The Prophecy

di Fiamma Drakon
(/viewuser.php?uid=64926)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vita spezzata ***
Capitolo 2: *** Elizabeth ***
Capitolo 3: *** Verità ***
Capitolo 4: *** Pronto a morire ***
Capitolo 5: *** Profezia ***
Capitolo 6: *** Fasi lunari ***
Capitolo 7: *** Decisioni ***
Capitolo 8: *** Risveglio ***
Capitolo 9: *** Partenza ***
Capitolo 10: *** Conversazione ***
Capitolo 11: *** Introspezioni ***
Capitolo 12: *** Central City ***
Capitolo 13: *** Aure ***
Capitolo 14: *** Tramonto ***
Capitolo 15: *** Incontro ***
Capitolo 16: *** Battaglia ***
Capitolo 17: *** Morte ***
Capitolo 18: *** Dono ***



Capitolo 1
*** Vita spezzata ***


1_Vita spezzata Era dannato. Condannato ad una vita a metà. Una vita costretta nell’oscurità.
Era stato così fin dalla nascita, fin dall’infanzia. Nascosto in sé viveva un mostro assetato di sangue, un qualcosa di inumano pronto a distruggere il mondo se solo ne avesse avuta l’occasione. Ma lui non gliel’avrebbe data per nessuna ragione. Era pronto a morire pur di impedire che un simile cataclisma si abbattesse sul mondo e sulle persone a cui era affezionato. Era pronto a sacrificare la sua vita o qualche altra parte del suo corpo pur di riuscirci.
Perché lui era l’unico che poteva riuscirci. L’unico a conoscenza della sua esistenza.
La pioggia battente scrosciava indisturbata mentre lui e Alphonse viaggiavano nel crepuscolo senza una precisa destinazione.
Attorno a loro, un silenzio agghiacciante, mentre percorrevano le strade deserte di East City. Edward continuava a fissare il lastricato sotto i suoi piedi, mentre con la mente ritornava alla prima volta che l’aveva vista, la prima volta che aveva visto quegli occhi iniettati di sangue fissarlo di rimando dalla lastra trasparente e cristallina che era lo specchio del bagno di casa sua. La casa che lui e Alphonse avevano bruciato prima di partire alla ricerca della Pietra Filosofale.
Quegli occhi che riuscivano ancora a turbarlo come la prima volta. Quegli occhi che tormentavano ancora le sue notti popolate di incubi spaventosi. Era mostruoso pensare che dentro di lui albergasse una creatura del genere, una creatura legata da un indissolubile filo d’acciaio alla sua vita. La morte di uno equivaleva alla morte dell’altro. Per questo non aveva mai avuto il coraggio di tirarla fuori da dentro di sé e ucciderla. Ma lei si era dimostrata sempre disposta ad uscire. Gli aveva parlato, gli aveva dimostrato che se c’era qualcosa di pericoloso al mondo, quel “qualcosa” era lei. E lui si era sempre rifiutato di accontentarla. Non avrebbe rischiato di vedere la fine dei suoi cari a causa di quella mostruosità inumana.
- Fratellone... tutto bene? - domandò la titubante voce di Alphonse, rompendo quel tetro silenzio.
- Eh? Sì... sto bene - rispose Edward poco convinto, tornando a guardare a terra.
- Forse è meglio se cerchiamo un posto dove dormire... si sta facendo buio... - fece notare l’altro.
- Sì... hai ragione - concordò il biondo.
Per quanto non fosse in vena di allegria, non poteva e non doveva permettere ad Al di scoprire quella verità. Era inutile e avrebbe dato al fratellino solo maggiori preoccupazioni.
Attraversarono nel silenzio la città e, una volta giunti ad un albergo, entrarono. La luce che illuminava il locale era accecante se confrontata a quella spenta e morta del crepuscolo alla quale ormai gli occhi di Edward si erano abituati.
Lui e suo fratello presero una stanza e, senza cena, si ritirarono avvolti nel silenzio.
- Fratellone... c’è qualcosa che non va? - chiese Alphonse, una volta chiusosi la porta alle spalle.
- No, Al... sono solo stanco - mentì Edward.
- Non è così. Perché ti ostini a nascondermi i tuoi pensieri? - indagò ancora il fratellino.
- Non ho niente Al. Ho solamente sonno -
- No, se fossi stanco me ne sarei già accorto. Hai qualcosa in testa e vorrei tanto sapere cosa -
- Non sono affari che ti riguardano -
- Sì, invece! Sono tuo fratello e ho il diritto di... -
- Tu non hai diritto a un bel niente! Non sono faccende che ti riguardano punto e basta -
Edward si chiuse in bagno e tirò un lungo sospiro. Odiava mentire a suo fratello. Odiava quell’esistenza a metà a cui era costretto suo malgrado. Odiava vivere quella vita spezzata il cui solo scopo era impedire alla creatura di evadere e creare il caos.
I suoi occhi caddero involontariamente sullo specchio posto dinanzi a lui e la vide. Vide di nuovo quegli occhi di brace puntati su di lui, vide di nuovo quel ghigno perfido aprirsi sul suo viso in ombra. Guardarla era come vedere la morte in faccia. Era una cosa spaventosa che ti segnava dentro.
- Ciao Edward... è da tanto che non ci vediamo... -
- Sta’ zitta. Non ti voglio parlare... -
- Oh, ma perché sei così scorbutico? In fondo, io sono te -
- Non è vero. Sta’ zitta -
- Edward... è inutile negare l’evidenza. Ormai è inequivocabile. Io sono parte di te -
- No. Non è vero. Sono tutte bugie. Sta’ zitta! -
- Edward accettalo, ti sentirai molto meglio. In fondo, che c’è di male ad ammettere che io in fondo sono l’incarnazione della tua rabbia, della tua sete di potere e di vendetta contro il mondo intero? -
- Ti ho detto di stare zitta! -
- Edward... non ti infliggere dolore inutile. Sai benissimo che non puoi fare niente contro di me. Piuttosto, dovresti aiutarmi... -
- STA’ ZITTA!!! -
Edward cadde in ginocchio, stravolto. Quell’essere era la sua condanna. La sua croce fino alla fine e nessuno mai avrebbe potuto cambiare quella situazione.
- Fratellone! Fratellone! -
Alphonse entrò nel bagno e la sua attenzione immediatamente si focalizzò sul fratello, inginocchiato a terra singhiozzante.
- Fratellone, cos’è successo? Fratellone! -
Edward non rispose. Si limitò a rimanere sul pavimento, agonizzante. Pian piano, il suo corpo iniziò ad essere scosso da violenti tremiti e Alphonse, presolo in grembo, lo portò a letto, adagiandolo sotto le coperte.
- Dormi fratellone... -
Edward iniziò a piangere. Le lacrime sgorgavano spontanee e sembravano non volersi più fermare. Gli rigavano i lati del viso, ricadendo sul cuscino, bagnandolo. E Alphonse vegliava su di lui, seduto vicino al suo letto.
Non era la prima volta che succedeva. Spesso, per ragioni a lui sconosciute, suo fratello veniva assalito da crisi del genere che a volte duravano persino ore. E lui, angosciato per la salute di Edward, rimaneva ad assisterlo finché non gli passava. E dopo era di nuovo tutto come prima: freddo e tanta, tanta tristezza. Non erano mai stati davvero felici. Dopo la fallita trasmutazione per riportare in vita la loro mamma, la situazione era addirittura peggiorata. Il loro viaggio per recuperare i loro corpi era una tortura che Alphonse sopportava nel silenzio agghiacciante che li accompagnava sempre e dovunque. Quella situazione insostenibile era una tortura psicologica vera e propria.
Pian piano, Edward scivolò in un sonno tormentato nel quale dominavano quegli occhi di brace iniettati di sangue. Quelle stridule risate demoniache. Quelle promesse di morte.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Elizabeth ***


2_Elizabeth La luce smorta del mattino illuminò la camera dove i fratelli Elric alloggiavano, destando Edward dal suo tormentato sonno. Il biondo si sedette sul bordo del letto e spostò gradualmente lo sguardo verso suo fratello, addormentato su una sedia posizionata accanto a lui.
Edward lo fissò per qualche istante, domandandosi quanto lo avesse fatto soffrire la sera prima, quanta preoccupazione gli avesse dato. Non era sua intenzione, assolutamente, ma non era riuscito a frenarsi. Avrebbe preferito strapparsi il cuore con un paio pinze arroventate piuttosto che veder Alphonse soffrire ancora, più di quanto non potesse sopportare. Gli aveva già inflitto dolore a sufficienza.
L’alchimista si alzò dal letto e, legandosi i capelli dorati nella solita treccia, iniziò a vestirsi silenziosamente.
Un nuovo giorno. Una nuova guerra contro se stesso. Era inevitabile che vivesse la sua adolescenza da prigioniero. Prigioniero in una bolla di vetro che nessuno mai avrebbe potuto infrangere. Prigioniero della sua missione, del suo obiettivo: impedire a Elizabeth di evadere.
Elizabeth, quello era il suo nome. Non era umanamente possibile che rabbia, odio, rancore e vendetta potessero fondersi assieme e creare una creatura autonoma e pensante, con un nome e uno scopo primario nella sua esistenza.
Eppure, quando da bambino l’aveva vista per la primissima volta nello specchio di casa sua, lei si era presentata. Aveva detto di chiamarsi Elizabeth. Aveva detto che non sarebbe stata sua nemica, aveva detto che l’avrebbe aiutato. L’avrebbe aiutato a distruggere il mondo.
In quell’attimo Edward capì che non poteva e non doveva uscire. Non doveva esistere. Era un errore innaturale. Qualcosa di irrimediabilmente storto in lui. E da quel momento aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per tenerla nascosta ad Alphonse, cosa che si era rivelata più semplice, dato che solo lui la vedeva riflessa ogni qualvolta si guardava in uno specchio.
E così aveva passato l’infanzia. Un’infanzia da inferno cercando di farla morire. Aveva spinto il suo corpo fino quasi alla morte pur di trovare qualcosa che potesse ucciderla. E lei gli aveva semplicemente detto che se la voleva morta, anche lui sarebbe dovuto morire. E da quel momento aveva rinunciato. Aveva smesso di tentare il suicidio ogni volta che se ne presentava l’occasione. Aveva smesso di digiunare, di non bere. Aveva smesso di infliggersi dolore. Aveva smesso di desiderare la morte.
Edward, una volta vestitosi, uscì in silenzio dalla stanza, lasciando Alphonse da solo.
Uscì dall’albergo e iniziò a girovagare per East City, senza badare a dove le sue gambe lo stavano portando.
A dodici anni lui e suo fratello avevano bruciato la loro casa e iniziato il loro viaggio. Ed Elizabeth continuava a bramare crudeltà nell’inconscio di Edward. Attendeva l’occasione di uscire, aspettava l’ora nella quale avrebbe finalmente visto la luce. Ma quell’ora non era ancora giunta a distanza di tre anni.
Ormai quindicenne, Edward sapeva fin troppo bene che una simile mostruosità non avrebbe mai dovuto emergere da dentro di lui. Non avrebbe mai dovuto vedere la luce del giorno. Perché sarebbe rimasta per sempre ingabbiata in lui, volente o nolente, fino alla fine dei suoi giorni.
Il ragazzo si fermò e alzò lo sguardo dal lastricato sotto i suoi piedi: era in piazza. Lui e Alphonse c’erano passati talmente tante volte che ormai le sue gambe si indirizzavano lì automaticamente. Il biondo, sovrappensiero, si sedette sul bordo della grande fontana posta proprio al centro della piazza.
E lì rimase seduto.
Non immaginava che in quel luogo così conosciuto, così familiare, si sarebbe realizzato il suo peggior timore.
- Ehi tu! Torna indietro! - urlò qualcuno alle spalle dell’alchimista, che si voltò di scatto.
Un ladro. Non si aspettava niente di più, ovviamente in un città come East City, tenuta sotto strettissima sorveglianza dall’esercito.
Edward si alzò e bloccò la strada all’uomo.
- Togliti di torno, ragazzino! - gli intimò il ladro, puntandogli contro una pistola.
- Avanti, ammazzami - lo provocò il biondo. Se proprio doveva morire, almeno avrebbe portato con sé Elizabeth.
Un colpo inaspettato precedette quello del ladro, che fu colpito in pieno cuore da una serie di proiettili sparati da un punto fuori visuale.
L’uomo si accasciò a terra in un lago di sangue, morto.
Edward rimase lì, perfettamente immobile.
Un battito cardiaco riecheggiò nel suo petto dieci volte più forte, quasi volesse uscire dalla cassa toracica. Il biondo impallidì, mentre una fitta di emozioni negative di inaudita potenza vibrava, rimbombando, in lui. Per un istante, sembrò non avere più alcun controllo sul proprio corpo. Rimase lì immobile, gli occhi sgranati per la sorpresa e il dolore, la bocca semiaperta. Ma più di tutto, provava terrore. Terrore per ciò che si stava agitando dentro di lui, per quella cosa che si dibatteva per conquistare la libertà che mai Edward gli avrebbe concesso senza combattere. Il petto iniziò a tremargli, mentre i battiti cardiaci aumentavano frequenza e intensità.
- Edward! -.
Una voce femminile riecheggiò lontanissima, quasi inudibile se confrontata all’accelerazione forsennata del palpitare frenetico del suo cuore. Le fitte di emozioni negative, quasi alla stregua di lance, gli dilaniavano l’inconscio, rendendolo emotivamente sempre più debole. Il petto non accennava a fermarsi. Gli occhi, venati di terrore, paura e disgusto, non riuscivano a staccarsi dall’uomo accasciato a terra morto, e dalla pozza di sangue fresco sotto di lui.
Era pronto a vedere il proprio petto esplodere sotto i colpi martellanti del proprio cuore. I muscoli non rispondevano più, i polmoni continuavano meccanicamente a dilatarsi e restringersi, nonostante Edward si sentisse lacerare dalla mancanza di ossigeno.
Poi, qualcosa di potente lo scosse, assestandogli il colpo definitivo. Le ginocchia del ragazzo cedettero.
Piegato in avanti, gli occhi dilatati all’estremo, quasi del tutto privo di fiato, Edward spalancò la bocca, dalla quale uscì un fiume di sangue, che andò a chiazzare il lastricato e i suoi vestiti. E da quel sangue caldo, lei prese forma.
Dinanzi ai suoi occhi, nei quali le venature erano quasi del tutto svanite per la mancanza di sangue e ossigeno, apparve colei che aveva strenuamente lottato per quindici anni per la libertà. Colei che aveva rovinato la vita di Edward. Colei la cui vita aveva il solo scopo di portare dolore, morte e distruzione dovunque andasse. Era libera. Elizabeth era libera.
Per quanto Edward avesse cercato di frenarla, lei era riuscita a sconfiggerlo.
Era identica a lui, per quanto diversa: i capelli dorati lunghi e lisci le scendevano fino alle spalle, il braccio destro e la gamba sinistra erano in auto-mail. La carnagione chiara era quasi marmorea. La fronte era coperta da una spettinata frangia, al di sotto della quale si intravedevano le sottili sopracciglia bionde. Il viso idilliaco e innocente era reso demoniaco dagli occhi di brace iniettati di sangue che fissavano Edward con superiorità, mentre le labbra si increspavano a formare un sorriso malvagio, scoprendo due file di acuminati denti bianchissimi.
- Finalmente la luce. Edward... siamo ancora legati... ma ora non ho più bisogno del tuo misero corpo -
Edward la fissava, distante, gli occhi vitrei puntati su di lei.
- Edward Elric... sono certa che ci rivedremo... -.
Svanì come trasportata da un invisibile soffio di vento.
- Edward... Edward! - esclamò la tenente Hawkeye, correndo al fianco del biondo.
Non riusciva a crederci. Non voleva crederci. Era riuscita a fuggire. Era riuscita ad uscire. Ed ora il mondo era condannato a causa sua e della sua stupidità. Avrebbe dovuto decidersi prima. Avrebbe dovuto capire che l’unica soluzione possibile era farla finita. Avrebbe dovuto uccidersi finché ne aveva avuto l’occasione. Ormai era troppo tardi.
- Fratellone! FRATELLONE! - il grido preoccupato di Alphonse sovrastò i discorsi delle persone che attorniavano la scena.
Facendosi largo a spintoni fra la folla, l’armatura arrivò immediatamente al fianco di Edward e si chinò su di lui.
- Tenente... cos’è successo? - domandò, prendendo fra le braccia Edward, che fremeva.
- Non lo so... solo tuo fratello potrà spiegarcelo... - rispose Riza, togliendosi la giacca e avvolgendola attorno al corpo del biondo.
- Fratellone... che cosa? -
Il biondo rigurgitò ancora altro sangue.
- M-mi dis-piace... - mormorò flebilmente, accoccolandosi fra le braccia di Alphonse.
- Ti dispiace? Per cosa? -
- M-mi dispiace... tan... tanto... -
- Non penso che sia nelle condizioni adatte per rispondere. Sembra traumatizzato. Meglio farlo riposare - consigliò la tenente.
Alphonse, tenendo saldamente fra le braccia il fratello, ripercorse la strada verso l’albergo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Verità ***


