La città degli Dei 2 -la luce dei Celesti- di SagaFrirry (/viewuser.php?uid=819857)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I- il Tempo e le Ore ***
Capitolo 2: *** II- padri e figli ***
Capitolo 3: *** III- demoni ed arcangeli ***
Capitolo 4: *** IV- padroni ***
Capitolo 5: *** V- incontri ***
Capitolo 6: *** VI- anime ***
Capitolo 7: *** VII- riunioni ***
Capitolo 8: *** VIII- la notte dei gemelli ***
Capitolo 9: *** IX- racconti di bimbi e fiamme ***
Capitolo 10: *** X- Celesti ***
Capitolo 11: *** XI: intrusi ***
Capitolo 12: *** XII- tradimento ***
Capitolo 13: *** XIII- risposte ***
Capitolo 14: *** XIV- riflessioni ***
Capitolo 15: *** XV- riconoscersi ***
Capitolo 16: *** XVI- traduzioni ed ordini ***
Capitolo 17: *** XVII- mondo angelico ***
Capitolo 18: *** XVIII- madre celeste ***
Capitolo 19: *** XIX- non dimenticarmi ***
Capitolo 20: *** XX- Espero ***
Capitolo 21: *** XXI- preservatori, creatori, distruttori ***
Capitolo 22: *** XXII- il nuovo Kasday ***
Capitolo 23: *** XXIII- la passione delle bestie ***
Capitolo 24: *** XXIV- gli Alti ***
Capitolo 25: *** XXV- Emanazioni e Dei del cielo ***
Capitolo 26: *** XXVI- scoperte ***
Capitolo 27: *** XXVII- addestramento ***
Capitolo 28: *** XXVIII- stelle cadenti ***
Capitolo 29: *** XXIX- nuovi caduti ***
Capitolo 30: *** XXX- feste ***
Capitolo 31: *** XXXI- verità svelate ***
Capitolo 32: *** XXXII- lasciami andare ***
Capitolo 33: *** XXXIII- oltre le stelle ***
Capitolo 1 *** I- il Tempo e le Ore ***
LA
CITTÁ DEGLI DÉI 2: LA
LUCE DEI CELESTI
DOVE
ERAVAMO RIMASTI?
PICCOLO
RIASSUNTO PER CHI
NON RICORDA GLI ACCADIMENTI DEL NUMERO UNO
Ci troviamo in un’epoca di
conflitti interni fra divinità.
In particolare, il Dio del Kaos e la Dea del Destino si scontrano per
il
controllo degli Universi da loro stessi creati.
Il neonato Equilibrio, figlio della
Dea della Guerra e del
Dio del Kaos, viene allontanato dalla Città degli
Dèi dal padre. Rinasce nel
Regno degli Angeli con il nome di Kasday, Serafino dagli occhi azzurri.
Otterrà
il titolo di Dio, fuggendo ed affrontando più volte il Kaos,
dopo aver
attraversato diverse vite: prima angelo, poi demone ed infine creatura
senza
magia. Grazie agli insegnamenti del morente ed anziano Dio
dell’Equilibrio,
riuscirà a prendere il suo posto e ridiventare una
divinità, per metà uomo e
per metà donna.
Lungo il suo cammino,
incontrerà numerosi e fondamentali
personaggi. I più importanti sicuramente saranno, lungo
tutte le sue vite,
Vereheveil e Luciherus. Vereheveil, futuro Arcangelo, suo amico e
amante, lo
conoscerà nel Regno degli Angeli e saranno bambini assieme.
Il giovane non
diverrà mai un vero e proprio Arcangelo.
Abbandonerà il Mondo delle creature
angeliche per ritrovare Kasday, caduto nel Regno dei Demoni e
diverrà Dio delle
Letterature. Si rincontreranno e si perderanno più volte,
fino alla battaglia
finale fra Kaos e Destino. Battaglia in cui sarà decisiva la
presenza
dell’Equilibrio per non portare alla distruzione i Mondi
esistenti.
Altro personaggio che Kasday
incontrerà più volte è
Luciherus, suo cugino e più bello degli Arcangeli nel Regno
angelico. I due
cadranno assieme nel Regno dei Demoni. Luciherus verrà
raccolto dal Kaos che,
approfittando del fatto che il passato Arcangelo non aveva
più ricordi, lo renderà
immortale e Principe dei Demoni. Lui e Kasday si rincontreranno, in un
complesso rapporto di odio/amore/amicizia e invidia. In particolare il
Principe
avrà modo di vederlo in forma femminile, una volta divenuto
l’Equilibrio, e
assieme avranno una figlia, futura Dea della Morte. Nello scontro
finale,
essendo al servizio del Kaos, Luciherus andrà vicino alla
morte non potendo e
non volendo obbedire al suo padrone. Kasday lo salverà e gli
permetterà di
mostrare una parte della sua natura d’Arcangelo, donandogli
un paio d’ali
dorate e piumate, oltre a quelle da Demone.
La guerra finisce con
l’assimilazione da parte
dell’Equilibrio delle essenze del Kaos e del Destino.
Kasday e Vereheveil, oltre a Kavahel,
avranno due gemelli.
Il numero uno termina con la nascita
di questi due gemelli:
il Kaos e il Destino.
Ricordate?
I
IL
TEMPO E LE ORE
“Ti vedo pensieroso, mio
caro. C’è qualcosa che ti
tormenta?”.
La Dea della Memoria si
avvicinò al marito, il Dio del
Tempo, che guardava fuori dalla finestra a braccia incrociate. Gli
occhi di
lui, color della sabbia, non si girarono verso la consorte ma
continuarono ad
osservare il panorama esterno. Pioveva forte e tirava vento.
“Marito mio…mi
degneresti di una risposta?” incalzò la Dea,
appoggiandosi alla schiena del Dio.
“Non ho nessun
problema…è solo che…ricordi il piccolo
Kasday?”.
“Certo. Che domanda
stupida! Sono la Dea della Memoria, non
dimentico niente! Perché me lo chiedi?”.
Il Tempo sospirò, chinando
il capo e sciogliendo le braccia:
“Niente…sono passati tanti di quei secoli
che…”.
Si sentì bussare alla
porta ed il Dio ne fu rincuorato: era
stanco di sentire solo il ticchettio dei suoi molti orologi e le
domande della
moglie!
La Dea, che parlava sempre e
solamente con dei sussurri, si
avviò verso l’ingresso.
“Chi mai può
essere a quest’ora e con questa pioggia?” si
chiese, mentre lasciava la stanza dove stava il consorte e attraversava
il
corridoio che conduceva all’entrata principale.
Passò oltre i numerosi
orologi a pendolo che si misero a
suonare, ricordando a tutti l’ora tarda, ed aprì
il pesante portone in legno
massiccio e decorato. Sull’uscio stava una piccola figuretta
avvolta in un
mantello scuro con cappuccio.
“Desidera?”
chiese la padrona di casa, sorridendo.
“Sono un Angelo
Messaggero” rispose l’incappucciato “Gli
Dèi
Alti mi hanno incaricato di consegnare questa lettera a tutte le
divinità,
maggiori e minori, di tutti i regni e gli Universi. Questa
comunicazione è
perciò rivolta a Lei, Signora della Memoria, a Vostro marito
il Dio del Tempo
ed ai vostri figli”.
La Dea allungò il braccio
e prese la busta, che le porgeva
l’angelo, con la sua mano affusolata e sottile.
“Grazie. Vuole entrare,
Messaggero? Sarà sicuramente
infreddolito e bagnato con questo brutto temporale”.
“Non importa Signora. La
ringrazio per il disturbo, ma ho
ancora alcune case da visitare. Inoltre, ho una certa fretta di
rientrare dal
mio padrone”.
L’angelo, senza aspettare
risposta, fece un rapido inchino
con il capo e si
allontanò, lanciando
solo un ultimo sguardo alla Dea. Lei non poté fare a meno di
notare gli occhi
color dello smeraldo della creatura angelica che se ne stava andando.
“Chi era, amore?”
volle sapere il Tempo, non lasciando il
salone in cui stava.
“Un Angelo degli Alti. Ha
portato una lettera per noi e per
i piccoli”rispose la consorte.
Il Dio si affacciò sul
corridoio ed andò verso la moglie,
protendendo la mano verso la busta che lei teneva in mano.
“Una lettera anche per i
nostri figli?” domandò dubbioso.
Lei le porse il plico:
“Così ha detto
l’angelo…”.
Il Tempo rigirò fra le
mani la piccola busta bianca con vari
decori luminosi e lo stemma degli Alti come sigillo: “Aprila.
Scopri che c’è
scritto…” disse infine, porgendola di nuovo alla
moglie.
Lei scosse il capo:
“É indirizzata anche ai
bambini…perciò
devono essere presenti anche loro”.
Il Dio si mostrò molto
perplesso: “Gli Alti sono degli
psicopatici e dei folli. Chissà che cose e che richieste
assurde stanno scritte
lì dentro! È meglio che i nostri figli ne restino
fuori, per ora”.
Il padrone di casa sedette sulla
poltrona imbottita che
stava davanti al camino acceso e buttò la busta sul tavolo
di fronte. Questa
scivolò sulla sua superficie liscia e quasi cadde in terra:
si fermò sul numero
Sette. Il mobile era, infatti, circolare ed al suo interno era
rappresentato il
quadrante di un gigantesco orologio con tutti i numeri e le lancette.
I capelli del Dio, arricciati come il
simbolo dell’infinito,
seguirono il movimento del braccio del proprietario e poi tornarono al
loro
posto. Il tavolino era così liscio e lucido da permettere al
suo padrone di
potersi specchiare e questi si soffermò sulla sua figura, in
quella
circostanza. Si ritrovò perso nei suoi pensieri e, ad un
tratto, si immerse in
varie riflessioni riguardanti svariate faccende del suo passato. Prima
di tutto
cercò di ricordare tutte le persone e divinità
che aveva conosciuto e che ora
non erano più risiedenti in quegli Universi.
Guardò il suo viso riflesso e
sorrise. Nulla era cambiato in lui: nulla cambiava in lui da Ere.
Portava
sempre lo stesso abito grigio e lungo, sfumato ed a righe come una
colonna e
portava i capelli sempre nello stesso modo. Non avevano nemmeno
cambiato
colore, nonostante la sua notevole età, ed erano rimasti di
quello strano
grigio-nero dalla nascita. Era uno degli Dèi più
antichi, eppure non mostrava
nemmeno una ruga o un capello bianco.
E non era neppure stanco del suo
lavoro, come invece era
accaduto ad altri che conosceva e che aveva conosciuto. Era felice.
Tranquillo
e felice.
Dopo la grande battaglia, fra il Dio
del Kaos e la Dea del
Destino, aveva quasi deciso di ritirarsi e lasciare il suo posto ad
altri ma,
poi, aveva conosciuto la Dea della Memoria e aveva capito che non era
poi così
male il lavoro che svolgeva. Però
ora,
quella lettera..che potesse compromettere la felicità e la
stabilità sua e
dell’intera famiglia? Non era mai un buon segno quando le
divinità Alte si
facevano sentire. Significava, quasi sempre, che qualcosa di grave non
funzionava.
Notò, tornando alla
realtà, il riflesso della moglie accanto
al suo. Aveva gli occhi come la superficie che guardava: di vetro, o
cristallo,
a specchio. Il suo viso, piccolo e arrotondato, era abbellito da una
bocca
sorridente e vermiglia. Quella notte era in uno di quei giorni in cui
la si poteva
vedere chiaramente. Essendo lei poco più che
un’ombra, capitava a volte che
fosse semitrasparente oppure del tutto invisibile. Come i ricordi,
anche lei a
volte era chiara e nitida ed a volte, invece, presentava contorni
confusi e
sfumati. Portava un abito a righe orizzontali bianche e verdi, cosa per
lei
insolita perché normalmente portava lo stesso grigio del
marito.
“Aprila”
ordinò la Memoria “Apri subito quella busta. Poi
leggi e decidi se è il caso di condividerla con i piccoli o
no”.
Il Tempo sospirò,
rassegnato. Non voleva avere niente a che
fare con gli Alti…ma, evidentemente, era destino! Tolse il
sigillo con la
massima cura, attento a non rovinare il foglio all’interno.
Fece per estrarre
il contenuto del plico quando si aprì la porta che portava
alle camere. Entrò
un bambino, con sulla pelle le stesse mille tonalità
dell’alba, oscillando un
pendolo color del rubino una volta al secondo. I capelli del piccolo
prendevano
la forma di un Sei e sfumavano anch’essi come il cielo al
sorgere del Sole.
“Buongiorno, figlio mio.
Come mai sei in piedi così presto?”
lo salutò la Memoria.
“Presto? Sono le 6 e 45 del
mattino, mamma! Sono anche
tardi!” guardò verso il padre.
“Cos’è quella lettera?”
domandò, curioso.
“Chi è sveglio
dei tuoi fratelli?” gli rispose il Tempo.
Il bambino sbadigliò
assonnato: “Non molti. Le piccole hanno
fatto casino fino a poco fa. Ma ora dormono”.
Il Dio fece un segno con il capo ad
indicazione che aveva
capito.
Il ragazzino guardò fuori
dalla finestra, afflitto: “Piove
anche oggi…”.
Un violento tuono fece tremare i
vetri e le pareti. Tutti
trasalirono e si udì un pianto sommesso provenire dalla
stanza accanto.
“Queste sono le
piccole…” esclamò la Memoria.
“Sta pure seduta”
la rassicurò il Tempo “Vado io a
tranquillizzarle”.
Il Dio si alzò e si
avviò verso una delle camere. Le sue
bambine più piccine piangevano, spaventate dal temporale. Il
loro padre entrò
nella stanza e le abbracciò per farle smettere e, subito,
appena udirono la sua
voce, nella cameretta entrarono altri bambini. Alcuni di loro erano
realmente
spaventati, altri invece erano solo in cerca di attenzioni e di
coccole. Il
Tempo aprì loro le braccia con orgoglio, mentre questi si
erano messi in fila,
attorno al letto.
Erano tutti coppie di gemelli. I loro
capelli prendevano la
forma di numeri e la loro pelle andava dal chiaro allo scuro:
metà di loro
presentava cromie tendenti al nero, l’altra metà
al bianco. Una di loro, la più
grande, era bianca del tutto, mentre il suo gemello era completamente
nero.
C’era chi sfoggiava i colori del tramonto e chi delle prime
ore della sera. In
totale, erano ventiquattro. Mai avrebbe pensato
il Tempo di divenire padre di una tale schiera.
L’orologio del corridoio
iniziò a suonare e, a ruota, lo
seguirono tutti gli altri, sparsi per casa.
Suonò per Sette volte. Il
bambino con i colori dell’alba ed
il Sei in testa passò il pendolo ad una bambina, leggermente
più grande di lui,
con la pettinatura che sfoggiava il numero Sette ed una carnagione lievemente più
chiara rispetto al fratello. Il
movimento dell’oggetto passato non si fermò
nemmeno per un secondo.
“Bravi” sorrise
il Tempo “E state tranquilli. Sono sicuro
che questo brutto tempaccio passerà presto,
vedrete!”.
Le piccole, con i numeri Uno, Due e
Tre, si calmarono un po’.
I loro gemelli invece, con i numeri Tredici, Quattordici e Quindici,
avevano
fame ed iniziarono a protestare. Alla loro rivolta si unirono anche
altri con numeri
più alti fra i capelli e così i due gemelli
più grandi si avviarono verso la
cucina con passo sicuro, sfidando i fratelli e le sorelle minori a fare
lo
stesso. Il Dio del Tempo prese in braccio i più piccoli e
seguì la mandria,
fischiettando.
Fecero colazione tutti assieme,
mentre la Memoria faceva
segno al marito di ricordarsi della lettera, ma il Tempo non la
menzionò e continuò
tranquillamente a spalmare la marmellata sul pane per i suoi bambini.
Alcuni di
loro si alzarono, sazi, ed andarono a preparare lo zaino per andare a
scuola.
“I maestri si arrabbiano se facciamo tardi. Dicono: con un
padre come il vostro
dovreste essere puntualissimi! Peccato che, di solito, è
papà che ci sveglia un
quarto d’ora dopo!” affermò la numero
Dieci.
“Noto una vena polemica nel
tuo discorso…” la canzonò il
padre “…vedrò di essere più
puntuale!” concluse, con un sorriso.
La madre porse loro un pacchettino
con la merenda e li
baciò, mentre questi si
avviavano verso l’uscita. Quelli rimasti, perché
ancora troppo piccoli per la
scuola, si misero a giocare in casa fino a quando un raggio di Sole fra
le
nuvole annunciò loro che il brutto temporale era passato e
che potevano andare
all’aperto. Subito uscirono in cortile e le loro risate si
udirono per tutta la
Città degli Dèi. Iniziarono a fare girotondi e
filastrocche, unendosi ad altri
bambini.
Il Tempo e la Memoria, rimasti soli,
ripresero fra le mani
la lettera.
“Io non vado alla
guerra!” affermò il Dio, con aria convinta
e decisa.
“Chi ti dice che si tratta
di guerra?” domandò la Dea, con
aria perplessa.
“Che altro può
essere?” rispose lui.
“Magari hanno delle
semplici richieste formali da farci…”
azzardò lei.
“No. Richiamano tutti gli
Dèi. Non può essere altro che una
guerra!”.
“Quanto sei
pessimista…”.
“Ti sbagli. Ma è
da troppo che vago per gli Universi, e
certe cose le capisco al volo”.
“Cosa pensi di fare, amor
mio? Io non gli lascerò i miei
figli! Se è vero ciò che dici, io non ho proprio
alcuna intenzione di portare
le mie creature al cospetto di coloro che vogliono farli
combattere!” dicendo
questo, la Dea era divenuta rossa in viso e sembrava molto preoccupata.
“Dev’essere
successo qualcosa alla Dea della Pace. È da
tantissimo che non la si vede in giro. Parlerò con la Dea
della Guerra, io e
lei andiamo abbastanza d’accordo, e poi
vedremo…”.
La voce del Tempo rimaneva comunque
tranquilla e calma. Si
sistemò l’orologio da polso, esageratamente
grande, e si alzò da tavola.
“Credi di poter trovare la
Dea della Pace? Dicono che si sia
nascosta…”.
“É esatto,
moglie mia, ma forse io so dove si nasconde!”.
Il Dio vagava per la stanza,
guardandosi in giro, come in
cerca di qualcosa.
“E credi che si
farà trovare tanto in fretta, se si
nasconde?” azzardò la Dea, incrociando le braccia
e seguendo il marito con gli
occhi.
“É su
un’isola, dicono. In cui tutti gli Dèi vanno
quando
hanno bisogno di una vacanza. La troverò e la
costringerò a tornare a lavorare.
Una guerra fra Alti è un vero casino!”.
Il Tempo continuava a cercare,
spostando perfino i cuscini
del divano e girando il viso con aria interrogativa.
“Cosa cerchi?”
gli domandò la moglie, divertita.
“Ricordi dove ho messo lo
specchio delle comunicazioni?”.
“Quello che usi per parlare
con gli altri Dèi? Ovvio! È in
camera nostra, appoggiato al letto”. “Davvero?! E
cosa ci fa lì?” si chiese il
Dio, perplesso.
“Semplice! Ti chiamano
sempre quando dormiamo o mangiamo.
L’ultima volta stavi poltrendo alla
grande…”.
Il Dio sbuffò, ricordando
la scocciatura. Con un’andatura
decisa si avviò verso la camera, circolare, con motivi
riprendenti quadranti,
clessidre e numeri. Sul soffitto campeggiava un enorme orologio
funzionante che
ticchettava sommessamente.
Il Tempo girò quasi tutte
le clessidre, più per dispetto che
per necessità, e sedette sul letto.
Afferrò il piccolo
specchio ovale fra le mani ed iniziò a
parlargli. Ridacchiò, tentato di chiedere chi fosse il
più bello del reame, ma
poi tornò subito serio e sulla superficie riflettente
apparvero nomi e simboli.
Schiacciò, con un dito, il simbolo del Sole ed il Dio che
aveva chiamato
apparve dall’altro lato dell’oggetto.
“Buongiorno, amico
mio!” salutò allegramente il Tempo.
“Buongiorno?”
rispose, stupito, il Dio del Sole “Mio caro,
io sto lavorando già da ore! Buon pranzo fra
poco…”.
“Non essere
fiscale…” scherzò il Dio in grigio.
“Tu dovresti esserlo su
certe cose!” lo derise il Dio
solare.
I capelli fiammeggianti e pieni di
colori caldi riempivano
tutta la superficie dello specchio.
“Hai ricevuto anche tu la
lettera degli Alti?” domandò il
Tempo.
“Stavo per chiederti la
stessa cosa…” fu la risposta.
Il Sole scomparve, per qualche
istante, dall’inquadratura, e
poi riapparve con la busta bianca e dorata con il sigillo degli Alti.
“Cos’hai
intenzione di fare, Dio solare e delle fiamme?”.
“Non
so a te, ma a me
la cosa puzza. Non mi piace per niente la faccenda. L’hai
letta tutta?”.
“No, solo un
accenno” mentì il Tempo.
“Parla di una
riunione…” iniziò a spiegargli il Sole
“…organizzata dagli Alti. Richiedono la
partecipazione di tutti però a me, come
già detto, la cosa puzza perché quelli non fanno
mai niente per niente. Chissà
che c’è sotto…”.
“Dicono che ci sia aria di
guerra”.
“E in questo caso che
faresti? Io, Sole, ho già combattuto
altre volte…ma se chiedessero a una divinità come
te di andar in battaglia…”.
“Io voglio andare a cercare
la Dea della Pace” lo interruppe
il Dio con il simbolo dell’infinito. “Carina come
idea. Ma ti ricordo che, al
momento, è introvabile. E poi…chi ti dice che
sotto ci sia proprio una
guerra?”.
“Ricordi convocazioni da
parte degli Alti per un motivo
diverso? E poi so dove trovare la Pace. È
sull’Isola”.
Il Dio del Sole sospirò:
“Quell’Isola? Ora capisco! Quel
posto è una meraviglia! Secondo me, anche se la troviamo,
non la convinciamo
a smuoversi!”.
“É un caso
d’emergenza. Capirà”.
“Se lo dici
tu…io mi fido. Comunque…vengo anch’io
con te! Non vedo
l’ora di andare là a prendere un
po’…”.
“Un po’ di
cosa?” chiese il Tempo, poiché l’altro
Dio non
continuava.
“Di Sole!
Ovvio!!”.
Il Dio solare scoppiò a
ridere e l’altro scosse il capo.
“Peggio dei
bambini…”.
Quando smise di ridere, il Tempo
riprese a parlare: “Ci
metteremo d’accordo in seguito. Mi fa piacere che venga anche
tu. Ora, però,
devo andare a lavorare”.
“Ma quale lavoro?! Salutami
moglie e figli, mi raccomando, e
a presto!”.
“Fai lo stesso anche tu.
Buon proseguimento…”.
I due Dèi si salutarono ed
il Tempo tornò a distendersi sul
letto. Osservò per un po’ la lancetta
dell’orologio gigante e poi afferrò la
busta. Ne osservò il foglio all’interno ed i suoi
caratteri. Come era solito
nello stile degli Alti, la lettera era scritta in modo contorto, con
disegni e
segni grafici complessi ed arricciati.
Soliti
pomposi…guarda qua quanti riccioli superflui!!! Si
disse, scocciato di dover far fatica per capirne il senso.
Si girò sulla pancia e si
appoggiò a uno dei cuscini,
iniziando a leggere:
Con la presente, si vuole
porre invito ad ogni divinità
ad un incontro conviviale e ad una
riunione straordinaria, a cui tutti sono portati a partecipare, alla
prossima
notte di Luna. L’evento si svolgerà nel palazzo
del Dio Triplice, dove tutte le
nostre schiere, divinità Minori, Maggiori, Messaggeri ed
Alti, possono
incontrarsi senza troppo disturbo. Raccomando la presenza e la
collaborazione
di tutti.
Momoia.
Momoia…la madre
degli Alti…rifletté il Tempo, turbato
nell’aver letto quella firma.
La Madre non entrava mai in contatto
con loro, se non in
caso di estrema emergenza. Doveva trattarsi sicuramente di qualcosa di
importate, altro che incontro conviviale! Se non una
guerra…qualcosa di peggio!
Poi pensò al luogo in cui si sarebbe svolta: il palazzo del
Dio Triplice.
Era il palazzo
dell’Equilibrio…di Kasday…prima di
quella
sera…
I suoi pensieri furono interrotti
dalla voce della moglie.
“Va tutto bene?”
domandò lei.
“Sì, tranquilla.
Preparati. E prepara i bambini. Vi porto
tutti quanti al mare” rispose lui, apparentemente calmo e
rilassato.
“Portiamo i
costumi?”.
“Assolutamente
sì!” esclamò il Dio, con entusiasmo,
trascinando la compagna nel letto.
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Capitolo 2 *** II- padri e figli ***
II
PADRI
E FIGLI
“Devi stare più
attento! O finirai sempre con il farti
sconfiggere!”.
Due ragazzi si scontravano, avvolti
dal buio della notte,
sfidando il forte vento ed il freddo. Cominciava anche a piovere, ma i
due non
deponevano le armi.
“Devi impegnarti di
più, fratellino, se vuoi davvero avere
qualche possibilità contro i tuoi nemici!” urlava
uno dei giovani, per farsi
sentire nella tempesta.
“Quali nemici?”
gli rispose l’altro “Siamo in un’ Era
pacifica!”.
“La cosa potrebbe cambiare.
È meglio se sei pronto e
preparato!”.
Il fratello maggiore aveva gli occhi
dorati, lucentissimi
anche nell’oscurità più fitta, ed i
capelli verde-acqua. Si muoveva agilmente
con le sue ali d’angelo, di colore blu scuro. Tentava di
addestrare il fratello
minore che ormai, dopo diverse ore, mostrava segni evidenti di
stanchezza. “Non
puoi fermarti, fratellino! Avanti!” lo incitò
l’addestratore “Avanti! Sei un
Dio! Non puoi arrenderti, né stancarti!
Attaccami!”.
“Ma vaffanculo, Kavahel!
Sono stufo!” si lamentò la recluta.
“E va bene. Allora ci
fermiamo. Ma poi non venire a
piagnucolare da me quando nostra sorella ti batte!”.
Il più giovane, punto
nell’orgoglio, appoggiò la spada in
terra: “Lei è la Dea del Kaos! È ovvio
che è più forte di me!”.
“Ovvio ‘sto
cazzo! Muoviti, invece di star lì a perdere
tempo!”.
Il rumore delle loro spade che si
scontravano si udì varie
volte, e molto distintamente, per tutta la città. La pioggia
era sempre più
forte e fastidiosa, gelida. Il più giovane, pure lui con
brillanti occhi d’oro,
riprese l’addestramento, anche se non nutriva molte speranze
di battere sua
sorella gemella.
Furono interrotti
dall’apparire di una figura lungo la
strada. Era incappucciata e teneva la testa bassa. Erezehimsay,
l’Angelo
Messaggero di Kavahel, arrestò l’altalena su cui
si dondolava ed andò incontro
allo straniero, riconoscendolo come un suo collega. Con un largo
sorriso,
spostò i capelli arancio con riflessi fuxia dal viso e corse
verso
l’incappucciato.
I suoi occhi ramati splendevano ed
incrociarono quelli verdi
del nuovo arrivato.
“Ciao!”
salutò con entusiasmo.
L’altro angelo si
limitò a porgergli una lettera.
“Dai pure a me i tuoi
messaggi. Riferirò a tutte le divinità
di questa casa. Chi ti manda?” domandò
Erezehimsay.
“Sei ora il messaggero del
nuovo Equilibrio?” si sentì
chiedere, come risposta.
“Sì. Sono il
messaggero di Kavahel, figlio di Kasday e
Vereheveil, Nuovo Dio dell’Equilibrio, ma anche del Nuovo Dio
del Destino e la
Nuova Dea del Kaos. Tutte divinità qui
risiedenti”.
“Questo messaggio
è rivolto a tutti loro. Ed al Signor
Vereheveil, la sua consorte e tutti i loro figli”. Nel
frattempo i due giovani
avevano smesso di combattere e si erano avvicinati ai due angeli.
“Io sono il Nuovo Dio del
Destino, posso prendere la
lettera?” domandò il fratello minore.
Il messaggero annuì e poi
parlò, rivolto al collega: “Dev’essere
faticoso seguire tre Dèi giovani…mi sembrano
piuttosto esagitati…”.
“Non è faticoso
come sembra. Piuttosto, compare, qual è il
tuo nome? La tua voce…mi è così
familiare! E anche i tuoi occhi verdi mi dicono
qualcosa…”.
“Non ho tempo per star qui
a chiacchierare. È quasi l’alba,
ed io ho una certa fretta di tornare dal mio padrone. Leggete la
lettera, è
urgente. È da parte delle divinità
Alte”.
Erezehimsay trasalì:
“Nosmagiés? Sei tu?”.
Un lampo ed un tuono potentissimi
squarciarono l’oscurità
del cielo. L’incappucciato guardò allarmato verso
il palazzo del suo Signore,
così distante all’orizzonte, e decise di
congedarsi da lì al più presto per
poter tornare a casa. Diede le spalle ai tre e si allontanò
con passo svelto,
non potendo volare a causa della pioggia. Kavahel strappò la
busta dalle mani
del fratello e la osservò.
“Erezehimsay!” ordinò “Rientra
in casa e sveglia
nostro padre. Ha detto che è urgente”.
L’angelo si
affrettò, coprendo la carta come poteva per non
farla bagnare. Kavahel, stufo della pioggia, guardò il
fratello minore, che
insultava un albero sfidandolo con la spada. Il maggiore scosse il capo
con una
smorfia e decise di rientrare a sua volta. Aprì la porta,
lasciando passare il
suo messaggero, e si voltò verso il centro del cortile da
dove il fratellino
non si muoveva.
“Dai, vieni al coperto.
Basta per oggi”.
Tolse gli stivali, pieni
d’acqua e notò un’ ombra nera
sull’albero che il minore stava insultando con voga.
Immediatamente portò la
mano all’elsa della sua spada, ma si tranquillizzò
dopo pochi attimi. “Che
imbecille…” sogghignò Kavahel e lo
ignorò, mentre l’ombra piombava sul giovane
Destino.
“Ti ho sconfitto di
nuovo!” una voce femminile ed una risata
riecheggiarono per la valle.
“Torno
subito…” sussurrò il Nuovo Dio
dell’Equilibrio.
Ridacchiando, tornò
all’aperto, andando incontro ai due.
“Non è
possibile, fratellino! Ti sei fatto battere di nuovo
da lei!”.
La figura nera e dai contorni
indefiniti sorrise al fratello
maggiore, facendo brillare i suoi enormi occhi dorati
nell’oscurità. Erano
l’unica cosa che aveva in comune con il
fratellone Kavahel.
“Dove
sei stata,
sorellina?” domandò il Dio dai capelli verde-acqua
alla giovane Dea del Kaos.
Lei non rispose ma parlò
d’altro “Girano voci di una guerra
imminente, inferta dagli Dèi Alti”.
“Fandonie! Lo sapremmo! Io, perlomeno, lo
saprei…” commentò il Dio del Destino,
scettico. “Forse in quella lettera…”
azzardò Kavahel.
Rifletté un attimo e poi
ricominciò: “Però è
strano…che io
ricordi, gli Dèi Alti non hanno mai convocato le
divinità che considerano
minori. Nemmeno quando il Kaos ed il Destino erano entrambi creatori
molto
potenti. Di sicuro voi due non siete alla loro altezza…
eppure siete
convocati…”.
“Smettila di fare il figo,
Kavahel! Neanche tu sei potente
come l’antico Dio dell’Equilibrio! E di sicuro non
sei un creatore!” gracchiò
la Dea del Kaos.
“Io ho un ruolo diverso. Io
resterò, anche quando ci sarà la
fine dei Mondi e degli Universi, e diverrò creatore quando
tutti voi sarete
dissolti ed io farò ricominciare ogni cosa da
capo…”.
“Se gli Alti non ci faranno
ammazzare tutti!” esclamò il
Destino, con malcelato pessimismo.
Il fratello maggiore si
inginocchiò accanto al Destino, che
non si era ancora rialzato dopo il colpo della sorella.
Appoggiò la spada alla
spalla e sorrise. La lama fredda era a contatto con la pelle nuda, i
suoi
capelli spettinati sgocciolavano, le ali blu erano pesanti e grondanti
d’acqua
ed il cornino rosso al centro della fronte del Dio pulsava di luce.
Quell’arma
era molto grossa e pesante, ed i due più giovani si
stupirono di come riuscisse
lui, così mingherlino e magro, ad impugnare quella spada e
maneggiarla con
tanta agilità e grazia, come se fosse senza peso. I due
fratelli si
osservavano. Quello steso a terra era molto più grosso, di
corporatura, rispetto
al maggiore, anche perché il Nuovo Equilibrio poteva mutare
il suo aspetto fra
quello di un maschio e quello di una femmina a suo piacimento e,
solitamente,
manteneva un corpo intermedio.
I pensieri di Kavahel si persero alla
luce dell’ennesimo
lampo. La sua mente ritornò ad antiche memorie della sua
infanzia. Pensò a
quando era nato, a quando era piccolo, i suoi primi anni…e
poi…i gemelli e
tutto ciò che ne era conseguito. Sospirò. La voce
della sorella lo riportò alla
realtà. “Andiamo adesso, maschiacci! Ho tutti i
vestiti bagnati, fa freddo ed
ho fame!”.
Kavahel ed il giovane Destino si
rialzarono e seguirono la
veste ed i capelli neri della sorella fino a casa. Lei si perdeva nel
buio,
avendo anche la pelle nera, ed era difficile da individuare nella
notte.
Sull’uscio, il maggiore, l’unico con le ali, si
fermò e le scosse per liberarle
dall’acqua, così queste si gonfiarono non poco.
Nel frattempo il Destino
strizzava il mantello che portava e toglieva le scarpe. Lasciarono
tutti e tre
le calzature sull’uscio e misero gli abiti bagnati accanto al
fuoco,
cambiandosi con vesti asciutte. Fuori albeggiava e le nuvole andavano
diradandosi.
“Cos’è
questa lettera?” chiese la giovane Dea del Kaos che
era una divinità piccola e piuttosto curiosa.
“L’hanno portata
prima. Aspettiamo che nostro padre si
svegli e poi ne parliamo”.
La ragazza si avviò,
convinta, lungo il corridoio. Si mise
sotto la tromba delle scale e urlò.
“Papà!
Papà, svegliati!! Alzati!! Sono le Sei passate!!”.
Le sue grida fecero tremare le
pareti. Si sentì un mugugno
sommesso dal piano superiore.
“Non era necessario,
Skrich!” la rimproverò Kavahel.
Skrich era il nome con cui chiamavano
la Dea del Kaos per la
sua corporatura mingherlina e piccina.
“Non serviva urlare
così. Adesso verranno giù anche tutti i
fratellastri…”.
“Chi urla?”
domandò una voce femminile, dal piano superiore.
Scese le scale. Era Fleavia, la
figlia adottiva e messaggera
di Vereheveil.
“Scusaci, sorellona, ma ci
è stata consegnata una lettera da
parte degli Alti e ci han detto che è urgente” si
giustificò il Destino,
assaporando una tazza di caffè bollente.
Fleavia si voltò ed
urlò a sua volta, verso le camere:
“Vereheveil! Papi! Svegliati!”.
Lei era bionda, con candide ali da
angelo ma due piccole
corna scure sulla fronte.
“Siete stati fuori con la
pioggia tutto il tempo, voi tre?
Siete proprio degli idioti!” li rimproverò la
messaggera.
Erezehimsay, porgendo il
caffè all’Equilibrio, ridacchiò:
“Sto
cercando di insegnare al Nuovo Destino a combattere…ma credo
sia un caso
disperato!”.
“Ha preso da Vereheveil.
Papà non prenderebbe in mano una
spada manco per sbaglio!”.
Si misero a ridere tutti quanti,
mentre un timido raggio di
Sole entrava nella stanza illuminandone gli oggetti, per lo
più libri.
Una voce piagnucolò dal
piano superiore: “Ragazzi! Ma è
prestissimo! Che succede?”.
“ È arrivata una
lettera, papà. È dagli Alti ed è
urgente.
Potreste scendere tutti? È indirizzata a tutta la
famiglia”.
Rumori di passi e voci varie, poi
Vereheveil, il Dio delle
Lingue e delle Letterature, apparve con i
capelli verde-acqua completamente spettinati
e gli occhi dorati molto assonnati, segnati da lievi occhiaie. Fra le
mani
stringeva un grosso volume rilegato e scese le scale, trascinando la
lunga
veste arancione. Dietro di lui scese sua moglie, la Dea delle Parole,
che
teneva per mano i loro due figli, un maschio ed una femmina. Presero
tutti
posto attorno ad un tavolo che riprendeva la forma di un libro aperto.
Vereheveil, sistemandosi un piccolo paio di occhiali sul naso,
iniziò a leggere
la lettera con attenzione. La lesse ad alta voce per rendere partecipi
tutti i
presenti. Le sue ali d’angelo, nere, fremettero quando lesse
le parole “Dio
triplice”. Kasday!
“Cosa può
significare?” domandò la Dea delle Parole
“Insomma…perché
mai gli Alti ci dovrebbero tenere tanto a chiamare gente come noi? A
che
scopo?”.
“Guerra…”
sospirò la Dea del Kaos, pur non nascondendo una
certa soddisfazione.
Cominciava ad annoiarsi in
quest’Era di pace e di ordine.
“Tua nonna, Dea della
Guerra, ci avrebbe sicuramente
informato di un’ eventualità come
questa”, affermò Vereheveil, pensieroso.
“Non è detto che
la nonna lo sappia…se è una faccenda
organizzata dalle divinità Alte, esiste la
possibilità che, in effetti, non ne
sia a conoscenza”.
I due bambini, scesi per mano alla
madre, non badarono ai
discorsi degli adulti ed iniziarono a dedicarsi ad attività
più stimolanti. Il
maschietto scrisse dei numeri su un foglio e fece dei calcoli
complessi,
compiaciuto del risultato. Sarebbe di certo divenuto il futuro Dio dei
Numeri.
La bambina prese quello stesso foglio
e scrisse i numeri,
lunghissimi, in lettere: lei era la futura Dea della scrittura. Skrich,
la Dea
del Kaos, giocherellava nervosamente con una matita, facendola passare
fra le
dita, come in un gioco di prestigio. Vereheveil era perso nei suoi
pensieri,
che esponeva ad alta voce quando ne sentiva il bisogno, e Fleavia lo
ascoltava,
tentando di tenere il filo dei suoi ragionamenti. Kavahel discorreva
con la
matrigna in modo piuttosto acceso.
Solo il Destino restava fermo ed in
silenzio. Il giovane Dio
osservava la sfera di cristallo che portava quasi sempre con sé e la osservava
tentando di scorgerci,
all’interno, il futuro. Ma non riusciva a vedere nulla.
Nessuno poteva,
infatti, sapere quale sarebbe stato l’esito di una decisione
presa dagli Alti.
La Dea del Kaos ruppe accidentalmente la matita che teneva fra le mani
e questo
provocò una smorfia, di dolore e di fastidio, sul volto di
tutti gli Dèi
presenti ed inerenti alla scrittura.
“Cosa facciamo, se quello
che vogliono da noi è davvero una
guerra?” domandò docilmente la divinità
con la sfera.
“Se è questo che
vogliono…da me non lo avranno!” rispose
convinto Vereheveil, con tono deciso e autoritario, scuotendo il capo
con
fermezza.
“E allora cosa pensi di
fare, marito mio? Vuoi non
presentarti alla riunione e chiamartene fuori? Sai che non è
possibile! Gli
Alti ti tormenterebbero fino ad ottenere ciò che
ordinano..”.
“Oh, moglie mia! Questo lo
so bene. Alla riunione, di fatto,
voglio essere presente”.
“Certo!” lo
interruppe Fleavia “Come potresti mancare? Al
palazzo del Dio Triplice…c’è
lui!”. “Cosa intendi dire? Che vuoi
insinuare?”.
Il Dio delle Letterature e delle
Lingue si mostrava
leggermente scocciato.
“Nulla…”
rispose la figlia, con un sorrisetto maligno.
“Non andrò a
quella riunione per rivedere Kasday, anzi! I
miei sentimenti in proposito sono diametralmente opposti.
Kasday…mi spaventa…”.
“Non abbiamo nulla da
spartire con lui!” affermò la Dea del
Kaos.
“Voi
tre…” rispose il padre, riferendosi al Destino, al
Kaos
ed a Kavahel “…non dovreste permettervi di parlare
così! Metà del vostro
patrimonio genetico vi è stato donato da Kasday. Insieme, io
e lui, vi abbiamo
creato!”.
“Sì, va bene. Ma
poi ci ha abbandonato!” commentò, acido,
Kavahel.
“Giusto. Ci ha lasciati
soli. Perché dovremmo farci dei
problemi e pensare ad una persona simile?”
continuò Skrich.
“Voi non sapete nulla.
Nulla di ciò che è successo”
sospirò
Vereheveil.
“Sì. Giusto. Non
sappiamo nulla. E chissà se mai ne verremo
a conoscenza…”.
“Ogni cosa a suo tempo. E
questo non è il momento di
parlarne!” tagliò corto la Dea delle Parole.
Nella casa scese di nuovo il
silenzio.
“Voglio trovare la Dea
della Pace” esclamò Vereheveil, dopo
un attimo di riflessione “Ultimamente non la si vede molto e
quindi…forse, se
ci parlo, riesco a convincerla ad interrompere per un attimo la sua
vacanza e,
magari, ad evitare un eventuale guerra. Ma, soprattutto, vorrei parlare
agli
Alti e vedere che cosa vogliono…è così
strano che cerchino contatti e
collaborazioni con noi…inferiori!”.
Il Dio delle Letterature si
alzò. Era nato nel regno degli
angeli e quindi continuava a vestirsi come tale. La sua lunga tunica
frusciò
sul pavimento in legno e, a piccoli passi, si avviò verso la
sua stanza
personale, il suo ufficio. Scosse le ali nere, che persero qualche
piuma.
“State tranquilli, tutti
quanti. Sono sicuro che non è
niente di grave!” disse, tentando di calmare la famiglia.
Una volta chiusa la porta prese fra
le mani un libro del
color dell’inchiostro. Lo aprì e, con una sua
parola, la superficie della carta
iniziò a mutare. I simboli su di essa cambiarono e si
sollevarono a mezz’aria.
Ne toccò uno e la superficie della pagina divenne
riflettente, come uno
specchio.
Comunicò con altre
divinità e decisero d’incontrarsi alla
ricerca della Dea della Pace.
Fatto questo, ripose il volume e si
sedette accanto alla
scrivania. La sedia scricchiolò. Era di legno antico, forse
era più vecchia del
Dio stesso, e pregiato: un bel regalo di matrimonio.
Si ritrovò a pensare ad
una sera lontana ed alle motivazioni
che lo avevano spinto a convolare a nozze con la Dea della Parole. Si
versò da
bere, una spiacevole abitudine che aveva acquisito da un paio di
secoli, e, con
il bicchiere in mano, continuò a riflettere in silenzio.
Il
palazzo del Dio
Triplice. Che sia Kasday? Il mio Kasday? I nostri figli sono
cresciuti…amore
mio. Perché continuo a chiamarlo così? Non ha
più nulla a che vedere con la
persona che amavo…non è più
com’era. Mi spaventa. Mi turba. E l’idea che possa
rivedere i miei figli…non so
se posso
permetterlo. Non so
se posso lasciare
che accada. E come potrebbe reagire alla notizia del mio matrimonio?
Sicuramente male! Non
riesco ad
immaginare ciò che potrebbe farmi…dicono che sia
impazzito.
Si
sentì
bussare alla porta.
“Avanti!”
esclamò il Dio, sobbalzando per la sorpresa.
Era un giovane dai capelli corvini,
dritti, a caschetto, con
i due ciuffi anteriori più lunghi rispetto al resto della
pettinatura. Aveva
dei tratti molto particolari. Gli occhi li aveva allungati e truccati,
egiziani
o forse orientali, e le labbra erano carnose, rosso rubino. Il suo
sguardo era
malizioso e sensuale.
“Posso fare qualcosa per
te?” domandò il padrone di casa.
L’ospite annuì.
Aveva le ali, d’angelo, di un colore misto
fra il blu e il verde. Fece un inchino al Dio delle Letterature,
congiungendo
le mani, dopo averle liberate dall’ampissima manica della
veste di lino bianco.
Era vestito in modo piuttosto semplice, nulla di elaborato. Le cose
più vistose
che indossava erano gli orecchini, dorati e ricchi di pietre preziose.
Rappresentavano un sole che sorge con un ideogramma, o un geroglifico,
a
fianco.
“Avrei bisogno di un
libro”.
La sua voce era ammaliante e strana.
Vereheveil osservò gli
occhi scuri dell’angelo e sorrise:
“Sei nel posto giusto! Ma io non posso seguirti adesso. Ho
lezione con i miei
allievi. I bambini arriveranno a momenti…”.
“Va bene, maestro
Vereheveil, ne sono consapevole. Saprò
aspettare”.
“Benissimo. Se volete
potete venire con me…i bambini non
mordono! Non me, perlomeno..”.
Il giovane seguì il Dio
lungo i corridoi fino a giungere in
una piccola stanzetta molto luminosa e colorata, piena di banchi e
sedie, dove
stavano seduti tanti piccoli angeli e Dèi in modo ordinato.
“Gibrihel?!”
domandò il Dio delle Letterature, vedendo
l’Arcangelo in cattedra.
Gibrihel alzò lo sguardo
dal libro che teneva fra le mani e
sorrise: “Ciao, collega!”.
“Dov’è
Rahahel?”.
Rahahel era l’Arcangelo
che, normalmente, svolgeva la
lezione precedente a quella del Dio delle Letterature e delle Lingue.
“Non l’ho visto
oggi. È assente ma ho fatto io lezione per
lui, tranquillo”.
“Ti ringrazio. Ora puoi
andare, ci penso io”.
“Vuoi che passi a dare
un’ occhiata alla classe degli
intermedi?”.
“Magari. Mi toglieresti un
pensiero”.
“Li ho fatti
leggere…” comunicò
l’Arcangelo a Vereheveil,
che annuì.
Il Dio delle letterature sedette ed
invitò gli alunni a
prendere carta e penna, dopo aver salutato il Maestro Gibrihel e aver
presentato il suo ospite alla classe.
“Lui è
straniero. È qui per vedere come si studia dalle
nostre parti. So che è molto più grande di voi,
ma per oggi farà parte della
classe”.
Gibrihel si alzò e si
stiracchiò le ali dorate. Sciolse i
capelli biondi e ricci e si avviò verso l’uscita.
Guardò con i suoi enormi
occhi azzurri tutti i bambini, assorti e silenziosi.
“Grazie, Maestro
Vereheveil. Il mio nome è Sarmorghell”
disse il giovane dai capelli neri, ed andò a sedersi.
Vereheveil iniziò la
lezione. Si dimenticò della lettera e si
dedicò all’addestramento di Angeli e
Dèi.
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Capitolo 3 *** III- demoni ed arcangeli ***
III
DEMONI ED ARCANGELI
Rahahel aprì gli occhi
grigi, coprendoseli con il dorso
della mano per proteggerli dalla luce. Li stropicciò,
assonnato. Avvertì una
fitta alla testa..si sentiva molto confuso.
Tentò di alzarsi da quel
letto di seta…nera?! Che ci
faccio io su un letto di seta nera?! Si chiese, allarmato.
Non riuscì ad
alzarsi ed ebbe un crampo allo stomaco.
Questi sono i postumi di una
sbornia!
Tornò a chiudere gli occhi
e ficcò la testa sotto il cuscino.
Sentì lo scricchiolio di una porta che si apriva e un
piccolo ticchettio, da
artiglio o da tacco di scarpa.
“Ti sei svegliato,
piumino?”.
Che voce poco
angelica…è quasi… “Luciherus?”
domandò
l’Arcangelo.
“Sì. Chi ti
aspettavi? La fatina buona? Ieri sera eri
ubriaco disfatto e ho dovuto tenerti qui a dormire”.
Rahahel non ricordava. Lentamente,
gemendo, tirò fuori la
testa da dove l’aveva infilata.
“Parla più
piano, Lu-chan! Ho la testa che scoppia!”.
“Lu-chan?!
Vabbè…per oggi passi…sei ancora
alticcio”.
L’Arcangelo
passò entrambe le mani sui capelli biondo scuro
ed inarcò la schiena. Le piume delle sue ali erano tutte
gonfie e in disordine.
“Lu!
Hei, Lu! Ti
siedi qui, vicino a me?”.
Il Principe dei Demoni si mise a
ridere e sedette sul letto
con un largo sorriso: “Io te lo avevo detto di non bere
troppo! Ma mai una
volta che tu mi dia ascolto, Rahahellino!”.
L’arcangelo si
rigirò sulla pancia e fissò il soffitto
affrescato, attraverso il velo del baldacchino. “Sto davvero
male”.
Il demone rise di nuovo e gli si
stese a fianco: “Povero,
piccolo, angelo! Hai davvero una faccia stravolta!”.
Rahahel emise un gemito e una specie
di singhiozzo.
“Oh! Suvvia! Non
è il caso di piangere! Non è successo
niente!” lo derise il Principe, alzandosi “Ti
faccio portare qualcosa. Vedrai
che poi starai meglio!”.
L’Arcangelo
sospirò, sentendo il demone parlottare con
qualcuno alla porta.
“Ho ricordi confusi, Lu.
Cos’è successo, esattamente, ieri
sera e stanotte?”.
Luciherus tornò a sedersi
sul letto: “Che cosa ricordi?”.
“Mmm…musica,
luci, alcol…” iniziò la creatura
angelica.
“…donne, uomini,
danze!” terminò il Principe.
“Mi hai portato a donne? Ho
rimembranze vaghe in
proposito…”.
“Chi?! Tu?! No! Certo che
no, pium-piumino! Dubito che tu ne
sia capace!”.
Bussarono
alla porta
e il demone andò ad aprire. Tornò con un
bicchiere in mano e lo porse
all’angelo.
“Lu-chan…lo sai
che io ho perso l’aureola per colpa tua?”.
“Non dire stronzate e
bevi!”.
“Io ti dico di
sì. Io…ho dovuto mentire!”.
“E io che cosa ho a che
fare con il fatto
che tu sei bugiardo?”.
“Io…ho dovuto
mentire. Per nascondere il tuo segreto. Perché
io…conosco il tuo segreto. So che tu…hai le ali
da Arcangelo”.
Luciherus strinse più
forte il mantello che aveva sulle
spalle. Le sue ali da demone erano ben visibili ed aperte, ma quelle
dorate e
piumate erano sempre prudentemente celate sotto il mantello. Rahahel
teneva il
bicchiere fra le mani. Allungò il braccio, afferrando la
borsa dimenticata in
terra, e versò una polverina nella bibita. Bevve, con
un’espressione
disgustata.
“Fa tanto
schifo?” domandò il Principe.
“Mai
provata?”.
“No. Io non mi ubriaco
mai!”.
Il demone legò i capelli
scuri con un nastro vermiglio e si
fissò, con accigliati occhi aranciati, attraverso lo
specchio sulla parete.
“Io ho dovuto mentire, Lu.
Non potevo dirgli che non sei
più…come prima! Gli altri demoni come avrebbero
reagito? E i Serafini-capo? Non
volevo che ti facessero del male. E poi…io ho fatto un patto
con il Dio del
Kaos, tanto e tanto tempo fa, per salvarti la vita. Perciò,
se io ora sono
senza aureola, è solo per colpa tua!”.
“Se volevi redenzione,
perché sei venuto qui ieri sera?”.
“Per
provare”.
Luciherus lo guardò con
aria interrogativa: “Provare?
Provare cosa?”.
“Sì, provare. Ad
essere un caduto, come te!”.
“Tu non sei adatto a questo
ruolo…”.
Rahahel tornò a fissare il
soffitto: “Lu…? Secondo te…se io
cadessi…sarei maschio o femmina?”. Il demone
rimase alquanto perplesso dalla
domanda: “Perché pensi che dovrei
saperlo?”.
“Ricordo che, quando eri un
Arcangelo come me, sapevi già di
essere maschio. Ma io non lo so!”. “Questa notte
c’erano tante creature, maschi
e femmine, quale credi ti sia piaciuto di più?”.
“Non lo so. Mi piacevano
tutti!”.
“Oh, certo! Voi angeli
amate tutti!”.
“Cosa vuoi saperne tu
dell’amore? Vereheveil dice…”.
“Non pronunciare mai quel
nome in mia presenza! Mai!” urlò
Luciherus, visibilmente alterato. Rahahel tacque: “Io
credo…di essere maschio!”
continuò, dopo un po’.
“Facciamo progressi,
pennuto. E cosa ti spinge a crederlo?”.
“Sarah!”.
“Chi?!”.
“Lei…lei si
chiama Sarah”.
“La moglie di quel mortale
di nome Tobia che aiutasti un
paio di anni fa?”.
“Proprio lei. E da quel
giorno non riesco a togliermela
dalla testa!”.
“Ma cos’ha di
tanto speciale? Anche Asmodai non fa altro che
parlare di lei!”.
“Lei è tutta
speciale! Ma, amandola, perderei lo stato
d’Arcangelo. Cadrei! Perderei le ali piumate!”.
“Che cazzate! Secondo me
non vero. E poi…l’aureola l’hai
persa e ci sei tornato comunque dai tuoi amichetti piumosi e
teneri!”.
“Veramente…”.
“Ah! Ora vorresti un corpo
come il mio! Sfotti, da bravo…e
ora piangi!”.
“Vattene! Sei
cattivo!”.
“Ma
non mi dire!”.
“Non voglio più
parlare con te…”.
“Ora capisco la tua totale
indifferenza nei confronti delle
persone alla festa di ieri…”.
“E tu? Tu perché
resti indifferente? Io, almeno, ho una
scusa!”.
Luciherus non rispose.
“Pensavo che, una volta
tolta la maledizione che ti impediva
di avere figli, avresti riempito il mondo di luciferini e invece
niente…neanche
uno! Dov’è Lilith, la tua compagna?”.
“Non sono affari
tuoi!” sbottò il demone e starnutì,
raggomitolandosi nel mantello.
“Hai un’aria
strana, Lu. Sei malato? Posso aiutarti?”.
“É
allergia. E dubito
che tu mi possa aiutare, visto come sei ridotto dopo un solo bicchiere
di
Vodka. Senza contare che hai il raffreddore da
giovedì!”.
Rahahel sbuffò:
“Sono l’Arcangelo guaritore…ma non mi va
di
lavorare per me stesso!”. All’ingresso della camera
apparve, timidamente,
Azazel, l’araldo di Luciherus. Era un demone piuttosto minuto
e non aveva per
niente l’aria minacciosa.
“Signore?”
chiamò con la sua voce squillante “Scusate,
Signore. C’è qualcuno, o qualcosa, di
là, che dovrebbe vedere”.
“Arrivo subito,
Azazel”.
Luciherus si avviò verso
l’uscita.
“Ti voglio bene,
Lu-chan!” gli urlò dietro l’Arcangelo.
“Fatti una doccia e torna a
casa! Non sei proprio te
stesso!”.
“Lu…noi…non
abbiamo fatto sesso, vero?!”.
“Non hai gli attributi
fisici per farlo e poi…per i fuochi
di Gehenna! Certo che no!!”.
Il Principe uscì dalla
camera, serrando il mantello: “Cosa
c’è, Azazel?” chiese, con aria assorta.
“C’è
un ospite di là. Dice di avere notizie
importanti…”.
“Bene”.
I due demoni si avviarono,
l’uno accanto all’altro, lungo il
corridoio. Azazel era un piccolo demone vestito in nero e arancione,
con un
elegante cappello con piume ed un abito elaborato.
“Cosa ci fa
Belzebù davanti alla sala dei ricevimenti?”
domandò il Principe, leggermente accigliato.
“Io…non saprei che risponderle,
Signore” disse l’araldo, confuso.
“Vostra Grazia!”
salutò il demone con occhi da mosca,
facendo un inchino “Vostra Grazia! Che meraviglia! La vostra
luce rossa è così
meravigliosa e forte! Illumina tutto il palazzo…che
splendore! E la…”.
“Piantala
Belzebù!” lo interruppe Luciherus, infastidito
“Sei un falso, mosca, e non ho tempo da perdere con le tue
moine!”.
Il demone sottoposto non rispose. Sbatté
tutti gli occhi, che aveva
sparsi lungo tutto il corpo. Ognuno di essi era scomposto in piccole
particelle. Rimase in silenzio, ronzando sommessamente.
Il padrone aprì il portone
della sala dei ricevimenti,
comunicando ad Azazel che era libero di andarsene.
“Vostra
Altezza…” ricominciò
Belzebù, chinando il capo
“Vostra Altezza…c’è una cosa
che volevo chiederle già da un po’”.
“Parla insetto e poi
sparisci”.
“Io mi chiedevo, mio
Principe, cosa c’è di diverso in Lei,
ultimamente. Non so bene che cosa sia ma…forse è
solo una mia impressione…”.
“No, no. Hai
ragione!” tagliò corto Luciherus. “Ho
qualcosa
di diverso. È che…ho tinto i capelli. Li ho fatti
biondi”.
“Oh! Giusto! Il colore
chiaro vi illumina e vi incornicia
bene il viso e…”.
Il Principe chiuse la porta,
lasciando fuori Belzebù e non
sentendolo più. In realtà i capelli non li aveva
tinti, erano sempre dello
stesso colore, solo leggermente striati di bianco.
“Eppure…”
continuò, perplesso, Belzebù
“C’è qualcos’altro.
Ha qualcosa di strano in corpo. Mi dà questa sensazione da
un sacco di tempo,
dall’ultima guerra fra l’antico Dio del Kaos e la
passata Dea Destino. Ha
rischiato di morire, quella volta. Sarà per
questo…”.
“É
più aggraziato…” gli rispose Azazel.
“Più solitario, più
silenzioso. Senza parlare che, a differenza di un tempo, ha rinunciato
a molte
attività. Non so se mi spiego…”.
“Ti riferisci a Lilith?
L’ho notato anch’io, araldo. Il suo
rapporto con le
donne è molto cambiato.
Forse è vecchio e ha bisogno di una mano per
comandare…”.
“Non dire fesserie,
moscerino!” affermò Asmodai, il capo
delle guardie del principato, avendo sentito tutta la conversazione dal
portone
d’ingresso.
Il grosso demone spaventò
Belzebù che sparì nell’ombra. Il
capo delle guardie gli ringhiò contro.
“Dimmi, Azazel,
perché rivolgi la parola ad insettucoli così
fastidiosi?”.
“I pazzi si assecondano,
Asmodai!”.
“Che cosa hai portato al
Principe?”.
“Un Messaggero. Cose molto
interessanti…”.
“Cose
che non mi
riguardano! Vuoi una birra, Azazy?”.
“Magari!
Andiamo!”.
“Figurati se quel fallito
ronzante e lecchino riesce a
soverchiarmi con le sue frasi mielose!”
bofonchiò,fra sé, Luciherus,
illuminando la stanza buia con la sua luminescenza rossa.
Il Principe si avvicinò,
con le mani incrociate dietro alla
schiena, alla figura incappucciata al centro della stanza. Era stata
catturata
dai suoi soldati e ora restava, inginocchiata, con le catene alle mani
e ai
piedi.
“Bene, bene,
bene…chi abbiamo qui?”.
Il demone girò attorno al
detenuto, imbavagliato, che lo
fissava con aria di sfida, come a volergli dire che non aveva paura.
Luciherus tolse il fazzoletto sulla
bocca del prigioniero
con un artiglio: “Nosmagiés! Sei tu!”.
L’incatenato
annuì.
“Che piacere
rivederti!” riprese il Principe, salendo sul
trono nel centro della stanza “Che si dice, di bello, dalle
tue parti?”.
“Puoi slegarmi, per
favore?” rispose il Messaggero, in tono
acido e annoiato.
“No. Lo vedo da qui che sei
armato! Ed io ci tengo alla mia
vita! Pur sapendo perfettamente di essere in grado di difendermi da un
cosetto
come te…”.
“Non serviva rapirmi! La
notizia che porto l’avresti saputa
comunque al più presto, anche se non sei un Dio! Questo
perché uno dei miei
ultimi recapiti è stata la Dea delle Parole, che non
è in grado di mantenere un
segreto. Senza contare che tua figlia, la Dea della Morte, ti avrebbe
detto
ogni cosa”. Il demone scese dal suo trono. Tolse il cappuccio
all’angelo,
liberando una cascata di capelli color magenta: “Hai dei
così bei capelli,
messaggero…esattamente come me li ricordavo. Non dovresti
nasconderli”.
Nosmagiés sorrise,
beffardo.
“Dov’è
la tua aureola, angelo?” domandò Luciherus.
L’incatenato non rispose.
“Se non ti va di dirmelo va
bene…non importa. Ora, però,
dimmi pure le notizie che porti alle altre
divinità”.
“No di certo, Demone! Solo
agli Dèi io ho il compito di
riferire!”.
“Quanto sei
noioso…lasciateci soli!” urlò il
Principe,
rivolto alle guardie presenti nella sala che obbedirono “Ora
siamo solo io e
te…mi dirai ogni cosa…”
esclamò il demone, prendendo fra le mani il viso
dell’angelo e costringendo il messaggero ad alzarsi.
“…oppure preferisci che ti
strappi quelle tue due belle ali d’argento dalla tua bianca
schiena
immacolata?”.
“Immacolata? Sei fuori
strada…”.
Luciherus lo lasciò cadere
in terra, sul pavimento di marmo
nero: “Il mio è un ordine, messaggero!”.
“Tu non puoi darmi ordini,
diavolo!”.
“Solitamente la gente ha
paura di me. Tu no…”.
“Nulla può
spaventarmi ormai!”.
“Perché non vuoi
parlarmi?”.
“Come perché?
Perché sei un demone!”.
Luciherus sospirò e
slacciò il mantello. Liberò le ali da
angelo, dorate, che si espansero e riempirono la stanza di un bagliore
quasi
accecante.
Nosmagiés chiuse gli occhi
per non rimanerne abbagliato.
Quando li riaprì non vide
più il demone ma l’Arcangelo più
bello che avesse mai avuto dinnanzi.
Senza corna, coda o altri tratti demoniaci. Nonostante lo
sguardo,
decisamente poco rassicurante, capì subito chi aveva
accanto.
“Ti dirò tutto
quello che vuoi, Luciherus, ma non perché ti
sei mostrato in questo modo, bensì perché sei
amico del mio Signore. E poi,
tecnicamente, sei di livello superiore al mio nella gerarchia
angelica”.
Guardandosi attorno, il Messaggero si
accorse che non solo
le vesti del demone erano cambiate,
passando dal nero al bianco, ma anche il resto della stanza era
differente. Ora
era affrescata e decorata in azzurro cielo, dorato e avorio. Rimase
incantato
ad osservare quello spettacolo e fu la voce del bellissimo Arcangelo a
ricondurlo alla realtà: “Ora dimmi ogni cosa,
Nosmagiés! Non ho tutta la
giornata…”.
Subito l’angelo
parlò, pronunciando ad alta voce il
contenuto della lettera. Poi scese il silenzio. Luciherus
tornò, gradatamente,
al nero ed all’aspetto da demone, così come
ritornò cupo anche l’arredo della
stanza.
Celò di nuovo le ali sotto
il mantello e parlò: “Il palazzo
del Dio triplice?”.
Nosmagiés
annuì: “Convocati da Momoia in persona! Se sai chi
è Momoia…”.
“Certo che so chi
è, pennuto! Non sono proprio così
ignorante! È il nome della Regina degli Alti. Certo
che…ha un nome proprio
stupido! Vabbè che anche il
tuo…Nosmagiés…i tuoi genitori han
giocato con il
paroliere prima della tua nascita?”.
Il messaggero non rispose e il demone
continuò a parlare.
“Per quale motivo
richiamano tutti gli Dèi?”.
“Dicono che ci sia in
programma una guerra”.
“Impossibile. Se
così fosse, cosa gli servirebbe la presenza
della Dea delle Parole e di quel fallito di Vereheveil? Quello non sa
la
differenza fra una spada ed un’ascia…figurati se
è in grado di combattere!!”.
“Forse agli Alti serve la
loro forza magica…”.
Luciherus spalancò gli
occhi, sollevando Nosmagiés da terra,
senza toccarlo, semplicemente utilizzando la magia. Contemporaneamente
fece lo
stesso con tutti gli oggetti della stanza, facendoli ruotare attorno
all’angelo
in un vortice velocissimo. Tutto si oscurò ed il messaggero
ebbe l’impressione
di vedere dei fulmini nel buio e le fiamme negli occhi, senza
più pupille e
cornee, del demone.
“Come vedi è una
cosa di cui anch’io sono piuttosto fornito.
La magia scorre potente in me, Messaggero! Ne ho a sufficienza per
poter
affrontare e battere quell’insulso Dio delle
Letterature!”. La voce del
Principe si era fatta minacciosa, cupa e profonda. Ora era del tutto un
demone.
Era grosso, spaventoso e pericoloso. Solo quelle piccole ali
d’Arcangelo,
prudentemente celate, mostravano una sua natura diversa.
“Io non so da dove deriva
il tuo immenso potere, Principe, e
non posso farci niente. Loro, gli Alti, convocano Dèi e tu
non lo sei!”.
Con un gesto della mano, il demone
liberò il messaggero
dalle catene che lo imprigionavano.
“Come sta il tuo padrone?
Come sta Kasday?”.
Nosmagiés si scosse,
facendo tornare la circolazione del
sangue negli arti atrofizzati dai legacci troppo stretti.
“Allora? Mi rispondi? Come
sta Kasday? Non ho più notizie di
lui dalla notte in cui sono nati i gemelli…”.
“Mi fa piacere sapere che
almeno qualcuno ricorda quella
notte e, soprattutto, ricorda Lui senza averne paura!”.
“Paura?! Di Kasday?
Scherzi?!” esclamò il demone, stupito da
quella frase.
“Vereheveil ha paura di
lui…”.
“Vereheveil è un
fallito! Come maschio e come creatura in
generale”.
“Semplicemente è
più…sensibile di te!”.
“E
di te! Tu non ne
hai paura!”.
“Hai ragione. È
più sensibile anche di me!” sorrise
l’angelo.
“Voglio solo sapere se sta
bene, Nosmagiés. E se vive una
bella vita”.
“Non credo di poterti
rispondere di sì. Ma non sono cose che
ti riguardano”.
“É vero
che…” domandò sottovoce il
Principe”…che è
impazzito?”.
“Bada a come
parli!” esclamò il Messaggero, estraendo la
spada e puntandola alla gola di Luciherus che, preso di sorpresa,
spalancò gli
occhi allarmato.
Poi il Principe spostò la
lama da sé con due dita e sorrise:
“Non volevo farti arrabbiare, angelo! Mi dispiace. Volevo
solo notizie di
lei…lui…”.
“Pensi a Kasday come ad una
donna?”.
“É la madre di
mia figlia. Ovvio che ci penso come se fosse
una donna…”.
“Riferirò che
avete chiesto sue notizie. Credo possa fargli,
o farle, piacere”.
“Vorrei partecipare a
quella riunione. Per salutare”.
“Non ti servirebbe. Il mio
padrone non sarà presente. E
l’unico modo per esserci è diventare un Dio. Che
ti devo dire? Impegnati!”.
Nosmagiés sorrise e
rifoderò la spada, sapientemente celata
sotto la veste.
“Vai pure adesso,
Messaggero” gli disse Luciherus.
L’angelo si mise a ridere:
“Ti hanno mai detto che la tua
Esse sibilante è adorabile?”.
Il Principe non rispose e
ruotò gli occhi, scocciato.
“Volevo farti sapere che il
mio padrone vi osserva tutti,
attraverso i suoi specchi”.
“Torna da lui adesso,
avrà bisogno di te. Salutamelo.
Salutami Kasday”.
Nosmagiés si
inchinò, non notando lo strano atteggiamento
turbato del demone, ed uscì dalla stanza con passo rapido,
desideroso di
tornare al più presto dal suo padrone.
Luciherus tornò nella sua
stanza, senza dire una parola.
Rahahel era ancora lì e si era riaddormentato. Il demone,
con un sorrisetto
divertito, lo ignorò.
Sospirò. Era stanco di
essere ciò che era diventato. Mosso
da un desiderio assurdo di magia, potere e controllo, decise che era
arrivato
il momento di riprendersi Lilith, con le buone o con le cattive! Non
poté fare
a meno di notare la sua immagine riflessa nello specchio a parete della
stanza.
Prima che la maledizione gli fosse tolta, lui non aveva la
possibilità di
vedersi riflesso ma, da quando Kasday lo aveva liberato, poteva
specchiarsi e
la cosa gli dava fastidio, specie ora che era un ibrido angelo-demone.
Appoggiò la fronte sulla
superficie gelida e ringhiò alla
sua immagine.
“Kasday…puoi
vedermi attraverso i tuoi specchi? Perché non
lasci che anch’io lo possa fare? Voglio
solo…”.
Si sedette in un angolo, con la
schiena e le ali contro la
parete.
Si accese una sigaretta e
fissò il vuoto, in silenzio.
Voleva solo, per un attimo, sapere cosa era successo, come stava, che
faceva…
Rahahel, risvegliato
dall’odore di fumo e cenere, si alzò e
tolse la sigaretta dalle mani di Luciherus, gettandola dalla finestra.
“Vuoi morire oggi,
microbo?” ringhiò il demone.
“Non ti fa bene quella
roba!” si giustificò l’Arcangelo, con
aria serafica ed innocente.
“Ma
quand’è che inizi a farti i cazzi tuoi,
piumoso?”.
Rahahel fece finta di non sentire la
domanda ed improvvisò
un balletto, con un gran sorriso.
Si sentiva meglio e voleva farlo
notare al mondo. Canticchiò
felice ed invitò il Principe a fare lo stesso. Questi
rispose mostrandogli il
dito medio.
“Lo sai che parli nel
sonno, Rahahel?”.
“Sì, lo so!
Scusa! Tu invece ti agiti! Ti dimeni come un…”.
“Dillo!”.
“…come un
indemoniato!”.
L’angelo si mise a ridere e
si sedette accanto al demone.
“Cosa
c’è Lu? Hai una faccia…”.
“Ma che te frega?!
Piuttosto…ti va di andare al mare? Devo
andare sull’Isola a riprendermi Lilith”.
“Sull’Isola? Dove vanno gli Dèi in
vacanza? E lei cosa ci va a fare là?”.
“É con il Dio
della Giustizia”.
Rahahel si osservò allo
specchio, sistemandosi i capelli.
“Con il Dio della
Giustizia? A fare cosa?”.
“Ma che domanda cretina,
piumino per la polvere! Si diceva
che la Giustizia andava a puttane…ora ne ho la certezza
definitiva!”.
Luciherus ridacchiò,
sicuro che Rahahel non avesse ben
capito cosa intendeva dire.
“Ad ogni
modo…” continuò, tornando serio
“…devo
riprendermela. Lei appartiene a me, in ogni sua parte! Nel corpo e
nella
mente…specie nel corpo! Quella piccola troietta deve tornare
a casa!”.
Rahahel lo fissò, con aria
interrogativa: “Sei proprio
crudele. Chi ti dice che lei stia facendo…quello che
pensi?”.
Il demone sospirò:
“Perché io, a differenza di te, conosco
le persone. Ma tu continua a vivere nel tuo mondo fatato!”.
“Cattivo”.
“É il mio
lavoro”.
“Ok. Io ci vengo al mare.
Posso portare Miky?”.
“No!!”.
“Oh, dai! Tu porta Asmodai,
o Azazel. Chi ti pare…così siamo
pari!”.
“In effetti, Azazel avrebbe
bisogno di cambiare aria ogni
tanto, povero piccolo”.
Luciherus si alzò,
sistemando il vestito e accendendo
un'altra sigaretta.
“Perfetto! E
Cerbero?” esclamò l’Arcangelo con un
sorriso.
“Perché dovrei
portare quello stupido cane?”.
“Così ci
divertiamo! Dai!”.
Il Principe sorrise, poco convinto,
controllando allo
specchio che le ali da angelo fossero ben coperte: “Guarda
che non vado a
passeggiare, Rahahel. Sarà una cosa breve, capito? Non posso
e non voglio
perdere tempo!”.
“Tranquillo, Lu! Non ti
darò fastidio ed andrà tutto bene!”.
Il padrone di casa scosse il capo,
sicuro che non avrebbe
rispettato i termini.
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Capitolo 4 *** IV- padroni ***
IV
PADRONI
Nosmagiés
rientrò in casa, seguendo il timido fuoco fatuo
azzurrino, mandato dal suo padrone, che lo guidava verso la dimora. Nel
palazzo
faceva freddo, come sempre. Con un sospiro, si orientò
facilmente nell’oscurità
fino a raggiungere una finestra coperta da una tenda spessa. La
scostò per far
entrare un po’ della luce del mattino ma, non appena un
raggio di Sole entrò
nella stanza, l’angelo udì un gemito di protesta.
Subito richiuse i tendaggi e
tornò tutto buio.
“Signore? Siete qui? Vi
credevo nelle Vostre stanze, chiedo
scusa!”.
Gli enormi occhi del padrone di casa
tornarono a posarsi
sull’ombra creata dal caminetto spento, dopo aver visto che
Nosmagiés lasciava
fuori dalla stanza il Sole. Allungò le braccia verso un
fuoco immaginario e poi
le ritrasse, di scatto, come se si fosse scottato. Il messaggero tolse
il
mantello, liberando i capelli e le ali, ed andò a sedersi
accanto al suo
padrone, raggomitolato in un angolo.
“Signore…fareste
meglio a tornare al piano di sopra. Questa
sala vi tormenta”.
Ma il padrone non si mosse. Con occhi
spalancati, rimaneva
fermo, fissando il vuoto. Giocava con le mani, agitandole
convulsamente, scacciando
insetti inesistenti e creando piccole bolle di sapone con una di esse.
Nosmagiés gli prese la
punta delle dita, gelide: “Fa freddo
qui. Avanti…venite di sopra. Starete meglio nelle Vostre
camere”.
Il Signore non parlò.
Concentrò lo sguardo verso il
lunghissimo tavolo che era stato preparato nel salone, lo fissava con
aria
interrogativa.
“Momoia ha ordinato che
vengano riuniti tutti gli Dèi” parlò
ancora l’angelo “Non so per quale motivo, ha voluto
che ciò avvenga proprio
nella Vostra casa. Ho cercato di farle cambiare idea, ma lei ha
insistito. Sono
spiacente. So quanto il rumore e la gente la infastidiscano,
Signore”.
Il Dio si alzò a fatica
dalla sedia su cui si era
accoccolato, quasi inglobandola a sé fra capelli e vesti.
Era tutto imbacuccato
in diverse stoffe ricamate. I suoi lunghissimi capelli neri si
agitavano
nell’aria e sembravano piccoli tentacoli, o arti, che
esploravano la superficie
dei mobili.
Lui pareva strisciare verso il
tavolo. I tre abnormi occhi
da falena del Padrone continuavano ad essere persi nel vuoto.
Nosmagiés lo
guardò con apprensione.
Le orecchie a punta del Dio
fremevano, ascoltando suoni che
in realtà non c’erano. La mano sinistra, lucida,
fredda e nera, del Padrone
passò sul legno levigato, mentre quella destra, sottile,
liscia e delicata,
teneva serrati i diversi strati di vesti e stoffe che gli avvolgevano
il corpo.
Entrambi gli arti avevano, sul dorso, un occhio di colore diverso che
chiudeva
le palpebre in modo regolare e ruotavano lo sguardo di qua e di
là.
Nosmagiés sapeva che non
erano fatte di carne, ossa e
sangue, come le sue, ma di vetro, pietra dura e magia. La maggior parte
del
corpo del suo padrone era fatto così.
Era a due colori e materiali. Perfino
il suo viso era diviso
fra la metà bianca e quella nera da un sottile disegno
azzurro: lo stesso
colore dei suoi due occhi più grandi. Il terzo, al centro
della fronte, non si
chiudeva mai ed era viola. L’angelo non era sicuro che quei
tre occhi vedessero
qualcosa. Era, invece, convinto che, a mettere a fuoco il mondo
esterno,
fossero le due iridi gialle, con una minuscola pupilla, che
sormontavano le
sottili e sinuose antenne che campeggiavano sulla fronte del suo Dio.
Erano di
colore rosso e spiccavano sul nero dei capelli. Inoltre si muovevano
continuamente,
attente ad ogni movimento. Lui non parlava quasi mai, non con
Nosmagiés
perlomeno, e la sua bocca color rubino era quasi sempre chiusa.
All’angelo
messaggero piacevano quelle labbra. Erano molto femminili, anche se gli
dispiaceva che non gli rivolgessero spesso la parola. Vide che il suo
padrone
si era fermato, annusando l’aria. Pur non avendo il naso, ma
solo due fessure a
metà del volto, aveva un buon olfatto, come erano molto
sviluppati tutti gli
altri suoi sensi. Il Signore girò su se stesso e
tornò a guardare il
messaggero. Rabbonì i capelli, che si agitavano invano a
caso, e gli andò
incontro. Lo abbracciò, senza preavviso, e lo tenne stretto.
“Hai il loro
profumo!” sussurrò, mentre l’angelo
restava
immobile e si lasciava avvolgere “Hai il profumo di tutti
loro sulla pelle…che
bello risentirlo!”.
Nosmagiés sorrise, era
meravigliosa la voce del Dio che
serviva.
“Scusami, scusami tanto,
mio messaggero. Scusami se qui fa
sempre freddo e perdonami…il mio aspetto è
così terribile. Sono spaventoso…”.
“Voi non siete spaventoso.
Per niente! Nemmeno quando
mostrate il Vostro aspetto più crudele. Io non ho paura di
Voi!”.
“Sei molto buono e
tremendamente paziente. Fin troppo…”.
L’angelo sorrise al suo
signore, quando questi gli guardò il
viso.
“Non vorrei che tu ti
ammalassi, Nosmy. Ma non posso farti
accendere il fuoco, sono spiacente. Non lo potrei
sopportare…”.
“Mio Signore, non importa!
Ci sono abituato e sto bene…”.
“Sai che sei libero di
andare quando vuoi…”.
“Mai lo farei. Devo
portarVi dei saluti. Luciherus Vi
ricorda e ha chiesto se state bene”.
“Spero che tu non lo abbia
fatto preoccupare. Quel demone è
testardo e se si impunta su una cosa…”.
“Tranquillo. Ricorda ancora
il vostro aspetto di donna”.
“Commovente”
commentò il Dio, acido.
“Kasday…”.
“Non mi chiamo
così. Non più. Perciò non usare quel
nome.
Nessuno lo fa”.
Il Signore tornò ad
avvolgersi nelle vesti e diede le spalle
al suo interlocutore.
“Sarete presente alla
riunione?” gli domandò l’angelo.
Il padrone scosse il capo.
“Ma…vi farebbe
bene! É da quando sono nati i gemelli
che…”.
Kasday lo zittì con un
gesto della mano, nera, che fissò
Nosmagiés con l’occhio ambrato che aveva fissato
sul dorso dell’arto.
“Scusate…”.
Il Dio sbatté gli occhi
azzurri, divisi in piccoli esagoni, il
cui colore era unico, senza pupille o parti bianche. Brillavano come
gli occhi
di un insetto o come il guscio di una cetonia. Erano sottolineati da
due
lunghissime e sottili sopracciglia.
Lentamente, e in silenzio, il padrone
di casa si avviò verso
le sue stanze, salendo le scale, e lasciando Nosmagiés da
solo, nel buio e
nella quiete.
L’angelo messaggero
sospirò. Aprì le tende e le finestre,
ora sicuro che il suo Signore fosse al riparo
nell’oscurità del piano
superiore, e si scaldò un po’ alla luce del Sole.
Il corpo del Dio che serviva
era tremendamente freddo e toccarlo gli provocava una sensazione che lo
inquietava.
Raccolse i lunghi capelli, ricci e
magenta, in una crocchia
e continuò a sistemare il salone, rimasto troppo a lungo
inutilizzato e nella
penombra. Spolverò e riordinò, anche se non
c’era molto da fare: dopotutto si
trovava nel palazzo dell’antico Dio dell’Ordine ed
il suo padrone non aveva
perso le vecchie abitudini. Una di queste era tenere tutto al posto
giusto.
I mobili erano un po’
particolari, rispecchiavano la parte
del suo Signore che rappresentava il Kaos, con poche linee parallele
fra loro
ma tanti angoli strani e storti.
Li lucidò con cura,
così come fece con i lunghissimi tavoli
blu scuro che aveva preparato. Ricontò le sedie, rosso cupo
e blu, prestando
attenzione a non dimenticare nessuno. Ad ogni seggiola
collegò il nome di una
divinità, che scrisse su un segnaposto, e che poi
lasciò sui tavoli, avendo
cura di non mettere sedute vicine due divinità rivali.
