The Prophecy di Fiamma Drakon (/viewuser.php?uid=64926)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vita spezzata ***
Capitolo 2: *** Elizabeth ***
Capitolo 3: *** Verità ***
Capitolo 4: *** Pronto a morire ***
Capitolo 5: *** Profezia ***
Capitolo 6: *** Fasi lunari ***
Capitolo 7: *** Decisioni ***
Capitolo 8: *** Risveglio ***
Capitolo 9: *** Partenza ***
Capitolo 10: *** Conversazione ***
Capitolo 11: *** Introspezioni ***
Capitolo 12: *** Central City ***
Capitolo 13: *** Aure ***
Capitolo 14: *** Tramonto ***
Capitolo 15: *** Incontro ***
Capitolo 16: *** Battaglia ***
Capitolo 17: *** Morte ***
Capitolo 18: *** Dono ***
Capitolo 1 *** Vita spezzata ***
1_Vita spezzata
Era dannato. Condannato ad una vita a metà. Una vita costretta nell’oscurità.
Era stato così fin dalla
nascita, fin dall’infanzia. Nascosto in sé viveva un
mostro assetato di sangue, un qualcosa di inumano pronto a distruggere
il mondo se solo ne avesse avuta l’occasione. Ma lui non
gliel’avrebbe data per nessuna ragione. Era pronto a morire pur
di impedire che un simile cataclisma si abbattesse sul mondo e sulle
persone a cui era affezionato. Era pronto a sacrificare la sua vita o
qualche altra parte del suo corpo pur di riuscirci.
Perché lui era l’unico che poteva riuscirci. L’unico a conoscenza della sua esistenza.
La pioggia battente scrosciava indisturbata mentre lui e Alphonse viaggiavano nel crepuscolo senza una precisa destinazione.
Attorno a loro, un silenzio
agghiacciante, mentre percorrevano le strade deserte di East City.
Edward continuava a fissare il lastricato sotto i suoi piedi, mentre
con la mente ritornava alla prima volta che l’aveva vista, la
prima volta che aveva visto quegli occhi iniettati di sangue fissarlo
di rimando dalla lastra trasparente e cristallina che era lo specchio
del bagno di casa sua. La casa che lui e Alphonse avevano bruciato
prima di partire alla ricerca della Pietra Filosofale.
Quegli occhi che riuscivano ancora
a turbarlo come la prima volta. Quegli occhi che tormentavano ancora le
sue notti popolate di incubi spaventosi. Era mostruoso pensare che
dentro di lui albergasse una creatura del genere, una creatura legata
da un indissolubile filo d’acciaio alla sua vita. La morte di uno
equivaleva alla morte dell’altro. Per questo non aveva mai avuto
il coraggio di tirarla fuori da dentro di sé e ucciderla. Ma lei
si era dimostrata sempre disposta ad uscire. Gli aveva parlato, gli
aveva dimostrato che se c’era qualcosa di pericoloso al mondo,
quel “qualcosa” era lei. E lui si era sempre rifiutato di
accontentarla. Non avrebbe rischiato di vedere la fine dei suoi cari a
causa di quella mostruosità inumana.
- Fratellone... tutto bene? - domandò la titubante voce di Alphonse, rompendo quel tetro silenzio.
- Eh? Sì... sto bene - rispose Edward poco convinto, tornando a guardare a terra.
- Forse è meglio se cerchiamo un posto dove dormire... si sta facendo buio... - fece notare l’altro.
- Sì... hai ragione - concordò il biondo.
Per quanto non fosse in vena di
allegria, non poteva e non doveva permettere ad Al di scoprire quella
verità. Era inutile e avrebbe dato al fratellino solo maggiori
preoccupazioni.
Attraversarono nel silenzio la
città e, una volta giunti ad un albergo, entrarono. La luce che
illuminava il locale era accecante se confrontata a quella spenta e
morta del crepuscolo alla quale ormai gli occhi di Edward si erano
abituati.
Lui e suo fratello presero una stanza e, senza cena, si ritirarono avvolti nel silenzio.
- Fratellone... c’è qualcosa che non va? - chiese Alphonse, una volta chiusosi la porta alle spalle.
- No, Al... sono solo stanco - mentì Edward.
- Non è così. Perché ti ostini a nascondermi i tuoi pensieri? - indagò ancora il fratellino.
- Non ho niente Al. Ho solamente sonno -
- No, se fossi stanco me ne sarei già accorto. Hai qualcosa in testa e vorrei tanto sapere cosa -
- Non sono affari che ti riguardano -
- Sì, invece! Sono tuo fratello e ho il diritto di... -
- Tu non hai diritto a un bel niente! Non sono faccende che ti riguardano punto e basta -
Edward si chiuse in bagno e
tirò un lungo sospiro. Odiava mentire a suo fratello. Odiava
quell’esistenza a metà a cui era costretto suo malgrado.
Odiava vivere quella vita spezzata il cui solo scopo era impedire alla
creatura di evadere e creare il caos.
I suoi occhi caddero
involontariamente sullo specchio posto dinanzi a lui e la vide. Vide di
nuovo quegli occhi di brace puntati su di lui, vide di nuovo quel
ghigno perfido aprirsi sul suo viso in ombra. Guardarla era come vedere
la morte in faccia. Era una cosa spaventosa che ti segnava dentro.
- Ciao Edward... è da tanto che non ci vediamo... -
- Sta’ zitta. Non ti voglio parlare... -
- Oh, ma perché sei così scorbutico? In fondo, io sono te -
- Non è vero. Sta’ zitta -
- Edward... è inutile negare l’evidenza. Ormai è inequivocabile. Io sono parte di te -
- No. Non è vero. Sono tutte bugie. Sta’ zitta! -
- Edward accettalo, ti sentirai
molto meglio. In fondo, che c’è di male ad ammettere che
io in fondo sono l’incarnazione della tua rabbia, della tua sete
di potere e di vendetta contro il mondo intero? -
- Ti ho detto di stare zitta! -
- Edward... non ti infliggere
dolore inutile. Sai benissimo che non puoi fare niente contro di me.
Piuttosto, dovresti aiutarmi... -
- STA’ ZITTA!!! -
Edward cadde in ginocchio,
stravolto. Quell’essere era la sua condanna. La sua croce fino
alla fine e nessuno mai avrebbe potuto cambiare quella situazione.
- Fratellone! Fratellone! -
Alphonse entrò nel bagno e
la sua attenzione immediatamente si focalizzò sul fratello,
inginocchiato a terra singhiozzante.
- Fratellone, cos’è successo? Fratellone! -
Edward non rispose. Si
limitò a rimanere sul pavimento, agonizzante. Pian piano, il suo
corpo iniziò ad essere scosso da violenti tremiti e Alphonse,
presolo in grembo, lo portò a letto, adagiandolo sotto le
coperte.
- Dormi fratellone... -
Edward iniziò a piangere. Le
lacrime sgorgavano spontanee e sembravano non volersi più
fermare. Gli rigavano i lati del viso, ricadendo sul cuscino,
bagnandolo. E Alphonse vegliava su di lui, seduto vicino al suo letto.
Non era la prima volta che
succedeva. Spesso, per ragioni a lui sconosciute, suo fratello veniva
assalito da crisi del genere che a volte duravano persino ore. E lui,
angosciato per la salute di Edward, rimaneva ad assisterlo
finché non gli passava. E dopo era di nuovo tutto come prima:
freddo e tanta, tanta tristezza. Non erano mai stati davvero felici.
Dopo la fallita trasmutazione per riportare in vita la loro mamma, la
situazione era addirittura peggiorata. Il loro viaggio per recuperare i
loro corpi era una tortura che Alphonse sopportava nel silenzio
agghiacciante che li accompagnava sempre e dovunque. Quella situazione
insostenibile era una tortura psicologica vera e propria.
Pian piano, Edward scivolò
in un sonno tormentato nel quale dominavano quegli occhi di brace
iniettati di sangue. Quelle stridule risate demoniache. Quelle promesse
di morte.
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Capitolo 2 *** Elizabeth ***
2_Elizabeth
La luce smorta del
mattino illuminò la camera dove i fratelli Elric alloggiavano,
destando Edward dal suo tormentato sonno. Il biondo si sedette sul
bordo del letto e spostò gradualmente lo sguardo verso suo
fratello, addormentato su una sedia posizionata accanto a lui.
Edward lo fissò per qualche
istante, domandandosi quanto lo avesse fatto soffrire la sera prima,
quanta preoccupazione gli avesse dato. Non era sua intenzione,
assolutamente, ma non era riuscito a frenarsi. Avrebbe preferito
strapparsi il cuore con un paio pinze arroventate piuttosto che veder
Alphonse soffrire ancora, più di quanto non potesse sopportare.
Gli aveva già inflitto dolore a sufficienza.
L’alchimista si alzò
dal letto e, legandosi i capelli dorati nella solita treccia,
iniziò a vestirsi silenziosamente.
Un nuovo giorno. Una nuova guerra
contro se stesso. Era inevitabile che vivesse la sua adolescenza da
prigioniero. Prigioniero in una bolla di vetro che nessuno mai avrebbe
potuto infrangere. Prigioniero della sua missione, del suo obiettivo:
impedire a Elizabeth di evadere.
Elizabeth, quello era il suo nome.
Non era umanamente possibile che rabbia, odio, rancore e vendetta
potessero fondersi assieme e creare una creatura autonoma e pensante,
con un nome e uno scopo primario nella sua esistenza.
Eppure, quando da bambino
l’aveva vista per la primissima volta nello specchio di casa sua,
lei si era presentata. Aveva detto di chiamarsi Elizabeth. Aveva detto
che non sarebbe stata sua nemica, aveva detto che l’avrebbe
aiutato. L’avrebbe aiutato a distruggere il mondo.
In quell’attimo Edward
capì che non poteva e non doveva uscire. Non doveva esistere.
Era un errore innaturale. Qualcosa di irrimediabilmente storto in lui.
E da quel momento aveva fatto tutto ciò che era in suo potere
per tenerla nascosta ad Alphonse, cosa che si era rivelata più
semplice, dato che solo lui la vedeva riflessa ogni qualvolta si
guardava in uno specchio.
E così aveva passato
l’infanzia. Un’infanzia da inferno cercando di farla
morire. Aveva spinto il suo corpo fino quasi alla morte pur di trovare
qualcosa che potesse ucciderla. E lei gli aveva semplicemente detto che
se la voleva morta, anche lui sarebbe dovuto morire. E da quel momento
aveva rinunciato. Aveva smesso di tentare il suicidio ogni volta che se
ne presentava l’occasione. Aveva smesso di digiunare, di non
bere. Aveva smesso di infliggersi dolore. Aveva smesso di desiderare la
morte.
Edward, una volta vestitosi, uscì in silenzio dalla stanza, lasciando Alphonse da solo.
Uscì dall’albergo e iniziò a girovagare per East City, senza badare a dove le sue gambe lo stavano portando.
A dodici anni lui e suo fratello
avevano bruciato la loro casa e iniziato il loro viaggio. Ed Elizabeth
continuava a bramare crudeltà nell’inconscio di Edward.
Attendeva l’occasione di uscire, aspettava l’ora nella
quale avrebbe finalmente visto la luce. Ma quell’ora non era
ancora giunta a distanza di tre anni.
Ormai quindicenne, Edward sapeva
fin troppo bene che una simile mostruosità non avrebbe mai
dovuto emergere da dentro di lui. Non avrebbe mai dovuto vedere la luce
del giorno. Perché sarebbe rimasta per sempre ingabbiata in lui,
volente o nolente, fino alla fine dei suoi giorni.
Il ragazzo si fermò e
alzò lo sguardo dal lastricato sotto i suoi piedi: era in
piazza. Lui e Alphonse c’erano passati talmente tante volte che
ormai le sue gambe si indirizzavano lì automaticamente. Il
biondo, sovrappensiero, si sedette sul bordo della grande fontana posta
proprio al centro della piazza.
E lì rimase seduto.
Non immaginava che in quel luogo così conosciuto, così familiare, si sarebbe realizzato il suo peggior timore.
- Ehi tu! Torna indietro! - urlò qualcuno alle spalle dell’alchimista, che si voltò di scatto.
Un ladro. Non si aspettava niente
di più, ovviamente in un città come East City, tenuta
sotto strettissima sorveglianza dall’esercito.
Edward si alzò e bloccò la strada all’uomo.
- Togliti di torno, ragazzino! - gli intimò il ladro, puntandogli contro una pistola.
- Avanti, ammazzami - lo provocò il biondo. Se proprio doveva morire, almeno avrebbe portato con sé Elizabeth.
Un colpo inaspettato precedette
quello del ladro, che fu colpito in pieno cuore da una serie di
proiettili sparati da un punto fuori visuale.
L’uomo si accasciò a terra in un lago di sangue, morto.
Edward rimase lì, perfettamente immobile.
Un battito cardiaco
riecheggiò nel suo petto dieci volte più forte, quasi
volesse uscire dalla cassa toracica. Il biondo impallidì, mentre
una fitta di emozioni negative di inaudita potenza vibrava,
rimbombando, in lui. Per un istante, sembrò non avere più
alcun controllo sul proprio corpo. Rimase lì immobile, gli occhi
sgranati per la sorpresa e il dolore, la bocca semiaperta. Ma
più di tutto, provava terrore. Terrore per ciò che si
stava agitando dentro di lui, per quella cosa che si dibatteva per
conquistare la libertà che mai Edward gli avrebbe concesso senza
combattere. Il petto iniziò a tremargli, mentre i battiti
cardiaci aumentavano frequenza e intensità.
- Edward! -.
Una voce femminile
riecheggiò lontanissima, quasi inudibile se confrontata
all’accelerazione forsennata del palpitare frenetico del suo
cuore. Le fitte di emozioni negative, quasi alla stregua di lance, gli
dilaniavano l’inconscio, rendendolo emotivamente sempre
più debole. Il petto non accennava a fermarsi. Gli occhi, venati
di terrore, paura e disgusto, non riuscivano a staccarsi
dall’uomo accasciato a terra morto, e dalla pozza di sangue
fresco sotto di lui.
Era pronto a vedere il proprio
petto esplodere sotto i colpi martellanti del proprio cuore. I muscoli
non rispondevano più, i polmoni continuavano meccanicamente a
dilatarsi e restringersi, nonostante Edward si sentisse lacerare dalla
mancanza di ossigeno.
Poi, qualcosa di potente lo scosse, assestandogli il colpo definitivo. Le ginocchia del ragazzo cedettero.
Piegato in avanti, gli occhi
dilatati all’estremo, quasi del tutto privo di fiato, Edward
spalancò la bocca, dalla quale uscì un fiume di sangue,
che andò a chiazzare il lastricato e i suoi vestiti. E da quel
sangue caldo, lei prese forma.
Dinanzi ai suoi occhi, nei quali le
venature erano quasi del tutto svanite per la mancanza di sangue e
ossigeno, apparve colei che aveva strenuamente lottato per quindici
anni per la libertà. Colei che aveva rovinato la vita di Edward.
Colei la cui vita aveva il solo scopo di portare dolore, morte e
distruzione dovunque andasse. Era libera. Elizabeth era libera.
Per quanto Edward avesse cercato di frenarla, lei era riuscita a sconfiggerlo.