3_Verità Nella camera dove Edward e Alphonse Elric alloggiavano, le tende erano tutte tirate. La luce che filtrava da esse era tetra e bastava a malapena ad illuminare la stanza.
Alphonse era chino sul letto dove suo fratello era sdraiato. Edward se ne stava rannicchiato, le palpebre un poco calate sugli occhi spenti che fissavano un punto inesistente e lontanissimo dinanzi a lui. Si sentiva lacerato dentro, esausto. In quelle poche ore aveva vomitato altro sangue, sangue caldo che ancora impregnava i suoi vestiti. Impressi nei suoi occhi c’erano gli attimi vissuti poco tempo prima. Elizabeth, in piedi dinanzi a lui, libera dall’invisibile vincolo che l’aveva tenuta imprigionata nel suo corpo per quindici anni. Libera di portare la morte ovunque.
Un nuovo e più intenso fremito percorse il corpo del biondo, mentre le parole di Elizabeth si riaffacciavano nitide nella sua mente. Non erano ancora disgiunti. Erano ancora legati dal sottile filo d’acciaio che era la vita. La vita dannata che Edward aveva scelto di percorrere in solitudine. Se lei era ancora viva, la colpa era solo sua. Lui avrebbe dovuto morire prima e liberare il mondo da quella promessa di morte e dolore, ma non ne era stato capace.
Edward voltò il capo verso il bordo del letto, sentendo venir su altro sangue. Gli risaliva la gola lentamente, caldo e umido, fino a raggiungere la bocca. Il ragazzo si sporse e vomitò oltre il letto, in una bacinella che Alphonse gli aveva messo vicino per non farlo alzare.
L’armatura fissò il fratello in silenzio, mentre quest’ultimo si rannicchiava di nuovo sotto le coperte, gli occhi velati di ansia e terrore, emozioni per lui incomprensibili in quella circostanza. Non si era azzardato a fare domande, temendo che Edward reagisse in modo negativo, aggravando ancora di più la situazione.
Era difficile assistere sapendo di non poter far nulla di concreto per aiutarlo. Più sangue rigurgitava, più pallida diveniva la sua pelle, ormai esangue. Le pupille degli occhi erano bianchissime, quasi dissanguate totalmente. I capelli che gli circondavano il viso erano umidi e sporchi di sangue. Era una scena orribile, traumatica. In vita sua Alphonse non aveva mai visto suo fratello stare così male. E la consapevolezza di non poter far niente era opprimente, frustrante. Si sentiva completamente inutile. Era solo e superfluo in quella veglia intrisa di dolore che era la via verso la fine di suo fratello. Perché sapeva che, restando invariata la situazione, ben presto Edward sarebbe morto dissanguato.
Il biondo, giunto prematuramente a quella conclusione, sperava che almeno la morte lo strappasse a quel dolore fisico e emotivo. In mente gli si affacciavano tante domande sulle quali non valeva la pena di soffermarsi. Ormai era a un passo dalla morte. In quelle condizioni, l’unica domanda che gli sorse spontanea di farsi fu “Morire fa male?”. Non ne aveva idea, ma per quanto potesse soffrire mentre la vita lo abbandonava, sarebbe morto con la certezza che anche Elizabeth avrebbe lasciato il mondo.
Un lieve toc toc indusse Alphonse a voltarsi verso la porta, che si aprì leggera e silenziosa su due figure immobili.
- È permesso...? - chiese il colonnello, facendo un passo avanti, seguito dalla tenente.
- Colonnello... che cosa ci fa qui? -
- La tenente mi ha raccontato cosa ha visto in piazza e sono venuto ad accertarmi delle sue condizioni... - spiegò Mustang, accennando lievemente a Edward, che non aveva fatto una piega all’ingresso del colonnello.
Lo sguardo del moro si posò poi sulla bacinella, quasi colma di sangue, deposta ai piedi del letto del biondo.
- Vomita sangue? - domandò.
Alphonse abbassò lo sguardo e annuì.
- Non mi intendo granché di medicina, ma forse tutto ciò è causato da un’emorragia interna... -.
Mustang si avvicinò a Edward e si chinò su di lui.
- Acciaio... mi senti? -
Edward mugolò in risposta, senza voltarsi.
- Puoi dirmi cosa è successo? -
Il respiro affannoso del biondo si smorzò, mentre rievocava in un orripilante flash ciò che era successo quella mattina. Doveva dirlo. Se Elizabeth avesse scatenato il pandemonio e lui fosse morto dissanguato, i militari avrebbero quietato le acque.
Prese un profondo respiro e si costrinse a parlare.
- È... è uscita. Elizabeth è uscita... - rispose Edward con voce roca.
- Chi è Elizabeth? -
- Lei... lei era dentro di me. Aspettava di uscire. È... è malvagia. Ucciderà chiunque incontri... è tutta colpa mia... -
- Fratellone... -
- Acciaio... spiegati -
- La... la vedevo riflessa negli specchi. Lei dice di... di essere l’incarnazione delle mie... delle mie emozioni negative. Voleva uscire per... per seminare morte e distruzione. E io mi sono opposto... e poi lei... -.
La voce di Edward fu smorzata dalle lacrime che iniziarono a rigargli il viso silenziose.
Mustang rimase in silenzio per qualche istante.
- Poi? - chiese con morbidezza, invitandolo a continuare.
- Io... io non sapevo che... che avrebbe preso forma. Non pensavo che si sarebbe costruita un corpo. Non pensavo che... che sarebbe uscita senza che glielo permettessi. Ma oggi... -
- Oggi? -
- Ha visto quell’uomo morire... si è ribellata. Il cuore batteva... i muscoli non rispondevano... e poi... freddo. Tanto freddo... tanto, tanto freddo... -.
Edward tremava di nuovo. Non riusciva più a parlare, benché si sforzasse di riprendere il discorso. Voleva dirlo. Voleva mettere al corrente di ciò il colonnello. Ma quel freddo pungente che aveva provato si era di nuovo impossessato di lui. Lo pervadeva e non gli permetteva di formulare pensieri coerenti.
- Acciaio... -
- Lei... vuole la morte... può morire... solo se... anch’io... anch’io... -
- ... muori - concluse Alphonse.
Edward si era sforzato di dirlo. Morire. Sarebbe dovuto morire. Ma non riusciva ad esprimere quella realtà. Non la accettava ancora, benché avesse provato più e più volte a farlo.
- Acciaio... riposa -
- Lei... lei... - Edward fissò gli occhi su Alphonse.
E in essi quest’ultimo vide tutta la disperazione e il dolore che suo fratello aveva provato per quindici anni. Quegli occhi accecati dall’agonia. Quegli occhi che per tanti anni avevano celato le sue emozioni dietro una maschera fredda e impassibile. In essi, un brillio di follia.
- Al... perdonami... - esalò, abbandonando la testa sul cuscino.
No. Non era morto. Flebili e smorzati respiri si udivano, mentre il suo petto si alzava e si abbassava ritmicamente, tremando appena. Quegli sforzi lo avevano prosciugato delle ultime energie. Ora dormiva.
Il colonnello si alzò e guardò Alphonse.
- Non perdere d’occhio tuo fratello. Al resto pensiamo noi -
- Non era mia intenzione farlo -.
Mustang fece dietrofront e si allontanò dal letto. Aprì la porta.
- Colonnello... un’ultima cosa. Non provi ad uccidere Elizabeth - ammonì Alphonse, grave.
- Non era mia intenzione farlo - rispose il moro, uscendo dalla stanza. Riza si chiuse la porta alle spalle, lasciando i due fratelli di nuovo soli.
Il loro silenzio agghiacciante calò di nuovo, smorzato solo dai lievi respiri di Edward.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Pronto a morire ***


4_Pronto a morire In quella buia camera d’albergo, Alphonse osservava suo fratello dormire, sperando che almeno nel sonno riuscisse a trovare la tranquillità che non aveva mai avuto.
Nel suo inconscio affioravano migliaia di domande alle quali non riusciva a trovare risposta. Tutte contemplavano le stesse circostanze: morte. Edward ed Elizabeth.
La morte di uno equivaleva alla morte dell’altro. Non voleva veder morire suo fratello, sacrificarsi per salvare il mondo dalla creatura sfuggita al suo controllo.
L’unica cosa che desiderava ardentemente era che tutto ciò non fosse altro che un incubo. Un orribile, devastante incubo dal quale presto si sarebbe svegliato, al di fuori del quale Edward era ancora vivo, ancora allegro, ancora desideroso di vivere.
Suo fratello non aveva mai vissuto in pace con se stesso. Gli era sempre sembrato, ma si era convinto che fosse solo una supposizione. Ora ne aveva la piena certezza. E tutto a causa di Elizabeth.
Edward si mosse appena nel letto. Lentamente, le sue palpebre si aprirono e si richiusero. Era sveglio. Si voltò verso suo fratello e accennò un tenue sorriso.
- Fratellone... come ti senti? -
- Stanco... ma sto meglio... - mormorò il biondo in risposta.
Contro ogni previsione, l’alchimista si mise seduto.
- No, fratellone! Ma che fai? -
- Devo vedere una cosa... -
- Sei ancora debole! -.
Ma Edward doveva sapere. Doveva vedere. Con un incredibile sforzo di volontà, si alzò dal letto. Mosse qualche passo incerto. Era di nuovo in grado di camminare, anche se si sentiva ancora spossato.
Camminando appresso alla parete, seguendola con la mano per non cadere, Edward raggiunse la porta del bagno e l’aprì.
Dallo specchio, due occhi color oro liquido lo fissavano di rimando, venati di stupore. Erano i suoi.
Il biondo perse il fragile equilibrio appena riconquistato e cadde, ma Alphonse lo prese prima che toccasse terra. Lo sorresse facendo attenzione a non fargli male.
- Fratellone... -
- Lei... lei non è più nello specchio. Vuol dire che è uscita. Elizabeth si è creata un corpo proprio disgiunto dal mio in modo quasi definitivo. L’unica cosa che ancora ci lega è... -
- La vita... - concluse Alphonse.
Edward abbassò lo sguardo e annuì.
- Fratellone... perché non mi hai mai detto niente? -
- Avrei dovuto farti preoccupare per questioni che non potevi cambiare? -
- Non è questo il punto. Non mi hai mai parlato di Elizabeth. Quando... quando ti guardavo allo specchio vedevo solo la tua immagine riflessa... -
- Solo io riuscivo a vederla. Se te ne avessi comunque parlato, non mi avresti creduto... -
Edward si sottrasse alla presa di Alphonse e si rimise in piedi, nonostante fosse ancora debole. Prese la giacca rossa appoggiata alla ringhiera in fondo al suo letto e si avviò verso la porta, traballando appena.
- Fratellone, dove hai intenzione di andare? -
- Dal colonnello. Il quartier generale dell’Est starà certamente seguendo ciò che accade nel paese. Se hanno notizie di Elizabeth, voglio esserne al corrente -
- Ma sei ancora debole! Non puoi andare! -
- Al... lei è una mia responsabilità. Sono stato io ad aver lasciato che mi sopraffacesse e devo porre rimedio al mio errore, in un modo o in un altro -.
Nella sua voce Alphonse captò i segni di una determinazione che andava ben oltre quella di sempre. Era una determinazione profonda, dettata da qualche sentimento del quale Alphonse non era a conoscenza.
Senza perdersi in ulteriori chiacchiere, Edward aprì la porta e uscì dalla stanza.
- Fratellone... questo significa che...? -
- Sì, Al... significa che sono pronto a morire -
Alphonse rimase interdetto per qualche istante. Suo fratello stava andando al quartier generale per avere qualche informazione concernente Elizabeth o semplicemente per farsi uccidere? L’idea che Edward avesse optato per la seconda scelta lo gelò dentro, benché fosse solo un’armatura vuota.
Suo fratello doveva, a parer suo, morire per far sì che Elizabeth morisse. Ma lui non avrebbe retto vedendolo morire. Non avrebbe sopportato la vista del suo cadavere steso a terra senza far nulla. Non riusciva a capacitarsi di ciò. Erano davvero giunti ad un vicolo cieco? L’unica via d’uscita era veramente la morte di Edward? Non poteva e non doveva permettere che ciò accadesse.
Alphonse seguì suo fratello in silenzio, meditando su tutto ciò che era accaduto in quei due semplicissimi giorni. In due giorni la loro vita già in precario equilibrio era andata a rotoli. Distrutta per sempre.
I due fratelli si diressero verso il quartier generale dell’Est attorniati dal consueto gelido silenzio di morte.
- Bene, bene Acciaio... vedo che ti sei ripreso... -
Edward e Alphonse erano appena arrivati nell’ufficio di Mustang.
- Non ho tempo per i giochetti colonnello. Avete rilevato niente che possa essere Elizabeth? -
Il moro si fece d’un tratto cupo.
- Sì... non ne abbiamo l’assoluta certezza ma si direbbe che si stia dirigendo verso Central City... -
- Allora dobbiamo andare anche noi. Al! -
- Fratellone... -
Edward si voltò verso la porta.
- Aspetta Acciaio! Ho condotto delle ricerche su quello che mi hai detto... -
- Cosa? -
- Sembrerebbe che quella creatura, Elizabeth, sia oggetto di una profezia annunziata secoli fa da un veggente di Central City. Ovviamente non gli diamo molto peso, ma c’è dell’altro... -
- Dell’altro? -
Mustang annuì con fare grave.
- In questa profezia, viene menzionato anche un “giovane dai capelli d’oro” e non puoi negare la coincidenza di ciò -
Edward rimase interdetto sull’uscio. Un giovane dai capelli d’oro? Che fosse lui? In effetti, non poteva negare che fosse solo una coincidenza il fatto che venisse citato un ragazzo biondo nella profezia che parla proprio di Elizabeth. Ma lui? Era solo un alchimista nato in campagna! Poteva davvero essere stato oggetto di una profezia annunziata secoli prima che venisse al mondo?
Edward si volse. Se era davvero destino che affrontasse Elizabeth e che sarebbe dovuto perire per uccidere anche lei, allora non c’era altra strada.
- Posso... posso vedere la profezia? -
Il colonnello gli passò un foglio sul quale era scritto qualcosa con una grafia molto precisa e accurata. Il biondo lo piegò e lo infilò nella tasca della giacca.
- Grazie -.
Si voltò e fece per andarsene.
- Acciaio... -
- Sì, colonnello...? -
- Hai davvero intenzione di combatterla? -
Edward chinò il capo e strinse i pugni, mentre sentiva divampare potente in lui la determinazione che lo aveva animato anche in albergo.
- Sì. Che ne esca vivo o morto, non m’importa. L’affronterò anche a costo della vita -.
Così dicendo, l’alchimista uscì a grandi passi dalla stanza.
Ormai era venuto il momento di decidere fra la propria vita e quella dei suoi cari. Non aveva più alcun dubbio sulla strada da intraprendere, anche se fosse finita.
Perché sapeva che sarebbe finita.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Profezia ***


