La città degli Dei 2 -la luce dei Celesti-

di SagaFrirry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I- il Tempo e le Ore ***
Capitolo 2: *** II- padri e figli ***
Capitolo 3: *** III- demoni ed arcangeli ***
Capitolo 4: *** IV- padroni ***
Capitolo 5: *** V- incontri ***
Capitolo 6: *** VI- anime ***
Capitolo 7: *** VII- riunioni ***
Capitolo 8: *** VIII- la notte dei gemelli ***
Capitolo 9: *** IX- racconti di bimbi e fiamme ***
Capitolo 10: *** X- Celesti ***
Capitolo 11: *** XI: intrusi ***
Capitolo 12: *** XII- tradimento ***
Capitolo 13: *** XIII- risposte ***
Capitolo 14: *** XIV- riflessioni ***
Capitolo 15: *** XV- riconoscersi ***
Capitolo 16: *** XVI- traduzioni ed ordini ***
Capitolo 17: *** XVII- mondo angelico ***
Capitolo 18: *** XVIII- madre celeste ***
Capitolo 19: *** XIX- non dimenticarmi ***
Capitolo 20: *** XX- Espero ***
Capitolo 21: *** XXI- preservatori, creatori, distruttori ***
Capitolo 22: *** XXII- il nuovo Kasday ***
Capitolo 23: *** XXIII- la passione delle bestie ***
Capitolo 24: *** XXIV- gli Alti ***
Capitolo 25: *** XXV- Emanazioni e Dei del cielo ***
Capitolo 26: *** XXVI- scoperte ***
Capitolo 27: *** XXVII- addestramento ***
Capitolo 28: *** XXVIII- stelle cadenti ***
Capitolo 29: *** XXIX- nuovi caduti ***
Capitolo 30: *** XXX- feste ***
Capitolo 31: *** XXXI- verità svelate ***
Capitolo 32: *** XXXII- lasciami andare ***
Capitolo 33: *** XXXIII- oltre le stelle ***



Capitolo 1
*** I- il Tempo e le Ore ***


LA CITTÁ DEGLI DÉI 2: LA LUCE DEI CELESTI

 

 

 

DOVE ERAVAMO RIMASTI?

PICCOLO RIASSUNTO PER CHI NON RICORDA GLI ACCADIMENTI DEL NUMERO UNO

 

 

Ci troviamo in un’epoca di conflitti interni fra divinità. In particolare, il Dio del Kaos e la Dea del Destino si scontrano per il controllo degli Universi da loro stessi creati.

Il neonato Equilibrio, figlio della Dea della Guerra e del Dio del Kaos, viene allontanato dalla Città degli Dèi dal padre. Rinasce nel Regno degli Angeli con il nome di Kasday, Serafino dagli occhi azzurri. Otterrà il titolo di Dio, fuggendo ed affrontando più volte il Kaos, dopo aver attraversato diverse vite: prima angelo, poi demone ed infine creatura senza magia. Grazie agli insegnamenti del morente ed anziano Dio dell’Equilibrio, riuscirà a prendere il suo posto e ridiventare una divinità, per metà uomo e per metà donna.

Lungo il suo cammino, incontrerà numerosi e fondamentali personaggi. I più importanti sicuramente saranno, lungo tutte le sue vite, Vereheveil e Luciherus. Vereheveil, futuro Arcangelo, suo amico e amante, lo conoscerà nel Regno degli Angeli e saranno bambini assieme. Il giovane non diverrà mai un vero e proprio Arcangelo. Abbandonerà il Mondo delle creature angeliche per ritrovare Kasday, caduto nel Regno dei Demoni e diverrà Dio delle Letterature. Si rincontreranno e si perderanno più volte, fino alla battaglia finale fra Kaos e Destino. Battaglia in cui sarà decisiva la presenza dell’Equilibrio per non portare alla distruzione i Mondi esistenti.

Altro personaggio che Kasday incontrerà più volte è Luciherus, suo cugino e più bello degli Arcangeli nel Regno angelico. I due cadranno assieme nel Regno dei Demoni. Luciherus verrà raccolto dal Kaos che, approfittando del fatto che il passato Arcangelo non aveva più ricordi, lo renderà immortale e Principe dei Demoni. Lui e Kasday si rincontreranno, in un complesso rapporto di odio/amore/amicizia e invidia. In particolare il Principe avrà modo di vederlo in forma femminile, una volta divenuto l’Equilibrio, e assieme avranno una figlia, futura Dea della Morte. Nello scontro finale, essendo al servizio del Kaos, Luciherus andrà vicino alla morte non potendo e non volendo obbedire al suo padrone. Kasday lo salverà e gli permetterà di mostrare una parte della sua natura d’Arcangelo, donandogli un paio d’ali dorate e piumate, oltre a quelle da Demone.

La guerra finisce con l’assimilazione da parte dell’Equilibrio delle essenze del Kaos e del Destino.

Kasday e Vereheveil, oltre a Kavahel, avranno due gemelli.

Il numero uno termina con la nascita di questi due gemelli: il Kaos e il Destino.

 

Ricordate?

 

 

I

 

IL TEMPO E LE ORE

 

“Ti vedo pensieroso, mio caro. C’è qualcosa che ti tormenta?”.

La Dea della Memoria si avvicinò al marito, il Dio del Tempo, che guardava fuori dalla finestra a braccia incrociate. Gli occhi di lui, color della sabbia, non si girarono verso la consorte ma continuarono ad osservare il panorama esterno. Pioveva forte e tirava vento.

“Marito mio…mi degneresti di una risposta?” incalzò la Dea, appoggiandosi alla schiena del Dio.

“Non ho nessun problema…è solo che…ricordi il piccolo Kasday?”.

“Certo. Che domanda stupida! Sono la Dea della Memoria, non dimentico niente! Perché me lo chiedi?”.

Il Tempo sospirò, chinando il capo e sciogliendo le braccia: “Niente…sono passati tanti di quei secoli che…”.

Si sentì bussare alla porta ed il Dio ne fu rincuorato: era stanco di sentire solo il ticchettio dei suoi molti orologi e le domande della moglie!

La Dea, che parlava sempre e solamente con dei sussurri, si avviò verso l’ingresso.

“Chi mai può essere a quest’ora e con questa pioggia?” si chiese, mentre lasciava la stanza dove stava il consorte e attraversava il corridoio che conduceva all’entrata principale.

Passò oltre i numerosi orologi a pendolo che si misero a suonare, ricordando a tutti l’ora tarda, ed aprì il pesante portone in legno massiccio e decorato. Sull’uscio stava una piccola figuretta avvolta in un mantello scuro con cappuccio.

“Desidera?” chiese la padrona di casa, sorridendo.

“Sono un Angelo Messaggero” rispose l’incappucciato “Gli Dèi Alti mi hanno incaricato di consegnare questa lettera a tutte le divinità, maggiori e minori, di tutti i regni e gli Universi. Questa comunicazione è perciò rivolta a Lei, Signora della Memoria, a Vostro marito il Dio del Tempo ed ai vostri figli”.

La Dea allungò il braccio e prese la busta, che le porgeva l’angelo, con la sua mano affusolata e sottile.

“Grazie. Vuole entrare, Messaggero? Sarà sicuramente infreddolito e bagnato con questo brutto temporale”.

“Non importa Signora. La ringrazio per il disturbo, ma ho ancora alcune case da visitare. Inoltre, ho una certa fretta di rientrare dal mio padrone”.

L’angelo, senza aspettare risposta, fece un rapido inchino con  il capo e si allontanò, lanciando solo un ultimo sguardo alla Dea. Lei non poté fare a meno di notare gli occhi color dello smeraldo della creatura angelica che se ne stava andando.

“Chi era, amore?” volle sapere il Tempo, non lasciando il salone in cui stava.

“Un Angelo degli Alti. Ha portato una lettera per noi e per i piccoli”rispose la consorte.

Il Dio si affacciò sul corridoio ed andò verso la moglie, protendendo la mano verso la busta che lei teneva in mano.

“Una lettera anche per i nostri figli?” domandò dubbioso.

Lei le porse il plico: “Così ha detto l’angelo…”.

Il Tempo rigirò fra le mani la piccola busta bianca con vari decori luminosi e lo stemma degli Alti come sigillo: “Aprila. Scopri che c’è scritto…” disse infine, porgendola di nuovo alla moglie.

Lei scosse il capo: “É indirizzata anche ai bambini…perciò devono essere presenti anche loro”.

Il Dio si mostrò molto perplesso: “Gli Alti sono degli psicopatici e dei folli. Chissà che cose e che richieste assurde stanno scritte lì dentro! È meglio che i nostri figli ne restino fuori, per ora”.

Il padrone di casa sedette sulla poltrona imbottita che stava davanti al camino acceso e buttò la busta sul tavolo di fronte. Questa scivolò sulla sua superficie liscia e quasi cadde in terra: si fermò sul numero Sette. Il mobile era, infatti, circolare ed al suo interno era rappresentato il quadrante di un gigantesco orologio con tutti i numeri e le lancette.

I capelli del Dio, arricciati come il simbolo dell’infinito, seguirono il movimento del braccio del proprietario e poi tornarono al loro posto. Il tavolino era così liscio e lucido da permettere al suo padrone di potersi specchiare e questi si soffermò sulla sua figura, in quella circostanza. Si ritrovò perso nei suoi pensieri e, ad un tratto, si immerse in varie riflessioni riguardanti svariate faccende del suo passato. Prima di tutto cercò di ricordare tutte le persone e divinità che aveva conosciuto e che ora non erano più risiedenti in quegli Universi. Guardò il suo viso riflesso e sorrise. Nulla era cambiato in lui: nulla cambiava in lui da Ere. Portava sempre lo stesso abito grigio e lungo, sfumato ed a righe come una colonna e portava i capelli sempre nello stesso modo. Non avevano nemmeno cambiato colore, nonostante la sua notevole età, ed erano rimasti di quello strano grigio-nero dalla nascita. Era uno degli Dèi più antichi, eppure non mostrava nemmeno una ruga o un capello bianco.

E non era neppure stanco del suo lavoro, come invece era accaduto ad altri che conosceva e che aveva conosciuto. Era felice. Tranquillo e felice.

Dopo la grande battaglia, fra il Dio del Kaos e la Dea del Destino, aveva quasi deciso di ritirarsi e lasciare il suo posto ad altri ma, poi, aveva conosciuto la Dea della Memoria e aveva capito che non era poi così male il lavoro che svolgeva.  Però ora, quella lettera..che potesse compromettere la felicità e la stabilità sua e dell’intera famiglia? Non era mai un buon segno quando le divinità Alte si facevano sentire. Significava, quasi sempre, che qualcosa di grave non funzionava.

Notò, tornando alla realtà, il riflesso della moglie accanto al suo. Aveva gli occhi come la superficie che guardava: di vetro, o cristallo, a specchio. Il suo viso, piccolo e arrotondato, era abbellito da una bocca sorridente e vermiglia. Quella notte era in uno di quei giorni in cui la si poteva vedere chiaramente. Essendo lei poco più che un’ombra, capitava a volte che fosse semitrasparente oppure del tutto invisibile. Come i ricordi, anche lei a volte era chiara e nitida ed a volte, invece, presentava contorni confusi e sfumati. Portava un abito a righe orizzontali bianche e verdi, cosa per lei insolita perché normalmente portava lo stesso grigio del marito.

“Aprila” ordinò la Memoria “Apri subito quella busta. Poi leggi e decidi se è il caso di condividerla con i piccoli o no”.

Il Tempo sospirò, rassegnato. Non voleva avere niente a che fare con gli Alti…ma, evidentemente, era destino! Tolse il sigillo con la massima cura, attento a non rovinare il foglio all’interno. Fece per estrarre il contenuto del plico quando si aprì la porta che portava alle camere. Entrò un bambino, con sulla pelle le stesse mille tonalità dell’alba, oscillando un pendolo color del rubino una volta al secondo. I capelli del piccolo prendevano la forma di un Sei e sfumavano anch’essi come il cielo al sorgere del Sole.

“Buongiorno, figlio mio. Come mai sei in piedi così presto?” lo salutò la Memoria.

“Presto? Sono le 6 e 45 del mattino, mamma! Sono anche tardi!” guardò verso il padre. “Cos’è quella lettera?” domandò, curioso.

“Chi è sveglio dei tuoi fratelli?” gli rispose il Tempo.

Il bambino sbadigliò assonnato: “Non molti. Le piccole hanno fatto casino fino a poco fa. Ma ora dormono”.

Il Dio fece un segno con il capo ad indicazione che aveva capito.

Il ragazzino guardò fuori dalla finestra, afflitto: “Piove anche oggi…”.

Un violento tuono fece tremare i vetri e le pareti. Tutti trasalirono e si udì un pianto sommesso provenire dalla stanza accanto.

“Queste sono le piccole…” esclamò la Memoria.

“Sta pure seduta” la rassicurò il Tempo “Vado io a tranquillizzarle”.

Il Dio si alzò e si avviò verso una delle camere. Le sue bambine più piccine piangevano, spaventate dal temporale. Il loro padre entrò nella stanza e le abbracciò per farle smettere e, subito, appena udirono la sua voce, nella cameretta entrarono altri bambini. Alcuni di loro erano realmente spaventati, altri invece erano solo in cerca di attenzioni e di coccole. Il Tempo aprì loro le braccia con orgoglio, mentre questi si erano messi in fila, attorno al letto.

Erano tutti coppie di gemelli. I loro capelli prendevano la forma di numeri e la loro pelle andava dal chiaro allo scuro: metà di loro presentava cromie tendenti al nero, l’altra metà al bianco. Una di loro, la più grande, era bianca del tutto, mentre il suo gemello era completamente nero. C’era chi sfoggiava i colori del tramonto e chi delle prime ore della sera. In totale, erano ventiquattro. Mai avrebbe pensato  il Tempo di divenire padre di una tale schiera.

L’orologio del corridoio iniziò a suonare e, a ruota, lo seguirono tutti gli altri, sparsi per casa.

Suonò per Sette volte. Il bambino con i colori dell’alba ed il Sei in testa passò il pendolo ad una bambina, leggermente più grande di lui, con la pettinatura che sfoggiava il numero Sette ed una carnagione  lievemente più chiara rispetto al fratello. Il movimento dell’oggetto passato non si fermò nemmeno per un secondo.

“Bravi” sorrise il Tempo “E state tranquilli. Sono sicuro che questo brutto tempaccio passerà presto, vedrete!”.

Le piccole, con i numeri Uno, Due e Tre, si calmarono un po’. I loro gemelli invece, con i numeri Tredici, Quattordici e Quindici, avevano fame ed iniziarono a protestare. Alla loro rivolta si unirono anche altri con numeri più alti fra i capelli e così i due gemelli più grandi si avviarono verso la cucina con passo sicuro, sfidando i fratelli e le sorelle minori a fare lo stesso. Il Dio del Tempo prese in braccio i più piccoli e seguì la mandria, fischiettando.

Fecero colazione tutti assieme, mentre la Memoria faceva segno al marito di ricordarsi della lettera, ma il Tempo non la menzionò e continuò tranquillamente a spalmare la marmellata sul pane per i suoi bambini. Alcuni di loro si alzarono, sazi, ed andarono a preparare lo zaino per andare a scuola. “I maestri si arrabbiano se facciamo tardi. Dicono: con un padre come il vostro dovreste essere puntualissimi! Peccato che, di solito, è papà che ci sveglia un quarto d’ora dopo!” affermò la numero Dieci.

“Noto una vena polemica nel tuo discorso…” la canzonò il padre “…vedrò di essere più puntuale!” concluse, con un sorriso.

La madre porse loro un pacchettino con  la merenda e li baciò, mentre questi si avviavano verso l’uscita. Quelli rimasti, perché ancora troppo piccoli per la scuola, si misero a giocare in casa fino a quando un raggio di Sole fra le nuvole annunciò loro che il brutto temporale era passato e che potevano andare all’aperto. Subito uscirono in cortile e le loro risate si udirono per tutta la Città degli Dèi. Iniziarono a fare girotondi e filastrocche, unendosi ad altri bambini.

Il Tempo e la Memoria, rimasti soli, ripresero fra le mani la lettera.

“Io non vado alla guerra!” affermò il Dio, con aria convinta e decisa.

“Chi ti dice che si tratta di guerra?” domandò la Dea, con aria perplessa.

“Che altro può essere?” rispose lui.

“Magari hanno delle semplici richieste formali da farci…” azzardò lei.

“No. Richiamano tutti gli Dèi. Non può essere altro che una guerra!”.

“Quanto sei pessimista…”.

“Ti sbagli. Ma è da troppo che vago per gli Universi, e certe cose le capisco al volo”.

“Cosa pensi di fare, amor mio? Io non gli lascerò i miei figli! Se è vero ciò che dici, io non ho proprio alcuna intenzione di portare le mie creature al cospetto di coloro che vogliono farli combattere!” dicendo questo, la Dea era divenuta rossa in viso e sembrava molto preoccupata.

“Dev’essere successo qualcosa alla Dea della Pace. È da tantissimo che non la si vede in giro. Parlerò con la Dea della Guerra, io e lei andiamo abbastanza d’accordo, e poi vedremo…”.

La voce del Tempo rimaneva comunque tranquilla e calma. Si sistemò l’orologio da polso, esageratamente grande, e si alzò da tavola.

“Credi di poter trovare la Dea della Pace? Dicono che si sia nascosta…”.

“É esatto, moglie mia, ma forse io so dove si nasconde!”.

Il Dio vagava per la stanza, guardandosi in giro, come in cerca di qualcosa.

“E credi che si farà trovare tanto in fretta, se si nasconde?” azzardò la Dea, incrociando le braccia e seguendo il marito con gli occhi.

“É su un’isola, dicono. In cui tutti gli Dèi vanno quando hanno bisogno di una vacanza. La troverò e la costringerò a tornare a lavorare. Una guerra fra Alti è un vero casino!”.

Il Tempo continuava a cercare, spostando perfino i cuscini del divano e girando il viso con aria interrogativa.

“Cosa cerchi?” gli domandò la moglie, divertita.

“Ricordi dove ho messo lo specchio delle comunicazioni?”.

“Quello che usi per parlare con gli altri Dèi? Ovvio! È in camera nostra, appoggiato al letto”. “Davvero?! E cosa ci fa lì?” si chiese il Dio, perplesso.

“Semplice! Ti chiamano sempre quando dormiamo o mangiamo. L’ultima volta stavi poltrendo alla grande…”.

Il Dio sbuffò, ricordando la scocciatura. Con un’andatura decisa si avviò verso la camera, circolare, con motivi riprendenti quadranti, clessidre e numeri. Sul soffitto campeggiava un enorme orologio funzionante che ticchettava sommessamente.

Il Tempo girò quasi tutte le clessidre, più per dispetto che per necessità, e sedette sul letto.

Afferrò il piccolo specchio ovale fra le mani ed iniziò a parlargli. Ridacchiò, tentato di chiedere chi fosse il più bello del reame, ma poi tornò subito serio e sulla superficie riflettente apparvero nomi e simboli. Schiacciò, con un dito, il simbolo del Sole ed il Dio che aveva chiamato apparve dall’altro lato dell’oggetto.

“Buongiorno, amico mio!” salutò allegramente il Tempo.

“Buongiorno?” rispose, stupito, il Dio del Sole “Mio caro, io sto lavorando già da ore! Buon pranzo fra poco…”.

“Non essere fiscale…” scherzò il Dio in grigio.

“Tu dovresti esserlo su certe cose!” lo derise il Dio solare.

I capelli fiammeggianti e pieni di colori caldi riempivano tutta la superficie dello specchio.

“Hai ricevuto anche tu la lettera degli Alti?” domandò il Tempo.

“Stavo per chiederti la stessa cosa…” fu la risposta.

Il Sole scomparve, per qualche istante, dall’inquadratura, e poi riapparve con la busta bianca e dorata con il sigillo degli Alti.

“Cos’hai intenzione di fare, Dio solare e delle fiamme?”.

 “Non so a te, ma a me la cosa puzza. Non mi piace per niente la faccenda. L’hai letta tutta?”.

“No, solo un accenno” mentì il Tempo.

“Parla di una riunione…” iniziò a spiegargli il Sole “…organizzata dagli Alti. Richiedono la partecipazione di tutti però a me, come già detto, la cosa puzza perché quelli non fanno mai niente per niente. Chissà che c’è sotto…”.

“Dicono che ci sia aria di guerra”.

“E in questo caso che faresti? Io, Sole, ho già combattuto altre volte…ma se chiedessero a una divinità come te di andar in battaglia…”.

“Io voglio andare a cercare la Dea della Pace” lo interruppe il Dio con il simbolo dell’infinito. “Carina come idea. Ma ti ricordo che, al momento, è introvabile. E poi…chi ti dice che sotto ci sia proprio una guerra?”.

“Ricordi convocazioni da parte degli Alti per un motivo diverso? E poi so dove trovare la Pace. È sull’Isola”.

Il Dio del Sole sospirò: “Quell’Isola? Ora capisco! Quel posto è una meraviglia! Secondo me, anche se la troviamo, non  la convinciamo a smuoversi!”.

“É un caso d’emergenza. Capirà”.

“Se lo dici tu…io mi fido. Comunque…vengo anch’io con  te! Non vedo l’ora di andare là a prendere un po’…”.

“Un po’ di cosa?” chiese il Tempo, poiché l’altro Dio non continuava.

“Di Sole! Ovvio!!”.

Il Dio solare scoppiò a ridere e l’altro scosse il capo.

“Peggio dei bambini…”.

Quando smise di ridere, il Tempo riprese a parlare: “Ci metteremo d’accordo in seguito. Mi fa piacere che venga anche tu. Ora, però, devo andare a lavorare”.

“Ma quale lavoro?! Salutami moglie e figli, mi raccomando, e a presto!”.

“Fai lo stesso anche tu. Buon proseguimento…”.

I due Dèi si salutarono ed il Tempo tornò a distendersi sul letto. Osservò per un po’ la lancetta dell’orologio gigante e poi afferrò la busta. Ne osservò il foglio all’interno ed i suoi caratteri. Come era solito nello stile degli Alti, la lettera era scritta in modo contorto, con disegni e segni grafici complessi ed arricciati. 

Soliti pomposi…guarda qua quanti riccioli superflui!!! Si disse, scocciato di dover far fatica per capirne il senso.

Si girò sulla pancia e si appoggiò a uno dei cuscini, iniziando a leggere:

 

Con la presente, si vuole porre invito ad ogni divinità ad un incontro conviviale e ad  una riunione straordinaria, a cui tutti sono portati a partecipare, alla prossima notte di Luna. L’evento si svolgerà nel palazzo del Dio Triplice, dove tutte le nostre schiere, divinità Minori, Maggiori, Messaggeri ed Alti, possono incontrarsi senza troppo disturbo. Raccomando la presenza e la collaborazione di tutti.

Momoia.

 

Momoia…la madre degli Alti…rifletté il Tempo, turbato nell’aver letto quella firma.

La Madre non entrava mai in contatto con loro, se non in caso di estrema emergenza. Doveva trattarsi sicuramente di qualcosa di importate, altro che incontro conviviale! Se non una guerra…qualcosa di peggio! Poi pensò al luogo in cui si sarebbe svolta: il palazzo del Dio Triplice.

Era il palazzo dell’Equilibrio…di Kasday…prima di quella sera…

I suoi pensieri furono interrotti dalla voce della moglie.

“Va tutto bene?” domandò lei.

“Sì, tranquilla. Preparati. E prepara i bambini. Vi porto tutti quanti al mare” rispose lui, apparentemente calmo e rilassato.

“Portiamo i costumi?”.

“Assolutamente sì!” esclamò il Dio, con entusiasmo, trascinando la compagna nel letto.

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Capitolo 2
*** II- padri e figli ***


II

 

PADRI E FIGLI

 

“Devi stare più attento! O finirai sempre con il farti sconfiggere!”.

Due ragazzi si scontravano, avvolti dal buio della notte, sfidando il forte vento ed il freddo. Cominciava anche a piovere, ma i due non deponevano le armi.

“Devi impegnarti di più, fratellino, se vuoi davvero avere qualche possibilità contro i tuoi nemici!” urlava uno dei giovani, per farsi sentire nella tempesta.

“Quali nemici?” gli rispose l’altro “Siamo in un’ Era pacifica!”.

“La cosa potrebbe cambiare. È meglio se sei pronto e preparato!”.

Il fratello maggiore aveva gli occhi dorati, lucentissimi anche nell’oscurità più fitta, ed i capelli verde-acqua. Si muoveva agilmente con le sue ali d’angelo, di colore blu scuro. Tentava di addestrare il fratello minore che ormai, dopo diverse ore, mostrava segni evidenti di stanchezza. “Non puoi fermarti, fratellino! Avanti!” lo incitò l’addestratore “Avanti! Sei un Dio! Non puoi arrenderti, né stancarti! Attaccami!”.

“Ma vaffanculo, Kavahel! Sono stufo!” si lamentò la recluta.

“E va bene. Allora ci fermiamo. Ma poi non venire a piagnucolare da me quando nostra sorella ti batte!”.

Il più giovane, punto nell’orgoglio, appoggiò la spada in terra: “Lei è la Dea del Kaos! È ovvio che è più forte di me!”.

“Ovvio ‘sto cazzo! Muoviti, invece di star lì a perdere tempo!”.

Il rumore delle loro spade che si scontravano si udì varie volte, e molto distintamente, per tutta la città. La pioggia era sempre più forte e fastidiosa, gelida. Il più giovane, pure lui con brillanti occhi d’oro, riprese l’addestramento, anche se non nutriva molte speranze di battere sua sorella gemella.

Furono interrotti dall’apparire di una figura lungo la strada. Era incappucciata e teneva la testa bassa. Erezehimsay, l’Angelo Messaggero di Kavahel, arrestò l’altalena su cui si dondolava ed andò incontro allo straniero, riconoscendolo come un suo collega. Con un largo sorriso, spostò i capelli arancio con riflessi fuxia dal viso e corse verso l’incappucciato.

I suoi occhi ramati splendevano ed incrociarono quelli verdi del nuovo arrivato.

“Ciao!” salutò con entusiasmo.

L’altro angelo si limitò a porgergli una lettera.

“Dai pure a me i tuoi messaggi. Riferirò a tutte le divinità di questa casa. Chi ti manda?” domandò Erezehimsay.

“Sei ora il messaggero del nuovo Equilibrio?” si sentì chiedere, come risposta.

“Sì. Sono il messaggero di Kavahel, figlio di Kasday e Vereheveil, Nuovo Dio dell’Equilibrio, ma anche del Nuovo Dio del Destino e la Nuova Dea del Kaos. Tutte divinità qui risiedenti”.

“Questo messaggio è rivolto a tutti loro. Ed al Signor Vereheveil, la sua consorte e tutti i loro figli”. Nel frattempo i due giovani avevano smesso di combattere e si erano avvicinati ai due angeli.

“Io sono il Nuovo Dio del Destino, posso prendere la lettera?” domandò il fratello minore.

Il messaggero annuì e poi parlò, rivolto al collega: “Dev’essere faticoso seguire tre Dèi giovani…mi sembrano piuttosto esagitati…”.

“Non è faticoso come sembra. Piuttosto, compare, qual è il tuo nome? La tua voce…mi è così familiare! E anche i tuoi occhi verdi mi dicono qualcosa…”.

“Non ho tempo per star qui a chiacchierare. È quasi l’alba, ed io ho una certa fretta di tornare dal mio padrone. Leggete la lettera, è urgente. È da parte delle divinità Alte”.

Erezehimsay trasalì: “Nosmagiés? Sei tu?”.

Un lampo ed un tuono potentissimi squarciarono l’oscurità del cielo. L’incappucciato guardò allarmato verso il palazzo del suo Signore, così distante all’orizzonte, e decise di congedarsi da lì al più presto per poter tornare a casa. Diede le spalle ai tre e si allontanò con passo svelto, non potendo volare a causa della pioggia. Kavahel strappò la busta dalle mani del fratello e la osservò. “Erezehimsay!” ordinò “Rientra in casa e sveglia nostro padre. Ha detto che è urgente”.

L’angelo si affrettò, coprendo la carta come poteva per non farla bagnare. Kavahel, stufo della pioggia, guardò il fratello minore, che insultava un albero sfidandolo con la spada. Il maggiore scosse il capo con una smorfia e decise di rientrare a sua volta. Aprì la porta, lasciando passare il suo messaggero, e si voltò verso il centro del cortile da dove il fratellino non si muoveva.

“Dai, vieni al coperto. Basta per oggi”.

Tolse gli stivali, pieni d’acqua e notò un’ ombra nera sull’albero che il minore stava insultando con voga. Immediatamente portò la mano all’elsa della sua spada, ma si tranquillizzò dopo pochi attimi. “Che imbecille…” sogghignò Kavahel e lo ignorò, mentre l’ombra piombava sul giovane Destino.

“Ti ho sconfitto di nuovo!” una voce femminile ed una risata riecheggiarono per la valle.

“Torno subito…” sussurrò il Nuovo Dio dell’Equilibrio.

Ridacchiando, tornò all’aperto, andando incontro ai due.

“Non è possibile, fratellino! Ti sei fatto battere di nuovo da lei!”.

La figura nera e dai contorni indefiniti sorrise al fratello maggiore, facendo brillare i suoi enormi occhi dorati nell’oscurità. Erano l’unica cosa che aveva in comune con  il fratellone Kavahel.

 “Dove sei stata, sorellina?” domandò il Dio dai capelli verde-acqua alla giovane Dea del Kaos.

Lei non rispose ma parlò d’altro “Girano voci di una guerra imminente, inferta dagli Dèi Alti”. “Fandonie! Lo sapremmo! Io, perlomeno, lo saprei…” commentò il Dio del Destino, scettico. “Forse in quella lettera…” azzardò Kavahel.

Rifletté un attimo e poi ricominciò: “Però è strano…che io ricordi, gli Dèi Alti non hanno mai convocato le divinità che considerano minori. Nemmeno quando il Kaos ed il Destino erano entrambi creatori molto potenti. Di sicuro voi due non siete alla loro altezza… eppure siete convocati…”.

“Smettila di fare il figo, Kavahel! Neanche tu sei potente come l’antico Dio dell’Equilibrio! E di sicuro non sei un creatore!” gracchiò la Dea del Kaos.

“Io ho un ruolo diverso. Io resterò, anche quando ci sarà la fine dei Mondi e degli Universi, e diverrò creatore quando tutti voi sarete dissolti ed io farò ricominciare ogni cosa da capo…”.

“Se gli Alti non ci faranno ammazzare tutti!” esclamò il Destino, con malcelato pessimismo.

Il fratello maggiore si inginocchiò accanto al Destino, che non si era ancora rialzato dopo il colpo della sorella. Appoggiò la spada alla spalla e sorrise. La lama fredda era a contatto con la pelle nuda, i suoi capelli spettinati sgocciolavano, le ali blu erano pesanti e grondanti d’acqua ed il cornino rosso al centro della fronte del Dio pulsava di luce. Quell’arma era molto grossa e pesante, ed i due più giovani si stupirono di come riuscisse lui, così mingherlino e magro, ad impugnare quella spada e maneggiarla con tanta agilità e grazia, come se fosse senza peso. I due fratelli si osservavano. Quello steso a terra era molto più grosso, di corporatura, rispetto al maggiore, anche perché il Nuovo Equilibrio poteva mutare il suo aspetto fra quello di un maschio e quello di una femmina a suo piacimento e, solitamente, manteneva un corpo intermedio.

I pensieri di Kavahel si persero alla luce dell’ennesimo lampo. La sua mente ritornò ad antiche memorie della sua infanzia. Pensò a quando era nato, a quando era piccolo, i suoi primi anni…e poi…i gemelli e tutto ciò che ne era conseguito. Sospirò. La voce della sorella lo riportò alla realtà. “Andiamo adesso, maschiacci! Ho tutti i vestiti bagnati, fa freddo ed ho fame!”.

Kavahel ed il giovane Destino si rialzarono e seguirono la veste ed i capelli neri della sorella fino a casa. Lei si perdeva nel buio, avendo anche la pelle nera, ed era difficile da individuare nella notte. Sull’uscio, il maggiore, l’unico con le ali, si fermò e le scosse per liberarle dall’acqua, così queste si gonfiarono non poco. Nel frattempo il Destino strizzava il mantello che portava e toglieva le scarpe. Lasciarono tutti e tre le calzature sull’uscio e misero gli abiti bagnati accanto al fuoco, cambiandosi con vesti asciutte. Fuori albeggiava e le nuvole andavano diradandosi.

“Cos’è questa lettera?” chiese la giovane Dea del Kaos che era una divinità piccola e piuttosto curiosa.

“L’hanno portata prima. Aspettiamo che nostro padre si svegli e poi ne parliamo”.

La ragazza si avviò, convinta, lungo il corridoio. Si mise sotto la tromba delle scale e urlò.

“Papà! Papà, svegliati!! Alzati!! Sono le Sei passate!!”.

Le sue grida fecero tremare le pareti. Si sentì un mugugno sommesso dal piano superiore.

“Non era necessario, Skrich!” la rimproverò Kavahel.

Skrich era il nome con cui chiamavano la Dea del Kaos per la sua corporatura mingherlina e piccina.

“Non serviva urlare così. Adesso verranno giù anche tutti i fratellastri…”.

“Chi urla?” domandò una voce femminile, dal piano superiore.

Scese le scale. Era Fleavia, la figlia adottiva e messaggera di Vereheveil.

“Scusaci, sorellona, ma ci è stata consegnata una lettera da parte degli Alti e ci han detto che è urgente” si giustificò il Destino, assaporando una tazza di caffè bollente.

Fleavia si voltò ed urlò a sua volta, verso le camere: “Vereheveil! Papi! Svegliati!”.

Lei era bionda, con candide ali da angelo ma due piccole corna scure sulla fronte.

“Siete stati fuori con la pioggia tutto il tempo, voi tre? Siete proprio degli idioti!” li rimproverò la messaggera.

Erezehimsay, porgendo il caffè all’Equilibrio, ridacchiò: “Sto cercando di insegnare al Nuovo Destino a combattere…ma credo sia un caso disperato!”.

“Ha preso da Vereheveil. Papà non prenderebbe in mano una spada manco per sbaglio!”.

Si misero a ridere tutti quanti, mentre un timido raggio di Sole entrava nella stanza illuminandone gli oggetti, per lo più libri.

Una voce piagnucolò dal piano superiore: “Ragazzi! Ma è prestissimo! Che succede?”.

“ È arrivata una lettera, papà. È dagli Alti ed è urgente. Potreste scendere tutti? È indirizzata a tutta la famiglia”.

Rumori di passi e voci varie, poi Vereheveil, il Dio delle Lingue e delle Letterature, apparve con  i capelli verde-acqua completamente spettinati e gli occhi dorati molto assonnati, segnati da lievi occhiaie. Fra le mani stringeva un grosso volume rilegato e scese le scale, trascinando la lunga veste arancione. Dietro di lui scese sua moglie, la Dea delle Parole, che teneva per mano i loro due figli, un maschio ed una femmina. Presero tutti posto attorno ad un tavolo che riprendeva la forma di un libro aperto. Vereheveil, sistemandosi un piccolo paio di occhiali sul naso, iniziò a leggere la lettera con attenzione. La lesse ad alta voce per rendere partecipi tutti i presenti. Le sue ali d’angelo, nere, fremettero quando lesse le parole “Dio triplice”. Kasday!

“Cosa può significare?” domandò la Dea delle Parole “Insomma…perché mai gli Alti ci dovrebbero tenere tanto a chiamare gente come noi? A che scopo?”.

“Guerra…” sospirò la Dea del Kaos, pur non nascondendo una certa soddisfazione.

Cominciava ad annoiarsi in quest’Era di pace e di ordine.

“Tua nonna, Dea della Guerra, ci avrebbe sicuramente informato di un’ eventualità come questa”, affermò Vereheveil, pensieroso.

“Non è detto che la nonna lo sappia…se è una faccenda organizzata dalle divinità Alte, esiste la possibilità che, in effetti, non ne sia a conoscenza”.

I due bambini, scesi per mano alla madre, non badarono ai discorsi degli adulti ed iniziarono a dedicarsi ad attività più stimolanti. Il maschietto scrisse dei numeri su un foglio e fece dei calcoli complessi, compiaciuto del risultato. Sarebbe di certo divenuto il futuro Dio dei Numeri.

La bambina prese quello stesso foglio e scrisse i numeri, lunghissimi, in lettere: lei era la futura Dea della scrittura. Skrich, la Dea del Kaos, giocherellava nervosamente con una matita, facendola passare fra le dita, come in un gioco di prestigio. Vereheveil era perso nei suoi pensieri, che esponeva ad alta voce quando ne sentiva il bisogno, e Fleavia lo ascoltava, tentando di tenere il filo dei suoi ragionamenti. Kavahel discorreva con la matrigna in modo piuttosto acceso.

Solo il Destino restava fermo ed in silenzio. Il giovane Dio osservava la sfera di cristallo che portava quasi sempre con  sé e la osservava tentando di scorgerci, all’interno, il futuro. Ma non riusciva a vedere nulla. Nessuno poteva, infatti, sapere quale sarebbe stato l’esito di una decisione presa dagli Alti. La Dea del Kaos ruppe accidentalmente la matita che teneva fra le mani e questo provocò una smorfia, di dolore e di fastidio, sul volto di tutti gli Dèi presenti ed inerenti alla scrittura.

“Cosa facciamo, se quello che vogliono da noi è davvero una guerra?” domandò docilmente la divinità con la sfera.

“Se è questo che vogliono…da me non lo avranno!” rispose convinto Vereheveil, con tono deciso e autoritario, scuotendo il capo con fermezza.

“E allora cosa pensi di fare, marito mio? Vuoi non presentarti alla riunione e chiamartene fuori? Sai che non è possibile! Gli Alti ti tormenterebbero fino ad ottenere ciò che ordinano..”.

“Oh, moglie mia! Questo lo so bene. Alla riunione, di fatto, voglio essere presente”.

“Certo!” lo interruppe Fleavia “Come potresti mancare? Al palazzo del Dio Triplice…c’è lui!”. “Cosa intendi dire? Che vuoi insinuare?”.

Il Dio delle Letterature e delle Lingue si mostrava leggermente scocciato.

“Nulla…” rispose la figlia, con un sorrisetto maligno.

“Non andrò a quella riunione per rivedere Kasday, anzi! I miei sentimenti in proposito sono diametralmente opposti. Kasday…mi spaventa…”.

“Non abbiamo nulla da spartire con lui!” affermò la Dea del Kaos.

“Voi tre…” rispose il padre, riferendosi al Destino, al Kaos ed a Kavahel “…non dovreste permettervi di parlare così! Metà del vostro patrimonio genetico vi è stato donato da Kasday. Insieme, io e lui, vi abbiamo creato!”.

“Sì, va bene. Ma poi ci ha abbandonato!” commentò, acido, Kavahel.

“Giusto. Ci ha lasciati soli. Perché dovremmo farci dei problemi e pensare ad una persona simile?” continuò Skrich.

“Voi non sapete nulla. Nulla di ciò che è successo” sospirò Vereheveil.

“Sì. Giusto. Non sappiamo nulla. E chissà se mai ne verremo a conoscenza…”.

“Ogni cosa a suo tempo. E questo non è il momento di parlarne!” tagliò corto la Dea delle Parole.

Nella casa scese di nuovo il silenzio.

“Voglio trovare la Dea della Pace” esclamò Vereheveil, dopo un attimo di riflessione “Ultimamente non la si vede molto e quindi…forse, se ci parlo, riesco a convincerla ad interrompere per un attimo la sua vacanza e, magari, ad evitare un eventuale guerra. Ma, soprattutto, vorrei parlare agli Alti e vedere che cosa vogliono…è così strano che cerchino contatti e collaborazioni con noi…inferiori!”.

Il Dio delle Letterature si alzò. Era nato nel regno degli angeli e quindi continuava a vestirsi come tale. La sua lunga tunica frusciò sul pavimento in legno e, a piccoli passi, si avviò verso la sua stanza personale, il suo ufficio. Scosse le ali nere, che persero qualche piuma.

“State tranquilli, tutti quanti. Sono sicuro che non è niente di grave!” disse, tentando di calmare la famiglia.

Una volta chiusa la porta prese fra le mani un libro del color dell’inchiostro. Lo aprì e, con una sua parola, la superficie della carta iniziò a mutare. I simboli su di essa cambiarono e si sollevarono a mezz’aria. Ne toccò uno e la superficie della pagina divenne riflettente, come uno specchio.

Comunicò con altre divinità e decisero d’incontrarsi alla ricerca della Dea della Pace.

Fatto questo, ripose il volume e si sedette accanto alla scrivania. La sedia scricchiolò. Era di legno antico, forse era più vecchia del Dio stesso, e pregiato: un bel regalo di matrimonio.

Si ritrovò a pensare ad una sera lontana ed alle motivazioni che lo avevano spinto a convolare a nozze con la Dea della Parole. Si versò da bere, una spiacevole abitudine che aveva acquisito da un paio di secoli, e, con il bicchiere in mano, continuò a riflettere in silenzio.

 Il palazzo del Dio Triplice. Che sia Kasday? Il mio Kasday? I nostri figli sono cresciuti…amore mio. Perché continuo a chiamarlo così? Non ha più nulla a che vedere con la persona che amavo…non è più com’era. Mi spaventa. Mi turba. E l’idea che possa rivedere i miei figli…non  so se posso permetterlo. Non  so se posso lasciare che accada. E come potrebbe reagire alla notizia del mio matrimonio? Sicuramente male!  Non riesco ad immaginare ciò che potrebbe farmi…dicono che sia impazzito.

 Si sentì bussare alla porta.

“Avanti!” esclamò il Dio, sobbalzando per la sorpresa.

Era un giovane dai capelli corvini, dritti, a caschetto, con i due ciuffi anteriori più lunghi rispetto al resto della pettinatura. Aveva dei tratti molto particolari. Gli occhi li aveva allungati e truccati, egiziani o forse orientali, e le labbra erano carnose, rosso rubino. Il suo sguardo era malizioso e sensuale.

“Posso fare qualcosa per te?” domandò il padrone di casa.

L’ospite annuì. Aveva le ali, d’angelo, di un colore misto fra il blu e il verde. Fece un inchino al Dio delle Letterature, congiungendo le mani, dopo averle liberate dall’ampissima manica della veste di lino bianco. Era vestito in modo piuttosto semplice, nulla di elaborato. Le cose più vistose che indossava erano gli orecchini, dorati e ricchi di pietre preziose. Rappresentavano un sole che sorge con un ideogramma, o un geroglifico, a fianco.

“Avrei bisogno di un libro”.

La sua voce era ammaliante e strana.

Vereheveil osservò gli occhi scuri dell’angelo e sorrise: “Sei nel posto giusto! Ma io non posso seguirti adesso. Ho lezione con i miei allievi. I bambini arriveranno a momenti…”.

“Va bene, maestro Vereheveil, ne sono consapevole. Saprò aspettare”. 

“Benissimo. Se volete potete venire con me…i bambini non mordono! Non me, perlomeno..”.

Il giovane seguì il Dio lungo i corridoi fino a giungere in una piccola stanzetta molto luminosa e colorata, piena di banchi e sedie, dove stavano seduti tanti piccoli angeli e Dèi in modo ordinato.

“Gibrihel?!” domandò il Dio delle Letterature, vedendo l’Arcangelo in cattedra.

Gibrihel alzò lo sguardo dal libro che teneva fra le mani e sorrise: “Ciao, collega!”.

“Dov’è Rahahel?”.

Rahahel era l’Arcangelo che, normalmente, svolgeva la lezione precedente a quella del Dio delle Letterature e delle Lingue.

“Non l’ho visto oggi. È assente ma ho fatto io lezione per lui, tranquillo”.

“Ti ringrazio. Ora puoi andare, ci penso io”.

“Vuoi che passi a dare un’ occhiata alla classe degli intermedi?”.

“Magari. Mi toglieresti un pensiero”.

“Li ho fatti leggere…” comunicò l’Arcangelo a Vereheveil, che annuì.

Il Dio delle letterature sedette ed invitò gli alunni a prendere carta e penna, dopo aver salutato il Maestro Gibrihel e aver presentato il suo ospite alla classe.

“Lui è straniero. È qui per vedere come si studia dalle nostre parti. So che è molto più grande di voi, ma per oggi farà parte della classe”.

Gibrihel si alzò e si stiracchiò le ali dorate. Sciolse i capelli biondi e ricci e si avviò verso l’uscita. Guardò con i suoi enormi occhi azzurri tutti i bambini, assorti e silenziosi.

“Grazie, Maestro Vereheveil. Il mio nome è Sarmorghell” disse il giovane dai capelli neri, ed andò a sedersi.

Vereheveil iniziò la lezione. Si dimenticò della lettera e si dedicò all’addestramento di Angeli e Dèi.

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Capitolo 3
*** III- demoni ed arcangeli ***


III

 

DEMONI ED ARCANGELI

 

Rahahel aprì gli occhi grigi, coprendoseli con il dorso della mano per proteggerli dalla luce. Li stropicciò, assonnato. Avvertì una fitta alla testa..si sentiva molto confuso.

Tentò di alzarsi da quel letto di seta…nera?! Che ci faccio io su un letto di seta nera?! Si chiese, allarmato. Non riuscì ad alzarsi ed ebbe un crampo allo stomaco.

Questi sono i postumi di una sbornia!

Tornò a chiudere gli occhi e ficcò la testa sotto il cuscino. Sentì lo scricchiolio di una porta che si apriva e un piccolo ticchettio, da artiglio o da tacco di scarpa.

“Ti sei svegliato, piumino?”.

Che voce poco angelica…è quasi… “Luciherus?” domandò l’Arcangelo.

“Sì. Chi ti aspettavi? La fatina buona? Ieri sera eri ubriaco disfatto e ho dovuto tenerti qui a dormire”.

Rahahel non ricordava. Lentamente, gemendo, tirò fuori la testa da dove l’aveva infilata.

“Parla più piano, Lu-chan! Ho la testa che scoppia!”.

“Lu-chan?! Vabbè…per oggi passi…sei ancora alticcio”.

L’Arcangelo passò entrambe le mani sui capelli biondo scuro ed inarcò la schiena. Le piume delle sue ali erano tutte gonfie e in disordine.

“Lu! Hei, Lu! Ti siedi qui, vicino a me?”.

Il Principe dei Demoni si mise a ridere e sedette sul letto con un largo sorriso: “Io te lo avevo detto di non bere troppo! Ma mai una volta che tu mi dia ascolto, Rahahellino!”.

L’arcangelo si rigirò sulla pancia e fissò il soffitto affrescato, attraverso il velo del baldacchino. “Sto davvero male”.

Il demone rise di nuovo e gli si stese a fianco: “Povero, piccolo, angelo! Hai davvero una faccia stravolta!”.

Rahahel emise un gemito e una specie di singhiozzo.

“Oh! Suvvia! Non è il caso di piangere! Non è successo niente!” lo derise il Principe, alzandosi “Ti faccio portare qualcosa. Vedrai che poi starai meglio!”.

L’Arcangelo sospirò, sentendo il demone parlottare con qualcuno alla porta.

“Ho ricordi confusi, Lu. Cos’è successo, esattamente, ieri sera e stanotte?”.

Luciherus tornò a sedersi sul letto: “Che cosa ricordi?”.

“Mmm…musica, luci, alcol…” iniziò la creatura angelica.

“…donne, uomini, danze!” terminò il Principe.

“Mi hai portato a donne? Ho rimembranze vaghe in proposito…”.

“Chi?! Tu?! No! Certo che no, pium-piumino! Dubito che tu ne sia capace!”.

 Bussarono alla porta e il demone andò ad aprire. Tornò con un bicchiere in mano e lo porse all’angelo.

“Lu-chan…lo sai che io ho perso l’aureola per colpa tua?”.

“Non dire stronzate e bevi!”.

“Io ti dico di sì. Io…ho dovuto mentire!”.

“E io che cosa ho a che fare con  il fatto che tu sei bugiardo?”.

“Io…ho dovuto mentire. Per nascondere il tuo segreto. Perché io…conosco il tuo segreto. So che tu…hai le ali da Arcangelo”.

Luciherus strinse più forte il mantello che aveva sulle spalle. Le sue ali da demone erano ben visibili ed aperte, ma quelle dorate e piumate erano sempre prudentemente celate sotto il mantello. Rahahel teneva il bicchiere fra le mani. Allungò il braccio, afferrando la borsa dimenticata in terra, e versò una polverina nella bibita. Bevve, con un’espressione disgustata.

“Fa tanto schifo?” domandò il Principe.

 “Mai provata?”.

“No. Io non mi ubriaco mai!”.

Il demone legò i capelli scuri con un nastro vermiglio e si fissò, con accigliati occhi aranciati, attraverso lo specchio sulla parete.

“Io ho dovuto mentire, Lu. Non potevo dirgli che non sei più…come prima! Gli altri demoni come avrebbero reagito? E i Serafini-capo? Non volevo che ti facessero del male. E poi…io ho fatto un patto con il Dio del Kaos, tanto e tanto tempo fa, per salvarti la vita. Perciò, se io ora sono senza aureola, è solo per colpa tua!”. 

“Se volevi redenzione, perché sei venuto qui ieri sera?”.

 “Per provare”.

Luciherus lo guardò con aria interrogativa: “Provare? Provare cosa?”.

“Sì, provare. Ad essere un caduto, come te!”.

“Tu non sei adatto a questo ruolo…”.

Rahahel tornò a fissare il soffitto: “Lu…? Secondo te…se io cadessi…sarei maschio o femmina?”. Il demone rimase alquanto perplesso dalla domanda: “Perché pensi che dovrei saperlo?”.

“Ricordo che, quando eri un Arcangelo come me, sapevi già di essere maschio. Ma io non lo so!”. “Questa notte c’erano tante creature, maschi e femmine, quale credi ti sia piaciuto di più?”.

“Non lo so. Mi piacevano tutti!”.

“Oh, certo! Voi angeli amate tutti!”.

“Cosa vuoi saperne tu dell’amore? Vereheveil dice…”.

“Non pronunciare mai quel nome in mia presenza! Mai!” urlò Luciherus, visibilmente alterato. Rahahel tacque: “Io credo…di essere maschio!” continuò, dopo un po’.

“Facciamo progressi, pennuto. E cosa ti spinge a crederlo?”.

“Sarah!”.

“Chi?!”.

“Lei…lei si chiama Sarah”.

“La moglie di quel mortale di nome Tobia che aiutasti un paio di anni fa?”.

“Proprio lei. E da quel giorno non riesco a togliermela dalla testa!”.

“Ma cos’ha di tanto speciale? Anche Asmodai non fa altro che parlare di lei!”.

“Lei è tutta speciale! Ma, amandola, perderei lo stato d’Arcangelo. Cadrei! Perderei le ali piumate!”.

“Che cazzate! Secondo me non vero. E poi…l’aureola l’hai persa e ci sei tornato comunque dai tuoi amichetti piumosi e teneri!”.

“Veramente…”.

“Ah! Ora vorresti un corpo come il mio! Sfotti, da bravo…e ora piangi!”.

“Vattene! Sei cattivo!”.

 “Ma non mi dire!”.

“Non voglio più parlare con te…”.

“Ora capisco la tua totale indifferenza nei confronti delle persone alla festa di ieri…”.

“E tu? Tu perché resti indifferente? Io, almeno, ho una scusa!”.

Luciherus non rispose.

“Pensavo che, una volta tolta la maledizione che ti impediva di avere figli, avresti riempito il mondo di luciferini e invece niente…neanche uno! Dov’è Lilith, la tua compagna?”.

“Non sono affari tuoi!” sbottò il demone e starnutì, raggomitolandosi nel mantello.

“Hai un’aria strana, Lu. Sei malato? Posso aiutarti?”.

 “É allergia. E dubito che tu mi possa aiutare, visto come sei ridotto dopo un solo bicchiere di Vodka. Senza contare che hai il raffreddore da giovedì!”.

Rahahel sbuffò: “Sono l’Arcangelo guaritore…ma non mi va di lavorare per me stesso!”. All’ingresso della camera apparve, timidamente, Azazel, l’araldo di Luciherus. Era un demone piuttosto minuto e non aveva per niente l’aria minacciosa.

“Signore?” chiamò con la sua voce squillante “Scusate, Signore. C’è qualcuno, o qualcosa, di là, che dovrebbe vedere”.

“Arrivo subito, Azazel”.

Luciherus si avviò verso l’uscita.

“Ti voglio bene, Lu-chan!” gli urlò dietro l’Arcangelo.

“Fatti una doccia e torna a casa! Non sei proprio te stesso!”.

“Lu…noi…non abbiamo fatto sesso, vero?!”.

“Non hai gli attributi fisici per farlo e poi…per i fuochi di Gehenna! Certo che  no!!”.

 

 

Il Principe uscì dalla camera, serrando il mantello: “Cosa c’è, Azazel?” chiese, con aria assorta.

“C’è un ospite di là. Dice di avere notizie importanti…”.

“Bene”.

I due demoni si avviarono, l’uno accanto all’altro, lungo il corridoio. Azazel era un piccolo demone vestito in nero e arancione, con un elegante cappello con piume ed un abito elaborato.

“Cosa ci fa Belzebù davanti alla sala dei ricevimenti?” domandò il Principe, leggermente accigliato. “Io…non saprei che risponderle, Signore” disse l’araldo, confuso.

“Vostra Grazia!” salutò il demone con occhi da mosca, facendo un inchino “Vostra Grazia! Che meraviglia! La vostra luce rossa è così meravigliosa e forte! Illumina tutto il palazzo…che splendore! E la…”.

“Piantala Belzebù!” lo interruppe Luciherus, infastidito “Sei un falso, mosca, e non ho tempo da perdere con le tue moine!”.

Il demone sottoposto non  rispose. Sbatté tutti gli occhi, che aveva sparsi lungo tutto il corpo. Ognuno di essi era scomposto in piccole particelle. Rimase in silenzio, ronzando sommessamente.

Il padrone aprì il portone della sala dei ricevimenti, comunicando ad Azazel che era libero di andarsene.

“Vostra Altezza…” ricominciò Belzebù, chinando il capo “Vostra Altezza…c’è una cosa che volevo chiederle già da un po’”.

“Parla insetto e poi sparisci”.

“Io mi chiedevo, mio Principe, cosa c’è di diverso in Lei, ultimamente. Non so bene che cosa sia ma…forse è solo una mia impressione…”.

“No, no. Hai ragione!” tagliò corto Luciherus. “Ho qualcosa di diverso. È che…ho tinto i capelli. Li ho fatti biondi”.

“Oh! Giusto! Il colore chiaro vi illumina e vi incornicia bene il viso e…”.

Il Principe chiuse la porta, lasciando fuori Belzebù e non sentendolo più. In realtà i capelli non li aveva tinti, erano sempre dello stesso colore, solo leggermente striati di bianco.

“Eppure…” continuò, perplesso, Belzebù “C’è qualcos’altro. Ha qualcosa di strano in corpo. Mi dà questa sensazione da un sacco di tempo, dall’ultima guerra fra l’antico Dio del Kaos e la passata Dea Destino. Ha rischiato di morire, quella volta. Sarà per questo…”.

“É più aggraziato…” gli rispose Azazel. “Più solitario, più silenzioso. Senza parlare che, a differenza di un tempo, ha rinunciato a molte attività. Non so se mi spiego…”.

“Ti riferisci a Lilith? L’ho notato anch’io, araldo. Il suo rapporto con  le donne è molto cambiato. Forse è vecchio e ha bisogno di una mano per comandare…”.

“Non dire fesserie, moscerino!” affermò Asmodai, il capo delle guardie del principato, avendo sentito tutta la conversazione dal portone d’ingresso.

Il grosso demone spaventò Belzebù che sparì nell’ombra. Il capo delle guardie gli ringhiò contro.

“Dimmi, Azazel, perché rivolgi la parola ad insettucoli così fastidiosi?”.

“I pazzi si assecondano, Asmodai!”.

“Che cosa hai portato al Principe?”.

“Un Messaggero. Cose molto interessanti…”.

 “Cose che non mi riguardano! Vuoi una birra, Azazy?”.

“Magari! Andiamo!”.

 

 

“Figurati se quel fallito ronzante e lecchino riesce a soverchiarmi con le sue frasi mielose!” bofonchiò,fra sé, Luciherus, illuminando la stanza buia con la sua luminescenza rossa.

Il Principe si avvicinò, con le mani incrociate dietro alla schiena, alla figura incappucciata al centro della stanza. Era stata catturata dai suoi soldati e ora restava, inginocchiata, con le catene alle mani e ai piedi.

“Bene, bene, bene…chi abbiamo qui?”.

Il demone girò attorno al detenuto, imbavagliato, che lo fissava con aria di sfida, come a volergli dire che non aveva paura.

Luciherus tolse il fazzoletto sulla bocca del prigioniero con un artiglio: “Nosmagiés! Sei tu!”.

L’incatenato annuì.

“Che piacere rivederti!” riprese il Principe, salendo sul trono nel centro della stanza “Che si dice, di bello, dalle tue parti?”.

“Puoi slegarmi, per favore?” rispose il Messaggero, in tono acido e annoiato.

“No. Lo vedo da qui che sei armato! Ed io ci tengo alla mia vita! Pur sapendo perfettamente di essere in grado di difendermi da un cosetto come te…”.

“Non serviva rapirmi! La notizia che porto l’avresti saputa comunque al più presto, anche se non sei un Dio! Questo perché uno dei miei ultimi recapiti è stata la Dea delle Parole, che non è in grado di mantenere un segreto. Senza contare che tua figlia, la Dea della Morte, ti avrebbe detto ogni cosa”. Il demone scese dal suo trono. Tolse il cappuccio all’angelo, liberando una cascata di capelli color magenta: “Hai dei così bei capelli, messaggero…esattamente come me li ricordavo. Non dovresti nasconderli”.

Nosmagiés sorrise, beffardo.

“Dov’è la tua aureola, angelo?” domandò Luciherus.

L’incatenato non rispose.

“Se non ti va di dirmelo va bene…non importa. Ora, però, dimmi pure le notizie che porti alle altre divinità”.

“No di certo, Demone! Solo agli Dèi io ho il compito di riferire!”.

“Quanto sei noioso…lasciateci soli!” urlò il Principe, rivolto alle guardie presenti nella sala che obbedirono “Ora siamo solo io e te…mi dirai ogni cosa…” esclamò il demone, prendendo fra le mani il viso dell’angelo e costringendo il messaggero ad alzarsi. “…oppure preferisci che ti strappi quelle tue due belle ali d’argento dalla tua bianca schiena immacolata?”.

“Immacolata? Sei fuori strada…”.

Luciherus lo lasciò cadere in terra, sul pavimento di marmo nero: “Il mio è un ordine, messaggero!”.

“Tu non puoi darmi ordini, diavolo!”.

“Solitamente la gente ha paura di me. Tu no…”.

“Nulla può spaventarmi ormai!”.

“Perché non vuoi parlarmi?”.

“Come perché? Perché sei un demone!”.

Luciherus sospirò e slacciò il mantello. Liberò le ali da angelo, dorate, che si espansero e riempirono la stanza di un bagliore quasi accecante.

Nosmagiés chiuse gli occhi per non rimanerne abbagliato.

Quando li riaprì non vide più il demone ma l’Arcangelo più bello che avesse mai avuto dinnanzi.  Senza corna, coda o altri tratti demoniaci. Nonostante lo sguardo, decisamente poco rassicurante, capì subito chi aveva accanto.

“Ti dirò tutto quello che vuoi, Luciherus, ma non perché ti sei mostrato in questo modo, bensì perché sei amico del mio Signore. E poi, tecnicamente, sei di livello superiore al mio nella gerarchia angelica”.

Guardandosi attorno, il Messaggero si accorse che non  solo le vesti del demone erano cambiate, passando dal nero al bianco, ma anche il resto della stanza era differente. Ora era affrescata e decorata in azzurro cielo, dorato e avorio. Rimase incantato ad osservare quello spettacolo e fu la voce del bellissimo Arcangelo a ricondurlo alla realtà: “Ora dimmi ogni cosa, Nosmagiés! Non ho tutta la giornata…”.

Subito l’angelo parlò, pronunciando ad alta voce il contenuto della lettera. Poi scese il silenzio. Luciherus tornò, gradatamente, al nero ed all’aspetto da demone, così come ritornò cupo anche l’arredo della stanza.

Celò di nuovo le ali sotto il mantello e parlò: “Il palazzo del Dio triplice?”.

Nosmagiés annuì: “Convocati da Momoia in persona! Se sai chi è Momoia…”.

“Certo che so chi è, pennuto! Non sono proprio così ignorante! È il nome della Regina degli Alti. Certo che…ha un nome proprio stupido! Vabbè che anche il tuo…Nosmagiés…i tuoi genitori han giocato con il paroliere prima della tua nascita?”.

Il messaggero non rispose e il demone continuò a parlare.

“Per quale motivo richiamano tutti gli Dèi?”.

“Dicono che ci sia in programma una guerra”.

“Impossibile. Se così fosse, cosa gli servirebbe la presenza della Dea delle Parole e di quel fallito di Vereheveil? Quello non sa la differenza fra una spada ed un’ascia…figurati se è in grado di combattere!!”.

“Forse agli Alti serve la loro forza magica…”.

Luciherus spalancò gli occhi, sollevando Nosmagiés da terra, senza toccarlo, semplicemente utilizzando la magia. Contemporaneamente fece lo stesso con tutti gli oggetti della stanza, facendoli ruotare attorno all’angelo in un vortice velocissimo. Tutto si oscurò ed il messaggero ebbe l’impressione di vedere dei fulmini nel buio e le fiamme negli occhi, senza più pupille e cornee, del demone.

“Come vedi è una cosa di cui anch’io sono piuttosto fornito. La magia scorre potente in me, Messaggero! Ne ho a sufficienza per poter affrontare e battere quell’insulso Dio delle Letterature!”. La voce del Principe si era fatta minacciosa, cupa e profonda. Ora era del tutto un demone. Era grosso, spaventoso e pericoloso. Solo quelle piccole ali d’Arcangelo, prudentemente celate, mostravano una sua natura diversa.

“Io non so da dove deriva il tuo immenso potere, Principe, e non posso farci niente. Loro, gli Alti, convocano Dèi e tu non lo sei!”.

Con un gesto della mano, il demone liberò il messaggero dalle catene che lo imprigionavano.

“Come sta il tuo padrone? Come sta Kasday?”.

Nosmagiés si scosse, facendo tornare la circolazione del sangue negli arti atrofizzati dai legacci troppo stretti.

“Allora? Mi rispondi? Come sta Kasday? Non ho più notizie di lui dalla notte in cui sono nati i gemelli…”.

“Mi fa piacere sapere che almeno qualcuno ricorda quella notte e, soprattutto, ricorda Lui senza averne paura!”.

“Paura?! Di Kasday? Scherzi?!” esclamò il demone, stupito da quella frase.

“Vereheveil ha paura di lui…”.

“Vereheveil è un fallito! Come maschio e come creatura in generale”.

“Semplicemente è più…sensibile di te!”.

 “E di te! Tu non ne hai paura!”.

“Hai ragione. È più sensibile anche di me!” sorrise l’angelo.

“Voglio solo sapere se sta bene, Nosmagiés. E se vive una bella vita”.

“Non credo di poterti rispondere di sì. Ma non sono cose che ti riguardano”.

“É vero che…” domandò sottovoce il Principe”…che è impazzito?”.

“Bada a come parli!” esclamò il Messaggero, estraendo la spada e puntandola alla gola di Luciherus che, preso di sorpresa, spalancò gli occhi allarmato.

Poi il Principe spostò la lama da sé con due dita e sorrise: “Non volevo farti arrabbiare, angelo! Mi dispiace. Volevo solo notizie di lei…lui…”.

“Pensi a Kasday come ad una donna?”.

“É la madre di mia figlia. Ovvio che ci penso come se fosse una donna…”.

“Riferirò che avete chiesto sue notizie. Credo possa fargli, o farle, piacere”.

“Vorrei partecipare a quella riunione. Per salutare”.

“Non ti servirebbe. Il mio padrone non sarà presente. E l’unico modo per esserci è diventare un Dio. Che ti devo dire? Impegnati!”.

Nosmagiés sorrise e rifoderò la spada, sapientemente celata sotto la veste.

“Vai pure adesso, Messaggero” gli disse Luciherus.

L’angelo si mise a ridere: “Ti hanno mai detto che la tua Esse sibilante è adorabile?”.

Il Principe non rispose e ruotò gli occhi, scocciato.

“Volevo farti sapere che il mio padrone vi osserva tutti, attraverso i suoi specchi”.

“Torna da lui adesso, avrà bisogno di te. Salutamelo. Salutami Kasday”.

Nosmagiés si inchinò, non notando lo strano atteggiamento turbato del demone, ed uscì dalla stanza con passo rapido, desideroso di tornare al più presto dal suo padrone. 

 

 

Luciherus tornò nella sua stanza, senza dire una parola. Rahahel era ancora lì e si era riaddormentato. Il demone, con un sorrisetto divertito, lo ignorò.

Sospirò. Era stanco di essere ciò che era diventato. Mosso da un desiderio assurdo di magia, potere e controllo, decise che era arrivato il momento di riprendersi Lilith, con le buone o con le cattive! Non poté fare a meno di notare la sua immagine riflessa nello specchio a parete della stanza. Prima che la maledizione gli fosse tolta, lui non aveva la possibilità di vedersi riflesso ma, da quando Kasday lo aveva liberato, poteva specchiarsi e la cosa gli dava fastidio, specie ora che era un ibrido angelo-demone.

Appoggiò la fronte sulla superficie gelida e ringhiò alla sua immagine.

“Kasday…puoi vedermi attraverso i tuoi specchi? Perché non lasci che anch’io lo possa fare? Voglio solo…”.

Si sedette in un angolo, con la schiena e le ali contro la parete.

Si accese una sigaretta e fissò il vuoto, in silenzio. Voleva solo, per un attimo, sapere cosa era successo, come stava, che faceva…

Rahahel, risvegliato dall’odore di fumo e cenere, si alzò e tolse la sigaretta dalle mani di Luciherus, gettandola dalla finestra.

“Vuoi morire oggi, microbo?” ringhiò il demone.

“Non ti fa bene quella roba!” si giustificò l’Arcangelo, con aria serafica ed innocente.

“Ma quand’è che inizi a farti i cazzi tuoi, piumoso?”.

Rahahel fece finta di non sentire la domanda ed improvvisò un balletto, con un gran sorriso.

Si sentiva meglio e voleva farlo notare al mondo. Canticchiò felice ed invitò il Principe a fare lo stesso. Questi rispose mostrandogli il dito medio.

“Lo sai che parli nel sonno, Rahahel?”.

“Sì, lo so! Scusa! Tu invece ti agiti! Ti dimeni come un…”.

“Dillo!”.

“…come un indemoniato!”.

L’angelo si mise a ridere e si sedette accanto al demone.

“Cosa c’è Lu? Hai una faccia…”.

“Ma che te frega?! Piuttosto…ti va di andare al mare? Devo andare sull’Isola a riprendermi Lilith”. “Sull’Isola? Dove vanno gli Dèi in vacanza? E lei cosa ci va a fare là?”.

“É con il Dio della Giustizia”.

Rahahel si osservò allo specchio, sistemandosi i capelli.

“Con il Dio della Giustizia? A fare cosa?”.

“Ma che domanda cretina, piumino per la polvere! Si diceva che la Giustizia andava a puttane…ora ne ho la certezza definitiva!”.

Luciherus ridacchiò, sicuro che Rahahel non avesse ben capito cosa intendeva dire.

“Ad ogni modo…” continuò, tornando serio “…devo riprendermela. Lei appartiene a me, in ogni sua parte! Nel corpo e nella mente…specie nel corpo! Quella piccola troietta deve tornare a casa!”.

Rahahel lo fissò, con aria interrogativa: “Sei proprio crudele. Chi ti dice che lei stia facendo…quello che pensi?”.

Il demone sospirò: “Perché io, a differenza di te, conosco le persone. Ma tu continua a vivere nel tuo mondo fatato!”.

“Cattivo”.

“É il mio lavoro”.

“Ok. Io ci vengo al mare. Posso portare Miky?”.

“No!!”.

“Oh, dai! Tu porta Asmodai, o Azazel. Chi ti pare…così siamo pari!”.

“In effetti, Azazel avrebbe bisogno di cambiare aria ogni tanto, povero piccolo”.

Luciherus si alzò, sistemando il vestito e accendendo un'altra sigaretta.

“Perfetto! E Cerbero?” esclamò l’Arcangelo con un sorriso.

“Perché dovrei portare quello stupido cane?”.

“Così ci divertiamo! Dai!”.

Il Principe sorrise, poco convinto, controllando allo specchio che le ali da angelo fossero ben coperte: “Guarda che non vado a passeggiare, Rahahel. Sarà una cosa breve, capito? Non posso e non voglio perdere tempo!”.

“Tranquillo, Lu! Non ti darò fastidio ed andrà tutto bene!”.

Il padrone di casa scosse il capo, sicuro che non avrebbe rispettato i termini.

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Capitolo 4
*** IV- padroni ***


IV

 

PADRONI

 

Nosmagiés rientrò in casa, seguendo il timido fuoco fatuo azzurrino, mandato dal suo padrone, che lo guidava verso la dimora. Nel palazzo faceva freddo, come sempre. Con un sospiro, si orientò facilmente nell’oscurità fino a raggiungere una finestra coperta da una tenda spessa. La scostò per far entrare un po’ della luce del mattino ma, non appena un raggio di Sole entrò nella stanza, l’angelo udì un gemito di protesta. Subito richiuse i tendaggi e tornò tutto buio.

“Signore? Siete qui? Vi credevo nelle Vostre stanze, chiedo scusa!”.

Gli enormi occhi del padrone di casa tornarono a posarsi sull’ombra creata dal caminetto spento, dopo aver visto che Nosmagiés lasciava fuori dalla stanza il Sole. Allungò le braccia verso un fuoco immaginario e poi le ritrasse, di scatto, come se si fosse scottato. Il messaggero tolse il mantello, liberando i capelli e le ali, ed andò a sedersi accanto al suo padrone, raggomitolato in un angolo.

“Signore…fareste meglio a tornare al piano di sopra. Questa sala vi tormenta”.

Ma il padrone non si mosse. Con occhi spalancati, rimaneva fermo, fissando il vuoto. Giocava con le mani, agitandole convulsamente, scacciando insetti inesistenti e creando piccole bolle di sapone con una di esse.

Nosmagiés gli prese la punta delle dita, gelide: “Fa freddo qui. Avanti…venite di sopra. Starete meglio nelle Vostre camere”.

Il Signore non parlò. Concentrò lo sguardo verso il lunghissimo tavolo che era stato preparato nel salone, lo fissava con aria interrogativa.

“Momoia ha ordinato che vengano riuniti tutti gli Dèi” parlò ancora l’angelo “Non so per quale motivo, ha voluto che ciò avvenga proprio nella Vostra casa. Ho cercato di farle cambiare idea, ma lei ha insistito. Sono spiacente. So quanto il rumore e la gente la infastidiscano, Signore”.

Il Dio si alzò a fatica dalla sedia su cui si era accoccolato, quasi inglobandola a sé fra capelli e vesti. Era tutto imbacuccato in diverse stoffe ricamate. I suoi lunghissimi capelli neri si agitavano nell’aria e sembravano piccoli tentacoli, o arti, che esploravano la superficie dei mobili.

Lui pareva strisciare verso il tavolo. I tre abnormi occhi da falena del Padrone continuavano ad essere persi nel vuoto.

Nosmagiés lo guardò con apprensione.

Le orecchie a punta del Dio fremevano, ascoltando suoni che in realtà non c’erano. La mano sinistra, lucida, fredda e nera, del Padrone passò sul legno levigato, mentre quella destra, sottile, liscia e delicata, teneva serrati i diversi strati di vesti e stoffe che gli avvolgevano il corpo. Entrambi gli arti avevano, sul dorso, un occhio di colore diverso che chiudeva le palpebre in modo regolare e ruotavano lo sguardo di qua e di là.

Nosmagiés sapeva che non erano fatte di carne, ossa e sangue, come le sue, ma di vetro, pietra dura e magia. La maggior parte del corpo del suo padrone era fatto così.

Era a due colori e materiali. Perfino il suo viso era diviso fra la metà bianca e quella nera da un sottile disegno azzurro: lo stesso colore dei suoi due occhi più grandi. Il terzo, al centro della fronte, non si chiudeva mai ed era viola. L’angelo non era sicuro che quei tre occhi vedessero qualcosa. Era, invece, convinto che, a mettere a fuoco il mondo esterno, fossero le due iridi gialle, con una minuscola pupilla, che sormontavano le sottili e sinuose antenne che campeggiavano sulla fronte del suo Dio. Erano di colore rosso e spiccavano sul nero dei capelli. Inoltre si muovevano continuamente, attente ad ogni movimento. Lui non parlava quasi mai, non con Nosmagiés perlomeno, e la sua bocca color rubino era quasi sempre chiusa. All’angelo messaggero piacevano quelle labbra. Erano molto femminili, anche se gli dispiaceva che non gli rivolgessero spesso la parola. Vide che il suo padrone si era fermato, annusando l’aria. Pur non avendo il naso, ma solo due fessure a metà del volto, aveva un buon olfatto, come erano molto sviluppati tutti gli altri suoi sensi. Il Signore girò su se stesso e tornò a guardare il messaggero. Rabbonì i capelli, che si agitavano invano a caso, e gli andò incontro. Lo abbracciò, senza preavviso, e lo tenne stretto.

“Hai il loro profumo!” sussurrò, mentre l’angelo restava immobile e si lasciava avvolgere “Hai il profumo di tutti loro sulla pelle…che bello risentirlo!”.

Nosmagiés sorrise, era meravigliosa la voce del Dio che serviva.

“Scusami, scusami tanto, mio messaggero. Scusami se qui fa sempre freddo e perdonami…il mio aspetto è così terribile. Sono spaventoso…”.

“Voi non siete spaventoso. Per niente! Nemmeno quando mostrate il Vostro aspetto più crudele. Io non ho paura di Voi!”.

“Sei molto buono e tremendamente paziente. Fin troppo…”.

L’angelo sorrise al suo signore, quando questi gli guardò il viso.

“Non vorrei che tu ti ammalassi, Nosmy. Ma non posso farti accendere il fuoco, sono spiacente. Non lo potrei sopportare…”.

“Mio Signore, non importa! Ci sono abituato e sto bene…”.

“Sai che sei libero di andare quando vuoi…”.

“Mai lo farei. Devo portarVi dei saluti. Luciherus Vi ricorda e ha chiesto se state bene”.

“Spero che tu non lo abbia fatto preoccupare. Quel demone è testardo e se si impunta su una cosa…”.

“Tranquillo. Ricorda ancora il vostro aspetto di donna”.

“Commovente” commentò il Dio, acido.

“Kasday…”.

“Non mi chiamo così. Non più. Perciò non usare quel nome. Nessuno lo fa”.

Il Signore tornò ad avvolgersi nelle vesti e diede le spalle al suo interlocutore.

“Sarete presente alla riunione?” gli domandò l’angelo.

Il padrone scosse il capo.

“Ma…vi farebbe bene! É da quando sono nati i gemelli che…”.

Kasday lo zittì con un gesto della mano, nera, che fissò Nosmagiés con l’occhio ambrato che aveva fissato sul dorso dell’arto.

“Scusate…”.

Il Dio sbatté gli occhi azzurri, divisi in piccoli esagoni, il cui colore era unico, senza pupille o parti bianche. Brillavano come gli occhi di un insetto o come il guscio di una cetonia. Erano sottolineati da due lunghissime e sottili sopracciglia.

Lentamente, e in silenzio, il padrone di casa si avviò verso le sue stanze, salendo le scale, e lasciando Nosmagiés da solo, nel buio e nella quiete.

L’angelo messaggero sospirò. Aprì le tende e le finestre, ora sicuro che il suo Signore fosse al riparo nell’oscurità del piano superiore, e si scaldò un po’ alla luce del Sole. Il corpo del Dio che serviva era tremendamente freddo e toccarlo gli provocava una sensazione che lo inquietava.

Raccolse i lunghi capelli, ricci e magenta, in una crocchia e continuò a sistemare il salone, rimasto troppo a lungo inutilizzato e nella penombra. Spolverò e riordinò, anche se non c’era molto da fare: dopotutto si trovava nel palazzo dell’antico Dio dell’Ordine ed il suo padrone non aveva perso le vecchie abitudini. Una di queste era tenere tutto al posto giusto.

I mobili erano un po’ particolari, rispecchiavano la parte del suo Signore che rappresentava il Kaos, con poche linee parallele fra loro ma tanti angoli strani e storti.

Li lucidò con cura, così come fece con i lunghissimi tavoli blu scuro che aveva preparato. Ricontò le sedie, rosso cupo e blu, prestando attenzione a non dimenticare nessuno. Ad ogni seggiola collegò il nome di una divinità, che scrisse su un segnaposto, e che poi lasciò sui tavoli, avendo cura di non mettere sedute vicine due divinità rivali.