Era identica a lui, per quanto
diversa: i capelli dorati lunghi e lisci le scendevano fino alle
spalle, il braccio destro e la gamba sinistra erano in auto-mail. La
carnagione chiara era quasi marmorea. La fronte era coperta da una
spettinata frangia, al di sotto della quale si intravedevano le sottili
sopracciglia bionde. Il viso idilliaco e innocente era reso demoniaco
dagli occhi di brace iniettati di sangue che fissavano Edward con
superiorità, mentre le labbra si increspavano a formare un
sorriso malvagio, scoprendo due file di acuminati denti bianchissimi.
- Finalmente la luce. Edward... siamo ancora legati... ma ora non ho più bisogno del tuo misero corpo -
Edward la fissava, distante, gli occhi vitrei puntati su di lei.
- Edward Elric... sono certa che ci rivedremo... -.
Svanì come trasportata da un invisibile soffio di vento.
- Edward... Edward! - esclamò la tenente Hawkeye, correndo al fianco del biondo.
Non riusciva a crederci. Non voleva
crederci. Era riuscita a fuggire. Era riuscita ad uscire. Ed ora il
mondo era condannato a causa sua e della sua stupidità. Avrebbe
dovuto decidersi prima. Avrebbe dovuto capire che l’unica
soluzione possibile era farla finita. Avrebbe dovuto uccidersi
finché ne aveva avuto l’occasione. Ormai era troppo tardi.
- Fratellone! FRATELLONE! - il grido preoccupato di Alphonse sovrastò i discorsi delle persone che attorniavano la scena.
Facendosi largo a spintoni fra la
folla, l’armatura arrivò immediatamente al fianco di
Edward e si chinò su di lui.
- Tenente... cos’è successo? - domandò, prendendo fra le braccia Edward, che fremeva.
- Non lo so... solo tuo fratello
potrà spiegarcelo... - rispose Riza, togliendosi la giacca e
avvolgendola attorno al corpo del biondo.
- Fratellone... che cosa? -
Il biondo rigurgitò ancora altro sangue.
- M-mi dis-piace... - mormorò flebilmente, accoccolandosi fra le braccia di Alphonse.
- Ti dispiace? Per cosa? -
- M-mi dispiace... tan... tanto... -
- Non penso che sia nelle
condizioni adatte per rispondere. Sembra traumatizzato. Meglio farlo
riposare - consigliò la tenente.
Alphonse, tenendo saldamente fra le braccia il fratello, ripercorse la strada verso l’albergo.
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Capitolo 3 *** Verità ***
3_Verità
Nella camera dove Edward
e Alphonse Elric alloggiavano, le tende erano tutte tirate. La luce che
filtrava da esse era tetra e bastava a malapena ad illuminare la stanza.
Alphonse era chino sul letto dove
suo fratello era sdraiato. Edward se ne stava rannicchiato, le palpebre
un poco calate sugli occhi spenti che fissavano un punto inesistente e
lontanissimo dinanzi a lui. Si sentiva lacerato dentro, esausto. In
quelle poche ore aveva vomitato altro sangue, sangue caldo che ancora
impregnava i suoi vestiti. Impressi nei suoi occhi c’erano gli
attimi vissuti poco tempo prima. Elizabeth, in piedi dinanzi a lui,
libera dall’invisibile vincolo che l’aveva tenuta
imprigionata nel suo corpo per quindici anni. Libera di portare la
morte ovunque.
Un nuovo e più intenso
fremito percorse il corpo del biondo, mentre le parole di Elizabeth si
riaffacciavano nitide nella sua mente. Non erano ancora disgiunti.
Erano ancora legati dal sottile filo d’acciaio che era la vita.
La vita dannata che Edward aveva scelto di percorrere in solitudine. Se
lei era ancora viva, la colpa era solo sua. Lui avrebbe dovuto morire
prima e liberare il mondo da quella promessa di morte e dolore, ma non
ne era stato capace.
Edward voltò il capo verso
il bordo del letto, sentendo venir su altro sangue. Gli risaliva la
gola lentamente, caldo e umido, fino a raggiungere la bocca. Il ragazzo
si sporse e vomitò oltre il letto, in una bacinella che Alphonse
gli aveva messo vicino per non farlo alzare.
L’armatura fissò il
fratello in silenzio, mentre quest’ultimo si rannicchiava di
nuovo sotto le coperte, gli occhi velati di ansia e terrore, emozioni
per lui incomprensibili in quella circostanza. Non si era azzardato a
fare domande, temendo che Edward reagisse in modo negativo, aggravando
ancora di più la situazione.
Era difficile assistere sapendo di
non poter far nulla di concreto per aiutarlo. Più sangue
rigurgitava, più pallida diveniva la sua pelle, ormai esangue.
Le pupille degli occhi erano bianchissime, quasi dissanguate
totalmente. I capelli che gli circondavano il viso erano umidi e
sporchi di sangue. Era una scena orribile, traumatica. In vita sua
Alphonse non aveva mai visto suo fratello stare così male. E la
consapevolezza di non poter far niente era opprimente, frustrante. Si
sentiva completamente inutile. Era solo e superfluo in quella veglia
intrisa di dolore che era la via verso la fine di suo fratello.
Perché sapeva che, restando invariata la situazione, ben presto
Edward sarebbe morto dissanguato.
Il biondo, giunto prematuramente a
quella conclusione, sperava che almeno la morte lo strappasse a quel
dolore fisico e emotivo. In mente gli si affacciavano tante domande
sulle quali non valeva la pena di soffermarsi. Ormai era a un passo
dalla morte. In quelle condizioni, l’unica domanda che gli sorse
spontanea di farsi fu “Morire fa male?”. Non ne aveva idea,
ma per quanto potesse soffrire mentre la vita lo abbandonava, sarebbe
morto con la certezza che anche Elizabeth avrebbe lasciato il mondo.
Un lieve toc toc indusse Alphonse a voltarsi verso la porta, che si aprì leggera e silenziosa su due figure immobili.
- È permesso...? - chiese il colonnello, facendo un passo avanti, seguito dalla tenente.
- Colonnello... che cosa ci fa qui? -
- La tenente mi ha raccontato cosa
ha visto in piazza e sono venuto ad accertarmi delle sue condizioni...
- spiegò Mustang, accennando lievemente a Edward, che non aveva
fatto una piega all’ingresso del colonnello.
Lo sguardo del moro si posò poi sulla bacinella, quasi colma di sangue, deposta ai piedi del letto del biondo.
- Vomita sangue? - domandò.
Alphonse abbassò lo sguardo e annuì.
- Non mi intendo granché di medicina, ma forse tutto ciò è causato da un’emorragia interna... -.
Mustang si avvicinò a Edward e si chinò su di lui.
- Acciaio... mi senti? -
Edward mugolò in risposta, senza voltarsi.
- Puoi dirmi cosa è successo? -
Il respiro affannoso del biondo si
smorzò, mentre rievocava in un orripilante flash ciò che
era successo quella mattina. Doveva dirlo. Se Elizabeth avesse
scatenato il pandemonio e lui fosse morto dissanguato, i militari
avrebbero quietato le acque.
Prese un profondo respiro e si costrinse a parlare.
- È... è uscita. Elizabeth è uscita... - rispose Edward con voce roca.
- Chi è Elizabeth? -
- Lei... lei era dentro di me.
Aspettava di uscire. È... è malvagia. Ucciderà
chiunque incontri... è tutta colpa mia... -
- Fratellone... -
- Acciaio... spiegati -
- La... la vedevo riflessa negli
specchi. Lei dice di... di essere l’incarnazione delle mie...
delle mie emozioni negative. Voleva uscire per... per seminare morte e
distruzione. E io mi sono opposto... e poi lei... -.
La voce di Edward fu smorzata dalle lacrime che iniziarono a rigargli il viso silenziose.
Mustang rimase in silenzio per qualche istante.
- Poi? - chiese con morbidezza, invitandolo a continuare.
- Io... io non sapevo che... che
avrebbe preso forma. Non pensavo che si sarebbe costruita un corpo. Non
pensavo che... che sarebbe uscita senza che glielo permettessi. Ma
oggi... -
- Oggi? -
- Ha visto quell’uomo
morire... si è ribellata. Il cuore batteva... i muscoli non
rispondevano... e poi... freddo. Tanto freddo... tanto, tanto freddo...
-.
Edward tremava di nuovo. Non
riusciva più a parlare, benché si sforzasse di riprendere
il discorso. Voleva dirlo. Voleva mettere al corrente di ciò il
colonnello. Ma quel freddo pungente che aveva provato si era di nuovo
impossessato di lui. Lo pervadeva e non gli permetteva di formulare
pensieri coerenti.
- Acciaio... -
- Lei... vuole la morte... può morire... solo se... anch’io... anch’io... -
- ... muori - concluse Alphonse.
Edward si era sforzato di dirlo.
Morire. Sarebbe dovuto morire. Ma non riusciva ad esprimere quella
realtà. Non la accettava ancora, benché avesse provato
più e più volte a farlo.
- Acciaio... riposa -
- Lei... lei... - Edward fissò gli occhi su Alphonse.
E in essi quest’ultimo vide
tutta la disperazione e il dolore che suo fratello aveva provato per
quindici anni. Quegli occhi accecati dall’agonia. Quegli occhi
che per tanti anni avevano celato le sue emozioni dietro una maschera
fredda e impassibile. In essi, un brillio di follia.
- Al... perdonami... - esalò, abbandonando la testa sul cuscino.
No. Non era morto. Flebili e
smorzati respiri si udivano, mentre il suo petto si alzava e si
abbassava ritmicamente, tremando appena. Quegli sforzi lo avevano
prosciugato delle ultime energie. Ora dormiva.
Il colonnello si alzò e guardò Alphonse.
- Non perdere d’occhio tuo fratello. Al resto pensiamo noi -
- Non era mia intenzione farlo -.
Mustang fece dietrofront e si allontanò dal letto. Aprì la porta.
- Colonnello... un’ultima cosa. Non provi ad uccidere Elizabeth - ammonì Alphonse, grave.
- Non era mia intenzione farlo -
rispose il moro, uscendo dalla stanza. Riza si chiuse la porta alle
spalle, lasciando i due fratelli di nuovo soli.
Il loro silenzio agghiacciante calò di nuovo, smorzato solo dai lievi respiri di Edward.
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Capitolo 4 *** Pronto a morire ***
4_Pronto a morire
In quella buia camera
d’albergo, Alphonse osservava suo fratello dormire, sperando che
almeno nel sonno riuscisse a trovare la tranquillità che non
aveva mai avuto.
Nel suo inconscio affioravano
migliaia di domande alle quali non riusciva a trovare risposta. Tutte
contemplavano le stesse circostanze: morte. Edward ed Elizabeth.
La morte di uno equivaleva alla
morte dell’altro. Non voleva veder morire suo fratello,
sacrificarsi per salvare il mondo dalla creatura sfuggita al suo
controllo.
L’unica cosa che desiderava
ardentemente era che tutto ciò non fosse altro che un incubo. Un
orribile, devastante incubo dal quale presto si sarebbe svegliato, al
di fuori del quale Edward era ancora vivo, ancora allegro, ancora
desideroso di vivere.
Suo fratello non aveva mai vissuto
in pace con se stesso. Gli era sempre sembrato, ma si era convinto che
fosse solo una supposizione. Ora ne aveva la piena certezza. E tutto a
causa di Elizabeth.
Edward si mosse appena nel letto.
Lentamente, le sue palpebre si aprirono e si richiusero. Era sveglio.
Si voltò verso suo fratello e accennò un tenue sorriso.
- Fratellone... come ti senti? -
- Stanco... ma sto meglio... - mormorò il biondo in risposta.
Contro ogni previsione, l’alchimista si mise seduto.
- No, fratellone! Ma che fai? -
- Devo vedere una cosa... -
- Sei ancora debole! -.
Ma Edward doveva sapere. Doveva
vedere. Con un incredibile sforzo di volontà, si alzò dal
letto. Mosse qualche passo incerto. Era di nuovo in grado di camminare,
anche se si sentiva ancora spossato.
Camminando appresso alla parete,
seguendola con la mano per non cadere, Edward raggiunse la porta del
bagno e l’aprì.
Dallo specchio, due occhi color oro liquido lo fissavano di rimando, venati di stupore. Erano i suoi.
Il biondo perse il fragile
equilibrio appena riconquistato e cadde, ma Alphonse lo prese prima che
toccasse terra. Lo sorresse facendo attenzione a non fargli male.
- Fratellone... -
- Lei... lei non è
più nello specchio. Vuol dire che è uscita. Elizabeth si
è creata un corpo proprio disgiunto dal mio in modo quasi
definitivo. L’unica cosa che ancora ci lega è... -
- La vita... - concluse Alphonse.
Edward abbassò lo sguardo e annuì.
- Fratellone... perché non mi hai mai detto niente? -
- Avrei dovuto farti preoccupare per questioni che non potevi cambiare? -
- Non è questo il punto. Non
mi hai mai parlato di Elizabeth. Quando... quando ti guardavo allo
specchio vedevo solo la tua immagine riflessa... -
- Solo io riuscivo a vederla. Se te ne avessi comunque parlato, non mi avresti creduto... -
Edward si sottrasse alla presa di
Alphonse e si rimise in piedi, nonostante fosse ancora debole. Prese la
giacca rossa appoggiata alla ringhiera in fondo al suo letto e si
avviò verso la porta, traballando appena.
- Fratellone, dove hai intenzione di andare? -
- Dal colonnello. Il quartier
generale dell’Est starà certamente seguendo ciò che
accade nel paese. Se hanno notizie di Elizabeth, voglio esserne al
corrente -
- Ma sei ancora debole! Non puoi andare! -
- Al... lei è una mia
responsabilità. Sono stato io ad aver lasciato che mi
sopraffacesse e devo porre rimedio al mio errore, in un modo o in un
altro -.
Nella sua voce Alphonse
captò i segni di una determinazione che andava ben oltre quella
di sempre. Era una determinazione profonda, dettata da qualche
sentimento del quale Alphonse non era a conoscenza.
Senza perdersi in ulteriori chiacchiere, Edward aprì la porta e uscì dalla stanza.
- Fratellone... questo significa che...? -
- Sì, Al... significa che sono pronto a morire -
Alphonse rimase interdetto per
qualche istante. Suo fratello stava andando al quartier generale per
avere qualche informazione concernente Elizabeth o semplicemente per
farsi uccidere? L’idea che Edward avesse optato per la seconda
scelta lo gelò dentro, benché fosse solo
un’armatura vuota.
Suo fratello doveva, a parer suo,
morire per far sì che Elizabeth morisse. Ma lui non avrebbe
retto vedendolo morire. Non avrebbe sopportato la vista del suo
cadavere steso a terra senza far nulla. Non riusciva a capacitarsi di
ciò. Erano davvero giunti ad un vicolo cieco? L’unica via
d’uscita era veramente la morte di Edward? Non poteva e non
doveva permettere che ciò accadesse.
Alphonse seguì suo fratello
in silenzio, meditando su tutto ciò che era accaduto in quei due
semplicissimi giorni. In due giorni la loro vita già in precario
equilibrio era andata a rotoli. Distrutta per sempre.
I due fratelli si diressero verso il quartier generale dell’Est attorniati dal consueto gelido silenzio di morte.
- Bene, bene Acciaio... vedo che ti sei ripreso... -
Edward e Alphonse erano appena arrivati nell’ufficio di Mustang.