5_Profezia Di nuovo in camera d’albergo, Edward e Alphonse si sedettero l’uno accanto all’altro. Erano decisi a scoprire di cosa parlasse la profezia.
Un silenzio carico di tensione chiaramente percepibile attorniava i due, come un’invisibile aura emanata da loro, come un’indistruttibile morsa d’acciaio.
Edward prese il foglietto dalla tasca e lo dispiegò lentamente. La grafia era niente meno che impeccabile. Il contenuto, più che un testo, pareva una poesia:

“Verrà il giorno in cui
la malvagia creatura tornerà
figlia di demoni
a portare la morte fra noi,
da un giovane dai capelli
di rifulgente oro fuggirà
ma legata ad esso resterà.
La vita d’uno
dall’altro dipenderà
finché la morte non arriverà
così crederanno.
Se la fulgida luce incompleta
nel cielo oscuro brillerà
il legame verrà spezzato
ed uccidersi potranno”

Edward indugiò con lo sguardo sull’undicesima riga. “Così crederanno”. Che cosa intendeva dire con quelle parole? Forse esisteva una remota possibilità che lui ed Elizabeth non fossero uniti per la vita?
Era fuori discussione. Aveva percepito il dolore fisico immediatamente dopo la separazione. Aveva sentito il sangue salirgli su per la gola e uscire ripetutamente dopo la separazione, quasi fosse stata aperta una ferita nel suo inconscio. La loro unione invisibile era qualcosa di innegabile, purtroppo.
Ma l’ultima frase della profezia sembrava trovare un’eccezione. Sembrava esserci un momento in cui quel legame che tanto a lungo il biondo aveva odiato sembrava spezzarsi temporaneamente. Quel legame che lo aveva reso infelice per quindici anni. Esisteva un momento in cui non era attivo?
“La fulgida luce incompleta”... che cosa significava? Quando avrebbe potuto verificarsi una simile circostanza?
Edward rilesse attentamente la profezia per cinque volte, quasi volesse impararla a memoria. In realtà, il biondo stava cercando di capire se dietro quelle parole ci fosse un significato intrinseco più profondo e meno criptico. Ma sembrava essere solo una semplice profezia. Tutto quello che riusciva a leggere era tutto ciò che c’era da capire. Prima di attaccare Elizabeth, Edward era certo che dovesse decifrare l’ultima frase. Ne andava della sua vita. Se c’era un modo, una minuscola speranza di sfuggire alla morte per mano dell’altra metà, Edward l’avrebbe accettata senza protestare.
- Fratellone... tu hai capito a cosa fa riferimento l’ultima frase? -
- No, Al... ma è mia intenzione scoprirlo... -
- Comunque quel che volevo farti notare era questo... -
Alphonse indicò la terza riga.
- “Figlia di demoni”...? - chiese serio Edward.
- Sì... da quel che ho capito, tu credevi che Elizabeth fosse qualcosa di... tuo. O meglio, un tuo errore. Ma dalla profezia non sembrerebbe... -
Il biondo rimase in silenzio, mentre nella sua mente prendeva forma un nuovo flusso di pensieri, diverso da quelli che seguivano le altre sue riflessioni, più intenso, nel quale ogni cosa sembrava prendere una piega diversa da quella reale.
- Quindi non è mia... non è un mio errore genetico. Elizabeth è figlia di demoni, non una creazione del mio inconscio. Ma se così fosse realmente, come la profezia lascerebbe supporre, allora perché ha preso forma nel mio corpo? Perché io sono stato coinvolto in questa faccenda per tutta una vita? Perché non qualcun altro... che ne so... il colonnello. O papà. O Winry. Perché proprio io? Che cosa ho io di tanto diverso e speciale affinché un demone venga ad abitare nel mio corpo? -
- Chi può saperlo? Forse le tue capacità ti hanno elevato ad un livello superiore a quello dei comuni esseri umani... - esclamò una vocina nella testa del biondo.
- Uhm? Ma chi sei? -
- Io? Oh, scusa... mi sono dimenticata di presentarmi... piacere. Io sono la tua coscienza -
- Coscienza? Perché, io ho una coscienza? -
- Naturalmente, carino. Tutti hanno una coscienza. Ma non mi sono fatta avanti per spiegarti queste cose -
- Ah, no? -
- No. Volevo dirti di Elizabeth. È stata legata qui dentro per quindici anni e ho avuto modo di conoscerne il temperamento, purtroppo... -
- Davvero? -
- Sì. E anche la ragione per cui ha scelto di vivere rinchiusa in te... -
- E perché? -
- Le tue doti. Hai dedizione, forza d’animo, coraggio e una conoscenza pressoché infinita dell’Alchimia. Puoi fare cose che agli altri alchimisti è precluso fare. E lei sapeva che, prendendo forma dal tuo corpo, avrebbe acquisito una parte delle tue conoscenze... -
Edward serrò i pugni, cercando di mantenere i nervi saldi. Alphonse, accortosi dell’improvviso scatto del fratello, si voltò verso di lui.
- Fratellone... che cos’hai? -
Ma Edward non lo stava ascoltando, perso com’era nelle proprie riflessioni. Elizabeth lo aveva sfruttato solo per essere più forte quando sarebbe uscita? Che trucco vile.
La rabbia gli divampò dentro con la forza di un incendio, occupando tutto lo spazio disponibile nel suo inconscio. Era furente, forse anche qualcosa di più. Sentiva montare dentro una rabbia incontrollabile, nonostante quella già esistente avesse occupato tutto lo spazio disponibile. Aumentava intensità di secondo in secondo. Presto non sarebbe più stato in grado di trattenerla. Davanti a lui, tutto sfumò, assumendo un’inquietante tonalità tendente al rosso. Ormai era totalmente in balia della furia devastatrice che cresceva rapidamente d’intensità. Poi, di colpo, tutta la rabbia svanì e un sorrisetto maligno gli si dipinse sul volto. Elizabeth si credeva davvero brava quanto lui? Ebbene, sarebbe stato tutto da vedere.
- Fratellone... tutto bene? -
- Al... noi troveremo Elizabeth. E quando l’avrò trovata, la ucciderò -
Ormai non era più questione di proteggere chi amava. Ormai non si trattava più di impedire che il mondo venisse distrutto. La guerra che aveva cercato in tutti i modi di evitare sarebbe stato lui a chiamarla. Perché ormai Elizabeth aveva passato il segno. Aveva versato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Perché nessuno poteva permettersi di usarlo.
Perché lui era l’Alchimista d’Acciaio.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Fasi lunari ***


6_Fasi lunari Edward e Alphonse, ancora soli nella loro stanza.
Alphonse stringeva ancora fra le mani il foglietto di carta sul quale era scritta la profezia riguardante suo fratello e la bestia che lo aveva condannato per quindici anni ad un’esistenza fredda e distaccata dalla realtà.
Edward, ancora le labbra increspate in un ghigno di sfida, mentre osservava qualcosa di inesistente di fronte a lui.
- Fratellone...? -
- Al... andiamo alla biblioteca del quartier generale... voglio vederci chiaro su questa profezia... -.
Senza ulteriori spiegazioni, Edward si avviò verso la porta e uscì nel corridoio, lasciando indietro suo fratello, palesemente sorpreso.
Senza perdere tempo, Alphonse corse dietro ad Edward, che ormai sembrava essersi allontanato parecchio. Dal modo di fare di quest’ultimo, pareva chiaro che avesse fretta. La profezia su di lui doveva averlo interessato molto.
I due percorsero le strade di East City senza badare alla pioggia che aveva ripreso a cadere silenziosa, bagnando il lastricato, rendendolo scivoloso. Giunti al quartier generale dell’Est, i due si diressero immediatamente verso la biblioteca, dove si misero a lavoro.
Finalmente Edward aveva trovato un barlume di speranza. Un flebile barlume che gli accendeva l’animo. Una fugace speranza che Elizabeth non fosse totalmente legata a lui. Che lui potesse sopravvivere abbastanza da vederla morire. Da vederla soffrire come lei aveva fatto soffrire lui per quindici anni. Il moto interiore che lo prese fu senz’altro strano, una sensazione nuova che mai fino ad allora aveva provato. Era come se si sentisse diverso, nuovo. Si sentiva come slegato da qualsiasi contatto avesse con Elizabeth.
No, non del tutto. Sentiva dentro come un invisibile filo che resisteva, tenendolo ancorato a lei.
Era la voglia di vendicarsi. La voglia di infliggerle dolore. La voglia che lentamente si stava trasformando nel suo più ardente e vivido desiderio. Dolore. Elizabeth avrebbe provato lo stesso freddo senso di reclusione al quale lei stessa lo aveva sottoposto per tutta la vita, al solo, egoistico scopo di crearsi un corpo che avesse doti superiori a quelle dei comuni umani. Lo aveva sfruttato infliggendogli un dolore pari solo a quello di un anima fra le fiamme dell’inferno.
Un moto di rabbia lo pervase di nuovo, mentre l’ardente desiderio di riscattarsi cresceva di secondo in secondo. In punto di morte, le avrebbe fatto subire lo stesso dolore e la stessa sofferenza che lui aveva patito per quindici anni, per poi veder sparire, fino all’ultima stilla, la luce dai suoi occhi.
Un leggero toc toc interruppe il filo dei pensieri del biondo.
- Acciaio... -
Era la voce del colonnello. Il moro entrò nella biblioteca e si avvicinò al tavolo dove Edward e Alphonse stavano lavorando.
- Sì, colonnello? - chiese Edward, alzando gli occhi sull’alchimista appena arrivato.
- Da Central City ci è giunto un comunicato che parla di alcune strane morti alla periferia della città... i cadaveri che sono stati ritrovati erano immersi nel sangue, con il quale era stata tracciata una “E” sul selciato... -
Edward increspò le labbra in un sorrisetto.
- È lei... è Elizabeth... - mormorò il biondo.
Mustang spostò la sua attenzione sul foglio dispiegato sul tavolo, attorno al quale regnava un gran caos di appunti e schemi.
- State indagando sulla profezia? - domandò.
- Sì... sembra che ci sia un modo per ucciderla senza che ci rimetta la pelle anch’io... stiamo cercando di decifrare il contesto... -
- Posso...? - chiese Mustang, afferrando il foglietto e dando una rapida scorsa alla profezia.
- Mmmh... davvero interessante... se posso permettermi di darvi un suggerimento... l’ultima frase penso che si riferisca ad una fase lunare ben precisa... -
Edward rimase interdetto ad ascoltare le parole del colonnello, che fecero rapidamente breccia nel suo cervello.
Il biondo prese dalle mani di Mustang la profezia e rilesse velocemente l’ultima frase.
- “La fulgida luce incompleta”... incompleta... non è la luna piena, né la luna nuova... -
- È una fase intermedia... primo quarto... ultimo quarto... crescente... o calante... - elencò Alphonse.
- Nella profezia non viene specificato nulla... -
- Però “incompleta” potrebbe essere la chiave... provate a pensarci... -
Edward abbassò lo sguardo, focalizzando la sua attenzione su quell’unica parola. La chiave di tutto era in quella parola?
- Fratellone... forse ho capito cosa intende il colonnello... - Alphonse s’interruppe e spostò la sua attenzione su Edward - ... la posizione iniziale della luna è quella nuova. Credo che con “incompleta” la profezia intenda che la Luna non ha ancora completato il moto attorno alla Terra, ma che è vicina al completarlo, il che ci porta ad escludere tutte le fasi ad eccezione della... -
- ... fase calante. Quindi, con la luna calante il legame con Elizabeth verrà interrotto temporaneamente? -
Alphonse annuì ed Edward si volse verso Mustang.
- Colonnello, quand’è che ci sarà di nuovo la luna nuova? -
- Fra due notti - rispose il moro.
Edward rimase immobile, mentre quella notizia lottava per far breccia nell’inconscio del ragazzo.
Quella sera o la sera successiva, al più tardi, avrebbe dovuto duellare con Elizabeth. Avrebbe dovuto lottare contro il suo istinto crudele e spietato da demone. Avrebbe dovuto combattere contro il proprio istinto di fuggire, di eludere qualsiasi nuovo incontro con lei. Avrebbe dovuto essere forte, riuscire a penetrare le sue difese, riuscire ad ucciderla.
Non credeva che il momento sarebbe giunto tanto in fretta, ma doveva essere pronto a rivederla. Doveva prepararsi ad affrontarla.
Doveva essere preparato, perché il momento dello scontro presto sarebbe arrivato.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Decisioni ***


