Blurred

di Tormenta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Dettagli (non) trascurabili ***
Capitolo 3: *** 2. (Dis)attente osservazioni ***
Capitolo 4: *** 3. I primi passi (falsi) sulla via ***
Capitolo 5: *** 4. Mai (di)sperare troppo ***
Capitolo 6: *** 5. Folle (ma valido) rimedio ***
Capitolo 7: *** 6. Lui, lei (e l'altro) ***
Capitolo 8: *** 7. (Quasi) come ai vecchi tempi ***
Capitolo 9: *** 8. Da capo, con più (in)decisione ***
Capitolo 10: *** 9. Le parole (meno) adeguate ***
Capitolo 11: *** 10. Mille (e una) buone ragioni ***
Capitolo 12: *** 11. Ad armi (im)pari ***
Capitolo 13: *** 12. (Dolce)amare conseguenze ***
Capitolo 14: *** 13. (Pen)ultimo tassello ***
Capitolo 15: *** 14. Pensieri che ri(n)corrono ***
Capitolo 16: *** 15. Qualcosa in cui (voler) credere ***
Capitolo 17: *** 16. L'allusione (è solo l'inizio) ***
Capitolo 18: *** 17. Vicolo (non del tutto) cieco ***
Capitolo 19: *** 18. (Vana) lotta contro le etichette ***
Capitolo 20: *** 19. Le(t)ale come una serpe ***
Capitolo 21: *** 20. Gesta ero(t)iche ***
Capitolo 22: *** 21. Vari(abili) gradi d'impulsività ***
Capitolo 23: *** 22. (Im)presa di coscienza ***
Capitolo 24: *** 23. Senso (in)compiuto ***
Capitolo 25: *** 24. Sicurezza mina(ccia)ta ***
Capitolo 26: *** 25. (Im)prevedibile caos ***
Capitolo 27: *** 26. Il vento (st)ride ***
Capitolo 28: *** 27. (Ultimi) momenti ***
Capitolo 29: *** 28. Fine d'un epoca(le stallo) ***
Capitolo 30: *** 29. (Im)perfetto ***
Capitolo 31: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


I personaggi non mi appartengono. La storia non è scritta a scopo di lucro.

 
Je n'y vois que du feu / en quelques pas seulement / je peux me perdre au loin / si loin dans ma rue
(Dionysos, “Flamme à lunettes”)
 
[Vedo tutto sfocato / in qualche passo solamente / potrei perdermi / lungo la strada]


 
Blurred


~

Prologo
 
 
 

        Harry Potter aveva già visto tante volte l’Espresso per Hogwarts pronto a partire dal binario 9¾. A rigor di logica, quindi, l’atmosfera della stazione, affollata come di consueto, sarebbe dovuta risultare a lui familiare. Ma non fu così.
        Guardandosi attorno, costatò che c’era un nonsoché di diverso nell’aria. Forse si trattava di qualche nota fuori posto nel caos vivace di volti e voci che lo circondava; o, magari, la sensazione era causata dalla consapevolezza che quello sarebbe stato il suo ultimo anno di scuola, e anche il primo senza minacce oscure di sorta – forse. Insomma, chi poteva dirlo? Il fatto che la guerra potesse essere considerata un brutto ricordo, però, faceva ben sperare.
        Accanto a lui, Hermione borbottò qualcosa d’indefinito. Ginny rise e, riscuotendosi dai propri pensieri, Potter fece saettare lo sguardo dall’una all’altra.
        «Che c’è?»
        «Sei sulle nuvole, Harry?» Lo prese in giro Hermione, divertita.
        Non ebbe tempo di rispondere o di reagire in altro modo, perché Molly e Arthur iniziarono a dispensare gli ultimi saluti mentre Ron proclamava che era ora di salire sul treno.
        Prima di recuperare i propri bagagli, Ginny prese Potter per un braccio reclamando la sua attenzione. «Ti senti carico?» fece, piena d’energia.
        Lui non poté che aprirsi in un sorriso. «Certo!» Gli parve l’unica risposta adeguata, a priori dal livello di sincerità.
 
 
        Hermione e Ginny si sistemarono per prime in uno scompartimento vuoto, e Harry, dietro di loro, le avrebbe subito seguite se solo all’improvviso una ragazzina distratta non gli fosse piombata addosso.
        Si trattava di una del primo anno. «Mi dispiace!» Squittì meccanicamente, mentre indietreggiava di un passo e alzava lo sguardo per incrociare il suo.
        «Non preoccuparti». Cercò di essere rassicurante, ma non poté fare a meno di aggrottare la fronte quando vide gli occhietti di lei spalancarsi per quello che sembrava essere stupore.
        «Harry Potter», la sentì proferire sottovoce.
        Per un paio di secondi che parvero infiniti, Harry si sentì profondamente a disagio. Doveva proprio guardarlo in quel modo, come se fosse una strana e mai vista creatura?
        Comunque, la tensione si sciolse in un attimo, grazie alla comparsa di un ragazzo che prontamente prese per mano l’undicenne. «Guarda dove vai!» La rimproverò, per poi morare un veloce «Scusa» in direzione di Potter. E senza aggiungere altro, i due si allontanarono.
        «Tutto okay, amico?» Domandò Ron, lievemente impensierito.
        «Hm― . Sì, certo». Scosse appena il capo, «È solo che mi ha guardato in modo strano».
        «Chi ti ha guardato in modo strano?» La testa di Hermione sbucava dallo scompartimento, per controllare perché i due non fossero ancora entrati.
        «Una ragazzina. Niente di che». Mentre rispondeva, lui e Ron avanzarono e presero finalmente posto.
        Non disse quanto detestava che le persone lo guardassero così. Era capitato diverse volte, anche prima della sconfitta del Signore Oscuro, ma da quando era diventato l’eroe di quella maledetta guerra gli episodi si erano fatti sempre più frequenti. Sapeva che la maggior parte delle persone – e di sicuro la ragazzina di poco prima era tra queste – non lo facevano con cattiveria, ma comunque si sentiva turbato: non voleva essere messo su chissà quale piedistallo.
        Sospirando tra sé e sé, cercò di togliersi quei pensieri pesanti dalla mente concentrandosi sulle chiacchiere degli altri, che avevano iniziato a parlare dell’anno che li aspettava. Per essere precisi, Hermione aveva provato a tirare in ballo l’argomento esami.
        Il discorso, però, venne prontamente fatto virare da Ron: «Non sono nemmeno iniziate le lezioni! Non voglio neanche sentirli nominare, i M.A.G.O.!» Sbottò mentre Ginny rideva. «Parliamo di qualcos’altro. Novità sul nuovo professore di Difesa?»
        Harry saltò su come una molla, interessato. «Sai chi sarà?»
        «No, ma sono curioso».
        «Speriamo sia un buon insegnante», fece Hermione, recuperando un libro.
        «Dopo tutto quello che è successo, mi domando chi possano aver convocato», intervenne Ginny.
        Di colpo, un’ombra oscurò i loro volti.
        Dopo tutto quello che è successo. Quelle parole sembrarono rimbombare nello scompartimento, riportando alle menti dei quattro ragazzi i ricordi con cui stavano disperatamente cercando di imparare a convivere. Per un istante, a Harry parve di sentire di nuovo la cicatrice bruciare, e il suo pensiero volò a Silente, a Piton, a Lupin, e a tutti gli altri. Hermione deglutì e si strinse nelle spalle, sentendosi improvvisamente schiacciata da una non ben definita paura. Ron e Ginny, col cuore stretto, rividero Fred. Anche se quasi facevano finta di niente e, di tacito accordo, non ne parlavano molto, ciò che era accaduto tormentava ancora i loro incubi.
        Andare avanti non era facile, per niente, ma sapevano di doverci almeno provare.
        Il brutto momento passò così come era venuto. Tuttavia, rimasero a lungo in silenzio, chi a leggere, chi a guardare semplicemente il paesaggio che correva veloce dal finestrino.
        Ad un tratto, Potter si accorse che Hermione e Ron si stavano tenendo per mano: inarcò impercettibilmente le labbra all’insù, invaso da una strana contentezza. Poi si voltò piano verso Ginny, che aveva chiuso gli occhi probabilmente per riposare, e decise di imitare gli amici: prese una delle mani della ragazza, intrecciando le dita alle sue. Lei sollevò le palpebre, fissò brevemente lo sguardo sulle loro mani e, ricambiando la stretta, gli dedicò un sorriso. Felice, Harry sorrise in risposta.
 
 
* * *
 
 
        L’aria dello scompartimento stava diventando soffocante, per Draco Malfoy. Ogni respiro era una tortura.
        L’ultima cosa che desiderava era arrivare ad Hogwarts. Eppure, allo stesso tempo, non aspettava altro: tutto, pur di uscire da quello stupido treno che, quasi, gli pareva claustrofobico. Ma, ovviamente, lo straziante viaggio sembrava essere infinito. A peggiorare la situazione c’era il silenzio suo e degli altri, che gli ronzava sempre più forte nelle orecchie.
        Era agitato. Quasi non riusciva a stare fermo: si umettava le labbra, si passava una mano tra i capelli, accavallava le gambe, incrociava le braccia e le lasciava ricadere sospirando. Si sentiva fuori di sé.
        Più di una volta incrociò lo sguardo di Blaise Zabini che, seduto proprio davanti a lui, gli lanciava occhiate interrogative da dietro una copia della Gazzetta del Profeta. Forse aveva notato che nel suo comportamento c’era qualcosa di anomalo, ma non fece domande. Gli altri, per fortuna, lo ignoravano.
        Ad un tratto, Daphne Greengrass e Theodore Nott intavolarono una piccola discussione, parlando quasi sottovoce nel loro angolino. Le risatine della ragazza, incredibilmente, riuscirono a stridere nelle orecchie di Draco in maniera più fastidiosa del silenzio assordante di poco prima.
        Strinse i denti finché riuscì, poi, giunto al limite della sopportazione, scattò in piedi e fece per uscire dallo scompartimento.
        «Dove vai?» lo inchiodò Zabini, attirando l’attenzione generale.
        Per rispondere, si costrinse a gonfiare i polmoni di quell’aria tossica che aveva iniziato a detestare. «Faccio un giro. Ho bisogno di muovermi». Detto ciò, si allontanò senza esitazioni.
 
 
        Era più che convinto di non potercela fare: stava impazzendo per il solo viaggio sull’Espresso, e davvero non aveva idea di come sarebbe potuto sopravvivere ad un intero anno scolastico tra le mura di Hogwarts, con i professori e i compagni che non voleva vedere e lo studio e tutto il resto. Nel tentativo di calmarsi, rallentò appena il passo e inspirò profondamente – se non altro, fuori dalla cabina l’aria era meno opprimente.
        Non ci voleva proprio tornare, in quella scuola. Non dopo i processi che avevano condannato suo padre ad essere rinchiuso ad Azkaban. Non dopo la guerra. Non dopo quello che aveva fatto. Non sentendosi così. Eppure, non aveva scelta. Tanto per cambiare.
        Strinse i pugni e si morse una guancia, facendosi forza. Si disse che, in fondo, era solo un anno. Sarebbe stato lungo, forse, ma era anche l’ultimo, e doveva concentrarsi su quello.
        Si ripromise che avrebbe studiato e nient’altro. Non avrebbe dato peso alle occhiatacce sospettose che gli avrebbero lanciato, né a quello che molto probabilmente avrebbero detto alle sue spalle. Avrebbe finto di essere quello di sempre, camminando a testa alta, perché lui era Draco Malfoy, un Purosangue di tutto rispetto, che non si scomponeva all’idea di essere stato un Mangiamorte, o di aver cercato di uccidere qualcuno, o di aver avuto una paura fottuta per chissà quanto tempo.
        Se lo ripeté mentalmente qualche volta, finché non poté dirsi più o meno tranquillo. Poi, facendo violenza su se stesso ed entrando praticamente in apnea, tornò allo scompartimento.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

Salve! ~ Sono qui per condividere una storia con voi. Sarà un racconto semplice e senza pretese, che cercherò farcire con quanti più feels possibile ed eventuali spolverate di fluff - perchè è di questo che ho bisogno di scrivere. Se vorrete seguirmi in questo viaggio, mi farà immensamente piacere.

Comunicazioni di servizio e avvertenze (?):
- la storia che voglio raccontare è slow build; cioè, per dirla in modo chiaro, la coppia protagonista (Draco/Harry) non si formerà nel giro di "due" capitoli; potete facilmente immaginare perchè. Lettore avvisato, mezzo salvato: ci vorrà tempo - a me piace pensare che in ogni caso valga la pena aspettare.
- mi impegnerò per aggiornare ogni settimana; in particolare, ogni giovedì
- appuntino sulla citazione in francese: è tratta da una dolcissima canzoncina che potete trovare qui [il link porta a Youtube]. Se volete darmi una mano con la traduzione, fatevi pure avanti. Non mi fido molto di Google e i miei rudimenti di francese sono... beh, rudimenti.

Grazie per aver letto fin qui. Se vi va, fatemi sapere che ne pensate.

T. ♪
 
Campagna di Promozione Sociale - Messaggio No Profit:
Dona l’8‰ del tuo tempo alla causa pro recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio crede)

 

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Capitolo 2
*** 1. Dettagli (non) trascurabili ***



1.
 
Dettagli non trascurabili
 
 