- Non ho tempo per i giochetti colonnello. Avete rilevato niente che possa essere Elizabeth? -
Il moro si fece d’un tratto cupo.
- Sì... non ne abbiamo l’assoluta certezza ma si direbbe che si stia dirigendo verso Central City... -
- Allora dobbiamo andare anche noi. Al! -
- Fratellone... -
Edward si voltò verso la porta.
- Aspetta Acciaio! Ho condotto delle ricerche su quello che mi hai detto... -
- Cosa? -
- Sembrerebbe che quella creatura,
Elizabeth, sia oggetto di una profezia annunziata secoli fa da un
veggente di Central City. Ovviamente non gli diamo molto peso, ma
c’è dell’altro... -
- Dell’altro? -
Mustang annuì con fare grave.
- In questa profezia, viene
menzionato anche un “giovane dai capelli d’oro” e non
puoi negare la coincidenza di ciò -
Edward rimase interdetto
sull’uscio. Un giovane dai capelli d’oro? Che fosse lui? In
effetti, non poteva negare che fosse solo una coincidenza il fatto che
venisse citato un ragazzo biondo nella profezia che parla proprio di
Elizabeth. Ma lui? Era solo un alchimista nato in campagna! Poteva
davvero essere stato oggetto di una profezia annunziata secoli prima
che venisse al mondo?
Edward si volse. Se era davvero
destino che affrontasse Elizabeth e che sarebbe dovuto perire per
uccidere anche lei, allora non c’era altra strada.
- Posso... posso vedere la profezia? -
Il colonnello gli passò un
foglio sul quale era scritto qualcosa con una grafia molto precisa e
accurata. Il biondo lo piegò e lo infilò nella tasca
della giacca.
- Grazie -.
Si voltò e fece per andarsene.
- Acciaio... -
- Sì, colonnello...? -
- Hai davvero intenzione di combatterla? -
Edward chinò il capo e
strinse i pugni, mentre sentiva divampare potente in lui la
determinazione che lo aveva animato anche in albergo.
- Sì. Che ne esca vivo o morto, non m’importa. L’affronterò anche a costo della vita -.
Così dicendo, l’alchimista uscì a grandi passi dalla stanza.
Ormai era venuto il momento di
decidere fra la propria vita e quella dei suoi cari. Non aveva
più alcun dubbio sulla strada da intraprendere, anche se fosse
finita.
Perché sapeva che sarebbe finita.
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Capitolo 5 *** Profezia ***
5_Profezia
Di nuovo in camera
d’albergo, Edward e Alphonse si sedettero l’uno accanto
all’altro. Erano decisi a scoprire di cosa parlasse la profezia.
Un silenzio carico di tensione chiaramente percepibile attorniava i
due, come un’invisibile aura emanata da loro, come
un’indistruttibile morsa d’acciaio.
Edward prese il foglietto dalla tasca e lo dispiegò lentamente.
La grafia era niente meno che impeccabile. Il contenuto, più che
un testo, pareva una poesia:
“Verrà il giorno in cui
la malvagia creatura tornerà
figlia di demoni
a portare la morte fra noi,
da un giovane dai capelli
di rifulgente oro fuggirà
ma legata ad esso resterà.
La vita d’uno
dall’altro dipenderà
finché la morte non arriverà
così crederanno.
Se la fulgida luce incompleta
nel cielo oscuro brillerà
il legame verrà spezzato
ed uccidersi potranno”
Edward indugiò con
lo sguardo sull’undicesima riga. “Così
crederanno”. Che cosa intendeva dire con quelle parole? Forse
esisteva una remota possibilità che lui ed Elizabeth non fossero
uniti per la vita?
Era fuori discussione. Aveva
percepito il dolore fisico immediatamente dopo la separazione. Aveva
sentito il sangue salirgli su per la gola e uscire ripetutamente dopo
la separazione, quasi fosse stata aperta una ferita nel suo inconscio.
La loro unione invisibile era qualcosa di innegabile, purtroppo.
Ma l’ultima frase della
profezia sembrava trovare un’eccezione. Sembrava esserci un
momento in cui quel legame che tanto a lungo il biondo aveva odiato
sembrava spezzarsi temporaneamente. Quel legame che lo aveva reso
infelice per quindici anni. Esisteva un momento in cui non era attivo?
“La fulgida luce incompleta”... che cosa significava? Quando avrebbe potuto verificarsi una simile circostanza?
Edward rilesse attentamente la
profezia per cinque volte, quasi volesse impararla a memoria. In
realtà, il biondo stava cercando di capire se dietro quelle
parole ci fosse un significato intrinseco più profondo e meno
criptico. Ma sembrava essere solo una semplice profezia. Tutto quello
che riusciva a leggere era tutto ciò che c’era da capire.
Prima di attaccare Elizabeth, Edward era certo che dovesse decifrare
l’ultima frase. Ne andava della sua vita. Se c’era un modo,
una minuscola speranza di sfuggire alla morte per mano dell’altra
metà, Edward l’avrebbe accettata senza protestare.
- Fratellone... tu hai capito a cosa fa riferimento l’ultima frase? -
- No, Al... ma è mia intenzione scoprirlo... -
- Comunque quel che volevo farti notare era questo... -
Alphonse indicò la terza riga.
- “Figlia di demoni”...? - chiese serio Edward.
- Sì... da quel che ho
capito, tu credevi che Elizabeth fosse qualcosa di... tuo. O meglio, un
tuo errore. Ma dalla profezia non sembrerebbe... -
Il biondo rimase in silenzio,
mentre nella sua mente prendeva forma un nuovo flusso di pensieri,
diverso da quelli che seguivano le altre sue riflessioni, più
intenso, nel quale ogni cosa sembrava prendere una piega diversa da
quella reale.
- Quindi non è mia... non
è un mio errore genetico. Elizabeth è figlia di demoni,
non una creazione del mio inconscio. Ma se così fosse realmente,
come la profezia lascerebbe supporre, allora perché ha preso
forma nel mio corpo? Perché io sono stato coinvolto in questa
faccenda per tutta una vita? Perché non qualcun altro... che ne
so... il colonnello. O papà. O Winry. Perché proprio io?
Che cosa ho io di tanto diverso e speciale affinché un demone
venga ad abitare nel mio corpo? -
- Chi può saperlo? Forse le
tue capacità ti hanno elevato ad un livello superiore a quello
dei comuni esseri umani... - esclamò una vocina nella testa del
biondo.
- Uhm? Ma chi sei? -
- Io? Oh, scusa... mi sono dimenticata di presentarmi... piacere. Io sono la tua coscienza -
- Coscienza? Perché, io ho una coscienza? -
- Naturalmente, carino. Tutti hanno una coscienza. Ma non mi sono fatta avanti per spiegarti queste cose -
- Ah, no? -
- No. Volevo dirti di Elizabeth.
È stata legata qui dentro per quindici anni e ho avuto modo di
conoscerne il temperamento, purtroppo... -
- Davvero? -
- Sì. E anche la ragione per cui ha scelto di vivere rinchiusa in te... -
- E perché? -
- Le tue doti. Hai dedizione, forza
d’animo, coraggio e una conoscenza pressoché infinita
dell’Alchimia. Puoi fare cose che agli altri alchimisti è
precluso fare. E lei sapeva che, prendendo forma dal tuo corpo, avrebbe
acquisito una parte delle tue conoscenze... -
Edward serrò i pugni,
cercando di mantenere i nervi saldi. Alphonse, accortosi
dell’improvviso scatto del fratello, si voltò verso di lui.
- Fratellone... che cos’hai? -
Ma Edward non lo stava ascoltando,
perso com’era nelle proprie riflessioni. Elizabeth lo aveva
sfruttato solo per essere più forte quando sarebbe uscita? Che
trucco vile.
La rabbia gli divampò dentro
con la forza di un incendio, occupando tutto lo spazio disponibile nel
suo inconscio. Era furente, forse anche qualcosa di più. Sentiva
montare dentro una rabbia incontrollabile, nonostante quella già
esistente avesse occupato tutto lo spazio disponibile. Aumentava
intensità di secondo in secondo. Presto non sarebbe più
stato in grado di trattenerla. Davanti a lui, tutto sfumò,
assumendo un’inquietante tonalità tendente al rosso. Ormai
era totalmente in balia della furia devastatrice che cresceva
rapidamente d’intensità. Poi, di colpo, tutta la rabbia
svanì e un sorrisetto maligno gli si dipinse sul volto.
Elizabeth si credeva davvero brava quanto lui? Ebbene, sarebbe stato
tutto da vedere.
- Fratellone... tutto bene? -
- Al... noi troveremo Elizabeth. E quando l’avrò trovata, la ucciderò -
Ormai non era più questione
di proteggere chi amava. Ormai non si trattava più di impedire
che il mondo venisse distrutto. La guerra che aveva cercato in tutti i
modi di evitare sarebbe stato lui a chiamarla. Perché ormai
Elizabeth aveva passato il segno. Aveva versato la goccia che aveva
fatto traboccare il vaso.
Perché nessuno poteva permettersi di usarlo.
Perché lui era l’Alchimista d’Acciaio.
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Capitolo 6 *** Fasi lunari ***
6_Fasi lunari
Edward e Alphonse, ancora soli nella loro stanza.
Alphonse stringeva ancora fra le
mani il foglietto di carta sul quale era scritta la profezia
riguardante suo fratello e la bestia che lo aveva condannato per
quindici anni ad un’esistenza fredda e distaccata dalla
realtà.
Edward, ancora le labbra increspate in un ghigno di sfida, mentre osservava qualcosa di inesistente di fronte a lui.
- Fratellone...? -
- Al... andiamo alla biblioteca del quartier generale... voglio vederci chiaro su questa profezia... -.
Senza ulteriori spiegazioni, Edward
si avviò verso la porta e uscì nel corridoio, lasciando
indietro suo fratello, palesemente sorpreso.
Senza perdere tempo, Alphonse corse
dietro ad Edward, che ormai sembrava essersi allontanato parecchio. Dal
modo di fare di quest’ultimo, pareva chiaro che avesse fretta. La
profezia su di lui doveva averlo interessato molto.
I due percorsero le strade di East
City senza badare alla pioggia che aveva ripreso a cadere silenziosa,
bagnando il lastricato, rendendolo scivoloso. Giunti al quartier
generale dell’Est, i due si diressero immediatamente verso la
biblioteca, dove si misero a lavoro.
Finalmente Edward aveva trovato un
barlume di speranza. Un flebile barlume che gli accendeva
l’animo. Una fugace speranza che Elizabeth non fosse totalmente
legata a lui. Che lui potesse sopravvivere abbastanza da vederla
morire. Da vederla soffrire come lei aveva fatto soffrire lui per
quindici anni. Il moto interiore che lo prese fu senz’altro
strano, una sensazione nuova che mai fino ad allora aveva provato. Era
come se si sentisse diverso, nuovo. Si sentiva come slegato da
qualsiasi contatto avesse con Elizabeth.
No, non del tutto. Sentiva dentro come un invisibile filo che resisteva, tenendolo ancorato a lei.
Era la voglia di vendicarsi. La
voglia di infliggerle dolore. La voglia che lentamente si stava
trasformando nel suo più ardente e vivido desiderio. Dolore.
Elizabeth avrebbe provato lo stesso freddo senso di reclusione al quale
lei stessa lo aveva sottoposto per tutta la vita, al solo, egoistico
scopo di crearsi un corpo che avesse doti superiori a quelle dei comuni
umani. Lo aveva sfruttato infliggendogli un dolore pari solo a quello
di un anima fra le fiamme dell’inferno.
Un moto di rabbia lo pervase di
nuovo, mentre l’ardente desiderio di riscattarsi cresceva di
secondo in secondo. In punto di morte, le avrebbe fatto subire lo
stesso dolore e la stessa sofferenza che lui aveva patito per quindici
anni, per poi veder sparire, fino all’ultima stilla, la luce dai
suoi occhi.
Un leggero toc toc interruppe il filo dei pensieri del biondo.
- Acciaio... -
Era la voce del colonnello. Il moro
entrò nella biblioteca e si avvicinò al tavolo dove
Edward e Alphonse stavano lavorando.
- Sì, colonnello? - chiese Edward, alzando gli occhi sull’alchimista appena arrivato.
- Da Central City ci è
giunto un comunicato che parla di alcune strane morti alla periferia
della città... i cadaveri che sono stati ritrovati erano immersi
nel sangue, con il quale era stata tracciata una “E” sul
selciato... -
Edward increspò le labbra in un sorrisetto.
- È lei... è Elizabeth... - mormorò il biondo.
Mustang spostò la sua
attenzione sul foglio dispiegato sul tavolo, attorno al quale regnava
un gran caos di appunti e schemi.
- State indagando sulla profezia? - domandò.
- Sì... sembra che ci sia un
modo per ucciderla senza che ci rimetta la pelle anch’io...
stiamo cercando di decifrare il contesto... -
- Posso...? - chiese Mustang, afferrando il foglietto e dando una rapida scorsa alla profezia.
- Mmmh... davvero interessante...
se posso permettermi di darvi un suggerimento... l’ultima frase
penso che si riferisca ad una fase lunare ben precisa... -
Edward rimase interdetto ad ascoltare le parole del colonnello, che fecero rapidamente breccia nel suo cervello.
Il biondo prese dalle mani di Mustang la profezia e rilesse velocemente l’ultima frase.
- “La fulgida luce incompleta”... incompleta... non è la luna piena, né la luna nuova... -
- È una fase intermedia... primo quarto... ultimo quarto... crescente... o calante... - elencò Alphonse.
- Nella profezia non viene specificato nulla... -
- Però “incompleta” potrebbe essere la chiave... provate a pensarci... -
Edward abbassò lo sguardo,
focalizzando la sua attenzione su quell’unica parola. La chiave
di tutto era in quella parola?
- Fratellone... forse ho capito
cosa intende il colonnello... - Alphonse s’interruppe e
spostò la sua attenzione su Edward - ... la posizione iniziale
della luna è quella nuova. Credo che con
“incompleta” la profezia intenda che la Luna non ha ancora
completato il moto attorno alla Terra, ma che è vicina al
completarlo, il che ci porta ad escludere tutte le fasi ad eccezione
della... -
- ... fase calante. Quindi, con la luna calante il legame con Elizabeth verrà interrotto temporaneamente? -
Alphonse annuì ed Edward si volse verso Mustang.
- Colonnello, quand’è che ci sarà di nuovo la luna nuova? -
- Fra due notti - rispose il moro.
Edward rimase immobile, mentre quella notizia lottava per far breccia nell’inconscio del ragazzo.
Quella sera o la sera successiva,
al più tardi, avrebbe dovuto duellare con Elizabeth. Avrebbe
dovuto lottare contro il suo istinto crudele e spietato da demone.
Avrebbe dovuto combattere contro il proprio istinto di fuggire, di
eludere qualsiasi nuovo incontro con lei. Avrebbe dovuto essere forte,
riuscire a penetrare le sue difese, riuscire ad ucciderla.
Non credeva che il momento sarebbe
giunto tanto in fretta, ma doveva essere pronto a rivederla. Doveva
prepararsi ad affrontarla.
Doveva essere preparato, perché il momento dello scontro presto sarebbe arrivato.