La struttura a ferro di cavallo, con cui aveva predisposto i mobili per il ricevimento, gli permetteva di avere a disposizione un ripiano centrale, in cui mettere un rinfresco. Sapeva quanto piacesse agli Dèi mangiare e bere a scrocco. Illuminò la stanza con degli specchi, consapevole di non poter accendere il fuoco e trovando la luce elettrica alquanto squallida.

Canticchiò e finì i preparativi anche per la stanza attigua, dove avrebbero potuto incontrarsi tutti gli angeli messaggeri delle varie divinità. Canticchiava perché era felice. Era convinto che un po’ di vita non avrebbe di certo guastato alla casa. Ma dentro di sé era anche un po’ preoccupato. Non sapeva come avrebbe potuto reagire il suo Signore davanti a tutta quella gente e quel rumore, dopo secoli e secoli di isolamento. Decise che doveva trovare il modo di farlo partecipare a quella riunione. Doveva trovare il modo di farlo scendere, di farlo unire agli altri Dèi, di farlo parlare con loro, di farlo…sorridere! Non avrebbe potuto fargli altro che bene.

Soddisfatto del suo operato e delle sue riflessioni, si fermò per qualche minuto. Sentì un po’ di fame e si preparò un panino veloce, giusto per mettere a tacere la pancia. Si sedette e contemplò l’enorme quadro, occupante tutta una parete, raffigurante un paesaggio notturno.

Annoiato, decise di giocherellare con una pallina fatta di carta stagnola. La lanciava in aria e la lasciava levitare con il battito delle sue ali piumate e candide. Una lieve corrente la fece volare via da lui, lontano. Imprecò sottovoce, non avendo voglia di alzarsi dalla sedia in cui stava.

“Non sapevo che gli angeli imprecassero…”.

Nosmagiés si girò. Il gigantesco quadro appeso alla parete divenne ghiaccio, o vetro, e una donna ci passò attraverso, entrando nel salone.

“É tutto pronto per domani, angelo?”.

“Sì. Certo, Madre Momoia”.

“Bene” affermò la madre degli Alti, guardandosi attorno.

Il messaggero la osservava, consapevole che quello che mostrava non era il suo vero aspetto ma solo una copertura, che le divinità Alte amavano usare per celare il loro corpo alla maggior parte delle persone. Lei, in quel momento, si presentava come una bella donna bionda, vestita in nero, con pizzi e stoffe pregiate. Sulla testa portava un velo che, in parte, la copriva. Era in lutto. Aveva perso il marito tempo addietro, morto o disperso e, dal giorno in cui era successo, lei si vestiva da vedova.

“Credi che il tuo padrone sarà presente?” domandò la Madre.

“Il mio Signore? Ne dubito”.

“É ancora rinchiuso nelle sue stanze?”.

“Esatto. Da solo. Come sempre. Nelle sue stanze”.

“Capisco. Provvederò io. Dopotutto, lui e la sua essenza mi appartengono”.

L’angelo non ebbe modo di ribattere. Lei salì le scale di corsa, quasi con rabbia. Il messaggero non la seguì, sapendo di non poterlo fare. Guardò verso l’alto, preoccupato.

Sentì la voce di lei, rumore di passi e poi le due figure spuntarono dalla cima delle scale.

Lei teneva Kasday per un braccio e lo trascinava di sotto, rimproverandolo.

Lui non rispondeva. Gemeva, protestando sommessamente, coprendosi gli occhi dalla luce del Sole. “Signore!” esclamò Nosmagiés, allarmato.

“Devi smetterla di fare il bambino!” ringhiava Momoia. “Devi smetterla! Te ne stai sempre da solo a rimuginare sul tuo passato, ma è una cosa stupida da fare! Sei un Dio! Un Alto! Hai tutta l’eternità davanti e non puoi sprecarla per piangerti addosso. Io ho perso il marito, non è mai tornato a casa, eppure so pensare ad altro! Se continui così, avrai un’eternità di dolore!”.

Kasday non rispose.

“Mi ascolti? Capisci quello che ti sto dicendo? Ci pensi ad un’eternità di dolore?”.

“Fai silenzio ti prego…” biascicò lui, stando in terra, con il braccio stretto da lei.

“Fai silenzio? Che significa? Come sarebbe a dire?”.

“Significa: stai zitta! Basta!”.

“Non puoi dirmi una cosa del genere! Il tuo corpo e la tua essenza sono una mia proprietà da quando hai fatto un patto con  noi Alti. È passato così tanto tempo che non te lo ricordi? Dopotutto, era all’inizio di quest’Era!”.

“Te lo ripeto: stai zitta! Non ho voglia di discutere con te. Lasciami in pace. Torna a casa. Non mi interessa proprio nulla della tua riunione e dei tuoi sottoposti”.

“Senti un po’, Creatore…l’unico motivo per il quale mi sforzo di sopportarti è perché sei tu che hai realizzato questi Mondi e questi Universi e tuo figlio è ancora troppo giovane per poterli controllare tutti. Altrimenti ti avrei già distrutto…mostriciattolo!”.

“Perché non lo fai? Perché non mi uccidi?”.

“Te l’ho appena spiegato! E ora ascoltami bene: vedi di portare giù quelle belle chiappe bicolore al momento della riunione se non vuoi che ti faccia molto male!”.

 “Io non ci sarò alla riunione…”.

Momoia sbuffò ed estrasse una piccola pietra dalla borsa che teneva al fianco. Era liscia e lucida. La strinse e la graffiò. Kasday gemette di dolore mentre profondi squarci gli si aprivano sulla schiena e sul petto, riempiendogli la veste di scintille magiche. Si lamentò flebilmente e poi rimase in silenzio.

“Se vuoi continuo, bastardello! Ma oggi mi sento buona. Se non vuoi che usi uno di questi ninnoli contro i tuoi amici, non ti conviene provocarmi. Vedi di essere presente!”.

“Io non ho amici. Nessuno piangerebbe nel vedermi soffrire. A nessuno importerebbe e a nessuno importa”.

Momoia lo guardò dapprima con rabbia ma poi si calmò. Con dolcezza lo abbracciò: “Povero piccolo!” disse, con sincero dolore.

“Non mi serve la tua pietà…e in ogni caso non ci sarò a quella riunione. Scusami tanto. Ma non  me le sento”.

Lui si scansò dal contatto di lei e si raggomitolò in un angolo.

“Ti prego! Ci terrei tanto a vederti, seduto accanto a me!”.

Kasday ruotò gli occhi e annuì, rassegnato: “E va bene! Ci sarò!”.

“Bravo il mio figlioletto adottivo!”.

La Madre degli Alti sorrise felice e si alzò, accarezzando il padrone di casa, che fece una smorfia. Si allontanò e tornò a passare attraverso il quadro, che ridiventò di ghiaccio e vetro per farla passare. Scomparve.

“Davvero signore?” domandò Nosmagiés.

“Cosa?”.

“Davvero andrete alla riunione degli Alti? Veramente sarete presente domani sera?”. 

“Certo che no!” esclamò di risposta Kasday, trascinandosi lungo le scale per poter tornare a rintanarsi nelle sue stanze “Come ho già detto, mio angelo, non mi importa nulla di quello che dicono, fanno o pensano, gli Alti e tutti i loro servi. Pur essendo io una loro proprietà…”.

Entrò in camera, chiudendo la porta dietro di sé, e lasciò di nuovo il Messaggero da solo e nel silenzio.

Nosmagiés ruotò gli occhi, rassegnato. Poi alzò le spalle, rendendosi conto che tanto non poteva fare nulla e quindi tornò a dedicarsi alle sue attività. Diede un ultimo controllo alla sala e, soddisfatto, tornò a giocare con la sua pallina di carta stagnola.

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Capitolo 5
*** V- incontri ***


V

 

INCONTRI

 

Il Sole picchiava forte sull’Isola. In quella piacevole giornata di bella stagione vi una marea di gente, un sacco di chiasso ed una notevole allegria fra i presenti. Il piccolo demone Azazel seguiva con gli occhi i giochi del cagnone del suo padrone che correva latrando di gioia, soddisfatto di non essere più rinchiuso fra le quattro mura del palazzo principesco. Per lui, povera bestiola, era molto scomodo, in quanto sfiorava il soffitto con  le tre teste da quanto era alto e quindi ora, che aveva la possibilità di stare all’aperto, esprimeva tutto il suo entusiasmo abbaiando e agitando la coda. Azazel lo ammirava divertito, mentre schizzava i passanti.

“Forse era meglio mettergli il guinzaglio!” suggerì Asmodai.

“Impossibile e, comunque, inutile. Il nostro padrone è l’unico in grado di trattenere Cerbero e la sua mole. E oggi non ha alcuna intenzione di portarselo appresso. Già è tanto se gli ha concesso di venire fino a qui…”.

“Prima vuole i cuccioli e poi li ignora…”.

“Credo sia un regalo. Fatto da Madama Lilith”.

Assieme ad Azazel ed al capo delle guardie, c’era anche un'altra persona ad accompagnare il Principe. Era Raven, la sorella maggiore di Azazel. Teneva fra le mani un ombrello di pizzo nero per coprirsi dal Sole, cacciando via il fratellino che tentava di sfruttare la sua ombra. Era molto più alta del piccolo demone e non si assomigliavano molto.

“Cerbero! Stupido cane!” sbraitò Luciherus “Devi cercare la tua padrona, non  i paguri!!”.

Il capo dei demoni camminava sul bagnasciuga, stando molto attento a non calpestare l’acqua con  i piedi scalzi. Con le grandi ali nere, si copriva dalla luce e, nonostante il caldo, teneva il mantello, consapevole di dover celare per bene le sue piccole ali  d’Arcangelo. Per l’occasione, era riuscito a ridurle fino a farle divenire non più grandi di un paio di centimetri. Le teneva sotto la camicia, ma si notavano due protuberanze copribili solo con il mantello.

Il cane, sentendo la voce del suo padrone, corse verso di lui alzando un muro d’acqua che inondò i presenti, demoni compresi. Luciherus tolse i pesanti occhiali da sole e lanciò la sua peggiore occhiataccia all’animale, che però non capì il disappunto del suo proprietario e scodinzolò felice.

Il Principe si scosse. Ora era fradicio e grondante d’acqua. Sputacchiò il liquido salmastro ed imprecò per una buona mezz’ora. In un primo momento fu  tentato di inseguire la bestia e punirla ma poi desistette, vedendo che Cerbero si trovava in acqua. Con i capelli appiccicati alla fronte ed al volto, iniziò a lanciare ordini ai suoi sottoposti. Coloro che lo accompagnavano si guardarono, preoccupati: non era mai una buona cosa quando il Boss era arrabbiato.

“Azazel!” esclamò Luciherus “Azazel, Asmodai, Raven: dividiamoci. Prima troviamo Lilith e prima torniamo a casa. Non preoccupatevi…” aggiunse poi, vedendo le loro espressioni “…nessuno ha intenzioni cattive. Tranne me! Specie ora che ho rovinato irrimediabilmente un completo e un paio di occhiali. Senza contare che sento la sabbia un po’ ovunque…”.

I tre demoni al suo seguito, chissà perché, non si sentirono molto rassicurati. Ma annuirono e si avviarono in direzioni diverse. Il Principe pulì le lenti, macchiate di acqua e sale, e brontolò sottovoce: “Ora sì che ricordo perfettamente perché odio andare al mare!”.

Strappò le maniche della camicia, che non sopportava più per l’eccessivo calore nell’aria, e ricominciò a camminare sulla spiaggia.

Dopo un po’ si frugò nella tasca, in cerca di un accendino, che però non trovò.

“Palla!” sentì urlare Rahahel.

Il demone, voltandosi, vide che l’Arcangelo stava giocando a pallavolo.

“Stupido piccione troppo cresciuto! È, giusto per ipotesi, colpa tua se io non trovo più il mio accendino?”.

“Esatto, Lu. Fumare ti fa male!” fu la risposta di Rahahel, dopo una schiacciata.

L’Arcangelo giocava con altre creature angeliche e, come il Principe ebbe modo di notare, con Azazel e Raven. Luciherus decise di non rimproverarli, per il momento, concentrato sul fatto che il suo obbiettivo era l’accendino. Ordinò al responsabile della sparizione di uscire subito dal campo, pena la morte, ma Rahahel non gli diede ascolto.

Il demone vide che erano tutti in costume e si chiese quale fosse il loro ombrellone.

“Palla!” urlò uno dei giocatori ed il pallone arrivò quasi fra le braccia del Principe.

Lui lo afferrò in fretta e lo tenne stretto. Si trovava in una posizione  rialzata rispetto al campo di pallavolo, su uno scoglio che dava sul mare da un lato e sul piccolo spiazzo con la rete dall’altro.

Rahahel lo raggiunse, quasi inciampando sui sandali, per riprendersi la palla.

“Passa, Lu!” esclamò.

“No!” rispose il demone, nascondendo la sfera dietro la schiena.

A nulla valsero i tentativi dell’Arcangelo di riprendersela.

“Tu restituiscimi ciò che è mio e io, forse, ti renderò la palla!”.

 “Non è qui con me! L’ho lasciato a casa!”.

“E allora tempo proprio che questa resterà con me…”.

“Come fai a zampettare con i piedi scalzi sulla sabbia bollente? È innaturale! Fermati!” esclamò l’essere angelico, inseguendo il demone che saltellava con un gran sorriso e con la palla sulla testa, fra le corna. Il calore della sabbia non era un problema. Azazel e Raven lo osservavano, ridacchiando.

 “Io e te facciamo i conti dopo!” sibilò il Principe, rivolto al più giovane dei due. Mai si sarebbe permesso di dire una cosa simile ad una donna!

“Ok, adesso basta! Tornaci immediatamente la palla, demone!” ordinò Mihael, uno dei giocatori, con un tono molto scocciato.

Luciherus gli rise in faccia. Con il costume, senza un’arma e senza armatura, l’Arcangelo era ridicolo e si trovava in netto svantaggio rispetto al suo avversario di sempre.

Il demone prese il pallone con gli artigli e, con un gesto fulmineo, lo fece esplodere: “Ops! Che sbadato!” esclamò, fingendo pentimento con  il tono, ma con un bel sorrisetto sadico.

“Perché lo hai fatto? Sei cattivo!”.

“Chiedetelo a Rahahel!”.

Remihel, l’Arcangelo della speranza, alzò le spalle: “Andiamo a prendere un’altra palla”.

Gibrihel sciolse i capelli biondi, scuotendo le ali per farsi aria: “Vado io” sussurrò.

Pochi minuti più tardi erano già in grado di giocare di nuovo.

“Metatron! Fai barriera!” disse Samahel, un altro Arcangelo, e Metatron, altissimo, si mise a ridere. “Non vale volare! Ricordatelo!” insistette Samahel.

Raven saltò, schiacciando e facendo punto. Le catene che portava sull’abito nero tintinnarono. “Yeah!” esclamò, e festeggiò con la sua squadra. “Lucy! Perché non giochi anche tu, Lucy?” domandò, rivolta al Principe.

“Sai quanto io non sopporti essere chiamato Lucy…”.

Osservò la demoniessa, dall’aspetto gotico e misterioso. Anche gli angeli la osservavano. Indossava un vestito troppo diverso dai loro, di colore corvino ed argento, con delle rose nere ricamate. Le sue corna erano a malapena visibili fra i capelli scuri e la coda era affusolata ed elegante. 

Azazel, il fratello minore,  invece aveva i pantaloni corti, dal quale sbucava la coda rossa, e una canottiera dello stesso colore con scritte luccicanti ma incomprensibili.

“Posso giocare anch’io?” domandò una squillante vocetta femminile.

“Sì, d’accordo. Ma mi raccomando, Dea del Kaos,  non usare i tuoi poteri divini perché se no non vale…”.

Luciherus le sorrise. Era cresciuta molto dall’ultima volta e con il costume bianco stava proprio bene, data la pelle nera. Il demone gemette. Aveva tanto caldo ed aveva girato la spiaggia in lungo ed in largo, senza trovare Lilith. Scoraggiato, si sedette sbuffando, facendo attenzione a non toccare la sabbia bollente. Aveva un’aria davvero afflitta. Si tenne la testa con la mano, appoggiando il braccio al ginocchio, e guardò il mare. Rifletté sul fatto che nemmeno i suoi sottoposti lo capivano. Perdevano tempo con gli angeli o, come Asmodai, rimorchiando ragazze. All’ennesimo urlo dei giocatori, si voltò di scatto verso di loro, spalancando gli occhi.

La palla esplose..ed il Principe ridacchiò: “Non pensavo che i miei poteri arrivassero fino a questo punto…”.

“Devi rilassarti, demone!”.

Si voltò verso quella voce e vide il Dio del Tempo. Era disteso sulla schiena e teneva accanto a sé il Dio del Sole, per abbronzarsi più in fretta. Luciherus non gli fece notare che stava diventando di un acceso color aragosta.

“Tempo! Non avrei mai immaginato di vederti qui…”.

“E perché? Dopotutto anch’io ho bisogno di svago ogni tanto! E poi sono qui per un motivo: devo trovare la Dea della Pace. Tu? Come mai da queste parti?”.

“Sono qui per Lilith. La devo riportare a casa”.

“L’ho vista ieri sera, con il Dio della Giustizia. Vanno molto in giro di notte quei due, è quindi probabile che siano ancora a dormire. Abbi solo un po’ di pazienza…”.

“Io non ho pazienza!” gracchiò il demone, agitando nervosamente la coda.

“Rilassati! Tutta questa tensione ed energia negativa ti fanno male al cuore! Goditi il Sole! Fatti una nuotata! Aiuta i miei figli a fare un castello di sabbia…”.

“Sono tutte attività che, sinceramente, detesto!”.

Il demone si guardò intorno ed iniziò a contare i figli del Tempo, spalancando gli occhi gradatamente.

“Sono tutti tuoi?” esclamò infine, con un’espressione sconvolta.

“Sono i miei tesori! I miei gioielli! Non fare quella faccia…e, a questo proposito, ci tenevo a farti notare che tutti noi Dèi ci aspettavamo da te una schiera di piccoli eredi e principini, una volta tolta la maledizione…invece…”.

“Ho già un erede!” tagliò corto Luciherus, stanco di sentirselo ripetere.

“Sì. Una. La Dea della Morte. Ma tutti noi eravamo in attesa di un bel gruppetto di Luciferini impegnati nella conquista dei Mondi, grintosi e irascibili come il loro papà! E pensavamo che ci avresti messo poco, visto come ti divertivi ad andare a donne, prima che Kasday ti liberasse dal maleficio. Non ci hai mai pensato?”.

“Ad avere altri figli? Sì, ma non fa per me…” rispose il Principe, osservando le piccole del Tempo sedute in riva al mare e impegnate nella costruzione di una graziosa fortezza.

“Non credo sia vero. Con tua figlia sei stato uno splendido papà”.

“Punti di vista…”.

“Non dire così! Ad ogni modo…la vita è la tua! Tua è la scelta! Però ti assicuro che avere una squadra di figli è davvero una cosa meravigliosa!”.

Luciherus non rispose. Starnutì e si scosse, preso da un crampo allo stomaco. Sospirò e gemette.

“Hai un accendino, Tempo?”.

“Certo che no! Io non fumo! Chiedi a lui…” rispose il Tempo, indicando il Dio del Sole. “Giusto…tu controlli anche le fiamme! Puoi accendermi una sigaretta?”.

“Non ti aiuterò ad ucciderti!” fu la risposta del Dio solare.

Luciherus ringhiò e si alzò. Rimase con la sigaretta, spenta, di sbieco in bocca. Guardò in alto, distratto dalla forma delle nuvole. In quel momento ci vedeva solo strumenti di morte come mannaie o fucili. Una risata armoniosa gli fece abbassare lo sguardo. Ora, accanto a lui stava una splendida donna. Non ne vedeva il volto, coperto da un grande cappello di paglia con il fiocco. “Serve una mano?” chiese lei, porgendogli un piccolo accendino d’argento “Tenete. Io ho smesso di fumare e non mi serve più. Forse dovreste smettere anche Voi..”.

Il principe allungò la mano verso quella delicata della donna. La sfiorò, sentendo quanto fosse vellutata, e strinse l’accendino. Accese la sigaretta e, nell’istante in cui si distrasse per guardare la fiamma, lei si allontanò. Il demone la guardò proseguire per la sua strada. Lei scostò il cappello e, girandosi, gli fece un sorriso, mostrando gli occhi viola. Era molto pallida ed il cappello la teneva all’ombra. Su una mano portava un lungo guanto in pizzo, che le avvolgeva il braccio fino ad oltre al gomito. L’altro non lo portava, l’aveva tolto per porgere l’accendino al Principe. Camminava scalza e l’abito rosso splendeva, comparendo sotto l’ondeggiare dei lunghi capelli scuri. Anche lei, come Raven, aveva fra le mani un ombrello ricamato per stare all’ombra.

Luciherus rimase incantato a guardarla, senza accorgersi di Cerbero, che correva verso la sua direzione. Il cane alzò un’onda altissima che lo colpì, costringendolo a chiudere gli occhi.

Quando li riaprì, lei era sparita.

“Chi era quella donna, Tempo?”. Ma il Dio non gli rispose. Si era assopito e, con lui, anche il Sole.

 

Il demone riprese la sua ricerca, camminando lungo la spiaggia e schivando tutti i bambini che correvano su e giù.

“Ciao, zio!” si sentì dire.

Kavahel, con un costume dello stesso colore dei capelli, lo aveva salutato.

Teneva fra le mani un gelato che leccava avidamente: “Come mai da queste parti? Non mi sembri un tipo da spiaggia…” commentò il giovane, ridacchiando.

Dopotutto Luciherus era l’unico con  i pantaloni lunghi ed il mantello.

“Cerco Lilith”.

“A quanto pare cerchiamo tutti qualcuno! Noi aspettiamo la Dea della Pace…”.

“Lo so”.

“Cos’hai, zio?” domandò il nuovo Equilibrio, notando quanto il demone fosse insolitamente pallido è più irascibile del solito.

“Non sono tuo zio!”.

“Ma a me piace chiamarti così…”.

“Non ho niente. È solo che mi sono accorto di quanto poco io conti fra questi Universi. Nemmeno i miei sottoposti mi obbediscono più. Sono cambiato. Sono invecchiato”.

“Sarà stata la Dea della Morte a cambiarti…”.

“La mia bambina? Con il suo maledetto matrimonio? Può darsi…”.

Il Principe gettò il mozzicone della sigaretta in terra.

“Forse Lilith è al largo, su una di quelle barche laggiù” suggerì Kavahel, indicando un’imbarcazione lontana all’orizzonte.

“Credo che, in questo caso, la aspetterò qua!” commentò il demone, osservando l’acqua che rifletteva la fortissima luce degli occhi dorati del ragazzo.

“Non avevo dubbi in proposito!” si sentì rispondere.

Luciherus si voltò, per vedere chi gli rivolgeva la parola in quel modo. Sotto un ombrellone verde chiaro se ne stava Vereheveil, tutto rannicchiato all’ombra e con un libro in mano.

“Non sono in vena oggi, Dio fallito!” gracchiò il demone, irritato.

“Sempre meglio essere un Dio fallito piuttosto che un Dio mancato, come te!”.

Il Principe gli ringhiò contro, agitando la coda.

“Non mi spaventi, sai! Puoi ringhiare quanto vuoi, mio bel demone! Dovrai fare molto più di così per farmi tremare” commentò, sarcastico, Vereheveil.

“Neanche rispondo ad individui come te…” sbottò Luciherus, e fece per andarsene.

“Certo, certo!” lo schernì il Dio delle Letterature, tornando a leggere.

Il demone, sentendo questo, tornò sui suoi passi e tolse l’ombrellone con due dita, per guardare il Dio negli occhi: “Smettila di sfottere, vigliacco!” ringhiò.

“Vigliacco?! Vigliacco a me?!” esclamò Vereheveil, accigliandosi.

I due, allora, iniziarono un’accesa discussione.

“Certo che sì. Sei un vigliacco. Una persona che ha paura della creatura che ha sempre amato, non può avere una diversa definizione!”.

“Ma fa silenzio, Esse sibilante! Che vuoi saperne tu dell’amore?! Sei incapace di provare un sentimento simile!”.

“Tu sì, invece! Hai ancora sangue di angelo nelle vene, Dio delle Lingue! E, come un angelo, ami ogni cosa! Povero Kasday…”.

“Non osare pronunciare il Suo nome!”.

“Altrimenti cosa mi fai? Chiami la mammina?”.

“Osi sfidarmi?! Ti ricordo che io sono un Dio!”.

“Un Dio venuto male!”.

“Almeno io lo sono, principino!”.

“Chissà chi hai corrotto o che cosa hai fatto per aver quel ruolo…”.

Una folla di gente si era radunata a guardarli, allarmati dal tono di voce dei due litiganti.

“Io so leggere, demone! Ecco la differenza fra me e te!”.

“Come ti permetti, piccolo ingrato?! Io ti ho salvato la vita quando sei caduto! Io ti ho tenuto al sicuro nella mia biblioteca! Io ho impedito che i miei sottoposti ti sbranassero o facessero ben altro. Ma ora ben mi pento della mia buona azione…avrei dovuto lasciarti morire!”.

“Tu ti sei scopato la persona che amavo!”.

“Forse lei amava me e non  te. Abbiamo avuto una figlia! E senza strani meccanismi magici come, invece, avete fatto tra voi!”.

“Quella che tu consideri una tua creatura è, in realtà, figlia dell’antico Dio del Kaos e di Kasday. Tu che c’entri? Terzo incomodo! Sei sempre e solo un terzo incomodo!”.

“Terzo incomodo?! Ti è mai venuto in mente che, magari, eri tu quello di troppo?”.

“Come puoi pensare che lei ami, o abbia amato, te? Nessuno può amare un essere come te…”.

“Mia figlia ha la mia stessa luce rossa. E nessuno mai potrà convincermi del contrario. Ad ogni modo, se può farti piacere, non credo che lei mi amasse…”.

“Tu non l’hai mai amata. Non ne sei capace. Ne hai approfittato vedendo una bella donna ma poi, quando hai scoperto chi fosse in realtà, te ne sei andato”.

“Lo ammetto. Ma tu sapevi chi fosse fin dall’inizio. Eppure hai fatto lo stesso: te ne sei andato. Perché ti spaventava. Come può spaventare una creatura come Kasday?”.

“Tu non sai niente! Sei meno di niente e non sarai mai nulla di più!” urlò Vereheveil, quasi in lacrime “Kasday doveva lasciarti la tua maledizione! Doveva far sì che il tuo corpo non avesse mai pace! Doveva lasciarti morire, assieme all’antico Dio del Kaos!”.

Il Dio si scagliò contro il demone, che lo respinse prontamente.

“Non toccarmi, Angelo!”.

“Io sono un Dio!”.

“Provamelo!”.

Vereheveil tentò di colpire Luciherus, ma questi lo immobilizzò con facilità.

 “Perché gli Alti convocano mezze calzette come te, angelo? A che cosa mai potrai servirgli?”.

 “Almeno io non sto sempre dalla parte sbagliata!”.

Il Principe reagì infilando la testa del Dio nella sabbia bollente.

“Ti piacerebbe essere mortale, vero Verehevy? Così finirebbe prima questa tortura!” rise sadicamente, continuando a tenergli la testa a terra.

Poi alzò gli occhi e vide che, fra la folla, stava anche la donna con il cappello di paglia che osservava la litigata con curiosità. Accanto a lei stava l’uomo con i tratti egiziani/orientali, amico del Dio delle Letterature.

“Ti sei distratto!” esclamò Vereheveil.

Teneva ancora fra le mani il suo libro e lo sbatté in faccia al demone, che si ribaltò. Luciherus si premette le mani sul volto, con rabbia.

“Non dovremmo fermarli?” domandò qualcuno.

La donna con  il cappello e l’amico di Vereheveil si guardarono, in silenzio. Dopo un po’, lei parlò: “Non è necessario. Il demone non può uccidere un Dio e Vereheveil non ha alcuna speranza di battere il Principe”.

“Papà!” sbottò Kavahel, tirando indietro il Dio delle Letterature “Smettila di fare il bambino!”. “Papà!” anche la Dea della Morte intervenne a dividere i due litiganti, ma non riusciva a trattenere Luciherus, infuriato. Non riusciva a calmarlo.

“Adesso basta! Fatti una dormita, demone!” disse Mihael, puntando la spada alla gola del Principe. Questi sospirò e scosse il capo. Poi urlò: “Cerbero! Cerbero…leccalo!”.

L’enorme cane arrivò di corsa e Mihael volò via altrettanto velocemente, allarmato dal pensiero di quelle tre lingue bavose.

Luciherus rise e lasciò andare Vereheveil, che si sistemò i capelli con aria indifferente.

“Ok. Basta. Con un fedifrago come te non c’è modo di discutere seriamente!” commentò il demone. “Fedifrago? Io?!”.

“Sì, tu, ovvio! Sei tu quello sposato…e  non con Kasday!”.

“Fate silenzio voi due! Non ricominciate!”ordinò la Dea delle Parole, stanca di sentir nominare Kasday. Guardò il Principe con rabbia: “Se ne vada, per favore!” gli disse.

Luciherus, stufo e scocciato dall’intromissione, mise le mani in tasca e si incamminò  intravedendo, da lontano, la donna con il cappello di paglia. Si allontanò dalla folla, cercando di raggiungerla, mentre Mihael passava velocissimo, seguito da un grosso cane latrante. Azazel seguiva l’animale cercando di fermarlo, mentre Raven rideva. Asmodai era troppo impegnato a provarci con una bella ragazza in topless per poter accorgersi di qualche cosa.

Il demone capo accelerò il passo, vedendo lei sempre più lontana. Quasi corse, fino quando cadde di faccia, dato che qualcuno lo teneva stretto per la coda.

“Tesoro!” si sentì dire.

“Lilith…” mugugnò lui.

“Tesoro…cosa fai qui? E poi come mai sei caduto così? Sei troppo distratto…”.

“Io cercavo te”.

“Davvero? E come  mai?”.

Il Principe si mise seduto, a gambe larghe, sulla spiaggia.

Lei lo guardava, dopo aver tolto gli occhiali da sole, con intensi occhi grigi. Portava i lunghi capelli, vermigli e ricci, in una coda e la sua pelle bianca era piena di crema abbronzante. Sorrise a Luciherus, maliziosa: “Sei troppo possessivo, Principe” esclamò infine, tornando a distendersi al Sole, sistemandosi il minuscolo costume nero e argento, pitonato.

“Quando hai intenzione di tornare a casa?” domandò lui.

“Che ti importa?” rispose lei.

“Niente” ammise Luciherus, alzandosi “Divertiti” aggiunse poi, mentre lei rimetteva le cuffie per sentire la sua musica preferita ad alto volume.

 

L’uomo dai tratti oriental-egiziani si avvicinò a Vereheveil.  “Non dovreste scaldarvi tanto per così poco” gli disse “Lui è un demone…ma Voi siete un Dio! E, poi, avete un’aria così dolce che rovinarla con l’ira non è proprio il caso. Non ne vale la pena”.

Il Dio delle Letterature si alzò, rivestendosi con la lunga tunica arancio, e si allontanò dalla gente, ordinando a tutti di non seguirlo. Ma il giovane dai capelli neri non obbedì al suo comando e gli andò appresso. Con le mani in tasca, si teneva ad una certa distanza fino a quando il Dio si fermò e lui lo raggiunse.

“Perché mi segui? Che cosa vuoi?” sbottò Vereheveil, non nascondendo un certo fastidio.

“Non voglio niente. Desidero solo farvi calmare”.

“Io sono calmissimo! Non ho bisogno d’aiuto”.

“Siete sicuro? A me non sembra…”.

“Ma tu chi sei? Cosa ti importa di come sto?”.

I loro sguardi si incrociarono e il giovane sorrise.

“Siete così bello, Vereheveil…non dovreste farvi soggiogare da delle semplici parole velenose”. “Ma…vere, in fondo. Solo che…quel demone mi manda proprio in bestia! Lo detesto!”.

Il giovane gli prese entrambe le mani: “Non ci pensate! Chiudete gli occhi, rilassatevi e sentite il rumore del mare…”.

“É come se già ti conoscessi, da tanto tempo, strano angelo dalle ali verde-blu…”.

Si sedettero l’uno accanto all’altro, guardando il tramonto. Al sorgere della Luna, il Dio delle Letterature non era più in collera ma disteso e felice. Salutò il satellite con entusiasmo, rialzandosi.

“Sai che hai ragione? Non vale la pena stare a rimuginare ed arrabbiarsi per così poco!”.

L’angelo dai capelli neri sorrise.

“Tu ti chiami Sarmorghell, giusto? Mi pare…me lo avevi detto nel mio studio”.

“Già. Mi chiamo così…”.

“Vieni. La Dea della Pace dev’essere in quel locale laggiù. Andiamo…”.

“Come volete…”.

“Dammi del tu”.

Sarmorghell fece un piccolo inchino: “Come volete…”.

“Mi ricordi proprio qualcuno…”.

“Non ci pensare, Vereheveil”.

“Sono felice di essere qui, questa sera, con  te. Era da tanto che nessuno mi diceva che  mi trova bello”.

“Lo sei. Che vuoi farci?!”.

Si sorrisero. Il giovane dai tratti oriental-egiziani mise di nuovo le mani nelle tasche dei pantaloni scuri. La brezza della sera gli agitava l’ampia camicia bianca di lino, leggermente scollata, con le maniche strette sulle spalle ed ai polsi che si rigonfiavano nel mezzo. Sul collo spiccava una piccola catenina d’argento su cui pendeva uno zaffiro a forma di scarabeo.

“Posso darti un bacio?” domandò Sarmorghell, con le ali piumate blu-verdi mosse dal vento.

Spostò i capelli dal viso, in attesa di una risposta. Il Dio rimase a guardarlo.

“Io…” rispose lentamente Vereheveil “…io non posso. Sono sposato”.

“Va bene. Non parlare. Non importa”.

Si presero per mano e si incamminarono verso il locale illuminato.

 

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Capitolo 6
*** VI- anime ***


VI

 

ANIME

 

Luciherus camminava lungo la spiaggia deserta. Era scesa la notte, ed al buio si sentiva già molto meglio. Nonostante questo, aveva uno sguardo cupo e duro. Legò Cerbero ad un promontorio e lo lasciò dormire. Tutti erano a fare festa, compresi i suoi sottoposti, nel locale illuminato che si intravedeva dietro la fila degli ombrelloni. C’era un silenzio innaturale, interrotto solamente dai sui passi sulla sabbia ed il rumore lieve delle onde. Chiuse gli occhi, continuando a camminare, respirando lentamente. Rizzò le orecchie a punta, in cerca di altri rumori. Percepì lo zampettare di un granchio e dei sospiri. Aprì gli occhi: una coppia si era appartata fra i camerini della spiaggia. Il demone li osservò da lontano, con le mani in tasca e con i capelli mossi dal vento. Di nuovo fu preso da quella strana sensazione di malessere allo stomaco ed alla testa. Starnutì e si allontanò. Tornò a chiudere gli occhi ed una voce gli giunse alle orecchie: era una canzone. Qualcuno cantava, con una voce meravigliosa, non molto lontano da dove stava. Ascoltando meglio, riconobbe la voce di lei: la donna con il cappello di paglia. Accelerò il passo e la vide. Con i piedi scalzi, lambiti dalle onde, intonava una canzone che il Principe conosceva, non sapeva in che modo, ma era sicuro di averla già sentita e ne ricordava le parole.

 

Anima mia, prostrata e racchiusa,

come un germe nero,

schiacciata da una pena indelebile,

aneli a fiorire

ma forse non è il tuo destino,

dove rivolgi il tuo sguardo?

 

Verso le immensità del cielo e l’estasi

o verso l’oblio magnetico della stella del mattino?

Che in te ci sia, in realtà,

l’essenza ancestrale e divina, anima mia?

 

Il Principe sorrise, guardandola. La veste rossa della donna brillava alla luce delle stelle. Rimase incantato ad osservarla mentre, dentro di sé, ripeteva alcuni versi.

 

Perso ed insicuro, puoi aiutarmi?

Puoi salvare l’anima mia, tu che osservi?

Sai indicarmi la retta via?

Puoi dirmi come salvarmi?

Puoi guarire me stesso, ora che muoio,

avvelenato d’amore?

 

Strinse, nel pugno chiuso, l’accendino d’argento che lei gli aveva donato.

“Avete, per caso, bisogno di qualcosa, Signore?” domandò la donna, senza voltarsi.

Luciherus non si aspettava di sentirsi chiedere una cosa del genere.

“Io…non volevo disturbarla…mi ‘spiace…” farfugliò lui, lievemente a disagio pur non capendone il motivo.

“Nessun disturbo, si figuri. Ma gradirei che non stesse lì fermo a fissarmi, come un pesce lesso”. Solo in quel momento lei si voltò, togliendo il cappello e sciogliendo i capelli, ricci, lucenti e del colore della notte.

“Principessa…siete bellissima…”.

Lei non cambiò espressione.

“Dovrete dire molto più di questo per impressionarmi. Fate correre la fantasia, per cortesia!” commentò la donna.

“Questa frase…non era programmata! È uscita da me…senza che ci pensassi. In modo spontaneo ed incontrollato. Non so perché sia avvenuto. Mai, prima d’ora, mi era successo!”.

Lei tornò a guardare il mare: “Come mai siete qui, da solo?”.

“Il locale sulla baia era troppo affollato ed io non avevo voglia di rivedere Vereheveil”.

In realtà non era semplicemente in vena di fare festa “Ho avuto modo di notare che Voi, signorina, siete rimasta ad osservare la nostra lite. Eravate preoccupata?”.

“No! Perché avrei dovuto? Ero solo curiosa. Volevo venire a conoscenza del motivo del vostro litigio”.

“Ah, è una lunga storia, Madama. Principalmente c’entra la gelosia ma, soprattutto, c’è la forte presenza del mio sentimento preferito: l’invidia!”.

Il tono del demone ed il suo atteggiamento era un po’ da galletto esaltato e lei lo guardò con un’espressione divertita.

 “Ma l’invidia non è un sentimento!” commentò la donna.

“Ah no? E allora cos’è?”.

“Non lo so. Ad ogni modo…invidia per che cosa?”.

Luciherus non rispose subito. Rimase in silenzio, guardando il cielo. Incrociò lo sguardo e gli occhi viola di lei e sentì di poterle dire ogni cosa, senza vergogna o paura. 

“Io lo invidio. Lo ammetto. Non posso più negarlo…lui ha tutto quello che io posso desiderare. Aveva Kasday e ci ha rinunciato, l’ha abbandonato per motivi suoi. Si è sposato con quella donna dalla parlantina facile e, se gli chiedi il perché, non ti sa rispondere. Non è normale! I suoi figli lo ascoltano e lo rispettano mentre mia figlia fa tutto l’opposto di quello che dico!”.

“E Voi cosa vorreste di quello che lui ha?”.

Luciherus non rispose, distolse lo sguardo.

“Siete sposato, demone?”.

“No! Certo che no! Meglio uno sparo in fronte!”.

“Siete innamorato?”.

“I demoni non amano!”.

“Ma gli Arcangeli sì. Non creda che io non sappia chi è lei! E poi…chi la dice ‘sta cosa che i demoni non amano? Chi lo dice, in realtà non può provarlo”.

“Se Voi mi conoscete…allora…posso avere l’ardire di chiedere il vostro nome? E, Vi prego, datemi del tu!”.

“Il mio nome?”.

“Sì. Sono sicuro che avete un nome meraviglioso…”.

“Io vengo chiamata Persona dal mio padrone. Ma mio fratello mi chiama Shekinah”.

“Shekinah? Stupendo. Piacere di conoscerla. Io sono Luciherus, o Satanahel, Principe del regno dei demoni e l’Arcangelo più bello”.

Prese la mano di lei e la sfiorò con le labbra.

Lei fece un sorriso: “Lo so chi sei…non ti fidi?”.

“Cosa ci fa una creaturina come lei, tutta sola nel buio della notte?”.

“Non sono sola. Ci sei tu. E non ho mai avuto paura del buio”.

“Siete coraggiosa. Posso offrirvi da bere?”.

Il demone teneva le mani dietro la schiena e guardava l’enorme Luna. “Faccio un salto nel locale e vi porto qualcosa. È la serata ideale per un brindisi in riva al mare…”.

“Dici? In siffatto posto…”.

“…è l’ideale per scaldarla, Signorina, dalla brezza della sera”.

“Non è necessario. Grazie per l’invito, ma sono abituata al freddo”.

Luciherus guardava il riflesso delle stelle nell’acqua. Poi si voltò di nuovo verso di lei.

“Che splendida collana che avete…”.

“Ti piace? Ha una luce azzurra che pulsa al ritmo del mio cuore”.

“Incantevole…”.

Il gioiello aveva una catenina d’argento e la pietra effettivamente pareva battere con  regolarità.

Il demone lo sfiorò con le dita e una breve scossa di magia gli attraversò le membra. Il monile si illuminò in modo più intenso.

“Mi ricorda la mia vecchia aureola…” sussurrò il Principe, malinconico.

Lei, con uno scatto, lo abbracciò. Luciherus, preso alla sprovvista, fece cadere l’accendino che teneva fra le mani.

“Se stai in silenzio questa pietra si sincronizza con  il battito del tuo cuore, lo senti?” gli sussurrò lei. Lui tacque ed effettivamente ne avvertì le pulsazioni a ritmo.

“Deve avervela regalata una persona per lei molto speciale…”.

“Sì. Mi ama molto. È praticamente una parte di me: mio fratello”.

“Avete molti fratelli?”.

“Sì. Siamo in tanti, ma la maggior parte delle volte ci sentiamo come se fossimo una persona sola. Ci vogliamo molto bene”. 

I due rimasero a guardarsi, in riva al mare.

“Guarda il cielo, Luciherus. Guarda le stelle, guarda la Luna…è una serata magica”.

“Già. È vero. So che è strano, ma la trovo quasi…romantica”.

“Hai ragione. Io non sono quel tipo di donna che vede del tenero in ogni cosa, ma credo che non ci sia niente di meglio di una notte di Luna ed una spiaggia solitaria per far nascere un amore”.

“Io non credo a queste cose…”.

“Non credi all’amore, Principe? Eppure…se l’amore non esiste, allora perché c’è una divinità per esso?”.

“Non ne ho idea, e comunque quel Dio serve solo a creare una reazione chimica che terrà due persone vicine finché la loro brama fisica non terminerà. Oppure il necessario per la procreazione”. Lei rise: “Io non ho nessun desiderio di procreazione…eppure un po’ di compagnia non mi dispiacerebbe questa notte…”.

Si avviò verso l’acqua, quasi danzando sulla superficie schiumosa delle onde.

Lui non la seguì.

“Vuoi che ti insegni?” chiese Shekinah.

“A fare cosa?”.

“A nuotare!”.

Luciherus non rispose.

“Ora io vado, demone. Ci vediamo dopo. C’è una persona che ti sta cercando laggiù”.

“Che?!”.

Il Principe si girò, mentre lei scompariva nel mare.

 

Lui vide una forte luce venirgli incontro. In un attimo, le fu di fronte.

“Sei tu Luciherus, giusto?” domandò il bagliore.

“Sì. Sono io. E tu chi, o che cosa, sei?”.

“Io sono Momoia, la Madre degli Alti. Il nome ti dice niente?”.

“La Madre degli Alti? Che vuoi da me?”.

“Tu sai che stiamo richiamando tutti gli Dèi…”.

“Sì, lo so. Ma che combinate? Se siete così stupidi da organizzare una guerra richiamando mezze pippe come Vereheveil ed il Dio dell’amore, gente che non sa tenere in mano un’arma manco per sbaglio…”.

“Potremmo non parlare di questo?” lo interruppe Momoia. “Sono qui per chiederti una cosa, razza di sfrontato!”.

“Dimmi pure, mammina”.

“Vengo subito al sodo…tu hai sempre voluto essere un Dio…ebbene io, la Madre ed il Capo degli Alti, ho la possibilità di far avverare questo tuo desiderio”.

“Non sono stupido, Momy!” esclamò il demone, incrociando le braccia “Non sono stupido e sono stato una marionetta a servizio di altri per troppo tempo. Dove  sta la fregatura? E cosa volete, voi Alti, in cambio?”.

“Nessuna fregatura. Ci serve gente e l’unica cosa che voglio e che tu stia dalla mia parte, qualunque cosa succeda”.

Luciherus la guardò, perplesso: “Dalla parte del più forte? Proposta interessante…”.

“La forza ed il coraggio non ti mancano…cosa mi rispondi, Principe?”.

Lui tenne le braccia incrociate: “Parla sinceramente: che devo fare?”.

“Sarai presente alla riunione di domani sera, ascolterai ciò che noi Alti abbiamo da dire e starai dalla mia parte. Non hai obblighi, ma ho bisogno di creature con le tue capacità”.

“A chi altro hai fatto questa proposta?” domandò il demone, un po’ meno sospettoso.

“A nessuno. Solo tu hai le caratteristiche che mi servono. Ti do il tempo di pensarci, ma dovrai darmi una risposta entro domani sera”.

“Non ho bisogno di pensarci. È un sogno che inseguo da una vita ciò che mi proponi”.

Momoia allungò la mano, che al Principe apparve come una lingua di luce.

“Avrò un messaggero?” chiese lui.

“Tutti quelli che vuoi…”.

“Può essere una femmina?”.

“Certo…”.

“Bene”.

“Allora siamo d’accordo. Qua la mano!”.

Luciherus sorrise e toccò la luce, che lo avvolse e lo sollevò da terra, mentre Momoia parlava. “Entra tu ora a far parte della grande famiglia degli Dèi. Giura fedeltà, obbedienza e coerenza al principio che ti sarà affidato…”.

“Lo giuro!” urlò lui.

“…senti la potenza delle tue nuove capacità. Grida, mentre il tuo sangue mortale e impuro viene sostituito con la linfa vitale: la magia. Urla ed invoca il mio nome mentre io, Momoia, Regina degli Alti, affido a te il tuo principio, il tuo ruolo…”.

Il demone, sempre sospeso in aria, urlò.

“…ecco, ora io ti carico della tua nuova essenza: Dio della Forza e del Coraggio!”.

Quando la Madre tacque, il Principe cadde sulla spiaggia. Scosse la testa, che pulsava alla comparsa del simbolo che tutti gli Dèi portavano sulla fronte.

“Ti sentirai un po’ scombussolato ma ti ci abituerai.  Ora ti lascio, ho visto che eri in piacevole compagnia. Mi ‘spiace averti interrotto. Ci vediamo alla riunione”.”.

Momoia sorrideva ed ora lui poteva vederne chiaramente il volto. La luce bianca si allontanò, con  aria soddisfatta. Luciherus si alzò, e la vide sparire fra la lieve nebbia che si era alzata.

 

Non si sentiva più di tanto cambiato, non come si aspettava.

“Congratulazioni!”.

Lui si voltò, era stata lei, Shekinah, a dirlo, con il viso che spuntava dal mare. Lui non poté fare a meno di notare una lieve nota di disappunto nello sguardo e nella voce.

“Che c’è?” domandò lui, senza capire perché lei lo fissasse con rimprovero.

“Niente! Sei un Dio…”.

“E tu? Tu sei una Dea?”.

“Una specie…dai, ora te la fai una nuotata, Arcangelo?”. 

Luciherus le sorrise. Espanse le ali, dorate e piene di piume, che gli strapparono la camicia, mentre quelle da demone si fecero piccine e discrete. Iniziò ad entrare in acqua, frustando la coda.

“Sei diabolicamente bello, nuovo Dio!”.

I due si baciarono, andando al largo. Lui percepì di nuovo quella strana sensazione allo stomaco ed alla testa, ma non ci badò. Si immerse, seguendo lei, senza pensarci.

Che sensazione meravigliosa…mai si sarebbe immaginato che fosse così bello nuotare nel mare! “Sono sicura che non l’hai mai fatto sott’acqua…”.

“Hai indovinato…principessa”.

Ed i due scomparvero, fra le onde.

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Capitolo 7
*** VII- riunioni ***


VII

 

RIUNIONI

 

Molti Dèi salivano, in quella notte di Luna, l’eterna scalinata che portava alla dimora del Dio Triplice. Era un palazzo sopraelevato e distante, che si raggiungeva solo dopo una notevole salita. Vereheveil avanzava lentamente, sottobraccio alla moglie, a capo chino.

“Amore…” lo rassicurò lei “…sta tranquillo!”.

La giovane Dea del Kaos saltellava da un lato ad un altro, con impazienza.

“Come mai sei così lento, Vereheveil, mio caro? La vecchiaia ti pesa?” ridacchiò Luciherus, con a fianco la figlia, sorpassando il Dio delle Letterature.

“Cosa ci fai tu qui, misero mortale?” domandò, irritato, il sorpassato.

Il Principe si girò e spostò il ciuffo di capelli che gli copriva parte del viso, mostrando il simbolo che gli spiccava sulla fronte.

“Bada a come parli, deuccio!” lo schernì, mostrandogli la lingua “Invidia?” aggiunse, e scoppiò nella sua solita risata inquietante.

“Tu non sei adatto a fare il Dio! Non ne sei capace, Luciherus! Sei troppo impulsivo, fastidioso e narcisista. Folle colui che ti ha reso divino!” commentò, acido, Vereheveil.

“É stata Madre Momoia stessa a scegliermi, brutto fallito!”.

Sorrise il demone, malefico, e si avvolse nel mantello, continuando la salita.

Ai lati delle gradinate stavano una schiera di guardie, tutte uguali, con un lungo abito scuro ed una ventina di occhi sparsi per il viso. Le loro armi brillavano sotto le stelle e la loro divisa era splendida.

“Sono inquietanti” rabbrividì la Dea della Morte, Luciheday.

Il padre le sorrise, come ad incoraggiarla.

Il Dio del Destino aveva un’aria arrabbiata e pensierosa.

“Credi che rivedremo l’essere che ci ha messi al mondo e poi ci abbandonati ed ignorati per tutto il resto della nostra vita, padre?” domandò, rivolto al Dio delle Letterature.

“Papà…” chiese la Dea della Morte, sottovoce, a Luciherus “Papà, perché Vereheveil non ha detto la verità ai suoi figli su Kasday?”.

“Per proteggerli” rispose lui, serio “Proteggerli perché, in fondo, Vereheveil è un buon genitore e non voleva far vivere ai suoi piccoli il trauma di un’infanzia difficile”.

“Ma loro non sono più dei bambini!!! È ora che affrontino la realtà!”.

“Tu la fai facile, figlia mia! Ma, in realtà, noi genitori vi vediamo sempre come dei bambini. Io ti vedo sempre come la mia piccina da proteggere, e sarà sempre così”.

“Ma dai, papà! Smettila!” rise lei divertita, dando una piccola spintarella al padre.

“Che vuoi farci, piccola…è così!”.

“Non ho bisogno di protezione. Non più!” continuò a ridere e poi riprese “Ma tu mi hai raccontato tutto, fin dall’inizio, su Kasday. Fin da bambina io sapevo ogni cosa”.

“Impossibile, perché io non so tutto sulla creatura che ti ha generato assieme a me”.

“Sarà anche vero, ma mi hai sempre detto quello che dovevi”.

“Questo perché io non sono un buon padre”.

Luciherus aveva un’espressione dura e lievemente malinconica.

“Scherzi?! Sei stato il papà migliore fra tutti gli universi!”.

“Trovo la cosa discutibile…”.

Una voce squillante richiamò l’attenzione della ragazza: “Luciheday!”.

“Amore!”.

Lei andò incontro a chi la chiamava. Era il Dio della Vita. Lo abbracciò e Luciherus lo fissò con una punta di fastidio: il giovane stava baciando la sua bambina.

“Come può essere? Come può, mia figlia, essere sul punto di sposare il Dio della Vita, figlio della Dea della Pace? Non ha molto senso…” mugugnò, fra sé, il Principe.

Guardò in su, fermandosi per un attimo. Gli scalini non finivano mai. Che noia!

“Gli opposti si attraggono, mio caro!” lo schernì Vereheveil, superandolo.

“Papà!” lo chiamò Luciheday, tenendo per mano colui che amava “Vorrei presentartelo. Lui è Eleian: figlio di Eleniel, Dea della Pace, e di Samhian, suo angelo messaggero”.

“So chi è, so chi sono i suoi genitori” sibilò il Principe, senza sorridere.

Il ragazzo, biondo e con gli occhi color della giada, si inchinò leggermente: “É un onore ed un privilegio conoscervi di persona, Principe Luciherus”.

“Non serve che fai il lecchino…non sono il tipo che si commuove davanti alle lusinghe”.

“Papà…so che tu odi questa istituzione ma…noi vogliamo sposarci! Te lo devo dire: non senza la tua benedizione”.

“Allora aspetta pure la prossima Era, figlia mia, perché non sono di certo tipo da benedizioni”. “Allora dacci il consenso, Papi!” supplicò la ragazza, con grandi occhi dolci “Ti prego, Papi!”. “Anche le preghiere non fanno per me. Sono la persona sbagliata!”.

Luciheday restò molto male di fronte a quella risposta negativa e rimase in silenzio.

Dietro alla coppia, Eleniel sorrise: “Luciheday! Che piacere rivederti, mia cara! E che bello incontrare anche te, Luciherus. Bei tempi erano quelli in cui io e te eravamo angeli assieme. Eri anche tu un Arcangelo, ricordi?”.

“Ovvio! Sono vecchio, non arteriosclerotico!”.

“Sei sempre più scorbutico!” lo apostrofò Samhian, l’angelo messaggero della Pace Eleniel e padre di Eleian “Avanti, diavolone! Dì di sì a questa bella coppia!”.

“Che facciano come credono! Cosa vuoi che me ne importi?!” gracchiò il Principe, cercando di distanziare il gruppetto.

“Vorrei che entrambe le persone che mi hanno creato fossero presenti…ci terrei tanto!” piagnucolò la giovane “Papà, papà mio! Mi accompagnerai all’altare?”.

“Con il pensiero, bimba mia!”.

“E Kasday? Credi che verrà?”.

“Non lo posso sapere, mia creatura. Staremo a vedere se sarà presente questa sera…”.

Salì le scale con sguardo assente e distante.

La figlia fece una piccola corsa per raggiungerlo e lo prese sottobraccio.

“Padre mio, c’è una domanda che non ti ho mai fatto prima ma che ora mi piacerebbe rivolgerti. Se non fosse successo ciò che è successo…fra te e Kasday sarebbe stato tutto diverso?”.

“Intendi se saremmo diventati una grande e bella famiglia felice? Ne dubito. Resta il fatto che è un ibrido. Non è né maschio né femmina, ma entrambi a suo piacimento. La cosa mi irrita”.

“Capisco. Ma secondo me…”.

“Secondo te niente. Non ha importanza. Dai, siamo quasi arrivati”. 

 

Entrarono tutti nel palazzo, sorridendo, ma la loro espressione cambiò. Era buio, freddo e tetro. “Che atmosfera poco rassicurante…” sussurrò la Dea della Pace, timorosa di infrangere il silenzio. L’avevano costretta ed essere presente quella sera, pur non volendo. Lei aveva accettato, ma ora se ne stava pentendo.

“Avanti, ragazzi! Non vorrete rimanere sull’uscio fino a domani?!” esclamò il Principe, entrando per primo.

Gli altri lo seguirono, incoraggiati. Presero posto, lentamente, mentre i loro angeli Messaggeri si allontanavano, dirigendosi verso la stanza adibita per loro.

“Mi verrà spiegato, spero, il motivo della tua presenza qui, demone!” affermò Vereheveil, non nascondendo tutto il suo disappunto.

Luciherus sbuffò e alzò le spalle: “Quanto sei noioso! Avrei potuto buttarti giù dalle scale, ma non l’ho fatto! Sono stato davvero bravo!” gongolò, autocelebrandosi.

Si esaltò non poco osservando gli sguardi stupiti delle altre divinità. Alcune di loro si congratularono per il suo nuovo stato divino, altre rimasero in silenzio, con grandi occhi stupefatti. “Non c’è posto per te, le sedie sono contate” sghignazzò il Dio delle Letterature, sedendosi accanto ai suoi figli con un largo sorriso “Ti toccherà stare in piedi, maggiordomo!”.

“Accomodati qui, papà!” lo chiamò la Dea della Morte, che si era accoccolata sulle ginocchia di colui che sarebbe presto divenuto suo marito.

Il principe osservò la cosa con un certo fastidio ma non obbiettò, andando a sedersi.

Il Dio del Sole sbadigliò, non era abituato a stare sveglio al calare della notte. Il Dio del Tempo non aveva portato i suoi figli, che aveva lasciato in affidamento al Messaggero della moglie. Salutò con un cenno i presenti che risposero, cordialmente, al saluto. Portavano rispetto alle divinità più anziane, come il Tempo e la Guerra. Tutti erano abbigliati in modo impeccabile e sontuoso, a volte eccessivo. Le stoffe brillavano alla luce riflessa degli specchi, i gioielli tintinnavano e i complimenti si sprecavano.

“Dov’è Kasday?” chiese la Dea del Kaos, guardandosi attorno.

“Sì, è vero! Dov’è?” incalzò il giovane Destino.

“Non ve lo so dire, figli miei, ma…” rispose, calmo, Vereheveil.

“Niente ma! Noi vogliamo vederlo!”.

“Fra il volere ed il potere…”.

“Basta frasi fatte, papà!”.

“Perché non gli dici la verità?” sibilò Luciherus, allungando il collo verso le tartine poste sul tavolo al centro della stanza ed avviandosi verso esse.

“Fa silenzio, serpe velenosa!”.

Il Principe si leccò i baffi: “Non è difficile, Vereheveil. Se i tuoi figli sapessero di quella notte…” continuò, serafico, assaporando una pizzetta.

“Che vuoi saperne tu? Nemmeno sai cos’è successo!” rimbeccò il Dio delle Letterature, alzandosi ed andando verso il demone.

“Forse, se tu ce lo spiegassi…”.

La divinità delle Lingue, di tutta risposta, prese un bicchiere, colmo di un liquido scarlatto, e lo ribaltò sul volto e sull’abito del demone, che ringhiò sommessamente, guardandolo di sottecchi. “Osi sfidarmi, pennuto? Allora battiti da vero uomo, avanti! Oh, scusa! Dimenticavo che sei ancora asessuato, angioletto!”.

“Io sono un Dio!”.

“Non per me, mostricciatolo!”.

“Ti odio!”.

“Come sarebbe a dire?! Sei un angelo, gli angeli non odiano!”.

“Impiccati!”.

“Prima le signore!”. 

“Cornuto!”.

“Checca!”.

“Caduto!”.

“Lagna!”.

Vereheveil colpì Luciherus con  rabbia ma il Principe riuscì a respingerlo facilmente.

“Sei davvero così stupido? Sfidi il Dio della Forza a mani nude?” rise il demone, beffardo, notando l’ironia della cosa: di solito era lui ad attaccare per primo, colto dall’ennesimo attacco di rabbia isterica.

“Cosa hai fatto per essere un Dio? Ti sei portato a letto Momoia? Dev’essere questo…del resto non sai fare altro!” lo insultò il Dio delle Letterature, ricomponendosi dopo il colpo ricevuto.

“Come osi dire questo di me? Madre Momoia mi ha scelto, per le mie qualità”.

“Ma quali qualità?! Tu non hai qualità!!”.

Le altre divinità se la spassavano alle spalle dei due litiganti. C’era perfino chi scommetteva e puntava dei soldi, tentando di indovinare un eventuale vincitore.

 

Gli angeli Messaggeri, nel frattempo, ridevano felici nella stanza accanto. Agares, primogenito di Kasday e unico demone messaggero, osservava la moglie Fleavia che imitava il suo padre adottivo, Dio delle Letterature e delle Lingue. Dall’alto lato c’era un piccolo angioletto vestito di rosso che imitava Luciherus.

“Io sono il migliore!” ironizzava Fleavia, ingrossando leggermente la voce “Io sono il migliore! Io leggo, io studio, io scrivo, io conosco tutte le lingue!”.

“Anch’io” rispose l’imitazione del Principe “Anche quella di tua sorella!”.

“Questa è cattiva!” ridacchiò qualcuno.

“Sono sicuro che stanno litigando nel salone di là!” esclamò un altro angelo.

“Ovvio!” si unì un terzo.

Fecero un brindisi, pieni di entusiasmo, cantando tutti in coro, sconvolti dall’alcol. Alcuni di loro giocavano a Morra, altri si abbracciavano, o stavano a braccetto, oscillando a destra ed a sinistra, alzando i calici. Piume e risate si espandevano per la sala. Uno dei Messaggeri si appoggiò alla porta e questa si aprì. Colto alla sprovvista, precipitò nel salone dove stavano gli Dèi. Luciherus rivolse lo sguardo verso l’intruso e Vereheveil sorrise.

“Ti distrai con troppa facilità!” mormorò.

Con uno scatto repentino colpì il Principe, alzando il ginocchio, nel bassoventre.

Il demone rimase immobile e gemette.

“Ti piacerebbe essere asessuato, eh? Povero diavoletto…colpito così, nella sua parte migliore!”. Luciherus si riprese in fretta ed afferrò la testa del Dio delle Letterature, iniziando a sbatterla contro il tavolo.

“Muori! Muori! Muori!” ripeté, tenendolo per la gola e continuando a percuotergli il cranio “Piccolo, brutto e stupido piccione trans-genico! Invece di rompermi, nel vero senso della parola, le palle, perché non dici la verità ai tuoi figli su Kasday? Dì loro chi era veramente e cosa gli è successo! Di cosa hai paura?”.

“Davvero vuoi che dica la verità? Ebbene eccola: Kasday è un idiota perché si è fatto scopare da te! Vuoi sapere altro?”.

Luciherus gli tirò un pugno sul naso, spaccandogli il labbro con gli artigli.

“Piccolo angioletto fetente!” disse, con la voce leggermente più acuta del solito.

“Tutto qui? É tutto qui quello che hai da dirmi? Suvvia! Sai fare di meglio…”.

“Io ho sempre detto la verità alla mia bambina…sempre!”.

“Lei anche detto che la creatura che l’ha messa al mondo è stata stuprata dal Dio del Kaos e poi da te? Ed è solo per questo che lei ora esiste?”.

“Io non l’ho stuprata!!”.

 “Ah, no?! Io dico di sì! E non mi aspetto in nessun modo di essere smentito!”.

“Sei un bugiardo!” urlò Luciherus, ringhiando.

“A chi pensi che la gente creda? A chi pensi che tua figlia creda? A me, Dio ed Angelo, o a te, Demone e creatura nata male?” rispose, con un ghigno, Vereheveil.

“Io credo a lui!” esclamò la Dea della Morte, indicando suo padre.

“Grazie, piccola mia” disse il Principe, asciutto.

“Sei stato tu a portarcelo via!” continuò poi Luciheday, accusando il Dio delle Letterature “Sei stato tu! Ti ricordo che i gemelli sono figli tuoi ed è per loro conseguenza che ora Kasday non è più qui!”.

Vereheveil la fulminò con lo sguardo.

“Non incolpare i miei figli! Sei infima e viscida come tuo padre!”.

“Io non incolpo i tuoi figli! Incolpo te!”.

“Adesso basta, figlia mia” la interruppe Luciherus “Lascia a me  la discussione!” poi si rivolse al Dio delle Letterature: “Lei non se la prende con i tuoi figli, ma con la tua continua insicurezza e paura dei cambiamenti”.

“Come osi rivolgerti in questo modo a mio padre, verme?” chiese Kavahel, irritato, e rivolto sia a Luciherus sia alla figlia: “Che vuoi saperne, tu, nata per sbaglio? E tu, poi! Demone dagli istinti incontrollati” continuò.

Fu il Dio della Vita a fermare il Principe, prima che colpisse violentemente il giovane.

“Non osare parlare in questo modo alla mia futura moglie! E porta rispetto al Principe, che un tuo genitore ha amato!”.

“Bugie! E poi…se no cosa mi fai? Mi uccidi, Dio della Vita? Non credo che per  te sia possibile!” lo schernì il giovane Equilibrio.

“Ma che dite?! Siete tutti impazziti?!” si intromise la Dea del Kaos.

“Papà…perché non inizi a raccontare? Credo che questo sia il migliore dei momenti…” mormorò il giovane Destino, sorridendo.

Vereheveil ruotò gli occhi, notando il soffitto ad arcate graziosamente decorate: l’unica nota gioiosa dell’intero edificio che si presentava, per lo più, triste e cupo. Come se fosse abbandonato e dimenticato. Sospirò il Dio. Chissà, si chiese, se Kasday è ancora in vita.

“Va bene…” mugolò, sedendosi.

Agares, uscito dalla stanzetta degli angeli Messaggeri, si avvicinò ad un oggetto dalle sembianze familiari. Lo toccò. Era una sfera lucida, di una decina di centimetri di diametro.

Appena il demone dai capelli blu oltremare la sfiorò, la sfera iniziò ad aprirsi, emettendo un dolce suono. Gli occhi neri di lui si illuminarono, riconoscendo la melodia. Era un carillon per bambini e lui lo conosceva bene. Era ciò che, da piccolo, ascoltava per potersi addormentare. E suo padre cantava, seguendo la musica. Ora completamente aperta, la sfera si mostrava in tutto il suo splendore. Brillava come una stella e due figurette in oro intagliato danzavano su di essa, grazie ad un marchingegno meccanico, attorniato da piccole sfere luminose e colorate. Agares rimase incantato ad osservarlo. Kavahel riconobbe a sua volta quella ninnananna e chiuse gli occhi, ricordando la sua infanzia.

“Fratello…” chiese, sfiorando la pelle eburnea del demone messaggero “Fratello…anche tu ricordi? Anche a te Kasday cantava per farti addormentare?”.

“Sì. Anche se, fin da bambino, non volevo starlo troppo ad ascoltare. Pensavo fosse…poco da demone! Non capivo quanto fosse bello come momento. Ora lo capisco…e vorrei tornare indietro”. “É una delle melodie del regno degli Angeli” spiegò il Principe dei demoni “Cantavo una bella canzone a Kasday al ritmo di questa musica, quando lui stava ancora fra le mie braccia ed io ero solo un adolescente. Credevo l’avesse dimenticata…”.

Kavahel sospirò, ricordando immagini vaghe del passato: “Papà…” iniziò “Papà, ti prego, parla. Dimmi la verità. Io non ricordo molto…è vero che ci ha abbandonato?”.

“Certo che no!” gracchiò Luciherus “Vi ha fatto dimenticare ogni cosa, grazie alla Dea della Memoria, e poi vi ha dato i ricordi che voleva!”.

“Sul serio papà?” chiese conferma  la Dea del Kaos.

Vereheveil non poté negarlo, abbassò lo sguardo. Il Dio del Tempo guardò la moglie, Dea della Memoria, con aria interrogativa. La Dea non rispose.

“Non l’ho fatto con cattiveria!” si giustificò il Dio delle Letterature “Volevo solo proteggerli dal dolore e non farli stare male…”.

“Ma ora sono abbastanza grandi per sapere la verità! E, sinceramente, anche tutti noi siamo stufi di tutti questi misteri. Parla e mettici l’anima in pace!” suggerì il Principe, con l’assenso di molte divinità.

Agares, rimasto incantato davanti al carillon, ripensò alla sua vita. A quando era un bambino demone, a suo padre Kasday ed a sua Madre Lilim, la guardiana delle anime. E poi…di quando era divenuto il messaggero della sua sorellastra, la Dea della Morte. Era da tantissimo che non ci pensava e la cosa lo rese un po’ malinconico.

“Voglio sapere anch’io la verità” disse infine “Non ero presente quella notte e non ho mai saputo bene che cosa è successo. Perciò parlami, maestro Vereheveil, parlami di mio padre. Colui che io chiamavo Adahel, ma che voi tutti conoscete come Kasday”.

“Sì. E di Kasday, mia madre” si aggiunse la Dea della Morte.

“Sì, sì! Parlaci della creatura che ci ha generato!” incalzarono i gemelli.

Vereheveil, messo alle strette, capì non avere scelta.

“Se non parli ti estirpo tutto il racconto, parola per parola, usando gli artigli!”.

Il Dio delle Letterature bevve un sorso di dolce liquore e, dopo un bel respiro, iniziò a raccontare.

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Capitolo 8
*** VIII- la notte dei gemelli ***


VIII

 

LA NOTTE DEI GEMELLI

 

Vereheveil iniziò a raccontare.

Ricordò che quella notte era stellata e fresca. Lui era pieno di entusiasmo: sapeva che l’uovo che aveva creato, grazie all’uso della magia, assieme a Kasday, stava per schiudersi.

Narrò, con gioia, del giorno in cui la Dea della Vita di quel periodo presentò i piccoli ai genitori esclamando: “Sono bellissimi!”.

Kasday spalancò gli occhi. Fra le braccia stringeva la neonata Dea del Kaos e l’infante Destino. Subito il Dio creatore si sentì turbato. Avvertiva, in modo distinto, la voce di suo padre, il Dio del Kaos, nella propria testa. Anche la Dea del Destino gli parlava, insistentemente, ma nessuno al di fuori di lui poteva udirli. Era da tanto che non gli davano problemi, pur essendo entrambi parte di lui, Dio dell’Equilibrio.

“Non lasciare che ci distruggano! Non lasciarli vivere! Il tuo Equilibrio verrebbe compromesso! Tu comprendi le tre essenze: Equilibrio, Kaos e Destino. Questi due bambini, una volta cresciuti, e nel pieno dei loro poteri, distruggeranno la tua essenza primaria: l’Equilibrio. Ed il tutto fra atroci sofferenze perché noi due, Kaos e Destino, divinità le cui essenze fanno parte di te, usciremo allo scoperto divenendo più forti grazie alla potenza dei piccoli. E ti distruggeremo!”.

“Ma poi…” rispose nella sua mente il Dio Triplice “…poi morireste anche voi perché non possono esistere due divinità con lo stesso ruolo. Scomparireste, essendo voi semplici essenze senza un corpo”.

“Cosa succederebbe ai tuoi Mondi?” ripresero le due voci. “Pensa a tutti gli Universi che hai creato. Pensa a tutte le creature che hai generato e che vivono per essi. Verranno tutti distrutti: creature, Universi, Divinità…tutti morti! Uccidili! Uccidili entrambi!”.

Kasday strinse la testa fra le mani, non riuscendo a smettere di ripetere quelle parole.

“Uccidili! Uccidili!” sussurrava e, digrignando i denti, combatteva con le voci dentro di sé.

Si allontanò dai neonati, fra lo sconcerto dei presenti.

Vereheveil era felicissimo, cullando i piccoli, e poi guardò Kasday.

“Sono bellissimi, non è vero, tesoro mio?” il Dio delle Letterature fece un gran sorriso. Poi notò l’espressione del Dio Triplice: “Cosa c’è, amore mio? Cosa ti succede? Stai bene?”.

Il Dio dai lunghissimi capelli neri scosse la testa, facendo segno a Vereheveil di allontanarsi.

Il Dio-Angelo sgranò gli occhi dorati e continuò a guardarlo: “Mio Equilibrio dagli occhi di zaffiro…cosa ti turba?”.

Kasday respirava affannosamente, cambiando voce ed aspetto a seconda della diversa essenza che prevaleva sulle altre.

Con il tono del Kaos continuava a ripetere: “Uccidili, uccidili!”.

“No! No!” esclamava l’Equilibrio, con il suo modo di parlare fra l’uomo e la donna.

La Dea del Destino si intrometteva fra i due, urlando.

Il Dio delle Letterature strinse a sé i due piccini, turbato.

Dopo un po’, il Dio Triplice aveva, apparentemente, ritrovato la sua stabilità.

“Cos’è quello sguardo triste, Kasday?” continuò a chiedere il Dio dai capelli color verde acqua.

Il suo compagno non gli rispose. Avevo lo sguardo perso nel vuoto. I suoi tre occhi erano come il vetro.

Vereheveil cullò i neonati con amore: “Che nome avranno i nostri tesori?”.

Con quelle domande tentava di far tornare alla normalità la divinità che aveva di fronte, che continuava a non parlare.

“Che faccia fai? Che hai…lo shock da gemelli?” ridacchiò il Dio del Sole che poi si preoccupò, non notando alcun cenno di ripresa.

Lo scosse leggermente e solo in quel momento il Dio Triplice si smosse. Posò lo sguardo sui suoi due gemelli, con espressione malinconica, e mormorò: “Ci distruggeremo, piccoli miei. O sarò io ad uccidere voi o voi ad uccidere me…”.

Subito il Dio delle Letterature strinse a sé i gemelli, allontanandoli dall’Equilibrio.

“Non dire idiozie! Non pensarci nemmeno!” urlò, spaventato.

Con sguardo serafico, e con i capelli neri sempre più gonfi, Kasday sorrise a Vereheveil.

“Non voglio ucciderli!” sussurrò, calmo, e con un tono di voce molto dolce “Sta tranquillo. Non sono quel tipo di Dio, non del tutto perlomeno!”.

“Ah bene! Temevo avessi perso la ragione! Amore…”.

Il Dio delle Letterature, con un respiro di sollievo, si sentì più tranquillo.

“Io…devo andare” esclamò il Dio Triplice.

Vereheveil alzò un sopracciglio: “Kasday?!” chiese, senza capire.

Provò ad andargli vicino ma lui lo respinse, formando una barriera.

“Tieni lontano da me quelle due creature!” poi tuonò, con la potente voce del Kaos.

Il padrone del palazzo, sempre avvolto in una luminosa coltre magica, si pose al centro del salone in cui stava. Lì puntò i piedi, nel punto in cui la bellissima rosa dei venti disegnata sul pavimento faceva incrociare tutti i suoi raggi, e guardò verso l’alto. Sul soffitto, a cupola, c’era un foro circolare, dello stesso diametro del centro della rosa dei venti, dal quale entrava la luce della Luna. Il padrone di casa aprì le braccia, iniziando a mugugnare strane formule e preghiere: un’evocazione. Dopo qualche istante, dal cielo, scesero fortissime luci bianche che avvolsero il Dio, fra lo sbigottimento delle altre divinità presenti. Una voce di donna, proveniente da uno dei bagliori, si udì chiaramente.

“Il patto con  noi è fatto!”.

Detto questo,  una lingua luminosa toccò Kasday,  che subito perse i sensi, rimanendo sospeso a mezz’aria e avvolto dalla luminescenza.

“La tua essenza…” parlò di nuovo la donna, con enormi ali da farfalla “…che già prima, in parte, era nostra proprietà, ora è del tutto nelle nostre mani”.

La sagoma di lei chinò leggermente la testa, tenendo le braccia aperte e guardando il Dio, svenuto, con dolcezza. Poi fece un gesto con le mani e Kasday spalancò gli occhi, ribaltando la testa all’indietro, gemendo e schiudendo la bocca, cacciando un grido di dolore. Dalla gola sprigionò un sottile filo di fumo argenteo, che la donna di luce raccolse fra le mani, facendola divenire una sfera non più grande di una biglia.

“Ecco la tua essenza…” sussurrò.

Il Dio Triplice cadde pesantemente sul pavimento.

“Signori!” esclamò lei, guadandosi attorno “Signori, non c’è nulla da vedere! Potete andarvene!”. Con la flessione del solo indice, sollevò tutti gli Dèi presenti e li scaraventò fuori.

“Vereheveil!” gemette Kasday.

La donna trattenne il Dio della Letteratura nella sala.

“Puoi restare qui, solo tu, se vuoi. A quanto pare l’Equilibrio desidera la tua presenza…”. Vereheveil affidò i gemelli al Dio del Tempo, prima che la porta venisse chiusa. Dopodiché si avvicinò al Dio Triplice, che continuava a stare a terra.

“Che cosa hai fatto?” mormorò il Dio delle Lingue e delle Letterature, accarezzando dolcemente i capelli del Dio che amava “Che hai fatto? Che succede?”.

“Semplice…” rispose la donna “…lui non dovrà avere nessun contatto con  i suoi figli, impedendo così la loro morte e l’annientamento dell’Equilibrio. Faremo in modo che diventi uno di noi e che custodisca i suoi poteri fino al momento in cui i due piccoli saranno divenuti forti ed indipendenti. Dopodiché, privo del ruolo di Equilibrio, Kaos e Destino, sarà libero di tornare”.

“Nulla gli vieta di vedere me?” domandò Vereheveil.

“Assolutamente nulla” ammise lei.

“Amore mio!” proruppe il Dio delle Letterature, abbracciando Kasday “Amore mio, sta tranquillo! Penserò io ai nostri figli!” una piccola lacrima scese sul suo viso, mentre scuoteva le ali nere nervosamente “Non c’è un'altra soluzione?” domandò, piangendo.

“No” spiegò la donna “No. Qualunque altro modo, porterebbe alla rottura dell’Equilibrio”.

“Cosa gli farete? Soffrirà?”.

“Sarà uno di noi”.