La struttura a ferro di cavallo, con
cui aveva predisposto i
mobili per il ricevimento, gli permetteva di avere a disposizione un
ripiano
centrale, in cui mettere un rinfresco. Sapeva quanto piacesse agli
Dèi mangiare
e bere a scrocco. Illuminò la stanza con degli specchi,
consapevole di non
poter accendere il fuoco e trovando la luce elettrica alquanto
squallida.
Canticchiò e
finì i preparativi anche per la stanza attigua,
dove avrebbero potuto incontrarsi tutti gli angeli messaggeri delle
varie
divinità. Canticchiava perché era felice. Era
convinto che un po’ di vita non
avrebbe di certo guastato alla casa. Ma dentro di sé era
anche un po’
preoccupato. Non sapeva come avrebbe potuto reagire il suo Signore
davanti a
tutta quella gente e quel rumore, dopo secoli e secoli di isolamento.
Decise
che doveva trovare il modo di farlo partecipare a quella riunione.
Doveva
trovare il modo di farlo scendere, di farlo unire agli altri
Dèi, di farlo
parlare con loro, di farlo…sorridere! Non avrebbe potuto
fargli altro che bene.
Soddisfatto del suo operato e delle
sue riflessioni, si
fermò per qualche minuto. Sentì un po’
di fame e si preparò un panino veloce,
giusto per mettere a tacere la pancia. Si sedette e
contemplò l’enorme quadro,
occupante tutta una parete, raffigurante un paesaggio notturno.
Annoiato, decise di giocherellare con
una pallina fatta di
carta stagnola. La lanciava in aria e la lasciava levitare con il
battito delle
sue ali piumate e candide. Una lieve corrente la fece volare via da
lui,
lontano. Imprecò sottovoce, non avendo voglia di alzarsi
dalla sedia in cui
stava.
“Non sapevo che gli angeli
imprecassero…”.
Nosmagiés si
girò. Il gigantesco quadro appeso alla parete
divenne ghiaccio, o vetro, e una donna ci passò attraverso,
entrando nel
salone.
“É tutto pronto
per domani, angelo?”.
“Sì. Certo,
Madre Momoia”.
“Bene”
affermò la madre degli Alti, guardandosi attorno.
Il messaggero la osservava,
consapevole che quello che
mostrava non era il suo vero aspetto ma solo una copertura, che le
divinità
Alte amavano usare per celare il loro corpo alla maggior parte delle
persone.
Lei, in quel momento, si presentava come una bella donna bionda,
vestita in
nero, con pizzi e stoffe pregiate. Sulla testa portava un velo che, in
parte,
la copriva. Era in lutto. Aveva perso il marito tempo addietro, morto o
disperso e, dal giorno in cui era successo, lei si vestiva da vedova.
“Credi che il tuo padrone
sarà presente?” domandò la Madre.
“Il mio Signore? Ne
dubito”.
“É ancora
rinchiuso nelle sue stanze?”.
“Esatto. Da solo. Come
sempre. Nelle sue stanze”.
“Capisco.
Provvederò io. Dopotutto, lui e la sua essenza mi
appartengono”.
L’angelo non ebbe modo di
ribattere. Lei salì le scale di
corsa, quasi con rabbia. Il messaggero non la seguì, sapendo
di non poterlo
fare. Guardò verso l’alto, preoccupato.
Sentì la voce di lei,
rumore di passi e poi le due figure
spuntarono dalla cima delle scale.
Lei teneva Kasday per un braccio e lo
trascinava di sotto,
rimproverandolo.
Lui non rispondeva. Gemeva,
protestando sommessamente,
coprendosi gli occhi dalla luce del Sole.
“Signore!” esclamò Nosmagiés,
allarmato.
“Devi smetterla di fare il
bambino!” ringhiava Momoia. “Devi
smetterla! Te ne stai sempre da solo a rimuginare sul tuo passato, ma
è una
cosa stupida da fare! Sei un Dio! Un Alto! Hai tutta
l’eternità davanti e non
puoi sprecarla per piangerti addosso. Io ho perso il marito, non
è mai tornato
a casa, eppure so pensare ad altro! Se continui così, avrai
un’eternità di
dolore!”.
Kasday non rispose.
“Mi ascolti? Capisci quello
che ti sto dicendo? Ci pensi ad
un’eternità di dolore?”.
“Fai silenzio ti
prego…” biascicò lui, stando in terra,
con
il braccio stretto da lei.
“Fai silenzio? Che
significa? Come sarebbe a dire?”.
“Significa: stai zitta!
Basta!”.
“Non puoi dirmi una cosa
del genere! Il tuo corpo e la tua
essenza sono una mia proprietà da quando hai fatto un patto
con noi Alti.
È passato così tanto tempo che non
te lo ricordi? Dopotutto, era all’inizio di
quest’Era!”.
“Te lo ripeto: stai zitta!
Non ho voglia di discutere con
te. Lasciami in pace. Torna a casa. Non mi interessa proprio nulla
della tua
riunione e dei tuoi sottoposti”.
“Senti un po’,
Creatore…l’unico motivo per il quale mi
sforzo di sopportarti è perché sei tu che hai
realizzato questi Mondi e questi
Universi e tuo figlio è ancora troppo giovane per poterli
controllare tutti.
Altrimenti ti avrei già
distrutto…mostriciattolo!”.
“Perché non lo
fai? Perché non mi uccidi?”.
“Te l’ho appena
spiegato! E ora ascoltami bene: vedi di
portare giù quelle belle chiappe bicolore al momento della
riunione se non vuoi
che ti faccia molto male!”.
“Io
non ci sarò alla
riunione…”.
Momoia sbuffò ed estrasse
una piccola pietra dalla borsa che
teneva al fianco. Era liscia e lucida. La strinse e la
graffiò. Kasday gemette
di dolore mentre profondi squarci gli si aprivano sulla schiena e sul
petto,
riempiendogli la veste di scintille magiche. Si lamentò
flebilmente e poi
rimase in silenzio.
“Se vuoi continuo,
bastardello! Ma oggi mi sento buona. Se
non vuoi che usi uno di questi ninnoli contro i tuoi amici, non ti
conviene
provocarmi. Vedi di essere presente!”.
“Io non ho amici. Nessuno
piangerebbe nel vedermi soffrire.
A nessuno importerebbe e a nessuno importa”.
Momoia lo guardò dapprima
con rabbia ma poi si calmò. Con
dolcezza lo abbracciò: “Povero piccolo!”
disse, con sincero dolore.
“Non mi serve la tua
pietà…e in ogni caso non ci sarò a
quella riunione. Scusami tanto. Ma non me
le sento”.
Lui si scansò dal contatto
di lei e si raggomitolò in un
angolo.
“Ti prego! Ci terrei tanto
a vederti, seduto accanto a me!”.
Kasday ruotò gli occhi e
annuì, rassegnato: “E va bene! Ci
sarò!”.
“Bravo il mio figlioletto
adottivo!”.
La Madre degli Alti sorrise felice e
si alzò, accarezzando
il padrone di casa, che fece una smorfia. Si allontanò e
tornò a passare
attraverso il quadro, che ridiventò di ghiaccio e vetro per
farla passare.
Scomparve.
“Davvero
signore?” domandò Nosmagiés.
“Cosa?”.
“Davvero andrete alla
riunione degli Alti? Veramente sarete
presente domani sera?”.
“Certo che no!”
esclamò di risposta Kasday, trascinandosi
lungo le scale per poter tornare a rintanarsi nelle sue stanze
“Come ho già
detto, mio angelo, non mi importa nulla di quello che dicono, fanno o
pensano,
gli Alti e tutti i loro servi. Pur essendo io una loro
proprietà…”.
Entrò in camera, chiudendo
la porta dietro di sé, e lasciò
di nuovo il Messaggero da solo e nel silenzio.
Nosmagiés ruotò
gli occhi, rassegnato. Poi alzò le spalle,
rendendosi conto che tanto non poteva fare nulla e quindi
tornò a dedicarsi
alle sue attività. Diede un ultimo controllo alla sala e,
soddisfatto, tornò a
giocare con la sua pallina di carta stagnola.
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Capitolo 5 *** V- incontri ***
V
INCONTRI
Il Sole picchiava forte
sull’Isola. In quella piacevole
giornata di bella stagione vi una marea di gente, un sacco
di chiasso ed una
notevole allegria fra i presenti. Il piccolo demone Azazel seguiva con
gli
occhi i giochi del cagnone del suo padrone che correva latrando di
gioia,
soddisfatto di non essere più rinchiuso fra le quattro mura
del palazzo
principesco. Per lui, povera bestiola, era molto scomodo, in quanto
sfiorava il
soffitto con le tre
teste da quanto era
alto e quindi ora, che aveva la possibilità di stare
all’aperto, esprimeva
tutto il suo entusiasmo abbaiando e agitando la coda. Azazel lo
ammirava
divertito, mentre schizzava i passanti.
“Forse era meglio mettergli
il guinzaglio!” suggerì Asmodai.
“Impossibile e, comunque,
inutile. Il nostro padrone è
l’unico in grado di trattenere Cerbero e la sua mole. E oggi
non ha alcuna
intenzione di portarselo appresso. Già è tanto se
gli ha concesso di venire
fino a qui…”.
“Prima vuole i cuccioli e
poi li ignora…”.
“Credo sia un regalo. Fatto
da Madama Lilith”.
Assieme ad Azazel ed al capo delle
guardie, c’era anche
un'altra persona ad accompagnare il Principe. Era Raven, la sorella
maggiore di
Azazel. Teneva fra le mani un ombrello di pizzo nero per coprirsi dal
Sole,
cacciando via il fratellino che tentava di sfruttare la sua ombra. Era
molto
più alta del piccolo demone e non si assomigliavano molto.
“Cerbero! Stupido
cane!” sbraitò Luciherus “Devi cercare
la
tua padrona, non i
paguri!!”.
Il capo dei demoni camminava sul
bagnasciuga, stando molto
attento a non calpestare l’acqua con
i
piedi scalzi. Con le grandi ali nere, si copriva dalla luce e,
nonostante il
caldo, teneva il mantello, consapevole di dover celare per bene le sue
piccole
ali d’Arcangelo.
Per l’occasione, era
riuscito a ridurle fino a farle divenire non più grandi di
un paio di
centimetri. Le teneva sotto la camicia, ma si notavano due protuberanze
copribili solo con il mantello.
Il cane, sentendo la voce del suo
padrone, corse verso di
lui alzando un muro d’acqua che inondò i presenti,
demoni compresi. Luciherus
tolse i pesanti occhiali da sole e lanciò la sua peggiore
occhiataccia
all’animale, che però non capì il
disappunto del suo proprietario e scodinzolò
felice.
Il Principe si scosse. Ora era
fradicio e grondante d’acqua.
Sputacchiò il liquido salmastro ed imprecò per
una buona mezz’ora. In un primo
momento fu tentato
di inseguire la
bestia e punirla ma poi desistette, vedendo che Cerbero si trovava in
acqua.
Con i capelli appiccicati alla fronte ed al volto, iniziò a
lanciare ordini ai
suoi sottoposti. Coloro che lo accompagnavano si guardarono,
preoccupati: non
era mai una buona cosa quando il Boss era arrabbiato.
“Azazel!”
esclamò Luciherus “Azazel, Asmodai, Raven:
dividiamoci. Prima troviamo Lilith e prima torniamo a casa. Non
preoccupatevi…”
aggiunse poi, vedendo le loro espressioni
“…nessuno ha intenzioni cattive.
Tranne me! Specie ora che ho rovinato irrimediabilmente un completo e
un paio
di occhiali. Senza contare che sento la sabbia un po’
ovunque…”.
I tre demoni al suo seguito,
chissà perché, non si sentirono
molto rassicurati. Ma annuirono e si avviarono in direzioni diverse. Il
Principe pulì le lenti, macchiate di acqua e sale, e
brontolò sottovoce: “Ora
sì che ricordo perfettamente perché odio andare
al mare!”.
Strappò le maniche della
camicia, che non sopportava più per
l’eccessivo calore nell’aria, e
ricominciò a camminare sulla spiaggia.
Dopo un po’ si
frugò nella tasca, in cerca di un accendino,
che però non trovò.
“Palla!”
sentì urlare Rahahel.
Il demone, voltandosi, vide che
l’Arcangelo stava giocando a
pallavolo.
“Stupido piccione troppo
cresciuto! È, giusto per ipotesi,
colpa tua se io non trovo più il mio accendino?”.
“Esatto, Lu. Fumare ti fa
male!” fu la risposta di Rahahel,
dopo una schiacciata.
L’Arcangelo giocava con
altre creature angeliche e, come il
Principe ebbe modo di notare, con Azazel e Raven. Luciherus decise di
non
rimproverarli, per il momento, concentrato sul fatto che il suo
obbiettivo era
l’accendino. Ordinò al responsabile della
sparizione di uscire subito dal
campo, pena la morte, ma Rahahel non gli diede ascolto.
Il demone vide che erano tutti in
costume e si chiese quale
fosse il loro ombrellone.
“Palla!”
urlò uno dei giocatori ed il pallone arrivò quasi
fra le braccia del Principe.
Lui lo afferrò in fretta e
lo tenne stretto. Si trovava in
una posizione rialzata
rispetto al campo
di pallavolo, su uno scoglio che dava sul mare da un lato e sul piccolo
spiazzo
con la rete dall’altro.
Rahahel lo raggiunse, quasi
inciampando sui sandali, per
riprendersi la palla.
“Passa, Lu!”
esclamò.
“No!” rispose il
demone, nascondendo la sfera dietro la
schiena.
A nulla valsero i tentativi
dell’Arcangelo di riprendersela.
“Tu restituiscimi
ciò che è mio e io, forse, ti renderò
la
palla!”.
“Non
è qui con me!
L’ho lasciato a casa!”.
“E allora tempo proprio che
questa resterà con me…”.
“Come fai a zampettare con
i piedi scalzi sulla sabbia
bollente? È innaturale! Fermati!”
esclamò l’essere angelico, inseguendo il
demone che saltellava con un gran sorriso e con la palla sulla testa,
fra le
corna. Il calore della sabbia non era un problema. Azazel e Raven lo
osservavano, ridacchiando.
“Io
e te facciamo i
conti dopo!” sibilò il Principe, rivolto al
più giovane dei due. Mai si sarebbe
permesso di dire una cosa simile ad una donna!
“Ok, adesso basta! Tornaci
immediatamente la palla, demone!”
ordinò Mihael, uno dei giocatori, con un tono molto
scocciato.
Luciherus gli rise in faccia. Con il
costume, senza un’arma
e senza armatura, l’Arcangelo era ridicolo e si trovava in
netto svantaggio
rispetto al suo avversario di sempre.
Il demone prese il pallone con gli
artigli e, con un gesto
fulmineo, lo fece esplodere: “Ops! Che sbadato!”
esclamò, fingendo pentimento
con il tono, ma con
un bel sorrisetto
sadico.
“Perché lo hai
fatto? Sei cattivo!”.
“Chiedetelo a
Rahahel!”.
Remihel, l’Arcangelo della
speranza, alzò le spalle:
“Andiamo a prendere un’altra palla”.
Gibrihel sciolse i capelli biondi,
scuotendo le ali per
farsi aria: “Vado io” sussurrò.
Pochi minuti più tardi
erano già in grado di giocare di
nuovo.
“Metatron! Fai
barriera!” disse Samahel, un altro Arcangelo,
e Metatron, altissimo, si mise a ridere. “Non vale volare!
Ricordatelo!”
insistette Samahel.
Raven saltò, schiacciando
e facendo punto. Le catene che
portava sull’abito nero tintinnarono.
“Yeah!” esclamò, e festeggiò
con la sua
squadra. “Lucy! Perché non giochi anche tu,
Lucy?” domandò, rivolta al
Principe.
“Sai quanto io non sopporti
essere chiamato Lucy…”.
Osservò la demoniessa,
dall’aspetto gotico e misterioso.
Anche gli angeli la osservavano. Indossava un vestito troppo diverso
dai loro,
di colore corvino ed argento, con delle rose nere ricamate. Le sue
corna erano
a malapena visibili fra i capelli scuri e la coda era affusolata ed
elegante.
Azazel, il fratello minore, invece aveva i pantaloni
corti, dal quale
sbucava la coda rossa, e una canottiera dello stesso colore con scritte
luccicanti ma incomprensibili.
“Posso giocare
anch’io?” domandò una squillante vocetta
femminile.
“Sì,
d’accordo. Ma mi raccomando, Dea del Kaos,
non usare i tuoi poteri divini perché se no
non vale…”.
Luciherus le sorrise. Era cresciuta
molto dall’ultima volta
e con il costume bianco stava proprio bene, data la pelle nera. Il
demone
gemette. Aveva tanto caldo ed aveva girato la spiaggia in lungo ed in
largo,
senza trovare Lilith. Scoraggiato, si sedette sbuffando, facendo
attenzione a
non toccare la sabbia bollente. Aveva un’aria davvero
afflitta. Si tenne la
testa con la mano, appoggiando il braccio al ginocchio, e
guardò il mare.
Rifletté sul fatto che nemmeno i suoi sottoposti lo
capivano. Perdevano tempo
con gli angeli o, come Asmodai, rimorchiando ragazze.
All’ennesimo urlo dei
giocatori, si voltò di scatto verso di loro, spalancando gli
occhi.
La palla esplose..ed il Principe
ridacchiò: “Non pensavo che
i miei poteri arrivassero fino a questo punto…”.
“Devi rilassarti,
demone!”.
Si voltò verso quella voce
e vide il Dio del Tempo. Era
disteso sulla schiena e teneva accanto a sé il Dio del Sole,
per abbronzarsi
più in fretta. Luciherus non gli fece notare che stava
diventando di un acceso
color aragosta.
“Tempo! Non avrei mai
immaginato di vederti qui…”.
“E perché?
Dopotutto anch’io ho bisogno di svago ogni tanto!
E poi sono qui per un motivo: devo trovare la Dea della Pace. Tu? Come
mai da
queste parti?”.
“Sono qui per Lilith. La
devo riportare a casa”.
“L’ho vista ieri
sera, con il Dio della Giustizia. Vanno
molto in giro di notte quei due, è quindi probabile che
siano ancora a dormire.
Abbi solo un po’ di pazienza…”.
“Io non ho
pazienza!” gracchiò il demone, agitando
nervosamente la coda.
“Rilassati! Tutta questa
tensione ed energia negativa ti
fanno male al cuore! Goditi il Sole! Fatti una nuotata! Aiuta i miei
figli a
fare un castello di sabbia…”.
“Sono tutte
attività che, sinceramente, detesto!”.
Il demone si guardò
intorno ed iniziò a contare i figli del
Tempo, spalancando gli occhi gradatamente.
“Sono tutti
tuoi?” esclamò infine, con
un’espressione
sconvolta.
“Sono i miei tesori! I miei
gioielli! Non fare quella
faccia…e, a questo proposito, ci tenevo a farti notare che
tutti noi Dèi ci
aspettavamo da te una schiera di piccoli eredi e principini, una volta
tolta la
maledizione…invece…”.
“Ho già un
erede!” tagliò corto Luciherus, stanco di
sentirselo ripetere.
“Sì. Una. La Dea
della Morte. Ma tutti noi eravamo in attesa
di un bel gruppetto di Luciferini impegnati nella conquista dei Mondi,
grintosi
e irascibili come il loro papà! E pensavamo che ci avresti
messo poco, visto
come ti divertivi ad andare a donne, prima che Kasday ti liberasse dal
maleficio. Non ci hai mai pensato?”.
“Ad avere altri figli?
Sì, ma non fa per me…” rispose il
Principe, osservando le piccole del Tempo sedute in riva al mare e
impegnate
nella costruzione di una graziosa fortezza.
“Non credo sia vero. Con
tua figlia sei stato uno splendido
papà”.
“Punti di
vista…”.
“Non dire così!
Ad ogni modo…la vita è la tua! Tua è
la
scelta! Però ti assicuro che avere una squadra di figli
è davvero una cosa
meravigliosa!”.
Luciherus non rispose.
Starnutì e si scosse, preso da un
crampo allo stomaco. Sospirò e gemette.
“Hai un accendino,
Tempo?”.
“Certo che no! Io non fumo!
Chiedi a lui…” rispose il Tempo,
indicando il Dio del Sole. “Giusto…tu controlli
anche le fiamme! Puoi
accendermi una sigaretta?”.
“Non ti aiuterò
ad ucciderti!” fu la risposta del Dio solare.
Luciherus ringhiò e si
alzò. Rimase con la sigaretta,
spenta, di sbieco in bocca. Guardò in alto, distratto dalla
forma delle nuvole.
In quel momento ci vedeva solo strumenti di morte come mannaie o
fucili. Una
risata armoniosa gli fece abbassare lo sguardo. Ora, accanto a lui
stava una
splendida donna. Non ne vedeva il volto, coperto da un grande cappello
di
paglia con il fiocco. “Serve una mano?” chiese lei,
porgendogli un piccolo
accendino d’argento “Tenete. Io ho smesso di fumare
e non mi serve più. Forse
dovreste smettere anche Voi..”.
Il principe allungò la
mano verso quella delicata della
donna. La sfiorò, sentendo quanto fosse vellutata, e strinse
l’accendino.
Accese la sigaretta e, nell’istante in cui si distrasse per
guardare la fiamma,
lei si allontanò. Il demone la guardò proseguire
per la sua strada. Lei scostò
il cappello e, girandosi, gli fece un sorriso, mostrando gli occhi
viola. Era
molto pallida ed il cappello la teneva all’ombra. Su una mano
portava un lungo
guanto in pizzo, che le avvolgeva il braccio fino ad oltre al gomito.
L’altro
non lo portava, l’aveva tolto per porgere
l’accendino al Principe. Camminava
scalza e l’abito rosso splendeva, comparendo sotto
l’ondeggiare dei lunghi
capelli scuri. Anche lei, come Raven, aveva fra le mani un ombrello
ricamato
per stare all’ombra.
Luciherus rimase incantato a
guardarla, senza accorgersi di
Cerbero, che correva verso la sua direzione. Il cane alzò
un’onda altissima che
lo colpì, costringendolo a chiudere gli occhi.
Quando li riaprì, lei era
sparita.
“Chi era quella donna,
Tempo?”. Ma il Dio non gli rispose.
Si era assopito e, con lui, anche il Sole.
Il demone riprese la sua ricerca,
camminando lungo la
spiaggia e schivando tutti i bambini che correvano su e giù.
“Ciao, zio!” si
sentì dire.
Kavahel, con un costume dello stesso
colore dei capelli, lo
aveva salutato.
Teneva fra le mani un gelato che
leccava avidamente: “Come
mai da queste parti? Non mi sembri un tipo da
spiaggia…” commentò il giovane,
ridacchiando.
Dopotutto Luciherus era
l’unico con i
pantaloni lunghi ed il mantello.
“Cerco Lilith”.
“A quanto pare cerchiamo
tutti qualcuno! Noi aspettiamo la
Dea della Pace…”.
“Lo so”.
“Cos’hai,
zio?” domandò il nuovo Equilibrio, notando quanto
il demone fosse insolitamente pallido è più
irascibile del solito.
“Non sono tuo
zio!”.
“Ma a me piace chiamarti
così…”.
“Non ho niente.
È solo che mi sono accorto di quanto poco io
conti fra questi Universi. Nemmeno i miei sottoposti mi obbediscono
più. Sono
cambiato. Sono invecchiato”.
“Sarà stata la
Dea della Morte a cambiarti…”.
“La mia bambina? Con il suo
maledetto matrimonio? Può
darsi…”.
Il Principe gettò il
mozzicone della sigaretta in terra.
“Forse Lilith è
al largo, su una di quelle barche laggiù”
suggerì Kavahel, indicando un’imbarcazione lontana
all’orizzonte.
“Credo che, in questo caso,
la aspetterò qua!” commentò il
demone, osservando l’acqua che rifletteva la fortissima luce
degli occhi dorati
del ragazzo.
“Non avevo dubbi in
proposito!” si sentì rispondere.
Luciherus si voltò, per
vedere chi gli rivolgeva la parola
in quel modo. Sotto un ombrellone verde chiaro se ne stava Vereheveil,
tutto
rannicchiato all’ombra e con un libro in mano.
“Non sono in vena oggi, Dio
fallito!” gracchiò il demone,
irritato.
“Sempre meglio essere un
Dio fallito piuttosto che un Dio
mancato, come te!”.
Il Principe gli ringhiò
contro, agitando la coda.
“Non mi spaventi, sai! Puoi
ringhiare quanto vuoi, mio bel
demone! Dovrai fare molto più di così per farmi
tremare” commentò, sarcastico,
Vereheveil.
“Neanche rispondo ad
individui come te…” sbottò Luciherus, e
fece per andarsene.
“Certo, certo!”
lo schernì il Dio delle Letterature,
tornando a leggere.
Il demone, sentendo questo,
tornò sui suoi passi e tolse
l’ombrellone con due dita, per guardare il Dio negli occhi:
“Smettila di
sfottere, vigliacco!” ringhiò.
“Vigliacco?! Vigliacco a
me?!” esclamò Vereheveil,
accigliandosi.
I due, allora, iniziarono
un’accesa discussione.
“Certo che sì.
Sei un vigliacco. Una persona che ha paura
della creatura che ha sempre amato, non può avere una
diversa definizione!”.
“Ma fa silenzio, Esse
sibilante! Che vuoi saperne tu
dell’amore?! Sei incapace di provare un sentimento
simile!”.
“Tu sì, invece!
Hai ancora sangue di angelo nelle vene, Dio
delle Lingue! E, come un angelo, ami ogni cosa! Povero
Kasday…”.
“Non osare pronunciare il
Suo nome!”.
“Altrimenti cosa mi fai?
Chiami la mammina?”.
“Osi sfidarmi?! Ti ricordo
che io sono un Dio!”.
“Un Dio venuto
male!”.
“Almeno io lo sono,
principino!”.
“Chissà chi hai
corrotto o che cosa hai fatto per aver quel
ruolo…”.
Una folla di gente si era radunata a
guardarli, allarmati
dal tono di voce dei due litiganti.
“Io so leggere, demone!
Ecco la differenza fra me e te!”.
“Come ti permetti, piccolo
ingrato?! Io ti ho salvato la
vita quando sei caduto! Io ti ho tenuto al sicuro nella mia biblioteca!
Io ho
impedito che i miei sottoposti ti sbranassero o facessero ben altro. Ma
ora ben
mi pento della mia buona azione…avrei dovuto lasciarti
morire!”.
“Tu ti sei scopato la
persona che amavo!”.
“Forse lei amava me e non te. Abbiamo avuto una
figlia! E senza strani
meccanismi magici come, invece, avete fatto tra voi!”.
“Quella che tu consideri
una tua creatura è, in realtà,
figlia dell’antico Dio del Kaos e di Kasday. Tu che
c’entri? Terzo incomodo!
Sei sempre e solo un terzo incomodo!”.
“Terzo incomodo?! Ti
è mai venuto in mente che, magari, eri
tu quello di troppo?”.
“Come puoi pensare che lei
ami, o abbia amato, te? Nessuno
può amare un essere come te…”.
“Mia figlia ha la mia
stessa luce rossa. E nessuno mai potrà
convincermi del contrario. Ad ogni modo, se può farti
piacere, non credo che
lei mi amasse…”.
“Tu non l’hai mai
amata. Non ne sei capace. Ne hai
approfittato vedendo una bella donna ma poi, quando hai scoperto chi
fosse in
realtà, te ne sei andato”.
“Lo ammetto. Ma tu sapevi
chi fosse fin dall’inizio. Eppure
hai fatto lo stesso: te ne sei andato. Perché ti spaventava.
Come può
spaventare una creatura come Kasday?”.
“Tu non sai niente! Sei
meno di niente e non sarai mai nulla
di più!” urlò Vereheveil, quasi in
lacrime “Kasday doveva lasciarti la tua
maledizione! Doveva far sì che il tuo corpo non avesse mai
pace! Doveva
lasciarti morire, assieme all’antico Dio del
Kaos!”.
Il Dio si scagliò contro
il demone, che lo respinse
prontamente.
“Non toccarmi,
Angelo!”.
“Io sono un
Dio!”.
“Provamelo!”.
Vereheveil tentò di
colpire Luciherus, ma questi lo
immobilizzò con facilità.
“Perché
gli Alti
convocano mezze calzette come te, angelo? A che cosa mai potrai
servirgli?”.
“Almeno
io non sto
sempre dalla parte sbagliata!”.
Il Principe reagì
infilando la testa del Dio nella sabbia
bollente.
“Ti piacerebbe essere
mortale, vero Verehevy? Così finirebbe
prima questa tortura!” rise sadicamente, continuando a
tenergli la testa a
terra.
Poi alzò gli occhi e vide
che, fra la folla, stava anche la
donna con il cappello di paglia che osservava la litigata con
curiosità.
Accanto a lei stava l’uomo con i tratti egiziani/orientali,
amico del Dio delle
Letterature.
“Ti sei
distratto!” esclamò Vereheveil.
Teneva ancora fra le mani il suo
libro e lo sbatté in faccia
al demone, che si ribaltò. Luciherus si premette le mani sul
volto, con rabbia.
“Non dovremmo
fermarli?” domandò qualcuno.
La donna con il
cappello e l’amico di Vereheveil si guardarono, in silenzio.
Dopo un po’, lei
parlò: “Non è necessario. Il demone non
può uccidere un Dio e Vereheveil non ha
alcuna speranza di battere il Principe”.
“Papà!”
sbottò Kavahel, tirando indietro il Dio delle
Letterature “Smettila di fare il bambino!”.
“Papà!” anche la Dea della Morte
intervenne a dividere i due litiganti, ma non riusciva a trattenere
Luciherus,
infuriato. Non riusciva a calmarlo.
“Adesso basta! Fatti una
dormita, demone!” disse Mihael,
puntando la spada alla gola del Principe. Questi sospirò e
scosse il capo. Poi
urlò: “Cerbero!
Cerbero…leccalo!”.
L’enorme cane
arrivò di corsa e Mihael volò via altrettanto
velocemente, allarmato dal pensiero di quelle tre lingue bavose.
Luciherus rise e lasciò
andare Vereheveil, che si sistemò i
capelli con aria indifferente.
“Ok. Basta. Con un
fedifrago come te non c’è modo di
discutere seriamente!” commentò il demone.
“Fedifrago? Io?!”.
“Sì, tu, ovvio!
Sei tu quello sposato…e non
con Kasday!”.
“Fate silenzio voi due! Non
ricominciate!”ordinò la Dea
delle Parole, stanca di sentir nominare Kasday. Guardò il
Principe con rabbia:
“Se ne vada, per favore!” gli disse.
Luciherus, stufo e scocciato
dall’intromissione, mise le
mani in tasca e si incamminò intravedendo,
da lontano, la donna con il
cappello di paglia. Si allontanò dalla folla, cercando di
raggiungerla, mentre
Mihael passava velocissimo, seguito da un grosso cane latrante. Azazel
seguiva
l’animale cercando di fermarlo, mentre Raven rideva. Asmodai
era troppo impegnato
a provarci con una bella ragazza in topless per poter accorgersi di
qualche cosa.
Il demone capo accelerò il
passo, vedendo lei sempre più
lontana. Quasi corse, fino quando cadde di faccia, dato che qualcuno lo
teneva
stretto per la coda.
“Tesoro!” si
sentì dire.
“Lilith…”
mugugnò lui.
“Tesoro…cosa fai
qui? E poi come mai sei caduto così? Sei
troppo distratto…”.
“Io cercavo te”.
“Davvero? E come mai?”.
Il Principe si mise seduto, a gambe
larghe, sulla spiaggia.
Lei lo guardava, dopo aver tolto gli
occhiali da sole, con
intensi occhi grigi. Portava i lunghi capelli, vermigli e ricci, in una
coda e
la sua pelle bianca era piena di crema abbronzante. Sorrise a
Luciherus,
maliziosa: “Sei troppo possessivo, Principe”
esclamò infine, tornando a distendersi
al Sole, sistemandosi il minuscolo costume nero e argento, pitonato.
“Quando hai intenzione di
tornare a casa?” domandò lui.
“Che ti importa?”
rispose lei.
“Niente” ammise
Luciherus, alzandosi “Divertiti” aggiunse
poi, mentre lei rimetteva le cuffie per sentire la sua musica preferita
ad alto
volume.
L’uomo dai tratti
oriental-egiziani si avvicinò a
Vereheveil. “Non
dovreste scaldarvi
tanto per così poco” gli disse “Lui
è un demone…ma Voi siete un Dio! E, poi,
avete un’aria così dolce che rovinarla con
l’ira non è proprio il caso. Non ne
vale la pena”.
Il Dio delle Letterature si
alzò, rivestendosi con la lunga
tunica arancio, e si allontanò dalla gente, ordinando a
tutti di non seguirlo. Ma
il giovane dai capelli neri non obbedì al suo comando e gli
andò appresso. Con
le mani in tasca, si teneva ad una certa distanza fino a quando il Dio
si fermò
e lui lo raggiunse.
“Perché mi
segui? Che cosa vuoi?” sbottò Vereheveil, non
nascondendo un certo fastidio.
“Non voglio niente.
Desidero solo farvi calmare”.
“Io sono calmissimo! Non ho
bisogno d’aiuto”.
“Siete sicuro? A me non
sembra…”.
“Ma tu chi sei? Cosa ti
importa di come sto?”.
I loro sguardi si incrociarono e il
giovane sorrise.
“Siete così
bello, Vereheveil…non dovreste farvi soggiogare da
delle semplici parole velenose”.
“Ma…vere, in fondo. Solo che…quel
demone mi
manda proprio in bestia! Lo detesto!”.
Il giovane gli prese entrambe le
mani: “Non ci pensate!
Chiudete gli occhi, rilassatevi e sentite il rumore del
mare…”.
“É come se
già ti conoscessi, da tanto tempo, strano angelo
dalle ali verde-blu…”.
Si sedettero l’uno accanto
all’altro, guardando il tramonto.
Al sorgere della Luna, il Dio delle Letterature non era più
in collera ma
disteso e felice. Salutò il satellite con entusiasmo,
rialzandosi.
“Sai che hai ragione? Non
vale la pena stare a rimuginare ed
arrabbiarsi per così poco!”.
L’angelo dai capelli neri
sorrise.
“Tu ti chiami Sarmorghell,
giusto? Mi pare…me lo avevi detto
nel mio studio”.
“Già. Mi chiamo
così…”.
“Vieni. La Dea della Pace
dev’essere in quel locale laggiù.
Andiamo…”.
“Come
volete…”.
“Dammi del tu”.
Sarmorghell fece un piccolo inchino:
“Come volete…”.
“Mi ricordi proprio
qualcuno…”.
“Non ci pensare,
Vereheveil”.
“Sono felice di essere qui,
questa sera, con te.
Era da tanto che nessuno mi diceva che mi
trova bello”.
“Lo sei. Che vuoi
farci?!”.
Si sorrisero. Il giovane dai tratti
oriental-egiziani mise
di nuovo le mani nelle tasche dei pantaloni scuri. La brezza della sera
gli
agitava l’ampia camicia bianca di lino, leggermente scollata,
con le maniche
strette sulle spalle ed ai polsi che si rigonfiavano nel mezzo. Sul
collo
spiccava una piccola catenina d’argento su cui pendeva uno
zaffiro a forma di
scarabeo.
“Posso darti un
bacio?” domandò Sarmorghell, con le ali
piumate blu-verdi mosse dal vento.
Spostò i capelli dal viso,
in attesa di una risposta. Il Dio
rimase a guardarlo.
“Io…”
rispose lentamente Vereheveil “…io non posso. Sono
sposato”.
“Va bene. Non parlare. Non
importa”.
Si presero per mano e si
incamminarono verso il locale
illuminato.
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Capitolo 6 *** VI- anime ***
VI
ANIME
Luciherus camminava lungo la spiaggia
deserta. Era scesa la
notte, ed al buio si sentiva già molto meglio. Nonostante
questo, aveva uno
sguardo cupo e duro. Legò Cerbero ad un promontorio e lo
lasciò dormire. Tutti
erano a fare festa, compresi i suoi sottoposti, nel locale illuminato
che si
intravedeva dietro la fila degli ombrelloni. C’era un
silenzio innaturale,
interrotto solamente dai sui passi sulla sabbia ed il rumore lieve
delle onde.
Chiuse gli occhi, continuando a camminare, respirando lentamente.
Rizzò le
orecchie a punta, in cerca di altri rumori. Percepì lo
zampettare di un
granchio e dei sospiri. Aprì gli occhi: una coppia si era
appartata fra i
camerini della spiaggia. Il demone li osservò da lontano,
con le mani in tasca
e con i capelli mossi dal vento. Di nuovo fu preso da quella strana
sensazione
di malessere allo stomaco ed alla testa. Starnutì e si
allontanò. Tornò a
chiudere gli occhi ed una voce gli giunse alle orecchie: era una
canzone.
Qualcuno cantava, con una voce meravigliosa, non molto lontano da dove
stava. Ascoltando
meglio, riconobbe la voce di lei: la donna con il cappello di paglia.
Accelerò
il passo e la vide. Con i piedi scalzi, lambiti dalle onde, intonava
una canzone
che il Principe conosceva, non sapeva in che modo, ma era sicuro di
averla già
sentita e ne ricordava le parole.
Anima mia, prostrata
e racchiusa,
come un germe nero,
schiacciata da una
pena indelebile,
aneli a fiorire
ma forse non è il tuo
destino,
dove rivolgi il tuo
sguardo?
Verso le immensità
del cielo e l’estasi
o verso l’oblio
magnetico della stella del mattino?
Che in te ci sia, in
realtà,
l’essenza ancestrale
e divina, anima mia?
Il Principe sorrise, guardandola. La
veste rossa della donna
brillava alla luce delle stelle. Rimase incantato ad osservarla mentre,
dentro
di sé, ripeteva alcuni versi.
Perso ed insicuro,
puoi aiutarmi?
Puoi salvare l’anima
mia, tu che osservi?
Sai indicarmi la
retta via?
Puoi dirmi come
salvarmi?
Puoi guarire me
stesso, ora che muoio,
avvelenato d’amore?
Strinse, nel pugno chiuso,
l’accendino d’argento che lei gli
aveva donato.
“Avete, per caso, bisogno
di qualcosa, Signore?” domandò la
donna, senza voltarsi.
Luciherus non si aspettava di
sentirsi chiedere una cosa del
genere.
“Io…non volevo
disturbarla…mi ‘spiace…”
farfugliò lui,
lievemente a disagio pur non capendone il motivo.
“Nessun disturbo, si
figuri. Ma gradirei che non stesse lì
fermo a fissarmi, come un pesce lesso”. Solo in quel momento
lei si voltò,
togliendo il cappello e sciogliendo i capelli, ricci, lucenti e del
colore
della notte.
“Principessa…siete
bellissima…”.
Lei non cambiò
espressione.
“Dovrete dire molto
più di questo per impressionarmi. Fate
correre la fantasia, per cortesia!” commentò la
donna.
“Questa
frase…non era programmata! È uscita da
me…senza che
ci pensassi. In modo spontaneo ed incontrollato. Non so
perché sia avvenuto.
Mai, prima d’ora, mi era successo!”.
Lei tornò a guardare il
mare: “Come mai siete qui, da
solo?”.
“Il locale sulla baia era
troppo affollato ed io non avevo
voglia di rivedere Vereheveil”.
In realtà non era
semplicemente in vena di fare festa “Ho
avuto modo di notare che Voi, signorina, siete rimasta ad osservare la
nostra
lite. Eravate preoccupata?”.
“No! Perché
avrei dovuto? Ero solo curiosa. Volevo venire a
conoscenza del motivo del vostro litigio”.
“Ah, è una lunga
storia, Madama. Principalmente c’entra la
gelosia ma, soprattutto, c’è la forte presenza del
mio sentimento preferito:
l’invidia!”.
Il tono del demone ed il suo
atteggiamento era un po’ da
galletto esaltato e lei lo guardò con
un’espressione divertita.
“Ma
l’invidia non è
un sentimento!” commentò la donna.
“Ah no? E allora
cos’è?”.
“Non lo so. Ad ogni
modo…invidia per che cosa?”.
Luciherus non rispose subito. Rimase
in silenzio, guardando
il cielo. Incrociò lo sguardo e gli occhi viola di lei e
sentì di poterle dire
ogni cosa, senza vergogna o paura.
“Io lo invidio. Lo ammetto.
Non posso più negarlo…lui ha
tutto quello che io posso desiderare. Aveva Kasday e ci ha rinunciato,
l’ha
abbandonato per motivi suoi. Si è sposato con quella donna
dalla parlantina
facile e, se gli chiedi il perché, non ti sa rispondere. Non
è normale! I suoi
figli lo ascoltano e lo rispettano mentre mia figlia fa tutto
l’opposto di
quello che dico!”.
“E Voi cosa vorreste di
quello che lui ha?”.
Luciherus non rispose, distolse lo
sguardo.
“Siete sposato,
demone?”.
“No! Certo che no! Meglio
uno sparo in fronte!”.
“Siete
innamorato?”.
“I demoni non
amano!”.
“Ma gli Arcangeli
sì. Non creda che io non sappia chi è lei!
E poi…chi la dice ‘sta cosa che i demoni non
amano? Chi lo dice, in realtà non
può provarlo”.
“Se Voi mi
conoscete…allora…posso avere l’ardire
di chiedere
il vostro nome? E, Vi prego, datemi del tu!”.
“Il mio nome?”.
“Sì. Sono sicuro
che avete un nome meraviglioso…”.
“Io vengo chiamata Persona
dal mio padrone. Ma mio fratello
mi chiama Shekinah”.
“Shekinah? Stupendo.
Piacere di conoscerla. Io sono
Luciherus, o Satanahel, Principe del regno dei demoni e
l’Arcangelo più bello”.
Prese la mano di lei e la
sfiorò con le labbra.
Lei fece un sorriso: “Lo so
chi sei…non ti fidi?”.
“Cosa ci fa una creaturina
come lei, tutta sola nel buio
della notte?”.
“Non sono sola. Ci sei tu.
E non ho mai avuto paura del
buio”.
“Siete coraggiosa. Posso
offrirvi da bere?”.
Il demone teneva le mani dietro la
schiena e guardava
l’enorme Luna. “Faccio un salto nel locale e vi
porto qualcosa. È la serata
ideale per un brindisi in riva al mare…”.
“Dici? In siffatto
posto…”.
“…è
l’ideale per scaldarla, Signorina, dalla brezza della
sera”.
“Non è
necessario. Grazie per l’invito, ma sono abituata al
freddo”.
Luciherus guardava il riflesso delle
stelle nell’acqua. Poi
si voltò di nuovo verso di lei.
“Che splendida collana che
avete…”.
“Ti piace? Ha una luce
azzurra che pulsa al ritmo del mio
cuore”.
“Incantevole…”.
Il gioiello aveva una catenina
d’argento e la pietra
effettivamente pareva battere con regolarità.
Il demone lo sfiorò con le
dita e una breve scossa di magia
gli attraversò le membra. Il monile si illuminò
in modo più intenso.
“Mi ricorda la mia vecchia
aureola…” sussurrò il Principe,
malinconico.
Lei, con uno scatto, lo
abbracciò. Luciherus, preso alla
sprovvista, fece cadere l’accendino che teneva fra le mani.
“Se stai in silenzio questa
pietra si sincronizza con il
battito del tuo cuore, lo senti?” gli
sussurrò lei. Lui tacque ed effettivamente ne
avvertì le pulsazioni a ritmo.
“Deve avervela regalata una
persona per lei molto
speciale…”.
“Sì. Mi ama
molto. È praticamente una parte di me: mio
fratello”.
“Avete molti
fratelli?”.
“Sì. Siamo in
tanti, ma la maggior parte delle volte ci
sentiamo come se fossimo una persona sola. Ci vogliamo molto
bene”.
I due rimasero a guardarsi, in riva
al mare.
“Guarda il cielo,
Luciherus. Guarda le stelle, guarda la
Luna…è una serata magica”.
“Già.
È vero. So che è strano, ma la trovo
quasi…romantica”.
“Hai ragione. Io non sono
quel tipo di donna che vede del
tenero in ogni cosa, ma credo che non ci sia niente di meglio di una
notte di
Luna ed una spiaggia solitaria per far nascere un amore”.
“Io non credo a queste
cose…”.
“Non credi
all’amore, Principe? Eppure…se l’amore
non
esiste, allora perché c’è una
divinità per esso?”.
“Non ne ho idea, e comunque
quel Dio serve solo a creare una
reazione chimica che terrà due persone vicine
finché la loro brama fisica non
terminerà. Oppure il necessario per la
procreazione”. Lei rise: “Io non ho
nessun desiderio di procreazione…eppure un po’ di
compagnia non mi dispiacerebbe
questa notte…”.
Si avviò verso
l’acqua, quasi danzando sulla superficie
schiumosa delle onde.
Lui non la seguì.
“Vuoi che ti
insegni?” chiese Shekinah.
“A fare cosa?”.
“A nuotare!”.
Luciherus non rispose.
“Ora io vado, demone. Ci
vediamo dopo. C’è una persona che
ti sta cercando laggiù”.
“Che?!”.
Il Principe si girò,
mentre lei scompariva nel mare.
Lui vide una forte luce venirgli
incontro. In un attimo, le
fu di fronte.
“Sei tu Luciherus,
giusto?” domandò il bagliore.
“Sì. Sono io. E
tu chi, o che cosa, sei?”.
“Io sono Momoia, la Madre
degli Alti. Il nome ti dice
niente?”.
“La Madre degli Alti? Che
vuoi da me?”.
“Tu sai che stiamo
richiamando tutti gli Dèi…”.
“Sì, lo so. Ma
che combinate? Se siete così stupidi da
organizzare una guerra richiamando mezze pippe come Vereheveil ed il
Dio
dell’amore, gente che non sa tenere in mano un’arma
manco per sbaglio…”.
“Potremmo non parlare di
questo?” lo interruppe Momoia.
“Sono qui per chiederti una cosa, razza di
sfrontato!”.
“Dimmi pure,
mammina”.
“Vengo subito al
sodo…tu hai sempre voluto essere un
Dio…ebbene io, la Madre ed il Capo degli Alti, ho la
possibilità di far
avverare questo tuo desiderio”.
“Non sono stupido,
Momy!” esclamò il demone, incrociando le
braccia “Non sono stupido e sono stato una marionetta a
servizio di altri per
troppo tempo. Dove sta
la fregatura? E
cosa volete, voi Alti, in cambio?”.
“Nessuna fregatura. Ci
serve gente e l’unica cosa che voglio
e che tu stia dalla mia parte, qualunque cosa succeda”.
Luciherus la guardò,
perplesso: “Dalla parte del più forte?
Proposta interessante…”.
“La forza ed il coraggio
non ti mancano…cosa mi rispondi,
Principe?”.
Lui tenne le braccia incrociate:
“Parla sinceramente: che
devo fare?”.
“Sarai presente alla
riunione di domani sera, ascolterai ciò
che noi Alti abbiamo da dire e starai dalla mia parte. Non hai
obblighi, ma ho
bisogno di creature con le tue capacità”.
“A chi altro hai fatto
questa proposta?” domandò il demone,
un po’ meno sospettoso.
“A nessuno. Solo tu hai le
caratteristiche che mi servono.
Ti do il tempo di pensarci, ma dovrai darmi una risposta entro domani
sera”.
“Non ho bisogno di
pensarci. È un sogno che inseguo da una
vita ciò che mi proponi”.
Momoia allungò la mano,
che al Principe apparve come una lingua
di luce.
“Avrò un
messaggero?” chiese lui.
“Tutti quelli che
vuoi…”.
“Può essere una
femmina?”.
“Certo…”.
“Bene”.
“Allora siamo
d’accordo. Qua la mano!”.
Luciherus sorrise e toccò
la luce, che lo avvolse e lo
sollevò da terra, mentre Momoia parlava. “Entra tu
ora a far parte della grande
famiglia degli Dèi. Giura fedeltà, obbedienza e
coerenza al principio che ti
sarà affidato…”.
“Lo giuro!”
urlò lui.
“…senti la
potenza delle tue nuove capacità. Grida, mentre
il tuo sangue mortale e impuro viene sostituito con la linfa vitale: la
magia.
Urla ed invoca il mio nome mentre io, Momoia, Regina degli Alti, affido
a te il
tuo principio, il tuo ruolo…”.
Il demone, sempre sospeso in aria,
urlò.
“…ecco, ora io
ti carico della tua nuova essenza: Dio della
Forza e del Coraggio!”.
Quando la Madre tacque, il Principe
cadde sulla spiaggia.
Scosse la testa, che pulsava alla comparsa del simbolo che tutti gli
Dèi
portavano sulla fronte.
“Ti sentirai un
po’ scombussolato ma ti ci abituerai. Ora
ti lascio, ho visto che eri in piacevole
compagnia. Mi ‘spiace averti interrotto. Ci vediamo alla
riunione”.”.
Momoia sorrideva ed ora lui poteva
vederne chiaramente il
volto. La luce bianca si allontanò, con aria
soddisfatta. Luciherus si alzò, e la vide sparire fra la
lieve nebbia che si
era alzata.
Non si sentiva più di
tanto cambiato, non come si aspettava.
“Congratulazioni!”.
Lui si voltò, era stata
lei, Shekinah, a dirlo, con il viso
che spuntava dal mare. Lui non poté fare a meno di notare
una lieve nota di
disappunto nello sguardo e nella voce.
“Che
c’è?” domandò lui, senza
capire perché lei lo fissasse
con rimprovero.
“Niente! Sei un
Dio…”.
“E tu? Tu sei una
Dea?”.
“Una specie…dai,
ora te la fai una nuotata,
Arcangelo?”.
Luciherus le sorrise. Espanse le ali,
dorate e piene di
piume, che gli strapparono la camicia, mentre quelle da demone si
fecero
piccine e discrete. Iniziò ad entrare in acqua, frustando la
coda.
“Sei diabolicamente bello,
nuovo Dio!”.
I due si baciarono, andando al largo.
Lui percepì di nuovo
quella strana sensazione allo stomaco ed alla testa, ma non ci
badò. Si
immerse, seguendo lei, senza pensarci.
Che sensazione
meravigliosa…mai si sarebbe immaginato che
fosse così bello nuotare nel mare! “Sono sicura
che non l’hai mai fatto
sott’acqua…”.
“Hai
indovinato…principessa”.
Ed i due scomparvero, fra le onde.
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Capitolo 7 *** VII- riunioni ***
VII
RIUNIONI
Molti Dèi salivano, in
quella notte di Luna, l’eterna
scalinata che portava alla dimora del Dio Triplice. Era un palazzo
sopraelevato
e distante, che si raggiungeva solo dopo una notevole salita.
Vereheveil
avanzava lentamente, sottobraccio alla moglie, a capo chino.
“Amore…”
lo rassicurò lei “…sta
tranquillo!”.
La giovane Dea del Kaos saltellava da
un lato ad un altro,
con impazienza.
“Come mai sei
così lento, Vereheveil, mio caro? La vecchiaia
ti pesa?” ridacchiò Luciherus, con a fianco la
figlia, sorpassando il Dio delle
Letterature.
“Cosa ci fai tu qui, misero
mortale?” domandò, irritato, il
sorpassato.
Il Principe si girò e
spostò il ciuffo di capelli che gli
copriva parte del viso, mostrando il simbolo che gli spiccava sulla
fronte.
“Bada a come parli,
deuccio!” lo schernì, mostrandogli la
lingua “Invidia?” aggiunse, e scoppiò
nella sua solita risata inquietante.
“Tu non sei adatto a fare
il Dio! Non ne sei capace,
Luciherus! Sei troppo impulsivo, fastidioso e narcisista. Folle colui
che ti ha
reso divino!” commentò, acido, Vereheveil.
“É stata Madre
Momoia stessa a scegliermi, brutto fallito!”.
Sorrise il demone, malefico, e si
avvolse nel mantello,
continuando la salita.
Ai lati delle gradinate stavano una
schiera di guardie,
tutte uguali, con un lungo abito scuro ed una ventina di occhi sparsi
per il
viso. Le loro armi brillavano sotto le stelle e la loro divisa era
splendida.
“Sono
inquietanti” rabbrividì la Dea della Morte,
Luciheday.
Il padre le sorrise, come ad
incoraggiarla.
Il Dio del Destino aveva
un’aria arrabbiata e pensierosa.
“Credi che rivedremo
l’essere che ci ha messi al mondo e poi
ci abbandonati ed ignorati per tutto il resto della nostra vita,
padre?”
domandò, rivolto al Dio delle Letterature.
“Papà…”
chiese la Dea della Morte, sottovoce, a Luciherus
“Papà, perché Vereheveil non ha detto
la verità ai suoi figli su Kasday?”.
“Per proteggerli”
rispose lui, serio “Proteggerli perché, in
fondo, Vereheveil è un buon genitore e non voleva far vivere
ai suoi piccoli il
trauma di un’infanzia difficile”.
“Ma loro non sono
più dei bambini!!! È ora che affrontino la
realtà!”.
“Tu la fai facile, figlia
mia! Ma, in realtà, noi genitori vi
vediamo sempre come dei bambini. Io ti vedo sempre come la mia piccina
da
proteggere, e sarà sempre così”.
“Ma dai, papà!
Smettila!” rise lei divertita, dando una
piccola spintarella al padre.
“Che vuoi farci,
piccola…è così!”.
“Non ho bisogno di
protezione. Non più!” continuò a ridere
e
poi riprese “Ma tu mi hai raccontato tutto, fin
dall’inizio, su Kasday. Fin da
bambina io sapevo ogni cosa”.
“Impossibile,
perché io non so tutto sulla creatura che ti
ha generato assieme a me”.
“Sarà anche
vero, ma mi hai sempre detto quello che dovevi”.
“Questo perché
io non sono un buon padre”.
Luciherus aveva
un’espressione dura e lievemente
malinconica.
“Scherzi?! Sei stato il
papà migliore fra tutti gli
universi!”.
“Trovo la cosa
discutibile…”.
Una voce squillante
richiamò l’attenzione della ragazza:
“Luciheday!”.
“Amore!”.
Lei andò incontro a chi la
chiamava. Era il Dio della Vita.
Lo abbracciò e Luciherus lo fissò con una punta
di fastidio: il giovane stava
baciando la sua bambina.
“Come può
essere? Come può, mia figlia, essere sul punto di
sposare il Dio della Vita, figlio della Dea della Pace? Non ha molto
senso…”
mugugnò, fra sé, il Principe.
Guardò in su, fermandosi
per un attimo. Gli scalini non
finivano mai. Che noia!
“Gli opposti si attraggono,
mio caro!” lo schernì
Vereheveil, superandolo.
“Papà!”
lo chiamò Luciheday, tenendo per mano colui che
amava “Vorrei presentartelo. Lui è Eleian: figlio
di Eleniel, Dea della Pace, e
di Samhian, suo angelo messaggero”.
“So chi è, so
chi sono i suoi genitori” sibilò il Principe,
senza sorridere.
Il ragazzo, biondo e con gli occhi
color della giada, si
inchinò leggermente: “É un onore ed un
privilegio conoscervi di persona,
Principe Luciherus”.
“Non serve che fai il
lecchino…non sono il tipo che si
commuove davanti alle lusinghe”.
“Papà…so
che tu odi questa istituzione ma…noi vogliamo
sposarci! Te lo devo dire: non senza la tua benedizione”.
“Allora aspetta pure la
prossima Era, figlia mia, perché non
sono di certo tipo da benedizioni”. “Allora dacci
il consenso, Papi!” supplicò
la ragazza, con grandi occhi dolci “Ti prego,
Papi!”. “Anche le preghiere non
fanno per me. Sono la persona sbagliata!”.
Luciheday restò molto male
di fronte a quella risposta
negativa e rimase in silenzio.
Dietro alla coppia, Eleniel sorrise:
“Luciheday! Che piacere
rivederti, mia cara! E che bello incontrare anche te, Luciherus. Bei
tempi
erano quelli in cui io e te eravamo angeli assieme. Eri anche tu un
Arcangelo,
ricordi?”.
“Ovvio! Sono vecchio, non
arteriosclerotico!”.
“Sei sempre più
scorbutico!” lo apostrofò Samhian,
l’angelo
messaggero della Pace Eleniel e padre di Eleian “Avanti,
diavolone! Dì di sì a
questa bella coppia!”.
“Che facciano come credono!
Cosa vuoi che me ne importi?!”
gracchiò il Principe, cercando di distanziare il gruppetto.
“Vorrei che entrambe le
persone che mi hanno creato fossero
presenti…ci terrei tanto!” piagnucolò
la giovane “Papà, papà mio! Mi
accompagnerai all’altare?”.
“Con il pensiero, bimba
mia!”.
“E Kasday? Credi che
verrà?”.
“Non lo posso sapere, mia
creatura. Staremo a vedere se sarà
presente questa sera…”.
Salì le scale con sguardo
assente e distante.
La figlia fece una piccola corsa per
raggiungerlo e lo prese
sottobraccio.
“Padre mio,
c’è una domanda che non ti ho mai fatto prima ma
che ora mi piacerebbe rivolgerti. Se non fosse successo ciò
che è successo…fra
te e Kasday sarebbe stato tutto diverso?”.
“Intendi se saremmo
diventati una grande e bella famiglia
felice? Ne dubito. Resta il fatto che è un ibrido. Non
è né maschio né femmina,
ma entrambi a suo piacimento. La cosa mi irrita”.
“Capisco. Ma secondo
me…”.
“Secondo te niente. Non ha
importanza. Dai, siamo quasi
arrivati”.
Entrarono tutti nel palazzo,
sorridendo, ma la loro
espressione cambiò. Era buio, freddo e tetro. “Che
atmosfera poco
rassicurante…” sussurrò la Dea della
Pace, timorosa di infrangere il silenzio.
L’avevano costretta ed essere presente quella sera, pur non
volendo. Lei aveva
accettato, ma ora se ne stava pentendo.
“Avanti, ragazzi! Non
vorrete rimanere sull’uscio fino a
domani?!” esclamò il Principe, entrando per primo.
Gli altri lo seguirono, incoraggiati.
Presero posto,
lentamente, mentre i loro angeli Messaggeri si allontanavano,
dirigendosi verso
la stanza adibita per loro.
“Mi verrà
spiegato, spero, il motivo della tua presenza qui,
demone!” affermò Vereheveil, non nascondendo tutto
il suo disappunto.
Luciherus sbuffò e
alzò le spalle: “Quanto sei noioso! Avrei
potuto buttarti giù dalle scale, ma non l’ho
fatto! Sono stato davvero bravo!”
gongolò, autocelebrandosi.
Si esaltò non poco
osservando gli sguardi stupiti delle
altre divinità. Alcune di loro si congratularono per il suo
nuovo stato divino,
altre rimasero in silenzio, con grandi occhi stupefatti. “Non
c’è posto per te,
le sedie sono contate” sghignazzò il Dio delle
Letterature, sedendosi accanto
ai suoi figli con un largo sorriso “Ti toccherà
stare in piedi, maggiordomo!”.
“Accomodati qui,
papà!” lo chiamò la Dea della Morte,
che si
era accoccolata sulle ginocchia di colui che sarebbe presto divenuto
suo
marito.
Il principe osservò la
cosa con un certo fastidio ma non
obbiettò, andando a sedersi.
Il Dio del Sole sbadigliò,
non era abituato a stare sveglio
al calare della notte. Il Dio del Tempo non aveva portato i suoi figli,
che
aveva lasciato in affidamento al Messaggero della moglie.
Salutò con un cenno i
presenti che risposero, cordialmente, al saluto. Portavano rispetto
alle
divinità più anziane, come il Tempo e la Guerra.
Tutti erano abbigliati in modo
impeccabile e sontuoso, a volte eccessivo. Le stoffe brillavano alla
luce
riflessa degli specchi, i gioielli tintinnavano e i complimenti si
sprecavano.
“Dov’è
Kasday?” chiese la Dea del Kaos, guardandosi attorno.
“Sì,
è vero! Dov’è?”
incalzò il giovane Destino.
“Non ve lo so dire, figli
miei, ma…” rispose, calmo,
Vereheveil.
“Niente ma! Noi vogliamo
vederlo!”.
“Fra il volere ed il
potere…”.
“Basta frasi fatte,
papà!”.
“Perché non gli
dici la verità?” sibilò Luciherus,
allungando il collo verso le tartine poste sul tavolo al centro della
stanza ed
avviandosi verso esse.
“Fa silenzio, serpe
velenosa!”.
Il Principe si leccò i
baffi: “Non è difficile, Vereheveil.
Se i tuoi figli sapessero di quella notte…”
continuò, serafico, assaporando una
pizzetta.
“Che vuoi saperne tu?
Nemmeno sai cos’è successo!”
rimbeccò
il Dio delle Letterature, alzandosi ed andando verso il demone.
“Forse, se tu ce lo
spiegassi…”.
La divinità delle Lingue,
di tutta risposta, prese un
bicchiere, colmo di un liquido scarlatto, e lo ribaltò sul
volto e sull’abito
del demone, che ringhiò sommessamente, guardandolo di
sottecchi. “Osi sfidarmi,
pennuto? Allora battiti da vero uomo, avanti! Oh, scusa! Dimenticavo
che sei
ancora asessuato, angioletto!”.
“Io sono un
Dio!”.
“Non per me,
mostricciatolo!”.
“Ti odio!”.
“Come sarebbe a dire?! Sei
un angelo, gli angeli non
odiano!”.
“Impiccati!”.
“Prima le
signore!”.
“Cornuto!”.
“Checca!”.
“Caduto!”.
“Lagna!”.
Vereheveil colpì Luciherus
con rabbia ma il
Principe riuscì a respingerlo
facilmente.
“Sei davvero
così stupido? Sfidi il Dio della Forza a mani
nude?” rise il demone, beffardo, notando l’ironia
della cosa: di solito era lui
ad attaccare per primo, colto dall’ennesimo attacco di rabbia
isterica.
“Cosa hai fatto per essere
un Dio? Ti sei portato a letto
Momoia? Dev’essere questo…del resto non sai fare
altro!” lo insultò il Dio
delle Letterature, ricomponendosi dopo il colpo ricevuto.
“Come osi dire questo di
me? Madre Momoia mi ha scelto, per
le mie qualità”.
“Ma quali
qualità?! Tu non hai qualità!!”.
Le altre divinità se la
spassavano alle spalle dei due
litiganti. C’era perfino chi scommetteva e puntava dei soldi,
tentando di
indovinare un eventuale vincitore.
Gli angeli Messaggeri, nel frattempo,
ridevano felici nella
stanza accanto. Agares, primogenito di Kasday e unico demone
messaggero,
osservava la moglie Fleavia che imitava il suo padre adottivo, Dio
delle
Letterature e delle Lingue. Dall’alto lato c’era un
piccolo angioletto vestito
di rosso che imitava Luciherus.
“Io sono il
migliore!” ironizzava Fleavia, ingrossando
leggermente la voce “Io sono il migliore! Io leggo, io
studio, io scrivo, io
conosco tutte le lingue!”.
“Anch’io”
rispose l’imitazione del Principe “Anche quella di
tua sorella!”.
“Questa è
cattiva!” ridacchiò qualcuno.
“Sono sicuro che stanno
litigando nel salone di là!” esclamò
un altro angelo.
“Ovvio!” si
unì un terzo.
Fecero un brindisi, pieni di
entusiasmo, cantando tutti in
coro, sconvolti dall’alcol. Alcuni di loro giocavano a Morra,
altri si
abbracciavano, o stavano a braccetto, oscillando a destra ed a
sinistra,
alzando i calici. Piume e risate si espandevano per la sala. Uno dei
Messaggeri
si appoggiò alla porta e questa si aprì. Colto
alla sprovvista, precipitò nel
salone dove stavano gli Dèi. Luciherus rivolse lo sguardo
verso l’intruso e
Vereheveil sorrise.
“Ti distrai con troppa
facilità!” mormorò.
Con uno scatto repentino
colpì il Principe, alzando il
ginocchio, nel bassoventre.
Il demone rimase immobile e gemette.
“Ti piacerebbe essere
asessuato, eh? Povero
diavoletto…colpito così, nella sua parte
migliore!”. Luciherus si riprese in
fretta ed afferrò la testa del Dio delle Letterature,
iniziando a sbatterla
contro il tavolo.
“Muori! Muori!
Muori!” ripeté, tenendolo per la gola e
continuando a percuotergli il cranio “Piccolo, brutto e
stupido piccione
trans-genico! Invece di rompermi, nel vero senso della parola, le
palle, perché
non dici la verità ai tuoi figli su Kasday? Dì
loro chi era veramente e cosa
gli è successo! Di cosa hai paura?”.
“Davvero vuoi che dica la
verità? Ebbene eccola: Kasday è un
idiota perché si è fatto scopare da te! Vuoi
sapere altro?”.
Luciherus gli tirò un
pugno sul naso, spaccandogli il labbro
con gli artigli.
“Piccolo angioletto
fetente!” disse, con la voce leggermente
più acuta del solito.
“Tutto qui? É
tutto qui quello che hai da dirmi? Suvvia! Sai
fare di meglio…”.
“Io ho sempre detto la
verità alla mia bambina…sempre!”.
“Lei anche detto che la
creatura che l’ha messa al mondo è
stata stuprata dal Dio del Kaos e poi da te? Ed è solo per
questo che lei ora
esiste?”.
“Io non l’ho
stuprata!!”.
“Ah,
no?! Io dico di
sì! E non mi aspetto in nessun modo di essere
smentito!”.
“Sei un
bugiardo!” urlò Luciherus, ringhiando.
“A chi pensi che la gente
creda? A chi pensi che tua figlia
creda? A me, Dio ed Angelo, o a te, Demone e creatura nata
male?” rispose, con
un ghigno, Vereheveil.
“Io credo a lui!”
esclamò la Dea della Morte, indicando suo
padre.
“Grazie, piccola
mia” disse il Principe, asciutto.
“Sei stato tu a portarcelo
via!” continuò poi Luciheday,
accusando il Dio delle Letterature “Sei stato tu! Ti ricordo
che i gemelli sono
figli tuoi ed è per loro conseguenza che ora Kasday non
è più qui!”.
Vereheveil la fulminò con
lo sguardo.
“Non incolpare i miei
figli! Sei infima e viscida come tuo
padre!”.
“Io non incolpo i tuoi
figli! Incolpo te!”.
“Adesso basta, figlia
mia” la interruppe Luciherus “Lascia a
me la
discussione!” poi si rivolse al
Dio delle Letterature: “Lei non se la prende con i tuoi
figli, ma con la tua
continua insicurezza e paura dei cambiamenti”.
“Come osi rivolgerti in
questo modo a mio padre, verme?”
chiese Kavahel, irritato, e rivolto sia a Luciherus sia alla figlia:
“Che vuoi
saperne, tu, nata per sbaglio? E tu, poi! Demone dagli istinti
incontrollati”
continuò.
Fu il Dio della Vita a fermare il
Principe, prima che
colpisse violentemente il giovane.
“Non osare parlare in
questo modo alla mia futura moglie! E
porta rispetto al Principe, che un tuo genitore ha amato!”.
“Bugie! E poi…se
no cosa mi fai? Mi uccidi, Dio della Vita?
Non credo che per te
sia possibile!” lo
schernì il giovane Equilibrio.
“Ma che dite?! Siete tutti
impazziti?!” si intromise la Dea
del Kaos.
“Papà…perché
non inizi a raccontare? Credo che questo sia il
migliore dei momenti…” mormorò il
giovane Destino, sorridendo.
Vereheveil ruotò gli
occhi, notando il soffitto ad arcate
graziosamente decorate: l’unica nota gioiosa
dell’intero edificio che si
presentava, per lo più, triste e cupo. Come se fosse
abbandonato e dimenticato.
Sospirò il Dio. Chissà, si
chiese, se Kasday è ancora in vita.
“Va
bene…” mugolò, sedendosi.
Agares, uscito dalla stanzetta degli
angeli Messaggeri, si
avvicinò ad un oggetto dalle sembianze familiari. Lo
toccò. Era una sfera
lucida, di una decina di centimetri di diametro.
Appena il demone dai capelli blu
oltremare la sfiorò, la
sfera iniziò ad aprirsi, emettendo un dolce suono. Gli occhi
neri di lui si
illuminarono, riconoscendo la melodia. Era un carillon per bambini e
lui lo
conosceva bene. Era ciò che, da piccolo, ascoltava per
potersi addormentare. E
suo padre cantava, seguendo la musica. Ora completamente aperta, la
sfera si
mostrava in tutto il suo splendore. Brillava come una stella e due
figurette in
oro intagliato danzavano su di essa, grazie ad un marchingegno
meccanico,
attorniato da piccole sfere luminose e colorate. Agares rimase
incantato ad
osservarlo. Kavahel riconobbe a sua volta quella ninnananna e chiuse
gli occhi,
ricordando la sua infanzia.
“Fratello…”
chiese, sfiorando la pelle eburnea del demone
messaggero “Fratello…anche tu ricordi? Anche a te
Kasday cantava per farti
addormentare?”.
“Sì. Anche se,
fin da bambino, non volevo starlo troppo ad
ascoltare. Pensavo fosse…poco da demone! Non capivo quanto
fosse bello come
momento. Ora lo capisco…e vorrei tornare
indietro”. “É una delle melodie del
regno degli Angeli” spiegò il Principe dei demoni
“Cantavo una bella canzone a
Kasday al ritmo di questa musica, quando lui stava ancora fra le mie
braccia ed
io ero solo un adolescente. Credevo l’avesse
dimenticata…”.
Kavahel sospirò,
ricordando immagini vaghe del passato:
“Papà…” iniziò
“Papà, ti prego, parla. Dimmi la
verità. Io non ricordo molto…è
vero che ci ha abbandonato?”.
“Certo che no!”
gracchiò Luciherus “Vi ha fatto dimenticare
ogni cosa, grazie alla Dea della Memoria, e poi vi ha dato i ricordi
che
voleva!”.
“Sul serio
papà?” chiese conferma la
Dea del Kaos.
Vereheveil non poté
negarlo, abbassò lo sguardo. Il Dio del
Tempo guardò la moglie, Dea della Memoria, con aria
interrogativa. La Dea non
rispose.
“Non l’ho fatto
con cattiveria!” si giustificò il Dio delle
Letterature “Volevo solo proteggerli dal dolore e non farli
stare male…”.
“Ma ora sono abbastanza
grandi per sapere la verità! E,
sinceramente, anche tutti noi siamo stufi di tutti questi misteri.
Parla e
mettici l’anima in pace!” suggerì il
Principe, con l’assenso di molte divinità.
Agares, rimasto incantato davanti al
carillon, ripensò alla
sua vita. A quando era un bambino demone, a suo padre Kasday ed a sua
Madre
Lilim, la guardiana delle anime. E poi…di quando era
divenuto il messaggero
della sua sorellastra, la Dea della Morte. Era da tantissimo che non ci
pensava
e la cosa lo rese un po’ malinconico.
“Voglio sapere
anch’io la verità” disse infine
“Non ero
presente quella notte e non ho mai saputo bene che cosa è
successo. Perciò
parlami, maestro Vereheveil, parlami di mio padre. Colui che io
chiamavo
Adahel, ma che voi tutti conoscete come Kasday”.
“Sì. E di
Kasday, mia madre” si aggiunse la Dea della Morte.
“Sì,
sì! Parlaci della creatura che ci ha generato!”
incalzarono i gemelli.
Vereheveil, messo alle strette,
capì non avere scelta.
“Se non parli ti estirpo
tutto il racconto, parola per
parola, usando gli artigli!”.
Il Dio delle Letterature bevve un
sorso di dolce liquore e,
dopo un bel respiro, iniziò a raccontare.
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Capitolo 8 *** VIII- la notte dei gemelli ***
VIII
LA NOTTE DEI GEMELLI
Vereheveil iniziò a
raccontare.
Ricordò che quella notte
era stellata e fresca. Lui era
pieno di entusiasmo: sapeva che l’uovo che aveva creato,
grazie all’uso della magia,
assieme a Kasday, stava per schiudersi.
Narrò, con gioia, del
giorno in cui la Dea della Vita di
quel periodo presentò i piccoli ai genitori esclamando:
“Sono bellissimi!”.
Kasday spalancò gli occhi.
Fra le braccia stringeva la
neonata Dea del Kaos e l’infante Destino. Subito il Dio
creatore si sentì
turbato. Avvertiva, in modo distinto, la voce di suo padre, il Dio del
Kaos,
nella propria testa. Anche la Dea del Destino gli parlava,
insistentemente, ma
nessuno al di fuori di lui poteva udirli. Era da tanto che non gli
davano
problemi, pur essendo entrambi parte di lui, Dio
dell’Equilibrio.
“Non lasciare che ci
distruggano! Non lasciarli vivere! Il
tuo Equilibrio verrebbe compromesso! Tu comprendi le tre essenze:
Equilibrio,
Kaos e Destino. Questi due bambini, una volta cresciuti, e nel pieno
dei loro
poteri, distruggeranno la tua essenza primaria: l’Equilibrio.
Ed il tutto fra
atroci sofferenze perché noi due, Kaos e Destino,
divinità le cui essenze fanno
parte di te, usciremo allo scoperto divenendo più forti
grazie alla potenza dei
piccoli. E ti distruggeremo!”.
“Ma
poi…” rispose nella sua mente il Dio Triplice
“…poi
morireste anche voi perché non possono esistere due
divinità con lo stesso
ruolo. Scomparireste, essendo voi semplici essenze senza un
corpo”.
“Cosa succederebbe ai tuoi
Mondi?” ripresero le due voci.
“Pensa a tutti gli Universi che hai creato. Pensa a tutte le
creature che hai
generato e che vivono per essi. Verranno tutti distrutti: creature,
Universi,
Divinità…tutti morti! Uccidili! Uccidili
entrambi!”.
Kasday strinse la testa fra le mani,
non riuscendo a
smettere di ripetere quelle parole.
“Uccidili!
Uccidili!” sussurrava e, digrignando i denti,
combatteva con le voci dentro di sé.
Si allontanò dai neonati,
fra lo sconcerto dei presenti.
Vereheveil era felicissimo, cullando
i piccoli, e poi guardò
Kasday.
“Sono bellissimi, non
è vero, tesoro mio?” il Dio delle
Letterature fece un gran sorriso. Poi notò
l’espressione del Dio Triplice:
“Cosa c’è, amore mio? Cosa ti succede?
Stai bene?”.
Il Dio dai lunghissimi capelli neri
scosse la testa, facendo
segno a Vereheveil di allontanarsi.
Il Dio-Angelo sgranò gli
occhi dorati e continuò a
guardarlo: “Mio Equilibrio dagli occhi di
zaffiro…cosa ti turba?”.
Kasday respirava affannosamente,
cambiando voce ed aspetto a
seconda della diversa essenza che prevaleva sulle altre.
Con il tono del Kaos continuava a
ripetere: “Uccidili,
uccidili!”.
“No! No!”
esclamava l’Equilibrio, con il suo modo di parlare
fra l’uomo e la donna.
La Dea del Destino si intrometteva
fra i due, urlando.
Il Dio delle Letterature strinse a
sé i due piccini,
turbato.
Dopo un po’, il Dio
Triplice aveva, apparentemente,
ritrovato la sua stabilità.
“Cos’è
quello sguardo triste, Kasday?” continuò a
chiedere
il Dio dai capelli color verde acqua.
Il suo compagno non gli rispose.
Avevo lo sguardo perso nel
vuoto. I suoi tre occhi erano come il vetro.
Vereheveil cullò i neonati
con amore: “Che nome avranno i
nostri tesori?”.
Con quelle domande tentava di far
tornare alla normalità la
divinità che aveva di fronte, che continuava a non parlare.
“Che faccia fai? Che
hai…lo shock da gemelli?” ridacchiò il
Dio del Sole che poi si preoccupò, non notando alcun cenno
di ripresa.
Lo scosse leggermente e solo in quel
momento il Dio Triplice
si smosse. Posò lo sguardo sui suoi due gemelli, con
espressione malinconica, e
mormorò: “Ci distruggeremo, piccoli miei. O
sarò io ad uccidere voi o voi ad
uccidere me…”.
Subito il Dio delle Letterature
strinse a sé i gemelli,
allontanandoli dall’Equilibrio.
“Non dire idiozie! Non
pensarci nemmeno!” urlò, spaventato.
Con sguardo serafico, e con i capelli
neri sempre più gonfi,
Kasday sorrise a Vereheveil.
“Non voglio
ucciderli!” sussurrò, calmo, e con un tono di
voce molto dolce “Sta tranquillo. Non sono quel tipo di Dio,
non del tutto
perlomeno!”.
“Ah bene! Temevo avessi
perso la ragione! Amore…”.
Il Dio delle Letterature, con un
respiro di sollievo, si
sentì più tranquillo.
“Io…devo
andare” esclamò il Dio Triplice.
Vereheveil alzò un
sopracciglio: “Kasday?!” chiese, senza
capire.
Provò ad andargli vicino
ma lui lo respinse, formando una
barriera.
“Tieni lontano da me quelle
due creature!” poi tuonò, con la
potente voce del Kaos.
Il padrone del palazzo, sempre
avvolto in una luminosa coltre
magica, si pose al centro del salone in cui stava. Lì
puntò i piedi, nel punto
in cui la bellissima rosa dei venti disegnata sul pavimento faceva
incrociare
tutti i suoi raggi, e guardò verso l’alto. Sul
soffitto, a cupola, c’era un
foro circolare, dello stesso diametro del centro della rosa dei venti,
dal quale
entrava la luce della Luna. Il padrone di casa aprì le
braccia, iniziando a
mugugnare strane formule e preghiere: un’evocazione. Dopo
qualche istante, dal
cielo, scesero fortissime luci bianche che avvolsero il Dio, fra lo
sbigottimento delle altre divinità presenti. Una voce di
donna, proveniente da
uno dei bagliori, si udì chiaramente.
“Il patto con noi è
fatto!”.
Detto questo,
una
lingua luminosa toccò Kasday, che
subito
perse i sensi, rimanendo sospeso a mezz’aria e avvolto dalla
luminescenza.
“La tua
essenza…” parlò di nuovo la donna, con
enormi ali da
farfalla “…che già prima, in parte, era
nostra proprietà, ora è del tutto nelle
nostre mani”.
La sagoma di lei chinò
leggermente la testa, tenendo le
braccia aperte e guardando il Dio, svenuto, con dolcezza. Poi fece un
gesto con
le mani e Kasday spalancò gli occhi, ribaltando la testa
all’indietro, gemendo
e schiudendo la bocca, cacciando un grido di dolore. Dalla gola
sprigionò un sottile
filo di fumo argenteo, che la donna di luce raccolse fra le mani,
facendola
divenire una sfera non più grande di una biglia.
“Ecco la tua
essenza…” sussurrò.
Il Dio Triplice cadde pesantemente
sul pavimento.
“Signori!”
esclamò lei, guadandosi attorno “Signori, non
c’è
nulla da vedere! Potete andarvene!”. Con la flessione del
solo indice, sollevò
tutti gli Dèi presenti e li scaraventò fuori.
“Vereheveil!”
gemette
Kasday.
La donna trattenne il Dio della
Letteratura nella sala.
“Puoi restare qui, solo tu,
se vuoi. A quanto pare
l’Equilibrio desidera la tua presenza…”.
Vereheveil affidò i gemelli al Dio del
Tempo, prima che la porta venisse chiusa. Dopodiché si
avvicinò al Dio
Triplice, che continuava a stare a terra.
“Che cosa hai
fatto?” mormorò il Dio delle Lingue e delle
Letterature, accarezzando dolcemente i capelli del Dio che amava
“Che hai
fatto? Che succede?”.
“Semplice…”
rispose la donna “…lui non dovrà avere
nessun
contatto con i suoi
figli, impedendo
così la loro morte e l’annientamento
dell’Equilibrio. Faremo in modo che
diventi uno di noi e che custodisca i suoi poteri fino al momento in
cui i due
piccoli saranno divenuti forti ed indipendenti. Dopodiché,
privo del ruolo di
Equilibrio, Kaos e Destino, sarà libero di
tornare”.
“Nulla gli vieta di vedere
me?” domandò Vereheveil.
“Assolutamente
nulla” ammise lei.
“Amore mio!”
proruppe il Dio delle Letterature, abbracciando
Kasday “Amore mio, sta tranquillo! Penserò io ai
nostri figli!” una piccola
lacrima scese sul suo viso, mentre scuoteva le ali nere nervosamente
“Non c’è
un'altra soluzione?” domandò, piangendo.
“No”
spiegò la donna “No. Qualunque altro modo,
porterebbe
alla rottura dell’Equilibrio”.
“Cosa gli farete?
Soffrirà?”.
“Sarà uno di
noi”.
“Noi chi?”.
Lei non rispose e si
avvicinò a Kasday. Tornò a sollevarlo
da terra e gli parlò.