7_Decisioni Edward, immobile fra il colonnello e suo fratello, indugiava con il pensiero sul doloroso ricordo che aveva della “nascita” di Elizabeth. Quelle immagini sfocate erano come impresse a fuoco nella sua memoria e, per quanto fosse riuscito a sforzarsi, non sarebbe mai riuscito ad eliminarle. Era come rivivere quella scena ogni volta che riportava la memoria a quel momento, quella mattina.
Se non quella sera, la sera successiva. Avrebbe obbligatoriamente dovuto rivedere Elizabeth. Avrebbe dovuto confrontarsi con colei che, fin dall’infanzia, aveva tormentato i suoi sogni con scene di morte e distruzione. Doveva essere forte, doveva essere pronto. Doveva riuscire a padroneggiare i propri sensi quando fosse giunto il momento. Perché, giunto a quel punto, non poteva più permettersi di aver paura.
Il biondo si alzò e si diresse verso la porta.
- Fratellone, dove vai? -
- Vado all’albergo... è tardi... -
- Acciaio -
Il richiamo secco del colonnello fece voltare Edward, che si ritrovò ad osservare le profondità delle scure iridi di Mustang.
- So che questa cosa delle fasi lunari comporta che il duello contro Elizabeth è ormai alle porte, se sei davvero intenzionato a combatterla. Non devi avere tentennamenti. Acciaio... so che si può contare su di te... so che tu ucciderai Elizabeth e che sopravviverai -
Edward increspò le labbra in un sorriso amaro.
- Crede davvero che riuscirò ad uscirne vivo? Io non ne sono molto convinto. Perché, vivo o morto che sia, ne uscirò comunque devastato fisicamente. Elizabeth non si farà ammazzare tanto facilmente. Venderà cara la pelle. E io dovrò saper sopportare il dolore fisico meglio di come ho fatto finora... -
- Ma fino ad ora hai sopportato ferite fisiche ed emotive grandi per un quindicenne. Tu e tuo fratello siete cresciuti. Sono certo che riuscirai a cavartela come sempre, Acciaio... -
- La ringrazio colonnello... -.
Detto questo, il biondo uscì dalla biblioteca, seguito a breve distanza dal fratello.
Alphonse non aveva mai sentito Edward parlare del combattimento contro Elizabeth prima di allora. Si era sempre tenuto tutto dentro, fino a qualche minuto prima, quando il colonnello aveva aperto l’argomento. Forse non era una buona idea costringerlo ad aprirsi, soprattutto se vedeva la cosa in modo così negativo. Forse non era una buona idea costringerlo ad affrontare la cosa direttamente. Forse la cosa migliore da fare era lasciare che si preparasse interiormente da solo, senza interventi esterni.
- Fratellone... stai pensando a Elizabeth…? -.
Edward non rispose immediatamente. Non era mentalmente presente. Con il pensiero stava vagando per desolate lande cercando di scacciare i crescenti sensi di terrore e dovere, che si combattevano cercando di avere la meglio l’uno sull’altro. Erano sentimenti forti e contrapposti, che cercavano di sopraffarlo da entrambe le parti. Non riusciva a capire come potesse un unico essere provare due emozioni così intense nel medesimo istante.
Era deciso a non lasciar fuggire la probabilmente unica occasione che aveva per uccidere Elizabeth, prima che lei potesse uccidere lui. Non avrebbe lasciato che banali conflitti interiori lo distraessero dal suo obiettivo.
- Fratellone...? Mi senti? -
- Eh...? Cosa c’è? -
- Eri sovrappensiero? Ti avevo chiesto di Elizabeth ma non mi hai risposto... -
- Scusa... che cosa mi hai chiesto? -
- Se stavi pensando a Elizabeth... -
- Ah... sì. Un po’... -
La conversazione si concluse così.
Edward e Alphonse arrivarono all’albergo qualche minuto più tardi, gocciolanti e freddi.
Ma del freddo ad Edward non importava molto, anzi nulla. Assieme a suo fratello, salì nella loro camera e lì si chiusero.
La profezia era rimasta in biblioteca. Pazienza. L’avrebbe ripresa se se ne fosse presentato il bisogno e, per il momento, non serviva. Il biondo aveva ben altri pensieri per la testa quella sera, mentre si preparava per andare a dormire.
Edward si sciolse la treccia nella quale erano costretti i capelli, che gli ricaddero in una silenziosa cascata di fili d’oro sulle spalle. Si tolse l’orologio dalla cintura e lo appoggiò sul comò, accanto al nastrino dei capelli.
Alphonse lo osservava silenziosamente mentre si sistemava sotto le coperte. Una volta sparito sotto la coperta, Alphonse lo imitò.
- Buonanotte fratellone... -
- Al... -
- Sì...? -
- Ho deciso di andare a Central City domani... -
- Perché? -
- Elizabeth si trova lì. Se devo battermi con lei, dovrò essere pronto a sferrare l’attacco... -
- Fratellone... -
- Sì, Al...? -
- Dormi... oggi è stata una lunga giornata. Se domani vuoi partire, non ti fermerò, ma non voglio che tu sia stanco. Concediti un po’ di sonno... -
- Senz’altro Al... buonanotte... -
- Buonanotte... -
I due caddero in un silenzio ben diverso dal solito, freddo e tombale. Quel silenzio era un silenzio carico di tensione quasi elettrizzante. Era il silenzio di chi stava per compiere qualcosa di grande. Era il silenzio che precedeva un’azione eroica.
Era il silenzio di chi aspetta con trepidazione il giorno che sarebbe venuto.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Risveglio ***


8_Risveglio Il sole era appena sparito al di sotto dell’orizzonte, mentre le prime stelle si accendevano nel cielo violaceo del crepuscolo.
Central City si stava pian piano spegnendo, mentre i suoi abitanti andavano a dormire.
Una figura solitaria si stagliava contro il cielo sempre più buio della notte. Era esile e i capelli lunghi e lisci erano mossi da una fredda brezza notturna.
La falce che brillava alta nel cielo spandeva all’intorno un soffuso chiarore che rischiarava il cielo altrimenti completamente buio.
Aveva atteso quel momento per secoli e finalmente era giunto.
Con un agile salto, Elizabeth balzò giù dall’edificio sul quale aveva pazientemente atteso le tenebre della notte, in modo da poter agire indisturbata. Atterrò con la grazia dell’essere soprannaturale che era. I suoi piedi sfiorarono il terreno senza emettere nessun rumore. Agile e silenziosa, sfrecciò attraverso la notte fino a che gli edifici di Central City non furono lontani.
Si fermò di colpo e si guardò intorno. Tutto attorno a lei era immobile, come paralizzato in un fuggente attimo di tranquillità. Lo sentiva. Sentiva la sua presenza come se stesse emanando un’aura di energia nel tentativo di farsi localizzare. Era una presenza che sentiva vibrare nell’aria immobile, in attesa di essere percepita da chi ne avesse le capacità. Era in attesa di Elizabeth.
Quest’ultima seguì lentamente una pista inesistente, mentre cercava di captare da quale luogo preciso provenisse la sua aura. L’aura più familiare che avvertisse. L’unica aura che potesse avvertire oltre a quella del custode della sua vita.
Elizabeth percorse un tratto in direzione est rispetto a Central City, scrutando attentamente il paesaggio intorno a sé. Poi, lo vide: un minuscolo rilievo che per i comuni umani non aveva alcun significato, ma che era il centro pulsante dell’aura che percepiva sempre più forte man mano che si avvicinava.
Era lui. Finalmente, i due si erano ricongiunti.
Giunse a destinazione con una rapidità che rasentava quella della luce.
Era un piccolo cumulo di rocce. Non era niente di così stravagante da attirare l’attenzione di qualche curioso. Nell’eventualità di ciò, era stata predisposta un’entrata che nessun umano, per quanto perspicace potesse essere, avrebbe mai potuto scoprire.
Elizabeth entrò senza troppe difficoltà e si avventurò nello stretto cunicolo che s’inoltrava verso il basso, nelle tenebre più assolute. Era un tunnel basso e tortuoso dalle cui pareti trasudava musco. Senza prestare la benché minima attenzione a ciò che aveva intorno, Elizabeth scese sempre più in profondità, finché non intravide una sfocata luce farsi sempre più vicina.
Iniziò a strisciare nel cunicolo sempre più velocemente, scivolando con le mani lungo le pareti verdi e viscide.
Giunta dove la luce si faceva lievemente più accesa, l’aura le pulsava intorno quasi volesse schiacciarla. Era vicinissima.
Si diede una spinta e cadde nella luce, che in realtà era un buco sul soffitto di una grotta sotterranea.
Elizabeth si guardò intorno, scrutando attentamente ogni nicchia e ogni pietra, in cerca del suo corpo. Non poteva essere in altro luogo se non in quello.
Le sue labbra si incresparono in un ghigno quando lo trovò: un leggero rilievo sulla parete quasi perfettamente liscia della grotta, dalla parte opposta alla sua, tradiva il senz’altro ottimo nascondiglio del suo corpo.
Elizabeth avanzò rapida verso la parete opposta e, con una leggerissima pressione su di essa, frantumò la roccia come se fosse fatta di gesso. La pioggia di detriti cadde al suolo senza fare il minimo rumore.
- Eric, Demone delle Stelle, destati dal tuo sonno eterno! - sentenziò Elizabeth, poggiando il palmo della mano sinistra sulla fronte del giovane corpo posto innanzi a lei.
Gli occhi di quest’ultimo si aprirono emanando una forte luce cristallina, poi il ragazzo prese vita.
- Elizabeth... quanto tempo... noto che hai di nuovo un corpo... - notò Eric con voce melliflua.
Questo aveva la pelle pallida alla stregua dell’esangue. I capelli ispidi erano di un nero pressoché assoluto, che stridevano con il pallore spettrale della pelle. Le iridi dei suoi occhi erano d’un azzurro glaciale, venati di una tonalità d’azzurro ancora più freddo e chiaro. Era di corporatura esile, nonostante il fatto che fosse un demone denotasse una grande forza fisica al di là delle apparenze.
Indossava una lacera tuta bianca fermata in vita da una fascia argentea.
- Eric è finalmente giunto il momento... -  
- Sì, lo immaginavo. Avvertire la tua aura così vicina al luogo ove sono stato imprigionato così a lungo mi ha in un qualche modo avvisato che oramai l’ora del dominio umano è scoccata... - disse il demone, schiudendo le labbra livide su due file di acuminati denti bianchi, in una sorta di sorriso.
Il suo riso vacillò per qualche istante e i suoi occhi saettarono verso est.
- Oh... e così quel corpo non è propriamente tuo... avverto un’aura incredibilmente forte provenire da East City... -
- Tsk... addirittura da East City? Ho soltanto approfittato di un patetico essere umano -
- Ma se sento la sua aura significa che sei in qualche modo ancora legata a lui, non è così? La tua vita è legata alla sua... -
Elizabeth s’irrigidì.
- Tu sei la Demone della Luna, l’ultima discendente della tua stirpe. Lui è un essere umano al quale tu stessa sei legata. Forse... -
- Demone delle Stelle non provocarmi. Ti ho liberato dalla tua prigionia affinché possa portare a compimento il destino che la tua e la mia stirpe ci hanno riserbato. Non è compito tuo giudicare le mie azioni. Solo... non toccare quel ragazzino -
- Elizabeth, con ciò intendi forse dire che sospetti ch’io possa tradirti? -
- No. Voglio solo che tu ignori semplicemente la sua esistenza fino a che tutto non sarà compiuto -
- E poi? -.
Elizabeth alzò lo sguardo sul demone e nei suoi occhi un brillio di perfidia si accese istantaneamente.
- Mi libererò del nostro vincolo e lo guarderò morire fra le pene più atroci -.
Eric la guardò per un istante, mentre l’aura del ragazzo si potenziava, sfavillando come il più acceso fulgore nella notte più oscura. Era un’aura diversa da tutte quelle avvertite nel corso dei secoli. Era più forte, più accesa, più calda.
Era forse l’aura che aveva atteso per tutti quei secoli? Era forse in grado di riuscire dove altri avevano fallito? Forse... solo il tempo l’avrebbe stabilito.
Decise di non farne parola con Elizabeth. Quando lo scontro sarebbe giunto, avrebbe deciso se farne parola con lei o meno. Da quello scontro sarebbe dipeso il destino dell’umanità intera. Non poteva ignorare il fatto che quel momento presto sarebbe giunto, perché lui lo sapeva.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Partenza ***