“Noi chi?”.

Lei non rispose e si avvicinò a Kasday. Tornò a sollevarlo da terra e gli parlò.

“Dio Triplice! Tu sarai l’unico di noi…” si fermò e guardò il Dio delle Letterature “…noi Alti…” tornò a rivolgersi all’Equilibrio “…l’unico di noi che non sarà nato dal ventre di Momoia. Non ti ricongiungerai agli altri Dèi che a noi si rivolgono, rinunciando al loro potere. Non ti sarà concesso fino a quando noi non lo decideremo. Non ti sarà concesso morire. Dimmi ciò che decidi: ti unirai a noi?”.

“Non ho scelta…” disse, flebilmente, Kasday.

“Bene”.

Lei lo avvolse nella sua magia ed il corpo di lui iniziò a mutare.

“Che gli state facendo?” domandò Vereheveil, allarmato.

“Diventerà uno di noi. Altrimenti verrà annientato quando i poteri dei suoi figli cresceranno ed i suoi si spegneranno. Entrerà a far parte della nostra famiglia, sarà come noi. E noi siamo diversi da voi!”.

Il Dio dai capelli verde acqua annuì, osservando la scena. Guardò il Dio Triplice con dolcezza.

Poi spalancò gli occhi. L’Equilibrio stava mutando. Con uno scricchiolio di ossa e di giunture, il corpo del Dio stava mutando profondamente. Kasday lanciò un grido, dapprima straziante e sommesso e poi tremendo e spaventoso.

“Nosmagiés sarà il tuo messaggero” parlò la donna “Erezehimsay, tuo altro angelo, non ti sarà più necessario in quanto non avrai contatti con le divinità semplici e non Alte. Questo angelo sarà libero di servire altri padroni: Kavahel, futuro Equilibrio, assieme al nuovo Destino e la neonata Kaos”.

Il Dio Triplice gemette, sentendo tutte le parti del suo corpo scricchiolare e pulsare di dolore. Vereheveil cadde in terra, in preda al terrore. Kasday notò il suo sguardo ed allungò la mano verso di lui, sorridendo, tentando di rassicurarlo.

Ma il Dio delle Letterature scosse il capo, allontanandosi: “Perdonami…perdonami…ma…non ci riesco! Non riesco a stare qui! Mi spaventi…”.

“Cosa?!” chiese Kasday, accigliandosi.

Pieno di rabbia, ed in preda al dolore, gridò ringhiando: “Torna qui! Cosa credi che ti possa fare?”.

Il suo tono minaccioso peggiorò le cose. Il Dio delle Letterature si spaventò ulteriormente e decise di correre via. Aveva tentato, in ogni modo, di resistere. C’è l’aveva messa tutta ma non ci era riuscito. Non vide la fine della trasformazione della persona che aveva amato e corse fuori, spalancando la porta e allontanandosi, cercando la luce delle stelle.

Kasday lo chiamò, prima con immensa tristezza e poi con forte ira.

 

Il Dio delle Letterature era ora all’esterno e cercava di calmarsi.

“Va tutto bene? Cos’è successo?” chiese una giovane Dea, amica del Tempo.

I gemelli, fra le braccia del Dio del Sole, iniziarono a dimenarsi, cercando le braccia di Vereheveil. Il Dio dalle ali d’angelo li prese entrambi e li strinse.

“Nessuno vi farà del male! Promesso!”.

Kavahel, un bambino sui sette anni, si guardò attorno: “Dov’è Kasday?” chiese “Dov’è? Perché quella donna lo ha trattato male? Io voglio Kasday!”.

“Lui…” non poteva continuare.

“Perché lo ha portato via?”.

La divinità dagli occhi d’oro guardò la Dea della Memoria: “Puoi aiutarmi? Puoi fare in modo che non chiedano più?”.

Tutti gli Dèi, a quelle parole, capirono che era accaduto qualcosa di grave.

La Memoria tolse i ricordi a Kavahel ed ai gemelli che, pur se solo dei neonati, presentavano già vividi ricordi.. Dopodiché la Dea delle Parole iniziò a raccontare loro dolci storie rassicuranti, distraendoli mentre tutti scendevano le scale, senza parlare. Abbandonarono gradatamente il palazzo. Nosmagiés apparve sulla soglia, osservando tutti quanti accigliato, scuotendo il capo. Chiuse l’immenso portone, che mai si sarebbe riaperto, fino alla riunione richiesta da Momoia molti secoli dopo. Erezehimsay, dopo vive proteste, seguì gli ordini e se ne andò.

Nessun Dio chiese più nulla al riguardo. Cominciò a diluviare, fra lampi e tuoni, un’intensa pioggia blu. Anche Vereheveil se ne andò, a capo chino, piangendo e con il cuore che batteva ancora fortissimo, in preda al terrore ed all’agitazione.

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Capitolo 9
*** IX- racconti di bimbi e fiamme ***


IX

 

RACCONTI DI BIMBI E FIAMME

 

Se questa è la realtà…” osservò Kavahel, terminato il racconto di Vereheveil “…allora il patto di Kasday ora è rotto. Noi tre siamo in grado di controllare perfettamente i nostri poteri. Se le cose stanno così…”.

“Sì. È esatto”.

Tutti si guardarono con aria interrogativa. Chi aveva parlato? Di chi era quella voce?

“Chi ha parlato?” domandò il Dio del Tempo.

“Chi vuoi che sia stato?” sempre la stessa voce sconosciuta.

“Momoia…” mormorò Luciherus, vedendone la sagoma.

“Vi aspettavate, forse, qualcun altro?” sorrise la Madre.

Tutte le divinità chinarono il capo, in cenno di saluto e di rispetto. Tutte tranne Luciherus, che rimase in piedi e sorrise, guardando negli occhi la Madre degli Alti e salutandola con la mano.

Lei rispose, per niente disturbata.

“Come la conosci?” sussurrò Vereheveil al demone.

“Te lo avevo detto…è stata lei a scegliermi. E lei a farmi diventare un Dio”.

“Lei in persona? Che idea folle…deve avere perduto il senno”.

“Puoi parlare più forte, Vereheveil?” domandò Momoia “Io ti sento benissimo, ma gradirei che anche gli altri Dèi presenti ascoltassero ciò che hai da dire”.

“Signora…” iniziò il Dio delle Letterature, timidamente “…io non voglio essere offensivo. Ma penso solo che, secondo me, è una follia far diventare un animale come Luciherus, un Dio! Non è in grado di gestire poteri e forze. È rischioso!”.

“Conosco i rischi. E so che cosa faccio. Qualche altro commento?” affermò Momoia, non mascherando il suo fastidio.

Gli Dèi non risposero alla sua domanda. Tutti tacquero perfino, stranamente, la Dea delle Parole.

“Sedetevi” ordinò la Madre, sedendosi a sua volta.

Dal quadro appeso alla parete apparvero altre divinità, altri Alti, che si sedettero alla destra ed alla sinistra di Momoia. Erano tutti riccamente vestiti e con un’espressione poco rassicurante.

Nessuno di loro presentava il vero aspetto, avevano scelto di mostrarsi il più simili possibile alle divinità semplici.

“Fa freddo qui…” mugugnò uno di loro, con i capelli corti e gli occhi d’argento.

“Accendiamo il fuoco?” suggerì un altro, molto alto e robusto.

“No!” rispose, secca, la Madre “No, piccoli idioti. Non fate cose che possano turbare il padrone di casa!”.

Nessuno parlò più. Tutti guardavano l’unico posto rimasto libero.

“Kasday sarà con noi questa notte?” chiese Skrich, la Dea del Kaos.

“Non credo” sibilò la Madre “Raramente scende dal suo antro al piano di sopra. Passa i giorni fra la cupola e la stanza degli specchi”.

“La stanza degli specchi? Che roba è?” bisbigliarono varie divinità.

 “Mi piacerebbe molto averlo qui…” ammise l’Alta creatura “…e mi piacerebbe che volesse vedermi…e vedervi!”.

“Non vuole vederci?” si stupì Vereheveil.

“Suvvia!” esclamò Momoia in tono tranquillo, sorreggendosi la testa con la mano “Suvvia, Signori! Ve ne stupite? Basta pensare a come vi siete comportati! Lo avete abbandonato così…siete stati così meschini e vigliacchi!”.

“Lui è stato codardo e vigliacco!” rimbeccò Luciherus, indicando Vereheveil “E pure meschino! Ma sono sicuro che Kasday vuole rivederci. Vuole rivedere i suoi figli e…vuole rivedere me!”.

“Siediti, nuovo arrivato, e sta tranquillo” gli ordinò la Madre “Non mi stupisco che lui non sia qui. Gli avete spezzato il cuore…”.

“Voi più di loro!” tuonò una voce.

I presenti si voltarono verso le scale, dove stava, ritto e scuro, l’Angelo Messaggero Nosmagiés.

Era stato lui a parlare e, dopo aver avuto tutta l’attenzione che voleva, continuò: “Siete tutti dei bastardi! Dal primo all’ultimo!”.

Scese le scale, con aria solenne, indossando uno splendido abito blu con un lungo strascico. “Carino…” commentò Luciherus.

“Al mio padrone piace questo vestito…”.

“Come osi parlarmi in questo modo, sottoposto?” ringhiò Momoia, guardandolo minacciosamente. “Non ho paura di Lei, madama Madre. Ho sopportato cose peggiori della minaccia di una vecchia!”. Il Principe si mise a ridere, fra il silenzio generale.

“Grandioso questo Messaggero! Hai fratelli? Voglio uno come te al mio fianco!” commentò il demone, con entusiasmo.

“Raccontategli della notte del bambino!” incalzò Nosmagiés “Raccontategli cosa, voi santoni e benefattori, avete fatto. E poi vediamo se sono disposti ancora ad aiutarvi! Se lo fanno, vuol dire che sono proprio dei vermi!”.

L’angelo aveva incrociato le braccia e guardava Momoia negli occhi, con sfida.

“Il Coraggio è dalla mia parte! Questo fa sì che io sia già in vantaggio!” rispose la Madre, osservando Luciherus, poi continuò: “Immagino che tu sia qui per riferirci che il tuo Signore non scenderà…”.

“No. Non scenderà. Non vuole vedervi. Non vuole vedere nessuno di voi”.

“Che cosa gli avete fatto?” domandò Vereheveil, capendo che Kasday aveva dei problemi anche con gli Alti.

La Madre, con espressione tranquilla e rilassata, si accomodò sulla sedia e, a mani giunte, iniziò a raccontare: “Come ben sapete io sono Momoia, la Madre degli Alti. Sono chiamata in questo modo perché tutti gli Alti nascono da me e rinascono, una volta morti o uccisi. Come un’ape regina, io ho messo al mondo tutti loro”. Indicò gli Alti presenti. “L’unico che non è cresciuto nel mio grembo è Kasday. I problemi, fra me e lui, sono iniziati quando lui ha iniziato a presentare una certa simpatia con l’unica creatura da me nata in seguito ad un atto d’amore. Iniziò a frequentare, corrisposto, la mia bambina, figlia della sottoscritta e di mio marito. La cosa non mi andava particolarmente bene. Sapevo poco di lui, era diverso dagli altri, era…strano. Era debole, misterioso e complicato da comprendere. E, del resto, non era nemmeno del tutto un Alto ma solamente una mia proprietà. Così, io e mio marito, decidemmo di dividerli e tenerli lontani l’uno dall’altro. Ma ci accorgemmo subito che la cosa non funzionava. Nostra figlia, sempre più spesso in forma di donna, lontana dai canoni delle divinità Alte, spariva per periodi sempre più lunghi e si recava in luoghi a noi sconosciuti. Volevamo vederci chiaro e perciò gli regalammo questa…”.

Momoia frugò nella borsa che teneva con sé e mostrò una spilla, dai meravigliosi colori dell’arcobaleno.

 

“La primavera è una stagione così bella…”.

Rideva la ragazza, spargendo i semi del soffione che teneva fra le dita. Sorrideva, guardando il cielo azzurro che la sovrastava. Poi si voltò, cercando approvazione da parte del suo interlocutore.

“Hai ragione, è una stagione bellissima, ma adesso torna dentro. La Madre potrebbe scoprirci e punirci entrambi!” la rimproverò lui.

“Sta tranquillo!” esclamò lei, improvvisando qualche maldestro passo di danza “Uffa!” protestò la donna “Io voglio ballare come te! Tu, che sei così bravo, perché non mi insegni?”.

Lui uscì dall’ombra del palazzo e fece qualche passo a piedi scalzi, sull’erba umida del cortile interno.

“Balla per me!” supplicò lei.

“Mi ‘spiace, ma io non ballo più. Da tanto ormai…”.

“Ti manca la tua famiglia?”.

“No. Ma non ho motivi per cui ballare…”.

Lei non nascose la sua delusione e fece il broncio, da bambina capricciosa.

“Ti prego! Ti prego…Kasday? Era così che ti chiamavano?” insistette la giovane.

Kasday sorrise, rassegnato. Aveva l’aspetto che presentava quando era il Dio dell’Equilibrio. Quello era il corpo che gli permetteva di ballare con più agilità. I lunghi capelli corvini, lasciati liberi al vento, si agitavano e le ali blu, da angelo, brillavano al Sole. Andò vicino a lei e le prese le mani.

“Ti insegno io. Ma non per molto. Perché per me è molto faticoso mantenere questo corpo e questa forma”.

Insieme danzarono per qualche minuto, fino a quando lei non fu soddisfatta. La donna, la creatura di Momoia, era nata come una degli Alti e non aveva un aspetto preciso. Lo cambiava a suo piacimento ed in particolare, quando era in presenza di Kasday, preferiva avere corpo di donna.

“Come vuoi che io sia?” domandava sempre a lui “Come vuoi che sia il mio corpo oggi? Sarò come mi vuoi. Sono nata con  i capelli verdi ma…”.

A Kasday piaceva il verde e le passò due dita fra le ciocche, facendole sfumare fino a quando presero il colore della chioma di Vereheveil. Poi le prese la testa fra le mani e la guardò negli occhi. Questi divennero di un acceso color arancio, come il fuoco. Lei aveva percepito i suoi pensieri e li aveva mutati seguendo i pensieri di lui.

“Ed io?” chiese Kasday “Io come devo cambiare? Come mi vuoi?”.

“Tu mi piaci così ed in ogni altro modo, mio bel tenebroso!” rise lei, facendosi abbracciare dalle braccia di vetro e metallo “Ho bisogno di te…” sussurrò.

“Ed io di te” ammise lui.

Tenendosi per mano rientrarono in casa. Nosmagiés li osservava, ad una certa distanza.

“Vieni di sopra, Kasday!” disse lei, tirando lui per il braccio “Vieni! Voglio mostrarti una cosa…”. Lui le sorrise: “Sowelo…” le parlò, chiamandola per nome “Cosa c’è? Cosa vuoi mostrarmi?”. “Voglio mostrarti…come amano gli Alti!”.

Salirono le scale, lasciando Nosmagiés da solo, con la sua birra e la sua aria accigliata. Da un lato era felice per il suo padrone, ma dall’altro era piuttosto spaventato all’idea che Momoia potesse scoprire la figlia ed il suo Signore insieme, nonostante i divieti dalla Madre imposti.

Le stagioni passarono, senza che lei rientrasse a casa propria.

Momoia, consapevole della situazione, tentò di farla allontanare portandole dei messaggi, tramite Nosmagiés oppure con l’uso di specchi e sferette magiche. Ma nulla pareva smuovere la figlia dal palazzo di Kasday. Si arrese all’evidenza che quei due non volevano essere separati.

Nonostante questo, decise di attendere prima di intervenire: era convinta che tutto sarebbe finito come lei aveva deciso.

Era una notte senza Luna quella in cui le cose cambiarono.

Era tutto tranquillo. A volte soffiava un vento gelido e per questo il fuoco era acceso.

Nosmagiés ascoltava il canto dei grilli, cercando di non fare caso alle risatine di lei, che si udivano chiaramente dal piano di sopra. Si rimproverò. La gelosia non è un sentimento da angelo! Si disse.

Ma non riusciva a fare a meno di invidiare quella donna che poteva stare così vicino al suo padrone. Prese il suo violino fra le mani, seguendo, con i trilli, le dolci serenate dei grilli.

“Facciamo una cosa speciale questa notte, mio tesoro?” chiese Sowelo, con un largo sorriso, messa supina.

“Che cosa vuoi fare?” rispose Kasday, disteso sulla schiena, con le mani dietro la testa.

Erano entrambi sul letto, l’uno accanto all’altro, senza vesti e senza preoccupazioni.

Lei agitava le gambe in aria.

“Creiamo una vita!” esclamò lei, dopo un po’ “Siamo creatori, dopotutto. Allora perché non creare una vita?”.

“Che intendi?” volle sapere lui,scettico.

Sapeva di non avere il corpo adatto a certe cose. Si era girato e si teneva la testa, appoggiato sul gomito.

“Intendo, zuccone, di creare qualcosa di nostro. Una creaturina tutta per noi, il nostro piccino. Avanti…non me lo hai detto tu che l’unico desiderio che hai è avere un piccolo da accudire e veder crescere? Ebbene, facciamolo! Creiamo il nostro bambino!”.

Kasday rimase perplesso da quella richiesta, non sapendo assolutamente in che modo procedere. “Scusa la domanda che ti sembrerà stupida ma…come si fa, fra gli Alti, a concepire?”.

“Oh, non è una cosa facile come con un Dio semplice o un demone! Quelli hanno degli organi adibiti a questo…noi no. Ma non è difficile. Sono solo tre mosse. Ti và?”.

Kasday annuì ed entrambi si misero a sedere, guardandosi negli occhi.

Lei lo prese per mano. L’occhio che lui aveva sul dorso si guardò attorno, curioso.

“Dobbiamo mostrare entrambi il nostro aspetto da Alti. Così avremmo una più alta concentrazione magica” iniziò lei.

Fatto questo Sowelo continuò.

Con la punta delle dita incise i palmi delle mani di lui, che stringeva.

“Fai lo stesso con me” sussurrò la donna.

Lui obbedì e le graffiò la pelle. Poi tornarono a stringere forte, palmo contro palmo, scambiandosi le gocce di magia che fuoriuscivano dalle loro ferite.

“Questo è il primo passo…” mormorò lei “E ora…” si guardarono con affetto e felicità. “…ora stringimi forte! Metti a contatto il tuo cuore con il mio!”.

I due Alti fecero combaciare i due oblò luminosi, che avevano in mezzo al petto.

Battevano e pulsavano all’unisono, in un abbraccio appassionato. Anche le loro luci si fusero, il bianco accecante e l’arancio di Kasday assieme allo stesso bianco ed all’azzurro di Sowelo.

I capelli, lunghissimi, di entrambi, si arricciarono e si alzarono, mossi da un vento invisibile ed attratti l’uno verso l’altro. Le forze magiche che si scambiarono provocarono nei due delle sensazioni sempre più intense e piacevoli. Si fondevano e si univano, come in un unico corpo. Nasceva, nel profondo di loro stessi, un’emozione man mano più potente ed incontrollabile.

Al culmine della sua manifestazione tutto cessò. Le due magie si respinsero, come due poli equivalenti, ed i corpi si separarono, tornando ad essere due entità distinte.

Sowelo, distendendosi di nuovo, fece un gran sorriso.

“Ora il nostro piccolo crescerà in me e, presto, vedrà la luce” sussurrò.

“Presto quando?” chiese Kasday, ammettendo la sua ignoranza in materia.

“Una sola notte. Ora io mi metto un po’ qua, a dormire, così la mia magia farà tutto e, prima dell’alba, sarò pronta” gli rispose lei.

Un altro bacio, un sorriso, e poi entrambi si addormentarono, l’uno accanto all’altro.

Kasday si svegliò, qualche tempo dopo, sentendo dei rumori dal piano inferiore. Si alzò. Indossò una lunga vestaglia, blu a riflessi dorati, che teneva accanto al letto, su una sedia in legno lavorato. Diede un’occhiata a Sowelo, che brillava di luce colorata e mutevole. Sorrise ed uscì dalla stanza, senza far rumore.

“Chi è?” chiese, dopo aver chiuso la porta dietro di sé.

Scese le scale. Il fuoco sacro bruciava tranquillo e scaldava il palazzo.

“Nosmagiés, sei tu?”.

Nessuna risposta. Il padrone di casa non voleva alzare troppo la voce, per paura di svegliare lei, che doveva dormire.

“Signore? Siete voi?” si sentì chiedere ed intravide l’angelo in un angolo “Siete sceso?” chiese il Messaggero, alzandosi dalla sedia.

Nel buio i suoi capelli rosso magenta riflettevano il colore e la luminosità delle fiamme. “Nosmagiés, sei qui!” esclamò Kasday, felice “Sei tu che hai fatto quel rumore prima? Ho sentito dei passi e scricchiolii…”.

L’angelo scosse il capo: “Io, Signore, mi sono assopito sulla sedia, perso nei miei pensieri, e mi son svegliato solo ora, udendo la Vostra voce”.

“E non hai sentito niente?”.

“Io non ci sento bene come Voi…ma, forse…”.

Kasday gli fece segno di fare silenzio con l’indice della mano sulle labbra.

“C’è qualcuno qui” mormorò “C’è qualcuno, ne sono sicuro. Un intruso o forse più di uno…”.

Il Messaggero si guardò in giro, perplesso.

Lei, dal piano di sopra, urlò. Kasday corse per le scale.

“Non restare lì sotto da solo, Nosmagiés. Sali con me. Non so chi ci sia in casa, ma credo che non sia nulla di buono o positivo”.

L’Alto, dopo aver invitato l’angelo a salire, senza risultato, tentò di aprire la porta della camera. Non ci riuscì. Eppure, ne era sicuro, non l’aveva chiusa a chiave.

“Chi c’è là dentro? Fammi entrare!”.

Sowelo rispose con un grido disperato: “Aiuto!!”.

Lui, con tutta la sua forza, riuscì a sfondare la massiccia porta cesellata. Piombando nella stanza, mutando il suo corpo in atteggiamento da battaglia, rimase senza fiato. Sul letto, Sowelo era stata legata, da un  lato all’altro del letto, a gambe e braccia spalancate. Sopra di lei, con i piedi alla destra ed alla sinistra del ventre della giovane, a contatto con le lenzuola, stava un enorme essere. Immobile, in piedi, era Teiwaz, il marito di Momoia, a braccia incrociate e con un’aria decisamente minacciosa. Tutt’attorno alla stanza si erano radunati tutti gli Alti, Kasday riuscì a riconoscerli. Solo uno di loro mancava all’appello. I presenti osservavano la scena, in silenzio.

“Dai, avanti!” tuonò Teiwaz, rivolto alla figlia “Dammi il frutto di ciò che è proibito!”.

“Proibito?” si allarmò Kasday, senza capire.

Momoia, avanzando di un passo, si scostò dalla parete su cui stava appoggiata e gli parlò, con tono profondo: “Sì, Hagalaz, proibito!”.

“Io mi chiamo Kasday!”.

“Un tempo era così. Ora, arrenditi all’evidenza, sei un Alto e sei Hagalaz. L’Alto Hagalaz. Non il creatore e l’Equilibrio Kasday. Solo io e mio marito possiamo dare vita. Sono queste le regole!”. Irata e ringhiante, puntò un dito verso Kasday, che si sentì trascinare fino alla vicina parete e da lì non riuscì più a muoversi.

“É solo una vita. Una soltanto! Una piccola, dolce, nuova vita! Sarà solo lei. Solo lei! Non creeremo mai più, ti supplico, non farle del male!” riuscì a dire, in tono sommesso.

“Lo so che non creerete più nulla. Separati, vi sarà impossibile!”.

Solo in quel momento Kasday si accorse che la bellissima spilla che indossava Sowelo era uguale a quella che portava Momoia. La Madre, prendendola fra le mani, mostrò a tutti che con quel piccolo oggetto era stata in grado di controllare i due in tutti i loro spostamenti e atti.

Il silenzio che si era creato fu interrotto dal vagito di un bambino, che annunciava la sua venuta nel mondo. Teiwaz lo teneva stretto, facendolo strillare più forte per il dolore.

“Marito mio, sai cosa fare” gli disse Momoia e lui annuì, saltando giù dal letto.

Sowelo tentò di ribellarsi ma, legata com’era, non poté fare nulla.

“Che volete fare?” domandò Kasday, agitato.

“Tra due creatori nasce un altro creatore. Troppi creatori creano un disequilibrio, e tu questo dovresti saperlo meglio di chiunque altro” sibilò Momoia, infastidita.

Lui, allora, capì le intenzioni dei presenti ed urlò, con rabbia e paura. Con la forza della disperazione e della determinazione, riuscì a liberarsi dalla magia che lo teneva inchiodato al muro e tentò di raggiungere Teiwaz, che usciva dalla stanza. Subito tutti gli Alti presenti lo bloccarono e, per quanto lottasse con tutte le sue forze, non riuscì a lasciare la camera. Lungo le scale, sentendo le urla di supplica del suo Padrone, Nosmagiés tentò, follemente, di fermare il marito di Momoia che, però, lo respinse e lo scaraventò giù per le scale. L’angelo perse i sensi per qualche minuto, sopraffatto dal dolore.

“Papà!” supplicava Sowelo, a gran voce “Ti prego, papà! Riportamelo! Riportami il mio bambino!”.

Kasday, riuscendo a sfuggire ai suoi aguzzini, corse fuori.

Guardando giù vide l’Alto Padre accanto al fuoco.

“Nosmagiés!” chiamò, ma poi vide che l’angelo era disteso e ferito.

Con un balzo fu al piano terra ma non riuscì a bloccare Teiwaz che, senza alcuna pietà, lasciò scivolare il bambino fra le fiamme. La piccola creatura emise un gemito di disperazione acutissimo. Kasday allungò le mani verso il fuoco sacro, l’unico in grado di bruciare le divinità, ma era ormai troppo tardi. Il piccolo era scomparso in una nube di cenere, senza avere nessuna possibilità di rinascita perché pure le essenze erano sopraffatte da quelle fiamme. Nosmagiés, vincendo la sofferenza fisica che provava, riuscì togliere le mani del suo padrone dal caminetto, anche se ormai erano quasi del tutto bruciate. Kasday urlò con rabbia, incapace di fare altro. Si accartocciò su se stesso, appoggiando la fronte alla superficie bollente del mobile, facendo divenire incandescente la parte di metallo e pietra del suo viso.

Gli Alti se ne andarono, guardandolo con rimprovero. Nosmagiés abbracciò forte il suo Signore, che piangeva e urlava, non sapendo che altro fare. I suoi occhi erano sbarrati. Mai si sarebbe aspettato tanta crudeltà.

Il fuoco fu spento..e fuori iniziò a piovere.

 

Gli Dèi in sala rimasero senza parole: erano sconvolti. Nosmagiés non nascose le sue lacrime. Molti piangevano.

“E poi? Cos’è successo?” chiese qualcuno a Momoia, che aveva terminato il suo racconto.

“Poi Sowelo, la mia creatura, si è tolta la vita, in modo da non poter più rinascere. Si è gettata nel fuoco del suo palazzo. Non esiste e non esisterà più. Kasday è rimasto nel suo isolamento perpetuo. Ha ucciso la mia bambina. Ha provocato la sua fine”.

Nessuno parlò più. Tutti fissavano il caminetto spento.

“Ed ora…” parlò Momoia “…noi siamo qui a chiedere il vostro aiuto”.

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Capitolo 10
*** X- Celesti ***


X

 

CELESTI

 

“E poi? Poi che cosa è successo?” chiese Vereheveil “Quella notte Kasday…”.

“Da quella volta Kasday non è più se stesso. È uscito di senno, ha perso la ragione e non è mai più uscito da palazzo, se non per andare a combattere su mio ordine. Ma credo che non lo faccia veramente. Non l’ho mai visto in battaglia. Credo che passi per il quadro e poi si nasconda, ignorandomi”.

“Come dargli torto…” mugugnò Nosmagiés, ruotando gli occhi al cielo.

“Fa silenzio, pennuto schiavo! Non ti permettere!” tuonò Momoia.

“Abbassi la voce. Al mio Signore dà fastidio tutto questo chiasso inutile e senza senso” gracchiò l’angelo messaggero, accigliato.

“Che scenda a dirmelo di persona!” gridò Momoia.

Il giovanissimo Dio del Silenzio si alzò in piedi, di scatto. Con un rapido gesto della mano tolse la voce a tutti i presenti. Non potendo far restare atona la Madre degli Alti, il Dio si limitò ad abbassarle la voce di un paio di tonalità.

“Perché lo hai fatto?” domandò Momoia.

A gesti il giovane fece capire che era stato Kasday a crearlo e che era giunto il momento di tornargli il favore. Molti annuirono. I più giovani erano tutte divinità nate dall’uovo che Kasday che aveva creato dopo aver generato il suo Universo.

“E va bene! Come preferite…” si rassegnò Momoia.

“Io torno dal mio Padrone. Voi non alzate troppo la voce e riflettete su cosa vi dirà questa pazza” disse Nosmagiés, indicando la Madre.

“Dì al tuo caro Signore di scendere immediatamente. O lo prendo a calci per buttarlo di sotto!”. L’angelo la ignorò ed iniziò a salire le scale.

“Ti prego, Nosmagiés! Fallo venire qui! Fammi rivedere Kasday!” mormorò Luciherus ma il messaggero non lo ascoltò. Sparì nel buio e nel silenzio.

“Per cosa ci avete chiamato, Signora?” chiese Vereheveil, cercando di distogliere l’attenzione di tutti dal Messaggero.

“Io vi ho chiamati per esporvi un fatto: siamo sempre di meno. Come potete vedere, noi Alti non superiamo la ventina. Una volta eravamo molti di più ma, ultimamente, abbiamo subito numerose perdite”.

“Perdite? In che senso?” chiese il Tempo.

“E poi…scusate…ma non dovreste rinascere?” continuò la Dea della Morte.

“Il problema è che, quelli di noi che non sono qui presenti, risultano scomparsi nel nulla. Nessuna parte della loro essenza risulta rintracciabile. Questo mi impedisce di farli rinascere e quindi siamo sempre di meno. Purtroppo questo fatto è accaduto più volte e capita sempre più spesso. Il primo a sparire è stato mio marito”.

“Mi dispiace…” sussurrò qualcuno, con vero cordoglio.

“Tutto è iniziato dopo la decisione della mia creatura. Si è gettata nelle fiamme che lei stessa aveva creato. Il giorno dopo è sparito mio marito. Pensavamo si fosse solo allontanato per un po’, per riflettere o per stare da solo, ma poi sono iniziati a scomparire anche gli altri…uno dopo l'altro. E abbiamo tutti capito che qualcosa non andava”.

“Chi può fare una cosa del genere? Far scomparire un Alto come se fosse niente dev’essere difficile” esclamò Kavahel.

“Noi sappiamo chi può farlo. I Celesti” parlò uno degli Alti.

Luciherus scoppiò a ridere: “I Celesti?! Suvvia, ragazzi! I Celesti sono favolette usate per fare dormire i bambini ed obbligarli a fare i bravi. Cose del tipo: attento, sii buono, altrimenti i Celesti verranno a prenderti! Cerchiamo qualcosa di più concreto…”.

Molte altre divinità risero, ricordando quelle favole.

“Non sono balle!” sbottò Momoia “So con chi abbiamo a che fare. Sono delle creature che ci odiano da lungo tempo e noi pensavamo che, mossi da un impeto di coraggio, avessero rapito i nostri compagni. Seguendo questo dubbio, ci siamo recati nel loro palazzo e questi hanno peggiorato la situazione, accusandoci ed insultandoci in ogni modo. È così che è iniziata la guerra”.

“Voi siete gli Alti!” esclamò Skrich “Che problema c’è? Siete al di sopra di tutti!”.

“Non dei Celesti. Loro sono i nostri equivalenti nei loro Universi”.

“Quali sono i loro Universi?” chiese qualcuno.

“Gli opposti dei vostri. I loro sono gli Universi paralleli rispetto a quelli sotto il nostro controllo”. Scese il silenzio. Uno strano silenzio.

Momoia sospirò: “Quel quadro…” iniziò a parlare, indicando il dipinto alla parete “…ci permette di giungere direttamente al nostro pianeta, ma anche di arrivare velocemente nei loro Universi. Ne hanno tre, come noi. Uno del Kaos, uno del Destino e uno dell’Equilibrio. Come noi, hanno i tre sotto il controllo del Dio Triplice e…”.

“Universi paralleli, identici ai nostri?!” esclamò il Sole.

“Esatto. Noi siamo al controllo di questi tre e loro tengono sotto controllo gli altri tre”.

“Che casino!” disse Luciherus.

“Già è un casino…ma è così che vanno le cose. Il punto è: non sappiamo come uscirne. Loro ci attaccano, noi ci difendiamo. Loro ci insultano, noi rispondiamo. Ci odiamo ed ogni tipo di dialogo è ormai compromesso. Perciò vi chiedo questo: non voglio vedervi combattere contro la vostra volontà, ma sarebbe molto gradito il vostro aiuto. Fino ad ora le nostre barriere hanno protetto gli Universi in cui risiedete voi, e le creature che vi pregano, ma se il nostro numero dovesse diminuire non sono sicura che questa situazione possa mantenersi stabile. Soccomberemmo e i Celesti attaccherebbero i vostri pianeti. Angeli, Demoni, Dèi, creature mortali di ogni tipo, animali ed esseri viventi…finirebbero tutti sotto il loro controllo”.

Nessuno parlava, consapevoli della gravità della situazione.

“Come avete la certezza che siano loro i colpevoli?” domandò il giovane Destino.

“Loro sono gli unici con la forza necessaria per far scomparire uno di noi. E poi, dato che ora ci attaccano…” iniziò Momoia.

“…non ci attaccherebbero se fossero estranei alla cosa!” terminò un altro Alto.

“Avrebbero potuto provare molto facilmente che sono innocenti ma, invece che mostrarsi disponibili, ci hanno attaccato ed insultato. Ora, ditemi voi…che avremmo potuto fare?”.

“I Celesti…” domandò timidamente la Dea della Memoria “…sono come ce li hanno descritti quando eravamo da piccoli?”.

Momoia rimase seria: “Sono crudeli e senza cuore. Spietati assassini con i loro nemici. Ma non posso negare di essere anch’io facilmente descrivibile con questi aggettivi”.

 

“Signore…?”.

Nosmagiés chiamò il suo padrone, a bassa voce: “Signore…dove siete?”.

Un lieve fruscio di piume gli fece capire dove si trovava. L’angelo entrò cautamente in uno stanzino buio, illuminato solamente dalla luce bianco-aranciata della pelle del lato di vetro del padrone di casa.

“Posso entrare?” domandò il Messaggero, timidamente.

Kasday annuì e Nosmagiés entrò.

L’Alto era seduto al centro della camera, sul letto. Fissava il vuoto. Girò, lentamente, la testa verso il suo angelo, inclinandola lateralmente.

“Signore…là sotto ci sono i Vostri figli, le persone che vi vogliono bene e…”.

“Fa silenzio, Nosmagiés”.

“Ma…”.

“Fa silenzio”.

“Come volete” sospirò l’angelo “Mi ‘spiace di essermi fatto gli affari Vostri”.

Seguì un inquietante mutismo da parte di entrambi. Il Messaggero si strinse nella veste azzurra che indossava, rabbrividendo dal freddo, osservando gli stucchi in rilievo sul muro. Erano davvero belli, peccato che nessuno li potesse ammirare da secoli, eccezion fatta per lui ed il suo Signore.

“Perdonami, mio angelo” sussurrò Kasday “Perdonami ma…là sotto non c’è nessuno per me. I miei figli non mi riconoscono, mi sono estranei, e le persone che mi amavano ora non provano più nessun sentimento nei mie confronti”.

“Sapete che non è così!” protestò il Messaggero.

L’Alto si distese sul letto, girando la testa in modo da dare le spalle all’angelo.

“Tu non sai niente” mormorò.

I suoi lunghissimi capelli neri si agitarono per un po’. Poi Kasday chiuse gli occhi, sospirando. Nosmagiés prese coraggio ed andò a sedersi accanto al suo signore. I due si guardarono.

“Le senti tutte le stronzate che dice quella donna?” ridacchiò il padrone, distogliendo gli occhi.

“Vi riferite a Momoia?” si informò il Messaggero, rimanendo serio.

“Sì. È una grande oratrice. Che plagiatrice!”.

“Ma è vero che i Celesti ci sono nemici…”.

“Sì. È vero che ci attaccano, che ci insultano, che ci odiano eccetera eccetera. Ma non sono così crudeli e senza cuore come lei li descrive”.

“Non crediate, però, che siano tanto dolci. Altrimenti non ci sarebbe la guerra. Siete dalla parte dei Celesti?” l’angelo sembrava davvero perplesso.

“Sono neutrale. Come sempre. Me ne frego della guerra, degli Alti, dei Celesti”.

L’angelo osservò le mani del suo padrone, bruciate. Le muoveva nervosamente. E il messaggero non capiva se ancora gli provocavano dolore, come la gamba che da tempo immemore lo tormentava a momenti alterni.

“Perché non le fate guarire? Vi sarebbe facile togliere queste bruciature…”.

Kasday non disse nulla, tornando nel suo stato di trance, con gli occhi spalancati e persi nel vuoto. “Signore?” lo chiamò l’angelo.

Non ricevette risposta.

“Signore…va tutto bene?”.

L’Alto iniziò ad emettere strani versi e parole senza senso.

“Avete bisogno di qualcosa?” insistette Nosmagiés ma, anche questa volta, non ricevette nessun accenno di spiegazione o parola sensata.

Con un sospiro l’angelo si alzò dal letto e si avviò verso la porta.

“Nosmagiés…” sentì mugugnare Kasday “Nosmagiés tu…mi vuoi bene?”.

Il messaggero non sapeva che cosa rispondere e rimase fermo sull’uscio.

“Mi vuoi bene, Nosmagiés?” biascicò di nuovo il padrone.

“Certo che ve ne voglio, padrone mio”.

“In che modo?”.

“In che senso?” l’angelo alzò un sopracciglio, perplesso.

“Mi vuoi bene come si vuol bene ad un cane, ad un peluche, ad un malato…”.

“Un malato?”.

“Sì. Mi vuoi bene basandoti sulla pena che si prova nei confronti di un pazzo?”.

“Io vi voglio bene come se foste mio fratello, mio amico, mio padre, mio figlio…mio Signore!”. “Oh, Nosmagiés! Dimmi la verità! Parlami sinceramente e descrivimi. Cosa ne pensi di me? Sii sincero, perché se menti lo capisco”.

“Penso che Voi siate una brava persona, un bravo Dio, un bravo Signore…ma che si chiude troppo in se stesso. Io comprendo il vostro dolore ma…credo che uscire da qui le farebbe decisamente bene”.

“Nemmeno tu esci mai da qui, mio piccolo angelo!”.

“Io non vado da nessuna parte senza di Voi! E poi…senza di Voi io non ho niente. Non ho famiglia, non ho amici…”.

“Amici ne avresti se uscissi!”.

 “Non mi interessa farlo!”.

“Neanche a me!”.

 “Bene!”.

Entrambi sorrisero, con scarsa convinzione.

“E degli Alti, angioletto mio, cosa ne pensi?”.

Nosmagiés si rabbuiò, incrociando le braccia: “Mi fanno schifo. Sono dei mostri e degli approfittatori. Li odio, sinceramente. Ed immagino che anche Voi…”.

“Io non li odio. Non provo sentimenti. Non più, da quella sera. Sono come un grosso sasso…” Kasday aprì le braccia, imitandone la forma “…o un albero. Fermo. Raccolgo ed assimilo stimoli, senza trasmetterne alcuno”.

“Non li odiate?” l’angelo era visibilmente stupito.

“No. Non odio. Non amo. Per questo non scendo. Per non vedere le persone che una volta amavo, con tutto il cuore, provocarmi l’indifferenza totale”.

“Capisco…”.

“Non struggerti troppo per me. E ora va pure a dormire. Ignora tutti quei bacucchi al piano di sotto. Riposa e rilassati”.

“Avete bisogno di qualcosa?” domandò Nosmagiés, lasciando la stanza.

“No. Va pure”.

“Buonanotte, Signore”.

“Notte, Nosmy”.

 

“Che cosa dobbiamo fare?” domandò Vereheveil, preoccupato soprattutto per i suoi figli.

Non voleva di certo che capitasse loro qualcosa di male!

“Pensavamo di sferrare una sorta di attacco” iniziò a spiegare Momoia “Dato che, normalmente, siamo alla pari come dispendio di forze ed energie, aumentando di numero e di magia dovremmo riuscire a sconfiggerli. Ma dovrebbe svolgersi il tutto il più presto possibile perché, essendo loro  negli Universi paralleli, sicuramente stanno organizzando qualcosa di simile”.

“Un attacco combinato di Alti e Dèi, lei intende?” si informò la Dea della Guerra.

“Precisamente. Dobbiamo ancora organizzarci, ci serve una strategia molto precisa, ma al più presto saremo in grado di combattere. I vostri angeli Messaggeri saranno informati di ogni nostra decisione e mossa e, al momento opportuno, vi comunicheranno come e dove riunirsi. Ci tengo a precisare che nessuno di voi ha degli obblighi e nessuno è costretto a venire a combattere per noi. Certo che sarebbe consigliabile…”.

La Dea della Guerra fece notare che non si svolgevano battaglie dalla fine dell’ultima Era, dall’ultimo scontro fra l’antico Kaos e la precedente divinità del Destino. Era trascorso tantissimo tempo e molti dei presenti non avevano mai vissuto una vera e propria rissa fra divinità, né tantomeno una guerra.

“Non è un problema questo” la rassicurò la Madre “Uno dei nostri, un Alto, penserà ad un adeguato addestramento di chi ci aiuterà”.

“E se fosse tutto…che so…un imbroglio?” azzardò Luciherus, con le mani in tasca e un sorriso ghignate.

“Spiegati, Dio del Coraggio” intimò Momoia.

“Mi spiego: se fosse solo un tentativo di depistaggio da parte dei nostri veri nemici? Mettiamo che, per caso, un vostro antagonista voglia farvi credere che i colpevoli sono i Celesti, quando in realtà non è così…”.

“É un’idea buona, in fondo…” commentò la Dea del Kaos.

“Impossibile” tagliò corto Momoia “É impossibile perché io percepisco tutti i pensieri di tutti voi. Se qualcuno, compreso uno degli Alti, pensasse a complottare contro di me, o contro di voi, lo saprei subito. Gli unici di cui non sarei in grado di capire la mente sono i Celesti. È dunque inevitabile che siano loro i colpevoli”.

“Nessuno è in grado di schermare le proprie onde cerebrali in modo da evitare che Voi, Madre, possiate leggerle?” si informò il nuovo Dio del Coraggio.

“No. Non è mai esistita una creatura in grado di farlo. Questo perché il nostro livello magico è altissimo, di molto superiore a quello di chiunque altro”.

Luciherus non sembrava convinto ma non aggiunse altro.

Gli Alti, notando la sua espressione, sorrisero.

“Quanto sei diffidente…stai tranquillo! Non siamo noi i cattivi!” ridacchiò uno di loro, il più alto. “Se ti può far sentire meglio, farò aumentare la sorveglianza…” commentò Momoia.

“Non so che cosa intenda chiaramente con questa frase ma…sì, mi sentirei meglio!”.

“Bene. Al più presto io, tu e la Dea della Guerra ci incontreremo in privato per trovare la strategia migliore, mio generale”.

Il Principe sorrise orgoglioso nel sentirsi chiamare “generale” da Momoia.

“Non ho altro da aggiungere” terminò la Madre degli Alti, alzandosi.

Seguirono il suo gesto le altre Alte divinità, avviandosi verso il quadro che fungeva da portale verso il loro Mondo.

La riunione terminò, alcuni Dèi se ne andarono in fretta, senza dire una parola, con mille pensieri in testa. Tutti sapevano che quella frase sulla possibilità di scegliere se unirsi alla guerra o no era sono una frase fatta. Essendo loro sottoposti agli Alti, era inevitabile che dovessero obbedire.

Vereheveil si guardò in giro, osservando l’immensità della sala ed il suo stato d’abbandono. Non si vedevano tele di ragno o cose simili ma i mobili erano privi di arredo, fatta eccezione per dei libri rilegati. I volumi, però, avevano l’inconfondibile odore di archivio, di vecchio, di polvere. Ed il Dio delle Letterature sapeva che era un segno tipico della carta che non veniva sfogliata da molto.

Era probabile che Kasday non scendesse da moltissimo. Altra prova di questo erano i colori spenti delle pareti, una volta di un inconfondibile bicolore rosso cupo e blu scuro, i colori dell’Equilibrio. Il Dio guardò in alto. Le creature rappresentate sugli affreschi del soffitto avevano un viso triste e corrucciato, i simboli delle divinità non brillavano come un tempo e tutti i colori avevano perso vivacità. Sospirò e rabbrividì per il freddo.

“Che pensi di fare, Vereheveil?”.

Il Dio si girò ed incrociò lo sguardo di Luciherus e la sua inconfondibile luce aranciata. Era stupito dalla domanda.

“Tu che pensi, demone? Non ho molte alternative…difenderò i miei figli ed i miei Universi!”.

“E che avresti in mente? Combattere? Tu?!” Luciherus trattenne a stento una risata.

“Tu pensa ai problemi tuoi, che io penso ai miei!” esclamò Vereheveil, scocciato.

“Ok”  rispose il Principe, con le mani in tasca e l’aria assente.

“Ok? Come sarebbe a dire? Non mi dai una rispostaccia o una cosa del genere?”.

“No. Hai ragione”.

Vereheveil guardò il demone, perplesso.

“Che cosa ti succede? Stai bene?” domandò poi, apprensivo ed Il Principe non rispose “Come mai avevi tanta urgenza di rivedere Kasday, nuovo Dio?”.

Luciherus guardò in alto, verso la rampa delle scale.

“Tu sai che mia figlia, la Dea della Morte, sta per sposarsi con il Dio della Vita. È la mia bambina…mia e di Kasday! Io non  so che cosa fare, sinceramente, e speravo che lui potesse aiutarmi…tu cosa faresti al posto mio?”.

Il Dio delle Letterature sorrise: “Non è la fine del mondo! Cerca di rilassarti…cerca di essere più Arcangelo e vedrai che riuscirai ad accettare la cosa!”.

Il Principe fece una smorfia, avviandosi verso l’uscita.

Gli occhi verdi di Nosmagiés brillavano nel buio del piano superiore. Stava osservando gli ultimi due intrusi rimasti in casa.

Le due divinità si salutarono e, senza dire niente, scesero la moltitudine di scale che li portavano lontano dal palazzo del Dio Triplice. Un violentissimo tuono fece loro accelerare il passo, e tornarono a casa prima dell’alba.

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Capitolo 11
*** XI: intrusi ***


XI

 

INTRUSI

 

Kasday rimaneva nel buio, in attesa che tutti se ne andassero. Appoggiò la testa contro il muro, sospirando. Nosmagiés era addormentato e lui si annoiava. Stava nella camera del suo angelo, affascinato nel vederlo dormire. Ne osservava la schiena, le piume, il viso dolce e rilassato. Era una cosa rara vederlo così dato che il Messaggero, normalmente, era sempre un po’ teso e rabbuiato.

Un rumore, improvviso, e lo stato emotivo dell’Alto mutò. Ora era impaurito. Non voleva la gente. Non poteva sopportare le parole, i suoni, le bugie, le grida…voleva stare solo. Solo e in silenzio. Guardando dalla finestra, notò che tutti i visitatori e gli intrusi se ne erano andati, erano ormai lontani dalla rampa di scale che portava all’ingresso del palazzo. Sorrise, rilassandosi.

Era tutto finito. Era di nuovo solo.

“Kasday!”.

Lui sobbalzò.

“Momoia…” sbiascicò, scocciato.

Sperava di stare, finalmente, in pace ma non era ancora il momento.

“Cosa vuoi?!” domandò, accigliato.

“Non parlami così, ragazzino!” lo rimproverò Momoia, irata.

“Non chiamarmi ragazzino!” protestò Kasday “Sono stufo di essere chiamato così! Non lo sono da tempo. Ho più di due Ere…e sono stanco”.

“Stanco? Stanco di cosa?” ridacchiò la Madre, inclinando il capo.

“Di tutto” rispose lui, conciso, distogliendo lo sguardo.

“Di tutto?!”.

“Sì. Di tutto. Non ho mai voluto essere un Dio e, meno che mai, ho desiderato essere ciò che sono ora!”.

“E allora che cosa vuoi?” scherzò lei.

“Te. Fuori di qui! Sparisci!” ringhiò Kasday, mentre i suoi capelli si gonfiavano per il fastidio. “Davvero vuoi questo? Solo questo?” lo stuzzicò lei.

“Volevo solo…un…” parlò lui, a bassa voce.

“Un?!” sorrise lei, allungando il collo, curiosa.

“Lo sai!” sbottò lui.

“Dillo!” esclamò lei, tranquilla e felice.

Kasday strinse i pugni. Due grosse corna rosso scuro ora campeggiavano sulla testa dell’Alto, segno inequivocabile che provava rabbia.

Si girò, di scatto verso di lei ed urlò: “Volevo solo essere lasciato in pace. Volevo avere dei figli, volevo vederli crescere…volevo una bella famiglia, volevo una vita normale! Ecco quello che volevo! Ora sei contenta?! Vattene!”.

Nosmagiés, svegliato dall’urlo del suo padrone, aprì gli occhi di scatto, stupito di vedere Momoia e il suo Signore nella sua camera. Non disse nulla, leggermente turbato da quelle due presenze. “Perché non combatti?” sibilò la Madre, rivolta all’Alto che non la guardava più, tentando di riprendere il controllo.

Le corna di lui stavano tornando a sparire.

“Io combatto. Mi trascini con la forza alle tue battaglie”.

La voce di lui era di nuovo calma, pur avendo le braccia incrociate.

“Sì. È vero. Ti ci trascino. Ma poi tu sparisci! Non ti ho mai visto in uno scontro diretto fino ad ora!”.

“Non amo uccidere. Me ne sto in un angolo…” ammise lui, a bassa voce.

“Ma allora non l’hai ancora capito che mi devi obbedire?!” esclamò lei, spazientita.

“Sono debole, Momoia. Non ho sufficiente energia per uccidere i tuoi nemici. Non ho nemmeno la forza necessaria per togliere la vita ad una divinità minore…figuriamoci ad un Alto!”.

“Questo lo so. Sono io che mantengo il tuo livello magico così basso. Sei completamente pazzo…chissà che faresti senza controllo!”.

Lei presentava il suo vero aspetto. Le enormi ali da farfalla, terminanti con una piccola mano, sfavillavano nonostante la pochissima luce della stanza. La sua rabbia si manifestava con l’alzarsi di una vistosa cresta verde, normalmente rilassata e non vedibile. La membrana, di cui era composta la strana escrescenza, aperta, partiva dalla fronte di lei per poi protrarsi lungo la schiena e terminare con una lunga coda frustante.

La Madre afferrò lui per le braccia, torcendogliele dietro la schiena. Usò le mani alle sommità delle ali ed i suoi arti, più simili a tentacoli piuttosto che a membra umane. Lo sbatté contro un tavolo, di colore chiaro, con la faccia sul pianale, e gli scoprì la schiena, strappandogli la veste blu. Nosmagiés sobbalzò. Sapeva cosa stava per succedere. Tentò di reagire, ma Momoia lo teneva inchiodato al letto con l’uso della magia.

“Sono stanca dei tuoi capricci!” sibilò lei “Sono davvero stanca! Mi hai disobbedito…e tu sai cosa ti capita quando fai così…”.

La schiena nuda di Kasday era divisa a metà, fra la parte di pietra e quella di vetro, con un canale di luce azzurra e luminescente con tanti ricami a riccioli. Gli stessi motivi e colori che separavano le due metà del viso e decoravano tutto il corpo dell’Alto. Diversi spuntoni di metallo nero trapassavano la scia azzurra sulla schiena.

Kasday si dimenava ma la Madre era molto più potente e lo tratteneva con estrema facilità.

Momoia estrasse l’ennesimo spuntone nero da una piccola borsetta che teneva legata alla vita, sottilissima. Con un rapido gesto, di una delle mani sulle ali, conficcò l’oggetto nel canale, ricco di magia, di lui. Trafiggendogli la schiena, sapeva di provocare un immenso dolore nel corpo dell’Alto e sorrise compiaciuta.

Kasday urlò, più volte, sofferente. Le gambe di lui cedettero, così come ogni altro suo muscolo. Cadde in terra, boccheggiando. Nosmagiés gli corse in contro, libero dalla barriera di Momoia.

“Non l’hai ancora capito?!” ringhiò la Madre “Ogni volta che mi disobbedisci, io pianto uno di questi cosi lungo la tua arteria principale di magia, immobilizzandoti e facendoti soffrire per ore! È la decima volta che lo faccio…ne vuoi ancora?! Ogni volta diventi più debole e la tua magia si infetta, si contamina, e tu ti deteriori! Ti sta bene così? Perché continui a fare lo stupido? Per caso godi, masochista?”.

Lui non poteva rispondere. L’angelo Messaggero tentò di farlo alzare. La Madre mosse solo un dito e scaraventò l’Alto sul letto, prono e con la faccia sprofondata sul cuscino.

“Stai lì, Hagalaz, Kasday. Domattina ti sentirai meglio e sarai pronto a combattere” sbottò Momoia. “Perché lo fate?” domandò Nosmagiés, non nascondendo la sua ira.

“Perché? Perché mi disobbedisce e continua a fare di testa sua. Non ha ancora capito con chi ha a che fare…”.

“Ma…” la interruppe l’angelo “…lui non ha la forza sufficiente per poter uccidere uno dei Celesti! Morirebbe di sicuro in uno scontro diretto! Non ha una magia così sviluppata!”.

“Fai silenzio, sottoposto! Lui mi appartiene!” gridò lei, prima di uscire dalla stanza.

 

Nosmagiés si avvicinò al suo padrone, disteso e ad occhi spalancati. L’angelo accarezzò i lunghi capelli neri del suo Signore, scostandoli per non farli andare sulla ferita appena inferta.

“É come se trapassassero la spina dorsale con un ferro di diversi centimetri di diametro. Orribile!” sussurrò il Messaggero.

Kasday gemeva e rabbrividiva. Nosmagiés si alzò ed andò al piano inferiore. Tornò stringendo fra le mani un bicchiere colmo, al quale aggiunse una polvere che frizzò a contatto con  il liquido.

“Bevete questo…” mormorò.

L’Alto bevve lentamente. Era un fortissimo liquore che fece perdere i sensi al padrone di casa, per poi farlo dormire tranquillo. L’angelo sapeva che non era un bene fargli assumere certe sostanze, ma sapeva anche che non c’erano molte altre soluzioni per farlo stare meglio.

“Buonanotte” sospirò il Messaggero, uscendo dalla camera e chiudendo la porta dietro di sé.

 

Un raggio di sole penetrò dalla piccolissima fessura lasciata libera dalle tende, andando a colpire la mano di vetro di Kasday. Questa si illuminò, riflettendo i colori dell’arcobaleno, come un cristallo. L’Alto aprì un occhio, infastidito. Allungò un braccio, lungo tutta la stanza, ed impedì alla luce di dargli ulteriore fastidio, serrando le tende.

L’orologio segnava le dieci passate.

Ficcò il viso sotto il cuscino. La ferita alla schiena pulsava, così come la sua testa.

“Ho sempre odiato i piercing…” gemette Kasday e si alzò, resosi conto di essere nella camera di Nosmagiés.

Ignorò il braccio, ora esageratamente lungo, senza farlo tornare alla sua lunghezza normale.

Si trascinò fino alla sua stanza. I suoi occhi da falena gli permettevano di vedere perfettamente nell’oscurità totale. Entrò e si sedette alla scrivania. Si stiracchiò pigramente, avvertendo una fitta in corrispondenza degli spuntoni di metallo nero che lo trapassavano. Aprì un piccolo cassetto ed estrasse una boccetta contenete un liquido scuro. Lo bevve tutto d’un fiato.

“Ringrazio me stesso per aver creato le piante stupefacenti” sussurrò.

Si distese in terra, in estasi, dimenticando il dolore. Le sue orecchie a punta fremettero.

Dal piano di sotto si udì un rumore di vetri rotti. Le antenne di Kasday si girarono, istintivamente, verso la porta. Ma l’Alto le ricacciò al loro posto con la mano.

“Chissenefrega!” esclamò, chiudendo gli occhi.

Senza pensarci, si accese una sigaretta, sempre rimanendo disteso, ed afferrando gli oggetti con il braccio, ancora troppo lungo.

Nosmagiés bussò. “Tutto bene, Signore?” domandò l’angelo, timidamente.

“Alla grande!”.

“Cosa si è rotto?”.

“Qui niente, mio Messaggero. Non sei stato tu?”.

“No…”.

“Sarà stato il gatto…” sbottò l’Alto, espirando una nuvoletta di fumo.

“Non dovreste fumare…” lo rimproverò Nosmagiés, serio.

“Non rompere…piuttosto và di sotto e vedere chi ha rotto cosa”.

L’angelo fece un piccolo inchino.

Kasday iniziò a battere le mani a casaccio e cantare strane cose, cori da stadio o da osteria, piene di grida e parole sconnesse. Il Messaggero scosse la testa, ruotando gli occhi verso il cielo.

Dopo un po’ l’Alto ricominciò a percepire dolore e si calmò. Nosmagiés, rassicurato, lo lasciò solo. Kasday si fermò a guardare il soffitto, trovando soporiferi i decori dorati rappresentati su di esso.

La porta della camera si aprì leggermente. L’Alto sbuffò.

“Nosmagiés! Per oggi lasciami in pace, ok? E se qualcuno mi cerca, digli che ho gli attacchi isterici!”.

Nessuno rispose ma la porta si spalancò, facendo entrare un’enorme quantità di luce.

“Nosmagiés!” sbraitò Kasday, furioso.

“Sì?!” si sentì rispondere dal piano inferiore.

“Ma che…” si chiese l’Alto, perplesso.

Solo in quel momento si accorse di quella figuretta che stava al suo fianco. La guardò, scocciato. “Vattene fuori, chiunque tu sia” ordinò.

Era una bambina, con dei capelli di colore bianco latte, raccolti in due codini, ed enormi occhi fuxia. Kasday si mostrò nel suo aspetto più terribile, gonfiando i capelli e spalancando la bocca con i denti aguzzi e minacciosi. Nonostante questo, la bambina non si mosse. Anzi, invece di tremare o fuggire, sorrise. Lui si alzò in piedi, ringhiando sommessamente. Lei inclinò la testa e batté le mani, con entusiasmo. Nosmagiés si affrettò lungo le scale.

“Che succede, Signore?” domandò, trafelato.

Un grido altissimo ed acuto si espanse per tutte le sale del palazzo. L’angelo si tappò le orecchie mentre alcune finestre cedettero, andando in frantumi. Chiedendosi se questo fosse un ulteriore prova della follia del suo padrone o l’opera di un intruso, il Messaggero prese coraggio ed entrò nella camera. Il suo padrone era abbarbicato in un angolo del soffitto e si era tutto raggomitolato nelle immense ali blu. Tutti gli occhi che si trovavano sulla punta delle sue penne più esterne erano puntati verso la bambina, che continuava ad urlare ed emettere una luce fortissima.

Mai fino ad ora l’angelo aveva avuto modo di vedere tutti quegli occhi spalancati sul suo padrone. Il messaggero corse dentro e tappò la bocca alla piccola, spiegandole che dava molto fastidio alle orecchie sensibilissime del suo Signore. La bambina non parve capire ma fece silenzio. Kasday scese lentamente dal suo angolino e ringraziò Nosmagiés. Fece tornare le sue ali delle normalissime braccia, anche se di colore blu, e si avvicinò all’intrusa, con fare minaccioso.

“Non fatele del male!” esclamò l’angelo “É solo una bambina!”.

L’Alto non la toccò.

“Mio figlio avrebbe avuto la sua stessa età”.

Gli occhi sui palmi delle sue mani tornarono tranquilli e lui tornò al suo solito aspetto cupo e depresso. Uscì dalla camera, avviandosi verso la stanza degli specchi.

“Signore…” lo chiamò docilmente il Messaggero “…non volete sapere da dove proviene questa piccina? E come è arrivata fino a qui?”.

Kasday non disse una parola, continuando a camminare lungo il corridoio buio.

“Uffa!” esclamò Nosmagiés, alzando la voce “Uffa, sono stufo di tutto questo silenzio!”.

“Sei libero di andartene quando vuoi!” gli urlò, di rimando, il suo padrone, sbattendo la porta dietro di sé. L’angelo chinò il capo. La bambina sorrise e seguì Kasday, correndogli dietro.

“No!” le ordinò il Messaggero ma ormai era tardi, lei era entrata nella stanza dove stava l’Alto. “Sparisci! Fuori di qui, coso urlante!” sbraitò Kasday ma la bambina, a braccia spalancate, gli corse incontro e lo abbracciò. L’Alto si scansò a fatica da quella stretta.

“Ma che razza di bambina sei tu? Mica sei normale!” commentò il padrone di casa.

Lei allungò di nuovo le mani, per farsi prendere in braccio. Kasday la ignorò ma la piccola non si arrese, anzi…si mise ad inseguire l’Alto in ogni camera ed in ogni attività.

Nosmagiés osservava il tutto con un sorriso e con curiosità. Tentò di rivolgere delle domande alla sconosciuta ma lei non voleva saperne, sembrava interessata solo ed esclusivamente a Kasday.

In particolare, mostrò un grandissimo entusiasmo quando notò una delle code dell’Alto, quella morbida, sinuosa e di color cremisi. La afferrò saldamente e non la lasciò per buona parte della giornata. A Kasday non importava, riusciva a far tutto senza difficoltà.

“Bambina, ti avverto…” disse, ad un tratto “…io ho tutta l’eternità davanti. Hai intenzione di buttare la tua vita o, prima o poi, te ne andrai altrove?”.

Lei iniziò a toccare e spostare tutti gli oggetti che gli capitavano sottomano. Questo fece imbestialire Kasday, antico Dio dell’Equilibrio. Arrotolando la coda attorno alla vita della bambina, la buttò fuori, nel cortile interno, chiudendo la portafinestra che ne permetteva l’accesso. Lei rimase ferma, immobile, guardando dentro. L’Alto tentò di non farci caso, riordinando il casino provocato dalla piccola scocciatrice. Lei appoggiò le mani ed il nasino contro il vetro, spalancando gli occhi.

Il padrone bussò sul vetro: “Piccola! Leva subito le tue mani sudice dal vetro, me lo imbratti!”. Approfittando del fatto che Kasday si era girato, la bambina rientrò nella stanza, ridendo. Si riattaccò alla coda, agitandola, e l’Alto ruotò gli occhi al cielo, non sapendo bene con chi prendersela. Nosmagiés non riuscì a trattenere una risatina. Kasday sollevò la coda, la bimba continuò a stringerla pur non toccando più terra, e guardò negli occhi l’estranea.

“Insolente! Ma tua madre dov’è?”.

Lei sembrò non aver aspettato altro che quella domanda. Frugò nella borsetta che aveva al fianco. “Cosa cerchi? Spray al peperoncino contro le aggressioni? Guarda che dovrei usarlo io contro di te…” ironizzò l’Alto.

La bambina gli porse una lettera e lui la rimise a terra, afferrando la busta.

“Cos’è questa?” domandò.

“Questa!” rispose lei.

“Sì, brava, questa. Cos’è? Da dove vieni?”.

Lei indicò il quadro alla parete.

“Hai attraversato il quadro? Brava…ma non da sola, perché non hai l’energia necessaria per farlo. Dunque…chi ti ha portato qui?”.

“Mamma!” esclamò lei, con un sorriso.

“Oh, bene. A piccoli passi ce la facciamo a capirci qualcosa su di te. E adesso la tua mamma dove sta?”.

Lei indicò di nuovo il quadro.

“Si trova dall’altra parte? La tua mamma è rimasta di là? Dammi più indizi…quel dipinto porta in un sacco di posti…”.

L’Alto osservò la lettera che gli aveva dato e non riuscì a capirne la scrittura. La bambina parlò, in una lingua strana e complessa. Nosmagiés strabuzzò gli occhi, senza capire, ma Kasday annuì. Riusciva a comprenderla.

“E così…” iniziò, inginocchiandosi per essere all’altezza della bimba “…sei una dei Celesti”.

Usò lo stesso linguaggio usato da lei.

“Cosa ci fai qui?” volle sapere.

“Salva la mia mamma!” piagnucolò la bambina, indicando la lettera.

“Io non so leggere la lingua dei Celesti. Tu non sai dirmi niente?”.

Lei scosse il capo.

“Mi serve un libro dalla biblioteca di Vereheveil” disse Kasday, rialzandosi, e tornando ad usare la sua lingua.

“Vado io a prenderlo!” si offrì Nosmagiés.

“No. Se vai tu, e chiedi di quel volume, Momoia sarebbe subito qui a ficcare il naso a destra e a sinistra. Questa è l’ultima cosa che voglio! Non deve sapere che una piccola Celeste è nostra ospite”.

“Una piccola Celeste?!” esclamò, stupito, l’angelo.

Osservò la bambina, non trovandoci niente delle mostruosità di cui parlavano gli Alti. Anzi, la trovò piuttosto carina.

“Ma allora, Signore, cosa propone di fare?”.

“Devo andarci io, di persona, e la bambina con me. Così potrò celarla con  la mia barriera”. “Barriera!” esclamò lei, alzando le mani al cielo.

 “Quanto entusiasmo…” biascicò Kasday, poco convinto.

“Che bello, Signore!” iniziò l’angelo, sorridendo “Che bello, uscirete da qui! Finalmente…e non per andare alla guerra!”.

“Guarda che non lo faccio volentieri!” gli fece notare Kasday, accigliato.

“Vedrete che poi ne sarete felice!”.

“No. Ne sono sicuro. Ma è questo quello che devo fare”.

 “Vengo anch’io?” domandò il Messaggero, notando quanto il suo Signore uscisse di controvoglia. “No. Loro ti conoscono ed io non voglio problemi, o scocciature, con nessuno. Voglio passare inosservato. E poi…se Momoia dovesse venirmi a cercare, mi serve qualcuno che spari una cazzata qualsiasi per coprirmi”.

“Sissignore. Sono bravissimo in questo”.

“Bravo” sussurrò Kasday, accarezzando la testa all’angelo, che sospirò. Aveva perso l’aureola anche per quel motivo…

Nosmagiés aiutò il suo padrone a vestirsi. L’Alto si coprì il più possibile, mutando solo leggermente il suo aspetto per non consumare troppa magia. Con  un lungo mantello, la veste ampia con strascico, i capelli nascosti nel cappuccio che faceva ombra al suo viso, ben poco si mostrava del suo corpo. Con lo stesso stile fu vestita la bambina, in modo da celare la sua evidente luce azzurra.

Con uno schiocco di dita, l’Alto richiamò a sé due guardie, alte, nere, con una lunga spada, senza volto ad eccezion fatta per la bocca.

“Voi parlerete per noi” ordinò, ed uscirono.

La luce del Sole abbagliò Kasday, che serrò le palpebre e ci mise un po’ per abituarsi. Zoppicava leggermente e, sbuffando, si chiese se effettivamente stava facendo la cosa giusta. Lasciò casa sua con un sospiro. Nosmagiés lo salutò con  un sorriso, ed una velata sensazione di paura. Era preoccupato ma non ci pensò molto. Dopotutto, che cosa poteva accadergli? Rientrò nel palazzo, una volta che il suo Signore fu lontano. Ritrovò la sua pallina di carta stagnola e ricominciò a giocare.

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Capitolo 12
*** XII- tradimento ***


XII

 

TRADIMENTO

 

Vereheveil sorrideva. Era nella sua camera e guardava fuori dalla finestra aperta. Si accarezzò i capelli verde acqua, mentre un vento leggero gli scompigliava la veste arancio. Osservava i suoi figli, che giocavano nel cortile. Il bambino patito dei numeri e la sua sorellina minore si stavano rincorrendo fra le aiuole, ridendo. La loro madre, Dea della Parola, stringeva fra le braccia un fagottino addormentato, l’ultima creatura da lei nata in seguito all’unione con il Dio delle Letterature. Vereheveil osservò la donna ed il neonato con orgoglio. Kavahel urlava contro il fratello Destino, che si era appisolato sotto un albero mentre la sorella Kaos gli tirava le pigne. La giornata era piacevole ed assolata. Il Dio delle Letterature chiuse le tende, sentendosi chiamare.

“Chi è?” domandò, sospettoso.

“Chi vuoi che sia?” si sentì rispondere.

“Sarmorghell…sei tu!”.

Il giovane, dai capelli corvini e dallo sguardo orientale, gli sorrise. La camicia di lino dell’angelo era larga, stretta solo in corrispondenza dei polsini, ed aperta. I grossi bottoni decorati brillavano alla luce del sole. L’ampia cintura con la fibula d’oro sosteneva i pantaloni, neri ed avvolgenti. Teneva le mani in tasca. Tolse gli stivali, alti e con borchie e cinghie, avvicinandosi al Dio delle Letterature. Vide la sua schiena fremere al contatto con  le sue ali piumate e blu-verdi.

“Come hai fatto ad entrare?” sussurrò Vereheveil.

“Mi hai dato le chiavi” rispose Sarmorghell.

“Sì, ma…come hai fatto a salire senza che mia moglie o i miei figli ti vedessero?”.

“Io sono molto discreto”.

“Questo è certo…”.

Si osservarono, in silenzio.

Sarmorghell si perse nell’osservare le diverse migliaia di libri di quella stanza, e quella, in fondo, era anche piccola rispetto alle altre. Vereheveil, invece, osservò le movenze leggere dell’angelo dai capelli neri. Ora il Dio delle Letterature dava le spalle alla finestra, facendo agitare dal vento le piume delle sue ali nere.

Anch’io, un tempo, ero un angelo come la creatura che mi sta di fronte  pensò, appoggiato al balcone.

“Cosa direbbe tua moglie, se mi trovasse qui?” domandò Sarmorghell, sfogliando un piccolo libricino rilegato.

“Non saprei…intendi dire se sapesse di noi? Probabilmente si arrabbierebbe…o forse non  le importerebbe per niente”.

“Che amore…” commentò, sarcastico, l’angelo.

Il Dio lo fissò con aria interrogativa.

“Scusa ma a te che importa?” chiese.

“Niente. Perché ti sei sposato?” continuò l’angelo, saltellando da uno scaffale all’altro della camera e sbirciando i libri che riteneva più interessanti.

“Che strana domanda…” rispose il Dio.

“Ma dovuta. Tu non la ami” esclamò il giovane dai capelli corvini, con sicurezza.

“Mica ci avrei fatto dei figli!” si difese Vereheveil.

“Balle. Tu l’hai fatto solo perché eri stufo di stare da solo”.

“In questo caso…ti comunico che lo sono ancora. Se devo proprio ammetterlo…”.

“Non ti basto io?”.

L’angelo sorrideva nel chiederglielo. Ma il Dio rimaneva serio.

“Non lo so…” rispose, chinando il capo.

“Oh, Vereheveil! Sei sempre alla ricerca di qualcosa…o qualcuno!” ridacchiò l’angelo.

“Ma è vero!” protestò il Dio.

“Hai una bella famiglia, una bella casa, una bella moglie ed una bella vita.  Ma non ti basta! Che altro vuoi?”.

Sarmorghell spalancò le braccia, rassegnato.

“Ti importa davvero?” esclamò, scocciato, Vereheveil.

Il giovane rimase in silenzio. Era rimasto deluso da quella domanda. Come poteva pensare che non gli importasse?!

“Sei crudele” sussurrò, girandosi.

Vereheveil tentò di scusarsi. Ma l’angelo si accigliò.

“Non ti rendi conto delle meraviglie che ti appartengono” esclamò, a braccia incrociate.

“E tu? Sono sicuro che anche tu hai tante cose che…”.

“Ovvio. Io non le disprezzo, a differenza di te!”.

“Tua sorella?” azzardò il Dio.

“Io adoro mia sorella. Anche se lei ora è con Luciherus a spassarsela, e probabilmente la pensa come te”.

“Hai solo quella sorella?”.

“No. Noi siamo in tanti”.

“Quanti?”.

“Non lo so…tanti!”.

Il Dio tentava di farlo sorridere di nuovo, parlando del più e del meno.

“Parlami della tua famiglia. I tuoi genitori?”.

L’angelo rispose con un'altra domanda: “E i tuoi?”.

“I miei sono morti, tantissimo tempo fa”.

Sarmorghell guardava altrove.

“Vorrei farti un regalo” esclamò il Dio, avviandosi verso la sua scrivania in legno antico.

Ne aprì uno scomparto e ne estrasse un pacchettino. L’angelo lo fissò, con sospetto.

“Cos’è quella faccia?! Non è mica una bomba!” lo derise Vereheveil.

“Fai un regalo a me…e non a tua moglie?”.

L’angelo si sedette in terra, continuando a leggere. Vereheveil non capì il suo atteggiamento.

Andò a sedersi accanto a lui, abbassandogli il libro. Scopertogli il viso, lo baciò lievemente.

“Adoro le tue labbra, i tuoi occhi scuri ed i tuoi capelli”.

Sarmorghell non rispose subito. Poi sospirò e sorrise: “Ed io adoro le tua ali nere come la notte ed il tuo sguardo dorato”.

Abbracciati, l’uno all’altro, chiusero entrambi gli occhi.

“Tu non mi ami, Vereheveil, lo sento!” gemette l’angelo.

“Ma che cosa dici?!” esclamò, stupito, il Dio.

“Ieri sera…” sospirò il giovane dai tratti egiziani o orientali “Ieri sera…tu mi hai chiamato Kasday. Lo fai anche con tua moglie? Quando le hai fatto concepire i tuoi figli, l’hai chiamata con un nome diverso?”.

Il Dio si scostò dall’abbraccio, con una strana espressione.

“É stato un errore…a volte capita! Ma non  lo faccio continuamente…”.

Sarmorghell si rabbuiò, guardando il pavimento e rigirando fra le mani il pacco regalo con il suo vistoso fiocco.

“Vieni a letto” gli sussurrò il Dio all’orecchio, scostando uno dei ciuffi più lunghi della pettinatura corvina.

L’angelo aprì il regalo. Era un elegante bracciale in oro con diverse pietre preziose incastonate.

“Ho cercato di trovare delle pietre che si intonassero con  la collana che porti sempre” spiegò Vereheveil, sedendosi sul letto.

Sarmorghell strinse la collana fra le mani.

“É uno scarabeo sacro dell’antico Egitto. Mi è stato regalato da Anubis”.

“Anubis? Uno degli antichi Dèi della Morte? Che meraviglia. È davvero uno splendido gioiello”. “Grazie. Anche quello che mi hai regalato tu è meraviglioso. Ti ringrazio ”.

L’angelo indossò il bracciale e sorrise, pur avendo sempre una strana espressione perplessa.

“Tutti noi fratelli indossiamo la stessa collana, o comunque molto simile. Pulsa di luce azzurra al ritmo del nostro cuore”.

“Vieni qui, accanto a me, e mostramela da vicino”.

L’angelo si alzò, lentamente, ed andò a sedersi accanto al Dio, che lo abbracciò teneramente. Con le mani infilate nella camicia dell’angelo, il Dio chiuse gli occhi e sorrise. Il giovane rimase immobile. “Non mi dai nemmeno un bacio?” chiese Vereheveil, baciando l’angelo sul collo.

Sarmorghell non reagì, nemmeno quando il Dio gli tolse la camicia.

“So che cosa farai…” si limitò a mormorare.

“Davvero? Cosa ti farò?”.

“Mi spoglierai ma poi non arriverai fino in fondo, non  ne avrai il coraggio o la voglia. Eppure…io sono un angelo. Sono asessuato e puoi fare ciò che vuoi con il mio corpo…”.

Vereheveil non rispose. Non capiva cosa avesse quel giovane. Si sentì frustrato dal suo atteggiamento e lo respinse.

“Vattene!” esclamò “Se non  hai voglia di stare qui, con me, allora va via. Non ti ho detto io di venire fino a qua! Tornatene da dove sei venuto! Se invece sei qui per me, smettila di fare così”. L’angelo sospirò ed il Dio si sentì in colpa per ciò che aveva appena detto, ma non  trovava parole per scusarsi. Inaspettatamente, Sarmorghell si girò verso Vereheveil e lo baciò, a lungo e ad occhi chiusi. Si distesero entrambi, rimanendo in silenzio ed ascoltando, l’un l’altro, il battito del proprio cuore.

“Sta arrivando qualcuno dalle scale!” esclamò l’angelo, alzandosi.

Cercò la camicia di lino e si rivestì, andando in un angolo, nel buio. Vereheveil si accertò che non si potesse vedere e poi sentì la porta aprirsi. Entrò il piccolo Dio dei Numeri.

“Papà…” esclamò il bambino, sorridendo “…ci sono dei tizi di sotto che vogliono parlare con te”.