“Dio Triplice! Tu sarai
l’unico di noi…” si fermò e
guardò
il Dio delle Letterature “…noi
Alti…” tornò a rivolgersi
all’Equilibrio
“…l’unico di noi che non sarà
nato dal ventre di Momoia. Non ti ricongiungerai
agli altri Dèi che a noi si rivolgono, rinunciando al loro
potere. Non ti sarà
concesso fino a quando noi non lo decideremo. Non ti sarà
concesso morire.
Dimmi ciò che decidi: ti unirai a noi?”.
“Non ho
scelta…” disse, flebilmente, Kasday.
“Bene”.
Lei lo avvolse nella sua magia ed il
corpo di lui iniziò a
mutare.
“Che gli state
facendo?” domandò Vereheveil, allarmato.
“Diventerà uno
di noi. Altrimenti verrà annientato quando i
poteri dei suoi figli cresceranno ed i suoi si spegneranno.
Entrerà a far parte
della nostra famiglia, sarà come noi. E noi siamo diversi da
voi!”.
Il Dio dai capelli verde acqua
annuì, osservando la scena.
Guardò il Dio Triplice con dolcezza.
Poi spalancò gli occhi.
L’Equilibrio stava mutando. Con uno
scricchiolio di ossa e di giunture, il corpo del Dio stava mutando
profondamente.
Kasday lanciò un grido, dapprima straziante e sommesso e poi
tremendo e
spaventoso.
“Nosmagiés
sarà il tuo messaggero” parlò la donna
“Erezehimsay, tuo altro angelo, non ti sarà
più necessario in quanto non avrai
contatti con le divinità semplici e non Alte. Questo angelo
sarà libero di
servire altri padroni: Kavahel, futuro Equilibrio, assieme al nuovo
Destino e
la neonata Kaos”.
Il Dio Triplice gemette, sentendo
tutte le parti del suo
corpo scricchiolare e pulsare di dolore. Vereheveil cadde in terra, in
preda al
terrore. Kasday notò il suo sguardo ed allungò la
mano verso di lui,
sorridendo, tentando di rassicurarlo.
Ma il Dio delle Letterature scosse il
capo, allontanandosi:
“Perdonami…perdonami…ma…non
ci riesco! Non riesco a stare qui! Mi spaventi…”.
“Cosa?!” chiese
Kasday, accigliandosi.
Pieno di rabbia, ed in preda al
dolore, gridò ringhiando:
“Torna qui! Cosa credi che ti possa fare?”.
Il suo tono minaccioso
peggiorò le cose. Il Dio delle
Letterature si spaventò ulteriormente e decise di correre
via. Aveva tentato,
in ogni modo, di resistere. C’è l’aveva
messa tutta ma non ci era riuscito. Non
vide la fine della trasformazione della persona che aveva amato e corse
fuori,
spalancando la porta e allontanandosi, cercando la luce delle stelle.
Kasday lo chiamò, prima
con immensa tristezza e poi con
forte ira.
Il Dio delle Letterature era ora
all’esterno e cercava di
calmarsi.
“Va tutto bene?
Cos’è successo?” chiese una giovane Dea,
amica del Tempo.
I gemelli, fra le braccia del Dio del
Sole, iniziarono a
dimenarsi, cercando le braccia di Vereheveil. Il Dio dalle ali
d’angelo li
prese entrambi e li strinse.
“Nessuno vi farà
del male! Promesso!”.
Kavahel, un bambino sui sette anni,
si guardò attorno:
“Dov’è Kasday?” chiese
“Dov’è? Perché quella donna
lo ha trattato male? Io
voglio Kasday!”.
“Lui…”
non poteva continuare.
“Perché lo ha
portato via?”.
La divinità dagli occhi
d’oro guardò la Dea della Memoria:
“Puoi aiutarmi? Puoi fare in modo che non chiedano
più?”.
Tutti gli Dèi, a quelle
parole, capirono che era accaduto
qualcosa di grave.
La Memoria tolse i ricordi a Kavahel
ed ai gemelli che, pur
se solo dei neonati, presentavano già vividi ricordi..
Dopodiché la Dea delle
Parole iniziò a raccontare loro dolci storie rassicuranti,
distraendoli mentre
tutti scendevano le scale, senza parlare. Abbandonarono gradatamente il
palazzo. Nosmagiés apparve sulla soglia, osservando tutti
quanti accigliato,
scuotendo il capo. Chiuse l’immenso portone, che mai si
sarebbe riaperto, fino
alla riunione richiesta da Momoia molti secoli dopo. Erezehimsay, dopo
vive
proteste, seguì gli ordini e se ne andò.
Nessun Dio chiese più
nulla al riguardo. Cominciò a
diluviare, fra lampi e tuoni, un’intensa pioggia blu. Anche
Vereheveil se ne
andò, a capo chino, piangendo e con il cuore che batteva
ancora fortissimo, in
preda al terrore ed all’agitazione.
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Capitolo 9 *** IX- racconti di bimbi e fiamme ***
IX
RACCONTI DI BIMBI E FIAMME
“Se
questa è la realtà…”
osservò Kavahel, terminato
il racconto di Vereheveil “…allora il patto di
Kasday ora è rotto. Noi tre
siamo in grado di controllare perfettamente i nostri poteri. Se le cose
stanno
così…”.
“Sì.
È esatto”.
Tutti si guardarono con aria
interrogativa. Chi aveva
parlato? Di chi era quella voce?
“Chi ha parlato?”
domandò il Dio del Tempo.
“Chi vuoi che sia
stato?” sempre la stessa voce sconosciuta.
“Momoia…”
mormorò Luciherus, vedendone la sagoma.
“Vi aspettavate, forse,
qualcun altro?” sorrise la Madre.
Tutte le divinità
chinarono il capo, in cenno di saluto e di
rispetto. Tutte tranne Luciherus, che rimase in piedi e sorrise,
guardando
negli occhi la Madre degli Alti e salutandola con la mano.
Lei rispose, per niente disturbata.
“Come la
conosci?” sussurrò Vereheveil al demone.
“Te lo avevo
detto…è stata lei a scegliermi. E lei a farmi
diventare un Dio”.
“Lei in persona? Che idea
folle…deve avere perduto il
senno”.
“Puoi parlare
più forte, Vereheveil?” domandò Momoia
“Io ti
sento benissimo, ma gradirei che anche gli altri Dèi
presenti ascoltassero ciò
che hai da dire”.
“Signora…”
iniziò il Dio delle Letterature, timidamente
“…io
non voglio essere offensivo. Ma penso solo che, secondo me,
è una follia far
diventare un animale come Luciherus, un Dio! Non è in grado
di gestire poteri e
forze. È rischioso!”.
“Conosco i rischi. E so che
cosa faccio. Qualche altro
commento?” affermò Momoia, non mascherando il suo
fastidio.
Gli Dèi non risposero alla
sua domanda. Tutti tacquero
perfino, stranamente, la Dea delle Parole.
“Sedetevi”
ordinò la Madre, sedendosi a sua volta.
Dal quadro appeso alla parete
apparvero altre divinità,
altri Alti, che si sedettero alla destra ed alla sinistra di Momoia.
Erano
tutti riccamente vestiti e con un’espressione poco
rassicurante.
Nessuno di loro presentava il vero
aspetto, avevano scelto
di mostrarsi il più simili possibile alle
divinità semplici.
“Fa freddo
qui…” mugugnò uno di loro, con i
capelli corti e
gli occhi d’argento.
“Accendiamo il
fuoco?” suggerì un altro, molto alto e
robusto.
“No!” rispose,
secca, la Madre “No, piccoli idioti. Non fate
cose che possano turbare il padrone di casa!”.
Nessuno parlò
più. Tutti guardavano l’unico posto rimasto
libero.
“Kasday sarà con
noi questa notte?” chiese Skrich, la Dea
del Kaos.
“Non credo”
sibilò la Madre “Raramente scende dal suo antro
al piano di sopra. Passa i giorni fra la cupola e la stanza degli
specchi”.
“La stanza degli specchi?
Che roba è?” bisbigliarono varie
divinità.
“Mi
piacerebbe molto
averlo qui…” ammise l’Alta creatura
“…e mi piacerebbe che volesse vedermi…e
vedervi!”.
“Non vuole
vederci?” si stupì Vereheveil.
“Suvvia!”
esclamò Momoia in tono tranquillo, sorreggendosi
la testa con la mano “Suvvia, Signori! Ve ne stupite? Basta
pensare a come vi
siete comportati! Lo avete abbandonato così…siete
stati così meschini e
vigliacchi!”.
“Lui è stato
codardo e vigliacco!” rimbeccò Luciherus,
indicando Vereheveil “E pure meschino! Ma sono sicuro che
Kasday vuole
rivederci. Vuole rivedere i suoi figli e…vuole rivedere
me!”.
“Siediti, nuovo arrivato, e
sta tranquillo” gli ordinò la
Madre “Non mi stupisco che lui non sia qui. Gli avete
spezzato il cuore…”.
“Voi più di
loro!” tuonò una voce.
I presenti si voltarono verso le
scale, dove stava, ritto e
scuro, l’Angelo Messaggero Nosmagiés.
Era stato lui a parlare e, dopo aver
avuto tutta
l’attenzione che voleva, continuò:
“Siete tutti dei bastardi! Dal primo
all’ultimo!”.
Scese le scale, con aria solenne,
indossando uno splendido
abito blu con un lungo strascico.
“Carino…” commentò Luciherus.
“Al mio padrone piace
questo vestito…”.
“Come osi parlarmi in
questo modo, sottoposto?” ringhiò
Momoia, guardandolo minacciosamente. “Non ho paura di Lei,
madama Madre. Ho
sopportato cose peggiori della minaccia di una vecchia!”. Il
Principe si mise a
ridere, fra il silenzio generale.
“Grandioso questo
Messaggero! Hai fratelli? Voglio uno come
te al mio fianco!” commentò il demone, con
entusiasmo.
“Raccontategli della notte
del bambino!” incalzò Nosmagiés
“Raccontategli cosa, voi santoni e benefattori, avete fatto.
E poi vediamo se
sono disposti ancora ad aiutarvi! Se lo fanno, vuol dire che sono
proprio dei
vermi!”.
L’angelo aveva incrociato
le braccia e guardava Momoia negli
occhi, con sfida.
“Il Coraggio è
dalla mia parte! Questo fa sì che io sia già
in vantaggio!” rispose la Madre, osservando Luciherus, poi
continuò: “Immagino
che tu sia qui per riferirci che il tuo Signore non
scenderà…”.
“No. Non
scenderà. Non vuole vedervi. Non vuole vedere
nessuno di voi”.
“Che cosa gli avete
fatto?” domandò Vereheveil, capendo che
Kasday aveva dei problemi anche con gli Alti.
La Madre, con espressione tranquilla
e rilassata, si
accomodò sulla sedia e, a mani giunte, iniziò a
raccontare: “Come ben sapete io
sono Momoia, la Madre degli Alti. Sono chiamata in questo modo
perché tutti gli
Alti nascono da me e rinascono, una volta morti o uccisi. Come
un’ape regina,
io ho messo al mondo tutti loro”. Indicò gli Alti
presenti. “L’unico che non è
cresciuto nel mio grembo è Kasday. I problemi, fra me e lui,
sono iniziati
quando lui ha iniziato a presentare una certa simpatia con
l’unica creatura da
me nata in seguito ad un atto d’amore. Iniziò a
frequentare, corrisposto, la
mia bambina, figlia della sottoscritta e di mio marito. La cosa non mi
andava
particolarmente bene. Sapevo poco di lui, era diverso dagli altri,
era…strano.
Era debole, misterioso e complicato da comprendere. E, del resto, non
era
nemmeno del tutto un Alto ma solamente una mia proprietà.
Così, io e mio
marito, decidemmo di dividerli e tenerli lontani l’uno
dall’altro. Ma ci
accorgemmo subito che la cosa non funzionava. Nostra figlia, sempre
più spesso
in forma di donna, lontana dai canoni delle divinità Alte,
spariva per periodi
sempre più lunghi e si recava in luoghi a noi sconosciuti.
Volevamo vederci
chiaro e perciò gli regalammo questa…”.
Momoia frugò nella borsa
che teneva con sé e mostrò una
spilla, dai meravigliosi colori dell’arcobaleno.
“La primavera è
una stagione così bella…”.
Rideva la ragazza, spargendo i semi
del soffione che teneva
fra le dita. Sorrideva, guardando il cielo azzurro che la sovrastava.
Poi si
voltò, cercando approvazione da parte del suo interlocutore.
“Hai ragione, è
una stagione bellissima, ma adesso torna
dentro. La Madre potrebbe scoprirci e punirci entrambi!” la
rimproverò lui.
“Sta tranquillo!”
esclamò lei, improvvisando qualche
maldestro passo di danza “Uffa!”
protestò la donna “Io voglio ballare come te!
Tu, che sei così bravo, perché non mi
insegni?”.
Lui uscì
dall’ombra del palazzo e fece qualche passo a piedi
scalzi, sull’erba umida del cortile interno.
“Balla per me!”
supplicò lei.
“Mi ‘spiace, ma
io non ballo più. Da tanto ormai…”.
“Ti manca la tua
famiglia?”.
“No. Ma non ho motivi per
cui ballare…”.
Lei non nascose la sua delusione e
fece il broncio, da
bambina capricciosa.
“Ti prego! Ti
prego…Kasday? Era così che ti
chiamavano?”
insistette la giovane.
Kasday sorrise, rassegnato. Aveva
l’aspetto che presentava
quando era il Dio dell’Equilibrio. Quello era il corpo che
gli permetteva di
ballare con più agilità. I lunghi capelli
corvini, lasciati liberi al vento, si
agitavano e le ali blu, da angelo, brillavano al Sole. Andò
vicino a lei e le
prese le mani.
“Ti insegno io. Ma non per
molto. Perché per me è molto
faticoso mantenere questo corpo e questa forma”.
Insieme danzarono per qualche minuto,
fino a quando lei non
fu soddisfatta. La donna, la creatura di Momoia, era nata come una
degli Alti e
non aveva un aspetto preciso. Lo cambiava a suo piacimento ed in
particolare,
quando era in presenza di Kasday, preferiva avere corpo di donna.
“Come vuoi che io
sia?” domandava sempre a lui “Come vuoi
che sia il mio corpo oggi? Sarò come mi vuoi. Sono nata con i capelli verdi
ma…”.
A Kasday piaceva il verde e le
passò due dita fra le
ciocche, facendole sfumare fino a quando presero il colore della chioma
di
Vereheveil. Poi le prese la testa fra le mani e la guardò
negli occhi. Questi
divennero di un acceso color arancio, come il fuoco. Lei aveva
percepito i suoi
pensieri e li aveva mutati seguendo i pensieri di lui.
“Ed io?” chiese
Kasday “Io come devo cambiare? Come mi
vuoi?”.
“Tu mi piaci
così ed in ogni altro modo, mio bel tenebroso!”
rise lei, facendosi abbracciare dalle braccia di vetro e metallo
“Ho bisogno di
te…” sussurrò.
“Ed io di te”
ammise lui.
Tenendosi per mano rientrarono in
casa. Nosmagiés li
osservava, ad una certa distanza.
“Vieni di sopra,
Kasday!” disse lei, tirando lui per il
braccio “Vieni! Voglio mostrarti una
cosa…”. Lui le sorrise:
“Sowelo…” le
parlò, chiamandola per nome “Cosa
c’è? Cosa vuoi mostrarmi?”.
“Voglio
mostrarti…come amano gli Alti!”.
Salirono le scale, lasciando
Nosmagiés da solo, con la sua
birra e la sua aria accigliata. Da un lato era felice per il suo
padrone, ma
dall’altro era piuttosto spaventato all’idea che
Momoia potesse scoprire la
figlia ed il suo Signore insieme, nonostante i divieti dalla Madre
imposti.
Le stagioni passarono, senza che lei
rientrasse a casa
propria.
Momoia, consapevole della situazione,
tentò di farla
allontanare portandole dei messaggi, tramite Nosmagiés
oppure con l’uso di
specchi e sferette magiche. Ma nulla pareva smuovere la figlia dal
palazzo di
Kasday. Si arrese all’evidenza che quei due non volevano
essere separati.
Nonostante questo, decise di
attendere prima di intervenire:
era convinta che tutto sarebbe finito come lei aveva deciso.
Era una notte senza Luna quella in
cui le cose cambiarono.
Era tutto tranquillo. A volte
soffiava un vento gelido e per
questo il fuoco era acceso.
Nosmagiés ascoltava il
canto dei grilli, cercando di non fare
caso alle risatine di lei, che si udivano chiaramente dal piano di
sopra. Si
rimproverò. La gelosia non è un
sentimento da angelo! Si disse.
Ma non riusciva a fare a meno di
invidiare quella donna che
poteva stare così vicino al suo padrone. Prese il suo
violino fra le mani,
seguendo, con i trilli, le dolci serenate dei grilli.
“Facciamo una cosa speciale
questa notte, mio tesoro?”
chiese Sowelo, con un largo sorriso, messa supina.
“Che cosa vuoi
fare?” rispose Kasday, disteso sulla schiena,
con le mani dietro la testa.
Erano entrambi sul letto,
l’uno accanto all’altro, senza
vesti e senza preoccupazioni.
Lei agitava le gambe in aria.
“Creiamo una
vita!” esclamò lei, dopo un po’
“Siamo
creatori, dopotutto. Allora perché non creare una
vita?”.
“Che intendi?”
volle sapere lui,scettico.
Sapeva di non avere il corpo adatto a
certe cose. Si era
girato e si teneva la testa, appoggiato sul gomito.
“Intendo, zuccone, di
creare qualcosa di nostro. Una
creaturina tutta per noi, il nostro piccino. Avanti…non me
lo hai detto tu che
l’unico desiderio che hai è avere un piccolo da
accudire e veder crescere?
Ebbene, facciamolo! Creiamo il nostro bambino!”.
Kasday rimase perplesso da quella
richiesta, non sapendo
assolutamente in che modo procedere. “Scusa la domanda che ti
sembrerà stupida
ma…come si fa, fra gli Alti, a concepire?”.
“Oh, non è una
cosa facile come con un Dio semplice o un
demone! Quelli hanno degli organi adibiti a questo…noi no.
Ma non è difficile.
Sono solo tre mosse. Ti và?”.
Kasday annuì ed entrambi
si misero a sedere, guardandosi
negli occhi.
Lei lo prese per mano.
L’occhio che lui aveva sul dorso si
guardò attorno, curioso.
“Dobbiamo mostrare entrambi
il nostro aspetto da Alti. Così
avremmo una più alta concentrazione magica”
iniziò lei.
Fatto questo Sowelo
continuò.
Con la punta delle dita incise i
palmi delle mani di lui,
che stringeva.
“Fai lo stesso con
me” sussurrò la donna.
Lui obbedì e le
graffiò la pelle. Poi tornarono a stringere
forte, palmo contro palmo, scambiandosi le gocce di magia che
fuoriuscivano
dalle loro ferite.
“Questo è il
primo passo…” mormorò lei “E
ora…” si
guardarono con affetto e felicità.
“…ora stringimi forte! Metti a contatto il
tuo cuore con il mio!”.
I due Alti fecero combaciare i due
oblò luminosi, che
avevano in mezzo al petto.
Battevano e pulsavano
all’unisono, in un abbraccio
appassionato. Anche le loro luci si fusero, il bianco accecante e
l’arancio di
Kasday assieme allo stesso bianco ed all’azzurro di Sowelo.
I capelli, lunghissimi, di entrambi,
si arricciarono e si
alzarono, mossi da un vento invisibile ed attratti l’uno
verso l’altro. Le
forze magiche che si scambiarono provocarono nei due delle sensazioni
sempre
più intense e piacevoli. Si fondevano e si univano, come in
un unico corpo.
Nasceva, nel profondo di loro stessi, un’emozione man mano
più potente ed
incontrollabile.
Al culmine della sua manifestazione
tutto cessò. Le due
magie si respinsero, come due poli equivalenti, ed i corpi si
separarono,
tornando ad essere due entità distinte.
Sowelo, distendendosi di nuovo, fece
un gran sorriso.
“Ora il nostro piccolo
crescerà in me e, presto, vedrà la
luce” sussurrò.
“Presto quando?”
chiese Kasday, ammettendo la sua ignoranza
in materia.
“Una sola notte. Ora io mi
metto un po’ qua, a dormire, così
la mia magia farà tutto e, prima dell’alba,
sarò pronta” gli rispose lei.
Un altro bacio, un sorriso, e poi
entrambi si
addormentarono, l’uno accanto all’altro.
Kasday si svegliò, qualche
tempo dopo, sentendo dei rumori
dal piano inferiore. Si alzò. Indossò una lunga
vestaglia, blu a riflessi
dorati, che teneva accanto al letto, su una sedia in legno lavorato.
Diede
un’occhiata a Sowelo, che brillava di luce colorata e
mutevole. Sorrise ed uscì
dalla stanza, senza far rumore.
“Chi
è?” chiese, dopo aver chiuso la porta dietro di
sé.
Scese le scale. Il fuoco sacro
bruciava tranquillo e
scaldava il palazzo.
“Nosmagiés, sei
tu?”.
Nessuna risposta. Il padrone di casa
non voleva alzare
troppo la voce, per paura di svegliare lei, che doveva dormire.
“Signore? Siete
voi?” si sentì chiedere ed intravide
l’angelo in un angolo “Siete sceso?”
chiese il Messaggero, alzandosi dalla
sedia.
Nel buio i suoi capelli rosso magenta
riflettevano il colore
e la luminosità delle fiamme.
“Nosmagiés, sei qui!” esclamò
Kasday, felice “Sei
tu che hai fatto quel rumore prima? Ho sentito dei passi e
scricchiolii…”.
L’angelo scosse il capo:
“Io, Signore, mi sono assopito
sulla sedia, perso nei miei pensieri, e mi son svegliato solo ora,
udendo la
Vostra voce”.
“E non hai sentito
niente?”.
“Io non ci sento bene come
Voi…ma, forse…”.
Kasday gli fece segno di fare
silenzio con l’indice della
mano sulle labbra.
“C’è
qualcuno qui” mormorò
“C’è qualcuno, ne sono sicuro. Un
intruso o forse più di uno…”.
Il Messaggero si guardò in
giro, perplesso.
Lei, dal piano di sopra,
urlò. Kasday corse per le scale.
“Non restare lì
sotto da solo, Nosmagiés. Sali con me. Non
so chi ci sia in casa, ma credo che non sia nulla di buono o
positivo”.
L’Alto, dopo aver invitato
l’angelo a salire, senza
risultato, tentò di aprire la porta della camera. Non ci
riuscì. Eppure, ne era
sicuro, non l’aveva chiusa a chiave.
“Chi
c’è là dentro? Fammi
entrare!”.
Sowelo rispose con un grido
disperato: “Aiuto!!”.
Lui, con tutta la sua forza,
riuscì a sfondare la massiccia
porta cesellata. Piombando nella stanza, mutando il suo corpo in
atteggiamento
da battaglia, rimase senza fiato. Sul letto, Sowelo era stata legata,
da un lato
all’altro del letto, a gambe e braccia
spalancate. Sopra di lei, con i piedi alla destra ed alla sinistra del
ventre
della giovane, a contatto con le lenzuola, stava un enorme essere.
Immobile, in
piedi, era Teiwaz, il marito di Momoia, a braccia incrociate e con
un’aria
decisamente minacciosa. Tutt’attorno alla stanza si erano
radunati tutti gli
Alti, Kasday riuscì a riconoscerli. Solo uno di loro mancava
all’appello. I
presenti osservavano la scena, in silenzio.
“Dai, avanti!”
tuonò Teiwaz, rivolto alla figlia “Dammi il
frutto di ciò che è proibito!”.
“Proibito?” si
allarmò Kasday, senza capire.
Momoia, avanzando di un passo, si
scostò dalla parete su cui
stava appoggiata e gli parlò, con tono profondo:
“Sì, Hagalaz, proibito!”.
“Io mi chiamo
Kasday!”.
“Un tempo era
così. Ora, arrenditi all’evidenza, sei un Alto
e sei Hagalaz. L’Alto Hagalaz. Non il creatore e
l’Equilibrio Kasday. Solo io e
mio marito possiamo dare vita. Sono queste le regole!”. Irata
e ringhiante,
puntò un dito verso Kasday, che si sentì
trascinare fino alla vicina parete e
da lì non riuscì più a muoversi.
“É solo una
vita. Una soltanto! Una piccola, dolce, nuova
vita! Sarà solo lei. Solo lei! Non creeremo mai
più, ti supplico, non farle del
male!” riuscì a dire, in tono sommesso.
“Lo so che non creerete
più nulla. Separati, vi sarà
impossibile!”.
Solo in quel momento Kasday si
accorse che la bellissima
spilla che indossava Sowelo era uguale a quella che portava Momoia. La
Madre,
prendendola fra le mani, mostrò a tutti che con quel piccolo
oggetto era stata
in grado di controllare i due in tutti i loro spostamenti e atti.
Il silenzio che si era creato fu
interrotto dal vagito di un
bambino, che annunciava la sua venuta nel mondo. Teiwaz lo teneva
stretto,
facendolo strillare più forte per il dolore.
“Marito mio, sai cosa
fare” gli disse Momoia e lui annuì,
saltando giù dal letto.
Sowelo tentò di ribellarsi
ma, legata com’era, non poté fare
nulla.
“Che volete
fare?” domandò Kasday, agitato.
“Tra due creatori nasce un
altro creatore. Troppi creatori
creano un disequilibrio, e tu questo dovresti saperlo meglio di
chiunque altro”
sibilò Momoia, infastidita.
Lui, allora, capì le
intenzioni dei presenti ed urlò, con
rabbia e paura. Con la forza della disperazione e della determinazione,
riuscì
a liberarsi dalla magia che lo teneva inchiodato al muro e
tentò di raggiungere
Teiwaz, che usciva dalla stanza. Subito tutti gli Alti presenti lo
bloccarono
e, per quanto lottasse con tutte le sue forze, non riuscì a
lasciare la camera.
Lungo le scale, sentendo le urla di supplica del suo Padrone,
Nosmagiés tentò, follemente,
di fermare il marito di Momoia che, però, lo respinse e lo
scaraventò giù per
le scale. L’angelo perse i sensi per qualche minuto,
sopraffatto dal dolore.
“Papà!”
supplicava Sowelo, a gran voce “Ti prego, papà!
Riportamelo! Riportami il mio bambino!”.
Kasday, riuscendo a sfuggire ai suoi
aguzzini, corse fuori.
Guardando giù vide
l’Alto Padre accanto al fuoco.
“Nosmagiés!”
chiamò, ma poi vide che l’angelo era disteso e
ferito.
Con un balzo fu al piano terra ma non
riuscì a bloccare
Teiwaz che, senza alcuna pietà, lasciò scivolare
il bambino fra le fiamme. La
piccola creatura emise un gemito di disperazione acutissimo. Kasday
allungò le
mani verso il fuoco sacro, l’unico in grado di bruciare le
divinità, ma era
ormai troppo tardi. Il piccolo era scomparso in una nube di cenere,
senza avere
nessuna possibilità di rinascita perché pure le
essenze erano sopraffatte da
quelle fiamme. Nosmagiés, vincendo la sofferenza fisica che
provava, riuscì
togliere le mani del suo padrone dal caminetto, anche se ormai erano
quasi del
tutto bruciate. Kasday urlò con rabbia, incapace di fare
altro. Si accartocciò
su se stesso, appoggiando la fronte alla superficie bollente del
mobile,
facendo divenire incandescente la parte di metallo e pietra del suo
viso.
Gli Alti se ne andarono, guardandolo
con rimprovero. Nosmagiés
abbracciò forte il suo Signore, che piangeva e urlava, non
sapendo che altro
fare. I suoi occhi erano sbarrati. Mai si sarebbe aspettato tanta
crudeltà.
Il fuoco fu spento..e fuori
iniziò a piovere.
Gli Dèi in sala rimasero
senza parole: erano sconvolti. Nosmagiés
non nascose le sue lacrime. Molti piangevano.
“E poi?
Cos’è successo?” chiese qualcuno a
Momoia, che aveva
terminato il suo racconto.
“Poi Sowelo, la mia
creatura, si è tolta la vita, in modo da
non poter più rinascere. Si è gettata nel fuoco
del suo palazzo. Non esiste e
non esisterà più. Kasday è rimasto nel
suo isolamento perpetuo. Ha ucciso la
mia bambina. Ha provocato la sua fine”.
Nessuno parlò
più. Tutti fissavano il caminetto spento.
“Ed
ora…” parlò Momoia
“…noi siamo qui a chiedere il vostro
aiuto”.
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Capitolo 10 *** X- Celesti ***
X
CELESTI
“E poi? Poi che cosa
è successo?” chiese Vereheveil “Quella
notte Kasday…”.
“Da quella volta Kasday non
è più se stesso. È uscito di
senno, ha perso la ragione e non è mai più uscito
da palazzo, se non per andare
a combattere su mio ordine. Ma credo che non lo faccia veramente. Non
l’ho mai
visto in battaglia. Credo che passi per il quadro e poi si nasconda,
ignorandomi”.
“Come dargli
torto…” mugugnò Nosmagiés,
ruotando gli occhi
al cielo.
“Fa silenzio, pennuto
schiavo! Non ti permettere!” tuonò
Momoia.
“Abbassi la voce. Al mio
Signore dà fastidio tutto questo
chiasso inutile e senza senso” gracchiò
l’angelo messaggero, accigliato.
“Che scenda a dirmelo di
persona!” gridò Momoia.
Il giovanissimo Dio del Silenzio si
alzò in piedi, di
scatto. Con un rapido gesto della mano tolse la voce a tutti i
presenti. Non
potendo far restare atona la Madre degli Alti, il Dio si
limitò ad abbassarle
la voce di un paio di tonalità.
“Perché lo hai
fatto?” domandò Momoia.
A gesti il giovane fece capire che
era stato Kasday a
crearlo e che era giunto il momento di tornargli il favore. Molti
annuirono. I
più giovani erano tutte divinità nate
dall’uovo che Kasday che aveva creato
dopo aver generato il suo Universo.
“E va bene! Come
preferite…” si rassegnò Momoia.
“Io torno dal mio Padrone.
Voi non alzate troppo la voce e
riflettete su cosa vi dirà questa pazza” disse
Nosmagiés, indicando la Madre.
“Dì al tuo caro
Signore di scendere immediatamente. O lo
prendo a calci per buttarlo di sotto!”. L’angelo la
ignorò ed iniziò a salire
le scale.
“Ti prego,
Nosmagiés! Fallo venire qui! Fammi rivedere
Kasday!” mormorò Luciherus ma il messaggero non lo
ascoltò. Sparì nel buio e
nel silenzio.
“Per cosa ci avete
chiamato, Signora?” chiese Vereheveil,
cercando di distogliere l’attenzione di tutti dal Messaggero.
“Io vi ho chiamati per
esporvi un fatto: siamo sempre di
meno. Come potete vedere, noi Alti non superiamo la ventina. Una volta
eravamo
molti di più ma, ultimamente, abbiamo subito numerose
perdite”.
“Perdite? In che
senso?” chiese il Tempo.
“E
poi…scusate…ma non dovreste rinascere?”
continuò la Dea
della Morte.
“Il problema è
che, quelli di noi che non sono qui presenti,
risultano scomparsi nel nulla. Nessuna parte della loro essenza risulta
rintracciabile. Questo mi impedisce di farli rinascere e quindi siamo
sempre di
meno. Purtroppo questo fatto è accaduto più volte
e capita sempre più spesso.
Il primo a sparire è stato mio marito”.
“Mi
dispiace…” sussurrò qualcuno, con vero
cordoglio.
“Tutto è
iniziato dopo la decisione della mia creatura. Si è
gettata nelle fiamme che lei stessa aveva creato. Il giorno dopo
è sparito mio
marito. Pensavamo si fosse solo allontanato per un po’, per
riflettere o per
stare da solo, ma poi sono iniziati a scomparire anche gli
altri…uno dopo
l'altro. E abbiamo tutti capito che qualcosa non andava”.
“Chi può fare
una cosa del genere? Far scomparire un Alto
come se fosse niente dev’essere difficile”
esclamò Kavahel.
“Noi sappiamo chi
può farlo. I Celesti” parlò uno degli
Alti.
Luciherus scoppiò a
ridere: “I Celesti?! Suvvia, ragazzi! I
Celesti sono favolette usate per fare dormire i bambini ed obbligarli a
fare i
bravi. Cose del tipo: attento, sii buono, altrimenti i Celesti verranno
a
prenderti! Cerchiamo qualcosa di più
concreto…”.
Molte altre divinità
risero, ricordando quelle favole.
“Non sono balle!”
sbottò Momoia “So con chi abbiamo a che
fare. Sono delle creature che ci odiano da lungo tempo e noi pensavamo
che,
mossi da un impeto di coraggio, avessero rapito i nostri compagni.
Seguendo
questo dubbio, ci siamo recati nel loro palazzo e questi hanno
peggiorato la
situazione, accusandoci ed insultandoci in ogni modo. È
così che è iniziata la
guerra”.
“Voi siete gli
Alti!” esclamò Skrich “Che problema
c’è?
Siete al di sopra di tutti!”.
“Non dei Celesti. Loro sono
i nostri equivalenti nei loro
Universi”.
“Quali sono i loro
Universi?” chiese qualcuno.
“Gli opposti dei vostri. I
loro sono gli Universi paralleli
rispetto a quelli sotto il nostro controllo”. Scese il
silenzio. Uno strano
silenzio.
Momoia sospirò:
“Quel quadro…” iniziò a
parlare, indicando
il dipinto alla parete “…ci permette di giungere
direttamente al nostro
pianeta, ma anche di arrivare velocemente nei loro Universi. Ne hanno
tre, come
noi. Uno del Kaos, uno del Destino e uno dell’Equilibrio.
Come noi, hanno i tre
sotto il controllo del Dio Triplice e…”.
“Universi paralleli,
identici ai nostri?!” esclamò il Sole.
“Esatto. Noi siamo al
controllo di questi tre e loro tengono
sotto controllo gli altri tre”.
“Che casino!”
disse Luciherus.
“Già
è un casino…ma è così che
vanno le cose. Il punto è:
non sappiamo come uscirne. Loro ci attaccano, noi ci difendiamo. Loro
ci
insultano, noi rispondiamo. Ci odiamo ed ogni tipo di dialogo
è ormai
compromesso. Perciò vi chiedo questo: non voglio vedervi
combattere contro la
vostra volontà, ma sarebbe molto gradito il vostro aiuto.
Fino ad ora le nostre
barriere hanno protetto gli Universi in cui risiedete voi, e le
creature che vi
pregano, ma se il nostro numero dovesse diminuire non sono sicura che
questa
situazione possa mantenersi stabile. Soccomberemmo e i Celesti
attaccherebbero
i vostri pianeti. Angeli, Demoni, Dèi, creature mortali di
ogni tipo, animali
ed esseri viventi…finirebbero tutti sotto il loro
controllo”.
Nessuno parlava, consapevoli della
gravità della situazione.
“Come avete la certezza che
siano loro i colpevoli?” domandò
il giovane Destino.
“Loro sono gli unici con la
forza necessaria per far
scomparire uno di noi. E poi, dato che ora ci
attaccano…” iniziò Momoia.
“…non ci
attaccherebbero se fossero estranei alla cosa!”
terminò un altro Alto.
“Avrebbero potuto provare
molto facilmente che sono
innocenti ma, invece che mostrarsi disponibili, ci hanno attaccato ed
insultato. Ora, ditemi voi…che avremmo potuto
fare?”.
“I
Celesti…” domandò timidamente la Dea
della Memoria “…sono
come ce li hanno descritti quando eravamo da piccoli?”.
Momoia rimase seria: “Sono
crudeli e senza cuore. Spietati
assassini con i loro nemici. Ma non posso negare di essere
anch’io facilmente
descrivibile con questi aggettivi”.
“Signore…?”.
Nosmagiés
chiamò il suo padrone, a bassa voce:
“Signore…dove
siete?”.
Un lieve fruscio di piume gli fece
capire dove si trovava. L’angelo
entrò cautamente in uno stanzino buio, illuminato solamente
dalla luce
bianco-aranciata della pelle del lato di vetro del padrone di casa.
“Posso entrare?”
domandò il Messaggero, timidamente.
Kasday annuì e
Nosmagiés entrò.
L’Alto era seduto al centro
della camera, sul letto. Fissava
il vuoto. Girò, lentamente, la testa verso il suo angelo,
inclinandola
lateralmente.
“Signore…là
sotto ci sono i Vostri figli, le persone che vi
vogliono bene e…”.
“Fa silenzio,
Nosmagiés”.
“Ma…”.
“Fa silenzio”.
“Come volete”
sospirò l’angelo “Mi ‘spiace
di essermi fatto
gli affari Vostri”.
Seguì un inquietante
mutismo da parte di entrambi. Il
Messaggero si strinse nella veste azzurra che indossava, rabbrividendo
dal
freddo, osservando gli stucchi in rilievo sul muro. Erano davvero
belli,
peccato che nessuno li potesse ammirare da secoli, eccezion fatta per
lui ed il
suo Signore.
“Perdonami, mio
angelo” sussurrò Kasday “Perdonami
ma…là
sotto non c’è nessuno per me. I miei figli non mi
riconoscono, mi sono
estranei, e le persone che mi amavano ora non provano più
nessun sentimento nei
mie confronti”.
“Sapete che non
è così!” protestò il
Messaggero.
L’Alto si distese sul
letto, girando la testa in modo da
dare le spalle all’angelo.
“Tu non sai
niente” mormorò.
I suoi lunghissimi capelli neri si
agitarono per un po’. Poi
Kasday chiuse gli occhi, sospirando. Nosmagiés prese
coraggio ed andò a sedersi
accanto al suo signore. I due si guardarono.
“Le senti tutte le
stronzate che dice quella donna?” ridacchiò
il padrone, distogliendo gli occhi.
“Vi riferite a
Momoia?” si informò il Messaggero, rimanendo
serio.
“Sì.
È una grande oratrice. Che plagiatrice!”.
“Ma è vero che i
Celesti ci sono nemici…”.
“Sì.
È vero che ci attaccano, che ci insultano, che ci
odiano eccetera eccetera. Ma non sono così crudeli e senza
cuore come lei li
descrive”.
“Non crediate,
però, che siano tanto dolci. Altrimenti non
ci sarebbe la guerra. Siete dalla parte dei Celesti?”
l’angelo sembrava davvero
perplesso.
“Sono neutrale. Come
sempre. Me ne frego della guerra, degli
Alti, dei Celesti”.
L’angelo osservò
le mani del suo padrone, bruciate. Le
muoveva nervosamente. E il messaggero non capiva se ancora gli
provocavano
dolore, come la gamba che da tempo immemore lo tormentava a momenti
alterni.
“Perché non le
fate guarire? Vi sarebbe facile togliere
queste bruciature…”.
Kasday non disse nulla, tornando nel
suo stato di trance,
con gli occhi spalancati e persi nel vuoto.
“Signore?” lo chiamò l’angelo.
Non ricevette risposta.
“Signore…va
tutto bene?”.
L’Alto iniziò ad
emettere strani versi e parole senza senso.
“Avete bisogno di
qualcosa?” insistette Nosmagiés ma, anche
questa volta, non ricevette nessun accenno di spiegazione o parola
sensata.
Con un sospiro l’angelo si
alzò dal letto e si avviò verso
la porta.
“Nosmagiés…”
sentì mugugnare Kasday “Nosmagiés
tu…mi vuoi
bene?”.
Il messaggero non sapeva che cosa
rispondere e rimase fermo
sull’uscio.
“Mi vuoi bene,
Nosmagiés?” biascicò di nuovo il
padrone.
“Certo che ve ne voglio,
padrone mio”.
“In che modo?”.
“In che senso?”
l’angelo alzò un sopracciglio, perplesso.
“Mi vuoi bene come si vuol
bene ad un cane, ad un peluche,
ad un malato…”.
“Un malato?”.
“Sì. Mi vuoi
bene basandoti sulla pena che si prova nei
confronti di un pazzo?”.
“Io vi voglio bene come se
foste mio fratello, mio amico,
mio padre, mio figlio…mio Signore!”.
“Oh, Nosmagiés! Dimmi la verità!
Parlami
sinceramente e descrivimi. Cosa ne pensi di me? Sii sincero,
perché se menti lo
capisco”.
“Penso che Voi siate una
brava persona, un bravo Dio, un
bravo Signore…ma che si chiude troppo in se stesso. Io
comprendo il vostro
dolore ma…credo che uscire da qui le farebbe decisamente
bene”.
“Nemmeno tu esci mai da
qui, mio piccolo angelo!”.
“Io non vado da nessuna
parte senza di Voi! E poi…senza di
Voi io non ho niente. Non ho famiglia, non ho
amici…”.
“Amici ne avresti se
uscissi!”.
“Non
mi interessa
farlo!”.
“Neanche a me!”.
“Bene!”.
Entrambi sorrisero, con scarsa
convinzione.
“E degli Alti, angioletto
mio, cosa ne pensi?”.
Nosmagiés si
rabbuiò, incrociando le braccia: “Mi fanno
schifo. Sono dei mostri e degli approfittatori. Li odio, sinceramente.
Ed
immagino che anche Voi…”.
“Io non li odio. Non provo
sentimenti. Non più, da quella
sera. Sono come un grosso sasso…” Kasday
aprì le braccia, imitandone la forma
“…o un albero. Fermo. Raccolgo ed assimilo
stimoli, senza trasmetterne alcuno”.
“Non li odiate?”
l’angelo era visibilmente stupito.
“No. Non odio. Non amo. Per
questo non scendo. Per non vedere
le persone che una volta amavo, con tutto il cuore, provocarmi
l’indifferenza
totale”.
“Capisco…”.
“Non struggerti troppo per
me. E ora va pure a dormire.
Ignora tutti quei bacucchi al piano di sotto. Riposa e
rilassati”.
“Avete bisogno di
qualcosa?” domandò Nosmagiés, lasciando
la
stanza.
“No. Va pure”.
“Buonanotte,
Signore”.
“Notte, Nosmy”.
“Che cosa dobbiamo
fare?” domandò Vereheveil, preoccupato
soprattutto per i suoi figli.
Non voleva di certo che capitasse
loro qualcosa di male!
“Pensavamo di sferrare una
sorta di attacco” iniziò a
spiegare Momoia “Dato che, normalmente, siamo alla pari come
dispendio di forze
ed energie, aumentando di numero e di magia dovremmo riuscire a
sconfiggerli.
Ma dovrebbe svolgersi il tutto il più presto possibile
perché, essendo
loro negli Universi
paralleli,
sicuramente stanno organizzando qualcosa di simile”.
“Un attacco combinato di
Alti e Dèi, lei intende?” si
informò la Dea della Guerra.
“Precisamente. Dobbiamo
ancora organizzarci, ci serve una
strategia molto precisa, ma al più presto saremo in grado di
combattere. I
vostri angeli Messaggeri saranno informati di ogni nostra decisione e
mossa e,
al momento opportuno, vi comunicheranno come e dove riunirsi. Ci tengo
a
precisare che nessuno di voi ha degli obblighi e nessuno è
costretto a venire a
combattere per noi. Certo che sarebbe
consigliabile…”.
La Dea della Guerra fece notare che
non si svolgevano
battaglie dalla fine dell’ultima Era, dall’ultimo
scontro fra l’antico Kaos e
la precedente divinità del Destino. Era trascorso tantissimo
tempo e molti dei
presenti non avevano mai vissuto una vera e propria rissa fra
divinità, né
tantomeno una guerra.
“Non è un
problema questo” la rassicurò la Madre
“Uno dei
nostri, un Alto, penserà ad un adeguato addestramento di chi
ci aiuterà”.
“E se fosse
tutto…che so…un imbroglio?”
azzardò Luciherus,
con le mani in tasca e un sorriso ghignate.
“Spiegati, Dio del
Coraggio” intimò Momoia.
“Mi spiego: se fosse solo
un tentativo di depistaggio da
parte dei nostri veri nemici? Mettiamo che, per caso, un vostro
antagonista
voglia farvi credere che i colpevoli sono i Celesti, quando in
realtà non è
così…”.
“É
un’idea buona, in fondo…”
commentò la Dea del Kaos.
“Impossibile”
tagliò corto Momoia “É impossibile
perché io
percepisco tutti i pensieri di tutti voi. Se qualcuno, compreso uno
degli Alti,
pensasse a complottare contro di me, o contro di voi, lo saprei subito.
Gli
unici di cui non sarei in grado di capire la mente sono i Celesti.
È dunque
inevitabile che siano loro i colpevoli”.
“Nessuno è in
grado di schermare le proprie onde cerebrali
in modo da evitare che Voi, Madre, possiate leggerle?” si
informò il nuovo Dio
del Coraggio.
“No. Non è mai
esistita una creatura in grado di farlo.
Questo perché il nostro livello magico è
altissimo, di molto superiore a quello
di chiunque altro”.
Luciherus non sembrava convinto ma
non aggiunse altro.
Gli Alti, notando la sua espressione,
sorrisero.
“Quanto sei
diffidente…stai tranquillo! Non siamo noi i
cattivi!” ridacchiò uno di loro, il più
alto. “Se ti può far sentire meglio,
farò aumentare la sorveglianza…”
commentò Momoia.
“Non so che cosa intenda
chiaramente con questa frase ma…sì,
mi sentirei meglio!”.
“Bene. Al più
presto io, tu e la Dea della Guerra ci
incontreremo in privato per trovare la strategia migliore, mio
generale”.
Il Principe sorrise orgoglioso nel
sentirsi chiamare
“generale” da Momoia.
“Non ho altro da
aggiungere” terminò la Madre degli Alti,
alzandosi.
Seguirono il suo gesto le altre Alte
divinità, avviandosi
verso il quadro che fungeva da portale verso il loro Mondo.
La riunione terminò,
alcuni Dèi se ne andarono in fretta,
senza dire una parola, con mille pensieri in testa. Tutti sapevano che
quella
frase sulla possibilità di scegliere se unirsi alla guerra o
no era sono una
frase fatta. Essendo loro sottoposti agli Alti, era inevitabile che
dovessero
obbedire.
Vereheveil si guardò in
giro, osservando l’immensità della
sala ed il suo stato d’abbandono. Non si vedevano tele di
ragno o cose simili
ma i mobili erano privi di arredo, fatta eccezione per dei libri
rilegati. I
volumi, però, avevano l’inconfondibile odore di
archivio, di vecchio, di
polvere. Ed il Dio delle Letterature sapeva che era un segno tipico
della carta
che non veniva sfogliata da molto.
Era probabile che Kasday non
scendesse da moltissimo. Altra
prova di questo erano i colori spenti delle pareti, una volta di un
inconfondibile bicolore rosso cupo e blu scuro, i colori
dell’Equilibrio. Il
Dio guardò in alto. Le creature rappresentate sugli
affreschi del soffitto
avevano un viso triste e corrucciato, i simboli delle
divinità non brillavano
come un tempo e tutti i colori avevano perso vivacità.
Sospirò e rabbrividì per
il freddo.
“Che pensi di fare,
Vereheveil?”.
Il Dio si girò ed
incrociò lo sguardo di Luciherus e la sua
inconfondibile luce aranciata. Era stupito dalla domanda.
“Tu che pensi, demone? Non
ho molte alternative…difenderò i
miei figli ed i miei Universi!”.
“E che avresti in mente?
Combattere? Tu?!” Luciherus
trattenne a stento una risata.
“Tu pensa ai problemi tuoi,
che io penso ai miei!” esclamò
Vereheveil, scocciato.
“Ok” rispose il
Principe, con le mani in tasca e l’aria assente.
“Ok? Come sarebbe a dire?
Non mi dai una rispostaccia o una
cosa del genere?”.
“No. Hai
ragione”.
Vereheveil guardò il
demone, perplesso.
“Che cosa ti succede? Stai
bene?” domandò poi, apprensivo ed
Il Principe non rispose “Come mai avevi tanta urgenza di
rivedere Kasday, nuovo
Dio?”.
Luciherus guardò in alto,
verso la rampa delle scale.
“Tu sai che mia figlia, la
Dea della Morte, sta per sposarsi
con il Dio della Vita. È la mia bambina…mia e di
Kasday! Io non so
che cosa fare, sinceramente, e speravo che
lui potesse aiutarmi…tu cosa faresti al posto
mio?”.
Il Dio delle Letterature sorrise:
“Non è la fine del mondo!
Cerca di rilassarti…cerca di essere più Arcangelo
e vedrai che riuscirai ad
accettare la cosa!”.
Il Principe fece una smorfia,
avviandosi verso l’uscita.
Gli occhi verdi di
Nosmagiés brillavano nel buio del piano
superiore. Stava osservando gli ultimi due intrusi rimasti in casa.
Le due divinità si
salutarono e, senza dire niente, scesero
la moltitudine di scale che li portavano lontano dal palazzo del Dio
Triplice. Un
violentissimo tuono fece loro accelerare il passo, e tornarono a casa
prima
dell’alba.
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Capitolo 11 *** XI: intrusi ***
XI
INTRUSI
Kasday rimaneva nel buio, in attesa
che tutti se ne
andassero. Appoggiò la testa contro il muro, sospirando.
Nosmagiés era addormentato
e lui si annoiava. Stava nella camera del suo angelo, affascinato nel
vederlo
dormire. Ne osservava la schiena, le piume, il viso dolce e rilassato.
Era una
cosa rara vederlo così dato che il Messaggero, normalmente,
era sempre un po’
teso e rabbuiato.
Un rumore, improvviso, e lo stato
emotivo dell’Alto mutò.
Ora era impaurito. Non voleva la gente. Non poteva sopportare le
parole, i
suoni, le bugie, le grida…voleva stare solo. Solo e in
silenzio. Guardando
dalla finestra, notò che tutti i visitatori e gli intrusi se
ne erano andati,
erano ormai lontani dalla rampa di scale che portava
all’ingresso del palazzo.
Sorrise, rilassandosi.
Era tutto finito. Era di nuovo solo.
“Kasday!”.
Lui sobbalzò.
“Momoia…”
sbiascicò, scocciato.
Sperava di stare, finalmente, in pace
ma non era ancora il
momento.
“Cosa vuoi?!”
domandò, accigliato.
“Non parlami
così, ragazzino!” lo rimproverò Momoia,
irata.
“Non chiamarmi
ragazzino!” protestò Kasday “Sono stufo
di
essere chiamato così! Non lo sono da tempo. Ho
più di due Ere…e sono stanco”.
“Stanco? Stanco di
cosa?” ridacchiò la Madre, inclinando il
capo.
“Di tutto”
rispose lui, conciso, distogliendo lo sguardo.
“Di tutto?!”.
“Sì. Di tutto.
Non ho mai voluto essere un Dio e, meno che
mai, ho desiderato essere ciò che sono ora!”.
“E allora che cosa
vuoi?” scherzò lei.
“Te. Fuori di qui!
Sparisci!” ringhiò Kasday, mentre i suoi
capelli si gonfiavano per il fastidio. “Davvero vuoi questo?
Solo questo?” lo
stuzzicò lei.
“Volevo
solo…un…” parlò lui, a bassa
voce.
“Un?!” sorrise
lei, allungando il collo, curiosa.
“Lo sai!”
sbottò lui.
“Dillo!”
esclamò lei, tranquilla e felice.
Kasday strinse i pugni. Due grosse
corna rosso scuro ora
campeggiavano sulla testa dell’Alto, segno inequivocabile che
provava rabbia.
Si girò, di scatto verso
di lei ed urlò: “Volevo solo essere
lasciato in pace. Volevo avere dei figli, volevo vederli
crescere…volevo una
bella famiglia, volevo una vita normale! Ecco quello che volevo! Ora
sei
contenta?! Vattene!”.
Nosmagiés, svegliato
dall’urlo del suo padrone, aprì gli
occhi di scatto, stupito di vedere Momoia e il suo Signore nella sua
camera.
Non disse nulla, leggermente turbato da quelle due presenze.
“Perché non
combatti?” sibilò la Madre, rivolta
all’Alto che non la guardava più, tentando
di riprendere il controllo.
Le corna di lui stavano tornando a
sparire.
“Io combatto. Mi trascini
con la forza alle tue battaglie”.
La voce di lui era di nuovo calma,
pur avendo le braccia
incrociate.
“Sì.
È vero. Ti ci trascino. Ma poi tu sparisci! Non ti ho
mai visto in uno scontro diretto fino ad ora!”.
“Non amo uccidere. Me ne
sto in un angolo…” ammise lui, a
bassa voce.
“Ma allora non
l’hai ancora capito che mi devi obbedire?!”
esclamò lei, spazientita.
“Sono debole, Momoia. Non
ho sufficiente energia per
uccidere i tuoi nemici. Non ho nemmeno la forza necessaria per togliere
la vita
ad una divinità minore…figuriamoci ad un
Alto!”.
“Questo lo so. Sono io che
mantengo il tuo livello magico
così basso. Sei completamente
pazzo…chissà che faresti senza
controllo!”.
Lei presentava il suo vero aspetto.
Le enormi ali da farfalla,
terminanti con una piccola mano, sfavillavano nonostante la pochissima
luce
della stanza. La sua rabbia si manifestava con l’alzarsi di
una vistosa cresta
verde, normalmente rilassata e non vedibile. La membrana, di cui era
composta
la strana escrescenza, aperta, partiva dalla fronte di lei per poi
protrarsi
lungo la schiena e terminare con una lunga coda frustante.
La Madre afferrò lui per
le braccia, torcendogliele dietro
la schiena. Usò le mani alle sommità delle ali ed
i suoi arti, più simili a tentacoli
piuttosto che a membra umane. Lo sbatté contro un tavolo, di
colore chiaro, con
la faccia sul pianale, e gli scoprì la schiena,
strappandogli la veste blu.
Nosmagiés sobbalzò. Sapeva cosa stava per
succedere. Tentò di reagire, ma
Momoia lo teneva inchiodato al letto con l’uso della magia.
“Sono stanca dei tuoi
capricci!” sibilò lei “Sono davvero
stanca! Mi hai disobbedito…e tu sai cosa ti capita quando
fai così…”.
La schiena nuda di Kasday era divisa
a metà, fra la parte di
pietra e quella di vetro, con un canale di luce azzurra e luminescente
con
tanti ricami a riccioli. Gli stessi motivi e colori che separavano le
due metà
del viso e decoravano tutto il corpo dell’Alto. Diversi
spuntoni di metallo
nero trapassavano la scia azzurra sulla schiena.
Kasday si dimenava ma la Madre era
molto più potente e lo
tratteneva con estrema facilità.
Momoia estrasse l’ennesimo
spuntone nero da una piccola
borsetta che teneva legata alla vita, sottilissima. Con un rapido
gesto, di una
delle mani sulle ali, conficcò l’oggetto nel
canale, ricco di magia, di lui.
Trafiggendogli la schiena, sapeva di provocare un immenso dolore nel
corpo
dell’Alto e sorrise compiaciuta.
Kasday urlò,
più volte, sofferente. Le gambe di lui
cedettero, così come ogni altro suo muscolo. Cadde in terra,
boccheggiando. Nosmagiés
gli corse in contro, libero dalla barriera di Momoia.
“Non l’hai ancora
capito?!” ringhiò la Madre “Ogni volta
che
mi disobbedisci, io pianto uno di questi cosi lungo la tua arteria
principale
di magia, immobilizzandoti e facendoti soffrire per ore! È
la decima volta che
lo faccio…ne vuoi ancora?! Ogni volta diventi più
debole e la tua magia si
infetta, si contamina, e tu ti deteriori! Ti sta bene così?
Perché continui a
fare lo stupido? Per caso godi, masochista?”.
Lui non poteva rispondere.
L’angelo Messaggero tentò di
farlo alzare. La Madre mosse solo un dito e scaraventò
l’Alto sul letto, prono
e con la faccia sprofondata sul cuscino.
“Stai lì,
Hagalaz, Kasday. Domattina ti sentirai meglio e
sarai pronto a combattere” sbottò Momoia.
“Perché lo fate?” domandò
Nosmagiés,
non nascondendo la sua ira.
“Perché?
Perché mi disobbedisce e continua a fare di testa
sua. Non ha ancora capito con chi ha a che fare…”.
“Ma…”
la interruppe l’angelo “…lui non ha la
forza sufficiente
per poter uccidere uno dei Celesti! Morirebbe di sicuro in uno scontro
diretto!
Non ha una magia così sviluppata!”.
“Fai silenzio, sottoposto!
Lui mi appartiene!” gridò lei,
prima di uscire dalla stanza.
Nosmagiés si
avvicinò al suo padrone, disteso e ad occhi
spalancati. L’angelo accarezzò i lunghi capelli
neri del suo Signore,
scostandoli per non farli andare sulla ferita appena inferta.
“É come se
trapassassero la spina dorsale con un ferro di
diversi centimetri di diametro. Orribile!”
sussurrò il Messaggero.
Kasday gemeva e rabbrividiva.
Nosmagiés si alzò ed andò al
piano inferiore. Tornò stringendo fra le mani un bicchiere
colmo, al quale
aggiunse una polvere che frizzò a contatto con
il liquido.
“Bevete
questo…” mormorò.
L’Alto bevve lentamente.
Era un fortissimo liquore che fece
perdere i sensi al padrone di casa, per poi farlo dormire tranquillo.
L’angelo
sapeva che non era un bene fargli assumere certe sostanze, ma sapeva
anche che
non c’erano molte altre soluzioni per farlo stare meglio.
“Buonanotte”
sospirò il Messaggero, uscendo dalla camera e
chiudendo la porta dietro di sé.
Un raggio di sole penetrò
dalla piccolissima fessura
lasciata libera dalle tende, andando a colpire la mano di vetro di
Kasday.
Questa si illuminò, riflettendo i colori
dell’arcobaleno, come un cristallo.
L’Alto aprì un occhio, infastidito.
Allungò un braccio, lungo tutta la stanza,
ed impedì alla luce di dargli ulteriore fastidio, serrando
le tende.
L’orologio segnava le dieci
passate.
Ficcò il viso sotto il
cuscino. La ferita alla schiena
pulsava, così come la sua testa.
“Ho sempre odiato i
piercing…” gemette Kasday e si alzò,
resosi conto di essere nella camera di Nosmagiés.
Ignorò il braccio, ora
esageratamente lungo, senza farlo
tornare alla sua lunghezza normale.
Si trascinò fino alla sua
stanza. I suoi occhi da falena gli
permettevano di vedere perfettamente nell’oscurità
totale. Entrò e si sedette
alla scrivania. Si stiracchiò pigramente, avvertendo una
fitta in
corrispondenza degli spuntoni di metallo nero che lo trapassavano.
Aprì un
piccolo cassetto ed estrasse una boccetta contenete un liquido scuro.
Lo bevve
tutto d’un fiato.
“Ringrazio me stesso per
aver creato le piante stupefacenti”
sussurrò.
Si distese in terra, in estasi,
dimenticando il dolore. Le
sue orecchie a punta fremettero.
Dal piano di sotto si udì
un rumore di vetri rotti. Le
antenne di Kasday si girarono, istintivamente, verso la porta. Ma
l’Alto le
ricacciò al loro posto con la mano.
“Chissenefrega!”
esclamò, chiudendo gli occhi.
Senza pensarci, si accese una
sigaretta, sempre rimanendo
disteso, ed afferrando gli oggetti con il braccio, ancora troppo lungo.
Nosmagiés
bussò. “Tutto bene, Signore?”
domandò l’angelo,
timidamente.
“Alla grande!”.
“Cosa si è
rotto?”.
“Qui niente, mio
Messaggero. Non sei stato tu?”.
“No…”.
“Sarà stato il
gatto…” sbottò l’Alto,
espirando una
nuvoletta di fumo.
“Non dovreste
fumare…” lo rimproverò
Nosmagiés, serio.
“Non
rompere…piuttosto và di sotto e vedere chi ha
rotto
cosa”.
L’angelo fece un piccolo
inchino.
Kasday iniziò a battere le
mani a casaccio e cantare strane
cose, cori da stadio o da osteria, piene di grida e parole sconnesse.
Il
Messaggero scosse la testa, ruotando gli occhi verso il cielo.
Dopo un po’
l’Alto ricominciò a percepire dolore e si
calmò.
Nosmagiés, rassicurato, lo lasciò solo. Kasday si
fermò a guardare il soffitto,
trovando soporiferi i decori dorati rappresentati su di esso.
La porta della camera si
aprì leggermente. L’Alto sbuffò.
“Nosmagiés! Per
oggi lasciami in pace, ok? E se qualcuno mi
cerca, digli che ho gli attacchi isterici!”.
Nessuno rispose ma la porta si
spalancò, facendo entrare
un’enorme quantità di luce.
“Nosmagiés!”
sbraitò Kasday, furioso.
“Sì?!”
si sentì rispondere dal piano inferiore.
“Ma
che…” si chiese l’Alto, perplesso.
Solo in quel momento si accorse di
quella figuretta che
stava al suo fianco. La guardò, scocciato.
“Vattene fuori, chiunque tu sia”
ordinò.
Era una bambina, con dei capelli di
colore bianco latte,
raccolti in due codini, ed enormi occhi fuxia. Kasday si
mostrò nel suo aspetto
più terribile, gonfiando i capelli e spalancando la bocca
con i denti aguzzi e
minacciosi. Nonostante questo, la bambina non si mosse. Anzi, invece di
tremare
o fuggire, sorrise. Lui si alzò in piedi, ringhiando
sommessamente. Lei inclinò
la testa e batté le mani, con entusiasmo.
Nosmagiés si affrettò lungo le scale.
“Che succede,
Signore?” domandò, trafelato.
Un grido altissimo ed acuto si
espanse per tutte le sale del
palazzo. L’angelo si tappò le orecchie mentre
alcune finestre cedettero,
andando in frantumi. Chiedendosi se questo fosse un ulteriore prova
della
follia del suo padrone o l’opera di un intruso, il Messaggero
prese coraggio ed
entrò nella camera. Il suo padrone era abbarbicato in un
angolo del soffitto e
si era tutto raggomitolato nelle immense ali blu. Tutti gli occhi che
si
trovavano sulla punta delle sue penne più esterne erano
puntati verso la
bambina, che continuava ad urlare ed emettere una luce fortissima.
Mai fino ad ora l’angelo
aveva avuto modo di vedere tutti
quegli occhi spalancati sul suo padrone. Il messaggero corse dentro e
tappò la
bocca alla piccola, spiegandole che dava molto fastidio alle orecchie
sensibilissime del suo Signore. La bambina non parve capire ma fece
silenzio. Kasday
scese lentamente dal suo angolino e ringraziò
Nosmagiés. Fece tornare le sue
ali delle normalissime braccia, anche se di colore blu, e si
avvicinò
all’intrusa, con fare minaccioso.
“Non fatele del
male!” esclamò l’angelo
“É solo una bambina!”.
L’Alto non la
toccò.
“Mio figlio avrebbe avuto
la sua stessa età”.
Gli occhi sui palmi delle sue mani
tornarono tranquilli e
lui tornò al suo solito aspetto cupo e depresso.
Uscì dalla camera, avviandosi
verso la stanza degli specchi.
“Signore…”
lo chiamò docilmente il Messaggero
“…non volete
sapere da dove proviene questa piccina? E come è arrivata
fino a qui?”.
Kasday non disse una parola,
continuando a camminare lungo
il corridoio buio.
“Uffa!”
esclamò Nosmagiés, alzando la voce
“Uffa, sono stufo
di tutto questo silenzio!”.
“Sei libero di andartene
quando vuoi!” gli urlò, di rimando,
il suo padrone, sbattendo la porta dietro di sé.
L’angelo chinò il capo. La
bambina sorrise e seguì Kasday, correndogli dietro.
“No!” le
ordinò il Messaggero ma ormai era tardi, lei era
entrata nella stanza dove stava l’Alto. “Sparisci!
Fuori di qui, coso urlante!”
sbraitò Kasday ma la bambina, a braccia spalancate, gli
corse incontro e lo
abbracciò. L’Alto si scansò a fatica da
quella stretta.
“Ma che razza di bambina
sei tu? Mica sei normale!” commentò
il padrone di casa.
Lei allungò di nuovo le
mani, per farsi prendere in braccio.
Kasday la ignorò ma la piccola non si arrese,
anzi…si mise ad inseguire l’Alto
in ogni camera ed in ogni attività.
Nosmagiés osservava il
tutto con un sorriso e con curiosità.
Tentò di rivolgere delle domande alla sconosciuta ma lei non
voleva saperne,
sembrava interessata solo ed esclusivamente a Kasday.
In particolare, mostrò un
grandissimo entusiasmo quando notò
una delle code dell’Alto, quella morbida, sinuosa e di color
cremisi. La
afferrò saldamente e non la lasciò per buona
parte della giornata. A Kasday non
importava, riusciva a far tutto senza difficoltà.
“Bambina, ti
avverto…” disse, ad un tratto
“…io ho tutta
l’eternità davanti. Hai intenzione di buttare la
tua vita o, prima o poi, te ne
andrai altrove?”.
Lei iniziò a toccare e
spostare tutti gli oggetti che gli
capitavano sottomano. Questo fece imbestialire Kasday, antico Dio
dell’Equilibrio. Arrotolando la coda attorno alla vita della
bambina, la buttò
fuori, nel cortile interno, chiudendo la portafinestra che ne
permetteva
l’accesso. Lei rimase ferma, immobile, guardando dentro.
L’Alto tentò di non
farci caso, riordinando il casino provocato dalla piccola scocciatrice.
Lei
appoggiò le mani ed il nasino contro il vetro, spalancando
gli occhi.
Il padrone bussò sul
vetro: “Piccola! Leva subito le tue
mani sudice dal vetro, me lo imbratti!”. Approfittando del
fatto che Kasday si
era girato, la bambina rientrò nella stanza, ridendo. Si
riattaccò alla coda,
agitandola, e l’Alto ruotò gli occhi al cielo, non
sapendo bene con chi
prendersela. Nosmagiés non riuscì a trattenere
una risatina. Kasday sollevò la
coda, la bimba continuò a stringerla pur non toccando
più terra, e guardò negli
occhi l’estranea.
“Insolente! Ma tua madre
dov’è?”.
Lei sembrò non aver
aspettato altro che quella domanda.
Frugò nella borsetta che aveva al fianco. “Cosa
cerchi? Spray al peperoncino
contro le aggressioni? Guarda che dovrei usarlo io contro di
te…” ironizzò
l’Alto.
La bambina gli porse una lettera e
lui la rimise a terra,
afferrando la busta.
“Cos’è
questa?” domandò.
“Questa!” rispose
lei.
“Sì, brava,
questa. Cos’è? Da dove vieni?”.
Lei indicò il quadro alla
parete.
“Hai attraversato il
quadro? Brava…ma non da sola, perché
non hai l’energia necessaria per farlo. Dunque…chi
ti ha portato qui?”.
“Mamma!”
esclamò lei, con un sorriso.
“Oh, bene. A piccoli passi
ce la facciamo a capirci qualcosa
su di te. E adesso la tua mamma dove sta?”.
Lei indicò di nuovo il
quadro.
“Si trova
dall’altra parte? La tua mamma è rimasta di
là?
Dammi più indizi…quel dipinto porta in un sacco
di posti…”.
L’Alto osservò
la lettera che gli aveva dato e non riuscì a
capirne la scrittura. La bambina parlò, in una lingua strana
e complessa. Nosmagiés
strabuzzò gli occhi, senza capire, ma Kasday
annuì. Riusciva a comprenderla.
“E
così…” iniziò,
inginocchiandosi per essere all’altezza
della bimba “…sei una dei Celesti”.
Usò lo stesso linguaggio
usato da lei.
“Cosa ci fai
qui?” volle sapere.
“Salva la mia
mamma!” piagnucolò la bambina, indicando la
lettera.
“Io non so leggere la
lingua dei Celesti. Tu non sai dirmi
niente?”.
Lei scosse il capo.
“Mi serve un libro dalla
biblioteca di Vereheveil” disse
Kasday, rialzandosi, e tornando ad usare la sua lingua.
“Vado io a
prenderlo!” si offrì Nosmagiés.
“No. Se vai tu, e chiedi di
quel volume, Momoia sarebbe
subito qui a ficcare il naso a destra e a sinistra. Questa è
l’ultima cosa che
voglio! Non deve sapere che una piccola Celeste è nostra
ospite”.
“Una piccola
Celeste?!” esclamò, stupito, l’angelo.
Osservò la bambina, non
trovandoci niente delle mostruosità
di cui parlavano gli Alti. Anzi, la trovò piuttosto carina.
“Ma allora, Signore, cosa
propone di fare?”.
“Devo andarci io, di
persona, e la bambina con me. Così
potrò celarla con la
mia barriera”.
“Barriera!” esclamò lei, alzando le mani
al cielo.
“Quanto
entusiasmo…”
biascicò Kasday, poco convinto.
“Che bello,
Signore!” iniziò l’angelo, sorridendo
“Che
bello, uscirete da qui! Finalmente…e non per andare alla
guerra!”.
“Guarda che non lo faccio
volentieri!” gli fece notare
Kasday, accigliato.
“Vedrete che poi ne sarete
felice!”.
“No. Ne sono sicuro. Ma
è questo quello che devo fare”.
“Vengo
anch’io?”
domandò il Messaggero, notando quanto il suo Signore uscisse
di controvoglia.
“No. Loro ti conoscono ed io non voglio problemi, o
scocciature, con nessuno.
Voglio passare inosservato. E poi…se Momoia dovesse venirmi
a cercare, mi serve
qualcuno che spari una cazzata qualsiasi per coprirmi”.
“Sissignore. Sono
bravissimo in questo”.
“Bravo”
sussurrò Kasday, accarezzando la testa all’angelo,
che sospirò. Aveva perso l’aureola anche per quel
motivo…
Nosmagiés aiutò
il suo padrone a vestirsi. L’Alto si coprì
il più possibile, mutando solo leggermente il suo aspetto
per non consumare
troppa magia. Con un
lungo mantello, la
veste ampia con strascico, i capelli nascosti nel cappuccio che faceva
ombra al
suo viso, ben poco si mostrava del suo corpo. Con lo stesso stile fu
vestita la
bambina, in modo da celare la sua evidente luce azzurra.
Con uno schiocco di dita,
l’Alto richiamò a sé due guardie,
alte, nere, con una lunga spada, senza volto ad eccezion fatta per la
bocca.
“Voi parlerete per
noi” ordinò, ed uscirono.
La luce del Sole abbagliò
Kasday, che serrò le palpebre e ci
mise un po’ per abituarsi. Zoppicava leggermente e,
sbuffando, si chiese se
effettivamente stava facendo la cosa giusta. Lasciò casa sua
con un sospiro. Nosmagiés
lo salutò con un
sorriso, ed una velata
sensazione di paura. Era preoccupato ma non ci pensò molto.
Dopotutto, che cosa
poteva accadergli? Rientrò nel palazzo, una volta che il suo
Signore fu
lontano. Ritrovò la sua pallina di carta stagnola e
ricominciò a giocare.
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Capitolo 12 *** XII- tradimento ***
XII
TRADIMENTO
Vereheveil sorrideva. Era nella sua
camera e guardava fuori
dalla finestra aperta. Si accarezzò i capelli verde acqua,
mentre un vento
leggero gli scompigliava la veste arancio. Osservava i suoi figli, che
giocavano nel cortile. Il bambino patito dei numeri e la sua sorellina
minore
si stavano rincorrendo fra le aiuole, ridendo. La loro madre, Dea della
Parola,
stringeva fra le braccia un fagottino addormentato, l’ultima
creatura da lei
nata in seguito all’unione con il Dio delle Letterature.
Vereheveil osservò la
donna ed il neonato con orgoglio. Kavahel urlava contro il fratello
Destino,
che si era appisolato sotto un albero mentre la sorella Kaos gli tirava
le
pigne. La giornata era piacevole ed assolata. Il Dio delle Letterature
chiuse
le tende, sentendosi chiamare.
“Chi
è?” domandò, sospettoso.
“Chi vuoi che
sia?” si sentì rispondere.
“Sarmorghell…sei
tu!”.
Il giovane, dai capelli corvini e
dallo sguardo orientale,
gli sorrise. La camicia di lino dell’angelo era larga,
stretta solo in
corrispondenza dei polsini, ed aperta. I grossi bottoni decorati
brillavano
alla luce del sole. L’ampia cintura con la fibula
d’oro sosteneva i pantaloni,
neri ed avvolgenti. Teneva le mani in tasca. Tolse gli stivali, alti e
con
borchie e cinghie, avvicinandosi al Dio delle Letterature. Vide la sua
schiena
fremere al contatto con le
sue ali
piumate e blu-verdi.
“Come hai fatto ad
entrare?” sussurrò Vereheveil.
“Mi hai dato le
chiavi” rispose Sarmorghell.
“Sì,
ma…come hai fatto a salire senza che mia moglie o i
miei figli ti vedessero?”.
“Io sono molto
discreto”.
“Questo è
certo…”.
Si osservarono, in silenzio.
Sarmorghell si perse
nell’osservare le diverse migliaia di
libri di quella stanza, e quella, in fondo, era anche piccola rispetto
alle altre.
Vereheveil, invece, osservò le movenze leggere
dell’angelo dai capelli neri. Ora
il Dio delle Letterature dava le spalle alla finestra, facendo agitare
dal
vento le piume delle sue ali nere.
Anch’io, un tempo,
ero un angelo come la creatura che mi
sta di fronte pensò,
appoggiato al
balcone.
“Cosa direbbe tua moglie,
se mi trovasse qui?” domandò
Sarmorghell, sfogliando un piccolo libricino rilegato.
“Non
saprei…intendi dire se sapesse di noi? Probabilmente si
arrabbierebbe…o forse non le
importerebbe per niente”.
“Che
amore…” commentò, sarcastico,
l’angelo.
Il Dio lo fissò con aria
interrogativa.
“Scusa ma a te che
importa?” chiese.
“Niente. Perché
ti sei sposato?” continuò l’angelo,
saltellando da uno scaffale all’altro della camera e
sbirciando i libri che
riteneva più interessanti.
“Che strana
domanda…” rispose il Dio.
“Ma dovuta. Tu non la
ami” esclamò il giovane dai capelli
corvini, con sicurezza.
“Mica ci avrei fatto dei
figli!” si difese Vereheveil.
“Balle. Tu l’hai
fatto solo perché eri stufo di stare da
solo”.
“In questo
caso…ti comunico che lo sono ancora. Se devo
proprio ammetterlo…”.
“Non ti basto
io?”.
L’angelo sorrideva nel
chiederglielo. Ma il Dio rimaneva
serio.
“Non lo
so…” rispose, chinando il capo.
“Oh, Vereheveil! Sei sempre
alla ricerca di qualcosa…o
qualcuno!” ridacchiò l’angelo.
“Ma è
vero!” protestò il Dio.
“Hai una bella famiglia,
una bella casa, una bella moglie ed
una bella vita. Ma
non ti basta! Che
altro vuoi?”.
Sarmorghell spalancò le
braccia, rassegnato.
“Ti importa
davvero?” esclamò, scocciato, Vereheveil.
Il giovane rimase in silenzio. Era
rimasto deluso da quella
domanda. Come poteva pensare che non gli importasse?!
“Sei crudele”
sussurrò, girandosi.
Vereheveil tentò di
scusarsi. Ma l’angelo si accigliò.
“Non ti rendi conto delle
meraviglie che ti appartengono”
esclamò, a braccia incrociate.
“E tu? Sono sicuro che
anche tu hai tante cose che…”.
“Ovvio. Io non le
disprezzo, a differenza di te!”.
“Tua sorella?”
azzardò il Dio.
“Io adoro mia sorella.
Anche se lei ora è con Luciherus a
spassarsela, e probabilmente la pensa come te”.
“Hai solo quella
sorella?”.
“No. Noi siamo in
tanti”.
“Quanti?”.
“Non lo
so…tanti!”.
Il Dio tentava di farlo sorridere di
nuovo, parlando del più
e del meno.
“Parlami della tua
famiglia. I tuoi genitori?”.
L’angelo rispose con
un'altra domanda: “E i tuoi?”.
“I miei sono morti,
tantissimo tempo fa”.
Sarmorghell guardava altrove.
“Vorrei farti un
regalo” esclamò il Dio, avviandosi verso la
sua scrivania in legno antico.
Ne aprì uno scomparto e ne
estrasse un pacchettino. L’angelo
lo fissò, con sospetto.
“Cos’è
quella faccia?! Non è mica una bomba!” lo derise
Vereheveil.
“Fai un regalo a
me…e non a tua moglie?”.
L’angelo si sedette in
terra, continuando a leggere.
Vereheveil non capì il suo atteggiamento.
Andò a sedersi accanto a
lui, abbassandogli il libro.
Scopertogli il viso, lo baciò lievemente.
“Adoro le tue labbra, i
tuoi occhi scuri ed i tuoi capelli”.
Sarmorghell non rispose subito. Poi
sospirò e sorrise: “Ed
io adoro le tua ali nere come la notte ed il tuo sguardo
dorato”.
Abbracciati, l’uno
all’altro, chiusero entrambi gli occhi.
“Tu non mi ami, Vereheveil,
lo sento!” gemette l’angelo.
“Ma che cosa
dici?!” esclamò, stupito, il Dio.
“Ieri
sera…” sospirò il giovane dai tratti
egiziani o
orientali “Ieri sera…tu mi hai chiamato Kasday. Lo
fai anche con tua moglie?
Quando le hai fatto concepire i tuoi figli, l’hai chiamata
con un nome
diverso?”.
Il Dio si scostò
dall’abbraccio, con una strana espressione.
“É stato un
errore…a volte capita! Ma non lo
faccio continuamente…”.
Sarmorghell si rabbuiò,
guardando il pavimento e rigirando
fra le mani il pacco regalo con il suo vistoso fiocco.
“Vieni a letto”
gli sussurrò il Dio all’orecchio, scostando
uno dei ciuffi più lunghi della pettinatura corvina.
L’angelo aprì il
regalo. Era un elegante bracciale in oro
con diverse pietre preziose incastonate.
“Ho cercato di trovare
delle pietre che si intonassero con la
collana che porti sempre” spiegò
Vereheveil, sedendosi sul letto.
Sarmorghell strinse la collana fra le
mani.
“É uno scarabeo
sacro dell’antico Egitto. Mi è stato
regalato da Anubis”.
“Anubis? Uno degli antichi
Dèi della Morte? Che meraviglia.
È davvero uno splendido gioiello”.
“Grazie. Anche quello che mi hai regalato tu
è meraviglioso. Ti ringrazio ”.
L’angelo indossò
il bracciale e sorrise, pur avendo sempre
una strana espressione perplessa.
“Tutti noi fratelli
indossiamo la stessa collana, o comunque
molto simile. Pulsa di luce azzurra al ritmo del nostro
cuore”.
“Vieni qui, accanto a me, e
mostramela da vicino”.
L’angelo si
alzò, lentamente, ed andò a sedersi accanto al
Dio, che lo abbracciò teneramente. Con le mani infilate
nella camicia
dell’angelo, il Dio chiuse gli occhi e sorrise. Il giovane
rimase immobile.
“Non mi dai nemmeno un bacio?” chiese Vereheveil,
baciando l’angelo sul collo.
Sarmorghell non reagì,
nemmeno quando il Dio gli tolse la
camicia.
“So che cosa
farai…” si limitò a mormorare.
“Davvero? Cosa ti
farò?”.
“Mi spoglierai ma poi non
arriverai fino in fondo, non ne
avrai il coraggio o la voglia. Eppure…io
sono un angelo. Sono asessuato e puoi fare ciò che vuoi con
il mio corpo…”.
Vereheveil non rispose. Non capiva
cosa avesse quel giovane.
Si sentì frustrato dal suo atteggiamento e lo respinse.
“Vattene!”
esclamò “Se non hai
voglia di stare qui, con me, allora va
via. Non ti ho detto io di venire fino a qua! Tornatene da dove sei
venuto! Se
invece sei qui per me, smettila di fare così”.
L’angelo sospirò ed il Dio si
sentì in colpa per ciò che aveva appena detto, ma
non trovava parole
per scusarsi. Inaspettatamente,
Sarmorghell si girò verso Vereheveil e lo baciò,
a lungo e ad occhi chiusi. Si
distesero entrambi, rimanendo in silenzio ed ascoltando, l’un
l’altro, il
battito del proprio cuore.
“Sta arrivando qualcuno
dalle scale!” esclamò l’angelo,
alzandosi.
Cercò la camicia di lino e
si rivestì, andando in un angolo,
nel buio. Vereheveil si accertò che non si potesse vedere e
poi sentì la porta
aprirsi. Entrò il piccolo Dio dei Numeri.
“Papà…”
esclamò il bambino, sorridendo “…ci
sono dei tizi di
sotto che vogliono parlare con te”.
Il Dio delle Letterature fece un
cenno, dando segnale che
aveva capito.
“Dì loro che
arrivo subito” rispose.
Il bambino annuì e
lasciò la stanza. Vereheveil chiuse la
porta e guardò verso il buio.