 
        Rimettere piede ad Hogwarts trasmise ad Harry emozioni contrastanti.
        Era onestamente felice di potersi considerare nuovamente un semplice studente, di essere in qualche modo tornato “a casa”, e ovviamente di poter condividere quei momenti con Ron, Hermione, Ginny e altri amici ritrovati. Tuttavia, un peso gli si annidò nel petto non appena vide la scuola in lontananza. Gli tornarono alla mente squarci di ricordi della battaglia e, poi, una volta che furono dentro, guardando quei corridoi e quelle scale e quelle stanze, fu colto da una profonda malinconia.
        Esattamente come al binario 9¾, c’era qualcosa di diverso. Qualche dettaglio, forse; oppure un generico nonsoché a cui non era in grado di dare un nome preciso. Ma forse, pensò, se lo stava solo immaginando, ed era tutto dovuto alle ferite della guerra che non si erano ancora ben rimarginate.
        Comunque, immaginaria o meno, quella sensazione non fece che acuirsi nel tempo. E nulla la fece diventare fastidiosa quanto l’episodio che avvenne a pochi passi dalla porta della Sala Grande.
        Gli studenti, chiacchierando rumorosamente tra loro, si riversavano nella Sala a velocità sostenuta, così da poter prendere presto posto ai tavoli per assistere allo Smistamento.
        «Non vedo l’ora che inizi il banchetto. Ho proprio fame», borbottò Ron, lamentoso, mentre lui, Harry e Hermione avanzavano nel corridoio.
        «Anche io!» si unì al coro Potter.
        Hermione, vagamente divertita, alzò scherzosamente gli occhi al cielo. «In effetti, non è che abbiate mangiato dolciumi fino a poco fa. Come potrete sopravvivere all’estenuante attesa?»
        Harry avrebbe riso in risposta all’amica, se solo poco più in là, davanti a loro, non fossero comparsi i membri di una certa cricca di Serpeverde: Pansy Parkinson, Millicent Bulstrode e Gregory Goyle, guidati da Draco Malfoy, stavano infatti lanciando loro occhiate inquisitorie, come volessero studiarli. In pochi istanti, sui volti dei Grifondoro svanì ogni traccia di sorriso.
        Entrambi i gruppi, senza apparente motivo, si arrestarono nel corridoio, intralciando il passaggio di chi sopraggiungeva diretto alla porta della Sala Grande. Tra loro, una distanza cuscinetto di qualche metro.
        Potter si mise inconsciamente sulla difensiva, aspettando che arrivasse la battutina o, alternativamente, l’insulto che di sicuro Malfoy stava per proferire. Ma dovette ricredersi, perché il Serpeverde, sebbene lo stesse chiaramente fissando con una strana scintilla negli occhi, non parve intenzionato ad aprir bocca.
        Quella situazione di stallo si protrasse per quindici, forse venti secondi, dopodiché, quasi con noncuranza, Malfoy interruppe il contatto visivo con Harry e fece un cenno elegante con una mano – non si capì bene se diretto ai Grifondoro, o ai Serpeverde. In ogni caso, riprese a camminare ed entrò in Sala Grande. Senza esitazioni, Bulstrode e Goyle lo seguirono; Parkinson, invece, tentennò: per un attimo parve intenzionata a dire qualcosa, ma si trattenne e si accodò ai compagni.
        Spronati dall’arrivo di altri studenti alle loro spalle, anche i Grifondoro avanzarono.
        «Ci ha graziati tenendo la bocca chiusa. Che gentile», commentò Ron, pungente.
        Harry non poté trattenersi dallo scoccare qualche occhiata verso il tavolo di Serpeverde, a cui Malfoy e i suoi si stavano accomodando proprio in quel momento. «A me è sembrato strano», fece, cercando di tenere a bada il senso di pesantezza sul petto.
        «Magari questo è il suo modo di ringraziare. Sai, per il fatto che gli hai più o meno salvato il fondoschiena ai processi», sbottò ancora l’altro.
        «O magari è solo cresciuto», buttò lì Hermione, che si era presa una manciata di secondi per riflettere.
        Presero posto al tavolo di Grifondoro, mentre Ron alzava le spalle. «Secondo me la teoria del ringraziamento è più credibile».
        Potter sorrise. Avrebbe aggiunto qualcosa a riguardo, ma proprio in quel momento sopraggiunse Ginny, che era arrivata in Sala Grande con i propri coetanei. Si distrasse per salutarla e per farle posto, così che potesse sederglisi accanto, e la conversazione venne dirottata verso altri argomenti.
        «Avete visto il nuovo insegnante di Difesa?» chiese subito la ragazza, spostando lo sguardo verso il tavolo degli insegnanti. Ricordatisi improvvisamente della questione, gli altri fecero altrettanto, individuando piuttosto in fretta il professore a cui era stata affidata la cattedra vacante.
        Si trattava di un uomo, a occhio e croce sulla quarantina, con i capelli scuri ordinatamente pettinati all’indietro. Gli occhi, scuri anch’essi, erano sormontati da sopracciglia folte e inarcate in un cipiglio serio. Stava scambiando qualche parola con Lumacorno e, mentre il collega parlava, probabilmente rispondendo alle sue domande, lui si guardava attorno studiando l’ambiente.
        «Non mi sembra un simpaticone» fu il commento a caldo di Ron.
        «No, infatti», concordò Harry.
        Hermione non si fece impressionare. «Non deve essere per forza simpatico, basta che sia un buon insegnante».
        «Un buon insegnante senza segrete vene omicide o sadiche», la corresse Weasley. In fondo, date le passate esperienze, aveva il diritto di essere sospettoso.
        Ginny ridacchiò. «Non mi sembra un tipo losco».
        «A me un po’ sì», borbottò Potter.
        Alcune speculazioni più tardi, la professoressa e preside McGranitt prese parola, invitando gli studenti a fare silenzio. Dopo un breve discorso introduttivo, procedette a dare il benvenuto al nuovo membro del corpo docenti, invitando con un gesto l’uomo ad alzarsi in piedi.
        «Trovare un degno candidato non è stato semplice», ammise, «ma posso finalmente annunciare che ad Hogwarts è presente un nuovo professore di Difesa contro le Arti Oscure». Sospirando impercettibilmente, fece una pausa scenica. «Vivian Holmwood».
        L’uomo, con un sorrisino di circostanza sulle labbra secche, abbassò lievemente il capo. «Spero che questo possa essere un buon anno», disse, più a se stesso che agli altri.
        La professoressa McGranitt, che si era voltata il necessario per rivolgergli lo sguardo, ribatté con lo stesso tono: «Lo speriamo tutti». Poi, tornando a volgere l’attenzione agli alunni, riprese a parlare per introdurre la cerimonia dello Smistamento.
        Intanto, sottovoce, qualche studente azzardava commenti sull’insegnante che era appena stato presentato. Al tavolo di Grifondoro, Hermione sussurrò: «Non l’ho mai sentito nominare».
        Harry corrugò la fronte. «Neanche io. Il cognome non mi è nuovo, o almeno credo, ma non riesco a ricordare dove potrei averlo già sentito».
        «Magari l’hai letto da qualche parte», mormorò Ginny.
        Mentre Potter ponderava quella possibilità, Ron, che da un po’ aveva messo su un’espressione alquanto perplessa, fece: «Ma Vivian non è un nome da donna?»
        Sulle note di quella domanda retorica tutto sommato superflua, la cerimonia dello Smistamento ebbe finalmente inizio. I nomi iniziarono ad essere sciorinati e i ragazzini del primo anno, a volte intimoriti a volte impazienti, si sottoposero uno alla volta al giudizio del Cappello.
        Gli alunni più grandi, come di consueto, esplosero in applausi e festeggiamenti ad ogni sentenza pronunciata. Harry e gli altri si divertirono: erano fieri del buon numero di ragazzi e ragazze che quell’anno vennero smistati nella loro Casa.
        Solo due volte Potter si distrasse dai mormorii contenti degli amici. La prima fu in occasione dello smistamento di una ragazzina il cui volto gli parve familiare – presto si ricordò che era quella che gli era finita addosso sull’Espresso. Sorrise tra sé e sé e fu felice per lei quando venne assegnata a Corvonero e la vide praticamente saltare di gioia.
        La seconda occasione, al contrario della prima, gli lasciò quasi l’amaro in bocca. Un ragazzino era appena stato smistato a Serpeverde e, tutto impettito, si affrettava a raggiungere il proprio tavolo; ma non fu lui a distrarre Harry. Non direttamente, almeno. Potter seguì infatti l’undicenne con lo sguardo, ma solo per un po’, perché poi la sua attenzione fu catturata dalla figura di Malfoy – forse a causa del siparietto di poco prima, che l’aveva turbato più di quanto non avesse dato a vedere.
        Lo colpì molto che il Serpeverde non stesse esultando per il nuovo acquisto della sua Casa: lo facevano tutti, tranne lui. Non che restasse immobile, o che fosse impassibile – a Harry parve di scorgere quel suo sogghigno strafottente, e lo vide applaudire –, solo non sembrava… convinto. Né tantomeno convincente. Era sottotono, ecco. Gli fece uno strano effetto vederlo così.
        Comunque, non diede troppa importanza alla cosa e non lo osservò neanche tanto a lungo, perché il ragazzino successivo fu smistato a Grifondoro e ciò lo fece tornare a concentrarsi sui festeggiamenti e sul battere le mani sorridendo.
 
 
* * *
 
 
        Il primo giorno di lezioni non iniziò per tutti al meglio, nella Torre di Grifondoro.
        Per qualche ragione, Harry non aveva dormito bene, e questo lo portò a ignorare la sveglia. Si alzò quindi in ritardo, rimproverando i compagni di stanza, assonnati quanto lui, di non averlo chiamato facendogli presente che ore fossero. Comunque, si ritrovò a fare tutto di corsa per non perdersi la colazione.
        Una volta pronto, scese frettolosamente le scale del dormitorio; fece il suo ingresso in Sala Comune tutto spettinato, cercando con gli occhi Ron, che l’aveva preceduto promettendogli di aspettarlo. Lo rintracciò seduto su un divanetto insieme con Hermione, e la scena a cui assistette ebbe il potere di fargli dimenticare l’agitazione per il ritardo.
        Non si avvicinò subito, osservandoli brevemente da lontano.
        «Dovresti mettere la cravatta con un po’ più di cura», stava mormorando Hermione.
        «Se la mettessi con più cura, non potresti farmi notare che l’ho messa male», ribatté Ron, con le guance macchiate da un lieve rossore.
        Lei gli sistemò la cravatta con un gesto veloce. «Ti piace quando lo faccio?»
        Non rispose: si limitò a dedicarle un sorriso, più rosso di prima.
        Anche Hermione sorrise, e a Harry parve uno dei sorrisi più belli che l’amica avesse mai fatto – sapeva che non ne avrebbe mai rivolto uno simile a lui, e andava bene così, perché quello era uno dei trattamenti speciali che riservava a Ron.
        Era davvero molto contento per loro. Senza smettere di guardarli inarcò le labbra all’insù, ma solo un pochino, perché un alone di tristezza lo colse all’improvviso: per un secondo, si sentì escluso.
        Non era assolutamente colpa di Hermione o di Ron. Loro stavano solo vivendo la loro vita e, per altro, erano davvero dei buoni amici – non gli sbattevano in faccia la loro relazione ogni due per tre, né lo tagliavano fuori dalle conversazioni o lo lasciavano da solo per appartarsi. Harry era loro grato per questo. Tuttavia, sapeva che c’erano delle cose che non avrebbero condiviso con lui – non che volesse tutti i dettagli, s’intende. Ma si trattava pur sempre dei suoi migliori amici; avevano condiviso tutto per tanto tempo, e il fatto che non sarebbe stato più così lo demoralizzava un po’. Ogni volta che succedeva, però, si riprendeva molto in fretta: e così accadde anche quella mattina.
        Sul suo viso fiorì un sorriso sincero, mentre avanzava verso Ron ed Hermione. Non avrebbe mai detto loro delle stupidaggini che di tanto in tanto gli passavano per la testa: non voleva rischiare di farli sentire in colpa per sciocchezze simili; non ce n’era alcuna necessità. In fondo, anche lui aveva qualcosa di speciale, qualcosa che non avrebbe condiviso con gli altri – Ginny.
        Già, Ginny. …Dov’era Ginny? Forse era già scesa.
        «Buongiorno, Harry», lo salutò Hermione, scoccandogli un’occhiata divertita. «Bei capelli».
        Potter si passò una mano tra i nodi, «Sì, beh, oggi non ci ho neanche provato, a metterli a posto».
        «Andiamo?» propose Ron.
        «Certo. Colazione», assentì l’altro, affamato, mentre i due si alzavano. «Ginny?»
        «Ci aspetta in Sala Grande. È scesa prima con una sua amica», lo informò Weasley.
        «Oh. Okay».
 
 
        Sulla prima pagina della Gazzetta del Profeta, quella mattina troneggiava un articolo dedicato ai processi di alcuni presunti collaboratori di secondaria importanza del Signore Oscuro.
        Seduto al tavolo di Serpeverde ed impegnato a sgranocchiare del toast, Draco Malfoy si domandò quando tutto quel dannato polverone di udienze si sarebbe finalmente placato. Scorse il trafiletto senza prestare troppa attenzione, almeno fin quando non arrivò agli ultimi righi: su quelli, infatti, tenne a lungo gli occhi puntati, leggendo e rileggendo i nomi lì riportati delle figure di spicco che erano già state processate. Compariva anche il nome dei Malfoy e, tra parentesi, erano specificati quello di suo padre, con annesso un accenno alla sentenza di condanna, e il suo.
        Il suo umore, già abbastanza pessimo di partenza, divenne definitivamente nero. Si liberò della Gazzetta con un gesto seccato, cercando un po’ di sfogo in un lungo sospiro. Nessuno chiese spiegazioni: tutti parvero capire. Anche perché non era l’unico ad essere citato nell’articolo.
        Cercò di distrarsi con una conversazione improvvisata, che però non sortì l’effetto sperato.
        Agli altri tavoli, l’atmosfera era più rilassata: il brano sulla Gazzetta non aveva suscitato crisi di sorta. Tuttavia, parecchi furono coloro che, una volta letto il cognome di qualche compagno sul giornale, lanciarono sguardi curiosi e, in certi casi, anche giudicanti verso i Serpeverde.
        Anche Harry lo fece. In particolare, guardò Malfoy. Solo per curiosità, solo per qualche istante. Lo vide parlottare imbronciato, e aggrottò appena la fronte, perché non sapeva bene come la cosa avrebbe dovuto farlo sentire. Nel dubbio, decise di non sentirsi in alcuna maniera.
 
 
        Quel giorno, le lezioni aiutarono Potter a lasciarsi alle spalle il peso che si portava appresso da quando era rientrato ad Hogwarts. Il susseguirsi delle materie, le spiegazioni degli insegnanti, gli spazi conosciuti delle classi – tutto ciò lo convinse che, dopotutto, quella era ancora la sua scuola, e che non c’era niente di così diverso dal solito. La cosa lo mise quasi di buon umore.
        Sia a lui, sia agli altri sarebbe piaciuto assistere ad una delle lezioni del nuovo insegnante, ma purtroppo non era nel loro orario: Difesa contro le Arti Oscure figurava per la prima volta solo il pomeriggio del giorno successivo.
        Ascoltarono distrattamente l’opinione di chi, appartenendo ad altre Case o ad un anno diverso dal loro, aveva già avuto a che fare col il professor Holmwood. Tutti pareri discordanti; qualcuno aveva preso l’insegnante in simpatia, mentre altri ne parlarono male. Era difficile farsi un’idea. Comunque, quando finalmente giunse il momento di entrare nella sua aula, erano convinti di essere preparati a qualsiasi scenario.
        I Grifondoro e i Corvonero, che avrebbero condiviso quella lezione, presero posto pian piano, mentre il professore scartabellava tra diverse pergamene. Quando sollevò lo sguardo, scandagliò i visi degli alunni con fare serio.
        «Bene, ci siete tutti» furono le sue prime parole, ridotte quasi ad un sussurro apatico. Senza aggiungere altro, con un deciso colpo di bacchetta chiuse la porta dell’aula.
        Harry non seppe bene cosa pensare di quell’inizio, e lanciò uno sguardo d’intesa a Ron che, in tutta risposta, fece spallucce.
        Per qualche lungo momento, nell’aula ronzò un pesante silenzio. Poi, serissimo, l’insegnante ricominciò a parlare – parlò piano, posato; non sottovoce, ma quanto bastava perché gli tutti studenti fossero costretti a non emettere fiato per ascoltarlo.
        «Forse non lo sapete ancora, ma mi piace pensare di essere un esperto di Incantesimi Nonverbali. Siete dell’ultimo anno, perciò sono certo che sappiate già cosa sono, e quali sono i vantaggi e gli svantaggi che comportano. Dovreste anche già saperne lanciare diversi. Qualcuno vuole darmi una piccola dimostrazione?»
        Prima Hermione e poi Padma Patil alzarono una mano.
        Holmwood si riferì alla prima: «Granger, giusto?» e quando la ragazza annuì, aggiunse: «Un incantesimo semplice andrà bene».
        «D’accordo». Con nonchalance, Hermione puntò la bacchetta verso il libro che aveva di fronte e lo fece levitare per qualche secondo.
        «Buona esecuzione», si complimentò l’insegnante, accennando un minuscolo sorriso prima di spostare lo sguardo sulla Corvonero che si era fatta avanti. «Patil. Padma Patil», fece, come a volerla ben distinguere dalla gemella. «Stesse istruzioni: ci mostri un incantesimo semplice».
        Mentre Padma lacerava un foglio di pergamena, Harry si disse che il modo del professore di pronunciare i nomi era proprio particolare. Era quasi come se cercasse di imprimerseli a fuoco nella memoria. E, in effetti, forse era davvero così.
        «Molto bene», ricominciò a dire Holmwood. «Quelli che avete visto e che sapete eseguire sono perlopiù incanti nonverbali di base. Durante l’anno, vi insegnerò ad utilizzare quelli avanzati». Pronunciando quell’ultima frase, sembrò quasi giocare con la bacchetta tra le dita – una bacchetta di legno di tasso. «Per oggi, comunque, ci concentreremo su qualcosa di semplice: la variante nonverbale dell’incantesimo di disarmo. È estremamente utile». Ad ogni sua pausa, il silenzio degli alunni si faceva, per quanto possibile, sempre più assoluto: quel suo sguardo serio, combinato alla pacatezza nel porsi, metteva vagamente in soggezione.
        Invitò i ragazzi ad alzarsi, allontanando i banchi per far sì che non fossero d’impiccio. Dopodiché, con un colpo di bacchetta, richiamò davanti agli studenti un fantoccio – un manichino incantato di legno e stoffa. Aveva occhi e bocca disegnati con uno spesso tratto nero e brandiva una finta arma.
        «Gli incantesimi nonverbali possono essere oltremodo pericolosi, e vorrei sincerarmi delle vostre capacità», fece.
        Diede loro una dimostrazione poi, a turno, li invitò a mettersi alla prova con il fantoccio. Osservò con attenzione ogni studente, dispensando indicazioni e consigli sulla postura, sul livello di concentrazione da mantenere, eccetera.
        Nessuno, a suo dire, ottenne risultati perfetti, soprattutto non al primo tentativo; tuttavia non si dimostrò affatto deluso, anzi, concluse le prove, si definì persino soddisfatto.
        Successivamente, li fece riaccomodare ai banchi e si prodigò in un’introduzione all’argomento delle Sette Oscure.
        Terminata la spiegazione, assegnò loro il compito di approfondire il tema con una ricerca. «Oh, un’altra cosa», aggiunse infine, «documentatevi anche sul cosiddetto maleficio di Finnstock – e niente paura, non è un vero e proprio maleficio. Sono certo che emergerà una discussione interessante». E dopo aver detto ciò, dichiarò la lezione terminata.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

Eccoci qui. :) Dunque - un nuovo professore. Considerato che quello di Difesa cambia sempre, mi sono detta: "perchè no?", però in tutta onestà ho paura di non saperlo gestire molto bene. Mi impegnerò al massimo per renderlo credibile, ma mi scuso in anticipo per i possibili strafalcioni. (E no, Vivian non è un nome da donna. Cioè, sì, lo è, ma è anche da uomo. Giuro.)
Tra Harry e Draco è calma piatta, per ora. Ci saranno un sacco di giochi di sguardi per un po', ahah!