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Capitolo 7 *** Decisioni ***
7_Decisioni
Edward, immobile fra il
colonnello e suo fratello, indugiava con il pensiero sul doloroso
ricordo che aveva della “nascita” di Elizabeth. Quelle
immagini sfocate erano come impresse a fuoco nella sua memoria e, per
quanto fosse riuscito a sforzarsi, non sarebbe mai riuscito ad
eliminarle. Era come rivivere quella scena ogni volta che riportava la
memoria a quel momento, quella mattina.
Se non quella sera, la sera
successiva. Avrebbe obbligatoriamente dovuto rivedere Elizabeth.
Avrebbe dovuto confrontarsi con colei che, fin dall’infanzia,
aveva tormentato i suoi sogni con scene di morte e distruzione. Doveva
essere forte, doveva essere pronto. Doveva riuscire a padroneggiare i
propri sensi quando fosse giunto il momento. Perché, giunto a
quel punto, non poteva più permettersi di aver paura.
Il biondo si alzò e si diresse verso la porta.
- Fratellone, dove vai? -
- Vado all’albergo... è tardi... -
- Acciaio -
Il richiamo secco del colonnello
fece voltare Edward, che si ritrovò ad osservare le
profondità delle scure iridi di Mustang.
- So che questa cosa delle fasi
lunari comporta che il duello contro Elizabeth è ormai alle
porte, se sei davvero intenzionato a combatterla. Non devi avere
tentennamenti. Acciaio... so che si può contare su di te... so
che tu ucciderai Elizabeth e che sopravviverai -
Edward increspò le labbra in un sorriso amaro.
- Crede davvero che riuscirò
ad uscirne vivo? Io non ne sono molto convinto. Perché, vivo o
morto che sia, ne uscirò comunque devastato fisicamente.
Elizabeth non si farà ammazzare tanto facilmente. Venderà
cara la pelle. E io dovrò saper sopportare il dolore fisico
meglio di come ho fatto finora... -
- Ma fino ad ora hai sopportato
ferite fisiche ed emotive grandi per un quindicenne. Tu e tuo fratello
siete cresciuti. Sono certo che riuscirai a cavartela come sempre,
Acciaio... -
- La ringrazio colonnello... -.
Detto questo, il biondo uscì dalla biblioteca, seguito a breve distanza dal fratello.
Alphonse non aveva mai sentito
Edward parlare del combattimento contro Elizabeth prima di allora. Si
era sempre tenuto tutto dentro, fino a qualche minuto prima, quando il
colonnello aveva aperto l’argomento. Forse non era una buona idea
costringerlo ad aprirsi, soprattutto se vedeva la cosa in modo
così negativo. Forse non era una buona idea costringerlo ad
affrontare la cosa direttamente. Forse la cosa migliore da fare era
lasciare che si preparasse interiormente da solo, senza interventi
esterni.
- Fratellone... stai pensando a Elizabeth…? -.
Edward non rispose immediatamente.
Non era mentalmente presente. Con il pensiero stava vagando per
desolate lande cercando di scacciare i crescenti sensi di terrore e
dovere, che si combattevano cercando di avere la meglio l’uno
sull’altro. Erano sentimenti forti e contrapposti, che cercavano
di sopraffarlo da entrambe le parti. Non riusciva a capire come potesse
un unico essere provare due emozioni così intense nel medesimo
istante.
Era deciso a non lasciar fuggire la
probabilmente unica occasione che aveva per uccidere Elizabeth, prima
che lei potesse uccidere lui. Non avrebbe lasciato che banali conflitti
interiori lo distraessero dal suo obiettivo.
- Fratellone...? Mi senti? -
- Eh...? Cosa c’è? -
- Eri sovrappensiero? Ti avevo chiesto di Elizabeth ma non mi hai risposto... -
- Scusa... che cosa mi hai chiesto? -
- Se stavi pensando a Elizabeth... -
- Ah... sì. Un po’... -
La conversazione si concluse così.
Edward e Alphonse arrivarono all’albergo qualche minuto più tardi, gocciolanti e freddi.
Ma del freddo ad Edward non
importava molto, anzi nulla. Assieme a suo fratello, salì nella
loro camera e lì si chiusero.
La profezia era rimasta in
biblioteca. Pazienza. L’avrebbe ripresa se se ne fosse presentato
il bisogno e, per il momento, non serviva. Il biondo aveva ben altri
pensieri per la testa quella sera, mentre si preparava per andare a
dormire.
Edward si sciolse la treccia nella
quale erano costretti i capelli, che gli ricaddero in una silenziosa
cascata di fili d’oro sulle spalle. Si tolse l’orologio
dalla cintura e lo appoggiò sul comò, accanto al nastrino
dei capelli.
Alphonse lo osservava
silenziosamente mentre si sistemava sotto le coperte. Una volta sparito
sotto la coperta, Alphonse lo imitò.
- Buonanotte fratellone... -
- Al... -
- Sì...? -
- Ho deciso di andare a Central City domani... -
- Perché? -
- Elizabeth si trova lì. Se devo battermi con lei, dovrò essere pronto a sferrare l’attacco... -
- Fratellone... -
- Sì, Al...? -
- Dormi... oggi è stata una
lunga giornata. Se domani vuoi partire, non ti fermerò, ma non
voglio che tu sia stanco. Concediti un po’ di sonno... -
- Senz’altro Al... buonanotte... -
- Buonanotte... -
I due caddero in un silenzio ben
diverso dal solito, freddo e tombale. Quel silenzio era un silenzio
carico di tensione quasi elettrizzante. Era il silenzio di chi stava
per compiere qualcosa di grande. Era il silenzio che precedeva
un’azione eroica.
Era il silenzio di chi aspetta con trepidazione il giorno che sarebbe venuto.
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Capitolo 8 *** Risveglio ***
8_Risveglio
Il sole era appena
sparito al di sotto dell’orizzonte, mentre le prime stelle si
accendevano nel cielo violaceo del crepuscolo.
Central City si stava pian piano spegnendo, mentre i suoi abitanti andavano a dormire.
Una figura solitaria si stagliava
contro il cielo sempre più buio della notte. Era esile e i
capelli lunghi e lisci erano mossi da una fredda brezza notturna.
La falce che brillava alta nel
cielo spandeva all’intorno un soffuso chiarore che rischiarava il
cielo altrimenti completamente buio.
Aveva atteso quel momento per secoli e finalmente era giunto.
Con un agile salto, Elizabeth
balzò giù dall’edificio sul quale aveva
pazientemente atteso le tenebre della notte, in modo da poter agire
indisturbata. Atterrò con la grazia dell’essere
soprannaturale che era. I suoi piedi sfiorarono il terreno senza
emettere nessun rumore. Agile e silenziosa, sfrecciò attraverso
la notte fino a che gli edifici di Central City non furono lontani.
Si fermò di colpo e si
guardò intorno. Tutto attorno a lei era immobile, come
paralizzato in un fuggente attimo di tranquillità. Lo sentiva.
Sentiva la sua presenza come se stesse emanando un’aura di
energia nel tentativo di farsi localizzare. Era una presenza che
sentiva vibrare nell’aria immobile, in attesa di essere percepita
da chi ne avesse le capacità. Era in attesa di Elizabeth.
Quest’ultima seguì
lentamente una pista inesistente, mentre cercava di captare da quale
luogo preciso provenisse la sua aura. L’aura più familiare
che avvertisse. L’unica aura che potesse avvertire oltre a quella
del custode della sua vita.
Elizabeth percorse un tratto in
direzione est rispetto a Central City, scrutando attentamente il
paesaggio intorno a sé. Poi, lo vide: un minuscolo rilievo che
per i comuni umani non aveva alcun significato, ma che era il centro
pulsante dell’aura che percepiva sempre più forte man mano
che si avvicinava.
Era lui. Finalmente, i due si erano ricongiunti.
Giunse a destinazione con una rapidità che rasentava quella della luce.
Era un piccolo cumulo di rocce. Non
era niente di così stravagante da attirare l’attenzione di
qualche curioso. Nell’eventualità di ciò, era stata
predisposta un’entrata che nessun umano, per quanto perspicace
potesse essere, avrebbe mai potuto scoprire.
Elizabeth entrò senza troppe
difficoltà e si avventurò nello stretto cunicolo che
s’inoltrava verso il basso, nelle tenebre più assolute.
Era un tunnel basso e tortuoso dalle cui pareti trasudava musco. Senza
prestare la benché minima attenzione a ciò che aveva
intorno, Elizabeth scese sempre più in profondità,
finché non intravide una sfocata luce farsi sempre più
vicina.
Iniziò a strisciare nel cunicolo sempre più velocemente, scivolando con le mani lungo le pareti verdi e viscide.
Giunta dove la luce si faceva
lievemente più accesa, l’aura le pulsava intorno quasi
volesse schiacciarla. Era vicinissima.
Si diede una spinta e cadde nella luce, che in realtà era un buco sul soffitto di una grotta sotterranea.
Elizabeth si guardò intorno,
scrutando attentamente ogni nicchia e ogni pietra, in cerca del suo
corpo. Non poteva essere in altro luogo se non in quello.
Le sue labbra si incresparono in un
ghigno quando lo trovò: un leggero rilievo sulla parete quasi
perfettamente liscia della grotta, dalla parte opposta alla sua,
tradiva il senz’altro ottimo nascondiglio del suo corpo.
Elizabeth avanzò rapida
verso la parete opposta e, con una leggerissima pressione su di essa,
frantumò la roccia come se fosse fatta di gesso. La pioggia di
detriti cadde al suolo senza fare il minimo rumore.
- Eric, Demone delle Stelle,
destati dal tuo sonno eterno! - sentenziò Elizabeth, poggiando
il palmo della mano sinistra sulla fronte del giovane corpo posto
innanzi a lei.
Gli occhi di quest’ultimo si aprirono emanando una forte luce cristallina, poi il ragazzo prese vita.
- Elizabeth... quanto tempo... noto che hai di nuovo un corpo... - notò Eric con voce melliflua.
Questo aveva la pelle pallida alla
stregua dell’esangue. I capelli ispidi erano di un nero
pressoché assoluto, che stridevano con il pallore spettrale
della pelle. Le iridi dei suoi occhi erano d’un azzurro glaciale,
venati di una tonalità d’azzurro ancora più freddo
e chiaro. Era di corporatura esile, nonostante il fatto che fosse un
demone denotasse una grande forza fisica al di là delle
apparenze.
Indossava una lacera tuta bianca fermata in vita da una fascia argentea.
- Eric è finalmente giunto il momento... -
- Sì, lo immaginavo.
Avvertire la tua aura così vicina al luogo ove sono stato
imprigionato così a lungo mi ha in un qualche modo avvisato che
oramai l’ora del dominio umano è scoccata... - disse il
demone, schiudendo le labbra livide su due file di acuminati denti
bianchi, in una sorta di sorriso.
Il suo riso vacillò per qualche istante e i suoi occhi saettarono verso est.
- Oh... e così quel corpo
non è propriamente tuo... avverto un’aura incredibilmente
forte provenire da East City... -
- Tsk... addirittura da East City? Ho soltanto approfittato di un patetico essere umano -
- Ma se sento la sua aura significa
che sei in qualche modo ancora legata a lui, non è così?
La tua vita è legata alla sua... -
Elizabeth s’irrigidì.
- Tu sei la Demone della Luna,
l’ultima discendente della tua stirpe. Lui è un essere
umano al quale tu stessa sei legata. Forse... -
- Demone delle Stelle non
provocarmi. Ti ho liberato dalla tua prigionia affinché possa
portare a compimento il destino che la tua e la mia stirpe ci hanno
riserbato. Non è compito tuo giudicare le mie azioni. Solo...
non toccare quel ragazzino -
- Elizabeth, con ciò intendi forse dire che sospetti ch’io possa tradirti? -
- No. Voglio solo che tu ignori semplicemente la sua esistenza fino a che tutto non sarà compiuto -
- E poi? -.
Elizabeth alzò lo sguardo sul demone e nei suoi occhi un brillio di perfidia si accese istantaneamente.
- Mi libererò del nostro vincolo e lo guarderò morire fra le pene più atroci -.
Eric la guardò per un
istante, mentre l’aura del ragazzo si potenziava, sfavillando
come il più acceso fulgore nella notte più oscura. Era
un’aura diversa da tutte quelle avvertite nel corso dei secoli.
Era più forte, più accesa, più calda.
Era forse l’aura che aveva
atteso per tutti quei secoli? Era forse in grado di riuscire dove altri
avevano fallito? Forse... solo il tempo l’avrebbe stabilito.
Decise di non farne parola con
Elizabeth. Quando lo scontro sarebbe giunto, avrebbe deciso se farne
parola con lei o meno. Da quello scontro sarebbe dipeso il destino
dell’umanità intera. Non poteva ignorare il fatto che quel
momento presto sarebbe giunto, perché lui lo sapeva.
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Capitolo 9 *** Partenza ***
9_Partenza
Edward si guardò
attorno: una soffusa luce argentea simile ad una sottile nebbiolina
copriva il suolo, impedendogli di vedere su cosa stessero poggiando i
suoi piedi. Era cosciente solo del fatto di essere totalmente solo in
quel luogo sconosciuto e tetro.
Poi, una figura in ombra apparve d’un tratto vicino a lui, con lunghi capelli sospesi da una lieve brezza inesistente.
Il biondo si perse ad osservarne le
fattezze aggraziate e, quando il suo sguardo si soffermò sul
volto adombrato della figura, un singolare scintillio rosso rifulse.
Edward si sentì risalire lungo la spina dorsale brividi di
freddo terrore, mentre iniziavano a delinearsi i tratti della figura
vicina a lui.
Voleva allontanarsi con tutte le sue forze da quell’essere, ma i muscoli parevano non rispondere.
Poi lo vide. Un sottile filo
argenteo che partiva dal suo petto, all’incirca all’altezza
del cuore, lo tratteneva al petto di lei. Era un filo d’acciaio.
Un nuovo fremito di terrore lo scosse, mentre il biondo prendeva
lentamente coscienza di cosa significasse quel filo.
D’un tratto, sul volto di Elizabeth baluginò un ghigno, mentre questa iniziava a strattonare il filo.
Edward avvertì un forte
dolore provenire dal petto, dal cuore. Era una fitta di indescrivibile
agonia, che lo dilaniava dentro, quasi quel filo d’acciaio fosse
arpionato al suo cuore e cercasse di strapparglielo via.
Elizabeth rideva. Una risata acuta
che trasudava malignità allo stato più puro immaginabile.
Era una risata agghiacciante, che gelava il sangue nelle vene, ma
Edward non poteva preoccuparsene. Piegato nel tentativo di fermare
quell’agonia straziante, lacrime di dolore iniziarono a rigargli
le guance, mentre cercava con tutte le sue forze di strappare quel
dannato filo che gli stava letteralmente squarciando il miocardio.
- Fratellone! FRATELLONE! -.
Edward aprì di scatto gli
occhi e si ritrovò a fissare suo fratello, chino su di lui, le
mani appoggiate sul suo petto. Il biondo respirava affannosamente, i
capelli appiccicati alla fronte dal sudore.
- Fratellone... stai bene? - chiese Alphonse, in un tono che lasciava trasparire una profonda preoccupazione.
- Sì... ora sto bene... - rispose Edward, mettendosi seduto sul letto.
Il biondo si alzò e
iniziò a vestirsi: quella mattina avrebbero dovuto prendere il
treno per andare a Central City, incontro ad...
