a sbraitare e grugnire come un maiale sappi che sei vivo solo perché il mio capitano ha deciso così, quindi non provocarmi. Mi chiamo Linguadipietra per un motivo: non mi piace sprecare tempo in chiacchiere.”

“Non so… Non so dove sia questo Forteacciaio. È forse quella fortezza vicino alla sorgente del fiume ghiacciato?”

“Si, esatto.”

“Allora dovete fuggire tutti! Dovete scappare più lontano possibile! Sta arr….” – un colpo di tosse spezzò la voce dell’orco, che sputava sangue.

 

Murgim era stupito. Nella situazione in cui si trovava, questo ragazzo trovava perfino la forza di fare minacce? Il solo pensiero lo fece ridere, ma vederlo agitarsi per riprendere fiato era perfino più divertente.

 

“Ascoltami bene, ragazzo. Stai sfidando la sorte con queste inutili minacce, ma peggio ancora, stai sfidando la mia pazienza.”

“No tu non capisci! Nemmeno il capo Xolag ha voluto credermi. Siamo tutti in pericolo!”

L’orco si faceva sempre più pallido, le forze gli venivano meno e questo il nano lo sapeva, eppure si sforzava di continuare a parlare. Murgim si fece più serio.

“Dovete scappare… Tutti… Non mi hanno creduto… Sta arrivando… Moriremo… Tutti…”

Perse conoscenza.

Probabilmente la febbre lo faceva delirare, ma il nano non ne era convinto. Per la prima volta in vita sua, Murgim Linguadipietra avrebbe voluto ascoltare le parole di un orco. Voleva capirci qualcosa.

Si allontanò dal letto del prigioniero, avvisando distrattamente un infermiere che il muso verde aveva bisogno di una sistemata. Poi uscì dall’infermeria, ordinando ad un soldato di guardia di chiamare Damnerlun.

Per la prima volta in vita sua, Murgim aveva trovato qualcosa in grado di suscitare il suo interesse più di una preda da fare a pezzi. Quell’orco era coraggioso per essere solo un ragazzo; forse un pazzo, ma coraggioso. Nel momento più critico, invece che pensare a salvarsi la pelle ha usato tutte le sue energie cercando di avvisare un nemico di un possibile pericolo. Forse era solo pazzo, ma meritava di essere ascoltato.

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Capitolo 15
*** -La Foresta- ***


-Cap.14, “La Foresta”-

 

Si svegliarono alle prime luci dell’alba, Faraes e Falandria. Inspirarono profondamente, all’unisono, come se la Foresta avesse soffiato la vita nei loro corpi mortali. Il mattino aveva assunto un sapore completamente diverso quel giorno: senza una casa, una famiglia o nessuno che li aspettasse, ormai. Eppure i loro occhi potevano ora scorgere un panorama che era spesso proibito perfino ai più antichi e saggi di loro. Un tetto di smeraldo aleggiava poco sopra di loro, danzando al ritmo del vento e cantando per tutti i figli della Foresta. Erano certamente fortunati a poter godere di questo privilegio.

Si procurarono poche bacche e frutti per rimettersi in forze e Faraes scoprì che il cibo stesso, ora, aveva assunto un sapore completamente nuovo per lui. Riusciva a sentire ogni goccia del succo di una bacca, l’energia di ogni seme che era sbocciato, la vita che aveva attraversato quei frutti. Era una sensazione dolce e amara, ma lo rendeva consapevole del suo posto in quel nuovo mondo.

Salutò Falandria e andò ad esplorare il territorio di cui sarebbe dovuto diventare il guardiano. Sarebbe stato fuori fino a sera.

Non appena fu abbastanza lontano, lei si rintanò nella capanna e aprì la sacca che aveva portato con sé dal villaggio. Estrasse dei libri, rilegati con foglie di piante antichissime, e li dispose ordinatamente davanti a sé.