Il Dio delle Letterature fece un cenno, dando segnale che aveva capito.

“Dì loro che arrivo subito” rispose.

Il bambino annuì e lasciò la stanza. Vereheveil chiuse la porta e guardò verso il buio.

“Puoi uscire adesso, Sarmorghell”.

L’angelo uscì dall’ombra. “Và, che di sotto ti aspettano” disse il giovane.

“Vieni anche tu! Fai un giro per dietro ed entra dalla porta che dà sulla mia classe. Presentati come mio allievo. Sarei felice di mostrarti come i miei preziosi consigli aiutano delle persone…”. L’angelo scosse la testa, poco convinto.

“Mia sorella mi aspetta…”.

“Ma se è con Luciherus…avrai molto da aspettare!”.

Il Dio ridacchiò, specchiandosi. Si stava sistemando la veste e i capelli, riflettendosi sullo specchio, grande come la sua intera figura.

“Non serve che stai tanto a sistemarti. Non ti ho spettinato!”.

“Quanto sei cinico oggi, Sarmy!”.

L’angelo sghignazzò, quasi malvagiamente: “Muoviti…”.

“Ok. Vado. Ma tu raggiungimi, mi raccomando!”. 

Sarmorghell non disse niente e si limitò a fare un cenno con il capo.

Il Dio uscì felice, chiudendo la porta dietro di sé. 

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Capitolo 13
*** XIII- risposte ***


XIII

 

RISPOSTE

 

Kasday camminava a testa bassa, evitando ogni sguardo. Cercando rifugio fra le ombre, avanzava, scortato. La bambina faceva fatica a tenere il suo passo e protestò, ma l’Alto le fece segno di tacere.

Per la prima volta, dalla nascita dei gemelli, egli si ritrovava a passeggiare per uno dei Mondi da lui stesso creati. Non si stupì di tutti i cambiamenti che avevano compiuto le sue creature ed i suoi popoli. Facevano tutti parte della loro evoluzione e del loro cammino. La natura lo riconosceva. Gli alberi protendevano i rami verso il loro creatore ed i fiori sbocciavano al suo passaggio. Kasday sorrise, leggermente. Notò con sollievo che il paesaggio era stato deturpato pochissimo per la costruzione delle case e che le strade erano avvolte dal verde.

Alzò gli occhi. La capitale, lungo la quale stava passando, era addobbata a festa. La gente per strada era serena ed aleggiava un clima d’attesa, di speranza. Un bambino quasi fu addosso al gruppetto. Si scostò appena in tempo e si allontanò ridendo.

Quello che l’Alto non capiva, ma approvava, era il fatto che le divinità avevano deciso di non vivere più in un Pianeta abitato esclusivamente da loro ma di edificare i loro palazzi fra i credenti, i mortali. Si erano così un po’ sparpagliati fra gli Universi, pur mantenendo un costante contatto. Kasday sapeva quali Dèi dimorassero sul Mondo in cui ora stava camminando, il primo da lui creato e quello in cui anche lui risiedeva. Era soddisfatto di poter notare come la capitale fosse divenuta un importantissimo centro culturale, piena di scuole di livello elevato, biblioteche e prestigiosi palazzi. Capiva che questo era potuto succedere solo grazie alla presenza costante del Dio delle Letterature, accompagnato dalla Dea della Parola, dal Dio del Tempo e dalla sua consorte Memoria. Tutti loro contribuivano a creare la Storia e la Sapienza. L’Alto era piuttosto tronfio del fatto che il suo Pianeta più amato fosse anche quello più pregevole, sotto vari aspetti e punti di vista. La città era dinamica, piena di giovani e studenti, ma quel giorno non se ne poteva vedere molti. La maggior parte delle attività erano sospese, alla vigilia del più importante giorno di festa degli Universi. Kasday se l’era scordato. Festeggiavano la sua nascita! L’Alto sogghignò.

“Buon compleanno a me” si disse, sottovoce.

Non capiva perché quel giorno fosse considerato il più sacro. Secondo la sua ottica era molto più importante la fine della guerra fra l’antico Kaos e la passata Dea del Destino. Perché perdere tempo commemorando la sua venuta fra i Mondi? Ma poi, pensandoci meglio, si rispose da solo: ci sarà sempre qualche nuova battaglia. Altrimenti sua madre, Dea della Guerra, che ci stava a fare?

Continuò ad avanzare, esortando la piccola Celeste a non distanziarsi dal gruppo. La bambina sorrise, osservando le luci colorate e gli addobbi luminescenti. Uno sciame di insetti di vario tipo, dalle ronzanti api alle variopinte farfalle, si alzò, dal prato in cui l’Alto poggiava i piedi e dalle aiuole fiorite e, sbatacchiando le ali, tentarono di raggiungere Kasday. Lui si limitò a girare gli occhi e lo sciame cambiò direzione, avvolgendo un ragazzo seduto accanto ad una fontana. Questi scoppiò a ridere.

“Che avete oggi? Mi fate il solletico!” protestò, scuotendosi.

I capelli lunghi del giovane si sciolsero, mentre lui muoveva il capo per liberarsi dalle farfalle. “Kavahel…” sussurrarono le due guardie al seguito dell’Alto, percependo i pensieri del loro padrone.

“Sì, sono io” rispose il ragazzo, sorridendo.

I suoi occhi dorati brillavano alla luce del giorno come mai prima d’ora. Era di splendido umore. “Ci conosciamo, signori?” continuò poi, scuotendo le ali blu per far desistere le ultime api che lo credevano un fiore.

“Siete il figlio di Vereheveil. Stiamo cercando lui” risposero, in coro, le guardie.

Kavahel annuì. Fra le mani stringeva un cestino, colmo di biscotti caldi.

“Sono suo figlio. Secondogenito in famiglia, primogenito di sangue. Seguitemi, vi accompagno da lui”.

Molte persone salutarono il giovane Dio, lungo la via.

“Buongiorno! Come state oggi?” domandò un uomo sulla quarantina, vestito elegante.

“A meraviglia” rispose il Dio.

“A casa tutto bene?” chiese una donna, per mano al suo bambino.

“Benissimo. Stanno tutti splendidamente, grazie!”.

Da varie parti giunsero richieste di saluto per la famiglia e Kavahel, con piccoli inchini, sorrise a tutti. Era davvero di ottimo umore.

“Per di qua, prego” disse all’Alto, alla Celeste ed ai due guardiani “Oggi abbiamo un po’ di gente in casa…spero non sia un problema!”.

Non ricevette risposta.

“Da dove venite? E chi siete? Ovviamente non siete dei mortali…si vede subito!”.

La curiosità del giovane non venne soddisfatta ma la bimba gli sorrise.

“Vuoi un biscotto, piccola?” offrì Kavahel e la Celeste accettò volentieri, leccandosi i baffi.

Era davvero delizioso.

“Il nostro padrone ha una certa fretta” sbottò uno dei guardiani.

“Capisco…” disse Kavahel, girando le braccia dietro la schiena “…una domanda: che creature siete? Non ho mai visto nessuno come voi…con un buco al posto della faccia!”.

I senza volto storsero la bocca, senza replicare.

“Sono solo curioso…non offendetevi…”.

Accelerarono il passo, giungendo nel cortile della casa di Vereheveil. La Dea del Kaos ed il Destino litigavano, come sempre.

“Basta, idioti!” li rimproverò Kavahel.

Kasday li osservò con tenerezza. Come erano diventati grandi e belli i suoi figli! La piccola Celeste andò a nascondersi fra la veste dell’Alto.

“Cosa c’è piccina?” domandò il nuovo Equilibrio, apprensivo “Hai paura dei miei due fratelli? Guarda che, anche se urlano tanto, sono inoffensivi. Sono solo degli imbecilli”.

La bambina scosse la testa, rintanandosi ancora di più.

“Io ti conosco?” domandò la Dea del Kaos, avvicinandosi a Kasday.

La piccola divinità dai capelli corti fu fermata dalle due guardie.

“Sono sicura di averti già visto da qualche parte…” continuò lei.

“Signorina” esclamarono i guardiani, allontanandola.

“Chi sei?”.

“La prego…” di nuovo le guardie.

“Perché rispondete voi al posto suo?! Non sto parlando con voi!” esclamò la Dea.

Kavahel la prese per le spalle: “Cercano nostro padre. Ed il signore non parla. Questi due soldati sono la sua voce”.

“Mi scusi…” mormorò lei, mortificata “…ma volevo soltanto sapere se…”.

“Basta domande!” la interruppe il fratello maggiore “Và a chiamare papà!”.

“Manda i piccoli. Io ho da fare…” la Dea guardò in alto, verso la finestra della camera del padre “…e anche papà”.

Accompagnò la frase con un sorrisetto ironico. Kavahel seguì il suo sguardo.

“C’è ancora quell’uomo?” domandò.

Il Kaos annuì. Il fratello scosse il capo, in segno di disapprovazione.

“Cosa c’è, tesoro?” chiese la Dea delle Parole, facendosi avanti con un neonato in braccio.

“Niente” le rispose il figliastro “Questi signori cercano papà”.

“Ho mandato il piccolo a chiamarlo” rispose lei “Almeno che esca ogni tanto da quella stanza, lui ed i suoi libri!”.

La Dea guardò gli sconosciuti, invitandoli ad entrare: “Mio marito sarà qui a momenti. Accomodatevi intanto”.

Dopo averli fatti sedere, lei se ne andò, a passo svelto, per i corridoi di casa.

“Secondo te, fratellone, lei non capisce o fa solo finta?”.

“Ti riferisci al fatto che papà abbia strani e diversi interessi? Non lo so e, sinceramente, non mi importa” rispose, acido, lui.

“Capita. Quando ci si sposa per vendetta” ghignò una delle guardie, malignamente.

“Come?!” esclamò la Dea del Kaos.

“Niente. Ripeto che abbiamo fretta” disse l’altra guardia.

Nel salotto, dove i quattro ospiti erano stati fatti accomodare, stavano seduti anche Agares e Fleavia, ridevano assieme, davanti ad una tazza di tè. L’arrivo di Kavahel, con i biscotti, fu più che mai gradito.

“Vieni cognato” lo invitò Agares. “Porta qui le tue delizie!”.

“Volentieri” rispose lui, lasciando un mucchietto di dolci in un piattino davanti alla bambina, che gradì molto. Iniziò a mangiare con gusto.

“É bello vedere qualcuno mangiare con così tanto entusiasmo. Di cosa stavate discutendo?” chiese il giovane Equilibrio, rivolto alla coppia, che aveva iniziato ad  intingere i biscotti nel tè.

Il bambino fissato con  i numeri riferì la quantità esatta di dolci presenti e poi comunicò a tutti che il Dio delle Letterature stava arrivando. Poi uscì di nuovo a giocare.

“Stavamo discutendo di questioni di famiglia” disse Agares, addentando un altro biscotto.

Kavahel pensò che era sempre comico vedere un demone mangiare cose del genere.

“Questioni di famiglia? Tipo?” volle sapere il Dio del Destino.

“Lo saprai sicuramente che Luciheday si vuole sposare” iniziò Fleavia, rubando un dolce al marito Agares.

“Buon per lei. In fondo, ha l’età giusta” commentò Kavahel.

“Sì, ma non sai con chi! Con il Dio della Vita!”.

“Si intuiva” esclamò Skrich “Alla riunione erano così…intimi!”.

“Non ti ho ancora raccontato la faccia dello zio quando l’ha saputo!” ridacchiò Agares “Dovevate vedere che faccia ha fatto! Ah! Che espressione!”.

“É comprensibile. È la sua unica figlia e vedersela portar via da un individuo così lontano dal suo ideale…” disse Kavahel, sorseggiando il tè.

“Che si fotta! Non è mica il padre a decidere!” sibilò la Dea del Kaos.

“Meno male!” rise Agares “Non oso immaginare che cosa pensa tuo padre, moglie mia, di me!”. Fleavia sorrise.

“Lo vuoi sapere? Pensa che sei un grosso demone pettegolo!” esclamò Vereheveil, entrando nella stanza.

“Buona giornata, mio bel suocerino!” lo salutò il demone.

“Salute a te, Agares. Cosa ti porta qui?”.

“Io vivo qui!”.

“Questo lo so. Ma, solitamente, te ne vai sempre in giro con la tua padrona”.

“Non è la mia padrona! È la mia sorellina, la Dea della Morte, Luciheday! Io sono il suo messaggero! Non il suo schiavo…” protestò Agares “E, comunque, oggi lei è dal suo futuro sposo a sistemare gli ultimi dettagli, presto andranno nel mondo degli angeli ad ufficializzare l’unione. Non ha bisogno di me. Perciò me ne sto un po’ a casa. Ti dispiace?”.

“Certo che no. Che soddisfazione…Luciherus che cerca invano di far cambiare idea alla figlia e questa si sposa addirittura nel regno degli Angeli!”.

Rise e poi osservò i quattro estranei: “Chi sono i nostri ospiti, figlio?”.

“Sono qui per parlare con te” rispose il giovane Destino.

“Bene. Datemi solo un attimo”. Il Dio delle Letterature passò una busta alla figlia Fleavia: “Mia messaggera, mi spiace disturbarti, ma potresti consegnare questo ai Serafini-capo del Mondo degli Angeli? È una lettera in cui chiedo spiegazioni della persistente assenza di Rahahel dalle lezioni che dovrebbe svolgere. Sono stufo di fargli da supplente!”.

Lei prese il plico fra le mani ed uscì, seguita da Agares che si era offerto di accompagnarla.

“Cosa posso fare per Voi?” domandò Vereheveil, una volta che la coppia si fu allontanata. “Cerchiamo un libro” iniziò a parlare una delle guardie.

“Si intitola "La luce dei Celesti". Sappiamo che è stato visto da queste parti” concluse la seconda guardia.

“Per farvene cosa di un libro del genere?” domandò, sospettoso, il Dio dalle ali nere, accarezzando i pomelli della sedia su cui stava appoggiato.

“Saranno i nostri prossimi nemici in battaglia! Permetterà che ci venga concesso di sapere un po’ di più sull’argomento e non solo le cretinate che gli Alti ci propinano…” sentenziò il primo guardiano. “Cretinate?” sibilò Vereheveil, accigliato.

“Sì. Cretinate!” confermò il secondo guardiano.

Il Dio delle Letterature parve perplesso ma non fece commenti.

“Capisco. Datemi solo un minuto. Vado nella mia biblioteca a controllare dove  sta”.

“Grazie” risposero, coralmente, le guardie.

Il Dio delle Letterature sparì fra i corridoi. La moglie, vedendolo, lo seguì.

“Tesoro…” lo chiamò lei, sottovoce “Tesoro…non mi piacciono quei quattro di là. Sono inquietanti. Uno neanche parla! Sono così…tetri! Chi sono? E poi…cercano cose sui Celesti”.

Il Dio la rassicurò: “Tranquilla, moglie mia. Il libro che vogliono non è qui. È nel palazzo di Luciherus. Li porterò da lui e vedrai che andrà tutto bene. Anche a me non piacciono molto…mi spaventano. Vieni, fingiamo di cercare quel libro per un po’!”.

Che chiacchierona ed impicciona si disse Kasday. I suoi pensieri erano chiaramente percepibili dalle guardie, che sorrisero. Speravo non ci fosse quella bocca larga! In un attimo, tutti gli Dèi sapranno che un coso spaventevole ed incappucciato è venuto a chiedere un libro sugli innominabili Celesti! Con un po’ di fortuna, Momoia e gli altri Alti dovrebbero ignorarli, come sempre, e non venire a conoscenza della cosa. Le guardie sorrisero di nuovo.

“Perché non facciamo tradurre la lettera direttamente a Vereheveil? “si chiese un guardiano.

Sei un genio! Si vede che hai un buco al posto di buona parte della faccia! Rispose, sempre nella sua mente, l’Alto. Così facendo la signora “chiacchiericcio vano ed inutile” scopre cos’è, dato che Vereheveil non è in grado di mantenere un segreto. Ed ecco che Momoia scopre la verità sulla piccola  e me la ritrovo fra le palle, lei ed i suoi amichetti. Spero di avere un po’ più di tempo…

Le due guardie annuirono. Le giovani divinità che abitavano nella casa, osservavano i quattro con curiosità.

“Scusi la domanda…” iniziò la Dea del Kaos, rivolta a Kasday “…ma Voi…perché non parlate? Siete muto? Oppure siete come mio zio, il Dio della Paura, che non parla per colpa del nonno Kaos? Cosa Vi impedisce di proferire parola? E come fanno le due guardie a capire esattamente cosa devono dire per Voi?”.

“Siete molto curiosa!” iniziò una guardia “Questo è un bene, a volte. Ma può essere anche una fonte di guai. Sono successe un sacco di cose brutte negli Universi a causa dell’eccessiva curiosità…”.

“Significa: fatti i cazzi tuoi, sorellina!” ridacchiò Kavahel.

Una risatina fece girare tutti quanti verso l’entrata secondaria. Sarmorghell era entrato, con le mani in tasca e le ali leggermente scompigliate.

“Dov’è il mio maestro?” chiese, sistemandosi i capelli.

“Di là. Con sua moglie” rispose il giovane Destino, marcando il tono sulla parola “moglie”. “Simpatici come sempre, voi tre” commentò l’angelo dalle ali blu-verdi, prendendo un biscotto e mangiucchiandoselo con gusto. La bambina gli sorrise.

“Che bella bimba!” esclamò lui, estasiato “Sei proprio bella! Come ti chiami? Da dove vieni?”.

La piccola non rispose, accoccolandosi accanto a Kasday, timorosa.

“Come sta tua sorella?” chiese uno dei guardiani all’angelo, che cercava di far capire alla Celeste che non era pericoloso, facendo giochetti con le piume.

“É da un po’ che non la si vede in giro…” continuò l’altra guardia.

“É fatta così. Credo sia dal demone” fu  la risposta.

“Tutti conoscono tua sorella! Dev’essere proprio una grandissima puttana!” esclamò Kavahel. “Certo che…a voi l’educazione non l’ha insegnata nessuno!” commentò Sarmorghell.

“Noi siamo educatissimi. Ma ci capita di essere un po’ sgarbati con chi viene qui a fare il latin lover con nostro padre!” proseguì la Dea del Kaos.

“Pensatela come volete, ragazzini viziati,  ma se vostro padre non desiderasse la mia presenza.. io non sarei qui”.

“Chissà cosa gli hai fatto!” lo accusò il Destino.

“Niente. Semplicemente gli piaccio!”.

“A nostro padre piace la Dea delle Parole. Lui ama lei e basta!” esclamò Kavahel.

Kasday e le guardie trattennero a stento una risata divertita.

“Lui non è un traditore!” disse il Kaos.

“Tutti lo sono! Dal primo all’ultimo” commentarono, sibilando, i guardiani.

Guardarono poi, preoccupati, il loro padrone che lanciava segnali inequivocabili di gelosia e rabbia. Sarmorghell si avvicinò all’Alto, mettendosi dietro la sua sedia e appoggiandogli le mani sulle spalle.

“Tu non sei così!” gli disse, abbracciandolo.

“Io sono il peggiore di tutti” mormorò Kasday, con voce bassa e raschiante.

L’angelo e l’Alto si sfiorarono, con  il capo, e poi Sarmorghell si allontanò di poco, con un lieve passo di danza. I giovani Dei li guardarono, interdetti.

“Ma allora parli…” commentò la Dea del Kaos, rivolto a Kasday, e gli altri lanciarono occhiatacce ai due.

“Tranquilli, ragazzini. Siamo solo amici di vecchia data” li rassicurò Sarmorghell.

“Mi auguro solo amici…e nulla di più!” ridacchiò, sarcastico, il giovane Equilibrio.

“Consolati. Io non  ho un cuore. Non posso amare” sussurrò l’Alto.

Vereheveil rientrò: “Devo comunicarvi che il libro che cercate non si trova qui, ma al palazzo di Luciherus. Sarò lieto di accompagnarvi da lui. È un po’ restio nel far entrare estranei nei suoi possedimenti, ma con la mia guida potrete entrare senza problemi e avrete di sicuro il permesso di gironzolare nella sua biblioteca”.

Le guardie fecero un cenno con il capo, ringraziando.

“Quando saremo in grado di andare? Avremmo una certa fretta” esclamarono.

“Anche subito. Fatemi solo mettere un abito adatto…”.

Il Dio si allontanò di nuovo, verso le sue stanze.

“Sta attento amore mio” gli disse la Dea delle Parole, apprensiva.

“Stia tranquilla, signora. Non lo voglio mangiare!” ironizzò Kasday, ma la Dea non si sentì rassicurata.

Vereheveil riapparve con un elegantissimo abito nero e oro, a ricchi ricami, molto simile alla veste di un angelo ma più elaborata. L’Alto sospirò osservandolo, gli mancavano molte cose di lui ma ormai doveva farsene una ragione: tutte quelle cose erano perdute per sempre.

Il Dio delle Letterature fece alzare i suoi ospiti. Con una sola parola, aprì il portale luminoso che li avrebbe portati al palazzo del Principe. Kasday e le guardie sorrisero: da quanto tempo non vedeva ed usava un portale! Il quadro nella sua abitazione era pratico ma bastava poco per perdersi. Una distrazione o un qualsiasi altro imprevisto, come un attimo di stanchezza, e si sbagliava obiettivo, ritrovandosi chissà dove. Il portale era più complesso in principio, bisognava ricordare per bene tutti i diversi disegni per comporlo ma poi, se era disegnato nel modo corretto, l’arrivo era assicurato e nel posto corretto. L’Alto prese in braccio la bambina, mentre Sarmorghell si univa al gruppo per andare dalla sorella. La magia li avvolse. Attraversarono il simbolo magico, si lasciarono condurre dalla corrente di energia scintillante ed in un attimo si ritrovarono davanti al portone della dimora del Principe. Kasday si guardò attorno. Quasi nulla era cambiato dall’ultima volta in cui era stato lì. La cosa che più si notava era il simbolo del Kaos, una volta enorme e sovrastante la struttura, a ricordare che quel pianeta faceva parte del suo Universo. Era un Pianeta che era stato creato dall’antico Dio del Kaos, il padre di Kasday. A volte l’Alto poteva ancora sentire la voce di lui nella testa, anche se raramente. In quel momento, accanto a quel simbolo nero ed a spirale, ora più piccolo, campeggiava un altro segno, rosso come il sangue. Era il glifo del Dio della Forza e del Coraggio. Entrambi i simboli si illuminarono di una luce più intensa, a salutare il proprietario degli Universi: Kasday. Questi tentò invano di farli spegnere. I demoni erano in festa e c’era un gran baccano.

“Da questa parte” disse Vereheveil, con un segno della mano.

Così Kasday, le due guardie, la bambina, Sarmorghell e Vereheveil entrarono nel palazzo. Non subirono controlli o segni di ferma. Essendo Dèi, i demoni che sorvegliavano i cancelli li fecero passare, senza problemi.

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Capitolo 14
*** XIV- riflessioni ***


XIV

 

RIFLESSIONI

 

“Senti com’è felice il tuo popolo!” esclamò Shekinah, seduta sul letto di Luciherus.

Il Principe osservava il tutto da una piccola finestra.

“Non so come dargli torto. Ho appena detto loro che il loro capo, cioè io, è giustappunto diventato un Dio! Si esaltano per una ragione!” commentò il demone, sorridendo.

“Com’è essere un Dio? Come  ti aspettavi?” chiese lei.

“Meglio, mia principessa!”.

Lui iniziò a baciarla e la stese, delicatamente, sul letto.

“Sei sempre pieno di energia!” sussurrò lei.

“Se non lo sono io…chi altro dev’esserlo?”.

“Mi fai solletico con la coda!” ridacchiò lei, girando la testa per dare più spazio ai baci di lui.

“É felice e si agita. Che vuoi farci…”.

Si sorrisero, mentre il Principe faceva scivolare via la veste bianca a lustrini di lei.

“Sei proprio bellissima, mia principessa” mormorò, fra un bacio e l’altro lungo il corpo di Shekinah. “E tu sei un drago, mio Principe!”.

“Un drago?!” rise lui, sopra di lei.

“Aspetta!” lo fermò la donna.

“Cosa c’è?”.

“C’è qualcuno!” bisbigliò lei.

“Dove?” chiese lui, senza distogliere lo sguardo da quei due occhi viola.

“Non lo so…ma lo avverto chiaramente!”.

“É impossibile che ci sia qualcuno qua dentro!”.

“Eppure…”.

Luciherus si alzò sulle ginocchia e si guardò attorno. Espanse la luce del suo corpo, illuminando tutti gli anfratti della camera. Solo in questo modo il demone poté notare che, in un angolo, stava rannicchiata una creatura, dai capelli biondi arruffati e l’aria triste. Se ne stava raggomitolata, con una rosa in mano, con lo sguardo perso nel vuoto.

“Rahahel!” tuonò il Principe, in piedi sul letto “Da quanto sei lì? E chi ti ha fatto entrare?”. L’Arcangelo, come uscito da un sogno, si girò di scatto verso Luciherus.

“Eh? Ah, sei tu. Ciao. Sono qui…credo…da stamattina” biascicò Rahahel.

“E cosa aspettavi a far notare la tua presenza?” sibilò il demone, non nascondendo il suo fastidio. “Veramente…mi aspettavo che tu non te ne accorgessi!”.

“Brutto guardone!” ringhiò il Principe, scendendo dal talamo ed afferrando l’Arcangelo per il collo. Il piumato non capì la reazione del padrone di casa. Il demone mise l’intruso a pancia all’aria sul grande letto a baldacchino.

“Buona sera, signorina” salutò, educatamente, Rahahel, rivolto a Shekinah che gli stava accanto, coperta solamente da un piccolo lenzuolo di seta nera.

Luciherus balzò sul ventre dell’Arcangelo e gli immobilizzò le braccia con le grandi mani ungulate. Spalancò le ali da demone, coprendo la luce del sole entrante dalla finestra.

“Così ti piace guardare, eh? Piccolo maniaco…” disse, con un ghigno.

“Io non guardavo niente! Lasciami!” si lamentò Rahahel.

“Ringrazia che ho ancora i pantaloni addosso…altrimenti ti rendevo partecipe!”.

L’Arcangelo urlò terrorizzato ed iniziò a dimenarsi. Poi si fermò: “Ma…in che modo? Io sono asessuato!”.

“Ho i miei metodi” sussurrò il demone, mostrando la punta della coda.

Rahahel ricominciò a gridare e dibattersi. “Lasciami! Lasciami!” supplicò.

“Dai, mio Principe! Lascialo andare. Ha l’aria triste. Deve avere dei problemi” affermò Shekinah, con aria di rimprovero.

“Problemi? Che problemi puoi avere tu, angioletto?” ridacchiò Luciherus “Problemi con le donne?”.

L’Arcangelo annuì e il Principe se ne stupì.

“Tu?! Problemi con le donne?! Non hai le palle, in tutti i sensi, per avere una donna!!”.

Rise, malignamente, e poi si avvicino con il viso a Rahahel.

“Ringrazia la signora che mi ha interrotto, prima che ti torturassi!” sussurrò. “Idiota!” aggiunse in seguito, cambiando la sua voce. Parlava come quando era anch’egli un Arcangelo.

Rahahel spalancò gli occhi, dopo averli serrati per la paura. Ora, davanti a lui, non stava più il Principe dei Demoni ma l’Arcangelo più bello. Luciherus aveva mutato il suo aspetto ed i due piumati si osservavano con grandi occhi lucenti. L’Arcangelo dagli occhi grigi, Rahahel, deglutì incrociando quelli arancio di colui che gli stava sopra. Ricordava com’era stato, nel passato, il padrone di casa e si meravigliò di come fosse rimasto il più splendido. Lo ricordava chiaramente…con la spada fra le mani, pronto a far valere le sue idee. Inaspettatamente, Luciherus si abbassò, piegandosi sulle braccia, fino a quando le loro labbra si sfiorarono. La creatura bionda non riusciva a distogliere lo sguardo, né a reagire, incantata.

“Ti si stanno scurendo le ali…colpa mia! Devi andartene da qui” mormorò il Principe.

“Lascialo andare!” ordinò Shekinah.

Il demone, tornando gradatamente al suo aspetto normale, si tolse da sopra l’Arcangelo.

“Non essere gelosa. Non mi eccita! Sei tu la mia fonte di ispirazione!” rise Luciherus, abbracciando la donna con trasporto.

“Basta adesso…” protestò lei “…e parla con lui!”.

“Ma perché dovrei? Non sono mica il suo psicanalista!”.

“Non mi serve la psicanalisi!” protestò Rahahel, rimanendo disteso ma girando la testa.

Osservò lei, mentre si alzava per rivestirsi.

“Hei tu! Non sbirciare!” borbottò il demone, tappandogli gli occhi.

“Sei geloso?” lo schernì il piumato.

“No. Ma se fai certi pensieri poi cadi e non riuscirò mai più a liberarmi di te!”.

Quando Shekinah fu vestita, la mano fu tolta e l’Arcangelo tornò a fissare il vuoto.

“Cosa ti porta qui, piumino? Non ti avevo detto di tornare dai tuoi amichetti Arcangeli?”.

“L’ho fatto. Ma poi sono tornato qua”.

“E non avevi un altro momento per farlo?” ringhiò, scocciato, il demone.

Cercò di accendersi una sigaretta ma Rahahel gli tolse l’accendino dalle mani.

“Ridammelo!” tuonò il Principe.

“No! Il fumo mi da fastidio!”.

“Non è un problema mio! Vattene fuori se non lo sopporti”.

“No! No! Non mandarmi via!”.

L’Arcangelo balzò in piedi ed abbracciò Luciherus, che lasciò cadere le braccia, altamente perplesso, biascicando bestemmie e non molto velate minacce.

Lei rise: “Che carino…” disse, con tenerezza.

“Non mandarmi via!” supplicò Rahahel “Sto tanto male! Ho bisogno di te!”.

Il demone si divincolò ma non riuscì a liberarsi dall’abbraccio del piumato.

“Di me? Ne sei proprio sicuro?” chiese, con un ghigno.

“Sì, di te! Tu mi dai coraggio” si giustificò l’angelo, ad occhi chiusi.

“Ovvio. Ma se non ti stacchi potrei anche darti, oltre che al coraggio, una rapida morte!”.

“Oh, non so se, a volte, desiderarla sarebbe giusto”.

“Che dici?! Sei drogato o cosa?! Se non mi lasci ti spezzo le braccia!”.

Rahahel lo strinse più forte.

“Tu sei così…come non sono io!” mormorò l’Arcangelo “Il tuo corpo…” continuò “…è così…da maschio! Così forte, così vigoroso, così…”.

“Che?! No, senti…dico sul serio…sto per farti molto male!”.

“Vorrei avere il tuo corpo”.

Con un sospiro, la creatura guaritrice lasciò il Principe.

“Con quella faccia?!” lo derise Luciherus “Faresti schifo!”.

“Ti invidio” bisbigliò, a testa china, il biondo.

“Non so come darti torto. Ma mi sento rassicurato…per un attimo ho temuto che i tuoi pensieri fossero altri!”.

L’Arcangelo tornò ad abbracciarlo. “Prometti di aiutarmi?” gemette.

“Solo se non mi tocchi!”.

Rahahel lo lasciò immediatamente.

“Dimmi, Rahahellino…che problemi hai?”.

“Mi serve coraggio”.

“Come il leone del mago di Oz. Ma tu, secondo me, sei un caso disperato”.

“Sei crudele” piagnucolò l’Arcangelo, allontanandosi dal demone e sedendosi sul letto.

“Ovvio!” ridacchiò Luciherus “A che ti serve il coraggio?” tentò di informarsi, cercando nella stanza un altro accendino.

“Voglio prendere una decisione e seguirla fino in fondo, senza avere paura”.

“Notevole progetto, ma mi servono più informazioni. Per aiutarti, vorrei avere più dettagli…”.

“Sai già la storia…”.

“Davvero?!”.

“Sì!”.

“Non dirmelo…Sarah?! Ancora quella femmina?!”.

L’Arcangelo annuì, sempre a testa bassa.

“Scusa ma…che problema c’è? Cosa ti trattiene? Va da lei e dille cosa provi”.

“Ho sentito pareri discordanti…” Rahahel muoveva le mani, nervosamente, e guardava il vuoto “…non so che decisione prendere”.

“Tu cosa vorresti fare, esattamente?”. Il demone sorrise, soddisfatto della sua sigaretta, accesa da Shekinah.

“Voglio…divenire un caduto!”.

“Fuori discussione! È una cosa stupida!” esclamò il Principe, con decisione.

“Stupida?!”.

“Oh, sì! Molto stupida! Perché colei che tu desideri è una mortale, una creatura priva di magia, e non un demone! E tu, cadendo, diverrai una cosa tremenda ai suoi occhi. Perderai la tua bellezza angelica ed il tuo cuore puro. Ricorda che ben poche donne sono così pazze da scegliere un demone come compagno. Forse come amante…ma nulla di più”.

“Posso divenire un angelo nero. O un mortale…”.

“Sei sulla buona strada…” commentò, sarcastico, il demone.

“Lo so”.

“Altra cosa stupida! Rinunciare alla tua immortalità attuale per una femmina priva di potere magico? Assurdo!”.

“Ma se diventassi una creatura come lei…”.

“E perché?” lo interruppe Luciherus, dopo una boccata di fumo “Avresti una vita breve, lei è sposata e la attenderesti per tutta la vita. Attenderai, invano, che ricambi i tuoi sentimenti e nel frattempo gli anni passeranno, la vedrai invecchiare e così, in un baleno, ti ritroverai a morire solo, triste e…”.

“É vero, non ne vale la pena!” si intromise Shekinah.

“Senza contare il fatto…” riprese Luciherus “…che hai ancora l’eternità davanti. Dannarsi tanto per una creaturina così patetica! Ne troverai altre come lei!”.

“Come lei nessuna!” affermò Rahahel, con rabbia.

“Dicono tutti così. La verità è che basta guardarsi in giro per trovarne altre uguali. Basta cercare…e neanche tanto!”.

“Ma lei non dice niente?” sbottò l’Arcangelo, guardando Shekinah, girando la testa “Offende le donne!”.

Lei alzò le spalle, con un sorriso. “Anche per gli uomini vale lo stesso. Credi di aver trovato una cosa unica ed irripetibile, ma in realtà non è mai così” esclamò.

“Voi due mi fate schifo!” quasi gridò Rahahel.

“Tornatene a casa, Raf! Dimentica!” gli suggerì il demone.

“Non riesco a togliermela dalla testa! Ho dei desideri molto espliciti che non potrò mai soddisfare con questo corpo!”.

“Ma se tu cadessi, poi non potresti più tornare indietro. E te ne pentiresti!”.

“Ma non riesco a…”.

“Ci riuscirai!”.

Gli occhi del Principe erano severi e fissi, quelli di Rahahel brillavano e non stavano fermi.

“Anche Mihael ha detto così…” ammise l’Arcangelo.

 “Oh! Ha detto una cosa intelligente nella sua vita…”.

“Se devo fare come voi dite…allora dammi il coraggio e la forza di affrontare questa cosa!”.

“Sei davvero impossibile, Rahahellino. Fatti una vacanza…”.

“Lei mi ama. Mi ha donato questo fiore”.

“Lo so che la cosa ti sorprenderà, ma l’amore…” cominciò il Principe.

“Non voglio sentirti!” esclamò l’Arcangelo.

“…non esiste” concluse Shekinah.

Rahahel si alzò dal letto, allontanandosi dal demone che gli si era messo accanto.

“Ho altri problemi, Raf” ammise il demone, finendo la sigaretta “Se vuoi stare accanto a questa ragazza, accontentati di ciò che hai e restale vicino ora che è giovane e bella. Poi ti passerà…e ricomincerai la tua vita”.

“Non ci riesco. E non riesco a tornare a casa. Tutti mi guardano e mi giudicano”.

Rahahel camminava nervosamente per la stanza.

“Ma dovrai tornarci, presto o tardi. Altrimenti sarai bandito” mormorò Luciherus.

“É così facile cadere…” sussurrò l’Arcangelo, guardando il cielo dalla finestra.

“Già” gli diede ragione il demone “Ed è così difficile accettare l’impossibilità di ritorno”.

“Tu ora puoi tornare…perché non mi accompagni? Avrei più coraggio…” azzardò l’Arcangelo. “Dovrei accompagnare mia figlia all’incontro con non so che Dio che sta nel Regno degli Angeli. Devono discutere assieme sul matrimonio e…” il Principe non andò oltre.

Shekinah lo abbracciò, appoggiata alla schiena e avvolta dalle ali di lui.

L’Arcangelo si chinò, affondando la testa sulle ginocchia del demone, ad occhi chiusi. “Ti prego…vieni con me!” supplicò, piagnucolando.

Luciherus sospirò: “Va bene. Ma dammi del tempo per prepararmi psicologicamente alla cosa”. Rahahel balzò in piedi e fece numerosi inchini, a mani giunte.

“Grazie! Grazie! Grazie mille, Lu! Ti voglio bene!”.

“Non dirlo…”.

 

Si sentì bussare alla porta.

“Sì?” esclamò il padrone di casa.

Entrò Asmodai: “Signore…c’è Vereheveil qua fuori. Desidera vedervi” riferì il capo delle guardie.

“Che vuole, adesso, quel piccione esaltato?” sbottò Luciherus.

Si passò una mano fra i capelli, ignorando l’occhiataccia che si stavano scambiando Asmodai e Rahahel.

“Dì a quella sottospecie di Dio che sarò da lui fra un attimo. Nel frattempo temporeggia. Chiama Azazel e la sorella, se hai problemi”.

Asmodai fece un inchino ed uscì. Anche l’Arcangelo se ne andò, dopo aver salutato.

Il Principe, rimasto solo con Shekinah, fece un gran sorriso.

“Dove eravamo noi due?” domandò, ricominciando a baciarla.

“Ma ti aspettano!” esclamò lei.

“Che aspettino! E comunque…ho una cosa per te…”.

Dopo averle fatto chiudere gli occhi, il demone si alzò, raggiungendo il comodino a fianco del letto, e ne estrasse un regalo. Le infilò un paio di orecchini a forma di occhio.

“Grazie…” bisbigliò lei, guardandosi allo specchio.

“Bene…allora…dove eravamo?”.

Ricominciarono e baciarsi.

“Un paio di ore d’attesa non  li turberà…” disse lui.

“No di certo!” rispose lei.

Risero e si distesero a letto, tirando le tende e chiudendo la porta a chiave con un gesto della mano.

 

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Capitolo 15
*** XV- riconoscersi ***


XV

 

RICONOSCERSI

 

Vereheveil iniziava a spazientirsi.

“Quanto tempo ci mette quel demone?” protestò “Mi servono solo le chiavi della biblioteca! Poi mi arrangio da solo!”.

“Non serve alterarsi!” gli disse una delle due guardie di Kasday.

La bambina intingeva i biscotti nel latte al cioccolato e aspettava che affondassero, prima di ripescarli con un cucchiaio d’argento. Sarmorghell sorrise a quella scena.

“Vado a cercarlo!” sbottò il Dio delle Letterature e delle Lingue, alzandosi dalla sedia.

Con passo deciso attraversò diversi corridoi, fino a quando riuscì a trovare il padrone di casa. Luciherus stava disteso a terra, ad occhi chiusi, con le braccia conserte ed i piedi contro il muro, leggermente sollevati dal pavimento.

“Sei morto?” lo derise Vereheveil.

“Ho un gran mal di testa…” mormorò il Principe, aprendo un occhio “…sento costantemente delle voci dentro di me”.

“Benvenuto nel mio mondo. Le voci che senti sono le preghiere e le suppliche di chi crede in te e chiede il tuo aiuto, Dio novizio!” spiegò la divinità delle Lingue.

“É terribile!” gemette il demone.

“Ti ci abituerai”.

“Non è solo questo…” iniziò il Principe.

Vereheveil gli si distese accanto: “Te lo avevo detto che non eri adatto a fare il Dio!” sghignazzò. “Ma taci!” sibilò Luciherus “Se sei venuto fin qui per sfottere, puoi anche andartene!”.

“Sono qui perché mi serve un libro”.

“Bene. Prenditelo e sparisci!”.

Shekinah passò, saltando i due distesi con un balzo: “C’è mio fratello!” esclamò con entusiasmo “Vieni a salutarlo?”.

Il demone annuì, con un gemito, stringendosi la testa.

“Grazie, mastro Vereheveil, per averlo portato con voi!” disse ancora lei.

“Di niente. Ha fatto tutto da solo!” rispose il Dio delle Letterature, alzandosi a sedere.

Quando lei si fu allontanata, Vereheveil tirò una gomitata a Luciherus, che si era messo anche lui seduto.

“Ma che carina!” ridacchiò il Dio delle Lingue.

“É un grosso problema” sospirò il demone.

“Un problema?! Da quando, per te, è un problema avere una donna?!”.

Luciherus non rispose. Tirò le ginocchia verso di sé e le cinse con le braccia, girando la testa in direzione opposta rispetto al suo interlocutore.

“Cos’ha questa di così speciale?” volle sapere il Dio dai capelli verde acqua.

“Mi fa ricordare…cose che avevo dimenticato…”.

“Cose piacevoli?”.

“No”.

“E allora allontanala da te…”.

Il Principe sbuffò: “In primo luogo non accetto consigli sull’argomento da un mezzo frocio come te. Seconda cosa…non posso! Non posso allontanarla. Ha qualcosa di strano…di diverso…che mi spinge a cercarla”.

“Sei innamorato?” lo stuzzicò Vereheveil, con un sorrisetto malvagio.

“I demoni non amano” rispose il diavolo, appoggiando la testa fra l’incrocio delle sue braccia e tenendo il capo rivolto altrove.

“Ma gli Arcangeli sì!” esclamò il Dio delle Letterature.

“Non sono un Arcangelo!” ringhiò Luciherus, con gli occhi semichiusi ed una smorfia.

“Ma sei un Dio! Può darsi che…”.

“Può darsi. Può darsi, può darsi…che palle!” interruppe il demone “Dimmi che libro ti serve, e volatilizzati!”.

“Volatilizzati?! Beh, ad ogni modo, vorrei che prima dessi un’occhiata agli individui che sono con me e che cercano il volume. Non mi piacciono…”.

“Non è un problema mio!” esclamò il Principe. Poi, dopo un attimo, riprese: “E poi…scusa…non ti piacciono e li porti qui?! Per chi mi hai preso?!”.

“Per quello che sei: un grosso demone collerico! Devi solo darci un occhio. Se li ritieni a posto, dà loro il libro, altrimenti…non so…dì loro che è andato perduto!”.

“E va bene…vediamo queste creature che tanto ti turbano!”.

Vereheveil si alzò di colpo, tutto soddisfatto. Luciherus fece più fatica. Si appoggiò al muro e si tirò su.

“Sei palliduccio, Lucy” disse il Dio delle Letterature, allungando un braccio verso di lui.

“Non provare a toccarmi!” sibilò il Principe, allontanandosi lungo il corridoio, barcollando. Vereheveil lo precedette, non  nascondendo una certa preoccupazione.

 

“Sorella! È bellissimo rivederti!”.

I due fratelli, Sarmorghell e Shekinah, si erano rincontrati nella grande sala in cui la bambina continuava ad abbuffarsi di biscotti con entusiasmo.

“É bello vedere che anche voi, ogni tanto, uscite da quel palazzo immenso, freddo, buio…vuoto!” disse lei, rivolta all’Alto ed ai guardiani.

Kasday non rispose, e nemmeno le due guardie.

“Non sono così male, no? La brezza del mattino, il calore del sole, la luce delle stelle, le voci della gente…” disse Shekinah.

L’Alto alzò una mano, facendole segno di fare silenzio. Lei sospirò, abbracciando suo fratello: “Com’è Vereheveil, fratello mio? Sembra tanto dolce…” chiese.

“Sì, è dolce ma…è anche tanto strano. È sposato ma non pensa mai alla moglie. Fa figli con lei, pur non amandola, come se rispettasse un ordine o un obbligo. Anche quando sta con me…pensa ad altro!”.

“Certo! Pensa al Signore Kasday! Lui è l’unico che ama!”.

“Lo penso anch’io!”.

“Fate silenzio!”.

I due angeli sobbalzarono, sentendo la voce dell’Alto.

“Amore non può essere di certo” proseguì Kasday. “Se ci fosse davvero un sentimento così forte ad unire me e Vereheveil, allora lui mi avrebbe riconosciuto…invece…nemmeno i miei bambini…”. “Questo perché non vi mostrate!” disse Sarmorghell, con sicurezza.

“Io lo riconoscerei in qualunque modo” mormorò l’Alto “…ad occhi chiusi, nel buio e nella nebbia, io saprei che è lui. Io l’amavo davvero…ma lui…”.

Scese di nuovo il silenzio.

“Dove sono Vereheveil e Luciherus?” chiese una delle guardie.

“Erano lungo il corridoio” rispose Shekinah “Arrivano subito, spero!”.

“Com’è Luciherus, sorella? Forte, rude e passionale?”.

“Ne rimarresti sorpreso. In realtà è molto gentile. Mi chiama principessa e mi fa dei regali. E non è tanto capriccioso e maniaco come sembra!”.

“Sarà…” disse Sarmorghell, con aria scettica.

“Senti un po’!” protestò Shekinah “Il tuo tradisce la moglie! Almeno il mio non è impegnato!”. Kasday ignorava i due. Il suo sguardo era concentrato su un disegno appeso alla parete nera. Era ingiallito e molto vecchio. Si vedeva che era realizzato da mano infantile. Un piccola scritta, con caratteri incerti e tremolanti tipici di chi ha appena imparato a scrivere, descriveva l’opera: io e il mio papà. In un angolo la firma: Luciheday.

La mia bambina…si disse l’Alto, con un sospiro nostalgico.

 

La porta si aprì. Entrò Vereheveil.

“Scusate il ritardo” iniziò “Eccovi il padrone di casa. Ora ci aprirà la porta della biblioteca e sarà tutto a posto!”.

“Bene. Alla buon ora!” sbottò una delle guardie.

“Piccola…” disse uno dei guardiani “…và con il signore a prendere il libro!”.

La bambina si alzò e corse verso il Dio delle Letterature.

Nel frattempo era entrato anche Luciherus ed era rimasto immobile sulla porta, ad occhi chiusi, annusando l’aria.

Questo profumo… Aprì gli occhi, d’un tratto d’aspetto dolce. Non più con le pupille sottili e simili a quelli dei gatti, ma grandi e tonde.

“Ciao” sussurrò.

Nella sala non si sentì un solo suono.

“Lo conosci?” chiese Vereheveil al demone, a bassa voce.

“Certo! E anche tu, brutto pennuto idiota!”.

Il Dio delle Letterature continuava a guardare gli incappucciati ed i guardiani. Scosse il capo.

“Sei sicuro? Io non conosco nessuno di loro…”.

“Guarda bene quello in centro”.

“Non so chi è!”.

“Kasday!” esclamò il Principe, con un sorriso.

Vereheveil scoppiò a ridere:  “Hai esagerato di nuovo con  le droghe? Che dici, stupido demone?”.

“Come puoi non riconoscerlo?! Non senti il suo profumo?”.

Il Dio delle Lingue lo fissò, perplesso. “Non capisco…”.

“Il suo profumo! La sua pelle emana tristezza, nostalgia, armonia…sprigiona la fragranza dei fiori della vita e della morte!”.

“Kasday non profuma di morte!”.

 “Ma lui è morte. È creatore e dà vita. È distruttore e dà morte. È vita e morte!”.

La bambina tirò la manica dell’abito di Luciherus.

“Mi porti a prendere il libro?” chiese, docilmente.

“Certo piccina! Vieni con me!”.

Lanciando un’ultima occhiata all’Alto, il demone e la Celeste uscirono, per mano, dalla stanza. Kasday sorrise. In quella casa, molto lasciava ad intendere che fossero presenti dei bambini, anche se l’ultima creaturina lì presente era stata Luciheday, tantissimo tempo fa. C’erano disegni appesi, giocattoli ed oggetti per infanti. Evidentemente il Principe non aveva il coraggio di disfarsene.

 Il demone e la bambina lasciarono soli Kasday, Vereheveil, i due guardiani ed i fratelli.

 

Luciherus accelerò il passo, avvertendo un lieve capogiro. Aprì la porta, facendo entrare la bambina, e poi tornò a chiuderla a chiave dietro di sé. La piccola si fiondò sui libri, ridendo.

“Sai leggere, vero piccina? Te la cavi da sola?” domandò lui.

“Sì, sì! Non mi serve aiuto, grazie”.

Il Principe si sedette in terra, appoggiando la testa contro il muro e chiudendo gli occhi.

“Stai male?” chiese lei.

“Non è niente. Trova il libro”.

“Hai mangiato troppo? Ti fa male la pancia?” insistette la bambina.

“Non ho mangiato troppo! Ho solo un po’ di nausea. Trova il libro!”.

Il demone iniziava ad infastidirsi ma si sforzava di rimanere calmo. Dopotutto era solo una bambina! La sua coda si agitò nervosamente, colpendo il pavimento e lasciandoci dei segni con la punta rigida.

“Sei sicuro di stare bene?”.

 “So di non star bene…ma non sono affari tuoi, ragazzina! Trova il libro e sparisci!”.

 La bambina salì su una scaletta piuttosto alta ed afferrò, allungandosi, un volume di colore blu. “Sei sicura di farcela da sola? Non è che cadi e ti sfracelli sulla faccia?”.

“Sono più brava di te, spilungone malaticcio!”.

Luciherus sorrise, girando la testa: “Quanta insolenza! Ti ha insegnato tuo padre a parlare così agli adulti?”.

“Io non so chi è mio padre” rispose lei, scendendo dalla scala.

“Kasday è, dunque, tua madre?”.

“No. Lui è un amico mio e mi aiuta”.

“Pensavo fosse…vi assomigliate”.

La piccola andò a sedersi accanto al demone.

“Che libro hai preso? Fammi vedere” disse lui, osservandone la copertina.

Vide il titolo: la luce dei Celesti.

“Sei una Celeste?” domandò il Principe.

La bambina non rispose.

“Giuro di non dire niente a nessuno…” promise Luciherus.

La piccola annuì, timidamente.

“Sei molto carina…i Celesti vengono descritti sempre come dei mostri raccapriccianti…ma tu non sei affatto così!”.

“Io sono solo una bambina!” ridacchiò lei “Ho tempo per cambiare…”.

“Cambiare?”.

“Sì. I Celesti e gli Alti nascono come voi: piccoli, rosa e teneri. Ma poi, crescendo, mutano e si modificano”.

“Intendi dire che ci hanno creati in modo da presentare l’aspetto di eterni bambini?”.

“Mmm…si può dire di sì”.

“Interessante…e in che modo mutano?”.

“Prendono aspetti in comune con gli alberi e gli animali”.

“La vostra adolescenza dev’essere un vero incubo!” ridacchiò Luciherus, ricordando la sua adolescenza angelica, quando erano apparsi i suoi primi tratti oscuri e ribelli.

“Stai meglio?” domandò la bambina.

“Sì...grazie…”.

“Sei amico di Kasday?”.

“Sì. È la madre di mia figlia. La mia unica e bellissima figlia!”.

“È tua moglie?”.

“No! Certo che no!” rise Luciherus.

“Perché? È così che si fa…”.

“Hai ragione. Soprattutto perché lei è per me…non so…”.

“La tua principessa?”.

“Kasday?! Nel suo aspetto femminile può darsi…”.

“Non conta l’aspetto esteriore!” protestò la bambina, colpendo Luciherus con le manine.

“Com’è il suo corpo da Alto?” domandò, curioso, il Principe.

“Carino, carina. Ma non conta!”.

“Ha spaventato Vereheveil, un motivo ci sarà!”.

“Certo! Perché siete cattivi. E stupidi”.

“Soprattutto io…” ammise il demone.

“No. Tu sei buono”.

“E tu sei pazza!”.

La bambina lo abbracciò forte: “Sei bello!” esclamò.

“Che dici?! Che ti prende?”.

“Sei bello!”.

Luciherus tentò di staccarla, ma lei non lo lasciò. Il Principe sorrise, pensando al fatto che era il secondo abbraccio che riceveva in un giorno, dopo tanto tempo.

“Bello!” continuò lei.

“Ok. Ho capito. Ma adesso lasciami…”.

“Bello! Bello! BELLO!”.

“Non sono un giocattolo…puoi lasciarmi, per favore?”.

La bambina lo lasciò. Gli diede un bacio sulla guancia, felice.

“Torniamo di là? Oppure vado nella sala da sola?”.

Luciherus si alzò, pur a fatica. La testa gli girava ancora ma riuscì a raggiungere la piccola ed aprire la porta della biblioteca.

 

Il silenzio nella sala era totale. Vereheveil, in piedi sulla porta, osservava la figura incappucciata che stava seduta di fronte a lui. I due fratelli si allontanarono, raccontandosi la giornata.

Le due guardie non muovevano un muscolo. Il Dio delle Letterature non si mosse, rimanendo in silenzio. Poi prese coraggio e fece qualche passo verso il tavolo, scrutando la figura silenziosa e misteriosa.

Il Dio si schiarì la gola. “Kasday?” disse, timidamente.

Non ricevette risposta.

“Kasday…sei tu?” ripeté.

L’Alto alzò lo sguardo, facendo scorgere i suoi occhi di un meraviglioso color azzurro.

“Oh! Kasday! Sei veramente tu!”.

Il Dio si sedette accanto all’Alto, con un largo sorriso. Non notò lo sguardo accigliato di Kasday, fisso nel vuoto.

“Sei tu! Sei tu!”.

“Ha qualche importanza?” tagliò corto l’Alto.

“Come?” esclamò Vereheveil, confuso “Che dici? Certo che ha importanza…amor mio…”.

Il Dio allungò una mano per toccare Kasday ma la guardia che stava dal suo lato lo respinse, usando la spada di piatto.

“Amor mio?! Sei sposato adesso…ed io sono fuori dalla tua vita ormai” sentenziò l’Alto, con un tono leggermente scocciato.

“Non è vero!” disse il Dio, con convinzione.

“Basta bugie, angelo nero. Basta! Basta parole vuote e senza senso, basta falsità! Hai una famiglia ora. Pensa a loro e smettila di mentirmi”.

“Io non sono mai stato un falso con te…non ho mai mentito!”.

“Tu sei sempre stato un falso con me…”.

“ Io ti amo ancora, Kasday!”.

“Tu non mi hai mai amato! Gli angeli confondono l’amore con la devozione e l’ammirazione, la bellezza con l’incanto e la meraviglia. Tu non mi ami. Non mi trovi bello. Hai confuso l’amicizia ed il rispetto con l’amore e anch’io, lo ammetto. Ma ora ho capito lo sbaglio e non ripeterò l’errore”. Vereheveil rimase così male per quelle parole che scoppiò a piangere.

“Sei cattivo” singhiozzò.

“Sì. Tutti sono cattivi in questi Universi” mormorò, malignamente, l’Alto.

Tornò di nuovo il silenzio, mentre il Dio delle Letterature si asciugava le lacrime.

“A che ti serve il libro sui Celesti?” domandò Vereheveil.

Kasday non parlò e il Dio continuò.

“Se ti serviva la traduzione della loro scrittura, o la comprensione del loro linguaggio, bastava chiedere a me! Bastava chiedere ed io ti avrei aiutato, senza sperare nulla in cambio! Ma tu, grande Alto, di sicuro non ti abbassi a domandare aiuto ad un sottoposto come me!”.

“Non è così…”.

“No di certo! La verità è che voi Alti vi vergognate di ammettere che non sapete qualcosa. La verità è che non volete sentirvi al di sotto di qualcuno e…”.

“La verità è che volevo proteggerti, Vereheveil! Se Momoia sapesse che mi hai aiutato in una faccenda riguardante i Celesti, ti distruggerebbe. E poi…tu non conosci la scrittura dei Celesti!”. “Imparo in fretta…”.

“Il libro che ho chiesto è la copia, scritta nella lingua degli Dèi, di un libro dei Celesti in mio possesso. Mi sarà facile tradurre con quello. E adesso non ho voglia di dire altro”.

Di nuovo ci fu silenzio.

 “Dov’è Luciherus?” protestò Vereheveil “È sempre così lento e logorroico quando non ha voglia di fare un cosa…”.

“Che si sbrighi. Mi fa male la testa. Io sto bene nel silenzio e nella solitudine” mormorò Kasday, a braccia incrociate.

I due angeli fratelli rientrarono, ridendo.

“Spero che voi due vi siate parlati e chiariti…” azzardò Sarmorghell.

Il silenzio fra i due lo fece sospirare.

 “Ho capito…” si arrese.

“Dov’è Luciherus?” chiese Shekinah.

“In biblioteca…” rispose il Dio.

“Sbagliato!” tuonò il Principe, spalancando la porta con un botto.

La bambina corse verso l’Alto, mostrandogli il libro. Kasday non disse una parola e si alzò. “Kasday…” iniziò Luciherus, ma l’Alto non gli rispose.

Pronunciando una sola parola, che nessuno comprese, Kasday scomparve. Tornò al suo palazzo assieme alle guardie ad alla bambina. L’ultima cosa che fece, prima di andarsene, fu guardare con i suoi occhi azzurri il padrone di casa, accennando un sorriso.

“Aspetta!” esclamò il demone.

Ma ormai era tardi.

“Che cosa gli hai detto, piumino? Era incazzato!” gracchiò il Principe, guardando il Dio delle Letterature.

“Che ti importa?” rispose questi, acido.

“Sei una merda”.

“E tu un coglione!”.

Litigarono di nuovo fra loro. I due fratelli sospirarono e li lasciarono soli, ad urlarsi a vicenda.

“Che cosa gli hai detto? Aveva un’aria davvero…infastidita!”.

 “Io non ho detto niente! È lui che mi ha fatto piangere!” piagnucolò Vereheveil, con gli occhi lucidi.

“Sì, certo…come no!”.

“Perché dovrei parlane con te?! Cosa c’entri tu?! Vattene!!”.

“Guarda che questa è casa mia, cervello di gallina!”.

“Benissimo! Allora me ne vado io!”.

“Meraviglioso!”.

Vereheveil stava per uscire, quando lanciò un acutissimo grido di dolore e cadde in ginocchio.

“Che succede, piumino?” chiese Luciherus, alzando un sopracciglio.

“Brucia! Brucia! È come se prendessi fuoco!” gemette il Dio.

Sarmorghell gli andò vicino. Toccandolo, ritrasse la mano.

“Scotta. È bollente!” disse l’angelo.

“Cos’è questa puzza di bruciato?” si chiese il Principe.

Guardando fuori dalla finestra, il demone vide che si erano radunati un gruppo di abitanti del Pianeta che stavano dando fuoco a dei libri.

“Ecco la causa del tuo male…” sibilò.

Spalancò la finestra e sbraitò a tutti di spegnere immediatamente il fuoco.

“Ma Signore…” protestò uno di loro “…Momoia ha dato ordine di bruciare tutti i libri riguardanti i Celesti!”.

“Nessuno brucia libri nel mio regno, abominio! Me ne fotto di ciò che dice quella pazza!”.

Vedendo la reazione del loro Principe, i demoni estinsero le fiamme. Vereheveil ricominciò a respirare, lentamente.

“Và un po’ meglio, pennuto? Vuoi un bicchier d’acqua?”.

“Da dove viene tutta questa gentilezza, Luciherus?”.

“Non interferire ed approfittane. Avanti…alzati!”.

Gli porse la mano ed il Dio delle Letterature si rimise in piedi. Dopo un attimo, venne portata l’acqua e Vereheveil si sentì subito meglio. Il Dio guardò il Principe con tenerezza.

“Anch’io lo amo” mormorò, dolcemente.

Il demone lo fissò, con aria interrogativa.

 “Vedrai che si sistemerà tutto. Il matrimonio di tua figlia, Kasday, i tuoi malori…andrà tutto bene!” continuò il piumato.

I due si salutarono. Luciherus era molto poco convinto. Sospirò, rientrando in casa.

Si concentrò, chiedendosi qual’era il modo migliore per sfogarsi. Arrivò alla conclusione che la tortura altrui era la via migliore.

 

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Capitolo 16
*** XVI- traduzioni ed ordini ***


XVI

 

TRADUZIONI ED ORDINI

 

Nosmagiés avvertì la presenza del suo padrone. Scese dal letto, in cui si era appisolato, srotolandosi dalla coperta in cui si era avvolto. Andò verso il suo principale, notando che le guardie erano scomparse e che Kasday era solo, con la bambina.

“Siete tornati…” parlò il Messaggero.

“Sì. Siamo qui!” rispose la piccola Celeste.

“Tieni questo libro, Nosmagiés” ordinò l’Alto “Momoia sta cercando tutti i volumi simili a questo per distruggerli”.

“Sissignore”.

La Celeste correva per casa: “Ora aiuterai la mia mamma!” gridava “Ora aiuterai la mia mamma!”.

“Ora ti butto giù dalle scale, se non la smetti di fare casino! E, da terra fino all’entrata di casa mia, ci sono un sacco di scalini!” brontolò Kasday, agitando le sue code.

“Signore…” disse l’angelo “…vi ha cercato Momoia”.

“Per?” chiese l’Alto.

“Non ne ho idea”.

“Ha detto quando torna?”.

“Prima del tramonto”.

“Che palle…chissà che vuole adesso. Vabbè…vieni qui, Celestina. Diamo un’occhiata alla tua lettera”.

La bambina gliela porse, con un largo sorriso.

“Cosa dice?” domandò, appena l’Alto ebbe fra le mani la busta.

“Che impazienza! Me la lasci aprire?!” protestò Kasday.

L’Alto rigirò l’unico foglio fra le dita della mano di vetro, trasparente e lucida, dalla quale si poteva vedere ogni singola vena di magia azzurra. Con la mano di metallo e roccia aprì il libro “La luce dei Celesti” che Nosmagiés teneva fra le braccia. Non toccò il volume ma sfogliò le pagine con l’uso della magia, senza nemmeno sfiorarle. Cominciarono a scorrere velocemente, facendo sobbalzare l’angelo. I simboli sul libro si illuminarono ed uscirono dalla carta, come degli ologrammi, fluttuando a mezz’aria. Iniziarono a combinarsi con i segni riportati sulla lettera della bambina, mutando, con un comando di Kasday, la scrittura dei Celesti e rendendola comprensibile al padrone di casa.

“Oh! Ora capisco!” esclamò il Messaggero, sbirciando.

Kasday tornò ad osservare la lettera in pergamena. Era stropicciata e sbiadita, scritta in inchiostro oro. Annusandola, l’Alto capì che non era inchiostro ma sangue magico. Evidentemente i Celesti lo avevano di quel colore, così lucente e particolare.

“Sono delle indicazioni” spiegò, dopo aver letto.

“Indicazioni?” volle sapere l’angelo.

“Sì. Servono ad individuare un luogo preciso, una casa o una piccola foresta. Comunque un luogo ristretto e rintracciabile, fra gli Universi dei Celesti”.

“Cosa può essere?” si chiese Nosmagiés.

 “Piccola…” iniziò Kasday “Piccola, questa lettera l’ha scritta tua madre, giusto?”.

La bambina annuì.

“E ti ha detto qualcosa?” continuò l’Alto.

“Solo che tu, triplice Dio dal triplice occhio, ci avresti aiutate”.

La divinità dai capelli corvini sospirò, con espressione pensosa.

“Forse vi sono riportate le coordinate per trovare tua madre…certo che poteva anche scriverlo!”. Camminò per la stanza, liberandosi dal cappuccio che gli copriva il viso e tornando al suo aspetto normale, per non sprecare altra magia. Le sue antenne si agitarono all’aria, felici di essere di nuovo libere.

“Aiuta la mia mamma! Salva la mia mamma!” singhiozzò la bambina, triste.

“Ma, sì! Va bene! Andrò nella stanza degli specchi e vedrò dove mi portano queste indicazioni” sbottò il padrone.

“Grazie!” sorrise lei.

L’Alto richiuse il libro e lo affidò a Nosmagiés. L’angelo, con un inchino, andò a riporlo nel salone adibito a biblioteca, una delle stanze più grandi del palazzo. Era immensa e piena di libri, alcuni dei quali appartenuti al maestro del suo Signore, l’antico Equilibrio. Il suo aspetto era rimasto pressoché invariato nei millenni. Gli scaffali erano contro la parete e sfioravano il soffitto, riccamente decorato a motivi geometrici. Fra uno scomparto e l’altro, si aprivano immensi finestroni colorati di cremisi e blu scuro. Al centro della stanza vi era un grande tavolo rotondo, rubino a decori dorati, illuminato dall’incrocio delle luci entranti dalle finestre. Molti e grandissimi lampadari rischiaravano il salone nelle ore notturne, grazie all’uso delle candele e del riverbero dei cristalli in cui erano composti.

Nosmagiés ripose il libro, accanto ad altri riguardanti gli Dèi, gli Alti ed i Celesti. Sistemò i candelabri e le sedie, ricordando i giorni in cui lui ed il suo Signore passavano delle ore assieme, leggendo e chiacchierando. Ora Kasday non era mai dell’umore adatto per dilettarsi in quel modo. Con un sospiro, l’angelo lasciò la stanza, chiudendola dietro di sé.

Raggiunse il suo padrone, che nel frattempo si era rintanato nella stanza degli specchi assieme alla Celeste. Bussò, educatamente, alla porta.

“Signore?” chiamò “Posso entrare?”.

“Certo, mio Messaggero, entra pure”.

L’angelo entrò, cautamente, nella sala cupa. Il suo padrone era seduto sull’unica sedia, il solo elemento d’arredo oltre agli specchi. La piccola finestra era stata sprangata con delle imposte in legno spesso, in modo che nemmeno un raggio di Sole potesse entrare. Le pareti erano nere, così come il pavimento ed il soffitto, senza decori, senza fronzoli o elementi di altro tipo. Tutt’attorno, compreso sul lato della porta che dava verso l’interno, erano appesi degli immensi specchi imponenti, alti fino al soffitto.

Kasday, seduto sulla sedia simile ad un trono, con i braccioli e lo schienale pieno di punte e riccioli, sbatté le palpebre: un atto che compiva raramente. In seguito a questo, lo specchio che aveva di fronte si accese, come uno schermo. L’Alto ruotò leggermente il capo, a destra e sinistra, così tutti gli specchi si illuminarono. Alcuni di loro mostrarono immagini familiari, come il palazzo del Principe, il Regno degli Angeli, la casa di Vereheveil…ma l’Alto si concentrò sullo schermo centrale che non mostrava nulla, se non un'unica luce bianca.

Nosmagiés adorava osservare il suo padrone in quella stanza: era la sua porta verso l’esterno.

Sulla superficie bianca iniziarono a mostrarsi delle linee e delle ombre, che presero forma. Un palazzo, color del cielo, apparve nello specchio. Si stagliava nella luce dell’alba. Sembrava un bel posto, luminoso e tranquillo. La visione si avvicinò all’edificio, salendo lungo una ripida torre attorcigliata. Le scene scorrevano, sempre più veloci. Entrando da una finestra, l’immagine dietro il vetro mostrò una stanzetta in cui stava una piccola figura. Evidentemente era schermata grazie all’uso della magia, perché i suoi tratti fisici ed il suo corpo non erano ben visibili. La figura si accorse che qualcuno la osservava perché mostrò il viso, per qualche secondo, prima di tornare del tutto sfuocata.

“Mamma!” esclamò la bambina.

“È quella tua madre?” domandò Nosmagiés e la piccola annuì.

“É in trappola” mormorò Kasday, mantenendo lo sguardo fisso.

“In trappola? In che senso, Signore?”.

L’Alto mosse un dito, indicando il bracciale che la donna indossava: “Quel gioiello la scherma e ne risucchia la magia. Momoia me ne aveva messo uno simile, prima di accorgersi che non ne valeva la pena. È imprigionata in quella torre e non ha magia a sufficienza per uscirne”.

“Potete aiutarla?” chiese il Messaggero.

L’immagine scomparve e Kasday annuì: “Mi basterà evocarla qui. Lo posso fare”.

“Grazie! Salverai la mia mamma!” urlò la bambina, abbracciando l’angelo che le stava accanto. “Sai chi può volerle fare del male?” domandò l’Alto, alzandosi.

La Celeste scosse il capo.

“Non so chi le ha fatto male. So solo che mi ha mandato qui, senza troppe spiegazioni”.

“Strano…” sussurrò Nosmagiés, andando vicino al suo Signore.

“Niente di strano!” rispose questi “Ha protetto sua figlia e non voleva farla preoccupare. Avrei fatto lo stesso”.

L’angelo girò la testa verso la porta: “C’è qualcuno…” disse.

“Và a vedere chi è, per favore, mio Messaggero. Ti raggiungo subito”.

“Sissignore”.

Nosmagiés uscì e scese le scale, arrivando al piano terra.

“Chi c’è? Sono qui…” chiese, guardandosi attorno.

“Ed io sono qui” si sentì rispondere.

“Madre Momoia! Siete Voi! Il mio Signore sarà qui a momenti. Nel frattempo si accomodi…”. “Bene. É in casa. Ho proprio bisogno di parlare con lui”.

“Vado ad avvertirlo del Vostro arrivo. Prendete posto ed attendete, solo un attimo”.

La Madre si sedette con calma, sistemando le ali da farfalla che brillavano al sole. Raccolse i capelli, quasi con noia, e si guardò attorno. Avvertì la presenza di Kasday, prima di vederlo.

“Ciao Hagalaz. Ti devo parlare, piccolo”.

Kasday grugnì, storcendo il naso sentendosi chiamare “piccolo” e “Hagalaz”.

“Prego…” biascicò, poco convinto.

“In privato. Caccia via il tuo angelo!” gli ordinò Momoia.

“Che male ti ha fatto il mio Nosmagiés?”.

“Fallo e basta! Caccialo via! Devo parlare con te”.

L’Alto sospirò e guardò il suo angelo: “Fa come dice, Nosmy, lasciaci soli”.

Il messaggero chinò il capo, con un cenno. Tieni la bambina lontano da lei! Gli ordinò il Signore, nella sua mente. Kasday tornò a guardare Momoia, con un sorriso evidentemente falso. Aveva indossato un lungo mantello scuro, con strascico, ed un imponente colletto che gli circondava la testa e la complicatissima pettinatura.

“Che posso fare per te?” domandò il padrone di casa.

“Vieni qui. Siediti accanto a me”.

Kasday avanzò, a piccoli passi. Le sue antenne fremevano nell’aria, nervosamente.

“Sembri una formichina in cerca di zucchero…” lo schernì la Madre.

L’Alto prese posto, non tanto vicino a Momoia.

“Parla, Madre”.

“Che stavi facendo?” volle sapere lei.

“Niente” mentì lui.

“Niente?! Dai…che facevi?” insistette lei.

“Osservavo…”.

“Povero piccolo…ancora non sai accettare la lontananza da quei mostriciattoli che una volta amavi…”.

Momoia, allungando un braccio, tentò di accarezzargli il viso ma lui, istintivamente, si ritrasse. “Cosa vuoi?” chiese, di nuovo, Kasday.

“Tu sei un creatore…” iniziò la Madre.

Lui annuì, poco convinto.

“Certo che lo sei! Non sei un preservatore, come la Letteratura o la Memoria, e neppure un distruttore, come il Kaos e la Morte. Sei un creatore. Hai generato Mondi ed Universi, creature e divinità. Sei un Alto in grado di generare altri Alti”.

Kasday rimase in silenzio, guardandola circospetto.

“Tu sai che il nostro numero sta calando” riprese la Madre “Ci sono pochissime speranze, ormai. Quelli di noi che risultano scomparsi, molto probabilmente non torneranno. I loro poteri sono nulli. Questo fa sì che noi, pochi Alti rimasti, ci dobbiamo sobbarcare anche dei loro compiti. Dobbiamo fare funzionare tutto come un tempo, pur essendo di meno. Non è una cosa semplice. È faticoso e sposta l’equilibrio delle cose. È necessaria la creazione di nuovi Alti”.

“Necessaria?” ripeté Kasday.

“Consigliabile. Sarebbe meglio” affermò la Madre.

“Ma non è obbligatorio” commentò l’Alto, sprofondando nella sedia.

“No di certo, ma la mia idea è un'altra…”.

“Che ci posso fare io, Momoia?”.

“Tu sei un creatore. Siamo rimasti in pochi, ormai, con questa capacità”.

“E allora?”.

“E allora sarebbe il caso che ti prendessi le tue responsabilità e creassi degli Alti” sbottò lei, spazientita.

“Responsabilità?” ridacchiò lui.

“Sì. Responsabilità. Sei scemo per caso?!”.

“Scemo?”.

“Piantala di ripetere parole che ho già detto!” ordinò lei.

Kasday non parlò e girò la testa, guardando il soffitto.

“Quello che io voglio, Hagalaz, è la tua felicità”.

“Felicità?” mormorò l’Alto, girando gli occhi verso il caminetto spento.

“Tesoro…guardami!” la Madre gli prese il volto fra le mani che aveva sulle ali “Guardami. Non mi dicesti che ciò che desideravi era una famiglia? Ebbene…è questo il momento!”.

“Momento? Quale momento?”.

“Il momento giusto! Prima era troppo presto e questa è una situazione di emergenza!”.

“Li faccia lei i piccoli Alti!” esclamò lui, liberandosi dalla sua presa.

“Io ho perso mio marito. Mi considero ancora sposata, attendendo il suo ritorno. Ovvio, però, che se il suo ritorno non fosse prossimo, sarò anch’io fra coloro che genereranno, se sarà necessario”.

“Sarà necessario, perché da me non avrete proprio niente!”.

“Ma come? Non ti piacerebbe avere dei figli?”.

“Crepa!” sibilò Kasday.

“É una bella idea che abbiamo avuto noi Alti, assieme ad un'altra decisione che…”.

“Non mi interessa”.

“Perché non ti sposi, Hagalaz?”.

Kasday non parlò e la fissò, con un’espressione scettica, spalancando un occhio e socchiudendo l’altro, come faceva sovente l’antico Dio del Kaos.

“Sarebbe una bella idea, creatore. Non saresti più solo e non rimpiangeresti quei deucoli che stanno sparsi per i Mondi” continuò lei.

“Ed immagino che voi non mi lascereste la possibilità di scegliere. Chissà che bel partito che avete trovato per me…”.

“Non ci permetteremo mai…in condizioni normali! Ma questo è un caso d’emergenza e quindi…sì, abbiamo già individuato il più adatto allo scopo”

L’Alto incrociò le braccia, dubbioso.

“La creatura che abbiamo scelto per te…” riprese Momoia “…è un tuo spirito affine. Ribelle, misterioso, solitario e silenzioso. Ti piacerà”.

“E chi è?”.

“Raido”.

“Raido? Il Signore del Cielo? Non l’ho mai visto…”.

“Questo perché se ne sta sempre sulle sue. Ma ti piacerà. È un Alto con le stelle fra i capelli, color della notte. Ha un bel viso, colorato come le ali di una farfalla, un corpo affusolato e la coda simile a quella di un pavone. I suoi occhi sono grandi e dolci, ama ballare ed ha una bella voce”.

“E allora perché è solo?”.

“Perché ha un caratteraccio come il tuo. E perché ha sempre voluto rimanere piuttosto isolato rispetto agli altri. Ma, data la situazione, sono riuscita a farlo uscire allo scoperto e mi ha detto di essere più che felice di conoscerti meglio. Sareste una bella coppia di creatori e…”.

“Vuoi farci sposare solo per poterci controllare entrambi. Ho sentito parlare di Raido. È stato tuo nemico in una guerra passata e tu lo hai messo in isolamento. Magari lo hai torturato, come hai fatto con me. Ed ora vuoi unirci in modo da poterci tenere sott’occhio entrambi, essendo io di scarso potere e lui a portata. In un bel palazzo come il mio, così facilmente identificabile… Sicuramente lo avrai minacciato… Farlo vivere in questo luogo, sotto lo sguardo di Nosmagiés e la tua presenza costante…”.

“Sei molto furbo” ridacchiò Momoia.

“Io non mi sposerò! E non avrò figli!”.

“Non hai ancora capito che mi devi obbedire e basta?!”.

“Non puoi obbligarmi!”.

“É per il bene della nostra specie!”.

“Me ne frego della TUA specie!”.

La Madre, alzandosi, lo colpì violentemente e con rabbia.

“Tu farai quello che io ti dico, piccola nullità! Ti sposerai al più presto ed, altrettanto velocemente, mi darai dei piccoli Alti!”.

Kasday cadde in terra e lì rimase, ringhiando sommessamente.

“Ti saprò dire quando si svolgerà la cerimonia” sbottò la Madre.

“Non dovrei conoscerlo?” azzardò lui.

“Non è necessario. Ora torna pure alle tue faccende”.

“Se voi mi lasciavate mio figlio…” iniziò Kasday, a testa bassa.

“Fa silenzio! Quello non era un bambino ma un abominio. Era giusto che bruciasse. Rassegnati, era quello il suo destino”.

“Io non avrò figli” disse l’Alto, scandendo bene ogni parola.