Edward scosse la testa, cercando di
scacciare il pensiero: il ricordo dell’incubo appena vissuto era
ancora troppo vivido. Si tastò il petto in corrispondenza del
cuore: nessun filo d’acciaio.
Sospirò di sollievo, mentre
iniziava a preparare i bagagli. Se non altro, lei non avrebbe potuto
infliggergli quell’atroce supplizio ancora una volta.
Se la profezia era corretta e se
esatta era stata la loro interpretazione, quella sera al calar del sole
avrebbe dovuto affrontare tutto ciò che aveva fino a quel
momento evitato. Avrebbe affrontato direttamente Elizabeth. Che ne
uscisse vincitore o vinto, per lui non aveva alcuna importanza: almeno
avrebbe avuto la coscienza a posto se fosse finita male.
Scacciò anche quel pensiero, mentre una strana malinconia s’insinuava in lui.
Fatti che furono i bagagli, che poi
altro non erano che una semplicissima valigia logorata dai lunghi
viaggi, Edward se la mise in spalla e s’avviò verso la
porta, seguito dal fratello.
Pagarono e lasciarono
l’albergo, mentre un alone di fredda tensione li avvolgeva senza
pietà, palesemente palpabile, tant’era presente.
Edward camminava a capo chino,
fissando senza entusiasmo il lastricato della strada sotto i suoi
piedi. Era in quelle occasioni che il cervello staccava la spina e il
biondo si ritrovava in una sorta di dimensione interiore vuota, priva
di pensieri di qualsiasi tipo.
Proseguiva senza fermarsi,
ascoltando il rumore dei suoi stessi passi che risuonavano sordi sul
lastricato. Dietro di lui, sentiva i passi di Alphonse. Il vento
frusciava, agitando le fronde degli alberi situati lungo il margine
della strada. Nessuna voce riecheggiava nell’aria immobile.
Le palpebre del biondo calarono ad
oscurargli per metà gli occhi, mentre quei suoni monotoni si
trasformavano lentamente in un suono unico, che lo cullò nel suo
oblio senza pensieri.
Arrivati alla stazione, Edward e
Alphonse si fermarono nei pressi dei binari del loro treno e fu
lì che il cervello del biondo riprese ad elaborare
all’impazzata.
Edward fu strappato violentemente
al confortevole oblio psichico che lo aveva accompagnato fino in
stazione da pensieri confusi che si susseguivano senza una precisa
logica.
Uno in particolare rimase impresso
a fuoco nel cervello del giovane, che non poté fare a meno di
rivolgervi l’attenzione.
Un filo d’acciaio intessuto fra due persone in ombra.
Era il ricordo del suo incubo,
l’incubo che con tutto sé stesso aveva cercato di
scacciare dalla propria memoria, senza successo. E ciò che
temeva era che quel filo fosse indissolubile anche alla luce della luna
calante. In quel caso, per lui non ci sarebbe stata altra via di scampo
se non la morte. La stessa morte che sarebbe toccata ad Elizabeth.
Lo sbuffo di una locomotiva interruppe bruscamente il flusso dei pensieri del biondo.
- Fratellone è arrivato il treno... -
- Sì, l’ho sentito... andiamo... -.
Edward salì, seguito a ruota da Alphonse, che lo fissava senza aprir bocca.
Una volta a bordo, scelsero un posto dove nessuno avrebbe potuto dar loro fastidio e si sedettero, in attesa della partenza.
Toc toc.
Edward fissò lo sguardo sul
finestrino, oltre il quale si trovava il colonnello Mustang, la mano
ancora accostata al vetro.
Il biondo abbassò velocemente il finestrino e si sporse leggermente.
- Allora hai deciso di affrontarla questa sera Acciaio... -
- Sì. È una mia responsabilità... -
- Acciaio contiamo tutti su di te per fermare le stragi di Elizabeth -.
Edward schiuse le labbra in un sorriso appena accennato e annuì.
Era strano sentire il colonnello che lo incoraggiava. Non era mai successo prima di allora.
- Allora, arrivederci Acciaio -
- Arrivederci colonnello... -.
Il treno partì con uno
sbuffo, allontanandosi dal punto dove Mustang ancora stava fisso,
osservando il treno spostarsi, mentre una folata di vento gli
scompigliava i capelli.
Era certo che Acciaio potesse
farcela. Ce l’aveva scritto in fronte. Gli si leggeva nello
sguardo. Nello stesso sguardo di fuoco che gli aveva visto la prima
volta che si erano incontrati a Resembool, più di tre anni
prima. Era determinato a tornare da vincitore o a non tornare.
Ora capiva il perché di
tanta freddezza. Aveva vissuto per quindici anni essendo consapevole
che dentro di sé portava un demone. Probabilmente l’aveva
considerata una sorta di maledizione, di schiavitù. Ora che quel
demone lo aveva abbandonato, le sue condizioni emotive erano migliorate.
Ma sapeva che Edward non
l’avrebbe lasciata in vita a lungo, anche a costo di uccidersi.
Era tipico del suo carattere sacrificarsi per gli altri, come aveva
fatto quando aveva salvato l’anima di suo fratello.
- Ora è tutto nelle tue mani
Acciaio. In bocca al lupo... - mormorò il colonnello, voltandosi
verso l’uscita della stazione.
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Capitolo 10 *** Conversazione ***
10_Conversazione
Dal finestrino entrava
una luce smorta, mitigata dalle nubi che oscuravano completamente il
cielo, rendendolo solo una piatta cappa plumbea.
Edward e Alphonse sedevano in silenzio in uno dei vagoni del treno della mattina, diretto a Central City.
Il biondo osservava passivamente il
paesaggio che scorreva al di là del finestrino, mentre con la
mente vagava alla deriva, perso in pensieri che apparivano, improvvisi
e fugaci, per poi svanire così come erano arrivati.
Cercò di concentrarsi sui
prati verde sbiadito oltre il vetro, cercando di allontanare da
sé tutti i pensieri che gli turbinavano in mente. Fu difficile
trovare la calma psichica adatta per concentrarsi in modo definitivo su
ciò che lo circondava.
Ben presto però, il muro che
aveva eretto attorno alla propria mente per allontanare i pensieri
molesti cedette e fu di nuovo invischiato in un vortice di riflessioni
confuse.
- Fratellone... - esordì
timidamente Alphonse all’improvviso, attirando immediatamente
l’attenzione di Edward.
- Sì...? Che cosa c’è? -
- Ecco... pensavo che forse non sei ancora pronto ad affrontarla... -
- Come? Perché dici una cosa simile? -
- Non che non ti dia fiducia fratellone, ma non so se saresti in grado di combatterla... -
- Al, è una cosa che devo assolutamente fare e... -
- Sì, lo so! Ma tu non sai che cosa si prova quando ci si sente impotenti! -.
Edward rimase attonito, in assoluto silenzio.
- Co... Al, spiegati -
- Io non sono mai uscito da solo per andare fuori... -.
Alphonse s’interruppe un secondo e Edward capì che si stava riferendo alla mattina precedente.
- Tu non mi hai mai ritrovato in
fin di vita abbandonato in un lago di sangue... non mi hai mai
assistito mentre io morivo... non hai mai provato cosa significa la
vera impotenza! Quella sensazione di sconforto totale quando ti ho
visto in quelle condizioni e ho creduto che tu stessi per morire. Ho
creduto che tu stessi impazzendo per il rimorso. E io non ho potuto far
nulla per aiutarti! Non voglio che succeda di nuovo. Non voglio che tu
muoia, fratellone... -.
In quell’istante, Edward
comprese che cosa avesse realmente provato suo fratello. Comprese le
emozioni profonde e dolorose che tutta quella storia gli aveva
lasciato.
Alphonse era sempre stato molto
più emotivo di lui. Tutte quelle sensazioni negative lo avevano
cambiato. Lo avevano impressionato a tal punto che ormai non desiderava
altro che mettere la parola fine a tutta quella faccenda. Lasciarsela
alle spalle, come se non fosse mai successo niente. Ma ormai era tardi.
Ormai era arrivato il momento di mettere fine a quella storia, che ad
Alphonse piacesse o no.
- Al, capisco ciò che tu stai provando, ma è per mettere fine a tutto ciò che stiamo andando... -
- Non m’importa! Io non
voglio vederti morire a causa sua! Non voglio che tu muoia. Come pensi
che reagirei se Elizabeth ti uccidesse? -.
La domanda fece rapidamente breccia
nella mente del biondo e quest’ultimo capì immediatamente
dove suo fratello stava andando a parare.
- No, Al. Non devi farlo, per nessuna ragione al mondo! -
- Non avrei altre ragioni per vivere! -
- Tu almeno devi sopravvivere! Non
voglio morire sapendo che tu mi seguirai. Non voglio pensare di aver
dato il mio braccio in cambio della tua anima per poi vederti buttar
via la vita così! È sbagliato! -
- No. Sarebbe giusto. Se lei ucciderà te, io ucciderò lei -
- Ma non riavrai indietro
ciò che hai perso, Al! L’unica cosa che potrai fare
è continuare a vivere. Continuare a studiare l’Alchimia e
trovare un modo per riavere indietro il tuo corpo -.
Alphonse rimase in assoluto
silenzio, mentre cercava di mantenere il controllo, costringersi a non
legare suo fratello da qualche parte per impedirgli di andare incontro
alla morte che lo aspettava a braccia aperte.
L’avevano sfiorata tante
volte. Ci erano andati vicinissimi con la trasmutazione della loro
mamma e con Scar. Ad un passo dall’oblio eterno però,
erano sempre stati salvati dall’aiuto di qualcuno. Ma in quel
frangente, nella lotta contro Elizabeth che si avvicinava
inesorabilmente di secondo in secondo come un velo che, al suo
passaggio, portava solo desolazione, nessuno avrebbe potuto salvare suo
fratello dalla morte. Nessuno eccetto lui.
- Al... - esordì Edward, in
tono grave - ... io ho deciso di intraprendere in solitudine questa mia
prigionia interiore. Non avevo la minima intenzione di coinvolgerti,
perché sapevo che non avrei fatto altro che darti nuove
preoccupazioni e questa è l’ultima cosa che voglio. Non
devi assolutamente sentirti coinvolto in tutto questo. Non è mia
intenzione farti soffrire ancora... -.
Alphonse rimase a fissare incredulo
suo fratello: credeva realmente che, dopo tutto quello che era
successo, potesse tirarsi indietro e lasciarlo morire da solo?
- Fratellone... io so che tu non
vuoi creare problemi, ma ormai ci sono anch’io dentro tutta
questa faccenda e voglio che ne usciamo sani e salvi tutti e due. Ti
prego... non tentare un suicidio futile... - rispose Alphonse deciso.
Quell’affermazione pose la parola “fine” alla conversazione.
Edward riportò la propria attenzione al paesaggio che correva veloce oltre il vetro del finestrino.
Central City si avvicinava
inesorabilmente sempre di più. Ogni metro in meno che li
separava dalla città era un metro in meno verso Elizabeth.
Edward sentiva la tensione salire
ad ogni secondo. Lo pervadeva, dandogli l’orrenda sensazione di
essere ormai giunto ad un punto morto.
Ebbe la fugace impressione di
essere come sull’orlo di un precipizio. Alle spalle aveva solo
solida roccia, che lo spingeva verso il vuoto oltre il margine.
Ecco, quella tensione gli premeva
addosso come se stesse cercando di gettarlo dritto nel burrone. Era
l’orribile sensazione di sconforto assoluto di quando sembra che
il mondo giri al contrario, di quando sembra che non ci sia altra
soluzione che tuffarsi a capofitto nel vuoto e sperare che tutto quello
sconforto svanisca nel nulla.
Un fremito percorse il biondo mentre quest’ultimo cercava di allontanare quell’agghiacciante sensazione.
Ritornò fisicamente presente
e cercò di impegnare tutte le proprie attenzioni
sull’aperta campagna che sfrecciava intorno al treno.
La battaglia finale si avvicinava sempre di più.
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Capitolo 11 *** Introspezioni ***
11_Introspezioni
Oramai era quasi mezzogiorno.
Le nubi grigie del mattino erano
rimaste immobili a coprire la fulgida luce solare, contribuendo solo ad
appesantire l’atmosfera cupa che circondava i due Elric come una
barriera che li divideva dal resto del mondo.
Dopo la discussione riguardante
Elizabeth, nessuno dei due aveva più proferito parola e ciascuno
si era immerso nei propri pensieri, cercando di trovarvi un po’
di quella tranquillità tanto agoniata che mai avevano avuto.
Dimenticarono tutto ciò che li circondava. Si rinchiusero nel
loro bozzolo di pensieri nascosti, nella loro anima, nel loro
più profondo io interiore, senza badare minimamente a ciò
che succedeva all’esterno. Esistevano solo loro e i loro pensieri.
Edward, gli occhi puntati fuori del
finestrino, teneva le mani conserte in grembo, la schiena adagiata
contro lo schienale. La treccia di fulgidi capelli dorati era poggiata
sulla spalla sinistra. Le sopracciglia bionde formavano due linee quasi
perfette, conferendogli un’espressione tetra e pensierosa.
Nella sua mente si affollavano
pensieri distorti e confusi, senza alcun nesso logico. Apparivano e
sparivano, sostituiti da altri pensieri, verso cui il biondo cercava di
rivolgere la propria attenzione psichica.
Solo una catena di pensieri aveva
una parvenza di logicità in tutto quel caos psicologico e, non
si sa né come né perché, l’attenzione di
Edward sovente si soffermava a contemplarla, benché fosse
tutt’altro che piacevole. Era come assistere ad una ripresa
diretta della sua vita. O meglio, della sua morte.
Continuava a vedersi combattere
contro Elizabeth, sporco di sangue da capo a piedi, lei che
sghignazzava mentre evitava ripetutamente i suoi colpi e lui che si
ostinava a contrattaccarla senza successo. Elizabeth gli appariva
nitida come il suo ricordo della mattina precedente, quando
l’aveva guardata per la prima volta in carne ed ossa, dinanzi a
lui. Quando aveva visto quelle pupille iniettate di sangue fissarlo di
rimando da un pallido volto umano incorniciato di capelli biondi
chiarissimi.
Alphonse non era presente nella
scena o, almeno, non veniva inquadrato. Poi, d’un tratto, si vide
steso a terra, in un lago di sangue ancora fresco, che andava
allargandosi sul pavimento.
Il biondo si costrinse a
distogliere la propria attenzione da quel pensiero, da quella sorta di
premonizione riguardante il succedersi degli eventi.
Non voleva condizionare la
battaglia prima ancora che avesse inizio e inoltre quel pensiero gli
provocava una sorta di rassegnazione che fino ad allora non
l’aveva mai neanche sfiorato.
Era la rassegnazione di quando sai che ormai sei prossimo alla fine.
Quell’emozione non
l’aveva mai provata perché, fino a quel momento, non aveva
mai pensato di essere davvero giunto al capolinea. Ora, invece, era
tutto un altro discorso. Con Elizabeth, o vinceva o era vinto e in tal
caso, la pena era quella capitale. Non c’erano vie di mezzo. Era
come se stesse per imbarcarsi sul treno di sola andata verso la
“terra del non ritorno”. Era come se tutto ciò che
gli stava accadendo fosse una sorta di preludio alla sua morte, ormai
prossima.