“Puoi uscire adesso,
Sarmorghell”.
L’angelo uscì
dall’ombra. “Và, che di sotto ti
aspettano”
disse il giovane.
“Vieni anche tu! Fai un
giro per dietro ed entra dalla porta
che dà sulla mia classe. Presentati come mio allievo. Sarei
felice di mostrarti
come i miei preziosi consigli aiutano delle
persone…”. L’angelo scosse la
testa, poco convinto.
“Mia sorella mi
aspetta…”.
“Ma se è con
Luciherus…avrai molto da aspettare!”.
Il Dio ridacchiò,
specchiandosi. Si stava sistemando la
veste e i capelli, riflettendosi sullo specchio, grande come la sua
intera
figura.
“Non serve che stai tanto a
sistemarti. Non ti ho
spettinato!”.
“Quanto sei cinico oggi,
Sarmy!”.
L’angelo
sghignazzò, quasi malvagiamente:
“Muoviti…”.
“Ok. Vado. Ma tu
raggiungimi, mi raccomando!”.
Sarmorghell non disse niente e si
limitò a fare un cenno con
il capo.
Il Dio uscì felice,
chiudendo la porta dietro di sé.
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Capitolo 13 *** XIII- risposte ***
XIII
RISPOSTE
Kasday camminava a testa bassa,
evitando ogni sguardo.
Cercando rifugio fra le ombre, avanzava, scortato. La bambina faceva
fatica a
tenere il suo passo e protestò, ma l’Alto le fece
segno di tacere.
Per la prima volta, dalla nascita dei
gemelli, egli si
ritrovava a passeggiare per uno dei Mondi da lui stesso creati. Non si
stupì di
tutti i cambiamenti che avevano compiuto le sue creature ed i suoi
popoli.
Facevano tutti parte della loro evoluzione e del loro cammino. La
natura lo
riconosceva. Gli alberi protendevano i rami verso il loro creatore ed i
fiori
sbocciavano al suo passaggio. Kasday sorrise, leggermente.
Notò con sollievo
che il paesaggio era stato deturpato pochissimo per la costruzione
delle case e
che le strade erano avvolte dal verde.
Alzò gli occhi. La
capitale, lungo la quale stava passando,
era addobbata a festa. La gente per strada era serena ed aleggiava un
clima
d’attesa, di speranza. Un bambino quasi fu addosso al
gruppetto. Si scostò
appena in tempo e si allontanò ridendo.
Quello che l’Alto non
capiva, ma approvava, era il fatto che
le divinità avevano deciso di non vivere più in
un Pianeta abitato
esclusivamente da loro ma di edificare i loro palazzi fra i credenti, i
mortali. Si erano così un po’ sparpagliati fra gli
Universi, pur mantenendo un
costante contatto. Kasday sapeva quali Dèi dimorassero sul
Mondo in cui ora
stava camminando, il primo da lui creato e quello in cui anche lui
risiedeva.
Era soddisfatto di poter notare come la capitale fosse divenuta un
importantissimo centro culturale, piena di scuole di livello elevato,
biblioteche e prestigiosi palazzi. Capiva che questo era potuto
succedere solo
grazie alla presenza costante del Dio delle Letterature, accompagnato
dalla Dea
della Parola, dal Dio del Tempo e dalla sua consorte Memoria. Tutti
loro
contribuivano a creare la Storia e la Sapienza. L’Alto era
piuttosto tronfio
del fatto che il suo Pianeta più amato fosse anche quello
più pregevole, sotto
vari aspetti e punti di vista. La città era dinamica, piena
di giovani e
studenti, ma quel giorno non se ne poteva vedere molti. La maggior
parte delle
attività erano sospese, alla vigilia del più
importante giorno di festa degli
Universi. Kasday se l’era scordato. Festeggiavano la sua
nascita! L’Alto
sogghignò.
“Buon compleanno a
me” si disse, sottovoce.
Non capiva perché quel
giorno fosse considerato il più
sacro. Secondo la sua ottica era molto più importante la
fine della guerra fra
l’antico Kaos e la passata Dea del Destino. Perché
perdere tempo commemorando
la sua venuta fra i Mondi? Ma poi, pensandoci meglio, si rispose da
solo: ci sarà
sempre qualche nuova battaglia. Altrimenti sua madre, Dea della Guerra,
che ci
stava a fare?
Continuò ad avanzare,
esortando la piccola Celeste a non
distanziarsi dal gruppo. La bambina sorrise, osservando le luci
colorate e gli
addobbi luminescenti. Uno sciame di insetti di vario tipo, dalle
ronzanti api
alle variopinte farfalle, si alzò, dal prato in cui
l’Alto poggiava i piedi e
dalle aiuole fiorite e, sbatacchiando le ali, tentarono di raggiungere
Kasday.
Lui si limitò a girare gli occhi e lo sciame
cambiò direzione, avvolgendo un
ragazzo seduto accanto ad una fontana. Questi scoppiò a
ridere.
“Che avete oggi? Mi fate il
solletico!” protestò,
scuotendosi.
I capelli lunghi del giovane si
sciolsero, mentre lui
muoveva il capo per liberarsi dalle farfalle.
“Kavahel…” sussurrarono le due
guardie al seguito dell’Alto, percependo i pensieri del loro
padrone.
“Sì, sono
io” rispose il ragazzo, sorridendo.
I suoi occhi dorati brillavano alla
luce del giorno come mai
prima d’ora. Era di splendido umore. “Ci
conosciamo, signori?” continuò poi,
scuotendo le ali blu per far desistere le ultime api che lo credevano
un fiore.
“Siete il figlio di
Vereheveil. Stiamo cercando lui”
risposero, in coro, le guardie.
Kavahel annuì. Fra le mani
stringeva un cestino, colmo di
biscotti caldi.
“Sono suo figlio.
Secondogenito in famiglia, primogenito di
sangue. Seguitemi, vi accompagno da lui”.
Molte persone salutarono il giovane
Dio, lungo la via.
“Buongiorno! Come state
oggi?” domandò un uomo sulla
quarantina, vestito elegante.
“A meraviglia”
rispose il Dio.
“A casa tutto
bene?” chiese una donna, per mano al suo
bambino.
“Benissimo. Stanno tutti
splendidamente, grazie!”.
Da varie parti giunsero richieste di
saluto per la famiglia
e Kavahel, con piccoli inchini, sorrise a tutti. Era davvero di ottimo
umore.
“Per di qua,
prego” disse all’Alto, alla Celeste ed ai due
guardiani “Oggi abbiamo un po’ di gente in
casa…spero non sia un problema!”.
Non ricevette risposta.
“Da dove venite? E chi
siete? Ovviamente non siete dei
mortali…si vede subito!”.
La curiosità del giovane
non venne soddisfatta ma la bimba
gli sorrise.
“Vuoi un biscotto,
piccola?” offrì Kavahel e la Celeste
accettò volentieri, leccandosi i baffi.
Era davvero delizioso.
“Il nostro padrone ha una
certa fretta” sbottò uno dei
guardiani.
“Capisco…”
disse Kavahel, girando le braccia dietro la
schiena “…una domanda: che creature siete? Non ho
mai visto nessuno come
voi…con un buco al posto della faccia!”.
I senza volto storsero la bocca,
senza replicare.
“Sono solo
curioso…non offendetevi…”.
Accelerarono il passo, giungendo nel
cortile della casa di
Vereheveil. La Dea del Kaos ed il Destino litigavano, come sempre.
“Basta, idioti!”
li rimproverò Kavahel.
Kasday li osservò con
tenerezza. Come erano diventati grandi
e belli i suoi figli! La piccola Celeste andò a nascondersi
fra la veste
dell’Alto.
“Cosa
c’è piccina?” domandò il
nuovo Equilibrio, apprensivo
“Hai paura dei miei due fratelli? Guarda che, anche se urlano
tanto, sono
inoffensivi. Sono solo degli imbecilli”.
La bambina scosse la testa,
rintanandosi ancora di più.
“Io ti conosco?”
domandò la Dea del Kaos, avvicinandosi a
Kasday.
La piccola divinità dai
capelli corti fu fermata dalle due
guardie.
“Sono sicura di averti
già visto da qualche parte…”
continuò
lei.
“Signorina”
esclamarono i guardiani, allontanandola.
“Chi sei?”.
“La
prego…” di nuovo le guardie.
“Perché
rispondete voi al posto suo?! Non sto parlando con
voi!” esclamò la Dea.
Kavahel la prese per le spalle:
“Cercano nostro padre. Ed il
signore non parla. Questi due soldati sono la sua voce”.
“Mi
scusi…” mormorò lei, mortificata
“…ma volevo soltanto
sapere se…”.
“Basta domande!”
la interruppe il fratello maggiore “Và a
chiamare papà!”.
“Manda i piccoli. Io ho da
fare…” la Dea guardò in alto,
verso la finestra della camera del padre “…e anche
papà”.
Accompagnò la frase con un
sorrisetto ironico. Kavahel seguì
il suo sguardo.
“C’è
ancora quell’uomo?” domandò.
Il Kaos annuì. Il fratello
scosse il capo, in segno di
disapprovazione.
“Cosa
c’è, tesoro?” chiese la Dea delle
Parole, facendosi
avanti con un neonato in braccio.
“Niente” le
rispose il figliastro “Questi signori cercano
papà”.
“Ho mandato il piccolo a
chiamarlo” rispose lei “Almeno che
esca ogni tanto da quella stanza, lui ed i suoi libri!”.
La Dea guardò gli
sconosciuti, invitandoli ad entrare: “Mio
marito sarà qui a momenti. Accomodatevi intanto”.
Dopo averli fatti sedere, lei se ne
andò, a passo svelto,
per i corridoi di casa.
“Secondo te, fratellone,
lei non capisce o fa solo finta?”.
“Ti riferisci al fatto che
papà abbia strani e diversi
interessi? Non lo so e, sinceramente, non mi importa”
rispose, acido, lui.
“Capita. Quando ci si sposa
per vendetta” ghignò una delle
guardie, malignamente.
“Come?!”
esclamò la Dea del Kaos.
“Niente. Ripeto che abbiamo
fretta” disse l’altra guardia.
Nel salotto, dove i quattro ospiti
erano stati fatti
accomodare, stavano seduti anche Agares e Fleavia, ridevano assieme,
davanti ad
una tazza di tè. L’arrivo di Kavahel, con i
biscotti, fu più che mai gradito.
“Vieni cognato”
lo invitò Agares. “Porta qui le tue
delizie!”.
“Volentieri”
rispose lui, lasciando un mucchietto di dolci
in un piattino davanti alla bambina, che gradì molto.
Iniziò a mangiare con
gusto.
“É bello vedere
qualcuno mangiare con così tanto entusiasmo.
Di cosa stavate discutendo?” chiese il giovane Equilibrio,
rivolto alla coppia,
che aveva iniziato ad intingere
i
biscotti nel tè.
Il bambino fissato con i numeri riferì
la quantità esatta di dolci
presenti e poi comunicò a tutti che il Dio delle Letterature
stava arrivando.
Poi uscì di nuovo a giocare.
“Stavamo discutendo di
questioni di famiglia” disse Agares,
addentando un altro biscotto.
Kavahel pensò che era
sempre comico vedere un demone
mangiare cose del genere.
“Questioni di famiglia?
Tipo?” volle sapere il Dio del
Destino.
“Lo saprai sicuramente che
Luciheday si vuole sposare”
iniziò Fleavia, rubando un dolce al marito Agares.
“Buon per lei. In fondo, ha
l’età giusta” commentò
Kavahel.
“Sì, ma non sai
con chi! Con il Dio della Vita!”.
“Si intuiva”
esclamò Skrich “Alla riunione erano
così…intimi!”.
“Non ti ho ancora
raccontato la faccia dello zio quando l’ha
saputo!” ridacchiò Agares “Dovevate
vedere che faccia ha fatto! Ah! Che
espressione!”.
“É
comprensibile. È la sua unica figlia e vedersela portar
via da un individuo così lontano dal suo
ideale…” disse Kavahel, sorseggiando
il tè.
“Che si fotta! Non
è mica il padre a decidere!” sibilò la
Dea del Kaos.
“Meno male!” rise
Agares “Non oso immaginare che cosa pensa
tuo padre, moglie mia, di me!”. Fleavia sorrise.
“Lo vuoi sapere? Pensa che
sei un grosso demone pettegolo!”
esclamò Vereheveil, entrando nella stanza.
“Buona giornata, mio bel
suocerino!” lo salutò il demone.
“Salute a te, Agares. Cosa
ti porta qui?”.
“Io vivo qui!”.
“Questo lo so. Ma,
solitamente, te ne vai sempre in giro con
la tua padrona”.
“Non è la mia
padrona! È la mia sorellina, la Dea della
Morte, Luciheday! Io sono il suo messaggero! Non il suo
schiavo…” protestò
Agares “E, comunque, oggi lei è dal suo futuro
sposo a sistemare gli ultimi
dettagli, presto andranno nel mondo degli angeli ad ufficializzare
l’unione.
Non ha bisogno di me. Perciò me ne sto un po’ a
casa. Ti dispiace?”.
“Certo che no. Che
soddisfazione…Luciherus che cerca invano
di far cambiare idea alla figlia e questa si sposa addirittura nel
regno degli
Angeli!”.
Rise e poi osservò i
quattro estranei: “Chi sono i nostri
ospiti, figlio?”.
“Sono qui per parlare con
te” rispose il giovane Destino.
“Bene. Datemi solo un
attimo”. Il Dio delle Letterature
passò una busta alla figlia Fleavia: “Mia
messaggera, mi spiace disturbarti, ma
potresti consegnare questo ai Serafini-capo del Mondo degli Angeli?
È una
lettera in cui chiedo spiegazioni della persistente assenza di Rahahel
dalle
lezioni che dovrebbe svolgere. Sono stufo di fargli da
supplente!”.
Lei prese il plico fra le mani ed
uscì, seguita da Agares
che si era offerto di accompagnarla.
“Cosa posso fare per
Voi?” domandò Vereheveil, una volta che
la coppia si fu allontanata. “Cerchiamo un libro”
iniziò a parlare una delle
guardie.
“Si intitola "La luce dei
Celesti". Sappiamo che è
stato visto da queste parti” concluse la seconda guardia.
“Per farvene cosa di un
libro del genere?” domandò,
sospettoso, il Dio dalle ali nere, accarezzando i pomelli della sedia
su cui
stava appoggiato.
“Saranno i nostri prossimi
nemici in battaglia! Permetterà
che ci venga concesso di sapere un po’ di più
sull’argomento e non solo le
cretinate che gli Alti ci propinano…”
sentenziò il primo guardiano.
“Cretinate?” sibilò Vereheveil,
accigliato.
“Sì.
Cretinate!” confermò il secondo guardiano.
Il Dio delle Letterature parve
perplesso ma non fece
commenti.
“Capisco. Datemi solo un
minuto. Vado nella mia biblioteca a
controllare dove sta”.
“Grazie”
risposero, coralmente, le guardie.
Il Dio delle Letterature
sparì fra i corridoi. La moglie,
vedendolo, lo seguì.
“Tesoro…”
lo chiamò lei, sottovoce “Tesoro…non mi
piacciono
quei quattro di là. Sono inquietanti. Uno neanche parla!
Sono così…tetri! Chi
sono? E poi…cercano cose sui Celesti”.
Il Dio la rassicurò:
“Tranquilla, moglie mia. Il libro che
vogliono non è qui. È nel palazzo di Luciherus.
Li porterò da lui e vedrai che
andrà tutto bene. Anche a me non piacciono
molto…mi spaventano. Vieni, fingiamo
di cercare quel libro per un po’!”.
Che chiacchierona ed
impicciona si disse
Kasday. I suoi pensieri erano chiaramente percepibili dalle guardie,
che
sorrisero. Speravo non ci fosse quella bocca larga! In un
attimo, tutti gli
Dèi sapranno che un coso spaventevole ed incappucciato
è venuto a chiedere un
libro sugli innominabili Celesti! Con un po’ di fortuna,
Momoia e gli altri
Alti dovrebbero ignorarli, come sempre, e non venire a conoscenza della
cosa. Le
guardie sorrisero di nuovo.
“Perché
non facciamo tradurre la lettera direttamente a
Vereheveil? “si chiese un guardiano.
Sei un genio! Si vede che
hai un buco al posto di buona
parte della faccia! Rispose, sempre nella sua mente,
l’Alto. Così
facendo la signora “chiacchiericcio vano ed
inutile” scopre cos’è, dato che
Vereheveil non è in grado di mantenere un segreto. Ed ecco
che Momoia scopre la
verità sulla piccola e
me la ritrovo fra
le palle, lei ed i suoi amichetti. Spero di avere un po’
più di tempo…
Le due guardie annuirono. Le giovani
divinità che abitavano
nella casa, osservavano i quattro con curiosità.
“Scusi la
domanda…” iniziò la Dea del Kaos,
rivolta a Kasday
“…ma Voi…perché non parlate?
Siete muto? Oppure siete come mio zio, il Dio
della Paura, che non parla per colpa del nonno Kaos? Cosa Vi impedisce
di
proferire parola? E come fanno le due guardie a capire esattamente cosa
devono
dire per Voi?”.
“Siete molto
curiosa!” iniziò una guardia “Questo
è un bene,
a volte. Ma può essere anche una fonte di guai. Sono
successe un sacco di cose
brutte negli Universi a causa dell’eccessiva
curiosità…”.
“Significa: fatti i cazzi
tuoi, sorellina!” ridacchiò
Kavahel.
Una risatina fece girare tutti quanti
verso l’entrata
secondaria. Sarmorghell era entrato, con le mani in tasca e le ali
leggermente
scompigliate.
“Dov’è
il mio maestro?” chiese, sistemandosi i capelli.
“Di là. Con sua
moglie” rispose il giovane Destino, marcando
il tono sulla parola “moglie”. “Simpatici
come sempre, voi tre” commentò
l’angelo dalle ali blu-verdi, prendendo un biscotto e
mangiucchiandoselo con
gusto. La bambina gli sorrise.
“Che bella
bimba!” esclamò lui, estasiato “Sei
proprio
bella! Come ti chiami? Da dove vieni?”.
La piccola non rispose,
accoccolandosi accanto a Kasday,
timorosa.
“Come sta tua
sorella?” chiese uno dei guardiani all’angelo,
che cercava di far capire alla Celeste che non era pericoloso, facendo
giochetti con le piume.
“É da un
po’ che non la si vede in giro…”
continuò l’altra
guardia.
“É fatta
così. Credo sia dal demone” fu la
risposta.
“Tutti conoscono tua
sorella! Dev’essere proprio una
grandissima puttana!” esclamò Kavahel.
“Certo che…a voi l’educazione non
l’ha
insegnata nessuno!” commentò Sarmorghell.
“Noi siamo educatissimi. Ma
ci capita di essere un po’
sgarbati con chi viene qui a fare il latin lover con nostro
padre!” proseguì la
Dea del Kaos.
“Pensatela come volete,
ragazzini viziati, ma
se vostro padre non desiderasse la mia
presenza.. io non sarei qui”.
“Chissà cosa gli
hai fatto!” lo accusò il Destino.
“Niente. Semplicemente gli
piaccio!”.
“A nostro padre piace la
Dea delle Parole. Lui ama lei e
basta!” esclamò Kavahel.
Kasday e le guardie trattennero a
stento una risata
divertita.
“Lui non è un
traditore!” disse il Kaos.
“Tutti lo sono! Dal primo
all’ultimo” commentarono,
sibilando, i guardiani.
Guardarono poi, preoccupati, il loro
padrone che lanciava
segnali inequivocabili di gelosia e rabbia. Sarmorghell si
avvicinò all’Alto,
mettendosi dietro la sua sedia e appoggiandogli le mani sulle spalle.
“Tu non sei
così!” gli disse, abbracciandolo.
“Io sono il peggiore di
tutti” mormorò Kasday, con voce
bassa e raschiante.
L’angelo e l’Alto
si sfiorarono, con il
capo, e poi Sarmorghell si allontanò di
poco, con un lieve passo di danza. I giovani Dei li guardarono,
interdetti.
“Ma allora
parli…” commentò la Dea del Kaos,
rivolto a
Kasday, e gli altri lanciarono occhiatacce ai due.
“Tranquilli, ragazzini.
Siamo solo amici di vecchia data” li
rassicurò Sarmorghell.
“Mi auguro solo
amici…e nulla di più!”
ridacchiò,
sarcastico, il giovane Equilibrio.
“Consolati. Io non ho
un cuore. Non posso amare” sussurrò
l’Alto.
Vereheveil rientrò:
“Devo comunicarvi che il libro che
cercate non si trova qui, ma al palazzo di Luciherus. Sarò
lieto di
accompagnarvi da lui. È un po’ restio nel far
entrare estranei nei suoi
possedimenti, ma con la mia guida potrete entrare senza problemi e
avrete di
sicuro il permesso di gironzolare nella sua biblioteca”.
Le guardie fecero un cenno con il
capo, ringraziando.
“Quando saremo in grado di
andare? Avremmo una certa fretta”
esclamarono.
“Anche subito. Fatemi solo
mettere un abito adatto…”.
Il Dio si allontanò di
nuovo, verso le sue stanze.
“Sta attento amore
mio” gli disse la Dea delle Parole,
apprensiva.
“Stia tranquilla, signora.
Non lo voglio mangiare!” ironizzò
Kasday, ma la Dea non si sentì rassicurata.
Vereheveil riapparve con un
elegantissimo abito nero e oro,
a ricchi ricami, molto simile alla veste di un angelo ma più
elaborata. L’Alto
sospirò osservandolo, gli mancavano molte cose di lui ma
ormai doveva farsene
una ragione: tutte quelle cose erano perdute per sempre.
Il Dio delle Letterature fece alzare
i suoi ospiti. Con una
sola parola, aprì il portale luminoso che li avrebbe portati
al palazzo del
Principe. Kasday e le guardie sorrisero: da quanto tempo non vedeva ed
usava un
portale! Il quadro nella sua abitazione era pratico ma bastava poco per
perdersi. Una distrazione o un qualsiasi altro imprevisto, come un
attimo di
stanchezza, e si sbagliava obiettivo, ritrovandosi chissà
dove. Il portale era
più complesso in principio, bisognava ricordare per bene
tutti i diversi
disegni per comporlo ma poi, se era disegnato nel modo corretto,
l’arrivo era
assicurato e nel posto corretto. L’Alto prese in braccio la
bambina, mentre
Sarmorghell si univa al gruppo per andare dalla sorella. La magia li
avvolse.
Attraversarono il simbolo magico, si lasciarono condurre dalla corrente
di
energia scintillante ed in un attimo si ritrovarono davanti al portone
della
dimora del Principe. Kasday si guardò attorno. Quasi nulla
era cambiato
dall’ultima volta in cui era stato lì. La cosa che
più si notava era il simbolo
del Kaos, una volta enorme e sovrastante la struttura, a ricordare che
quel
pianeta faceva parte del suo Universo. Era un Pianeta che era stato
creato
dall’antico Dio del Kaos, il padre di Kasday. A volte
l’Alto poteva ancora sentire
la voce di lui nella testa, anche se raramente. In quel momento,
accanto a quel
simbolo nero ed a spirale, ora più piccolo, campeggiava un
altro segno, rosso
come il sangue. Era il glifo del Dio della Forza e del Coraggio.
Entrambi i
simboli si illuminarono di una luce più intensa, a salutare
il proprietario
degli Universi: Kasday. Questi tentò invano di farli
spegnere. I demoni erano
in festa e c’era un gran baccano.
“Da questa parte”
disse Vereheveil, con un segno della mano.
Così Kasday, le due
guardie, la bambina, Sarmorghell e Vereheveil
entrarono nel palazzo. Non subirono controlli o segni di ferma. Essendo
Dèi, i
demoni che sorvegliavano i cancelli li fecero passare, senza problemi.
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Capitolo 14 *** XIV- riflessioni ***
XIV
RIFLESSIONI
“Senti
com’è felice il tuo popolo!”
esclamò Shekinah, seduta
sul letto di Luciherus.
Il Principe osservava il tutto da una
piccola finestra.
“Non so come dargli torto.
Ho appena detto loro che il loro
capo, cioè io, è giustappunto diventato un Dio!
Si esaltano per una ragione!”
commentò il demone, sorridendo.
“Com’è
essere un Dio? Come
ti aspettavi?” chiese lei.
“Meglio, mia
principessa!”.
Lui iniziò a baciarla e la
stese, delicatamente, sul letto.
“Sei sempre pieno di
energia!” sussurrò lei.
“Se non lo sono
io…chi altro dev’esserlo?”.
“Mi fai solletico con la
coda!” ridacchiò lei, girando la
testa per dare più spazio ai baci di lui.
“É felice e si
agita. Che vuoi farci…”.
Si sorrisero, mentre il Principe
faceva scivolare via la
veste bianca a lustrini di lei.
“Sei proprio bellissima,
mia principessa” mormorò, fra un
bacio e l’altro lungo il corpo di Shekinah. “E tu
sei un drago, mio Principe!”.
“Un drago?!” rise
lui, sopra di lei.
“Aspetta!” lo
fermò la donna.
“Cosa
c’è?”.
“C’è
qualcuno!” bisbigliò lei.
“Dove?” chiese
lui, senza distogliere lo sguardo da quei due
occhi viola.
“Non lo so…ma lo
avverto chiaramente!”.
“É impossibile
che ci sia qualcuno qua dentro!”.
“Eppure…”.
Luciherus si alzò sulle
ginocchia e si guardò attorno.
Espanse la luce del suo corpo, illuminando tutti gli anfratti della
camera.
Solo in questo modo il demone poté notare che, in un angolo,
stava rannicchiata
una creatura, dai capelli biondi arruffati e l’aria triste.
Se ne stava
raggomitolata, con una rosa in mano, con lo sguardo perso nel vuoto.
“Rahahel!”
tuonò il Principe, in piedi sul letto “Da quanto
sei lì? E chi ti ha fatto entrare?”.
L’Arcangelo, come uscito da un sogno, si
girò di scatto verso Luciherus.
“Eh? Ah, sei tu. Ciao. Sono
qui…credo…da stamattina”
biascicò Rahahel.
“E cosa aspettavi a far
notare la tua presenza?” sibilò il
demone, non nascondendo il suo fastidio.
“Veramente…mi aspettavo che tu non te
ne accorgessi!”.
“Brutto
guardone!” ringhiò il Principe, scendendo dal
talamo
ed afferrando l’Arcangelo per il collo. Il piumato non
capì la reazione del
padrone di casa. Il demone mise l’intruso a pancia
all’aria sul grande letto a
baldacchino.
“Buona sera,
signorina” salutò, educatamente, Rahahel,
rivolto a Shekinah che gli stava accanto, coperta solamente da un
piccolo
lenzuolo di seta nera.
Luciherus balzò sul ventre
dell’Arcangelo e gli immobilizzò
le braccia con le grandi mani ungulate. Spalancò le ali da
demone, coprendo la
luce del sole entrante dalla finestra.
“Così ti piace
guardare, eh? Piccolo maniaco…” disse, con un
ghigno.
“Io non guardavo niente!
Lasciami!” si lamentò Rahahel.
“Ringrazia che ho ancora i
pantaloni addosso…altrimenti ti
rendevo partecipe!”.
L’Arcangelo urlò
terrorizzato ed iniziò a dimenarsi. Poi si
fermò: “Ma…in che modo? Io sono
asessuato!”.
“Ho i miei
metodi” sussurrò il demone, mostrando la punta
della coda.
Rahahel ricominciò a
gridare e dibattersi. “Lasciami!
Lasciami!” supplicò.
“Dai, mio Principe!
Lascialo andare. Ha l’aria triste. Deve
avere dei problemi” affermò Shekinah, con aria di
rimprovero.
“Problemi? Che problemi
puoi avere tu, angioletto?”
ridacchiò Luciherus “Problemi con le
donne?”.
L’Arcangelo
annuì e il Principe se ne stupì.
“Tu?! Problemi con le
donne?! Non hai le palle, in tutti i
sensi, per avere una donna!!”.
Rise, malignamente, e poi si avvicino
con il viso a Rahahel.
“Ringrazia la signora che
mi ha interrotto, prima che ti
torturassi!” sussurrò.
“Idiota!” aggiunse in seguito, cambiando la sua
voce. Parlava
come quando era anch’egli un Arcangelo.
Rahahel spalancò gli
occhi, dopo averli serrati per la
paura. Ora, davanti a lui, non stava più il Principe dei
Demoni ma l’Arcangelo
più bello. Luciherus aveva mutato il suo aspetto ed i due
piumati si
osservavano con grandi occhi lucenti. L’Arcangelo dagli occhi
grigi, Rahahel,
deglutì incrociando quelli arancio di colui che gli stava
sopra. Ricordava
com’era stato, nel passato, il padrone di casa e si
meravigliò di come fosse
rimasto il più splendido. Lo ricordava
chiaramente…con la spada fra le mani,
pronto a far valere le sue idee. Inaspettatamente, Luciherus si
abbassò,
piegandosi sulle braccia, fino a quando le loro labbra si sfiorarono.
La
creatura bionda non riusciva a distogliere lo sguardo, né a
reagire, incantata.
“Ti si stanno scurendo le
ali…colpa mia! Devi andartene da
qui” mormorò il Principe.
“Lascialo
andare!” ordinò Shekinah.
Il demone, tornando gradatamente al
suo aspetto normale, si
tolse da sopra l’Arcangelo.
“Non essere gelosa. Non mi
eccita! Sei tu la mia fonte di
ispirazione!” rise Luciherus, abbracciando la donna con
trasporto.
“Basta
adesso…” protestò lei
“…e parla con lui!”.
“Ma perché
dovrei? Non sono mica il suo psicanalista!”.
“Non mi serve la
psicanalisi!” protestò Rahahel, rimanendo
disteso ma girando la testa.
Osservò lei, mentre si
alzava per rivestirsi.
“Hei tu! Non
sbirciare!” borbottò il demone, tappandogli gli
occhi.
“Sei geloso?” lo
schernì il piumato.
“No. Ma se fai certi
pensieri poi cadi e non riuscirò mai
più a liberarmi di te!”.
Quando Shekinah fu vestita, la mano
fu tolta e l’Arcangelo
tornò a fissare il vuoto.
“Cosa ti porta qui,
piumino? Non ti avevo detto di tornare
dai tuoi amichetti Arcangeli?”.
“L’ho fatto. Ma
poi sono tornato qua”.
“E non avevi un altro
momento per farlo?” ringhiò,
scocciato, il demone.
Cercò di accendersi una
sigaretta ma Rahahel gli tolse
l’accendino dalle mani.
“Ridammelo!”
tuonò il Principe.
“No! Il fumo mi da
fastidio!”.
“Non è un
problema mio! Vattene fuori se non lo sopporti”.
“No! No! Non mandarmi
via!”.
L’Arcangelo
balzò in piedi ed abbracciò Luciherus, che
lasciò cadere le braccia, altamente perplesso, biascicando
bestemmie e non
molto velate minacce.
Lei rise: “Che
carino…” disse, con tenerezza.
“Non mandarmi
via!” supplicò Rahahel “Sto tanto male!
Ho
bisogno di te!”.
Il demone si divincolò ma
non riuscì a liberarsi
dall’abbraccio del piumato.
“Di me? Ne sei proprio
sicuro?” chiese, con un ghigno.
“Sì, di te! Tu
mi dai coraggio” si giustificò l’angelo,
ad
occhi chiusi.
“Ovvio. Ma se non ti
stacchi potrei anche darti, oltre che
al coraggio, una rapida morte!”.
“Oh, non so se, a volte,
desiderarla sarebbe giusto”.
“Che dici?! Sei drogato o
cosa?! Se non mi lasci ti spezzo
le braccia!”.
Rahahel lo strinse più
forte.
“Tu sei
così…come non sono io!”
mormorò l’Arcangelo “Il tuo
corpo…” continuò
“…è così…da
maschio! Così forte, così vigoroso,
così…”.
“Che?! No,
senti…dico sul serio…sto per farti molto
male!”.
“Vorrei avere il tuo
corpo”.
Con un sospiro, la creatura
guaritrice lasciò il Principe.
“Con quella
faccia?!” lo derise Luciherus “Faresti
schifo!”.
“Ti invidio”
bisbigliò, a testa china, il biondo.
“Non so come darti torto.
Ma mi sento rassicurato…per un
attimo ho temuto che i tuoi pensieri fossero altri!”.
L’Arcangelo
tornò ad abbracciarlo. “Prometti di
aiutarmi?”
gemette.
“Solo se non mi
tocchi!”.
Rahahel lo lasciò
immediatamente.
“Dimmi,
Rahahellino…che problemi hai?”.
“Mi serve
coraggio”.
“Come il leone del mago di
Oz. Ma tu, secondo me, sei un
caso disperato”.
“Sei crudele”
piagnucolò l’Arcangelo, allontanandosi dal
demone e sedendosi sul letto.
“Ovvio!”
ridacchiò Luciherus “A che ti serve il
coraggio?”
tentò di informarsi, cercando nella stanza un altro
accendino.
“Voglio prendere una
decisione e seguirla fino in fondo,
senza avere paura”.
“Notevole progetto, ma mi
servono più informazioni. Per
aiutarti, vorrei avere più dettagli…”.
“Sai già la
storia…”.
“Davvero?!”.
“Sì!”.
“Non
dirmelo…Sarah?! Ancora quella femmina?!”.
L’Arcangelo
annuì, sempre a testa bassa.
“Scusa ma…che
problema c’è? Cosa ti trattiene? Va da lei e
dille cosa provi”.
“Ho sentito pareri
discordanti…” Rahahel muoveva le mani,
nervosamente, e guardava il vuoto “…non so che
decisione prendere”.
“Tu cosa vorresti fare,
esattamente?”. Il demone sorrise,
soddisfatto della sua sigaretta, accesa da Shekinah.
“Voglio…divenire
un caduto!”.
“Fuori discussione!
È una cosa stupida!” esclamò il
Principe, con decisione.
“Stupida?!”.
“Oh, sì! Molto
stupida! Perché colei che tu desideri è una
mortale, una creatura priva di magia, e non un demone! E tu, cadendo,
diverrai
una cosa tremenda ai suoi occhi. Perderai la tua bellezza angelica ed
il tuo
cuore puro. Ricorda che ben poche donne sono così pazze da
scegliere un demone
come compagno. Forse come amante…ma nulla di
più”.
“Posso divenire un angelo
nero. O un mortale…”.
“Sei sulla buona
strada…” commentò, sarcastico, il
demone.
“Lo so”.
“Altra cosa stupida!
Rinunciare alla tua immortalità attuale
per una femmina priva di potere magico? Assurdo!”.
“Ma se diventassi una
creatura come lei…”.
“E
perché?” lo interruppe Luciherus, dopo una boccata
di
fumo “Avresti una vita breve, lei è sposata e la
attenderesti per tutta la
vita. Attenderai, invano, che ricambi i tuoi sentimenti e nel frattempo
gli
anni passeranno, la vedrai invecchiare e così, in un baleno,
ti ritroverai a
morire solo, triste e…”.
“É vero, non ne
vale la pena!” si intromise Shekinah.
“Senza contare il
fatto…” riprese Luciherus
“…che hai ancora
l’eternità davanti. Dannarsi tanto per una
creaturina così patetica! Ne
troverai altre come lei!”.
“Come lei
nessuna!” affermò Rahahel, con rabbia.
“Dicono tutti
così. La verità è che basta guardarsi
in giro
per trovarne altre uguali. Basta cercare…e neanche
tanto!”.
“Ma lei non dice
niente?” sbottò l’Arcangelo, guardando
Shekinah, girando la testa “Offende le donne!”.
Lei alzò le spalle, con un
sorriso. “Anche per gli uomini
vale lo stesso. Credi di aver trovato una cosa unica ed irripetibile,
ma in
realtà non è mai così”
esclamò.
“Voi due mi fate
schifo!” quasi gridò Rahahel.
“Tornatene a casa, Raf!
Dimentica!” gli suggerì il demone.
“Non riesco a togliermela
dalla testa! Ho dei desideri molto
espliciti che non potrò mai soddisfare con questo
corpo!”.
“Ma se tu cadessi, poi non
potresti più tornare indietro. E
te ne pentiresti!”.
“Ma non riesco
a…”.
“Ci riuscirai!”.
Gli occhi del Principe erano severi e
fissi, quelli di
Rahahel brillavano e non stavano fermi.
“Anche Mihael ha detto
così…” ammise l’Arcangelo.
“Oh!
Ha detto una
cosa intelligente nella sua vita…”.
“Se devo fare come voi
dite…allora dammi il coraggio e la
forza di affrontare questa cosa!”.
“Sei davvero impossibile,
Rahahellino. Fatti una vacanza…”.
“Lei mi ama. Mi ha donato
questo fiore”.
“Lo so che la cosa ti
sorprenderà, ma l’amore…”
cominciò il
Principe.
“Non voglio
sentirti!” esclamò l’Arcangelo.
“…non
esiste” concluse Shekinah.
Rahahel si alzò dal letto,
allontanandosi dal demone che gli
si era messo accanto.
“Ho altri problemi,
Raf” ammise il demone, finendo la
sigaretta “Se vuoi stare accanto a questa ragazza,
accontentati di ciò che hai
e restale vicino ora che è giovane e bella. Poi ti
passerà…e ricomincerai la
tua vita”.
“Non ci riesco. E non
riesco a tornare a casa. Tutti mi
guardano e mi giudicano”.
Rahahel camminava nervosamente per la
stanza.
“Ma dovrai tornarci, presto
o tardi. Altrimenti sarai
bandito” mormorò Luciherus.
“É
così facile cadere…”
sussurrò l’Arcangelo, guardando il
cielo dalla finestra.
“Già”
gli diede ragione il demone “Ed è così
difficile
accettare l’impossibilità di ritorno”.
“Tu ora puoi
tornare…perché non mi accompagni? Avrei
più
coraggio…” azzardò
l’Arcangelo. “Dovrei accompagnare mia figlia
all’incontro
con non so che Dio che sta nel Regno degli Angeli. Devono discutere
assieme sul
matrimonio e…” il Principe non andò
oltre.
Shekinah lo abbracciò,
appoggiata alla schiena e avvolta
dalle ali di lui.
L’Arcangelo si
chinò, affondando la testa sulle ginocchia
del demone, ad occhi chiusi. “Ti prego…vieni con
me!” supplicò, piagnucolando.
Luciherus sospirò:
“Va bene. Ma dammi del tempo per
prepararmi psicologicamente alla cosa”. Rahahel
balzò in piedi e fece numerosi
inchini, a mani giunte.
“Grazie! Grazie! Grazie
mille, Lu! Ti voglio bene!”.
“Non
dirlo…”.
Si sentì bussare alla
porta.
“Sì?”
esclamò il padrone di casa.
Entrò Asmodai:
“Signore…c’è Vereheveil qua
fuori. Desidera
vedervi” riferì il capo delle guardie.
“Che vuole, adesso, quel
piccione esaltato?” sbottò
Luciherus.
Si passò una mano fra i
capelli, ignorando l’occhiataccia
che si stavano scambiando Asmodai e Rahahel.
“Dì a quella
sottospecie di Dio che sarò da lui fra un
attimo. Nel frattempo temporeggia. Chiama Azazel e la sorella, se hai
problemi”.
Asmodai fece un inchino ed
uscì. Anche l’Arcangelo se ne
andò, dopo aver salutato.
Il Principe, rimasto solo con
Shekinah, fece un gran
sorriso.
“Dove eravamo noi
due?” domandò, ricominciando a baciarla.
“Ma ti
aspettano!” esclamò lei.
“Che aspettino! E
comunque…ho una cosa per te…”.
Dopo averle fatto chiudere gli occhi,
il demone si alzò,
raggiungendo il comodino a fianco del letto, e ne estrasse un regalo.
Le infilò
un paio di orecchini a forma di occhio.
“Grazie…”
bisbigliò lei, guardandosi allo specchio.
“Bene…allora…dove
eravamo?”.
Ricominciarono e baciarsi.
“Un paio di ore
d’attesa non li
turberà…” disse lui.
“No di certo!”
rispose lei.
Risero e si distesero a letto,
tirando le tende e chiudendo
la porta a chiave con un gesto della mano.
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Capitolo 15 *** XV- riconoscersi ***
XV
RICONOSCERSI
Vereheveil iniziava a spazientirsi.
“Quanto tempo ci mette quel
demone?” protestò “Mi servono
solo le chiavi della biblioteca! Poi mi arrangio da solo!”.
“Non serve
alterarsi!” gli disse una delle due guardie di
Kasday.
La bambina intingeva i biscotti nel
latte al cioccolato e
aspettava che affondassero, prima di ripescarli con un cucchiaio
d’argento.
Sarmorghell sorrise a quella scena.
“Vado a
cercarlo!” sbottò il Dio delle Letterature e delle
Lingue, alzandosi dalla sedia.
Con passo deciso
attraversò diversi corridoi, fino a quando
riuscì a trovare il padrone di casa. Luciherus stava disteso
a terra, ad occhi
chiusi, con le braccia conserte ed i piedi contro il muro, leggermente
sollevati dal pavimento.
“Sei morto?” lo
derise Vereheveil.
“Ho un gran mal di
testa…” mormorò il Principe, aprendo un
occhio “…sento costantemente delle voci dentro di
me”.
“Benvenuto nel mio mondo.
Le voci che senti sono le
preghiere e le suppliche di chi crede in te e chiede il tuo aiuto, Dio
novizio!” spiegò la divinità delle
Lingue.
“É
terribile!” gemette il demone.
“Ti ci
abituerai”.
“Non è solo
questo…” iniziò il Principe.
Vereheveil gli si distese accanto:
“Te lo avevo detto che
non eri adatto a fare il Dio!” sghignazzò.
“Ma taci!” sibilò Luciherus
“Se sei
venuto fin qui per sfottere, puoi anche andartene!”.
“Sono qui perché
mi serve un libro”.
“Bene. Prenditelo e
sparisci!”.
Shekinah passò, saltando i
due distesi con un balzo: “C’è
mio fratello!” esclamò con entusiasmo
“Vieni a salutarlo?”.
Il demone annuì, con un
gemito, stringendosi la testa.
“Grazie, mastro Vereheveil,
per averlo portato con voi!”
disse ancora lei.
“Di niente. Ha fatto tutto
da solo!” rispose il Dio delle
Letterature, alzandosi a sedere.
Quando lei si fu allontanata,
Vereheveil tirò una gomitata a
Luciherus, che si era messo anche lui seduto.
“Ma che carina!”
ridacchiò il Dio delle Lingue.
“É un grosso
problema” sospirò il demone.
“Un problema?! Da quando,
per te, è un problema avere una
donna?!”.
Luciherus non rispose.
Tirò le ginocchia verso di sé e le
cinse con le braccia, girando la testa in direzione opposta rispetto al
suo
interlocutore.
“Cos’ha questa di
così speciale?” volle sapere il Dio dai
capelli verde acqua.
“Mi fa
ricordare…cose che avevo dimenticato…”.
“Cose
piacevoli?”.
“No”.
“E allora allontanala da
te…”.
Il Principe sbuffò:
“In primo luogo non accetto consigli
sull’argomento da un mezzo frocio come te. Seconda
cosa…non posso! Non posso
allontanarla. Ha qualcosa di strano…di
diverso…che mi spinge a cercarla”.
“Sei innamorato?”
lo stuzzicò Vereheveil, con un sorrisetto
malvagio.
“I demoni non
amano” rispose il diavolo, appoggiando la
testa fra l’incrocio delle sue braccia e tenendo il capo
rivolto altrove.
“Ma gli Arcangeli
sì!” esclamò il Dio delle Letterature.
“Non sono un
Arcangelo!” ringhiò Luciherus, con gli occhi
semichiusi ed una smorfia.
“Ma sei un Dio!
Può darsi che…”.
“Può darsi.
Può darsi, può darsi…che
palle!” interruppe il
demone “Dimmi che libro ti serve, e
volatilizzati!”.
“Volatilizzati?! Beh, ad
ogni modo, vorrei che prima dessi
un’occhiata agli individui che sono con me e che cercano il
volume. Non mi
piacciono…”.
“Non è un
problema mio!” esclamò il Principe. Poi, dopo un
attimo, riprese: “E poi…scusa…non ti
piacciono e li porti qui?! Per chi mi hai
preso?!”.
“Per quello che sei: un
grosso demone collerico! Devi solo
darci un occhio. Se li ritieni a posto, dà loro il libro,
altrimenti…non so…dì
loro che è andato perduto!”.
“E va
bene…vediamo queste creature che tanto ti
turbano!”.
Vereheveil si alzò di
colpo, tutto soddisfatto. Luciherus
fece più fatica. Si appoggiò al muro e si
tirò su.
“Sei palliduccio,
Lucy” disse il Dio delle Letterature,
allungando un braccio verso di lui.
“Non provare a
toccarmi!” sibilò il Principe, allontanandosi
lungo il corridoio, barcollando. Vereheveil lo precedette, non nascondendo una certa
preoccupazione.
“Sorella! È
bellissimo rivederti!”.
I due fratelli, Sarmorghell e
Shekinah, si erano rincontrati
nella grande sala in cui la bambina continuava ad abbuffarsi di
biscotti con
entusiasmo.
“É bello vedere
che anche voi, ogni tanto, uscite da quel
palazzo immenso, freddo, buio…vuoto!” disse lei,
rivolta all’Alto ed ai
guardiani.
Kasday non rispose, e nemmeno le due
guardie.
“Non sono così
male, no? La brezza del mattino, il calore
del sole, la luce delle stelle, le voci della
gente…” disse Shekinah.
L’Alto alzò una
mano, facendole segno di fare silenzio. Lei
sospirò, abbracciando suo fratello:
“Com’è Vereheveil, fratello mio? Sembra
tanto dolce…” chiese.
“Sì,
è dolce ma…è anche tanto strano.
È sposato ma non pensa
mai alla moglie. Fa figli con lei, pur non amandola, come se
rispettasse un
ordine o un obbligo. Anche quando sta con me…pensa ad
altro!”.
“Certo! Pensa al Signore
Kasday! Lui è l’unico che ama!”.
“Lo penso
anch’io!”.
“Fate silenzio!”.
I due angeli sobbalzarono, sentendo
la voce dell’Alto.
“Amore non può
essere di certo” proseguì Kasday. “Se ci
fosse davvero un sentimento così forte ad unire me e
Vereheveil, allora lui mi
avrebbe riconosciuto…invece…nemmeno i miei
bambini…”. “Questo perché non
vi
mostrate!” disse Sarmorghell, con sicurezza.
“Io lo riconoscerei in
qualunque modo” mormorò l’Alto
“…ad
occhi chiusi, nel buio e nella nebbia, io saprei che è lui.
Io l’amavo
davvero…ma lui…”.
Scese di nuovo il silenzio.
“Dove sono Vereheveil e
Luciherus?” chiese una delle
guardie.
“Erano lungo il
corridoio” rispose Shekinah “Arrivano
subito, spero!”.
“Com’è
Luciherus, sorella? Forte, rude e passionale?”.
“Ne rimarresti sorpreso. In
realtà è molto gentile. Mi
chiama principessa e mi fa dei regali. E non è tanto
capriccioso e maniaco come
sembra!”.
“Sarà…”
disse Sarmorghell, con aria scettica.
“Senti un
po’!” protestò Shekinah “Il
tuo tradisce la
moglie! Almeno il mio non è impegnato!”. Kasday
ignorava i due. Il suo sguardo
era concentrato su un disegno appeso alla parete nera. Era ingiallito e
molto
vecchio. Si vedeva che era realizzato da mano infantile. Un piccola
scritta,
con caratteri incerti e tremolanti tipici di chi ha appena imparato a
scrivere,
descriveva l’opera: io e il mio papà. In un angolo
la firma: Luciheday.
La mia bambina…si
disse l’Alto, con un sospiro
nostalgico.
La porta si aprì.
Entrò Vereheveil.
“Scusate il
ritardo” iniziò “Eccovi il padrone di
casa. Ora
ci aprirà la porta della biblioteca e sarà tutto
a posto!”.
“Bene. Alla buon
ora!” sbottò una delle guardie.
“Piccola…”
disse uno dei guardiani “…và con il
signore a
prendere il libro!”.
La bambina si alzò e corse
verso il Dio delle Letterature.
Nel frattempo era entrato anche
Luciherus ed era rimasto
immobile sulla porta, ad occhi chiusi, annusando l’aria.
Questo profumo… Aprì
gli occhi, d’un tratto d’aspetto
dolce. Non più con le pupille sottili e simili a quelli dei
gatti, ma grandi e
tonde.
“Ciao”
sussurrò.
Nella sala non si sentì un
solo suono.
“Lo conosci?”
chiese Vereheveil al demone, a bassa voce.
“Certo! E anche tu, brutto
pennuto idiota!”.
Il Dio delle Letterature continuava a
guardare gli
incappucciati ed i guardiani. Scosse il capo.
“Sei sicuro? Io non conosco
nessuno di loro…”.
“Guarda bene quello in
centro”.
“Non so chi
è!”.
“Kasday!”
esclamò il Principe, con un sorriso.
Vereheveil scoppiò a
ridere: “Hai
esagerato di nuovo con le
droghe? Che dici, stupido demone?”.
“Come puoi non
riconoscerlo?! Non senti il suo profumo?”.
Il Dio delle Lingue lo
fissò, perplesso. “Non
capisco…”.
“Il suo profumo! La sua
pelle emana tristezza, nostalgia,
armonia…sprigiona la fragranza dei fiori della vita e della
morte!”.
“Kasday non profuma di
morte!”.
“Ma
lui è morte. È creatore
e dà vita. È distruttore e dà morte.
È vita e morte!”.
La bambina tirò la manica
dell’abito di Luciherus.
“Mi porti a prendere il
libro?” chiese, docilmente.
“Certo piccina! Vieni con
me!”.
Lanciando un’ultima
occhiata all’Alto, il demone e la
Celeste uscirono, per mano, dalla stanza. Kasday sorrise. In quella
casa, molto
lasciava ad intendere che fossero presenti dei bambini, anche se
l’ultima
creaturina lì presente era stata Luciheday, tantissimo tempo
fa. C’erano
disegni appesi, giocattoli ed oggetti per infanti. Evidentemente il
Principe
non aveva il coraggio di disfarsene.
Il
demone e la
bambina lasciarono soli Kasday, Vereheveil, i due guardiani ed i
fratelli.
Luciherus accelerò il
passo, avvertendo un lieve capogiro.
Aprì la porta, facendo entrare la bambina, e poi
tornò a chiuderla a chiave
dietro di sé. La piccola si fiondò sui libri,
ridendo.
“Sai leggere, vero piccina?
Te la cavi da sola?” domandò
lui.
“Sì,
sì! Non mi serve aiuto, grazie”.
Il Principe si sedette in terra,
appoggiando la testa contro
il muro e chiudendo gli occhi.
“Stai male?”
chiese lei.
“Non è niente.
Trova il libro”.
“Hai mangiato troppo? Ti fa
male la pancia?” insistette la
bambina.
“Non ho mangiato troppo! Ho
solo un po’ di nausea. Trova il
libro!”.
Il demone iniziava ad infastidirsi ma
si sforzava di
rimanere calmo. Dopotutto era solo una bambina! La sua coda si
agitò
nervosamente, colpendo il pavimento e lasciandoci dei segni con la
punta
rigida.
“Sei sicuro di stare
bene?”.
“So
di non star
bene…ma non sono affari tuoi, ragazzina! Trova il libro e
sparisci!”.
La
bambina salì su
una scaletta piuttosto alta ed afferrò, allungandosi, un
volume di colore blu.
“Sei sicura di farcela da sola? Non è che cadi e
ti sfracelli sulla faccia?”.
“Sono più brava
di te, spilungone malaticcio!”.
Luciherus sorrise, girando la testa:
“Quanta insolenza! Ti
ha insegnato tuo padre a parlare così agli
adulti?”.
“Io non so chi è
mio padre” rispose lei, scendendo dalla
scala.
“Kasday è,
dunque, tua madre?”.
“No. Lui è un
amico mio e mi aiuta”.
“Pensavo
fosse…vi assomigliate”.
La piccola andò a sedersi
accanto al demone.
“Che libro hai preso? Fammi
vedere” disse lui, osservandone
la copertina.
Vide il titolo: la luce dei Celesti.
“Sei una
Celeste?” domandò il Principe.
La bambina non rispose.
“Giuro di non dire niente a
nessuno…” promise Luciherus.
La piccola annuì,
timidamente.
“Sei molto
carina…i Celesti vengono descritti sempre come
dei mostri raccapriccianti…ma tu non sei affatto
così!”.
“Io sono solo una
bambina!” ridacchiò lei “Ho tempo per
cambiare…”.
“Cambiare?”.
“Sì. I Celesti e
gli Alti nascono come voi: piccoli, rosa e
teneri. Ma poi, crescendo, mutano e si modificano”.
“Intendi dire che ci hanno
creati in modo da presentare
l’aspetto di eterni bambini?”.
“Mmm…si
può dire di sì”.
“Interessante…e
in che modo mutano?”.
“Prendono aspetti in comune
con gli alberi e gli animali”.
“La vostra adolescenza
dev’essere un vero incubo!” ridacchiò
Luciherus, ricordando la sua adolescenza angelica, quando erano apparsi
i suoi
primi tratti oscuri e ribelli.
“Stai meglio?”
domandò la bambina.
“Sì...grazie…”.
“Sei amico di
Kasday?”.
“Sì.
È la madre di mia figlia. La mia unica e bellissima
figlia!”.
“È tua
moglie?”.
“No! Certo che
no!” rise Luciherus.
“Perché?
È così che si fa…”.
“Hai ragione. Soprattutto
perché lei è per me…non
so…”.
“La tua
principessa?”.
“Kasday?! Nel suo aspetto
femminile può darsi…”.
“Non conta
l’aspetto esteriore!” protestò la
bambina,
colpendo Luciherus con le manine.
“Com’è
il suo corpo da Alto?” domandò, curioso, il
Principe.
“Carino, carina. Ma non
conta!”.
“Ha spaventato Vereheveil,
un motivo ci sarà!”.
“Certo! Perché
siete cattivi. E stupidi”.
“Soprattutto
io…” ammise il demone.
“No. Tu sei
buono”.
“E tu sei
pazza!”.
La bambina lo abbracciò
forte: “Sei bello!” esclamò.
“Che dici?! Che ti
prende?”.
“Sei bello!”.
Luciherus tentò di
staccarla, ma lei non lo lasciò. Il
Principe sorrise, pensando al fatto che era il secondo abbraccio che
riceveva
in un giorno, dopo tanto tempo.
“Bello!”
continuò lei.
“Ok. Ho capito. Ma adesso
lasciami…”.
“Bello! Bello!
BELLO!”.
“Non sono un
giocattolo…puoi lasciarmi, per favore?”.
La bambina lo lasciò. Gli
diede un bacio sulla guancia,
felice.
“Torniamo di là?
Oppure vado nella sala da sola?”.
Luciherus si alzò, pur a
fatica. La testa gli girava ancora
ma riuscì a raggiungere la piccola ed aprire la porta della
biblioteca.
Il silenzio nella sala era totale.
Vereheveil, in piedi
sulla porta, osservava la figura incappucciata che stava seduta di
fronte a
lui. I due fratelli si allontanarono, raccontandosi la giornata.
Le due guardie non muovevano un
muscolo. Il Dio delle
Letterature non si mosse, rimanendo in silenzio. Poi prese coraggio e
fece
qualche passo verso il tavolo, scrutando la figura silenziosa e
misteriosa.
Il Dio si schiarì la gola.
“Kasday?” disse, timidamente.
Non ricevette risposta.
“Kasday…sei
tu?” ripeté.
L’Alto alzò lo
sguardo, facendo scorgere i suoi occhi di un
meraviglioso color azzurro.
“Oh! Kasday! Sei veramente
tu!”.
Il Dio si sedette accanto
all’Alto, con un largo sorriso.
Non notò lo sguardo accigliato di Kasday, fisso nel vuoto.
“Sei tu! Sei
tu!”.
“Ha qualche
importanza?” tagliò corto l’Alto.
“Come?”
esclamò Vereheveil, confuso “Che dici? Certo che
ha
importanza…amor mio…”.
Il Dio allungò una mano
per toccare Kasday ma la guardia che
stava dal suo lato lo respinse, usando la spada di piatto.
“Amor mio?! Sei sposato
adesso…ed io sono fuori dalla tua
vita ormai” sentenziò l’Alto, con un
tono leggermente scocciato.
“Non è
vero!” disse il Dio, con convinzione.
“Basta bugie, angelo nero.
Basta! Basta parole vuote e senza
senso, basta falsità! Hai una famiglia ora. Pensa a loro e
smettila di
mentirmi”.
“Io non sono mai stato un
falso con te…non ho mai mentito!”.
“Tu sei sempre stato un
falso con me…”.
“ Io ti amo ancora,
Kasday!”.
“Tu non mi hai mai amato!
Gli angeli confondono l’amore con
la devozione e l’ammirazione, la bellezza con
l’incanto e la meraviglia. Tu non
mi ami. Non mi trovi bello. Hai confuso l’amicizia ed il
rispetto con l’amore e
anch’io, lo ammetto. Ma ora ho capito lo sbaglio e non
ripeterò l’errore”.
Vereheveil rimase così male per quelle parole che
scoppiò a piangere.
“Sei cattivo”
singhiozzò.
“Sì. Tutti sono
cattivi in questi Universi” mormorò,
malignamente, l’Alto.
Tornò di nuovo il
silenzio, mentre il Dio delle Letterature
si asciugava le lacrime.
“A che ti serve il libro
sui Celesti?” domandò Vereheveil.
Kasday non parlò e il Dio
continuò.
“Se ti serviva la
traduzione della loro scrittura, o la
comprensione del loro linguaggio, bastava chiedere a me! Bastava
chiedere ed io
ti avrei aiutato, senza sperare nulla in cambio! Ma tu, grande Alto, di
sicuro
non ti abbassi a domandare aiuto ad un sottoposto come me!”.
“Non è
così…”.
“No di certo! La
verità è che voi Alti vi vergognate di
ammettere che non sapete qualcosa. La verità è
che non volete sentirvi al di
sotto di qualcuno e…”.
“La verità
è che volevo proteggerti, Vereheveil! Se Momoia
sapesse che mi hai aiutato in una faccenda riguardante i Celesti, ti
distruggerebbe. E poi…tu non conosci la scrittura dei
Celesti!”. “Imparo in
fretta…”.
“Il libro che ho chiesto
è la copia, scritta nella lingua
degli Dèi, di un libro dei Celesti in mio possesso. Mi
sarà facile tradurre con
quello. E adesso non ho voglia di dire altro”.
Di nuovo ci fu silenzio.
“Dov’è
Luciherus?”
protestò Vereheveil “È sempre
così lento e logorroico quando non ha voglia di
fare un cosa…”.
“Che si sbrighi. Mi fa male
la testa. Io sto bene nel
silenzio e nella solitudine” mormorò Kasday, a
braccia incrociate.
I due angeli fratelli rientrarono,
ridendo.
“Spero che voi due vi siate
parlati e chiariti…” azzardò
Sarmorghell.
Il silenzio fra i due lo fece
sospirare.
“Ho
capito…” si
arrese.
“Dov’è
Luciherus?” chiese Shekinah.
“In
biblioteca…” rispose il Dio.
“Sbagliato!”
tuonò il Principe, spalancando la porta con un
botto.
La bambina corse verso
l’Alto, mostrandogli il libro. Kasday
non disse una parola e si alzò.
“Kasday…” iniziò Luciherus,
ma l’Alto non gli
rispose.
Pronunciando una sola parola, che
nessuno comprese, Kasday
scomparve. Tornò al suo palazzo assieme alle guardie ad alla
bambina. L’ultima
cosa che fece, prima di andarsene, fu guardare con i suoi occhi azzurri
il
padrone di casa, accennando un sorriso.
“Aspetta!”
esclamò il demone.
Ma ormai era tardi.
“Che cosa gli hai detto,
piumino? Era incazzato!” gracchiò
il Principe, guardando il Dio delle Letterature.
“Che ti importa?”
rispose questi, acido.
“Sei una merda”.
“E tu un
coglione!”.
Litigarono di nuovo fra loro. I due
fratelli sospirarono e
li lasciarono soli, ad urlarsi a vicenda.
“Che cosa gli hai detto?
Aveva un’aria
davvero…infastidita!”.
“Io
non ho detto
niente! È lui che mi ha fatto piangere!”
piagnucolò Vereheveil, con gli occhi lucidi.
“Sì,
certo…come no!”.
“Perché dovrei
parlane con te?! Cosa c’entri tu?!
Vattene!!”.
“Guarda che questa
è casa mia, cervello di gallina!”.
“Benissimo! Allora me ne
vado io!”.
“Meraviglioso!”.
Vereheveil stava per uscire, quando
lanciò un acutissimo
grido di dolore e cadde in ginocchio.
“Che succede,
piumino?” chiese Luciherus, alzando un
sopracciglio.
“Brucia! Brucia!
È come se prendessi fuoco!” gemette il Dio.
Sarmorghell gli andò
vicino. Toccandolo, ritrasse la mano.
“Scotta. È
bollente!” disse l’angelo.
“Cos’è
questa puzza di bruciato?” si chiese il Principe.
Guardando fuori dalla finestra, il
demone vide che si erano
radunati un gruppo di abitanti del Pianeta che stavano dando fuoco a
dei libri.
“Ecco la causa del tuo
male…” sibilò.
Spalancò la finestra e
sbraitò a tutti di spegnere
immediatamente il fuoco.
“Ma
Signore…” protestò uno di loro
“…Momoia ha dato ordine
di bruciare tutti i libri riguardanti i Celesti!”.
“Nessuno brucia libri nel
mio regno, abominio! Me ne fotto
di ciò che dice quella pazza!”.
Vedendo la reazione del loro
Principe, i demoni estinsero le
fiamme. Vereheveil ricominciò a respirare, lentamente.
“Và un
po’ meglio, pennuto? Vuoi un bicchier
d’acqua?”.
“Da dove viene tutta questa
gentilezza, Luciherus?”.
“Non interferire ed
approfittane. Avanti…alzati!”.
Gli porse la mano ed il Dio delle
Letterature si rimise in
piedi. Dopo un attimo, venne portata l’acqua e Vereheveil si
sentì subito
meglio. Il Dio guardò il Principe con tenerezza.
“Anch’io lo
amo” mormorò, dolcemente.
Il demone lo fissò, con
aria interrogativa.
“Vedrai
che si
sistemerà tutto. Il matrimonio di tua figlia, Kasday, i tuoi
malori…andrà tutto
bene!” continuò il piumato.
I due si salutarono. Luciherus era
molto poco convinto.
Sospirò, rientrando in casa.
Si concentrò, chiedendosi
qual’era il modo migliore per
sfogarsi. Arrivò alla conclusione che la tortura altrui era
la via migliore.
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Capitolo 16 *** XVI- traduzioni ed ordini ***
XVI
TRADUZIONI
ED ORDINI
Nosmagiés
avvertì la presenza del suo padrone. Scese dal
letto, in cui si era appisolato, srotolandosi dalla coperta in cui si
era
avvolto. Andò verso il suo principale, notando che le
guardie erano scomparse e
che Kasday era solo, con la bambina.
“Siete
tornati…” parlò il Messaggero.
“Sì. Siamo
qui!” rispose la piccola Celeste.
“Tieni questo libro,
Nosmagiés” ordinò l’Alto
“Momoia sta
cercando tutti i volumi simili a questo per distruggerli”.
“Sissignore”.
La Celeste correva per casa:
“Ora aiuterai la mia mamma!”
gridava “Ora aiuterai la mia mamma!”.
“Ora ti butto
giù dalle scale, se non la smetti di fare
casino! E, da terra fino all’entrata di casa mia, ci sono un
sacco di scalini!”
brontolò Kasday, agitando le sue code.
“Signore…”
disse l’angelo “…vi ha cercato
Momoia”.
“Per?” chiese
l’Alto.
“Non ne ho idea”.
“Ha detto quando
torna?”.
“Prima del
tramonto”.
“Che
palle…chissà che vuole adesso.
Vabbè…vieni qui,
Celestina. Diamo un’occhiata alla tua lettera”.
La bambina gliela porse, con un largo
sorriso.
“Cosa dice?”
domandò, appena l’Alto ebbe fra le mani la
busta.
“Che impazienza! Me la
lasci aprire?!” protestò Kasday.
L’Alto rigirò
l’unico foglio fra le dita della mano di
vetro, trasparente e lucida, dalla quale si poteva vedere ogni singola
vena di
magia azzurra. Con la mano di metallo e roccia aprì il libro
“La luce dei
Celesti” che Nosmagiés teneva fra le braccia. Non
toccò il volume ma sfogliò le
pagine con l’uso della magia, senza nemmeno sfiorarle.
Cominciarono a scorrere
velocemente, facendo sobbalzare l’angelo. I simboli sul libro
si illuminarono
ed uscirono dalla carta, come degli ologrammi, fluttuando a
mezz’aria.
Iniziarono a combinarsi con i segni riportati sulla lettera della
bambina,
mutando, con un comando di Kasday, la scrittura dei Celesti e
rendendola
comprensibile al padrone di casa.
“Oh! Ora
capisco!” esclamò il Messaggero, sbirciando.
Kasday tornò ad osservare
la lettera in pergamena. Era
stropicciata e sbiadita, scritta in inchiostro oro. Annusandola,
l’Alto capì
che non era inchiostro ma sangue magico. Evidentemente i Celesti lo
avevano di
quel colore, così lucente e particolare.
“Sono delle
indicazioni” spiegò, dopo aver letto.
“Indicazioni?”
volle sapere l’angelo.
“Sì. Servono ad
individuare un luogo preciso, una casa o una
piccola foresta. Comunque un luogo ristretto e rintracciabile, fra gli
Universi
dei Celesti”.
“Cosa può
essere?” si chiese Nosmagiés.
“Piccola…”
iniziò
Kasday “Piccola, questa lettera l’ha scritta tua
madre, giusto?”.
La bambina annuì.
“E ti ha detto
qualcosa?” continuò l’Alto.
“Solo che tu, triplice Dio
dal triplice occhio, ci avresti
aiutate”.
La divinità dai capelli
corvini sospirò, con espressione
pensosa.
“Forse vi sono riportate le
coordinate per trovare tua
madre…certo che poteva anche scriverlo!”.
Camminò per la stanza, liberandosi
dal cappuccio che gli copriva il viso e tornando al suo aspetto
normale, per
non sprecare altra magia. Le sue antenne si agitarono
all’aria, felici di
essere di nuovo libere.
“Aiuta la mia mamma! Salva
la mia mamma!” singhiozzò la
bambina, triste.
“Ma, sì! Va
bene! Andrò nella stanza degli specchi e vedrò
dove mi portano queste indicazioni” sbottò il
padrone.
“Grazie!” sorrise
lei.
L’Alto richiuse il libro e
lo affidò a Nosmagiés. L’angelo,
con un inchino, andò a riporlo nel salone adibito a
biblioteca, una delle
stanze più grandi del palazzo. Era immensa e piena di libri,
alcuni dei quali
appartenuti al maestro del suo Signore, l’antico Equilibrio.
Il suo aspetto era
rimasto pressoché invariato nei millenni. Gli scaffali erano
contro la parete e
sfioravano il soffitto, riccamente decorato a motivi geometrici. Fra
uno
scomparto e l’altro, si aprivano immensi finestroni colorati
di cremisi e blu
scuro. Al centro della stanza vi era un grande tavolo rotondo, rubino a
decori
dorati, illuminato dall’incrocio delle luci entranti dalle
finestre. Molti e
grandissimi lampadari rischiaravano il salone nelle ore notturne,
grazie
all’uso delle candele e del riverbero dei cristalli in cui
erano composti.
Nosmagiés ripose il libro,
accanto ad altri riguardanti gli
Dèi, gli Alti ed i Celesti. Sistemò i candelabri
e le sedie, ricordando i
giorni in cui lui ed il suo Signore passavano delle ore assieme,
leggendo e
chiacchierando. Ora Kasday non era mai dell’umore adatto per
dilettarsi in quel
modo. Con un sospiro, l’angelo lasciò la stanza,
chiudendola dietro di sé.
Raggiunse il suo padrone, che nel
frattempo si era rintanato
nella stanza degli specchi assieme alla Celeste. Bussò,
educatamente, alla
porta.
“Signore?”
chiamò “Posso entrare?”.
“Certo, mio Messaggero,
entra pure”.
L’angelo entrò,
cautamente, nella sala cupa. Il suo padrone
era seduto sull’unica sedia, il solo elemento
d’arredo oltre agli specchi. La
piccola finestra era stata sprangata con delle imposte in legno spesso,
in modo
che nemmeno un raggio di Sole potesse entrare. Le pareti erano nere,
così come
il pavimento ed il soffitto, senza decori, senza fronzoli o elementi di
altro
tipo. Tutt’attorno, compreso sul lato della porta che dava
verso l’interno,
erano appesi degli immensi specchi imponenti, alti fino al soffitto.
Kasday, seduto sulla sedia simile ad
un trono, con i
braccioli e lo schienale pieno di punte e riccioli, sbatté
le palpebre: un atto
che compiva raramente. In seguito a questo, lo specchio che aveva di
fronte si
accese, come uno schermo. L’Alto ruotò leggermente
il capo, a destra e
sinistra, così tutti gli specchi si illuminarono. Alcuni di
loro mostrarono
immagini familiari, come il palazzo del Principe, il Regno degli
Angeli, la
casa di Vereheveil…ma l’Alto si
concentrò sullo schermo centrale che non
mostrava nulla, se non un'unica luce bianca.
Nosmagiés adorava
osservare il suo padrone in quella stanza:
era la sua porta verso l’esterno.
Sulla superficie bianca iniziarono a
mostrarsi delle linee e
delle ombre, che presero forma. Un palazzo, color del cielo, apparve
nello
specchio. Si stagliava nella luce dell’alba. Sembrava un bel
posto, luminoso e
tranquillo. La visione si avvicinò all’edificio,
salendo lungo una ripida torre
attorcigliata. Le scene scorrevano, sempre più veloci.
Entrando da una
finestra, l’immagine dietro il vetro mostrò una
stanzetta in cui stava una
piccola figura. Evidentemente era schermata grazie all’uso
della magia, perché
i suoi tratti fisici ed il suo corpo non erano ben visibili. La figura
si
accorse che qualcuno la osservava perché mostrò
il viso, per qualche secondo,
prima di tornare del tutto sfuocata.
“Mamma!”
esclamò la bambina.
“È quella tua
madre?” domandò Nosmagiés e la piccola
annuì.
“É in
trappola” mormorò Kasday, mantenendo lo sguardo
fisso.
“In trappola? In che senso,
Signore?”.
L’Alto mosse un dito,
indicando il bracciale che la donna
indossava: “Quel gioiello la scherma e ne risucchia la magia.
Momoia me ne
aveva messo uno simile, prima di accorgersi che non ne valeva la pena.
È
imprigionata in quella torre e non ha magia a sufficienza per
uscirne”.
“Potete
aiutarla?” chiese il Messaggero.
L’immagine scomparve e
Kasday annuì: “Mi basterà evocarla
qui. Lo posso fare”.
“Grazie! Salverai la mia
mamma!” urlò la bambina,
abbracciando l’angelo che le stava accanto. “Sai
chi può volerle fare del
male?” domandò l’Alto, alzandosi.
La Celeste scosse il capo.
“Non so chi le ha fatto
male. So solo che mi ha mandato qui,
senza troppe spiegazioni”.
“Strano…”
sussurrò Nosmagiés, andando vicino al suo
Signore.
“Niente di
strano!” rispose questi “Ha protetto sua figlia e
non voleva farla preoccupare. Avrei fatto lo stesso”.
L’angelo girò la
testa verso la porta: “C’è
qualcuno…”
disse.
“Và a vedere chi
è, per favore, mio Messaggero. Ti raggiungo
subito”.
“Sissignore”.
Nosmagiés uscì
e scese le scale, arrivando al piano terra.
“Chi
c’è? Sono qui…” chiese,
guardandosi attorno.
“Ed io sono qui”
si sentì rispondere.
“Madre Momoia! Siete Voi!
Il mio Signore sarà qui a momenti.
Nel frattempo si accomodi…”. “Bene.
É in casa. Ho proprio bisogno di parlare
con lui”.
“Vado ad avvertirlo del
Vostro arrivo. Prendete posto ed
attendete, solo un attimo”.
La Madre si sedette con calma,
sistemando le ali da farfalla
che brillavano al sole. Raccolse i capelli, quasi con noia, e si
guardò
attorno. Avvertì la presenza di Kasday, prima di vederlo.
“Ciao Hagalaz. Ti devo
parlare, piccolo”.
Kasday grugnì, storcendo
il naso sentendosi chiamare
“piccolo” e “Hagalaz”.
“Prego…”
biascicò, poco convinto.
“In privato. Caccia via il
tuo angelo!” gli ordinò Momoia.
“Che male ti ha fatto il
mio Nosmagiés?”.
“Fallo e basta! Caccialo
via! Devo parlare con te”.
L’Alto sospirò e
guardò il suo angelo: “Fa come dice, Nosmy,
lasciaci soli”.
Il messaggero chinò il
capo, con un cenno. Tieni la
bambina lontano da lei! Gli ordinò il Signore,
nella sua mente. Kasday
tornò a guardare Momoia, con un sorriso evidentemente falso.
Aveva indossato un
lungo mantello scuro, con strascico, ed un imponente colletto che gli
circondava la testa e la complicatissima pettinatura.
“Che posso fare per
te?” domandò il padrone di casa.
“Vieni qui. Siediti accanto
a me”.
Kasday avanzò, a piccoli
passi. Le sue antenne fremevano
nell’aria, nervosamente.
“Sembri una formichina in
cerca di zucchero…” lo schernì la
Madre.
L’Alto prese posto, non
tanto vicino a Momoia.
“Parla, Madre”.
“Che stavi
facendo?” volle sapere lei.
“Niente”
mentì lui.
“Niente?!
Dai…che facevi?” insistette lei.
“Osservavo…”.
“Povero
piccolo…ancora non sai accettare la lontananza da
quei mostriciattoli che una volta amavi…”.
Momoia, allungando un braccio,
tentò di accarezzargli il
viso ma lui, istintivamente, si ritrasse. “Cosa
vuoi?” chiese, di nuovo,
Kasday.
“Tu sei un
creatore…” iniziò la Madre.
Lui annuì, poco convinto.
“Certo che lo sei! Non sei
un preservatore, come la
Letteratura o la Memoria, e neppure un distruttore, come il Kaos e la
Morte.
Sei un creatore. Hai generato Mondi ed Universi, creature e
divinità. Sei un
Alto in grado di generare altri Alti”.
Kasday rimase in silenzio,
guardandola circospetto.
“Tu sai che il nostro
numero sta calando” riprese la Madre
“Ci sono pochissime speranze, ormai. Quelli di noi che
risultano scomparsi,
molto probabilmente non torneranno. I loro poteri sono nulli. Questo fa
sì che
noi, pochi Alti rimasti, ci dobbiamo sobbarcare anche dei loro compiti.
Dobbiamo fare funzionare tutto come un tempo, pur essendo di meno. Non
è una
cosa semplice. È faticoso e sposta l’equilibrio
delle cose. È necessaria la
creazione di nuovi Alti”.
“Necessaria?”
ripeté Kasday.
“Consigliabile. Sarebbe
meglio” affermò la Madre.
“Ma non è
obbligatorio” commentò l’Alto,
sprofondando nella
sedia.
“No di certo, ma la mia
idea è un'altra…”.
“Che ci posso fare io,
Momoia?”.
“Tu sei un creatore. Siamo
rimasti in pochi, ormai, con
questa capacità”.
“E allora?”.
“E allora sarebbe il caso
che ti prendessi le tue
responsabilità e creassi degli Alti”
sbottò lei, spazientita.
“Responsabilità?”
ridacchiò lui.
“Sì.
Responsabilità. Sei scemo per caso?!”.
“Scemo?”.
“Piantala di ripetere
parole che ho già detto!” ordinò lei.
Kasday non parlò e
girò la testa, guardando il soffitto.
“Quello che io voglio,
Hagalaz, è la tua felicità”.
“Felicità?”
mormorò l’Alto, girando gli occhi verso il
caminetto spento.
“Tesoro…guardami!”
la Madre gli prese il volto fra le mani
che aveva sulle ali “Guardami. Non mi dicesti che
ciò che desideravi era una
famiglia? Ebbene…è questo il momento!”.
“Momento? Quale
momento?”.
“Il momento giusto! Prima
era troppo presto e questa è una
situazione di emergenza!”.
“Li faccia lei i piccoli
Alti!” esclamò lui, liberandosi
dalla sua presa.
“Io ho perso mio marito. Mi
considero ancora sposata,
attendendo il suo ritorno. Ovvio, però, che se il suo
ritorno non fosse
prossimo, sarò anch’io fra coloro che genereranno,
se sarà necessario”.
“Sarà
necessario, perché da me non avrete proprio
niente!”.
“Ma come? Non ti piacerebbe
avere dei figli?”.
“Crepa!”
sibilò Kasday.
“É una bella
idea che abbiamo avuto noi Alti, assieme ad
un'altra decisione che…”.
“Non mi
interessa”.
“Perché non ti
sposi, Hagalaz?”.
Kasday non parlò e la
fissò, con un’espressione scettica,
spalancando un occhio e socchiudendo l’altro, come faceva
sovente l’antico Dio
del Kaos.
“Sarebbe una bella idea,
creatore. Non saresti più solo e
non rimpiangeresti quei deucoli che stanno sparsi per i
Mondi” continuò lei.
“Ed immagino che voi non mi
lascereste la possibilità di
scegliere. Chissà che bel partito che avete trovato per
me…”.
“Non ci permetteremo
mai…in condizioni normali! Ma questo è
un caso d’emergenza e quindi…sì,
abbiamo già individuato il più adatto allo
scopo”
L’Alto incrociò
le braccia, dubbioso.
“La creatura che abbiamo
scelto per te…” riprese Momoia
“…è
un tuo spirito affine. Ribelle, misterioso, solitario e silenzioso. Ti
piacerà”.
“E chi
è?”.
“Raido”.
“Raido? Il Signore del
Cielo? Non l’ho mai visto…”.
“Questo perché
se ne sta sempre sulle sue. Ma ti piacerà. È
un Alto con le stelle fra i capelli, color della notte. Ha un bel viso,
colorato come le ali di una farfalla, un corpo affusolato e la coda
simile a
quella di un pavone. I suoi occhi sono grandi e dolci, ama ballare ed
ha una
bella voce”.
“E allora perché
è solo?”.
“Perché ha un
caratteraccio come il tuo. E perché ha sempre
voluto rimanere piuttosto isolato rispetto agli altri. Ma, data la
situazione,
sono riuscita a farlo uscire allo scoperto e mi ha detto di essere
più che
felice di conoscerti meglio. Sareste una bella coppia di creatori
e…”.
“Vuoi farci sposare solo
per poterci controllare entrambi.
Ho sentito parlare di Raido. È stato tuo nemico in una
guerra passata e tu lo
hai messo in isolamento. Magari lo hai torturato, come hai fatto con
me. Ed ora
vuoi unirci in modo da poterci tenere sott’occhio entrambi,
essendo io di
scarso potere e lui a portata. In un bel palazzo come il mio,
così facilmente
identificabile… Sicuramente lo avrai minacciato…
Farlo vivere in questo luogo,
sotto lo sguardo di Nosmagiés e la tua presenza
costante…”.
“Sei molto furbo”
ridacchiò Momoia.
“Io non mi
sposerò! E non avrò figli!”.
“Non hai ancora capito che
mi devi obbedire e basta?!”.
“Non puoi
obbligarmi!”.
“É per il bene
della nostra specie!”.
“Me ne frego della TUA
specie!”.
La Madre, alzandosi, lo
colpì violentemente e con rabbia.
“Tu farai quello che io ti
dico, piccola nullità! Ti sposerai
al più presto ed, altrettanto velocemente, mi darai dei
piccoli Alti!”.
Kasday cadde in terra e lì
rimase, ringhiando sommessamente.
“Ti saprò dire
quando si svolgerà la cerimonia” sbottò
la
Madre.
“Non dovrei
conoscerlo?” azzardò lui.
“Non è
necessario. Ora torna pure alle tue faccende”.
“Se voi mi lasciavate mio
figlio…” iniziò Kasday, a testa
bassa.
“Fa silenzio! Quello non
era un bambino ma un abominio. Era
giusto che bruciasse. Rassegnati, era quello il suo destino”.
“Io non avrò
figli” disse l’Alto, scandendo bene ogni
parola.
La Madre mostrò tutta la
sua irritazione sollevando la
cresta verde e gonfiando i capelli. La pelle smeraldo di tutto il suo
corpo
brillò, lanciando scintille. Afferrò saldamente
per il collo il padrone di
casa, sollevandolo con facilità.