9_Partenza Edward si guardò attorno: una soffusa luce argentea simile ad una sottile nebbiolina copriva il suolo, impedendogli di vedere su cosa stessero poggiando i suoi piedi. Era cosciente solo del fatto di essere totalmente solo in quel luogo sconosciuto e tetro.
Poi, una figura in ombra apparve d’un tratto vicino a lui, con lunghi capelli sospesi da una lieve brezza inesistente.
Il biondo si perse ad osservarne le fattezze aggraziate e, quando il suo sguardo si soffermò sul volto adombrato della figura, un singolare scintillio rosso rifulse. Edward si sentì risalire lungo la spina dorsale brividi di freddo terrore, mentre iniziavano a delinearsi i tratti della figura vicina a lui.
Voleva allontanarsi con tutte le sue forze da quell’essere, ma i muscoli parevano non rispondere.
Poi lo vide. Un sottile filo argenteo che partiva dal suo petto, all’incirca all’altezza del cuore, lo tratteneva al petto di lei. Era un filo d’acciaio. Un nuovo fremito di terrore lo scosse, mentre il biondo prendeva lentamente coscienza di cosa significasse quel filo.
D’un tratto, sul volto di Elizabeth baluginò un ghigno, mentre questa iniziava a strattonare il filo.
Edward avvertì un forte dolore provenire dal petto, dal cuore. Era una fitta di indescrivibile agonia, che lo dilaniava dentro, quasi quel filo d’acciaio fosse arpionato al suo cuore e cercasse di strapparglielo via.
Elizabeth rideva. Una risata acuta che trasudava malignità allo stato più puro immaginabile. Era una risata agghiacciante, che gelava il sangue nelle vene, ma Edward non poteva preoccuparsene. Piegato nel tentativo di fermare quell’agonia straziante, lacrime di dolore iniziarono a rigargli le guance, mentre cercava con tutte le sue forze di strappare quel dannato filo che gli stava letteralmente squarciando il miocardio.
- Fratellone! FRATELLONE! -.
Edward aprì di scatto gli occhi e si ritrovò a fissare suo fratello, chino su di lui, le mani appoggiate sul suo petto. Il biondo respirava affannosamente, i capelli appiccicati alla fronte dal sudore.
- Fratellone... stai bene? - chiese Alphonse, in un tono che lasciava trasparire una profonda preoccupazione.
- Sì... ora sto bene... - rispose Edward, mettendosi seduto sul letto.
Il biondo si alzò e iniziò a vestirsi: quella mattina avrebbero dovuto prendere il treno per andare a Central City, incontro ad...
Edward scosse la testa, cercando di scacciare il pensiero: il ricordo dell’incubo appena vissuto era ancora troppo vivido. Si tastò il petto in corrispondenza del cuore: nessun filo d’acciaio.
Sospirò di sollievo, mentre iniziava a preparare i bagagli. Se non altro, lei non avrebbe potuto infliggergli quell’atroce supplizio ancora una volta.
Se la profezia era corretta e se esatta era stata la loro interpretazione, quella sera al calar del sole avrebbe dovuto affrontare tutto ciò che aveva fino a quel momento evitato. Avrebbe affrontato direttamente Elizabeth. Che ne uscisse vincitore o vinto, per lui non aveva alcuna importanza: almeno avrebbe avuto la coscienza a posto se fosse finita male.
Scacciò anche quel pensiero, mentre una strana malinconia s’insinuava in lui.
Fatti che furono i bagagli, che poi altro non erano che una semplicissima valigia logorata dai lunghi viaggi, Edward se la mise in spalla e s’avviò verso la porta, seguito dal fratello.
Pagarono e lasciarono l’albergo, mentre un alone di fredda tensione li avvolgeva senza pietà, palesemente palpabile, tant’era presente.
Edward camminava a capo chino, fissando senza entusiasmo il lastricato della strada sotto i suoi piedi. Era in quelle occasioni che il cervello staccava la spina e il biondo si ritrovava in una sorta di dimensione interiore vuota, priva di pensieri di qualsiasi tipo.
Proseguiva senza fermarsi, ascoltando il rumore dei suoi stessi passi che risuonavano sordi sul lastricato. Dietro di lui, sentiva i passi di Alphonse. Il vento frusciava, agitando le fronde degli alberi situati lungo il margine della strada. Nessuna voce riecheggiava nell’aria immobile.
Le palpebre del biondo calarono ad oscurargli per metà gli occhi, mentre quei suoni monotoni si trasformavano lentamente in un suono unico, che lo cullò nel suo oblio senza pensieri.
Arrivati alla stazione, Edward e Alphonse si fermarono nei pressi dei binari del loro treno e fu lì che il cervello del biondo riprese ad elaborare all’impazzata.
Edward fu strappato violentemente al confortevole oblio psichico che lo aveva accompagnato fino in stazione da pensieri confusi che si susseguivano senza una precisa logica.
Uno in particolare rimase impresso a fuoco nel cervello del giovane, che non poté fare a meno di rivolgervi l’attenzione.
Un filo d’acciaio intessuto fra due persone in ombra.
Era il ricordo del suo incubo, l’incubo che con tutto sé stesso aveva cercato di scacciare dalla propria memoria, senza successo. E ciò che temeva era che quel filo fosse indissolubile anche alla luce della luna calante. In quel caso, per lui non ci sarebbe stata altra via di scampo se non la morte. La stessa morte che sarebbe toccata ad Elizabeth.
Lo sbuffo di una locomotiva interruppe bruscamente il flusso dei pensieri del biondo.
- Fratellone è arrivato il treno... -
- Sì, l’ho sentito... andiamo... -.
Edward salì, seguito a ruota da Alphonse, che lo fissava senza aprir bocca.
Una volta a bordo, scelsero un posto dove nessuno avrebbe potuto dar loro fastidio e si sedettero, in attesa della partenza.
Toc toc.
Edward fissò lo sguardo sul finestrino, oltre il quale si trovava il colonnello Mustang, la mano ancora accostata al vetro.
Il biondo abbassò velocemente il finestrino e si sporse leggermente.
- Allora hai deciso di affrontarla questa sera Acciaio... -
- Sì. È una mia responsabilità... -
- Acciaio contiamo tutti su di te per fermare le stragi di Elizabeth -.
Edward schiuse le labbra in un sorriso appena accennato e annuì.
Era strano sentire il colonnello che lo incoraggiava. Non era mai successo prima di allora.
- Allora, arrivederci Acciaio -
- Arrivederci colonnello... -.
Il treno partì con uno sbuffo, allontanandosi dal punto dove Mustang ancora stava fisso, osservando il treno spostarsi, mentre una folata di vento gli scompigliava i capelli.
Era certo che Acciaio potesse farcela. Ce l’aveva scritto in fronte. Gli si leggeva nello sguardo. Nello stesso sguardo di fuoco che gli aveva visto la prima volta che si erano incontrati a Resembool, più di tre anni prima. Era determinato a tornare da vincitore o a non tornare.
Ora capiva il perché di tanta freddezza. Aveva vissuto per quindici anni essendo consapevole che dentro di sé portava un demone. Probabilmente l’aveva considerata una sorta di maledizione, di schiavitù. Ora che quel demone lo aveva abbandonato, le sue condizioni emotive erano migliorate.
Ma sapeva che Edward non l’avrebbe lasciata in vita a lungo, anche a costo di uccidersi. Era tipico del suo carattere sacrificarsi per gli altri, come aveva fatto quando aveva salvato l’anima di suo fratello.
- Ora è tutto nelle tue mani Acciaio. In bocca al lupo... - mormorò il colonnello, voltandosi verso l’uscita della stazione.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Conversazione ***


10_Conversazione Dal finestrino entrava una luce smorta, mitigata dalle nubi che oscuravano completamente il cielo, rendendolo solo una piatta cappa plumbea.
Edward e Alphonse sedevano in silenzio in uno dei vagoni del treno della mattina, diretto a Central City.
Il biondo osservava passivamente il paesaggio che scorreva al di là del finestrino, mentre con la mente vagava alla deriva, perso in pensieri che apparivano, improvvisi e fugaci, per poi svanire così come erano arrivati.
Cercò di concentrarsi sui prati verde sbiadito oltre il vetro, cercando di allontanare da sé tutti i pensieri che gli turbinavano in mente. Fu difficile trovare la calma psichica adatta per concentrarsi in modo definitivo su ciò che lo circondava.
Ben presto però, il muro che aveva eretto attorno alla propria mente per allontanare i pensieri molesti cedette e fu di nuovo invischiato in un vortice di riflessioni confuse.
- Fratellone... - esordì timidamente Alphonse all’improvviso, attirando immediatamente l’attenzione di Edward.
- Sì...? Che cosa c’è? -
- Ecco... pensavo che forse non sei ancora pronto ad affrontarla... -
- Come? Perché dici una cosa simile? -
- Non che non ti dia fiducia fratellone, ma non so se saresti in grado di combatterla... -
- Al, è una cosa che devo assolutamente fare e... -
- Sì, lo so! Ma tu non sai che cosa si prova quando ci si sente impotenti! -.
Edward rimase attonito, in assoluto silenzio.
- Co... Al, spiegati -
- Io non sono mai uscito da solo per andare fuori... -.
Alphonse s’interruppe un secondo e Edward capì che si stava riferendo alla mattina precedente.
- Tu non mi hai mai ritrovato in fin di vita abbandonato in un lago di sangue... non mi hai mai assistito mentre io morivo... non hai mai provato cosa significa la vera impotenza! Quella sensazione di sconforto totale quando ti ho visto in quelle condizioni e ho creduto che tu stessi per morire. Ho creduto che tu stessi impazzendo per il rimorso. E io non ho potuto far nulla per aiutarti! Non voglio che succeda di nuovo. Non voglio che tu muoia, fratellone... -.
In quell’istante, Edward comprese che cosa avesse realmente provato suo fratello. Comprese le emozioni profonde e dolorose che tutta quella storia gli aveva lasciato.
Alphonse era sempre stato molto più emotivo di lui. Tutte quelle sensazioni negative lo avevano cambiato. Lo avevano impressionato a tal punto che ormai non desiderava altro che mettere la parola fine a tutta quella faccenda. Lasciarsela alle spalle, come se non fosse mai successo niente. Ma ormai era tardi. Ormai era arrivato il momento di mettere fine a quella storia, che ad Alphonse piacesse o no.
- Al, capisco ciò che tu stai provando, ma è per mettere fine a tutto ciò che stiamo andando... -
- Non m’importa! Io non voglio vederti morire a causa sua! Non voglio che tu muoia. Come pensi che reagirei se Elizabeth ti uccidesse? -.
La domanda fece rapidamente breccia nella mente del biondo e quest’ultimo capì immediatamente dove suo fratello stava andando a parare.
- No, Al. Non devi farlo, per nessuna ragione al mondo! -
- Non avrei altre ragioni per vivere! -
- Tu almeno devi sopravvivere! Non voglio morire sapendo che tu mi seguirai. Non voglio pensare di aver dato il mio braccio in cambio della tua anima per poi vederti buttar via la vita così! È sbagliato! -
- No. Sarebbe giusto. Se lei ucciderà te, io ucciderò lei -
- Ma non riavrai indietro ciò che hai perso, Al! L’unica cosa che potrai fare è continuare a vivere. Continuare a studiare l’Alchimia e trovare un modo per riavere indietro il tuo corpo -.
Alphonse rimase in assoluto silenzio, mentre cercava di mantenere il controllo, costringersi a non legare suo fratello da qualche parte per impedirgli di andare incontro alla morte che lo aspettava a braccia aperte.
L’avevano sfiorata tante volte. Ci erano andati vicinissimi con la trasmutazione della loro mamma e con Scar. Ad un passo dall’oblio eterno però, erano sempre stati salvati dall’aiuto di qualcuno. Ma in quel frangente, nella lotta contro Elizabeth che si avvicinava inesorabilmente di secondo in secondo come un velo che, al suo passaggio, portava solo desolazione, nessuno avrebbe potuto salvare suo fratello dalla morte. Nessuno eccetto lui.
- Al... - esordì Edward, in tono grave - ... io ho deciso di intraprendere in solitudine questa mia prigionia interiore. Non avevo la minima intenzione di coinvolgerti, perché sapevo che non avrei fatto altro che darti nuove preoccupazioni e questa è l’ultima cosa che voglio. Non devi assolutamente sentirti coinvolto in tutto questo. Non è mia intenzione farti soffrire ancora... -.
Alphonse rimase a fissare incredulo suo fratello: credeva realmente che, dopo tutto quello che era successo, potesse tirarsi indietro e lasciarlo morire da solo?
- Fratellone... io so che tu non vuoi creare problemi, ma ormai ci sono anch’io dentro tutta questa faccenda e voglio che ne usciamo sani e salvi tutti e due. Ti prego... non tentare un suicidio futile... - rispose Alphonse deciso.
Quell’affermazione pose la parola “fine” alla conversazione.
Edward riportò la propria attenzione al paesaggio che correva veloce oltre il vetro del finestrino.
Central City si avvicinava inesorabilmente sempre di più. Ogni metro in meno che li separava dalla città era un metro in meno verso Elizabeth.
Edward sentiva la tensione salire ad ogni secondo. Lo pervadeva, dandogli l’orrenda sensazione di essere ormai giunto ad un punto morto.
Ebbe la fugace impressione di essere come sull’orlo di un precipizio. Alle spalle aveva solo solida roccia, che lo spingeva verso il vuoto oltre il margine.
Ecco, quella tensione gli premeva addosso come se stesse cercando di gettarlo dritto nel burrone. Era l’orribile sensazione di sconforto assoluto di quando sembra che il mondo giri al contrario, di quando sembra che non ci sia altra soluzione che tuffarsi a capofitto nel vuoto e sperare che tutto quello sconforto svanisca nel nulla.
Un fremito percorse il biondo mentre quest’ultimo cercava di allontanare quell’agghiacciante sensazione.
Ritornò fisicamente presente e cercò di impegnare tutte le proprie attenzioni sull’aperta campagna che sfrecciava intorno al treno.
La battaglia finale si avvicinava sempre di più.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Introspezioni ***


11_Introspezioni Oramai era quasi mezzogiorno.
Le nubi grigie del mattino erano rimaste immobili a coprire la fulgida luce solare, contribuendo solo ad appesantire l’atmosfera cupa che circondava i due Elric come una barriera che li divideva dal resto del mondo.
Dopo la discussione riguardante Elizabeth, nessuno dei due aveva più proferito parola e ciascuno si era immerso nei propri pensieri, cercando di trovarvi un po’ di quella tranquillità tanto agoniata che mai avevano avuto. Dimenticarono tutto ciò che li circondava. Si rinchiusero nel loro bozzolo di pensieri nascosti, nella loro anima, nel loro più profondo io interiore, senza badare minimamente a ciò che succedeva all’esterno. Esistevano solo loro e i loro pensieri.
Edward, gli occhi puntati fuori del finestrino, teneva le mani conserte in grembo, la schiena adagiata contro lo schienale. La treccia di fulgidi capelli dorati era poggiata sulla spalla sinistra. Le sopracciglia bionde formavano due linee quasi perfette, conferendogli un’espressione tetra e pensierosa.
Nella sua mente si affollavano pensieri distorti e confusi, senza alcun nesso logico. Apparivano e sparivano, sostituiti da altri pensieri, verso cui il biondo cercava di rivolgere la propria attenzione psichica.
Solo una catena di pensieri aveva una parvenza di logicità in tutto quel caos psicologico e, non si sa né come né perché, l’attenzione di Edward sovente si soffermava a contemplarla, benché fosse tutt’altro che piacevole. Era come assistere ad una ripresa diretta della sua vita. O meglio, della sua morte.
Continuava a vedersi combattere contro Elizabeth, sporco di sangue da capo a piedi, lei che sghignazzava mentre evitava ripetutamente i suoi colpi e lui che si ostinava a contrattaccarla senza successo. Elizabeth gli appariva nitida come il suo ricordo della mattina precedente, quando l’aveva guardata per la prima volta in carne ed ossa, dinanzi a lui. Quando aveva visto quelle pupille iniettate di sangue fissarlo di rimando da un pallido volto umano incorniciato di capelli biondi chiarissimi.
Alphonse non era presente nella scena o, almeno, non veniva inquadrato. Poi, d’un tratto, si vide steso a terra, in un lago di sangue ancora fresco, che andava allargandosi sul pavimento.
Il biondo si costrinse a distogliere la propria attenzione da quel pensiero, da quella sorta di premonizione riguardante il succedersi degli eventi.
Non voleva condizionare la battaglia prima ancora che avesse inizio e inoltre quel pensiero gli provocava una sorta di rassegnazione che fino ad allora non l’aveva mai neanche sfiorato.
Era la rassegnazione di quando sai che ormai sei prossimo alla fine.
Quell’emozione non l’aveva mai provata perché, fino a quel momento, non aveva mai pensato di essere davvero giunto al capolinea. Ora, invece, era tutto un altro discorso. Con Elizabeth, o vinceva o era vinto e in tal caso, la pena era quella capitale. Non c’erano vie di mezzo. Era come se stesse per imbarcarsi sul treno di sola andata verso la “terra del non ritorno”. Era come se tutto ciò che gli stava accadendo fosse una sorta di preludio alla sua morte, ormai prossima.
Con un sospiro d’abbandono, il biondo verté la propria attenzione mentale su ricordi e riflessioni che non contemplassero né la morte né Elizabeth.
Dinanzi a lui, Alphonse stava con gli occhi bassi, fissando qualcosa di imprecisato dinanzi a sé.
Non riusciva ancora a comprendere a fondo le motivazioni che stavano spingendo suo fratello verso Elizabeth. Non riusciva ancora a capire come Edward potesse andare incontro alla morte in modo tanto sereno e fiero. Certo, c’era l’orgoglio, ma dell’orgoglio che se ne faceva, se poi veniva ucciso da quel demone senza cuore?
Dentro di lui affioravano a velocità impressionante riflessioni e domande alle quali non riusciva a dare risposta, che si accalcavano per riuscire ad attirare la sua attenzione, ma che contribuivano solo e soltanto ad alimentare il putiferio interiore che Alphonse viveva nel peggior modo possibile.
Soffriva di un dolore emotivo che lo dilaniava come i denti dilaniano la carne. Era una sensazione orrenda, che riusciva a stento a sopportare. E tutto ciò era causato dalla quasi assoluta certezza che suo fratello avesse scelto di morire per salvare il mondo da Elizabeth. Dalla quasi certezza che ormai Edward fosse arrivato al capolinea, che avesse sofferto così tanto durante la sua vita da tentare il suicidio pur di non far soffrire chi gli stava intorno. Pur di non far soffrire lui.
Probabilmente, suo fratello aveva sofferto molto più di quello che potesse immaginare, per tentare addirittura una cosa simile, ma in fondo, anche lui aveva sofferto. Aveva perso il proprio corpo.
Ricordava ancora perfettamente l’angoscia e la disperazione nel vedere il proprio corpo scomporsi e dissolversi nel nulla. Ricordava ancora nitidamente il vuoto, l’oblio assoluto nel quale era stato tenuto prigioniero finché non aveva riaperto gli occhi, sigillato all’armatura. Ricordava ancora il freddo pungente, la sensazione di essere come trapassato da decine, centinaia di lame affilatissime che lo infilzavano come fosse un comune pezzo di carne. Non sapeva se, dopo la perdita del corpo, fosse stato recluso all’inferno, o in qualche strano luogo di punizione, nell’attesa che suo fratello lo recuperasse, ma sapeva cosa significava provare un dolore immenso, un dolore che andava molto al di là del limite sopportabile.
Che suo fratello avesse provato o meno un dolore forse pari al suo durante tutti quegli anni, non lo sapeva. L’unica certezza era che qualcosa stava spingendo Edward dritto verso la morte, verso una caverna buia dalla quale difficilmente sarebbe riemerso.
Non l’avrebbe abbandonato.
Alphonse era deciso su questo punto. Se Edward fosse andato a morire, lui l’avrebbe seguito. Non sapeva se, nella disperazione, avrebbe tentato di suicidarsi a sua volta, ma non avrebbe permesso a suo fratello di andare a combattere da solo.
Un fischio lungo e penetrante interruppe il filo dei pensieri dei due fratelli, che alzarono gli occhi quasi contemporaneamente e li indirizzarono verso i finestrini dalla parte opposta alla loro.
- Eccola... - mormorò Alphonse, con voce carica di tensione e angoscia.
- Central City... -. 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Central City ***