I titoli dei capitoli avranno tutti un doppio significato - li imposto in modo che dal punto di vista dei personaggi valga solo la parte in rosso, mentre da un punto di vista esterno valga anche la parte "sfocata", che per l'appunto i personaggi non riescono a cogliere. E' stupido? Non so, mi sembrava un'idea carina.

Ringrazio tanto chi ha deciso di darmi fiducia e di seguire la storia! c: Love you all! ♥ Spero che questo primo capitolo non vi abbia delusi. 

Per oggi è tutto! Un bacione,
T. ♪

 
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Capitolo 3
*** 2. (Dis)attente osservazioni ***


2.  
Disattente osservazioni
 
 

 
        Il tempo era trascorso placido, senza fare rumore.

        Le temperature erano scese, e il cielo aveva iniziato a tingersi di un monotono grigio sempre più spesso. La routine scolastica era stata perfettamente impostata. I pomeriggi di studio erano già diventati piuttosto lunghi ed estenuanti. Le squadre di Quidditch avevano riaperto i battenti.
        Il Quidditch! E le partite di scacchi la sera, le chiacchiere spensierate, i pasti prelibati. Qualche lezione interessante. I fastidiosi articoli sulla Gazzetta, che ogni tanto facevano arrabbiare. E i pomeriggi passati con Ginny; anche quelli. Se non fosse stato per tutto ciò, probabilmente Harry Potter sarebbe morto di noia. Questo perché ogni cosa procedeva liscia, senza particolari novità o scandali. E andava bene, per carità – un po’ di stabilità e di sicurezza ci volevano, dopo tutto ciò che era successo. Però, ecco, se proprio doveva ammetterlo… si sentiva privo di stimoli.
        Non l’aveva detto a nessuno perché, aveva pensato, confessarlo sarebbe stato inappropriato. Qualcuno avrebbe potuto credere che il suo desiderio fosse di avere un’altra battaglia da combattere, o qualcosa di simile – e ovviamente non era così, non voleva altre battaglie.
        In realtà, neanche lui sapeva cosa voleva. Di sicuro, non quella ripetitiva piattezza. Non che potesse fare granché a riguardo, purtroppo.
        C’era tuttavia una certa cosa che avrebbe potuto fare al caso suo. In quegli ultimi tempi e senza mai preoccuparsene sul serio, ne aveva più volte notata l’assenza. Un’assenza fastidiosa che, dopo i fatti di una mattina di fine Settembre, non poté più ignorare.
 
 

        Insieme a Ron e a Hermione, era appena arrivato all’aula di Pozioni. Una volta che ebbero preso posto, iniziò ad organizzare il necessario per la lezione, a partire dal libro e dal calderone.
        Aveva sistemato quasi tutto quando accadde.
        «Oh, Merlino – mi è caduto! Hai visto dove è rotolato?» mormorò una voce mezza preoccupata.
        Sovrappensiero, Potter non fece caso a quelle parole. Sentendo però uno strano rumorino alle proprie spalle, fece un mezzo passo per voltarsi e controllare. Praticamente dal nulla, rovinò a terra sulle note di un’esclamazione sorpresa – cercò di salvarsi aggrappandosi al banco, ma ciò servì solo a far scivolare a terra anche il libro e un paio di pergamene svolazzanti.
        «Miseriaccia, Harry! Tutto okay?» domandò Ron, perplesso.
        «Sto bene», lo rassicurò, per poi accertarsi di essere effettivamente tutto intero. Rimase per un istante seduto sul pavimento, cercando di capire cosa fosse successo; il suo primo pensiero fu un Flipendo lanciato a tradimento.
        Un altro mormorio giunse da poco più in là: «Credo di aver capito dov’è rotolato».
        Quella voce venne però coperta da tutta una serie di sghignazzi e, mentre accettava la mano di Ron per alzarsi in piedi, Harry si guardò attorno per scoprire l’identità di chi stava ridendo a sue spese. Non che non l’avesse intuìto; infatti, non fu affatto sorpreso di vedere che si trattava di un gruppo di Serpeverde – con i quali avrebbero condiviso la lezione – appena entrato in aula.
        Tra loro, anche Draco Malfoy, che lo scrutava con una mezza smorfia divertita sulle labbra. Sospirando lievemente tra sé e sé, Potter si mise in attesa di un commento acido da parte sua.
        Nel frattempo, si rimise in piedi; ma solo per sentirsi nuovamente cadere. Per sua fortuna, quella volta la presa di Ron e l’ancorarsi al banco lo salvarono.
        Da parte di Malfoy, ancora solo silenzio. Harry alzò quindi lo sguardo su di lui, come a cercare spiegazioni, e si fissarono brevemente; sapeva che aveva una frecciatina in serbo, non aveva alcun dubbio a riguardo. Ma perché non si decideva a dirla, allora? La sensazione di perplessità che provò gli parve fin troppo familiare – già troppe volte si erano trovati in quella situazione, a partire da quando si erano incontrati prima dello Smistamento.
        Vide di sfuggita Hermione avvicinarsi, e Ron gli chiese: «Che ti prende?», ma quasi non se ne curò, perché nelle sue orecchie rimbombava il dannato silenzio del Serpeverde.
        Non è difficile fare una battutina, pensò. Conosceva talmente bene il suo repertorio che riuscì persino ad immaginarsi ciò che – era pronto a scommettere – gli stava passando per la testa: “Aggraziato come al solito, Potty!”
        Ci restò di sasso quando Malfoy, con la bocca ostinatamente cucita, prese a camminare verso il proprio posto come nulla fosse.
        Si riscosse tornando a prestare attenzione agli amici; notò che si erano avvicinati anche Dean e Seamus, e che Neville lo guardava con un pizzico di apprensione. In più, Lumacorno lanciava strane occhiate dalla sua parte, ma non sembrava troppo interessato – probabilmente perché, per fortuna, nessuno si era fatto veramente male.
        «Scusami, Harry», fece Finnigan, chinandosi per raccogliere qualcosa accanto ad una scarpa di Potter; ne approfittò per recuperare anche il libro e le pergamene sparse a terra, che poi restituì. «È stato un incidente, mi era caduto questo». Mostrò loro un piccolo sassolino blu, apparentemente innocuo.
        Ron, che era abituato a ritrovarsi attorno oggetti simili, parve riconoscerlo. «Un inciampafacile?»
        «Esattamente».
        «E io che mi ero preoccupata», soffiò Hermione, sollevata, per poi tornare alla propria postazione.
        Harry si azzardò a lasciare andare il banco, ritrovando il proprio equilibrio. «Tutto a posto, non mi sono fatto niente».
        «Meno male». Senza esitazioni, Seamus ripose l’oggetto in una scatolina e lo intascò; se avesse notato che Potter lo stava fissando incuriosito, forse gli avrebbe dato qualche spiegazione in più. «Mi dispiace che abbiano riso di te».
        Accennando un sorriso, Harry rispose con un’alzata di spalle perché capisse che non gli importava più di tanto. Non fece domande sull’inciampafacile; avrebbe chiesto a Ron in un altro momento.
        Proprio Weasley emise uno sbuffo lamentoso, mentre Seamus e Dean tornavano da dove erano venuti. «Sempre molto simpatici, i Serpeverde», commentò.
        «Già». A Harry tornò alla mente Draco il muto Malfoy. «A proposito, hai notato che Malfoy è stato zitto?» chiese di getto, non sapendo ancora cosa pensare dell’accaduto.
        «Sì. Ci sta andando bene: non ci ha ancora rivolto la parola».
        Potter ne era consapevole, eppure si sentì come se fosse stato messo davanti ad una scandalizzante verità sconosciuta. D’istinto, lanciò un’occhiata veloce al Serpeverde.
        «Non siamo più degni, evidentemente! Non che la cosa mi dispiaccia. Anzi, è molto meglio così», continuò l’altro, quasi disgustato. «Poi, sai, ho sentito una voce macabra su di lui… me ne ha parlato Dean l’altro giorno».
        «Quale voce?»
        Ma proprio in quel momento, Lumacorno richiamò l’attenzione generale per dare inizio alla lezione.
        «Ne parliamo dopo», asserì Potter, che essendo interessato all’argomento – forse anche più del dovuto – non volle relegarlo ad una serie di bisbigli.
        Fu una lezione lunga, persino più del solito; o almeno così parve a Harry. Ma la sua percezione del tempo poteva essere tranquillamente considerata difettosa – desiderava fin troppo ardentemente potersene andare per essere obiettivo, o concentrato, per quel che poteva valere.
        Era giusto un pizzico infastidito dal fatto che Malfoy sembrava considerarlo non più degno. Era un bisbetico, snob, viziato figlio di papà, perciò come si permetteva di togliergli il saluto? Non che lo volesse, sia chiaro.
        Beh, d’accordo, magari lo voleva. Ma per pura formalità; giusto per non sentirsi trattato alla stregua di un muro trasparente.
        Era buffo, a ben pensarci. Avrebbe fatto l’impossibile per poter essere trasparente agli occhi del mondo, ma proprio quando veniva considerato tale la cosa gli scocciava. Avvertì il controsenso, e tutto ciò che riuscì a dirsi a riguardo fu: trasparente sì, ma non per tutti.
        A quanto pareva, Malfoy faceva inaspettatamente parte della ristretta cerchia di eletti per cui voleva essere ben visibile. Chissà che avrebbe detto, se lo fosse venuto a sapere. Probabilmente, il suo ego sarebbe cresciuto di due misure – ed era già piuttosto ingombrante, perciò Harry preferì non immaginare lo scenario.
 
 

        Quando finalmente finì la lezione, Potter aspettò di uscire dall’aula e, poi, anche di abbandonare i sotterranei, prima di tirare in ballo l’argomento di cui Ron gli aveva accennato; una voce macabra su Malfoy, aveva detto. Era curioso.
        «Cosa mi stavi dicendo prima?» buttò lì, mentre camminavano spediti diretti alle serre di Erbologia.
        «Prima quando?»
        «Prima di Pozioni. Mi hai detto che Dean ti ha riferito una cosa».
        «Ah, sì. Su Malfoy».
        A sentir nominare il Serpeverde, anche Hermione si fece curiosa. «Malfoy?» Era sorpresa, più che altro perché non aveva prestato molta attenzione al ragazzo da quando erano tornati ad Hogwarts. Apprezzava il fatto che non li stesse più infastidendo, comunque; si sentiva anche dispiaciuta per lui a causa delle vicende della guerra e dei processi. Immaginava che la sua situazione non fosse stata facile.
        Ron annuì. «Sì. È una cosa un po’ strana. Dicono che si taglia».
        «Cosa?» cadde dalle nuvole Harry, del tutto impreparato per una notizia del genere.
        Hermione, stupefatta a sua volta, aggrottò la fronte. «Autolesionismo? Lui?» Non sapeva che pensare. «Ma chi lo dice?»
        Weasley fece spallucce. «Non so chi ha messo in giro la voce».
        Potter s’incupì. «Perché Dean l’ha detto solo a te? Insomma, poteva dirlo anche a noi». E Ron avrebbe potuto informarli prima, in effetti, ma preferì non sottolinearlo; in fondo, non era una questione che li riguardava da vicino.
        «Magari non c’è stata l’occasione. Non è che sia venuto da me a dire “ehi, ora ti racconto un pettegolezzo su Malfoy!” o cose simili», mise ben in chiaro. «Stavamo parlando di Quidditch. Nello spogliatoio, dopo gli allenamenti. Tu eri sotto la doccia, credo. Ha fatto un commento sul fatto che è convinto che possiamo stravincere tutte le partite; poi ha detto che i Serpeverde quest’anno hanno una squadra terribile».
        Ascoltando il racconto dell’amico, Harry si ritrovò ad annuire col capo – sapeva bene anche lui che, in quanto a Quidditch, i verde-argento non avrebbero dato loro troppe grane; imbrogli a parte, s’intende. In pochi avevano richiesto di entrare nella loro squadra; in pratica avevano preso tutti quelli che si erano presentati alle selezioni perché altrimenti non avrebbero avuto abbastanza giocatori.
        «Una squadra terribile con un cercatore incompetente che salta gli allenamenti», continuò Ron. «E poi mi ha raccontato quella storia su Malfoy che, comunque, non so quanto possa essere vera».
        «Spero per lui che non lo sia», mormorò Hermione, pacata.
        Potter tacque. Possibile che i tagli fossero il motivo per cui il Serpeverde si comportava in modo così anomalo? Stentava a crederci: non gli pareva proprio il tipo. Anche se, in effetti, non poteva dire di conoscerlo davvero.
 
 

        Quella sera, mentre erano in Sala Comune, l’istinto lo spinse a chiedere a Dean come era venuto a sapere l’indiscrezione riportatagli da Ron, ma purtroppo il ragazzo non seppe dargli indicazioni precise. Si limitò infatti a borbottare: «È solo una voce che ho sentito in giro».
        «Sei preoccupato?» Hermione pose quella domanda con leggerezza non appena Potter si riavvicinò a lei. «Per Malfoy, intendo. Ho sentito quello che hai chiesto a Dean, e… hai una strana espressione».
        Ron, seduto sul divanetto accanto alla ragazza, inarcò un sopracciglio. «Cosa hai chiesto a Dean?»
        «Informazioni. Su quella storia degli tagli». Rispose velocemente e a bassa voce, come se non volesse farsi sentire, e poi si sedette vicino ai due, tenendo la schiena curvata verso le ginocchia.
        «Sei preoccupato?» ribadì Hermione.
        Harry esitò prima di replicare. «Sì e no. Non sono propriamente preoccupato, ma, ecco― se fosse vero? Non dovremmo fare qualcosa?»
        «Tipo cosa?» domandò Weasley.
        «Non lo so. Aiutarlo?» Forse era il complesso dell’eroe a parlare.
        Hermione rifletté qualche istante. «Se anche la voce fosse vera, Harry, non ci sarebbero molte cose che potremmo fare. Non sarebbe compito nostro. E, in ogni caso, se vuoi la mia opinione, si tratta solo di una bufala».
        «Anche io la penso così. E comunque il nostro aiuto sarebbe l’ultima cosa che vorrebbe», puntualizzò Ron.
        Sospirò. «Avete ragione. Dovrei togliermelo dalla testa». Mentre gli amici approvavano la sua decisione, Ginny, intrattenutasi a parlare con un coetaneo fino a quel momento, si unì a loro. Tempismo perfetto, pensò Potter, lieto di avere da subito un’occasione per scacciare l’autolesionismo dalla propria mente.
 