Con un sospiro d’abbandono,
il biondo verté la propria attenzione mentale su ricordi e
riflessioni che non contemplassero né la morte né
Elizabeth.
Dinanzi a lui, Alphonse stava con gli occhi bassi, fissando qualcosa di imprecisato dinanzi a sé.
Non riusciva ancora a comprendere a
fondo le motivazioni che stavano spingendo suo fratello verso
Elizabeth. Non riusciva ancora a capire come Edward potesse andare
incontro alla morte in modo tanto sereno e fiero. Certo, c’era
l’orgoglio, ma dell’orgoglio che se ne faceva, se poi
veniva ucciso da quel demone senza cuore?
Dentro di lui affioravano a
velocità impressionante riflessioni e domande alle quali non
riusciva a dare risposta, che si accalcavano per riuscire ad attirare
la sua attenzione, ma che contribuivano solo e soltanto ad alimentare
il putiferio interiore che Alphonse viveva nel peggior modo possibile.
Soffriva di un dolore emotivo che
lo dilaniava come i denti dilaniano la carne. Era una sensazione
orrenda, che riusciva a stento a sopportare. E tutto ciò era
causato dalla quasi assoluta certezza che suo fratello avesse scelto di
morire per salvare il mondo da Elizabeth. Dalla quasi certezza che
ormai Edward fosse arrivato al capolinea, che avesse sofferto
così tanto durante la sua vita da tentare il suicidio pur di non
far soffrire chi gli stava intorno. Pur di non far soffrire lui.
Probabilmente, suo fratello aveva
sofferto molto più di quello che potesse immaginare, per tentare
addirittura una cosa simile, ma in fondo, anche lui aveva sofferto.
Aveva perso il proprio corpo.
Ricordava ancora perfettamente
l’angoscia e la disperazione nel vedere il proprio corpo
scomporsi e dissolversi nel nulla. Ricordava ancora nitidamente il
vuoto, l’oblio assoluto nel quale era stato tenuto prigioniero
finché non aveva riaperto gli occhi, sigillato
all’armatura. Ricordava ancora il freddo pungente, la sensazione
di essere come trapassato da decine, centinaia di lame affilatissime
che lo infilzavano come fosse un comune pezzo di carne. Non sapeva se,
dopo la perdita del corpo, fosse stato recluso all’inferno, o in
qualche strano luogo di punizione, nell’attesa che suo fratello
lo recuperasse, ma sapeva cosa significava provare un dolore immenso,
un dolore che andava molto al di là del limite sopportabile.
Che suo fratello avesse provato o
meno un dolore forse pari al suo durante tutti quegli anni, non lo
sapeva. L’unica certezza era che qualcosa stava spingendo Edward
dritto verso la morte, verso una caverna buia dalla quale difficilmente
sarebbe riemerso.
Non l’avrebbe abbandonato.
Alphonse era deciso su questo
punto. Se Edward fosse andato a morire, lui l’avrebbe seguito.
Non sapeva se, nella disperazione, avrebbe tentato di suicidarsi a sua
volta, ma non avrebbe permesso a suo fratello di andare a combattere da
solo.
Un fischio lungo e penetrante
interruppe il filo dei pensieri dei due fratelli, che alzarono gli
occhi quasi contemporaneamente e li indirizzarono verso i finestrini
dalla parte opposta alla loro.
- Eccola... - mormorò Alphonse, con voce carica di tensione e angoscia.
- Central City... -.
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Capitolo 12 *** Central City ***
12_Central City
La stazione di Central City era affollata come sempre.
Il gran viavai di persone che
scendevano e salivano dai treni in arrivo e in partenza era rimasto lo
stesso dall’ultima volta che c’erano stati.
Edward e Alphonse, silenziosamente,
scesero dal treno con il loro bagaglio e si diressero verso la calca di
persone che si spintonavano per raggiungere il proprio treno.
Più Edward si guardava
attorno, più si sentiva strano e in un certo senso emarginato.
Per quelle persone la vita era normale, niente di che, le solite
giornate che trascorrevano tranquille, il lavoro.
Per lui, ogni singolo istante
poteva essere l’ultimo. Essere lì lo faceva sentire
inquieto fin quasi all’inverosimile. Non voleva morire. Non
voleva che suo fratello ci andasse di mezzo.
Dovere.
Quella sola e unica parola
risuonò potente nel suo inconscio, quasi potesse far vibrare il
suo petto. Era suo preciso dovere fermare Elizabeth, in quanto
alchimista, in quanto cane dell’esercito e, cosa più
importante, in quanto fratello maggiore. Spettava a lui. Era suo dovere.
Facendosi largo fra le persone che
si spintonavano verso il treno dal quale i due Elric erano appena
scesi, Edward e Alphonse si avviarono verso l’uscita.
Appena fuori, i due si trovarono
sotto un cielo che sembrava sul punto di scaricare una pioggia senza
precedenti. Una cappa plumbea che dava a Edward la sgradevole
impressione di essere in trappola. Di essere di nuovo sull’orlo
di quel precipizio, senza altro che solida roccia alle spalle, a
spingerlo verso l’inevitabile vuoto.
Ripensò a Elizabeth e al
fatto che di lì a qualche ora più tardi l’avrebbe
rivista. Provò un moto di immenso sollievo quando
constatò che quel pensiero non aveva sortito alcun effetto
negativo sul suo stato d’animo. Evidentemente, si era
inconsciamente rassegnato alla battaglia.
Bene. Non sarebbe stato preso dal panico nel momento di agire.
Si diressero nel silenzio
più assoluto verso la Biblioteca Nazionale Centrale,
dov’erano certi di poter trascorrere in tranquillità il
tempo che rimaneva prima di incontrare Elizabeth.
Alphonse seguiva con lo sguardo il
fratello, che camminava al suo fianco senza fare alcun rumore, eccetto
respirare. I suoi passi non producevano alcun suono degno di essere
ascoltato. Erano del tutto soli in quell’agghiacciante silenzio.
Alphonse concentrò tutte le
proprie attenzioni sui movimenti di suo fratello, alla ricerca di
qualche mossa che potesse indurlo a rafforzare la propria ipotesi
riguardante il tentativo di suicidarsi di Edward, durante l’ormai
imminente scontro con Elizabeth.
Niente.
Camminava in modo un po’ più rigido del solito, ma eccetto quello, era perfettamente normale.
Percorsero i complessi intrighi
stradali di Central City fino a raggiungere i piedi delle immense
scalinate di marmo che conducevano alla famosa Biblioteca Nazionale
Centrale.
Salirono i gradini e, una volta
giunti in cima, Edward sospinse la porta, che si aprì con un
leggero scricchiolio. All’interno c’era una luce soffusa,
in parte proiettata dalle lampade appese alle pareti, in parte dalla
leggerissima e tetra luce che entrava dalle grandi finestre disposte ad
intervalli regolari sulle pareti.
Edward e Alphonse
s’addentrarono fra quegli immensi scaffali carichi di libri
polverosi, mentre con la mente ritornavano a quando, da bambini,
amavano trascorrere interi pomeriggi a leggere i libri di Alchimia
nello studio del padre.
Edward ritornò tristemente a
soffermarsi su quei ricordi, su quella vita che sembrava lontana
secoli, quando ancora non sapeva del destino cui andava incontro.
Quando gli sembrava che la vita fosse facile, fosse fin troppo monotona.
A quel tempo, amava tantissimo
leggere libri di Alchimia. Era il suo passatempo preferito.
L’Alchimia lo aveva interessato fin dalla prima volta che gli era
capitato sott’occhio uno dei libri di suo padre.
E non solo a lui. Anche Alphonse,
in tenera età, aveva iniziato a studiare l’Alchimia
insieme a lui. Facevano a gara a chi studiava di più, a chi
riusciva a far felice la mamma per primo.
Anche se in quel momento, a ripensarci era paradossale, era stato spensierato. In un tempo assai lontano, ma lo era stato.
Quando si staccò a
malincuore da quei pensieri che gli facevano l’animo più
leggero per tornare al presente, fu come immergersi di nuovo nelle
profondità di uno specchio nero, abissale e doloroso. Fu come
tornare in una realtà dove la spensieratezza e la gioia di
vivere erano sentimenti ed emozioni ridicole, impossibili da provare.
Fu come se una specie di spillone gli stesse trapassando il cuore.
Ecco. Quello era il suo stupido senso di colpa. Come se fosse una colpa
ricordare il passato per cercare di alleggerire un po’ la
tensione e il malessere del presente.
Il biondo scosse con violenza il capo, cercando di cancellare quei pensieri dalla propria mente.
Si alzò sulle punte dei
piedi per prendere un libro e fece dietrofront, diretto verso il tavolo
dove poco prima aveva visto Alphonse.
Era quasi giunto alla fine della scaffalatura, quando accadde.
Edward rimase completamente immobile.
Il libro sfuggì alla sua presa e cadde al suolo con un tonfo sordo.
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Capitolo 13 *** Aure ***
13_Aure
Un leggero tonfo non
molto distante dal punto in cui si trovava distrasse Alphonse dalla sua
lettura. Benché fosse solo un’anima sigillata ad
un’armatura, riuscì a distinguere un altro rumore, che
seguì l’altro a distanza di pochissimi secondi e che fu
immediatamente riconosciuto dal ragazzo.
Un respiro che si mozzava.
Alphonse scattò in piedi e
corse a vedere cosa fosse successo, immaginandosi già chi
potesse essere stato l’autore di quel secondo rumore.
- Frat...! -.
Non concluse la frase.
Non ce n’era bisogno.
Rimase lì, ad osservare cosa
gli si parava dinanzi, cercando un nesso logico che potesse spiegargli
quel che stava accadendo, ma non ne trovò alcuno.
Edward era immobile, le braccia
ancora semialzate come per sorreggere il libro che era caduto vicino ai
suoi piedi. La posa era naturale, ma innaturalmente rigida, quasi fosse
stato paralizzato in quel medesimo, fuggente istante. Il petto si
alzava e si contraeva a ritmi diversi, evidente segno che qualcosa non
andava.
La visuale di Alphonse si
spostò dal basso verso l’alto e si soffermò sul
viso del fratello. L’espressone di Edward gli trasmetteva
un’orribile senso di profonda inquietudine.
La bocca era semiaperta in una
sorta di esordio, come se stesse per parlare. Le labbra livide
formavano una curva verso il basso, trasformando
quell’espressione in una smorfia di agonia.
E gli occhi.
Alphonse era certo di non aver mai
visto un’espressione del genere. Un’espressione che
riuscisse ad esprimere in modo così pragmatico i sentimenti del
biondo, qualsiasi essi fossero.
Gli occhi erano spalancati,
lasciando ben visibili le grandi iridi d’oro liquido. Nelle
pupille erano chiaramente visibili le vene, che spiccavano di gran
lunga sul biancore dell’occhio. Il suo era uno sguardo vitreo e
del tutto privo di espressione, venato del più puro terrore che
Alphonse avesse mai visto. Le sopracciglia formavano due linee
perfette, immobili sopra gli occhi, a dimostrazione della mancanza di
una qualche vera espressione.
Quello sguardo gli fece ritornare
alla mente quello di quando lo aveva assistito dopo che Elizabeth era
fuggita. Era molto simile. Era simile all’espressione di quando
un disperato cerca solo la morte per porre fine alle sue sofferenze.
Era uno sguardo quasi identico a quello del dolore e dell’agonia
più profonda e assoluta. Era uno sguardo così intenso che
ad Alphonse parve di esserne perforato. Gli occhi di Edward fissavano
con quello sguardo agonizzante e vitreo qualcosa di lontanissimo, di
inesistente dinanzi a lui.
Quello sguardo, aggiunto al respiro
irregolare, contribuivano ad aumentare l’inquietudine di
Alphonse. Contribuivano ad aumentare quel senso di vuoto e disperazione
assoluta che quello sguardo portava con sé e che riversava su
chiunque vi posasse gli occhi.
- Fratellone? Fratellone che cosa
c’è? È successo qualcosa? Fratellone! -
esclamò Alphonse, in preda alla preoccupazione, scuotendo
Edward, cercando di farlo rinvenire.
Quegli occhi lo facevano preoccupare. Era uno sguardo inumano.
Non sbatteva le palpebre. Gli occhi
rimanevano spalancati e vitrei, senza accennare a tornare alla normale
vitalità di sempre.
- FRATELLONE! - lo chiamò ancora Alphonse, dimenticandosi del luogo silenzioso dove si trovavano.
Edward continuava a fissare quel qualcosa senza rispondere.
- È... lei... - esalò il biondo d’un tratto, con la voce smorzata dalla paura.
- Lei? Elizabeth? Dov’è? -
- Fuori città... riesco... riesco... a percepirne la forza... - continuò Edward senza fiato.
- Riesci a percepirne la forza? -
- La sua... aura. È... intensa... molto... intensa... e non... non è sola... -
- Come? -
- C’è... c’è qualcuno con lei... qualcuno potente... -
- Fratellone... ma che ti sta succedendo? -.
Edward parve ridestarsi
improvvisamente da quella posa inumanamente immobile e, ancora scosso,
alzò gli occhi su suo fratello.
- Io... io non lo so... sento la loro presenza... una presenza fredda... -
- Fratellone... che cosa significa? -
- Io... io non lo so... ma potrò sfruttarlo per... per trovarla stasera... -.
Edward vacillò e Alphonse lo sostenne appena in tempo, prima che perdesse l’equilibrio.
- Fratellone, ti senti bene? -
- Sì... sto bene. Sono solo un po’ affaticato -.
Edward si liberò dal sostegno di Alphonse e prese il libro che gli era caduto.
Si diresse verso il tavolo dove prima stava il fratellino e lì si sedette, aprendo il libro e immergendosi nella lettura.
Alphonse rimase in piedi ad
osservarlo per qualche istante, prima di ritornare al tavolo e sedersi
al fianco del biondo, per leggere.
Ora, avevano una nuova arma dalla loro parte.
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Capitolo 14 *** Tramonto ***
14_Tramonto
Le ore trascorrevano lente e inesorabili, mentre con la mente Edward vagava alla deriva, perso nelle proprie riflessioni.
Nella sua mente era solo il caos,
mentre cercava disperatamente di far luce su quell’avvenimento
singolare e inquietante che aveva scosso la
“normalità” della sua psiche.
Poteva avvertire la presenza dei demoni.
Aveva riflettuto un po’
riguardo ciò che gli era successo ed era arrivato a
generalizzare tale potere supponendo che potesse sentire solo le loro
aure perché erano ambedue demoni. Però non riusciva
ancora del tutto a realizzare che ora possedeva un’arma in
più dalla sua parte. Un’arma in più contro
Elizabeth.
Forse era a causa del loro legame
che poteva avvertire le aure demoniache, ciononostante, avrebbe avuto
forse una chance in più di coglierla di sorpresa e quindi di
vincere basandosi appunto sull’effetto sorpresa.
Ma dubitava fortemente che
Elizabeth si sarebbe fatta cogliere impreparata. Sarebbe stata pronta a
dichiarargli guerra apertamente anche in quel medesimo istante.
Edward fremette
d’eccitazione, pensando allo scontro imminente. Era una reazione
del tutto fuori luogo, considerate le impressioni che fino a quel
momento il pensiero di quel combattimento gli aveva dato. Eppure non
poté fare a meno di sorprendersi lui stesso per la scarica
d’adrenalina che sentiva montare dentro riflettendo su ciò
che di lì a qualche ora sarebbe accaduto. Avrebbe dovuto
pazientare solo fino a quando la falce di luna calante non sarebbe
comparsa a rischiarare la tenebrosa volta celeste notturna,
l’ultima notte che Elizabeth avrebbe visto.