12_Central City La stazione di Central City era affollata come sempre.
Il gran viavai di persone che scendevano e salivano dai treni in arrivo e in partenza era rimasto lo stesso dall’ultima volta che c’erano stati.
Edward e Alphonse, silenziosamente, scesero dal treno con il loro bagaglio e si diressero verso la calca di persone che si spintonavano per raggiungere il proprio treno.
Più Edward si guardava attorno, più si sentiva strano e in un certo senso emarginato. Per quelle persone la vita era normale, niente di che, le solite giornate che trascorrevano tranquille, il lavoro.
Per lui, ogni singolo istante poteva essere l’ultimo. Essere lì lo faceva sentire inquieto fin quasi all’inverosimile. Non voleva morire. Non voleva che suo fratello ci andasse di mezzo.
Dovere.
Quella sola e unica parola risuonò potente nel suo inconscio, quasi potesse far vibrare il suo petto. Era suo preciso dovere fermare Elizabeth, in quanto alchimista, in quanto cane dell’esercito e, cosa più importante, in quanto fratello maggiore. Spettava a lui. Era suo dovere.
Facendosi largo fra le persone che si spintonavano verso il treno dal quale i due Elric erano appena scesi, Edward e Alphonse si avviarono verso l’uscita.
Appena fuori, i due si trovarono sotto un cielo che sembrava sul punto di scaricare una pioggia senza precedenti. Una cappa plumbea che dava a Edward la sgradevole impressione di essere in trappola. Di essere di nuovo sull’orlo di quel precipizio, senza altro che solida roccia alle spalle, a spingerlo verso l’inevitabile vuoto.
Ripensò a Elizabeth e al fatto che di lì a qualche ora più tardi l’avrebbe rivista. Provò un moto di immenso sollievo quando constatò che quel pensiero non aveva sortito alcun effetto negativo sul suo stato d’animo. Evidentemente, si era inconsciamente rassegnato alla battaglia.
Bene. Non sarebbe stato preso dal panico nel momento di agire.
Si diressero nel silenzio più assoluto verso la Biblioteca Nazionale Centrale, dov’erano certi di poter trascorrere in tranquillità il tempo che rimaneva prima di incontrare Elizabeth.
Alphonse seguiva con lo sguardo il fratello, che camminava al suo fianco senza fare alcun rumore, eccetto respirare. I suoi passi non producevano alcun suono degno di essere ascoltato. Erano del tutto soli in quell’agghiacciante silenzio.
Alphonse concentrò tutte le proprie attenzioni sui movimenti di suo fratello, alla ricerca di qualche mossa che potesse indurlo a rafforzare la propria ipotesi riguardante il tentativo di suicidarsi di Edward, durante l’ormai imminente scontro con Elizabeth.
Niente.
Camminava in modo un po’ più rigido del solito, ma eccetto quello, era perfettamente normale.
Percorsero i complessi intrighi stradali di Central City fino a raggiungere i piedi delle immense scalinate di marmo che conducevano alla famosa Biblioteca Nazionale Centrale.
Salirono i gradini e, una volta giunti in cima, Edward sospinse la porta, che si aprì con un leggero scricchiolio. All’interno c’era una luce soffusa, in parte proiettata dalle lampade appese alle pareti, in parte dalla leggerissima e tetra luce che entrava dalle grandi finestre disposte ad intervalli regolari sulle pareti.
Edward e Alphonse s’addentrarono fra quegli immensi scaffali carichi di libri polverosi, mentre con la mente ritornavano a quando, da bambini, amavano trascorrere interi pomeriggi a leggere i libri di Alchimia nello studio del padre.
Edward ritornò tristemente a soffermarsi su quei ricordi, su quella vita che sembrava lontana secoli, quando ancora non sapeva del destino cui andava incontro. Quando gli sembrava che la vita fosse facile, fosse fin troppo monotona.
A quel tempo, amava tantissimo leggere libri di Alchimia. Era il suo passatempo preferito. L’Alchimia lo aveva interessato fin dalla prima volta che gli era capitato sott’occhio uno dei libri di suo padre.
E non solo a lui. Anche Alphonse, in tenera età, aveva iniziato a studiare l’Alchimia insieme a lui. Facevano a gara a chi studiava di più, a chi riusciva a far felice la mamma per primo.
Anche se in quel momento, a ripensarci era paradossale, era stato spensierato. In un tempo assai lontano, ma lo era stato.
Quando si staccò a malincuore da quei pensieri che gli facevano l’animo più leggero per tornare al presente, fu come immergersi di nuovo nelle profondità di uno specchio nero, abissale e doloroso. Fu come tornare in una realtà dove la spensieratezza e la gioia di vivere erano sentimenti ed emozioni ridicole, impossibili da provare. Fu come se una specie di spillone gli stesse trapassando il cuore. Ecco. Quello era il suo stupido senso di colpa. Come se fosse una colpa ricordare il passato per cercare di alleggerire un po’ la tensione e il malessere del presente.
Il biondo scosse con violenza il capo, cercando di cancellare quei pensieri dalla propria mente.
Si alzò sulle punte dei piedi per prendere un libro e fece dietrofront, diretto verso il tavolo dove poco prima aveva visto Alphonse.
Era quasi giunto alla fine della scaffalatura, quando accadde.
Edward rimase completamente immobile.
Il libro sfuggì alla sua presa e cadde al suolo con un tonfo sordo.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Aure ***


13_Aure Un leggero tonfo non molto distante dal punto in cui si trovava distrasse Alphonse dalla sua lettura. Benché fosse solo un’anima sigillata ad un’armatura, riuscì a distinguere un altro rumore, che seguì l’altro a distanza di pochissimi secondi e che fu immediatamente riconosciuto dal ragazzo.
Un respiro che si mozzava.
Alphonse scattò in piedi e corse a vedere cosa fosse successo, immaginandosi già chi potesse essere stato l’autore di quel secondo rumore.
- Frat...! -.
Non concluse la frase.
Non ce n’era bisogno.
Rimase lì, ad osservare cosa gli si parava dinanzi, cercando un nesso logico che potesse spiegargli quel che stava accadendo, ma non ne trovò alcuno.
Edward era immobile, le braccia ancora semialzate come per sorreggere il libro che era caduto vicino ai suoi piedi. La posa era naturale, ma innaturalmente rigida, quasi fosse stato paralizzato in quel medesimo, fuggente istante. Il petto si alzava e si contraeva a ritmi diversi, evidente segno che qualcosa non andava.
La visuale di Alphonse si spostò dal basso verso l’alto e si soffermò sul viso del fratello. L’espressone di Edward gli trasmetteva un’orribile senso di profonda inquietudine.
La bocca era semiaperta in una sorta di esordio, come se stesse per parlare. Le labbra livide formavano una curva verso il basso, trasformando quell’espressione in una smorfia di agonia.
E gli occhi.
Alphonse era certo di non aver mai visto un’espressione del genere. Un’espressione che riuscisse ad esprimere in modo così pragmatico i sentimenti del biondo, qualsiasi essi fossero.
Gli occhi erano spalancati, lasciando ben visibili le grandi iridi d’oro liquido. Nelle pupille erano chiaramente visibili le vene, che spiccavano di gran lunga sul biancore dell’occhio. Il suo era uno sguardo vitreo e del tutto privo di espressione, venato del più puro terrore che Alphonse avesse mai visto. Le sopracciglia formavano due linee perfette, immobili sopra gli occhi, a dimostrazione della mancanza di una qualche vera espressione.
Quello sguardo gli fece ritornare alla mente quello di quando lo aveva assistito dopo che Elizabeth era fuggita. Era molto simile. Era simile all’espressione di quando un disperato cerca solo la morte per porre fine alle sue sofferenze. Era uno sguardo quasi identico a quello del dolore e dell’agonia più profonda e assoluta. Era uno sguardo così intenso che ad Alphonse parve di esserne perforato. Gli occhi di Edward fissavano con quello sguardo agonizzante e vitreo qualcosa di lontanissimo, di inesistente dinanzi a lui.
Quello sguardo, aggiunto al respiro irregolare, contribuivano ad aumentare l’inquietudine di Alphonse. Contribuivano ad aumentare quel senso di vuoto e disperazione assoluta che quello sguardo portava con sé e che riversava su chiunque vi posasse gli occhi.
- Fratellone? Fratellone che cosa c’è? È successo qualcosa? Fratellone! - esclamò Alphonse, in preda alla preoccupazione, scuotendo Edward, cercando di farlo rinvenire.
Quegli occhi lo facevano preoccupare. Era uno sguardo inumano.
Non sbatteva le palpebre. Gli occhi rimanevano spalancati e vitrei, senza accennare a tornare alla normale vitalità di sempre.
- FRATELLONE! - lo chiamò ancora Alphonse, dimenticandosi del luogo silenzioso dove si trovavano.
Edward continuava a fissare quel qualcosa senza rispondere.
- È... lei... - esalò il biondo d’un tratto, con la voce smorzata dalla paura.
- Lei? Elizabeth? Dov’è? -
- Fuori città... riesco... riesco... a percepirne la forza... - continuò Edward senza fiato.
- Riesci a percepirne la forza? -
- La sua... aura. È... intensa... molto... intensa... e non... non è sola... -
- Come? -
- C’è... c’è qualcuno con lei... qualcuno potente... -
- Fratellone... ma che ti sta succedendo? -.
Edward parve ridestarsi improvvisamente da quella posa inumanamente immobile e, ancora scosso, alzò gli occhi su suo fratello.
- Io... io non lo so... sento la loro presenza... una presenza fredda... -
- Fratellone... che cosa significa? -
- Io... io non lo so... ma potrò sfruttarlo per... per trovarla stasera... -.
Edward vacillò e Alphonse lo sostenne appena in tempo, prima che perdesse l’equilibrio.
- Fratellone, ti senti bene? -
- Sì... sto bene. Sono solo un po’ affaticato -.
Edward si liberò dal sostegno di Alphonse e prese il libro che gli era caduto.
Si diresse verso il tavolo dove prima stava il fratellino e lì si sedette, aprendo il libro e immergendosi nella lettura.
Alphonse rimase in piedi ad osservarlo per qualche istante, prima di ritornare al tavolo e sedersi al fianco del biondo, per leggere.
Ora, avevano una nuova arma dalla loro parte.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Tramonto ***