“Tu creerai degli Alti. Te
lo farò fare, al costo di
renderti succube di tutti quanti noi!”.
Lo rigettò sul pavimento
ed urlò: “Perché non capisci? Non
sarai solo tu costretto a fare questo! Noi Alti siamo necessari per
l’armonia
degli Universi, perché non lo comprendi?! Non puoi ignorare
la cosa, e lasciare
che tutto vada in malora, perché a te non và di
fare una cosa!”.
Kasday la guardò, con
un’espressione persa sul viso. Momoia,
capendo che colui che aveva di fronte aveva dei problemi mentali
più seri del
previsto, se ne andò. Passò attraverso il quadro
con un sorriso, dopo aver
riferito all’Alto che avrebbe conosciuto presto Raido. Kasday
si accovacciò
accanto al caminetto, asciugandosi il viso, bagnato da alcune gocce di
magia azzurra
fuoriuscita dal suo labbro spaccato. Nosmagiés aveva spiato
tutta la
conversazione fra i due e scese in fretta le scale. Chiamò
il suo Signore, per
assicurarsi che stesse bene.
“Che sfacciata quella
Momoia…” disse l’angelo, a voce alta,
in tono divertito “Viene qui, come se niente fosse, e vi
ordina di sposarvi. E
con chi, poi? Con questo Raido. Sarà un esaltato ed uno
stronzo, esattamente
come lei! Che avete intenzione di fare, Signore? Obbedirete o alzerete
il dito
medio?” il Messaggero ridacchiò ma non ricevette
risposta.
“Signore?”
chiamò di nuovo, andandogli vicino.
Kasday aveva lo sguardo perso nel
vuoto. Parlava ma senza
rivolgersi ad un interlocutore in particolare, con strani tic sul viso.
“Non avrà figli
da me. Nessuna creatura da me” mormorava.
Nosmagiés gli si sedette
accanto e gli passò una mano fra i
capelli.
“State tranquillo, mio
Sire, andrà tutto bene”.
L’Alto sospirò.
“Sapete una
cosa?” domandò l’angelo.
“Beh, sì,
Immagino di saperla una cosa…almeno
una…” mormorò
il Signore, inclinando la testa.
Il Messaggero non capì e
continuò a parlare.
“L’angelo di
Raido è mio fratello” disse, con entusiasmo.
“Davvero? Allora non
può essere tanto male…”
ironizzò
Kasday, alzandosi “Non badare a me, Nosmagiés. Non
ti devi preoccupare. Sto
bene”.
Fece un sorriso. L’angelo
capì che non era sincero.
“Andiamo. Torniamo ad
occuparci della bambina” ordinò
l’Alto, avviandosi lungo le scale.
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Capitolo 17 *** XVII- mondo angelico ***
XVII
MONDO
ANGELICO
“Chàire,
Gibrihel!” salutò l’Arcangelo Rahahel,
con
entusiasmo.
Camminava felice per le vie della
capitale del Pianeta degli
Angeli.
“Ma guarda un po’
chi c’è…Rahahel! Dov’eri
finito? Eri
sparito…che fine avevi fatto?” domandò
Gibrihel, l’Arcangelo annunciatore.
“Sono stato
malato” mentì Rahahel.
“L’Arcangelo
guaritore malato?”.
“Capita…”.
“Eravamo tutti
preoccupati!”.
“Non serviva. Mi dispiace.
Puoi dire a tutti, Gibry, che ora
sono qui e sto bene?”.
“Certo ma…le tue
ali…”.
“Cos’hanno?”.
“Sono sempre più
scure”.
“E allora?”.
“Prima l’aureola
ed ora le ali…ma che combini, Rahahellino?”.
“Niente. Sta tranquillo.
Sto bene”.
“Ed il tuo amico chi
è?”.
Dietro Rahahel stava Luciherus,
coperto da un mantello
azzurro con il cappuccio. Non voleva farsi riconoscere.
“Lui?”
iniziò a rispondere l’Arcangelo guaritore
“Lui è un
mio amico. Viene dalla parte opposta del Pianeta e vorrebbe vivere qui.
Lo
porto dai Serafini-capo affinché approvino il suo
trasferimento”. “Capisco…”
disse Gibrihel, avvicinandosi all’incappucciato “Da
che città provieni?”
chiese. Rahahel si mise fra i due.
“É molto timido.
Avrete modo di parlare più tardi. Abbiamo
un appuntamento!”.
“Ah…ora ho
capito cosa ti è capitato!” sghignazzò
l’annunciatore.
“Non pensare male, Gib! Lui
è solo un mio amico!”.
“Lo spero, guaritore! Da
caduto non sopravvivresti un giorno!”.
Luciherus non riuscì a
trattenere una risatina divertita.
“Spiritosi! Tutti e
due!…” brontolò Rahahel
“…avanti…andiamo!!!”
continuò, rivolto all’incappucciato.
Gibrihel li salutò e
tornò ai suoi affari. Scriveva su un
quaderno, probabilmente gli appunti delle prossime lezioni per i suoi
allievi,
e si allontanò.
“Sei bravo a raccontare
balle” commentò Luciherus, non
appena fu fuori dalla portata uditiva dell’Arcangelo
annunciatore.
Rahahel non rispose.
“Era da tanto che non lo
vedevo…” parlò di nuovo il demone
incappucciato “…e non è cambiato,
neanche un po’! Voi angeli vi fossilizzate!
Rimanete sempre uguali…”.
“Perché avrebbe
dovuto cambiare? È così
carino…” ribatté
Rahahel.
“Tu trovi tutti
carini…”.
“Perché non
togli il cappuccio, Lu? Tanto non ti
riconoscono!”.
“Preferisco non
rischiare”.
“Come
vuoi…è un peccato, però!”.
I due iniziarono a salire i
ripidissimi scalini che
conducevano all’entrata del Tempio degli Angeli. Luciherus si
sentiva a
disagio. Non ripercorreva quella salita dalla notte in cui era stato
maledetto
e cacciato. Ci pensava raramente ma era inevitabile, dato il luogo in
cui si
trovava, e provava
il fortissimo
desiderio di tornare a casa. Voleva ritrovarsi fra gli altri caduti al
più
presto e lasciarsi alle spalle ogni cosa. Incrociarono due angeli che
avanzavano nel senso opposto.
Parlavano fra loro: “Hai
visto? La Dea della Morte!” diceva
uno.
“Sì! Che bello
che voglia sposarsi qui! È un evento così
raro in un Mondo come il nostro…” rispondeva
l’altro.
Il Principe fece una smorfia: sua
figlia si trovava già lì.
Sbuffò. Si era reso conto di quanto lei fosse convinta di
ciò che voleva fare.
“Che palle tutti questi
scalini!” protestò.
“Sali e taci! Sempre a
protestare!” rise Rahahel.
“Non posso volare? Io non
mi devo purificare!” sibilò
Luciherus.
“Tu ti devi purificare
più di me!” esclamò
l’Arcangelo
biondo, cominciando ad arrancare lungo le scale.
“Non credo
proprio!” gli rispose il demone, superandolo e
giungendo all’ingresso per primo.
Fu quasi tentato di girarsi e
sfottere un po’ il piumato, ma
resistette. Non voleva dare nell’occhio.
Da dentro il Tempio si udivano canti
di ovazione ed il
Principe rabbrividì. Si chiese perché si trovasse
lì. Esitava, non essendo
sicuro di voler entrare. Ma poi, fra il coro di angeli, si
udì chiaramente la
voce della Dea della Morte. Si sentirono la sua risata e le sue parole.
Incoraggiato da questo, Luciherus
aprì la porta ed entrò,
seguito da Rahahel. Si incamminarono lungo il corridoio mentre alcuni
riconobbero l’Arcangelo guaritore e lo salutarono.
“Dove sei stato? Ragazzi,
c’è Rahahel! È tornato!”
disse,
felice, un Cherubino.
“Sono stato
malato” rispose l’Arcangelo piccolo e gracile.
“Ma come? Con la tua
esperienza…”.
“É tutta una
questione di fortuna…come con le medicine!” si
giustificò il guaritore.
“Intendi dire che curi a
culo? Che fiducia che hai in te
stesso…” gli sussurrò
l’incappucciato. “Funziona così! Secondo
me, se uno non
deve guarire, non guarisce! Posso provare a curarlo in tutti i modi, ma
non lo
salverò” affermò, sicuro, il guaritore.
Luciherus scosse il capo, ridendo in
modo strano.
La luce nel Tempio era fortissima ed
il caduto stringeva gli
occhi, infastidito.
“Togliti il cappuccio, o
gli anziani ci buttano fuori!” lo
ammonì Rahahel.
“Siete delle
lagne…” brontolò il Principe.
“Siamo angeli!”.
“Appunto!”.
“Togliti il
cappuccio!”.
“Palle…che
noia!” sbuffò il Principe.
Se pur di malavoglia, Luciherus
scoprì il viso. Liberò i
capelli, lisci e lucenti, e tolse il mantello. Scosse le ali da
Arcangelo, dorate
e le più luminose fra tutti i presenti. Le due altre ali, da
demone, le aveva
rese minuscole e non si notavano. Aprì gli occhi, enormi e
meravigliosi,
osservando il Tempio con nostalgia. Con passi
leggeri, continuò a camminare accanto a Rahahel.
Nel palazzo era sceso il silenzio.
“Io l’avevo detto
che non era una buona idea” sussurrò il
Principe.
“Non ti hanno riconosciuto
ma sono rimasti senza parole…sei
sempre il più bello fra tutti noi!”.
“Ovvio!”.
Luciherus si specchiò,
sfruttando le pareti riflettenti, e
fece una smorfia. Non si sentiva a suo agio in quel corpo di Arcangelo.
I due
si avvicinarono alla statua di Kasday, posta in fondo ed al centro
della navata
principale, in prossimità dell’altare. Il Principe
guardò con orgoglio il
proprio simbolo brillare su una delle mani della scultura. Poi
sopirò,
osservando il volto di Kasday. Era rimasto quello
dell’Equilibrio.
Chissà come sei
ora…pensò Luciherus. Ah,
Kasday!
Mi lasci qui da solo mentre nostra figlia sta per
fare la più grande
cazzata della sua vita!
In quel luogo, le voci e le
preghiere, che il Dio della
Forza e del Coraggio percepiva, erano più forti ed a lui
dava fastidio. Lo
irritava.
“Devo farci
l’abitudine…” mormorò.
Le candele accese, poste
tutt’attorno alla stanza,
allungarono le loro fiamme verso Luciherus, che le guardò
male.
“Sembra che tu voglia
ucciderle quelle candele…cerca di
avere un’espressione più angelica!” lo
rimproverò Rahahel.
“Così?”
rispose il caduto, mostrando la sua espressione più
dolce.
I suoi occhi brillavano ed erano
davvero enormi, con le
pupille simili a piccole Lune piene. L’Arcangelo guaritore,
visibilmente
turbato, si allontanò, andando a parlare con il gruppetto di
creature angeliche
che volevano sapere che fine avesse fatto. Luciherus tornò a
guardare la
statua, con evidente nostalgia. Osservava quel volto con attenzione e
supplica.
Ad un tratto, fu colto da un improvviso capogiro e solo la presa salda
di un
braccio sconosciuto gli impedì di cadere in terra
violentemente.
“Tutto bene?” si
sentì chiedere.
“Sì…sto
bene”.
Il Principe incrociò lo
sguardo del suo aiutante.
“Mihael…”
mormorò.
“Sì. Sono io. Ci
conosciamo?”.
Il caduto si liberò dalla
sua presa e si sedette sui tre
scalini che separavano il corridoio dall’altare.
Girò il viso, cercando di non
farsi riconoscere.
“Sei uno
straniero?” domandò l’Arcangelo
guerriero “Non mi
sembra di averti mai visto…”.
Il Principe non rispose. E Mihael
ricominciò a parlare: “Non
è raro sentirsi male in un luogo come questo. Trasmette
forti emozioni. Non ti
preoccupare. Stai meglio adesso?”.
Luciherus annuì.
“Ti sei fatto male?
Perché ti tieni il viso?” domandò il
guerriero, girando attorno al più bello.
L’Arcangelo con l’armatura si
inginocchiò ed afferrò i polsi di Luciherus,
togliendogli le mani dal volto.
“Stai bene davvero? Sei un
po’ pallido…ma nessun graffio!
Dai…prova ad alzarti, straniero! Come ti chiami?”.
Non mi riconosci?
Si chiese il caduto. Mihael…non
mi riconosci? Mi guardi in faccia e non sai chi sono?
Non ricordi
com’ero? Non ricordi…il tuo più grande
nemico? Il tuo..gemello? Ci rimase
un po’ male. Rahahel, intanto, si era avvicinato e osservava
il Principe con
apprensione.
“Che ti succede?”
chiese.
“É tuo
amico?” volle sapere Mihael.
“Sì”.
“Sembra simpatico, ma di
poche parole! Timido?”.
“Un po’, Miky. Ma
sta imparando…in realtà è molto
coraggioso!”.
“Bene. Ora, scusatemi, ma
devo andare. Gli anziani mi hanno
chiamato…ci vediamo dopo!”. L’Arcangelo
guerriero si allontanò. Luciherus fissò
la sua spada nel fodero. Faceva uno strano rumore, battendo contro
l’armatura.
Il caduto si chiese perché fosse sempre in assetto da
guerra. L’Arcangelo
guaritore si sedette accanto al più bello, che si guardava i
piedi con la testa
appoggiata fra l’incrocio delle sue braccia sulle ginocchia.
“Amico! Che mi combini?!
Tutto bene? Cos’è
successo…l’emozione?”.
“L’influenza”
biascicò il Principe.
“Macché
l’influenza! Non hai la febbre! Stai benissimo”.
“Talmente bene che non sto
in piedi…dov’è mia figlia?”.
“Dovrebbe uscire adesso
dalla sala dei Serafini”.
Luciherus chiuse gli occhi.
“Piantala di
toccarmi!” sibilò a Rahahel che gli stava
accarezzando i capelli.
“Come vuoi!
Antipatico!”.
“Non sono
antipatico!”
“Certo che lo sei! Sei
proprio odioso!”.
Il
Principe fece un
mezzo sorriso e ringraziò. L’Arcangelo non
capì e scosse il capo.
Il caduto tornò a perdersi
nei suoi pensieri. Guardò la
statua, alzando gli occhi, con speranza. Fissando il suo riflesso, si
vedeva
molto diverso da ciò che era in realtà. Si
sentiva spogliato di ogni cosa e
sofferente, mostrando il suo corpo martoriato e segnato da numerose
cicatrici.
Pur vedendo un Arcangelo nello specchio, non poteva fare a meno di
sentire le
sue corna, in realtà celate, sulla fronte e la coda.
Perché spero?
Si chiese. Ciò che avevo l’ho perso
o sto per perderlo…in che
cosa devo
sperare? La voce di Luciheday lo fece trasalire.
“É
meraviglioso!” diceva Camahel, l’Arcangelo
dell’amore
puro, alla coppia di divinità che si tenevano a braccetto.
Quasi cinguettava di
felicità nel vederli e nell’apprendere la notizia
dell’imminente matrimonio. “É
meraviglioso che vuoi due abbiate deciso di sposarvi qui. Ed io sono
davvero
felice di potervi assistere!”.
“Sei molto
gentile” disse la Dea della Morte.
“Ma…”
chiese l’Arcangelo, dubbioso”…come la
mettiamo con tuo
padre? Luciherus non verrà mai qui, su questo
Pianeta”.
“Mio padre non vuole avere
niente a che fare con questo
matrimonio…perciò non fa differenza”.
Si notava chiaramente, nello sguardo
della Dea, una nota di
tristezza.
“É un peccato
che non possa
essere presente in un giorno così
importante” continuò Camahel.
“É una scelta
sua! Continua a ripetere che commetto un
errore. Preferisci vedermi salire all’altare di un altro
Mondo, con lui che
brontola tutto il tempo?”.
Lei ruotò gli occhi,
frustrata, e si guardò attorno.
Incrociò lo sguardo del Principe ma non lo riconobbe.
Nemmeno mia figlia sa chi
sono…ora capisco la
frustrazione di Kasday si disse il caduto.
“Noi vorremmo averlo con
noi…” parlò il Dio della Vita
“…ma
lui è testardo e non vuole saperne!”.
“Cerca di comprenderlo,
caro” lo rimproverò Luciheday “Ha
solo me!”.
“Ha tutto un Pianeta! Un
intero regno al suo comando!”
sbottò il Dio.
“Sì. Ma solo io
gli voglio bene! E lui non vuole perdere
questo”.
“Che
discorsi…”.
“Volere bene a Luciherus
dev’essere una cosa piuttosto
complicata…” commentò Camahel.
“Non è
vero!” esclamò Luciheday.
“E chi vi dice che lui
voglia avere qualcuno che gli voglia
bene?” domandò uno dei Serafini-capo, sulla soglia
della loro sala privata.
“Rifletteteci!”
continuò il Serafino “É un
demone!”.
“E allora?! Cosa state
cercando di insinuare?” chiese la
Dea, accigliata.
“Insinuo che è
un demone. Ergo: i demoni non vogliono bene a
nessuno!”.
“Stronzate!”
sibilò lei.
“Giusto. Sono creature
cattive!” furono le parole di
Camahel.
“Un demone si
può solo odiare!” affermò il capo.
“Ma noi non lo odiamo. Non
possiamo” parlò l’Arcangelo
dell’amore puro.
“La sua
incapacità di amare è una giusta
punizione” asserì
il Serafino “E mi auguro che ripensi spesso a
com’era. Lui, il più bello e
lucente di tutti noi, ora solo ed abbandonato anche dalla sua stessa
figlia”.
Luciherus, rimasto seduto, poteva
udire ogni parola.
“Me lo auguro proprio che
ci pensi!” terminò il piumato.
“Tutti i
giorni…” sussurrò il Principe, ferito
dalle parole
della propria figlia più che dal resto.
Trovò rassicurante il
fatto che il suo corpo d’Arcangelo
fosse in grado di piangere.
Abbandonato? Dalla
mia bambina?
“Perché vuoi
portarmela via? Perché non vuoi che resti che
con me?” mormorò ancora
“Kasday… Ma che devo fare? Non posso lasciarla
andare!”.
Le candele parevano rispondergli,
avvicinando ad allungando
la loro fiamma, come a rassicurarlo. Si alzò, lentamente,
guardando il Dio
della Vita.
“Devo essere più
Arcangelo…devo accettare la cosa!” si disse
“Mia figlia non cambierà idea…tanto
vale che me ne faccia una ragione! Non è
poi la fine del mondo…”.
“Devi andare da lei e dirle
ciò che pensi!” lo incito
Rahahel, rimastogli accanto.
“No, ti sbagli, guaritore.
Quello che devo fare è l’esatto
opposto. Devo restare qui e lasciarla andare”.
Guardò sua figlia con un
sorriso. Com’era bella con la sua
pelle d’ebano, gli occhi azzurri ed i capelli fumosi ed
agitati. Emetteva
quella splendida luce rossa, così simile alla
sua…
“É un piacere
vedere che la figlia è così diversa dal
padre”
si compiacque uno dei Serafini. “Meno testarda e
più aperta…”.
“La Morte è
uguale per tutti…non lo sa? E, ad ogni modo, mio
padre non è così terribile come lo
descrivete”.
“Magari non con te! Ma ha
sempre avuto qualcosa di strano,
fin da bambino. Con quei capelli dritti come spaghetti, la faccia a
punta e gli
occhi maligni…per non parlare del suo
caratterino!”.
“Oserei definirlo
pessimo!” ridacchiò Camahel.
“Siete ingiusti!”
protestò Rahahel “Ha solo scelto un diverso
modo di vivere! Non è l’unico che ha preso una
decisone simile!”.
“Gli altri lo hanno seguito
come degli imbecilli. Era lui il
capo. Dava gli ordini e veniva obbedito dai peggiori di noi”.
“Evidentemente era
l’unico con del cervello” sibilò
Luciherus,
sorridendo malignamente.
I capelli scuri gli coprivano buona
parte del viso. “Era
l’unico che fosse in grado di pensare e tutti quelli che ne
erano, anche solo a
malapena, consapevoli, lo hanno seguito. Gli altri, i decerebrati, sono
rimasti
qui!”.
“Come scusa?” si
indispettì uno dei capi.
“Come ti permetti? Chi sei
tu, per poter parlare in questo
modo?”.
“Il fantasma dei Natali
passati!” sibilò il caduto.
“Scusatelo!” si
intromise Rahahel “É un po’ confuso dopo
il
lungo viaggio che ha affrontato e…”. “Da
dove vieni?” domandò l’anziano
Serafino.
“Dai tuoi peggiori
incubi!” fu la risposta.
Scansando un ciuffo di capelli con un
cenno del capo, il
Principe mostrò i suoi occhi arancio.
Erano tornati sottili e minacciosi,
demoniaci, come sempre.
“Un demone!”
trasalì Camahel.
“Un ibrido…ha le
ali piumate!” lo corresse un Cherubino.
Tutti i presenti al Tempio si erano
fermati a guardarlo.
“Che roba sei, tu,
abominio?” tuonò un Serafino.
Luciherus ridacchiò.
Mihael, allarmato dalle grida e dalle
esclamazioni, uscì dalla stanza della cupola e
brandì la spada. Individuò
subito l’intruso.
“Demone…”
sibilò a bassa voce e con tono minaccioso.
Spalancò le ali e fece per
piombare sul caduto. Ma Luciherus
lo vide. Sentì quanto quell’Arcangelo fosse pieno
di energia ed allungò un
braccio nella sua direzione. Con il palmo aperto, il più
bello pronunciò poche
parole, togliendo le forze al guerriero. Rise. Era il Dio della Forza
e,
ovviamente, poteva donarla così come poteva toglierla.
Mihael, sentendosi sfinito,
non riuscì più a volare e cadde a terra, fra lo
stupore generale.
“Ma come? Mihael, il nostro
guerriero più forte…”.
“Scusami, Mikino! Non
volevo farti così tanto male…”
mentì
Luciherus.
“Nemmeno mia madre mi
chiamava Mikino! Cosa credi…che possa
lasciare che tu lo faccia, straniero?!”.
“Ti sbagli. Mamma ti
chiamava sempre Mikino. Non ricordi
nemmeno questo?” ridacchiò il Principe,
porgendogli la mano per farlo rialzare.
“Ma tu chi cazzo
sei?” ringhiò il guerriero.
“Che linguaggio
forbito…ma come? Non sai chi sono? Non
riconosci nemmeno il tuo gemello?”.
“Luciherus?”.
“Mihael…”.
“Fratello mio”.
I due si presero per mano ed il
Principe rimise in piedi il
guerriero, tornandogli parte della forza vitale, seppur di
controvoglia.
“Cosa ti è
successo?” domandò Mihael.
“A cosa ti
riferisci?” sogghignò il Principe
“É da davvero
tanto che non ci vediamo. Dunque.. vediamo..che mi è
successo?! Ho cambiato i
mobili, ho fatto ridipingere casa, ho quasi sodomizzato Rahahel
e…che
altro…sono diventato un Dio…”.
“Come?!”
interruppe l’Arcangelo in armatura.
Luciherus si passò la
lingua sulle labbra, con evidente
compiacimento.
“Sei geloso? Invidioso?
Dovresti essere felice…il tuo
gemellino è una divinità!”.
“E le ali…il tuo
aspetto? Fanno parte della tua…deità?”.
“No. Sono un regalo di
Kasday. È facile rimediarci”.
Il caduto tornò al suo
solito aspetto, con le corna, la coda
e le ali nere. Le dorate e piumati appendici da Arcangelo si fecero
molto
piccole ed impercettibili fra le membrane da pipistrello.
“Mihael…”
iniziò.
Ma l’Arcangelo non lo fece
parlare: “Non capisco come sia
possibile. Battermi così…”.
“Mihael…”.
“…dopotutto sono
sempre l’Arcangelo guerriero! Non è
ammissibile che…”.
“Mihael!!”.
“…tu mi
sconfigga! Non so come davvero come
giustificarlo…”.
“Mihael!
Guardami!”.
Il demone mostrò il
simbolo che portava sulla fronte.
“Sono il Dio della Forza.
Non potrai più sconfiggermi. A
meno che tu non diventi una divinità ma…non credo
possa accadere!”.
Molti dei presenti, vedendo il
simbolo, si inchinarono con riverenza.
“Che
soddisfazione!” ghignò Luciherus “Il
sogno di una vita
che si avvera! Gli angeli prostrati ai miei piedi!”. Rise
malignamente.
“Tu giochi con il
fuoco!” commentò un Serafino.
“Dici?”.
Di tutta risposta, il caduto
afferrò, con noncuranza,
un paio delle fiammelle delle
candele poste accanto a lui. Ci giocherellò un
po’. Soffiandoci sopra ne
ampliava la potenza.
“Sei un mostro! E solo un
pazzo darebbe il potere divino ad
un essere come te!” gemette il piumato.
“Mostro?!” ringhiò il demone.
Soffiò con decisione sul
fuoco e questo si diresse verso il
Serafino a sei ali, che non riuscì a schivarlo. La creatura
angelica urlò,
mentre le fiamme lo avvolgevano.
“Portami un po’
di rispetto, ora che sono un tuo superiore,
piumino per la polvere!”.
Il Serafino cadde in ginocchio,
lamentandosi.
“Così va
meglio…” malignamente commentò
Luciherus.
“Papà!”
intervenne la Dea della Morte “Papà, che fai?! Un
Dio non…”.
Con un gesto della mano, il Dio della
Forza estinse il
piccolo incendio ed il Serafino ebbe salva la vita.
“Figlia mia…io
sono qui perché Rahahel era troppo codardo
per tornare da solo ma anche perché…volevo
parlarti”.
“Parla” rispose
lei, seria.
“Non ci riesco. Ho tentato
di seguire il consiglio di
Vereheveil, lui mi aveva detto di essere più Arcangelo, ma
le cose non
cambiano. Immagino che nulla possa convincerti a non sposarti
perciò..sono qui
per dirti che sono felice. Felice che tu compia questo passo
importante, passo
che io, Dio del Coraggio, non ho avuto il…coraggio di
compiere! Mi auguro
davvero che non sia
un errore e che tu
possa essere veramente felice. Perché è questo
quello che meriti: l’eterna
felicità. So quanto sia difficile con un padre come
me…”.
“Parli troppo,
papà!” lo fermò lei, abbracciandolo
“Ti voglio
bene e sta tranquillo! Io sarò sempre accanto a
te!”.
“Ne dubito fortemente,
piccola mia, ma è tempo che i vecchi
come me accettino il fatto che i piccoli, prima o poi, lasciano il
nido”.
Dopo qualche istante di silenzio, lei
sciolse l’abbraccio.
“Sai,
papà…dicono che anche Kasday si
sposerà”.
“Davvero?”
esclamarono, in coro, Luciherus, Camahel e molti
dei presenti.
“Sì. Con una
delle divinità Alte”.
“Ci è
costretta!” esclamò Luciherus, ricordando
l’Alto nel
suo aspetto femminile.
“Non ne ho
idea…” fece lei, convinta che fosse una domanda o
un dubbio.
“Ne è costretta.
Ne sono sicuro! L’ho vista da poco e non
aveva di certo l’aria di una futura sposa, o sposo, che dir
si voglia!”.
“Questa è solo
una tua idea, papà! Dopotutto, non sei
contento che si rifaccia una vita?”.
Luciherus annuì, con
un’espressione poco convinta.
“Devo andare, piccola mia.
Dalle mie parti non tira una
buona aria. Ti auguro tanta serenità e gioia. Ed ogni altra
cosa che si augura
in questi casi…non ne ho una grande
esperienza…”.
La Dea, stupita
dall’improvvisa freddezza del padre, notò
come si fosse rabbuiato e non disse niente. Il demone tornò
nel suo regno aprendo un portale, usando
i suoi poteri divini, e sparì.
“Non sapevo che foste
gemelli…” disse Rahahel, quando tutti
i presenti tornarono a rilassarsi un po’.
Mihael sorrise.
“In realtà si
vede. Abbiamo un carattere molto simile ed
alcune abilità in comune. Ma c’è una
differenza sostanziale…”.
“Oltre al fatto che avete
capelli ed occhi diversi?”
ridacchiò il guaritore.
“Oltre a
questo…siamo diversi nell’animo. Io non sono
così
inquieto. Ad ogni modo…cosa ci facevi tu con
lui?”.
“Non sono affari tuoi! Ho
avuti dei problemi…”.
“Come vuoi ma, se posso, ti
do un consiglio: sta molto
attento. Non rinunciare all’immortalità come ha
fatto Urihel e non lasciare che
le tue ali si scuriscano ulteriormente. Non diventare uno strano ibrido
senza
né pace né dimora. Non costringermi ad essere tuo
nemico”.
“Sì,
Sì…” tagliò corto Rahahel
“…starò attento!”.
Il guaritore ripercorse la navata
principale a ritroso, dopo
aver fatto un inchino davanti alla statua di Kasday, ed uscì
dall’immenso
Tempio bianco. Mihael toccò l’elsa d’oro
della sua spada e guardò a sua volta
la statua, chiedendosi quale divinità folle avesse
architettato tutto quello
che stava accadendo. Alcuni angeli piansero, soffrendo per la
crudeltà di
colui, o colei, che aveva donato tanto potere al Principe dei Demoni.
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Capitolo 18 *** XVIII- madre celeste ***
XVIII
MADRE
CELESTE
Kasday guardava il tramonto, con aria
assorta. Canticchiava,
guardando verso l’alto. Voleva evocare la madre della
bambina, ma la cosa era
più difficile del previsto. Usando la visualizzazione non
riusciva ad
individuarla. Non la trovava, tanto era schermata e protetta.
Camminava,
nervosamente, a destra ed a sinistra, sbuffando. Avrebbe dovuto usare
un sacco
di magia per richiamarla in quel Mondo…e non gli piaceva
molto restare “a
secco”.
La piccola lo osservava.
“Quando arriva la mia
mamma?” volle sapere.
“Un attimo! Mi ci vuole del
tempo…non è così semplice!”
sbottò l’Alto.
Nosmagiés ondeggiava la
testa di qua e di là, al ritmo della
musica che sentiva nelle cuffie.
Aveva raccolto i capelli in una
crocchia voluminosa e salì
perfino sul tavolo, ballando, convinto di non essere visto. In
realtà il suo
Signore lo vedeva benissimo, attraverso la finestra.
Kasday ridacchiò e lo
lasciò alle sue danze.
Come posso portarla qui
senza che Momoia se ne accorga?
Si chiedeva l’Alto Come potrò
proteggerle entrambe? Quella pazza mi
distruggerebbe se sapesse…
Stava quasi per rinunciare quando la
Celeste lo guardò, con
occhi pieni di speranza e nostalgia per la mamma lontana. Kasday
sospirò,
rassegnato. Stava calando la notte. Le stelle iniziavano a brillare nel
cielo.
Tutti i pianeti, le luci ed i Soli dall’Alto creati gli
parevano, ora più che
mai, lontani e quasi estranei. Aprì le braccia, alzando la
testa verso
l’infinito buio della notte, ed iniziò a cantare.
La bambina sorrise. “Posso
cantare anch’io?” chiese.
Kasday annuì. La piccola
si mise nella sua stessa posizione
e ripeté tutte le parole che era in grado di riconoscere.
“Come si chiama la tua
mamma?” domandò il Signore.
“Deyan”.
Kasday iniziò a ripetere
quel nome, Deyan, sempre più forte,
finché nel cielo si poté scorgere una luce in via
d’espansione. Sempre più
forte e ampia, la luce divenne un immenso vortice.
“Chiama anche tu la tua
mamma, piccola!”.
Pure la bambina gridò:
Deyan. La luminosità si fece sempre
più intensa, così come il bagliore emesso dalla
pelle di Kasday. D’un tratto si
sentì un urlo ed una donna precipitò dal vortice,
cadendo fra le braccia
dell’Alto. Lui la afferrò saldamente.
Nosmagiés, che era uscito in cortile non
riuscendo a vincere la curiosità, afferrò
l’altra figura che uscì dalla luce.
Era un’angiolessa. Una Messaggera, lo si capiva dalle ali
d’argento. L’angelo,
alquanto stupito, la guardò. Era priva di sensi e molto
magra.
La creatura fra le braccia di Kasday
era spaventata ma poi
si calmò e sorrise. “Lo sapevo che ci avresti
aiutate…” sussurrò.
“Cosa vi è
successo?” chiese l’Alto, ma lei chiuse gli
occhi, addormentata.
Non aveva un bell’aspetto.
Sembrava che fosse appena stata
torturata e maltrattata.
“Hai l’aria di
chi ne ha passate fin troppe…”.
“Mamma!”
esclamò la bambina e l’Alto le fece segno di
abbassar la voce.
“Mamma ora dorme. Aprimi le
porte che la porto in una
camera” si girò verso Nosmagiés
“Riesci a portare di sopra la Messaggera, mio
angelo?”.
“Sì,
tranquillo!”.
“Mettiamole in due stanze
separate, così non si
preoccuperanno inutilmente vedendosi malandate”. Il
Messaggero obbedì. Portò la
creatura in una piccola stanza, facile da scaldare. Aprì il
semplice armadio a
muro, unico arredamento assieme al letto ed alla sedia, usando le
maniglie
placcate in oro. Il legno del mobile scricchiolò aprendosi.
L’angelo ne
estrasse delle coperte di cotone e lino, di vari colori. Avvolse con
cura il
corpo della Messaggera, che era infreddolita. Si vedeva che necessitava
di cure
e che non mangiava da tempo. Quando Nosmagiés si convinse
che era
sufficientemente coperta, uscì per cercare qualcosa con cui
nutrirla e farla
star meglio.
“Signore!”
chiamò “Credo che ad entrambe farebbe bene poter
avere qualcosa di caldo per sfamarsi”.
“Ci penso io”
rispose il Padrone, da dentro una camera “Sta
tranquillo!”.
L’angelo rientrò
nella stanza e si soffermò ad osservare la
Messaggera addormentata. Aveva i capelli molto mossi, di un bel verde
smeraldo,
leggermente screziati di blu. Le ali d’argento avevano molte
piume fuori posto,
quello era il primo segno, in un angelo, che qualcosa non andava
perché indicavano
problemi di salute o altro. Nemmeno lei aveva più
l’aureola.
Kasday entrò nella camera,
con un vassoio in mano.
“Come sta?”
domandò, sottovoce.
“Credo che abbia un
po’ di febbre ed ha bisogno di mangiare.
La madre della bimba?”.
“Dorme. Vedremo quando si
sveglierà. Non mi sembra ferita,
ma solo stanca e spaventata”.
L’Alto appoggiò
il vassoio sulla sedia ed uscì, con un cenno
del capo. Il messaggero prese la teiera d’acqua bollente
appoggiata su di esso.
Versò il contenuto nella tazza azzurra, con una piccola
busta sul fondo,
sprigionando una piacevole fragranza fruttata. Il messaggero la
annusò,
leccandosi le labbra. Mescolò con cura, con un cucchiaino
decorato. Poi sollevò
il tappo che copriva parte del vassoio e sbirciò sotto,
ammirandone il
contenuto. C’era una zuppa con del pane, leggermente tostato,
con formaggio ed
altre strane cose. L’angelo versò una polvere nel
tè, un ricostituente che
anche lui usava, specie quando il suo Padrone non chiudeva occhio e
rompeva.
Lei, sentendo profumo di cibo, si
svegliò. Aprì gli occhi,
rossi come il rubino, incrociando quelli verdi di giada
dell’angelo.
“Vi siete
svegliata?” mormorò l’angelo.
“Dov’è
la mia Signora?” chiese lei, per prima cosa.
“É in
un’altra stanza, con il
padrone di casa. È in buone mani,
tranquilla!”.
“Sta bene?”.
“Sì. Sta
riposando”.
La Messaggera parve subito
più rilassata.
“Lei lo aveva detto che voi
sarete stato in grado di
aiutarci!”.
“Cosa è
successo?”.
“É una storia
lunga e complicata…”.
“Allora prima mangiate,
prego! Io sono Nosmagiés…”.
“Yeleàn,
piacere! Dammi del tu!”.
Lei addentò un pezzo di
pane, bofonchiando che era molto
buono.
“Yeleàn?
È un bel nome…”.
“É la prima cosa
che mangio dopo tanto tempo…”.
“Vi hanno tenuto
rinchiuse?”.
“Sì”.
“Ma la tua Signora non ha
bisogno di mangiare…tu sì!”.
“Già…è
vero!”.
“Ma le sei rimasta accanto
comunque…”.
“Lei voleva che me ne
andassi, ma io sono rimasta”.
“Potevi morire!”.
“Già”.
“Perché
rischiare tanto?”.
Lei lo guardò,
meravigliata: “Non sei anche tu un Messaggero?!”.
“Sì, certo! Ma
il mio contratto non prevede la fedeltà fino
alla morte!”.
“Non ami il tuo
Signore?”.
Nosmagiés si
stupì molto nell’udire quella domanda.
“Certo. È il
motivo per cui ho perso l’aureola”.
“E allora…non
serviresti il tuo amore fino alla fine?”
mormorò lei, finendo il tè.
“Sì…ma…”.
“Allora perché
trovi così strano che io abbia fatto una cosa
simile?”.
“Perché
l’amore fra Messaggero e padrone è proibito. E
quindi…pensavo fosse una cosa solo da me provata e ci tenevo
a tenerlo nascosto”.
“Non
l’hai mai
detto?” esclamò lei, spalancando gli occhi.
“Cosa?”.
“Quello che provi al tuo
Signore!”.
“No! Certo che
no!”.
“Sbagli. Se il tuo Signore
lo sa, poi diventa tutto più
semplice, credimi!”.
“La tua signora lo sa?!
È fuori discussione che io glielo
dica! E poi…sta per sposarsi!”.
“Anche la mia Signora era
sposata. Questo non ha cambiato le
cose. Il matrimonio, nella maggior parte dei casi, poco ha a che fare
con
l’amore”.
“Squallido…”.
“Stupido. Ma è
così. Del resto…capita!”.
“Non voglio parlarne,
scusami!” mugugnò Nosmagiés.
“Come vuoi. Sei molto
carino…non dovresti struggerti per una
cosa così!”.
“Dov’è
la mia Messaggera?” chiese Deyan, aprendo gli occhi.
“Al sicuro” le
rispose Kasday.
“É una piccola
stupida!” esclamò lei “Le avevo ordinato
di
andarsene, assieme a mia figlia, ma non mi ha obbedito. Volevo evitasse
torture
inutili ma lei, scema, è rimasta con me!”.
“Non dare una colpa, o
insultare, chi non c’è. E, comunque,
lei ti serve e ti ama”.
“Già. Amare
è il grosso problema degli Angeli…”.
Deyan guardava il soffitto, mentre
Kasday girellava per la
stanza.
“Portate un anello al
dito…” disse lui, ad un tratto
“…non
è, forse, anche questo un simbolo d’amore? Non
è un problema…”.
“Lo era. La creatura che
amavo è morta”.
“Mi
dispiace…” sussurrò l’Alto,
aprendo le tende e guardando
il cielo.
“Lo
immagino…” sibilò lei “La
creatura che amavo era
Sowelo”.
Kasday trasalì nel sentire
quel nome.
“Non sapevo che
fosse…” farfugliò, confuso.
“…una persona
sposata?” finì Deyan “Lo era, invece. Tu
sei
stato…un amante molto speciale”.
Lui rimase in silenzio e lei sorrise.
“Non sentirti in
imbarazzo!” rise la Celeste “Io ho capito
subito cosa mi nascondeva…e non ho fatto nulla. Vedevo che
era molto più felice
quando tornava da te”.
“Mi
dispiace…” tentò di dire
l’Alto.
“No, a me spiace. Mi spiace
che tu lo abbia saputo così.
Credevo che te ne avesse parlato, o perlomeno accennato! Ad ogni modo,
è grazie
a voi che ora sono salva, assieme alla mia bambina”.
“Che intendete?”.
La Celeste si alzò dal suo
giaciglio. Portava i capelli
sciolti, lunghi fino alla metà della schiena, bianchi come
il latte.
“Sowelo mi ha parlato tanto
di te. Così, quando sono stata
in difficoltà, ho capito che avresti potuto
aiutarci”.
Sbatté gli occhi, magenta.
“Anche voi avete tre
occhi…” notò l’Alto.
“Sì. Ma il terzo
non lo apro mai. È azzurro, come i tuoi!”.
Lei sorrise e Kasday chiuse, per un
attimo, il terzo occhio
che aveva sulla fronte, dall’iride magenta. “Mi
parli di Sowelo, per favore”
domandò lui.
“Dammi del tu. Siamo
colleghi. Ad ogni modo…so che con te
prediligeva mostrarsi come donna. Che
strano…però, immagino, che se tu fossi
fra i Celesti, faresti la stessa cosa”.
“Ne dubito. Gli Alti
preferiscono il mio lato femminile.
Perciò, in un Mondo parallelo ed opposto, dovrei essere
più apprezzato come
maschio”.
“Sowelo era una creatura
molto buona…e ingenua”.
“É il padre
della bambina?”.
“Sì”.
“Ha la stessa
età che avrebbe dovuto avere il nostro
piccolo…” sussurrò Kasday, con lo
sguardo assente.
“Mi dispiace”
disse lei, inclinando la testa.
“No. A me dispiace! Non
sapevo di aver creato una vedova ed
un’orfana”.
“Non è stata
colpa tua…”.
“Sapevamo che era
sbagliato. È per la bambina che eravate
rinchiusa in quella torre?”.
“No. A noi nulla vieta di
fare figli. Ero prigioniera a
causa del marito di Momoia”.
“In che modo la cosa
dovrebbe riguardarti?”.
“Dicono che sia stata io ad
ucciderlo”.
“Non si sa se è
morto…”.
“Suvvia…il suo
potere è sparito!”.
L’Alto non aprì
bocca, non poteva negarlo.
“Dicono che io sia la causa
della guerra” mormorò di nuovo
lei.
“Ma non è
vero!” protestò Kasday.
“Chi
c’è a darne prova? Chi testimonierebbe a mio
favore?”.
Di nuovo lui rimase in silenzio.
“Cosa ti hanno
fatto?” domandò l’Alto, guardandola.
“Mi hanno rinchiuso in
quella torre, con la mia bambina e la
mia Messaggera, senza nessun contatto esterno salvo la presenza
sporadica del
mio capo. Il Padre dei Celesti, da quando ha sospettato di me, non ha
fatto
altro che tormentarmi. Dicevano tutti che ero dalla vostra parte e che
era mia
la colpa se la Madre del nostro gruppo è sparita. Ma io sono
estranea alla
faccenda. Come avrei potuto ucciderla o schermarla?! Il suo potere
è sempre
stato di molto superiore al mio!”.
“E questo che
t’accusa non l’ha capito?”.
“Nessuno di loro
l’ha preso in considerazione…”.
“Consolati, Deyan. Io vengo
trattato come uno scartino
perché la mia energia magica è troppo
scarsa”.
“Sei fortunato”.
Kasday sospirò:
“No. Se fossi stato in grado di usare una
maggiore quantità di forze, avrei potuto salvare mio
figlio…”.
“Avevi solo
lui?”.
“No. Ho altre creature. Ma
sono tutte lontane da me”.
Lei girò le gambe ed
appoggiò i piedi sul pavimento. La
gamba di destra era di metallo e pietra, quella di sinistra di vetro:
l’opposto
di Kasday. Su entrambe scorrevano riccioli di magia dorata.
“Io sono Deyan. Il
mio nome significa: occhi del destino” cominciò a
parlare “Sono la figlia del
Dio del Destino e della Dea del Kaos. Ho avuto un figlio con il
Principe del
regno degli Angeli ed altre creature le ho generate con la Dea delle Letterature. Ho
rinunciato alla
possibilità di divenire una Celeste alla nascita dei miei
gemelli: il Kaos e la
piccola Destino. Poi loro sono cresciuti ed hanno adempiuto ai loro
compiti,
rompendo l’equilibrio. Solo allora sono divenuta una Celeste
ed ho conosciuto
Sowelo, concependo mia figlia. La storia ti risulta
familiare…immagino…”.
“Assolutamente” disse lui “Ma la cosa non
mi stupisce. Gli
Alti ed i Celesti vivono in
diversi Universi ma molto simili, quasi paralleli”.
“Direi opposti”.
“Maschi corrispondono a
femmine e viceversa…dev’essere
divertente farli incontrare. Anche le nostre scelte sono state diverse.
Mi sono
sempre chiesto cosa sarebbe successo se io non fossi divenuto un Alto,
il giorno
della nascita dei gemelli…”.
“Non sarebbe cambiato
nulla”.
“Come hai salvato tua
figlia? Come l’hai mandata a me?”.
“Momoia spiava suo figlio,
perciò, inevitabilmente, sapeva
tutto anche di me e della piccola. Hanno avuto pietà della
mia creatura, specie
dopo che lui si è tolto la vita”.
“Perché gli
Universi sono così semplici, sotto certi punti
di vista, ma assurdi fra quelli degli Alti ed i Celesti?!”.
“Che domanda è?!
E, comunque, immagino ci sia qualcuno al di
sopra”.
“C’è
sempre qualcuno al di sopra. Che si diverte un sacco, a
mio avviso!”.
“Ci dicevano che quando un
Dio era stanco di lavorare
diveniva un Alto o un Celeste, ma non è così.
Quindi ci deve essere per forza
un posto per gli Dèi ed i mortali dove, una volta terminata
la loro vita e la
loro voglia di esistere, possano stare. Magari in attesa di una nuova
vita o
redenzione”. “Non so quanto
sperarlo…” ammise Kasday.
I due si osservarono circospetti. In
silenzio, fino a quando
non si
udì bussare alla porta.
“Signore?”.
Era Nosmagiés, che
chiedeva di entrare.
“Entra pure, mio
angelo” gli disse l’Alto.
“Signore,
c’è un tizio di là, che non ha voluto
identificarsi, e che vuole parlare con lei”.
“Lei inteso come me o lei
nel senso di lei?” chiese il
padrone, indicando la Celeste.
“Lei nel senso di
Voi!”.
“Bene, arrivo subito. Dammi
una mano a prepararmi”.
“Sì
e…poi ci sono delle persone che tentano di salire le
scale ed entrare”.
“Non ha
importanza!”.
Signore e Messaggero cambiarono
stanza ma Kasday attese un
bel po’ prima di dare udienza all’ospite.
L’Alto rimase in silenzio, reggendosi
la testa con la mano e guardando le stelle. Nosmagiés gli
rimase accanto,
sistemandogli i capelli con accuratezza, in modo complesso, davanti ad
uno
degli specchi. Nel frattempo il padrone si agghindava in modo strano ed
elaborato, con gioielli e dettagli preziosi. L’angelo, finita
la pettinatura,
lo lasciò e scese le scale, andando ad intrattenere
l’ospite. Sentì un gran
rumore dal piano inferiore ed accelerò il passo.
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Capitolo 19 *** XIX- non dimenticarmi ***
XIX
NON
DIMENTICARMI
La Dea della Guerra
incrociò Vereheveil sul suo cammino. Lo
fissò, dapprima un po’ accigliata, la sua solita
espressione, e poi con
tenerezza.
“Ciao
Vereheveil…” salutò, con dolcezza.
“Buongiorno,
Signora
della Guerra” rispose il Dio delle Letterature, interrompendo
il giardinaggio a
cui si stava dedicando.
Annusò
i fiori che
aveva appena messo nel suo giardino e, togliendo i guanti sporchi di
terra,
bagnò con l’annaffiatoio le sue piantine.
“Cosa
fate da queste
parti, Signora?”.
“Niente
di
particolare…e tu, Dio delle Lingue?”.
“Osservo
i colori
neonati di questo giorno di inizio primavera”.
“Che
bravo. Così
rilassato…ed io…vorrei andare a trovare mio
figlio”.
“Il
Dio della Paura
e dei Sogni? È da un po’ che non lo
vedo…”.
“Lui
lo vedo con
regolarità. Io voglio andare da Kasday”.
Vereheveil
lasciò
stare i fiori e rimase in silenzio per un po’.
“É
impossibile”
commentò lui, sistemandosi i capelli mossi dal vento
“L’entrata è sorvegliata.
Non si può oltrepassare la soglia senza il permesso del
padrone di casa. Le sue
guardie sono in grado di ucciderci e lo faranno, se le
attacchiamo”.
“No,
se abbiamo
dalla nostra parte il Dio della Forza!”.
“Volete
andare là
con Luciherus?!” esclamò lui, spalancando gli
occhi dorati “Che brutta idea…”.
“Perché?” ridacchiò lei.
“Perché?!
Ma come
perché? Perché è un pazzo ed un
idiota, privo di autocontrollo. Farebbe solo
danni!”.
“In
questo caso, se
sei convinto che lui non possa aiutarmi, per quale motivo non vieni tu
con me,
angelo?”.
Vereheveil
scosse il
capo.
“Cosa
ci vado a fare
da lui? L’hai sentita l’ultima, no? Si sposa. Si fa
una nuova vita…senza di
me”. Gli occhi del Dio erano leggermente velati di tristezza
ma la Dea non si
impietosì.
“Come
hai fatto tu!”
sibilò, acida “Dai, Verhevy, vieni con me! Sono
sicura che al mio piccolo farà
piacere. E poi…le paure si superano affrontandole! E qual
è il modo migliore,
se non quello di sfruttare la presenza del Dio del
Coraggio?!”.
“Lui
non può, e non
vuole, aiutarmi!”.
“Se
non vuoi venire,
per me è lo stesso. Ora vado dal Dio della Forza e del
Coraggio e, insieme, ce
ne andremo dal mio secondogenito. Tu fa come credi!”
sbottò la Guerra.
Vereheveil
sospirò:
“Non posso lasciarla andare da sola con
quell’individuo. Nessuna creatura
razionale permetterebbe ad una dama di rischiare l’esclusiva
presenza di
Luciherus!”.
Lei
sorrise. Il Dio
delle Letterature rientrò in casa, cambiandosi
d’abito. Indossò una veste più
elaborata ed adatta, verde ed oro. Rimase deliziato ad osservare come
vestiva
la Guerra, in nero con ricami argento a tele di ragno e particolari in
filo
spinato.
Assieme
si avviarono
verso il palazzo del Principe.
Sul
Pianeta dei
Demoni era inverno. Un vento gelido, accompagnato da nevischio e
giaccio, fece
rabbrividire le due divinità. Vereheveil, pochi secondi dopo
aver messo piede
su quel Mondo, si pentì di essere giunto fino a
lì. Asmodai, capo delle guardie
di Luciherus, non li fermò. Li riconobbe come Dèi
e li lasciò passare. Lanciò
loro solo un ammonimento: “Potete entrare ma vi informo che,
ultimamente, è
quasi sempre intrattabile”.
“Come
sempre…sai che
novità…” mormorò il Dio
delle Letterature, stringendosi nel suo mantello rosso
e nelle ali nere.
“Fa
niente…”
rispose, invece, la Guerra, convinta come non mai di dover raggiungere
suo
figlio. Vereheveil fece strada lungo i corridoio labirintici che aveva
percorso
migliaia di volte. Passò accanto a quella che un tempo era
stata la sua stanza
ed andò oltre. La Guerra lo seguiva, sentendo il rumore dei
suoi passi farsi
eco lungo i cunicoli dell’edificio.
“Luciherus!”
urlò il
Dio dalle ali d’angelo, entrando in una delle camere.
Corse
dentro e la
Dea lo imitò. Il Principe era immobile, in uno stato di
parvente delirio.
Teneva gli occhi spalancati, fissi nel vuoto, e muoveva la bocca come
se
volesse parlare, ma in realtà non emetteva nessun suono.
Inginocchiato sul
letto di seta nera, con le braccia abbandonate lungo il corpo, non si
riprendeva nonostante il Dio delle Letterature lo chiamasse.
Il demone
aveva
delle visioni. Vedeva delle chiare immagini, in realtà
inesistenti, davanti ai
suoi occhi. Un bambino fluttuava nell’aria, avvolto da una
fortissima luce.
Luciherus lo poteva scorgere chiaramente, pur non essendo reale. La
piccola
creatura era bellissima, con il
viso
d’angelo, ma era chiaramente un piccolo demone.
“Chi
sei?” domandò
il Principe, nella sua mente, non usando la voce.
Ora
fluttuava anche
lui al suo fianco. Si sentiva molto leggero e magro, senza ali ma
volante.
Sfrecciavano, dolcemente, fra le stelle.
“Io
sono ciò che c’è
oltre le stelle” rispose il bambino, con voce e viso serio.
“Mostrami
ciò che
c’è oltre le stelle!” propose il demone.
“Non
lo farai fino a
quando non ti vestirai della Sua luce ed attraverserai il
mare” gli disse il
piccolo, schivando una cometa.
“Non
capisco…”
ammise il Principe.
“Solo
allora io
nascerò!”.
“Tu
sei…”.
“…sono
tuo figlio!”.
Non
dissero altro,
continuando il loro viaggio nel cielo degli Universi.
La luce
aumentò
sempre di più e Luciherus ne fu completamente avvolto.
“É
questa la luce
delle stelle? È questa la Sua luce?” chiese il
Principe.
“No”.
Il
bambino crebbe,
mutò, divenendo un bel giovane. Il suo sguardo si
accigliò, divenendo malvagio
ed aggressivo. Attorno ai due si materializzarono delle ombre, delle
persone,
che il giovane distrusse, semplicemente sfiorandole. Il Principe
indietreggiò,
smarrito.
“Il
mio destino,
padre mio…” ghignò il ragazzo
“…è porre fine agli
Universi!”.
D’un
tratto si fece
tutto buio, perfino la luce di Luciherus si spense. Tutte le stelle
scomparvero
ed i due fluttuarono nel nulla.
“Quando
accadrà?
Quando farai tutto questo?” chiese il demone, turbato.
“Tranquillo”
lo
rassicurò il piccolo, tornando all’aspetto da
bambino “Tranquillo, padre,
quando accadrà, tu non sarai più fra gli Universi
dei viventi! Ricordami…non
dimenticarmi!”.
Luciherus
iniziò a
precipitare, allontanandosi dal piccolo sempre di più. Era
solo un punto
lontano nel cielo, mentre il demone urlava non sapendo dove stava
andando e
come fermarsi, nell’universalità del buio.
“Non
dimenticarmi!”.
Il
Principe tornò
alla realtà, espirando per la prima volta
dall’inizio della sua visione.
Tossì un paio di
volte, facendo ricomparire le
pupille e le iridi degli occhi.
“Iniziavo
a
preoccuparmi…” ammise Vereheveil.
Luciherus
si passò
una mano fra i capelli e li sentì bagnati.
“Ti
abbiamo tirato
un secchio d’acqua, Dio della forza, per farti rinvenire. Eri
come in trance…ma
ora va tutto bene!”.
“Ho
visto mio
figlio…” sussurrò il demone, respirando
a fondo e senza incrociare lo sguardo
dei suoi ospiti.
“Tu
non hai figli!
Hai solo una figlia femmina! Mi sa che devi chiamarne uno
bravo…molto bravo…a
farti controllare il cervello” gli disse Vereheveil, con un
sorrisetto un po’
preoccupato. “Lui non c’è ora.
Sarà nel mio futuro…”
continuò il Principe.
La Guerra
ed il Dio
angelo si fissarono, perplessi.
“Ah…”
sbiascicò il
Dio delle Letterature, convinto che la cosa giusta da fare fosse
assecondare i
pazzi “Beh, dai…non è una cosa brutta
se, un giorno, avrai un bel
maschietto…no? Và bene…”.
“Distruggerà gli Universi”
affermò Luciherus, con
tono piatto e senza espressione.
“Questo
va già meno
bene…quando?” chiese Vereheveil.
“Non
lo so! Mi avete
svegliato!” protestò il padrone di casa, irato.
“Sembravi
in coma!
Eri morto! Non respiravi!” disse la Guerra.
“Sono
un Dio! A che
cazzo mi serve respirare?! Mica muoio…”.
“Ottima
osservazione…” ridacchiò la Dea.
“Che
volete…rompiballe e profanatori della mia
privacy?”.
“La
Signora Guerra
vuole andare da suo figlio” cinguettò Vereheveil,
in un attimo di felicità
senza motivo.
“Kasday?”
domandò il
Principe.
“Sì,
esatto. Ma ci
serve qualcuno che ci aiuti ad entrare nel palazzo ed oltrepassare il
controllo
delle guardie”.
“Ah…ho
capito…volete
fare irruzione!” borbottò Luciherus, scuotendo il
capo, intontito.
“Ora
che mio figlio
è libero da tutti i vincoli con gli Alti, voglio capire per
quale motivo non
posso rivederlo”.
“Questo
è semplice,
Guerra…” sibilò il demone
“…lui non vuole vederci!”.
“Ci
serve il tuo
aiuto per sfondare…” incalzò
Vereheveil.
“Va
bene…” sbuffò il
Principe, alzandosi a fatica “…scommetto che, se
non vi aiuto, mi romperete le
palle finché non cedo. Datemi solo un attimo per prepararmi.
Sono indecente…”.
“Rimpicciolisciti gli occhi…”
suggerì il Dio delle Letterature.
“Come…?!”
si stupì il
Principe.
Poi si
specchiò e
trasalì. I suoi occhi erano esageratamente grandi e tondi.
“Mi
sembri un
lemure, o un tarsio spettro, un gufo…insomma…una
bestia con lo
sguardo a palla!” lo prese in giro il Dio
delle Letterature.
Il
padrone si
scosse, facendo tornare il suo volto normale. Legò i
capelli, distrattamente, e
mantenne uno sguardo perso nel vuoto.
“Sai
chi sarà la
madre del distruttore degli Universi?” chiese il Dio angelo,
divertito dalla
cosa. “No”.
“Beh
dai…ti basterà
stare attento”.
Il demone
non
rispose ed infilò una camicia nera, attento a far passare le
ali nelle fessure
fatte nel capo di seta. Con uno scatto, uscì dalla stanza ed
entrò in un'altra.
Vereheveil e la Guerra lo seguirono, anche se il Dio delle Letterature
non era
convinto di voler entrare in quella sala. Mai prima d’ora
l’aveva vista
aprirsi.
“Scegliti
un’arma”
ordinò Luciherus al Dio dalle ali nere.
“Come?!”
chiese
questo, confuso.
“Vuoi
che faccia
tutto da solo?” sbottò il Principe, guardandosi
attorno come in cerca di
qualcosa.
Il Dio
delle Lingue
spalancò gli occhi. Le pareti erano tappezzate di strumenti
di difesa ed offesa
di vario tipo. Coltelli, spade, lance, pistole, fucili, picche, asce,
alabarde,
bazooka, lanciafiamme…un arsenale ben fornito. Vereheveil
deglutì, turbato.
“Dove
tieni i
cannoni?” domandò ironico.
“Dì
là, assieme al
disintegratore di particelle e la spada laser! Dai, pirlone, scegli la
tua
arma!” sibilò il demone, affilando una spada con
la punta della coda.
“Ed
io?” si
intromise la Dea della Guerra.
“Non
potrei mai far
combattere una Signora…” affermò il
padrone di casa.
“Dammi
un’arma e sta
a guardare, ragazzino! Sono più brava di te!”.
“A
voi la scelta,
dunque. Prendete pure quella che più vi piace”.
Vereheveil
non
sapeva quale scegliere, perché per lui erano tutte uguali.
Luciherus afferrò
una spada sottile e gliela porse.
“Con
quei braccini
l’ideale è una cosa come questa: leggera e
pratica. Provala”.
Il Dio
delle
Letterature ne afferrò l’impugnatura con entrambe
le mani, stupendosi di come
invece il Principe l’aveva rigirata agilmente fra le dita.
La Guerra
ruotò con
una mano una lunga lancia con un pennacchio finale.
“Complimenti,
Madama
Guerra, vedo che non avete perso l’allenamento!” si
congratulò il demone.
Luciherus indossò la cintura con il fodero della spada che
aveva scelto. Anche
la Guerra scelse una spada, preferendola alle armi più
moderne. Vereheveil si
fidò del consiglio del demone e tenne l’arma dalla
lama sottile.
“Vereheveil!”
lo
chiamò il Principe, lanciandogli un oggetto fra le mani.
“É
una pistola!”
esclamò il Dio delle Letterature.
“Ma
non mi dire!”
commentò, sarcastico, il padrone di casa “Che
bravo! Caricala. È meglio. Anche
se dubito che le guardie possano essere abbattute da dei proiettili.
Dicono che
l’unico modo per fermarle è tagliar loro la testa
o colpirle al cuore, ma
dubito che tu abbia tanta mira!”.
“Ma
allora perché me
la dai? A che mi serve la pistola se non le ammazza?”.
“Perché
fanno male,
stupido!” ridacchiò il demone, spingendo con
l’indice la fronte di Vereheveil e
facendolo ondeggiare.
Anche
Luciherus
prese un’arma da fuoco, argentata, a tripla canna e di
dimensioni notevoli.
Poi, con
lo stupore
dei presenti, afferrò anche un arco e la faretra, con
diverse frecce.
“Che
c’è?” sbottò
“Sono piuttosto bravo!”.
“Non
ne dubitiamo…”
sorrise la Guerra.
Uscirono
tutti e
tre, pronti per la battaglia e silenziosi.
“Dove
andate,
Signore?” chiese Asmodai, incrociando il suo Principe lungo
il corridoio,
armato per la prima volta dopo tanto tempo.
“Da
nessuna parte”
rispose lui.
Schioccando
le dita,
il Dio della Forza e del Coraggio aprì il portale fatto con
linee rosse e
luminescenti. Così facendo condusse tutti e tre alla base
della scalinata del
palazzo di Kasday.
“Ma
perché ha
schermato l’edificio in modo da non poter entrare
direttamente all’interno?”
protestò Luciherus.
“Se
era così
semplice, non cercavamo il tuo aiuto!” esclamò
Vereheveil.
Appena i
tre posero
un piede sul primo scalino, le guardie si mossero, simultaneamente.
Ogni
gradino aveva,
alle estremità, due soldati armati che si mossero verso gli
intrusi, sfoderando
le armi.
“Non
avere paura”
disse il Principe al Dio delle Letterature “Non avere alcun
timore, piumino, e
attacca!”.
Vereheveil
iniziò a
sparare.
“Non
sprecare colpi…e
non colpire me!” gli urlò contro il demone,
sparando a sua volta ma con molta
più precisione.
Saltava
da uno
scalino all’altro, colpendo teste e corpi, che
però sembravano aumentare di
numero. “Ma chi me lo ha fatto fare?! Avete deciso di morire
qui?!” sibilò,
accigliato.
Serrato
fra gli
avversari, se ne liberò a calci e pugni.
“Individuate
il capo
delle guardie” ordinò la Guerra “Si dice
che, una volta eliminato lui, gli
altri non reagiranno più”.
Vereheveil
si guardò
attorno. Era circondato da creature tutte uguali. Evidentemente il capo
doveva
avere qualcosa di diverso, ma non
riusciva a vederlo. Qualcuno tentò di colpire
la Guerra alle spalle ma
lei si difese con facilità e prontezza. Luciherus
afferrò un guardiano per il
collo e gli sparò in gola. “Così impari
a mordermi!” ringhiò.
Il Dio
delle
Letterature roteava la spada, cercando di colpire senza uccidere.
Il suo
obbiettivo
erano le braccia. Senza arti come mi attaccano? Si
disse, sorridendo. Ma
presto si accorse che comunque insistevano, con ogni mezzo.
“Neanche
volare si
può in questo mondo inutile…”
brontolò Luciherus.
“Sbagliato!”
lo
corresse il Dio delle Lingue “Non ci è permesso
solo in questa fottuta
scalinata!”. “Ripeto: avete istinti suicidi? Se
volevate morire bastava
chiedere…vi aiutavo io!” ringhiò il
demone, tirando un cazzotto sul muso di un
soldato.
Saltò
più in alto
possibile, cercando il capo delle guardie, ma non lo vide.
“Luciherus!”
si
sentì chiamare dal Dio delle Letterature.
Era
circondato, ma
il demone non si trovava in situazioni migliori e la Guerra mostrava
segni di
affaticamento. Il Dio angelo, facendosi coraggio, urlò,
mostrando la sua
espressione più malvagia, ed iniziò ad uccidere.
Il Principe riuscì a liberarsi
dalla massa che gli stava addosso.
“Non
puoi sfuggirci…figlio
di Kadmon Kasia e Pistis Sophia!”.
Il demone
sobbalzò,
sentendo quei nomi.
“Ci
conoscono!”
gemette Vereheveil.
“Non
è vero. Sono
solo ben informati. Continuate ad attaccare!”.
In
realtà era anche
lui piuttosto turbato.
“Conoscono
il nome
di mia madre!” esclamò il Dio delle Letterature.
La Dea
della Guerra
sospirò, sentendo il vero nome di colui che era stato suo
marito. Erano tutti
affaticati. Il Dio delle Lingue non poté andare oltre e si
accasciò sulle
scale. La Dea della Guerra e Luciherus usarono la spada. Con i loro
fendenti
tagliarono teste ed arti ma ben presto anche la Guerra si
fermò.
“Sono
vecchia per
queste cose…” mormorò.
Il demone
strinse i
denti.
“Fermati,
figlio di
Kadmon! Torna a casa!” ordinò una guardia, mentre
le loro lame erano una contro
l’altra.
“Taci,
figlio di
puttana!” ringhiò il Principe.
Perché
quel mostro
conosceva il nome di suo padre?
“Kadmon…”
sussurrò.
Subito
una luce
fortissima riempì il cielo ed una voce profonda
intimò la Guerra e Vereheveil
di pronunciare il nome della persona che avevano nel cuore. Altre due
fasce di
luce si unirono alla prima. Luciherus si distese lungo la scala,
chiedendosi se
quella era la fine della sua vita.
“Alzati,
Luciherus.
Nessuno ti farà più del male”.
Il
Principe alzò lo
sguardo, vedendo che davanti a lui stava un immenso
e meraviglioso angelo a dieci ali. I
capelli scuri si muovevano al vento e gli dava le spalle. Accanto a lui
c’era
una donna, anch’essa creatura angelica, che corse verso
Vereheveil. Con
stupore, il demone notò che la Dea della Guerra porgeva la
mano all’antico Dio
del Kaos, che l’aiutava ad alzarsi.
“Com’è
possibile?”
si chiese.
“Madre!”
sussurrò il
Dio delle Letterature, alzandosi ed abbracciando l’angiolessa
dai capelli verde
acqua.
“Qui
è tutto
possibile, bambino mio” rispose lei, con una voce dolcissima
“Siamo fra gli
Alti!”.
Se
quella è la
madre di Vereheveil e
laggiù
c’è il Kaos…allora tu…si
disse Luciherus, appoggiato sui gomiti.
“Ti
saluta tua
madre, Sophia” disse l’angelo dai capelli scuri e
la voce splendida “Ora va…”
aggiunse, senza mai voltarsi.
Il
Principe arrancò,
tentando di alzarsi. Il Kaos prese fra le braccia la moglie,
sollevandola da
terra. “Sarò pure un’anima
morta…ma non smetterò mai di amarti ed
aiutarti!”
disse, e la Guerra sorrise. Il Dio si sollevò a
mezz’aria e condusse la Dea
fino all’ingresso. Vereheveil si lasciò avvolgere
e trasportare dall’essenza
della madre, felice. Luciherus, un gradino alla volta,
sospirò vedendo quanto
gli mancava per arrivare in cima. Era dolorante a causa delle ferite e
si
muoveva lentamente. Udì una risata familiare.
“Hai
sempre voluto
fare tutto da solo…” ridacchiò Kadmon.
“Hai
sempre voluto
lasciarmi fare tutto da solo” borbottò il demone.
“Sono
qui. Ho
allontanato le guardie” rise l’angelo a dieci ali.
“Sì,
lo so. Grazie”.
Kadmon
osservò il
figlio mentre saliva, pian piano. Poi sorrise e spalancò le
ali. Lo raggiunse e
lo strinse fra le braccia, trasmettendogli la sua luce. In questo modo
le
ferite del Principe si cicatrizzarono ed il dolore si
smorzò. Si sollevarono
nel cielo, nonostante le proteste di Luciherus, e raggiunsero
l’entrata del
palazzo del Dio Triplice. L’angelo poggiò,
delicatamente, il figlio in terra,
sorridendogli.
“Sei
diventato molto
più pesante rispetto all’ultima volta in cui ti ho
preso in braccio!”
ridacchiò.
Il
trasportato non
rispose. Guardava suo padre, così come facevano gli altri
presenti, incantato
dalla bellezza di quella creatura. Era alto, con grandi occhi grigi, ed
un viso
meraviglioso. La sua lunga veste, bianca ed argentea, fremeva, mossa
dal vento.
I capelli scuri erano dritti e lunghissimi, morbidi e lucenti. Anche la
madre
di Vereheveil era molto bella, con capelli ricci, fino al ginocchio,
gli occhi
verdi ed il viso dolcissimo. L’abito aranciato ne copriva i
piedi nudi. Il Kaos
non era cambiato. Era sempre privo di tratti somatici e con accigliati
occhi
azzurri.
Le tre
essenze, dopo
aver visto che i loro cari erano al sicuro, tornarono in cielo.
“Non
dimenticarmi”
disse Kadmon.
Tornò
buio, stava
scendendo la notte. Vereheveil, la Guerra e Luciherus si guardarono,
seduti sul
pavimento, con aria smarrita e alquanto confusa.
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Capitolo 20 *** XX- Espero ***
XX
ESPERO
“E così sei
figlio di Kadmon…non lo sapevo!”
esclamò
Vereheveil, alzandosi dal pavimento del palazzo, in marmo bianco e
nero.
“Problemi,
angelo?” sibilò Luciherus, con sguardo malvagio.
“No. È solo
che…Kadmon è un mito! Una leggenda! La prima
creatura generata nel Mondo degli Angeli, il più bello, il
più perfetto, il più
magico e…”.
“Basta!” lo
interruppe il demone “So bene chi è! Meglio di
te, forse…”.
La Dea della Guerra, il Dio delle
Letterature ed il Dio del
Coraggio si guardarono a vicenda.
Le loro vesti erano stracciate e
sporche di sangue magico ma
le loro ferite non c’erano più. Erano state
guarite dalle tre essenze, ora
volate in cielo.
“E voi chi
sareste?” si sentirono chiedere.
I tre si voltarono verso
l’interno della casa, entrando
nell’edificio a piccoli passi. Entrarono nella sala in cui
erano stati accolti
all’ultima riunione indetta dagli Alti. Avvertirono subito un
freddo pungente e
si sentirono a disagio nell’oscurità spettrale.
Un’ombra affusolata era in
piedi, davanti alla porta-finestra, e se ne notava solo la siluette.
“Ho chiesto chi
siete” chiese di nuovo una voce, proveniente
dall’ombra sottile.
“Ma chi sei tu piuttosto!
Che ti importa?!” sbottò, secco,
Luciherus.
Il demone tolse la camicia, ormai del
tutto rovinata, e
guardò sottecchi lo sconosciuto, ringhiando.
Non sapeva per quale motivo, ma quel
tipo non gli piaceva,
neanche un po’.
“Quanta insolenza in un
semplice deucolo!” ridacchiò
l’affusolato.
“Quanta arroganza in un
così strano coso…”.
Il Principe aveva notato delle forme
un po’ fuori dal comune
nell’ombra del suo interlocutore.
Gli andò più
vicino e lo guardò in viso, con viva curiosità.
“Sei strano un
botto…che faccia hai?!” rise.
“Attento a come parli.
Potrei batterti in un attimo” lo
ammonì l’altro.
“Non credo
proprio!” esclamò, divertito, il Principe.
Aveva notato quanto il suo possibile
avversario fosse
mingherlino rispetto a lui, anche se di parecchio più alto
di statura.
“Tu sei
Luciherus…giusto?”.
Il Principe non rispose.
“L’ho capito da
come parli, da come ti comporti. La tua
insolenza, la tua strafottenza…ma anche la tua forza ed il
tuo coraggio. È
questo il motivo che ha fatto sì che noi Alti ti
scegliessimo come divinità
e…”.
“Quanto parli!”
lo interruppe il demone, agitando la coda.
L’affusolato si
spostò, verso la luce della Luna, ed il suo
viso rifletté mille colori e riverberi, come le ali delle
farfalle. Ed ali di
farfalle erano dipinte sul suo viso, con grandi occhi verdi, sulla sua
pelle
bianca candida.
“Non è una
maschera. Può sembrare, ma ciò che vedete
è il
mio volto, non un lepidottero posato sul mio naso!”
spiegò l’Alto.
“Qualcuno te lo ha
chiesto?” sibilò il demone, mentre
Vereheveil gli tirava una gomitata, intimandolo di fare silenzio.
“Tu, invece, devi essere
Vereheveil, il Dio delle
Letterature e delle Lingue…” parlò
l’Alto, ignorando il Principe.
“Sì,
è esatto. E Voi chi siete?”.
“Sono conosciuto come
Espero, Raido o Signore del Cielo”.
Il Dio angelo notò che,
fra i capelli color del cielo
notturno, brillavano molte luci simili alle stelle. Forse erano stelle
per
davvero!
“Voi tre siete qui per
vedere Kasday?”.
Gli Dèi annuirono.
“Io sono sua
Madre…” parlò la Dea della Guerra.
L’Alto si rizzò
sulle gambe, che teneva piegate nel mezzo come
quelle di alcuni uccelli. Luciherus alzò gli occhi, notando
quanto l’Alto lo
superasse di diversi centimetri.
Il Signore del Cielo andò
verso la Dea e le si inchinò
accanto, baciandole la mano: “É un onore
conoscerla, Madama Madre! E mi auguro
che sarà un onore anche per lei conoscermi, ora che sto per
entrare in
famiglia”.
“Siete la creatura che
sposerà Kasday?” domandò la Guerra.
“Precisamente”
rispose Raido, alzandosi.
Luciherus lo fissò,
frustando la coda e sprizzando odio da
tutti i pori.
“É costretta a
sposarti, vero?” sibilò.
“Sì, in effetti.
Lo ammetto. È un matrimonio combinato. Ma è
inevitabile, del resto. Non restano, oramai, molti di noi ed
è necessaria la
nostra unione per generare nuovi Alti”.
“E non vi importa nemmeno
un po’ quello che gli avete fatto
nel passato?” sbottò il Principe.
“La cosa non mi riguarda.
Io so solo che Momoia mi ha dato
un ordine…ed io eseguo!”.
“E tu obbedisci.
Schiavo”.
“Non sono uno
schiavo…ma Kasday mi piace davvero tanto”.
“Ti piace?”.
“Sì.
E’ quello che ho detto!”.
“Però non lo
ami!”.
“Che ne sai tu,
demone?!”.
“Uffa! Sono stufo di
sentirmi dire sempre le stesse cose!”.
“L’amore non
c’entra con la procreazione. E dovresti
saperlo…meglio di me! Ciò che ci vuole
è solo un po’ di sano desiderio”.
“Sano?! E se per Kasday non
è un piacere da compiere?”.
“Si piegherà al
mio volere, come ho fatto io con la volontà
di Momoia!”.
“La
costringerai?”.
“Certo. Il suo livello
magico è di molto inferiore al mio!”.
“Mi fate
schifo…tu, Momoia e…un po’ tutti in
generale”
mormorò Luciherus, divenendo sempre più
aggressivo.
Vereheveil se ne stava in silenzio,
in disparte, confuso e
spaventato da quella creatura Alta.
La Guerra gli sorrise.
“Tranquillo, Verehevy, sono
sicura che renderà felice la mia
creatura!” disse.
“Ci proverò,
Madama Madre…ma Kasday, Hagalaz, è…una
creatura
ostica!”.
“Ostica?!” si
stupì il Principe.
“Sì, ostica. Sei
sordo o stupido? È un essere chiuso,
riservato, silenzioso ed ostile”.
“Si vede che proprio gli
fai ribrezzo!”.
“Sarai bello tu! Se
è riuscita ad apprezzare te…”.
“Evidentemente preferisce
la stella del mattino alla stella
della sera…Espero! Sono meglio di te…di
sicuro!”.
“Ne sei proprio
convinto?” sibilò il Dio delle Letterature
“Ne sei convinto…brutto stupratore e
puttaniere?!”.
“Ma che stai dicendo?!
Ancora questa storia?!” esclamò,
esasperato, il demone.
Si passò una mano fra i
capelli, con nervosismo.
“Sì! Ancora
questa storia! Sei sempre pronto a giudicare gli
altri ma non sei mai disposto a giudicare te stesso!” gli
urlò, di risposta,
Vereheveil.
“Ma crepa,
piccione!” sibilò Luciherus.
“Prima tu, figlio di
puttana!”.
“Non offendere mia madre,
se non vuoi che ti strappi tutte
le penne!”.
“Basta!”
supplicò la Dea della Guerra, decisamente stufa dei
loro continui litigi.
Iniziò ad urlare, tentando
di dividerli, mentre l’Alto
rideva, divertito.
“Finitela tutti
quanti!” si sentì gridare.
Nosmagiés era sulla cima
delle scale e guardava giù. Tutti
fecero silenzio e l’angelo sorrise.
“Bene” si disse,
compiaciuto “Il mio Signore scenderà
subito, altezza Raido” comunicò dopo.
L’Alto fece un cenno con il
capo.
Il messaggero si rivolse, poi, agli
altri presenti.
“Voi
tre…finitela o andate fuori dai piedi!”.
“Ma io che ho
fatto?” protestò il Principe.
“Che vuoi che mi importi,
demone?! So solo che devi fare
silenzio…rompicoglioni!”.
Vereheveil scoppiò a
ridere: “Basta uno sguardo per capire
che merda sei!” esclamò.
Luciherus non rispose,
ruotò gli occhi, calcandosi per bene
le mani in tasca, agitando tantissimo la coda.
“Hagalaz è di
buon umore oggi?” domandò Raido.
“No!” rispose,
piatto, il messaggero.
“Non fa niente. Sono qui
per condurla in battaglia. Spero
così di avere modo di parlarle…”.
“Non ha niente da
dirti!” commentò, acido, il Principe.
“Cuciti la lingua,
serpe!” sbottò l’Alto.
Luciherus gli mostrò il
dito medio: “Succhiamelo,
Arlecchino!” ghignò.
“Ti
piacerebbe…”.
“Solo se a farlo
è tua sorella!”.
“Non vengo alle mani solo
perché siamo in presenza di una
signora…”.
“Ti riferisci alla Guerra?
Tutte scuse!”.
“Piantatela tutti o
due…o ve ne andate!” tuonò
Nosmagiés,
indicando la porta.
Era suscettibile, abituato
com’era al silenzio in cui vivevano
lui ed il suo Signore.
La Guerra sorrise
all’angelo: “Kasday scende?”.
“Sì, signora. Ma
ha altro da fare…”.
“Io non sono venuta fino a
qui per poi non riuscire ad
incontrarlo!”.
“Mi spiace ma
c’è un guerra, come lei dovrebbe sapere, ed il
mio padrone è molto impegnato”.
“Allora
aspetterò. Aspetterò qui finché non
avrà un po’ di
tempo per me…per noi!” rispose, convinta, la Dea,
indicando Luciherus e
Vereheveil.
“Come volete!”
disse Nosmagiés, facendo spallucce “Come
volete…alla condizione che non facciate troppo
casino”.
La Guerra si sedette, incrociato le
gambe e congiungendo le
mani, con un sorrisetto: “Io sono testarda, sai! Non me ne
andrò tanto
facilmente…”.
Il messaggero la guardò
con un’espressione neutra. Non gli
cambiava la vita sapere che lei restava oppure spariva.
“Piccolo
Nosmagiés…” iniziò
Luciherus.
“Non sono piccolo e non la
conosco, signore!” sbottò
l’angelo.
“Ma come?! Sono io! Lucy!
Mi avete guarito tu e Kasday…” si
fermò per un paio di secondi “…tanto
tempo fa”.
“Lo so. Ma non mi
interessa. Lui vi conosce, non io! Per me
siete solo un suo amico o conoscente…non è affar
mio”.
“Stai diventando sempre
più antipatico!”.
Nosmagiés gli diede le
spalle, con aria altolocata e
giudicante. La sua lunga ed ampia veste frusciò sul
pavimento liscio.
“Che combina Kasday? Non
scende?” si lamentò Raido.
“Non credo che frema
d’entusiasmo all’idea di andare a
combattere” rispose, seccato, l’angelo.
Il Signore del Cielo guardava verso
l’alto, lungo le scale
che conducevano ai piani superiori. Luciherus e Vereheveil si sedettero
accanto
alla Guerra, assicurandola che nemmeno loro si sarebbero allontanati
senza,
prima, aver visto Kasday.
Il Principe annusò
l’aria, ad occhi chiusi. Poteva percepire
il profumo del padrone di casa. Sospirò. Il Dio delle
Letterature si guardava
in giro, con le gambe tremolanti, nervoso. Rabbrividì
vedendo il caminetto, al
solo pensiero di ciò che ci era stato bruciato dentro. Si
sentiva a disagio in
quel luogo e voleva andarsene presto.