 

        Peccato che non ci riuscì. Ovviamente poté godersi una piacevole distrazione mentre abbracciava Ginny e si raccontavano a vicenda qualche aneddoto, ma la suggestiva immagine di Malfoy che si tagliava non scomparve dai suoi pensieri né quella sera, né il giorno successivo, né quello dopo ancora: restò inchiodata dov’era, forte di un’inspiegabile tenacia.
        Finì quindi con il ritrovarsi ad osservare Draco. Non poté fare altrimenti: quasi se ne vergognava, ma una curiosità tutta particolare lo corrodeva. Lo tenne d’occhio durante le lezioni in comune, lanciò sguardi il più possibile discreti al tavolo di Serpeverde durante i pasti, e in più cercò di tenere le orecchie tese per non lasciarsi sfuggire i possibili pettegolezzi.
        Non fece parola di tutto ciò ad Hermione e Ron. Non voleva che si facessero strane idee.
        Sin dall’inizio, non gli risultò difficile capire che Draco Malfoy era ancora se stesso. Le sue espressioni tipiche non erano cambiate, così come erano rimasti immutati l’atteggiamento supponente e la voce un po’ strascicata – per quel poco che poté sentire. Avrebbe dovuto ammettere, però, che non sembrava più il ragazzo con cui era abituato ad avere a che fare: era più contenuto, meno plateale.
        Sembrava serio o pensieroso per la maggior parte del tempo, e di tanto in tanto sogghignava quando si rivolgeva scherzosamente agli altri Serpeverde; perché con loro parlava ancora. Cercò di prestare attenzione anche ai movimenti e ai gesti, che avrebbero potuto tradire qualche stato d’animo nascosto, ma non notò mai nulla fuori dall’ordinario. Tuttavia, non era certo di potersi fidare di quelle impressioni, perché sapeva quanto fosse bravo a recitare una parte.
 
 

        Dopo aver studiato per più di due settimane quell’esemplare di Malfoy selvatico, si rese conto con grande frustrazione di non aver concluso granché.
        Non l’aveva mai colto in atteggiamenti che dessero adito a dar credito alle voci di corridoio che lo riguardavano, eppure ancora non si sentiva in pace con se stesso. Forse perché, ormai, non era più la questione dei tagli il problema principale – a pensarci bene, lo era mai stato?
        Forse all’inizio, per un po’. Ma poi, squadrandolo giorno dopo giorno, la sua curiosità era stata dirottata verso una miriade di altri interrogativi, diventati ormai suoi personali tormenti. Ad esempio: perché non gli rivolgeva più la parola? C’era stata la guerra, certo, ed erano successi un sacco di casini, ma cos’era cambiato, di preciso?
        Nella sua mente c’era solo un gran caos annebbiato. Tutto ruotava attorno a quelle domande forse irrazionali che nessuna risposta, per quanto plausibile, riusciva a mettere a tacere.
        Stava pensando distrattamente proprio a quelle congetture quando, in una sera di metà Ottobre, mentre fuori pioveva e il camino nella Sala Comune di Grifondoro scoppiettava, Hermione richiamò la sua attenzione con dei colpetti su una spalla.
        Si voltò verso di lei, tornando coi piedi per terra. «Hm?»
        «Posso farti una domanda seria?»
        Harry, non sapendo se fosse o meno il caso di preoccuparsi, tentennò prima di bisbigliare: «Certo».
        «Si tratta di Ginny», anticipò.
        Stranito, aggrottò la fronte, lanciando un’occhiata ai fratelli Weasley, impegnati a giocare a scacchi; stavano entrambi sorridendo. «Dimmi pure».
        Hermione si teneva dentro quella domanda da un po’, aspettando il momento giusto per porla. «Tra voi va tutto bene?»
        Lui, non sapendo come reagire, rispose senza neanche pensarci: «Certo. Perché me lo chiedi?»
        «Così. Mi sembrava di aver notato qualcosa di strano; non passate molto tempo insieme, credevo aveste litigato». Sospirò, «Scusa, non dovrei mettere il naso in queste cose».
        «Non preoccuparti, non mi dà fastidio». S’impensierì: davvero da fuori sembrava che avessero litigato? «Secondo te passiamo poco tempo insieme?»
        «Non badare a quello che ho detto. L’importante è che stiate bene insieme».
        «Stiamo bene». Voleva convincerla, ma per qualche assurdo motivo finì con l’ottenere l’effetto totalmente opposto; cioè, lui stesso divenne meno sicuro a riguardo.
        Hermione sorrise. «Perfetto». Avrebbe dovuto fermarsi lì, ne era cosciente, ma la lingua le scivolò tra i denti e non poté trattenersi dall’aggiungere: «Avevo sempre pensato che da innamorato saresti stato diverso». Ascoltandosi, capì quanto quella frase suonasse brutta malgrado il suo pensiero fosse innocente.
        «In che senso?»
        Si sentì incastrata; desiderò di potersi rimangiare tutto, ma allo stesso tempo voleva rispondere per rendere chiare le proprie buone intenzioni. «Ti immaginavo più… preso? Con più trasporto? Non lo so». Sbuffò e fece un cenno che voleva dire: lascia perdere. «Dimentica tutto, per favore – sembra che stia dicendo cose poco carine e giuro che non è ciò che voglio. Insomma, non devi misurare le tue azioni in base alle mie aspettative».
        Harry rimase per un po’ in silenzio, processando le parole dell’amica. Più trasporto? Non ne aveva abbastanza nei confronti di Ginny? Eppure la abbracciava, la baciava, e la ascoltava sempre.
        «Io credo di averlo, il trasporto», fece ad un tratto.
        «Non ne dubito. Dico davvero. Devi scusarmi, non avrei dovuto fare quel commento». Hermione si assicurò che accettasse le sue scuse, poi, ribadendo quanto fosse felice che con Ginny tutto filasse liscio, cambiò saggiamente argomento.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

Salve! c: Dunque, qualche veloce appunto. 
Autolesionismo: quasi non riesco a credere d'averlo inserito (anche se solo di sfuggita). Un po' me ne pento. Hm, comunque - il mio intento non è quello di scrivere un racconto cupo e macabro, giuro; sottolineo dunque che quelle su Malfoy che si taglia sono voci e nulla più. Avranno uno scopo, però (ovviamente).
Per il resto - la storia procede con relativa lentezza anche in questo capitolo, visto che è più che altro di passaggio, ma prometto che dal prossimo inizieranno a succedere cose, belle o brutte a seconda dei punti di vista. (Non credo esista informazione più generica di questa, ahah!)


Vi ringrazio per aver letto sin qua! Love you all! ♥
A risentirci la settimana prossima! Baci,
T. ♪

 
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Capitolo 4
*** 3. I primi passi (falsi) sulla via ***


3.

I primi passi falsi sulla via
 


 
        «Ginny?»

        «Hm?»
        «Secondo te io ho poco trasporto
        Assillato dal commento che aveva fatto Hermione pochi giorni prima, Harry non poté trattenersi dal porre quella domanda, anche se era consapevole che probabilmente avrebbe rovinato l’atmosfera sentimentale creatasi tra lui e Ginny in quel loro giovedì pomeriggio.
        Lei, di primo acchito, non seppe come replicare: era un po’ confusa. Si rigirò appena nel suo abbraccio – erano comodamente accoccolati su un divanetto in Sala Comune – per poterlo guardare negli occhi. «Trasporto per cosa, Harry?»
        «Nella nostra relazione. Per te; per noi».
        Ginny rifletté un attimo, vagamente preoccupata. «Non sono io a dovertelo dire, dovresti saperlo da solo. Ma perché me lo chiedi? Qualcosa non va?»
        «No, no – è tutto a posto!»
        «Sicuro?»
        «Certo. È solo che― avevo avuto questo strano pensiero, e volevo parlarne con te». Non se la sentì di tirare in ballo Hermione; in fondo, anche se era stata lei a mettergli in testa quell’idea, lui stesso aveva lasciato che si trasformasse in un tormento. «Secondo te, cosa vuol dire avere trasporto?» Perché, a pensarci bene, ancora non gli era molto chiaro.
        Sulle note di un «Hm» pensieroso, Ginny si prese un attimo per cercare le parole giuste. «Credo che significhi sentirsi presi. In una maniera un po’ folle, forse – tipo avere i brividi da quanto si è contenti per una certa cosa. Anche prendersi volentieri cura di qualcuno, voler essere affettuosi. Starci bene insieme, a priori da tutto il resto. E sentire caldo alla pancia».
        Harry sorrise, stranito. «Caldo alla pancia?»
        «Sì», e rise, appena arrossita. «Quando qualcosa ti rende talmente felice che quasi non ci credi. È lì davanti a te, e c’è questo desiderio di tuffarsi per prenderla, per essere sempre così felice – è un desiderio caldo, che viene dalla pancia».
        Certo che aveva le idee chiare, lei.
        Potter esitò davanti al sorriso che Ginny gli rivolse: forse si aspettava che le desse ragione, che dicesse di aver provato tutte quelle sensazioni per lei. Ma non poteva farlo, perché sarebbe stata una mezza bugia; aveva provato e provava ancora delle emozioni molto belle in sua compagnia, ma non sarebbe mai stato capace di descriverle con il suo stesso ardore, e ciò lo impensierì.
        Non sapendo che pensare di quel silenzio, lei buttò lì, senza perdere il sorriso: «Capisci, vero? È fantastico sentire caldo alla pancia».
        «Sì, lo è davvero». Era una risposta banale, forse, ma per non farla aspettare troppo a lungo dovette arrangiarla con le prime parole che gli vennero in mente.
        Lei tornò ad accomodarsi nell’abbraccio in cui era stretta, posando la testa su una sua spalla e premendogli la fronte contro il collo. Chiuse gli occhi.
        Harry, angosciato più di prima, s’irrigidì. Io ho trasporto – si ripeteva senza sosta, incapace di capire per quale ragione non riuscisse a convincersene.
        In qualche modo, lei intuì il suo disagio. Tant’è che ad un tratto sussurrò, con voce tremante: «Non so cosa ti stia facendo preoccupare, Harry, ma devi stare tranquillo. Va tutto bene». Gli diede un bacio su una guancia, sperando di essergli di aiuto.
 
 

        Ginny Weasley era una ragazza piuttosto forte. C’erano poche cose che la spaventavano davvero, che non sarebbe riuscita ad affrontare o che erano in grado di toglierle il sonno. E quella notte non riuscì a dormire.
        Il trasporto le aveva infettato la mente.
 
 
* * *
 
 

        Ottobre stava già per finire.
        Per l’ultimo week-end prima di Halloween fu proposta un’uscita a Hogsmeade. Harry, Ginny, Hermione e Ron, una volta giunti al paese, passarono un po’ di tempo tutti insieme; fecero un salto a Mielandia e si fermarono a bere qualcosa ai Tre Manici di Scopa. Dopodiché, di comune accordo, si divisero in coppie.
        Harry e Ginny, imbacuccati in sciarpe e cappotti, una volta usciti dal pub passeggiarono per un po’ mano nella mano chiedendosi a vicenda quali regali di Natale avrebbero fatto quell’anno, e quali speravano di ricevere. L’atmosfera, infatti, era talmente invernale che ad entrambi venne spontaneo tirare in ballo la festività. Si chiesero anche quando sarebbe caduta la prima neve.
        «Ti va di andare alla sala da the?» propose ad un certo punto Potter, punto sul naso dal freddo.
        Lei sorrise. «Certo».
        S’incamminarono subito in direzione del locale, mentre Harry confessava: «Sai, ho chiesto a Ron di non portarci Hermione, così possiamo restare da soli. Anche se mi ha fatto promettere che alla prossima uscita saremo noi a non andarci. Facciamo a turni», e ridacchiò.
        «È un’ottima idea» commentò Ginny, più che contenta di non dover assistere allo spettacolo che era il fratello in versione “romanticone”.
        Poco dopo si accomodarono nella sala: da subito, si rilassarono godendo del tepore dell’ambiente. Bevendo qualcosa di caldo, continuarono a parlottare.
        «Ti stavo dicendo―» fece Ginny, molto presa dall’argomento Quidditch «quest’anno i Corvonero ci daranno parecchio filo da torcere».
        «Perché?»
        «Li ho visti allenarsi un paio di volte. Hanno un nuovo cacciatore; è del quinto anno, si chiama Nicholas Bennett. Non ha mai giocato prima, ma è davvero bravo».
        «Non credo di conoscerlo».
        «Io ero convinta di non averlo mai visto in giro, figurati!» Rise, prima di sorseggiare il the. «Ma per nostra sfortuna quando è sul campo non passa affatto inosservato».
        Harry non si sentì per niente intimorito. «Metteremo a punto qualche nuovo schema. Nessun Corvonero mi impedirà di stravincere al mio ultimo anno».
        «Gli ho parlato, sai?» fece Ginny.
        «A chi hai parlato?»
        «A Nicholas Bennett», rispose lei come se fosse ovvio. «Dopo un allenamento mi sono presentata e gli ho chiesto perché, visto che se la cava tanto bene, non avesse giocato anche gli anni scorsi».
        «E cosa ti ha detto?»
        «Una cosa del tipo “non mi sono mai interessato allo sport, ma prima di finire la scuola volevo provare”. Alla fine ha scoperto di avere un talento». Sembrava molto contenta di condividere con lui quelle informazioni.
        Potter annuì, mangiando un pasticcino.
        «A proposito di talento― ci ho pensato su ultimamente. Dopo la scuola, mi piacerebbe provare a continuare col Quidditch. Che ne pensi, secondo te sono brava abbastanza?»
        Le regalò un sorriso sincero, «Certo che sei brava abbastanza. Se continui ad allenarti potrai entrare in qualsiasi squadra vorrai».
        Ginny, abbellita da un lieve rossore sulle guance, chinò appena il capo e sorrise gioiosamente. «Grazie».
        Qualcosa nel petto di Harry si scaldò. C’era un nonsoché di magico a parlare con lei del futuro, perché pensava che un giorno l’avrebbero potuto condividere.
        «Cosa vedi nel tuo futuro?» le chiese, come tastando il terreno.
        «Una carriera nel Quidditch», scherzò Ginny, ridendo e contagiando anche lui. «No, sul serio― non saprei. Una famiglia, credo. E, con un po’ di fortuna, un lavoro che mi piace. Tu?» Addentò un biscotto.
        «Beh, sai già che voglio diventare un Auror. Per il resto, mi piacerebbe avere una famiglia numerosa e una bella casa».
        Lei rifletté qualche secondo, prima di asserire: «Realizzeremo i nostri sogni. Ce lo meritiamo».
        Poco dopo, furono costretti ad abbandonare il locale di Madama Piediburro – si stava facendo tardi, e si erano messi d’accordo con Ron e Hermione per tornare insieme ad Hogwarts.
        Harry, senza neanche accorgersene, sorrise tra sé e sé: tra lui e Ginny andava tutto bene, aveva sbagliato a dubitarne. Si voltò verso di lei, che lo stava tenendo per mano, e la fece fermare.
        «Che c’è?»
        Deglutì, poi cercò di darsi un certo tono – con pessimi risultati. «Ti amo».
        Ginny, schiudendo le labbra, rimase per un istante interdetta, poi avvampò. Sapeva che Harry probabilmente si aspettava una dichiarazione speculare a quella le aveva appena fatto, o perlomeno uno striminzito anch’io, ma non riuscì a spiccicare parola. Boccheggiò, sentendosi malissimo, poi lo abbracciò forte.
 