La Madre mostrò tutta la sua irritazione sollevando la cresta verde e gonfiando i capelli. La pelle smeraldo di tutto il suo corpo brillò, lanciando scintille. Afferrò saldamente per il collo il padrone di casa, sollevandolo con facilità.

“Tu creerai degli Alti. Te lo farò fare, al costo di renderti succube di tutti quanti noi!”.

Lo rigettò sul pavimento ed urlò: “Perché non capisci? Non sarai solo tu costretto a fare questo! Noi Alti siamo necessari per l’armonia degli Universi, perché non lo comprendi?! Non puoi ignorare la cosa, e lasciare che tutto vada in malora, perché a te non và di fare una cosa!”.

Kasday la guardò, con un’espressione persa sul viso. Momoia, capendo che colui che aveva di fronte aveva dei problemi mentali più seri del previsto, se ne andò. Passò attraverso il quadro con un sorriso, dopo aver riferito all’Alto che avrebbe conosciuto presto Raido. Kasday si accovacciò accanto al caminetto, asciugandosi il viso, bagnato da alcune gocce di magia azzurra fuoriuscita dal suo labbro spaccato. Nosmagiés aveva spiato tutta la conversazione fra i due e scese in fretta le scale. Chiamò il suo Signore, per assicurarsi che stesse bene.

“Che sfacciata quella Momoia…” disse l’angelo, a voce alta, in tono divertito “Viene qui, come se niente fosse, e vi ordina di sposarvi. E con chi, poi? Con questo Raido. Sarà un esaltato ed uno stronzo, esattamente come lei! Che avete intenzione di fare, Signore? Obbedirete o alzerete il dito medio?” il Messaggero ridacchiò ma non ricevette risposta.

“Signore?” chiamò di nuovo, andandogli vicino.

Kasday aveva lo sguardo perso nel vuoto. Parlava ma senza rivolgersi ad un interlocutore in particolare, con strani tic sul viso.

“Non avrà figli da me. Nessuna creatura da me” mormorava.

Nosmagiés gli si sedette accanto e gli passò una mano fra i capelli.

“State tranquillo, mio Sire, andrà tutto bene”.

L’Alto sospirò.

“Sapete una cosa?” domandò l’angelo.

“Beh, sì, Immagino di saperla una cosa…almeno una…” mormorò il Signore, inclinando la testa.

Il Messaggero non capì e continuò a parlare.

“L’angelo di Raido è mio fratello” disse, con entusiasmo.

“Davvero? Allora non può essere tanto male…” ironizzò Kasday, alzandosi “Non badare a me, Nosmagiés. Non ti devi preoccupare. Sto bene”.

Fece un sorriso. L’angelo capì che non era sincero.

“Andiamo. Torniamo ad occuparci della bambina” ordinò l’Alto, avviandosi lungo le scale.

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Capitolo 17
*** XVII- mondo angelico ***


XVII

 

MONDO ANGELICO

 

“Chàire, Gibrihel!” salutò l’Arcangelo Rahahel, con entusiasmo.

Camminava felice per le vie della capitale del Pianeta degli Angeli.

“Ma guarda un po’ chi c’è…Rahahel! Dov’eri finito? Eri sparito…che fine avevi fatto?” domandò Gibrihel, l’Arcangelo annunciatore.

“Sono stato malato” mentì Rahahel.

“L’Arcangelo guaritore malato?”.

“Capita…”.

“Eravamo tutti preoccupati!”.

“Non serviva. Mi dispiace. Puoi dire a tutti, Gibry, che ora sono qui e sto bene?”.

“Certo ma…le tue ali…”.

“Cos’hanno?”.

“Sono sempre più scure”.

“E allora?”.

“Prima l’aureola ed ora le ali…ma che combini, Rahahellino?”.

“Niente. Sta tranquillo. Sto bene”.

“Ed il tuo amico chi è?”.

Dietro Rahahel stava Luciherus, coperto da un mantello azzurro con il cappuccio. Non voleva farsi riconoscere.

“Lui?” iniziò a rispondere l’Arcangelo guaritore “Lui è un mio amico. Viene dalla parte opposta del Pianeta e vorrebbe vivere qui. Lo porto dai Serafini-capo affinché approvino il suo trasferimento”. “Capisco…” disse Gibrihel, avvicinandosi all’incappucciato “Da che città provieni?” chiese. Rahahel si mise fra i due.

“É molto timido. Avrete modo di parlare più tardi. Abbiamo un appuntamento!”.

“Ah…ora ho capito cosa ti è capitato!” sghignazzò l’annunciatore.

“Non pensare male, Gib! Lui è solo un mio amico!”.

“Lo spero, guaritore! Da caduto non sopravvivresti un giorno!”.

Luciherus non riuscì a trattenere una risatina divertita.

“Spiritosi! Tutti e due!…” brontolò Rahahel “…avanti…andiamo!!!” continuò, rivolto all’incappucciato.

Gibrihel li salutò e tornò ai suoi affari. Scriveva su un quaderno, probabilmente gli appunti delle prossime lezioni per i suoi allievi, e si allontanò.

“Sei bravo a raccontare balle” commentò Luciherus, non appena fu fuori dalla portata uditiva dell’Arcangelo annunciatore.

Rahahel non rispose.

“Era da tanto che non lo vedevo…” parlò di nuovo il demone incappucciato “…e non è cambiato, neanche un po’! Voi angeli vi fossilizzate! Rimanete sempre uguali…”.

“Perché avrebbe dovuto cambiare? È così carino…” ribatté Rahahel.

“Tu trovi tutti carini…”.

“Perché non togli il cappuccio, Lu? Tanto non ti riconoscono!”.

“Preferisco non rischiare”.

“Come vuoi…è un peccato, però!”.

I due iniziarono a salire i ripidissimi scalini che conducevano all’entrata del Tempio degli Angeli. Luciherus si sentiva a disagio. Non ripercorreva quella salita dalla notte in cui era stato maledetto e cacciato. Ci pensava raramente ma era inevitabile, dato il luogo in cui si trovava, e  provava il fortissimo desiderio di tornare a casa. Voleva ritrovarsi fra gli altri caduti al più presto e lasciarsi alle spalle ogni cosa. Incrociarono due angeli che avanzavano nel senso opposto.

Parlavano fra loro: “Hai visto? La Dea della Morte!” diceva uno.

“Sì! Che bello che voglia sposarsi qui! È un evento così raro in un Mondo come il nostro…” rispondeva l’altro.

Il Principe fece una smorfia: sua figlia si trovava già lì. Sbuffò. Si era reso conto di quanto lei fosse convinta di ciò che voleva fare.

“Che palle tutti questi scalini!” protestò.

“Sali e taci! Sempre a protestare!” rise Rahahel.

“Non posso volare? Io non mi devo purificare!” sibilò Luciherus.

“Tu ti devi purificare più di me!” esclamò l’Arcangelo biondo, cominciando ad arrancare lungo le scale.

“Non credo proprio!” gli rispose il demone, superandolo e giungendo all’ingresso per primo.

Fu quasi tentato di girarsi e sfottere un po’ il piumato, ma resistette. Non voleva dare nell’occhio.

Da dentro il Tempio si udivano canti di ovazione ed il Principe rabbrividì. Si chiese perché si trovasse lì. Esitava, non essendo sicuro di voler entrare. Ma poi, fra il coro di angeli, si udì chiaramente la voce della Dea della Morte. Si sentirono la sua risata e le sue parole.

Incoraggiato da questo, Luciherus aprì la porta ed entrò, seguito da Rahahel. Si incamminarono lungo il corridoio mentre alcuni riconobbero l’Arcangelo guaritore e lo salutarono.

“Dove sei stato? Ragazzi, c’è Rahahel! È tornato!” disse, felice, un Cherubino.

“Sono stato malato” rispose l’Arcangelo piccolo e gracile.

“Ma come? Con la tua esperienza…”.

“É tutta una questione di fortuna…come con le medicine!” si giustificò il guaritore.

“Intendi dire che curi a culo? Che fiducia che hai in te stesso…” gli sussurrò l’incappucciato. “Funziona così! Secondo me, se uno non deve guarire, non guarisce! Posso provare a curarlo in tutti i modi, ma non lo salverò” affermò, sicuro, il guaritore.

Luciherus scosse il capo, ridendo in modo strano.

La luce nel Tempio era fortissima ed il caduto stringeva gli occhi, infastidito.

“Togliti il cappuccio, o gli anziani ci buttano fuori!” lo ammonì Rahahel.

“Siete delle lagne…” brontolò il Principe.

“Siamo angeli!”.

“Appunto!”.

“Togliti il cappuccio!”.

“Palle…che noia!” sbuffò il Principe.

Se pur di malavoglia, Luciherus scoprì il viso. Liberò i capelli, lisci e lucenti, e tolse il mantello. Scosse le ali da Arcangelo, dorate e le più luminose fra tutti i presenti. Le due altre ali, da demone, le aveva rese minuscole e non si notavano. Aprì gli occhi, enormi e meravigliosi, osservando il Tempio con nostalgia. Con  passi leggeri, continuò a camminare accanto a Rahahel.

Nel palazzo era sceso il silenzio.

“Io l’avevo detto che non era una buona idea” sussurrò il Principe.

“Non ti hanno riconosciuto ma sono rimasti senza parole…sei sempre il più bello fra tutti noi!”. “Ovvio!”.

Luciherus si specchiò, sfruttando le pareti riflettenti, e fece una smorfia. Non si sentiva a suo agio in quel corpo di Arcangelo. I due si avvicinarono alla statua di Kasday, posta in fondo ed al centro della navata principale, in prossimità dell’altare. Il Principe guardò con orgoglio il proprio simbolo brillare su una delle mani della scultura. Poi sopirò, osservando il volto di Kasday. Era rimasto quello dell’Equilibrio.

Chissà come sei ora…pensò Luciherus. Ah, Kasday! Mi lasci qui da solo mentre nostra figlia sta per fare la più grande cazzata della sua vita!

In quel luogo, le voci e le preghiere, che il Dio della Forza e del Coraggio percepiva, erano più forti ed a lui dava fastidio. Lo irritava.

“Devo farci l’abitudine…” mormorò.

Le candele accese, poste tutt’attorno alla stanza, allungarono le loro fiamme verso Luciherus, che le guardò male.

“Sembra che tu voglia ucciderle quelle candele…cerca di avere un’espressione più angelica!” lo rimproverò Rahahel.

“Così?” rispose il caduto, mostrando la sua espressione più dolce.

I suoi occhi brillavano ed erano davvero enormi, con le pupille simili a piccole Lune piene. L’Arcangelo guaritore, visibilmente turbato, si allontanò, andando a parlare con il gruppetto di creature angeliche che volevano sapere che fine avesse fatto. Luciherus tornò a guardare la statua, con evidente nostalgia. Osservava quel volto con attenzione e supplica. Ad un tratto, fu colto da un improvviso capogiro e solo la presa salda di un braccio sconosciuto gli impedì di cadere in terra violentemente.

“Tutto bene?” si sentì chiedere.

“Sì…sto bene”.

Il Principe incrociò lo sguardo del suo aiutante.

“Mihael…” mormorò.

“Sì. Sono io. Ci conosciamo?”.

Il caduto si liberò dalla sua presa e si sedette sui tre scalini che separavano il corridoio dall’altare. Girò il viso, cercando di non farsi riconoscere.

“Sei uno straniero?” domandò l’Arcangelo guerriero “Non mi sembra di averti mai visto…”.

Il Principe non rispose. E Mihael ricominciò a parlare: “Non è raro sentirsi male in un luogo come questo. Trasmette forti emozioni. Non ti preoccupare. Stai meglio adesso?”.

Luciherus annuì.

“Ti sei fatto male? Perché ti tieni il viso?” domandò il guerriero, girando attorno al più bello. L’Arcangelo con l’armatura si inginocchiò ed afferrò i polsi di Luciherus, togliendogli le mani dal volto.

“Stai bene davvero? Sei un po’ pallido…ma nessun graffio! Dai…prova ad alzarti, straniero! Come ti chiami?”.

Non mi riconosci? Si chiese il caduto. Mihael…non mi riconosci? Mi guardi in faccia e non sai chi sono? Non ricordi com’ero? Non ricordi…il tuo più grande nemico? Il tuo..gemello? Ci rimase un po’ male. Rahahel, intanto, si era avvicinato e osservava il Principe con apprensione.

“Che ti succede?” chiese.

“É tuo amico?” volle sapere Mihael.

“Sì”.

“Sembra simpatico, ma di poche parole! Timido?”.

“Un po’, Miky. Ma sta imparando…in realtà è molto coraggioso!”.

“Bene. Ora, scusatemi, ma devo andare. Gli anziani mi hanno chiamato…ci vediamo dopo!”. L’Arcangelo guerriero si allontanò. Luciherus fissò la sua spada nel fodero. Faceva uno strano rumore, battendo contro l’armatura. Il caduto si chiese perché fosse sempre in assetto da guerra. L’Arcangelo guaritore si sedette accanto al più bello, che si guardava i piedi con la testa appoggiata fra l’incrocio delle sue braccia sulle ginocchia.

“Amico! Che mi combini?! Tutto bene? Cos’è successo…l’emozione?”.

“L’influenza” biascicò il Principe.

“Macché l’influenza! Non hai la febbre! Stai benissimo”.

“Talmente bene che non sto in piedi…dov’è mia figlia?”.

“Dovrebbe uscire adesso dalla sala dei Serafini”.

Luciherus chiuse gli occhi.

“Piantala di toccarmi!” sibilò a Rahahel che gli stava accarezzando i capelli.

“Come vuoi! Antipatico!”.

“Non sono antipatico!”

“Certo che lo sei! Sei proprio odioso!”.

 Il Principe fece un mezzo sorriso e ringraziò. L’Arcangelo non capì e scosse il capo.

Il caduto tornò a perdersi nei suoi pensieri. Guardò la statua, alzando gli occhi, con speranza. Fissando il suo riflesso, si vedeva molto diverso da ciò che era in realtà. Si sentiva spogliato di ogni cosa e sofferente, mostrando il suo corpo martoriato e segnato da numerose cicatrici. Pur vedendo un Arcangelo nello specchio, non poteva fare a meno di sentire le sue corna, in realtà celate, sulla fronte e la coda.

Perché spero? Si chiese. Ciò che avevo l’ho perso o sto per perderlo…in  che cosa devo sperare? La voce di Luciheday lo fece trasalire.

“É meraviglioso!” diceva Camahel, l’Arcangelo dell’amore puro, alla coppia di divinità che si tenevano a braccetto. Quasi cinguettava di felicità nel vederli e nell’apprendere la notizia dell’imminente matrimonio. “É meraviglioso che vuoi due abbiate deciso di sposarvi qui. Ed io sono davvero felice di potervi assistere!”.

“Sei molto gentile” disse la Dea della Morte.

“Ma…” chiese l’Arcangelo, dubbioso”…come la mettiamo con tuo padre? Luciherus non verrà mai qui, su questo Pianeta”.

“Mio padre non vuole avere niente a che fare con questo matrimonio…perciò non fa differenza”.

Si notava chiaramente, nello sguardo della Dea, una nota di tristezza.

“É un peccato che non  possa essere presente in un giorno così importante” continuò Camahel.

“É una scelta sua! Continua a ripetere che commetto un errore. Preferisci vedermi salire all’altare di un altro Mondo, con lui che brontola tutto il tempo?”.

Lei ruotò gli occhi, frustrata, e si guardò attorno. Incrociò lo sguardo del Principe ma non lo riconobbe.

Nemmeno mia figlia sa chi sono…ora capisco la frustrazione di Kasday si disse il caduto.

“Noi vorremmo averlo con noi…” parlò il Dio della Vita “…ma lui è testardo e non vuole saperne!”.

“Cerca di comprenderlo, caro” lo rimproverò Luciheday “Ha solo me!”.

“Ha tutto un Pianeta! Un intero regno al suo comando!” sbottò il Dio.

“Sì. Ma solo io gli voglio bene! E lui non vuole perdere questo”.

“Che discorsi…”.

“Volere bene a Luciherus dev’essere una cosa piuttosto complicata…” commentò Camahel.

“Non è vero!” esclamò Luciheday.

“E chi vi dice che lui voglia avere qualcuno che gli voglia bene?” domandò uno dei Serafini-capo, sulla soglia della loro sala privata.

“Rifletteteci!” continuò il Serafino “É un demone!”.

“E allora?! Cosa state cercando di insinuare?” chiese la Dea, accigliata.

“Insinuo che è un demone. Ergo: i demoni non vogliono bene a nessuno!”.

“Stronzate!” sibilò lei.

“Giusto. Sono creature cattive!” furono le parole di Camahel.

“Un demone si può solo odiare!” affermò il capo.

“Ma noi non lo odiamo. Non possiamo” parlò l’Arcangelo dell’amore puro.

“La sua incapacità di amare è una giusta punizione” asserì il Serafino “E mi auguro che ripensi spesso a com’era. Lui, il più bello e lucente di tutti noi, ora solo ed abbandonato anche dalla sua stessa figlia”.

Luciherus, rimasto seduto, poteva udire ogni parola.

“Me lo auguro proprio che ci pensi!” terminò il piumato.

“Tutti i giorni…” sussurrò il Principe, ferito dalle parole della propria figlia più che dal resto.

Trovò rassicurante il fatto che il suo corpo d’Arcangelo fosse in grado di piangere.

Abbandonato? Dalla mia bambina?

“Perché vuoi portarmela via? Perché non vuoi che resti che con me?” mormorò ancora “Kasday… Ma che devo fare? Non posso lasciarla andare!”.

Le candele parevano rispondergli, avvicinando ad allungando la loro fiamma, come a rassicurarlo. Si alzò, lentamente, guardando il Dio della Vita.

“Devo essere più Arcangelo…devo accettare la cosa!” si disse “Mia figlia non cambierà idea…tanto vale che me ne faccia una ragione! Non è poi la fine del mondo…”.

“Devi andare da lei e dirle ciò che pensi!” lo incito Rahahel, rimastogli accanto.

“No, ti sbagli, guaritore. Quello che devo fare è l’esatto opposto. Devo restare qui e lasciarla andare”.

Guardò sua figlia con un sorriso. Com’era bella con la sua pelle d’ebano, gli occhi azzurri ed i capelli fumosi ed agitati. Emetteva quella splendida luce rossa, così simile alla sua…

“É un piacere vedere che la figlia è così diversa dal padre” si compiacque uno dei Serafini. “Meno testarda e più aperta…”.

“La Morte è uguale per tutti…non lo sa? E, ad ogni modo, mio padre non è così terribile come lo descrivete”.

“Magari non con te! Ma ha sempre avuto qualcosa di strano, fin da bambino. Con quei capelli dritti come spaghetti, la faccia a punta e gli occhi maligni…per non parlare del suo caratterino!”.

“Oserei definirlo pessimo!” ridacchiò Camahel.

“Siete ingiusti!” protestò Rahahel “Ha solo scelto un diverso modo di vivere! Non è l’unico che ha preso una decisone simile!”.

“Gli altri lo hanno seguito come degli imbecilli. Era lui il capo. Dava gli ordini e veniva obbedito dai peggiori di noi”.

“Evidentemente era l’unico con del cervello” sibilò Luciherus, sorridendo malignamente.

I capelli scuri gli coprivano buona parte del viso. “Era l’unico che fosse in grado di pensare e tutti quelli che ne erano, anche solo a malapena, consapevoli, lo hanno seguito. Gli altri, i decerebrati, sono rimasti qui!”.

“Come scusa?” si indispettì uno dei capi.

“Come ti permetti? Chi sei tu, per poter parlare in questo modo?”.

“Il fantasma dei Natali passati!” sibilò il caduto.

“Scusatelo!” si intromise Rahahel “É un po’ confuso dopo il lungo viaggio che ha affrontato e…”. “Da dove vieni?” domandò l’anziano Serafino.

“Dai tuoi peggiori incubi!” fu la risposta.

Scansando un ciuffo di capelli con un cenno del capo, il Principe mostrò i suoi occhi arancio.

Erano tornati sottili e minacciosi, demoniaci, come sempre.

“Un demone!” trasalì Camahel.

“Un ibrido…ha le ali piumate!” lo corresse un Cherubino.

Tutti i presenti al Tempio si erano fermati a guardarlo.

“Che roba sei, tu, abominio?” tuonò un Serafino.

Luciherus ridacchiò. Mihael, allarmato dalle grida e dalle esclamazioni, uscì dalla stanza della cupola e brandì la spada. Individuò subito l’intruso.

“Demone…” sibilò a bassa voce e con tono minaccioso.

Spalancò le ali e fece per piombare sul caduto. Ma Luciherus lo vide. Sentì quanto quell’Arcangelo fosse pieno di energia ed allungò un braccio nella sua direzione. Con il palmo aperto, il più bello pronunciò poche parole, togliendo le forze al guerriero. Rise. Era il Dio della Forza e, ovviamente, poteva donarla così come poteva toglierla. Mihael, sentendosi sfinito, non riuscì più a volare e cadde a terra, fra lo stupore generale.

“Ma come? Mihael, il nostro guerriero più forte…”.

“Scusami, Mikino! Non volevo farti così tanto male…” mentì Luciherus.

“Nemmeno mia madre mi chiamava Mikino! Cosa credi…che possa lasciare che tu lo faccia, straniero?!”.

“Ti sbagli. Mamma ti chiamava sempre Mikino. Non ricordi nemmeno questo?” ridacchiò il Principe, porgendogli la mano per farlo rialzare.

“Ma tu chi cazzo sei?” ringhiò il guerriero.

“Che linguaggio forbito…ma come? Non sai chi sono? Non riconosci nemmeno il tuo gemello?”. “Luciherus?”.

“Mihael…”.

“Fratello mio”.

I due si presero per mano ed il Principe rimise in piedi il guerriero, tornandogli parte della forza vitale, seppur di controvoglia.

“Cosa ti è successo?” domandò Mihael.

“A cosa ti riferisci?” sogghignò il Principe “É da davvero tanto che non ci vediamo. Dunque.. vediamo..che mi è successo?! Ho cambiato i mobili, ho fatto ridipingere casa, ho quasi sodomizzato Rahahel e…che altro…sono diventato un Dio…”.

“Come?!” interruppe l’Arcangelo in armatura.

Luciherus si passò la lingua sulle labbra, con evidente compiacimento.

“Sei geloso? Invidioso? Dovresti essere felice…il tuo gemellino è una divinità!”.

“E le ali…il tuo aspetto? Fanno parte della tua…deità?”.

“No. Sono un regalo di Kasday. È facile rimediarci”.

Il caduto tornò al suo solito aspetto, con le corna, la coda e le ali nere. Le dorate e piumati appendici da Arcangelo si fecero molto piccole ed impercettibili fra le membrane da pipistrello.

“Mihael…” iniziò.

Ma l’Arcangelo non lo fece parlare: “Non capisco come sia possibile. Battermi così…”.

“Mihael…”.

“…dopotutto sono sempre l’Arcangelo guerriero! Non è ammissibile che…”.

“Mihael!!”.

“…tu mi sconfigga! Non so come davvero come giustificarlo…”.

“Mihael! Guardami!”.

Il demone mostrò il simbolo che portava sulla fronte.

“Sono il Dio della Forza. Non potrai più sconfiggermi. A meno che tu non diventi una divinità ma…non credo possa accadere!”.

Molti dei presenti, vedendo il simbolo, si inchinarono con  riverenza.

“Che soddisfazione!” ghignò Luciherus “Il sogno di una vita che si avvera! Gli angeli prostrati ai miei piedi!”. Rise malignamente.

“Tu giochi con il fuoco!” commentò un Serafino.

“Dici?”.

Di tutta risposta, il caduto afferrò, con  noncuranza, un paio delle fiammelle delle candele poste accanto a lui. Ci giocherellò un po’. Soffiandoci sopra ne ampliava la potenza.

“Sei un mostro! E solo un pazzo darebbe il potere divino ad un essere come te!” gemette il piumato. “Mostro?!” ringhiò il demone.

Soffiò con decisione sul fuoco e questo si diresse verso il Serafino a sei ali, che non riuscì a schivarlo. La creatura angelica urlò, mentre le fiamme lo avvolgevano.

“Portami un po’ di rispetto, ora che sono un tuo superiore, piumino per la polvere!”.

Il Serafino cadde in ginocchio, lamentandosi.

“Così va meglio…” malignamente commentò Luciherus.

“Papà!” intervenne la Dea della Morte “Papà, che fai?! Un Dio non…”.

Con un gesto della mano, il Dio della Forza estinse il piccolo incendio ed il Serafino ebbe salva la vita.

“Figlia mia…io sono qui perché Rahahel era troppo codardo per tornare da solo ma anche perché…volevo parlarti”.

“Parla” rispose lei, seria.

“Non ci riesco. Ho tentato di seguire il consiglio di Vereheveil, lui mi aveva detto di essere più Arcangelo, ma le cose non cambiano. Immagino che nulla possa convincerti a non sposarti perciò..sono qui per dirti che sono felice. Felice che tu compia questo passo importante, passo che io, Dio del Coraggio, non ho avuto il…coraggio di compiere! Mi auguro davvero che non  sia un errore e che tu possa essere veramente felice. Perché è questo quello che meriti: l’eterna felicità. So quanto sia difficile con un padre come me…”.

“Parli troppo, papà!” lo fermò lei, abbracciandolo “Ti voglio bene e sta tranquillo! Io sarò sempre accanto a te!”.

“Ne dubito fortemente, piccola mia, ma è tempo che i vecchi come me accettino il fatto che i piccoli, prima o poi, lasciano il nido”.

Dopo qualche istante di silenzio, lei sciolse l’abbraccio.

“Sai, papà…dicono che anche Kasday si sposerà”.

“Davvero?” esclamarono, in coro, Luciherus, Camahel e molti dei presenti.

“Sì. Con una delle divinità Alte”.

“Ci è costretta!” esclamò Luciherus, ricordando l’Alto nel suo aspetto femminile.

“Non ne ho idea…” fece lei, convinta che fosse una domanda o un dubbio.

“Ne è costretta. Ne sono sicuro! L’ho vista da poco e non aveva di certo l’aria di una futura sposa, o sposo, che dir si voglia!”.

“Questa è solo una tua idea, papà! Dopotutto, non sei contento che si rifaccia una vita?”.

Luciherus annuì, con un’espressione poco convinta.

“Devo andare, piccola mia. Dalle mie parti non tira una buona aria. Ti auguro tanta serenità e gioia. Ed ogni altra cosa che si augura in questi casi…non ne ho una grande esperienza…”.

La Dea, stupita dall’improvvisa freddezza del padre, notò come si fosse rabbuiato e non disse niente. Il demone  tornò nel suo regno aprendo un portale, usando i suoi poteri divini, e sparì.

 

“Non sapevo che foste gemelli…” disse Rahahel, quando tutti i presenti tornarono a rilassarsi un po’.  Mihael sorrise.

“In realtà si vede. Abbiamo un carattere molto simile ed alcune abilità in comune. Ma c’è una differenza sostanziale…”.

“Oltre al fatto che avete capelli ed occhi diversi?” ridacchiò il guaritore.

“Oltre a questo…siamo diversi nell’animo. Io non sono così inquieto. Ad ogni modo…cosa ci facevi tu con lui?”.

“Non sono affari tuoi! Ho avuti dei problemi…”.

“Come vuoi ma, se posso, ti do un consiglio: sta molto attento. Non rinunciare all’immortalità come ha fatto Urihel e non lasciare che le tue ali si scuriscano ulteriormente. Non diventare uno strano ibrido senza né pace né dimora. Non costringermi ad essere tuo nemico”.

“Sì, Sì…” tagliò corto Rahahel “…starò attento!”.

Il guaritore ripercorse la navata principale a ritroso, dopo aver fatto un inchino davanti alla statua di Kasday, ed uscì dall’immenso Tempio bianco. Mihael toccò l’elsa d’oro della sua spada e guardò a sua volta la statua, chiedendosi quale divinità folle avesse architettato tutto quello che stava accadendo. Alcuni angeli piansero, soffrendo per la crudeltà di colui, o colei, che aveva donato tanto potere al Principe dei Demoni.

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Capitolo 18
*** XVIII- madre celeste ***


XVIII

 

MADRE CELESTE

 

Kasday guardava il tramonto, con aria assorta. Canticchiava, guardando verso l’alto. Voleva evocare la madre della bambina, ma la cosa era più difficile del previsto. Usando la visualizzazione non riusciva ad individuarla. Non la trovava, tanto era schermata e protetta. Camminava, nervosamente, a destra ed a sinistra, sbuffando. Avrebbe dovuto usare un sacco di magia per richiamarla in quel Mondo…e non gli piaceva molto restare “a secco”.

La piccola lo osservava.

“Quando arriva la mia mamma?” volle sapere.

“Un attimo! Mi ci vuole del tempo…non è così semplice!” sbottò l’Alto.

Nosmagiés ondeggiava la testa di qua e di là, al ritmo della musica che sentiva nelle cuffie.

Aveva raccolto i capelli in una crocchia voluminosa e salì perfino sul tavolo, ballando, convinto di non essere visto. In realtà il suo Signore lo vedeva benissimo, attraverso la finestra.

Kasday ridacchiò e lo lasciò alle sue danze.

Come posso portarla qui senza che Momoia se ne accorga? Si chiedeva l’Alto Come potrò proteggerle entrambe? Quella pazza mi distruggerebbe se sapesse…

Stava quasi per rinunciare quando la Celeste lo guardò, con occhi pieni di speranza e nostalgia per la mamma lontana. Kasday sospirò, rassegnato. Stava calando la notte. Le stelle iniziavano a brillare nel cielo. Tutti i pianeti, le luci ed i Soli dall’Alto creati gli parevano, ora più che mai, lontani e quasi estranei. Aprì le braccia, alzando la testa verso l’infinito buio della notte, ed iniziò a cantare.

La bambina sorrise. “Posso cantare anch’io?” chiese.

Kasday annuì. La piccola si mise nella sua stessa posizione e ripeté tutte le parole che era in grado di riconoscere.

“Come si chiama la tua mamma?” domandò il Signore.

“Deyan”.

Kasday iniziò a ripetere quel nome, Deyan, sempre più forte, finché nel cielo si poté scorgere una luce in via d’espansione. Sempre più forte e ampia, la luce divenne un immenso vortice.

“Chiama anche tu la tua mamma, piccola!”.

Pure la bambina gridò: Deyan. La luminosità si fece sempre più intensa, così come il bagliore emesso dalla pelle di Kasday. D’un tratto si sentì un urlo ed una donna precipitò dal vortice, cadendo fra le braccia dell’Alto. Lui la afferrò saldamente. Nosmagiés, che era uscito in cortile non riuscendo a vincere la curiosità, afferrò l’altra figura che uscì dalla luce. Era un’angiolessa. Una Messaggera, lo si capiva dalle ali d’argento. L’angelo, alquanto stupito, la guardò. Era priva di sensi e molto magra.

La creatura fra le braccia di Kasday era spaventata ma poi si calmò e sorrise. “Lo sapevo che ci avresti aiutate…” sussurrò.

“Cosa vi è successo?” chiese l’Alto, ma lei chiuse gli occhi, addormentata.

Non aveva un bell’aspetto. Sembrava che fosse appena stata torturata e maltrattata.

“Hai l’aria di chi ne ha passate fin troppe…”.

“Mamma!” esclamò la bambina e l’Alto le fece segno di abbassar la voce.

“Mamma ora dorme. Aprimi le porte che la porto in una camera” si girò verso Nosmagiés “Riesci a portare di sopra la Messaggera, mio angelo?”.

“Sì, tranquillo!”.

“Mettiamole in due stanze separate, così non si preoccuperanno inutilmente vedendosi malandate”. Il Messaggero obbedì. Portò la creatura in una piccola stanza, facile da scaldare. Aprì il semplice armadio a muro, unico arredamento assieme al letto ed alla sedia, usando le maniglie placcate in oro. Il legno del mobile scricchiolò aprendosi. L’angelo ne estrasse delle coperte di cotone e lino, di vari colori. Avvolse con cura il corpo della Messaggera, che era infreddolita. Si vedeva che necessitava di cure e che non mangiava da tempo. Quando Nosmagiés si convinse che era sufficientemente coperta, uscì per cercare qualcosa con cui nutrirla e farla star meglio.

“Signore!” chiamò “Credo che ad entrambe farebbe bene poter avere qualcosa di caldo per sfamarsi”.

“Ci penso io” rispose il Padrone, da dentro una camera “Sta tranquillo!”.

L’angelo rientrò nella stanza e si soffermò ad osservare la Messaggera addormentata. Aveva i capelli molto mossi, di un bel verde smeraldo, leggermente screziati di blu. Le ali d’argento avevano molte piume fuori posto, quello era il primo segno, in un angelo, che qualcosa non andava perché indicavano problemi di salute o altro. Nemmeno lei aveva più l’aureola.

Kasday entrò nella camera, con un vassoio in mano.

“Come sta?” domandò, sottovoce.

“Credo che abbia un po’ di febbre ed ha bisogno di mangiare. La madre della bimba?”.

“Dorme. Vedremo quando si sveglierà. Non mi sembra ferita, ma solo stanca e spaventata”.

L’Alto appoggiò il vassoio sulla sedia ed uscì, con un cenno del capo. Il messaggero prese la teiera d’acqua bollente appoggiata su di esso. Versò il contenuto nella tazza azzurra, con una piccola busta sul fondo, sprigionando una piacevole fragranza fruttata. Il messaggero la annusò, leccandosi le labbra. Mescolò con cura, con un cucchiaino decorato. Poi sollevò il tappo che copriva parte del vassoio e sbirciò sotto, ammirandone il contenuto. C’era una zuppa con del pane, leggermente tostato, con formaggio ed altre strane cose. L’angelo versò una polvere nel tè, un ricostituente che anche lui usava, specie quando il suo Padrone non chiudeva occhio e rompeva.

Lei, sentendo profumo di cibo, si svegliò. Aprì gli occhi, rossi come il rubino, incrociando quelli verdi di giada dell’angelo.

“Vi siete svegliata?” mormorò l’angelo.

“Dov’è la mia Signora?” chiese lei, per prima cosa.

“É in un’altra stanza, con  il padrone di casa. È in buone mani, tranquilla!”.

“Sta bene?”.

“Sì. Sta riposando”.

La Messaggera parve subito più rilassata.

“Lei lo aveva detto che voi sarete stato in grado di aiutarci!”.

“Cosa è successo?”.

“É una storia lunga e complicata…”.

“Allora prima mangiate, prego! Io sono Nosmagiés…”.

“Yeleàn, piacere! Dammi del tu!”.

Lei addentò un pezzo di pane, bofonchiando che era molto buono.

“Yeleàn? È un bel nome…”.

“É la prima cosa che mangio dopo tanto tempo…”.

“Vi hanno tenuto rinchiuse?”.

“Sì”.

“Ma la tua Signora non ha bisogno di mangiare…tu sì!”.

“Già…è vero!”.

“Ma le sei rimasta accanto comunque…”.

“Lei voleva che me ne andassi, ma io sono rimasta”.

“Potevi morire!”.

“Già”.

“Perché rischiare tanto?”.

Lei lo guardò, meravigliata: “Non sei anche tu un Messaggero?!”.

“Sì, certo! Ma il mio contratto non prevede la fedeltà fino alla morte!”.

“Non ami il tuo Signore?”.

Nosmagiés si stupì molto nell’udire quella domanda.

“Certo. È il motivo per cui ho perso l’aureola”.

“E allora…non serviresti il tuo amore fino alla fine?” mormorò lei, finendo il tè.

“Sì…ma…”.

“Allora perché trovi così strano che io abbia fatto una cosa simile?”.

“Perché l’amore fra Messaggero e padrone è proibito. E quindi…pensavo fosse una cosa solo da me provata e ci tenevo a tenerlo nascosto”.

 “Non l’hai mai detto?” esclamò lei, spalancando gli occhi.

“Cosa?”.

“Quello che provi al tuo Signore!”.

“No! Certo che no!”.

“Sbagli. Se il tuo Signore lo sa, poi diventa tutto più semplice, credimi!”.

“La tua signora lo sa?! È fuori discussione che io glielo dica! E poi…sta per sposarsi!”.

“Anche la mia Signora era sposata. Questo non ha cambiato le cose. Il matrimonio, nella maggior parte dei casi, poco ha a che fare con l’amore”.

“Squallido…”.

“Stupido. Ma è così. Del resto…capita!”.

“Non voglio parlarne, scusami!” mugugnò Nosmagiés.

“Come vuoi. Sei molto carino…non dovresti struggerti per una cosa così!”.

 

“Dov’è la mia Messaggera?” chiese Deyan, aprendo gli occhi.

“Al sicuro” le rispose Kasday.

“É una piccola stupida!” esclamò lei “Le avevo ordinato di andarsene, assieme a mia figlia, ma non mi ha obbedito. Volevo evitasse torture inutili ma lei, scema, è rimasta con me!”.

“Non dare una colpa, o insultare, chi non c’è. E, comunque, lei ti serve e ti ama”.

“Già. Amare è il grosso problema degli Angeli…”.

Deyan guardava il soffitto, mentre Kasday girellava per la stanza.

“Portate un anello al dito…” disse lui, ad un tratto “…non è, forse, anche questo un simbolo d’amore? Non è un problema…”.

“Lo era. La creatura che amavo è morta”.

“Mi dispiace…” sussurrò l’Alto, aprendo le tende e guardando il cielo.

“Lo immagino…” sibilò lei “La creatura che amavo era Sowelo”.

Kasday trasalì nel sentire quel nome.

“Non sapevo che fosse…” farfugliò, confuso.

“…una persona sposata?” finì Deyan “Lo era, invece. Tu sei stato…un amante molto speciale”.

Lui rimase in silenzio e lei sorrise.

“Non sentirti in imbarazzo!” rise la Celeste “Io ho capito subito cosa mi nascondeva…e non ho fatto nulla. Vedevo che era molto più felice quando tornava da te”.

“Mi dispiace…” tentò di dire l’Alto.

“No, a me spiace. Mi spiace che tu lo abbia saputo così. Credevo che te ne avesse parlato, o perlomeno accennato! Ad ogni modo, è grazie a voi che ora sono salva, assieme alla mia bambina”. “Che intendete?”.

La Celeste si alzò dal suo giaciglio. Portava i capelli sciolti, lunghi fino alla metà della schiena, bianchi come il latte.

“Sowelo mi ha parlato tanto di te. Così, quando sono stata in difficoltà, ho capito che avresti potuto aiutarci”.

Sbatté gli occhi, magenta.

“Anche voi avete tre occhi…” notò l’Alto.

“Sì. Ma il terzo non lo apro mai. È azzurro, come i tuoi!”.

Lei sorrise e Kasday chiuse, per un attimo, il terzo occhio che aveva sulla fronte, dall’iride magenta. “Mi parli di Sowelo, per favore” domandò lui.

“Dammi del tu. Siamo colleghi. Ad ogni modo…so che con te prediligeva mostrarsi come donna. Che strano…però, immagino, che se tu fossi fra i Celesti, faresti la stessa cosa”.

“Ne dubito. Gli Alti preferiscono il mio lato femminile. Perciò, in un Mondo parallelo ed opposto, dovrei essere più apprezzato come maschio”.

“Sowelo era una creatura molto buona…e ingenua”.

“É il padre della bambina?”.

“Sì”.

“Ha la stessa età che avrebbe dovuto avere il nostro piccolo…” sussurrò Kasday, con lo sguardo assente.

“Mi dispiace” disse lei, inclinando la testa.

“No. A me dispiace! Non sapevo di aver creato una vedova ed un’orfana”.

“Non è stata colpa tua…”.

“Sapevamo che era sbagliato. È per la bambina che eravate rinchiusa in quella torre?”.

“No. A noi nulla vieta di fare figli. Ero prigioniera a causa del marito di Momoia”.

“In che modo la cosa dovrebbe riguardarti?”.

“Dicono che sia stata io ad ucciderlo”.

“Non si sa se è morto…”.

“Suvvia…il suo potere è sparito!”.

L’Alto non aprì bocca, non poteva negarlo.

“Dicono che io sia la causa della guerra” mormorò di nuovo lei.

“Ma non è vero!” protestò Kasday.

“Chi c’è a darne prova? Chi testimonierebbe a mio favore?”.

Di nuovo lui rimase in silenzio.

“Cosa ti hanno fatto?” domandò l’Alto, guardandola.

“Mi hanno rinchiuso in quella torre, con la mia bambina e la mia Messaggera, senza nessun contatto esterno salvo la presenza sporadica del mio capo. Il Padre dei Celesti, da quando ha sospettato di me, non ha fatto altro che tormentarmi. Dicevano tutti che ero dalla vostra parte e che era mia la colpa se la Madre del nostro gruppo è sparita. Ma io sono estranea alla faccenda. Come avrei potuto ucciderla o schermarla?! Il suo potere è sempre stato di molto superiore al mio!”.

“E questo che t’accusa non l’ha capito?”.

“Nessuno di loro l’ha preso in considerazione…”.

“Consolati, Deyan. Io vengo trattato come uno scartino perché la mia energia magica è troppo scarsa”.

“Sei fortunato”.

Kasday sospirò: “No. Se fossi stato in grado di usare una maggiore quantità di forze, avrei potuto salvare mio figlio…”.

“Avevi solo lui?”.

“No. Ho altre creature. Ma sono tutte lontane da me”.

Lei girò le gambe ed appoggiò i piedi sul pavimento. La gamba di destra era di metallo e pietra, quella di sinistra di vetro: l’opposto di Kasday. Su entrambe scorrevano riccioli di magia dorata. “Io sono Deyan. Il mio nome significa: occhi del destino” cominciò a parlare “Sono la figlia del Dio del Destino e della Dea del Kaos. Ho avuto un figlio con il Principe del regno degli Angeli ed altre creature le ho generate con  la Dea delle Letterature. Ho rinunciato alla possibilità di divenire una Celeste alla nascita dei miei gemelli: il Kaos e la piccola Destino. Poi loro sono cresciuti ed hanno adempiuto ai loro compiti, rompendo l’equilibrio. Solo allora sono divenuta una Celeste ed ho conosciuto Sowelo, concependo mia figlia. La storia ti risulta familiare…immagino…”. “Assolutamente” disse lui “Ma la cosa non  mi stupisce. Gli Alti ed i Celesti vivono in diversi Universi ma molto simili, quasi paralleli”.

“Direi opposti”.

“Maschi corrispondono a femmine e viceversa…dev’essere divertente farli incontrare. Anche le nostre scelte sono state diverse. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se io non fossi divenuto un Alto, il giorno della nascita dei gemelli…”.

“Non sarebbe cambiato nulla”.

“Come hai salvato tua figlia? Come l’hai mandata a me?”.

“Momoia spiava suo figlio, perciò, inevitabilmente, sapeva tutto anche di me e della piccola. Hanno avuto pietà della mia creatura, specie dopo che lui si è tolto la vita”.

“Perché gli Universi sono così semplici, sotto certi punti di vista, ma assurdi fra quelli degli Alti ed i Celesti?!”.

“Che domanda è?! E, comunque, immagino ci sia qualcuno al di sopra”.

“C’è sempre qualcuno al di sopra. Che si diverte un sacco, a mio avviso!”.

“Ci dicevano che quando un Dio era stanco di lavorare diveniva un Alto o un Celeste, ma non è così. Quindi ci deve essere per forza un posto per gli Dèi ed i mortali dove, una volta terminata la loro vita e la loro voglia di esistere, possano stare. Magari in attesa di una nuova vita o redenzione”. “Non so quanto sperarlo…” ammise Kasday.

I due si osservarono circospetti. In silenzio, fino a quando non  si udì bussare alla porta.

“Signore?”.

Era Nosmagiés, che chiedeva di entrare.

“Entra pure, mio angelo” gli disse l’Alto.

“Signore, c’è un tizio di là, che non ha voluto identificarsi, e che vuole parlare con lei”.

“Lei inteso come me o lei nel senso di lei?” chiese il padrone, indicando la Celeste.

“Lei nel senso di Voi!”.

“Bene, arrivo subito. Dammi una mano a prepararmi”.

“Sì e…poi ci sono delle persone che tentano di salire le scale ed entrare”.

“Non ha importanza!”.

Signore e Messaggero cambiarono stanza ma Kasday attese un bel po’ prima di dare udienza all’ospite. L’Alto rimase in silenzio, reggendosi la testa con la mano e guardando le stelle. Nosmagiés gli rimase accanto, sistemandogli i capelli con accuratezza, in modo complesso, davanti ad uno degli specchi. Nel frattempo il padrone si agghindava in modo strano ed elaborato, con gioielli e dettagli preziosi. L’angelo, finita la pettinatura, lo lasciò e scese le scale, andando ad intrattenere l’ospite. Sentì un gran rumore dal piano inferiore ed accelerò il passo.

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Capitolo 19
*** XIX- non dimenticarmi ***


XIX

 

NON DIMENTICARMI

 

La Dea della Guerra incrociò Vereheveil sul suo cammino. Lo fissò, dapprima un po’ accigliata, la sua solita espressione, e poi con tenerezza.

“Ciao Vereheveil…” salutò, con dolcezza.

Buongiorno, Signora della Guerra” rispose il Dio delle Letterature, interrompendo il giardinaggio a cui si stava dedicando.

Annusò i fiori che aveva appena messo nel suo giardino e, togliendo i guanti sporchi di terra, bagnò con l’annaffiatoio le sue piantine.

“Cosa fate da queste parti, Signora?”.

“Niente di particolare…e tu, Dio delle Lingue?”. 

“Osservo i colori neonati di questo giorno di inizio primavera”.

“Che bravo. Così rilassato…ed io…vorrei andare a trovare mio figlio”.

“Il Dio della Paura e dei Sogni? È da un po’ che non lo vedo…”.

“Lui lo vedo con regolarità. Io voglio andare da Kasday”.

Vereheveil lasciò stare i fiori e rimase in silenzio per un po’.

“É impossibile” commentò lui, sistemandosi i capelli mossi dal vento “L’entrata è sorvegliata. Non si può oltrepassare la soglia senza il permesso del padrone di casa. Le sue guardie sono in grado di ucciderci e lo faranno, se le attacchiamo”.

“No, se abbiamo dalla nostra parte il Dio della Forza!”.

“Volete andare là con Luciherus?!” esclamò lui, spalancando gli occhi dorati “Che brutta idea…”. “Perché?” ridacchiò lei.

“Perché?! Ma come perché? Perché è un pazzo ed un idiota, privo di autocontrollo. Farebbe solo danni!”.

“In questo caso, se sei convinto che lui non possa aiutarmi, per quale motivo non vieni tu con me, angelo?”.

Vereheveil scosse il capo.

“Cosa ci vado a fare da lui? L’hai sentita l’ultima, no? Si sposa. Si fa una nuova vita…senza di me”. Gli occhi del Dio erano leggermente velati di tristezza ma la Dea non si impietosì.

“Come hai fatto tu!” sibilò, acida “Dai, Verhevy, vieni con me! Sono sicura che al mio piccolo farà piacere. E poi…le paure si superano affrontandole! E qual è il modo migliore, se non quello di sfruttare la presenza del Dio del Coraggio?!”.

“Lui non può, e non vuole, aiutarmi!”.

“Se non vuoi venire, per me è lo stesso. Ora vado dal Dio della Forza e del Coraggio e, insieme, ce ne andremo dal mio secondogenito. Tu fa come credi!” sbottò la Guerra.

Vereheveil sospirò: “Non posso lasciarla andare da sola con quell’individuo. Nessuna creatura razionale permetterebbe ad una dama di rischiare l’esclusiva presenza di Luciherus!”.

Lei sorrise. Il Dio delle Letterature rientrò in casa, cambiandosi d’abito. Indossò una veste più elaborata ed adatta, verde ed oro. Rimase deliziato ad osservare come vestiva la Guerra, in nero con ricami argento a tele di ragno e particolari in filo spinato.

Assieme si avviarono verso il palazzo del Principe.

 

Sul Pianeta dei Demoni era inverno. Un vento gelido, accompagnato da nevischio e giaccio, fece rabbrividire le due divinità. Vereheveil, pochi secondi dopo aver messo piede su quel Mondo, si pentì di essere giunto fino a lì. Asmodai, capo delle guardie di Luciherus, non li fermò. Li riconobbe come Dèi e li lasciò passare. Lanciò loro solo un ammonimento: “Potete entrare ma vi informo che, ultimamente, è quasi sempre intrattabile”.

“Come sempre…sai che novità…” mormorò il Dio delle Letterature, stringendosi nel suo mantello rosso e nelle ali nere.

“Fa niente…” rispose, invece, la Guerra, convinta come non mai di dover raggiungere suo figlio. Vereheveil fece strada lungo i corridoio labirintici che aveva percorso migliaia di volte. Passò accanto a quella che un tempo era stata la sua stanza ed andò oltre. La Guerra lo seguiva, sentendo il rumore dei suoi passi farsi eco lungo i cunicoli dell’edificio.

“Luciherus!” urlò il Dio dalle ali d’angelo, entrando in una delle camere.

Corse dentro e la Dea lo imitò. Il Principe era immobile, in uno stato di parvente delirio. Teneva gli occhi spalancati, fissi nel vuoto, e muoveva la bocca come se volesse parlare, ma in realtà non emetteva nessun suono. Inginocchiato sul letto di seta nera, con le braccia abbandonate lungo il corpo, non si riprendeva nonostante il Dio delle Letterature lo chiamasse.

Il demone aveva delle visioni. Vedeva delle chiare immagini, in realtà inesistenti, davanti ai suoi occhi. Un bambino fluttuava nell’aria, avvolto da una fortissima luce. Luciherus lo poteva scorgere chiaramente, pur non essendo reale. La piccola creatura era bellissima, con  il viso d’angelo, ma era chiaramente un piccolo demone.

“Chi sei?” domandò il Principe, nella sua mente, non usando la voce.

Ora fluttuava anche lui al suo fianco. Si sentiva molto leggero e magro, senza ali ma volante. Sfrecciavano, dolcemente, fra le stelle.

“Io sono ciò che c’è oltre le stelle” rispose il bambino, con voce e viso serio.

“Mostrami ciò che c’è oltre le stelle!” propose il demone.

“Non lo farai fino a quando non ti vestirai della Sua luce ed attraverserai il mare” gli disse il piccolo, schivando una cometa.

“Non capisco…” ammise il Principe.

“Solo allora io nascerò!”.

“Tu sei…”.

“…sono tuo figlio!”.

Non dissero altro, continuando il loro viaggio nel cielo degli Universi.

La luce aumentò sempre di più e Luciherus ne fu completamente avvolto.

“É questa la luce delle stelle? È questa la Sua luce?” chiese il Principe.

“No”.

Il bambino crebbe, mutò, divenendo un bel giovane. Il suo sguardo si accigliò, divenendo malvagio ed aggressivo. Attorno ai due si materializzarono delle ombre, delle persone, che il giovane distrusse, semplicemente sfiorandole. Il Principe indietreggiò, smarrito.

“Il mio destino, padre mio…” ghignò il ragazzo “…è porre fine agli Universi!”.

D’un tratto si fece tutto buio, perfino la luce di Luciherus si spense. Tutte le stelle scomparvero ed i due fluttuarono nel nulla.

“Quando accadrà? Quando farai tutto questo?” chiese il demone, turbato.

“Tranquillo” lo rassicurò il piccolo, tornando all’aspetto da bambino “Tranquillo, padre, quando accadrà, tu non sarai più fra gli Universi dei viventi! Ricordami…non dimenticarmi!”.

Luciherus iniziò a precipitare, allontanandosi dal piccolo sempre di più. Era solo un punto lontano nel cielo, mentre il demone urlava non sapendo dove stava andando e come fermarsi, nell’universalità del buio.

“Non dimenticarmi!”.

Il Principe tornò alla realtà, espirando per la prima volta dall’inizio della sua visione.

 Tossì un paio di volte, facendo ricomparire le pupille e le iridi degli occhi.

“Iniziavo a preoccuparmi…” ammise Vereheveil.

Luciherus si passò una mano fra i capelli e li sentì bagnati.

“Ti abbiamo tirato un secchio d’acqua, Dio della forza, per farti rinvenire. Eri come in trance…ma ora va tutto bene!”.

“Ho visto mio figlio…” sussurrò il demone, respirando a fondo e senza incrociare lo sguardo dei suoi ospiti.

“Tu non hai figli! Hai solo una figlia femmina! Mi sa che devi chiamarne uno bravo…molto bravo…a farti controllare il cervello” gli disse Vereheveil, con un sorrisetto un po’ preoccupato. “Lui non c’è ora. Sarà nel mio futuro…” continuò il Principe.

La Guerra ed il Dio angelo si fissarono, perplessi.

“Ah…” sbiascicò il Dio delle Letterature, convinto che la cosa giusta da fare fosse assecondare i pazzi “Beh, dai…non è una cosa brutta se, un giorno, avrai un bel maschietto…no? Và bene…”. “Distruggerà gli Universi” affermò Luciherus, con tono piatto e senza espressione.

“Questo va già meno bene…quando?” chiese Vereheveil.

“Non lo so! Mi avete svegliato!” protestò il padrone di casa, irato.

“Sembravi in coma! Eri morto! Non respiravi!” disse la Guerra.

“Sono un Dio! A che cazzo mi serve respirare?! Mica muoio…”.

“Ottima osservazione…” ridacchiò la Dea.

“Che volete…rompiballe e profanatori della mia privacy?”.

“La Signora Guerra vuole andare da suo figlio” cinguettò Vereheveil, in un attimo di felicità senza motivo.

“Kasday?” domandò il Principe.

“Sì, esatto. Ma ci serve qualcuno che ci aiuti ad entrare nel palazzo ed oltrepassare il controllo delle guardie”.

“Ah…ho capito…volete fare irruzione!” borbottò Luciherus, scuotendo il capo, intontito.

“Ora che mio figlio è libero da tutti i vincoli con gli Alti, voglio capire per quale motivo non posso rivederlo”.

“Questo è semplice, Guerra…” sibilò il demone “…lui non vuole vederci!”.

“Ci serve il tuo aiuto per sfondare…” incalzò Vereheveil.

“Va bene…” sbuffò il Principe, alzandosi a fatica “…scommetto che, se non vi aiuto, mi romperete le palle finché non cedo. Datemi solo un attimo per prepararmi. Sono indecente…”. “Rimpicciolisciti gli occhi…” suggerì il Dio delle Letterature.

“Come…?!” si stupì il Principe.

Poi si specchiò e trasalì. I suoi occhi erano esageratamente grandi e tondi.

“Mi sembri un lemure, o un tarsio spettro, un gufo…insomma…una bestia con  lo sguardo a palla!” lo prese in giro il Dio delle Letterature.

Il padrone si scosse, facendo tornare il suo volto normale. Legò i capelli, distrattamente, e mantenne uno sguardo perso nel vuoto.

“Sai chi sarà la madre del distruttore degli Universi?” chiese il Dio angelo, divertito dalla cosa. “No”.

“Beh dai…ti basterà stare attento”.

Il demone non rispose ed infilò una camicia nera, attento a far passare le ali nelle fessure fatte nel capo di seta. Con uno scatto, uscì dalla stanza ed entrò in un'altra. Vereheveil e la Guerra lo seguirono, anche se il Dio delle Letterature non era convinto di voler entrare in quella sala. Mai prima d’ora l’aveva vista aprirsi.

“Scegliti un’arma” ordinò Luciherus al Dio dalle ali nere.

“Come?!” chiese questo, confuso.

“Vuoi che faccia tutto da solo?” sbottò il Principe, guardandosi attorno come in cerca di qualcosa.

Il Dio delle Lingue spalancò gli occhi. Le pareti erano tappezzate di strumenti di difesa ed offesa di vario tipo. Coltelli, spade, lance, pistole, fucili, picche, asce, alabarde, bazooka, lanciafiamme…un arsenale ben fornito. Vereheveil deglutì, turbato.

“Dove tieni i cannoni?” domandò ironico.

“Dì là, assieme al disintegratore di particelle e la spada laser! Dai, pirlone, scegli la tua arma!” sibilò il demone, affilando una spada con la punta della coda.

“Ed io?” si intromise la Dea della Guerra.

“Non potrei mai far combattere una Signora…” affermò il padrone di casa.

“Dammi un’arma e sta a guardare, ragazzino! Sono più brava di te!”.

“A voi la scelta, dunque. Prendete pure quella che più vi piace”.

Vereheveil non sapeva quale scegliere, perché per lui erano tutte uguali. Luciherus afferrò una spada sottile e gliela porse.

“Con quei braccini l’ideale è una cosa come questa: leggera e pratica. Provala”.

Il Dio delle Letterature ne afferrò l’impugnatura con entrambe le mani, stupendosi di come invece il Principe l’aveva rigirata agilmente fra le dita.

La Guerra ruotò con una mano una lunga lancia con un pennacchio finale.

“Complimenti, Madama Guerra, vedo che non avete perso l’allenamento!” si congratulò il demone. Luciherus indossò la cintura con il fodero della spada che aveva scelto. Anche la Guerra scelse una spada, preferendola alle armi più moderne. Vereheveil si fidò del consiglio del demone e tenne l’arma dalla lama sottile.

“Vereheveil!” lo chiamò il Principe, lanciandogli un oggetto fra le mani.

“É una pistola!” esclamò il Dio delle Letterature.

“Ma non mi dire!” commentò, sarcastico, il padrone di casa “Che bravo! Caricala. È meglio. Anche se dubito che le guardie possano essere abbattute da dei proiettili. Dicono che l’unico modo per fermarle è tagliar loro la testa o colpirle al cuore, ma dubito che tu abbia tanta mira!”.

“Ma allora perché me la dai? A che mi serve la pistola se non le ammazza?”.

“Perché fanno male, stupido!” ridacchiò il demone, spingendo con l’indice la fronte di Vereheveil e facendolo ondeggiare.

Anche Luciherus prese un’arma da fuoco, argentata, a tripla canna e di dimensioni notevoli.

Poi, con lo stupore dei presenti, afferrò anche un arco e la faretra, con diverse frecce.

“Che c’è?” sbottò “Sono piuttosto bravo!”.

“Non ne dubitiamo…” sorrise la Guerra.

Uscirono tutti e tre, pronti per la battaglia e silenziosi.

“Dove andate, Signore?” chiese Asmodai, incrociando il suo Principe lungo il corridoio, armato per la prima volta dopo tanto tempo.

“Da nessuna parte” rispose lui.

Schioccando le dita, il Dio della Forza e del Coraggio aprì il portale fatto con linee rosse e luminescenti. Così facendo condusse tutti e tre alla base della scalinata del palazzo di Kasday.

 

“Ma perché ha schermato l’edificio in modo da non poter entrare direttamente all’interno?” protestò Luciherus.

“Se era così semplice, non cercavamo il tuo aiuto!” esclamò Vereheveil.

Appena i tre posero un piede sul primo scalino, le guardie si mossero, simultaneamente.

Ogni gradino aveva, alle estremità, due soldati armati che si mossero verso gli intrusi, sfoderando le armi.

“Non avere paura” disse il Principe al Dio delle Letterature “Non avere alcun timore, piumino, e attacca!”.

Vereheveil iniziò a sparare.

“Non sprecare colpi…e non colpire me!” gli urlò contro il demone, sparando a sua volta ma con molta più precisione.

Saltava da uno scalino all’altro, colpendo teste e corpi, che però sembravano aumentare di numero. “Ma chi me lo ha fatto fare?! Avete deciso di morire qui?!” sibilò, accigliato.

Serrato fra gli avversari, se ne liberò a calci e pugni.

“Individuate il capo delle guardie” ordinò la Guerra “Si dice che, una volta eliminato lui, gli altri non reagiranno più”.

Vereheveil si guardò attorno. Era circondato da creature tutte uguali. Evidentemente il capo doveva avere qualcosa di diverso, ma non  riusciva a vederlo. Qualcuno tentò di colpire la Guerra alle spalle ma lei si difese con facilità e prontezza. Luciherus afferrò un guardiano per il collo e gli sparò in gola. “Così impari a mordermi!” ringhiò.

Il Dio delle Letterature roteava la spada, cercando di colpire senza uccidere.

Il suo obbiettivo erano le braccia. Senza arti come mi attaccano? Si disse, sorridendo. Ma presto si accorse che comunque insistevano, con ogni mezzo.

“Neanche volare si può in questo mondo inutile…” brontolò Luciherus.

“Sbagliato!” lo corresse il Dio delle Lingue “Non ci è permesso solo in questa fottuta scalinata!”. “Ripeto: avete istinti suicidi? Se volevate morire bastava chiedere…vi aiutavo io!” ringhiò il demone, tirando un cazzotto sul muso di un soldato.

Saltò più in alto possibile, cercando il capo delle guardie, ma non lo vide.

“Luciherus!” si sentì chiamare dal Dio delle Letterature.

Era circondato, ma il demone non si trovava in situazioni migliori e la Guerra mostrava segni di affaticamento. Il Dio angelo, facendosi coraggio, urlò, mostrando la sua espressione più malvagia, ed iniziò ad uccidere. Il Principe riuscì a liberarsi dalla massa che gli stava addosso.

“Non puoi sfuggirci…figlio di Kadmon Kasia e Pistis Sophia!”.

Il demone sobbalzò, sentendo quei nomi.

“Ci conoscono!” gemette Vereheveil.

“Non è vero. Sono solo ben informati. Continuate ad attaccare!”.

In realtà era anche lui piuttosto turbato.

“Conoscono il nome di mia madre!” esclamò il Dio delle Letterature.

La Dea della Guerra sospirò, sentendo il vero nome di colui che era stato suo marito. Erano tutti affaticati. Il Dio delle Lingue non poté andare oltre e si accasciò sulle scale. La Dea della Guerra e Luciherus usarono la spada. Con i loro fendenti tagliarono teste ed arti ma ben presto anche la Guerra si fermò.

“Sono vecchia per queste cose…” mormorò.

Il demone strinse i denti.

“Fermati, figlio di Kadmon! Torna a casa!” ordinò una guardia, mentre le loro lame erano una contro l’altra.

“Taci, figlio di puttana!” ringhiò il Principe.

Perché quel mostro conosceva il nome di suo padre?

“Kadmon…” sussurrò.

Subito una luce fortissima riempì il cielo ed una voce profonda intimò la Guerra e Vereheveil di pronunciare il nome della persona che avevano nel cuore. Altre due fasce di luce si unirono alla prima. Luciherus si distese lungo la scala, chiedendosi se quella era la fine della sua vita.

“Alzati, Luciherus. Nessuno ti farà più del male”.

Il Principe alzò lo sguardo, vedendo che davanti a lui stava un  immenso e meraviglioso angelo a dieci ali. I capelli scuri si muovevano al vento e gli dava le spalle. Accanto a lui c’era una donna, anch’essa creatura angelica, che corse verso Vereheveil. Con stupore, il demone notò che la Dea della Guerra porgeva la mano all’antico Dio del Kaos, che l’aiutava ad alzarsi.

“Com’è possibile?” si chiese.

“Madre!” sussurrò il Dio delle Letterature, alzandosi ed abbracciando l’angiolessa dai capelli verde acqua.

“Qui è tutto possibile, bambino mio” rispose lei, con una voce dolcissima “Siamo fra gli Alti!”.

Se quella è la madre di Vereheveil e laggiù c’è il Kaos…allora tu…si disse Luciherus, appoggiato sui gomiti.

“Ti saluta tua madre, Sophia” disse l’angelo dai capelli scuri e la voce splendida “Ora va…” aggiunse, senza mai voltarsi.

Il Principe arrancò, tentando di alzarsi. Il Kaos prese fra le braccia la moglie, sollevandola da terra. “Sarò pure un’anima morta…ma non smetterò mai di amarti ed aiutarti!” disse, e la Guerra sorrise. Il Dio si sollevò a mezz’aria e condusse la Dea fino all’ingresso. Vereheveil si lasciò avvolgere e trasportare dall’essenza della madre, felice. Luciherus, un gradino alla volta, sospirò vedendo quanto gli mancava per arrivare in cima. Era dolorante a causa delle ferite e si muoveva lentamente. Udì una risata familiare.

“Hai sempre voluto fare tutto da solo…” ridacchiò Kadmon.

“Hai sempre voluto lasciarmi fare tutto da solo” borbottò il demone.

“Sono qui. Ho allontanato le guardie” rise l’angelo a dieci ali.

“Sì, lo so. Grazie”.

Kadmon osservò il figlio mentre saliva, pian piano. Poi sorrise e spalancò le ali. Lo raggiunse e lo strinse fra le braccia, trasmettendogli la sua luce. In questo modo le ferite del Principe si cicatrizzarono ed il dolore si smorzò. Si sollevarono nel cielo, nonostante le proteste di Luciherus, e raggiunsero l’entrata del palazzo del Dio Triplice. L’angelo poggiò, delicatamente, il figlio in terra, sorridendogli.

“Sei diventato molto più pesante rispetto all’ultima volta in cui ti ho preso in braccio!” ridacchiò.

Il trasportato non rispose. Guardava suo padre, così come facevano gli altri presenti, incantato dalla bellezza di quella creatura. Era alto, con grandi occhi grigi, ed un viso meraviglioso. La sua lunga veste, bianca ed argentea, fremeva, mossa dal vento. I capelli scuri erano dritti e lunghissimi, morbidi e lucenti. Anche la madre di Vereheveil era molto bella, con capelli ricci, fino al ginocchio, gli occhi verdi ed il viso dolcissimo. L’abito aranciato ne copriva i piedi nudi. Il Kaos non era cambiato. Era sempre privo di tratti somatici e con accigliati occhi azzurri.

Le tre essenze, dopo aver visto che i loro cari erano al sicuro, tornarono in cielo.

“Non dimenticarmi” disse Kadmon.

Tornò buio, stava scendendo la notte. Vereheveil, la Guerra e Luciherus si guardarono, seduti sul pavimento, con aria smarrita e alquanto confusa.

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Capitolo 20
*** XX- Espero ***


XX

 

ESPERO

 

“E così sei figlio di Kadmon…non lo sapevo!” esclamò Vereheveil, alzandosi dal pavimento del palazzo, in marmo bianco e nero.

“Problemi, angelo?” sibilò Luciherus, con sguardo malvagio.

“No. È solo che…Kadmon è un mito! Una leggenda! La prima creatura generata nel Mondo degli Angeli, il più bello, il più perfetto, il più magico e…”.

“Basta!” lo interruppe il demone “So bene chi è! Meglio di te, forse…”.

La Dea della Guerra, il Dio delle Letterature ed il Dio del Coraggio si guardarono a vicenda.

Le loro vesti erano stracciate e sporche di sangue magico ma le loro ferite non c’erano più. Erano state guarite dalle tre essenze, ora volate in cielo.

“E voi chi sareste?” si sentirono chiedere.

I tre si voltarono verso l’interno della casa, entrando nell’edificio a piccoli passi. Entrarono nella sala in cui erano stati accolti all’ultima riunione indetta dagli Alti. Avvertirono subito un freddo pungente e si sentirono a disagio nell’oscurità spettrale. Un’ombra affusolata era in piedi, davanti alla porta-finestra, e se ne notava solo la siluette.

“Ho chiesto chi siete” chiese di nuovo una voce, proveniente dall’ombra sottile.

“Ma chi sei tu piuttosto! Che ti importa?!” sbottò, secco, Luciherus.

Il demone tolse la camicia, ormai del tutto rovinata, e guardò sottecchi lo sconosciuto, ringhiando.

Non sapeva per quale motivo, ma quel tipo non gli piaceva, neanche un po’.

“Quanta insolenza in un semplice deucolo!” ridacchiò l’affusolato.

“Quanta arroganza in un così strano coso…”.

Il Principe aveva notato delle forme un po’ fuori dal comune nell’ombra del suo interlocutore.

Gli andò più vicino e lo guardò in viso, con viva curiosità.

“Sei strano un botto…che faccia hai?!” rise.

“Attento a come parli. Potrei batterti in un attimo” lo ammonì l’altro.

“Non credo proprio!” esclamò, divertito, il Principe.

Aveva notato quanto il suo possibile avversario fosse mingherlino rispetto a lui, anche se di parecchio più alto di statura.

“Tu sei Luciherus…giusto?”.

Il Principe non rispose.

“L’ho capito da come parli, da come ti comporti. La tua insolenza, la tua strafottenza…ma anche la tua forza ed il tuo coraggio. È questo il motivo che ha fatto sì che noi Alti ti scegliessimo come divinità e…”.

“Quanto parli!” lo interruppe il demone, agitando la coda.

L’affusolato si spostò, verso la luce della Luna, ed il suo viso rifletté mille colori e riverberi, come le ali delle farfalle. Ed ali di farfalle erano dipinte sul suo viso, con grandi occhi verdi, sulla sua pelle bianca candida.

“Non è una maschera. Può sembrare, ma ciò che vedete è il mio volto, non un lepidottero posato sul mio naso!” spiegò l’Alto.

“Qualcuno te lo ha chiesto?” sibilò il demone, mentre Vereheveil gli tirava una gomitata, intimandolo di fare silenzio.

“Tu, invece, devi essere Vereheveil, il Dio delle Letterature e delle Lingue…” parlò l’Alto, ignorando il Principe.

“Sì, è esatto. E Voi chi siete?”.

“Sono conosciuto come Espero, Raido o Signore del Cielo”.

Il Dio angelo notò che, fra i capelli color del cielo notturno, brillavano molte luci simili alle stelle. Forse erano stelle per davvero!

“Voi tre siete qui per vedere Kasday?”.

Gli Dèi annuirono.

“Io sono sua Madre…” parlò la Dea della Guerra.

L’Alto si rizzò sulle gambe, che teneva piegate nel mezzo come quelle di alcuni uccelli. Luciherus alzò gli occhi, notando quanto l’Alto lo superasse di diversi centimetri.

Il Signore del Cielo andò verso la Dea e le si inchinò accanto, baciandole la mano: “É un onore conoscerla, Madama Madre! E mi auguro che sarà un onore anche per lei conoscermi, ora che sto per entrare in famiglia”.

“Siete la creatura che sposerà Kasday?” domandò la Guerra.

“Precisamente” rispose Raido, alzandosi.

Luciherus lo fissò, frustando la coda e sprizzando odio da tutti i pori.

“É costretta a sposarti, vero?” sibilò.

“Sì, in effetti. Lo ammetto. È un matrimonio combinato. Ma è inevitabile, del resto. Non restano, oramai, molti di noi ed è necessaria la nostra unione per generare nuovi Alti”.

“E non vi importa nemmeno un po’ quello che gli avete fatto nel passato?” sbottò il Principe.

“La cosa non mi riguarda. Io so solo che Momoia mi ha dato un ordine…ed io eseguo!”.

“E tu obbedisci. Schiavo”.

“Non sono uno schiavo…ma Kasday mi piace davvero tanto”.

“Ti piace?”.

“Sì. E’ quello che ho detto!”.

“Però non lo ami!”.

“Che ne sai tu, demone?!”.

“Uffa! Sono stufo di sentirmi dire sempre le stesse cose!”.

“L’amore non c’entra con la procreazione. E dovresti saperlo…meglio di me! Ciò che ci vuole è solo un po’ di sano desiderio”.

“Sano?! E se per Kasday non è un piacere da compiere?”.

“Si piegherà al mio volere, come ho fatto io con la volontà di Momoia!”.

“La costringerai?”.

“Certo. Il suo livello magico è di molto inferiore al mio!”.

“Mi fate schifo…tu, Momoia e…un po’ tutti in generale” mormorò Luciherus, divenendo sempre più aggressivo.

Vereheveil se ne stava in silenzio, in disparte, confuso e spaventato da quella creatura Alta.

La Guerra gli sorrise.

“Tranquillo, Verehevy, sono sicura che renderà felice la mia creatura!” disse.

“Ci proverò, Madama Madre…ma Kasday, Hagalaz, è…una creatura ostica!”.

“Ostica?!” si stupì il Principe.

“Sì, ostica. Sei sordo o stupido? È un essere chiuso, riservato, silenzioso ed ostile”.

“Si vede che proprio gli fai ribrezzo!”.

“Sarai bello tu! Se è riuscita ad apprezzare te…”.

“Evidentemente preferisce la stella del mattino alla stella della sera…Espero! Sono meglio di te…di sicuro!”.

“Ne sei proprio convinto?” sibilò il Dio delle Letterature “Ne sei convinto…brutto stupratore e puttaniere?!”.

“Ma che stai dicendo?! Ancora questa storia?!” esclamò, esasperato, il demone.

Si passò una mano fra i capelli, con nervosismo.

“Sì! Ancora questa storia! Sei sempre pronto a giudicare gli altri ma non sei mai disposto a giudicare te stesso!” gli urlò, di risposta, Vereheveil.

“Ma crepa, piccione!” sibilò Luciherus.

“Prima tu, figlio di puttana!”.

“Non offendere mia madre, se non vuoi che ti strappi tutte le penne!”.

“Basta!” supplicò la Dea della Guerra, decisamente stufa dei loro continui litigi.

Iniziò ad urlare, tentando di dividerli, mentre l’Alto rideva, divertito.

“Finitela tutti quanti!” si sentì gridare.

Nosmagiés era sulla cima delle scale e guardava giù. Tutti fecero silenzio e l’angelo sorrise.

“Bene” si disse, compiaciuto “Il mio Signore scenderà subito, altezza Raido” comunicò dopo. L’Alto fece un cenno con  il capo.

Il messaggero si rivolse, poi, agli altri presenti.

“Voi tre…finitela o andate fuori dai piedi!”.

“Ma io che ho fatto?” protestò il Principe.

“Che vuoi che mi importi, demone?! So solo che devi fare silenzio…rompicoglioni!”.

Vereheveil scoppiò a ridere: “Basta uno sguardo per capire che merda sei!” esclamò.

Luciherus non rispose, ruotò gli occhi, calcandosi per bene le mani in tasca, agitando tantissimo la coda.

“Hagalaz è di buon umore oggi?” domandò Raido.

“No!” rispose, piatto, il messaggero.

“Non fa niente. Sono qui per condurla in battaglia. Spero così di avere modo di parlarle…”.

“Non ha niente da dirti!” commentò, acido, il Principe.

“Cuciti la lingua, serpe!” sbottò l’Alto.

Luciherus gli mostrò il dito medio: “Succhiamelo, Arlecchino!” ghignò.

“Ti piacerebbe…”.

“Solo se a farlo è tua sorella!”.

“Non vengo alle mani solo perché siamo in presenza di una signora…”.

“Ti riferisci alla Guerra? Tutte scuse!”.

“Piantatela tutti o due…o ve ne andate!” tuonò Nosmagiés, indicando la porta.

Era suscettibile, abituato com’era al silenzio in cui vivevano lui ed il suo Signore.

La Guerra sorrise all’angelo: “Kasday scende?”.

“Sì, signora. Ma ha altro da fare…”.

“Io non sono venuta fino a qui per poi non riuscire ad incontrarlo!”.

“Mi spiace ma c’è un guerra, come lei dovrebbe sapere, ed il mio padrone è molto impegnato”.

“Allora aspetterò. Aspetterò qui finché non avrà un po’ di tempo per me…per noi!” rispose, convinta, la Dea, indicando Luciherus e Vereheveil.

“Come volete!” disse Nosmagiés, facendo spallucce “Come volete…alla condizione che non facciate troppo casino”.

La Guerra si sedette, incrociato le gambe e congiungendo le mani, con un sorrisetto: “Io sono testarda, sai! Non me ne andrò tanto facilmente…”.

Il messaggero la guardò con un’espressione neutra. Non gli cambiava la vita sapere che lei restava oppure spariva.

“Piccolo Nosmagiés…” iniziò Luciherus.

“Non sono piccolo e non la conosco, signore!” sbottò l’angelo.

“Ma come?! Sono io! Lucy! Mi avete guarito tu e Kasday…” si fermò per un paio di secondi “…tanto tempo fa”.

“Lo so. Ma non mi interessa. Lui vi conosce, non io! Per me siete solo un suo amico o conoscente…non è affar mio”.

“Stai diventando sempre più antipatico!”.

Nosmagiés gli diede le spalle, con aria altolocata e giudicante. La sua lunga ed ampia veste frusciò sul pavimento liscio.

“Che combina Kasday? Non scende?” si lamentò Raido.

“Non credo che frema d’entusiasmo all’idea di andare a combattere” rispose, seccato, l’angelo.

Il Signore del Cielo guardava verso l’alto, lungo le scale che conducevano ai piani superiori. Luciherus e Vereheveil si sedettero accanto alla Guerra, assicurandola che nemmeno loro si sarebbero allontanati senza, prima, aver visto Kasday.

Il Principe annusò l’aria, ad occhi chiusi. Poteva percepire il profumo del padrone di casa. Sospirò. Il Dio delle Letterature si guardava in giro, con le gambe tremolanti, nervoso. Rabbrividì vedendo il caminetto, al solo pensiero di ciò che ci era stato bruciato dentro. Si sentiva a disagio in quel luogo e voleva andarsene presto.