La Foresta sembrò avere un sussulto. Le piante smisero di muoversi, non più spinte dal vento che si era affievolito, e gli animali si avvicinavano all’albero sul quale era costruito il rifugio. L’elfa iniziò a leggere quei sacri scritti, che provenivano direttamente dai loro antenati, e la Foresta la ascoltava. Lesse la storia degli Elfi Rossi e del loro esodo, di come avessero fatto di questi luoghi la loro casa. Lesse di come la loro magia aveva permeato queste terre. Lesse degli Accoliti, che dedicavano la loro anima alla protezione della foresta. Più leggeva e più si rendeva conto che qualcosa le sfuggiva: c’era una connessione, un significato nascosto tra le righe, che riusciva a vedere ma non a comprendere. Alcune parole, o frasi, erano state utilizzate impropriamente o sembravano forzate per riempire uno spazio. Falandria passò tutto il giorno a leggere per cercare di svelare il segreto di questi scritti così antichi.

 

Il buio incalzava, inghiottendo le piante e scalando inesorabilmente i tronchi degli alberi, quando Faraes tornò al rifugio accompagnato da un cervo senza corna. Spiegò all’amica che Anàrion, questo era il suo nome, si era offerto di essere la sua guida nella foresta e che, grazie a lui, avrebbe capito cosa doveva fare. Lei salutò rispettosamente il nuovo membro del loro piccolo nuovo mondo e si affrettò a preparare un pasto con ciò che l’elfo era riuscito a procurarsi.

 

L’indomani la giornata si ripeté allo stesso modo, e così il giorno seguente. Esplorare quei territori era molto più difficile di quanto Faraes si aspettasse.

 

“Non basterebbe tutta la magia del mondo per esplorare la Foresta, ci vorrebbe una mappa” – osservò una sera, mentre mangiavano. E fu lì che Falandria capì ciò che le era sfuggito.

 

“Una mappa!”
 

Si affrettò a prendere i vecchi libri che ormai da giorni studiava. Ora non aveva più motivo di nasconderli, poiché ne aveva compreso il significato. Li aprì davanti a sé, sotto lo sguardo attonito dell’amico.

 

“Che cosa sono quelli? Perché li hai portati qui??” – chiese Faraes terrorizzato dall’idea che il suo peggior incubo potesse divenire realtà.

“All’inizio li avevo presi perché pensavo ti avrebbero aiutato a capire, magari a trovare una soluzione.” – rispose lei senza alzare la testa dai libri – “Ma studiandoli ho compreso che sono molto più di questo. Non è solo la tua famiglia a custodire questi libri, ma anche tutte le sei famiglie nobili del nostro regno. Io li ho convinti a lasciare che li prendessi in prestito, per risolvere questa situazione, e penso di esserci riuscita!”

 

L’elfa prese il suo pugnale ed iniziò a tracciare degli incomprensibili segni, incidendoli sulle pareti di legno della loro capanna. Sfogliò pagine su pagine, una dopo l’altra, cercando di combinarne i significati. Faraes la guardava sbigottito. Provò ad obiettare:

“Ma io non voglio tornare indietro…”

“Lo so. So benissimo come ti senti e capisco la scelta che hai fatto, ma ricordi cosa ti ho detto? Ti porrò di nuovo davanti a questa scelta una volta che sarai consapevole di tutto ciò che c’è da sapere. Guarda qui, cosa vedi?”

I segni incomprensibili erano aumentati di numero e volume, ma lentamente, nella mente dell’elfo, stavano prendendo forma.

“Sembrerebbe… la Foresta!” – esclamò.

“È solo una parte, ma una volta finito di esaminare tutti i libri avrai la mappa di cui avevi bisogno, e potremo esplorare questa foresta con gli occhi di coloro che ne hanno piantato le radici. Così capiremo.”

 

Faraes la strinse a sé. Nessuno dei due disse niente, quel gesto era chiarissimo.

Rimasero così, avvolti in quell’abbraccio, per un tempo indefinito. Per quanto ne sapevano, fuori poteva essere sorto il sole, ma a loro non sarebbe importato. Quel momento era solo per loro. Lui le sfiorò una guancia, in una leggera carezza, e lei aprì gli occhi. Il suo sguardo catturò di nuovo la mente dell’elfo, mentre le labbra di lui le donarono profumo di rose e sapore di fragole.

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