 

        Si rincontrarono con Hermione e Ron davanti ai Tre Manici di Scopa, e tornarono al castello tutti insieme. Ginny e Harry finsero che tra loro non ci fosse stato alcun momento di imbarazzo, e soprattutto nessuna dichiarazione caduta nel silenzio: si comportarono il più possibile normalmente, e gli altri non ebbero alcun sospetto.
        Poi, quella sera, poco prima di andare a letto, Potter si disse che era stanco di ignorare l’elefante nella stanza. «Ho detto a Ginny che la amo», confessò a Ron.
        Colto alla sprovvista, Weasley inarcò entrambe le sopracciglia. «Oh. Sono contento per voi, amico».
        «Lei non mi ha risposto».
        Quelle parole interruppero Ron, sul punto di borbottare un “falla soffrire e ti faccio del male” di circostanza. Tenne per sé quella finta – ma non più di tanto – minaccia, non del tutto sicuro di aver capito bene. «Cosa vuol dire che non ha risposto?»
        «Non ha detto niente. Mi ha abbracciato, poi si è comportata come nulla fosse».
        «Non preoccuparti, Harry!» intervenne Seamus che, cambiandosi accanto al proprio letto, aveva involontariamente origliato la conversazione. «Magari era troppo felice per parlare».
        Potter sorrise, contagiato dal buonumore di Finnigan. «Non saprei, Seamus».
        «Forse deve solo dormirci su», buttò lì Dean, in piedi davanti alla porta del bagno.
        A Harry fece uno strano effetto parlare con Dean della cosa, considerato che anche lui era stato con Ginny, ma cercò di soprassedere e di concentrarsi sul fatto che l’amico stava probabilmente cercando di farlo stare un po’ meglio.
        «Da quando ti conosce, mia sorella ha una cotta per te. Vedrai che ti dirà qualcosa prima o poi», lo rassicurò Ron.
        A quel punto, alla conta mancava solo un commento da parte di Neville, che sarebbe anche arrivato se solo il ragazzo in questione non fosse già profondamente addormentato.
        In ogni caso, Potter fu grato del supporto ricevuto. «Spero che abbiate ragione. Buonanotte», disse. Poi si sistemò sotto le coperte, poggiò gli occhiali sul comodino e cercò di non pensare a niente.
 
 
* * *
 
 

        A Ginny non bastò una notte per reagire alla dichiarazione di Harry. Si comportò come sempre, senza far riferimento all’accaduto. Lui decise che non l’avrebbe costretta a tornare in argomento; ne avrebbero parlato quando sarebbe stata pronta a farlo. Nel frattempo, però, l’attesa era estenuante.
        Pensava a lei molto spesso, chiedendosi cosa le passasse per la testa. E forse sarebbe impazzito, se solo non avesse avuto un’efficace distrazione – cioè, il “caso Malfoy”, perché non aveva affatto dimenticato tutto il tempo passato a tenerlo d’occhio, e ancora il suo comportamento lo rendeva perplesso.
        Non c’erano molti sviluppi neanche su quel fronte, però. Il Serpeverde continuava a ignorare lui e i suoi amici quasi del tutto: scoccava loro solo qualche occhiata anonima quando proprio non poteva fare diversamente.
        Forse, pensò Harry una mattina, è meglio lasciar perdere. Ma comunque non lo fece – forse perché si trovava nel bel mezzo di un’ora di Storia della Magia condivisa proprio con i Serpeverde, e l’unico metodo per combattere il desiderio di crollare addormentato sul banco era scrutare Malfoy e fare congetture.
        Lanciò per l’ennesima volta un’occhiata nella sua direzione – era seduto dall’altra parte dell’aula, una fila più avanti rispetto alla sua. Sospirò, trovandolo con la testa china intento a scrivere probabilmente degli appunti. Improvvisamente si ricordò che avrebbe dovuto farlo anche lui, se non voleva perdere chissà quante ore per recuperare l’argomento trattato.
        Ci provò. Davvero. Tese le orecchie e si sforzò di fissare le informazioni più importanti – decisamente non facile, considerato il tono piatto dell’insegnante –, poi scribacchiò due mezze frasi riassuntive e la data di un concilio, o di una battaglia, o di un concilio dopo una battaglia. Non era stato poi così attento, dopotutto.
        Come per premiarsi per la fatica fatta, lanciò l’ennesimo sguardo circospetto verso i Serpeverde. Uno in particolare.

        Più in là, Theodore Nott, impassibile in volto, soffiò infastidito. «Te ne sei accorto, vero?» sibilò, sporgendosi il necessario per rivolgersi a Malfoy.
        Senza neanche alzare gli occhi, lui replicò, atono: «Accorto di cosa?»
        «Hai capito. Ti fissa in continuazione».
        «Come biasimarlo? Sono molto bello».
        Nott roteò gli occhi. «Sul serio, cosa hai intenzione di fare?»
        Per un brevissimo istante, Draco parve confuso ed esitante; poi, però, un sipario di indifferenza calò sul suo viso. Schiuse le labbra, ma non rispose e tornò a prendere appunti.
        Harry intanto aveva scritto un’altra data. Nessuna spiegazione di sorta, solo una data, abbandonata a galleggiare sul vuoto della pergamena. La osservò sconsolato, sapendo che avrebbe dovuto elemosinare gli appunti di Hermione.
        Alzando lo sguardo dal foglio, spinto dalla forza dell’abitudine, con la coda dell’occhio cercò Malfoy. Si aspettava di trovarlo ancora a scrivere, oppure di vederlo contemplare il nulla annoiato, ma no: Draco Malfoy stava guardando dalla sua parte. E, più nello specifico, guardava lui – ne era abbastanza sicuro.
        Sorpreso, raddrizzò bene la schiena e si mise sull’attenti, per meglio presentarsi agli occhi affilati del Serpeverde, dei quali immediatamente ricambiò lo sguardo.
        Non capì. Perché tanta attenzione, e così di colpo? Aveva qualcosa di strano addosso, o in faccia? Non credeva. Cercò di decifrare l’occhiata di Malfoy, purtroppo con scarso successo; sembrava concentrato o pensieroso, ma più di questo non avrebbe saputo dire.
        All’improvviso, un rumore sordo lo costrinse a voltarsi: Ron, che si era retto la testa con una mano fino a quel momento, colto da un attacco di sonnolenza acuta si era piegato troppo in avanti e il braccio in appoggio era scivolato sul banco. Tornando bruscamente vigile, stava strabuzzando gli occhi ed era appena arrossito per l’imbarazzo.
        Divertito, Harry sorrise, ma non indugiò più del necessario sulla figura dell’amico e, frettolosamente, tornò a cercare lo sguardo di Malfoy. Peccato che lui avesse già ripreso a dedicarsi ai propri appunti. Il sorriso nato pochi istanti prima svanì miseramente, mentre la frustrazione incombeva e lo faceva sbuffare.
        Dopotutto, forse era davvero meglio lasciar perdere. Doveva solo accettare che quella era la loro nuova normalità – in fondo, anche a lui sembrava sensato seppellire l’ascia di guerra dopo la battaglia e i processi e il resto. E, archiviata la rivalità, non riusciva a pensare ad un valido motivo per cui lui e il Serpeverde si sarebbero dovuti parlare ancora. In memoria degli anni passati a tormentarsi, però, avrebbero anche potuto chiudere la faccenda in un modo migliore, un po’ più dignitoso di quell’ostinato silenzio. Ma, si disse poi, forse il silenzio era il trattamento migliore che Malfoy riuscisse a riservargli.
        Prima della fine della lezione lo guardò di sfuggita ancora sei volte.
        Abituarsi a quella realtà, probabilmente, si sarebbe rivelato molto più complesso di quanto non avrebbe mai creduto. Era un po’ come se di colpo fosse costretto a dire addio all’ennesima parte importante della propria “innocenza” del passato. Come se fosse costretto a crescere. Non che non lo avesse sempre fatto – cresceva ogni giorno; il vero problema era che era costretto a rendersene conto, a viverlo in diretta. Ed era una cosa che faceva decisamente schifo.
        Quando finalmente poterono alzarsi per abbandonare l’aula, sospirò, amareggiato, e si concesse un’ultima occhiata a Malfoy, che aveva già raccolto le proprie cose e stava per uscire.
        I pensieri gli sfrecciarono nella mente.
        Aveva avuto un sacco di pazienza ad osservarlo per tutti quei giorni. E stava avendo pazienza anche con Ginny, perciò le riserve erano agli sgoccioli.
        Finalmente quel giorno anche lui l’aveva guardato. Non per necessità, non perché tutti lo stavano facendo. L’aveva guardato e basta. Significava qualcosa? Molto probabilmente no. Forse se l’era persino sognato.
        Tutto finiva lì, quindi, con quello sguardo. Nel silenzio. Si stava ufficialmente per chiudere il capitolo sulla sua “innocente” rivalità adolescenziale. Un’altra cosa che gli portavano via.
        La guerraah! quanto gli aveva portato via, anche quella? Quanti gli aveva portato via?
        Succedeva proprio in quel momento: nella noiosissima aula di Storia della Magia, mentre sullo sfondo Ottobre finiva, stava per perdere un altro pezzo. Ma davvero non poteva impedirlo?
        E come? Forse non c’era modo.
        O forse sì. Poteva provare, fare un tentativo, qualcosa. Perché, davvero, gli avevano già portato via troppe cose, e doveva almeno cercare di combattere per le poche che gli erano rimaste.
        Non voleva perdere Malfoy. Insomma, quello che significava per lui. Non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di tenerselo stretto ancora per un po’ – doveva solo fare qualcosa. Subito, perché era stanco di aspettare.
        L’impulsività c’era tutta, era pronta a colpire. Ma il cervello, ecco― non fu facile farlo lavorare senza idee, tra parole disordinate e caos generale. Per questo, agì senza alcun piano in mente: semplicemente abbandonò il libro sul banco, fece un passo incerto e, probabilmente ad un istante dalla fine, azzardò una mossa.
        «Malfoy», chiamò, con voce cristallina e appena tremolante.
        Il Serpeverde, a tanto così dall’imboccare la porta dell’aula, si bloccò: impiegò qualche secondo per voltarsi indietro. Sul suo volto erano dipinti sospetto, sorpresa, curiosità, persino un pizzico di agitazione.
        Si fissarono per un po’, senza dir nulla.
        Draco non sapeva come reagire: il Grifondoro l’aveva chiamato e ora lo guardava così, quasi come se si aspettasse qualcosa da lui. Inarcò un sopracciglio, perplesso. «Che c’è, Potter?»
        Harry si lasciò sfuggire una microscopica smorfia soddisfatta: per la prima volta da quando erano tornati ad Hogwarts, Malfoy gli aveva parlato. Era un inizio – di cosa, non lo sapeva neanche lui.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

Ahoy, people! c: Sono piuttosto soddisfatta di questo capitolo. Spero che sia piaciuto anche a voi.
Che dire? C'è un po' di lovey-dovey Ginny, ma ehi, in qualche modo bisogna avere a che fare anche con lei. Purtroppo. Se non altro Harry e Draco finalmente si parlano! Vedremo come andrà a finire. ;)


Mille grazie a tutti coloro che leggono/inseriscono la storia nelle liste/commentano. Love you all! ♥

Non ho altro da aggiungere, perciò: a risentirci la settimana prossima!
Baci,
T. ♪

 
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Capitolo 5
*** 4. Mai (di)sperare troppo ***


4.
 
Mai disperare troppo

 
 
 
        L’espressione di Malfoy si faceva di secondo in secondo più stranita, perché, per quanto si sforzasse, non riusciva a capire. Prima le occhiate a tutte le ore, e adesso quello – insomma, perché mai il Grifondoro avrebbe dovuto cercarlo? Il passato era lontano, la guerra era finita, i processi anche, e non si accaniva più su di lui e i suoi amici come ai vecchi tempi. Quindi, cosa poteva volere Harry l’eroe Potter da lui?

        Cosa posso offrirgli? si era chiesto; niente, ecco cosa. Eppure l’aveva chiamato, in quell’aula; gli aveva parlato. E dalla sua espressione, dal mondo in cui gli tremolavano gli occhi, sembrava che avesse mille motivi per farlo. Motivi che però non pareva voler esprimere, considerato che non faceva altro che fissarlo in silenzio.
        «Potter. Cosa c’è?» ribadì, deciso a riscuoterlo.
        Era maledettamente curioso – doveva sapere. Cosa diamine gli stava passando per la testa?
        Lanciò una veloce occhiata a Zabini e a Goyle che, poco lontani da lui, assistevano alla scena incuriositi. Si assicurò di dissimulare ogni traccia di emozione, così che non potessero intuire il caos e lo stupore e la soddisfazione – un momento, soddisfazione? – che gli crescevano dentro.
        Intanto, sotto gli sguardi sorpresi e spaesati di Hermione e Ron, Harry continuava ad esitare: si era appena reso conto di non avere la più pallida idea di cosa dire. Perché non mi parli più?, forse? Oppure: è vero che ti tagli? Ma sembrava inadeguato. A pensarci bene, tutto sembrava inadeguato sotto a quella pioggia di occhi che li fissavano.
        D’un tratto seppe come esprimersi. «Posso parlarti un attimo?»
        «Lo stai già facendo», sottolineò il Serpeverde, mettendosi sulla difensiva.
        «Intendo― da soli».
        Ron sgranò gli occhi. «Harry, che fai?»
        In tutta risposta, Potter, il più seriamente possibile, lo rassicurò con uno sguardo. «Potete aspettarmi qui fuori, per favore? Ci metterò solo due minuti».
        Hermione, con la fronte corrugata, studiò brevemente prima l’amico, poi Malfoy, e determinò che non avrebbero combinato disastri. Non più – quel tempo era passato. Così, sebbene fosse piuttosto titubante, decise di fare ciò che le era stato chiesto: si fidava di Harry, malgrado non sapesse cosa aveva intenzione di combinare.
        «D’accordo», mormorò. Uscendo, prese per un braccio Weasley, persuadendolo a seguirla.
        Non appena i due Grifondoro furono fuori dall’aula, Draco rivolse ai compagni di Casa rimasti uno sguardo molto eloquente: senza che proferisse una sola parola, Goyle imboccò la porta. Zabini si trattenne qualche secondo in più per salutarlo con un cenno approssimato del capo, dopodiché levò a propria volta le tende.
        La stanza si era praticamente svuotata. A fare loro da spettatori, ormai, erano rimasti solo il professor Rüf, che però non prestava attenzione, e la zucca intagliata di Halloween che troneggiava sulla cattedra.
        «Allora?» domandò Malfoy.
        Harry tentennò e abbassò appena la testa, passandosi una mano sulla nuca per temporeggiare e fare mente locale. Continuava a non avere idee valide per dare inizio alla conversazione, così si concesse una manciata di secondi per guardarlo semplicemente negli occhi.
        Poi finalmente fece, a bassa voce: «Perché mi hai guardato in quel modo, prima? Durante la lezione».
        «Tu lo hai fatto per settimane, ma non mi sembra di averti sottoposto a un interrogatorio».
        Sentendosi colto con le mani nel sacco, il Grifondoro s’irrigidì.
        «Già. Non sei stato propriamente discreto, Potter», commentò l’altro.
        «Se te n’eri accorto, perché non mi hai detto niente?»
        Draco alzò appena le spalle, noncurante. «Per lo stesso motivo per cui tu non hai detto niente a me, suppongo».
        La consapevolezza investì Harry come un treno in corsa: si era risentito perché Malfoy non gli aveva rivolto la parola, senza mai fermarsi a pensare che a lui poteva essere attribuita la stessa colpa. Si sentì stupido e, ancora una volta, rimase in silenzio per un po’.
        Il Serpeverde, spazientito, roteò gli occhi. «Perché mi hai chiesto di parlare, se non hai nulla da dire?»
        «Ho molte cose da dire». E le aveva, davvero.
        «Non mi sembra».
        Mordendosi le guance, Harry mormorò: «Non so come dirle». E già nella sua mente risuonava la voce dell’altro: “Per Salazar, Potty – il tuo cervello è regredito al punto da farti perdere il dono della parola?”
        Malfoy però non proferì nulla del genere. «Ti saresti dovuto preparare un discorso per aggirare il problema. Non tutti hanno tempo da perdere, sai?»
        La sua sembrava cattiveria edulcorata, come se si stesse frenando per non essere troppo acido. Dopo averlo osservato per tutto quel tempo, ancora Potter non ci si era abituato.
        Turbato dal recidivo comportamento taciturno del Grifondoro, Draco sbuffò sonoramente. «Beh, io devo andare. Ci si vede in giro», aggiunse con tono ambiguo, a metà tra lo spiritoso e l’irritato.
        «Aspetta!» lo richiamò Harry quando già gli aveva dato le spalle. «Devo seriamente parlarti di… cose. Dammi un minuto».
        «Non ce l’ho, un minuto; sono già in ritardo». E non stava mentendo – doveva correre se voleva arrivare all’aula di Incantesimi per tempo. «Comunque, Potter – non credo sia il caso». Era terribilmente serio.
        «A cosa ti riferisci?»
        «Al parlare. Non so cosa pensi di dovermi dire, ma― non è il caso», ribadì. Per un istante, la sua espressione si fece quasi triste. «Non abbiamo più nulla da spartire, io e te».
        Harry non reagì: rimase impalato a guardarlo uscire dall’aula e sparire nel corridoio, come incantato. 
        Quella conversazione non era andata esattamente nel migliore dei modi – oppure sì.
        Forse era vero, che non avevano più niente da spartire. Forse il fatto che fossero riusciti a trovare uno pseudo equilibrio senza insulti e con apparente rispetto reciproco – o perlomeno tolleranza – era il risultato migliore a cui potessero ambire. Forse era solo questione d’abitudine. Forse non c’era nulla che Potter potesse fare per non perdere brandelli qua e là; nello specifico, forse Malfoy gli era già stato portato via e non c’erano speranze di riaverlo indietro. Forse non aveva nemmeno senso rivolerlo. Perciò: , forse andava bene così.
        Forse.
 