Un lieve, quasi impercettibile, rumore di passi preannunciò ai presenti l’arrivo di Kasday. Girandosi tutti verso le scale lo videro scendere, lentamente. Teneva il viso coperto da un velo, che lasciava in mostra solo i suoi due occhi azzurri.

Luciherus ne seguì le movenze, e le accennate forme femminili coperte da numerosi veli variopinti. Le due piccole antenne magenta dell’Alto fremevano, leggermente, però ostentando uno sguardo fisso verso il basso. Portava i capelli elegantemente acconciati in una struttura a ventaglio.

Raido, vedendo quella che lui considerava una splendida creatura, sorrise. Aprì la sua coda, simile a quella di un pavone, e fece sbattere gli occhi su di essa. Vereheveil sussultò. Pensava che quella cosa verde scuro fosse una veste, uno strascico…non una parte viva di quell’individuo!

Kasday porse la mano che aveva liberato dallo strato di veli e il Signore del Cielo la baciò, dopo un breve inchino. I tre ospiti notarono che Espero aveva delle piume che spuntavano dalle sottilissime braccia. La palpebra sull’occhio del padrone di casa si chiuse, per qualche secondo, per poi riaprirsi. Nosmagiés aiutò il suo padrone ad indossare un guanto di ferro sulla sottile mano di vetro, la mano appena baciata.

“Siete uno splendore” mormorò l’angelo e Kasday gli accarezzò il viso.

“Posso confermarlo…” iniziò Raido “Siete una vera delizia, divinità danzante! Mi si riempie il cuore di gioia e diletto vedervi e potervi accompagnare quest’oggi in questa grande occasione in cui…”.

“Parlate troppo” lo fermò Kasday, con la sua solita voce androgina ed un tono piatto e distaccato. La Dea della Guerra si alzò dalla sedia.

“Mia bellissima creatura…” parlò, ma l’Alto fermò anche lei “Non ora, Signora della Guerra”. “Mamma…” mormorò la Dea “…sono la tua mamma…”.

Raido porse il braccio alla divinità danzante, che però si ritrasse.

“So camminare senza il Vostro aiuto” sbottò.

“Come volete…futura mia creatura sposa!”.

“Mia?!” sibilò Kasday “Non Vi apparterrò mai”.

Poi fissò il suo Messaggero: “Nosmagiés…”.

“Sissignore”.

“Se dovessi tardare…non cacciare i miei ospiti ma mettili a loro agio. Sta scendendo la notte…non lasciarli uscire con il buio! Dà loro una stanza”.

L’angelo annuì.

“Buio?!” si chiese Luciherus, guardando fuori “Come buio?! Siamo arrivati ai piedi della scalinata subito dopo l’alba…”.

“Le mie guardie sono un po’ difficili da battere…”.

“Oh, luce! Mia luce!” ripartì il Signore del Cielo.

“Smettetela di definirmi una Vostra proprietà…” esclamò irritato il padrone di casa.

“Luce…non rivolgetemi solo parole fredde e velenose! Parlatemi con affetto e dolcezza…ve  ne prego”.

“Perché dovrei? Io non Vi conosco!”.

“Sentito cosa ha detto la Signora? Sparisci, fallito!” rise il demone.

“Luciherus…”.

“Sì, Kasday?”.

“Non ti intromettere!” sbottò.

Il Principe, a quelle parole, rimase immobile, senza nemmeno sentire la risatina di Vereheveil. “Hagalaz…noi presto ci sposeremo! Non è stata una mia scelta…non odiatemi per questo!”.

“Io non vi odio. Mi siete del tutto indifferente”.

“Siete crudele…” sbiascicò Raido.

“No. Vi sbagliate. Non lo sono. Ed ora andiamo”.

“Sì, andiamo…Momoia ci starà attendendo”.

Il Signore del Cielo tentò di prendere Kasday sottobraccio ma questi fu più veloce ed entrò nel quadro, passando in un altro Mondo, senza guardarsi indietro. Raido seguì la creatura che doveva sposare, chiamandola per nome, e sparì. Entrambi avvolti dalla luce, passarono il portale dipinto.

Poi tornarono di nuovo il buio ed il silenzio soliti del palazzo.

 

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Capitolo 21
*** XXI- preservatori, creatori, distruttori ***


XXI

 

PRESERVATORI, CREATORI

DISTRUTTORI

 

Nosmagiés sbadigliò.

“A quanto sembra, stasera ci sarà un piccolo party da queste parti…” disse, con poco entusiasmo ed a braccia incrociate.

“Ci dispiace molto dare fastidio…” iniziò Vereheveil.

“Non mi date fastidio! Anzi…”.

L’angelo sorrise e chiese se i tre desideravano una camera per dormire.

“Non abbiamo sonno” fece sapere la Guerra.

“…ma una doccia la gradirei” concluse Luciherus, tentando di togliersi il sangue magico incrostato sulla pelle con la punta della lingua.

“Le anime vi hanno aiutato…non siete feriti, vero?” domandò il Messaggero.

“Li hai visti anche tu?” si stupì il demone.

“Ovvio…”.

Nosmagiés aprì le tende, facendo entrare la luce della Luna.

“Se volete fare un bagno potete venire con me, prego. Seguitemi”.

Li condusse in stanze poste in androni vari dell’edificio. Ogni sala aveva uno stile differente, segno che avevano diversi proprietari che la utilizzavano.

“Tu, Vereheveil, vorrei usassi le mie stanze per rinfrescarti e cambiarti. Siamo simili, come fisico e come gusti. Per lei, Signora, preparo le sale degli ospiti, quelle più adatte ad una donna. Infine, Luciherus, questa è l’ala del mio Signore. Ti prego di non toccare niente al di fuori di ciò che ti sarà strettamente necessario”.

Il demone annuì.

“Non dai mai del Lei? Dopotutto sei solo un Messaggero…noi siamo divinità…” disse Vereheveil.

“Io do del Voi e del Lei solo al mio Signore” fu la risposta.

 

La Guerra entrò in una camera deliziosa, con le pareti magenta con dei bei quadri. Dalla finestra poteva scorgere tutta la valle. Nel bagno privato, anch’esso per lo più magenta, trovò delle sostanze profumate da mettere nell’acqua della vasca e ne versò un po’. Quando vide bolle a sufficienza, si spogliò e si immerse nella vasca, rilassandosi e togliendosi ogni segno della battaglia. Sapeva che, quando sarebbe uscita, avrebbe  trovato delle vesti pulite e nuove da mettere.

 

Vereheveil continuava a sentirsi nervoso ed a disagio. Quel palazzo non gli piaceva.

La camera di Nosmagiés era strana. Principalmente presentava colori pastello, dolci e morbidi.

Ma, qua e la, spuntavano punte e zone di colore vivo, a motivi geometrici. Vide che il messaggero disegnava ed aveva realizzato dei bei ritratti di Kasday. Il Dio si chiese, osservandoli, cosa provasse in realtà l’angelo nei confronti del suo Signore. Dopo poco decise di non pensarci più ed andò a fare il bagno, nella vasca azzurra e verde.

 

Luciherus fu condotto direttamente nel bagno, collegato alla camera dell’Alto, ma da un’altra porta, che lo rendeva accessibile dal corridoio. Questo permise al demone di entrarvi senza passare per la camera da letto. Vide che era piuttosto tetro come locale. La prima cosa che notò, oltre che alla prevalenza del colore nero, era il fatto che ci fossero due vasche da bagno. Si chiese per quale motivo. Forse, ipotizzò, si dilettava a lavarsi in compagnia. Sorrise, aprendo l’acqua. Fu felice di togliersi le vesti usate nella battaglia. Nosmagiés gli aveva dato un nuovo abito da indossare.

Guardò fuori dalla finestra, che dava sul cortile interno, e sospirò.

Che bella questa casa, pensò. Così simile alla mia

Aprendo un cassetto, trovò diverse boccette senza scritte. Ne aprì una e ne annusò il contenuto. Storse il naso.

Usi roba forte, Kasday si disse, leggermente preoccupato.

Si immerse nella vasca, interamente, e chiuse gli occhi, cercando di far tacere tutti i pensieri che aveva in testa, ma, come sempre, non ci riuscì.

 

Quando i tre ospiti si furono lavati e cambiati, tornarono al piano inferiore, dove Nosmagiés stava facendo un solitario con le carte. Per ultimo arrivò Vereheveil, sempre lentissimo in bagno.

La Guerra, con i suoi capelli corti e neri, stava benissimo nell’abito lungo, grigio metallo. Luciherus, che si stava pettinando, vestiva in nero ed argento con dettagli rosso sangue, tutto in velluto. Sapeva che aveva scelto Kasday quei modelli, rispecchiavano troppo i gusti dei tre per essere scelte casuali di Nosmagiés. Il Dio delle Letterature era in arancione e blu e si stava sistemando le piume delle ali nere. Giunti nella sala del caminetto, si sedettero accanto al Messaggero, parlando del più e del meno. Si voltarono verso le scale, sentendo rumore di piccoli passi. La bimba celeste scese al piano inferiore.

“Nosmagiés…” disse “…accendi il fuoco?”.

“Non mi è concesso, piccola!”.

“Ma io ho tanto freddo! E anche la mia mamma!”.

“Lo so, ma vi ci dovete abituare, come ho fatto io! Non posso accendere il fuoco”.

“Non lo dirò a Kasday, te lo prometto! Lo spegniamo prima che torni!” piagnucolò la bimba.

“Non è una questione di prendersela o meno con Kasday. Non si accende! Questa è la regola!”.

La Celeste chinò il capo. Fece per tornare a letto, rabbrividendo. Il suo fiato si condensava in piccole nuvolette bianche.

Nosmagiés non poté guardare quella scena. Provò pietà per quella giovane creatura e, rassegnato, si decise ad accendere il fuoco. Prese della legna, rimasta dimenticata da quando in casa era buio. “Quello è un fossile…” commentò il demone.

“Brucerà bene…” rispose l’angelo.

Appena attecchì, scoppiettando, si udì un urlo terrificante di dolore e paura.

Vereheveil sobbalzò.

“Che cosa è stato?!” gemette.

“Tranquilli, ospiti! Momoia ha imprigionato l’essenza del figlio del Signore fra le fiamme, in modo da non poterlo far rinascere. Non prova dolore…anche se urla così. Capita, a volte, anche senza il fuoco”.

“E…Kasday come reagisce?” volle sapere Luciherus, con aria triste.

“Se è abbastanza lucido per accorgersene…urla anche lui!”.

“Inquietante…”.

Quando ci fu una bella fiamma, Nosmagiés si allontanò dal camino e la bambina sorrise, avvicinandosi ed allungando le manine verso il fuoco.

“Grazie” mormorò la piccola, felice.

“Ma figurati…e scusami per prima. Sono un po’ nervoso, ultimamente…”.

“Nervoso?” esclamò il Principe “Nervoso per cosa? Non fai niente dalla mattina alla sera…nervoso per che cosa?!”.

“Innanzitutto non è vero che non faccio niente. In secondo luogo…sono nervoso per molte cose. La Guerra con i Celesti e la presenza della bimba con  sua madre…il matrimonio…”.

“Ti rende nervoso il matrimonio? Perché? Cosa c’è di male?” chiese Vereheveil.

“É una cosa stupida ed inutile. Soprattutto mi da fastidio il fatto che debba avere dei figli…”. “Momoia teme l’estinzione?” ridacchiò Luciherus.

“Già…”.

“E cosa succederebbe se si estinguessero tutti gli Alti ed i Celesti?” domandò il Principe. “Mmm…non lo so! E non mi interessa!”.

“Come non ti interessa?” sbottò il Dio delle Letterature.

“Io voglio solo il bene del mio padrone! Voi pensatela come volete!”.

“Sei proprio strano” affermò Vereheveil.

Nosmagiés si sedette, senza dar più di tanto conto a ciò che dicevano i tre.

“Che succede nei Mondi la fuori?” iniziò a cantilenare, guardando il cortile interno “Che cosa cambia fra gli Universi? Che accade al di fuori di quella porta? Io sono sempre qua…”.

I tre si guardarono, un po’ perplessi. Poi alzarono le spalle e lo assecondarono. Raccontarono, a turno, vari accadimenti nei mondi e negli Universi. Dopo diverse ore erano tutti molto più rilassati e sereni. La bambina era tornata a letto, felice del calore del fuoco che si era espanso per tutto il palazzo.

“Quando tornerà mio figlio?” domandò la Guerra.

“Non ve lo so dire, Signora. A volte queste battaglie durano solo poche ore, a volte diversi giorni”. “Capisco…ma che fanno?”.

“Si incontrano su un terreno neutrale, un pianeta creato apposta da Momoia e da uno dei Celesti. Lì si scontrano e si combattono ”.

“Perché fanno questo? E perché cercano noi per la loro guerra?” volle sapere Luciherus.

“Sarebbe molto rischioso uno scontro fra gli Universi abitati ma si teme anche che, con la progressiva diminuzione degli Alti e dei Celesti, non si riesca più a controllare questo mondo creato per le battaglie. Se ciò dovesse accadere, la guerra si trasferirebbe fra i vostri cieli ed agli Alti andrebbe molto bene sapere che voi sarete al loro fianco. Sarebbe una cosa molto gradita…”.

“E che speranze abbiamo, noi, contro uno dei Celesti? Che potremmo fare contro uno di loro?” domandò, preoccupata, la Guerra.

“Voi siete in tanti. E combatteranno anche i mortali come gli angeli ed i demoni. Fate gruppo!”. “Non credo proprio sia possibile” affermò il Principe, ricordando l’astio perenne fra le creature angeliche e quelle demoniache.

“Loro sono in pochissimi. Credo che non siano rimasti più di quattordici, fra Alti e Celesti”.

Il messaggero aveva preparato il tè, approfittando del fuoco vivo.

“Solo in quattordici?” chiese conferma Vereheveil “Ma come? Erano più di un centinaio fino a non molto tempo fa! O, almeno, così dicevano i miei libri…”.

“Non sono sbagliati i tuoi dati. Ma, comunque, non è un grosso problema. I vostri Universi restano in vita anche con  uno solo degli Alti a controllarli”.

“E se morissero tutti? E come può uno solo di loro controllare ogni cosa?” fu  la domanda del demone.

“Se morissero…finirebbero gli Universi. Specie se muore Momoia, la creatrice principale. Ed, in effetti, credo che sarebbe meglio se ne rimanessero almeno due, seguendo i loro ruoli”.

“Ruoli? Quali ruoli?”.

“Sì, ruoli. Gli Alti, ed immagino anche i Celesti, si dividono fra creatori, preservatori e distruttori. Spesso gli aspetti di creatore e distruttore convivono nella stessa persona, oppure capita che fra loro non vadano molto d’accordo…”.

Nosmagiés bevve un sorso di tè, pensieroso.

Luciherus volle avere altre informazioni.: “Cosa sono i preservatori?”.

“Sono, ad esempio, coloro che dettano alle divinità del Destino cosa ci sarà nel futuro di tutti, coloro che controllano che i Soli sorgano e che i pianeti ruotino, che le stagioni si susseguano…”. “Ho capito. E Kasday è un creatore?”.

“Sì. Uno degli ultimi rimasti. Anche se, spesso, credo che in lui prevalga l’aspetto di distruttore”. “Ed è un male?” chiese Vereheveil.

“No. Che mi importa?! Io non bado, più di tanto, a ciò che fa. Per quel che mi riguarda…potrebbe ucciderli ed uccidervi tutti!”.

“No, grazie!” borbottò Luciherus “Io ci tengo alla mia vita!”.

“Anch’io” sorrise il Messaggero, cercando i biscotti fra gli scaffali “Ma so bene che  il mio Signore non fa mai niente senza un  motivo”.

“Gli sei troppo fedele” gli disse il Dio delle Letterature.

“Almeno io lo sono…” sbottò Nosmagiés, sarcastico e scocciato.

“Come?!” si stupì Vereheveil.

“Ricordo il giorno…” iniziò a parlare l’angelo Messaggero, guardando fuori “…in cui si scoprì che tu, Dio delle Letterature, stavi per sposarti. Ostentava gioia per il tuo ritrovato benessere. In realtà stava da schifo. E l’ho visto peggiorare, secolo dopo secolo, restandogli accanto. Non sorride, ha lo sguardo spento e perso nel vuoto, si distacca sempre di più dalla realtà, scappando dalla sua vita. Credeva molto nel vostro amore, nella vostra unione, ma tu hai distrutto ogni cosa. Voi tutti lo avete abbandonato e dimenticato e lui si sta consumando…fra droghe, follia ed odio nei confronti di se stesso. La sua apatia è quasi irritante e…” l’angelo si fermò, respirando piano e con aria triste “…mi chiedo se mai tornerà ad essere davvero felice, dato la feccia che conosce. Io non sono meglio di voi…”.

“Lo sei” lo rassicurò Luciherus, sorridendo con una strana espressione malinconica.

Vereheveil non parlò, non  sapendo che dire.

“Tu lo hai amato e servito. Noi tutti, invece, abbiamo delle colpe!” mormorò il demone.

“Credi che lui voglia vederci?”chiese, infine, dopo che il messaggero lo ebbe guardato negli occhi arancio con commiserazione ed odio.

“Rispondimi, Nosmagiés. Non limitarti a guardarmi come fanno, ormai, quasi tutti…” continuò il Principe.

“Non lo so, sinceramente, demone. Lo scoprirete. Ma non stupitevi se vi manda via tutti in malo modo, oppure se vi ignora”.

“Ma non viene mai nessuno qui? Siete sempre da soli?” domandò la Guerra.

“A volte si tiene compagnia con le sue emanazioni” rispose l’angelo, trovando finalmente i biscotti e gioendo per la cosa.

“Cosa sono le emanazioni?” si informò la Dea.

“Creature. Angeli, demoni, mostriciattoli, animaletti…tutte cose che il mio padrone genera ed in cui  infonde parte della sua essenza. In questo modo queste…bambole, le si può definire così, prendono vita acquisendo una certa autonomia. Le richiama a sé quando necessita più capacità magica”. “Quindi…sono i giocattoli di Kasday solo che, invece che caricarli con la molla, gli da energia con la magia e la sua essenza?”.

“Precisamente, demone”.

“E quante può averne di queste emanazioni?”.

“Poche. Due al massimo. Le guardie, che lo hanno accompagnato a prendere il libro con la piccola celeste, erano emanazioni. Involucri vuoti, tenuti in vita dalla sua anima, che lo considerano il loro padrone”.

“E se una delle emanazioni muore?”.

“Kasday lo percepisce, specie se viene ferita. Sente il suo stesso dolore ma, oltre a questo, non succede molto. L’essenza torna nel mio Signore e finisce lì”.

“Si sarà creato qualche bella amichetta…” azzardò il demone, malizioso.

“No. Mi spiace deluderti”.

 

Il cielo si stava schiarendo, la notte stava giungendo al termine. Era trascorsa in fretta e Luciherus guardò le ombre nella stanza. Fu certo che molte di esse si muovessero e gli sorridessero, crudelmente, addossate alla parete. Era inquietante, sopratutto quando, dal fuoco, usciva un singhiozzo o un gemito.

“Come ti accorgi che il tuo padrone torna?” si informò il Principe.

“Non me ne accorgo” ammise il Messaggero.

“E allora come farai a spegnere il fuoco in tempo?”.

“Non ne ho idea”.

“Ma lo scoprirà…”.

“É un po’ tardi per pensarci…” sbottò Nosmagiés, nervosamente.

Era davvero molto agitato. I tre ospiti lo guardarono, senza capire.

“Perché sei così nervoso? Cosa vuoi che succeda?” ridacchiò il demone.

Il Messaggero non rispose, cominciò a camminare su o giù per lo stanzone. Era da poco passata l’alba quando il quadro alla parete mutò, illuminandosi: quello era il segnale che il padrone di casa stava per tornare.

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Capitolo 22
*** XXII- il nuovo Kasday ***


XXII

 

IL NUOVO KASDAY

 

Kasday entrò nella stanza. Respirava lentamente e profondamente. I capelli, sciolti dalla loro elaborata pettinatura, ricadevano sul suo viso e lungo tutto il corpo, coprendone la maggior parte. Una sola mano, blu, spuntò dal manto di veli che lo avvolgeva, e scostò un ciuffo corvino dai suoi occhi.

“Signore! Siete ferito!” esclamò Nosmagiés, correndogli appresso.

Kasday lo fissò con aria interrogativa e poi si guardò la mano.

“Tranquillo, mio angelo” disse, con una voce stranamente profonda ed inquietante “Tranquillo, non mi appartiene questa magia che sporca le mie dita. Io sto bene”.

L’Alto si leccò la punta delle falangi, che i presenti percepirono come molto affilate. Al contatto con  la magia, questa frizzò leggermente, mandando scintille.

Il fuoco lanciò un grido e Kasday si immobilizzò.

“Scusatemi!” si affrettò a dire l’angelo Messaggero, indietreggiando di qualche passo.

L’Alto spense le fiamme con  una parola e rimase a fissare il caminetto, ancora fumante, dando le spalle a tutti i presenti.

“Perdonatemi…ve ne prego…” supplicò Nosmagiés.

Kasday si mosse, con uno scatto, colpendo il Messaggero con il suo braccio di roccia e metallo. L’angelo non poté evitarlo e piombò all’indietro, cadendo in terra dalla parte opposta della sala. “Perché nemmeno tu mi ascolti!? Perché nemmeno per te non conto niente!?” sbraitò l’Alto.

Sulla sua fronte erano ricomparse le corna magenta ed i suoi denti si erano fatti affilati e lunghi.

I capelli, ora gonfi ed agitati, sembravano vivere, indipendenti dalla volontà del loro proprietario. L’angelo, sbattendo contro il muro, non si rialzò. Gemette sofferente e si raggomitolò su se stesso. Kasday lo sollevò, senza toccarlo, tenendo teso un braccio ed aperta una mano.

“Perché credi che io ti impartisca degli ordini? Per trasgredirli e poter fare quello che ti pare?” ringhiò e, muovendo le dita, fece urlare il Messaggero per il dolore.

Lo feriva. Stringendo il pugno, era come se lo prendesse per il collo. Nosmagiés si dimenò, annaspando.

“Cosa significano per te le parole: non accendere MAI il fuoco?” continuò il suo padrone.

“Così lo ammazzi! Lascialo subito!” ordinò Luciherus, l’unico ad avere il coraggio di dire qualcosa. “Vuoi essere tu la mia vittima, demone?” sibilò Kasday, con la lingua da rettile, senza lasciare Nosmagiés e guardandolo con malvagità.

“Voleva solo far scaldare la bambina…”.

L’Alto mosse l’altro braccio, stava per colpire il Principe ma la piccola Celeste, correndo giù per le scale, si mise fra i due.

“Levati, sgorbio. Sei sulla mia strada” comandò l’Alto, ma la bambina spalancò le braccia, con aria seria.

“É stata colpa mia!” disse “Tutta colpa mia! Nosmagiés voleva solo aiutarmi. Smettila di fargli del male e piantala di fare il cattivo! So che non lo sei!”.

Kasday  non  mollò la presa e l’angelo quasi non si muoveva più.

“Lascialo! O morirà!” disse Luciherus “Avanti…so che non  lo vuoi uccidere! Torna in te!” continuò, ma il padrone di casa non  reagì.

“Ti prego!” supplicò la bambina “Ti prego! È tutta colpa mia! Avevo freddo, stavo male…e lui mi ha aiutato! Lui mi vuole bene! Tutti quelli che sono qui ti vogliono bene…perché fargli del male?”.

Scoppiò a piangere. Kasday si placò, mentre i suoi occhi tornavano ad essere grandi e dolci, le corna si ritiravano ed il suo viso riprendeva un aspetto accettabile, senza i denti da serpente.

Lasciò andare Nosmagiés, che riprese fiato per la prima volta, tossendo ed annaspando. Scosse la testa per riprendersi.

“Nosmy!” gemette l’Alto, inginocchiandosi ed abbracciando l’angelo, con affetto smisurato. Luciherus fu sicuro di notare più di due braccia…ma si convinse che, forse, sbagliava.

“Oh, Nosmy! Che cosa ti ho fatto…scusami! Ti ho fatto tanto male?”.

Ora aveva di nuovo la sua voce androgina. 

“Signore…” mugolò il Messaggero, mentre le sue ferite venivano guarite dalla magia del suo padrone “Signore…perdonatemi” sussurrò, con un fil di voce.

“Tutto bene? Oh, mio tesoro, perdonami tu!” disse Kasday, osservandone il corpo in cerca di ferite non guarite.

“Sto bene” lo rassicurò Nosmagiés, alzandosi “Vedete, sto bene! Tranquillizzatevi…”.

Il padrone di casa, alzandosi a sua volta, si girò verso i suoi ospiti. Vide che Vereheveil era terrorizzato e si nascondeva dietro Luciherus, che non  lo voleva vicino e lo spingeva via. La Guerra era sconcertata e confusa. Il Principe era stupito ma non più di tanto turbato dal comportamento dell’Alto.

“Volete fare colazione?” domandò Kasday.

“Magari!” rispose la bambina, con entusiasmo.

“Berkana…è questo il tuo nome, giusto, piccola Celeste, andresti a chiamare Yelean? Lei è una messaggera e magari ha piacere di mangiare qualcosa…”.

La piccola annuì e corse di sopra. Kasday si avviò verso il camino e raccolse i capelli in una crocchia. Iniziò a cercare cibo a sufficienza per tutti.

Yelean scese dalle scale, ancora malferma sulle gambe, con un gran sorriso: “La mia Signora scende più tardi…”.

“Lei non mangia, come me” esclamò l’Alto.

Nosmagiés andò accanto al suo padrone.

“Oh, no, Nosmy! Siediti e rilassati! Ce la faccio da solo. Tu sta tranquillo, che oggi devo farmi perdonare”.

Luciherus sentì il suo stomaco brontolare e sorrise: “Che fame…”.

Kasday si tolse i veli che ne coprivano il busto e li allacciò in vita, sottilissima, accanto alla specie di gonna che gli nascondeva del tutto le gambe. La Guerra rimase a fissare suo figlio, sedendosi e non sapendo che dire. Vereheveil si guardava in giro, cercando di ignorare i presenti, a disagio.

Luciherus si fermò, incantato, ad osservare l’Alto e la sua strana fisionomia.

Kasday afferrava agilmente molti oggetti con le sue mani.

“Quante braccia hai?” domandò il demone, non riuscendo a contarle da quanto veloci le muoveva il proprietario.

“Sette” gli rispose lui, come se fosse la cosa più normale del mondo.

L’Alto si fermò, spalancandole tutte e facendo un giro su se stesso, per poi tornare a preparare la colazione.

“Bellissimo” esclamò il Principe “Devono essere comode”.

“Sì, abbastanza” ammise Kasday, afferrando contemporaneamente una brocca di latte, tazze e tazzine.

“Certo che…” riprese il demone “…se la tua metà superiore è fatta così…non immagino come potrebbe essere la parte inferiore!”.

“Non lo indovineresti mai” sghignazzò l’Alto, passandosi la lingua biforcuta sulle labbra. Luciherus di alzò e gli andò vicino, con le mani in tasca, osservandone il viso di profilo. Se ne stava appoggiato ad un mobile, con aria indifferente. Vedeva che il Signore non aveva un naso definito ma, al suo posto, c’erano solo due fessure simili a branchie. Aveva due occhi azzurri enormi, così simili a quelli di un insetto, sormontati da lunghissime sopracciglia colorate che restavano sospese a mezz’aria, uscendo dal volto. Il terzo occhio, magenta, era l’unico con aspetto normale e stava spalancato in mezzo alla fronte, seguendo i movimenti delle mani. La piccola bocca vermiglia lasciava intravedere un dentino triangolare. Portava tre anelli per ogni orecchio a punta, che agitava sporadicamente. Il demone trovava belli i disegni azzurri sul volto di Kasday, sia sulla metà di vetro sia su quella di metallo. Sobbalzò, quando si accorse che gli occhi gialli sulla punta delle antenne dell’Alto lo stavano fissando.

“Che cosa osservi e trovi così interessante, Luciherus?”.

“Guardo te…”.

“Che strana bestia, eh?”.

“No. Non pensavo questo!”.

“Io sì. Ogni volta che mi guardo allo specchio”.

L’Alto afferrò un bicchiere e lo riempì di succo di frutta. Se lo passò su un'altra mano ed il liquido si raffreddò all’istante.

“Forte…” esclamò il Principe.

“É il mio braccio di vetro. È questo che fa sì che ci sia tutto questo freddo in casa”.

La parte in vetro era trasparente, si poteva vedere attraverso ciò che c’era dietro, e si poteva scorgere al loro interno i riccioli azzurri della magia del proprietario.

“E le altre?” volle sapere il Principe, guardando gli altri sei arti.

Kasday, continuando a preparare la colazione, tese due braccia di colore blu. Queste si allungarono a dismisura e si riempirono di piume dello stesso colore, enormi e lucenti.

“Queste sono le mie ali ed i miei arti d’aria” spiegò l’Alto.

Luciherus notò che le dita si erano allungate e si erano fatte affilate. Erano bruciate sulle punte e capì che aveva tentato di salvare suo figlio usando quelle mani. Con una smorfia, l’Alto fece tornare le ali delle semplici braccia, anche se blu e dalle dita bruciate: le uniche senza un occhio sul dorso.

“Queste due…” continuò Kasday, sollevando il braccio in metallo e roccia assieme ad un arto color carne, femminile, apparentemente uguale a quello dei presenti, non fosse per quell’occhio verde sul retro della mano “Queste due sono le mie braccia legate alla terra. Sono il principio di creazione e distruzione”.

Passando sopra ad un piatto, con quella color carne, fece comparire frutta e cibo di varia natura.

La parte di metallo non la usò. Sembrava fatta d’acciaio, era grigia e lucida, con riccioli azzurri. Con un arto color rubino passò accanto alla brocca del latte e del caffè, scaldando il loro contenuto. “Questo rappresenta il fuoco. Scalda tantissimo ma solo al mio comando. Non è in grado di scaldare l’ambiente come, invece, raffredda il braccio di vetro”.

Infine, prima di servire in tavola, passò una mano verde e squamata sopra dei bicchieri e li riempì. “Quello è il braccio d’acqua?” volle sapere Luciherus.

“Sì”.

Un ultimo passaggio della mano di vetro sui bicchieri per raffreddarli e poi l’Alto servì la colazione, con un vassoio su ogni mano necessaria, senza alcuna difficoltà.

“Grazie!” disse la piccola Celeste Berkana, assaporando il suo latte al cioccolato con  i biscotti. Vereheveil fece un cenno con il capo quando ricevette il suo tè, anche questo con i biscotti ed un toast alla marmellata. Nosmagiés ringraziò con molto più entusiasmo, quando di fronte a lui fu posta una pila di frittelle con il caramello. L’Alto ci mise sopra anche della panna.

La Guerra trovò delizioso il suo caffellatte e divise il toast con burro e zucchero assieme a Yelean, che assaporava il suo succo d’arancia. Luciherus bevve a piccoli sorsi il caffè nero, senza zucchero e latte, con soddisfazione, alternandolo al succo di limone.

“Che schifo è quello?” gemette Nosmagiés, sentendo l’odore dell’acidissimo agrume.

“Il tuo che schifo è! Quell’intruglio dolciastro…” sbottò il demone, trovando rivoltante il sapore del caramello.

Kasday passò accanto a Vereheveil e gli legò i capelli.

“Ti piace?” domandò.

“Siete bravo…” disse il Dio delle Letterature, senza alzare lo sguardo ed agitandosi.

Luciherus osservava il ventre dell’Alto, contornato e pieno di segni azzurri, che si intensificavano attorno ad oblò dello stesso colore, posto alla sinistra del petto di Kasday, nello stesso punto in cui il demone aveva il cuore. Era liscio e pulsava di luce in modo regolare.

“Come mai sette?” domandò il Principe, soprappensiero.

“Come mai sette braccia?” chiese conferma Kasday, riprendendo i piatti e i bicchieri vuoti.

“Sì. Non sarebbero più comode in numero pari?”.

“Può darsi. Ed, in effetti, ne avevo otto in principio. Ma uno mi è stato tolto”.

“Tolto? Ma è terribile…” gemette Vereheveil.

“Un piccolo dono da parte di Madama Momoia per ricordarmi che non devo provare calore” spiegò l’Alto, con uno strano tono tremendamente tranquillo e calmo.

“In che senso provare calore?” fece il demone, accigliandosi.

“Il braccio che mi è stato tolto era l’opposto di quello di vetro. Emetteva calore e mi aiutava a mantenere un equilibrio nella mia temperatura e in quella della casa. Ma mi è stato tolto perché era quello che portava l’amore”.

Il Dio delle Letterature non nascose il suo sconcerto: “Come l’amore? Che significa?” volle sapere.

“La mano di vetro, di ghiaccio, porta il gelo e l’indifferenza. La mano opposta portava il calore e, appunto, l’amore. Ma mi è stato tolto…”.

“Ma è spaventoso!” gemette il Dio dalle ali d’angelo.

“Ti ha fatto male?” si informò Luciherus, trovando strano il tono distaccato e sereno dell’Alto. “Vuoi provare?” sorrise Kasday, lavando i piatti con la sua mano d’acqua e facendo star seduto il suo Messaggero, che voleva aiutarlo “Se vuoi provare posso staccarti un braccio. Poi lo riattacco, lo giuro, ma intanto potresti avere l’occasione di sapere ciò che si prova”.

I tre rabbrividirono.

“Mi rendo conto che nel mio palazzo faccia freddo. Mi dispiace ma non posso fare altrimenti”. “Non sei arrabbiato per tutto quello che ti hanno fatto?” gemette il demone e la Guerra annuì, in apprensione per il suo piccolo.

Kasday alzò le spalle, sfumate fra il blu delle braccia e la bicromia uguale al viso che si espandeva per tutto il petto. Tutti poterono notare che quello che sembrava un girocollo era in realtà una riga di boccioli che gli coronavano il collo.

Mio figlio fiorisce si disse, divertita, la Dea.

 

Con uno sbadiglio, Deyan fece il suo ingresso in sala.

“Buongiorno a tutti!” borbottò, stropicciandosi gli occhi.

“Buongiorno” risposero tutti, anche quelli che non avevano idea di chi fosse.

Kasday, finito di lavare le stoviglie, le sorrise: “Ben svegliata…”.

“Grazie…”.

Andò vicino a sua figlia e l’abbracciò: “Hai mangiato bene, piccola mia?”.

“Sì, mamma”.

“Ed hai ringraziato?”.

Berkana si alzò e fece un inchino rivolto all’Alto: “Grazie, Signor Kasday, per la buona colazione”.

“Nosmagiés…” parlò Kasday, asciugandosi le mani “…dovrai fare la spesa al più presto. Se io non ci sono a creare da mangiare, non resta molto da dare alla piccola. Mangi davvero tantissimo…sai?”.

La piccola sorrise.

“Sì, sì! E non ridere…sei una specie di locusta!”.

L’Alto si avviò verso le scale.

“Signore…dove andate?” domandò l’angelo Messaggero.

“Vado a fare un bagno. L’odore della battaglia mi fa davvero schifo”.

“E noi?” protestò Luciherus, sentendosi di nuovo abbandonato.

“Voi siete liberi di fare quello che volete. Potete  restare come potete andarvene, liberi! Vi chiedo solo di non andare sulla cupola, anche perché ho solo io la chiave e non sapreste entrarvi”.

Detto questo si allontanò, seguito da Nosmagiés.

 

Deyan fissò gli ospiti con curiosità.

“E Voi chi siete?” domandò la Guerra, sentendosi osservata.

“Sono un’amica di Kasday, mi ha salvato la vita”.

La Messaggera si era alzata e le stava pettinando i capelli bianchi con dolcezza.

“Davvero? Interessante…” farfugliò Vereheveil, osservando la somiglianza fra l’Alto e quella donna.

“E Voi, Signora, chi siete?”.

“Sono la Dea della Guerra, la madre di Kasday”.

“Oh, ecco perché in lei ne vedevo una certa somiglianza”.

“Ma dove? Non ha più niente del piccolo e bellissimo bambino che ho messo al mondo”.

“Questo perché voi deucoli badate solo all’apparenza estetica”.

“Non è vero!” protestò Vereheveil.

“A proposito di apparenze estetiche…” si intromise Luciherus “…cos’è quell’oblò azzurro che Kasday ha sul cuore?”.

“Quello…è il suo cuore! Anche il mio è così” rispose lei, scoprendo il seno sinistro e mostrando una mezza luna dorata che pulsava sotto di esso, poi si ricoprì.

“Voi siete una Celeste, lo vedo dal colore della vostra magia” commentò Vereheveil.

“Io sono quello che sono. Che ti importa?” sbottò lei.

Il Dio delle Letterature non rispose.

“Dov’è Kasday?” sibilò il Principe.

“Te lo ha detto…”.

“Sì, ma…io devo parlare con quella benedetta creatura!”.

“Mi sa che ti tocca aspettare…”.

“Ma perché combatte? Non è l’Equilibrio? E l’Equilibrio non è neutrale?”.

“Ma lui è al di sopra di esso”.

Rimasero in silenzio, ascoltando il canto degli uccelli nel giardino interno.

“Voi siete Luciherus, il Dio creato da Momoia, giusto?” disse Deyan.

“Sì. E’ esatto”.

“Che vigliaccata. Ha creato il Dio del Coraggio solo per costringere i suoi alleati a combattere”.

“Io te lo avevo detto che tu sei un Dio solo per quel motivo, ma tu non mi hai voluto credere!” lo derise Vereheveil, sghignazzando.

“Taci, piccione!” ringhiò Luciherus: “Tu credi di essere meglio di me? Cosa pensi di fare in guerra? Fermare i tuoi avversari dicendo: ora vi leggerò un famoso passo di un famoso autore…”.

“Ne ferisce più la penna che la spada!”.

“Uccidimi a colpi di biro, se ci riesci!”.

“Ignorante!”.

“Mezza pippa!”.

La Guerra sospirò.

Deyan li pregò affinché smettessero di litigare ma non ottenne risultati.

“Fanno sempre così…” le spiegò la Dea “…è il loro modo di comunicare!”.

“Non osare toccarmi, codardo piumato!” sibilò il demone.

“Non osare parlarmi così, apprendista!”.

“Finitela di urlare!” li rimproverò la Messaggera “Altrimenti torna giù Nosmagiés incazzato come una bestia…”.

“Che paura…” ridacchiò Luciherus.

“Coglione!” lo insultò Vereheveil.

“Gnomo!” ribatté il Principe.

Deyan scosse il capo, vedendo che nessuno poteva impedirgli di litigare.

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Capitolo 23
*** XXIII- la passione delle bestie ***


XXIII

 

LA PASSIONE DELLE BESTIE

 

Kasday guardava il soffitto, immerso nella vasca in marmo nero, fino al collo. Guardava il soffitto, decorato con motivi in oro, rappresentanti la rosa dei venti e le costellazioni, con aria assente.

“A cosa pensate?” domandò Nosmagiés, ribaltandogli un po’ d’acqua in testa per lavargli i capelli. “A tante cose…” fu  la risposta.

“Siete preoccupato?”.

“Un po’ ”.

“Per la guerra o per il matrimonio?”.

“Per entrambe le cose”.

La vasca era molto ampia e poteva contenere le ali blu, aperte.

“Sono morti degli Alti?”.

“Sono scomparsi. E sono scomparsi anche dei Celesti”.

“É una cosa molto triste…”.

“Già…”.

Dal piano inferiore si udirono le urla di Vereheveil e Luciherus che litigavano. Kasday sbuffò ed immerse la testa in acqua: era stanco di sentirli sempre l’uno contro l’altro.

Dopo un po’ riemerse e coprì le grida con una canzoncina per bambini.

“Loro, là sotto, volevano solo parlare un po’ con Lei, Signore” mormorò l’angelo.

“Ci penserò dopo”.

Nosmagiés iniziò a pettinare i lunghissimi capelli corvini del suo padrone.

“Scusami per prima, mio angelo” gemette l’Alto.

“Oh, no, mio Signore!”.

“Oh, sì, invece!”.

Il Messaggero notò che il suo padrone aveva il viso rigato di lacrime azzurre.

“Sono così…malato di mente! Faresti meglio ad andartene, mio angelo”.

“No. Mai!”.

Kasday, passandosi una mano sul viso, si alzò ed uscì dalla vasca.

“Germoglio se me ne sto in acqua ancora un po’” sbottò.

Nosmagiés sorrise. Due delle gambe del suo padrone erano fatte in legno e sembravano tronchi d’albero, con delle radici ai piedi. Era possibile che germogliassero?

Con aria distratta e distante, l’Alto si sedette davanti ad uno degli specchi ed iniziò a sistemarsi i capelli.

“Lasciate fare a me!” disse, delicatamente, l’angelo ed iniziò a pettinarlo, con cura ed amore.

Nel frattempo Kasday sceglieva gli orecchini da indossare e si sistemava le code.

“Ed il Vostro futuro sposo?” riprese a parlare il messaggero.

“Carino ma…non so…gli manca qualcosa”.

“Cosa?”.

L’Alto si spalmò di creme profumate, per coprire del tutto l’odore di morte e guerra.

“Gli manca la scintilla”.

Si guardava nella superficie riflettente con una smorfia. Si era accorto che i suoi boccioli stavano per fiorire e la cosa lo irritava. Uno di essi già apriva qualche petalo, sprigionando un buonissimo profumo cha l’angelo assaporò con gioia.

“Che cos’è la scintilla, padrone?”.

“Quella sensazione stuzzicante che ti fa venire voglia di averlo accanto a te in qualsiasi momento, che ti lega in modo indelebile e che ti fa provare forti voglie…che tu, asessuato, non puoi capire, mi spiace”.

“A me non  spiace più di tanto. E, quindi, Raido non le fa provare questa scintilla?”.

“No. Mi provoca solo indifferenza e la cosa non mi piace per niente. Ma Momoia mi ha costretto…”.

Si sistemò e si dipinse le unghie, mentre Nosmagiés gli sceglieva una veste colorata da indossare. “E qualcuno Vi ha mai fatto provare questa scintilla?”.

“Sì. Ma era tanto, tanto, tanto tempo fa! Il tempo delle scintille è finito per me”.

“Non dica così…”.

“L’amore non fa per me”.

“Ma perché?”.

“Sono tutte stronzate”.

“Signore…io conosco un sacco di persone innamorate!”.

“Ne sei sicuro?”.

“Certo!”.

“Se ne sei convinto…per quel che mi riguarda, non vedo tanto amore negli Universi. Più che altro c’è dipendenza e desiderio carnale”.

“Gli angeli non amano così…”.

Kasday gli accarezzo il viso e si vestì, lentamente.

“Vi fa ancora male lo spuntone che Momoia Vi ha inserito nella schiena?”.

“Non così tanto, passerà”.

Scalzo e silenzioso, l’Alto fece per uscire dalla stanza.

“Vado nella stanza degli specchi” spiegò “Dì ai nostri ospiti di fare come se fossero a casa loro, sono liberi di fare quello che preferiscono, ma ribadisci il concetto che devono stare lontano dalla cupola”.

Nosmagiés annuì e raggiunse le persone che stavano al piano di sotto,  lasciando il suo Signore da solo, senza chiedere altro.

 

La Guerra, Luciherus e Vereheveil stavano conversando con Deyan, chiedendole informazioni sugli Universi dei Celesti e degli Alti.

“E così…” chiedeva conferma il Principe, parlando di Kasday “…quell’oblò è l’unico modo per porre fine alla sua vita?”.

“Precisamente” rispondeva la Celeste “Infrangere quel vetro con  una sola e particolare arma ti permetterebbe di far scorrere via tutta la sua magia ed energia vitale”.

“Vale la stessa cosa con la sua mezzaluna dorata?”.

“Sì. E’ proprio così”.

“E non basterebbe coprire quel punto debole con…che ne so…un’armatura?”.

“Gli Alti e i Celesti si difendono creando una barriera con  la loro magia. E se non si copre quel punto, si può emettere molta più energia”.

“Ma chi ha tutta questa mira per beccare proprio quel punto?” azzardò Vereheveil.

“É abbastanza grandino come bersaglio…” ridacchiò il demone.

“Non è il problema centrarlo. Il problema è che dovete avere un’immensa carica magica per poter respingere l’energia che sprigionerebbe la sua rottura. Senza contare che il nostro sangue è letale, velenosissimo, per voi”.

“Io non lo voglio uccidere…e, ad ogni modo, poi rinascerebbe, giusto?”.

“Esatto. Momoia è in grado di riportare in vita gli Alti che muoiono. Anche se, ultimamente, pare che abbia perso questa capacità”.

“Ma come?!” si stupì il Dio delle Letterature.

“Siede difettosi?” scherzò Luciherus.

“Non nascono più né Alti né Celesti, nonostante ne muoiano” mormorò Deyan, triste.

“Che fine fanno le loro essenze, se non rinascono?” domandò la Guerra.

“Non lo sappiamo. Spariscono, si dissolvono…non sappiamo dove vadano e soprattutto se muoiano davvero. Nessuno se lo sa spiegare”.

“E non ci sono altri modi per porre fine alla loro vita? Magari esiste un metodo per assorbirne anche l’essenza…” propose Luciherus.

“No, che io sappia. Ma non  te lo posso assicurare, perché non  ho mai provato ad  uccidere nessuno”.

“Certo che…andare alla guerra senza conoscere il proprio nemico…” commentò il Principe, scuotendo il capo sconcertato.

“É molto rischioso…” ammise la Guerra.

“É inutile!” esclamò il demone, convinto.

Vereheveil aveva deciso di ignorare i discorsi di guerra e battaglie. Giocava con Berkana.

“Se Momoia vi trova qui…” parlò il Dio delle Letterature.

“Momoia non deve sapere che siamo qui!” esclamò la piccola “Nessuno lo deve sapere! Nessuno degli Alti! Sarebbe la nostra fine. Kasday corre un grande rischio a nasconderci qui”.

“Perché lo fa?” domandò Luciherus “Perché correre un tale pericolo per voi?”.

“Perché il mio padrone non è un mostro senza cuore!” sbottò Nosmagiés, mentre gli ospiti si stupirono della sua presenza.

“Dov’è Kasday?” volle sapere il Principe.

“É nella stanza degli specchi. Mi ha detto di riferirvi che siete liberi di fare come se foste a casa vostra ma, ribadisce, lontani dalla cupola”.

“Cosa c’è sulla cupola?” si informò il demone, curioso.

“Non lo so, Principe. Ed a te non deve importare. Solo il mio Signore ci entra ed a nessun’altro è concesso mettervi piede”.

“Ma per il resto della casa…” iniziò Luciherus, con un sorrisetto.

“Per il resto della casa potete fare quello che preferite, tutti quanti voi. Ora, scusatemi, ma dovrei andare a fare la spesa”.

L’angelo Messaggero, con un’espressione annoiata e distante, si congedò dagli ospiti ed uscì dal palazzo. Alzò gli occhi al cielo, avviandosi verso la capitale dove avrebbe potuto trovare tutto il necessario per sfamare quel branco di invasori, stupendosi della loro testardaggine.

 

L’ora di pranzo era passata da un pezzo. Deyan era nelle sue stanze e le tre divinità in visita espressero la piena intenzione di non muoversi da lì, fino a quando Kasday non avrebbe trovato il tempo di parlare con loro. Vereheveil ne approfitto per esplorare l’immenso giardino interno, pieno di fiori e piante meravigliose. Lo seguì la bambina e sfruttò l’occasione per chiedere al Dio i nomi delle piante e degli animali a lei sconosciute. Il Dio angelo assaggiò dei frutti, trovandoli deliziosi, e rimase affascinato dalla quantità di flora e fauna  rara presente. Una farfalla enorme e coloratissima spuntò da dietro un fiore di più di un metro. Vereheveil sobbalzò.

Suvvia, Vereheveil! Disse a se stesso. Non puoi avere paura di una farfalla!

La Guerra andò ad intrattenersi con Deyan. Iniziarono a parlare fra loro, come due vecchie amiche. Luciherus passeggiò per la sala, con le mani in tasca e la sigaretta, spenta, fra le labbra. Osservò i monili ed i soprammobili, per lo più aggeggi assurdi che si muovevano e brillavano. Iniziò a salire le scale, seguendo il profumo inconfondibile di Kasday.

Nessuno mi ha detto di non disturbarlo, si giustificò, cercandolo per le diverse stanze.

La casa si faceva sempre più buia e sinistra. Le pareti sembravano convergere verso di lui e scurirsi man mano che avanzava, fino a quando il demone si ritrovò immerso nell’oscurità.

Rizzò le orecchie, deciso a percepire il minimo rumore per orientarsi. Lo percepì. Chiaramente.

Girò il capo e proseguì verso la direzione di quel suono e giunse davanti ad una porta scura.

Subito capì che dall’altro lato c’era Kasday. Chiuse gli occhi, sospirando ed annusandone l’essenza. Poi entrò cautamente, vedendo perfettamente al buio ora che le sue pupille si erano abituate alle tenebre. La stanza era buia ma gli specchi alle pareti emettevano tutti luce ed immagini.

Fece qualche passò. L’Alto era seduto su un trono nero e gli dava le spalle. Luciherus guardava gli schermi, trovando alcuni luoghi vagamente familiari. Si perse fra quelle immagini fino a quando, nuovamente, si accorse che l’occhio giallo dell’antenna di Kasday lo stava fissando.

“Posso fare qualcosa per te?” domandò l’Alto, tranquillo.

“Io…girellavo…” borbottò il demone, con  le mani dietro la schiena.

“Vienimi pure vicino, Principe. Non ti mangio mica…” gli disse Kasday, senza distogliere lo sguardo dallo specchio che aveva di fronte.

Luciherus gli andò appresso. “Che posto è questo?” chiese, meravigliato.

“La mia finestra sui Mondi e gli Universi. Da qui posso osservare ogni luogo creato”. “Divertente…”.

“Vuoi provare?”.

“Mi piacerebbe…”.

Il demone continuava a guardare le antenne magenta, come un bambino davanti ad  un oggetto mai visto. Senza pensarci, allungò la mano e toccò quell’occhio giallo che lo osservava. Le palpebre si serrarono e l’antenna si ritrasse, come le corna delle lumache. Kasday girò leggermente il viso.

“Mi hai fatto male” disse, con tranquillità ed apparente indifferenza, mentre l’antenna tornava ad uscire.

“Scusa! Non sapevo…non pensavo…” iniziò il demone e l’Alto rise.

“Guarda che ti tiro una sberla!” sghignazzò.

“Preferirei di no!” ammise il Principe, con un sorriso.

Il padrone di casa si alzò: “Siediti qui, demone. Vieni a provare” invitò, con un gesto delle mani sulla destra.

Gli specchi si spensero e tornò tutto buio, salvo per la luce emessa dalle due creature nella stanza. “Cosa devo fare?” chiese Luciherus, accomodandosi.

“Vuoi vedere cosa succede adesso nel tuo regno?” gli propose Kasday.

“Sì. Mi piacerebbe!”.

“Bene. Allora concentrati. Guarda solo uno specchio, ignora gli altri, e pensa alle persone che vuoi spiare”.

Il Principe respirò profondamente e concentrò le energie. Dopo un po’ iniziarono ad apparire delle immagini sulla superficie che gli stava di fronte. “Concentrati su una persona sola” gli suggerì l’Alto.

Il demone chiuse gli occhi per un attimo e visualizzò sua figlia. La Dea della Morte, Luciheday, era seduta al Sole e leggeva un blocco per gli appunti, facendo dei segni su di esso, sorridendo soddisfatta. Accanto a lei apparve il Dio della Vita, sorridendo.

“Mi sembrano una coppia felice…” commentò il padrone di casa.

“A me sembrano in errore. Non hanno niente in comune” mormorò il Principe.

Kasday gli passò una mano sulla schiena e sulle spalle.

“Ed io e te…cosa abbiamo in comune?” domandò, mentre il demone si irrigidiva.

“Io…” balbettò, turbato “…non so…”.

“Eppure abbiamo una figlia” sussurrò l’Alto.

“Ma il nostro caso è diverso. Noi non ci siamo sposati e la nostra bambina è…”.

“É stata un incidente? È questo che cerchi di dire?”.

“Te lo sei mai chiesto, Kasday?” parlò Luciherus, guardando il suo interlocutore negli occhi. “Cosa?” sorrise l’Alto.

“Ti sei mai chiesto come sarebbe stato il nostro futuro se avessimo deciso di…essere una grande e bella famiglia felice? Se ci fossimo sposati e se avessimo avuto altri figli?”.

“Lucy, caro…io non me lo chiedo. Io lo so. Sono per parte divinità del destino, non lo ricordi più?”. “Allora mostramelo! Voglio sapere!”.

Davanti allo specchio non si mostrava più niente perché il Principe era troppo stanco per visualizzarne altre.

“Se io ho fatto tanta fatica a vedere immagini su uno solo di loro…” chiese il demone “…come puoi tu illuminarli tutti contemporaneamente? E a lungo?”.

“Io ho molta più magia di te…”

“Mi spii?”.

“Ogni tanto. Più di quanto immagini. Ti dispiace?”.

 “No. Ora mostrami…”.

“Ok. Rilassati”.

Apparve la scena di un matrimonio, con Luciherus sottobraccio con la sua sposa, Kasday  in forma di donna. Lui era elegante e vestito in nero, lei era pallida e con un abito in tulle blu e pizzo.

“Sei molto bella…” mormorò lui.

Lei sorrise.

La scena cambiò. Nello specchio apparvero molti bambini. Angeli, demoni e divinità. Erano tanti e tutti bellissimi, ma i loro sguardi non erano felici. E nemmeno erano felici gli sguardi dei loro genitori.

“Non saremmo stati felici. E sai perché?” parlò Kasday, nella realtà.

Il Principe scosse il capo e l’Alto spiegò.

“Perché sarei comunque, un giorno, divenuto uno degli Alti. Sarei stato costretto ad abbandonarvi. Ma, prima di far questo, ti avrei distrutto. Il tuo corpo non vuole amare, e soffre quando questo tipo di sentimento lo stuzzica. Amandomi, follemente e continuamente, come fa un demone con la sua donna, ti saresti consumato ed indebolito. Gli altri demoni, sapendo questo, avrebbero voluto soverchiarti e prima o poi lo avrebbero fatto, uccidendoti o scacciandoti per sempre dal regno. In questo modo la nostra famiglia si sarebbe dovuta allontanare e vivere in qualche luogo sperduto, rifiutati dai demoni, dagli angeli e dagli Dèi, perché creature impure…”.

“Ok. Basta! Solo una domanda…avremmo mai un figlio maschio?”.

“Io e te? Perché me lo chiedi?”.

“Perché l’ho visto. Mi ha detto che distruggerà gli Universi. Che significa?”.

“Che avevi mangiato pesante, Lucy!”.

“Io sono serio!”.

“Anch’io”.

I due si guardavano, essendo molto vicini l’uno all’altro.

“Io…” mormorò Luciherus “…io ti ho sempre invidiato”.

“Davvero?” esclamò, stupito, l’Alto.

“Sì. Quando eravamo nel regno degli Angeli, io ti invidiavo perché io ero un Arcangelo e tu un Serafino. Poi, quando sono diventato Principe di un intero regno, tu sei diventato un Dio. Ed ora che io sono un Dio…tu sei un Alto! Sei sempre sopra di me…capisci?!”.

“É un così grosso problema per te?”.

“Sì. E’ frustrante. E poi, sinceramente, preferisco stare sopra!”.

“In che senso?” sghignazzò Kasday.

Luciherus agitò la coda.

“Sai, Lucy…è strano. Io ho sempre voluto essere meno di te e meno di niente”.

“Io no! Io voglio essere il migliore, il più forte…colui che sta al di sopra di tutti!”.

“Accontentati di ciò che sei e vedrai che la tua vita sarà molto più rilassata e felice”.

“Voglio essere al di sopra di te! Perché io sono…”.

“Più bello, più forte, più potente…so che ti consideri il migliore! Però…io ti lascerei stare sopra di me”.

L’aspetto di Kasday mutò, divenendo quello di una donna ed appoggiandosi a Luciherus.

“Puoi fare quello che desideri. Sta tranquillo. Non sono più creatrice…non potrò mai generare il maschio che tu hai sognato”.

“Mai?”.

“Né con te, né con nessun altro, fino alla morte”.

Luciherus la strinse a se, con forza e rabbia. Finalmente, dopo aver tanto bramato quelle labbra, le baciò con passione ed eccitazione.

“Ok..Kasday..io..” gemette.

“Sta zitto” sospirò l’Alto, nel suo sinuoso corpo di donna, premendo contro quello del demone, desiderandolo ardentemente.

Era da tanto che il padrone di casa non percepiva quella sensazione,quella voglia, quel contatto carnale. Le era mancato il brivido che provocava l’amplesso e l’unione di due creature che si congiungono. Luciherus era carico di rabbia e di voglia, finalmente soddisfatta. Ansimò di piacere, stringendo forte il pallido corpo femmineo di Kasday, che gemeva al ritmo delle spinte del demone. Senza parlarsi, trovando le parole del tutto superflue, rimasero avvinghiati, ringhiando e godendo, fino a raggiungere l’orgasmo, stringendosi ancora più forte ed ansando i nomi l’uno dell’altro.

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Capitolo 24
*** XXIV- gli Alti ***


XXIV

 

GLI ALTI

 

Momoia non capiva. Cosa ci trovava Hagalaz, Kasday, in quei fastidiosi sottoposti? Cosa lo spingeva a preferire un semplice Dio ad un Alto? Non riusciva a comprenderlo. Sospirò, guardandosi attorno. I pochi Alti rimasti erano lì, con lei, e tutti quanti si mostravano alquanto perplessi. Osservavano Kasday attraverso un piccolo specchio e anche loro si domandavano come potesse preferire una divinità novizia al Signore del Cielo.

Erano in sei in quella stanza, silenziosi e seri. Momoia non  nascose la sua preoccupazione.

Erano sempre di meno. Ed erano, stranamente, tutti presenti. L’unico assente era Kasday, impegnato in ben altre attività.

“Non si preoccupi, Madre” parlò uno di loro, dai grandi occhi monocromatici ed il viso nero “Non ci sconfiggeranno!”.

“Cosa te lo fa pensare, Fehu?” sbottò Momoia, agitando la coda a spuntoni.

“Semplice: sono rimasti i più forti di noi!” esclamò Fehu, facendo brillare i suoi occhi.

Essendo privo di bocca, e parlando facendo vibrare l’aria con la mente, quello era il suo modo di sorridere.

“Sì, è vero. Ma siamo rimasti in pochi. Quei bastardi di Celesti! Come fanno a farci sparire?” sibilò Jera, l’Alto a due teste.

Una era apparentemente normale e l’altra dalle sembianze lupesche. Era la seconda che parlava, ad occhi bendati, mentre l’altra guardava con la bocca fasciata.

“Fonti certe affermano che anche i Celesti calano di numero” parlò Ansuz, l’Alto dalla pelle blu che tutti chiamavano Krì.

“Questo sì che è strano…” ammise Dagaz, l’Alto dal volto d’uccello.

“Ed ancora più strano è il fatto che rimaniamo di pari numero. Siamo in sette noi Alti e sono in sette loro Celesti” disse Momoia.

“Che ci sia qualcuno che ci uccide da entrambe le parti?” azzardò Jera, mentre il suo corpo, per buona parte ricoperto dalla corteccia e dal legno degli alberi, emetteva strani scricchiolii nervosi.

“E chi può essere? Qualche entità suprema?” mormorò, quasi ad aver paura a farsi sentire, Dagaz, avvicinando i suoi sei piccoli tentacoli, simili alle zampette di un insetto, al proprio oblò blu.

“I Supremi? Avete battuto la testa?!” ridacchiò Momoia “A loro non importa niente di ciò che accade dalle nostre parti. E noi non dobbiamo rendergliene conto. È escluso che sia opera loro. Non lo farebbero mai. ”.

“Ma ora noi non  rinasciamo più in te, Madre Momoia. E allora…cos’altro può esserci che non va, se non un intervento al di sopra di noi?” parlò, per la prima volta, Raido.

Momoia non sapeva cosa rispondere. Non le era mai capitato prima d’ora di pensare alla morte.

La morte? Cosa succede ad un Alto quando muore? E può morire per davvero?  Non voleva nemmeno immaginare l’impossibilità di rivedere suo marito. Ma del resto, si convinse, non è possibile che esseri così importanti spariscano definitivamente. Si convinse che doveva esistere un altro sistema…

Smise di dedicarsi ai suoi pensieri quando vide che gli altri Alti la fissavano, perplessi.

“Che cosa facciamo, Madre? Ci stanno eliminando…e lo stesso trattamento è stato riservato ai nostri nemici!”.

Fehu frustava la grande coda di scorpione, attaccata alla parte inferiore del suo busto, con sembianze di equine.

“Di sicuro è colpa loro!” ringhiò Jera, camminando di qua e di là sui suoi otto tentacoli “Dev’essere tutta colpa dei Celesti! Hanno iniziato loro!”.

“Normalmente…” iniziò a parlare Krì “…in una guerra non ha mai ragione o torto nessuno. O, meglio, hanno ragione e torto entrambi”.

“Tu parli sempre complicato, Krì!” inveì l’Alto a due teste.

“É  il mio modo di fare. È una delle mie caratteristiche” ridacchiò Krì, passandosi le mani sui capelli neri e ricci, facendo tintinnare tutti i braccialetti che portava sulle quattro braccia.

“Il potere della parola è molto importante” continuò, con tono tranquillo, e con il terzo occhio socchiuso.

Era l’Alto che aveva meno caratteristiche che lo allontanavano dal normale aspetto dei mortali.

Era il più piccolo e magrolino, con un vitino sottile, ed apparentemente fragile. In realtà era il più forte fra i presenti. La sua abilità in battaglia era riconosciuta ed indiscussa da millenni, così come la sua forza fisica. Spostava le montagne, se era necessario. Aveva gli occhi nocciola ed il terzo era di pietra dura, brillante di luce propria. In cima al capo gli sbucavano due piccole corna nere, rivolte verso il basso, ed una piuma di pavone. Lungo tutti i ricci sbocciavano fiori di loto. Attorno al suo collo stavano due piccoli serpenti, che gli spuntavano dalle spalle. Non aveva ali, né coda. Era vestito in stile indiano e portava l’arco e le frecce. Non era mutato di molto, rispetto a com’era prima di divenire uno degli Alti.

“Che proponi di fare, allora, santone? Rinunciare alla battaglia?” domandò Dagaz, facendo fremere il suo addome d’insetto, diviso in tre parti, con il pungiglione, e gli occhi su di esso.

“Certo che no! Non se ne parla!” si affrettò a rispondere Krì, incrociando le braccia.

“E allora?! Non vale la pena di morire per…non si sa cosa!” insistette Dagaz, scuotendo il capo a becco e con i rami al posto dei capelli.

Fece vibrare  le ali da vespa, irritato, ma Krì rimase impassibile ai suoi attacchi d’ira.

“Io non mi ritiro mai né da una guerra né da una battaglia! Va contro ciò per il quale siamo qui” disse, convinto, l’Alto dalla pelle blu.

“Non può essere il nostro destino morire in guerra!” protestò Fehu, agitando le antenne fiorite e facendo sbattere le chele fra loro.

“Tu che ne sai? Sei forse il padrone del fato?” domandò Krì.

“No, non lo sono. Ma ci tengo alla mia vita!”.

“Fai male!” sorrise l’Alto blu.

“Una volta non  mi importava, perché tanto ero sicuro di rinascere. Ma ora…”.

“Ci sarà sempre qualcosa dopo. La vita fra questi Universi è solo un passaggio…”.

“Tu cosa ne sai? Come ne hai la certezza?”.

Krì non rispose e lo guardò con disprezzo.

“Qualcosa dobbiamo fare!” parlò Fehu, incrociando i tentacoli “Non possiamo permettere che ci portino all’estinzione!”.

“Ben detto, Fehu!” concordò Dagaz.

“Veramente ci stiamo portando all’estinzione da soli…”.

“Fa silenzio, Krì!”.

“Ma fa silenzio tu, Fehu! Hai la testa così piccola che dubito ci possa entrare alcunché…figurati se ci capisci qualcosa di strategia di guerra!”.

Effettivamente l’Alto aveva un viso piuttosto sottile, con due occhi enormi che ne uscivano dai lati e dai lunghi capelli squamosi.

“Non mi sembra una buona idea litigare fra noi!” sbottò Raido, il Signore del Cielo.

“Raido ha ragione” disse Momoia.

“Avete paura di morire?” sibilò l’Alto con le stelle fra i capelli “Dopo tutte le Ere, immutati e presenti, avete paura davvero di andare oltre?!”.

“E chi ti dice che c’è qualcosa oltre?!” volle sapere Jera.

“Krì lo dice…” rispose Dagaz.

“Krì è un drogato!” esclamò Fehu.

L’Alto in questione non  rispose alla provocazione, preferendo stare in pace con se stesso. Degli altri non gli importava.

“Una leggenda narra che resterà uno solo di noi, un giorno…” iniziò Raido.

“É solo una leggenda” rispose Momoia “Ed è priva di senso. Parla di unioni fra Alti e Celesti quando ce ne sarà solo uno per parte. Parla di Principi rivali che si accorderanno per la sconfitta di un nemico comune. Movimenti e passi dimenticati che risvegliano l’unione…è priva di senso!”. “Tutte le leggende hanno dei tratti poco comprensibili” disse Krì.

“Va bene…ma perlomeno sarebbe bello se fosse interpretabile! Chi sono i Principi? Ed i movimenti dimenticati?”.

“Se tutto fosse semplice negli Universi, Madre, noi non serviremmo a niente!” parlò l’Alto blu.

“Gli Universi sono semplici, sono gli altri che li complicano!” esclamò Momoia.

“Gli altri? Gli altri chi?”.

“I mortali, ovvio! Con  i loro discorsi assurdi…”.

“Ignoriamo la leggenda!” propose Fehu.

“Va bene…ma che facciamo?” continuò Dagaz.

“Beh …tu, Krì, ad esempio…” iniziò Momoia, ma l’Alto la interruppe.

“Cosa vuoi?” disse, con aria accigliata e scocciata.

“Momoia!” si intromise Jera “Madre Momoia…perché Kasday è ancora fra noi? Non avevamo deciso di ucciderlo?”.

“Perché siamo rimasti in pochi e lui ci serve…idiota! È un creatore!” sbottò la Madre.

“Ma non vuole creare! Vero, Signore del Cielo?”.

Raido annuì: “Io ho tentato, Momoia. Ma mi ha sempre respinto con  convinzione”.

“E allora costringi quell’essere a fare il suo lavoro!” alzò la voce lei.

“Non potrei mai, Signora. Non sono una creatura così spregevole e schifosa!”.

“E allora fai un figlio con Momoia” propose Krì.

“Perché non con te?!” sibilò la Madre “Così la smetti di perdere tempo con le mortali?”.

“Io, Signora, a dir la verità solo un preservatore. Solo in casi eccezionali sono un creatore”.

“Questo è un caso eccezionale!”.

“No!”.

“Ma…”.

“No! Trovati qualcun altro”.

“Tu devi…”.

“Io non devo niente. Fatti da sola i tuoi Alti”.

Momoia ruotò gli occhi al cielo: “Siete impossibili! Mi date solo fastidio! Ma non lo capite?! Siamo rimasti solo tre creatori: io, Kasday e Raido. Poi ci sei tu, Krì, che sei una via di mezzo, due preservatori e un distruttore, Jera”.

 “E se Kasday fosse un distruttore ora? Fra creatori e distruttori scorre una linea sottile…” azzardò Dagaz.

“Può essere…” ammise Momoia.

“E allora, Signora, perché non create con  il Signore del Cielo?” insistette Krì.

“Come ti permetti? Parlarmi in questo modo…” protestò lei.

“E voi, madama? Non sono il tuo cane, Momoia dalla pelle verde! Non puoi darmi ordini e pretendere assoluta fedeltà, specie se questi sono assurdi!”.

Lei tacque, stanca di discutere.

“E allora cosa pensate di fare? Combattere o ritirarvi, come dei vigliacchi, specie ora che gli eserciti dei mortali sono pronti e guidati dagli Dèi?” sibilò Raido.

Krì ridacchiò.

“Cosa c’è da ridere, Ansuz?”.

 “Non sono pronti. Al momento della guerra, si guarderanno negli occhi e scapperanno!”.

“Credi che non siano sufficientemente addestrati?”.

“Ma neanche un po’!”.

“Il loro compito è affrontare creature simili a loro…”.

“Creature a loro parallele, degli Universi dei Celesti. E credi davvero che ne siano capaci? Per loro sarà come combattere contro la propria immagine!”.

“Pensi di poterli preparare a sufficienza?” domandò Momoia.

“Ovvio”.

“Bene. Ho già portato un paio di volte il nuovo Dio con me…”.

“Luciherus?”.

“Sì. L’ho fatto per dargli un’idea del conflitto e si è mostrato anche lui a dir poco perplesso. Non sapeva della presenza di demoni ed angeli fra i Mondi dei Celesti”.

“Senza contare che quelle due tipologie di creature si odiano. Dovrebbero unirsi in un unico esercito ma come fanno? Secondo me, se si incontreranno, inizieranno a farsi guerra fra loro, ignorando i Celesti!” affermò Krì.

“Pezzo della profezia: quando gli angeli cadranno ed i demoni saranno redenti…”.

“Basta stronzate, Jera!” lo interruppe Momoia, frustando l’aria con le sue strane braccia e sbattendo le ali da farfalla. Era stanca di tutta quella confusione.

“Krì!” ordinò, e l’Alto la fissò “Và fra gli eserciti dei mortali e degli Dèi. Compattali! Usa la tua parlantina per convincerli ad andare oltre alle loro divergenze ed unirsi contro i Celesti. Addestrali come si deve!”.

Krì annuì, poco convinto,  ma sicuro che era inutile discutere. Si congedò dagli altri Alti, rimuginando sul da farsi. Uscì dal palazzo e salì sulla sua strana cavalcatura, che assomigliava ad un cavallo ma aveva degli occhi decisamente più grandi.

“Kiaritanya!” chiamò.

Una piccola creatura gli rispose.

“Kiaritanya, mia Messaggera…dobbiamo andare. Abbiamo un compito da svolgere”.

Lei scese dal muretto su cui si era appollaiata e spiegò le ali d’angelo. Vestiva in modo inusuale, con una bandana rossa in testa, la camicia bianca e dei pantaloni marroncino chiaro. Aprì la sua borsa verde muschio, con un sorrisetto, e ripose il libro che stava leggendo: un volume su un Paese lontano su un piccolo Mondo chiamato India.

Padrone e Messaggera salirono sulla cavalcatura, di uno strano colore fra il giallo ed il verde chiaro, e partirono. Sparirono all’orizzonte, velocissimi e silenziosi.

Momoia nel frattempo prese il Signore del Cielo per la coda da pavone. Lui girò il collo, sottilissimo e lunghissimo.

“Raido…controlla se effettivamente Kasday è un distruttore”.

“Sì, madre…” rispose il Signore del Cielo ed anche lui si allontanò, allargando le braccia e riempiendole di piume per poter volare.

Poi la Madre si rivolse agli Alti rimasti nella sala: “Voi, venite con me! Sferriamo un attacco ai nostri amichetti Celesti!”.

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Capitolo 25
*** XXV- Emanazioni e Dei del cielo ***


XXV

 

EMANAZIONI E DÉI DEL CIELO

 

“Puoi salire sulla cupola, se vuoi” sussurrò Kasday, ancora in forma femminile.

Stava distesa sul pavimento della stanza degli specchi. Luciherus le stava accanto, guardando il soffitto.

“Che cosa c’è sulla cupola? Perché non volevi che ci andassi?” domandò il demone, respirando piano e parlando dolcemente, come in un sogno.

“Ci sono delle cose che non sono sicura che tu voglia vedere…” rispose lei.

Presentava il suo aspetto da donna, con i lunghissimi capelli neri che si espandevano lungo la superficie lucida su cui stava distesa. Si alzò, lentamente, mentre il Principe ruotava gli occhi per osservarne le forme. Gradatamente, tutte le sette braccia dell’Alto ricomparvero e riprese il suo vero aspetto. I fiori sulle sue spalle erano del tutto fioriti. Fece una smorfia, quasi divertita.

“Mi hai fatto fiorire, Luciherus” sussurrò.

Con le due braccia blu si legò i capelli, con l'arto di vetro e quello di metallo si allacciò in vita dei lunghi veli variopinti, la mano di fuoco accese la sigaretta che reggeva con la mano d’acqua. Con il braccio lasciato libero si protese verso Luciherus, per aiutarlo ad alzarsi.

Ma il demone era già in piedi. “Cosa c’è di così terribile lassù?” chiese.

E Kasday rise. “Mi mancava la tua Esse sibilante…” scherzò l’Alto, guardando fuori dalla finestra e dandogli le spalle “Comunque…sali sulla cupola e vedilo con i tuoi occhi. Mi scuso fin da ora”.

Il Principe continuò a non capire ma sorrise.

“Tieni” gli disse l’Alto, porgendogli la sigaretta che aveva acceso “Finiscila tu!”.

Il demone la prese fra le mani: “É così strano vederti in questo modo…” commentò.

“Ma ti sei visto allo specchio?!” rise Kasday.

Luciherus si specchiò e rabbrividì. Il suo viso era di nuovo dolce e sognante, come quando era al tempio degli Angeli. Scuotendosi, tornò alle sue normali sembianze. Riprese ad osservare l’Alto, sbirciandone le gambe che si intravedevano fra i veli semitrasparenti, allacciati alla sottilissima vita. Si chiese cosa fossero quegli strani spuntoni che aveva sulla schiena, che ogni tanto si scopriva dato che il vento gli muoveva i capelli.

“Carine…” disse, riferendosi alle gambe.

“Sono due tronchi d’albero…” le descrisse Kasday “…e germogliano se me ne sto troppo fermo in un posto”.

“E quei due piedini che mi è sembrato di scorgere prima…?”.

L’Alto scansò la gonna, mostrando un altro paio di gambe, una bianca e l’altra nera, legate assieme da un nastro rosso e sollevate da terra.

“Perché le tieni legate?”.

“Sono scomode e le slaccio solo quando devo ballare, dato che queste…erano le gambe che avevo prima…” mormorò il padrone di casa, toccandole.

“Le riconosco…” disse Luciherus “Hai tre code…” continuò.

“Lo so!” esclamò Kasday.

“Cosa sono quegli affari che hai sulla schiena?”.

L’Alto non rispose, si limitò a coprirli definitivamente, aprendo la coda da uccello blu e azzurra a ventaglio, che gli formò una corolla dietro il capo. Poi celò le altre due code, una rossa e pelosa simile a quella di un gatto e l’altra verde e squamosa da coccodrillo, sotto i veli della gonna.

“Sei così…” iniziò il demone.

 “Strano? Mostruoso?” gli suggerì l’Alto.

“Non sto pensando a questo. Ricorda che ho un cane a tre teste e l’ho scelto proprio per questa sua caratteristica. Credi che non  mi piaccia una donna con sette braccia?”.

“Io non sono una donna…” sibilò Kasday, usando la sua lingua biforcuta “Io devo andare Luciherus. Tu torna dagli altri. E ti chiedo di nuovo scusa per ciò che vedrai sulla cupola, so già che la tua curiosità ti spingerà a visitarla”.

“Va bene…”

“Ora và!”.

“Tranquilla…saprò come fare in modo che tu possa farti perdonare” ridacchiò Luciherus, ma Kasday lo respinse, tornando a sedersi sul trono nero.

Il demone si stupì dello strano comportamento dell’Alto e lasciò la stanza, chiudendo la porta dietro di sé.

 

Scese le scale, prestando attenzione ad avere un aspetto presentabile agli occhi dei presenti.

Si lisciò i capelli spettinati e si sistemò la camicia.

“Eccoti!” lo apostrofò Vereheveil “Dov’eri finito?”.

“Nosmagiés…” parlò il Principe, ignorando il Dio delle Letterature “…come si entra nella cupola?”.

“Non si entra!” sbottò il Messaggero.

“Certo che si entra. Il tuo padrone mi ha dato la chiave” mormorò il demone, mostrando una piccola chiave dorata.

Nosmagiés la fissò, smarrito e, dopo un attimo di sconcerto, fece segno al demone di seguirlo. Salirono le scale, seguiti dalla Guerra e da Vereheveil, incuriositi, lungo le scale ed i corridoi, che si facevano sempre più bui.

“Al tuo padrone piace il tetro…” commentò Luciherus, illuminandosi quel che bastava per potersi orientare, ignorando il fatto che gli altri incespicassero nelle tenebre.

“Cosa ci sarà mai nella cupola per impedirci, fino ad ora, di entrare?” continuò, cercando di carpire qualche informazione dalla creatura piumata residente, che però non  lo calcolò.

“Quel che è certo, è che c’è qualcuno di sopra. Ho sentito dei passi”.

“Io non ho mai sentito niente” esclamò Nosmagiés.

“Questo perché voi angeli rasentate la sordità rispetto a quanto bene ci sentiamo noi demoni!”. “Dammi la chiave” ordinò l’angelo Messaggero.