Giunse ben presto alla conclusione
che la strana prospettiva che aveva per lui preso lo scontro poteva
essere stata modificata solo dall’improvviso nuovo potere che
aveva acquisito.
Si concentrò un poco,
fissando ciò che aveva davanti, ma senza vederlo realmente: la
sua mente era impegnata a ritrovare quel potere che si era nuovamente
assopito, ma che si ridestò non appena fu Edward stesso a
richiamarlo.
Nella sua testa fu come se si
estendesse una sorta di mappa tridimensionale, nella quale prendevano
forma le due fredde aure, ancora fissate nello stesso punto nel quale
le aveva avvertite precedentemente. Quando si concentrò,
cercando di mettere a fuoco le coordinate della loro posizione, la sua
mente gli fornì immediatamente l’informazione: Nord-Est di
Central City, a circa un chilometro e mezzo dalla periferia cittadina.
Edward ritornò fisicamente
presente e riprese a leggere, cercando di impegnare al massimo la
propria attenzione sul libro, piuttosto che allo scontro della sera.
Alphonse seguiva con lo sguardo i
guizzi espressivi del biondo, che di tanto in tanto mandava frementi
occhiate verso la porta della biblioteca, quasi stesse macchinando
qualcosa per scappare da solo, lasciandolo lì.
Quando alle sei e mezzo i due
uscirono dalla biblioteca, constatarono che ormai era il tramonto. La
languida luce solare che andava scomparendo oltre l’orizzonte
tingeva di striature tendenti all’arancio-rossastro il cielo,
attribuendo tali colori anche alle rade nuvole sparse nel cielo, che si
dileguarono nel giro di circa mezz’ora.
Edward fletté la schiena, facendone scricchiolare le vertebre, preparandosi al combattimento.
Ogni fibra nervosa del suo corpo
fremeva di un’eccitazione assai a stento contenibile. Si sentiva
formicolare dentro, al solo pensiero di poter finalmente assaporare il
piacere dello scontro.
Socchiuse gli occhi mentre spostava lo sguardo verso il tramonto che s’avviava al crepuscolo.
- Fratellone... è l’ora? - domandò Alphonse, trepidante.
Edward chiuse gli occhi,
concentrandosi alla ricerca delle aure di Elizabeth e del compagno
sconosciuto. Fu ancor meno impegnativo del previsto per il biondo
localizzarne la posizione, grazie al fatto che li aveva tenuti
costantemente d’occhio per tutto il pomeriggio.
Le sue labbra si schiusero in un sorriso sghembo.
- Sì, Al... è ora -
rispose in un fugace sussurro, avviandosi verso la parte antica di
Central City, nella quale si trovavano i loro avversari.
Edward ne aveva assiduamente tenuto
sotto osservazione i movimenti: Elizabeth e il compagno avevano
girovagato attorno a Central City per qualche ora, soffermandosi per
breve tempo, prima di riprendere il viaggio. Più che viaggio,
sarebbe stato più corretto definirlo passeggiata.
Alla fine, verso le sei, avevano
invertito repentinamente la direzione di marcia e si erano diretti
verso Central City, in particolare verso il quartiere che era la
Central City di un tempo.
E lì si erano fermati. Probabilmente erano pronti ad accoglierli.
A Edward l’idea non
dispiacque affatto: avrebbe dovuto attendere meno del previsto per
raggiungere il luogo dello scontro, anche se era più probabile
che qualche civile vi fosse coinvolto.
Scosse lievemente il capo,
distogliendo l’attenzione da quell’eventualità: se
si fosse presentata, l’avrebbe affrontata sul momento.
Nel silenzio del crepuscolo
inoltrato, Edward e Alphonse si fecero strada fino all’antica
Central City, fermandosi dinanzi all’ingresso di un vecchio
casolare decadente.
- È qui? - domandò Alphonse, turbato.
- Sì. Sono qui. È finalmente giunto il momento... - esclamò Edward.
I due entrarono, all’erta.
Nel cielo, intanto, una timida falce si accese, rifulgendo d’uno sfavillante e argenteo candore.
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Capitolo 15 *** Incontro ***
15_Incontro
Il casolare era appena definibile come tale: ormai assomigliava più ad un cumulo di rovine.
Le mura invecchiate erano quasi del
tutto scomparse sotto una parete di muschio e piante rampicanti che
s’insinuavano nelle crepe del muro. Il tetto era quasi totalmente
crollato, lasciando scoperta la volta celeste, accesa di migliaia di
puntini luminosi.
Edward e Alphonse proseguirono fra
quelle rovine, i sensi all’erta, pronti a cogliere il minimo
movimento. Ognuno dei due teneva sott’occhio una parte
dell’ambiente, quella che l’altro non guardava,
nell’eventualità che Elizabeth e il compagno non fossero
da soli.
Edward continuava a percepire le
loro aure sempre nello stesso medesimo punto, a dimostrazione che li
stavano realmente aspettando.
Quando giunsero in
prossimità di quel punto, Edward fu percorso da un brivido,
mentre quelle aure s’intensificavano di colpo, divenendo sempre
più fredde man mano che si avvicinavano.
Altri brividi percorsero il biondo,
che li riconobbe subito come fremiti d’eccitazione. Si sentiva
montare dentro un’impazienza a stento contenibile,
controbilanciata dalla prudenza che il momento richiedeva. Non riusciva
a distogliere il pensiero da ciò che avrebbe dovuto affrontare
di lì a pochi, brevissimi istanti e ciò, anziché
inquietarlo e renderlo nervoso, gli provocava una strana ebbrezza di
adrenalina ed eccitazione. Era davvero strano, ma pensò che, in
fondo, era meglio così: niente inutili attacchi di panico nei
momenti decisivi.
Lui e Alphonse proseguirono,
avvolti da quel loro silenzio agghiacciante che s’era
improvvisamente fatto carico di tensione, una tensione che quasi era
palpabile, tanto attanagliava l’aria.
I respiri di Edward si facevano via
via più veloci, in conseguenza dell’aumento di esaltata
tensione che lo spingeva a mettere un passo avanti all’altro.
Solo una manciata di secondi lo separava dall’atteso incontro.
Solo una manciata di secondi lo separavano dal rivedere di nuovo
Elizabeth.
Con passo più sicuro, il biondo precedette il fratellino verso il punto dal quale provenivano le aure dei due demoni.
Le mani fremevano appena. Edward
non fece neanche lo sforzo di mantenerle immobili. In quel momento,
ogni sua più piccola cellula era tesa nello sforzo di captare
per prima la scintilla, il rumore che avrebbe dato il via al
combattimento.
Il silenzio che vigeva sul luogo era carico di trepidante attesa.
Edward e Alphonse, dopo aver fatto quasi una ventina di metri all’interno di quelle rovine, si fermarono, in ascolto.
Il biondo sentiva le due presenze a pochissimi metri, dinanzi a loro.
Un nuovo brivido d’eccitazione lo percorse lungo la schiena.
Poi, nella semioscurità della notte, un paio di occhi fiammeggiarono nell’oscurità.
Edward riconobbe immediatamente
quelli d’un rosso brace venati di sangue, ma quelli azzurro
ghiaccio non gli erano affatto familiari. Immediatamente, suppose
appartenessero al compagno demone di Elizabeth.
In un silenzioso fruscio, i due avversari uscirono dalle tenebre, facendosi avanti con arroganza e superiorità.
Edward rimase immobile a scrutare,
per quanto concessogli dalle tenebre notturne, la creatura inumana che
aveva dinanzi e che, in quel momento, gli apparve in tutta la sua
bestialità.
La pelle era di un pallore che
superava di gran lunga quello spettrale. Un pallore che avrebbe fatto
invidia ad un cadavere. Ma era un pallore che, per quanto fosse,
sembrava più vivo che mai. Dalle labbra sbucavano fuori due
sfavillanti canini argentei, che rilucevano alla luce lunare. Fra i
lunghi capelli biondi, due piccole corna curvate verso il basso
affioravano, situate poco più su delle orecchie, rigorosamente
appuntite alle estremità superiori.
Con ribrezzo, Edward
constatò che il suo abbigliamento rispecchiava quasi totalmente
il proprio, una demoniaca imitazione femminile dei suoi vestiti,
eccezion fatta per la maglia, che altro non era che un semplice top
sbrindellato in fondo, che lasciava scoperto il ventre. Su di esso, il
biondo poté notare una strana figura argentea, che però
non era completamente visibile alla fioca luce lunare.
Il suo compagno vestiva di bianco.
Pareva un angelo, con l’unica chiazza nera dei capelli, ma Edward
sapeva fin troppo bene che dietro quel piacevole aspetto si nascondeva
un essere con le stesse demoniache capacità di Elizabeth.
- Benvenuti... - li accolse
glacialmente Elizabeth, scrutandoli tranquillamente dal punto in cui
era ferma. I suoi occhi saettarono immediatamente sul ragazzo biondo
dinanzi a lei e, con sua grande sorpresa, incrociò il suo
sguardo, le sue limpide iridi d’oro liquido. In quegli occhi, che
fino ad allora aveva visto solo terrorizzati mentre la scrutavano,
Elizabeth notò una stilla d’eccitazione, ma neanche la
minima traccia della paura che era solita incutere
nell’alchimista. Non perse la calma.
- Elizabeth... -.
Edward sputò quel nome con tono di sfida misto ad un profondo senso di ribrezzo.
- Edward... quanto tempo... sono
solo due giorni che ti ho lasciato e già senti la mia mancanza?
- chiese in tono assai provocatorio Elizabeth.
Sul volto del biondo, si aprì un vago sorriso sghembo, che sembrava indicare superiorità e disprezzo.
- Elizabeth... sono qui, stanotte, per porre fine a tutto questo. Tu, Elizabeth, morirai qui, questa stessa notte... -.
Elizabeth rise. Una risata di scherno, carica di amara e perfida ironia.
- Io morire? Se io morirò
qui, caro Edward, questa non sarà solo la mia tomba, ma
sarà la tomba d’entrambi. Non temi tu la morte? -
- La morte, dici? Ormai è
tardi per decidere se temere più la morte o il destino che
attende l’umanità. Hai forse timore di sfidarmi? -.
Le labbra di Elizabeth si curvarono in un ghigno, mentre dal suo petto irrompeva un ringhio basso e minaccioso.
- Osi forse darmi della codarda, Alchimista d’Acciaio? Io accetto questa tua sfida. Preparati alla morte! -
- Morte? Lo vedremo... -.
Alphonse fece un passo indietro, concedendo al fratello lo spazio sufficiente alla lotta.
Il confronto finale era arrivato.
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Capitolo 16 *** Battaglia ***
16_Battaglia
Edward fece saettare le
mani l’una dinanzi all’altra. Rimase in quella posizione,
immobile, per alcuni, brevissimi istanti.
Quando le congiunse con un colpo secco e deciso, Elizabeth scattò.
La demone balzò in avanti con agilità e velocità sovrumane, arrivando dinanzi al biondo.
Edward trasmutò l’auto-mail con un fluido movimento.
Elizabeth compì
un’audace torsione del busto, piegandosi all’indietro,
attaccando il biondo con un calcio che fendette l’aria silenzioso.
Edward si ricompose appena in tempo
per parare con il braccio destro il colpo, che però
riuscì a far scricchiolare in modo assai preoccupante il suo
auto-mail. Continuarono a far pressa l’uno contro l’altro,
per poi balzare indietro, osservandosi reciprocamente.
Stavolta fu Edward a partire alla carica per primo.
Ad auto-mail sguainato,
s’avventò in corsa verso l’avversaria. Elizabeth non
si sottrasse e caricò anch’essa verso l’altro.
Lei riuscì a colpirlo con un pugno sullo zigomo sinistro.
Sogghignò, soddisfatta.
Aveva sentito l’osso rompersi al contatto. Edward, mentre lo
sguardo si annebbiava per il dolore, riuscì a colpirla con un
fendente laterale al fianco, prima di essere scaraventato
all’indietro dalla forza del colpo subito.
Cadde riverso al suolo.
Sentendo un fruscio alle spalle, il
biondo non perse tempo a crogiolarsi nel dolore. Balzò
nuovamente in piedi con un unico, repentino scatto e si volse appena in
tempo per bloccare un nuovo pugno dell’avversaria.
L’auto-mail scricchiolò di nuovo per l’esagerata pressione subita.
Edward la respinse con uno spintone, accanendosi poi su di lei.
Elizabeth riprese immediatamente posizione e riuscì ad attaccarlo con un’unghiata al collo.
Il biondo non si mosse.
Allora ritentò il calcio con
torsione e, stavolta, riuscì a colpirlo. Edward si volse in modo
che il collo fosse riparato e il calcio della demone colpì la
spalla sinistra, scaraventando il ragazzo lateralmente.
Nonostante Edward sentisse il
sangue scivolargli lungo il collo e inzuppargli i vestiti e il dolore
alla spalla appena colpita, non rimase a terra a lungo e si
rialzò.
Si volse nuovamente verso Elizabeth
e le corse incontro, l’auto-mail protratto in avanti, per parare
eventuali nuovi colpi. Si staccò con un agilissimo salto dal
suolo e piombò rapido sull’avversaria, che riuscì
ad eludere l’attacco.
Edward atterrò piantando
l’auto-mail nel terreno e non fece in tempo a scansarsi che
Elizabeth gli fu addosso. La demone lo colpì con un micidiale
calcio sul fianco destro, che lo scaraventò a parecchi metri di
distanza.
Edward sputò un po’ di sangue, che andò a chiazzare il pavimento.
Sentiva il braccio sinistro
mandargli atroci fitte, alle quali si aggiungeva il dolore dello zigomo
destro fratturato, lungo il quale sentiva colare sangue, che andava a
rigargli il viso come silenziose lacrime e il nuovo dolore del fianco.
Non ne era totalmente sicuro, ma avrebbe detto che almeno una costola
si fosse rotta, forse anche due.
Nonostante il dolore, il biondo puntò le mani a terra e si rialzò, incurante del pericolo.
Cercò di congiungere le
mani, per trasmutare, ma qualcosa lo raggiunse con uno scatto
repentino, bloccandogli il braccio sinistro dietro la schiena.
Elizabeth.
Edward lottò silenziosamente contro quella forza sovrumana che gli stava spezzando il braccio.
Alla fine, scoppiò in un grido. Un gridolino basso, ma un grido. Un grido di dolore.
- Edward... vuoi dire che ti sto facendo male? - sibilò lei all’orecchio del biondo.
Strinse più forte la presa. Edward si zittì: non voleva dargliela vinta.
- Chissà quanto resisterà il tuo braccio prima di rompersi... -.
Gli occhi di Edward si dilatarono,
terrorizzati, mentre Elizabeth pressava cercando di stroncare il suo
braccio. L’unico braccio che gli era rimasto.
Il biondo avvertiva il dolore
fluirgli nelle ossa, quasi fosse fiele. Si sentiva debole, in preda a
quell’atroce dolore e alla certezza che il suo braccio sinistro
si sarebbe rotto. Non voleva pensare al dolore che avrebbe provato, ma
non poté farne a meno. Non poté evitarlo, benché
si ripetesse più e più volte di mantenere la calma.