Un lieve, quasi impercettibile,
rumore di passi preannunciò
ai presenti l’arrivo di Kasday. Girandosi tutti verso le
scale lo videro
scendere, lentamente. Teneva il viso coperto da un velo, che lasciava
in mostra
solo i suoi due occhi azzurri.
Luciherus ne seguì le
movenze, e le accennate forme
femminili coperte da numerosi veli variopinti. Le due piccole antenne
magenta
dell’Alto fremevano, leggermente, però ostentando
uno sguardo fisso verso il basso.
Portava i capelli elegantemente acconciati in una struttura a
ventaglio.
Raido, vedendo quella che lui
considerava una splendida
creatura, sorrise. Aprì la sua coda, simile a quella di un
pavone, e fece sbattere
gli occhi su di essa. Vereheveil
sussultò.
Pensava che quella cosa verde scuro fosse una veste, uno
strascico…non una parte
viva di quell’individuo!
Kasday porse la mano che aveva
liberato dallo strato di veli
e il Signore del Cielo la baciò, dopo un breve inchino. I
tre ospiti notarono
che Espero aveva delle piume che spuntavano dalle sottilissime braccia.
La
palpebra sull’occhio del padrone di casa si chiuse, per
qualche secondo, per
poi riaprirsi. Nosmagiés aiutò il suo padrone ad
indossare un guanto di ferro
sulla sottile mano di vetro, la mano appena baciata.
“Siete uno
splendore” mormorò l’angelo e Kasday gli
accarezzò
il viso.
“Posso
confermarlo…” iniziò Raido
“Siete una vera delizia,
divinità danzante! Mi si riempie il cuore di gioia e diletto
vedervi e potervi
accompagnare quest’oggi in questa grande occasione in
cui…”.
“Parlate troppo”
lo fermò Kasday, con la sua solita voce
androgina ed un tono piatto e distaccato. La Dea della Guerra si
alzò dalla
sedia.
“Mia bellissima
creatura…” parlò, ma l’Alto
fermò anche lei
“Non ora, Signora della Guerra”.
“Mamma…” mormorò la Dea
“…sono la tua mamma…”.
Raido porse il braccio alla
divinità danzante, che però si
ritrasse.
“So camminare senza il
Vostro aiuto” sbottò.
“Come
volete…futura mia creatura sposa!”.
“Mia?!”
sibilò Kasday “Non Vi apparterrò
mai”.
Poi fissò il suo
Messaggero: “Nosmagiés…”.
“Sissignore”.
“Se dovessi
tardare…non cacciare i miei ospiti ma mettili a
loro agio. Sta scendendo la notte…non lasciarli uscire con
il buio! Dà loro una
stanza”.
L’angelo annuì.
“Buio?!” si
chiese Luciherus, guardando fuori “Come buio?!
Siamo arrivati ai piedi della scalinata subito dopo
l’alba…”.
“Le mie guardie sono un
po’ difficili da battere…”.
“Oh, luce! Mia
luce!” ripartì il Signore del Cielo.
“Smettetela di definirmi
una Vostra proprietà…”
esclamò
irritato il padrone di casa.
“Luce…non
rivolgetemi solo parole fredde e velenose!
Parlatemi con affetto e dolcezza…ve ne
prego”.
“Perché dovrei?
Io non Vi conosco!”.
“Sentito cosa ha detto la
Signora? Sparisci, fallito!” rise
il demone.
“Luciherus…”.
“Sì,
Kasday?”.
“Non ti
intromettere!” sbottò.
Il Principe, a quelle parole, rimase
immobile, senza nemmeno
sentire la risatina di Vereheveil. “Hagalaz…noi
presto ci sposeremo! Non è
stata una mia scelta…non odiatemi per questo!”.
“Io non vi odio. Mi siete
del tutto indifferente”.
“Siete
crudele…” sbiascicò Raido.
“No. Vi sbagliate. Non lo
sono. Ed ora andiamo”.
“Sì,
andiamo…Momoia ci starà attendendo”.
Il Signore del Cielo tentò
di prendere Kasday sottobraccio
ma questi fu più veloce ed entrò nel quadro,
passando in un altro Mondo, senza
guardarsi indietro. Raido seguì la creatura che doveva
sposare, chiamandola per
nome, e sparì. Entrambi avvolti dalla luce, passarono il
portale dipinto.
Poi tornarono di nuovo il buio ed il
silenzio soliti del
palazzo.
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Capitolo 21 *** XXI- preservatori, creatori, distruttori ***
XXI
PRESERVATORI,
CREATORI
DISTRUTTORI
Nosmagiés
sbadigliò.
“A quanto sembra, stasera
ci sarà un piccolo party da queste
parti…” disse, con poco entusiasmo ed a braccia
incrociate.
“Ci dispiace molto dare
fastidio…” iniziò Vereheveil.
“Non mi date fastidio!
Anzi…”.
L’angelo sorrise e chiese
se i tre desideravano una camera
per dormire.
“Non abbiamo
sonno” fece sapere la Guerra.
“…ma una doccia
la gradirei” concluse Luciherus, tentando di
togliersi il sangue magico incrostato sulla pelle con la punta della
lingua.
“Le anime vi hanno
aiutato…non siete feriti, vero?”
domandò
il Messaggero.
“Li hai visti anche
tu?” si stupì il demone.
“Ovvio…”.
Nosmagiés aprì
le tende, facendo entrare la luce della Luna.
“Se volete fare un bagno
potete venire con me, prego.
Seguitemi”.
Li condusse in stanze poste in
androni vari dell’edificio. Ogni
sala aveva uno stile differente, segno che avevano diversi proprietari
che la
utilizzavano.
“Tu, Vereheveil, vorrei
usassi le mie stanze per
rinfrescarti e cambiarti. Siamo simili, come fisico e come gusti. Per
lei,
Signora, preparo le sale degli ospiti, quelle più adatte ad
una donna. Infine,
Luciherus, questa è l’ala del mio Signore. Ti
prego di non toccare niente al di
fuori di ciò che ti sarà strettamente
necessario”.
Il demone annuì.
“Non dai mai del Lei?
Dopotutto sei solo un Messaggero…noi
siamo divinità…” disse Vereheveil.
“Io do del Voi e del Lei
solo al mio Signore” fu la
risposta.
La Guerra entrò in una
camera deliziosa, con le pareti
magenta con dei bei quadri. Dalla finestra poteva scorgere tutta la
valle. Nel
bagno privato, anch’esso per lo più magenta,
trovò delle sostanze profumate da
mettere nell’acqua della vasca e ne versò un
po’. Quando vide bolle a
sufficienza, si spogliò e si immerse nella vasca,
rilassandosi e togliendosi
ogni segno della battaglia. Sapeva che, quando sarebbe uscita, avrebbe trovato delle vesti pulite e
nuove da mettere.
Vereheveil continuava a sentirsi
nervoso ed a disagio. Quel
palazzo non gli piaceva.
La camera di Nosmagiés era
strana. Principalmente presentava
colori pastello, dolci e morbidi.
Ma, qua e la, spuntavano punte e zone
di colore vivo, a
motivi geometrici. Vide che il messaggero disegnava ed aveva realizzato
dei bei
ritratti di Kasday. Il Dio si chiese, osservandoli, cosa provasse in
realtà
l’angelo nei confronti del suo Signore. Dopo poco decise di
non pensarci più ed
andò a fare il bagno, nella vasca azzurra e verde.
Luciherus fu condotto direttamente
nel bagno, collegato alla
camera dell’Alto, ma da un’altra porta, che lo
rendeva accessibile dal
corridoio. Questo permise al demone di entrarvi senza passare per la
camera da
letto. Vide che era piuttosto tetro come locale. La prima cosa che
notò, oltre
che alla prevalenza del colore nero, era il fatto che ci fossero due
vasche da
bagno. Si chiese per quale motivo. Forse, ipotizzò, si
dilettava a lavarsi in
compagnia. Sorrise, aprendo l’acqua. Fu felice di togliersi
le vesti usate
nella battaglia. Nosmagiés gli aveva dato un nuovo abito da
indossare.
Guardò fuori dalla
finestra, che dava sul cortile interno, e
sospirò.
Che bella questa casa,
pensò. Così simile alla mia…
Aprendo un cassetto, trovò
diverse boccette senza scritte.
Ne aprì una e ne annusò il contenuto. Storse il
naso.
Usi roba forte, Kasday
si disse, leggermente
preoccupato.
Si immerse nella vasca, interamente,
e chiuse gli occhi,
cercando di far tacere tutti i pensieri che aveva in testa, ma, come
sempre,
non ci riuscì.
Quando i tre ospiti si furono lavati
e cambiati, tornarono
al piano inferiore, dove Nosmagiés stava facendo un
solitario con le carte. Per
ultimo arrivò Vereheveil, sempre lentissimo in bagno.
La Guerra, con i suoi capelli corti e
neri, stava benissimo
nell’abito lungo, grigio metallo. Luciherus, che si stava
pettinando, vestiva
in nero ed argento con dettagli rosso sangue, tutto in velluto. Sapeva
che aveva
scelto Kasday quei modelli, rispecchiavano troppo i gusti dei tre per
essere
scelte casuali di Nosmagiés. Il Dio delle Letterature era in
arancione e blu e
si stava sistemando le piume delle ali nere. Giunti nella sala del
caminetto,
si sedettero accanto al Messaggero, parlando del più e del
meno. Si voltarono
verso le scale, sentendo rumore di piccoli passi. La bimba celeste
scese al
piano inferiore.
“Nosmagiés…”
disse “…accendi il fuoco?”.
“Non mi è
concesso, piccola!”.
“Ma io ho tanto freddo! E
anche la mia mamma!”.
“Lo so, ma vi ci dovete
abituare, come ho fatto io! Non
posso accendere il fuoco”.
“Non lo dirò a
Kasday, te lo prometto! Lo spegniamo prima
che torni!” piagnucolò la bimba.
“Non è una
questione di prendersela o meno con Kasday. Non
si accende! Questa è la regola!”.
La Celeste chinò il capo.
Fece per tornare a letto,
rabbrividendo. Il suo fiato si condensava in piccole nuvolette bianche.
Nosmagiés non
poté guardare quella scena. Provò
pietà per
quella giovane creatura e, rassegnato, si decise ad accendere il fuoco.
Prese
della legna, rimasta dimenticata da quando in casa era buio.
“Quello è un
fossile…” commentò il demone.
“Brucerà
bene…” rispose l’angelo.
Appena attecchì,
scoppiettando, si udì un urlo terrificante
di dolore e paura.
Vereheveil sobbalzò.
“Che cosa è
stato?!” gemette.
“Tranquilli, ospiti! Momoia
ha imprigionato l’essenza del
figlio del Signore fra le fiamme, in modo da non poterlo far rinascere.
Non
prova dolore…anche se urla così. Capita, a volte,
anche senza il fuoco”.
“E…Kasday come
reagisce?” volle sapere Luciherus, con aria
triste.
“Se è abbastanza
lucido per accorgersene…urla anche lui!”.
“Inquietante…”.
Quando ci fu una bella fiamma,
Nosmagiés si allontanò dal
camino e la bambina sorrise, avvicinandosi ed allungando le manine
verso il
fuoco.
“Grazie”
mormorò la piccola, felice.
“Ma figurati…e
scusami per prima. Sono un po’ nervoso,
ultimamente…”.
“Nervoso?”
esclamò il Principe “Nervoso per cosa? Non fai
niente dalla mattina alla sera…nervoso per che
cosa?!”.
“Innanzitutto non
è vero che non faccio niente. In secondo
luogo…sono nervoso per molte cose. La Guerra con i Celesti e
la presenza della
bimba con sua
madre…il matrimonio…”.
“Ti rende nervoso il
matrimonio? Perché? Cosa c’è di
male?”
chiese Vereheveil.
“É una cosa
stupida ed inutile. Soprattutto mi da fastidio
il fatto che debba avere dei figli…”.
“Momoia teme l’estinzione?”
ridacchiò
Luciherus.
“Già…”.
“E cosa succederebbe se si
estinguessero tutti gli Alti ed i
Celesti?” domandò il Principe.
“Mmm…non lo so! E non mi interessa!”.
“Come non ti
interessa?” sbottò il Dio delle Letterature.
“Io voglio solo il bene del
mio padrone! Voi pensatela come
volete!”.
“Sei proprio
strano” affermò Vereheveil.
Nosmagiés si sedette,
senza dar più di tanto conto a ciò che
dicevano i tre.
“Che succede nei Mondi la
fuori?” iniziò a cantilenare,
guardando il cortile interno “Che cosa cambia fra gli
Universi? Che accade al
di fuori di quella porta? Io sono sempre qua…”.
I tre si guardarono, un po’
perplessi. Poi alzarono le
spalle e lo assecondarono. Raccontarono, a turno, vari accadimenti nei
mondi e
negli Universi. Dopo diverse ore erano tutti molto più
rilassati e sereni. La
bambina era tornata a letto, felice del calore del fuoco che si era
espanso per
tutto il palazzo.
“Quando tornerà
mio figlio?” domandò la Guerra.
“Non ve lo so dire,
Signora. A volte queste battaglie durano
solo poche ore, a volte diversi giorni”.
“Capisco…ma che fanno?”.
“Si incontrano su un
terreno neutrale, un pianeta creato
apposta da Momoia e da uno dei Celesti. Lì si scontrano e si
combattono ”.
“Perché fanno
questo? E perché cercano noi per la loro
guerra?” volle sapere Luciherus.
“Sarebbe molto rischioso
uno scontro fra gli Universi
abitati ma si teme anche che, con la progressiva diminuzione degli Alti
e dei
Celesti, non si riesca più a controllare questo mondo creato
per le battaglie.
Se ciò dovesse accadere, la guerra si trasferirebbe fra i
vostri cieli ed agli
Alti andrebbe molto bene sapere che voi sarete al loro fianco. Sarebbe
una cosa
molto gradita…”.
“E che speranze abbiamo,
noi, contro uno dei Celesti? Che
potremmo fare contro uno di loro?” domandò,
preoccupata, la Guerra.
“Voi siete in tanti. E
combatteranno anche i mortali come
gli angeli ed i demoni. Fate gruppo!”. “Non credo
proprio sia possibile”
affermò il Principe, ricordando l’astio perenne
fra le creature angeliche e
quelle demoniache.
“Loro sono in pochissimi.
Credo che non siano rimasti più di
quattordici, fra Alti e Celesti”.
Il messaggero aveva preparato il
tè, approfittando del fuoco
vivo.
“Solo in
quattordici?” chiese conferma Vereheveil “Ma come?
Erano più di un centinaio fino a non molto tempo fa! O,
almeno, così dicevano i
miei libri…”.
“Non sono sbagliati i tuoi
dati. Ma, comunque, non è un
grosso problema. I vostri Universi restano in vita anche con uno solo degli Alti a
controllarli”.
“E se morissero tutti? E
come può uno solo di loro
controllare ogni cosa?” fu la
domanda
del demone.
“Se
morissero…finirebbero gli Universi. Specie se muore
Momoia, la creatrice principale. Ed, in effetti, credo che sarebbe
meglio se ne
rimanessero almeno due, seguendo i loro ruoli”.
“Ruoli? Quali
ruoli?”.
“Sì, ruoli. Gli
Alti, ed immagino anche i Celesti, si
dividono fra creatori, preservatori e distruttori. Spesso gli aspetti
di
creatore e distruttore convivono nella stessa persona, oppure capita
che fra
loro non vadano molto d’accordo…”.
Nosmagiés bevve un sorso
di tè, pensieroso.
Luciherus volle avere altre
informazioni.: “Cosa sono i preservatori?”.
“Sono, ad esempio, coloro
che dettano alle divinità del
Destino cosa ci sarà nel futuro di tutti, coloro che
controllano che i Soli
sorgano e che i pianeti ruotino, che le stagioni si
susseguano…”. “Ho capito. E
Kasday è un creatore?”.
“Sì. Uno degli
ultimi rimasti. Anche se, spesso, credo che
in lui prevalga l’aspetto di distruttore”.
“Ed è un male?” chiese Vereheveil.
“No. Che mi importa?! Io
non bado, più di tanto, a ciò che
fa. Per quel che mi riguarda…potrebbe ucciderli ed uccidervi
tutti!”.
“No, grazie!”
borbottò Luciherus “Io ci tengo alla mia
vita!”.
“Anch’io”
sorrise il Messaggero, cercando i biscotti fra gli
scaffali “Ma so bene che il
mio Signore
non fa mai niente senza un motivo”.
“Gli sei troppo
fedele” gli disse il Dio delle Letterature.
“Almeno io lo
sono…” sbottò Nosmagiés,
sarcastico e
scocciato.
“Come?!” si
stupì Vereheveil.
“Ricordo il
giorno…” iniziò a parlare
l’angelo Messaggero,
guardando fuori “…in cui si scoprì che
tu, Dio delle Letterature, stavi per
sposarti. Ostentava gioia per il tuo ritrovato benessere. In
realtà stava da
schifo. E l’ho visto peggiorare, secolo dopo secolo,
restandogli accanto. Non
sorride, ha lo sguardo spento e perso nel vuoto, si distacca sempre di
più
dalla realtà, scappando dalla sua vita. Credeva molto nel
vostro amore, nella
vostra unione, ma tu hai distrutto ogni cosa. Voi tutti lo avete
abbandonato e
dimenticato e lui si sta consumando…fra droghe, follia ed
odio nei confronti di
se stesso. La sua apatia è quasi irritante
e…” l’angelo si fermò,
respirando
piano e con aria triste “…mi chiedo se mai
tornerà ad essere davvero felice,
dato la feccia che conosce. Io non sono meglio di
voi…”.
“Lo sei” lo
rassicurò Luciherus, sorridendo con una strana
espressione malinconica.
Vereheveil non parlò, non sapendo che dire.
“Tu lo hai amato e servito.
Noi tutti, invece, abbiamo delle
colpe!” mormorò il demone.
“Credi che lui voglia
vederci?”chiese, infine, dopo che il
messaggero lo ebbe guardato negli occhi arancio con commiserazione ed
odio.
“Rispondimi,
Nosmagiés. Non limitarti a guardarmi come
fanno, ormai, quasi tutti…” continuò il
Principe.
“Non lo so, sinceramente,
demone. Lo scoprirete. Ma non
stupitevi se vi manda via tutti in malo modo, oppure se vi
ignora”.
“Ma non viene mai nessuno
qui? Siete sempre da soli?”
domandò la Guerra.
“A volte si tiene compagnia
con le sue emanazioni” rispose
l’angelo, trovando finalmente i biscotti e gioendo per la
cosa.
“Cosa sono le
emanazioni?” si informò la Dea.
“Creature. Angeli, demoni,
mostriciattoli, animaletti…tutte
cose che il mio padrone genera ed in cui
infonde parte della sua essenza. In questo modo
queste…bambole, le si
può definire così, prendono vita acquisendo una
certa autonomia. Le richiama a
sé quando necessita più capacità
magica”. “Quindi…sono i giocattoli di
Kasday
solo che, invece che caricarli con la molla, gli da energia con la
magia e la
sua essenza?”.
“Precisamente,
demone”.
“E quante può
averne di queste emanazioni?”.
“Poche. Due al massimo. Le
guardie, che lo hanno accompagnato
a prendere il libro con la piccola celeste, erano emanazioni. Involucri
vuoti,
tenuti in vita dalla sua anima, che lo considerano il loro
padrone”.
“E se una delle emanazioni
muore?”.
“Kasday lo percepisce,
specie se viene ferita. Sente il suo
stesso dolore ma, oltre a questo, non succede molto.
L’essenza torna nel mio
Signore e finisce lì”.
“Si sarà creato
qualche bella amichetta…” azzardò il
demone,
malizioso.
“No. Mi spiace
deluderti”.
Il cielo si stava schiarendo, la
notte stava giungendo al
termine. Era trascorsa in fretta e Luciherus guardò le ombre
nella stanza. Fu
certo che molte di esse si muovessero e gli sorridessero, crudelmente,
addossate alla parete. Era inquietante, sopratutto quando, dal fuoco,
usciva un
singhiozzo o un gemito.
“Come ti accorgi che il tuo
padrone torna?” si informò il
Principe.
“Non me ne
accorgo” ammise il Messaggero.
“E allora come farai a
spegnere il fuoco in tempo?”.
“Non ne ho idea”.
“Ma lo
scoprirà…”.
“É un
po’ tardi per pensarci…”
sbottò Nosmagiés, nervosamente.
Era davvero molto agitato. I tre
ospiti lo guardarono, senza
capire.
“Perché sei
così nervoso? Cosa vuoi che succeda?”
ridacchiò
il demone.
Il Messaggero non rispose,
cominciò a camminare su o giù per
lo stanzone. Era da poco passata l’alba quando il quadro alla
parete mutò,
illuminandosi: quello era il segnale che il padrone di casa stava per
tornare.
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Capitolo 22 *** XXII- il nuovo Kasday ***
XXII
IL
NUOVO KASDAY
Kasday entrò nella stanza.
Respirava lentamente e
profondamente. I capelli, sciolti dalla loro elaborata pettinatura,
ricadevano
sul suo viso e lungo tutto il corpo, coprendone la maggior parte. Una
sola
mano, blu, spuntò dal manto di veli che lo avvolgeva, e
scostò un ciuffo
corvino dai suoi occhi.
“Signore! Siete
ferito!” esclamò Nosmagiés, correndogli
appresso.
Kasday lo fissò con aria
interrogativa e poi si guardò la
mano.
“Tranquillo, mio
angelo” disse, con una voce stranamente
profonda ed inquietante “Tranquillo, non mi appartiene questa
magia che sporca
le mie dita. Io sto bene”.
L’Alto si leccò
la punta delle falangi, che i presenti
percepirono come molto affilate. Al contatto con
la magia, questa frizzò leggermente, mandando
scintille.
Il fuoco lanciò un grido e
Kasday si immobilizzò.
“Scusatemi!” si
affrettò a dire l’angelo Messaggero,
indietreggiando di qualche passo.
L’Alto spense le fiamme con
una parola e rimase a fissare il caminetto, ancora
fumante, dando le
spalle a tutti i presenti.
“Perdonatemi…ve
ne prego…” supplicò
Nosmagiés.
Kasday si mosse, con uno scatto,
colpendo il Messaggero con
il suo braccio di roccia e metallo. L’angelo non
poté evitarlo e piombò
all’indietro, cadendo in terra dalla parte opposta della
sala. “Perché nemmeno
tu mi ascolti!? Perché nemmeno per te non conto
niente!?” sbraitò l’Alto.
Sulla sua fronte erano ricomparse le
corna magenta ed i suoi
denti si erano fatti affilati e lunghi.
I capelli, ora gonfi ed agitati,
sembravano vivere,
indipendenti dalla volontà del loro proprietario.
L’angelo, sbattendo contro il
muro, non si rialzò. Gemette sofferente e si
raggomitolò su se stesso. Kasday
lo sollevò, senza toccarlo, tenendo teso un braccio ed
aperta una mano.
“Perché credi
che io ti impartisca degli ordini? Per
trasgredirli e poter fare quello che ti pare?”
ringhiò e, muovendo le dita,
fece urlare il Messaggero per il dolore.
Lo feriva. Stringendo il pugno, era
come se lo prendesse per
il collo. Nosmagiés si dimenò, annaspando.
“Cosa significano per te le
parole: non accendere MAI il
fuoco?” continuò il suo padrone.
“Così lo
ammazzi! Lascialo subito!” ordinò Luciherus,
l’unico ad avere il coraggio di dire qualcosa.
“Vuoi essere tu la mia vittima,
demone?” sibilò Kasday, con la lingua da rettile,
senza lasciare Nosmagiés e
guardandolo con malvagità.
“Voleva solo far scaldare
la bambina…”.
L’Alto mosse
l’altro braccio, stava per colpire il Principe
ma la piccola Celeste, correndo giù per le scale, si mise
fra i due.
“Levati, sgorbio. Sei sulla
mia strada” comandò l’Alto, ma
la bambina spalancò le braccia, con aria seria.
“É stata colpa
mia!” disse “Tutta colpa mia! Nosmagiés
voleva solo aiutarmi. Smettila di fargli del male e piantala di fare il
cattivo! So che non lo sei!”.
Kasday
non mollò
la presa e l’angelo quasi non si
muoveva più.
“Lascialo! O
morirà!” disse Luciherus
“Avanti…so che
non lo vuoi
uccidere! Torna in te!”
continuò, ma il padrone di casa non
reagì.
“Ti prego!”
supplicò la bambina “Ti prego! È tutta
colpa
mia! Avevo freddo, stavo male…e lui mi ha aiutato! Lui mi
vuole bene! Tutti
quelli che sono qui ti vogliono bene…perché
fargli del male?”.
Scoppiò a piangere. Kasday
si placò, mentre i suoi occhi
tornavano ad essere grandi e dolci, le corna si ritiravano ed il suo
viso
riprendeva un aspetto accettabile, senza i denti da serpente.
Lasciò andare
Nosmagiés, che riprese fiato per la prima
volta, tossendo ed annaspando. Scosse la testa per riprendersi.
“Nosmy!” gemette
l’Alto, inginocchiandosi ed abbracciando
l’angelo, con affetto smisurato. Luciherus fu sicuro di
notare più di due
braccia…ma si convinse che, forse, sbagliava.
“Oh, Nosmy! Che cosa ti ho
fatto…scusami! Ti ho fatto tanto
male?”.
Ora aveva di nuovo la sua voce
androgina.
“Signore…”
mugolò il Messaggero, mentre le sue ferite
venivano guarite dalla magia del suo padrone
“Signore…perdonatemi”
sussurrò,
con un fil di voce.
“Tutto bene? Oh, mio
tesoro, perdonami tu!” disse Kasday,
osservandone il corpo in cerca di ferite non guarite.
“Sto bene” lo
rassicurò Nosmagiés, alzandosi “Vedete,
sto
bene! Tranquillizzatevi…”.
Il padrone di casa, alzandosi a sua
volta, si girò verso i
suoi ospiti. Vide che Vereheveil era terrorizzato e si nascondeva
dietro
Luciherus, che non lo
voleva vicino e lo
spingeva via. La Guerra era sconcertata e confusa. Il Principe era
stupito ma
non più di tanto turbato dal comportamento
dell’Alto.
“Volete fare
colazione?” domandò Kasday.
“Magari!” rispose
la bambina, con entusiasmo.
“Berkana…è
questo il tuo nome, giusto, piccola Celeste,
andresti a chiamare Yelean? Lei è una messaggera e magari ha
piacere di
mangiare qualcosa…”.
La piccola annuì e corse
di sopra. Kasday si avviò verso il
camino e raccolse i capelli in una crocchia. Iniziò a
cercare cibo a
sufficienza per tutti.
Yelean scese dalle scale, ancora
malferma sulle gambe, con
un gran sorriso: “La mia Signora scende più
tardi…”.
“Lei non mangia, come
me” esclamò l’Alto.
Nosmagiés andò
accanto al suo padrone.
“Oh, no, Nosmy! Siediti e
rilassati! Ce la faccio da solo.
Tu sta tranquillo, che oggi devo farmi perdonare”.
Luciherus sentì il suo
stomaco brontolare e sorrise: “Che
fame…”.
Kasday si tolse i veli che ne
coprivano il busto e li
allacciò in vita, sottilissima, accanto alla specie di gonna
che gli nascondeva
del tutto le gambe. La Guerra rimase a fissare suo figlio, sedendosi e
non
sapendo che dire. Vereheveil si guardava in giro, cercando di ignorare
i
presenti, a disagio.
Luciherus si fermò,
incantato, ad osservare l’Alto e la sua
strana fisionomia.
Kasday afferrava agilmente molti
oggetti con le sue mani.
“Quante braccia
hai?” domandò il demone, non riuscendo a
contarle da quanto veloci le muoveva il proprietario.
“Sette” gli
rispose lui, come se fosse la cosa più normale
del mondo.
L’Alto si fermò,
spalancandole tutte e facendo un giro su se
stesso, per poi tornare a preparare la colazione.
“Bellissimo”
esclamò il Principe “Devono essere
comode”.
“Sì,
abbastanza” ammise Kasday, afferrando
contemporaneamente una brocca di latte, tazze e tazzine.
“Certo
che…” riprese il demone “…se
la tua metà superiore è
fatta così…non immagino come potrebbe essere la
parte inferiore!”.
“Non lo indovineresti
mai” sghignazzò l’Alto, passandosi la
lingua biforcuta sulle labbra. Luciherus di alzò e gli
andò vicino, con le mani
in tasca, osservandone il viso di profilo. Se ne stava appoggiato ad un
mobile,
con aria indifferente. Vedeva che il Signore non aveva un naso definito
ma, al
suo posto, c’erano solo due fessure simili a branchie. Aveva
due occhi azzurri
enormi, così simili a quelli di un insetto, sormontati da
lunghissime
sopracciglia colorate che restavano sospese a mezz’aria,
uscendo dal volto. Il
terzo occhio, magenta, era l’unico con aspetto normale e
stava spalancato in
mezzo alla fronte, seguendo i movimenti delle mani. La piccola bocca
vermiglia
lasciava intravedere un dentino triangolare. Portava tre anelli per
ogni
orecchio a punta, che agitava sporadicamente. Il demone trovava belli i
disegni
azzurri sul volto di Kasday, sia sulla metà di vetro sia su
quella di metallo.
Sobbalzò, quando si accorse che gli occhi gialli sulla punta
delle antenne
dell’Alto lo stavano fissando.
“Che cosa osservi e trovi
così interessante, Luciherus?”.
“Guardo
te…”.
“Che strana bestia,
eh?”.
“No. Non pensavo
questo!”.
“Io sì. Ogni
volta che mi guardo allo specchio”.
L’Alto afferrò
un bicchiere e lo riempì di succo di frutta.
Se lo passò su un'altra mano ed il liquido si
raffreddò all’istante.
“Forte…”
esclamò il Principe.
“É il mio
braccio di vetro. È questo che fa sì che ci sia
tutto questo freddo in casa”.
La parte in vetro era trasparente, si
poteva vedere
attraverso ciò che c’era dietro, e si poteva
scorgere al loro interno i
riccioli azzurri della magia del proprietario.
“E le altre?”
volle sapere il Principe, guardando gli altri
sei arti.
Kasday, continuando a preparare la
colazione, tese due
braccia di colore blu. Queste si allungarono a dismisura e si
riempirono di
piume dello stesso colore, enormi e lucenti.
“Queste sono le mie ali ed
i miei arti d’aria” spiegò
l’Alto.
Luciherus notò che le dita
si erano allungate e si erano
fatte affilate. Erano bruciate sulle punte e capì che aveva
tentato di salvare suo
figlio usando quelle mani. Con una smorfia, l’Alto fece
tornare le ali delle
semplici braccia, anche se blu e dalle dita bruciate: le uniche senza
un occhio
sul dorso.
“Queste
due…” continuò Kasday, sollevando il
braccio in
metallo e roccia assieme ad un arto color carne, femminile,
apparentemente
uguale a quello dei presenti, non fosse per quell’occhio
verde sul retro della
mano “Queste due sono le mie braccia legate alla terra. Sono
il principio di
creazione e distruzione”.
Passando sopra ad un piatto, con
quella color carne, fece
comparire frutta e cibo di varia natura.
La parte di metallo non la
usò. Sembrava fatta d’acciaio,
era grigia e lucida, con riccioli azzurri. Con un arto color rubino
passò
accanto alla brocca del latte e del caffè, scaldando il loro
contenuto. “Questo
rappresenta il fuoco. Scalda tantissimo ma solo al mio comando. Non
è in grado
di scaldare l’ambiente come, invece, raffredda il braccio di
vetro”.
Infine, prima di servire in tavola,
passò una mano verde e
squamata sopra dei bicchieri e li riempì. “Quello
è il braccio d’acqua?” volle
sapere Luciherus.
“Sì”.
Un ultimo passaggio della mano di
vetro sui bicchieri per
raffreddarli e poi l’Alto servì la colazione, con
un vassoio su ogni mano
necessaria, senza alcuna difficoltà.
“Grazie!” disse
la piccola Celeste Berkana, assaporando il
suo latte al cioccolato con i
biscotti.
Vereheveil fece un cenno con il capo quando ricevette il suo
tè, anche questo
con i biscotti ed un toast alla marmellata. Nosmagiés
ringraziò con molto più
entusiasmo, quando di fronte a lui fu posta una pila di frittelle con
il
caramello. L’Alto ci mise sopra anche della panna.
La Guerra trovò delizioso
il suo caffellatte e divise il
toast con burro e zucchero assieme a Yelean, che assaporava il suo
succo
d’arancia. Luciherus bevve a piccoli sorsi il
caffè nero, senza zucchero e
latte, con soddisfazione, alternandolo al succo di limone.
“Che schifo è
quello?” gemette Nosmagiés, sentendo
l’odore
dell’acidissimo agrume.
“Il tuo che schifo
è! Quell’intruglio
dolciastro…” sbottò il
demone, trovando rivoltante il sapore del caramello.
Kasday passò accanto a
Vereheveil e gli legò i capelli.
“Ti piace?”
domandò.
“Siete
bravo…” disse il Dio delle Letterature, senza
alzare
lo sguardo ed agitandosi.
Luciherus osservava il ventre
dell’Alto, contornato e pieno
di segni azzurri, che si intensificavano attorno ad oblò
dello stesso colore,
posto alla sinistra del petto di Kasday, nello stesso punto in cui il
demone
aveva il cuore. Era liscio e pulsava di luce in modo regolare.
“Come mai sette?”
domandò il Principe, soprappensiero.
“Come mai sette
braccia?” chiese conferma Kasday,
riprendendo i piatti e i bicchieri vuoti.
“Sì. Non
sarebbero più comode in numero pari?”.
“Può darsi. Ed,
in effetti, ne avevo otto in principio. Ma
uno mi è stato tolto”.
“Tolto? Ma è
terribile…” gemette Vereheveil.
“Un piccolo dono da parte
di Madama Momoia per ricordarmi
che non devo provare calore” spiegò
l’Alto, con uno strano tono tremendamente
tranquillo e calmo.
“In che senso provare
calore?” fece il demone,
accigliandosi.
“Il braccio che mi
è stato tolto era l’opposto di quello di
vetro. Emetteva calore e mi aiutava a mantenere un equilibrio nella mia
temperatura e in quella della casa. Ma mi è stato tolto
perché era quello che
portava l’amore”.
Il Dio delle Letterature non nascose
il suo sconcerto: “Come
l’amore? Che significa?” volle sapere.
“La mano di vetro, di
ghiaccio, porta il gelo e
l’indifferenza. La mano opposta portava il calore e, appunto,
l’amore. Ma mi è
stato tolto…”.
“Ma è
spaventoso!” gemette il Dio dalle ali d’angelo.
“Ti ha fatto
male?” si informò Luciherus, trovando strano il
tono distaccato e sereno dell’Alto. “Vuoi
provare?” sorrise Kasday, lavando i
piatti con la sua mano d’acqua e facendo star seduto il suo
Messaggero, che
voleva aiutarlo “Se vuoi provare posso staccarti un braccio.
Poi lo riattacco,
lo giuro, ma intanto potresti avere l’occasione di sapere
ciò che si prova”.
I tre rabbrividirono.
“Mi rendo conto che nel mio
palazzo faccia freddo. Mi
dispiace ma non posso fare altrimenti”. “Non sei
arrabbiato per tutto quello
che ti hanno fatto?” gemette il demone e la Guerra
annuì, in apprensione per il
suo piccolo.
Kasday alzò le spalle,
sfumate fra il blu delle braccia e la
bicromia uguale al viso che si espandeva per tutto il petto. Tutti
poterono
notare che quello che sembrava un girocollo era in realtà
una riga di boccioli
che gli coronavano il collo.
Mio figlio fiorisce
si disse, divertita, la Dea.
Con uno sbadiglio, Deyan fece il suo
ingresso in sala.
“Buongiorno a
tutti!” borbottò, stropicciandosi gli occhi.
“Buongiorno”
risposero tutti, anche quelli che non avevano
idea di chi fosse.
Kasday, finito di lavare le
stoviglie, le sorrise: “Ben
svegliata…”.
“Grazie…”.
Andò vicino a sua figlia e
l’abbracciò: “Hai mangiato bene,
piccola mia?”.
“Sì,
mamma”.
“Ed hai
ringraziato?”.
Berkana si alzò e fece un
inchino rivolto all’Alto: “Grazie,
Signor Kasday, per la buona colazione”.
“Nosmagiés…”
parlò Kasday, asciugandosi le mani
“…dovrai fare
la spesa al più presto. Se io non ci sono a creare da
mangiare, non resta molto
da dare alla piccola. Mangi davvero
tantissimo…sai?”.
La piccola sorrise.
“Sì,
sì! E non ridere…sei una specie di
locusta!”.
L’Alto si avviò
verso le scale.
“Signore…dove
andate?” domandò l’angelo Messaggero.
“Vado a fare un bagno.
L’odore della battaglia mi fa davvero
schifo”.
“E noi?”
protestò Luciherus, sentendosi di nuovo
abbandonato.
“Voi siete liberi di fare
quello che volete. Potete restare
come potete andarvene, liberi! Vi
chiedo solo di non andare sulla cupola, anche perché ho solo
io la chiave e non
sapreste entrarvi”.
Detto questo si allontanò,
seguito da Nosmagiés.
Deyan fissò gli ospiti con
curiosità.
“E Voi chi
siete?” domandò la Guerra, sentendosi osservata.
“Sono un’amica di
Kasday, mi ha salvato la vita”.
La Messaggera si era alzata e le
stava pettinando i capelli
bianchi con dolcezza.
“Davvero?
Interessante…” farfugliò Vereheveil,
osservando la
somiglianza fra l’Alto e quella donna.
“E Voi, Signora, chi
siete?”.
“Sono la Dea della Guerra,
la madre di Kasday”.
“Oh, ecco perché
in lei ne vedevo una certa somiglianza”.
“Ma dove? Non ha
più niente del piccolo e bellissimo bambino
che ho messo al mondo”.
“Questo perché
voi deucoli badate solo all’apparenza
estetica”.
“Non è
vero!” protestò Vereheveil.
“A proposito di apparenze
estetiche…” si intromise Luciherus
“…cos’è
quell’oblò azzurro che Kasday ha sul
cuore?”.
“Quello…è
il suo cuore! Anche il mio è così”
rispose lei,
scoprendo il seno sinistro e mostrando una mezza luna dorata che
pulsava sotto
di esso, poi si ricoprì.
“Voi siete una Celeste, lo
vedo dal colore della vostra
magia” commentò Vereheveil.
“Io sono quello che sono.
Che ti importa?” sbottò lei.
Il Dio delle Letterature non rispose.
“Dov’è
Kasday?” sibilò il Principe.
“Te lo ha
detto…”.
“Sì,
ma…io devo parlare con quella benedetta
creatura!”.
“Mi sa che ti tocca
aspettare…”.
“Ma perché
combatte? Non è l’Equilibrio? E
l’Equilibrio non
è neutrale?”.
“Ma lui è al di
sopra di esso”.
Rimasero in silenzio, ascoltando il
canto degli uccelli nel
giardino interno.
“Voi siete Luciherus, il
Dio creato da Momoia, giusto?”
disse Deyan.
“Sì.
E’ esatto”.
“Che vigliaccata. Ha creato
il Dio del Coraggio solo per
costringere i suoi alleati a combattere”.
“Io te lo avevo detto che
tu sei un Dio solo per quel
motivo, ma tu non mi hai voluto credere!” lo derise
Vereheveil, sghignazzando.
“Taci, piccione!”
ringhiò Luciherus: “Tu credi di essere
meglio di me? Cosa pensi di fare in guerra? Fermare i tuoi avversari
dicendo:
ora vi leggerò un famoso passo di un famoso
autore…”.
“Ne ferisce più
la penna che la spada!”.
“Uccidimi a colpi di biro,
se ci riesci!”.
“Ignorante!”.
“Mezza pippa!”.
La Guerra sospirò.
Deyan li pregò
affinché smettessero di litigare ma non
ottenne risultati.
“Fanno sempre
così…” le spiegò la Dea
“…è il loro modo di
comunicare!”.
“Non osare toccarmi,
codardo piumato!” sibilò il demone.
“Non osare parlarmi
così, apprendista!”.
“Finitela di
urlare!” li rimproverò la Messaggera
“Altrimenti torna giù Nosmagiés
incazzato come una bestia…”.
“Che
paura…” ridacchiò Luciherus.
“Coglione!” lo
insultò Vereheveil.
“Gnomo!”
ribatté il Principe.
Deyan scosse il capo, vedendo che
nessuno poteva impedirgli
di litigare.
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Capitolo 23 *** XXIII- la passione delle bestie ***
XXIII
LA
PASSIONE DELLE BESTIE
Kasday guardava il soffitto, immerso
nella vasca in marmo
nero, fino al collo. Guardava il soffitto, decorato con motivi in oro,
rappresentanti la rosa dei venti e le costellazioni, con aria assente.
“A cosa pensate?”
domandò Nosmagiés, ribaltandogli un po’
d’acqua in testa per lavargli i capelli. “A tante
cose…” fu la
risposta.
“Siete
preoccupato?”.
“Un po’
”.
“Per la guerra o per il
matrimonio?”.
“Per entrambe le
cose”.
La vasca era molto ampia e poteva
contenere le ali blu,
aperte.
“Sono morti degli
Alti?”.
“Sono scomparsi. E sono
scomparsi anche dei Celesti”.
“É una cosa
molto triste…”.
“Già…”.
Dal piano inferiore si udirono le
urla di Vereheveil e
Luciherus che litigavano. Kasday sbuffò ed immerse la testa
in acqua: era
stanco di sentirli sempre l’uno contro l’altro.
Dopo un po’ riemerse e
coprì le grida con una canzoncina per
bambini.
“Loro, là sotto,
volevano solo parlare un po’ con Lei,
Signore” mormorò l’angelo.
“Ci penserò
dopo”.
Nosmagiés
iniziò a pettinare i lunghissimi capelli corvini
del suo padrone.
“Scusami per prima, mio
angelo” gemette l’Alto.
“Oh, no, mio
Signore!”.
“Oh, sì,
invece!”.
Il Messaggero notò che il
suo padrone aveva il viso rigato
di lacrime azzurre.
“Sono
così…malato di mente! Faresti meglio ad
andartene, mio
angelo”.
“No. Mai!”.
Kasday, passandosi una mano sul viso,
si alzò ed uscì dalla
vasca.
“Germoglio se me ne sto in
acqua ancora un po’” sbottò.
Nosmagiés sorrise. Due
delle gambe del suo padrone erano
fatte in legno e sembravano tronchi d’albero, con delle
radici ai piedi. Era
possibile che germogliassero?
Con aria distratta e distante,
l’Alto si sedette davanti ad
uno degli specchi ed iniziò a sistemarsi i capelli.
“Lasciate fare a
me!” disse, delicatamente, l’angelo ed
iniziò
a pettinarlo, con cura ed amore.
Nel frattempo Kasday sceglieva gli
orecchini da indossare e
si sistemava le code.
“Ed il Vostro futuro
sposo?” riprese a parlare il
messaggero.
“Carino ma…non
so…gli manca qualcosa”.
“Cosa?”.
L’Alto si spalmò
di creme profumate, per coprire del tutto
l’odore di morte e guerra.
“Gli manca la
scintilla”.
Si guardava nella superficie
riflettente con una smorfia. Si
era accorto che i suoi boccioli stavano per fiorire e la cosa lo
irritava. Uno
di essi già apriva qualche petalo, sprigionando un
buonissimo profumo cha
l’angelo assaporò con gioia.
“Che
cos’è la scintilla, padrone?”.
“Quella sensazione
stuzzicante che ti fa venire voglia di
averlo accanto a te in qualsiasi momento, che ti lega in modo
indelebile e che
ti fa provare forti voglie…che tu, asessuato, non puoi
capire, mi spiace”.
“A me non
spiace più
di tanto. E, quindi, Raido non le fa provare questa
scintilla?”.
“No. Mi provoca solo
indifferenza e la cosa non mi piace per
niente. Ma Momoia mi ha costretto…”.
Si sistemò e si dipinse le
unghie, mentre Nosmagiés gli
sceglieva una veste colorata da indossare. “E qualcuno Vi ha
mai fatto provare
questa scintilla?”.
“Sì. Ma era
tanto, tanto, tanto tempo fa! Il tempo delle
scintille è finito per me”.
“Non dica
così…”.
“L’amore non fa
per me”.
“Ma
perché?”.
“Sono tutte
stronzate”.
“Signore…io
conosco un sacco di persone innamorate!”.
“Ne sei sicuro?”.
“Certo!”.
“Se ne sei
convinto…per quel che mi riguarda, non vedo tanto
amore negli Universi. Più che altro c’è
dipendenza e desiderio carnale”.
“Gli angeli non amano
così…”.
Kasday gli accarezzo il viso e si
vestì, lentamente.
“Vi fa ancora male lo
spuntone che Momoia Vi ha inserito
nella schiena?”.
“Non così tanto,
passerà”.
Scalzo e silenzioso, l’Alto
fece per uscire dalla stanza.
“Vado nella stanza degli
specchi” spiegò “Dì ai nostri
ospiti di fare come se fossero a casa loro, sono liberi di fare quello
che
preferiscono, ma ribadisci il concetto che devono stare lontano dalla
cupola”.
Nosmagiés annuì
e raggiunse le persone che stavano al piano
di sotto, lasciando
il suo Signore da
solo, senza chiedere altro.
La Guerra, Luciherus e Vereheveil
stavano conversando con
Deyan, chiedendole informazioni sugli Universi dei Celesti e degli
Alti.
“E
così…” chiedeva conferma il Principe,
parlando di Kasday
“…quell’oblò è
l’unico modo per porre fine alla sua vita?”.
“Precisamente”
rispondeva la Celeste “Infrangere quel vetro
con una sola e
particolare arma ti
permetterebbe di far scorrere via tutta la sua magia ed energia
vitale”.
“Vale la stessa cosa con la
sua mezzaluna dorata?”.
“Sì.
E’ proprio così”.
“E non basterebbe coprire
quel punto debole con…che ne
so…un’armatura?”.
“Gli Alti e i Celesti si
difendono creando una barriera
con la loro magia.
E se non si copre
quel punto, si può emettere molta più
energia”.
“Ma chi ha tutta questa
mira per beccare proprio quel
punto?” azzardò Vereheveil.
“É abbastanza
grandino come bersaglio…” ridacchiò il
demone.
“Non è il
problema centrarlo. Il problema è che dovete avere
un’immensa carica magica per poter respingere
l’energia che sprigionerebbe la
sua rottura. Senza contare che il nostro sangue è letale,
velenosissimo, per
voi”.
“Io non lo voglio
uccidere…e, ad ogni modo, poi
rinascerebbe, giusto?”.
“Esatto. Momoia
è in grado di riportare in vita gli Alti che
muoiono. Anche se, ultimamente, pare che abbia perso questa
capacità”.
“Ma come?!” si
stupì il Dio delle Letterature.
“Siede
difettosi?” scherzò Luciherus.
“Non nascono più
né Alti né Celesti, nonostante ne
muoiano”
mormorò Deyan, triste.
“Che fine fanno le loro
essenze, se non rinascono?” domandò
la Guerra.
“Non lo sappiamo.
Spariscono, si dissolvono…non sappiamo
dove vadano e soprattutto se muoiano davvero. Nessuno se lo sa
spiegare”.
“E non ci sono altri modi
per porre fine alla loro vita?
Magari esiste un metodo per assorbirne anche
l’essenza…” propose Luciherus.
“No, che io sappia. Ma non te lo posso assicurare,
perché non ho
mai provato ad uccidere
nessuno”.
“Certo
che…andare alla guerra senza conoscere il proprio
nemico…” commentò il Principe,
scuotendo il capo sconcertato.
“É molto
rischioso…” ammise la Guerra.
“É
inutile!” esclamò il demone, convinto.
Vereheveil aveva deciso di ignorare i
discorsi di guerra e
battaglie. Giocava con Berkana.
“Se Momoia vi trova
qui…” parlò il Dio delle Letterature.
“Momoia non deve sapere che
siamo qui!” esclamò la piccola
“Nessuno lo deve sapere! Nessuno degli Alti! Sarebbe la
nostra fine. Kasday
corre un grande rischio a nasconderci qui”.
“Perché lo
fa?” domandò Luciherus
“Perché correre un tale
pericolo per voi?”.
“Perché il mio
padrone non è un mostro senza cuore!”
sbottò
Nosmagiés, mentre gli ospiti si stupirono della sua
presenza.
“Dov’è
Kasday?” volle sapere il Principe.
“É nella stanza
degli specchi. Mi ha detto di riferirvi che
siete liberi di fare come se foste a casa vostra ma, ribadisce, lontani
dalla
cupola”.
“Cosa
c’è sulla cupola?” si informò
il demone, curioso.
“Non lo so, Principe. Ed a
te non deve importare. Solo il
mio Signore ci entra ed a nessun’altro è concesso
mettervi piede”.
“Ma per il resto della
casa…” iniziò Luciherus, con un
sorrisetto.
“Per il resto della casa
potete fare quello che preferite,
tutti quanti voi. Ora, scusatemi, ma dovrei andare a fare la
spesa”.
L’angelo Messaggero, con
un’espressione annoiata e distante,
si congedò dagli ospiti ed uscì dal palazzo.
Alzò gli occhi al cielo,
avviandosi verso la capitale dove avrebbe potuto trovare tutto il
necessario
per sfamare quel branco di invasori, stupendosi della loro
testardaggine.
L’ora di pranzo era passata
da un pezzo. Deyan era nelle sue
stanze e le tre divinità in visita espressero la piena
intenzione di non
muoversi da lì, fino a quando Kasday non avrebbe trovato il
tempo di parlare
con loro. Vereheveil ne approfitto per esplorare l’immenso
giardino interno,
pieno di fiori e piante meravigliose. Lo seguì la bambina e
sfruttò l’occasione
per chiedere al Dio i nomi delle piante e degli animali a lei
sconosciute. Il
Dio angelo assaggiò dei frutti, trovandoli deliziosi, e
rimase affascinato
dalla quantità di flora e fauna
rara
presente. Una farfalla enorme e coloratissima spuntò da
dietro un fiore di più
di un metro. Vereheveil sobbalzò.
Suvvia, Vereheveil!
Disse a se stesso. Non puoi
avere paura di una farfalla!
La Guerra andò ad
intrattenersi con Deyan. Iniziarono a
parlare fra loro, come due vecchie amiche. Luciherus
passeggiò per la sala, con
le mani in tasca e la sigaretta, spenta, fra le labbra.
Osservò i monili ed i
soprammobili, per lo più aggeggi assurdi che si muovevano e
brillavano. Iniziò
a salire le scale, seguendo il profumo inconfondibile di Kasday.
Nessuno mi ha detto di non
disturbarlo, si
giustificò, cercandolo per le diverse stanze.
La casa si faceva sempre
più buia e sinistra. Le pareti sembravano
convergere verso di lui e scurirsi man mano che avanzava, fino a quando
il
demone si ritrovò immerso
nell’oscurità.
Rizzò le orecchie, deciso
a percepire il minimo rumore per
orientarsi. Lo percepì. Chiaramente.
Girò il capo e
proseguì verso la direzione di quel suono e
giunse davanti ad una porta scura.
Subito capì che
dall’altro lato c’era Kasday. Chiuse gli
occhi, sospirando ed annusandone l’essenza. Poi
entrò cautamente, vedendo
perfettamente al buio ora che le sue pupille si erano abituate alle
tenebre. La
stanza era buia ma gli specchi alle pareti emettevano tutti luce ed
immagini.
Fece qualche passò.
L’Alto era seduto su un trono nero e gli
dava le spalle. Luciherus guardava gli schermi, trovando alcuni luoghi
vagamente familiari. Si perse fra quelle immagini fino a quando,
nuovamente, si
accorse che l’occhio giallo dell’antenna di Kasday
lo stava fissando.
“Posso fare qualcosa per
te?” domandò l’Alto, tranquillo.
“Io…girellavo…”
borbottò il demone, con le
mani dietro la schiena.
“Vienimi pure vicino,
Principe. Non ti mangio mica…” gli
disse Kasday, senza distogliere lo sguardo dallo specchio che aveva di
fronte.
Luciherus gli andò
appresso. “Che posto è questo?” chiese,
meravigliato.
“La mia finestra sui Mondi
e gli Universi. Da qui posso
osservare ogni luogo creato”.
“Divertente…”.
“Vuoi provare?”.
“Mi
piacerebbe…”.
Il demone continuava a guardare le
antenne magenta, come un
bambino davanti ad un
oggetto mai visto.
Senza pensarci, allungò la mano e toccò
quell’occhio giallo che lo osservava. Le
palpebre si serrarono e l’antenna si ritrasse, come le corna
delle lumache. Kasday
girò leggermente il viso.
“Mi hai fatto
male” disse, con tranquillità ed apparente
indifferenza, mentre l’antenna tornava ad uscire.
“Scusa! Non
sapevo…non pensavo…” iniziò
il demone e l’Alto
rise.
“Guarda che ti tiro una
sberla!” sghignazzò.
“Preferirei di
no!” ammise il Principe, con un sorriso.
Il padrone di casa si
alzò: “Siediti qui, demone. Vieni a
provare” invitò, con un gesto delle mani sulla
destra.
Gli specchi si spensero e
tornò tutto buio, salvo per la
luce emessa dalle due creature nella stanza. “Cosa devo
fare?” chiese
Luciherus, accomodandosi.
“Vuoi vedere cosa succede
adesso nel tuo regno?” gli propose
Kasday.
“Sì. Mi
piacerebbe!”.
“Bene. Allora concentrati.
Guarda solo uno specchio, ignora
gli altri, e pensa alle persone che vuoi spiare”.
Il Principe respirò
profondamente e concentrò le energie.
Dopo un po’ iniziarono ad apparire delle immagini sulla
superficie che gli
stava di fronte. “Concentrati su una persona sola”
gli suggerì l’Alto.
Il demone chiuse gli occhi per un
attimo e visualizzò sua
figlia. La Dea della Morte, Luciheday, era seduta al Sole e leggeva un
blocco
per gli appunti, facendo dei segni su di esso, sorridendo soddisfatta.
Accanto
a lei apparve il Dio della Vita, sorridendo.
“Mi sembrano una coppia
felice…” commentò il padrone di
casa.
“A me sembrano in errore.
Non hanno niente in comune”
mormorò il Principe.
Kasday gli passò una mano
sulla schiena e sulle spalle.
“Ed io e te…cosa
abbiamo in comune?” domandò, mentre il
demone si irrigidiva.
“Io…”
balbettò, turbato “…non
so…”.
“Eppure abbiamo una
figlia” sussurrò l’Alto.
“Ma il nostro caso
è diverso. Noi non ci siamo sposati e la
nostra bambina è…”.
“É stata un
incidente? È questo che cerchi di dire?”.
“Te lo sei mai chiesto,
Kasday?” parlò Luciherus, guardando
il suo interlocutore negli occhi. “Cosa?” sorrise
l’Alto.
“Ti sei mai chiesto come
sarebbe stato il nostro futuro se
avessimo deciso di…essere una grande e bella famiglia
felice? Se ci fossimo
sposati e se avessimo avuto altri figli?”.
“Lucy, caro…io
non me lo chiedo. Io lo so. Sono per parte
divinità del destino, non lo ricordi
più?”. “Allora mostramelo! Voglio
sapere!”.
Davanti allo specchio non si mostrava
più niente perché il
Principe era troppo stanco per visualizzarne altre.
“Se io ho fatto tanta
fatica a vedere immagini su uno solo
di loro…” chiese il demone
“…come puoi tu illuminarli tutti
contemporaneamente?
E a lungo?”.
“Io ho molta più
magia di te…”
“Mi spii?”.
“Ogni tanto. Più
di quanto immagini. Ti dispiace?”.
“No.
Ora mostrami…”.
“Ok. Rilassati”.
Apparve la scena di un matrimonio,
con Luciherus
sottobraccio con la sua sposa, Kasday in
forma di donna. Lui era elegante e vestito in nero, lei era pallida e
con un
abito in tulle blu e pizzo.
“Sei molto
bella…” mormorò lui.
Lei sorrise.
La scena cambiò. Nello
specchio apparvero molti bambini.
Angeli, demoni e divinità. Erano tanti e tutti bellissimi,
ma i loro sguardi
non erano felici. E nemmeno erano felici gli sguardi dei loro genitori.
“Non saremmo stati felici.
E sai perché?” parlò Kasday,
nella realtà.
Il Principe scosse il capo e
l’Alto spiegò.
“Perché sarei
comunque, un giorno, divenuto uno degli Alti.
Sarei stato costretto ad abbandonarvi. Ma, prima di far questo, ti
avrei
distrutto. Il tuo corpo non vuole amare, e soffre quando questo tipo di
sentimento lo stuzzica. Amandomi, follemente e continuamente, come fa
un demone
con la sua donna, ti saresti consumato ed indebolito. Gli altri demoni,
sapendo
questo, avrebbero voluto soverchiarti e prima o poi lo avrebbero fatto,
uccidendoti o scacciandoti per sempre dal regno. In questo modo la
nostra
famiglia si sarebbe dovuta allontanare e vivere in qualche luogo
sperduto,
rifiutati dai demoni, dagli angeli e dagli Dèi,
perché creature impure…”.
“Ok. Basta! Solo una
domanda…avremmo mai un figlio
maschio?”.
“Io e te? Perché
me lo chiedi?”.
“Perché
l’ho visto. Mi ha detto che distruggerà gli
Universi. Che significa?”.
“Che avevi mangiato
pesante, Lucy!”.
“Io sono serio!”.
“Anch’io”.
I due si guardavano, essendo molto
vicini l’uno all’altro.
“Io…”
mormorò Luciherus “…io ti ho sempre
invidiato”.
“Davvero?”
esclamò, stupito, l’Alto.
“Sì. Quando
eravamo nel regno degli Angeli, io ti invidiavo
perché io ero un Arcangelo e tu un Serafino. Poi, quando
sono diventato
Principe di un intero regno, tu sei diventato un Dio. Ed ora che io
sono un
Dio…tu sei un Alto! Sei sempre sopra di
me…capisci?!”.
“É un
così grosso problema per te?”.
“Sì.
E’ frustrante. E poi, sinceramente, preferisco stare
sopra!”.
“In che senso?”
sghignazzò Kasday.
Luciherus agitò la coda.
“Sai,
Lucy…è strano. Io ho sempre voluto essere meno di
te e
meno di niente”.
“Io no! Io voglio essere il
migliore, il più forte…colui che
sta al di sopra di tutti!”.
“Accontentati di
ciò che sei e vedrai che la tua vita sarà
molto più rilassata e felice”.
“Voglio essere al di sopra
di te! Perché io sono…”.
“Più bello,
più forte, più potente…so che ti
consideri il
migliore! Però…io ti lascerei stare sopra di
me”.
L’aspetto di Kasday
mutò, divenendo quello di una donna ed
appoggiandosi a Luciherus.
“Puoi fare quello che
desideri. Sta tranquillo. Non sono più
creatrice…non potrò mai generare il maschio che
tu hai sognato”.
“Mai?”.
“Né con te,
né con nessun altro, fino alla morte”.
Luciherus la strinse a se, con forza
e rabbia. Finalmente,
dopo aver tanto bramato quelle labbra, le baciò con passione
ed eccitazione.
“Ok..Kasday..io..”
gemette.
“Sta zitto”
sospirò l’Alto, nel suo sinuoso corpo di donna,
premendo contro quello del demone, desiderandolo ardentemente.
Era da tanto che il padrone di casa
non percepiva quella
sensazione,quella voglia, quel contatto carnale. Le era mancato il
brivido che
provocava l’amplesso e l’unione di due creature che
si congiungono. Luciherus
era carico di rabbia e di voglia, finalmente soddisfatta.
Ansimò di piacere,
stringendo forte il pallido corpo femmineo di Kasday, che gemeva al
ritmo delle
spinte del demone. Senza parlarsi, trovando le parole del tutto
superflue,
rimasero avvinghiati, ringhiando e godendo, fino a raggiungere
l’orgasmo,
stringendosi ancora più forte ed ansando i nomi
l’uno dell’altro.
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Capitolo 24 *** XXIV- gli Alti ***
XXIV
GLI
ALTI
Momoia non capiva. Cosa ci trovava
Hagalaz, Kasday, in quei
fastidiosi sottoposti? Cosa lo spingeva a preferire un semplice Dio ad
un Alto?
Non riusciva a comprenderlo. Sospirò, guardandosi attorno. I
pochi Alti rimasti
erano lì, con lei, e tutti quanti si mostravano alquanto
perplessi. Osservavano
Kasday attraverso un piccolo specchio e anche loro si domandavano come
potesse
preferire una divinità novizia al Signore del Cielo.
Erano in sei in quella stanza,
silenziosi e seri. Momoia
non nascose la sua
preoccupazione.
Erano sempre di meno. Ed erano,
stranamente, tutti presenti.
L’unico assente era Kasday, impegnato in ben altre
attività.
“Non si preoccupi,
Madre” parlò uno di loro, dai grandi
occhi monocromatici ed il viso nero “Non ci
sconfiggeranno!”.
“Cosa te lo fa pensare,
Fehu?” sbottò Momoia, agitando la
coda a spuntoni.
“Semplice: sono rimasti i
più forti di noi!” esclamò Fehu,
facendo brillare i suoi occhi.
Essendo privo di bocca, e parlando
facendo vibrare l’aria
con la mente, quello era il suo modo di sorridere.
“Sì,
è vero. Ma siamo rimasti in pochi. Quei bastardi di
Celesti! Come fanno a farci sparire?” sibilò Jera,
l’Alto a due teste.
Una era apparentemente normale e
l’altra dalle sembianze
lupesche. Era la seconda che parlava, ad occhi bendati, mentre
l’altra guardava
con la bocca fasciata.
“Fonti certe affermano che
anche i Celesti calano di numero”
parlò Ansuz, l’Alto dalla pelle blu che tutti
chiamavano Krì.
“Questo sì che
è strano…” ammise Dagaz,
l’Alto dal volto
d’uccello.
“Ed ancora più
strano è il fatto che rimaniamo di pari
numero. Siamo in sette noi Alti e sono in sette loro Celesti”
disse Momoia.
“Che ci sia qualcuno che ci
uccide da entrambe le parti?”
azzardò Jera, mentre il suo corpo, per buona parte ricoperto
dalla corteccia e
dal legno degli alberi, emetteva strani scricchiolii nervosi.
“E chi può
essere? Qualche entità suprema?”
mormorò, quasi
ad aver paura a farsi sentire, Dagaz, avvicinando i suoi sei piccoli
tentacoli,
simili alle zampette di un insetto, al proprio oblò blu.
“I Supremi? Avete battuto
la testa?!” ridacchiò Momoia “A
loro non importa niente di ciò che accade dalle nostre
parti. E noi non
dobbiamo rendergliene conto. È escluso che sia opera loro.
Non lo farebbero
mai. ”.
“Ma ora noi non
rinasciamo più in te, Madre Momoia. E
allora…cos’altro può esserci che
non va, se non un intervento al di sopra di noi?”
parlò, per la prima volta,
Raido.
Momoia non sapeva cosa rispondere.
Non le era mai capitato
prima d’ora di pensare alla morte.
La morte? Cosa succede ad un Alto
quando muore? E può morire
per davvero? Non
voleva nemmeno
immaginare l’impossibilità di rivedere suo marito.
Ma del resto, si convinse,
non è possibile che esseri così importanti
spariscano definitivamente. Si
convinse che doveva esistere un altro sistema…
Smise di dedicarsi ai suoi pensieri
quando vide che gli
altri Alti la fissavano, perplessi.
“Che cosa facciamo, Madre?
Ci stanno eliminando…e lo stesso
trattamento è stato riservato ai nostri nemici!”.
Fehu frustava la grande coda di
scorpione, attaccata alla
parte inferiore del suo busto, con sembianze di equine.
“Di sicuro è
colpa loro!” ringhiò Jera, camminando di qua e
di là sui suoi otto tentacoli
“Dev’essere tutta colpa dei Celesti! Hanno
iniziato loro!”.
“Normalmente…”
iniziò a parlare Krì “…in
una guerra non ha
mai ragione o torto nessuno. O, meglio, hanno ragione e torto
entrambi”.
“Tu parli sempre
complicato, Krì!” inveì
l’Alto a due teste.
“É il mio modo di
fare. È una delle mie caratteristiche”
ridacchiò Krì, passandosi le mani sui
capelli neri e ricci, facendo tintinnare tutti i braccialetti che
portava sulle
quattro braccia.
“Il potere della parola
è molto importante” continuò, con
tono tranquillo, e con il terzo occhio socchiuso.
Era l’Alto che aveva meno
caratteristiche che lo
allontanavano dal normale aspetto dei mortali.
Era il più piccolo e
magrolino, con un vitino sottile, ed
apparentemente fragile. In realtà era il più
forte fra i presenti. La sua
abilità in battaglia era riconosciuta ed indiscussa da
millenni, così come la
sua forza fisica. Spostava le montagne, se era necessario. Aveva gli
occhi
nocciola ed il terzo era di pietra dura, brillante di luce propria. In
cima al
capo gli sbucavano due piccole corna nere, rivolte verso il basso, ed
una piuma
di pavone. Lungo tutti i ricci sbocciavano fiori di loto. Attorno al
suo collo
stavano due piccoli serpenti, che gli spuntavano dalle spalle. Non
aveva ali,
né coda. Era vestito in stile indiano e portava
l’arco e le frecce. Non era
mutato di molto, rispetto a com’era prima di divenire uno
degli Alti.
“Che proponi di fare,
allora, santone? Rinunciare alla
battaglia?” domandò Dagaz, facendo fremere il suo
addome d’insetto, diviso in
tre parti, con il pungiglione, e gli occhi su di esso.
“Certo che no! Non se ne
parla!” si affrettò a rispondere
Krì, incrociando le braccia.
“E allora?! Non vale la
pena di morire per…non si sa cosa!”
insistette Dagaz, scuotendo il capo a becco e con i rami al posto dei
capelli.
Fece vibrare
le ali
da vespa, irritato, ma Krì rimase impassibile ai suoi
attacchi d’ira.
“Io non mi ritiro mai
né da una guerra né da una battaglia!
Va contro ciò per il quale siamo qui” disse,
convinto, l’Alto dalla pelle blu.
“Non può essere
il nostro destino morire in guerra!”
protestò Fehu, agitando le antenne fiorite e facendo
sbattere le chele fra
loro.
“Tu che ne sai? Sei forse
il padrone del fato?” domandò Krì.
“No, non lo sono. Ma ci
tengo alla mia vita!”.
“Fai male!”
sorrise l’Alto blu.
“Una volta non mi
importava, perché tanto ero sicuro di rinascere. Ma
ora…”.
“Ci sarà sempre
qualcosa dopo. La vita fra questi Universi è
solo un passaggio…”.
“Tu cosa ne sai? Come ne
hai la certezza?”.
Krì non rispose e lo
guardò con disprezzo.
“Qualcosa dobbiamo
fare!” parlò Fehu, incrociando i
tentacoli “Non possiamo permettere che ci portino
all’estinzione!”.
“Ben detto,
Fehu!” concordò Dagaz.
“Veramente ci stiamo
portando all’estinzione da soli…”.
“Fa silenzio,
Krì!”.
“Ma fa silenzio tu, Fehu!
Hai la testa così piccola che
dubito ci possa entrare alcunché…figurati se ci
capisci qualcosa di strategia
di guerra!”.
Effettivamente l’Alto aveva
un viso piuttosto sottile, con
due occhi enormi che ne uscivano dai lati e dai lunghi capelli
squamosi.
“Non mi sembra una buona
idea litigare fra noi!” sbottò
Raido, il Signore del Cielo.
“Raido ha
ragione” disse Momoia.
“Avete paura di
morire?” sibilò l’Alto con le stelle fra
i
capelli “Dopo tutte le Ere, immutati e presenti, avete paura
davvero di andare
oltre?!”.
“E chi ti dice che
c’è qualcosa oltre?!” volle sapere Jera.
“Krì lo
dice…” rispose Dagaz.
“Krì
è un drogato!” esclamò Fehu.
L’Alto in questione non rispose alla provocazione,
preferendo stare in
pace con se stesso. Degli altri non gli importava.
“Una leggenda narra che
resterà uno solo di noi, un giorno…”
iniziò Raido.
“É solo una
leggenda” rispose Momoia “Ed è priva di
senso.
Parla di unioni fra Alti e Celesti quando ce ne sarà solo
uno per parte. Parla
di Principi rivali che si accorderanno per la sconfitta di un nemico
comune.
Movimenti e passi dimenticati che risvegliano
l’unione…è priva di senso!”.
“Tutte le leggende hanno dei tratti poco
comprensibili” disse Krì.
“Va bene…ma
perlomeno sarebbe bello se fosse interpretabile!
Chi sono i Principi? Ed i movimenti dimenticati?”.
“Se tutto fosse semplice
negli Universi, Madre, noi non
serviremmo a niente!” parlò l’Alto blu.
“Gli Universi sono
semplici, sono gli altri che li
complicano!” esclamò Momoia.
“Gli altri? Gli altri
chi?”.
“I mortali, ovvio! Con i loro discorsi
assurdi…”.
“Ignoriamo la
leggenda!” propose Fehu.
“Va bene…ma che
facciamo?” continuò Dagaz.
“Beh …tu,
Krì, ad esempio…” iniziò
Momoia, ma l’Alto la
interruppe.
“Cosa vuoi?”
disse, con aria accigliata e scocciata.
“Momoia!” si
intromise Jera “Madre Momoia…perché
Kasday è
ancora fra noi? Non avevamo deciso di ucciderlo?”.
“Perché siamo
rimasti in pochi e lui ci serve…idiota! È un
creatore!” sbottò la Madre.
“Ma non vuole creare! Vero,
Signore del Cielo?”.
Raido annuì: “Io
ho tentato, Momoia. Ma mi ha sempre
respinto con convinzione”.
“E allora costringi
quell’essere a fare il suo lavoro!” alzò
la voce lei.
“Non potrei mai, Signora.
Non sono una creatura così
spregevole e schifosa!”.
“E allora fai un figlio con
Momoia” propose Krì.
“Perché non con
te?!” sibilò la Madre “Così
la smetti di
perdere tempo con le mortali?”.
“Io, Signora, a dir la
verità solo un preservatore. Solo in
casi eccezionali sono un creatore”.
“Questo è un
caso eccezionale!”.
“No!”.
“Ma…”.
“No! Trovati qualcun
altro”.
“Tu
devi…”.
“Io non devo niente. Fatti
da sola i tuoi Alti”.
Momoia ruotò gli occhi al
cielo: “Siete impossibili! Mi date
solo fastidio! Ma non lo capite?! Siamo rimasti solo tre creatori: io,
Kasday e
Raido. Poi ci sei tu, Krì, che sei una via di mezzo, due
preservatori e un
distruttore, Jera”.
“E
se Kasday fosse un
distruttore ora? Fra creatori e distruttori scorre una linea
sottile…” azzardò
Dagaz.
“Può
essere…” ammise Momoia.
“E allora, Signora,
perché non create con il
Signore del Cielo?” insistette Krì.
“Come ti permetti? Parlarmi
in questo modo…” protestò lei.
“E voi, madama? Non sono il
tuo cane, Momoia dalla pelle
verde! Non puoi darmi ordini e pretendere assoluta fedeltà,
specie se questi
sono assurdi!”.
Lei tacque, stanca di discutere.
“E allora cosa pensate di
fare? Combattere o ritirarvi, come
dei vigliacchi, specie ora che gli eserciti dei mortali sono pronti e
guidati
dagli Dèi?” sibilò Raido.
Krì ridacchiò.
“Cosa
c’è da ridere, Ansuz?”.
“Non
sono pronti. Al
momento della guerra, si guarderanno negli occhi e
scapperanno!”.
“Credi che non siano
sufficientemente addestrati?”.
“Ma neanche un
po’!”.
“Il loro compito
è affrontare creature simili a loro…”.
“Creature a loro parallele,
degli Universi dei Celesti. E
credi davvero che ne siano capaci? Per loro sarà come
combattere contro la
propria immagine!”.
“Pensi di poterli preparare
a sufficienza?” domandò Momoia.
“Ovvio”.
“Bene. Ho già
portato un paio di volte il nuovo Dio con
me…”.
“Luciherus?”.
“Sì.
L’ho fatto per dargli un’idea del conflitto e si
è
mostrato anche lui a dir poco perplesso. Non sapeva della presenza di
demoni ed
angeli fra i Mondi dei Celesti”.
“Senza contare che quelle
due tipologie di creature si
odiano. Dovrebbero unirsi in un unico esercito ma come fanno? Secondo
me, se si
incontreranno, inizieranno a farsi guerra fra loro, ignorando i
Celesti!”
affermò Krì.
“Pezzo della profezia:
quando gli angeli cadranno ed i
demoni saranno redenti…”.
“Basta stronzate,
Jera!” lo interruppe Momoia, frustando
l’aria con le sue strane braccia e sbattendo le ali da
farfalla. Era stanca di
tutta quella confusione.
“Krì!”
ordinò, e l’Alto la fissò
“Và fra gli eserciti dei
mortali e degli Dèi. Compattali! Usa la tua parlantina per
convincerli ad
andare oltre alle loro divergenze ed unirsi contro i Celesti.
Addestrali come
si deve!”.
Krì annuì, poco
convinto, ma sicuro
che era inutile discutere. Si
congedò dagli altri Alti, rimuginando sul da farsi.
Uscì dal palazzo e salì
sulla sua strana cavalcatura, che assomigliava ad un cavallo ma aveva
degli
occhi decisamente più grandi.
“Kiaritanya!”
chiamò.
Una piccola creatura gli rispose.
“Kiaritanya, mia
Messaggera…dobbiamo andare. Abbiamo un
compito da svolgere”.
Lei scese dal muretto su cui si era
appollaiata e spiegò le
ali d’angelo. Vestiva in modo inusuale, con una bandana rossa
in testa, la
camicia bianca e dei pantaloni marroncino chiaro. Aprì la
sua borsa verde
muschio, con un sorrisetto, e ripose il libro che stava leggendo: un
volume su
un Paese lontano su un piccolo Mondo chiamato India.
Padrone e Messaggera salirono sulla
cavalcatura, di uno
strano colore fra il giallo ed il verde chiaro, e partirono. Sparirono
all’orizzonte, velocissimi e silenziosi.
Momoia nel frattempo prese il Signore
del Cielo per la coda
da pavone. Lui girò il collo, sottilissimo e lunghissimo.
“Raido…controlla
se effettivamente Kasday è un distruttore”.
“Sì,
madre…” rispose il Signore del Cielo ed anche lui
si
allontanò, allargando le braccia e riempiendole di piume per
poter volare.
Poi la Madre si rivolse agli Alti
rimasti nella sala: “Voi,
venite con me! Sferriamo un attacco ai nostri amichetti
Celesti!”.
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Capitolo 25 *** XXV- Emanazioni e Dei del cielo ***
XXV
EMANAZIONI
E DÉI DEL CIELO
“Puoi salire sulla cupola,
se vuoi” sussurrò Kasday, ancora
in forma femminile.
Stava distesa sul pavimento della
stanza degli specchi.
Luciherus le stava accanto, guardando il soffitto.
“Che cosa
c’è sulla cupola? Perché non volevi che
ci
andassi?” domandò il demone, respirando piano e
parlando dolcemente, come in un
sogno.
“Ci sono delle cose che non
sono sicura che tu voglia
vedere…” rispose lei.
Presentava il suo aspetto da donna,
con i lunghissimi
capelli neri che si espandevano lungo la superficie lucida su cui stava
distesa. Si alzò, lentamente, mentre il Principe ruotava gli
occhi per
osservarne le forme. Gradatamente, tutte le sette braccia
dell’Alto
ricomparvero e riprese il suo vero aspetto. I fiori sulle sue spalle
erano del
tutto fioriti. Fece una smorfia, quasi divertita.
“Mi hai fatto fiorire,
Luciherus” sussurrò.
Con le due braccia blu si
legò i capelli, con l'arto di
vetro e quello di metallo si allacciò in vita dei lunghi
veli variopinti, la
mano di fuoco accese la sigaretta che reggeva con la mano
d’acqua. Con il
braccio lasciato libero si protese verso Luciherus, per aiutarlo ad
alzarsi.
Ma il demone era già in
piedi. “Cosa c’è di così
terribile
lassù?” chiese.
E Kasday rise. “Mi mancava
la tua Esse sibilante…” scherzò
l’Alto, guardando fuori dalla finestra e dandogli le spalle
“Comunque…sali
sulla cupola e vedilo con i tuoi occhi. Mi scuso fin da ora”.
Il Principe continuò a non
capire ma sorrise.
“Tieni” gli disse
l’Alto, porgendogli la sigaretta che aveva
acceso “Finiscila tu!”.
Il demone la prese fra le mani:
“É così strano vederti in
questo modo…” commentò.
“Ma ti sei visto allo
specchio?!” rise Kasday.
Luciherus si specchiò e
rabbrividì. Il suo viso era di nuovo
dolce e sognante, come quando era al tempio degli Angeli. Scuotendosi,
tornò
alle sue normali sembianze. Riprese ad osservare l’Alto,
sbirciandone le gambe
che si intravedevano fra i veli semitrasparenti, allacciati alla
sottilissima
vita. Si chiese cosa fossero quegli strani spuntoni che aveva sulla
schiena,
che ogni tanto si scopriva dato che il vento gli muoveva i capelli.
“Carine…”
disse, riferendosi alle gambe.
“Sono due tronchi
d’albero…” le descrisse Kasday
“…e
germogliano se me ne sto troppo fermo in un posto”.
“E quei due piedini che mi
è sembrato di scorgere prima…?”.
L’Alto scansò la
gonna, mostrando un altro paio di gambe,
una bianca e l’altra nera, legate assieme da un nastro rosso
e sollevate da
terra.
“Perché le tieni
legate?”.
“Sono scomode e le slaccio
solo quando devo ballare, dato
che queste…erano le gambe che avevo
prima…” mormorò il padrone di casa,
toccandole.
“Le
riconosco…” disse Luciherus “Hai tre
code…” continuò.
“Lo so!”
esclamò Kasday.
“Cosa sono quegli affari
che hai sulla schiena?”.
L’Alto non rispose, si
limitò a coprirli definitivamente,
aprendo la coda da uccello blu e azzurra a ventaglio, che gli
formò una corolla
dietro il capo. Poi celò le altre due code, una rossa e
pelosa simile a quella
di un gatto e l’altra verde e squamosa da coccodrillo, sotto
i veli della
gonna.
“Sei
così…” iniziò il demone.
“Strano?
Mostruoso?”
gli suggerì l’Alto.
“Non sto pensando a questo.
Ricorda che ho un cane a tre
teste e l’ho scelto proprio per questa sua caratteristica.
Credi che non mi
piaccia una donna con sette braccia?”.
“Io non sono una
donna…” sibilò Kasday, usando la sua
lingua
biforcuta “Io devo andare Luciherus. Tu torna dagli altri. E
ti chiedo di nuovo
scusa per ciò che vedrai sulla cupola, so già che
la tua curiosità ti spingerà
a visitarla”.
“Va
bene…”
“Ora
và!”.
“Tranquilla…saprò
come fare in modo che tu possa farti
perdonare” ridacchiò Luciherus, ma Kasday lo
respinse, tornando a sedersi sul
trono nero.
Il demone si stupì dello
strano comportamento dell’Alto e
lasciò la stanza, chiudendo la porta dietro di
sé.
Scese le scale, prestando attenzione
ad avere un aspetto
presentabile agli occhi dei presenti.
Si lisciò i capelli
spettinati e si sistemò la camicia.
“Eccoti!” lo
apostrofò Vereheveil “Dov’eri
finito?”.
“Nosmagiés…”
parlò il Principe, ignorando il Dio delle
Letterature “…come si entra nella
cupola?”.
“Non si entra!”
sbottò il Messaggero.
“Certo che si entra. Il tuo
padrone mi ha dato la chiave”
mormorò il demone, mostrando una piccola chiave dorata.
Nosmagiés la
fissò, smarrito e, dopo un attimo di sconcerto,
fece segno al demone di seguirlo. Salirono le scale, seguiti dalla
Guerra e da
Vereheveil, incuriositi, lungo le scale ed i corridoi, che si facevano
sempre
più bui.
“Al tuo padrone piace il
tetro…” commentò Luciherus,
illuminandosi quel che bastava per potersi orientare, ignorando il
fatto che
gli altri incespicassero nelle tenebre.
“Cosa ci sarà
mai nella cupola per impedirci, fino ad ora,
di entrare?” continuò, cercando di carpire qualche
informazione dalla creatura
piumata residente, che però non lo
calcolò.
“Quel che è
certo, è che c’è qualcuno di sopra. Ho
sentito
dei passi”.