“Tu dimmi dove devo metterla e poi lascia fare a me!” sbottò il Principe, sospettoso perfino di se stesso.

“Qui, demone brontolone, davanti a me” sospirò Nosmagiés.

Luciherus lo scansò con due dita e, espandendo la sua luce, fece brillare la chiave e la serratura, fatte dello stesso materiale. Inserì e girò. La porta si aprì, con uno scatto.

“Entrate…” disse, rassegnato, il Messaggero “…se il mio padrone ha questo desiderio…”.

Il Principe entrò per primo e rimase meravigliato al primo impatto. Nosmagiés indietreggiò. Mai era entrato nella cupola e mai voleva entrarci. Luciherus socchiuse gli occhi. La luce era forte. Ma non voleva chiuderli per poter osservare meglio i ricchi decori che riempivano le pareti ed il soffitto ad archi. Tantissime sferette ruotavano lungo l’area dell’immensa sala, ma solo nella parte superiore perché la parte inferiore era al buio.

“Sembra l’antico palazzo di Urihel…” mormorò Vereheveil.

Si accorsero che, perpendicolare al punto centrale della cupola, stava una persona, divisa a metà fra la parte luminosa della stanza e quella buia. Era come nebbia quell’oscurità, densa e compatta, e camminarci nel mezzo provocava un  lieve solletico.

“Kasday…” si sentì “…che posso fare per te?”.

“Non sono Kasday!” protestò Luciherus, sforzandosi di ricordare dove aveva già sentito quella voce.

“Luciherus?!”.

La figura avanzò di qualche passo.

“Urihel!” esclamò il demone, mentre tutti i presenti venivano presi dallo stupore.

“Avevano detto che eri morto…” iniziò la Dea della Guerra.

“…che avevi rinunciato all’immortalità…” continuò Vereheveil.

“É un piacere vedere qualcuno più vecchio di me!” commentò, sarcastico, Luciherus.

Urihel sorrise.

“É un piacere anche per me rivederti, collega” disse.

“Cosa ci fai qui?” volle sapere il demone.

“Io qui ci vivo, Principino!”.

“Rinchiuso in una cupola?!”.

“Non sono rinchiuso! È stato Kasday a salvarmi, ed io ho deciso di vivere qui”.

“Kasday ti ha salvato?”.

“Sì. Avevo deciso di rinunciare alla mia immortalità e lasciarmi morire, ma lui mi è apparso e mi ha proposto un patto”.

“A quanto pare agli Alti piace fare patti…”.

“Mi ha proposto di divenire Dio del Cielo”.

Luciherus lo osservò meglio. Era cambiato rispetto all’ultima volta in cui si erano visti.

I capelli, una volta azzurri, ora erano quasi blu ed erano tempestati da piccole luci simili a gemme argentee. Le ali, una volta dorate come quelle di tutti gli Arcangeli, erano ora azzurre, con qualche piuma bianca sparsa qua e là.

“Ti piacciono?”domandò Urihel scuotendole, notando che il Principe le stava osservando.

“Molto carine…”.

“Cambiano colore quando cambia il tempo. Se è nuvoloso, ad esempio, diventano grigie”. Vereheveil sorrise “Comode!” commentò.

Gli occhi argento dell’Arcangelo erano rimasti immutati così come l’abito che portava, blu scuro con piccole stelle luminose.

“É un piacere rivedervi tutti, amici miei. Ed è bello vedere che siete tutti divinità…” si stupì Urihel, vedendo il simbolo sulla fronte di Luciherus.

“Perché non saremmo dovuti venire qua? Cosa c’è di così misterioso o terribile?” chiese il demone. “Ti vedi i piedi?” domandò, di rimando, il Dio del Cielo.

“Che domanda è? E, comunque, no. Metà del mio busto è al buio”.

“Ciò che non vi era concesso vedere, si trova in questa nebbia. Espandi la tua luce e vedrai”.

Il Principe, un po’ titubante, si illuminò più intensamente e trasalì. Vereheveil lanciò un grido e la Guerra rimase immobile. La sala era piena di persone, morte od addormentate, sparse per il pavimento. Solo alcune di loro si appoggiavano, abbandonate, a qualcosa, una sedia o un mobile, ma la maggior parte era distesa sul pavimento freddo.

Il Dio delle Letterature si appoggiò al braccio di Luciherus.

“Sono morte?” balbettò.

“Non sembrano molto vive…” rispose il demone, cercato di staccarselo di dosso “Datti un contegno, Vereheveil!” sbottò, infastidito dai suoi piagnucolii “Cosa ti metti a fare in mezzo ad una guerra, con i cadaveri che quasi ti sfiorano?”.

Il Dio dalle ali nere serrò gli occhi e rabbrividì, continuando ad attaccarsi al Principe. Luciherus si inginocchiò, avvicinandosi ad una delle creature distese, e ne tastò il polso.

“Non c’è battito. E non mi sembra che qualcuno di loro respiri..” disse.

“Sarmorghell!” urlò Vereheveil, scorgendo l’angelo fra le creature in terra.

Gli andò vicino, gridando il suo nome. Il Principe non si mosse. Sarmorghell teneva per mano sua sorella, Shekinah, anch’essa priva di segni vitali.

Il Dio delle Letterature scosse l’angelo dai capelli corvini con forza: “Svegliati!” gli gridava “Svegliati! Non puoi essere morto! Non puoi…”.

Lo osservò accuratamente: “Non  hai segni di tagli, ferite, punture…come può un giovane forte e sano come te…”.

Luciherus si era portato accanto a Shekinah e le accarezzava i capelli: “Kasday mi aveva detto…” sussurrò “…che si scusava per ciò che avrei visto quassù”.

“Come ha potuto?! Lo sapevo! Lo dicevo che era diventato un mostro! Uccidere tutta questa gente…uccidere le creature che noi amavamo per…per cosa?! Mostro!”.

Vereheveil piangeva, stringendo Sarmorghell a sé. La Guerra, girando il capo, individuò molte delle guardie che avevano sconfitto per giungere al palazzo.

“Le ha eliminate perché ha visto che erano state battute? Le ha ammazzate perché, per lui, poco degne del loro ruolo?” si chiese, confusa.

Poi due occhi azzurri attirarono il suo sguardo.

“Kaos…” gemette.

Nella parte opposta della sala, addossato alla parete, stava l’antico Dio del Kaos, immobile, ad occhi spalancati.

“Si è liberato della sua controparte…delle sue controparti!” notò il Principe, individuando anche il Destino fra i morti.

“Come fai a vivere qui, Urihel?” domandò Vereheveil, tremando.

“Io sono il custode delle porte del cielo, degli astri degli Universi e dell’Aria. Queste creature sono a metà fra il regno del cielo e quello della terra, in cui voi abitate” spiegò il Dio del Cielo, serio. “Che dici? Non ti capisco!” esclamò Luciherus.

“E perché dovresti? Sei solo il Dio della Forza e del Coraggio…”.

“Ma non ti capisco neanch’io, che sono il Dio delle Letterature…” piagnucolò Vereheveil.

“Loro non sono morti. Nessuna di queste creature lo è. Sono solo…in pausa. Basta un gesto di Kasday per farli muovere, parlare e respirare”.

“Voi siete tutti una manica di pazzi!” sibilò il Dio dai capelli verde acqua.

“Ti sbagli. Chiedi a lui, se non credi a me” parlò Urihel, indicando la porta.

Là, appoggiato allo stipite con la spalla, stava Kasday. Era completamente avvolto in vari teli di seta e tulle colorati.

“Da quanto tempo sei lì?” chiese il Principe.

“E così…massa di miscredenti…volete le prove!” ridacchiò l’Alto.

Bastò una sua parola e tutti i presenti si rianimarono, come risvegliati dal sonno.

“Vereheveil…cosa ci fai qui?” domandò Sarmorghell, ritrovandoselo fra le braccia.

“Non sono un mostro, Dio delle Letterature. Io ho creato queste creature per voi, che me le avete richieste” spiegò il padrone di casa.

“Bugiardo. Io non ho mai richiesto un cadavere vagante!” protestò Vereheveil.

“Non sono cadaveri vaganti!” si accigliò Kasday “Sono emanazioni!”.

“Tutti loro?” si stupì Luciherus, mentre Shekinah lo abbracciava.

“Sì. Tutti loro”.

“Anche Urihel?”.

“No. Lui è un Dio, come voi. E vive qui. Tutti gli altri presenti sono mie creature ed emanazioni”.

“Ma…” disse, dubbioso, il demone “…ci avevano detto che, con  il tuo livello magico, potevi averne al massimo due…”.

“Si sbagliavano. Si sbagliavano tutti sul mio conto”.

Luciherus vide quanto era rimasto ferito nel sentirsi definire mostro.

“Tutte le mie guardie sono mie emanazioni. Il Kaos, mio padre, ora altro non è che una mia emanazione. Così come la Dea del Destino, Sarmorghell e Shekinah. Amici dei miei figli e loro insegnanti, amici vostri e conoscenti…sono tutti emanazioni…per voi!”.

“E per quale motivo?” chiese Vereheveil.

“Perché voi me lo avete chiesto. Voi avete voluto il mio ritorno e la mia presenza ed io, non potendo accontentarvi, ho creato queste creature perché una parte di me vi stia accanto. Dovevano sostituirmi e ci sono riuscite”.

“Mai nessuno potrebbe sostituirti!” esclamò Vereheveil.

“Chiudi la bocca!” lo apostrofò, in malo modo, Kasday “ Io sono un Alto, semplice divinità. Ricordatelo! So bene che cosa vuoi, anche quando nemmeno tu lo capisci!”.

“Intendi dire che la mia Shekinah non ha un’essenza propria, ma è parte di te?” volle sapere Luciherus.

“Esatto. È parte di me…in un certo senso”.

La donna lo guardò, con aria triste.

“Tu lo sapevi…” la accusò il Principe “…e non mi hai detto niente!”.

“Sono stata creata per questo. Non ti ho reso felice?”.

“Moltissimo. Ma era tutto finto…”.

“In realtà, è come se fossi stato sempre io accanto a te…” parlò l’Alto.

“Cosa provavi?”.

“Quando?!”.

“Quando io la baciavo…tu  lo sentivi?”.

“Sì, demone. Io sentivo ogni cosa. Come ho percepito ogni ferita inferta alle mie guardie, che non potevano morire perché la mia essenza non può essere distrutta da delle creature come voi. Sarmorghell e Shekinah erano, e sono, dei regali per voi”.

“Farmi tradire mia moglie è stato un regalo?” protestò Vereheveil.

“Tu l’hai tradita…non  io!”.

“Per colpa tua!”.

“Mia?! Non dire fesserie!”.

“Ma…” si intromise il Principe “…perché non sei venuto tu da noi, invece che creare loro?”. “Perché io sono il mostro, lo strano, il dannato, il malvagio…”.

“Anch’io!” lo interruppe Luciherus.

“Oh, Principe! Tu non puoi capire!”.

“Davvero? Tu dici? Io invece credo di capire e capirti benissimo”.

“Davvero? Ne sei convinto?”.

“Io so solo che la mia parte d’angelo si svela quando ci sei tu e mi è difficile controllarla. Sono di sicuro più persone in uno! E ricorda che, in quanto a dannato e maledetto…non sono secondo a nessuno!”.

“La tua parte d’angelo esce perché gli angeli amano. I demoni no. O meglio…amano, ma in modo diverso. Le creature angeliche amano con l’anima, i demoni con il corpo”.

“Beate le creature dalla vita breve che possono fare entrambe le cose!” mormorò Urihel.

“In realtà non è così” precisò Kasday “In realtà amano come i demoni, ma ricoprono ciò che fanno di illusioni, convinti di amar con l’anima anche se stanno semplicemente seguendo una reazione chimica dettata da una scossa ormonale. Solo gli angeli amano davvero…ed io sono lusingato, Lucy, di sapere che mi ami come un angelo”.

“Io faccio cosa?!” ridacchiò Luciherus, incrociando le braccia.

“Il motivo dei tuoi continui malesseri, Principe, è proprio questo. Il tuo corpo da demone non accetta questo sentimento, ma la tua parte d’angelo non può fare a meno di esprimerlo”.

Il demone lo fissò, scettico: “Tu hai messo al mondo la mia bambina…il resto non credo c’entri molto…è ovvio che…”.

“Ovvio niente! Perché ti vergogni?”.

“Io non mi vergogno!”.

Kasday e Luciherus erano molto vicini e si fissavano.

“Signore…” interruppe Nosmagiés, sbirciando dalla porta “Scusi ma…Raido, il Signore del Cielo, è qui e vuole parlarle”.

“Che palle, Diri-hiuva!” sibilò l’Alto, usando l’altro nome di Raido “Arrivo” sospirò poi, non nascondendo un certo fastidio.

“Non andare da quel bacucco con la faccia dipinta!” disse il demone.

“É il mio futuro marito…”.

“Non è necessario…”.

“Hai forse un’alternativa migliore? Devo andare”.

Kasday si allontanò, scocciato, a passo svelto.

 

“Scusatelo se è così…sfuggevole” iniziò a parlare Nosmagiés, quando il suo Signore si fu allontanato “Ma temo sia arrivato quel periodo dell’anno…” continuò.

“Quale periodo dell’anno?” si informò la Guerra.

“Fioriscono” ridacchiò il Messaggero.

“L’ho notato…” commentò Luciherus, avendo avuto modo di vedere i fiori sbocciati.

“Una volta l’anno, in corrispondenza dell’arrivo della bella stagione, i piccoli fiori che ogni Alto ha in qualche luogo, sbocciano. Emettono un buonissimo profumo che li rende particolarmente ricettivi l’uno all’altro”.

“In che senso?” si informò Vereheveil.

“Nel senso che si chiamano, si cercano, si desiderano…”.

“Vanno in calore?” esclamò Luciherus, scoppiando a ridere.

“Non lo direi in un modo così squallido…” protestò il Messaggero.

“Ma, riassumendo, è questo il concetto! Ora capisco molte cose…” continuò il Principe, sorridendo. “Il mio Signore emette sempre uno schiocco, uno strano verso, ripetuto ed involontario, che funge da richiamo quando fiorisce. A lui da molto fastidio questa cosa. Anche perché non vuole avere altri figli e quindi evita ogni contatto…”.

“Sì, certo…come no!” sghignazzò Luciherus.

“Con te non vale perché non sei un Alto! Con te è ovvio che fa quello che vuole!”.

“Perché? Che hai fatto?” domandò Vereheveil, sospettoso.

I due si osservarono.

Il Dio delle Letterature spalancò gli occhi.: “No! Non dirmelo…di nuovo?! Ma sei una bestia, sei un…nemmeno so definirti…”.

“Ma non mi rompere i coglioni, angelo!” lo interruppe il demone, con tono annoiato ed infastidito. “Perché lo hai fatto?” protestò Vereheveil.

“Perché sono il principe delle tentazioni…” scherzò Luciherus.

“Ed il re chi è?” si intromise Urihel.

“Tua sorella!” sbottò il Principe.

“Premesso che non ho sorelle…” iniziò il Dio del Cielo “…e poi, se ti dovessi rivolgere ad una lei, dovresti usare il termine regina…”.

“Quanto siete noiosi! Non vi sopporto più!” ringhiò il demone, allontanandosi dal gruppo e dalla stanza.

“Non cambierà mai…” esclamò Urihel.

“Perché? Che ha fatto?” domando Nosmagiés, inclinando la testa.

Vereheveil mise il broncio e Shekinah sospirò: “É inutile…” disse lei “…che lui cerchi di mettersi contro la decisione di Momoia di farlo sposare”.

Kasday aveva lasciato tutte le emanazioni sveglie e vigili. Molte di loro chiacchieravano fra loro, felici.

“E così…” parlò Vereheveil per cambiare argomento “…sei un Dio ora, Urihel”.

“Già. Ed è una cosa piuttosto carina. A te come và? Sarmorghell mi ha detto che sei sposato”.

“Sì. Ed ho anche dei figli!”.

“Ah, lo so, lo so! Sarmy mi racconta tutto!”.

“Davvero? Che dolce…”.

Urihel osservava le sferette, che vagavano per la cupola, con attenzione.

“Come mai non ti sei mai fatto vedere?” chiese il Dio delle Letterature.

“Perché avrei dovuto? Qui sto bene e sono felice. Sono sempre stato un solitario”.

“Ma ti credono tutti morto!”.

“E vorrei che continuassero a crederlo tutti ma, purtroppo, alla prossima battaglia mi vedranno e tutti sapranno”.

“Combatterai per Momoia?”.

“É inevitabile. In una guerra degli Alti, tutti devono essere presenti. Perfino tu…che con la guerra non ci azzecchi molto…”.

La Dea della Guerra non parlava, continuando a guardare l’emanazione del Dio del Kaos, che le sorrideva.

“Come può Kasday mantenere in vita tutte queste creature?” parlò ancora Vereheveil.

“Non lo so. Ma ogni volta che parte per una battaglia, queste creature si rafforzano e diventano più potenti”.

“Strano. Non dovrebbe essere il contrario? La battaglia non dovrebbe indebolire la forza dell’essenza di Kasday?”.

“Dovrebbe. Ma non è così. Dicono che, in realtà, lui non combatta ma si nasconda, assorbendo le energie dei feriti e la magia che questi perdono”.

“Non me ne stupirei…”.

“Mio figlio non farebbe mai una cosa del genere!” protestò la Guerra.

“Se posso darvi un consiglio…” riprese a parlare Urihel “…andate ad allenarvi e tenetevi pronti, perché presto Momoia vi chiamerà. Ed allora sarà il momento. Si scontreranno Angeli, Demoni, Spiriti, creature dalla vita breve o lunga, creature del cielo e della terra…tutti!”.

Vereheveil rabbrividì: “Sarà la fine degli Universi” mormorò, spaventato.

“É una frase che ho già sentito dire. Comunque no, non credo. A meno che non muoiano tutti gli Alti e i Celesti…”.

“Potrebbe succedere?”.

“Se è ora, è ora…se gli Alti stessi lo vogliono…”.

“Se loro sono psicopatici, perché ci devo andare nel mezzo io?!” sbraitò Vereheveil “Noi non abbiamo colpa! Perché ucciderci?! E poi…io non voglio combattere!”.

“Tu devi, è ben diverso!”.

“Ci sarà sempre qualcuno al di sopra…”disse la Guerra “E se quel qualcuno non vuole che finisca…allora non finirà! Altrimenti…quel che sarà, sarà!”.

“Giusto!” le sorrise Urihel “E adesso raccontatemi qualcosa di voi!”.

Vereheveil, tentando di dimenticare la situazione, iniziò a raccontare varie cose. Anche le emanazioni parlottavano fra loro.

“Tu non sapevi che il tuo Signore aveva tutte queste emanazioni?” domandò la Guerra a Nosmagiés, che fece spallucce: “Non mi importa quello che fa. Basta che stia buono e non mi picchi…”.

D’un tratto, le creature dipendenti da Kasday tacquero. Vereheveil fece qualche passo verso Urihel, allarmato.

 “Tranquillo. Fanno periodicamente così…” lo rassicurò il Dio dell’Aria.

Tutte le emanazioni spalancarono le braccia, alzando gli occhi al Cielo, emettendo un grido all’unisono. Gli ospiti rimasero storditi dalla cosa.

“Che ti è capitato?” domandò il Dio delle Letterature, rivolto a Sarmorghell, quando tutti si erano placati.

“Tranquillo” gli sorrise l’angelo “Presto vedrai…” mormorò, appoggiandosi ad una sedia ed abbandonandosi su di essa.

Lentamente tutte le emanazioni si assopirono. La Guerra salutò il Kaos ed andò appresso a Nosmagiés, che si avviò verso l’uscita. Il Dio delle Lingue salutò Urihel e seguì il Messaggero, deciso a prepararsi al meglio alla battaglia, definita da molti inevitabile.

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Capitolo 26
*** XXVI- scoperte ***


XXVI

 

SCOPERTE

 

Luciherus seguì Kasday giù dalle scale. L’Alto era accanto al Signore del Cielo, che lo aspettava. “Sei meravigliosa oggi” commentò Raido, con un largo sorriso.

Kasday non rispose.

Il Principe, nascondendosi nell’ombra, osservava entrambi. Notò come i fiori del padrone di casa fossero del tutto aperti ed emettessero un profumo molto gradevole. Ed, evidentemente, si disse, li nota anche Raido, dato il sorriso idiota che ha sulla faccia! Invidiò entrambi, ferocemente. Invidiava soprattutto il Signore del Cielo, perché poteva sposare Kasday, pur non avendo la minima idea di chi fosse veramente. I due Alti attraversarono il quadro e Luciherus decise di seguirli.

Si sentiva piuttosto tranquillo. Era andato già altre volte negli Universi dei Celesti assieme a Momoia e sapeva come orientarsi. Attraversò il tunnel luminoso, scendendo velocissimo, con le braccia lungo il busto ed un largo sorriso. Era adrenalina pura ed al demone piaceva.

I due Alti, inaspettatamente, si divisero ed il Principe decise di ignorare il Signore del Cielo.

Virò nella luce e seguì Kasday, che però accelerò parecchio e lo mise in difficoltà.

Il demone atterrò sul tetto di un palazzo e si guardò attorno. Subito gli abitanti di quel regno lo riconobbero come estraneo e si fecero aggressivi. Ma Luciherus non voleva combattere, non ora. L’unica cosa che desiderava era ritrovare Kasday, scomparso alla sua vista. Cercò di scansarsi dalle creature che gli si scagliavano contro. Erano guidati da un angelo dalle ali nere, con aria accigliata. Il Principe, furioso e molto infastidito, cominciò a colpirli ed abbatterli.

“Levatevi, miseri mortali!” sibilò.

“Congratulazioni!” si sentì dire.

Alzò gli occhi al cielo e vide Momoia, sospesa a mezz’aria, che lo fissava con ammirazione. “Congratulazioni, mio generale”.

“Per cosa?” parlò il demone, quando i suoi avversari si furono allontanati, spaventati da Momoia. “Tu sai che, così facendo, hai innescato un gran bel processo?”.

“In che senso?”.

“Hai ucciso dei mortali dei regni dei Celesti e quindi…”.

Il demone spalancò gli occhi: “…quindi è inevitabile che, ora, anche loro…” mormorò.

“Esatto!” rise Momoia “Esatto! Hai accelerato le cose. Ora la guerra è, come tu hai detto, inevitabile. Sono molto orgogliosa di te. Non sei ferito, vero?”.

“Sto bene”.

“É morto un Celeste” esclamò la Madre, sorridendo felice.

“Bene” borbottò Luciherus, in realtà ignorando del tutto la cosa. “Sai dov’è Kasday?” domandò poi, con più convinzione.

“L’ho visto da quelle parti” rispose lei, indicando un punto all’orizzonte.

“Grazie”.

“Se lo trovi, digli pure che c’è un Celeste di meno e che bisogna festeggiare”.

Il Principe non rispose.

Respinse altre creature che provavano ad infastidirlo e si allontanò, volando, lungo la via indicata dalla Madre degli Alti. Intravide Kasday dentro uno dei palazzi e sorrise, scendendo ed atterrando su un terrazzino dal quale poteva entrare. Si fermò sulla soglia, vedendo che l’Alto era accanto ad un altro individuo con il quale stava parlando tranquillamente.

Lo riconobbe come Jera, l’Alto a due teste e dalle gambe da polipo.

Il demone, rassicurato dal fatto che l’interlocutore della persona che cercava non era un pericolo, entrò nella stanza senza far rumore. Kasday era tranquillo e sorridente ma, ad un tratto, la sua espressione mutò. Gonfiò i capelli e li irrigidì, come le punte di un istrice. Spalancò la bocca, che si ingrandì lasciando più spazio ai denti, che si fecero acuminati ed enormi. Il suo volto si deformò e ringhiò, mutando perfino la punta di tutte le dita, che divennero affilate e minacciose. L’intero suo corpo si riempì di scaglie rigide, la barriera che le creature come lui creavano per proteggersi.

Si gettò contro Jera e lo assalì. Luciherus rimase immobile, a bocca aperta, colpito dal sangue dell’Alto aggredito. Lo sentì bruciare sulla pelle e soppresse un grido. Si sedette in terra e serrò gli occhi. Tutto bruciava. L’aria che respirava, la superficie su cui poggiava, il sangue nelle sue vene.

Dovette riaprire gli occhi e vide Jera, sconfitto, riverso a terra. Ma Kasday non aveva ancora finito con lui. Si avvicino al suo avversario, spalancando la bocca. Luciherus respirava affannosamente, osservando l’Alto, che credeva debole ed indifeso, divorare il suo compagno morto. Il Principe si tappò la bocca con la mano ed una lacrima scese dai suoi occhi, irritati dal fumo sempre più fitto.

Era tutto in fiamme.

Kasday urlò di rabbia quando ebbe finito, avvolto dal fuoco. Luciherus si accorse di non avere più una superficie sotto di sé. Iniziò a precipitare. Non riusciva ad aprire le ali e Kasday era spaventoso.

L’Alto si muoveva fra la lava e fra le essenze che aveva tolto, che formavano un cerchio attorno al suo corpo, ancora ricoperto da placche che lo facevano rassomigliare ad una creatura in armatura. Morti, fiamme, grida…il demone crollò, ed urlò.

Kasday si girò, notando per la prima volta la presenza di Luciherus. In realtà, non si erano mai mossi dalla stanza, era stata solo una delle visioni del Principe. L’Alto guardò negli occhi il demone, senza muoversi e senza parlare. Non sapeva che cosa fare. Inutile era, ormai, cambiare aspetto: lui lo aveva già visto.

Luciherus, stranamente, si sentì rassicurato nell’incrociare lo sguardo di Kasday. La magia che aveva sulla pelle continuava a bruciare ma non emise un lamento. Seduto in terra ed abbandonato ogni proposito di fuggire, pur consapevole che l’Alto avrebbe potuto ucciderlo per ciò che aveva visto, fece per leccare via un po’ di quel liquido fastidioso.

Kasday scattò e lo bloccò. “Moriresti” gli sussurrò, afferrandogli il viso delicatamente.

Inginocchiato, l’Alto tornò gradatamente ad un aspetto più rassicurante. Rilassò il viso ed i capelli, ritirò gli artigli e fece sparire le placche di protezione.

Luciherus non diceva nulla, continuando a fissarlo.

“Cosa è successo qui?” si sentì nell’aria.

Momoia era entrata nel palazzo. L’Alto si alzò in piedi.

“Kasday! Cercavo Jera, l’hai visto? Mi han detto che era da queste parti…” parlò la Madre.

Lui non rispose. La guardava, spaventato, con il viso, mentre gli occhi sul dorso delle sue mani, girate dietro la schiena, fissavano, altrettanto spaventate, Luciherus.

“Veramente…” iniziò a parlare il demone.

“Sì? Dimmi, piccolo, cos’è successo qui?” lo incalzò lei.

“É difficile da spiegare…”.

Kasday lo fissava, sudando freddo.

“…ho visto Jera. Era qui, fino ad un attimo fa”.

“Bene. E poi? Dov’è andato? Sei ferito…quella è la sua magia…”.

“É entrato uno di loro”.

Momoia ringhiò, sommessamente: “É entrato un Celeste?” chiese conferma.

Il Principe annuì.

“Lo hanno ferito?”.

Un altro cenno di assenso.

“Ed ora dov’è?”.

“Se n’è andato. Kasday ha provato ad aiutarlo ma…”.

“Lui non può niente contro uno di loro. Poveri piccini miei…chissà come siete spaventati! Povero Jera…non percepisco più la sua presenza…”.

“É scomparso anche lui?”.

“Sì, mio generale. Sai descrivermi il Celeste?”.

“No. Era buio ed io…l’ho scorto solo un po’…”.

“Capisco. Kasday…occupati di lui. Sai che la nostra magia è velenosa per loro…” disse, a mezza voce, e l’Alto non la guardò, rispondendole con un cenno.

La madre si allontanò, evidentemente addolorata. Kasday tirò un sospiro di sollievo.

“Per un attimo…” parlò, girando gli occhi verso il Principe “…ho temuto che tu avresti raccontato tutto. Mi hai coperto…”.

“Ti fidi così poco di me?” sorrise Luciherus, inclinando la testa.

L’Alto non rispose.

“E poi…anche se lei lo sapesse?” continuò a parlare il demone ma, di nuovo, non ricevette risposta. “Dimmi un po’…che combini, Kasday? È colpa tua se Alti e Celesti svaniscono?”.

“Sono un mostro…” sussurrò Kasday, dandogli le spalle.

“No. Non lo sei!”.

“Che bugiardo!”.

“Non sono un bugiardo! Non in questo caso…perlomeno! Spiegami come stanno le cose”.

“Non ti serve saperlo”.

“Bene. Allora posso dirlo a Momoia…”.

“No!”.

 “E perché? Se non è un problema…”.

“É un problema…Lucy…io…”.

“Io voglio solo sapere che succede. Voglio sapere come stanno le cose. Non sono qui per giudicarti. Non mi importa farlo. Se non me lo vuoi dire, non fa niente…ma mi darebbe molto fastidio!”.

“Ti scoccia così tanto che io ti tenga fuori dalla mia vita?”.

“Ci hai azzeccato. Il perché non lo so, ma non voglio che tu mi tenga nascoste delle cose. Lo hai già fatto altre volte nel passato. Non mi ha detto che il Kaos era tuo padre, che eri un Dio e molte altre cose che se avessi saputo…”.

“Cosa sarebbe cambiato?”.

Il demone si alzò, lentamente e dolorosamente: “Non  lo so cosa sarebbe cambiato ma non voglio che tu mi escluda più dalla tua vita. Ne faccio parte”.

“Parli come…un fidanzato geloso”.

“Un marito geloso. Abbiamo una figlia, te lo sei scordato?”.

“Come potrei? Tranquillo…se lo desideri ti racconterò tutto”.

Luciherus lo fissò, lievemente accigliato.

“Io ti piaccio, vero?” azzardò Kasday.

“Mpf!” ridacchiò il Principe “Che narciso! Perché dovresti piacermi?”.

“Lo vedo”.

Il demone dimenò la coda, in stato di agitazione e disagio, si guardò attorno.

“Tu mi vuoi bene, Lucy. Magari solo un po’, ma ti preoccupi per me e la cosa mi fa piacere. Una figura d’appoggio è…”.

“Io…” parlò in Principe, interrompendolo “…io credo di amarti. Ma non  ne sono sicuro. È un sentimento con cui non mi piace avere molto a che fare…”.

“Neanche io. Allora non pensiamoci. Torniamo a casa. Là avrò modo di spiegarti tutto e mi auguro che tu mi possa capire”.

“Cosa c’è da capire?”.

L’Alto gli porse la mano e, quando il demone l’ebbe afferrata, attraversarono assieme il tunnel di luce che li riportò al palazzo, a velocità notevole.

 

La magia di Jera aveva corroso il corpo del Principe in vari punti, soprattutto nella membrana delle ali.

“Povero piccolo demone…” sussurrò Kasday, ridacchiando.

“Sfotti? Non cercare di rabbonirmi. Io ho il gelo nel cuore, non sperare di scalfirlo tanto facilmente!”.

“Che incredibile faccia tosta! E che bugiardo!”.

“Signore! Siete tornato!” esclamò Nosmagiés, correndo appresso al suo padrone.

“Sì, sono qui. Prepara la vasca, quella grande. Ed usa il barattolo verde”.

“Verde? Perché? State bene?”.

“Più o meno…” borbottò il demone, barcollando leggermente.

“Capisco. Vado subito!”.

Il Messaggero si congedò con quelle parole e salì le scale. Kasday vide la bambina che giocava nel cortile e sorrise. Con una mano si lisciò i capelli, rimasti notevolmente gonfi, e con un braccio afferrò Luciherus, prima che si schiantasse svenuto sul pavimento.

 

Il demone riaprì gli occhi sott’acqua. Sollevò la testa, dopo un po’, e si guardò attorno. “Buongiorno, fiorellino” gli disse il padrone di casa.

“Ah…che sensazione di déjà-vu!” scherzò il Principe.

“Tieni giù la testa” gli suggerì Kasday.

Stava davanti allo specchio e si sistemava i capelli, aiutato da Nosmagiés.

Luciherus ridacchiò, avvertendo una vaga sensazione di solletico.

“Cosa sono questi strani pesciolini verdi?” chiese, notandoli nell’acqua “Mi mangiano?”.

“Sono pesci mangia carne e fra un attimo ti avranno del tutto spolpato!”.

Il Principe lo fissò, preoccupato.

E Kasday scoppiò a ridere: “Tu i pesci non li conosci proprio! Non sono in grado di ucciderti! Sono degli esserini magici che eliminano e guariscono le parti aggredite dal sangue di Jera”.

“Ma che sangue è?” esclamò, allarmato, il demone.

“Velenoso. E acido. Saresti morto, senza l’aiuto di quei cosetti”.

“Sei velenoso? Ti ricordo che mi hai morso e graffiato” continuò il principe, sempre più allarmato. “Sì. Sono velenoso ed anche parecchio! E non solo nel sangue, ma anche negli artigli, nella coda, nei denti, nella punta dei capelli…ma, rilassati! So perfettamente quando, ed in che modo, iniettare la mia parte letale!”.

Luciherus si tranquillizzò e tornò a distendersi, quieto.

“Non mi hanno rovinato la faccia, vero?” protestò.

“No. Sei bello come sempre” lo sfotté Kasday, cambiando gli orecchini.

Luciherus appoggiò la testa sul bordo della vasca.

“Non hai ancora paura dell’acqua, vero, Principe?”.

Luciherus alzò il dito medio, consapevole che il padrone di casa lo osservava sfruttando il riflesso dello specchio di fronte al quale era seduto.

“Come ti senti, Lucy?”.

“Bene. Sono sopravvissuto a due infarti…cosa vuoi che sia una cosa come questa?”.

“Non hai avuto due infarti!”.

“No, giusto! La prima volta mi hanno strappato il cuore fuori dal petto e la seconda sono stato senza battito per…quanto? Più di un’ora? Eppure…sono ancora qua!”.

“E ne sei felice?”.

“Assolutamente!”.

“Nosmagiés, mio messaggero, vai pure adesso. Io ed il mio ospite dobbiamo parlare in privato”. L’angelo fece un inchino, ricordando al suo Signore che bastava un fischio per farlo tornare. Quando fu uscito dalla stanza, Kasday si alzò e si avvicinò al vascone.

“Chiudi gli occhi” ordinò.

“Come?” sibilò il demone, poco prima che una secchiata d’acqua gli venisse ribaltata in testa. Questo fece si che tutti i capelli gli andassero in faccia.

L’Alto rise mentre il Principe li sistemava.

“Sono pronto ad ascoltare la tua storia, Kasday” disse Luciherus.

Il padrone di casa immerse un dito nella vasca e subito tutti i pesciolini verdi gli andarono in contro. Lui li raccolse e li rimise nel barattolo, con cura.

“Vestiti” ordinò di nuovo, indicando al Principe una veste accanto a lui.

Si alzò per riporre il barattolo.

“Non mi piace!” protestò il demone, vedendo che l’abito che gli veniva proposto era di colore bianco.

“Ha una forte carica magica. Mettilo, se non vuoi che rimangano sulla tua pelle quei segni color vinaccia”.

Luciherus sospirò, rassegnato: “Almeno fosse di un altro colore…” brontolò.

“Non fare il bambino! Fai il bravo! O te ne do uno rosa!”.

Il demone storse il naso, disgustato. Kasday chiuse a chiave l’armadio in cui aveva messo i pescetti, mentre il Principe si rivestiva.

“Spero di non aver sconvolto il tuo angelo…” parlò l’ospite.

“E con che cosa?” si stupì il padrone di casa, riordinando gli oggetti davanti allo specchio e cercando qualcosa fra i vari cassetti.

“Con la mia…come dire…lieve differenza anatomica!”.

“Fa il bagno con me…cosa vuoi che gli importi?”.

“Tu sei un Alto. Sei totalmente diverso! Ma io…ho solo un piccolo dettaglio differente. E nemmeno tanto piccolo…”.

“Ma tu pensi solo a quello?!” sbottò Kasday, inginocchiato a sbirciare in un cassettino.

“Non è vero!” dissentì il demone.

Aveva finito di vestirsi, allacciandosi una cintura in vita. Si osservava allo specchio, trovandosi rivoltante. Quella veste gli ricordava troppo quelle date ai giovani angeli. Così bianca e candida, lo metteva a disagio. Ed inoltre la magia in essa lo stuzzicava e lo pizzicava.

“Cosa cerchi?” chiese, dopo un po’, notando che Kasday non smetteva di frugare nei vari antri della stanza.

“Un pettine. Che non corra il rischio di avere il veleno dei miei capelli spezzati. È incredibile…sono l’antico Dio dell’Equilibrio e non so dove stanno le mie cose!”.

Quando lo trovò ne fu molto soddisfatto e lo porse a Luciherus, che iniziò a pettinarsi distrattamente, agitando la coda.

“Allora…Kasday…Che succede?”.

“Siediti e rilassati, Principe”.

“Sono a mio agio, rilassato al limite del possibile. Ora parla! Cosa ti passa per la testa? Qual è la verità?”.

“La verità? Sei sicuro che esista?”.

“Non fare il filosofico! Rispondimi e basta!”.

Kasday si era affacciato alla finestra, con i fiori sulle sue spalle che fremevano ad ogni respiro ed emettevano profumo e polline nell’aria. Si reggeva la testa con la mano bruciata.

“Vuoi sapere la verità?”.

“Assolutamente! Merito di saperlo!”.

“La verità è che…voglio morire”.

“In che senso?”.

“Voglio morire! Sono stanco. Sono stufo. Ma l’unico modo che ho di porre fine alla mia vita è uccidere Momoia, perché altrimenti rinascerei in lei ed io non voglio. Per questo uccido gli Alti. Per indebolire lei. La Madre prende tutta la sua energia dagli altri Alti. Se loro muoiono, la sua magia lentamente crolla. Solo così ho qualche possibilità di batterla. E sto eliminando i Celesti per lo stesso motivo. Loro hanno un capo che svolge lo stesso ruolo di Momoia e devo distruggerlo, se non voglio più correre il rischio di rinascere”.

Luciherus non sapeva cosa dire.

“Pensavo che il tuo fosse un puro gesto di rabbia o vendetta” commentò “Non pensavo che avessi questi desideri. Quindi…ogni volta che passi il quadro, lo fai per andare ad uccidere nemici ed alleati?”.

“Sì, esatto. Un Alto ed un Celeste”.

“Come hai scoperto…in che modo ucciderli in modo definitivo?”.

“É successo tutto per caso. La notte in cui hanno ucciso mio figlio non ho avuto la forza di fare niente. Ma poi, dopo il suicidio di Sowelo, ho preso coraggio e mi sono spinto fino al palazzo del marito di Momoia. Volevo delle spiegazioni. Volevo mi dicessero in faccia perché lo avevano bruciato. Volevo affrontarli, senza pensare. Ho trovato lui, da solo. Mi ha deriso ed umiliato, come piace fare a sua moglie, ed io non sono riuscito a trattenermi”.

“E lo hai ucciso?”.

“Sì. Ho infranto il suo cuore, il suo oblò azzurro. Lui è caduto in terra ed io non sapevo che fare. Se Momoia lo avesse trovato…mi avrebbe torturato. Ma non fino alla morte. Lei sa quando fermarsi, in modo da farti riprendere per poi ricominciare ad infierire. L’unica soluzione possibile che mi è venuta in mente è stata quella di renderlo parte di me”.

“Te lo sei mangiato?”.

“Ogni parte del suo corpo è diventato mia magia. Le sue vesti le ho bruciate alla luce del tramonto. Lo so…è una cosa disgustosa”.

“Un pochino. Ma non avresti potuto escogitare un metodo migliore. In qualunque altro modo, il Padre sarebbe rinato e la Madre lo avrebbe saputo…”.

“Da quel giorno, vedendo una possibilità per andarmene, ho iniziato ad eliminarli, uno dopo l’altro, con sempre più rabbia, ricordando ciò che mi avevano fatto. E vidi da subito che Momoia andava indebolendosi”.

“Ed i Celesti? Cosa hanno a che fare in tutto questo? Loro non ti hanno fatto del male…”.

“Devo preservare l’equilibrio degli Universi. Se muore del tutto una delle due parti, Alti o Celesti, gli Universi collassano fra loro”.

Luciherus lo fissava, muovendo solo leggermente le orecchie.

“Sono matto” sorrise l’Alto.

“Forse. Leggermente. Ma dimmi: una volta morta Momoia, cosa succederà agli Universi?”. “Niente!”.

“Sei sicuro, Alto pazzerello?”.

“Se così fosse ,qualcuno al di sopra mi avrebbe fermato”.

“Qualcuno tipo chi?”.

“Non lo so. Ma c’è sempre qualcuno al di sopra. Nessuno mi ha fermato…perciò va bene così!”. “Fra quando saresti in grado di ucciderla?”.

“Momoia? Fra non  molto. Credo che un altro Alto potrà bastare. Ti ringrazio di non averle detto la verità…”.

“Non avrei potuto. Ma forse…avrei dovuto”.

“Perché dici questo?”.

“Come perché? Sei un pazzo. Questo è un dato certo. Voler morire è una pazzia. Ma ucciderci tutti…per morire! È folle! Folle totalmente!”.

“Non capisci il mio dolore?” mormorò Kasday, guardando Luciherus con grandi occhi azzurri.

“Lo capisco. Ma non potrei mai morire. Non rinuncerei mai, volontariamente, alla vita. Esistere è meraviglioso. La vita è dinamismo, cambiamento, libertà e forza. Bisogna sempre saper guardare avanti, qualunque cosa accada”.

“Tu la fai facile…”.

“Non ho finito! Quello che mi chiedo è: come puoi essere così egoista?”.

“Egoista?!”.

“Correre il rischio di far finire i Mondi per accontentare un desiderio personale…”.

“I Mondi non finiranno!”.

“Come lo sai?”.

“C’è mio figlio per questo”.

“Kavahel? Kavahel ha per ruolo quello di far ricominciare ogni cosa quando gli Universi saranno distrutti! Quando tutti noi saremo morti! Se tu, grande creatore, muori, allora anche gli Universi da te creati e controllati giungono alla fine. E noi con loro. È questo ciò che vuoi?”.

Kasday non rispose.

“Lo trovi normale?” aggiunse il demone.

“Io non sono un egoista. Nessuno di voi morirà. Gli Universi continueranno e tu vivrai, tranquillo!”. “Ma perché non vuoi vivere?”.

“Non ho un motivo per farlo. La gente mi odia e ha paura di me, anche coloro che una volta mi amavano…”.

“La gente ti rispetta! Anch’io, nel mio regno, sfrutto il fatto che i miei sudditi mi temono!”.

“Io non voglio questo. Voglio che loro mi amino, ma  non  può succedere perché mi guardano e si spaventano. Sono un mostro”.

Il Principe notò un certo nervosismo nell’atteggiamento dell’Alto.

“Perché continui a dire questo?” domandò, preoccupato.

“Credi che non senta i pensieri delle persone?! Credi che non lo sappia?!” urlò Kasday, ribaltando uno specchio.

Il demone indietreggiò.

“Io ho creato questi Universi!” ricominciò a gridare l’Alto “Io ho fatto sì che ci sia sempre un equilibrio fra Kaos e Destino, sono divenuto un Dio pur non volendolo, sono divenuto questo obbrobrio per mantenere questo fottuto equilibrio! Avrei potuto sbattermene altamente e lasciarvi morire tutti ed invece no! Mi sono sacrificato io, per voi! Ma voi, creature ingrate, non fare altro che apostrofarmi come un essere pazzo, mostruoso ed incompetente. Sai cosa ti dico? Che non mi importa se morite! Vi odio! Vi odio tutti! Tutte le creature che ho creato…non fanno che odiarmi!”. “Io non ho mai pensato che tu sia un mostro. E non ti ho mai odiato” rispose, tranquillo, Luciherus. “Perché sei un pazzo! Tanto quanto me. E sei un bugiardo, come Vereheveil”.

“Lo sono. Mai detto il contrario. Ma non con te”.

“Non ti faccio paura?” sussurrò l’Alto, mostrando il suo aspetto più terribile.

“No” esclamò, convinto, il Principe “Puoi fare ciò che vuoi, ma io non avrò mai paura di te”. Kasday abbassò le braccia, rinunciando a rompere altri oggetti, ed i due si guardarono.

“Mi dispiace che tu non capisca il mio punto di vista. Mi dispiace davvero. Ma, nonostante tutto, io continuerò per la mia strada. Voglio uccidere Momoia e farò di tutto per raggiungere il mio scopo! Tu fai ciò che credi. Dillo a tutti se lo credi giusto”.

“Io non parlerò. Però Momoia potrebbe leggere nei miei pensieri…”.

L’Alto gli si avvicinò ulteriormente e gli appoggiò la mano di vetro sulla fronte.

“Da questo momento lei non potrà vedere nulla, a meno che tu non  lo desideri. Ed ora scusami, vorrei tornare oltre al quadro”.

Luciherus gli strinse la mano.

“Io non voglio che tu muoia…ma rispetto la tua decisione” mormorò.

“Grazie. E non è vero che odio tutti. Io non odio te…”.

Il demone scattò solo leggermente e lo baciò, dimostrandogli non solo che non provava alcun timore ma che non lo considerava un mostro. Forse..forse lo amava per davvero!

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Capitolo 27
*** XXVII- addestramento ***


XXVII

 

ADDESTRAMENTO

 

L’Alto Krì osservava tutti gli Dèi con rimprovero. Si stavano allenando fra loro ma l’Alto non sembrava soddisfatto, guardando gli scontri dalla sua cavalcatura. Kiaritanya gli stava seduta accanto, leggendo ed ignorandoli.

“In questo momento…” commentò Krì “…Momoia sta portando alla guerra gli Angeli ed i Demoni dei suoi Universi. Vuole la vostra presenza per sferrare l’attacco finale ai Celesti ma, ora come ora, dubito che voi ne siate in grado!”.

Proteste sommesse e commenti perfidi si levarono fra le divinità.

“Cosa avete da protestare?” si stupì l’Alto “Io dico la verità. C’è forse qualcuno che mette in dubbio le mie capacità? Volete sfidarmi, mezzi guerrieri?”.

“Ma come parli, Krì Ansuz? Non è da te!”.

Un essere, molto simile all’Alto, lo osservava dalla cima di un palazzo. Era stato lui a parlare. “Vattene, per favore” lo invitò Krì.

L’unica differenza fra i due era il colore della pelle. Quella dell’Alto era blu, l’altro invece era aranciato.

“Sono solo passato a salutarti!” protestò l’aranciato.

“Non dovresti. Momoia ti ucciderebbe se ti vedesse qui. Sei uno dei nemici”.

I due parlavano fra loro in una lingua incomprensibile agli altri presenti.

“Fratello mio! Krì! Io non ti farei mai del male…”.

“Nemmeno io. Ma se ci dovessimo trovare uno contro l’altro…lo scontro sarà inevitabile!”. “Puf…tu ed il tuo inevitabile! Tutto è evitabile. Potresti non combattere, ora, per esempio”.

“Potrei ucciderti, ora, per esempio!”.

“Non lo faresti. Non senza un motivo. Povero fratellino mio…”.

“Povero?! Tornatene da dove sei venuto!”.

“Va bene, Krì. Volevo solo dare un’occhiata agli eserciti di Momoia”.

“Non c’è molto da vedere…” mormorò l’Alto, scendendo dalla sua cavalcatura gialla.

La sua messaggera si limitò ad usare la sua borsa come contrappeso, per non cadere.

“In questo momento…” parlò di nuovo l’aranciato “…i nostri Angeli stanno affrontando i vostri Angeli, così come fanno i Demoni. Congratulazioni…li hai resi un esercito unito!”.

“Solo temporaneamente. Ci ho provato ma, secondo me, presto ricominceranno a litigare fra loro, come sempre. Non sposano molto la causa di noi Alti”.

“Anche i nostri fanno così. A torto, forse?”.

“Assolutamente no!”.

I due fratelli risero.

“Vienimi a trovare ogni tanto, fratello mio blu! Ho dei biscottini al burro che sono una vera delizia. Sono sicuro che li gradiresti!”.

“Verrò a rubarteli durante la notte, come quando eravamo bambini”.

Il Celeste aranciato sparì con un largo sorriso e Krì ricominciò a girare per il campo d’addestramento. Kiaritanya lo seguiva, facendo trottare la cavalcatura dallo strano colore e dicendogli strane frasi tipo: “Andiamo a pugnare!”.

Ansuz scosse il capo, divertito.

“Attento all’arma che scegli, ragazzo” disse, rivolto a Kavahel, che stava provando una spada “Quella che hai fra le mani è molto buona, ma non è molto facile da portare appresso se ci si deve muovere in fretta”.

Kavahel annuì, pensieroso: “Avete ragione. Lord”.

“Lord?” si stupì Krì.

“Non posso chiamarvi così? Sono molto colpito dalla Vostra capacità guerriera. Vorrei affinare le mie tecniche, specie l’uso dell’arco. Mi dareste una mano?”.

“Volentieri ragazzo”.

L’Alto si fece porgere l’arco e le frecce dalla sua Messaggera.

“É semplice…” spiegò, tendendo l’arco e scoccando una freccia.

Colpì il bersaglio prestabilito: un’albicocca posta su un albero piuttosto lontano.

“Bravo!” applaudirono due giovani donne che li stavano ad osservare.

L’Alto sorrise, facendo un inchino.

“Che culo!” esclamò Kiaritanya e Krì storse il naso, incrociando le quattro braccia.

Sospirò e tornò dal suo allievo: “Prova anche tu, Kavahel figlio di Kasday…”.

“Della tribù degli Equilibrati squilibrati, parenti dei combina disastri e dai gusti sessuali incerti…” si intromise la Messaggera.

“Kiaritanya! Sto cercando di farlo concentrare!” sbottò l’Alto dalla pelle blu.

“Mi annoio! Non sarà mica una cosa lunga come Ar j?”.

“Quello è stato molti millenni fa, prima ancora di essere un Alto! E, comunque, se anche questo ragazzo ha bisogno di essere addestrato è quello che farò!”.

“Quello di prima ci ha messo molto a capire però…”.

“Lui capirà più in fretta!”.

Si mise accanto a Kavahel, che si sentiva decisamente sotto pressione, e gli mostrò come fare.

“È tutta una questione di concentrazione” gli spiegò “Visualizza il tuo obiettivo e vedrai che non potrai sbagliare. Se sai quale scopo perseguire, sarà la freccia stessa a centrare il bersaglio, senza sforzo”.

Kavahel fece segno di aver capito. Imitò la posizione del suo maestro con il suo arco. Krì stava per scoccare quando si accorse di un’ombra che li osservava da un albero. Subito si girò e scagliò la freccia. La spia la afferrò fra le mani e ridacchiò.

“Sei troppo teso, Krì!”.

“Oh, Kasday! Sei tu!”.

“In persona” rispose l’Alto, scendendo dall’albero ed andando incontro a maestro ed allievo.

Aveva un abito lungo con lo strascico che lasciava scoperta la parte superiore del suo busto, di cui però aveva nascosto la maggior parte della braccia, mantenendo solo quelle blu ed unghiate. “Com’è andata, collega?” domandò Ansuz.

“Cosa?” si stupì Kasday, sorridendo.

Non mostrava assolutamente il suo vero aspetto, anzi aveva un viso dolce ed i capelli raccolti. Nemmeno le antenne si potevano scorgere.

“Come cosa?! Non sei andato in battaglia?!”.

“Ah, già. È vero. Questa è la tua freccia”.

“Grazie” rise l’Alto di colore blu, capendo di quanto poco gli importasse della guerra, non  solo a lui ma anche al suo collega.

“Non ti aspettavo qui, Hagalaz. Dicono che non esci mai da casa…”.

“Non è del tutto errato. Ma volevo vedere di persona i nostri schieramenti”.

“Gli Angeli e i Demoni sono già in guerra…”.

 “Lo so. Ma, com’era prevedibile, ci sono stati dei problemi”.

“Non sono molto uniti e convinti…”.

“Non so come dargli torto!”.

“Perché non copri le mani?”.

“Quelle bruciate? Perché? Ti danno fastidio?” domandò Kasday, accigliato.

“No, ma non sono molto adatte alla battaglia”.

Di tutta risposta, l’Alto dagli occhi azzurri afferrò la spada di Kavahel e la rigirò più volte, velocissimo.

“Come non detto…” sorrise Krì.

Solo quando rese l’arma, Kasday si accorse a chi l’aveva sottratta.

“Kavahel!” esclamò.

“Già…ciao”.

“Come sei cresciuto!”.

Il ragazzo si lasciò abbracciare. Era felice.

“Che ragazzo coraggioso…andrà alla guerra. Mi dispiace…”.

“Io ne sono molto soddisfatto, invece. Almeno faccio qualcosa di serio, invece che stare tutto il giorno a perdere tempo con  quei due fratelli psicopatici che mi ritrovo!”.

“Kaos e Destino?”.

“Proprio loro. Aspetta qui. Vado a chiamare tutti!”.

Il giovane si allontanò velocemente, ma Kasday  non aspettò. Gli diede le spalle e fece per andarsene.

“Perché lo lasci così?” domandò Krì.

“Non sono affari che ti riguardano, Ansuz!”.

“Sei proprio strano!” ridacchiò, e tornò a concentrarsi sugli eserciti.

Kasday si allontanò, lungo una collinetta, inoltrandosi in un boschetto.

Tornò al suo solito aspetto, con sette braccia, le antenne e tutto il resto. Si sentì chiamare. “Kasday!”.

Si voltò e vide Vereheveil, che lo guardava, con grandi occhi tristi.

“Te ne vai?”.

“Ho da fare…”.

“Voglio parlare con te”.

“Ribadisco il concetto della frase precedente…”.

“Senti…anch’io ho da fare! Ma un attimo per me lo devi trovare!” protestò il Dio delle Letterature, notando che l’Alto lo ignorava e proseguiva per la sua strada.

“Devo?!” sbottò Kasday.

“Sì, esatto. Devi!”.

“Dov’è tua moglie, Dio?”.

Si inseguivano fra gli alberi. L’Alto avanzava con facilità, avendo anche gli alberi dalla sua parte. Lo facevano passare, impedendo a Vereheveil di proseguire.

“É a casa. Ti prego…fermati e parla con me!”.

Kasday sospirò, borbottando strane cose.  “Cosa vuoi?” disse, fermandosi e girandosi.

“Cosa vuoi?! Non sei felice di vedermi?”.

“Lo sono…e tu non hai paura?”.

“Il tuo aspetto non è fra i più rassicuranti, ma mi ci posso abituare”.

“No, te lo assicuro. Non mi ci sono ancora abituato io dopo millenni…”.

“É colpa mia” disse il Dio dalle ali d’angelo, chinando il capo.

“Cosa?”.

“Se tu sei così”.

“Così come?”.

“Così come sei”.

“Io sono come sono. Ed è tutto merito, o colpa, mia”.

“Ne sei sicuro?”.

“No. Ma non ti deve importare”.

“Come sarebbe a dire?”.

“Non puoi fare niente per cambiare la mia condizione”.

“Sei arrabbiato con me, vero?” disse Vereheveil, incrociando le braccia.

“Arrabbiato?”.

“Sei arrabbiato perché io sono sposato!”.

Kasday scoppiò a ridere.

“Cazzo ridi?!” sibilò il Dio delle Letterature.

“Quanto narcisismo! Io sono arrabbiato, è vero, ma non  per colpa tua. Quando ti ho visto, con l’abito da sposo, sono stato davvero felice”.

“Veramente?” si stupì Vereheveil, potendosi vedere, sul suo viso, una punta di delusione.

“L’abito confezionato dalla Dea dell’Estate, i fiori della Primavera, le scarpe dell’Autunno e i gioielli dell’Inverno. Doni simbolo di fertilità i primi due, aiuto nel lungo cammino il terzo e augurio affinché la vostra unione sopravviva al freddo ed ai problemi, durando eternamente come una gemma preziosa. Simboli superflui ed inutili…ma molto belli. E voi due, sposi, eravate stupendi. Chi mancava?”.

“Dove?”.

“Alla cerimonia. Si dice che si saprà come andrà un matrimonio in base alle divinità presenti o assenti”.

“Mancavi tu!”.

“Io non conto”.

“Per me conti!”.

“E allora non avresti dovuto sposare un’altra, non trovi?”.

Il Dio delle Letterature chinò la testa. “Ho dovuto sposarmi”.

“Tranquillo. Io sono felice per te. E sono orgoglioso del modo in cui hai cresciuto i nostri figli”.

“É per loro che mi sono sposato! Avevano bisogno di una madre”.

“E gli altri piccoli che hai avuto con lei? Incidenti? Sta calmo. Non sono qui per giudicarti. Sono felice per te”.

“Non ti capisco…”.

“Non è una novità”.

“Ho saputo che ti sposerai”.

“No”.

“Come no?!”.

“No. Non mi sposerò”.

“Mi dispiace…”.

“A me no”.

“Io…”.

“Torna ad allenarti, Vereheveil. Ti serve!” ridacchiò l’Alto.

“Ma…io…Kasday…”.

“Basta adesso. Sono stanco. E voglio tornare a casa”.

“Perché non vuoi vedere i tuoi figli?”.

“Kavahel l’ho visto ed i gemelli non mi riconoscono”.

“Ma vogliono vederti!”.

“Mi vedranno. Ma non oggi. Ho di meglio da fare!”.

“Tipo? Contare le gocce di pioggia?”.

“O i bruchi. Molto dipende dagli eventi atmosferici”.

Kasday si allontanò.

“Vinceremo contro i Celesti?” gli urlò dietro il Dio delle Letterature.

“La cosa mi interessa poco” gridò, di rimando, Kasday.

“Ma come?!”.

“Puf!”.

L’Alto spalancò le braccia blu e le riempì di piume. Poi prese il volo e scomparve all’orizzonte. “Non darti troppa pena per lui. Ricorda che è un Alto” si sentì dire il Dio delle Letterature.

Trasalì e vide che era stato Krì a parlare.

“Cosa intendi dire? E da dove sbuchi?”.

“Io sono bravo a sbucare dal nulla! E Kasday…è inavvicinabile! Non vuole l’aiuto di nessuno e non ne ha bisogno. Ha dei guai che deve affrontare e risolvere da solo, senza avere un  supporto da nessuno. Non deve farti troppo struggere. Se la cava benissimo. O, perlomeno, così sembra!”. Vereheveil non sembrava convinto, ma dovette rassegnarsi. Tornò verso il campo di addestramento, chiedendosi per quale motivo Kasday fosse giunto fino a lì, per poi andar via in quel modo.

Entrò in una tenda e si ritrovò da solo. Si sedette in un angolo, aprendo la sua borsa.

“Un brindisi a te, antico amore mio!” sussurrò, sorseggiando liquore ed appoggiando il viso alle ginocchia, con aria afflitta “In  che stato siamo, oramai…”.

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Capitolo 28
*** XXVIII- stelle cadenti ***


XXVIII

 

STELLE CADENTI

 

Luciherus si era appena fatto fare un riassunto della battaglia appena trascorsa. Stava seduto sulla sua scrivania nera, in una delle stanze private del palazzo, nella capitale del regno dei Demoni. Azazel, addormentato Cerbero, gli parlava con entusiasmo.  Anche sua sorella Raven non nascondeva la sua allegria.

“Siamo stati fantastici!” raccontò Azazel, sfoggiando una canottiera scura, con scritte contro gli angeli, e dei pantaloni in similpelle.

“Sì. E’ vero! I demoni hanno combattuto con fierezza ed orgoglio!” confermò Raven, con canottiera in pizzo nero a rose ed una gonna a sbalzi dello stesso stile.

“Mi dispiace non essere stato presente” ammise il Principe.

“Magari sarebbe stato meglio. Ma di sicuro voi ed il Dio Triplice avevate cose più importanti da fare e di cui discutere” rispose Raven.

Luciherus sorrise, ripensando a ciò che aveva fatto, durante la battaglia, nel palazzo del Dio Triplice. Il corpo e l’aspetto femminile di Kasday era una cosa di sicuro più piacevole di ciò che svolgeva ora. Magari non altrettanto utile ed importante, ma di sicuro più eccitante.

Rimase sorridente, perso nei suoi pensieri. Poi sbuffò, guardando la pila di carte che aveva davanti, ammassate sulla scrivania.

“Vado via per un po’ e guarda quante scartoffie da firmare! Ma non c’è nessuno qui che sia in grado di falsificare la mia sigla?”.

“Certo che no!” esclamò Azazel, serio.

“Quanta lealtà, quando non è necessaria!” brontolò il Principe, cominciando a firmare con una piuma dorata.

Leggeva i fogli distrattamente. Senza bussare, e lasciando la porta spalancata, Lilith entrò. Stranamente abbronzata, con il suo lunghissimo pitone attorno al corpo, si fermò di fronte al suo compagno.

“Sei tornata dal mare?” le chiese Luciherus, senza distrarsi dai suoi documenti.

“Bastardo” sibilò lei.

Il Principe alzò gli occhi: “Guarda che io so chi sono i miei genitori…” rispose, tranquillo.

“Tu…ho saputo che c’è una piccola puttanella nuova fra le tue grazie”.

“La definisci in quel modo perché è solo una novizia nel mestiere che fai dalla notte dei tempi, Lilith?”.

Lei tremò dalla rabbia: “Come ti permetti?!”.

“Avanti, mia cara…non c’è nessuno qui che non abbia potuto godere delle tue grazie…forse Raven, ma non ne sono del tutto sicuro…”.

“E questo che cosa c’entra?”.

“Come puoi essere gelosa? Io non lo sono…”.

“Tu non mi ami!”.

“Ti suona tanto strano?” si stupì il Principe.

“Ma ami questa Shekinah!”

“Shekinah?” ripeté Luciherus, starnutendo.

“Ecco! Lo vedi? Stai male per colpa sua! La ami!”.

Il demone si alzò e le andò vicino.

“Questi sono discorsi da fare in privato. Ora…torna a giocare con qualche guardia o con qualche altro tuo amichetto…”.

Lilith, furiosa, gli mollò una sberla. Il Principe, colto alla sprovvista, non la schivò. Lei se ne andò, ringhiando sommessamente ed imprecando, definendolo l’essere più spregevole del creato. Il demone strinse fra le mani la collana che gli aveva donato Kasday. Aveva per ciondolo il simbolo dell’equilibrio: “così potrai meglio pregarmi” gli aveva detto.

“Perché voi donne siete così complicate?” mormorò e Raven sorrise.

“Perché altrimenti non sarebbe divertente!” rispose, sghignazzando.

Tutto il palazzo sentì le urla di protesta di Lilith. C’era chi ne rideva e chi se ne preoccupava.

“Mai nessuno che si faccia i cazzi suoi!” brontolò il demone capo, tornando alla scrivania “Dov’è Asmodai?” volle sapere, svogliato.

“Non è ancora rientrato” fu la risposta del piccolo demone Azazel.

“Gli è successo qualcosa?”.

“Non lo sappiamo” confessò Raven.

“Appena arriva mandatelo da me, mi raccomando!”.

“Sarà fatto!” confermarono, in coro, i due fratelli.

“Signore!” sbraitò un demone, entrando nella sala.

“Che succede? Un’invasione aliena?” sibilò il Principe, infastidito dalle grida.

“Signore…perdonate l’intrusione ma…c’è un essere che sta giungendo qui. Sembra molto arrabbiato ed è spaventoso!”.

“Che cosa intendi con il termine "essere"?”.

“Non riusciamo a fermarlo!”.

Il Principe si alzò di controvoglia e si affacciò lungo il corridoio. Spalancò gli occhi.

Il Signore del Cielo avanzava velocemente, spostando chiunque lo intralciasse con  la sola vibrazione della punta delle dita.

“Luciherus!” urlava, a gran voce.

“Che vuoi?” gli gridò, con rabbia, di rimando  il padrone di casa.

“Ti cercavo…ti devo parlare…” affermò Raido, ma il suo sguardo indicava qualunque desiderio tranne quello di farsi una bella chiacchierata “Vieni qui, piccino!” mormorò.

Luciherus scoppiò a ridere e gli mostrò il dito medio: “Vienimi a prendermi, bellezza!” esclamò, beffardo.

Continuò la sua risata maligna ed iniziò a correre, inseguito dall’Alto, lungo le stanze del palazzo. Dopo aver combinato un po’ di danni ed aver allarmato molte persone, si ritrovarono all’esterno.

Il Signore del Cielo sbarrava la strada al Principe.

“Dove credi di andare?” sibilò Raido.

“E tu chi credi di essere? E che cosa vuoi?”.

“Tu devi essere eliminato!”.

“Cosa?”.

“Tu, demone, sei una palla al piede nel matrimonio fra me e Kasday!”

“Oh! Mi dispiace!” disse Luciherus, con evidente sarcasmo “Sarà che tu sei un grosso bastone ed a lei stai fra le ruote?” commentò, con dei gesti decisamente poco principeschi.

“Come ti permetti, deucolo?”.

“Mi permetto, eccome, Alticcio! Kasday non può sposare una cimice luccicosa come te!”. “Luccicoso?! Cimice?! Ma io ti distruggo! E prima del tramonto!”.

“Ho pregato di ritrovarmi, un giorno, davanti a te…ironia della sorte!”.

I due iniziarono a battersi, fra l’entusiasmo generale. I demoni che osservavano la scena esprimevano tutto il loro delirio facendo il tifo, per l’una o per l’altra parte. L’Alto mostrò il suo aspetto più temibile, rizzando i capelli, sfoderando gli artigli e spalancando le fauci con denti aguzzi.

“Non mi fai paura, esaltato!” lo derise Luciherus, mutando anch’egli il suo corpo.

Era avvolto dalle fiamme ed aveva gli occhi monocromati, senza pupille, con espanso il colore dell’iride. I suoi capelli, sciolti e lunghi, fremevano nell’aria, riempiendosi di riflessi arancio. La sua luce si fece più forte e ringhiò, dalla rabbia. Inaspettatamente riusciva a respingere tutti gli attacchi che Raido sferzava.

“Non penserai mica di battermi, vero?” lo disprezzò il Signore del Cielo.

“E tu non penserai mica di stancare o intimorire il Dio della Forza e del Coraggio, vero?” rispose il Principe.

“Ti ridurrò in uno stato tale, demone, che nessuna delle tue amanti sarà in grado di riconoscerti!”. “Ma chiudi quella bocca! E togliti i brillantini dalla testa, buffone!”.

“Non sono brillantini! Sono stelle!”.

“Sì, sì! Ed io in testa non ho due corna affilate ma morbide orecchiette pelose!”.

 

Kasday stava in silenzio nel cortile interno del suo palazzo. Aveva gli occhi chiusi e stava immobile, sotto un albero fiorito, nella posizione del loto. Accanto a lui era accovacciato Nosmagiés, quasi addormentato per la noia. Contava le formiche e sospirava.

L’Alto aprì un occhio, scocciato. Lo percepiva sempre quando qualcuno faceva troppo casino nei suoi Universi. L’angelo sobbalzò dal terrore quando il suo padrone scattò in piedi, di colpo, aprendo un portale sopra la sua testa.

Luciherus urlò dallo stupore quando il terreno sotto i suoi piedi scomparve e si ritrovò catapultato nel palazzo del Dio Triplice. Si schiantò in terra, e Raido sopra di lui. Rialzandosi vide che Kasday li fissava, con sei braccia incrociate ed una puntata su un fianco. Aveva un’aria veramente infastidita.

“Che combini Raido, Diri-hiuva, Signore del Cielo o qualunque altro nome tu abbia?” sbottò Kasday.

“Com’è suadente il mio nome pronunciato dalle tue dolci labbra” sviolinò l’Alto dai capelli di stelle.

“Smettila di fare l’imbecille!” lo rimproverò il padrone di casa “Non sai che i pianeti dei mortali non sono in grado di reggere una carica magica come la tua? Non devi usare la tua forza al di fuori del Pianeta degli Dèi e quello degli Alti”.

“Ed a questo essere inferiore non dici niente?” protestò Raido, indicando Luciherus.

“Lui non è in grado di distruggere degli Universi”.

“Ma è molto potente”.

“Non è un Alto!”.

Il demone sorrise, beffardo, al suo avversario.

“Perché litigate?” si informò Kasday.

“Ha iniziato lui!” risposero, in coro, i due.

Ovviamente si indicavano l’un l’altro.

“Bambini…” commentò il padrone di casa, scuotendo il capo. Poi si rivolse a Nosmagiés: “Mio angelo, devo parlare con questi due in privato. Ti dispiace lasciarci?”.

“No signore. Me ne vado”.

“Prendi qualche moneta e và in paese. Comprati quello che vuoi. Sarà il mio regalo per te. Non avere paura di spendere” aggiunse, porgendogli un sacchettino tintinnante.

L’angelo annuì e si allontanò, allarmato dagli sguardi malefici che si scambiavano il Principe ed il Signore del Cielo.

“Bene, mia cara…” parlò Raido “…ora che siamo soli, perché non dici a questo demone di scomparire?”.

“Perché dovrei farlo?” domandò Kasday.

“Come perché? Ha osato sfidarmi e poi è di troppo. Andrebbe eliminato…”.

“E perché? Sei tu il più stupido fra i due!”.

“Come?!”.

“Ragiona, Raido! Come puoi essere geloso di un semplice Dio? Tu gli sei superiore, e sei così idiota da andare a litigarci!”.

“Così mi offendo però…” si lamentò Luciherus.

Il padrone di casa gli diede le spalle ed incrociò le mani dietro la schiena. Una di esse fece l’occhiolino al demone, che annuì pur non capendo. Diri-hiuva non fu  in grado di vedere quel gesto. Il Principe notò che tutte le emanazioni dell’Alto che conosceva stavano uscendo allo scoperto, arrampicandosi sui tetti dell’edificio e guardando verso il cortile interno.

“Shekinah!” esclamò, individuandola fra tanti.

Kasday alzò leggermente la veste e slacciò il nastro rosso che teneva legate assieme un paio delle sue gambe. Le lasciò poggiare a terra, con grazia, mentre tutto il suo corpo prendeva fattezze  molto più femminili.

“Danzeresti con me, mio futuro sposo?” sussurrò.

Il Signore del Cielo fece un inchino ed accettò l’invito, felice.

“E tu, Luciherus? Danzeresti per me?” chiese ancora la divinità appena mutata.

“Certo che no. I demoni non ballano!”.

“Ma tu sei un Dio…”.

“In ogni caso non ballo. Solo gli angeli perdono tempo con cose del genere!”.

Con un gesto della mano, la ballerina fece divenire il Principe un Arcangelo: “Ora puoi!” gli disse.

“Ma…non credo proprio!”.

“Guarda che ti faccio diventare mortale!” lo minacciò.

Luciherus incrociò le braccia. Non avrebbe ballato. Ma Kasday sapeva cosa fare. Shekinah scese dal tetto su cui stava ed andò accanto al Principe, prendendolo delicatamente per mano.

“Danza con me” disse, e l’Arcangelo capì che non aveva molte altre alternative.

Nel frattempo i due Alti ballavano fra loro. Kasday girava in tondo, circondando Raido, con piccole piroette. Lui faceva fatica a seguirne i movimenti e si limitava ad osservare, affascinato.

Luciherus notò, con una certa inquietudine, che tutte le emanazioni si muovevano nello stesso modo, contemporaneamente.

“Mio sposo…” parlò l’antica divinità dell’equilibrio “…come puoi pensare che io preferisca uno di voi due?”.

“Ma tu preferisci di sicuro me!” commentò Raido, sicuro.

“Davvero? Ed, esattamente, come mai pensi questo?”.

“Perché io sono più bello, più forte, più intelligente e…”.

“Più modesto!”.

“Può darsi” rise lui.

Il ballo si faceva sempre più svelto e Luciherus capì che lei, in realtà, stava immagazzinando energia.

“Tu sei migliore di lui?”.

“Di Luciherus? Di sicuro, mia futura sposa!”.

“Davvero?”.

“Ma certo. Dimmi, mia cara, quando si celebreranno le nostre nozze?”.

“Hai fretta, Raido?”.

“Abbastanza” sibilò lui, riuscendo ad afferrarla.

La strinse a sé, ma Kasday riuscì facilmente a liberarsi.

“No, no!” lo rimproverò “Così non và, mio sposo!”.

“Sento il tuo profumo…” gemette lui.

Il Principe ricordò ciò che gli aveva spiegato Nosmagiés a proposito di quel profumo e di quei fiori e si chiese se, in realtà, Kasday aveva altro in mente oppure se stava per cedere alle pressioni dell’istinto. Guardò il Signore del Cielo con rabbia, invidia e sospetto.

“Tranquillo, amor mio!” lo rassicurò Shekinah “É tutto sotto controllo! Rilassati!” continuò.

“Sta giocando con il fuoco” sbottò l’Arcangelo.

“Anch’io!” rispose lei, baciandolo.

Kasday percepì quel bacio e sorrise.

“Io ti amo, Hagalaz” esclamò Raido.

“Sei sicuro?” ridacchiò lei, sfuggendogli “Oppure vuoi solo questo?” proseguì, indicando l’oblò azzurro, divenuto una mezzaluna sotto il suo seno sinistro “Ami me, Diri-hiuva, o ami la possibilità di poter percepire l’estasi totale del contatto delle nostre essenze?”.

“Perché aspettare?” domandò il Signore del Cielo, avvicinandosi in modo lievemente minaccioso e mostrando un oblò pulsante di luce viva “Perché non unire le nostre essenze ora?”.

Il Principe fremette, sentendosi a disagio ed avvertendo il forte profumo dei fiori di Kasday.

“Che strano corpo che hanno…” si disse, per distrarsi da quella che aveva proprio l’aria di una danza di corteggiamento.

Shekinah  rise: “Giudichi il loro strano…ma credi che il tuo sia normale?”.

“Ovviamente!”.

“Mai pensato a come  ti vedono gli angeli?”.

“Hei! Io ho tutto al proprio posto! È agli angeli che manca qualcosa! E anche a quei due…”. “Anche a te manca qualcosa…l’oblò!”.

“Non mi serve!”.

“Ed a loro non serve quello che hai tu!”.

Luciherus la strinse, fermando la sua danza, la baciò e le sorrise.

“Non dirmi che preferisci quell’oblò azzurro a quello che ho io!”.

Lei ridacchiò.

“Veramente è trasparente…” precisò “…si tinge d’azzurro grazie alla magia che ci scorre all’interno”.

“Sì, sì…” rispose lui, distrattamente, senza lasciarla andare.

“Ad ogni modo…” riprese l’emanazione “…trovo entrambe le unioni molto piacevoli”.

“Oh, vieni qui…mia Kasday!” sorrise lui.

Anche i due Alti erano abbracciati, anche se nessuno dei due sorrideva.

“Posso farti una domanda?” fece Kasday.

“Risponderò ad ogni tua richiesta, mia proprietà” rispose Raido.

“Tu…che cosa hai fatto, Signore del Cielo, la notte in cui hanno ucciso mio figlio?”.

“Io? Niente…cioè…non  so…”.

“Bravo! Proprio niente hai fatto. Sei rimasto impassibile o, meglio, ridevi!”.

“Ridevo? Davvero? Mi spiace…non lo ricordavo”.

“Ben io me lo ricordo. Lo ricordo benissimo. Tu ridevi, mentre Sowelo piangeva ed io gridavo, supplicando pietà”.

L’espressione di Kasday era truce, dura e maligna: “Mia proprietà?” ringhiò, respingendo Diri-hiuva “Ti informo su una cosa, bello mio: io non sarò MAI una tua proprietà!”.

“Ti sbagli. Tu mi sposerai, come stabilito, e diverrai una cosa che mi appartiene. Che ti piaccia oppure no” sbottò l’Alto, arrabbiandosi a sua volta.

“No. Sei tu che ti sbagli” sogghignò, di risposta, la creatura proprietaria del palazzo, con un tono di voce calmo e disteso ed un sorrisetto.

Lei concentrò tutte le sue energie sulle mani e Raido indietreggiò di qualche passo.

“Cosa credi di fare?” ringhiò il Signore del Cielo “La tua magia è debole, Hagalaz! Non pensare di potermi sfidare”.

“Tu dici? Per me ti sbagli di nuovo…”.

Kasday si avventò contro l’altro Alto e gli trapassò l’oblò sul petto, senza sforzo. Raido urlò, di dolore, spavento e paura. Cadde in ginocchio e poi a terra. Luciherus prese il volo, schivando gli schizzi di magia velenosa e lasciando Shekinah, la cui pelle era diventata incandescente.

“Ora rido io, amore mio!” tuonò l’antico Signore dell’equilibrio, dilatando la bocca e preparandosi a consumare il suo pasto.