 

        Una volta uscito dall’aula di Storia della Magia, Draco passò accanto a Weasley e a Granger, che stavano aspettando l’amico come era stato loro chiesto di fare. Li ignorò, tirando dritto.
        In quel momento, tremava. Non fisicamente, per carità – tremava mentalmente: aveva appena sbattuto piuttosto violentemente la porta in faccia a Potter, ed era una cosa inebriante e spaventosa allo stesso tempo.
        Non aveva ben capito perché l’avesse cercato, perché gli avesse voluto parlare, ma s’era detto che non doveva perdere tempo a pensarci. Tanto, di qualsiasi cosa si trattasse, non avrebbe potuto – né voluto, s’intende – far nulla per lui. Anche se non l’avrebbe mai ammesso a voce alta, infatti, non si sentiva più all’altezza.
        Da quando Potter aveva vinto quella maledetta guerra era diventato qualcun altro. Non era più il ragazzino di Hogwarts da provocare e da sfidare; era la persona che aveva monopolizzato i titoli di giornale per settimane, quella che era definitivamente entrata nella Storia. Una persona in grado di intervenire durante i dannati processi e testimoniare in suo favore. Era così in alto.
        E io, invece? si chiedeva Draco, retorico.
        Beh, lui, accompagnato da ricordi difficili da gestire e dosi massicce di senso di non appartenenza, era caduto in basso. Con una maschera di dignitosa freddezza sul viso, certo, ma pur sempre caduto in basso. Lo guardavano male, e lingue biforcute sparlavano alle sue spalle pressappoco costantemente. Non si lamentava: era troppo orgoglioso per farlo. E per questo stesso motivo, si asteneva anche dal cercare attenzioni: non voleva che lo vedessero così, sotto quella luce. Si sentiva debole, e se ne vergognava troppo. Fortunatamente, era riuscito ad andarsene da quell’aula prima che il Grifondoro mettesse a fuoco la sua condizione.
        Senza dubbio, quindi, fuggire da Potter era stata la scelta giusta. Eppure, la sola idea di averlo fatto lo spinse a sospirare.
        Merlino solo sapeva quanto gli avrebbe fatto piacere avere il cuore tanto leggero da riprendere a giocare con lui. Ma non poteva farcela. Le prese in giro, gli scherzi, la rivalità di un tempo – ormai nulla gli sembrava più realizzabile; non in quelle condizioni, col ricordo dello shock causato dalla paura ancora così vivido nella mente.
 
 

        Vedendo sfilare Malfoy nel corridoio, Hermione e Ron presero a fissare la porta dell’aula, convinti che Harry ne sarebbe uscito di lì a poco. Lasciarono passare dieci, venti, trenta secondi, ma niente – non voleva sapere di fare la propria comparsa.
        I due si scambiarono un’occhiata d’intesa, poi avanzarono.
        «Harry?» chiamò Ron, affacciandosi sulla stanza.
        Potter, con un denso malumore dipinto sul viso, si voltò verso gli amici subito dopo aver recuperato le proprie cose, in precedenza abbandonate sul banco. «Arrivo», mormorò, raggiungendoli.
        Camminando veloci, si allontanarono subito dall’Aula di Storia della Magia.
        «Cos’è successo là dentro?» chiese Weasley, impaziente.
        «Niente di che», generalizzò Harry.
        Hermione gli scoccò un’occhiata indagatrice. «Di cosa dovevi parlargli?»
        «Mi aveva guardato in modo strano, durante la lezione. Gli ho chiesto perché, tutto qui».
        Lei inarcò un sopracciglio, con l’espressione di chi la sa lunga. «E cosa ti ha detto?»
        Ripensandoci, Potter si rese conto di non aver spillato al Serpeverde neanche una piccola spiegazione. Sospirò, prima di ammettere: «Non mi ha risposto».
        Ron mise su una faccia vagamente disgustata. «Spero che ora che gli hai parlato non ricominci a darci fastidio», borbottò – nella sua voce non c’era alcuna traccia di biasimo per il gesto dell’amico, ben inteso.
        «Tranquillo. Dubito che lo farà», lo rassicurò Harry, sentendo ancora rimbombare nella mente il “non abbiamo più nulla da spartire” di Malfoy.
        Per qualche istante Hermione sembrò decisa a dire qualcosa, ma poi desistette sciogliendosi in uno sbuffo. «Io devo andare, la lezione di Aritmanzia inizierà tra poco. Ci vediamo dopo». Sfiorò il braccio di Ron dedicandogli un rapido sorriso, per poi rivolgere un saluto ad entrambi e imboccare un altro corridoio.
        Harry avrebbe giurato di aver visto un’insolita sfumatura nell’espressione dell’amica, ma decise di non dar peso alla questione.
        «La prossima volta che ti viene in mente di parlare con quello, per favore, avvertimi con un po’ d’anticipo», pigolò Ron una volta che furono soli.
        Potter non poté fare a meno di sorridere lievemente. «Perché dici così?»
        «L’hai chiamato senza preavviso, e sembravi così serio, e ci hai chiesto di lasciarti da solo! Seriamente, Harry, è stato strano». Dalla sua gestualità, emerse una nota di preoccupazione.
        «D’accordo, ti avviserò» rise l’altro.
 
 
* * *
 
 

        Harry e Ginny passarono il primo giovedì pomeriggio di Novembre insieme. Nulla di anomalo – il giovedì era il giorno delle coppie, in fondo.
        Si trattava una ricorrenza settimanale che, per l’appunto, cadeva di giovedì; insieme con Hermione e Ron, ne avevano concordato l’esistenza durante i primi giorni ad Hogwarts. Era sembrata a tutti una buona idea; in quel modo, infatti, ritagliare un po’ di tempo da dedicare all’intimità non sarebbe mai stato un problema, e non avrebbe messo i bastoni tra le ruote alla loro amicizia.
        Harry aveva sempre apprezzato la cosa, ma in quella particolare occasione detestò il giovedì come mai prima in vita sua. Non che non volesse trascorrere del tempo con Ginny, anzi; il problema era che dal suo punto di vista tra loro le cose non si erano ancora totalmente appianate. Lei, infatti, continuava a non fare riferimento all’episodio accaduto a Hogsmeade, lasciandolo in sospeso.
        Ormai, Potter aveva iniziato a pensare di aver dato troppa importanza alla vicenda: magari Ginny non ci pensava neanche più. Si sarebbe dovuto lasciare anche lui tutto alle spalle e poi, probabilmente, avrebbe smesso di percepire quell’alone di tensione che si creava ogni volta che erano insieme.
        Peccato che lasciar perdere gli risultasse impossibile. Ci aveva provato, persino più di una volta, ma non c’era stato verso – l’aveva vissuto come un momento importante, e non poteva accettare che la sua ragazza non si fosse nemmeno accorta di averlo ferito, restando in silenzio.
        Si convinse di aver aspettato abbastanza. La scelta migliore era parlarle con sincerità, e l’avrebbe fatto subito, qualsiasi cosa avessero deciso di combinare quel pomeriggio.
        Di certo, non si aspettava che Ginny gli chiedesse di studiare in biblioteca. Di solito improvvisavano attività un po’ meno serie – Quidditch se il campo era libero, una passeggiata se non faceva troppo freddo, qualche chiacchiera in Sala Comune, le coccole.
        «Mi dispiace tanto, Harry», sussurrò lei, onestamente rammaricata. «So che è il nostro giorno, ma ho davvero un sacco di cose da fare! È un problema, per te? Se non ti va, capisco, non sei obbligato a venire».
        «Non preoccuparti. Vorrà dire che studierò anche io».
        Così, si recarono in biblioteca. Camminando tra i vari scaffali, si misero alla ricerca di un tavolo libero.
        Per un solo, fatidico istante, una testa biondo platino fece capolino nel campo visivo di Potter. Non impiegò più di mezzo secondo a riconoscerla. Si voltò da quella parte automaticamente, e si distrasse a guardare Malfoy chino sui libri. Poi però si ricordò che doveva decisamente smettere di pensare a lui, e soprattutto non doveva più fissarlo – l’idea che se ne accorgesse nuovamente lo infastidiva. Così, tornò a dare attenzione a Ginny, che nel frattempo si era seduta poco più in là.
        Prese posto accanto a lei, recuperando il libro di Trasfigurazione.
        «Sarà un lungo pomeriggio», la sentì mormorare con tono lamentoso, mentre leggeva distrattamente la pergamena su cui aveva scritto le materie e i relativi argomenti da studiare.
        Adesso, pensò lui. «Posso chiederti una cosa, prima di iniziare?»
        «Certo, dimmi».
        «Ricordi quello che ti ho detto a Hogsmeade?» La vide farsi seria e stringere i denti, e dedusse che aveva capito perfettamente a cosa si stava riferendo. «Non hai risposto in alcun modo».
        Ginny abbassò lo sguardo, colpevole.
        «Non devi sentirti costretta a dire che ricambi», mise in chiaro Harry. «A me basta che non facciamo più finta che non sia successo niente».
        Annuì. «Scusami». Si portò un ciuffo di capelli dietro un orecchio, facendo un respiro profondo. «Ci ho pensato. Parecchio. Ho un po’ di casino in testa, al momento; ma hai ragione, non mi sarei dovuta comportare così». Alzò gli occhi su di lui, «L’ultima cosa che voglio è farti stare male. Ti voglio davvero molto bene, Harry».
        Cercò di sorriderle, ma la punta di tristezza nella sua voce lo frenò non poco. Quando poi lei si sporse per abbracciarlo, ricambiò debolmente, colto da un profondo senso di perdita. «Anche io ti voglio bene».
        Iniziarono a studiare senza dirsi molto di più.
        Potter non combinò granché. Si limitò a leggere qualche nozione qua e là, a scrivere una ventina di righe su un certo argomento e a sfogliare svogliatamente le pagine di un paio di libri. Più che altro, rifletté sulla breve discussione appena avuta con Ginny.
        Aveva veramente ignorato la faccenda, dopotutto. E cosa significava che aveva del “casino in testa”?
        Per un attimo si sentì colpevole. Pensò di aver scelto il momento sbagliato per fare una dichiarazione di quella portata, oppure un luogo poco consono. Poteva aver combinato un disastro.
        E se, invece, semplicemente lei non desiderasse sentirsi rivolgere quelle parole? In fondo, non si erano mai detti nulla di simile da quando erano tornati insieme dopo la guerra. Magari non si sentiva pronta, non ancora. E lui, invece, era pronto? Davvero provava quei sentimenti nei suoi confronti?
        Il solo fatto di aver partorito tali domande fece fiorire il seme del dubbio nella sua mente.
        Si sforzò di ragionare lucidamente.
        Stava bene con lei, era contento del rapporto che avevano. Ogni tanto immaginava il loro futuro insieme, per quanto incerto potesse essere. Ma il trasporto? Il caldo alla pancia di cui Ginny stessa gli aveva parlato? C’erano, quelli?
        Appoggiando i gomiti sul tavolo, si prese il capo tra le mani, assalito dalla confusione. Sospirò, non avendo idea di cosa fare per mettere ordine tra i propri pensieri. Parlarne con qualcuno avrebbe aiutato? Ma con chi – Hermione? O direttamente con Ginny?
        Le scoccò un’occhiata di sottecchi. No, con Ginny no. Solo a vederla, si sentì pervadere da un forte disagio; ben più forte di quello avvertito nei giorni precedenti. Perfetto, si disse, ora è persino peggio di prima.
        Era passata forse un’ora, poco più, quando con uno sbuffo chiuse e poi ripose tutti i libri – non era affatto dell’umore per studiare.
        Ginny alzò gli occhi dalle varie pergamene di appunti. «Hai finito?»
        «Sì. Per oggi basta, non ne posso più».
        «Io sono più o meno a metà». In quel momento lui soffiò e chiuse brevemente gli occhi, come se fosse stanco. «Mi ci vorrà ancora parecchio. Non serve che resti qua ad annoiarti, Harry».
        Non sapendo come replicare, rimase in silenzio.
        «Dico davvero; non sentirti obbligato. Potresti andare in Sala Comune – magari mio fratello ed Hermione sono rientrati».
        Potter tacque ancora. Per un orribile momento pensò che Ginny gli stesse suggerendo di andare via perché anche lei, come lui, si sentiva a disagio in sua compagnia, e preferiva restare da sola.
        Si passò una mano tra i capelli, annuendo. «D’accordo. Vado in Sala Comune», affermò. Cercò di ricambiare il sorriso che lei gli rivolse – purtroppo con risultati discutibili –, poi raccolse le proprie cose e si alzò dalla sedia. «Ci vediamo dopo, allora. Al massimo per cena».
        «Certo. A dopo, e grazie per essere venuto con me».
        Fece un cenno che voleva dire: figurati. «A dopo». E detto ciò, s’incamminò verso l’uscita.
        Percorse al contrario il tragitto fatto in precedenza. Si sentiva pesante ed era parecchio distratto, perciò non mise in conto che, in quel modo, sarebbe passato vicino a dove aveva scorto Malfoy. Per questo, nel momento in cui l’inconfondibile testa bionda entrò nuovamente nel suo campo visivo, fu colto alla sprovvista.
        Rallentò il passo fino a fermarsi tra gli scaffali. Provò il forte desiderio di guardare dalla parte del Serpeverde – se l’avesse fatto solo una volta, velocemente, magari non se ne sarebbe accorto nessuno. Ma no – non doveva, sarebbe stata un’azione inutile e insensata. Scosse appena il capo, strizzando gli occhi.
        Non doveva. Ma lo fece ugualmente.
        E così, poté godersi una piccola sorpresa: contro ogni probabilità, Draco stava dedicando uno sguardo circospetto proprio a lui. Aveva stampata sul volto un’espressione confusa e insinuante, che una voce nella sua testa associò alla frase: “Perché ti fermi in mezzo agli scaffali per fissarmi, Sfregiato?”
        Mantennero il contatto visivo finché Malfoy non abbassò gli occhi. A quel punto, dopo un attimo di esitazione, Harry si costrinse a riprendere a camminare verso la porta.
 
 
» …




 
Angolo di Tormenta

Ugh, Draco ai miei occhi resterà sempre un (tenerissimo) batuffolo di angst, non c'è niente da fare. Comunque - spero di essere riuscita a far chiarezza sul perchè del suo comportamento (e che le sue ragioni siano almeno un pochino credibili). :)
Intanto, il gioco di sguardi prosegue. E' tipo eye sex. 
No comment su Ginny. Delucidazioni giungeranno presto, promesso.

Mille grazie a chiunque stia seguendo la storia, commentando e/o leggendo in silenzio. Love you all! ♥ c: Sapere che ci siete mi sprona a far del mio meglio (e ovviamente a proseguire)! 