“Io non ho mai sentito
niente” esclamò Nosmagiés.
“Questo perché
voi angeli rasentate la sordità rispetto a
quanto bene ci sentiamo noi demoni!”. “Dammi la
chiave” ordinò l’angelo
Messaggero.
“Tu dimmi dove devo
metterla e poi lascia fare a me!” sbottò
il Principe, sospettoso perfino di se stesso.
“Qui, demone brontolone,
davanti a me” sospirò Nosmagiés.
Luciherus lo scansò con
due dita e, espandendo la sua luce,
fece brillare la chiave e la serratura, fatte dello stesso materiale.
Inserì e
girò. La porta si aprì, con uno scatto.
“Entrate…”
disse, rassegnato, il Messaggero “…se il mio
padrone ha questo desiderio…”.
Il Principe entrò per
primo e rimase meravigliato al primo
impatto. Nosmagiés indietreggiò. Mai era entrato
nella cupola e mai voleva
entrarci. Luciherus socchiuse gli occhi. La luce era forte. Ma non
voleva
chiuderli per poter osservare meglio i ricchi decori che riempivano le
pareti
ed il soffitto ad archi. Tantissime sferette ruotavano lungo
l’area
dell’immensa sala, ma solo nella parte superiore
perché la parte inferiore era
al buio.
“Sembra l’antico
palazzo di Urihel…” mormorò Vereheveil.
Si accorsero che, perpendicolare al
punto centrale della
cupola, stava una persona, divisa a metà fra la parte
luminosa della stanza e
quella buia. Era come nebbia quell’oscurità, densa
e compatta, e camminarci nel
mezzo provocava un lieve
solletico.
“Kasday…”
si sentì “…che posso fare per
te?”.
“Non sono
Kasday!” protestò Luciherus, sforzandosi di
ricordare dove aveva già sentito quella voce.
“Luciherus?!”.
La figura avanzò di
qualche passo.
“Urihel!”
esclamò il demone, mentre tutti i presenti
venivano presi dallo stupore.
“Avevano detto che eri
morto…” iniziò la Dea della Guerra.
“…che avevi
rinunciato all’immortalità…”
continuò
Vereheveil.
“É un piacere
vedere qualcuno più vecchio di me!”
commentò,
sarcastico, Luciherus.
Urihel sorrise.
“É un piacere
anche per me rivederti, collega” disse.
“Cosa ci fai
qui?” volle sapere il demone.
“Io qui ci vivo,
Principino!”.
“Rinchiuso in una
cupola?!”.
“Non sono rinchiuso!
È stato Kasday a salvarmi, ed io ho
deciso di vivere qui”.
“Kasday ti ha
salvato?”.
“Sì. Avevo
deciso di rinunciare alla mia immortalità e
lasciarmi morire, ma lui mi è apparso e mi ha proposto un
patto”.
“A quanto pare agli Alti
piace fare patti…”.
“Mi ha proposto di divenire
Dio del Cielo”.
Luciherus lo osservò
meglio. Era cambiato rispetto all’ultima
volta in cui si erano visti.
I capelli, una volta azzurri, ora
erano quasi blu ed erano
tempestati da piccole luci simili a gemme argentee. Le ali, una volta
dorate
come quelle di tutti gli Arcangeli, erano ora azzurre, con qualche
piuma bianca
sparsa qua e là.
“Ti
piacciono?”domandò Urihel scuotendole, notando che
il
Principe le stava osservando.
“Molto
carine…”.
“Cambiano colore quando
cambia il tempo. Se è nuvoloso, ad
esempio, diventano grigie”. Vereheveil sorrise
“Comode!” commentò.
Gli occhi argento
dell’Arcangelo erano rimasti immutati così
come l’abito che portava, blu scuro con piccole stelle
luminose.
“É un piacere
rivedervi tutti, amici miei. Ed è bello vedere
che siete tutti divinità…” si
stupì Urihel, vedendo il simbolo sulla fronte di
Luciherus.
“Perché non
saremmo dovuti venire qua? Cosa c’è di
così
misterioso o terribile?” chiese il demone. “Ti vedi
i piedi?” domandò, di
rimando, il Dio del Cielo.
“Che domanda è?
E, comunque, no. Metà del mio busto è al
buio”.
“Ciò che non vi
era concesso vedere, si trova in questa
nebbia. Espandi la tua luce e vedrai”.
Il Principe, un po’
titubante, si illuminò più intensamente
e trasalì. Vereheveil lanciò un grido e la Guerra
rimase immobile. La sala era
piena di persone, morte od addormentate, sparse per il pavimento. Solo
alcune
di loro si appoggiavano, abbandonate, a qualcosa, una sedia o un
mobile, ma la
maggior parte era distesa sul pavimento freddo.
Il Dio delle Letterature si
appoggiò al braccio di
Luciherus.
“Sono morte?”
balbettò.
“Non sembrano molto
vive…” rispose il demone, cercato di
staccarselo di dosso “Datti un contegno,
Vereheveil!” sbottò, infastidito dai
suoi piagnucolii “Cosa ti metti a fare in mezzo ad una
guerra, con i cadaveri
che quasi ti sfiorano?”.
Il Dio dalle ali nere
serrò gli occhi e rabbrividì, continuando
ad attaccarsi al Principe. Luciherus si inginocchiò,
avvicinandosi ad una delle
creature distese, e ne tastò il polso.
“Non
c’è battito. E non mi sembra che qualcuno di loro
respiri..” disse.
“Sarmorghell!”
urlò Vereheveil, scorgendo l’angelo fra le
creature in terra.
Gli andò vicino, gridando
il suo nome. Il Principe non si
mosse. Sarmorghell teneva per mano sua sorella, Shekinah,
anch’essa priva di
segni vitali.
Il Dio delle Letterature scosse
l’angelo dai capelli corvini
con forza: “Svegliati!” gli gridava
“Svegliati! Non puoi essere morto! Non
puoi…”.
Lo osservò accuratamente:
“Non hai
segni di tagli, ferite, punture…come può
un giovane forte e sano come te…”.
Luciherus si era portato accanto a
Shekinah e le accarezzava
i capelli: “Kasday mi aveva detto…”
sussurrò “…che si scusava per
ciò che avrei
visto quassù”.
“Come ha potuto?! Lo
sapevo! Lo dicevo che era diventato un
mostro! Uccidere tutta questa gente…uccidere le creature che
noi amavamo per…per
cosa?! Mostro!”.
Vereheveil piangeva, stringendo
Sarmorghell a sé. La Guerra,
girando il capo, individuò molte delle guardie che avevano
sconfitto per
giungere al palazzo.
“Le ha eliminate
perché ha visto che erano state battute? Le
ha ammazzate perché, per lui, poco degne del loro
ruolo?” si chiese, confusa.
Poi due occhi azzurri attirarono il
suo sguardo.
“Kaos…”
gemette.
Nella parte opposta della sala,
addossato alla parete, stava
l’antico Dio del Kaos, immobile, ad occhi spalancati.
“Si è liberato
della sua controparte…delle sue controparti!”
notò il Principe, individuando anche il Destino fra i morti.
“Come fai a vivere qui,
Urihel?” domandò Vereheveil,
tremando.
“Io sono il custode delle
porte del cielo, degli astri degli
Universi e dell’Aria. Queste creature sono a metà
fra il regno del cielo e
quello della terra, in cui voi abitate” spiegò il
Dio del Cielo, serio. “Che
dici? Non ti capisco!” esclamò Luciherus.
“E perché
dovresti? Sei solo il Dio della Forza e del
Coraggio…”.
“Ma non ti capisco
neanch’io, che sono il Dio delle
Letterature…” piagnucolò Vereheveil.
“Loro non sono morti.
Nessuna di queste creature lo è. Sono
solo…in pausa. Basta un gesto di Kasday per farli muovere,
parlare e
respirare”.
“Voi siete tutti una manica
di pazzi!” sibilò il Dio dai
capelli verde acqua.
“Ti sbagli. Chiedi a lui,
se non credi a me” parlò Urihel,
indicando la porta.
Là, appoggiato allo
stipite con la spalla, stava Kasday. Era
completamente avvolto in vari teli di seta e tulle colorati.
“Da quanto tempo sei
lì?” chiese il Principe.
“E
così…massa di miscredenti…volete le
prove!” ridacchiò
l’Alto.
Bastò una sua parola e
tutti i presenti si rianimarono, come
risvegliati dal sonno.
“Vereheveil…cosa
ci fai qui?” domandò Sarmorghell,
ritrovandoselo fra le braccia.
“Non sono un mostro, Dio
delle Letterature. Io ho creato
queste creature per voi, che me le avete richieste”
spiegò il padrone di casa.
“Bugiardo. Io non ho mai
richiesto un cadavere vagante!”
protestò Vereheveil.
“Non sono cadaveri
vaganti!” si accigliò Kasday “Sono
emanazioni!”.
“Tutti loro?” si
stupì Luciherus, mentre Shekinah lo
abbracciava.
“Sì. Tutti
loro”.
“Anche Urihel?”.
“No. Lui è un
Dio, come voi. E vive
qui. Tutti gli altri presenti sono mie creature ed
emanazioni”.
“Ma…”
disse, dubbioso, il demone “…ci avevano detto che,
con
il tuo livello
magico, potevi averne al
massimo due…”.
“Si sbagliavano. Si
sbagliavano tutti sul mio conto”.
Luciherus vide quanto era rimasto
ferito nel sentirsi
definire mostro.
“Tutte le mie guardie sono
mie emanazioni. Il Kaos, mio
padre, ora altro non è che una mia emanazione.
Così come la Dea del Destino,
Sarmorghell e Shekinah. Amici dei miei figli e loro insegnanti, amici
vostri e
conoscenti…sono tutti emanazioni…per
voi!”.
“E per quale
motivo?” chiese Vereheveil.
“Perché voi me
lo avete chiesto. Voi avete voluto il mio
ritorno e la mia presenza ed io, non potendo accontentarvi, ho creato
queste
creature perché una parte di me vi stia accanto. Dovevano
sostituirmi e ci sono
riuscite”.
“Mai nessuno potrebbe
sostituirti!” esclamò Vereheveil.
“Chiudi la
bocca!” lo apostrofò, in malo modo, Kasday
“ Io
sono un Alto, semplice divinità. Ricordatelo! So bene che
cosa vuoi, anche
quando nemmeno tu lo capisci!”.
“Intendi dire che la mia
Shekinah non ha un’essenza propria,
ma è parte di te?” volle sapere Luciherus.
“Esatto. È parte
di me…in un certo senso”.
La donna lo guardò, con
aria triste.
“Tu lo
sapevi…” la accusò il Principe
“…e non mi hai detto
niente!”.
“Sono stata creata per
questo. Non ti ho reso felice?”.
“Moltissimo. Ma era tutto
finto…”.
“In realtà,
è come se fossi stato sempre io accanto a
te…”
parlò l’Alto.
“Cosa provavi?”.
“Quando?!”.
“Quando io la
baciavo…tu lo
sentivi?”.
“Sì, demone. Io
sentivo ogni cosa. Come ho percepito ogni
ferita inferta alle mie guardie, che non potevano morire
perché la mia essenza
non può essere distrutta da delle creature come voi.
Sarmorghell e Shekinah
erano, e sono, dei regali per voi”.
“Farmi tradire mia moglie
è stato un regalo?” protestò
Vereheveil.
“Tu l’hai
tradita…non io!”.
“Per colpa tua!”.
“Mia?! Non dire
fesserie!”.
“Ma…”
si intromise il Principe “…perché non
sei venuto tu da
noi, invece che creare loro?”. “Perché
io sono il mostro, lo strano, il
dannato, il malvagio…”.
“Anch’io!”
lo interruppe Luciherus.
“Oh, Principe! Tu non puoi
capire!”.
“Davvero? Tu dici? Io
invece credo di capire e capirti
benissimo”.
“Davvero? Ne sei
convinto?”.
“Io so solo che la mia
parte d’angelo si svela quando ci sei
tu e mi è difficile controllarla. Sono di sicuro
più persone in uno! E ricorda
che, in quanto a dannato e maledetto…non sono secondo a
nessuno!”.
“La tua parte
d’angelo esce perché gli angeli amano. I
demoni no. O meglio…amano, ma in modo diverso. Le creature
angeliche amano con
l’anima, i demoni con il corpo”.
“Beate le creature dalla
vita breve che possono fare
entrambe le cose!” mormorò Urihel.
“In realtà non
è così” precisò Kasday
“In realtà amano come
i demoni, ma ricoprono ciò che fanno di illusioni, convinti
di amar con l’anima
anche se stanno semplicemente seguendo una reazione chimica dettata da
una
scossa ormonale. Solo gli angeli amano davvero…ed io sono
lusingato, Lucy, di
sapere che mi ami come un angelo”.
“Io faccio
cosa?!” ridacchiò Luciherus, incrociando le
braccia.
“Il motivo dei tuoi
continui malesseri, Principe, è proprio
questo. Il tuo corpo da demone non accetta questo sentimento, ma la tua
parte
d’angelo non può fare a meno di
esprimerlo”.
Il demone lo fissò,
scettico: “Tu hai messo al mondo la mia
bambina…il resto non credo c’entri
molto…è ovvio che…”.
“Ovvio niente!
Perché ti vergogni?”.
“Io non mi
vergogno!”.
Kasday e Luciherus erano molto vicini
e si fissavano.
“Signore…”
interruppe Nosmagiés, sbirciando dalla porta
“Scusi ma…Raido, il Signore del Cielo,
è qui e vuole parlarle”.
“Che palle,
Diri-hiuva!” sibilò l’Alto, usando
l’altro nome
di Raido “Arrivo” sospirò poi, non
nascondendo un certo fastidio.
“Non andare da quel bacucco
con la faccia dipinta!” disse il
demone.
“É il mio futuro
marito…”.
“Non è
necessario…”.
“Hai forse
un’alternativa migliore? Devo andare”.
Kasday si allontanò,
scocciato, a passo svelto.
“Scusatelo se è
così…sfuggevole” iniziò a
parlare Nosmagiés,
quando il suo Signore si fu allontanato “Ma temo sia arrivato
quel periodo dell’anno…”
continuò.
“Quale periodo
dell’anno?” si informò la Guerra.
“Fioriscono”
ridacchiò il Messaggero.
“L’ho
notato…” commentò Luciherus, avendo
avuto modo di
vedere i fiori sbocciati.
“Una volta
l’anno, in corrispondenza dell’arrivo della bella
stagione, i piccoli fiori che ogni Alto ha in qualche luogo, sbocciano.
Emettono un buonissimo profumo che li rende particolarmente ricettivi
l’uno
all’altro”.
“In che senso?”
si informò Vereheveil.
“Nel senso che si chiamano,
si cercano, si desiderano…”.
“Vanno in
calore?” esclamò Luciherus, scoppiando a ridere.
“Non lo direi in un modo
così squallido…” protestò il
Messaggero.
“Ma, riassumendo,
è questo il concetto! Ora capisco molte
cose…” continuò il Principe,
sorridendo. “Il mio Signore emette sempre uno
schiocco, uno strano verso, ripetuto ed involontario, che funge da
richiamo
quando fiorisce. A lui da molto fastidio questa cosa. Anche
perché non vuole
avere altri figli e quindi evita ogni contatto…”.
“Sì,
certo…come no!” sghignazzò Luciherus.
“Con te non vale
perché non sei un Alto! Con te è ovvio che
fa quello che vuole!”.
“Perché? Che hai
fatto?” domandò Vereheveil, sospettoso.
I due si osservarono.
Il Dio delle Letterature
spalancò gli occhi.: “No! Non
dirmelo…di nuovo?! Ma sei una bestia, sei
un…nemmeno so definirti…”.
“Ma non mi rompere i
coglioni, angelo!” lo interruppe il
demone, con tono annoiato ed infastidito. “Perché
lo hai fatto?” protestò
Vereheveil.
“Perché sono il
principe delle tentazioni…” scherzò
Luciherus.
“Ed il re chi
è?” si intromise Urihel.
“Tua sorella!”
sbottò il Principe.
“Premesso che non ho
sorelle…” iniziò il Dio del Cielo
“…e
poi, se ti dovessi rivolgere ad una lei, dovresti usare il termine
regina…”.
“Quanto siete noiosi! Non
vi sopporto più!” ringhiò il
demone, allontanandosi dal gruppo e dalla stanza.
“Non cambierà
mai…” esclamò Urihel.
“Perché? Che ha
fatto?” domando Nosmagiés, inclinando la
testa.
Vereheveil mise il broncio e Shekinah
sospirò: “É
inutile…”
disse lei “…che lui cerchi di mettersi contro la
decisione di Momoia di farlo
sposare”.
Kasday aveva lasciato tutte le
emanazioni sveglie e vigili.
Molte di loro chiacchieravano fra loro, felici.
“E
così…” parlò Vereheveil per
cambiare argomento “…sei un
Dio ora, Urihel”.
“Già. Ed
è una cosa piuttosto carina. A te come và?
Sarmorghell mi ha detto che sei sposato”.
“Sì. Ed ho anche
dei figli!”.
“Ah, lo so, lo so! Sarmy mi
racconta tutto!”.
“Davvero? Che
dolce…”.
Urihel osservava le sferette, che
vagavano per la cupola,
con attenzione.
“Come mai non ti sei mai
fatto vedere?” chiese il Dio delle
Letterature.
“Perché avrei
dovuto? Qui sto bene e sono felice. Sono
sempre stato un solitario”.
“Ma ti credono tutti
morto!”.
“E vorrei che continuassero
a crederlo tutti ma, purtroppo,
alla prossima battaglia mi vedranno e tutti sapranno”.
“Combatterai per
Momoia?”.
“É inevitabile.
In una guerra degli Alti, tutti devono
essere presenti. Perfino tu…che con la guerra non ci
azzecchi molto…”.
La Dea della Guerra non parlava,
continuando a guardare
l’emanazione del Dio del Kaos, che le sorrideva.
“Come può Kasday
mantenere in vita tutte queste creature?”
parlò ancora Vereheveil.
“Non lo so. Ma ogni volta
che parte per una battaglia,
queste creature si rafforzano e diventano più
potenti”.
“Strano. Non dovrebbe
essere il contrario? La battaglia non
dovrebbe indebolire la forza dell’essenza di
Kasday?”.
“Dovrebbe. Ma non
è così. Dicono che, in realtà, lui non
combatta ma si nasconda, assorbendo le energie dei feriti e la magia
che questi
perdono”.
“Non me ne
stupirei…”.
“Mio figlio non farebbe mai
una cosa del genere!” protestò
la Guerra.
“Se posso darvi un
consiglio…” riprese a parlare Urihel
“…andate ad allenarvi e tenetevi pronti,
perché presto Momoia vi chiamerà. Ed
allora sarà il momento. Si scontreranno Angeli, Demoni,
Spiriti, creature dalla
vita breve o lunga, creature del cielo e della
terra…tutti!”.
Vereheveil rabbrividì:
“Sarà la fine degli Universi”
mormorò, spaventato.
“É una frase che
ho già sentito dire. Comunque no, non
credo. A meno che non muoiano tutti gli Alti e i
Celesti…”.
“Potrebbe
succedere?”.
“Se è ora,
è ora…se gli Alti stessi lo
vogliono…”.
“Se loro sono psicopatici,
perché ci devo andare nel mezzo
io?!” sbraitò Vereheveil “Noi non
abbiamo colpa! Perché ucciderci?! E poi…io
non voglio combattere!”.
“Tu devi, è ben
diverso!”.
“Ci sarà sempre
qualcuno al di sopra…”disse la Guerra “E
se
quel qualcuno non vuole che finisca…allora non
finirà! Altrimenti…quel che
sarà, sarà!”.
“Giusto!” le
sorrise Urihel “E adesso raccontatemi qualcosa
di voi!”.
Vereheveil, tentando di dimenticare
la situazione, iniziò a
raccontare varie cose. Anche le emanazioni parlottavano fra loro.
“Tu non sapevi che il tuo
Signore aveva tutte queste
emanazioni?” domandò la Guerra a
Nosmagiés, che fece spallucce: “Non mi importa
quello che fa. Basta che stia buono e non mi
picchi…”.
D’un tratto, le creature
dipendenti da Kasday tacquero.
Vereheveil fece qualche passo verso Urihel, allarmato.
“Tranquillo.
Fanno
periodicamente così…” lo
rassicurò il Dio dell’Aria.
Tutte le emanazioni spalancarono le
braccia, alzando gli
occhi al Cielo, emettendo un grido all’unisono. Gli ospiti
rimasero storditi
dalla cosa.
“Che ti è
capitato?” domandò il Dio delle Letterature,
rivolto a Sarmorghell, quando tutti si erano placati.
“Tranquillo” gli
sorrise l’angelo “Presto
vedrai…” mormorò,
appoggiandosi ad una sedia ed abbandonandosi su di essa.
Lentamente tutte le emanazioni si
assopirono. La Guerra
salutò il Kaos ed andò appresso a
Nosmagiés, che si avviò verso l’uscita.
Il
Dio delle Lingue salutò Urihel e seguì il
Messaggero, deciso a prepararsi al
meglio alla battaglia, definita da molti inevitabile.
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Capitolo 26 *** XXVI- scoperte ***
XXVI
SCOPERTE
Luciherus seguì Kasday
giù dalle scale. L’Alto era accanto
al Signore del Cielo, che lo aspettava. “Sei meravigliosa
oggi” commentò Raido,
con un largo sorriso.
Kasday non rispose.
Il Principe, nascondendosi
nell’ombra, osservava entrambi.
Notò come i fiori del padrone di casa fossero del tutto
aperti ed emettessero
un profumo molto gradevole. Ed, evidentemente, si
disse, li nota
anche Raido, dato il sorriso idiota che ha sulla faccia!
Invidiò entrambi,
ferocemente. Invidiava soprattutto il Signore del Cielo,
perché poteva sposare
Kasday, pur non avendo la minima idea di chi fosse veramente. I due
Alti
attraversarono il quadro e Luciherus decise di seguirli.
Si sentiva piuttosto tranquillo. Era
andato già altre volte
negli Universi dei Celesti assieme a Momoia e sapeva come orientarsi.
Attraversò il tunnel luminoso, scendendo velocissimo, con le
braccia lungo il
busto ed un largo sorriso. Era adrenalina pura ed al demone piaceva.
I due Alti, inaspettatamente, si
divisero ed il Principe
decise di ignorare il Signore del Cielo.
Virò nella luce e
seguì Kasday, che però accelerò
parecchio
e lo mise in difficoltà.
Il demone atterrò sul
tetto di un palazzo e si guardò
attorno. Subito gli abitanti di quel regno lo riconobbero come estraneo
e si
fecero aggressivi. Ma Luciherus non voleva combattere, non ora.
L’unica cosa
che desiderava era ritrovare Kasday, scomparso alla sua vista.
Cercò di
scansarsi dalle creature che gli si scagliavano contro. Erano guidati
da un
angelo dalle ali nere, con aria accigliata. Il Principe, furioso e
molto
infastidito, cominciò a colpirli ed abbatterli.
“Levatevi, miseri
mortali!” sibilò.
“Congratulazioni!”
si sentì dire.
Alzò gli occhi al cielo e
vide Momoia, sospesa a mezz’aria,
che lo fissava con ammirazione. “Congratulazioni, mio
generale”.
“Per cosa?”
parlò il demone, quando i suoi avversari si
furono allontanati, spaventati da Momoia. “Tu sai che,
così facendo, hai
innescato un gran bel processo?”.
“In che senso?”.
“Hai ucciso dei mortali dei
regni dei Celesti e quindi…”.
Il demone spalancò gli
occhi: “…quindi è inevitabile che,
ora, anche loro…” mormorò.
“Esatto!” rise
Momoia “Esatto! Hai accelerato le cose. Ora
la guerra è, come tu hai detto, inevitabile. Sono molto
orgogliosa di te. Non
sei ferito, vero?”.
“Sto bene”.
“É morto un
Celeste” esclamò la Madre, sorridendo felice.
“Bene”
borbottò Luciherus, in realtà ignorando del tutto
la
cosa. “Sai dov’è Kasday?”
domandò poi, con più convinzione.
“L’ho visto da
quelle parti” rispose lei, indicando un punto
all’orizzonte.
“Grazie”.
“Se lo trovi, digli pure
che c’è un Celeste di meno e che
bisogna festeggiare”.
Il Principe non rispose.
Respinse altre creature che provavano
ad infastidirlo e si
allontanò, volando, lungo la via indicata dalla Madre degli
Alti. Intravide
Kasday dentro uno dei palazzi e sorrise, scendendo ed atterrando su un
terrazzino dal quale poteva entrare. Si fermò sulla soglia,
vedendo che l’Alto
era accanto ad un altro individuo con il quale stava parlando
tranquillamente.
Lo riconobbe come Jera,
l’Alto a due teste e dalle gambe da
polipo.
Il demone, rassicurato dal fatto che
l’interlocutore della
persona che cercava non era un pericolo, entrò nella stanza
senza far rumore.
Kasday era tranquillo e sorridente ma, ad un tratto, la sua espressione
mutò.
Gonfiò i capelli e li irrigidì, come le punte di
un istrice. Spalancò la bocca,
che si ingrandì lasciando più spazio ai denti,
che si fecero acuminati ed
enormi. Il suo volto si deformò e ringhiò,
mutando perfino la punta di tutte le
dita, che divennero affilate e minacciose. L’intero suo corpo
si riempì di
scaglie rigide, la barriera che le creature come lui creavano per
proteggersi.
Si gettò contro Jera e lo
assalì. Luciherus rimase immobile,
a bocca aperta, colpito dal sangue dell’Alto aggredito. Lo
sentì bruciare sulla
pelle e soppresse un grido. Si sedette in terra e serrò gli
occhi. Tutto
bruciava. L’aria che respirava, la superficie su cui
poggiava, il sangue nelle
sue vene.
Dovette riaprire gli occhi e vide
Jera, sconfitto, riverso a
terra. Ma Kasday non aveva ancora finito con lui. Si avvicino al suo
avversario, spalancando la bocca. Luciherus respirava affannosamente,
osservando l’Alto, che credeva debole ed indifeso, divorare
il suo compagno
morto. Il Principe si tappò la bocca con la mano ed una
lacrima scese dai suoi
occhi, irritati dal fumo sempre più fitto.
Era tutto in fiamme.
Kasday urlò di rabbia
quando ebbe finito, avvolto dal fuoco.
Luciherus si accorse di non avere più una superficie sotto
di sé. Iniziò a
precipitare. Non riusciva ad aprire le ali e Kasday era spaventoso.
L’Alto si muoveva fra la
lava e fra le essenze che aveva
tolto, che formavano un cerchio attorno al suo corpo, ancora ricoperto
da
placche che lo facevano rassomigliare ad una creatura in armatura.
Morti,
fiamme, grida…il demone crollò, ed
urlò.
Kasday si girò, notando
per la prima volta la presenza di
Luciherus. In realtà, non si erano mai mossi dalla stanza,
era stata solo una
delle visioni del Principe. L’Alto guardò negli
occhi il demone, senza muoversi
e senza parlare. Non sapeva che cosa fare. Inutile era, ormai, cambiare
aspetto: lui lo aveva già visto.
Luciherus, stranamente, si
sentì rassicurato nell’incrociare
lo sguardo di Kasday. La magia che aveva sulla pelle continuava a
bruciare ma
non emise un lamento. Seduto in terra ed abbandonato ogni proposito di
fuggire,
pur consapevole che l’Alto avrebbe potuto ucciderlo per
ciò che aveva visto,
fece per leccare via un po’ di quel liquido fastidioso.
Kasday scattò e lo
bloccò. “Moriresti” gli
sussurrò,
afferrandogli il viso delicatamente.
Inginocchiato, l’Alto
tornò gradatamente ad un aspetto più
rassicurante. Rilassò il viso ed i capelli,
ritirò gli artigli e fece sparire
le placche di protezione.
Luciherus non diceva nulla,
continuando a fissarlo.
“Cosa è successo
qui?” si sentì nell’aria.
Momoia era entrata nel palazzo.
L’Alto si alzò in piedi.
“Kasday! Cercavo Jera,
l’hai visto? Mi han detto che era da
queste parti…” parlò la Madre.
Lui non rispose. La guardava,
spaventato, con il viso,
mentre gli occhi sul dorso delle sue mani, girate dietro la schiena,
fissavano,
altrettanto spaventate, Luciherus.
“Veramente…”
iniziò a parlare il demone.
“Sì? Dimmi,
piccolo, cos’è successo qui?” lo
incalzò lei.
“É difficile da
spiegare…”.
Kasday lo fissava, sudando freddo.
“…ho visto Jera.
Era qui, fino ad un attimo fa”.
“Bene. E poi?
Dov’è andato? Sei ferito…quella
è la sua
magia…”.
“É entrato uno
di loro”.
Momoia ringhiò,
sommessamente: “É entrato un Celeste?”
chiese conferma.
Il Principe annuì.
“Lo hanno
ferito?”.
Un altro cenno di assenso.
“Ed ora
dov’è?”.
“Se
n’è andato. Kasday ha provato ad aiutarlo
ma…”.
“Lui non può
niente contro uno di loro. Poveri piccini
miei…chissà come siete spaventati! Povero
Jera…non percepisco più la sua
presenza…”.
“É scomparso
anche lui?”.
“Sì, mio
generale. Sai descrivermi il Celeste?”.
“No. Era buio ed
io…l’ho scorto solo un
po’…”.
“Capisco.
Kasday…occupati di lui. Sai che la nostra magia è
velenosa per loro…” disse, a mezza voce, e
l’Alto non la guardò, rispondendole
con un cenno.
La madre si allontanò,
evidentemente addolorata. Kasday tirò
un sospiro di sollievo.
“Per un
attimo…” parlò, girando gli occhi verso
il Principe
“…ho temuto che tu avresti raccontato tutto. Mi
hai coperto…”.
“Ti fidi così
poco di me?” sorrise Luciherus, inclinando la
testa.
L’Alto non rispose.
“E poi…anche se
lei lo sapesse?” continuò a parlare il
demone ma, di nuovo, non ricevette risposta. “Dimmi un
po’…che combini, Kasday?
È colpa tua se Alti e Celesti svaniscono?”.
“Sono un
mostro…” sussurrò Kasday, dandogli le
spalle.
“No. Non lo
sei!”.
“Che bugiardo!”.
“Non sono un bugiardo! Non
in questo caso…perlomeno!
Spiegami come stanno le cose”.
“Non ti serve
saperlo”.
“Bene. Allora posso dirlo a
Momoia…”.
“No!”.
“E
perché? Se non è
un problema…”.
“É un
problema…Lucy…io…”.
“Io voglio solo sapere che
succede. Voglio sapere come
stanno le cose. Non sono qui per giudicarti. Non mi importa farlo. Se
non me lo
vuoi dire, non fa niente…ma mi darebbe molto
fastidio!”.
“Ti scoccia così
tanto che io ti tenga fuori dalla mia
vita?”.
“Ci hai azzeccato. Il
perché non lo so, ma non voglio che tu
mi tenga nascoste delle cose. Lo hai già fatto altre volte
nel passato. Non mi
ha detto che il Kaos era tuo padre, che eri un Dio e molte altre cose
che se
avessi saputo…”.
“Cosa sarebbe
cambiato?”.
Il demone si alzò,
lentamente e dolorosamente: “Non lo
so cosa sarebbe cambiato ma non voglio che
tu mi escluda più dalla tua vita. Ne faccio
parte”.
“Parli come…un
fidanzato geloso”.
“Un marito geloso. Abbiamo
una figlia, te lo sei scordato?”.
“Come potrei?
Tranquillo…se lo desideri ti racconterò
tutto”.
Luciherus lo fissò,
lievemente accigliato.
“Io ti piaccio,
vero?” azzardò Kasday.
“Mpf!”
ridacchiò il Principe “Che narciso!
Perché dovresti
piacermi?”.
“Lo vedo”.
Il demone dimenò la coda,
in stato di agitazione e disagio,
si guardò attorno.
“Tu mi vuoi bene, Lucy.
Magari solo un po’, ma ti preoccupi
per me e la cosa mi fa piacere. Una figura d’appoggio
è…”.
“Io…”
parlò in Principe, interrompendolo “…io
credo di
amarti. Ma non ne
sono sicuro. È un
sentimento con cui non mi piace avere molto a che
fare…”.
“Neanche io. Allora non
pensiamoci. Torniamo a casa. Là avrò
modo di spiegarti tutto e mi auguro che tu mi possa capire”.
“Cosa
c’è da capire?”.
L’Alto gli porse la mano e,
quando il demone l’ebbe
afferrata, attraversarono assieme il tunnel di luce che li
riportò al palazzo,
a velocità notevole.
La magia di Jera aveva corroso il
corpo del Principe in vari
punti, soprattutto nella membrana delle ali.
“Povero piccolo
demone…” sussurrò Kasday, ridacchiando.
“Sfotti? Non cercare di
rabbonirmi. Io ho il gelo nel cuore,
non sperare di scalfirlo tanto facilmente!”.
“Che incredibile faccia
tosta! E che bugiardo!”.
“Signore! Siete
tornato!” esclamò Nosmagiés, correndo
appresso al suo padrone.
“Sì, sono qui.
Prepara la vasca, quella grande. Ed usa il
barattolo verde”.
“Verde? Perché?
State bene?”.
“Più o
meno…” borbottò il demone, barcollando
leggermente.
“Capisco. Vado
subito!”.
Il Messaggero si congedò
con quelle parole e salì le scale. Kasday
vide la bambina che giocava nel cortile e sorrise. Con una mano si
lisciò i
capelli, rimasti notevolmente gonfi, e con un braccio
afferrò Luciherus, prima
che si schiantasse svenuto sul pavimento.
Il demone riaprì gli occhi
sott’acqua. Sollevò la testa,
dopo un po’, e si guardò attorno.
“Buongiorno, fiorellino” gli disse il padrone
di casa.
“Ah…che
sensazione di déjà-vu!”
scherzò il Principe.
“Tieni giù la
testa” gli suggerì Kasday.
Stava davanti allo specchio e si
sistemava i capelli,
aiutato da Nosmagiés.
Luciherus ridacchiò,
avvertendo una vaga sensazione di
solletico.
“Cosa sono questi strani
pesciolini verdi?” chiese,
notandoli nell’acqua “Mi mangiano?”.
“Sono pesci mangia carne e
fra un attimo ti avranno del
tutto spolpato!”.
Il Principe lo fissò,
preoccupato.
E Kasday scoppiò a ridere:
“Tu i pesci non li conosci
proprio! Non sono in grado di ucciderti! Sono degli esserini magici che
eliminano e guariscono le parti aggredite dal sangue di
Jera”.
“Ma che sangue
è?” esclamò, allarmato, il demone.
“Velenoso. E acido. Saresti
morto, senza l’aiuto di quei
cosetti”.
“Sei velenoso? Ti ricordo
che mi hai morso e graffiato”
continuò il principe, sempre più allarmato.
“Sì. Sono velenoso ed anche
parecchio! E non solo nel sangue, ma anche negli artigli, nella coda,
nei
denti, nella punta dei capelli…ma, rilassati! So
perfettamente quando, ed in
che modo, iniettare la mia parte letale!”.
Luciherus si tranquillizzò
e tornò a distendersi, quieto.
“Non mi hanno rovinato la
faccia, vero?” protestò.
“No. Sei bello come
sempre” lo sfotté Kasday, cambiando gli
orecchini.
Luciherus appoggiò la
testa sul bordo della vasca.
“Non hai ancora paura
dell’acqua, vero, Principe?”.
Luciherus alzò il dito
medio, consapevole che il padrone di
casa lo osservava sfruttando il riflesso dello specchio di fronte al
quale era
seduto.
“Come ti senti,
Lucy?”.
“Bene. Sono sopravvissuto a
due infarti…cosa vuoi che sia
una cosa come questa?”.
“Non hai avuto due
infarti!”.
“No, giusto! La prima volta
mi hanno strappato il cuore
fuori dal petto e la seconda sono stato senza battito
per…quanto? Più di
un’ora? Eppure…sono ancora qua!”.
“E ne sei
felice?”.
“Assolutamente!”.
“Nosmagiés, mio
messaggero, vai pure adesso. Io ed il mio
ospite dobbiamo parlare in privato”. L’angelo fece
un inchino, ricordando al
suo Signore che bastava un fischio per farlo tornare. Quando fu uscito
dalla
stanza, Kasday si alzò e si avvicinò al vascone.
“Chiudi gli
occhi” ordinò.
“Come?”
sibilò il demone, poco prima che una secchiata
d’acqua gli venisse ribaltata in testa. Questo fece si che
tutti i capelli gli
andassero in faccia.
L’Alto rise mentre il
Principe li sistemava.
“Sono pronto ad ascoltare
la tua storia, Kasday” disse
Luciherus.
Il padrone di casa immerse un dito
nella vasca e subito
tutti i pesciolini verdi gli andarono in contro. Lui li raccolse e li
rimise
nel barattolo, con cura.
“Vestiti”
ordinò di nuovo, indicando al Principe una veste
accanto a lui.
Si alzò per riporre il
barattolo.
“Non mi piace!”
protestò il demone, vedendo che l’abito che
gli veniva proposto era di colore bianco.
“Ha una forte carica
magica. Mettilo, se non vuoi che
rimangano sulla tua pelle quei segni color vinaccia”.
Luciherus sospirò,
rassegnato: “Almeno fosse di un altro
colore…” brontolò.
“Non fare il bambino! Fai
il bravo! O te ne do uno rosa!”.
Il demone storse il naso, disgustato.
Kasday chiuse a chiave
l’armadio in cui aveva messo i pescetti, mentre il Principe
si rivestiva.
“Spero di non aver
sconvolto il tuo angelo…” parlò
l’ospite.
“E con che cosa?”
si stupì il padrone di casa, riordinando
gli oggetti davanti allo specchio e cercando qualcosa fra i vari
cassetti.
“Con la mia…come
dire…lieve differenza anatomica!”.
“Fa il bagno con
me…cosa vuoi che gli importi?”.
“Tu sei un Alto. Sei
totalmente diverso! Ma io…ho solo un
piccolo dettaglio differente. E nemmeno tanto
piccolo…”.
“Ma tu pensi solo a
quello?!” sbottò Kasday, inginocchiato a
sbirciare in un cassettino.
“Non è
vero!” dissentì il demone.
Aveva finito di vestirsi,
allacciandosi una cintura in vita.
Si osservava allo specchio, trovandosi rivoltante. Quella veste gli
ricordava
troppo quelle date ai giovani angeli. Così bianca e candida,
lo metteva a
disagio. Ed inoltre la magia in essa lo stuzzicava e lo pizzicava.
“Cosa cerchi?”
chiese, dopo un po’, notando che Kasday non
smetteva di frugare nei vari antri della stanza.
“Un pettine. Che non corra
il rischio di avere il veleno dei
miei capelli spezzati. È incredibile…sono
l’antico Dio dell’Equilibrio e non so
dove stanno le mie cose!”.
Quando lo trovò ne fu
molto soddisfatto e lo porse a Luciherus,
che iniziò a pettinarsi distrattamente, agitando la coda.
“Allora…Kasday…Che
succede?”.
“Siediti e rilassati,
Principe”.
“Sono a mio agio, rilassato
al limite del possibile. Ora
parla! Cosa ti passa per la testa? Qual è la
verità?”.
“La verità? Sei
sicuro che esista?”.
“Non fare il filosofico!
Rispondimi e basta!”.
Kasday si era affacciato alla
finestra, con i fiori sulle
sue spalle che fremevano ad ogni respiro ed emettevano profumo e
polline
nell’aria. Si reggeva la testa con la mano bruciata.
“Vuoi sapere la
verità?”.
“Assolutamente! Merito di
saperlo!”.
“La verità
è che…voglio morire”.
“In che senso?”.
“Voglio morire! Sono
stanco. Sono stufo. Ma l’unico modo che
ho di porre fine alla mia vita è uccidere Momoia,
perché altrimenti rinascerei
in lei ed io non voglio. Per questo uccido gli Alti. Per indebolire
lei. La
Madre prende tutta la sua energia dagli altri Alti. Se loro muoiono, la
sua
magia lentamente crolla. Solo così ho qualche
possibilità di batterla. E sto
eliminando i Celesti per lo stesso motivo. Loro hanno un capo che
svolge lo
stesso ruolo di Momoia e devo distruggerlo, se non voglio
più correre il
rischio di rinascere”.
Luciherus non sapeva cosa dire.
“Pensavo che il tuo fosse
un puro gesto di rabbia o
vendetta” commentò “Non pensavo che
avessi questi desideri. Quindi…ogni volta
che passi il quadro, lo fai per andare ad uccidere nemici ed
alleati?”.
“Sì, esatto. Un
Alto ed un Celeste”.
“Come hai
scoperto…in che modo ucciderli in modo
definitivo?”.
“É successo
tutto per caso. La notte in cui hanno ucciso mio
figlio non ho avuto la forza di fare niente. Ma poi, dopo il suicidio
di
Sowelo, ho preso coraggio e mi sono spinto fino al palazzo del marito
di
Momoia. Volevo delle spiegazioni. Volevo mi dicessero in faccia
perché lo
avevano bruciato. Volevo affrontarli, senza pensare. Ho trovato lui, da
solo.
Mi ha deriso ed umiliato, come piace fare a sua moglie, ed io non sono
riuscito
a trattenermi”.
“E lo hai
ucciso?”.
“Sì. Ho infranto
il suo cuore, il suo oblò azzurro. Lui è
caduto in terra ed io non sapevo che fare. Se Momoia lo avesse
trovato…mi
avrebbe torturato. Ma non fino alla morte. Lei sa quando fermarsi, in
modo da
farti riprendere per poi ricominciare ad infierire. L’unica
soluzione possibile
che mi è venuta in mente è stata quella di
renderlo parte di me”.
“Te lo sei
mangiato?”.
“Ogni parte del suo corpo
è diventato mia magia. Le sue
vesti le ho bruciate alla luce del tramonto. Lo
so…è una cosa disgustosa”.
“Un pochino. Ma non avresti
potuto escogitare un metodo migliore.
In qualunque altro modo, il Padre sarebbe rinato e la Madre lo avrebbe
saputo…”.
“Da quel giorno, vedendo
una possibilità per andarmene, ho
iniziato ad eliminarli, uno dopo l’altro, con sempre
più rabbia, ricordando ciò
che mi avevano fatto. E vidi da subito che Momoia andava
indebolendosi”.
“Ed i Celesti? Cosa hanno a
che fare in tutto questo? Loro
non ti hanno fatto del male…”.
“Devo preservare
l’equilibrio degli Universi. Se muore del
tutto una delle due parti, Alti o Celesti, gli Universi collassano fra
loro”.
Luciherus lo fissava, muovendo solo
leggermente le orecchie.
“Sono matto”
sorrise l’Alto.
“Forse. Leggermente. Ma
dimmi: una volta morta Momoia, cosa
succederà agli Universi?”.
“Niente!”.
“Sei sicuro, Alto
pazzerello?”.
“Se così fosse
,qualcuno al di sopra mi avrebbe fermato”.
“Qualcuno tipo
chi?”.
“Non lo so. Ma
c’è sempre qualcuno al di sopra. Nessuno mi
ha fermato…perciò va bene
così!”. “Fra quando saresti in grado di
ucciderla?”.
“Momoia? Fra non molto.
Credo che un altro Alto potrà bastare. Ti ringrazio di non
averle detto la
verità…”.
“Non avrei potuto. Ma
forse…avrei dovuto”.
“Perché dici
questo?”.
“Come perché?
Sei un pazzo. Questo è un dato certo. Voler
morire è una pazzia. Ma ucciderci tutti…per
morire! È folle! Folle
totalmente!”.
“Non capisci il mio
dolore?” mormorò Kasday, guardando
Luciherus con grandi occhi azzurri.
“Lo capisco. Ma non potrei
mai morire. Non rinuncerei mai,
volontariamente, alla vita. Esistere è meraviglioso. La vita
è dinamismo,
cambiamento, libertà e forza. Bisogna sempre saper guardare
avanti, qualunque
cosa accada”.
“Tu la fai
facile…”.
“Non ho finito! Quello che
mi chiedo è: come puoi essere
così egoista?”.
“Egoista?!”.
“Correre il rischio di far
finire i Mondi per accontentare
un desiderio personale…”.
“I Mondi non
finiranno!”.
“Come lo sai?”.
“C’è
mio figlio per questo”.
“Kavahel? Kavahel ha per
ruolo quello di far ricominciare
ogni cosa quando gli Universi saranno distrutti! Quando tutti noi
saremo morti!
Se tu, grande creatore, muori, allora anche gli Universi da te creati e
controllati giungono alla fine. E noi con loro. È questo
ciò che vuoi?”.
Kasday non rispose.
“Lo trovi
normale?” aggiunse il demone.
“Io non sono un egoista.
Nessuno di voi morirà. Gli Universi
continueranno e tu vivrai, tranquillo!”. “Ma
perché non vuoi vivere?”.
“Non ho un motivo per
farlo. La gente mi odia e ha paura di
me, anche coloro che una volta mi amavano…”.
“La gente ti rispetta!
Anch’io, nel mio regno, sfrutto il
fatto che i miei sudditi mi temono!”.
“Io non voglio questo.
Voglio che loro mi amino, ma non
può
succedere perché mi guardano e si spaventano. Sono un
mostro”.
Il Principe notò un certo
nervosismo nell’atteggiamento
dell’Alto.
“Perché continui
a dire questo?” domandò, preoccupato.
“Credi che non senta i
pensieri delle persone?! Credi che
non lo sappia?!” urlò Kasday, ribaltando uno
specchio.
Il demone indietreggiò.
“Io ho creato questi
Universi!” ricominciò a gridare l’Alto
“Io ho fatto sì che ci sia sempre un equilibrio
fra Kaos e Destino, sono
divenuto un Dio pur non volendolo, sono divenuto questo obbrobrio per
mantenere
questo fottuto equilibrio! Avrei potuto sbattermene altamente e
lasciarvi
morire tutti ed invece no! Mi sono sacrificato io, per voi! Ma voi,
creature
ingrate, non fare altro che apostrofarmi come un essere pazzo,
mostruoso ed
incompetente. Sai cosa ti dico? Che non mi importa se morite! Vi odio!
Vi odio
tutti! Tutte le creature che ho creato…non fanno che
odiarmi!”. “Io non ho mai
pensato che tu sia un mostro. E non ti ho mai odiato”
rispose, tranquillo,
Luciherus. “Perché sei un pazzo! Tanto quanto me.
E sei un bugiardo, come
Vereheveil”.
“Lo sono. Mai detto il
contrario. Ma non con te”.
“Non ti faccio
paura?” sussurrò l’Alto, mostrando il
suo
aspetto più terribile.
“No”
esclamò, convinto, il Principe “Puoi fare
ciò che vuoi,
ma io non avrò mai paura di te”. Kasday
abbassò le braccia, rinunciando a
rompere altri oggetti, ed i due si guardarono.
“Mi dispiace che tu non
capisca il mio punto di vista. Mi
dispiace davvero. Ma, nonostante tutto, io continuerò per la
mia strada. Voglio
uccidere Momoia e farò di tutto per raggiungere il mio
scopo! Tu fai ciò che
credi. Dillo a tutti se lo credi giusto”.
“Io non parlerò.
Però Momoia potrebbe leggere nei miei
pensieri…”.
L’Alto gli si
avvicinò ulteriormente e gli appoggiò la mano
di vetro sulla fronte.
“Da questo momento lei non
potrà vedere nulla, a meno che tu
non lo desideri. Ed
ora scusami, vorrei
tornare oltre al quadro”.
Luciherus gli strinse la mano.
“Io non voglio che tu
muoia…ma rispetto la tua decisione”
mormorò.
“Grazie. E non è
vero che odio tutti. Io non odio te…”.
Il demone scattò solo
leggermente e lo baciò, dimostrandogli
non solo che non provava alcun timore ma che non lo considerava un
mostro. Forse..forse
lo amava per davvero!
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Capitolo 27 *** XXVII- addestramento ***
XXVII
ADDESTRAMENTO
L’Alto Krì
osservava tutti gli Dèi con rimprovero. Si
stavano allenando fra loro ma l’Alto non sembrava
soddisfatto, guardando gli
scontri dalla sua cavalcatura. Kiaritanya gli stava seduta accanto,
leggendo ed
ignorandoli.
“In questo
momento…” commentò Krì
“…Momoia sta portando alla
guerra gli Angeli ed i Demoni dei suoi Universi. Vuole la vostra
presenza per
sferrare l’attacco finale ai Celesti ma, ora come ora, dubito
che voi ne siate
in grado!”.
Proteste sommesse e commenti perfidi
si levarono fra le
divinità.
“Cosa avete da
protestare?” si stupì l’Alto
“Io dico la
verità. C’è forse qualcuno che mette in
dubbio le mie capacità? Volete
sfidarmi, mezzi guerrieri?”.
“Ma come parli,
Krì Ansuz? Non è da te!”.
Un essere, molto simile
all’Alto, lo osservava dalla cima di
un palazzo. Era stato lui a parlare. “Vattene, per
favore” lo invitò Krì.
L’unica differenza fra i
due era il colore della pelle.
Quella dell’Alto era blu, l’altro invece era
aranciato.
“Sono solo passato a
salutarti!” protestò l’aranciato.
“Non dovresti. Momoia ti
ucciderebbe se ti vedesse qui. Sei
uno dei nemici”.
I due parlavano fra loro in una
lingua incomprensibile agli
altri presenti.
“Fratello mio!
Krì! Io non ti farei mai del male…”.
“Nemmeno io. Ma se ci
dovessimo trovare uno contro
l’altro…lo scontro sarà
inevitabile!”. “Puf…tu ed il tuo
inevitabile! Tutto è
evitabile. Potresti non combattere, ora, per esempio”.
“Potrei ucciderti, ora, per
esempio!”.
“Non lo faresti. Non senza
un motivo. Povero fratellino
mio…”.
“Povero?! Tornatene da dove
sei venuto!”.
“Va bene, Krì.
Volevo solo dare un’occhiata agli eserciti di
Momoia”.
“Non
c’è molto da vedere…”
mormorò l’Alto, scendendo dalla
sua cavalcatura gialla.
La sua messaggera si
limitò ad usare la sua borsa come
contrappeso, per non cadere.
“In questo
momento…” parlò di nuovo
l’aranciato “…i nostri
Angeli stanno affrontando i vostri Angeli, così come fanno i
Demoni.
Congratulazioni…li hai resi un esercito unito!”.
“Solo temporaneamente. Ci
ho provato ma, secondo me, presto
ricominceranno a litigare fra loro, come sempre. Non sposano molto la
causa di
noi Alti”.
“Anche i nostri fanno
così. A torto, forse?”.
“Assolutamente
no!”.
I due fratelli risero.
“Vienimi a trovare ogni
tanto, fratello mio blu! Ho dei
biscottini al burro che sono una vera delizia. Sono sicuro che li
gradiresti!”.
“Verrò a
rubarteli durante la notte, come quando eravamo
bambini”.
Il Celeste aranciato sparì
con un largo sorriso e Krì
ricominciò a girare per il campo d’addestramento.
Kiaritanya lo seguiva,
facendo trottare la cavalcatura dallo strano colore e dicendogli strane
frasi
tipo: “Andiamo a pugnare!”.
Ansuz scosse il capo, divertito.
“Attento all’arma
che scegli, ragazzo” disse, rivolto a
Kavahel, che stava provando una spada “Quella che hai fra le
mani è molto
buona, ma non è molto facile da portare appresso se ci si
deve muovere in
fretta”.
Kavahel annuì, pensieroso:
“Avete ragione. Lord”.
“Lord?” si
stupì Krì.
“Non posso chiamarvi
così? Sono molto colpito dalla Vostra
capacità guerriera. Vorrei affinare le mie tecniche, specie
l’uso dell’arco. Mi
dareste una mano?”.
“Volentieri
ragazzo”.
L’Alto si fece porgere
l’arco e le frecce dalla sua
Messaggera.
“É
semplice…” spiegò, tendendo
l’arco e scoccando una
freccia.
Colpì il bersaglio
prestabilito: un’albicocca posta su un
albero piuttosto lontano.
“Bravo!”
applaudirono due giovani donne che li stavano ad
osservare.
L’Alto sorrise, facendo un
inchino.
“Che culo!”
esclamò Kiaritanya e Krì storse il naso,
incrociando le quattro braccia.
Sospirò e tornò
dal suo allievo: “Prova anche tu, Kavahel
figlio di Kasday…”.
“Della tribù
degli Equilibrati squilibrati, parenti dei
combina disastri e dai gusti sessuali incerti…” si
intromise la Messaggera.
“Kiaritanya! Sto cercando
di farlo concentrare!” sbottò
l’Alto dalla pelle blu.
“Mi annoio! Non
sarà mica una cosa lunga come Ar j?”.
“Quello è stato
molti millenni fa, prima ancora di essere un
Alto! E, comunque, se anche questo ragazzo ha bisogno di essere
addestrato è
quello che farò!”.
“Quello di prima ci ha
messo molto a capire però…”.
“Lui capirà
più in fretta!”.
Si mise accanto a Kavahel, che si
sentiva decisamente sotto
pressione, e gli mostrò come fare.
“È tutta una
questione di concentrazione” gli spiegò
“Visualizza il tuo obiettivo e vedrai che non potrai
sbagliare. Se sai quale
scopo perseguire, sarà la freccia stessa a centrare il
bersaglio, senza
sforzo”.
Kavahel fece segno di aver capito.
Imitò la posizione del
suo maestro con il suo arco. Krì stava per scoccare quando
si accorse di
un’ombra che li osservava da un albero. Subito si
girò e scagliò la freccia. La
spia la afferrò fra le mani e ridacchiò.
“Sei troppo teso,
Krì!”.
“Oh, Kasday! Sei
tu!”.
“In persona”
rispose l’Alto, scendendo dall’albero ed
andando incontro a maestro ed allievo.
Aveva un abito lungo con lo strascico
che lasciava scoperta
la parte superiore del suo busto, di cui però aveva nascosto
la maggior parte
della braccia, mantenendo solo quelle blu ed unghiate.
“Com’è andata, collega?”
domandò Ansuz.
“Cosa?” si
stupì Kasday, sorridendo.
Non mostrava assolutamente il suo
vero aspetto, anzi aveva
un viso dolce ed i capelli raccolti. Nemmeno le antenne si potevano
scorgere.
“Come cosa?! Non sei andato
in battaglia?!”.
“Ah, già.
È vero. Questa è la tua freccia”.
“Grazie” rise
l’Alto di colore blu, capendo di quanto poco
gli importasse della guerra, non solo
a
lui ma anche al suo collega.
“Non ti aspettavo qui,
Hagalaz. Dicono che non esci mai da
casa…”.
“Non è del tutto
errato. Ma volevo vedere di persona i
nostri schieramenti”.
“Gli Angeli e i Demoni sono
già in guerra…”.
“Lo
so. Ma, com’era
prevedibile, ci sono stati dei problemi”.
“Non sono molto uniti e
convinti…”.
“Non so come dargli
torto!”.
“Perché non
copri le mani?”.
“Quelle bruciate?
Perché? Ti danno fastidio?” domandò
Kasday, accigliato.
“No, ma non sono molto
adatte alla battaglia”.
Di tutta risposta, l’Alto
dagli occhi azzurri afferrò la
spada di Kavahel e la rigirò più volte,
velocissimo.
“Come non
detto…” sorrise Krì.
Solo quando rese l’arma,
Kasday si accorse a chi l’aveva
sottratta.
“Kavahel!”
esclamò.
“Già…ciao”.
“Come sei
cresciuto!”.
Il ragazzo si lasciò
abbracciare. Era felice.
“Che ragazzo
coraggioso…andrà alla guerra. Mi
dispiace…”.
“Io ne sono molto
soddisfatto, invece. Almeno faccio
qualcosa di serio, invece che stare tutto il giorno a perdere tempo con
quei due fratelli
psicopatici che mi
ritrovo!”.
“Kaos e
Destino?”.
“Proprio loro. Aspetta qui.
Vado a chiamare tutti!”.
Il giovane si allontanò
velocemente, ma Kasday non
aspettò. Gli diede le spalle e fece per
andarsene.
“Perché lo lasci
così?” domandò Krì.
“Non sono affari che ti
riguardano, Ansuz!”.
“Sei proprio
strano!” ridacchiò, e tornò a
concentrarsi sugli
eserciti.
Kasday si allontanò, lungo
una collinetta, inoltrandosi in
un boschetto.
Tornò al suo solito
aspetto, con sette braccia, le antenne e
tutto il resto. Si sentì chiamare.
“Kasday!”.
Si voltò e vide
Vereheveil, che lo guardava, con grandi
occhi tristi.
“Te
ne vai?”.
“Ho da
fare…”.
“Voglio parlare con
te”.
“Ribadisco il concetto
della frase precedente…”.
“Senti…anch’io
ho da fare! Ma un attimo per me lo devi
trovare!” protestò il Dio delle Letterature,
notando che l’Alto lo ignorava e
proseguiva per la sua strada.
“Devo?!”
sbottò Kasday.
“Sì, esatto.
Devi!”.
“Dov’è
tua moglie, Dio?”.
Si inseguivano fra gli alberi.
L’Alto avanzava con facilità,
avendo anche gli alberi dalla sua parte. Lo facevano passare, impedendo
a
Vereheveil di proseguire.
“É a casa. Ti
prego…fermati e parla con me!”.
Kasday sospirò,
borbottando strane cose. “Cosa
vuoi?” disse, fermandosi e girandosi.
“Cosa vuoi?! Non sei felice
di vedermi?”.
“Lo sono…e tu
non hai paura?”.
“Il tuo aspetto non
è fra i più rassicuranti, ma mi ci posso
abituare”.
“No, te lo assicuro. Non mi
ci sono ancora abituato io dopo
millenni…”.
“É colpa
mia” disse il Dio dalle ali d’angelo, chinando il
capo.
“Cosa?”.
“Se tu sei
così”.
“Così
come?”.
“Così come
sei”.
“Io sono come sono. Ed
è tutto merito, o colpa, mia”.
“Ne sei sicuro?”.
“No. Ma non ti deve
importare”.
“Come sarebbe a
dire?”.
“Non puoi fare niente per
cambiare la mia condizione”.
“Sei arrabbiato con me,
vero?” disse Vereheveil, incrociando
le braccia.
“Arrabbiato?”.
“Sei arrabbiato
perché io sono sposato!”.
Kasday scoppiò a ridere.
“Cazzo ridi?!”
sibilò il Dio delle Letterature.
“Quanto narcisismo! Io sono
arrabbiato, è vero, ma non per
colpa tua. Quando ti ho visto, con l’abito
da sposo, sono stato davvero felice”.
“Veramente?” si
stupì Vereheveil, potendosi vedere, sul suo
viso, una punta di delusione.
“L’abito
confezionato dalla Dea dell’Estate, i fiori della
Primavera, le scarpe dell’Autunno e i gioielli
dell’Inverno. Doni simbolo di
fertilità i primi due, aiuto nel lungo cammino il terzo e
augurio affinché la
vostra unione sopravviva al freddo ed ai problemi, durando eternamente
come una
gemma preziosa. Simboli superflui ed inutili…ma molto belli.
E voi due, sposi,
eravate stupendi. Chi mancava?”.
“Dove?”.
“Alla cerimonia. Si dice
che si saprà come andrà un
matrimonio in base alle divinità presenti o
assenti”.
“Mancavi tu!”.
“Io non conto”.
“Per me conti!”.
“E allora non avresti
dovuto sposare un’altra, non trovi?”.
Il Dio delle Letterature
chinò la testa. “Ho dovuto
sposarmi”.
“Tranquillo. Io sono felice
per te. E sono orgoglioso del
modo in cui hai cresciuto i nostri figli”.
“É per loro che
mi sono sposato! Avevano bisogno di una
madre”.
“E gli altri piccoli che
hai avuto con lei? Incidenti? Sta
calmo. Non sono qui per giudicarti. Sono felice per te”.
“Non ti
capisco…”.
“Non è una
novità”.
“Ho saputo che ti
sposerai”.
“No”.
“Come no?!”.
“No. Non mi
sposerò”.
“Mi
dispiace…”.
“A me no”.
“Io…”.
“Torna ad allenarti,
Vereheveil. Ti serve!” ridacchiò
l’Alto.
“Ma…io…Kasday…”.
“Basta adesso. Sono stanco.
E voglio tornare a casa”.
“Perché non vuoi
vedere i tuoi figli?”.
“Kavahel l’ho
visto ed i gemelli non mi riconoscono”.
“Ma vogliono
vederti!”.
“Mi vedranno. Ma non oggi.
Ho di meglio da fare!”.
“Tipo? Contare le gocce di
pioggia?”.
“O i bruchi. Molto dipende
dagli eventi atmosferici”.
Kasday si allontanò.
“Vinceremo contro i
Celesti?” gli urlò dietro il Dio delle
Letterature.
“La cosa mi interessa
poco” gridò, di rimando, Kasday.
“Ma come?!”.
“Puf!”.
L’Alto spalancò
le braccia blu e le riempì di piume. Poi
prese il volo e scomparve all’orizzonte. “Non darti
troppa pena per lui.
Ricorda che è un Alto” si sentì dire il
Dio delle Letterature.
Trasalì e vide che era
stato Krì a parlare.
“Cosa intendi dire? E da
dove sbuchi?”.
“Io sono bravo a sbucare
dal nulla! E Kasday…è
inavvicinabile! Non vuole l’aiuto di nessuno e non ne ha
bisogno. Ha dei guai
che deve affrontare e risolvere da solo, senza avere un supporto da nessuno. Non
deve farti troppo
struggere. Se la cava benissimo. O, perlomeno, così
sembra!”. Vereheveil non
sembrava convinto, ma dovette rassegnarsi. Tornò verso il
campo di
addestramento, chiedendosi per quale motivo Kasday fosse giunto fino a
lì, per
poi andar via in quel modo.
Entrò in una tenda e si
ritrovò da solo. Si sedette in un
angolo, aprendo la sua borsa.
“Un brindisi a te, antico
amore mio!” sussurrò, sorseggiando
liquore ed appoggiando il viso alle ginocchia, con aria afflitta
“In che
stato siamo, oramai…”.
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Capitolo 28 *** XXVIII- stelle cadenti ***
XXVIII
STELLE
CADENTI
Luciherus si era appena fatto fare un
riassunto della
battaglia appena trascorsa. Stava seduto sulla sua scrivania nera, in
una delle
stanze private del palazzo, nella capitale del regno dei Demoni.
Azazel,
addormentato Cerbero, gli parlava con entusiasmo.
Anche sua sorella Raven non nascondeva la sua
allegria.
“Siamo stati
fantastici!” raccontò Azazel, sfoggiando una
canottiera scura, con scritte contro gli angeli, e dei pantaloni in
similpelle.
“Sì.
E’ vero! I demoni hanno combattuto con fierezza ed
orgoglio!” confermò Raven, con canottiera in pizzo
nero a rose ed una gonna a
sbalzi dello stesso stile.
“Mi dispiace non essere
stato presente” ammise il Principe.
“Magari sarebbe stato
meglio. Ma di sicuro voi ed il Dio
Triplice avevate cose più importanti da fare e di cui
discutere” rispose Raven.
Luciherus sorrise, ripensando a
ciò che aveva fatto, durante
la battaglia, nel palazzo del Dio Triplice. Il corpo e
l’aspetto femminile di
Kasday era una cosa di sicuro più piacevole di
ciò che svolgeva ora. Magari non
altrettanto utile ed importante, ma di sicuro più eccitante.
Rimase sorridente, perso nei suoi
pensieri. Poi sbuffò,
guardando la pila di carte che aveva davanti, ammassate sulla
scrivania.
“Vado via per un
po’ e guarda quante scartoffie da firmare!
Ma non c’è nessuno qui che sia in grado di
falsificare la mia sigla?”.
“Certo che no!”
esclamò Azazel, serio.
“Quanta lealtà,
quando non è necessaria!” brontolò il
Principe, cominciando a firmare con una piuma dorata.
Leggeva i fogli distrattamente. Senza
bussare, e lasciando
la porta spalancata, Lilith entrò. Stranamente abbronzata,
con il suo
lunghissimo pitone attorno al corpo, si fermò di fronte al
suo compagno.
“Sei tornata dal
mare?” le chiese Luciherus, senza distrarsi
dai suoi documenti.
“Bastardo”
sibilò lei.
Il Principe alzò gli
occhi: “Guarda che io so chi sono i
miei genitori…” rispose, tranquillo.
“Tu…ho saputo
che c’è una piccola puttanella nuova fra le
tue grazie”.
“La definisci in quel modo
perché è solo una novizia nel
mestiere che fai dalla notte dei tempi, Lilith?”.
Lei tremò dalla rabbia:
“Come ti permetti?!”.
“Avanti, mia
cara…non c’è nessuno qui che non abbia
potuto
godere delle tue grazie…forse Raven, ma non ne sono del
tutto sicuro…”.
“E questo che cosa
c’entra?”.
“Come puoi essere gelosa?
Io non lo sono…”.
“Tu non mi ami!”.
“Ti suona tanto
strano?” si stupì il Principe.
“Ma ami questa
Shekinah!”
“Shekinah?”
ripeté Luciherus, starnutendo.
“Ecco! Lo vedi? Stai male
per colpa sua! La ami!”.
Il demone si alzò e le
andò vicino.
“Questi sono discorsi da
fare in privato. Ora…torna a
giocare con qualche guardia o con qualche altro tuo
amichetto…”.
Lilith, furiosa, gli mollò
una sberla. Il Principe, colto alla
sprovvista, non la schivò. Lei se ne andò,
ringhiando sommessamente ed
imprecando, definendolo l’essere più spregevole
del creato. Il demone strinse
fra le mani la collana che gli aveva donato Kasday. Aveva per ciondolo
il
simbolo dell’equilibrio: “così potrai
meglio pregarmi” gli aveva detto.
“Perché voi
donne siete così complicate?” mormorò e
Raven
sorrise.
“Perché
altrimenti non sarebbe divertente!” rispose,
sghignazzando.
Tutto il palazzo sentì le
urla di protesta di Lilith. C’era
chi ne rideva e chi se ne preoccupava.
“Mai nessuno che si faccia
i cazzi suoi!” brontolò il demone
capo, tornando alla scrivania “Dov’è
Asmodai?” volle sapere, svogliato.
“Non è ancora
rientrato” fu la risposta del piccolo demone
Azazel.
“Gli è successo
qualcosa?”.
“Non lo sappiamo”
confessò Raven.
“Appena arriva mandatelo da
me, mi raccomando!”.
“Sarà
fatto!” confermarono, in coro, i due fratelli.
“Signore!”
sbraitò un demone, entrando nella sala.
“Che succede?
Un’invasione aliena?” sibilò il
Principe,
infastidito dalle grida.
“Signore…perdonate
l’intrusione ma…c’è un essere
che sta
giungendo qui. Sembra molto arrabbiato ed è
spaventoso!”.
“Che cosa intendi con il
termine "essere"?”.
“Non riusciamo a
fermarlo!”.
Il Principe si alzò di
controvoglia e si affacciò lungo il
corridoio. Spalancò gli occhi.
Il Signore del Cielo avanzava
velocemente, spostando
chiunque lo intralciasse con la
sola
vibrazione della punta delle dita.
“Luciherus!”
urlava, a gran voce.
“Che vuoi?” gli
gridò, con rabbia, di rimando il
padrone di casa.
“Ti cercavo…ti
devo parlare…” affermò Raido, ma il suo
sguardo indicava qualunque desiderio tranne quello di farsi una bella
chiacchierata “Vieni qui, piccino!”
mormorò.
Luciherus scoppiò a ridere
e gli mostrò il dito medio:
“Vienimi a prendermi, bellezza!”
esclamò, beffardo.
Continuò la sua risata
maligna ed iniziò a correre,
inseguito dall’Alto, lungo le stanze del palazzo. Dopo aver
combinato un po’ di
danni ed aver allarmato molte persone, si ritrovarono
all’esterno.
Il Signore del Cielo sbarrava la
strada al Principe.
“Dove credi di
andare?” sibilò Raido.
“E tu chi credi di essere?
E che cosa vuoi?”.
“Tu devi essere
eliminato!”.
“Cosa?”.
“Tu, demone, sei una palla
al piede nel matrimonio fra me e
Kasday!”
“Oh! Mi
dispiace!” disse Luciherus, con evidente sarcasmo
“Sarà che tu sei un grosso bastone ed a lei stai
fra le ruote?” commentò, con
dei gesti decisamente poco principeschi.
“Come ti permetti,
deucolo?”.
“Mi permetto, eccome,
Alticcio! Kasday non può sposare una
cimice luccicosa come te!”. “Luccicoso?! Cimice?!
Ma io ti distruggo! E prima
del tramonto!”.
“Ho pregato di ritrovarmi,
un giorno, davanti a te…ironia
della sorte!”.
I due iniziarono a battersi, fra
l’entusiasmo generale. I
demoni che osservavano la scena esprimevano tutto il loro delirio
facendo il
tifo, per l’una o per l’altra parte.
L’Alto mostrò il suo aspetto più
temibile,
rizzando i capelli, sfoderando gli artigli e spalancando le fauci con
denti
aguzzi.
“Non mi fai paura,
esaltato!” lo derise Luciherus, mutando
anch’egli il suo corpo.
Era avvolto dalle fiamme ed aveva gli
occhi monocromati,
senza pupille, con espanso il colore dell’iride. I suoi
capelli, sciolti e
lunghi, fremevano nell’aria, riempiendosi di riflessi
arancio. La sua luce si
fece più forte e ringhiò, dalla rabbia.
Inaspettatamente riusciva a respingere
tutti gli attacchi che Raido sferzava.
“Non penserai mica di
battermi, vero?” lo disprezzò il
Signore del Cielo.
“E tu non penserai mica di
stancare o intimorire il Dio
della Forza e del Coraggio, vero?” rispose il Principe.
“Ti ridurrò in
uno stato tale, demone, che nessuna delle tue
amanti sarà in grado di riconoscerti!”.
“Ma chiudi quella bocca! E togliti i
brillantini dalla testa, buffone!”.
“Non sono brillantini! Sono
stelle!”.
“Sì,
sì! Ed io in testa non ho due corna affilate ma morbide
orecchiette pelose!”.
Kasday stava in silenzio nel cortile
interno del suo
palazzo. Aveva gli occhi chiusi e stava immobile, sotto un albero
fiorito,
nella posizione del loto. Accanto a lui era accovacciato
Nosmagiés, quasi
addormentato per la noia. Contava le formiche e sospirava.
L’Alto aprì un
occhio, scocciato. Lo percepiva sempre quando
qualcuno faceva troppo casino nei suoi Universi. L’angelo
sobbalzò dal terrore
quando il suo padrone scattò in piedi, di colpo, aprendo un
portale sopra la
sua testa.
Luciherus urlò dallo
stupore quando il terreno sotto i suoi
piedi scomparve e si ritrovò catapultato nel palazzo del Dio
Triplice. Si
schiantò in terra, e Raido sopra di lui. Rialzandosi vide
che Kasday li
fissava, con sei braccia incrociate ed una puntata su un fianco. Aveva
un’aria
veramente infastidita.
“Che combini Raido,
Diri-hiuva, Signore del Cielo o
qualunque altro nome tu abbia?” sbottò Kasday.
“Com’è
suadente il mio nome pronunciato dalle tue dolci
labbra” sviolinò l’Alto dai capelli di
stelle.
“Smettila di fare
l’imbecille!” lo rimproverò il padrone
di
casa “Non sai che i pianeti dei mortali non sono in grado di
reggere una carica
magica come la tua? Non devi usare la tua forza al di fuori del Pianeta
degli
Dèi e quello degli Alti”.
“Ed a questo essere
inferiore non dici niente?” protestò
Raido, indicando Luciherus.
“Lui non è in
grado di distruggere degli Universi”.
“Ma è molto
potente”.
“Non è un
Alto!”.
Il demone sorrise, beffardo, al suo
avversario.
“Perché
litigate?” si informò Kasday.
“Ha iniziato
lui!” risposero, in coro, i due.
Ovviamente si indicavano
l’un l’altro.
“Bambini…”
commentò il padrone di casa, scuotendo il capo.
Poi si rivolse a Nosmagiés: “Mio angelo, devo
parlare con questi due in
privato. Ti dispiace lasciarci?”.
“No signore. Me ne
vado”.
“Prendi qualche moneta e
và in paese. Comprati quello che
vuoi. Sarà il mio regalo per te. Non avere paura di
spendere” aggiunse,
porgendogli un sacchettino tintinnante.
L’angelo annuì e
si allontanò, allarmato dagli sguardi
malefici che si scambiavano il Principe ed il Signore del Cielo.
“Bene, mia
cara…” parlò Raido
“…ora che siamo soli, perché
non dici a questo demone di scomparire?”.
“Perché dovrei
farlo?” domandò Kasday.
“Come perché? Ha
osato sfidarmi e poi è di troppo. Andrebbe
eliminato…”.
“E perché? Sei
tu il più stupido fra i due!”.
“Come?!”.
“Ragiona, Raido! Come puoi
essere geloso di un semplice Dio?
Tu gli sei superiore, e sei così idiota da andare a
litigarci!”.
“Così mi offendo
però…” si lamentò Luciherus.
Il padrone di casa gli diede le
spalle ed incrociò le mani
dietro la schiena. Una di esse fece l’occhiolino al demone,
che annuì pur non
capendo. Diri-hiuva non fu in
grado di
vedere quel gesto. Il Principe notò che tutte le emanazioni
dell’Alto che
conosceva stavano uscendo allo scoperto, arrampicandosi sui tetti
dell’edificio
e guardando verso il cortile interno.
“Shekinah!”
esclamò, individuandola fra tanti.
Kasday alzò leggermente la
veste e slacciò il nastro rosso
che teneva legate assieme un paio delle sue gambe. Le lasciò
poggiare a terra,
con grazia, mentre tutto il suo corpo prendeva fattezze molto più
femminili.
“Danzeresti con me, mio
futuro sposo?” sussurrò.
Il Signore del Cielo fece un inchino
ed accettò l’invito,
felice.
“E tu, Luciherus?
Danzeresti per me?” chiese ancora la
divinità appena mutata.
“Certo che no. I demoni non
ballano!”.
“Ma tu sei un
Dio…”.
“In ogni caso non ballo.
Solo gli angeli perdono tempo con
cose del genere!”.
Con un gesto della mano, la ballerina
fece divenire il
Principe un Arcangelo: “Ora puoi!” gli disse.
“Ma…non credo
proprio!”.
“Guarda che ti faccio
diventare mortale!” lo minacciò.
Luciherus incrociò le
braccia. Non avrebbe ballato. Ma
Kasday sapeva cosa fare. Shekinah scese dal tetto su cui stava ed
andò accanto
al Principe, prendendolo delicatamente per mano.
“Danza con me”
disse, e l’Arcangelo capì che non aveva molte
altre alternative.
Nel frattempo i due Alti ballavano
fra loro. Kasday girava
in tondo, circondando Raido, con piccole piroette. Lui faceva fatica a
seguirne
i movimenti e si limitava ad osservare, affascinato.
Luciherus notò, con una
certa inquietudine, che tutte le
emanazioni si muovevano nello stesso modo, contemporaneamente.
“Mio
sposo…” parlò l’antica
divinità dell’equilibrio
“…come
puoi pensare che io preferisca uno di voi due?”.
“Ma tu preferisci di sicuro
me!” commentò Raido, sicuro.
“Davvero? Ed, esattamente,
come mai pensi questo?”.
“Perché io sono
più bello, più forte, più intelligente
e…”.
“Più
modesto!”.
“Può
darsi” rise lui.
Il ballo si faceva sempre
più svelto e Luciherus capì che
lei, in realtà, stava immagazzinando energia.
“Tu sei migliore di
lui?”.
“Di Luciherus? Di sicuro,
mia futura sposa!”.
“Davvero?”.
“Ma certo. Dimmi, mia cara,
quando si celebreranno le nostre
nozze?”.
“Hai fretta,
Raido?”.
“Abbastanza”
sibilò lui, riuscendo ad afferrarla.
La strinse a sé, ma Kasday
riuscì facilmente a liberarsi.
“No, no!” lo
rimproverò “Così non và, mio
sposo!”.
“Sento il tuo
profumo…” gemette lui.
Il Principe ricordò
ciò che gli aveva spiegato Nosmagiés a
proposito di quel profumo e di quei fiori e si chiese se, in
realtà, Kasday
aveva altro in mente oppure se stava per cedere alle pressioni
dell’istinto.
Guardò il Signore del Cielo con rabbia, invidia e sospetto.
“Tranquillo, amor
mio!” lo rassicurò Shekinah
“É tutto sotto
controllo! Rilassati!” continuò.
“Sta giocando con il
fuoco” sbottò l’Arcangelo.
“Anch’io!”
rispose lei, baciandolo.
Kasday percepì quel bacio
e sorrise.
“Io ti amo,
Hagalaz” esclamò Raido.
“Sei sicuro?”
ridacchiò lei, sfuggendogli “Oppure vuoi solo
questo?” proseguì, indicando
l’oblò azzurro, divenuto una mezzaluna sotto il
suo seno sinistro “Ami me, Diri-hiuva, o ami la
possibilità di poter percepire
l’estasi totale del contatto delle nostre
essenze?”.
“Perché
aspettare?” domandò il Signore del Cielo,
avvicinandosi in modo lievemente minaccioso e mostrando un
oblò pulsante di
luce viva “Perché non unire le nostre essenze
ora?”.
Il Principe fremette, sentendosi a
disagio ed avvertendo il
forte profumo dei fiori di Kasday.
“Che strano corpo che
hanno…” si disse, per distrarsi da
quella che aveva proprio l’aria di una danza di
corteggiamento.
Shekinah rise:
“Giudichi il loro strano…ma credi che il tuo sia
normale?”.
“Ovviamente!”.
“Mai pensato a come ti vedono gli
angeli?”.
“Hei! Io ho tutto al
proprio posto! È agli angeli che manca
qualcosa! E anche a quei due…”. “Anche a
te manca qualcosa…l’oblò!”.
“Non mi serve!”.
“Ed a loro non serve quello
che hai tu!”.
Luciherus la strinse, fermando la sua
danza, la baciò e le
sorrise.
“Non dirmi che preferisci
quell’oblò azzurro a quello che ho
io!”.
Lei ridacchiò.
“Veramente è
trasparente…” precisò
“…si tinge d’azzurro
grazie alla magia che ci scorre all’interno”.
“Sì,
sì…” rispose lui, distrattamente, senza
lasciarla
andare.
“Ad ogni
modo…” riprese l’emanazione
“…trovo entrambe le
unioni molto piacevoli”.
“Oh, vieni
qui…mia Kasday!” sorrise lui.
Anche i due Alti erano abbracciati,
anche se nessuno dei due
sorrideva.
“Posso farti una
domanda?” fece Kasday.
“Risponderò ad
ogni tua richiesta, mia proprietà” rispose
Raido.
“Tu…che cosa hai
fatto, Signore del Cielo, la notte in cui
hanno ucciso mio figlio?”.
“Io?
Niente…cioè…non so…”.
“Bravo! Proprio niente hai
fatto. Sei rimasto impassibile o,
meglio, ridevi!”.
“Ridevo? Davvero? Mi
spiace…non lo ricordavo”.
“Ben io me lo ricordo. Lo
ricordo benissimo. Tu ridevi,
mentre Sowelo piangeva ed io gridavo, supplicando
pietà”.
L’espressione di Kasday era
truce, dura e maligna: “Mia
proprietà?” ringhiò, respingendo
Diri-hiuva “Ti informo su una cosa, bello mio:
io non sarò MAI una tua proprietà!”.
“Ti sbagli. Tu mi sposerai,
come stabilito, e diverrai una
cosa che mi appartiene. Che ti piaccia oppure no”
sbottò l’Alto, arrabbiandosi
a sua volta.
“No. Sei tu che ti
sbagli” sogghignò, di risposta, la
creatura proprietaria del palazzo, con un tono di voce calmo e disteso
ed un
sorrisetto.
Lei concentrò tutte le sue
energie sulle mani e Raido
indietreggiò di qualche passo.
“Cosa credi di
fare?” ringhiò il Signore del Cielo “La
tua
magia è debole, Hagalaz! Non pensare di potermi
sfidare”.
“Tu dici? Per me ti sbagli
di nuovo…”.
Kasday si avventò contro
l’altro Alto e gli trapassò
l’oblò
sul petto, senza sforzo. Raido urlò, di dolore, spavento e
paura. Cadde in
ginocchio e poi a terra. Luciherus prese il volo, schivando gli schizzi
di
magia velenosa e lasciando Shekinah, la cui pelle era diventata
incandescente.
“Ora rido io, amore
mio!” tuonò l’antico Signore
dell’equilibrio, dilatando la bocca e preparandosi a
consumare il suo pasto.