Il Principe notò che l’Alto era ancora vivo quando lei iniziò a mangiarlo. Sentì una lieve fitta allo stomaco, mentre tutte le emanazioni ridevano, sadicamente. L’Arcangelo rimase sospeso a mezz’aria per un po’, fino a  quando le emanazioni non tacquero. Dopodiché atterrò, dolcemente, pur avendo qualche difficoltà d’uso delle ali piumate. Vide che tutti gli estranei se ne stavano andando, si ritiravano nella cupola. Anche Shekinah se ne stava andando, con espressione vuota.

Kasday si era ripreso tutte le parti della sua essenza.

“Allora, Luciherus…vuoi avere tu l’onore?” domandò, indicando ciò che era rimasto del Signore del Cielo: i capelli ricoperti di stelle e gli occhi.

“Dicono che siano le parti con più magia…” spiegò l’Alto, ancora con aspetto femminile, porgendo al Principe uno dei bulbi.

L’Arcangelo lo guardò, con riluttanza, ma poi se lo prese fra le mani.

“Mangialo, Lucy. Sono sicura che, come demone, hai mangiato cose peggiori. E non preoccuparti…non è più velenoso”.

Il Dio della Forza e del Coraggio lo guardò per un po’, poi si decise ed ingoiò. Subito sentì una forte carica magica scorrergli nelle vene.

Kasday prese i capelli dello sconfitto fra le dita e ne lanciò in aria le stelle, che ricaddero sui due. “Ma che fai?” si allarmò il Principe “Così Momoia capirà!”.

“Non ha più importanza! Ora sono in grado di affrontarla!”.

I capelli di entrambi si riempirono di stelle lucenti.

“Tranquillo, Lu. Non hai abbastanza carica magica per tenerle accese. Non si accorgerà che sei stato coinvolto nella faccenda”.

Il Principe scosse i capelli, che brillavano con molta meno intensità rispetto a quelli di Kasday.

Si guardò le mani, sporche di liquido azzurro.

“Io…” parlò, sommessamente “…io credo di essere pazzo”.

“Perché dici questo? Se qui c’è un pazzo…quello non sei tu!”.

“Oh, no. Ti sbagli! Io sono pazzo. Perché…in una situazione del genere…io ho capito di amarti. Non ne ero sicuro, ma ora ne ho l’assoluta certezza. Io ti amo”.

“L’amore è una cosa così difficile da trovare e dubito fortemente tu possa provare davvero questo. Non nei miei confronti, perlomeno”.

Luciherus spalancò le ali d’Arcangelo.

“Io sono un Arcangelo. Mi fa schifo ammetterlo ma è così, ora come ora. E so perfettamente cosa significhi l’amore!”.

“Mi lusinga che il tuo sentimento sia quello di un angelo…ma non cambierai il mio punto di vista!”.

“Vuoi ancora morire?”.

Kasday annuì e si sedette in terra, specchiandosi nel laghetto con le ninfee. Si osservò i capelli, ora pieni di luci, che si agitavano mossi da vita propria.

“Non trovi proprio niente, fra questi Universi, che ti spinga a vivere?” domandò il Principe, sedendogli accanto.

“E tu non trovi altro, fra questi Universi, da amare, salvo un abominio come  me?”.

“Siamo entrambi abomini, che problema c’è?” ridacchiò l’Arcangelo, guardando negli occhi gialli una rana, che galleggiava su una foglia dello stagno.

“E così…presto affronterai Momoia…”.

“Esatto. Probabilmente alla prossima battaglia” confermò l’Alto.

“E il suo corrispettivo Celeste?”.

“Non sarò io ad eliminarlo. È l’obbiettivo primario degli Alti rimasti”.

“E…chi è rimasto?”.

“Krì e…Momoia”.

“E basta?! E gli altri?”.

Kasday sorrise.

“E la tua controparte, Deyan?”.

“Non mi riguarda. Che faccia pure quello che vuole”.

“Signor Luciherus…” interrupe Nosmagiés, entrando cautamente nel cortile.

“Sì?” domando questi, alzando la testa.

“Perdonate l’interruzione, ma c’è qui un demone che vuole parlare con Voi”.

Azazel sbucò, timidamente, da dietro l’angelo Messaggero. Si sentiva a disagio in un luogo come quello.

“Azazel! Piccolo demone…parla!” gli sorrise il Principe.

Il demone si stupì di vedere le ali d’Arcangelo sul suo padrone. Luciherus notò il suo viso smarrito ed ingrandì le ali da demone, facendo quasi scomparire quelle dorate e piumate che mostrava in precedenza.

“Parla, Azazel”.

“Signore…ecco…ci sono dei nuovi caduti”.

“Bene. La cosa mi fa piacere ma…perché me lo dici?”.

“Due di loro ricordano perfettamente di essere state delle creature angeliche”.

“Strano. I caduti non ricordano il loro stato precedente, fino a quando non sentono le formule di Vereheveil…”.

“Credo che questi nemmeno si rendano del tutto conto di essere demoni, Signore”.

“Altra cosa strana. Ma continuo a non capire perché me lo dici”.

“Perché, mio Principe…uno di loro dice di chiamarsi Mihael”.

“Mihael? Mio fratello?!”.

“Temo di sì. La somiglianza c’è”.

“Vorrai scusarmi, Kasday, se mi congedo…”.

“Và pure. Questi sono seri problemi di famiglia. Ci rivedremo presto”.

“Non ne dubito!”.

Azazel e Luciherus presero il volo, mentre il Principe apriva il portale in aria, per raggiungere il Regno dei Demoni.

Kasday sorrise, ed alzò la testa. Solo allora notò che Deyan aveva visto ogni cosa.

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Capitolo 29
*** XXIX- nuovi caduti ***


XXIX

 

NUOVI CADUTI

 

“Abbiamo provato a sedarlo. Non la smetteva di agitarsi e temevamo fosse ferito. Non volevamo di certo che peggiorasse o combinasse disastri!” spiegò Malaphar, il demone guaritore.

“Capisco. Non è grave, spero…” borbottò Luciherus, entrando con cautela nella camera dove era stato rinchiuso il nuovo caduto.

Subito lo riconobbe come il suo gemello, steso sul letto.

“Oh, Miky! Come sei giunto fino a questo punto?” sussurrò.

“Non me lo chiedere” rispose qualcun’altro.

Il Principe si voltò verso la voce e si chiese chi fosse quel giovane demone, avvolto dall’oscurità della stanza. Dall’aspetto delle ali, deboli e rossastre, doveva essere anche lui un nuovo caduto.

Né ebbe la certezza quando né vide gli occhi, ancora esageratamente grandi come quelli degli angeli.

“Gibrihel?” domandò Luciherus, cautamente.

“Esattamente. Chi non muore si rivede. Ironia della sorte…”.

“Ma…cosa ci fate voi due qui? Che cosa è successo? Vi siete dati al Metal ed ai Serafini non è andato bene?”.

Gibrihel ridacchiò. Mihael aprì gli occhi e subito ricominciò ad agitarsi.

“Stai calmino, Mikino!” sbottò il Principe, puntandogli il dito contro.

“Ma tu che vuoi, demone? E che cosa ci faccio io qui? Mi avete fatto prigioniero? Voi, creature nemiche che…”.

“Calmati, Mihael! Va tutto bene!” tentò di calmarlo Gibrihel.

“E tu chi sei?! Chi ti conosce?!” ringhiò Mihael, sulla difensiva.

“Non ti può riconoscere. Non riconoscerebbe nemmeno se stesso, se ora si vedesse allo specchio” parlò il Principe.

“Ti piace blaterare?! Che diavolo dici…diavolo?” sbottò Mihael ed il fratello, di risposta, gli indicò lo specchio a muro, invitandolo a riflettersi.

Il nuovo caduto si guardò e rimase di stucco: “Che razza di specchi hai in casa, fratellino?”.

“Nessun trucco. Quello sei tu”.

Mihael si passò una mano fra i capelli. Si erano scuriti, divenendo mori, e non erano più ricci ma mossi.

“Cos’ho sulla faccia?” chiese.

“Si chiama barba. La maggior parte dei demoni c’è l’ha. Nessun angelo…mi sembra”.

“Che strana sensazione” ridacchiò il nuovo demone, passandoci una mano sopra “Gibrihel, anche tu qui!” lo riconobbe.

Anche lui era cambiato. I capelli biondo chiaro e pieni di boccoli erano dritti e di un paio di tonalità più scure. Era cresciuto molto, superava di diversi centimetri il padrone di casa. Mentre, invece, Mihael si era fatto più grosso e sbatteva con orgoglio le sue ali nuove, ancora tenere.

“Mi dispiace, fratello…” cominciò a parlare Luciherus.

“Per cosa?!” lo interruppe il gemello, osservandosi.

“Ho la coda!” esclamò ad un tratto “Che figo!!! Ho sempre desiderato averne una!”.

Il Principe rimase sconcertato da quella reazione. Solitamente i caduti sono furiosi per essere stati cacciati dal regno degli Angeli oppure tristi, spaventati, confusi…ma non entusiasti, come i due che aveva di fronte.

“Cosa vi è successo? Come siete giunti al punto di cadere?” volle sapere, ma i nuovi demoni non avevano idea di che cosa dirgli.

Non ricordavano il motivo della loro demonizzazione. E non ci pensavano nemmeno. Ridevano fra loro, sfogandosi con frasi sulla conquista del mondo e della libertà. Il Principe, ignorandoli, chiese al demone guaritore chi li avesse trovati e condotti a palazzo. Gli fu detto che erano stati Azazel e la sorella.

“Portali al mio cospetto. Vediamo se mi sanno dire qualcosa” poi si rivolse a Gibrihel e Mihael “Voi due, concentratevi! Fate silenzio, finitela di chiacchierare di cose che non capisco e cercate di ricordare come siete caduti. Chi vi ha maledetto? Che avete combinato?”.

“Ricordo i loro ordini…” parlò Mihael, continuando ad accarezzarsi la barba “…ricordo che ci condussero negli Universi dei Celesti. Ci fecero planare su un loro pianeta e la Madre degli Alti, Momoia, ordinò di ucciderli tutti. Normale routine di guerra. Preparai il mio esercito, fra cui stava anche Gibrihel, e ci mettemmo in formazione d’attacco. Ad ali spiegate, planai verso la capitale e vidi, con sgomento, che ad attenderci non c’era un esercito, come mi aspettavo. Nessuno era pronto ad affrontarci. Erano quasi tutti bambini e creature disarmate. Ed allora mi venne in mente…”.

“Non li hai attaccati? Eppure hai ricevuto più volte l’ordine di uccidere innocenti, primogeniti e via dicendo…” si stupì Luciherus.

“Non me lo ricordare!”.

“Va bene, fratellino, non ti inalberare! E così…ti sei rifiutato di alzare la spada contro gente disarmata?”.

“Precisamente. Va oltre ogni codice d’onore e non l’ho fatto. E poi giustificavano i loro ordini dicendo che era per rendere deboli gli eserciti, che sarebbero risultati in uno stato d’animo turbato e distante, sapendo che le loro famiglie erano state sterminate”.

“Ma che bastardi! Una cosa del genere ce la si può aspettare da me, non dai capi dei Serafini!”.

“Ad ogni modo, io non ho eseguito gli ordini. Ho gettato la mia spada, che mi rendevo conto essere stata macchiata da sangue di scontri ingiusti lungo i secoli, l’ho spezzata e ho ripreso quota. Mi sono allontanato e poi non ricordo. So solo che Momoia si è messa a sbraitare ed inveire contro di me e poi niente. Sono precipitato”.

“Probabilmente è stata Momoia a maledirvi e farvi cadere. È per questo che ricordate la vostra vita d’Arcangeli ed il resto. E tu Gibrihel? Lo hai seguito?”.

“Ovvio. Se il capo degli angeli guerrieri ed il miglior combattente del nostro mondo si allontana dalla battaglia…perché devo fare io gli sforzi per lui? Capii che c’era qualcosa che non andava e ho deciso di seguirlo per capire, ma qualcuno lassù deve aver equivocato. Volo, volo, volo e…bum! Eccomi qua!”.

“Certo che…” commentò Luciherus “…anche i Celesti…lasciare dei paesi senza difese! È un po’ tanto da coglioni…”.

“Direi di sì” ammise Mihael “Ma siamo comunque noi i vigliacchi che ne approfittiamo. E per cosa? Dicono sempre che è per uno scopo più alto, ma non  so cosa ci sia di nobile ed importante nell’ucciderne cento per punirne tre o quattro”.

“Ok, santo Michino” sghignazzò Luciherus “Adesso calmati. Qui non sarai costretto a rispettare l’alta morale o a fare cose che non desideri. E la spada che hai gettato ti verrà sostituita…con una molto più bella e adatta ad un demone!”.

“La cosa mi rende molto felice” sorrise Mihael, soddisfatto.

Gibrihel si osservava allo specchio, toccandosi le corna rosse: “Sai una cosa, collega Luciherus? Sono felice di essere qui! Niente più gigli! Che soddisfazione! Schifosissimi fiori…” sibilò.

“Puoi starne certo. Fiori del genere mai si son visti da queste parti” affermò il Principe.

Azazel e Raven entrarono nella stanza, dopo aver bussato.

“Azazel! Raven! Siete stati voi a portarci qui!” urlò Mihael, pieno di entusiasmo.

“Ciao…” salutò Azazel.

“Sarete ricompensati, entrambi. Sapete dirmi cos’è successo?” domandò Luciherus, ostentando un’espressione distratta e strana. Di sicuro aveva molti altri pensieri in testa.

“Stavamo combattendo” spiegò Azazel “Ad un tratto, mia sorella Raven mi ha fatto notare che aveva visto alcuni angeli cadere. Subito siamo corsi sul posto perché ricordiamo quanto sia poco piacevole come esperienza. E lì li abbiamo trovati. Erano entrambi confusi e feriti, ma non in modo grave. Dopo un breve consulto, abbiamo preso la decisione di condurli qui”.

“Ad aiutarci nella nostra decisione…” completò Raven “…è stato il fatto che lui…” indicò Mihael “…si agitava tantissimo dicendo di non toccarlo, assieme ad altri epiteti poco gentili, e che non avevamo di idea di chi avessimo di fronte. Lui era il grande, magnifico ed imbattibile Mihael”.

Il Principe ridacchiò.

“A sentire il nome del gemello del grande Signore Luciherus…sapevamo già come agire!” concluse Azazel.

“Grande Signore Luciherus?!” rise Mihael “Sei sempre il solito esagerato! Pomposo!”.

“Taci!” sibilò il capo dei demoni “Ora che sei anche tu una creatura demoniaca, che ti piaccia o no, dovrai obbedire a me!” gli fece notare.

E il gemello scoppiò a ridere con più convinzione.

“Siamo demoni perché abbiamo rifiutato l’autorità!” esclamò Gibrihel “Cosa ti fa pensare che ora ci mettiamo ad obbedire te, caro ex compagno di classe? Non se ne parla!”.

Il Principe li guardò, sempre più sconcertato.

“Non c’è un posto per i ribelli fra i ribelli…” disse, fra sé “…ma guarda un  po’ se anche questo impiccio doveva capitarmi!”.

Poi tornò a rivolgere lo sguardo verso Azazel e Raven, ancora in abiti da guerra con inserti in cuoio e metallo: “Asmodai si è visto dalle vostre parti? L’ho fatto convocare, ma non si è presentato. Essendo il capo delle guardie e dei miei eserciti, doveva darmi il resoconto della battaglia e di tutto il resto…”.

“Veramente…Asmodai è…come dire…” farfugliò Azazel, non sapendo come esprimersi.

“É morto?” si allarmò Luciherus.

“No! Ma no, stia tranquillo!” lo rassicurò, subito, Raven, agitando le mani.

“Se non è morto…allora è ferito? È grave? Parlate un po’ voi due…mi sembra di essere un insegnante davanti a due interrogati impreparati!”.

“Asmodai è…un angelo” disse Raven.

Il Principe guardò verso l’alto, d’istinto. Asmodai era stato uno dei primi caduti, erano precipitati da un Pianeta all’altro insieme.

“Tutti questi millenni assieme…ed ora tu te ne torni fra loro. Non ti capisco…sinceramente…”.

“Si è innamorato” spiegò Raven.

“Asmodai?! Caspita…è più grave del previsto! Non ditemi che si è incasinato la testa con quella mortale che piace tanto a Rahahel…”.

“Proprio lei” informò Gibrihel.

“E Rahahel…come l’ha presa?”.

“Lui? È diventato mortale” parlò Mihael.

“Ma…”.

“Senza parole, fratellino? Anche noi. Nonostante tutti gli abitanti del regno degli Angeli gli dicessero di lasciar perdere, e che non ne vale la pena, lui ha rinunciato alla sua immortalità. Era da un po’ che era strano ma…nessuno di noi si aspettava una cosa del genere”.

“Vivrà un’esistenza infelice. Lei è sposata, e non lo vorrà, e lui invecchierà. Si spegnerà lentamente, fra le lacrime e nella consapevolezza che lei non potrà mai amarlo”.

“Non essere così negativo, Lucino! Magari trova un’altra bella mortale…” iniziò Mihael.

“…o un altro bel mortale…” si intromise Gibrihel, ricordando l’aspetto di Rahahel.

“…qualcuno! E vivrà felice e contento!” terminò Mihael.

“Parlate a turno come la coppie…” mormorò, perplesso, il Principe “…ad ogni modo, miei cari ex Arcangeli, vi devo informare che questa è la vita reale. Ed è meglio iniziare subito a pensare in modo negativo, per non farsi troppo male quando si cade dalle nuvole”.

“Che ottimismo…” sbottò Mihael.

“Proprio. Senti quanta allegria sprizza!” aggiunse Gibrihel.

Luciherus non rispose. Aprì la bocca, ma poi decise che rispondere era inutile e la richiuse.

“Credo che Rahahel preferisse morire, piuttosto che stare per sempre lontano da lei” affermò Mihael “Anche se è un ragionamento che non capisco…immagino che lei lo gradisca. Chissà…magari anche lei…”.

“Basta. È una cosa stupida. Punto! Cambiamo argomento” sibilò il Principe.

“Ottima idea!” commentò Gibrihel, agitando la coda “Dov’è Lilith?”.

“Sei appena caduto e la vuoi già provare? Aspetta il tuo turno, novellino!” lo schernì il padrone di casa.

“Ma no, che dici!”.

“Non so dove sia Lilith…e non mi interessa” sbottò Luciherus.

“Ma come?” si stupì Mihael.

“Credimi…una donna del genere è meglio non averla fra i piedi”.

Raven si accigliò. Lei e Lilith erano molto amiche e non gli piaceva che se ne parlasse male. “Perché non sei sposato, fratellino?”.

“Ma che razza di domanda è, Mihael? E tu, perché non sei sposato?”.

“Perché fino a pochissimo tempo fa ero asessuato!”

“Bene. Ora non lo sei. Fatti gli affari tuoi!”.

“La tua è una domanda stupida, Miky!” s’intromise Gibrihel “È ovvio che tuo fratello non è sposato. I demoni non amano”.

Luciherus mosse la bocca, con uno strano tick isterico, stanco di sentirsi ripetere quella frase: “Lo vedremo!” ringhiò “Vedremo che combinerete voi due, ora che siete qui! E poi io…io so amare!”.

Aprì ed ingrandì le ali da Arcangelo, cambiando aspetto: “Io sono un demone, ed odio come un demone, ma anche come un Arcangelo e un Dio. Io sono un Dio, e comando come un Dio ma anche come un Arcangelo ed un demone. Io sono un Arcangelo, e amo come un Arcangelo ma anche come un Dio…o un demone!”.

Mihael giunse alla conclusione che il fratello aveva dei problemi seri, mentali e fisici, ma non approfondì. Si chiese da cosa fosse dovuto l’effetto, molto cinematografico, del vento che, entrando nella stanza, muoveva i capelli del fratello e li faceva risplendere con  luci argentee simili a stelle.

“Ma allora…” parlò “…se ami come gli Arcangeli, perché sei solo come un demone? Aspetti che una creatura sia creata per te, usando una tua costola?”.

“Le mie costole stanno bene dove stanno!” sbottò il Principe, tornando al suo aspetto demoniaco “E smettila di dire fesserie! Riposati, Mihael. Ora che Asmodai ha…cambiato sponda, mi sa tanto che  toccherà prendere te come capo dei miei eserciti”.

“Evviva! Mihael regna!” esultò il fratello.

“E tu…Gibrihel…che ruolo vorresti avere?”.

“A me va bene tutto. Basta che non abbia niente a che vedere con i fiori!”.

Luciherus sorrise, uscendo dalla stanza e dando ordini ai presenti di portare ai due nuovi caduti degli abiti più consoni, dato che indossavano ancora le tuniche da angeli, piene di strappi e bruciature.

 

Dopo poche settimane, sia Gibrihel che Mihael si sentivano a loro agio nel nuovo Mondo. Girellavano per le vie del palazzo principesco, salutando tutti come se li conoscessero da sempre. Si erano abituati facilmente alla nuova condizione. I loro occhi si erano adattati alla diversità di luce e non erano più enormi e lucenti. Le loro orecchie si erano fatte appuntite e pronte ad udire ogni suono. Portavano entrambi un cappotto lungo e nero, in pelle, con le borchie che tintinnavano ad ogni passo. Gibrihel era vestito interamente con quel colore e con quello stile. Questo lo faceva sembrare ancora più magro ed alto. Mihael si era fatto portare un paio di pantaloni arancione, per ricollegarsi al suo elemento di fuoco, diceva. Si era molto affezionato ad una serie di magliette scure con delle stampe riguardanti gruppi musicali ai più sconosciuti. Nemmeno Luciherus sapeva chi fossero, ma non voleva indagare più di tanto. Mihael lo prese alle spalle mentre questi guardava dalla finestra e gli tirò la coda, mentre Gibrihel si allontanò temporaneamente, distratto da un gioco di carte fra due demoni lungo il corridoio. Il Principe ringhiò, sommessamente, ruotando gli occhi verso il cielo e chiedendosi se non fosse già stato sufficientemente punito. Mosse le orecchie a punta, facendo tintinnare gli orecchini.

“Ciao, fratellino!” lo salutò Mihael, facendogli le corna.

Il capo dei demoni girò solo leggermente la testa, tenendo la sigaretta in diagonale nella bocca e le braccia incrociate: “Potrei offendermi…e dovresti offenderti anche tu, cornuto!”.

“Guarda che questo gesto significa pace ed amore, fratello!”.

“E ti sembra un gesto da fare a me?!” inveì Luciherus.

Aveva anche lui il cappotto lungo, nero e in pelle, con un buco per la coda ed uno per le ali.

“Che cosa ti succede, Lucino?”.

“Piantala di chiamarmi Lucino! Mi irrita profondamente la cosa! E, comunque, non ho niente”. “No, no. Bugiardo! Io lo vedo subito sai?! Siamo gemelli e io vedo che tu hai qualcosa che non và. Anzi…hai molto che non và!”.

“Che ti importa?!” rispose il capo, guardando le nuvole.

“Ma come? Siamo o no gemelli? Ed ora siamo anche della stessa specie! E ricorda che fumare fa male”.

“Anche infastidirmi può fare molto male…”.

“Cosa ti preoccupa?”.

“Presto ci sarà la guerra…”.

“Saremo pronti! E presto sarà anche pronta la mia nuova armatura!” disse, pieno di entusiasmo, Mihael.

“Voi…combatterete per i demoni?” si stupì il Principe.

“Ovvio! Sono un demone ora. E sono state le creature demoniache ad aiutare me e Gibrihel, non di certo gli angeli!”.

“Non disprezzare il Mondo in cui vivevi fino a pochissimo tempo fa…”.

“Come sei filosofico, fratellino. Si vede che sei un Dio. Hai nostalgia dei piumati?”.

“Di essere il loro servo? No. Sono ben altri i miei pensieri”.

“Parlamene”.

“No! Vai a farti un giro, straccia anime! Non hai di meglio da fare?”.

“Ho saputo che Luciheday si è sposata, cambiando argomento”.

“Possiamo cambiare ancora argomento? Sì, si è sposata. Ha fatto anche questa cazzata…”.

“E tu eri presente alla cerimonia…spero”.

“Sì, certo. Però lei voleva la madre…che non si è vista. Ma che vuoi farci…immagino abbia degli impegni più seri un Alto”.

Mihael annuì, facendo finta di ascoltarlo: “Sai, fratellino…la tua gente mi chiama Principe!”.

“Sei mio fratello. Cosa ti aspettavi?”.

“Mi fa molto piacere. E sto anche imparando in fretta la lingua. È molto più semplice di quella degli Angeli”.

“Non è quella dei Demoni più semplice…è quella degli Angeli che è un casino!” sbottò Luciherus, gettando dalla finestra il mozzicone che teneva fra i denti.

“Io, Principe…che bellezza!”.

“Ti aspettavi un trattamento diverso? Se mi dovesse capitare qualcosa in battaglia…loro seguirebbero i tuoi ordini”.

“Ma perché dovrebbe capitarti qualcosa in battaglia? Sei un guerriero! Non ti capiterà niente! E smettila di fare il negativo! Sei il capo del grande impero dei Demoni! Sei il Dio della Forza e del Coraggio, non delle Lagne e dei Depressi!”.

“Facevo per dire…” mormorò il Principe, con aria afflitta ed annoiata “…ad ogni modo, godetevi questi giorni prima della battaglia”.

“Parli come se stessimo per morire tutti!” ridacchiò Gibrihel, raggiungendo i due.

Luciherus non parlò. Sospirò.

“Noi andiamo a bere qualcosa insieme. Vieni con noi, Lu?”.

“No. Andate pure”.

“Sai che è proprio divertente fare il demone?”.

“Divertente?!”.

Il capo dei Demoni mai si sarebbe aspettato di sentirsi dire una cosa del genere. Gibrihel lanciò un’occhiata ad una demoniessa che passava per il corridoio e sorrise.

“Attento, Gibrihel. Alcune di loro sono un po’…particolari”.

“Ti mangiano dopo l’accoppiamento?” domandò, divertito.

“Può darsi…” ghignò il Principe, non riuscendo a trattenere una risatina stupida. “Interessante…andiamo Mihael!”.

I due nuovi caduti si allontanarono, lasciando Luciherus ai suoi pensieri ed ai suoi problemi. Il Principe si graffiò il petto, scoperto, avvertendo un’altra fitta del suo malessere d’amore.

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Capitolo 30
*** XXX- feste ***


XXX

 

FESTE

 

Un Dio, euforico e di splendido umore, lanciava coriandoli luccicanti per l’immenso salone dove rimbombava una musica incessante e molto potente, assordante. Era vestito davvero in modo assurdo, in un miscuglio di colori terrificante. Aveva pensato lui agli addobbi della sala ed ora si stava sbizzarrendo, tentando di addobbare anche tutti i presenti.

Kavahel si fece largo fra la folla di divinità ed andò accanto al padre: “Papà…chi è quello?” chiese.

“Quello che fa casino? È il Dio delle Celebrazioni. È un tipo decisamente eccentrico e bislacco. Ricorda tutte le ricorrenze, i compleanni, gli anniversari, le feste…”.

“Forte! Non gli serve un calendario!”.

“Già. Peccato che  noi ci dimentichiamo sempre di lui!”.

“Che bastardi…” rise Kavahel, allontanandosi dai parenti e prendendo da bere.

Era un grande party riservato alle divinità.

“Domani saremo alla guerra!” urlò la Dea del Kaos, saltando sul tavolo in evidente stato di alterazione da alcol “Perciò divertitevi! Facciamo casino!”.

Vereheveil alzò un boccale ricolmo verso di lei e tutti i presenti ripeterono il gesto, urlando “Sì!” con foga.

Perfino il Dio del Tempo, di solito calmo e tranquillo, correva di qua e di là euforico.

Luciherus era a disagio. Si sentiva inadeguato. Tutti gli Dèi erano vestiti in modo meraviglioso e parlavano fra loro. Lui invece era solo e, anche se elegante, non poteva competere con le loro vesti elaborate. Sua figlia se ne stava con  il marito e con altri, ignorandolo. Raggomitolato sulla cima di un alto sgabello, il Principe ordinò da bere. Il Dio delle Celebrazioni gli si sedette accanto, tirandogli coriandoli.

“Cos’è quel muso lungo? Sorridi, nuovo Dio, che la vita è breve!”.

Accompagnò queste parole con altri coriandoli e con il suono della sua trombetta nelle orecchie del demone.

“Sparisci!” protestò Luciherus, irritato “Mangiateli i tuoi coriandoli!”.

“Quanto sei antipatico!” ridacchiò l’altro, facendogli passare una stella filante fra le corna.

Poi si allontanò, potendo vedere le fiamme negli occhi del Dio della Forza, che incenerì le stelle filanti. Corse via, cantando, ma non nascondendo un certo timore. Arrivò l’ordinazione della nuova divinità. Stava per portarsi il liquore alle labbra quando la Dea della Primavera lo afferrò per le maniche ed iniziò a trascinarlo.

“Come sei conciato!” lo derise.

Lo portò in una stanzetta appartata e lo fissò per bene.

“Ci conosciamo, signorina?!” disse, leggermente scocciato, il demone.

Lei non gli rispose e gli girò attorno.

“Posso fare qualcosa per lei, madama?” continuò il Principe.

La Dea lo squadrò, con la mano sul mento: “Spogliati!” affermò, con sicurezza.

“Come? Non crede di essere un po’ precipitosa? Intendo…non ci conosciamo e…”.

“Ma a cosa stai pensando? Dai, avanti. Tira via quella cosa imbarazzante che tu chiami abito!”. Luciherus si accigliò. Amava quel suo completo nero e sembrava molto elegante, se non era posto in paragone a ciò che indossavano le divinità. Entrò un uomo, il Dio dell’Estate, e guardò entrambi.

“Hei! Un momento! Parliamone se volete una cosa a tre!” protestò il Principe.

“Ma che stai dicendo, imbecille?” sbuffò, divertito, il Dio dell’Estate.

Era una divinità più grossa ed in carne rispetto al demone, che mosse la coda, nervoso.

“Che colore preferisci?” parlò l’Estate.

“Per cosa?” borbottò Luciherus, scorgendo uno specchio dietro di sé.

“Non fa niente. Chiudi gli occhi” gli ordinò il Dio.

“Sentite…” parlò il Principe, per niente tranquillo “…a me non piacciono questi giochetti!”. “Chiudi gli occhi!” ripeté lei, convinta.

Il Dio della Forza sospirò e chiuse gli occhi, rassegnato.

“…1…2…3…!” contò la Primavera e poi invitò Luciherus a guardarsi, dopo aver schioccato le dita. Nello specchio lui si vide riflesso, con una veste splendida, nera e rosso cupo. Aveva un ampio colletto traforato, i guanti in velluto e delle catene in argento. Sorrise, compiaciuto, al tintinnare dei catenacci ad ogni suo movimento.

“Guarda come si trova bello…narciso!” sorrise la Primavera, soddisfatta del lavoro suo e del Dio dell’Estate.

“Grazie…” disse Luciherus, facendo un giro su se stesso, facendo svolazzare il mantello pieno di dettagli luccicanti e draghi.

Legò i capelli, notando quanto le maniche della veste fossero ampie e decorate. Sul suo capo campeggiavano enormi piume di varie sfumature, che si allungavano in orizzontale per uno spazio notevole. Uscì dallo stanzino raggiante. Il Dio delle Celebrazioni, vedendo questo, tornò ad andargli vicino tirandogli lustrini. Al demone caddero le braccia ma tentò di sopportare. Si riaccostò al bancone dei liquori e ne offrì uno a Vereheveil.

“Domani potremmo morire tutti perciò…tregua?” propose.

Il Dio delle Letterature sorrise ed accettò. “Certo che…” commentò, fra un sorso ed un altro “…è da idioti ubriacarsi alla vigilia di una battaglia”.

“Lo so. Ma è una tradizione”.

“Che tradizione stupida”.

“Tutte le tradizioni sono stupide!”.

“Già!”.

Fecero un brindisi.

Vereheveil portava un abito verde, con dettagli arancione. I capelli li aveva raccolti in una treccia e aveva gli occhiali, piccoli e rettangolari.

“Sei molto elegante oggi” ammise il Dio delle Letterature.

“Anche tu” rispose Luciherus.

Alzarono gli occhi verso due gabbie, sospese a mezz’aria, dove ballavano due creature, un maschio ed una femmina, in abiti succinti e pieni di lustrini.

“Questa festa è favolosa!” urlò Kavahel, gettandosi in un gruppo di giovani Dee che lo aspettavano. Disse che era per educazione che non le faceva aspettare. Krì stava in un angolo, suonando, attorniando da diverse Dee che lo ammiravano, incantate. Vereheveil allungò il boccale verso di lui, in segno di saluto, e l’Alto fece un cenno con il capo, continuando a suonare il flauto. La sua luce era la più forte della sala. La Dea della Musica salì sul piccolo palco e prese il microfono. “Dai, ragazzi!” urlò “Scateniamoci!”. Nell’aria si diffuse una musica roboante e ritmata, che fece venir voglia di ballare a molte divinità.

“Sarmorghell…” notò il Dio delle Letterature.

“Già. C’è anche Shekinah” continuò Luciherus.

“Non dovresti stare qui. Io dovrei ballare con  mia moglie ma tu…dai, và da lei!”.

“Non credo sia il caso…”.

Shekinah e Sarmorghell danzavano, in perfetta sintonia. Pareva che, con  i loro passi, facessero muovere tutti gli altri. Sarmorghell era vestito in stile egizio, ballava sorridendo alla sorella, che lo teneva stretto e si faceva condurre. Shekinah fece segno a Luciherus di venire in pista e ballare. Era vestita in rosso ed in modo elegante, con una scollatura provocante. Kavahel salì sul palco ed iniziò a cantare, duettando con  i suoi fratelli.

“Sei ubriaco!” lo derise la Dea del Kaos e lui non negò.

Shekinah si staccò dal fratello ed andò verso Luciherus, che le offrì da bere.

“No, grazie. Le emanazioni non bevono!” disse lei.

Lui non disse nulla e non oppose resistenza, mentre lei lo conduceva al centro della pista.

Le ali dorate d’Arcangelo e quelle di demone erano entrambe visibili sulla schiena del Principe. “Sei bellissima, Shekinah” sussurrò.

“Anche tu. Ma oggi io sono Kasday…”.

“Kasday…perché ci sono le tue emanazioni?”.

“Non parlare. Non chiedere. Balla”.

La musica si fece più dolce e le luci soffuse e delicate.

“Hai le stelle fra i capelli”.

“Anche tu”.

Luciherus e Shekinah continuarono a ballare, in silenzio.

“Sei bravo…” sorrise lei, dopo un po’.

“Queste canzoni sono dei classici, robe dei miei tempi!” si schernì il demone.

L’emanazione gli appoggiò la testa sulla spalla.

“Sei triste?” domandò lui.

“Un po’” ammise lei.

“Come mai?”.

“Per colpa tua”.

“Mia?!”.

“Non voglio parlarne. Tienimi compagnia per oggi, ok?”.

“Come preferisci…”.

Molte divinità si chiedevano chi fosse quella donna. Era una festa riservata alle divinità…ma lei e quel giovane dai capelli neri chi erano?

Sarmorghell fece segno alla sorella che se ne andava.

“Tu resta pure, se vuoi” le disse.

Lei sorrise e strinse più forte il demone. Stavano abbracciati e Luciherus sentì che lei versava calde lacrime sulla sua spalla.

“Piangi?!” chiese, allarmato “Principessa…non piangere! Cosa ti rende triste?”.

“Non è colpa mia! Ma se Kasday piange, anche io piango”.

“Oh, piccina…” la strinse più forte, sapendo di portare conforto anche a Kasday, pur non conoscendo il motivo del suo pianto “Vieni. Andiamo a fare un giro fuori” la invitò, prendendola per mano.

Assieme uscirono, alla luce delle stelle, allontanandosi dalla festa. Camminarono, soli, fra i boschi. Krì, anch’egli stufo del ritmo sempre più incessante della musica, uscì sul terrazzino e ricominciò a suonare. Subito tante Dee vennero ad ascoltarlo. Abbassando lo sguardo verso il cortile vide la sua messaggera, Kiaritanya, che lo fissava con aria di rimprovero.

“Non fate troppo lo stupido” gli disse, come raccomandazione.

Krì sorrise e continuò a suonare. Il Dio della Paura e dei Sogni camminava fra la gente, ad occhi socchiusi. Non li aveva serrati come al solito perché, nonostante la festa, si poteva chiaramente percepire una certa tensione nell’aria.

“Vereheveil…” domandò, parlando nella mente del Dio delle Letterature “…dov’è il Dio della Forza e del Coraggio? Avrei il desiderio di parlargli…”.

Non potendo emettere suoni, comunicava solo attraverso il potere della sua mente.

“Non lo so” rispose il Dio dalle ali d’angelo “L’ho visto al centro della pista ma ora non saprei”.

“É uscito” gli disse la Dea della Guerra.

“Con lei” concluse il Dio del Destino.

“Con lei?” si stupì Vereheveil.

Ormai la notte non si sarebbe protratta troppo a lungo. Tutte le divinità si sentivano sempre più nervose e si fecero vicine. Fusero le loro luci e le loro voci in un canto comune: una preghiera e una forma di sostegno, per aiutarsi a vicenda. Tutti guardarono verso l’alto, dove il soffitto era trasparente e permetteva di vedere le stelle.

“Vorrei che questa notte non finisse mai. Vorrei che questa festa durasse per sempre. Vorrei che questa battaglia mai fosse combattuta. Vorrei che questo clima di pace e fratellanza non si estinguesse, per l’eternità” pregava Vereheveil.

Dalla finestra poteva scorgere, in lontananza, il Tempio di Kasday. Sospirò, vedendo scendere lievi gocce di pioggia. Il Dio delle Celebrazioni, per rompere il silenzio e la tristezza della preghiera, riprese a lanciare lustrini colorati e coriandoli, ridendo e cantando. Il Dio della Paura chiuse gli occhi, lasciando che tutti si rilassassero ancora un po’, stupendosi del fatto che nessuno volesse mettere le mani addosso a quella stramba divinità festante per porre fine alla sua vita.

“Vieni amore…” chiamò la Dea della Parola, porgendo il braccio al Dio delle Letterature “Balla con me” lo invitò.

Vereheveil le sorrise, baciandole la mano. Lanciò un ultimo sguardo alle stelle ed al bosco.

Sapeva che, là fuori, qualcuno stava dando amore alla creatura che lui tanto a lungo aveva amato.

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Capitolo 31
*** XXXI- verità svelate ***


 

 XXXI

VERITÁ SVELATE

 

L’Alba. Pur controvoglia e con i postumi di una sbornia, il Dio del Sole aveva fatto sorgere l’astro del mattino con puntualità. Gli altri Dèi lo videro e calò il silenzio. La festa era finita, Momoia li aspettava. Si riunirono in un blocco compatto, incoraggiandosi a vicenda ed attendendo l’arrivo della Madre degli Alti. Kavahel fu uno degli ultimi a sopraggiungere e si sentì chiamare. Si voltò, ma la persona che aveva di fronte non  la conosceva.

“Kavahel…posso parlarti un attimo?”.

Il giovane Dio dell’Equilibrio si distaccò dal gruppo. Solo allora notò la luce azzurra emessa da lei. “Tu sei una Celeste! Dovrei ucciderti all’istante!”.

“Io sono Deyan. Sì, sono una Celeste e sono qui per parlarti di Kasday. È uno dei tuoi genitori, giusto?”.

“Sì. Dimmi ciò che hai da dirmi e vattene, prima che Momoia ti veda”.

“Vuole morire”.

“Cosa?!”.

“Vuole uccidersi e per farlo ha deciso di eliminare la Madre, in modo da non poter rinascere. È lui che sta eliminando tutti gli Alti e i Celesti”.

“Non dire fesserie. Perché perdo tempo ad ascoltarti? È evidente che stai delirando”.

“Io volevo solo avvertirti”.

“Sparisci dalla mia vista. È un trucco. Perché mai saresti dovuta giungere fino a qui per avvisarmi, rischiando la vita?”.

“Sei come mia figlia. Sei nata per restare, anche quando tutti gli Universi scompariranno. Qualunque cosa accada…tu  resterai. Addio”.

Deyan scomparve, in una nuvola di stelle lucenti, lasciando Kavahel parecchio confuso. Lui si ricompose, tentando di non pensare alle parole del nemico, e si riunì al gruppo di divinità.

La Madre era arrivata e si chiedeva dove fosse il suo generale. La Dea delle Armi distribuiva il necessario per la battaglia fra le truppe.

“Dov’è il mio generale?” sbottò Momoia “E la Dea del Kaos?”.

“Arriveranno tutti a momenti, Madre Momoia” la rassicurò Vereheveil, guardandosi attorno in cerca della figlia.

 

Luciherus guardava il cielo, steso a terra con le mani dietro la testa e mangiucchiando una spiga. “Quando farai la tua mossa?” mugugnò.

Era da solo, Shekinah era scomparsa e lui osservava le nuvole, pensieroso.

“Oh, eccoti qui! Cosa fai, solo soletto?” ridacchiò la Dea del Kaos, spuntando da dietro un albero. “E tu?” rispose Luciherus, senza guardarla.

“Io ti cercavo”.

Il Principe sospirò, sentendosi chiamare da Momoia.

“Non vuoi combattere, zio?” si stupì Skrich.

“Perché, tu sì?”.

“Io…credo che possa essere un’attività interessante”.

“Non hai mai visto una vera guerra. Questa è stata un’Era di pace”.

“Credo che, per me che sono il Kaos, possa essere davvero stimolante. Non credi che lo sia?”.

“No. Se non sai bene da che parte stare”.

Il demone sospirò di nuovo, prima di continuare: “Aveva ragione Vereheveil: io sono sempre dalla parte sbagliata”.

“Non fare il musone! Avanti…alzati! Momoia ti aspetta”.

Il Dio della Forza si alzò, controvoglia, e si avviò sulla cima della montagna, dove si radunavano gli eserciti. Le divinità delle stagioni stavano cambiando gli abiti dei presenti, avvolgendoli in luci colorate, per renderli più adatti agli scontri. Luciherus non volle qualcosa di particolare. Voleva il suo cappotto, quello nero e lungo, e gli stivali che rendevano i suoi calci più dolorosi.

Krì avanzava fra la folla con la sua cavalcatura e la Messaggera appresso. Gli Dèi erano pronti ed in lontananza si potevano scorgere gli eserciti degli Angeli e dei Demoni che sopraggiungevano. Erano le uniche creature in grado di passare da un Mondo all’altro e le più adatte a combattere.

Asmodai, capo delle truppe angeliche, si stava ancora abituando alle sue ali piumate. I suoi occhi erano di nuovo blu e grandi, mentre la pelle abbronzata risaltava con l’abito bianco. Incrociò lo sguardo di colui che un tempo era stato il suo capo e lo salutò, con un cenno.

Luciherus rispose al saluto, sorridendo.

Dall’altro schieramento, quello demoniaco, si alzò un grido: “Sì! Yeah! Siamo i migliori!”.

Mihael, in groppa ad un enorme drago verde, mostrava tutto il suo entusiasmo. La sua armatura nuova brillava alla luce del sole e la spada che teneva fra le mani era enorme e nera. Guidava l’esercito dei demoni con enfasi ed energia. Luciherus scosse la testa, sempre più convinto che il fratello avesse battuto forte la testa nella caduta. Mihael indossò l’elmo con il pennacchio e lanciò altre grida.

“Due principi…” sussurrò Krì, rivolto a Momoia che le stava accanto.

La Madre non rispose e lo guardò male, infastidita.

“Luciherus!” ordinò la Madre “Fai quel che devi”.

Il Principe espanse la propria luce, mostrando il suo aspetto da Dio. Tutti coloro che furono avvolti dalla luce si sentirono pieni di coraggio, forza ed energia. Si levarono numerosi gridi di sfida e rabbia: erano pronti.

Vereheveil sguainò la spada, con foga: “Andiamo!” urlò.

“Dov’è Kasday?” sibilò Momoia, rivolta a Krì.

“Non saprei” ammise lui “Dovrebbe essere qui, oppure giungere a momenti. Ma non so se ha una gran voglia di combattere”.

“Cosa vuoi che me ne freghi se non vuole combattere?! Veda di muoversi, se non vuole che gli strappi tutti gli arti riducendolo in un verme che si dimena”.

Krì cercò di immaginarselo e sorrise. Un mormorio si levò fra i presenti: Kasday si stava avvicinando. Camminava lentamente, avvolto in un lungo mantello che lo copriva, lasciando scoperto solo la metà superiore del suo viso.

“Era ora!” sibilò Momoia, guardandolo accigliata.

Kasday si limitò ad inclinare leggermente il capo di lato. Nosmagiés si unì all’esercito degli Angeli, armato ma poco convinto. Molti chiamarono l’Alto per nome, riconoscendolo e rivedendolo dopo tanto tempo. Erezehimsay, Skrich, Kavahel, la Guerra, il Destino, Vereheveil... Lo guardavano, cercando di avvicinarsi, ma lui li squadrò, manifestando tutto il suo fastidio. Aprì il mantello, mostrando il proprio aspetto più terribile, e li fece indietreggiare. Spalancò le ali, con una smorfia, e rimase sospeso a mezz’aria, accanto a Momoia. La Madre aprì un immenso portale, che mostrò l’esercito dei Celesti. Anche loro erano pronti alla guerra e scrutavano il nemico.

“Miei soldati!” urlò Luciherus.

“Miei fedeli!” tuonò Momoia.

“Ecco il vostro nemico!” esclamarono assieme.

Dall’altro lato si sentì pronunciare un discorso simile. Tutti ringhiarono ed urlarono con ferocia. Mihael, alzandosi sul drago, diede ordine ai demoni di muoversi. Asmodai seguì il suo esempio.

“Fratellino!” gridò Mihael, rivolto a Luciherus “Ti dispiace? Ti dispiace se guido io il tuo popolo?”. “Fai pure, Principe” rispose lui, alzando le spalle.

Ognuno dei presenti individuò il proprio avversario. Ogni appartenente agli Universi degli Alti vide il suo corrispondente nel Regno dei Celesti.

“Muovetevi!” urlò Momoia, vedendoli titubanti “Avanti!” ordinò.

E la battaglia iniziò.

“Kasday, Krì…” parlò la Madre “…attaccate il Padre dei Celesti, distruggete il loro capo. Con questo i mortali si disperderanno”.

“Bene” rispose Krì, muovendosi velocemente nell’aria, mentre la sua Messaggera si univa all’esercito degli angeli.

L’Alto si sentiva sollevato all’idea di non dover attaccare suo fratello. Si concentrò sulla Madre dei Celesti. Anche loro dovevano aver ricevuto lo stesso ordine, perché Momoia si ritrovò sotto attacco.

Kasday individuò la sua controparte, Deyan, e vide che non lo attaccava, come si era aspettato, ma eseguiva gli ordini. Si sentì sollevato e se la prese comoda, lasciò che Krì scagliasse le sue frecce contro il Padre Celeste. Doveva attendere che tutti i suoi avversari si stancassero.

Urihel era avvolto in un turbine d’aria ed affrontava, a fulmini e colpi di vento, la Dea Celeste del Cielo, una ex demoniessa, però non riuscivano a prevalere l’uno sull’altro. Luciherus, circondato dalle fiamme, si scontrava con  la Dea Celeste della Forza e del Coraggio, la Principessa del Mondo Celeste degli Angeli.

Momoia, capendo le intenzioni di Deyan, la anticipò e la colpì, violentemente. La Celeste cadde in terra, sopraffatta dalla forza della Madre. Sentì il veleno che le aveva iniettato entrarle nella circolazione della magia e gemette. Kasday, seguendo tutta la scena, scese in terra, andando accanto a Deyan.

“Cosa fai?” esclamò Momoia, con disapprovazione e fastidio.

“Deyan!” chiamò Kasday “Deyan…vuoi che ti salvi?”.

“Come?” mormorò lei, confusa.

“Vuoi che ti salvi? Per curare il veleno devo renderti mortale. Devo far tornare sangue la tua magia e questo ti renderà mortale. Vuoi che ti salvi?”.

Lei non capiva perché l’Alto la volesse aiutare. Pensò per qualche secondo e poi annuì.

“Salvami. Salvami Kasday ma…pensa alla mia bambina, quando la mia breve vita mortale sarà terminata”.

“Non te lo posso promettere ma…tranquilla, andrà tutto bene”.

Kasday le toccò la ferita, con la mano di vetro che cambiò gradatamente colore, come quando un liquido scuro viene versato in acqua, diventando nero. Deyan urlò dalla paura, con la magia che la abbandonava. Momoia urlò dalla rabbia, furiosa per il gesto del suo sottoposto. Kasday urlò di dolore, assorbendo il veleno. Luciherus rimase confuso da quel gesto e da tutto quell’urlare e Kavahel gli andò vicino.

“Zio! Zio Luciherus!” chiamò il giovane Equilibrio.

“Non sono tuo zio!”.

“Quello che sei! Quella donna…quella che ora è stata curata, mi ha detto che Kasday…vuole uccidere Momoia. Credi che sia attendibile come fonte?”.

“Sta tranquillo. E pensa a combattere” sbottò il Principe, allontanandosi.

“Perché l’hai salvata?” sibilò Momoia, rivolta a Kasday.

“Ora è mortale” rispose lui “Non può più nuocerti in alcun modo”.

“Doveva morire!”.

“Lo so. Ma ora non è più necessario”.

Il Padre dei Celesti non sapeva come reagire. Era fermo, immobile, a metà del cielo. Krì non lo attaccava, dato che lui non si muoveva. Era confuso. Kasday, ora, come poteva considerarlo? Un nemico, perché Alto, o un amico perché salvatore di una Celeste?

Kasday, approfittando della sua distrazione, tolse ogni dubbio. Scattò, senza preavviso e lasciando tutti sconvolti, colpendolo. Trapassò il suo oblò e lo uccise. Momoia lo guardò, orgogliosa, e si congratulò con lui assieme ad un ampio sorriso di compiacimento. Ma poi la sua espressione mutò, vedendo come Kasday si stava occupando del cadavere. Luciherus dovette espandere e concentrare molte delle sue energie per non far cadere tutti nel panico alla scena di Kasday che si mangiava il Padre dei Celesti.

“Così la sua essenza non potrà rinascere…l’hai distrutta completamente” mormorò Momoia “Così…come sapevi che…ma…sei stato tu?” cominciò a capire lei.

“Sì” si limitò a rispondere l’Alto.

“Hai ucciso tu anche tutti gli altri?”.

“Sì”.

“Alti e Celesti?”.  

“Sì”.

“Sono tutti morti…quelli che mancano?”.

“Sì”.

“Hai ucciso mio marito?”.

“Sì”.

“Hai ucciso…tutti i miei figli?”.

“Sì”.

“Li hai mangiati?”.

“Sì”.

Kasday aveva un tono di voce tranquillo e rilassato.

“Tutti i miei figli…” gemette Momoia.

“Ora sai cosa si prova” sibilò lui.

Il fratello di Krì era immobile, sicuro di dover morire. Tutti gli altri erano confusi.

“Che succede?” chiese più di qualcuno.

“Tutti i miei figli…”.

“Ora sai cosa si prova…” ripeté Kasday, lentamente ed a bassa voce “Ora sai cosa si prova!” urlò, mutando il viso e la voce, divenendo minaccioso e spaventoso.

Si lanciò contro Momoia. Tutti gli eserciti, Celesti ed Alti, lanciarono grida e suppliche.

“Zio! Cosa facciamo?!” si allarmò Kavahel ma Luciherus non gli rispose.

Rimase fermo a mezz’aria, osservando la scena. Nessuno sapeva che fare mentre i due Alti si battevano. Kasday, urlando di dolore, tolse tutti gli spuntoni che la Madre gli aveva conficcato nella schiena, che gli impedivano i movimenti ed inibivano la magia.

“Zio! Non possiamo restare qui fermi!” sbottò Kavahel.

“Non è compito mio, ragazzo” affermò Luciherus, con convinzione.

Il giovane Equilibrio decise di intervenire. Prese il suo arco ed iniziò a colpire Kasday da lontano. “Ma che cosa fai?” si allarmò il Dio della Forza e del Coraggio.

“Se Momoia muore, finisce il Mondo! La sua fine determinerà il collasso di tutti gli Universi!”.

Il Principe gli afferrò le braccia: “Fermati! Mi ha assicurato che questo non avverrà! I Mondi continueranno ad esistere!”.

Kavahel si dimenò e si liberò: “TU lo sapevi?! TU sapevi tutto, eri a conoscenza delle sue intenzioni e non hai fatto o detto niente?! Sei un idiota!” gridò il nuovo Equilibrio.

“Ragazzino…”.

“Ah, no! Non iniziare! Io lo devo fermare. Se hai voglia di star lì immobile, fai pure. Puoi anche morire, per quel che mi riguarda!”.

Si udì il rumore di vetri rotti.

“Anche se gli Universi non finissero per la loro morte…ormai Kasday è completamente fuori controllo” gli fece notare il Principe, stranamente tranquillo.

“Ci ucciderà tutti…” gemette qualcuno.

Kasday aveva fauci spalancate ed odio negli occhi. Momoia non parlava. L’Alto, ridendo ed ansimando, iniziò a mangiarla, pezzo dopo pezzo. Kavahel tentò invano di fermarlo mentre Krì e il fratello erano uno accanto all’altro, senza sapere in che modo reagire. Poi si udì un altro rumore di vetri rotti; il giovane Equilibrio era riuscito a colpire l’oblò di Kasday.

“Bravo, ragazzo” commentò Krì “Hai seguito e messo in pratica ciò che ti ho insegnato”.

Subito sotto l’Alto si formò un vortice che lo risucchiò, assieme a ciò che restava di Momoia. Luciherus, allarmato, decise di seguirlo. Si attaccò ad una delle sette braccia di Kasday, anche se questi cercò di staccarlo in ogni modo. Nosmagiés, pur capendo il pericolo, seguì il suo padrone verso l’ignoto. Il vortice li risucchiò velocemente e l’angelo urlò di terrore fino a quando non si schiantarono, tutti e tre, in terra.

Quelli rimasti all’esterno dell’improvviso evento non sapevano cosa pensare. Cosa era successo a quei tre? Erano morti? Dove erano andati? Agli Universi cosa sarebbe capitato?

Quello che capirono subito fu che era inutile combattere:  nessuno lottava più.

Mihael e Gibrihel, entrambi in armatura, strinsero la mano dei capi degli Angeli ed ai Demoni Celesti. Le Divinità della Pace irradiarono luce, tutti deposero le armi. Si erano come risvegliati da uno stato di torpore. Probabilmente gli Alti ed i Celesti li avevano indotti a combattere.

“Perché combattere? Non è necessario”.

La guerra finì ma nessuno sapeva che pensare. Sapevano solo che Madre Alta e Padre Celeste erano morti. E Kasday? Era un mostro incontrollabile.

Si strinsero accanto a Krì ed al fratello, cercando consiglio e conforto, ma nemmeno loro sapevano che fare.

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Capitolo 32
*** XXXII- lasciami andare ***


XXXII

 

LASCIAMI ANDARE

 

Momoia era dissolta, assorbita completamente da Kasday. L’Alto era riuscito a liberarsi dalla presa del Principe ed ora se ne stava accoccolato accanto ad un albero, avvolto nelle ali blu.

Nosmagiés lo vide e gli andò vicino, chiamandolo. Luciherus, caduto in malo modo, si scosse per riprendersi e si allarmò sentendo le parole dell’angelo Messaggero, che chiamava a gran voce il suo padrone.

“Signore! Signore! Rispondetemi!”.

“Kasday!” chiamò anche il demone, correndo presso l’Alto “Kasday, sei ferito? Fammi vedere…”.

Il Principe allungò una mano verso la divinità seduta,  ma lei lo respinse, digrignando i denti con fare minaccioso.

“Non fare i capricci…”.

“Nosmagiés…” mormorò Kasday, fissando il cielo.

“Sì, Signore. Sono qui”.

“Avrai molto da fare d’ora in poi. Krì ed il fratello avranno bisogno di consiglio, i miei figli ed Erezehimsay, per non parlare di Berkana, avranno bisogno di te”.

“Voi avete bisogno di me!”.

“Non più”.

L’Alto spalancò le braccia, mostrando il suo oblò trafitto e infranto da una freccia.

“Lascia che te la tolga” affermò Luciherus.

“Lascia che io muoia, Lucy. È il mio desiderio”.

“Ma che dici?! Fatti aiutare! Fa male…”.

“No, non fa male. Non la sento questa freccia. Sento solo freddo…”.

Il demone lo abbraccio, sapendo di emettere un gran calore. Rabbrividì al contatto con la pelle gelida dell’Alto: “Non morire, Kasday. Presto arriverà chi potrà aiutarti”.

“Nessuno può aiutarmi. Dentro di me scorre il veleno di Momoia” affermò, mostrando il braccio di vetro contaminato “Morirei comunque, freccia o non freccia. Voglio che mio figlio lo sappia”.

“Kavahel?”.

“Sì. Voglio che sappia che sono orgoglioso di lui. È stato molto coraggioso. Ha fatto la cosa giusta, colpendomi, ma non voglio che si senta in colpa. Glielo dirai?”.

“Dirgli cosa?”.

“Che non è colpa sua se io…”.

“Se tu cosa?! Se tu niente! Gli dirai tutto questo in faccia, perché arriverà a momenti e tu starai presto bene”.

Il demone espanse la sua luce il più possibile: in questo modo gli Dèi, i Demoni e gli Angeli lo videro.

“Sono laggiù!” esclamò la Dea del Kaos, indicando un punto lontano.

Tutti si mossero per raggiungerli. Berkana, la piccola Celeste, era fra le braccia della mamma, triste perché sapeva di doverla perdere essendo divenuta mortale. Ma Krì la rassicurò: “Ci penserò io a te quando sarai sola. Sta tranquilla, ad ogni modo, perché la tua mamma vivrà ancora a lungo e poi rinascerà. Te lo prometto”.

“Non la perderò mai?” mormorò la bambina.

“No. Ed io non ti lascerò mai”.

Deyan si sentì molto rincuorata da quelle parole e sorrise. Vedendo la mamma felice, anche la bambina si rallegrò.

Luciherus guardava con rabbia Kasday: “Tu tornerai!” gli diceva, irritato per la sua voglia di lasciarsi morire “Tu tornerai, perché sei sempre tornato. Sei morto e sei tornato. Da Dio, Angelo, Demone, creatura senza magia…sei sempre rinato! Sei cambiato, ma sei sempre tornato!”.

L’Alto scosse il capo: “Non questa volta, Principe. Non posso rinascere. La Madre, che permette a quelli della mia specie di tornare, è morta. Non rinascerò. Non tornerò”.

“Non ci rivedremo più? Non tornerai mai più da me?” disse afflitto il demone, abbassando lievemente le orecchie a punta.

“Non l’ho detto. Non ho idea di che cosa ci sia dopo…”.

“Se non lo sai neppure tu…” commentò Luciherus, sforzandosi di sorridere.

Tutti gli occhi di Kasday cominciarono a chiudersi, gradatamente, uno dopo l’altro.

“No!” urlò Nosmagiés, scuotendolo “No, non  morire! Resta con me! Non morire!”.

L’Alto gli sorrise, per la prima volta sinceramente, dopo tanto tempo.

“Sei felice?” domandò qualcuno, fra il gruppo delle divinità che erano giunte sul posto nel frattempo.

“Sì, lo sono” ammise Kasday.

“Non dovresti. Dentro di te hai tutti gli Alti ed i Celesti! Li hai uccisi e gli hai tolto la possibilità di rinascere. A loro non hai pensato?”.

“Giusto” commentò un altro “Era giusto che tu dovessi morire. Sei egoista e senza cuore. Li hai uccisi per assecondare un tuo desiderio e…”.

“Ma che dite?!” tuonò Luciherus, ringhiano “Siete tutti impazziti?! Vi sembra il modo di parlare ad una persona che muore?! E vi sembra il modo di parlare a colui che ha creato la maggior parte di voi ed il pianeta su cui poggiate i piedi?”.

“Non importa” lo placò l’Alto, mettendogli una mano fra i capelli.

“Non importa. Hanno ragione. Però, hai visto…come  ti avevo promesso, gli Universi non sono finiti!”.

Nosmagiés guardava con odio i presenti, sibilando degli “Ingrati” e dei “Vigliacchi”.

“Sai cosa mi dispiace?” sussurrò ancora Kasday.

“No, non so…” mormorò Luciherus, non sentendolo continuare.

“Mi dispiace il fatto che, una volta morto, non  potrò più far tornare Shekinah da te”.

“Shekinah non esiste! Shekinah sei tu!”.

“Fa lo stesso…”.

Chiuse gli occhi che aveva sul viso, le antenne si piegarono e si afflosciarono.

“Kasday? Svegliati! Sono qui! Non andartene!” lo chiamò il Principe, ma ormai era tardi.

L’Alto emise un potente sospiro.

Tutti i suoi occhi si chiusero. Il suo corpo mutò lentamente. Gli arti si rilassarono e le stelle fra i capelli si spensero. Iniziò a disgregarsi, dalla punta dei piedi. Scomparve, gradatamente, in una polvere di luce azzurra e oro che si sparse per l’aria. L’albero a cui stava appoggiato fiorì di colpo, così come tutto il prato sottostante. Un buonissimo profumo fu percepito da tutti e migliaia di farfalle multicolore riempirono il cielo e scintillarono alla luce del Sole.

Nosmagiés era senza parole. Meravigliato e stupefatto, riconosceva in ogni farfalla una parte dell’essenza del suo Signore. Piangeva, in silenzio.

Vereheveil non parlò, chiuse gli occhi e chinò il capo. Luciherus si alzò, avvolto dai petali che, delicatamente, cadevano dall’albero sopra di lui. Si appoggiò al tronco, girandosi in modo da non far vedere ai presenti che le lacrime rigavano il suo viso.

“Fratello…” lo chiamò Mihael.

“Papà…” parlò Luciheday, toccando la spalla del padre con apprensione.

La Dea della Parole abbracciava il marito, Dio delle Letterature, ed i figli. Kavahel avvertì una scossa di magia che lo attraversava: ora era lui il nuovo creatore. Quasi fu sollevato da terra dalla nuova energia che ora aveva in corpo. Oltre a questo, sentì subito che avrebbe dovuto anche affrontare il peso delle responsabilità. Ora era il padrone degli Universi, secondo soltanto ai pochi Alti e Celesti rimasti.

Luciherus iniziò a cantare. Non sapeva da dove quelle parole venissero, ma poi si accorse che il vento, le piante e gli animali intonavano la stessa melodia.

 

 

“Mio figlio,

 mio amore,

 mio dolore,

tieni questo momento nel cuore

 perché forse non tornerò più.

 

La mia vita,

le mie gocce di sangue,

 le mie lacrime,

 le mie grida,

sono tutte state sprecate”.

 

Anche Vereheveil iniziò a cantare. A lui si unirono tutte le divinità, gli Angeli ed i Demoni.

 

“Addio, mie creature,

il mio tempo è giunto.

Non stringete le vostre mani sulla mia essenza,

che già non mi appartiene più.

 

Addio, mio amore, non costringermi qui.

Lasciami andare”.

 

Ora tutte le creature degli Universi recitavano quella nenia.

 

“Tutte le mie speranze

si sono perse da tempo,

nel giardino arido del mio animo.

Addio, mio fiore.

Io me ne vado”.

 

Kavahel guardava l’albero fiorito, emanando scintille magiche da ogni punto.

Vereheveil gli toccò la spalla: “Ora sei il più forte di tutti noi” gli disse “Ora, quando gli Universi giungeranno al loro termine, sarai in grado di svolgere il tuo ruolo. Sono tanto felice di avere un figlio come te”.

Kavahel vide le lacrime del padre: “Papà io…mi dispiace per…”.

“Ragazzo” lo interruppe Luciherus “Vieni con me, ragazzo. Ti devo parlare…”.

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Capitolo 33
*** XXXIII- oltre le stelle ***


XXXIII

 

OLTRE LE STELLE

 

Berkana stava accoccolata all’interno dell’incavo di un albero. Accudiva la sua ultima cucciolata con amore. Era felice di essere una madre in questa nuova Era di pace. Cinque piccoli Alti le restavano accanto, emettendo strani versi. Lei ripose, con un altro verso, e sorrise. Krì stava su uno dei rami all’esterno e sorvegliava la sua famiglia, suonando il flauto, con la sua Messaggera che canticchiava. Lui e Berkana avevano avuto molti piccoli assieme. Alti, Celesti, Dèi, Angeli, Demoni, mortali… Entrambi piuttosto orgogliosi e felici, nei secoli successivi alla fine della guerra, avevano rigenerato molti creatori di varie specie.

Anche il fratello di Krì aveva seguito l’esempio e si era sposato con una giovane Dea, generando a sua volta Alti, Celesti ed altre creature.

Kavahel passò, fischiettando, con le mani in tasca e salterellando.

“Salve, Equilibrio!” lo salutò l’Alto.

“Ciao, Krì! Buon pomeriggio!”.

“Dove vai di bello?”.

“Vado a riprendere i bambini. Li ho lasciati dal nonno”.

“Vereheveil?”.

“Già…”.

“É bravo con i piccoli”.

“Sì, è vero. Tu, grande Alto…” si notava il lieve sarcasmo nella voce di Kavahel “…sai per caso dov’è la mia sorellona?”.

“Luciheday? Credo sia sull’Isola, a trovare suo padre”.

“Capisco…”.

L’Equilibrio aveva lasciato crescere i capelli, che ora erano mossi dalla lieve brezza.

Sorrise, facendo brillare gli occhi dorati.

“Oggi…è l’anniversario di quando è successo…” disse, guardando il cielo.

Krì annuì, serio: “Vero. È da quel giorno che Luciherus non lascia mai l’Isola”.

“Che vuoi farci…del resto Mihael ha preso il suo posto” commentò il Dio, continuando ad agitarsi sul posto, muovendo i piedi e le gambe.

 “Mihael è il Principe del regno dei Demoni. E Forza e Coraggio non servono in quest’Epoca di tranquillità e pace”.

“Sarà così, spero, ancora a lungo, Krì!”.

“Lo spero anch’io. Buona giornata, Kavahel”.

“Anche a te e famiglia!”.

I due si salutarono e si separarono. Kavahel aveva preso in moglie la sua corrispondente degli Universi dei Celesti, aveva avuto quattro figli, e progettava di espandere ulteriormente la famiglia.

Si allontanò con le mani in tasca, riprendendo a fischiettare quel motivetto che aveva interrotto precedentemente.

 

“Mamma!”.

Il piccolo demone corse in contro alla mamma, la Dea della Morte, chiamandola a braccia aperte.

Il Sole stava tramontando sulla spiaggia e la famigliola decise di rientrare. Marito e moglie, Vita e Morte, chiamarono a raccolta tutti i loro figli: erano davvero tanti. Luciheday ne teneva uno in braccio, dai simpatici riccioli neri, addormentato sulla sua spalla. Molti di loro presentavano tratti in comune con il nonno, Luciherus, o Kasday. Erano Angeli e Demoni, con alcuni Dèi.

“Ok! Adesso basta giocare. Bambini, venite qui!” chiamò il Dio della Vita.

“Rientriamo, prima che venga buio!” aggiunse la Dea della Morte.

Alcuni obbedirono, altri ignorarono i richiami dei genitori e continuarono a giocare. Intanto il Sole scendeva all’orizzonte, emanando una luce più forte del solito.

“Papà! Papà noi andiamo!” disse Luciheday, quando ebbe radunato la sua ciurma di eredi.

Che tramonto…si diceva Luciherus, seduto in riva al mare.

Non sentì le parole della figlia, perso nei suoi pensieri. L’acqua gli lambiva la punta dei piedi scalzi. La marea stava salendo e, nel giro di pochi minuti, si ritrovò seduto in un paio di centimetri d’acqua. Nonostante questo, il demone non si mosse.

Chissà perché continuo a stare qui…

Vereheveil, dopo la morte di Kasday, aveva capito che, in realtà, l’Alto non era morto ma lo si poteva ritrovare in ogni cosa. Nel vento, nei fiori, nel mare, in ogni essere, in ogni cosa.

Luciherus si era reso conto che fare lo stesso ragionamento a lui non bastava. Aveva bisogno di altro, non solo di sogni e profumi. Non gli importava se, nei colori di una farfalla, poteva rivedere i suoi occhi. Lui era più materialista, più possessivo, e desiderava il corpo fisico della madre di sua figlia. Nonostante il tempo passato, lui ancora ci pensava. E non si muoveva dall’Isola.

Perché avrebbe dovuto? Per fare cosa?

Mihael era Principe, la sua unica figlia era sposata, i suoi nipoti a malapena lo conoscevano.

A nulla serviva. Nessuno lo cercava. Guardò in alto, sospirando. Il buio stava avanzando rapidamente e le stelle iniziavano ad accendersi, anche quelle che aveva fra i capelli.

Sentì qualcosa salirgli ed appoggiarsi sulle ginocchia. Abbassò lo sguardo e si sentì chiamare. L’acqua aveva preso forma e, lentamente, cambiava colore. Era una donna, con le mani sulle sue ginocchia, che lo guardava con grandi occhi azzurri. Si fissarono, con aria interrogativa.

“Lucy” disse, con entusiasmo, la donna.

“Shekinah? La tua voce…”.

“Anche”.

“Kasday!”.

“Non mi hai dimenticato”.

“Come potrei?”.

Lei gli aprì le gambe e lo abbracciò.

“Lucy…sento il tuo cuore…è un suono che avevo scordato” sussurrò.

“É un sogno…è tutto un sogno…” si disse Luciherus, riprendendo a guardare le stelle.

Aveva un’aria triste. Si ostinava a guardare in alto, pur non resistendo alla tentazione di stringere a sé la donna d’acqua. Le sue lacrime si fondevano con il corpo di lei.

“Chiudi gli occhi” mormorò l’apparizione.

Il demone non ascoltò. Sorrise, percependo le urla dei suoi nipoti che giocavano, nonostante i rimproveri ed i richiami dei genitori.

“Chiudi gli occhi!” ripeté la donna, con maggior convinzione.

Il Principe la fissò: “Sei l’allucinazione più testarda e ostinata che abbia mai visto! Non li chiudo gli occhi!”.

“Uffa” si lamentò lei “Non vuoi venire con me?”.

“Con te? Dove?”.

“Ha importanza? Saremo soli, io e te. Dove non so ma…che importa? Saremo insieme!”.

Luciherus notò che, sulla testa e lungo la schiena, la donna portava un lungo velo.

“Sembri proprio una giovane sposa” commentò, a bassa voce, lui.

“Saremo insieme…non vuoi?” domandò lei, di nuovo.

“Insieme, con Kasday, di nuovo? Ah! Se fosse possibile…”.

“Ma è possibile! Non sono un’allucinazione, sai?”.

A prova di questo, lei appoggiò le mani sul petto del demone e lo baciò sulle labbra, ad occhi chiusi. “Sei tu?! Sei tu per davvero?!” esclamò Luciherus.

“Sì!” ridacchiò Kasday “Sì, sono io, stupido! La madre di tua figlia e la donna che hai amato e che ami!”.

“Amo?”.

“Sì, e che palle con questa storia che i demoni non amano!”.

“Io sono un Dio, infatti”.

“Per me sarai sempre un Arcangelo”.

“Che cosa stupida…”.

Il demone si sentiva strano, affaticato e confuso.

“Sei stanco?” gli chiese lei.

“Un po’…” ammise Luciherus.

“Allora distenditi e rilassati. Chiudi gli occhi”.

Lo spinse, delicatamente, facendolo stendere. Lui rabbrividì, sentendo l’acqua del mare sulla schiena e sulle ali. Chiuse gli occhi, sorridendo. Li riaprì con uno scatto quando scorse una luce fortissima e mille colori.

“Vieni con me” parlò Kasday, librandosi a mezz’aria.

Si presero per mano e si alzarono in volo, senza usare le ali. Erano il vento e le onde del mare a tenerli su.

“Kasday! Non correre!” esclamò il demone, notando la velocità con cui si separavano dalla terra. “Non vuoi venire con me?”.

“Sì, certo! Ma vai piano! Ho una certa età…”.

Lei era adesso come l’aria, non  più come l’acqua. Lui sentiva molto caldo. Le stelle fra i suoi capelli brillavano, fortissime, e si libravano in cielo in modo indipendente.

“Vestirai della mia luce, Luciherus! Lasciati alle spalle il buio della tristezza e del dolore, abbandona le tenebre della paura e vestiti della mia luce!”.

Il demone la guardò, fermandosi: “La tua luce?” ripeté, ricordando le parole che, tanto tempo prima, gli erano state dette da una visione.

Ricordò il figlio che non aveva avuto e che aveva visto. Vestiti della Sua luce…la luce di chi? Si era sempre chiesto. Lo aveva domandato, quella volta, senza ricevere risposta. Ora lo sapeva.

Guardò dietro di sé e si vide, disteso sulla spiaggia ad occhi chiusi, con le braccia lungo i fianchi e la marea che saliva.

“Papà!” lo stava chiamando sua figlia, Luciheday.

“Luciherus!” gridò Kasday, per riavere la sua attenzione.

“Che succede?” si allarmò lui.

“Vieni con me”.

“Che cosa succede?! Cosa sei tu? E cosa sono io? Il mio corpo è laggiù!” esclamò, indicando la spiaggia lontana, là in fondo.

“La tua essenza è la cosa importante. Il corpo è solo un involucro” spiegò lei.

“Sì ma…è il mio involucro!” piagnucolò Luciherus.

I suoi occhi erano sempre più grandi, così come sempre più forte era la sua luce.

“Vieni con me” disse Kasday, con sempre più insistenza.

“Dove?”.

“Oltre le stelle”.

“Oltre le stelle?”.

Sotto di lui vide sua figlia che, allarmata dalla mancata risposta del padre, stava andando a controllare.

“Cosa c’è oltre le stelle?” domandò il demone.

“Vieni con me a scoprirlo”.

“Io…una volta ho fatto un sogno. Avrei avuto un figlio, che avrebbe portato alla fine degli Universi, quando sarei stato in grado di andare oltre le stelle…”.

“Non ci pensare. Vieni con me”.

Lei gli andò di nuovo vicino, abbracciandolo.

“Non aprirò più gli occhi?” mormorò Luciherus, continuando a guardare in basso.

“No. In realtà tu non li hai mai aperti, se non pochi istanti fa. Ora li hai aperti”.

“Non il mio corpo…”.

“Ma la tua anima! La tua anima ha aperto gli occhi!”.

“Se io ora ti seguo…muoio?”.

“Muore il tuo corpo”.

Il demone annuì, confuso.

“Non posso obbligarti, Lucy. Se non è questo ciò che desideri…” parlò Kasday, allontanandosi “…non importa. Torna pure giù. Vivi ancora. Oppure…seguimi!”.

“Pur sapendo che, se ti seguissi, io e te avremmo un figlio che porterà alla distruzione degli Universi?! Lo vuoi veramente?!”.

“Me lo hai detto tu che sono egoista. Non mi interessa! E a te? Importa davvero?”.

Luciherus scosse il capo, sorridendo.

“Non credevo che le essenze potessero avere dei figli…”.

“Solitamente non è possibile…ma io e te possiamo fare tutto!”.

“Nostra figlia è la Dea della Morte…sono sicuro che, anche se tutto finisse, se la caverebbe assieme ai suoi figli. Del resto non mi importa niente!”.

Si ripresero per mano.

 

“Papà? Papà, và tutto bene?” domandò la Dea della Morte, avvicinandosi al padre.

“Tesoro!” chiamò il marito “Tesoro, non mi risponde!”.

“Si sente male?” si allarmò il Dio della Vita.

Ad un tratto la Dea capì: “No, papà! Papà, non seguire la luce! Non andare via! Papà!” urlò.

 

Ma Luciherus si stava allontanando velocemente, dimenticando tutto.

“Perché ci hai messo tanto per venirmi a prendere, Kasday?” chiese il demone.

“Speravo trovassi un motivo per cui vivere…” ammise lei, mentre avanzavano verso l’alto, mano nella mano.

“Da quel giorno, da quando ti ho visto morire, ho capito il tuo desiderio di porre fine alla tua vita. Non lo avrei mai creduto possibile”.

“Non pensarci più!”.

Ora entrambi splendevano molto più del solito. I loro capelli si allungarono a dismisura, mutando colore. Non erano più corvini o scuri, ma di pura luce. Risero, solleticati.

“Vestirò della tua luce, oltre le stelle!” esclamò Luciherus.

Si abbracciarono, baciandosi, fondendosi insieme in un unico corpo luminoso.

 

Kavahel e Vereheveil guardavano le stelle. Notarono subito la nuova, appena apparsa, e più luminosa delle altre. Entrambi sorrisero, percependo la gioia che emetteva.

 

FINE

 

Settembre 2009

 

 

Ebbene sì, questa seconda parte è terminata! Ci sarebbe anche la terza...qualcuno ha resistito ed è riuscito a leggere fin qui? :P qualcuno vuole la terza (ed ultima) parte? Ad ogni modo, vi ringrazio per aver seguito questa storia. Spero l’abbiate trovata interessante!

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