Sentiva il terrore e il panico montare dentro, invaderlo. Non ragionava
più coerentemente. Non riusciva a pensare ad altro se non a quel
lancinante dolore che andava aumentando di secondo in secondo, alla
certezza che il suo braccio, il suo unico vero braccio avrebbe perso
quella sfida di resistenza.
La forza aumentò d’improvviso e Edward sentì lo schiocco secco del suo braccio che si rompeva.
Dinanzi a lui, la visuale
sfocò appena, per poi ritornare nitida. Il dolore era stato
acuto, ma breve. Il panico era passato. Ormai, il braccio era rotto.
Non poteva più provare dolore.
Elizabeth lo lasciò andare e lui cadde riverso al suolo, il braccio sinistro abbandonato accanto a lui, inerte.
- Credevi davvero di potermi battere? -.
Edward si rialzò, tenendo il
braccio rotto penzolone lungo il fianco. Elizabeth lo afferrò
per il bavero del giubbotto e lo colpì ripetutamente in faccia.
Più lontano, Alphonse e il
compagno di Elizabeth si stavano affrontando. Al contrario del
combattimento fra Edward e quest’ultima, il loro era uno scontro
eguale in velocità, forza e agilità. Sembrava che fossero
alla stessa stregua, che fossero testa a testa.
Elizabeth colpì con inaudita potenza Edward allo stomaco.
Il biondo, gli occhi lievemente socchiusi, sputò altro sangue.
- Sei solo un patetico essere umano. Non hai il potere di battermi... - esclamò Elizabeth in tono beffardo.
- Tu... dici? - esalò Edward.
Le gambe, ancora quasi illese, scattarono verso il ventre della demone, colpendola in pieno e scaraventandola lontano.
Edward ricadde con un tonfo a terra
e, rialzatosi, si affrettò a portare la mano destra, ancora
funzionante, verso quella sinistra, congiungendole in modo da poter
trasmutare.
Elizabeth era lanciata verso di lui
a velocità sovrumana, gli artigli della mano sinistra alzati a
mo’ di arma, mentre il braccio in auto-mail era proteso in
avanti, la mano aperta, pronta a stritolare qualsiasi cosa fosse finita
nella sua morsa.
Edward s’inginocchiò e
puntò la mano destra a terra. Dal punto di contatto si
sprigionò una luce azzurrina abbagliante, mentre il biondo
trasmutava una parete che potesse proteggerlo dall’impatto con
Elizabeth.
La demone, invece di deviare o fermarsi, puntò con maggior furia verso l’ostacolo.
Ci fu un rumore assordante e la parete andò letteralmente in frantumi.
Edward, disorientato a causa del polverone, non riusciva a vedere dove fosse Elizabeth.
Non tardò ad individuarla, ma ormai era troppo tardi.
I suoi artigli s’infilarono
nella sua spalla sinistra, dalla quale iniziò a sgorgare copioso
il sangue, che andò a formare una pozza a terra.
Edward sentì poi il braccio
sinistro venir ghermito con forza, mentre Elizabeth affondava senza
pietà alcuna i suoi artigli nella carne del biondo.
Edward sentì il dolore in
tutta la sua completezza. Era un dolore acuto, penetrante, che cresceva
mentre la demone conficcava gli artigli sempre più a fondo. Il
ragazzo sentiva i muscoli dilaniarsi come fossero cordicelle, aprirsi
al passaggio di quelle letali lame che si conficcavano sempre
più giù, senza alcuna pietà.
Elizabeth ghignò e storse
gli artigli. Il dolore di quella torsione fu lancinante, mentre i
muscoli si aprivano maggiormente per lasciare posto agli artigli della
demone.
Con un repentino scatto, Elizabeth rimosse gli artigli dalla spalla di Edward, che cadde a terra in ginocchio, agonizzante.
- Alchimista d’Acciaio... è giunta l’ora... - sussurrò Elizabeth.
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Capitolo 17 *** Morte ***
17_Morte
Edward non aveva
più la forza necessaria a contrastare Elizabeth. Perdeva troppo
sangue e iniziava a girargli la testa. Non avrebbe potuto reggere
ancora per molto.
Ma non si sarebbe arreso. Non avrebbe cessato di lottare fin quando avesse avuto la forza di respirare.
Con uno sforzo che gli costò una fatica immane, il biondo si rialzò e fissò gli occhi su Elizabeth.
- No... non ancora... - mormorò.
Cercando di radunare le ultime
forze, il ragazzo si lanciò in un nuovo attacco, diretto verso
il cuore della demone, che schivò con estrema facilità
l’attacco, per poi abbattersi ferocemente sul biondo,
piantandogli le unghie esattamente nel centro del petto.
Il respiro di Edward venne mozzato di colpo.
- FRATELLONEEE! -.
Il grido disperato di Alphonse giunse da lontano. Troppo lontano.
Al fianco dell’armatura,
stava il compagno di Elizabeth, Eric. Quest’ultimo osservava la
scena senza il minimo segno di turbamento. Piuttosto, schiuse le labbra
in un sorriso. Sentiva le aure di Elizabeth e Edward.
Per quanto male Edward fosse
ridotto, la sua aura rifulgeva abbagliante, vivida e calda, molto
più forte di quella di Elizabeth, al cui confronto era solo una
tenue fiammella.
Edward fissava il volto di
Elizabeth, il ghigno perfido che si era dipinto su di esso quando era
riuscita ad affondare le unghie nel suo petto.
Si sentiva lacerare da qualcosa che gli impediva di respirare. Si sentiva schiacciato dalla mancanza di ossigeno.
Tentò di respirare
più profondamente, ma ne ottenne solo ulteriore dolore. La sua
visuale iniziò a sfocare lentamente, offuscandosi per il dolore
e la lenta perdita di conoscenza.
No. Non poteva finire così.
Non doveva.
Il freddo iniziò ad invaderlo lentamente. Si sentiva come morto. Le membra sembravano non rispondere più.
Ma doveva riuscirci. Era abbastanza
vicina e abbastanza distratta da permettergli quell’ultima,
disperata mossa, prima di cadere nell’oblio freddo, eterno della
morte.
Cercando in sé le ultime
forze rimaste, Edward si aggrappò agli ultimi labili contatti
con la realtà e riuscì a muovere l’auto-mail,
fendere l’aria e... colpirla.
Sì. L’aveva colpita. Sentiva la sua presa allentarsi, le dita farsi più rigide.
Poi, d’un tratto, lei
lasciò la presa e il biondo cadde di nuovo in ginocchio,
cercando di riprendere una respirazione normale. Socchiuse gli occhi
quel tanto che bastava a vedere dove il suo auto-mail fosse ancora
conficcato: dritto nel cuore.
Era debole, ma sentiva che quello sarebbe stato il suo ultimo sforzo.
Edward premette a fondo la lama
dell’auto-mail, cercando di vincere la volontà di
lasciarsi andare a terra, esausto. Cercò di schiudersi un varco
sempre più in profondità. Sentiva la carne e i muscoli
sfilacciarsi e aprirsi al passaggio del suo auto-mail.
Fendette con fatica il pericardio,
scese ancora più a fondo, sempre con maggior fatica,
finché non sentì qualcosa pulsare appena contro la punta
dell’auto-mail.
Eccolo. Il cuore.
Con un ennesimo, immane sforzo,
Edward conficcò la propria lama nel miocardio della demone,
trapassandolo. Ebbe la fugace impressione di qualcosa di viscido che
gli inondava l’auto-mail, inzuppando l’acciaio. Ritrasse
con forza la propria lama dal petto di Elizabeth. Quando lo estrasse in
modo definitivo, l’azione fu accelerata dal viscido contatto fra
il sangue che impregnava la ferita e quello rimasto
sull’auto-mail.
Edward osservò per qualche
istante il proprio arto meccanico: questo era completamente ricoperto
di sangue sulla parte che era entrata nel corpo di Elizabeth e grondava
copiosamente sul terreno, dove si era formata un pozza rosso scuro.
Il biondo distolse
l’attenzione dal proprio auto-mail e fissò gli occhi in
quelli della demone dinanzi a lui. In quelle iridi iniettate di sangue,
non c’era rimasta una sola stilla di vita. Erano occhi che
fissavano vacui il vuoto davanti a loro.
Ormai Elizabeth era morta.
Sul suo ventre illuminato
pienamente dalla luna, Edward notò che era tatuata una falce di
luna argentea, che iniziò a sfavillare.
Il corpo di Elizabeth rimase supino a terra per qualche istante, poi svanì in una soffusa nebbiolina argentata.
Edward sorrise. Finalmente, il suo era un sorriso pieno di felicità.
Alphonse si volse d’un tratto
verso l’avversario, assumendo di nuovo la posizione da
combattimento: gli avrebbe impedito di nuocere a suo fratello, ora che
Elizabeth era morta.
- Calmati Alphonse Elric. Non ho
intenzione di fare del male a tuo fratello. Piacere, il mio nome
è Eric, anzi, non esattamente... - disse il demone.
Alphonse non si mosse di un solo centimetro. Continuava a fissare Eric vigile.
Edward respirava affannosamente.
Non aveva l’energia necessaria a cavarsi d’impiccio nel caso il demone avesse avuto intenzione di attaccarlo.
- Non abbiate timore. Io non sono ciò che credete io sia... -.
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Capitolo 18 *** Dono ***
18_Dono
Edward e Alphonse non riuscivano a credere che ciò che Eric stesse dicendo loro fosse vero.
Era un demone. Era con Elizabeth. Non bastava a renderlo tale?
- Come? Cosa... cosa vorresti dire? - domandò Edward, stremato.
- Io sono un Divino. Un angelo, per così dire... il mio vero nome è Grisam. Grisam il Divino Stellare -.
Edward era esterrefatto: possibile
che, in quindici anni di prigionia interiore, non avesse mai scoperto
di essere entrato a far parte del cosiddetto “mondo
sovrannaturale”? Non era plausibile che ora venissero fuori tutte
le storie di demoni, Divini e via discorrendo!
Grisam si avvicinò a Edward cautamente e si chinò dinanzi a lui.
- Edward Elric, anche conosciuto
come Alchimista d’Acciaio, tu sei stato l’involucro che ha
permesso ad Elizabeth di ritornare in questo mondo, ma, contro ogni
aspettativa, ne hai debellato la minaccia. Ti ringrazio, a nome di
tutti noi Divini e ti conferisco il Sigillo... -.
Così dicendo, Grisam portò la mano sul petto di Edward e vi esercitò una lieve pressione.
Il biondo avvertì una scarica d’energia nuova fluirgli dentro, ridandogli vitalità.
Grisam si ritrasse dal contatto e
fissò Edward negli occhi, con le sue pupille di un caldo
azzurro, molto differente da quello che aveva visto nei suoi occhi
precedentemente.
- Da ora tu hai il potere di
percepire le presenze sovrannaturali in questo vostro mondo e la
capacità di combatterli. Se sfruttare o meno tale dote, è
una tua scelta. A questo punto, il mio compito qui è terminato.
Addio fratelli Elric... -.
Così dicendo, Grisam svanì in una nube argentea.
Edward era ancora stupito da ciò che il Divino gli aveva concesso, da ciò che ora poteva fare.
Le forze fisiche gli vennero a mancare e cadde supino a terra.
- Fratellone! Fratellone! - lo chiamò invano Alphonse, correndo verso di lui.
L’ultima cosa che il biondo vide fu suo fratello chino su di lui, prima di cadere, privo di coscienza.
Quando riprese lentamente i sensi,
Edward si ritrovò davanti agli occhi un’accecante luce
biancastra, che lo costrinse a chiuderli nuovamente.
- ED! -.
La voce femminile che udì
era così terribilmente familiare che gli ci volle un po’
prima di constatare che tutto ciò non era finzione.
Infatti, notò una ragazza dai lunghi capelli biondissimi accanto a sé.
- Winry? - chiese lui, spaesato.
- Fratellone, finalmente ti sei svegliato! - intervenne la molto più familiare e piacevole voce di Alphonse.
- Che... che cosa è successo? Dove sono? E... Gris...! -.
S’interruppe quando, cercando
di rimettersi seduto, avvertì una fitta di dolore al petto, che
gli mozzò il fiato, costringendolo a distendersi nuovamente.
- Calmati, fratellone... non avere
fretta. Devi ancora rimetterti del tutto, non sforzarti... - lo
tranquillizzò Alphonse.
- Non mi hai risposto... - gli fece notare il biondo.
- Sei svenuto e ti ho riportato in città... ora siamo in ospedale... -
- Ospedale?! - ripeté il biondo.
Era stato in ospedale solo una
volta, ma era stato un periodo pessimo. Si ricordava fin troppo bene
dei pasti che gli servivano e, cosa ancora peggiore, del fatto che,
chissà perché, cercavano sempre di rifilargli il latte.
Scacciò disgustato il pensiero: ci avrebbe rimuginato sopra al momento, se sarebbe arrivato.
- Winry, ma che sei venuta a fare qui, scusa? -
- Come?! Io vengo fin qui da
Resembool e l’unica cosa che sai fare è lamentarti?!
Ingrato! - sbuffò Winry, offesa.
- Ma no... non mi stavo lamentando... chiedevo - si giustificò il biondo.
Alphonse l’aveva notato fin
da subito: dopo la morte di Elizabeth, suo fratello era di nuovo se
stesso. Era di nuovo il testardo, impulsivo alchimista che odiava
essere pregiudicato per l’altezza e che odiava il latte. Era di
nuovo il suo fratellone, come tanti anni prima.
- Comunque, sono qui perché
mi ha chiamato Al. Ha detto che il tuo auto-mail era messo male. Non
potevo lasciare che la mia creatura soffrisse così... -
- Con “mia creatura” ti riferisci all’auto-mail, vero? -
- Certo! A chi altri dovrei riferirmi? -
- Lasciamo stare... l’hai aggiustato? -
- Ovviamente, per chi mi hai presa?! Certo che era ridotto davvero male. Perché continui a maltrattarlo? -
- Guarda che non lo faccio di proposito! -.
Alphonse si ricordò improvvisamente di quella cosa che i dottori gli avevano detto a proposito di Edward.
- Fratellone... hai visto il tuo petto? -
- ...? C’è qualcosa di strano? -
- Guarda... -.
Edward si guardò il torace: era vestito, non vedeva niente. Si alzò la maglia e controllò.
Rimase muto, silenzioso e immobile.
Ecco cos’era il Sigillo. Ecco
cosa significava quella pressione lieve sul suo petto. Ma non credeva
che fosse tanto evidente: era una stella argentea che riluceva sulla
sua pelle come fosse ricoperta di minuscoli brillanti. Davvero molto appariscente.
- Wow... - mormorò, esterrefatto.
- Cosa? - chiese Winry.
- Niente... niente... -
- Lo voglio sapere! -
- Cose da maschi... - mentì Edward.
- Ba’... certo che siete proprio strani voi due... -.
E così, dopo quella lunga degenza, Edward decise di accettare il ruolo che Grisam gli aveva concesso.
Così, nella sua vita, erano
aumentati gli obiettivi: trovare la Pietra Filosofale, restituire ad Al
il suo corpo e sconfiggere il maggior numero possibile di malvagi
esseri sovrannaturali.
Quella sarebbe stata la sua nuova missione.
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