Il Principe notò che
l’Alto era ancora vivo quando lei
iniziò a mangiarlo. Sentì una lieve fitta allo
stomaco, mentre tutte le
emanazioni ridevano, sadicamente. L’Arcangelo rimase sospeso
a mezz’aria per un
po’, fino a quando
le emanazioni non
tacquero. Dopodiché atterrò, dolcemente, pur
avendo qualche difficoltà d’uso
delle ali piumate. Vide che tutti gli estranei se ne stavano andando,
si
ritiravano nella cupola. Anche Shekinah se ne stava andando, con
espressione
vuota.
Kasday si era ripreso tutte le parti
della sua essenza.
“Allora,
Luciherus…vuoi avere tu l’onore?”
domandò,
indicando ciò che era rimasto del Signore del Cielo: i
capelli ricoperti di
stelle e gli occhi.
“Dicono che siano le parti
con più magia…” spiegò
l’Alto,
ancora con aspetto femminile, porgendo al Principe uno dei bulbi.
L’Arcangelo lo
guardò, con riluttanza, ma poi se lo prese
fra le mani.
“Mangialo, Lucy. Sono
sicura che, come demone, hai mangiato
cose peggiori. E non preoccuparti…non è
più velenoso”.
Il Dio della Forza e del Coraggio lo
guardò per un po’, poi
si decise ed ingoiò. Subito sentì una forte
carica magica scorrergli nelle
vene.
Kasday prese i capelli dello
sconfitto fra le dita e ne
lanciò in aria le stelle, che ricaddero sui due.
“Ma che fai?” si allarmò il
Principe “Così Momoia
capirà!”.
“Non ha più
importanza! Ora sono in grado di affrontarla!”.
I capelli di entrambi si riempirono
di stelle lucenti.
“Tranquillo, Lu. Non hai
abbastanza carica magica per tenerle
accese. Non si accorgerà che sei stato coinvolto nella
faccenda”.
Il Principe scosse i capelli, che
brillavano con molta meno
intensità rispetto a quelli di Kasday.
Si guardò le mani, sporche
di liquido azzurro.
“Io…”
parlò, sommessamente “…io credo di
essere pazzo”.
“Perché dici
questo? Se qui c’è un pazzo…quello non
sei
tu!”.
“Oh, no. Ti sbagli! Io sono
pazzo. Perché…in una situazione
del genere…io ho capito di amarti. Non ne ero sicuro, ma ora
ne ho l’assoluta
certezza. Io ti amo”.
“L’amore
è una cosa così difficile da trovare e dubito
fortemente tu possa provare davvero questo. Non nei miei confronti,
perlomeno”.
Luciherus spalancò le ali
d’Arcangelo.
“Io sono un Arcangelo. Mi
fa schifo ammetterlo ma è così,
ora come ora. E so perfettamente cosa significhi
l’amore!”.
“Mi lusinga che il tuo
sentimento sia quello di un angelo…ma
non cambierai il mio punto di vista!”.
“Vuoi ancora
morire?”.
Kasday annuì e si sedette
in terra, specchiandosi nel
laghetto con le ninfee. Si osservò i capelli, ora pieni di
luci, che si
agitavano mossi da vita propria.
“Non trovi proprio niente,
fra questi Universi, che ti
spinga a vivere?” domandò il Principe, sedendogli
accanto.
“E tu non trovi altro, fra
questi Universi, da amare, salvo
un abominio come me?”.
“Siamo entrambi abomini,
che problema c’è?” ridacchiò
l’Arcangelo, guardando negli occhi gialli una rana, che
galleggiava su una
foglia dello stagno.
“E
così…presto affronterai
Momoia…”.
“Esatto. Probabilmente alla
prossima battaglia” confermò
l’Alto.
“E il suo corrispettivo
Celeste?”.
“Non sarò io ad
eliminarlo. È l’obbiettivo primario degli
Alti rimasti”.
“E…chi
è rimasto?”.
“Krì
e…Momoia”.
“E basta?! E gli
altri?”.
Kasday sorrise.
“E la tua controparte,
Deyan?”.
“Non mi riguarda. Che
faccia pure quello che vuole”.
“Signor
Luciherus…” interrupe Nosmagiés,
entrando cautamente
nel cortile.
“Sì?”
domando questi, alzando la testa.
“Perdonate
l’interruzione, ma c’è qui un demone che
vuole
parlare con Voi”.
Azazel sbucò, timidamente,
da dietro l’angelo Messaggero. Si
sentiva a disagio in un luogo come quello.
“Azazel! Piccolo
demone…parla!” gli sorrise il Principe.
Il demone si stupì di
vedere le ali d’Arcangelo sul suo
padrone. Luciherus notò il suo viso smarrito ed
ingrandì le ali da demone,
facendo quasi scomparire quelle dorate e piumate che mostrava in
precedenza.
“Parla, Azazel”.
“Signore…ecco…ci
sono dei nuovi caduti”.
“Bene. La cosa mi fa
piacere ma…perché me lo dici?”.
“Due di loro ricordano
perfettamente di essere state delle
creature angeliche”.
“Strano. I caduti non
ricordano il loro stato precedente,
fino a quando non sentono le formule di
Vereheveil…”.
“Credo che questi nemmeno
si rendano del tutto conto di
essere demoni, Signore”.
“Altra cosa strana. Ma
continuo a non capire perché me lo
dici”.
“Perché, mio
Principe…uno di loro dice di chiamarsi Mihael”.
“Mihael? Mio
fratello?!”.
“Temo di sì. La
somiglianza c’è”.
“Vorrai scusarmi, Kasday,
se mi congedo…”.
“Và pure. Questi
sono seri problemi di famiglia. Ci
rivedremo presto”.
“Non ne dubito!”.
Azazel e Luciherus presero il volo,
mentre il Principe
apriva il portale in aria, per raggiungere il Regno dei Demoni.
Kasday sorrise, ed alzò la
testa. Solo allora notò che Deyan
aveva visto ogni cosa.
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Capitolo 29 *** XXIX- nuovi caduti ***
XXIX
NUOVI
CADUTI
“Abbiamo provato a sedarlo.
Non la smetteva di agitarsi e
temevamo fosse ferito. Non volevamo di certo che peggiorasse o
combinasse
disastri!” spiegò Malaphar, il demone guaritore.
“Capisco. Non è
grave, spero…” borbottò Luciherus,
entrando
con cautela nella camera dove era stato rinchiuso il nuovo caduto.
Subito lo riconobbe come il suo
gemello, steso sul letto.
“Oh, Miky! Come sei giunto
fino a questo punto?” sussurrò.
“Non me lo
chiedere” rispose qualcun’altro.
Il Principe si voltò verso
la voce e si chiese chi fosse
quel giovane demone, avvolto dall’oscurità della
stanza. Dall’aspetto delle
ali, deboli e rossastre, doveva essere anche lui un nuovo caduto.
Né ebbe la certezza quando
né vide gli occhi, ancora
esageratamente grandi come quelli degli angeli.
“Gibrihel?”
domandò Luciherus, cautamente.
“Esattamente. Chi non muore
si rivede. Ironia della sorte…”.
“Ma…cosa ci fate
voi due qui? Che cosa è successo? Vi siete
dati al Metal ed ai Serafini non è andato bene?”.
Gibrihel ridacchiò. Mihael
aprì gli occhi e subito
ricominciò ad agitarsi.
“Stai calmino,
Mikino!” sbottò il Principe, puntandogli il
dito contro.
“Ma tu che vuoi, demone? E
che cosa ci faccio io qui? Mi
avete fatto prigioniero? Voi, creature nemiche
che…”.
“Calmati, Mihael! Va tutto
bene!” tentò di calmarlo
Gibrihel.
“E tu chi sei?! Chi ti
conosce?!” ringhiò Mihael, sulla
difensiva.
“Non ti può
riconoscere. Non riconoscerebbe nemmeno se
stesso, se ora si vedesse allo specchio” parlò il
Principe.
“Ti piace blaterare?! Che
diavolo dici…diavolo?” sbottò
Mihael ed il fratello, di risposta, gli indicò lo specchio a
muro, invitandolo
a riflettersi.
Il nuovo caduto si guardò
e rimase di stucco: “Che razza di
specchi hai in casa, fratellino?”.
“Nessun trucco. Quello sei
tu”.
Mihael si passò una mano
fra i capelli. Si erano scuriti,
divenendo mori, e non erano più ricci ma mossi.
“Cos’ho sulla
faccia?” chiese.
“Si chiama barba. La
maggior parte dei demoni c’è l’ha.
Nessun angelo…mi sembra”.
“Che strana
sensazione” ridacchiò il nuovo demone,
passandoci una mano sopra “Gibrihel, anche tu qui!”
lo riconobbe.
Anche lui era cambiato. I capelli
biondo chiaro e pieni di
boccoli erano dritti e di un paio di tonalità più
scure. Era cresciuto molto, superava
di diversi centimetri il padrone di casa. Mentre, invece, Mihael si era
fatto
più grosso e sbatteva con orgoglio le sue ali nuove, ancora
tenere.
“Mi dispiace,
fratello…” cominciò a parlare
Luciherus.
“Per cosa?!” lo
interruppe il gemello, osservandosi.
“Ho la coda!”
esclamò ad un tratto “Che figo!!! Ho sempre
desiderato averne una!”.
Il Principe rimase sconcertato da
quella reazione.
Solitamente i caduti sono furiosi per essere stati cacciati dal regno
degli
Angeli oppure tristi, spaventati, confusi…ma non entusiasti,
come i due che
aveva di fronte.
“Cosa vi è
successo? Come siete giunti al punto di cadere?”
volle sapere, ma i nuovi demoni non avevano idea di che cosa dirgli.
Non ricordavano il motivo della loro
demonizzazione. E non
ci pensavano nemmeno. Ridevano fra loro, sfogandosi con frasi sulla
conquista
del mondo e della libertà. Il Principe, ignorandoli, chiese
al demone guaritore
chi li avesse trovati e condotti a palazzo. Gli fu detto che erano
stati Azazel
e la sorella.
“Portali al mio cospetto.
Vediamo se mi sanno dire qualcosa”
poi si rivolse a Gibrihel e Mihael “Voi due, concentratevi!
Fate silenzio,
finitela di chiacchierare di cose che non capisco e cercate di
ricordare come
siete caduti. Chi vi ha maledetto? Che avete combinato?”.
“Ricordo i loro
ordini…” parlò Mihael, continuando ad
accarezzarsi la barba “…ricordo che ci condussero
negli Universi dei Celesti.
Ci fecero planare su un loro pianeta e la Madre degli Alti, Momoia,
ordinò di
ucciderli tutti. Normale routine di guerra. Preparai il mio esercito,
fra cui
stava anche Gibrihel, e ci mettemmo in formazione d’attacco.
Ad ali spiegate,
planai verso la capitale e vidi, con sgomento, che ad attenderci non
c’era un
esercito, come mi aspettavo. Nessuno era pronto ad affrontarci. Erano
quasi
tutti bambini e creature disarmate. Ed allora mi venne in
mente…”.
“Non li hai attaccati?
Eppure hai ricevuto più volte
l’ordine di uccidere innocenti, primogeniti e via
dicendo…” si stupì Luciherus.
“Non me lo
ricordare!”.
“Va bene, fratellino, non
ti inalberare! E così…ti sei
rifiutato di alzare la spada contro gente disarmata?”.
“Precisamente. Va oltre
ogni codice d’onore e non l’ho
fatto. E poi giustificavano i loro ordini dicendo che era per rendere
deboli
gli eserciti, che sarebbero risultati in uno stato d’animo
turbato e distante,
sapendo che le loro famiglie erano state sterminate”.
“Ma che bastardi! Una cosa
del genere ce la si può aspettare
da me, non dai capi dei Serafini!”.
“Ad ogni modo, io non ho
eseguito gli ordini. Ho gettato la
mia spada, che mi rendevo conto essere stata macchiata da sangue di
scontri
ingiusti lungo i secoli, l’ho spezzata e ho ripreso quota. Mi
sono allontanato
e poi non ricordo. So solo che Momoia si è messa a sbraitare
ed inveire contro
di me e poi niente. Sono precipitato”.
“Probabilmente è
stata Momoia a maledirvi e farvi cadere. È
per questo che ricordate la vostra vita d’Arcangeli ed il
resto. E tu Gibrihel?
Lo hai seguito?”.
“Ovvio. Se il capo degli
angeli guerrieri ed il miglior
combattente del nostro mondo si allontana dalla
battaglia…perché devo fare io
gli sforzi per lui? Capii che c’era qualcosa che non andava e
ho deciso di
seguirlo per capire, ma qualcuno lassù deve aver equivocato.
Volo, volo, volo
e…bum! Eccomi qua!”.
“Certo
che…” commentò Luciherus
“…anche i Celesti…lasciare
dei paesi senza difese! È un po’ tanto da
coglioni…”.
“Direi di
sì” ammise Mihael “Ma siamo comunque noi
i
vigliacchi che ne approfittiamo. E per cosa? Dicono sempre che
è per uno scopo
più alto, ma non so
cosa ci sia di
nobile ed importante nell’ucciderne cento per punirne tre o
quattro”.
“Ok, santo
Michino” sghignazzò Luciherus “Adesso
calmati.
Qui non sarai costretto a rispettare l’alta morale o a fare
cose che non
desideri. E la spada che hai gettato ti verrà
sostituita…con una molto più
bella e adatta ad un demone!”.
“La cosa mi rende molto
felice” sorrise Mihael, soddisfatto.
Gibrihel si osservava allo specchio,
toccandosi le corna
rosse: “Sai una cosa, collega Luciherus? Sono felice di
essere qui! Niente più
gigli! Che soddisfazione! Schifosissimi fiori…”
sibilò.
“Puoi starne certo. Fiori
del genere mai si son visti da
queste parti” affermò il Principe.
Azazel e Raven entrarono nella
stanza, dopo aver bussato.
“Azazel! Raven! Siete stati
voi a portarci qui!” urlò
Mihael, pieno di entusiasmo.
“Ciao…”
salutò Azazel.
“Sarete ricompensati,
entrambi. Sapete dirmi cos’è
successo?” domandò Luciherus, ostentando
un’espressione distratta e strana. Di
sicuro aveva molti altri pensieri in testa.
“Stavamo
combattendo” spiegò Azazel “Ad un
tratto, mia
sorella Raven mi ha fatto notare che aveva visto alcuni angeli cadere.
Subito
siamo corsi sul posto perché ricordiamo quanto sia poco
piacevole come
esperienza. E lì li abbiamo trovati. Erano entrambi confusi
e feriti, ma non in
modo grave. Dopo un breve consulto, abbiamo preso la decisione di
condurli
qui”.
“Ad aiutarci nella nostra
decisione…” completò Raven
“…è
stato il fatto che lui…” indicò Mihael
“…si agitava tantissimo dicendo di non
toccarlo, assieme ad altri epiteti poco gentili, e che non avevamo di
idea di chi
avessimo di fronte. Lui era il grande, magnifico ed imbattibile
Mihael”.
Il Principe ridacchiò.
“A sentire il nome del
gemello del grande Signore
Luciherus…sapevamo già come agire!”
concluse Azazel.
“Grande Signore
Luciherus?!” rise Mihael “Sei sempre il
solito esagerato! Pomposo!”.
“Taci!”
sibilò il capo dei demoni “Ora che sei anche tu
una
creatura demoniaca, che ti piaccia o no, dovrai obbedire a
me!” gli fece
notare.
E il gemello scoppiò a
ridere con più convinzione.
“Siamo demoni
perché abbiamo rifiutato
l’autorità!” esclamò
Gibrihel “Cosa ti fa pensare che ora ci mettiamo ad obbedire
te, caro ex
compagno di classe? Non se ne parla!”.
Il Principe li guardò,
sempre più sconcertato.
“Non
c’è un posto per i ribelli fra i
ribelli…” disse, fra
sé “…ma guarda un po’
se anche questo
impiccio doveva capitarmi!”.
Poi tornò a rivolgere lo
sguardo verso Azazel e Raven,
ancora in abiti da guerra con inserti in cuoio e metallo:
“Asmodai si è visto
dalle vostre parti? L’ho fatto convocare, ma non si
è presentato. Essendo il
capo delle guardie e dei miei eserciti, doveva darmi il resoconto della
battaglia e di tutto il resto…”.
“Veramente…Asmodai
è…come dire…”
farfugliò Azazel, non
sapendo come esprimersi.
“É
morto?” si allarmò Luciherus.
“No! Ma no, stia
tranquillo!” lo rassicurò, subito, Raven,
agitando le mani.
“Se non è
morto…allora è ferito? È grave?
Parlate un po’ voi
due…mi sembra di essere un insegnante davanti a due
interrogati impreparati!”.
“Asmodai
è…un angelo” disse Raven.
Il Principe guardò verso
l’alto, d’istinto. Asmodai era
stato uno dei primi caduti, erano precipitati da un Pianeta
all’altro insieme.
“Tutti questi millenni
assieme…ed ora tu te ne torni fra
loro. Non ti capisco…sinceramente…”.
“Si è
innamorato” spiegò Raven.
“Asmodai?!
Caspita…è più grave del previsto! Non
ditemi che
si è incasinato la testa con quella mortale che piace tanto
a Rahahel…”.
“Proprio lei”
informò Gibrihel.
“E Rahahel…come
l’ha presa?”.
“Lui? È
diventato mortale” parlò Mihael.
“Ma…”.
“Senza parole, fratellino?
Anche noi. Nonostante tutti gli
abitanti del regno degli Angeli gli dicessero di lasciar perdere, e che
non ne
vale la pena, lui ha rinunciato alla sua immortalità. Era da
un po’ che era
strano ma…nessuno di noi si aspettava una cosa del
genere”.
“Vivrà
un’esistenza infelice. Lei è sposata, e non lo
vorrà,
e lui invecchierà. Si spegnerà lentamente, fra le
lacrime e nella
consapevolezza che lei non potrà mai amarlo”.
“Non essere così
negativo, Lucino! Magari trova un’altra
bella mortale…” iniziò Mihael.
“…o un altro bel
mortale…” si intromise Gibrihel, ricordando
l’aspetto di Rahahel.
“…qualcuno! E
vivrà felice e contento!” terminò
Mihael.
“Parlate a turno come la
coppie…” mormorò, perplesso, il
Principe “…ad ogni modo, miei cari ex Arcangeli,
vi devo informare che questa è
la vita reale. Ed è meglio iniziare subito a pensare in modo
negativo, per non
farsi troppo male quando si cade dalle nuvole”.
“Che
ottimismo…” sbottò Mihael.
“Proprio. Senti quanta
allegria sprizza!” aggiunse Gibrihel.
Luciherus non rispose.
Aprì la bocca, ma poi decise che
rispondere era inutile e la richiuse.
“Credo che Rahahel
preferisse morire, piuttosto che stare
per sempre lontano da lei” affermò Mihael
“Anche se è un ragionamento che non
capisco…immagino che lei lo gradisca.
Chissà…magari anche lei…”.
“Basta. È una
cosa stupida. Punto! Cambiamo argomento”
sibilò il Principe.
“Ottima idea!”
commentò Gibrihel, agitando la coda
“Dov’è
Lilith?”.
“Sei appena caduto e la
vuoi già provare? Aspetta il tuo
turno, novellino!” lo schernì il padrone di casa.
“Ma no, che
dici!”.
“Non so dove sia
Lilith…e non mi interessa” sbottò
Luciherus.
“Ma come?” si
stupì Mihael.
“Credimi…una
donna del genere è meglio non averla fra i
piedi”.
Raven si accigliò. Lei e
Lilith erano molto amiche e non gli
piaceva che se ne parlasse male. “Perché non sei
sposato, fratellino?”.
“Ma che razza di domanda
è, Mihael? E tu, perché non sei
sposato?”.
“Perché fino a
pochissimo tempo fa ero asessuato!”
“Bene. Ora non lo sei.
Fatti gli affari tuoi!”.
“La tua è una
domanda stupida, Miky!” s’intromise Gibrihel
“È ovvio che tuo fratello non è
sposato. I demoni non amano”.
Luciherus mosse la bocca, con uno
strano tick isterico,
stanco di sentirsi ripetere quella frase: “Lo
vedremo!” ringhiò “Vedremo che
combinerete voi due, ora che siete qui! E poi io…io so
amare!”.
Aprì ed
ingrandì le ali da Arcangelo, cambiando aspetto:
“Io
sono un demone, ed odio come un demone, ma anche come un Arcangelo e un
Dio. Io
sono un Dio, e comando come un Dio ma anche come un Arcangelo ed un
demone. Io
sono un Arcangelo, e amo come un Arcangelo ma anche come un
Dio…o un demone!”.
Mihael giunse alla conclusione che il
fratello aveva dei
problemi seri, mentali e fisici, ma non approfondì. Si
chiese da cosa fosse
dovuto l’effetto, molto cinematografico, del vento che,
entrando nella stanza,
muoveva i capelli del fratello e li faceva risplendere con luci argentee simili a
stelle.
“Ma
allora…” parlò
“…se ami come gli Arcangeli, perché sei
solo come un demone? Aspetti che una creatura sia creata per te, usando
una tua
costola?”.
“Le mie costole stanno bene
dove stanno!” sbottò il
Principe, tornando al suo aspetto demoniaco “E smettila di
dire fesserie!
Riposati, Mihael. Ora che Asmodai ha…cambiato sponda, mi sa
tanto che toccherà
prendere te come capo dei miei
eserciti”.
“Evviva! Mihael
regna!” esultò il fratello.
“E
tu…Gibrihel…che ruolo vorresti avere?”.
“A me va bene tutto. Basta
che non abbia niente a che vedere
con i fiori!”.
Luciherus sorrise, uscendo dalla
stanza e dando ordini ai
presenti di portare ai due nuovi caduti degli abiti più
consoni, dato che
indossavano ancora le tuniche da angeli, piene di strappi e bruciature.
Dopo poche settimane, sia Gibrihel
che Mihael si sentivano a
loro agio nel nuovo Mondo. Girellavano per le vie del palazzo
principesco,
salutando tutti come se li conoscessero da sempre. Si erano abituati
facilmente
alla nuova condizione. I loro occhi si erano adattati alla
diversità di luce e
non erano più enormi e lucenti. Le loro orecchie si erano
fatte appuntite e
pronte ad udire ogni suono. Portavano entrambi un cappotto lungo e
nero, in
pelle, con le borchie che tintinnavano ad ogni passo. Gibrihel era
vestito
interamente con quel colore e con quello stile. Questo lo faceva
sembrare ancora
più magro ed alto. Mihael si era fatto portare un paio di
pantaloni arancione,
per ricollegarsi al suo elemento di fuoco, diceva. Si era molto
affezionato ad
una serie di magliette scure con delle stampe riguardanti gruppi
musicali ai
più sconosciuti. Nemmeno Luciherus sapeva chi fossero, ma
non voleva indagare
più di tanto. Mihael lo prese alle spalle mentre questi
guardava dalla finestra
e gli tirò la coda, mentre Gibrihel si allontanò
temporaneamente, distratto da
un gioco di carte fra due demoni lungo il corridoio. Il Principe
ringhiò,
sommessamente, ruotando gli occhi verso il cielo e chiedendosi se non
fosse già
stato sufficientemente punito. Mosse le orecchie a punta, facendo
tintinnare
gli orecchini.
“Ciao,
fratellino!” lo salutò Mihael, facendogli le
corna.
Il capo dei demoni girò
solo leggermente la testa, tenendo
la sigaretta in diagonale nella bocca e le braccia incrociate:
“Potrei
offendermi…e dovresti offenderti anche tu,
cornuto!”.
“Guarda che questo gesto
significa pace ed amore, fratello!”.
“E ti sembra un gesto da
fare a me?!” inveì Luciherus.
Aveva anche lui il cappotto lungo,
nero e in pelle, con un
buco per la coda ed uno per le ali.
“Che cosa ti succede,
Lucino?”.
“Piantala di chiamarmi
Lucino! Mi irrita profondamente la
cosa! E, comunque, non ho niente”. “No, no.
Bugiardo! Io lo vedo subito sai?!
Siamo gemelli e io vedo che tu hai qualcosa che non và.
Anzi…hai molto che non
và!”.
“Che ti
importa?!” rispose il capo, guardando le nuvole.
“Ma come? Siamo o no
gemelli? Ed ora siamo anche della
stessa specie! E ricorda che fumare fa male”.
“Anche infastidirmi
può fare molto male…”.
“Cosa ti
preoccupa?”.
“Presto ci sarà
la guerra…”.
“Saremo pronti! E presto
sarà anche pronta la mia nuova
armatura!” disse, pieno di entusiasmo, Mihael.
“Voi…combatterete
per i demoni?” si stupì il Principe.
“Ovvio! Sono un demone ora.
E sono state le creature
demoniache ad aiutare me e Gibrihel, non di certo gli
angeli!”.
“Non disprezzare il Mondo
in cui vivevi fino a pochissimo
tempo fa…”.
“Come sei filosofico,
fratellino. Si vede che sei un Dio.
Hai nostalgia dei piumati?”.
“Di essere il loro servo?
No. Sono ben altri i miei
pensieri”.
“Parlamene”.
“No! Vai a farti un giro,
straccia anime! Non hai di meglio
da fare?”.
“Ho saputo che Luciheday si
è sposata, cambiando argomento”.
“Possiamo cambiare ancora
argomento? Sì, si è sposata. Ha
fatto anche questa cazzata…”.
“E tu eri presente alla
cerimonia…spero”.
“Sì, certo.
Però lei voleva la madre…che non si è
vista. Ma
che vuoi farci…immagino abbia degli impegni più
seri un Alto”.
Mihael annuì, facendo
finta di ascoltarlo: “Sai,
fratellino…la tua gente mi chiama Principe!”.
“Sei mio fratello. Cosa ti
aspettavi?”.
“Mi fa molto piacere. E sto
anche imparando in fretta la
lingua. È molto più semplice di quella degli
Angeli”.
“Non è quella
dei Demoni più semplice…è quella degli
Angeli
che è un casino!” sbottò Luciherus,
gettando dalla finestra il mozzicone che
teneva fra i denti.
“Io,
Principe…che bellezza!”.
“Ti aspettavi un
trattamento diverso? Se mi dovesse capitare
qualcosa in battaglia…loro seguirebbero i tuoi
ordini”.
“Ma perché
dovrebbe capitarti qualcosa in battaglia? Sei un
guerriero! Non ti capiterà niente! E smettila di fare il
negativo! Sei il capo
del grande impero dei Demoni! Sei il Dio della Forza e del Coraggio,
non delle
Lagne e dei Depressi!”.
“Facevo per
dire…” mormorò il Principe, con aria
afflitta ed
annoiata “…ad ogni modo, godetevi questi giorni
prima della battaglia”.
“Parli come se stessimo per
morire tutti!” ridacchiò Gibrihel,
raggiungendo i due.
Luciherus non parlò.
Sospirò.
“Noi andiamo a bere
qualcosa insieme. Vieni con noi, Lu?”.
“No. Andate
pure”.
“Sai che è
proprio divertente fare il demone?”.
“Divertente?!”.
Il capo dei Demoni mai si sarebbe
aspettato di sentirsi dire
una cosa del genere. Gibrihel lanciò un’occhiata
ad una demoniessa che passava
per il corridoio e sorrise.
“Attento, Gibrihel. Alcune
di loro sono un po’…particolari”.
“Ti mangiano dopo
l’accoppiamento?” domandò, divertito.
“Può
darsi…” ghignò il Principe, non
riuscendo a trattenere
una risatina stupida. “Interessante…andiamo
Mihael!”.
I due nuovi caduti si allontanarono,
lasciando Luciherus ai
suoi pensieri ed ai suoi problemi. Il Principe si graffiò il
petto, scoperto,
avvertendo un’altra fitta del suo malessere
d’amore.
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Capitolo 30 *** XXX- feste ***
XXX
FESTE
Un Dio, euforico e di splendido
umore, lanciava coriandoli
luccicanti per l’immenso salone dove rimbombava una musica
incessante e molto
potente, assordante. Era vestito davvero in modo assurdo, in un
miscuglio di
colori terrificante. Aveva pensato lui agli addobbi della sala ed ora
si stava
sbizzarrendo, tentando di addobbare anche tutti i presenti.
Kavahel si fece largo fra la folla di
divinità ed andò
accanto al padre: “Papà…chi
è quello?” chiese.
“Quello che fa casino?
È il Dio delle Celebrazioni. È un
tipo decisamente eccentrico e bislacco. Ricorda tutte le ricorrenze, i
compleanni, gli anniversari, le feste…”.
“Forte! Non gli serve un
calendario!”.
“Già. Peccato che noi
ci dimentichiamo sempre di lui!”.
“Che
bastardi…” rise Kavahel, allontanandosi dai
parenti e
prendendo da bere.
Era un grande party riservato alle
divinità.
“Domani saremo alla
guerra!” urlò la Dea del Kaos, saltando
sul tavolo in evidente stato di alterazione da alcol
“Perciò divertitevi!
Facciamo casino!”.
Vereheveil alzò un boccale
ricolmo verso di lei e tutti i
presenti ripeterono il gesto, urlando
“Sì!” con foga.
Perfino il Dio del Tempo, di solito
calmo e tranquillo,
correva di qua e di là euforico.
Luciherus era a disagio. Si sentiva
inadeguato. Tutti gli
Dèi erano vestiti in modo meraviglioso e parlavano fra loro.
Lui invece era
solo e, anche se elegante, non poteva competere con le loro vesti
elaborate.
Sua figlia se ne stava con il
marito e
con altri, ignorandolo. Raggomitolato sulla cima di un alto sgabello,
il
Principe ordinò da bere. Il Dio delle Celebrazioni gli si
sedette accanto,
tirandogli coriandoli.
“Cos’è
quel muso lungo? Sorridi, nuovo Dio, che la vita è
breve!”.
Accompagnò queste parole
con altri coriandoli e con il suono
della sua trombetta nelle orecchie del demone.
“Sparisci!”
protestò Luciherus, irritato “Mangiateli i tuoi
coriandoli!”.
“Quanto sei
antipatico!” ridacchiò l’altro,
facendogli
passare una stella filante fra le corna.
Poi si allontanò, potendo
vedere le fiamme negli occhi del
Dio della Forza, che incenerì le stelle filanti. Corse via,
cantando, ma non
nascondendo un certo timore. Arrivò l’ordinazione
della nuova divinità. Stava
per portarsi il liquore alle labbra quando la Dea della Primavera lo
afferrò
per le maniche ed iniziò a trascinarlo.
“Come sei
conciato!” lo derise.
Lo portò in una stanzetta
appartata e lo fissò per bene.
“Ci conosciamo,
signorina?!” disse, leggermente scocciato,
il demone.
Lei non gli rispose e gli
girò attorno.
“Posso fare qualcosa per
lei, madama?” continuò il Principe.
La Dea lo squadrò, con la
mano sul mento: “Spogliati!”
affermò, con sicurezza.
“Come? Non crede di essere
un po’ precipitosa? Intendo…non
ci conosciamo e…”.
“Ma a cosa stai pensando?
Dai, avanti. Tira via quella cosa
imbarazzante che tu chiami abito!”. Luciherus si
accigliò. Amava quel suo
completo nero e sembrava molto elegante, se non era posto in paragone a
ciò che
indossavano le divinità. Entrò un uomo, il Dio
dell’Estate, e guardò entrambi.
“Hei! Un momento!
Parliamone se volete una cosa a tre!”
protestò il Principe.
“Ma che stai dicendo,
imbecille?” sbuffò, divertito, il Dio
dell’Estate.
Era una divinità
più grossa ed in carne rispetto al demone,
che mosse la coda, nervoso.
“Che colore
preferisci?” parlò l’Estate.
“Per cosa?”
borbottò Luciherus, scorgendo uno specchio
dietro di sé.
“Non fa niente. Chiudi gli
occhi” gli ordinò il Dio.
“Sentite…”
parlò il Principe, per niente tranquillo
“…a me
non piacciono questi giochetti!”. “Chiudi gli
occhi!” ripeté lei, convinta.
Il Dio della Forza sospirò
e chiuse gli occhi, rassegnato.
“…1…2…3…!”
contò la Primavera e poi invitò Luciherus a
guardarsi, dopo aver schioccato le dita. Nello specchio lui si vide
riflesso,
con una veste splendida, nera e rosso cupo. Aveva un ampio colletto
traforato,
i guanti in velluto e delle catene in argento. Sorrise, compiaciuto, al
tintinnare dei catenacci ad ogni suo movimento.
“Guarda come si trova
bello…narciso!” sorrise la Primavera,
soddisfatta del lavoro suo e del Dio dell’Estate.
“Grazie…”
disse Luciherus, facendo un giro su se stesso,
facendo svolazzare il mantello pieno di dettagli luccicanti e draghi.
Legò i capelli, notando
quanto le maniche della veste
fossero ampie e decorate. Sul suo capo campeggiavano enormi piume di
varie
sfumature, che si allungavano in orizzontale per uno spazio notevole.
Uscì
dallo stanzino raggiante. Il Dio delle Celebrazioni, vedendo questo,
tornò ad
andargli vicino tirandogli lustrini. Al demone caddero le braccia ma
tentò di
sopportare. Si riaccostò al bancone dei liquori e ne
offrì uno a Vereheveil.
“Domani potremmo morire
tutti perciò…tregua?” propose.
Il Dio delle Letterature sorrise ed
accettò. “Certo che…”
commentò, fra un sorso ed un altro
“…è da idioti ubriacarsi alla vigilia
di una
battaglia”.
“Lo so. Ma è una
tradizione”.
“Che tradizione
stupida”.
“Tutte le tradizioni sono
stupide!”.
“Già!”.
Fecero un brindisi.
Vereheveil portava un abito verde,
con dettagli arancione. I
capelli li aveva raccolti in una treccia e aveva gli occhiali, piccoli
e
rettangolari.
“Sei molto elegante
oggi” ammise il Dio delle Letterature.
“Anche tu”
rispose Luciherus.
Alzarono gli occhi verso due gabbie,
sospese a mezz’aria,
dove ballavano due creature, un maschio ed una femmina, in abiti
succinti e
pieni di lustrini.
“Questa festa è
favolosa!” urlò Kavahel, gettandosi in un
gruppo di giovani Dee che lo aspettavano. Disse che era per educazione
che non
le faceva aspettare. Krì stava in un angolo, suonando,
attorniando da diverse
Dee che lo ammiravano, incantate. Vereheveil allungò il
boccale verso di lui,
in segno di saluto, e l’Alto fece un cenno con il capo,
continuando a suonare
il flauto. La sua luce era la più forte della sala. La Dea
della Musica salì
sul piccolo palco e prese il microfono. “Dai,
ragazzi!” urlò
“Scateniamoci!”. Nell’aria
si diffuse una musica roboante e ritmata, che fece venir voglia di
ballare a
molte divinità.
“Sarmorghell…”
notò il Dio delle Letterature.
“Già.
C’è anche Shekinah” continuò
Luciherus.
“Non dovresti stare qui. Io
dovrei ballare con mia
moglie ma tu…dai, và da lei!”.
“Non credo sia il
caso…”.
Shekinah e Sarmorghell danzavano, in
perfetta sintonia.
Pareva che, con i
loro passi, facessero
muovere tutti gli altri. Sarmorghell era vestito in stile egizio,
ballava
sorridendo alla sorella, che lo teneva stretto e si faceva condurre.
Shekinah
fece segno a Luciherus di venire in pista e ballare. Era vestita in
rosso ed in
modo elegante, con una scollatura provocante. Kavahel salì
sul palco ed iniziò
a cantare, duettando con i
suoi
fratelli.
“Sei ubriaco!” lo
derise la Dea del Kaos e lui non negò.
Shekinah si staccò dal
fratello ed andò verso Luciherus, che
le offrì da bere.
“No, grazie. Le emanazioni
non bevono!” disse lei.
Lui non disse nulla e non oppose
resistenza, mentre lei lo
conduceva al centro della pista.
Le ali dorate d’Arcangelo e
quelle di demone erano entrambe
visibili sulla schiena del Principe. “Sei bellissima,
Shekinah” sussurrò.
“Anche tu. Ma oggi io sono
Kasday…”.
“Kasday…perché
ci sono le tue emanazioni?”.
“Non parlare. Non chiedere.
Balla”.
La musica si fece più
dolce e le luci soffuse e delicate.
“Hai le stelle fra i
capelli”.
“Anche tu”.
Luciherus e Shekinah continuarono a
ballare, in silenzio.
“Sei
bravo…” sorrise lei, dopo un po’.
“Queste canzoni sono dei
classici, robe dei miei tempi!” si
schernì il demone.
L’emanazione gli
appoggiò la testa sulla spalla.
“Sei triste?”
domandò lui.
“Un
po’” ammise lei.
“Come mai?”.
“Per colpa tua”.
“Mia?!”.
“Non voglio parlarne.
Tienimi compagnia per oggi, ok?”.
“Come
preferisci…”.
Molte divinità si
chiedevano chi fosse quella donna. Era una
festa riservata alle divinità…ma lei e quel
giovane dai capelli neri chi erano?
Sarmorghell fece segno alla sorella
che se ne andava.
“Tu resta pure, se
vuoi” le disse.
Lei sorrise e strinse più
forte il demone. Stavano
abbracciati e Luciherus sentì che lei versava calde lacrime
sulla sua spalla.
“Piangi?!”
chiese, allarmato “Principessa…non piangere! Cosa
ti rende triste?”.
“Non è colpa
mia! Ma se Kasday piange, anche io piango”.
“Oh,
piccina…” la strinse più forte, sapendo
di portare
conforto anche a Kasday, pur non conoscendo il motivo del suo pianto
“Vieni.
Andiamo a fare un giro fuori” la invitò,
prendendola per mano.
Assieme uscirono, alla luce delle
stelle, allontanandosi
dalla festa. Camminarono, soli, fra i boschi. Krì,
anch’egli stufo del ritmo
sempre più incessante della musica, uscì sul
terrazzino e ricominciò a suonare.
Subito tante Dee vennero ad ascoltarlo. Abbassando lo sguardo verso il
cortile
vide la sua messaggera, Kiaritanya, che lo fissava con aria di
rimprovero.
“Non fate troppo lo
stupido” gli disse, come
raccomandazione.
Krì sorrise e
continuò a suonare. Il Dio della Paura e dei
Sogni camminava fra la gente, ad occhi socchiusi. Non li aveva serrati
come al
solito perché, nonostante la festa, si poteva chiaramente
percepire una certa
tensione nell’aria.
“Vereheveil…”
domandò, parlando nella mente del Dio delle
Letterature “…dov’è il Dio
della Forza e del Coraggio? Avrei il desiderio di
parlargli…”.
Non potendo emettere suoni,
comunicava solo attraverso il
potere della sua mente.
“Non lo so”
rispose il Dio dalle ali d’angelo “L’ho
visto al
centro della pista ma ora non saprei”.
“É
uscito” gli disse la Dea della Guerra.
“Con lei”
concluse il Dio del Destino.
“Con lei?” si
stupì Vereheveil.
Ormai la notte non si sarebbe
protratta troppo a lungo. Tutte
le divinità si sentivano sempre più nervose e si
fecero vicine. Fusero le loro
luci e le loro voci in un canto comune: una preghiera e una forma di
sostegno,
per aiutarsi a vicenda. Tutti guardarono verso l’alto, dove
il soffitto era
trasparente e permetteva di vedere le stelle.
“Vorrei che questa notte
non finisse mai. Vorrei che questa
festa durasse per sempre. Vorrei che questa battaglia mai fosse
combattuta.
Vorrei che questo clima di pace e fratellanza non si estinguesse, per
l’eternità” pregava Vereheveil.
Dalla finestra poteva scorgere, in
lontananza, il Tempio di
Kasday. Sospirò, vedendo scendere lievi gocce di pioggia. Il
Dio delle
Celebrazioni, per rompere il silenzio e la tristezza della preghiera,
riprese a
lanciare lustrini colorati e coriandoli, ridendo e cantando. Il Dio
della Paura
chiuse gli occhi, lasciando che tutti si rilassassero ancora un
po’, stupendosi
del fatto che nessuno volesse mettere le mani addosso a quella stramba
divinità
festante per porre fine alla sua vita.
“Vieni
amore…” chiamò la Dea della Parola,
porgendo il braccio
al Dio delle Letterature “Balla con me” lo
invitò.
Vereheveil le sorrise, baciandole la
mano. Lanciò un ultimo
sguardo alle stelle ed al bosco.
Sapeva che, là fuori,
qualcuno stava dando amore alla
creatura che lui tanto a lungo aveva amato.
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Capitolo 31 *** XXXI- verità svelate ***
XXXI
VERITÁ
SVELATE
L’Alba. Pur controvoglia e
con i postumi di una sbornia, il
Dio del Sole aveva fatto sorgere l’astro del mattino con
puntualità. Gli altri
Dèi lo videro e calò il silenzio. La festa era
finita, Momoia li aspettava. Si
riunirono in un blocco compatto, incoraggiandosi a vicenda ed
attendendo
l’arrivo della Madre degli Alti. Kavahel fu uno degli ultimi
a sopraggiungere e
si sentì chiamare. Si voltò, ma la persona che
aveva di fronte non la
conosceva.
“Kavahel…posso
parlarti un attimo?”.
Il giovane Dio
dell’Equilibrio si distaccò dal gruppo. Solo
allora notò la luce azzurra emessa da lei. “Tu sei
una Celeste! Dovrei
ucciderti all’istante!”.
“Io sono Deyan.
Sì, sono una Celeste e sono qui per parlarti
di Kasday. È uno dei tuoi genitori, giusto?”.
“Sì. Dimmi
ciò che hai da dirmi e vattene, prima che Momoia
ti veda”.
“Vuole morire”.
“Cosa?!”.
“Vuole uccidersi e per
farlo ha deciso di eliminare la
Madre, in modo da non poter rinascere. È lui che sta
eliminando tutti gli Alti
e i Celesti”.
“Non dire fesserie.
Perché perdo tempo ad ascoltarti? È
evidente che stai delirando”.
“Io volevo solo
avvertirti”.
“Sparisci dalla mia vista.
È un trucco. Perché mai saresti
dovuta giungere fino a qui per avvisarmi, rischiando la
vita?”.
“Sei come mia figlia. Sei
nata per restare, anche quando
tutti gli Universi scompariranno. Qualunque cosa accada…tu resterai.
Addio”.
Deyan scomparve, in una nuvola di
stelle lucenti, lasciando
Kavahel parecchio confuso. Lui si ricompose, tentando di non pensare
alle
parole del nemico, e si riunì al gruppo di
divinità.
La Madre era arrivata e si chiedeva
dove fosse il suo
generale. La Dea delle Armi distribuiva il necessario per la battaglia
fra le
truppe.
“Dov’è
il mio generale?” sbottò Momoia “E la
Dea del Kaos?”.
“Arriveranno tutti a
momenti, Madre Momoia” la rassicurò
Vereheveil, guardandosi attorno in cerca della figlia.
Luciherus guardava il cielo, steso a
terra con le mani
dietro la testa e mangiucchiando una spiga. “Quando farai la
tua mossa?”
mugugnò.
Era da solo, Shekinah era scomparsa e
lui osservava le
nuvole, pensieroso.
“Oh, eccoti qui! Cosa fai,
solo soletto?” ridacchiò la Dea
del Kaos, spuntando da dietro un albero. “E tu?”
rispose Luciherus, senza
guardarla.
“Io ti cercavo”.
Il Principe sospirò,
sentendosi chiamare da Momoia.
“Non vuoi combattere,
zio?” si stupì Skrich.
“Perché, tu
sì?”.
“Io…credo che
possa essere un’attività interessante”.
“Non hai mai visto una vera
guerra. Questa è stata un’Era di
pace”.
“Credo che, per me che sono
il Kaos, possa essere davvero
stimolante. Non credi che lo sia?”.
“No. Se non sai bene da che
parte stare”.
Il demone sospirò di
nuovo, prima di continuare: “Aveva
ragione Vereheveil: io sono sempre dalla parte sbagliata”.
“Non fare il musone!
Avanti…alzati! Momoia ti aspetta”.
Il Dio della Forza si
alzò, controvoglia, e si avviò sulla
cima della montagna, dove si radunavano gli eserciti. Le
divinità delle
stagioni stavano cambiando gli abiti dei presenti, avvolgendoli in luci
colorate, per renderli più adatti agli scontri. Luciherus
non volle qualcosa di
particolare. Voleva il suo cappotto, quello nero e lungo, e gli stivali
che
rendevano i suoi calci più dolorosi.
Krì avanzava fra la folla
con la sua cavalcatura e la
Messaggera appresso. Gli Dèi erano pronti ed in lontananza
si potevano scorgere
gli eserciti degli Angeli e dei Demoni che sopraggiungevano. Erano le
uniche
creature in grado di passare da un Mondo all’altro e le
più adatte a
combattere.
Asmodai, capo delle truppe angeliche,
si stava ancora
abituando alle sue ali piumate. I suoi occhi erano di nuovo blu e
grandi,
mentre la pelle abbronzata risaltava con l’abito bianco.
Incrociò lo sguardo di
colui che un tempo era stato il suo capo e lo salutò, con un
cenno.
Luciherus rispose al saluto,
sorridendo.
Dall’altro schieramento,
quello demoniaco, si alzò un grido:
“Sì! Yeah! Siamo i migliori!”.
Mihael, in groppa ad un enorme drago
verde, mostrava tutto
il suo entusiasmo. La sua armatura nuova brillava alla luce del sole e
la spada
che teneva fra le mani era enorme e nera. Guidava l’esercito
dei demoni con
enfasi ed energia. Luciherus scosse la testa, sempre più
convinto che il
fratello avesse battuto forte la testa nella caduta. Mihael
indossò l’elmo con
il pennacchio e lanciò altre grida.
“Due
principi…” sussurrò Krì,
rivolto a Momoia che le stava
accanto.
La Madre non rispose e lo
guardò male, infastidita.
“Luciherus!”
ordinò la Madre “Fai quel che devi”.
Il Principe espanse la propria luce,
mostrando il suo
aspetto da Dio. Tutti coloro che furono avvolti dalla luce si sentirono
pieni
di coraggio, forza ed energia. Si levarono numerosi gridi di sfida e
rabbia:
erano pronti.
Vereheveil sguainò la
spada, con foga: “Andiamo!” urlò.
“Dov’è
Kasday?” sibilò Momoia, rivolta a Krì.
“Non saprei”
ammise lui “Dovrebbe essere qui, oppure
giungere a momenti. Ma non so se ha una gran voglia di
combattere”.
“Cosa vuoi che me ne freghi
se non vuole combattere?! Veda
di muoversi, se non vuole che gli strappi tutti gli arti riducendolo in
un
verme che si dimena”.
Krì cercò di
immaginarselo e sorrise. Un mormorio si levò fra
i presenti: Kasday si stava avvicinando. Camminava lentamente, avvolto
in un
lungo mantello che lo copriva, lasciando scoperto solo la
metà superiore del
suo viso.
“Era ora!”
sibilò Momoia, guardandolo accigliata.
Kasday si limitò ad
inclinare leggermente il capo di lato.
Nosmagiés si unì all’esercito degli
Angeli, armato ma poco convinto. Molti
chiamarono l’Alto per nome, riconoscendolo e rivedendolo dopo
tanto tempo.
Erezehimsay, Skrich, Kavahel, la Guerra, il Destino, Vereheveil... Lo
guardavano, cercando di avvicinarsi, ma lui li squadrò,
manifestando tutto il
suo fastidio. Aprì il mantello, mostrando il proprio aspetto
più terribile, e
li fece indietreggiare. Spalancò le ali, con una smorfia, e
rimase sospeso a
mezz’aria, accanto a Momoia. La Madre aprì un
immenso portale, che mostrò
l’esercito dei Celesti. Anche loro erano pronti alla guerra e
scrutavano il
nemico.
“Miei soldati!”
urlò Luciherus.
“Miei fedeli!”
tuonò Momoia.
“Ecco il vostro
nemico!” esclamarono assieme.
Dall’altro lato si
sentì pronunciare un discorso simile.
Tutti ringhiarono ed urlarono con ferocia. Mihael, alzandosi sul drago,
diede
ordine ai demoni di muoversi. Asmodai seguì il suo esempio.
“Fratellino!”
gridò Mihael, rivolto a Luciherus “Ti
dispiace? Ti dispiace se guido io il tuo popolo?”.
“Fai pure, Principe” rispose
lui, alzando le spalle.
Ognuno dei presenti
individuò il proprio avversario. Ogni
appartenente agli Universi degli Alti vide il suo corrispondente nel
Regno dei
Celesti.
“Muovetevi!”
urlò Momoia, vedendoli titubanti
“Avanti!”
ordinò.
E la battaglia iniziò.
“Kasday,
Krì…” parlò la Madre
“…attaccate il Padre dei
Celesti, distruggete il loro capo. Con questo i mortali si
disperderanno”.
“Bene” rispose
Krì, muovendosi velocemente nell’aria, mentre
la sua Messaggera si univa all’esercito degli angeli.
L’Alto si sentiva sollevato
all’idea di non dover attaccare
suo fratello. Si concentrò sulla Madre dei Celesti. Anche
loro dovevano aver
ricevuto lo stesso ordine, perché Momoia si
ritrovò sotto attacco.
Kasday individuò la sua
controparte, Deyan, e vide che non
lo attaccava, come si era aspettato, ma eseguiva gli ordini. Si
sentì sollevato
e se la prese comoda, lasciò che Krì scagliasse
le sue frecce contro il Padre
Celeste. Doveva attendere che tutti i suoi avversari si stancassero.
Urihel era avvolto in un turbine
d’aria ed affrontava, a
fulmini e colpi di vento, la Dea Celeste del Cielo, una ex demoniessa,
però non
riuscivano a prevalere l’uno sull’altro. Luciherus,
circondato dalle fiamme, si
scontrava con la
Dea Celeste della Forza
e del Coraggio, la Principessa del Mondo Celeste degli Angeli.
Momoia, capendo le intenzioni di
Deyan, la anticipò e la
colpì, violentemente. La Celeste cadde in terra, sopraffatta
dalla forza della
Madre. Sentì il veleno che le aveva iniettato entrarle nella
circolazione della
magia e gemette. Kasday, seguendo tutta la scena, scese in terra,
andando
accanto a Deyan.
“Cosa fai?”
esclamò Momoia, con disapprovazione e fastidio.
“Deyan!”
chiamò Kasday “Deyan…vuoi che ti
salvi?”.
“Come?”
mormorò lei, confusa.
“Vuoi che ti salvi? Per
curare il veleno devo renderti
mortale. Devo far tornare sangue la tua magia e questo ti
renderà mortale. Vuoi
che ti salvi?”.
Lei non capiva perché
l’Alto la volesse aiutare. Pensò per
qualche secondo e poi annuì.
“Salvami. Salvami Kasday
ma…pensa alla mia bambina, quando
la mia breve vita mortale sarà terminata”.
“Non te lo posso promettere
ma…tranquilla, andrà tutto
bene”.
Kasday le toccò la ferita,
con la mano di vetro che cambiò
gradatamente colore, come quando un liquido scuro viene versato in
acqua,
diventando nero. Deyan urlò dalla paura, con la magia che la
abbandonava. Momoia
urlò dalla rabbia, furiosa per il gesto del suo sottoposto.
Kasday urlò di
dolore, assorbendo il veleno. Luciherus rimase confuso da quel gesto e
da tutto
quell’urlare e Kavahel gli andò vicino.
“Zio! Zio
Luciherus!” chiamò il giovane Equilibrio.
“Non sono tuo
zio!”.
“Quello che sei! Quella
donna…quella che ora è stata curata,
mi ha detto che Kasday…vuole uccidere Momoia. Credi che sia
attendibile come
fonte?”.
“Sta tranquillo. E pensa a
combattere” sbottò il Principe,
allontanandosi.
“Perché
l’hai salvata?” sibilò Momoia, rivolta a
Kasday.
“Ora è
mortale” rispose lui “Non può
più nuocerti in alcun
modo”.
“Doveva morire!”.
“Lo so. Ma ora non
è più necessario”.
Il Padre dei Celesti non sapeva come
reagire. Era fermo,
immobile, a metà del cielo. Krì non lo attaccava,
dato che lui non si muoveva. Era
confuso. Kasday, ora, come poteva considerarlo? Un nemico,
perché Alto, o un
amico perché salvatore di una Celeste?
Kasday, approfittando della sua
distrazione, tolse ogni
dubbio. Scattò, senza preavviso e lasciando tutti sconvolti,
colpendolo.
Trapassò il suo oblò e lo uccise. Momoia lo
guardò, orgogliosa, e si congratulò
con lui assieme ad un ampio sorriso di compiacimento. Ma poi la sua
espressione
mutò, vedendo come Kasday si stava occupando del cadavere.
Luciherus dovette
espandere e concentrare molte delle sue energie per non far cadere
tutti nel
panico alla scena di Kasday che si mangiava il Padre dei Celesti.
“Così la sua
essenza non potrà rinascere…l’hai
distrutta
completamente” mormorò Momoia
“Così…come sapevi
che…ma…sei stato tu?”
cominciò
a capire lei.
“Sì”
si limitò a rispondere l’Alto.
“Hai ucciso tu anche tutti
gli altri?”.
“Sì”.
“Alti e
Celesti?”.
“Sì”.
“Sono tutti
morti…quelli che mancano?”.
“Sì”.
“Hai ucciso mio
marito?”.
“Sì”.
“Hai
ucciso…tutti i miei figli?”.
“Sì”.
“Li hai
mangiati?”.
“Sì”.
Kasday aveva un tono di voce
tranquillo e rilassato.
“Tutti i miei
figli…” gemette Momoia.
“Ora sai cosa si
prova” sibilò lui.
Il fratello di Krì era
immobile, sicuro di dover morire.
Tutti gli altri erano confusi.
“Che succede?”
chiese più di qualcuno.
“Tutti i miei
figli…”.
“Ora sai cosa si
prova…” ripeté Kasday, lentamente ed a
bassa voce “Ora sai cosa si prova!”
urlò, mutando il viso e la voce, divenendo
minaccioso e spaventoso.
Si lanciò contro Momoia.
Tutti gli eserciti, Celesti ed
Alti, lanciarono grida e suppliche.
“Zio! Cosa
facciamo?!” si allarmò Kavahel ma Luciherus non
gli rispose.
Rimase fermo a mezz’aria,
osservando la scena. Nessuno
sapeva che fare mentre i due Alti si battevano. Kasday, urlando di
dolore,
tolse tutti gli spuntoni che la Madre gli aveva conficcato nella
schiena, che
gli impedivano i movimenti ed inibivano la magia.
“Zio! Non possiamo restare
qui fermi!” sbottò Kavahel.
“Non è compito
mio, ragazzo” affermò Luciherus, con
convinzione.
Il giovane Equilibrio decise di
intervenire. Prese il suo
arco ed iniziò a colpire Kasday da lontano. “Ma
che cosa fai?” si allarmò il
Dio della Forza e del Coraggio.
“Se Momoia muore, finisce
il Mondo! La sua fine determinerà
il collasso di tutti gli Universi!”.
Il Principe gli afferrò le
braccia: “Fermati! Mi ha
assicurato che questo non avverrà! I Mondi continueranno ad
esistere!”.
Kavahel si dimenò e si
liberò: “TU lo sapevi?! TU sapevi
tutto, eri a conoscenza delle sue intenzioni e non hai fatto o detto
niente?!
Sei un idiota!” gridò il nuovo Equilibrio.
“Ragazzino…”.
“Ah, no! Non iniziare! Io
lo devo fermare. Se hai voglia di
star lì immobile, fai pure. Puoi anche morire, per quel che
mi riguarda!”.
Si udì il rumore di vetri
rotti.
“Anche se gli Universi non
finissero per la loro morte…ormai
Kasday è completamente fuori controllo” gli fece
notare il Principe,
stranamente tranquillo.
“Ci ucciderà
tutti…” gemette qualcuno.
Kasday aveva fauci spalancate ed odio
negli occhi. Momoia
non parlava. L’Alto, ridendo ed ansimando, iniziò
a mangiarla, pezzo dopo
pezzo. Kavahel tentò invano di fermarlo mentre
Krì e il fratello erano uno
accanto all’altro, senza sapere in che modo reagire. Poi si
udì un altro rumore
di vetri rotti; il giovane Equilibrio era riuscito a colpire
l’oblò di Kasday.
“Bravo, ragazzo”
commentò Krì “Hai seguito e messo in
pratica ciò che ti ho insegnato”.
Subito sotto l’Alto si
formò un vortice che lo risucchiò,
assieme a ciò che restava di Momoia. Luciherus, allarmato,
decise di seguirlo.
Si attaccò ad una delle sette braccia di Kasday, anche se
questi cercò di staccarlo
in ogni modo. Nosmagiés, pur capendo il pericolo,
seguì il suo padrone verso
l’ignoto. Il vortice li risucchiò velocemente e
l’angelo urlò di terrore fino a
quando non si schiantarono, tutti e tre, in terra.
Quelli rimasti all’esterno
dell’improvviso evento non
sapevano cosa pensare. Cosa era successo a quei tre? Erano morti? Dove
erano
andati? Agli Universi cosa sarebbe capitato?
Quello che capirono subito fu che era
inutile combattere: nessuno
lottava più.
Mihael e Gibrihel, entrambi in
armatura, strinsero la mano
dei capi degli Angeli ed ai Demoni Celesti. Le Divinità
della Pace irradiarono
luce, tutti deposero le armi. Si erano come risvegliati da uno stato di
torpore. Probabilmente gli Alti ed i Celesti li avevano indotti a
combattere.
“Perché
combattere? Non è necessario”.
La guerra finì ma nessuno
sapeva che pensare. Sapevano solo
che Madre Alta e Padre Celeste erano morti. E Kasday? Era un mostro
incontrollabile.
Si strinsero accanto a Krì
ed al fratello, cercando
consiglio e conforto, ma nemmeno loro sapevano che fare.
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Capitolo 32 *** XXXII- lasciami andare ***
XXXII
LASCIAMI
ANDARE
Momoia era dissolta, assorbita
completamente da Kasday.
L’Alto era riuscito a liberarsi dalla presa del Principe ed
ora se ne stava
accoccolato accanto ad un albero, avvolto nelle ali blu.
Nosmagiés lo vide e gli
andò vicino, chiamandolo. Luciherus,
caduto in malo modo, si scosse per riprendersi e si allarmò
sentendo le parole
dell’angelo Messaggero, che chiamava a gran voce il suo
padrone.
“Signore! Signore!
Rispondetemi!”.
“Kasday!”
chiamò anche il demone, correndo presso l’Alto
“Kasday, sei ferito? Fammi vedere…”.
Il Principe allungò una
mano verso la divinità seduta, ma
lei lo respinse, digrignando i denti con
fare minaccioso.
“Non fare i
capricci…”.
“Nosmagiés…”
mormorò Kasday, fissando il cielo.
“Sì, Signore.
Sono qui”.
“Avrai molto da fare
d’ora in poi. Krì ed il fratello
avranno bisogno di consiglio, i miei figli ed Erezehimsay, per non
parlare di
Berkana, avranno bisogno di te”.
“Voi avete bisogno di
me!”.
“Non
più”.
L’Alto spalancò
le braccia, mostrando il suo oblò trafitto e
infranto da una freccia.
“Lascia che te la
tolga” affermò Luciherus.
“Lascia che io muoia, Lucy.
È il mio desiderio”.
“Ma che dici?! Fatti
aiutare! Fa male…”.
“No, non fa male. Non la
sento questa freccia. Sento solo
freddo…”.
Il demone lo abbraccio, sapendo di
emettere un gran calore.
Rabbrividì al contatto con la pelle gelida
dell’Alto: “Non morire, Kasday.
Presto arriverà chi potrà aiutarti”.
“Nessuno può
aiutarmi. Dentro di me scorre il veleno di
Momoia” affermò, mostrando il braccio di vetro
contaminato “Morirei comunque,
freccia o non freccia. Voglio che mio figlio lo sappia”.
“Kavahel?”.
“Sì. Voglio che
sappia che sono orgoglioso di lui. È stato
molto coraggioso. Ha fatto la cosa giusta, colpendomi, ma non voglio
che si
senta in colpa. Glielo dirai?”.
“Dirgli cosa?”.
“Che non è colpa
sua se io…”.
“Se tu cosa?! Se tu niente!
Gli dirai tutto questo in
faccia, perché arriverà a momenti e tu starai
presto bene”.
Il demone espanse la sua luce il
più possibile: in questo
modo gli Dèi, i Demoni e gli Angeli lo videro.
“Sono
laggiù!” esclamò la Dea del Kaos,
indicando un punto
lontano.
Tutti si mossero per raggiungerli.
Berkana, la piccola
Celeste, era fra le braccia della mamma, triste perché
sapeva di doverla
perdere essendo divenuta mortale. Ma Krì la
rassicurò: “Ci penserò io a te
quando sarai sola. Sta tranquilla, ad ogni modo, perché la
tua mamma vivrà
ancora a lungo e poi rinascerà. Te lo prometto”.
“Non la perderò
mai?” mormorò la bambina.
“No. Ed io non ti
lascerò mai”.
Deyan si sentì molto
rincuorata da quelle parole e sorrise.
Vedendo la mamma felice, anche la bambina si rallegrò.
Luciherus guardava con rabbia Kasday:
“Tu tornerai!” gli
diceva, irritato per la sua voglia di lasciarsi morire “Tu
tornerai, perché sei
sempre tornato. Sei morto e sei tornato. Da Dio, Angelo, Demone,
creatura senza
magia…sei sempre rinato! Sei cambiato, ma sei sempre
tornato!”.
L’Alto scosse il capo:
“Non questa volta, Principe. Non
posso rinascere. La Madre, che permette a quelli della mia specie di
tornare, è
morta. Non rinascerò. Non tornerò”.
“Non ci rivedremo
più? Non tornerai mai più da me?” disse
afflitto il demone, abbassando lievemente le orecchie a punta.
“Non l’ho detto.
Non ho idea di che cosa ci sia dopo…”.
“Se non lo sai neppure
tu…” commentò Luciherus, sforzandosi
di sorridere.
Tutti gli occhi di Kasday
cominciarono a chiudersi,
gradatamente, uno dopo l’altro.
“No!”
urlò Nosmagiés, scuotendolo “No, non morire! Resta con me! Non
morire!”.
L’Alto gli sorrise, per la
prima volta sinceramente, dopo
tanto tempo.
“Sei felice?”
domandò qualcuno, fra il gruppo delle divinità
che erano giunte sul posto nel frattempo.
“Sì, lo
sono” ammise Kasday.
“Non dovresti. Dentro di te
hai tutti gli Alti ed i Celesti!
Li hai uccisi e gli hai tolto la possibilità di rinascere. A
loro non hai
pensato?”.
“Giusto”
commentò un altro “Era giusto che tu dovessi
morire. Sei egoista e senza cuore. Li hai uccisi per assecondare un tuo
desiderio e…”.
“Ma che dite?!”
tuonò Luciherus, ringhiano “Siete tutti
impazziti?! Vi sembra il modo di parlare ad una persona che muore?! E
vi sembra
il modo di parlare a colui che ha creato la maggior parte di voi ed il
pianeta
su cui poggiate i piedi?”.
“Non importa” lo
placò l’Alto, mettendogli una mano fra i
capelli.
“Non importa. Hanno
ragione. Però, hai visto…come ti
avevo promesso, gli Universi non sono
finiti!”.
Nosmagiés guardava con
odio i presenti, sibilando degli
“Ingrati” e dei “Vigliacchi”.
“Sai cosa mi
dispiace?” sussurrò ancora Kasday.
“No, non
so…” mormorò Luciherus, non sentendolo
continuare.
“Mi dispiace il fatto che,
una volta morto, non potrò
più far tornare Shekinah da te”.
“Shekinah non esiste!
Shekinah sei tu!”.
“Fa lo
stesso…”.
Chiuse gli occhi che aveva sul viso,
le antenne si piegarono
e si afflosciarono.
“Kasday? Svegliati! Sono
qui! Non andartene!” lo chiamò il
Principe, ma ormai era tardi.
L’Alto emise un potente
sospiro.
Tutti i suoi occhi si chiusero. Il
suo corpo mutò
lentamente. Gli arti si rilassarono e le stelle fra i capelli si
spensero.
Iniziò a disgregarsi, dalla punta dei piedi. Scomparve,
gradatamente, in una
polvere di luce azzurra e oro che si sparse per l’aria.
L’albero a cui stava
appoggiato fiorì di colpo, così come tutto il
prato sottostante. Un buonissimo
profumo fu percepito da tutti e migliaia di farfalle multicolore
riempirono il
cielo e scintillarono alla luce del Sole.
Nosmagiés era senza
parole. Meravigliato e stupefatto,
riconosceva in ogni farfalla una parte dell’essenza del suo
Signore. Piangeva,
in silenzio.
Vereheveil non parlò,
chiuse gli occhi e chinò il capo. Luciherus
si alzò, avvolto dai petali che, delicatamente, cadevano
dall’albero sopra di
lui. Si appoggiò al tronco, girandosi in modo da non far
vedere ai presenti che
le lacrime rigavano il suo viso.
“Fratello…”
lo chiamò Mihael.
“Papà…”
parlò Luciheday, toccando la spalla del padre con
apprensione.
La Dea della Parole abbracciava il
marito, Dio delle
Letterature, ed i figli. Kavahel avvertì una scossa di magia
che lo
attraversava: ora era lui il nuovo creatore. Quasi fu sollevato da
terra dalla
nuova energia che ora aveva in corpo. Oltre a questo, sentì
subito che avrebbe
dovuto anche affrontare il peso delle responsabilità. Ora
era il padrone degli
Universi, secondo soltanto ai pochi Alti e Celesti rimasti.
Luciherus iniziò a
cantare. Non sapeva da dove quelle parole
venissero, ma poi si accorse che il vento, le piante e gli animali
intonavano
la stessa melodia.
“Mio figlio,
mio
amore,
mio
dolore,
tieni questo momento nel cuore
perché
forse non
tornerò più.
La mia vita,
le mie gocce di sangue,
le
mie lacrime,
le
mie grida,
sono tutte state
sprecate”.
Anche Vereheveil iniziò a
cantare. A lui si unirono tutte le
divinità, gli Angeli ed i Demoni.
“Addio, mie creature,
il mio tempo è giunto.
Non stringete le vostre mani sulla
mia essenza,
che già non mi
appartiene più.
Addio, mio amore, non costringermi
qui.
Lasciami andare”.
Ora tutte le creature degli Universi
recitavano quella
nenia.
“Tutte le mie speranze
si sono perse da tempo,
nel giardino arido del mio animo.
Addio, mio fiore.
Io me ne vado”.
Kavahel guardava l’albero
fiorito, emanando scintille
magiche da ogni punto.
Vereheveil gli toccò la
spalla: “Ora sei il più forte di
tutti noi” gli disse “Ora, quando gli Universi
giungeranno al loro termine,
sarai in grado di svolgere il tuo ruolo. Sono tanto felice di avere un
figlio
come te”.
Kavahel vide le lacrime del padre:
“Papà io…mi dispiace
per…”.
“Ragazzo” lo
interruppe Luciherus “Vieni con me, ragazzo. Ti
devo parlare…”.
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Capitolo 33 *** XXXIII- oltre le stelle ***
XXXIII
OLTRE
LE STELLE
Berkana stava accoccolata
all’interno dell’incavo di un
albero. Accudiva la sua ultima cucciolata con amore. Era felice di
essere una
madre in questa nuova Era di pace. Cinque piccoli Alti le restavano
accanto,
emettendo strani versi. Lei ripose, con un altro verso, e sorrise.
Krì stava su
uno dei rami all’esterno e sorvegliava la sua famiglia,
suonando il flauto, con
la sua Messaggera che canticchiava. Lui e Berkana avevano avuto molti
piccoli
assieme. Alti, Celesti, Dèi, Angeli, Demoni,
mortali… Entrambi piuttosto
orgogliosi e felici, nei secoli successivi alla fine della guerra,
avevano
rigenerato molti creatori di varie specie.
Anche il fratello di Krì
aveva seguito l’esempio e si era
sposato con una giovane Dea, generando a sua volta Alti, Celesti ed
altre
creature.
Kavahel passò,
fischiettando, con le mani in tasca e
salterellando.
“Salve,
Equilibrio!” lo salutò l’Alto.
“Ciao, Krì! Buon
pomeriggio!”.
“Dove vai di
bello?”.
“Vado a riprendere i
bambini. Li ho lasciati dal nonno”.
“Vereheveil?”.
“Già…”.
“É bravo con i
piccoli”.
“Sì,
è vero. Tu, grande Alto…” si notava il
lieve sarcasmo
nella voce di Kavahel “…sai per caso
dov’è la mia sorellona?”.
“Luciheday? Credo sia
sull’Isola, a trovare suo padre”.
“Capisco…”.
L’Equilibrio aveva lasciato
crescere i capelli, che ora
erano mossi dalla lieve brezza.
Sorrise, facendo brillare gli occhi
dorati.
“Oggi…è
l’anniversario di quando è
successo…” disse,
guardando il cielo.
Krì annuì,
serio: “Vero. È da quel giorno che Luciherus non
lascia mai l’Isola”.
“Che vuoi
farci…del resto Mihael ha preso il suo posto”
commentò il Dio, continuando ad agitarsi sul posto, muovendo
i piedi e le gambe.
“Mihael
è il Principe
del regno dei Demoni. E Forza e Coraggio non servono in
quest’Epoca di
tranquillità e pace”.
“Sarà
così, spero, ancora a lungo, Krì!”.
“Lo spero
anch’io. Buona giornata, Kavahel”.
“Anche a te e
famiglia!”.
I due si salutarono e si separarono.
Kavahel aveva preso in
moglie la sua corrispondente degli Universi dei Celesti, aveva avuto
quattro
figli, e progettava di espandere ulteriormente la famiglia.
Si allontanò con le mani
in tasca, riprendendo a
fischiettare quel motivetto che aveva interrotto precedentemente.
“Mamma!”.
Il piccolo demone corse in contro
alla mamma, la Dea della
Morte, chiamandola a braccia aperte.
Il Sole stava tramontando sulla
spiaggia e la famigliola
decise di rientrare. Marito e moglie, Vita e Morte, chiamarono a
raccolta tutti
i loro figli: erano davvero tanti. Luciheday ne teneva uno in braccio,
dai
simpatici riccioli neri, addormentato sulla sua spalla. Molti di loro
presentavano tratti in comune con il nonno, Luciherus, o Kasday. Erano
Angeli e
Demoni, con alcuni Dèi.
“Ok! Adesso basta giocare.
Bambini, venite qui!” chiamò il
Dio della Vita.
“Rientriamo, prima che
venga buio!” aggiunse la Dea della
Morte.
Alcuni obbedirono, altri ignorarono i
richiami dei genitori
e continuarono a giocare. Intanto il Sole scendeva
all’orizzonte, emanando una
luce più forte del solito.
“Papà!
Papà noi andiamo!” disse Luciheday, quando ebbe
radunato la sua ciurma di eredi.
Che tramonto…si
diceva Luciherus, seduto in riva al
mare.
Non sentì le parole della
figlia, perso nei suoi pensieri.
L’acqua gli lambiva la punta dei piedi scalzi. La marea stava
salendo e, nel
giro di pochi minuti, si ritrovò seduto in un paio di
centimetri d’acqua.
Nonostante questo, il demone non si mosse.
Chissà
perché continuo a stare qui…
Vereheveil, dopo la morte di Kasday,
aveva capito che, in
realtà, l’Alto non era morto ma lo si poteva
ritrovare in ogni cosa. Nel vento,
nei fiori, nel mare, in ogni essere, in ogni cosa.
Luciherus si era reso conto che fare
lo stesso ragionamento
a lui non bastava. Aveva bisogno di altro, non solo di sogni e profumi.
Non gli
importava se, nei colori di una farfalla, poteva rivedere i suoi occhi.
Lui era
più materialista, più possessivo, e desiderava il
corpo fisico della madre di
sua figlia. Nonostante il tempo passato, lui ancora ci pensava. E non
si
muoveva dall’Isola.
Perché avrebbe dovuto? Per
fare cosa?
Mihael era Principe, la sua unica
figlia era sposata, i suoi
nipoti a malapena lo conoscevano.
A nulla serviva. Nessuno lo cercava.
Guardò in alto,
sospirando. Il buio stava avanzando rapidamente e le stelle iniziavano
ad
accendersi, anche quelle che aveva fra i capelli.
Sentì qualcosa salirgli ed
appoggiarsi sulle ginocchia. Abbassò
lo sguardo e si sentì chiamare. L’acqua aveva
preso forma e, lentamente,
cambiava colore. Era una donna, con le mani sulle sue ginocchia, che lo
guardava con grandi occhi azzurri. Si fissarono, con aria
interrogativa.
“Lucy” disse, con
entusiasmo, la donna.
“Shekinah? La tua
voce…”.
“Anche”.
“Kasday!”.
“Non mi hai
dimenticato”.
“Come potrei?”.
Lei gli aprì le gambe e lo
abbracciò.
“Lucy…sento il
tuo cuore…è un suono che avevo
scordato”
sussurrò.
“É un
sogno…è tutto un sogno…” si
disse Luciherus,
riprendendo a guardare le stelle.
Aveva un’aria triste. Si
ostinava a guardare in alto, pur
non resistendo alla tentazione di stringere a sé la donna
d’acqua. Le sue
lacrime si fondevano con il corpo di lei.
“Chiudi gli
occhi” mormorò l’apparizione.
Il demone non ascoltò.
Sorrise, percependo le urla dei suoi
nipoti che giocavano, nonostante i rimproveri ed i richiami dei
genitori.
“Chiudi gli
occhi!” ripeté la donna, con maggior
convinzione.
Il Principe la fissò:
“Sei l’allucinazione più testarda e
ostinata che abbia mai visto! Non li chiudo gli occhi!”.
“Uffa” si
lamentò lei “Non vuoi venire con me?”.
“Con te? Dove?”.
“Ha importanza? Saremo
soli, io e te. Dove non so ma…che
importa? Saremo insieme!”.
Luciherus notò che, sulla
testa e lungo la schiena, la donna
portava un lungo velo.
“Sembri proprio una giovane
sposa” commentò, a bassa voce,
lui.
“Saremo
insieme…non vuoi?” domandò lei, di
nuovo.
“Insieme, con Kasday, di
nuovo? Ah! Se fosse possibile…”.
“Ma è possibile!
Non sono un’allucinazione, sai?”.
A prova di questo, lei
appoggiò le mani sul petto del demone
e lo baciò sulle labbra, ad occhi chiusi. “Sei
tu?! Sei tu per davvero?!”
esclamò Luciherus.
“Sì!”
ridacchiò Kasday “Sì, sono io, stupido!
La madre di
tua figlia e la donna che hai amato e che ami!”.
“Amo?”.
“Sì, e che palle
con questa storia che i demoni non amano!”.
“Io sono un Dio,
infatti”.
“Per me sarai sempre un
Arcangelo”.
“Che cosa
stupida…”.
Il demone si sentiva strano,
affaticato e confuso.
“Sei stanco?” gli
chiese lei.
“Un
po’…” ammise Luciherus.
“Allora distenditi e
rilassati. Chiudi gli occhi”.
Lo spinse, delicatamente, facendolo
stendere. Lui
rabbrividì, sentendo l’acqua del mare sulla
schiena e sulle ali. Chiuse gli
occhi, sorridendo. Li riaprì con uno scatto quando scorse
una luce fortissima e
mille colori.
“Vieni con me”
parlò Kasday, librandosi a mezz’aria.
Si presero per mano e si alzarono in
volo, senza usare le
ali. Erano il vento e le onde del mare a tenerli su.
“Kasday! Non
correre!” esclamò il demone, notando la
velocità con cui si separavano dalla terra. “Non
vuoi venire con me?”.
“Sì, certo! Ma
vai piano! Ho una certa età…”.
Lei era adesso come l’aria,
non più
come l’acqua. Lui sentiva molto caldo. Le
stelle fra i suoi capelli brillavano, fortissime, e si libravano in
cielo in
modo indipendente.
“Vestirai della mia luce,
Luciherus! Lasciati alle spalle il
buio della tristezza e del dolore, abbandona le tenebre della paura e
vestiti
della mia luce!”.
Il demone la guardò,
fermandosi: “La tua luce?” ripeté,
ricordando le parole che, tanto tempo prima, gli erano state dette da
una
visione.
Ricordò il figlio che non
aveva avuto e che aveva visto.
Vestiti della Sua luce…la luce di chi? Si era sempre
chiesto. Lo aveva
domandato, quella volta, senza ricevere risposta. Ora lo sapeva.
Guardò dietro di
sé e si vide, disteso sulla spiaggia ad
occhi chiusi, con le braccia lungo i fianchi e la marea che saliva.
“Papà!”
lo stava chiamando sua figlia, Luciheday.
“Luciherus!”
gridò Kasday, per riavere la sua attenzione.
“Che succede?” si
allarmò lui.
“Vieni con me”.
“Che cosa succede?! Cosa
sei tu? E cosa sono io? Il mio
corpo è laggiù!” esclamò,
indicando la spiaggia lontana, là in fondo.
“La tua essenza
è la cosa importante. Il corpo è solo un
involucro” spiegò lei.
“Sì
ma…è il mio involucro!”
piagnucolò Luciherus.
I suoi occhi erano sempre
più grandi, così come sempre più
forte era la sua luce.
“Vieni con me”
disse Kasday, con sempre più insistenza.
“Dove?”.
“Oltre le
stelle”.
“Oltre le
stelle?”.
Sotto di lui vide sua figlia che,
allarmata dalla mancata
risposta del padre, stava andando a controllare.
“Cosa
c’è oltre le stelle?” domandò
il demone.
“Vieni con me a
scoprirlo”.
“Io…una volta ho
fatto un sogno. Avrei avuto un figlio, che
avrebbe portato alla fine degli Universi, quando sarei stato in grado
di andare
oltre le stelle…”.
“Non ci pensare. Vieni con
me”.
Lei gli andò di nuovo
vicino, abbracciandolo.
“Non aprirò
più gli occhi?” mormorò Luciherus,
continuando a
guardare in basso.
“No. In realtà
tu non li hai mai aperti, se non pochi
istanti fa. Ora li hai aperti”.
“Non il mio
corpo…”.
“Ma la tua anima! La tua
anima ha aperto gli occhi!”.
“Se io ora ti
seguo…muoio?”.
“Muore il tuo
corpo”.
Il demone annuì, confuso.
“Non posso obbligarti,
Lucy. Se non è questo ciò che
desideri…” parlò Kasday, allontanandosi
“…non importa. Torna pure giù. Vivi
ancora. Oppure…seguimi!”.
“Pur sapendo che, se ti
seguissi, io e te avremmo un figlio
che porterà alla distruzione degli Universi?! Lo vuoi
veramente?!”.
“Me lo hai detto tu che
sono egoista. Non mi interessa! E a
te? Importa davvero?”.
Luciherus scosse il capo, sorridendo.
“Non credevo che le essenze
potessero avere dei figli…”.
“Solitamente non
è possibile…ma io e te possiamo fare
tutto!”.
“Nostra figlia è
la Dea della Morte…sono sicuro che, anche
se tutto finisse, se la caverebbe assieme ai suoi figli. Del resto non
mi
importa niente!”.
Si ripresero per mano.
“Papà?
Papà, và tutto bene?”
domandò la Dea della Morte,
avvicinandosi al padre.
“Tesoro!”
chiamò il marito “Tesoro, non mi
risponde!”.
“Si sente male?”
si allarmò il Dio della Vita.
Ad un tratto la Dea capì:
“No, papà! Papà, non seguire la
luce! Non andare via! Papà!” urlò.
Ma Luciherus si stava allontanando
velocemente, dimenticando
tutto.
“Perché ci hai
messo tanto per venirmi a prendere, Kasday?”
chiese il demone.
“Speravo trovassi un motivo
per cui vivere…” ammise lei,
mentre avanzavano verso l’alto, mano nella mano.
“Da quel giorno, da quando
ti ho visto morire, ho capito il
tuo desiderio di porre fine alla tua vita. Non lo avrei mai creduto
possibile”.
“Non pensarci
più!”.
Ora entrambi splendevano molto
più del solito. I loro
capelli si allungarono a dismisura, mutando colore. Non erano
più corvini o
scuri, ma di pura luce. Risero, solleticati.
“Vestirò della
tua luce, oltre le stelle!” esclamò
Luciherus.
Si abbracciarono, baciandosi,
fondendosi insieme in un unico
corpo luminoso.
Kavahel e Vereheveil guardavano le
stelle. Notarono subito
la nuova, appena apparsa, e più luminosa delle altre.
Entrambi sorrisero,
percependo la gioia che emetteva.
FINE
Settembre 2009
Ebbene
sì, questa
seconda parte è terminata! Ci sarebbe anche la
terza...qualcuno ha resistito ed
è riuscito a leggere fin qui? :P qualcuno vuole la terza (ed
ultima) parte? Ad ogni
modo, vi ringrazio per aver seguito questa storia. Spero
l’abbiate trovata
interessante!
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