Baci baci e a presto,
T. ♪
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(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio crede)

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Capitolo 6
*** 5. Folle (ma valido) rimedio ***


5.
 
Folle ma valido rimedio
 
 

 
        Dopo il disastroso pomeriggio in biblioteca, Potter decise di rivolgersi agli amici. Era convinto di voler confidare loro di quello che stava succedendo con Ginny – sperava, in quel modo, di potersi liberare di un po’ del malessere che lo soffocava.

        Parlarono dopo cena, mentre si trovavano in Sala Comune.
        «C’è qualcosa che non va con Ginny», fece, incapace di introdurre indirettamente l’argomento.
        Ron, seduto accanto a lui, strabuzzò gli occhi. «Cioè?»
        Hermione ebbe una reazione completamente diversa: più che sorprendersi, infatti, si preoccupò. «Cos’è successo?»
        «Non ne ho idea», mormorò Harry. «Eravamo in biblioteca, questo pomeriggio. Abbiamo parlato un po’. Mi ha detto che ha del casino in testa e― è stato strano, ecco».
        «Avete litigato?» borbottò pragmatico Weasley, perplesso.
        «No. Non credo».
        Intanto, Hermione scrutò Ginny, che in quel momento era in compagnia dei coetanei. Stava ridendo; sembrava quella di sempre. «Non vi siete parlati molto, stasera», sottolineò.
        «Non penso ne abbia molta voglia. E forse non ne ho neanche io», ammise Potter.
        «Riguardo cosa ha detto di essere confusa?», continuò l’amica.
        «Non l’ho chiesto. Ma stavamo parlando di sentimenti, perciò―» lasciò la frase in sospeso, convinto che non fosse necessario aggiungere altro.
        Inarcando entrambe le sopracciglia, Ron improvvisò un versetto che voleva dire: le cose si mettono male. «Non mi piace questa storia».
        Harry sospirò. «Ragazze» soffiò poi voltandosi verso Hermione, «siete così dannatamente incomprensibili».
        Lei non poté trattenersi dal sorridere. «Forza, Harry, non abbatterti. Se ha detto che è confusa, dalle un po’ di tempo per pensare. Chiarirete».
        Avrebbe tanto voluto farsi rassicurare un altro po’ dai pareri di Hermione, ma a dirla tutta si era già stancato di trattare l’argomento. Forse, dopotutto, parlarne non poteva aiutarlo. O magari aveva sbagliato interlocutori: affrontare direttamente Ginny e tagliare la testa al toro poteva essere un’alternativa, per quanta riluttanza provasse alla sola idea.
        Per il bene del loro rapporto, si sarebbe potuto sforzare. Ma non subito.
 
 

        Le diede una settimana di tempo. Aveva pensato che avrebbero potuto discutere durante il giovedì pomeriggio e, inoltre, sperava che sette giorni di stallo potessero migliorare un po’ la situazione.
        Ma non la migliorarono. In pratica non fecero differenza, perché tra lui e Ginny continuò ad essere tutto molto incerto; lei si comportava forzatamente come nulla fosse e lui, non sapendo come reagire, le dava corda macerando però nel disagio e nelle insicurezze.
        Quando finalmente giunse il giovedì, aveva raggiunto il limite di sopportazione. Ovviamente, l’universo non se ne curò, costringendolo a fronteggiare una Weasley che lo pregava di rimandare la loro giornata insieme.
        «Sono ancora indietrissimo con lo studio, devo lavorare con qualche compagno per recuperare», si scusò mesta, tenendo gli occhi bassi. «Passiamo il pomeriggio insieme domani, d’accordo?»
        «Avevo bisogno di parlarti», confessò Harry in un soffio.
        Tentennò, mordendosi un labbro. «Sì, io― lo so. E parleremo. Te lo giuro».
        Anche se a lui quella promessa suonò tanto come una mezza bugia, sospirò, prima di sussurrare: «D’accordo».
        Si salutarono con un rapido bacio sulla guancia – era da po’ che non si scambiavano vere e proprie effusioni –, dopodiché lei si aggregò ad un gruppo di conoscenti.
        Considerato che Hermione e Ron si erano presi un paio d’ore per stare da soli, Harry si ritrovò senza compagnia. Così, piuttosto che buttare il pomeriggio, decise di recarsi in biblioteca per provare a studiacchiare qualcosa; anche se sapeva perfettamente che non avrebbe combinato granché, con tutti quei pensieri su Ginny a vorticargli in testa.
        Una volta giunto sul posto, si domandò per quale ragione la prima idea che gli era passata per la mente fosse stata proprio la biblioteca. Possibile che qualche sua recondita paura lo avesse spinto lì per controllare che Ginny stesse effettivamente studiando, e non lo stesse evitando? Rendendosi conto di essere a tanto così dalla paranoia, preferì non pensarci.
        Provò a concentrarsi su altro, respirando a fondo l’odore di carta dei libri.
        Senza una ragione precisa, si ricordò che, proprio lì, proprio una settimana prima, aveva visto Malfoy. E si erano guardarti. Che fosse tornato? Non che gl’importasse, sia chiaro.
        Stava ancora giustificando se stesso per aver pensato al Serpeverde, quando ad un tavolo scorse Neville e Luna chini su tomi e pergamene. Si fermò all’istante: poteva raggiungerli e studiare con loro.
        Oppure― si disse, poteva fare giusto qualche metro in più e controllare se Malfoy era laddove l’aveva visto il giovedì precedente. Così, tanto per togliersi una curiosità; in fondo, poteva comunque tornare da Neville e Luna dopo. Si trattava solo di una microscopica deviazione.
        Prima ancora che potesse rendersene conto, stava già marciando verso la postazione che era stata occupata dal Serpeverde. E, Merlino, se Hermione avesse potuto conoscere i suoi pensieri in quel momento, probabilmente l’avrebbe accusato di avere ancora un’ossessione per lui. Ma non l’aveva, davvero; si trattava solo di pura e legittima curiosità mista a insensata avventatezza.
        Prima di sporgersi da dietro l’ultima scaffalatura, sostò un secondo. Solo uno; non si diede il tempo di pensare a come reagire né all’eventuale presenza di Malfoy, né alla sua assenza.
        Era lì. Compostamente seduto al tavolo, occupava la stessa sedia dell’ultima volta. Non c’era nessuno con lui.
        Harry si bloccò, stupito, soffermandosi ad osservarlo. Gli parve di scorgerlo sospirare.
        E, in effetti, Draco aveva sospirato, perché all’improvviso era comparso uno stupido Grifondoro ad interrompere la sua concentrata sessione di studio con occhiate inappropriate. Non capì cosa potesse volere da lui. In ogni caso, si sforzò di combattere la curiosità e di mantenere gli occhi sul libro.
        Dicendosi che Luna e Neville avrebbero anche potuto fare a meno di lui, Potter ebbe la grande idea di sedersi ad un tavolo poco distante, occupato solo da una ragazzina di Tassorosso a cui non prestò attenzione.
        Da quella postazione, scrutare il Serpeverde era particolarmente facile. Tra uno sguardo fulmineo e l’altro, però, ebbe un’epifania etica e si domandò: ma cosa sto facendo? Perché davvero non lo sapeva. Spiava Malfoy, forse? Cercava di attirare la sua attenzione? Di distrarsi dalla faccenda di Ginny?
        Si passò una mano sul viso, confuso. Probabilmente sarebbe stato sensato levare le tende; magari andare da Neville e Luna, o da chiunque non gli avesse esplicitamente ricordato che “non abbiamo più nulla da spartire”.
        Stava per alzarsi, quando con un’ultima occhiata rubata si ritrovò inchiodato allo sguardo di Malfoy; il che lo convinse ad aspettare ancora un attimo, prima di andar via. Poi, quando il Serpeverde riprese a concentrarsi sullo studio, Potter abbassò gli occhi sul libro che aveva portato con sé: ormai era stato visto, aveva fatto la sua dubbia figura, non sarebbe cambiato poi granché studiare lì o seduto ad un altro tavolo. Così aprì il tomo, cercò la pagina giusta, sistemò sul piano penna e pergamena e decise di impiegare in modo produttivo il tempo.
        Ma prima di cominciare: per l’ultima volta, pensò, e sbirciò la figura di Malfoy. Lo colse a guardare dalla sua parte; evidentemente l’altro si accorse di essere stato scoperto, perché subito chinò il capo. Intrigato, Harry inarcò un sopracciglio.
        Scrisse un paio di righe del compito di Trasfigurazione, poi si concesse un’altra occhiata fugace. Quella volta, fu il Serpeverde a coglierlo in flagrante, e il suo turno di distogliere frettolosamente lo sguardo voltando meccanicamente la testa.
        Quel tira e molla andò avanti per un po’. La situazione, da un certo punto di vista, si fece alquanto ridicola: anche la ragazzina di Tassorosso si accorse del gioco in corso tra i due ragazzi, e li squadrò brevemente, senza capire cosa cercassero di dimostrare l’uno all’altro. Uomini, pensò sulle note di un lieve sbuffo.
        Non poteva immaginarlo, ma Potter e Malfoy erano perplessi quanto lei: si chiedevano entrambi cosa avesse l’altro per la testa, senza avere una chiara comprensione del perché continuassero a lanciarsi tutte quelle occhiate.
        Una volta terminato – in maniera decisamente approssimativa – il lavoro di Trasfigurazione, Harry si prese un momento per riflettere.
        Quello che stavano combinando non aveva alcun senso, gli parve chiaro. Si sarebbero dovuti ignorare – in particolare, Malfoy avrebbe dovuto ignorarlo, considerato quello che gli aveva detto nell’aula di Storia della Magia. Eppure, non lo stava facendo. Perché? Che si aspettasse qualcosa da lui?
        Il dubbio gli fece venire mal di testa e, in un lampo di frustrazione, si alzò in piedi.
        Con gli occhi puntati sul Serpeverde, cercò di tenere a bada l’istinto di avvicinarlo. Per temporeggiare e tenersi impegnato, raccolse pergamene e libri dal tavolo. Poi si morse una guancia, esitante.
        Parlare di nuovo a Malfoy sarebbe stata una mossa azzardata. Molto probabilmente, infatti, quel damerino viziato l’avrebbe allontanato malamente una seconda volta – e di certo l’idea non gli andava a genio. Senza considerare che avrebbe corso il rischio di trovarsi di nuovo senza parole.
        Insomma, era proprio un’idea stupida. Ma forse Harry era un po’ troppo impulsivo per lasciare che una razionale analisi della situazione lo fermasse; tant’è che con pochi passi colmò la distanza che lo separava dal tavolo dell’altro. Si piantò lì accanto con fermezza, sfoggiando un’espressione seria e convinta.
        Mascherando ad arte ogni sorta di reazione emotiva, il Serpeverde schioccò sommessamente la lingua e alzò lo sguardo su di lui. Poi, con lentezza, inarcò un sopracciglio. «Potter», sibilò.
        «Malfoy».
        «Credevo avessimo chiarito l’ultima volta. Non abbiamo nulla da dirci». Poggiò la penna che aveva in mano per poter incrociare le braccia al petto.
        «Io credo di sì».
        Draco sbuffò. «Cosa vuoi?» Se proprio doveva parlargli, pretendeva come minimo che fosse conciso.
        «Perché tutte quelle occhiate?»
        «Dimmelo tu».
        «Io l’ho chiesto per primo».
        Sulle labbra di Malfoy fiorì una smorfia strafottente. «Sul serio? “L’ho chiesto per primo”? Sei un bambino, Potter?»
        «Rispondi e basta».
        Assottigliò gli occhi, non contento di dovergliela dare vinta. «Ti guardo perché tu mi guardi», mormorò.
        «Tutto qui?»
        «, tutto qui. Quindi, si può sapere perché tu mi fissi in continuazione?»
        Harry tentennò: non era facile spiegarlo. E non era nemmeno certo di volerlo fare. Per questo, tagliò corto: «Sei diverso».
        «Diverso
        Se aveva bisogno di più schiettezza, gliel’avrebbe data: «Meno stronzo».
        Draco lo sfidò moderatamente con lo sguardo. Poi replicò, tagliente: «Risparmio le forze. Essere stronzi con voialtri richiede molto impegno».
        «Davvero? Ho sempre pensato che ti venisse spontaneo».
        «Non ho mai detto di non avere un talento naturale».
        Tra sé e sé, per un microsecondo, Potter gioì: quei loro futili battibecchi erano così soddisfacenti che non poté fare a meno di rallegrarsi. «Se lo hai, non lo stai dando proprio a vedere».
        Il Serpeverde soffiò, alzando le spalle con aria boriosa. «Mi sono stancato di farlo, Potter. Non ne vale la pena». Mise su un ghigno saputo, riflettendo, e aggiunse, con tono insinuante: «Non dirmi che ti manco».
        Harry strinse i pugni, punto nel vivo. «Come potresti mai mancarmi, dopo tutto quello che ci hai fatto passare?»
        «Oh, non lo so. Devi dirmelo tu, considerato che sei quello che mi consuma con gli occhi».
        Il Grifondoro non fu in grado di ribattere e d’accordo, si disse, magari Malfoy aveva vinto quel round. Serrò la mascella e, infastidito, si rifiutò di rivolgergli lo sguardo per qualche secondo.
        Draco si godette il momento, ma per poco; presto, infatti, l’alone di appagamento scomparve così com’era venuto e lui tornò ad imbronciarsi. Sospirò. «Cosa vuoi da me?» chiese per la seconda volta con tono grave, determinato ad ottenere una risposta seria.
        Harry lo fissò brevemente, mordendosi un labbro. «Torna in te», si convinse a sussurrare poi, insicuro. D’improvviso, si sentì un po’ imbarazzato – non era facile chiedere al nemico di riaprire le ostilità, soprattutto se non c’erano motivi validi per farlo. E non ce n’erano. Anzi, per svariate ragioni era molto più sensato restare in “buoni” rapporti.
        Ma, in fondo, le cose sensate erano sopravvalutate. Giusto?
        La reazione del Serpeverde tardò ad arrivare.
        Inizialmente, si limitò a sbarrare gli occhi mentre sul viso gli comparivano dei vaghi segni di rabbia. Ma come si permette? si domandò – come poteva quell’eroe da strapazzo chiedergli di tornare ad essere quello di prima? Lui, che neanche immaginava quello che aveva dovuto sopportare, quello che stava ancora sopportando e che l’aveva reso così. Avrebbe tanto voluto urlargli contro.
        Non lo fece: trovò la forza di calmarsi, e scaricò tutta la collera in un lungo e sonoro sbuffo; gli era bastato fermarsi ad osservare l’espressione di Potter, che pareva così stupidamente ingenuo da non meritare affatto lo sforzo collegato all’arrabbiarsi. Probabilmente, infatti, quell’imbecille non aveva neanche provato a mettersi nei suoi panni per comprendere la condizione in cui versava. E di certo non sarebbe stato lui a parlargliene.
        «Non tornerò come prima. Fattene una ragione e smetti di tormentarmi», asserì, cupo.
        «Perché?» Era una domanda stupida, lo sapeva, ma comunque aveva bisogno di ascoltare la risposta.
        Purtroppo per lui, Malfoy non gliela concesse: non fece altro che emettere un versetto sconcertato e roteare gli occhi. Poi borbottò, piccato: «È proprio vero che ti manco. Sembra quasi che tu non riesca a vivere senza di me».
        Infervorandosi, Harry assottigliò gli occhi. «Posso perfettamente vivere senza di te. È solo che non voglio». Subito dopo aver terminato la frase, se la ripeté mentalmente un paio di volte, rendendosi conto di quanto suonasse strana. «Mi è uscita male» si affrettò a sottolineare, ma era troppo tardi.
        Il Serpeverde, infatti, aveva già messo su una faccia a metà tra lo scandalizzato e lo stupefatto. Non commentò, ma dal sogghigno che comparve sulle sue labbra emerse molto chiaramente quanto fosse compiaciuto.
        «Togliti quel sorrisino dalla faccia, Malfoy».
        Non lo fece. Come avrebbe potuto, in fondo? Il Salvatore del Mondo Magico aveva appena detto a lui – proprio a lui, che gli aveva da sempre reso l’esistenza impossibile – di volerlo nella propria vita. Sembrava quasi uno scherzo.
        Che lo stesse davvero prendendo in giro? Impossibile, si disse – la sua reazione non sarebbe stata tanto spontanea.
        Lasciando ricadere le braccia sul busto, Draco mormorò: «Tu sei veramente fuori testa». E per la gioia di Potter, finalmente tornò serio; fin troppo serio. Abbastanza da rimpiazzare la soddisfazione appena provata col solito fastidio interiore.
        Abbassò il capo. Gli tornarono alla mente brevi flash del passato e, deglutendo, si lasciò prendere un po’ dall’ansia.
        Ricordò il bagno, il pianto, il sangue. Poi Silente sulla torre, l’armadio, il terrore quotidiano, quel fuoco impazzito che s’era preso Tiger; un fuoco che era arso come il suo orgoglio nel momento in cui proprio Potter l’aveva salvato.
        Harry s’accorse del suo repentino cambiamento d’umore e, perplesso, in un primo momento non commentò. Vedendo però che il silenzio perdurava, s’azzardò a chiamarlo: «Malfoy?»
        Quello, riscuotendosi, sussultò appena, mentre un grosso peso si depositava sul suo petto. Contrasse tutti i muscoli cercando di ritrovare un briciolo di controllo su stesso, e quando si sentì pronto ribadì: «Non tornerò quello di prima. Perciò lasciami in pace».
        «È per― per la guerra, vero?» Davvero – doveva sentirglielo dire. Ne avvertiva il bisogno fisico.
        «Secondo te?»
        Frustrato, Harry sospirò. «Ascolta―», riattaccò poi, senza sapere bene dove andare a parare. «Sono successe tante cose, lo so. Ma è passato». Si concesse un attimo di silenzio per decidere cos’altro dire. «Adesso― adesso va bene. Lasciarsi uccidere dal ricordo di quello che è capitato non aiuta nessuno».
        Il Serpeverde soffiò, incredulo. «E cosa pensi possa aiutare? Far finta di niente e ricominciare a comportarsi come bambini?»
        «Entro certi limiti, forse sì».
        Osservando quella che in altri tempi avrebbe definito faccia da scemo, Draco all’improvviso si ritrovò a respirare liberamente: sembrava che di colpo il macigno gravante sulla sua cassa toracica si fosse alleggerito. Come aveva fatto quel tonto d’un Grifondoro a portargli via quel peso? Davvero gli era bastato dire qualche parolina delle sue – così fastidiosamente superficiali e semplicistiche – per compiere il miracolo?
        Percepì la propria vulnerabilità venire a galla, e d’istinto si chiuse a riccio. «Vattene», mormorò, scoccandogli un’occhiata fredda.
        L’altro esitò. «Proverai a essere come prima? Insomma, non mi va di sentirti strillare cose tipo Mezzosangue, ma―»
        Draco lo interruppe: «Potter, per Merlino, risparmiami i tuoi vaneggiamenti. Ho capito cosa vuoi». Riportò gli occhi sul tavolo, riprendendo in mano la penna. «E comunque io non strillo», precisò dopo essersi morso una guancia. «Sparisci, adesso. Ho da fare».
        Il Grifondoro si trattenne per qualche altro istante e, quasi, sorrise, percependo crescere in sé un nonsoché di positivo. «Tu strilli. E lo sai», disse; dopodiché si allontanò a passi spediti, sparendo dietro agli scaffali.
        Rimasto solo, il Serpeverde ringhiò sommessamente. Stupido Potter, pensò – nel suo petto bruciò una scintilla del vecchio disprezzo che provava per lui, accompagnata da uno strano sollievo che mai avrebbe ammesso di provare, ma che comunque era indubbiamente presente. Ed era bello che ci fosse, dopo tutto il tempo passato a convivere solo con il malessere radicato della paura, della colpa, della confusione; un malessere che, con più decisione che mai, desiderò estirpare.