14_Tramonto Le ore trascorrevano lente e inesorabili, mentre con la mente Edward vagava alla deriva, perso nelle proprie riflessioni.
Nella sua mente era solo il caos, mentre cercava disperatamente di far luce su quell’avvenimento singolare e inquietante che aveva scosso la “normalità” della sua psiche.
Poteva avvertire la presenza dei demoni.
Aveva riflettuto un po’ riguardo ciò che gli era successo ed era arrivato a generalizzare tale potere supponendo che potesse sentire solo le loro aure perché erano ambedue demoni. Però non riusciva ancora del tutto a realizzare che ora possedeva un’arma in più dalla sua parte. Un’arma in più contro Elizabeth.
Forse era a causa del loro legame che poteva avvertire le aure demoniache, ciononostante, avrebbe avuto forse una chance in più di coglierla di sorpresa e quindi di vincere basandosi appunto sull’effetto sorpresa.
Ma dubitava fortemente che Elizabeth si sarebbe fatta cogliere impreparata. Sarebbe stata pronta a dichiarargli guerra apertamente anche in quel medesimo istante.
Edward fremette d’eccitazione, pensando allo scontro imminente. Era una reazione del tutto fuori luogo, considerate le impressioni che fino a quel momento il pensiero di quel combattimento gli aveva dato. Eppure non poté fare a meno di sorprendersi lui stesso per la scarica d’adrenalina che sentiva montare dentro riflettendo su ciò che di lì a qualche ora sarebbe accaduto. Avrebbe dovuto pazientare solo fino a quando la falce di luna calante non sarebbe comparsa a rischiarare la tenebrosa volta celeste notturna, l’ultima notte che Elizabeth avrebbe visto.
Giunse ben presto alla conclusione che la strana prospettiva che aveva per lui preso lo scontro poteva essere stata modificata solo dall’improvviso nuovo potere che aveva acquisito.
Si concentrò un poco, fissando ciò che aveva davanti, ma senza vederlo realmente: la sua mente era impegnata a ritrovare quel potere che si era nuovamente assopito, ma che si ridestò non appena fu Edward stesso a richiamarlo.
Nella sua testa fu come se si estendesse una sorta di mappa tridimensionale, nella quale prendevano forma le due fredde aure, ancora fissate nello stesso punto nel quale le aveva avvertite precedentemente. Quando si concentrò, cercando di mettere a fuoco le coordinate della loro posizione, la sua mente gli fornì immediatamente l’informazione: Nord-Est di Central City, a circa un chilometro e mezzo dalla periferia cittadina.
Edward ritornò fisicamente presente e riprese a leggere, cercando di impegnare al massimo la propria attenzione sul libro, piuttosto che allo scontro della sera.
Alphonse seguiva con lo sguardo i guizzi espressivi del biondo, che di tanto in tanto mandava frementi occhiate verso la porta della biblioteca, quasi stesse macchinando qualcosa per scappare da solo, lasciandolo lì.
Quando alle sei e mezzo i due uscirono dalla biblioteca, constatarono che ormai era il tramonto. La languida luce solare che andava scomparendo oltre l’orizzonte tingeva di striature tendenti all’arancio-rossastro il cielo, attribuendo tali colori anche alle rade nuvole sparse nel cielo, che si dileguarono nel giro di circa mezz’ora.
Edward fletté la schiena, facendone scricchiolare le vertebre, preparandosi al combattimento.
Ogni fibra nervosa del suo corpo fremeva di un’eccitazione assai a stento contenibile. Si sentiva formicolare dentro, al solo pensiero di poter finalmente assaporare il piacere dello scontro.
Socchiuse gli occhi mentre spostava lo sguardo verso il tramonto che s’avviava al crepuscolo.
- Fratellone... è l’ora? - domandò Alphonse, trepidante.
Edward chiuse gli occhi, concentrandosi alla ricerca delle aure di Elizabeth e del compagno sconosciuto. Fu ancor meno impegnativo del previsto per il biondo localizzarne la posizione, grazie al fatto che li aveva tenuti costantemente d’occhio per tutto il pomeriggio.
Le sue labbra si schiusero in un sorriso sghembo.
- Sì, Al... è ora - rispose in un fugace sussurro, avviandosi verso la parte antica di Central City, nella quale si trovavano i loro avversari.
Edward ne aveva assiduamente tenuto sotto osservazione i movimenti: Elizabeth e il compagno avevano girovagato attorno a Central City per qualche ora, soffermandosi per breve tempo, prima di riprendere il viaggio. Più che viaggio, sarebbe stato più corretto definirlo passeggiata.
Alla fine, verso le sei, avevano invertito repentinamente la direzione di marcia e si erano diretti verso Central City, in particolare verso il quartiere che era la Central City di un tempo.
E lì si erano fermati. Probabilmente erano pronti ad accoglierli.
A Edward l’idea non dispiacque affatto: avrebbe dovuto attendere meno del previsto per raggiungere il luogo dello scontro, anche se era più probabile che qualche civile vi fosse coinvolto.
Scosse lievemente il capo, distogliendo l’attenzione da quell’eventualità: se si fosse presentata, l’avrebbe affrontata sul momento.
Nel silenzio del crepuscolo inoltrato, Edward e Alphonse si fecero strada fino all’antica Central City, fermandosi dinanzi all’ingresso di un vecchio casolare decadente.
- È qui? - domandò Alphonse, turbato.
- Sì. Sono qui. È finalmente giunto il momento... - esclamò Edward.
I due entrarono, all’erta.
Nel cielo, intanto, una timida falce si accese, rifulgendo d’uno sfavillante e argenteo candore.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Incontro ***


15_Incontro Il casolare era appena definibile come tale: ormai assomigliava più ad un cumulo di rovine.
Le mura invecchiate erano quasi del tutto scomparse sotto una parete di muschio e piante rampicanti che s’insinuavano nelle crepe del muro. Il tetto era quasi totalmente crollato, lasciando scoperta la volta celeste, accesa di migliaia di puntini luminosi.
Edward e Alphonse proseguirono fra quelle rovine, i sensi all’erta, pronti a cogliere il minimo movimento. Ognuno dei due teneva sott’occhio una parte dell’ambiente, quella che l’altro non guardava, nell’eventualità che Elizabeth e il compagno non fossero da soli.
Edward continuava a percepire le loro aure sempre nello stesso medesimo punto, a dimostrazione che li stavano realmente aspettando.
Quando giunsero in prossimità di quel punto, Edward fu percorso da un brivido, mentre quelle aure s’intensificavano di colpo, divenendo sempre più fredde man mano che si avvicinavano.
Altri brividi percorsero il biondo, che li riconobbe subito come fremiti d’eccitazione. Si sentiva montare dentro un’impazienza a stento contenibile, controbilanciata dalla prudenza che il momento richiedeva. Non riusciva a distogliere il pensiero da ciò che avrebbe dovuto affrontare di lì a pochi, brevissimi istanti e ciò, anziché inquietarlo e renderlo nervoso, gli provocava una strana ebbrezza di adrenalina ed eccitazione. Era davvero strano, ma pensò che, in fondo, era meglio così: niente inutili attacchi di panico nei momenti decisivi.
Lui e Alphonse proseguirono, avvolti da quel loro silenzio agghiacciante che s’era improvvisamente fatto carico di tensione, una tensione che quasi era palpabile, tanto attanagliava l’aria.
I respiri di Edward si facevano via via più veloci, in conseguenza dell’aumento di esaltata tensione che lo spingeva a mettere un passo avanti all’altro. Solo una manciata di secondi lo separava dall’atteso incontro. Solo una manciata di secondi lo separavano dal rivedere di nuovo Elizabeth.
Con passo più sicuro, il biondo precedette il fratellino verso il punto dal quale provenivano le aure dei due demoni.
Le mani fremevano appena. Edward non fece neanche lo sforzo di mantenerle immobili. In quel momento, ogni sua più piccola cellula era tesa nello sforzo di captare per prima la scintilla, il rumore che avrebbe dato il via al combattimento.
Il silenzio che vigeva sul luogo era carico di trepidante attesa.
Edward e Alphonse, dopo aver fatto quasi una ventina di metri all’interno di quelle rovine, si fermarono, in ascolto.
Il biondo sentiva le due presenze a pochissimi metri, dinanzi a loro.
Un nuovo brivido d’eccitazione lo percorse lungo la schiena.
Poi, nella semioscurità della notte, un paio di occhi fiammeggiarono nell’oscurità.
Edward riconobbe immediatamente quelli d’un rosso brace venati di sangue, ma quelli azzurro ghiaccio non gli erano affatto familiari. Immediatamente, suppose appartenessero al compagno demone di Elizabeth.
In un silenzioso fruscio, i due avversari uscirono dalle tenebre, facendosi avanti con arroganza e superiorità.
Edward rimase immobile a scrutare, per quanto concessogli dalle tenebre notturne, la creatura inumana che aveva dinanzi e che, in quel momento, gli apparve in tutta la sua bestialità.
La pelle era di un pallore che superava di gran lunga quello spettrale. Un pallore che avrebbe fatto invidia ad un cadavere. Ma era un pallore che, per quanto fosse, sembrava più vivo che mai. Dalle labbra sbucavano fuori due sfavillanti canini argentei, che rilucevano alla luce lunare. Fra i lunghi capelli biondi, due piccole corna curvate verso il basso affioravano, situate poco più su delle orecchie, rigorosamente appuntite alle estremità superiori.
Con ribrezzo, Edward constatò che il suo abbigliamento rispecchiava quasi totalmente il proprio, una demoniaca imitazione femminile dei suoi vestiti, eccezion fatta per la maglia, che altro non era che un semplice top sbrindellato in fondo, che lasciava scoperto il ventre. Su di esso, il biondo poté notare una strana figura argentea, che però non era completamente visibile alla fioca luce lunare.
Il suo compagno vestiva di bianco. Pareva un angelo, con l’unica chiazza nera dei capelli, ma Edward sapeva fin troppo bene che dietro quel piacevole aspetto si nascondeva un essere con le stesse demoniache capacità di Elizabeth.
- Benvenuti... - li accolse glacialmente Elizabeth, scrutandoli tranquillamente dal punto in cui era ferma. I suoi occhi saettarono immediatamente sul ragazzo biondo dinanzi a lei e, con sua grande sorpresa, incrociò il suo sguardo, le sue limpide iridi d’oro liquido. In quegli occhi, che fino ad allora aveva visto solo terrorizzati mentre la scrutavano, Elizabeth notò una stilla d’eccitazione, ma neanche la minima traccia della paura che era solita incutere nell’alchimista. Non perse la calma.
- Elizabeth... -.
Edward sputò quel nome con tono di sfida misto ad un profondo senso di ribrezzo.
- Edward... quanto tempo... sono solo due giorni che ti ho lasciato e già senti la mia mancanza? - chiese in tono assai provocatorio Elizabeth.
Sul volto del biondo, si aprì un vago sorriso sghembo, che sembrava indicare superiorità e disprezzo.
- Elizabeth... sono qui, stanotte, per porre fine a tutto questo. Tu, Elizabeth, morirai qui, questa stessa notte... -.
Elizabeth rise. Una risata di scherno, carica di amara e perfida ironia.
- Io morire? Se io morirò qui, caro Edward, questa non sarà solo la mia tomba, ma sarà la tomba d’entrambi. Non temi tu la morte? -
- La morte, dici? Ormai è tardi per decidere se temere più la morte o il destino che attende l’umanità. Hai forse timore di sfidarmi? -.
Le labbra di Elizabeth si curvarono in un ghigno, mentre dal suo petto irrompeva un ringhio basso e minaccioso.
- Osi forse darmi della codarda, Alchimista d’Acciaio? Io accetto questa tua sfida. Preparati alla morte! -
- Morte? Lo vedremo... -.
Alphonse fece un passo indietro, concedendo al fratello lo spazio sufficiente alla lotta.
Il confronto finale era arrivato.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Battaglia ***


16_Battaglia Edward fece saettare le mani l’una dinanzi all’altra. Rimase in quella posizione, immobile, per alcuni, brevissimi istanti.
Quando le congiunse con un colpo secco e deciso, Elizabeth scattò.
La demone balzò in avanti con agilità e velocità sovrumane, arrivando dinanzi al biondo.
Edward trasmutò l’auto-mail con un fluido movimento.
Elizabeth compì un’audace torsione del busto, piegandosi all’indietro, attaccando il biondo con un calcio che fendette l’aria silenzioso.
Edward si ricompose appena in tempo per parare con il braccio destro il colpo, che però riuscì a far scricchiolare in modo assai preoccupante il suo auto-mail. Continuarono a far pressa l’uno contro l’altro, per poi balzare indietro, osservandosi reciprocamente.
Stavolta fu Edward a partire alla carica per primo.
Ad auto-mail sguainato, s’avventò in corsa verso l’avversaria. Elizabeth non si sottrasse e caricò anch’essa verso l’altro.
Lei riuscì a colpirlo con un pugno sullo zigomo sinistro.
Sogghignò, soddisfatta. Aveva sentito l’osso rompersi al contatto. Edward, mentre lo sguardo si annebbiava per il dolore, riuscì a colpirla con un fendente laterale al fianco, prima di essere scaraventato all’indietro dalla forza del colpo subito.
Cadde riverso al suolo.
Sentendo un fruscio alle spalle, il biondo non perse tempo a crogiolarsi nel dolore. Balzò nuovamente in piedi con un unico, repentino scatto e si volse appena in tempo per bloccare un nuovo pugno dell’avversaria.
L’auto-mail scricchiolò di nuovo per l’esagerata pressione subita.
Edward la respinse con uno spintone, accanendosi poi su di lei.
Elizabeth riprese immediatamente posizione e riuscì ad attaccarlo con un’unghiata al collo.
Il biondo non si mosse.
Allora ritentò il calcio con torsione e, stavolta, riuscì a colpirlo. Edward si volse in modo che il collo fosse riparato e il calcio della demone colpì la spalla sinistra, scaraventando il ragazzo lateralmente.
Nonostante Edward sentisse il sangue scivolargli lungo il collo e inzuppargli i vestiti e il dolore alla spalla appena colpita, non rimase a terra a lungo e si rialzò.
Si volse nuovamente verso Elizabeth e le corse incontro, l’auto-mail protratto in avanti, per parare eventuali nuovi colpi. Si staccò con un agilissimo salto dal suolo e piombò rapido sull’avversaria, che riuscì ad eludere l’attacco.
Edward atterrò piantando l’auto-mail nel terreno e non fece in tempo a scansarsi che Elizabeth gli fu addosso. La demone lo colpì con un micidiale calcio sul fianco destro, che lo scaraventò a parecchi metri di distanza.
Edward sputò un po’ di sangue, che andò a chiazzare il pavimento.
Sentiva il braccio sinistro mandargli atroci fitte, alle quali si aggiungeva il dolore dello zigomo destro fratturato, lungo il quale sentiva colare sangue, che andava a rigargli il viso come silenziose lacrime e il nuovo dolore del fianco. Non ne era totalmente sicuro, ma avrebbe detto che almeno una costola si fosse rotta, forse anche due.
Nonostante il dolore, il biondo puntò le mani a terra e si rialzò, incurante del pericolo.
Cercò di congiungere le mani, per trasmutare, ma qualcosa lo raggiunse con uno scatto repentino, bloccandogli il braccio sinistro dietro la schiena.
Elizabeth.
Edward lottò silenziosamente contro quella forza sovrumana che gli stava spezzando il braccio.
Alla fine, scoppiò in un grido. Un gridolino basso, ma un grido. Un grido di dolore.
- Edward... vuoi dire che ti sto facendo male? - sibilò lei all’orecchio del biondo.
Strinse più forte la presa. Edward si zittì: non voleva dargliela vinta.
- Chissà quanto resisterà il tuo braccio prima di rompersi... -.
Gli occhi di Edward si dilatarono, terrorizzati, mentre Elizabeth pressava cercando di stroncare il suo braccio. L’unico braccio che gli era rimasto.
Il biondo avvertiva il dolore fluirgli nelle ossa, quasi fosse fiele. Si sentiva debole, in preda a quell’atroce dolore e alla certezza che il suo braccio sinistro si sarebbe rotto. Non voleva pensare al dolore che avrebbe provato, ma non poté farne a meno. Non poté evitarlo, benché si ripetesse più e più volte di mantenere la calma. Sentiva il terrore e il panico montare dentro, invaderlo. Non ragionava più coerentemente. Non riusciva a pensare ad altro se non a quel lancinante dolore che andava aumentando di secondo in secondo, alla certezza che il suo braccio, il suo unico vero braccio avrebbe perso quella sfida di resistenza.
La forza aumentò d’improvviso e Edward sentì lo schiocco secco del suo braccio che si rompeva.
Dinanzi a lui, la visuale sfocò appena, per poi ritornare nitida. Il dolore era stato acuto, ma breve. Il panico era passato. Ormai, il braccio era rotto. Non poteva più provare dolore.
Elizabeth lo lasciò andare e lui cadde riverso al suolo, il braccio sinistro abbandonato accanto a lui, inerte.
- Credevi davvero di potermi battere? -.
Edward si rialzò, tenendo il braccio rotto penzolone lungo il fianco. Elizabeth lo afferrò per il bavero del giubbotto e lo colpì ripetutamente in faccia.
Più lontano, Alphonse e il compagno di Elizabeth si stavano affrontando. Al contrario del combattimento fra Edward e quest’ultima, il loro era uno scontro eguale in velocità, forza e agilità. Sembrava che fossero alla stessa stregua, che fossero testa a testa.
Elizabeth colpì con inaudita potenza Edward allo stomaco.
Il biondo, gli occhi lievemente socchiusi, sputò altro sangue.
- Sei solo un patetico essere umano. Non hai il potere di battermi... - esclamò Elizabeth in tono beffardo.
- Tu... dici? - esalò Edward.
Le gambe, ancora quasi illese, scattarono verso il ventre della demone, colpendola in pieno e scaraventandola lontano.
Edward ricadde con un tonfo a terra e, rialzatosi, si affrettò a portare la mano destra, ancora funzionante, verso quella sinistra, congiungendole in modo da poter trasmutare.
Elizabeth era lanciata verso di lui a velocità sovrumana, gli artigli della mano sinistra alzati a mo’ di arma, mentre il braccio in auto-mail era proteso in avanti, la mano aperta, pronta a stritolare qualsiasi cosa fosse finita nella sua morsa.
Edward s’inginocchiò e puntò la mano destra a terra. Dal punto di contatto si sprigionò una luce azzurrina abbagliante, mentre il biondo trasmutava una parete che potesse proteggerlo dall’impatto con Elizabeth.
La demone, invece di deviare o fermarsi, puntò con maggior furia verso l’ostacolo.
Ci fu un rumore assordante e la parete andò letteralmente in frantumi.
Edward, disorientato a causa del polverone, non riusciva a vedere dove fosse Elizabeth.
Non tardò ad individuarla, ma ormai era troppo tardi.
I suoi artigli s’infilarono nella sua spalla sinistra, dalla quale iniziò a sgorgare copioso il sangue, che andò a formare una pozza a terra.
Edward sentì poi il braccio sinistro venir ghermito con forza, mentre Elizabeth affondava senza pietà alcuna i suoi artigli nella carne del biondo.
Edward sentì il dolore in tutta la sua completezza. Era un dolore acuto, penetrante, che cresceva mentre la demone conficcava gli artigli sempre più a fondo. Il ragazzo sentiva i muscoli dilaniarsi come fossero cordicelle, aprirsi al passaggio di quelle letali lame che si conficcavano sempre più giù, senza alcuna pietà.
Elizabeth ghignò e storse gli artigli. Il dolore di quella torsione fu lancinante, mentre i muscoli si aprivano maggiormente per lasciare posto agli artigli della demone.
Con un repentino scatto, Elizabeth rimosse gli artigli dalla spalla di Edward, che cadde a terra in ginocchio, agonizzante.
- Alchimista d’Acciaio... è giunta l’ora... - sussurrò Elizabeth. 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Morte ***


17_Morte Edward non aveva più la forza necessaria a contrastare Elizabeth. Perdeva troppo sangue e iniziava a girargli la testa. Non avrebbe potuto reggere ancora per molto.
Ma non si sarebbe arreso. Non avrebbe cessato di lottare fin quando avesse avuto la forza di respirare.
Con uno sforzo che gli costò una fatica immane, il biondo si rialzò e fissò gli occhi su Elizabeth.
- No... non ancora... - mormorò.
Cercando di radunare le ultime forze, il ragazzo si lanciò in un nuovo attacco, diretto verso il cuore della demone, che schivò con estrema facilità l’attacco, per poi abbattersi ferocemente sul biondo, piantandogli le unghie esattamente nel centro del petto.
Il respiro di Edward venne mozzato di colpo.
- FRATELLONEEE! -.
Il grido disperato di Alphonse giunse da lontano. Troppo lontano.
Al fianco dell’armatura, stava il compagno di Elizabeth, Eric. Quest’ultimo osservava la scena senza il minimo segno di turbamento. Piuttosto, schiuse le labbra in un sorriso. Sentiva le aure di Elizabeth e Edward.
Per quanto male Edward fosse ridotto, la sua aura rifulgeva abbagliante, vivida e calda, molto più forte di quella di Elizabeth, al cui confronto era solo una tenue fiammella.
Edward fissava il volto di Elizabeth, il ghigno perfido che si era dipinto su di esso quando era riuscita ad affondare le unghie nel suo petto.
Si sentiva lacerare da qualcosa che gli impediva di respirare. Si sentiva schiacciato dalla mancanza di ossigeno.
Tentò di respirare più profondamente, ma ne ottenne solo ulteriore dolore. La sua visuale iniziò a sfocare lentamente, offuscandosi per il dolore e la lenta perdita di conoscenza.
No. Non poteva finire così.
Non doveva.
Il freddo iniziò ad invaderlo lentamente. Si sentiva come morto. Le membra sembravano non rispondere più.
Ma doveva riuscirci. Era abbastanza vicina e abbastanza distratta da permettergli quell’ultima, disperata mossa, prima di cadere nell’oblio freddo, eterno della morte.
Cercando in sé le ultime forze rimaste, Edward si aggrappò agli ultimi labili contatti con la realtà e riuscì a muovere l’auto-mail, fendere l’aria e... colpirla.
Sì. L’aveva colpita. Sentiva la sua presa allentarsi, le dita farsi più rigide.
Poi, d’un tratto, lei lasciò la presa e il biondo cadde di nuovo in ginocchio, cercando di riprendere una respirazione normale. Socchiuse gli occhi quel tanto che bastava a vedere dove il suo auto-mail fosse ancora conficcato: dritto nel cuore.
Era debole, ma sentiva che quello sarebbe stato il suo ultimo sforzo.
Edward premette a fondo la lama dell’auto-mail, cercando di vincere la volontà di lasciarsi andare a terra, esausto. Cercò di schiudersi un varco sempre più in profondità. Sentiva la carne e i muscoli sfilacciarsi e aprirsi al passaggio del suo auto-mail.
Fendette con fatica il pericardio, scese ancora più a fondo, sempre con maggior fatica, finché non sentì qualcosa pulsare appena contro la punta dell’auto-mail.
Eccolo. Il cuore.
Con un ennesimo, immane sforzo, Edward conficcò la propria lama nel miocardio della demone, trapassandolo. Ebbe la fugace impressione di qualcosa di viscido che gli inondava l’auto-mail, inzuppando l’acciaio. Ritrasse con forza la propria lama dal petto di Elizabeth. Quando lo estrasse in modo definitivo, l’azione fu accelerata dal viscido contatto fra il sangue che impregnava la ferita e quello rimasto sull’auto-mail.
Edward osservò per qualche istante il proprio arto meccanico: questo era completamente ricoperto di sangue sulla parte che era entrata nel corpo di Elizabeth e grondava copiosamente sul terreno, dove si era formata un pozza rosso scuro.
Il biondo distolse l’attenzione dal proprio auto-mail e fissò gli occhi in quelli della demone dinanzi a lui. In quelle iridi iniettate di sangue, non c’era rimasta una sola stilla di vita. Erano occhi che fissavano vacui il vuoto davanti a loro.
Ormai Elizabeth era morta.
Sul suo ventre illuminato pienamente dalla luna, Edward notò che era tatuata una falce di luna argentea, che iniziò a sfavillare.
Il corpo di Elizabeth rimase supino a terra per qualche istante, poi svanì in una soffusa nebbiolina argentata.
Edward sorrise. Finalmente, il suo era un sorriso pieno di felicità.
Alphonse si volse d’un tratto verso l’avversario, assumendo di nuovo la posizione da combattimento: gli avrebbe impedito di nuocere a suo fratello, ora che Elizabeth era morta.
- Calmati Alphonse Elric. Non ho intenzione di fare del male a tuo fratello. Piacere, il mio nome è Eric, anzi, non esattamente... - disse il demone.
Alphonse non si mosse di un solo centimetro. Continuava a fissare Eric vigile.
Edward respirava affannosamente.
Non aveva l’energia necessaria a cavarsi d’impiccio nel caso il demone avesse avuto intenzione di attaccarlo.
- Non abbiate timore. Io non sono ciò che credete io sia... -.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Dono ***


18_Dono Edward e Alphonse non riuscivano a credere che ciò che Eric stesse dicendo loro fosse vero.
Era un demone. Era con Elizabeth. Non bastava a renderlo tale?
- Come? Cosa... cosa vorresti dire? -  domandò Edward, stremato.
- Io sono un Divino. Un angelo, per così dire... il mio vero nome è Grisam. Grisam il Divino Stellare -.
Edward era esterrefatto: possibile che, in quindici anni di prigionia interiore, non avesse mai scoperto di essere entrato a far parte del cosiddetto “mondo sovrannaturale”? Non era plausibile che ora venissero fuori tutte le storie di demoni, Divini e via discorrendo!
Grisam si avvicinò a Edward cautamente e si chinò dinanzi a lui.
- Edward Elric, anche conosciuto come Alchimista d’Acciaio, tu sei stato l’involucro che ha permesso ad Elizabeth di ritornare in questo mondo, ma, contro ogni aspettativa, ne hai debellato la minaccia. Ti ringrazio, a nome di tutti noi Divini e ti conferisco il Sigillo... -.
Così dicendo, Grisam portò la mano sul petto di Edward e vi esercitò una lieve pressione.
Il biondo avvertì una scarica d’energia nuova fluirgli dentro, ridandogli vitalità.
Grisam si ritrasse dal contatto e fissò Edward negli occhi, con le sue pupille di un caldo azzurro, molto differente da quello che aveva visto nei suoi occhi precedentemente.
- Da ora tu hai il potere di percepire le presenze sovrannaturali in questo vostro mondo e la capacità di combatterli. Se sfruttare o meno tale dote, è una tua scelta. A questo punto, il mio compito qui è terminato. Addio fratelli Elric... -.
Così dicendo, Grisam svanì in una nube argentea.
Edward era ancora stupito da ciò che il Divino gli aveva concesso, da ciò che ora poteva fare.
Le forze fisiche gli vennero a mancare e cadde supino a terra.
- Fratellone! Fratellone! - lo chiamò invano Alphonse, correndo verso di lui.
L’ultima cosa che il biondo vide fu suo fratello chino su di lui, prima di cadere, privo di coscienza.

Quando riprese lentamente i sensi, Edward si ritrovò davanti agli occhi un’accecante luce biancastra, che lo costrinse a chiuderli nuovamente.
- ED! -.
La voce femminile che udì era così terribilmente familiare che gli ci volle un po’ prima di constatare che tutto ciò non era finzione.
Infatti, notò una ragazza dai lunghi capelli biondissimi accanto a sé.
- Winry? - chiese lui, spaesato.
- Fratellone, finalmente ti sei svegliato! - intervenne la molto più familiare e piacevole voce di Alphonse.
- Che... che cosa è successo? Dove sono? E... Gris...! -.
S’interruppe quando, cercando di rimettersi seduto, avvertì una fitta di dolore al petto, che gli mozzò il fiato, costringendolo a distendersi nuovamente.
- Calmati, fratellone... non avere fretta. Devi ancora rimetterti del tutto, non sforzarti... - lo tranquillizzò Alphonse.
- Non mi hai risposto... - gli fece notare il biondo.
- Sei svenuto e ti ho riportato in città... ora siamo in ospedale... -
- Ospedale?! - ripeté il biondo.
Era stato in ospedale solo una volta, ma era stato un periodo pessimo. Si ricordava fin troppo bene dei pasti che gli servivano e, cosa ancora peggiore, del fatto che, chissà perché, cercavano sempre di rifilargli il latte.
Scacciò disgustato il pensiero: ci avrebbe rimuginato sopra al momento, se sarebbe arrivato.
- Winry, ma che sei venuta a fare qui, scusa? -
- Come?! Io vengo fin qui da Resembool e l’unica cosa che sai fare è lamentarti?! Ingrato! - sbuffò Winry, offesa.
- Ma no... non mi stavo lamentando... chiedevo - si giustificò il biondo.
Alphonse l’aveva notato fin da subito: dopo la morte di Elizabeth, suo fratello era di nuovo se stesso. Era di nuovo il testardo, impulsivo alchimista che odiava essere pregiudicato per l’altezza e che odiava il latte. Era di nuovo il suo fratellone, come tanti anni prima.
- Comunque, sono qui perché mi ha chiamato Al. Ha detto che il tuo auto-mail era messo male. Non potevo lasciare che la mia creatura soffrisse così... -
- Con “mia creatura” ti riferisci all’auto-mail, vero? -
- Certo! A chi altri dovrei riferirmi? -
- Lasciamo stare... l’hai aggiustato? -
- Ovviamente, per chi mi hai presa?! Certo che era ridotto davvero male. Perché continui a maltrattarlo? -
- Guarda che non lo faccio di proposito! -.
Alphonse si ricordò improvvisamente di quella cosa che i dottori gli avevano detto a proposito di Edward.
- Fratellone... hai visto il tuo petto? -
- ...? C’è qualcosa di strano? -
- Guarda... -.
Edward si guardò il torace: era vestito, non vedeva niente. Si alzò la maglia e controllò.
Rimase muto, silenzioso e immobile.
Ecco cos’era il Sigillo. Ecco cosa significava quella pressione lieve sul suo petto. Ma non credeva che fosse tanto evidente: era una stella argentea che riluceva sulla sua pelle come fosse ricoperta di minuscoli brillanti. Davvero molto appariscente.
- Wow... - mormorò, esterrefatto.
- Cosa? - chiese Winry.
- Niente... niente... -
- Lo voglio sapere! -
- Cose da maschi... - mentì Edward.
- Ba’... certo che siete proprio strani voi due... -.
E così, dopo quella lunga degenza, Edward decise di accettare il ruolo che Grisam gli aveva concesso.
Così, nella sua vita, erano aumentati gli obiettivi: trovare la Pietra Filosofale, restituire ad Al il suo corpo e sconfiggere il maggior numero possibile di malvagi esseri sovrannaturali.
Quella sarebbe stata la sua nuova missione.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=328891