 
* * *
 
 

        Quella sera, Ginny fu particolarmente silenziosa. Cenò a testa bassa. Era chiaramente pensierosa.
        Harry, preoccupato, cercò di spingerla ad aprirsi. «Cos’hai?» sussurrò voltandosi verso di lei ed abbassando un po’ la testa – voleva una conversazione privata, per quanto fosse possibile averne una in Sala Grande.
        Lei si morse un labbro. «Non ce la faccio più, Harry. Dobbiamo veramente parlare. Ho pensato a un sacco di cose, e non riesco più a tenerle per me. Mi sento così in colpa».
        Potter prese atto delle informazioni annuendo. Si accorse che Ron e Hermione guardavano dalla loro parte: cercò di non curarsene, mantenendo lo sguardo su Ginny. «Domani pomeriggio. Giusto?»
        «Domani pomeriggio, sì». Abbandonò la forchetta nel piatto, insieme con il cibo – non aveva mangiato quasi nulla –, e deglutì. «Spero di resistere. Perché, davvero, vorrei solo dirti tutto subito; chiarire».
        «Possiamo farlo, volendo. Andiamo da qualche parte e, hm, parliamo. Per tutto il tempo che serve».
        Dedicandogli un’occhiata dolce, lei accennò un mezzo sorriso amareggiato. «No, non preoccuparti. Domani andrà bene». Sapeva di essere tremendamente incoerente, ma non poteva farci nulla.
        «Sicura?»
        «No». Sospirò, poi esplose in una domanda onesta: «Ma come fai a sopportarmi? La mia coerenza è inesistente. E sono stata terribile nelle ultime settimane». Si coprì brevemente il volto con le mani, cercando di impedire ai Grifondoro lì attorno di notare l’imbarazzo che le aveva dipinto le guance.
        «Me ne sono accorto». Non poteva negarlo, né dire che non era importante, perché c’era stato male. Parecchio, anche.
        «Mi sento in colpa. Così in colpa».
        «Per cosa?»
        «Per tutto».
        Harry non chiese altro: magari avrebbero ripreso la discussione più tardi, in Sala Comune, con meno occhi puntati addosso. Non che avesse poi chissà quali interrogativi da porre, per capire di cosa lei stesse parlando.
        Non era stupido. E anche se non poteva vantarsi di capire le ragazze, tantomeno quelle che all’improvviso diventavano taciturne e lanciavano segnali ambigui, era certo al cento per cento di aver capito Ginny. Almeno in parte.
        Sapeva di cosa volesse parlargli – immaginava si trattasse delle stesse cose di cui lui voleva parlare a lei. Sapeva come l’avrebbe fatto sentire la loro discussione – non bene. E sapeva anche che lo aspettavano delle lunghe nottate in compagnia di pensieri poco felici.
        Semplicemente, sapeva.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

...Dunque Draco ha un posto fisso per studiare. E sapete, a Harry la biblioteca non era mai piaciuta così tanto (?).
Hm, comunque - finalmente Potter e Malfoy fanno qualche significativo passo in avanti! Mi auguro d'essere riuscita a rendere in maniera decente il "peso" dei postumi della guerra nella loro conversazione. L'intento era quello di non eccedere con la negatività.
Nel background, Ginny è ancora fonte di piccoli problemi, ma giuro che nel prossimo capitolo la questione sarà esplorata ed esaurita. c:

Mille grazie, come al solito, a chi legge, segue, preferisce, commenta. Love you all! ♥

Per oggi è tutto. :) Un bacione, 
T. ♪
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Capitolo 7
*** 6. Lui, lei (e l'altro) ***


6.
 
Lui, lei e l’altro
 
 
 


        Nuvoloni scuri lasciavano presagire l’arrivo di un temporale, l’aria era pesante e umida e, come se non bastasse, tirava un forte vento tagliente. Malgrado ciò, per discutere, Harry e Ginny si recarono nel cortile.

        «Ho bisogno di aria fresca», aveva detto lei, inquieta.
        Sentiva il cuore battere con forza nel petto, non riusciva a star ferma e le pareva di aver un gran caldo addosso. Rimanere in Sala Comune, in una stanza nei dormitori, o in un qualsiasi altro ambiente chiuso probabilmente l’avrebbe fatta impazzire.
        Una volta fuori, si prese un minuto per respirare a fondo il vento gelido e, stringendosi nelle spalle, ritrovò un briciolo di calma. Intanto, al suo fianco, Harry camminò piano, assecondando la velocità che lei dettava.
        «D’accordo. Che sta succedendo, Ginny?» le chiese coi pugni stretti nelle tasche quando proprio non ne poté più di aspettare.
        Lei cacciò i capelli dal viso, tremando impercettibilmente. «Ho pensato molto a noi due. Ci sono delle cose che mi fanno stare male».
        «Parliamone, allora».
        Si fermarono, sentendo il bisogno di guardarsi negli occhi.
        «Prima di tutto vorrei scusarmi, Harry. È da un po’ che mi comporto male con te, e non te lo meriti, perciò: scusa».
        Lui annuì distrattamente. Era convinto che fosse sincera in quel momento, ma comunque non riuscì a farselo bastare – non poteva perdonarla in un battito di ciglia. Comunque, pensava di poterci passare sopra: dovevano solo chiarire. Il prima possibile.
        «Scuse accettate. Ora, per favore, dimmi che ti prende».
        Ginny inspirò profondamente, facendosi forza; si era preparata a lungo per quella conversazione. «Ricordi quando, un po’ di tempo fa, mi hai chiesto del trasporto
        Come dimenticarlo? A volte ancora si sentiva tormentato. «Certo».
        «Mi hai fatto paura. Ho iniziato a pensare che forse non ti piacevo più, o comunque che non fossi più convinto di voler stare insieme―»
        «Non è così», la corresse titubante. «Ma perché non l’hai detto subito?»
        «Aspetta. Pensavo a quel tipo di cose, ma quello che mi ha fatta veramente uscire di testa è che, in qualche modo, mi sono ritrovata a domandarmi se io avevo trasporto».
        Era ufficiale: il dannato trasporto era un virus mentale. Harry lo maledisse tra sé e sé.
        «Mi sono odiata tanto, sai? Non capivo da dove saltavano fuori certe insicurezze, e per paura di combinare un disastro ho preferito aspettare prima di parlartene – ho pensato che, forse, sarebbero sparite».
        «Non è successo?»
        Lei scosse il capo per dire no, mesta.
        «Quindi il punto è che― insomma, non sei più sicura di voler essere la mia ragazza?»
        Un’ombra di ansia oscurò il volto di Ginny. «È più complicato di così. Sono successe anche altre cose, tutto si è ammucchiato – un vero casino». Tacque un momento, sospirando. «Ho cercato di lasciar perdere quegli stupidi dubbi che mi erano venuti, perché sapevo di volerti molto bene e tra noi non c’erano problemi, ma poi― poi siamo andati a Hogsmeade».
        Potter s’irrigidì al ricordo di quel giorno. «Cos’ho sbagliato?» s’azzardò a domandare.
        «Sbagliato? Niente. Sei stato dolce e carino e― non hai fatto nulla di male, davvero».
        Quelle parole lo rincuorarono, ma non troppo. «Allora cos’è andato storto?»
        Lei si morse un labbro, cacciando nuovamente i capelli dal viso per temporeggiare: era piuttosto evidente che la mettesse a disagio la prospettiva di confidare quel fatto. «È una cosa un po’ strana. Forse anche stupida, non lo so – in quel momento però mi ha destabilizzata».
        «In quale momento, di preciso?»
        Deglutì. «Quando… quando hai detto di amarmi». Lo guardò negli occhi, aspettando che commentasse in qualche modo; tuttavia presto si rese conto che lui non avrebbe proferito una sola parola: forse voleva solo che finisse di esporre il problema. Così, continuò: «Poco prima da Madama Piediburro mi avevi chiesto cosa vedevo nel mio futuro. Ricordi?»
        «Sì».
        «Beh, quella storia mi ronzava ancora in testa, quando siamo usciti dalla sala da the».
        «Perché?»
        Gli occhi di lei si fecero umidi e, d’istinto, provò a nasconderli abbassando appena il capo. «Mi chiedevo se, per caso, pensando al futuro mi vedessi lì con te; ho fantasticato un po’. E poi mi sono chiesta: e io lo vedo con me?»
        Il cuore di Harry accelerò: una nebulosa risposta alla domanda che l’altra si era posta gli apparve in mente, e gli trasmise una brutta sensazione. Sentì il forte bisogno di strappare subito il cerotto, senza girarci troppo attorno: «E?» l’incalzò per spingerla a continuare.
        Ma Ginny non parlò.
        «Mi vedi con te?» insistette.
        «Non lo so», riuscì a replicare lei, tesa.
        Lui prese atto della questione senza scomporsi. «Io ti vedevo con me». Non voleva rinfacciarle la cosa; si era semplicemente sentito in dovere d’informarla.
        «Ora non mi vedi più?»
        Fu il suo turno di tacere: neanche si era reso conto di aver usato il verbo al passato, perciò non aveva assolutamente idea di come ribattere.
        Lei preferì non indagare troppo a fondo, colta da una serie di sospiri e mezzi sbuffi. «È una cosa stupida, secondo te? Forse non è necessario pensare ad un domani remoto, quando si sta con qualcuno – ma è normale non farlo? Non so se mi spiego; dovrebbe venire naturale, ecco».
        «Cioè sei preoccupata perché non pensi a me e te insieme nel tuo futuro?»
        «Qualcosa del genere».
        «Beh, non credo sia stupido. Per niente».
        Quella risposta non sembrò aiutarla; anzi, la fece solo agitare di più. «Anche io non credo lo sia. Per questo non sono riuscita a dir niente quando ti sei dichiarato».
        Harry si sforzò di capire il suo punto di vista, di addentrarsi nei dubbi che l’avevano colta, ma alcuni punti gli rimasero oscuri. «Cioè, non hai risposto perché…?»
        «Non potevo dire anche io perché credevo che non sarebbe stato vero». La sua voce tremò, e una lacrima le sfuggì dalle ciglia: con un veloce gesto, l’asciugò col dorso di una mano. «Non immagini quanto mi sono sentita in colpa; so che ci sei rimasto male, e farti soffrire era davvero l’ultima cosa che volevo».
        «Forse, se mi avessi detto subito come stavano le cose, sarei stato un po’ meglio». Si pentì immediatamente di averle rivolto quelle parole accusatorie, ma l’amor proprio gli impedì di rimangiarsele. «Quello che mi ha fatto stare peggio non è che tu non abbia risposto – te l’ho già detto, non serviva dire che ricambiavi. La cosa più brutta è che hai fatto finta di niente dopo».
        Ginny si sentì sprofondare, colpita al cuore da quella dolorosa verità. «Mi dispiace tantissimo, Harry. So di essere stata egoista, ma avevo bisogno di pensarci su per un po’; parlarne con qualcuno avrebbe solo aumentato la confusione».
        «Avrei potuto aiutarti, rassicurarti…!»
        «Lo so, ma dovevo farlo da sola. Altre opinioni non avrebbero avuto una buona influenza».
        Potter prese un respiro profondo, impegnandosi per scacciare l’alone di rabbia che gli stava nascendo nel petto. «Sei giunta ad una conclusione, adesso?»
        Lei esitò, torturando un lembo della sciarpa con le dita. «Credo di sì».
        «Bene. Allora, possiamo considerare le ultime settimane uno sbaglio, e metterci una pietra sopra. L’importante è quello che facciamo adesso, d’accordo?»
        Fissò lo sguardo verso il basso. «D’accordo».
        Per alcuni secondi, aleggiò il silenzio.
        Poi, Harry borbottò: «Qual è il risultato dei tuoi pensieri, quindi?»
        Silenziosamente, Ginny pianse qualche lacrima, mentre lui si preoccupava; non sopportando più quella brutta tensione che c’era tra di loro, si avvicinò di mezzo passo per abbracciarla e tranquillizzarla. Le accarezzò la schiena, mormorandole di stare calma.
        «Scusami, non ci riesco proprio», la sentì pigolare.
        «Rilassati».
        Più lui era comprensivo e gentile, più lei si agitava: ad un certo punto, fu costretta a sciogliere l’abbraccio. Continuò a piangere distrattamente, asciugando una lacrima dopo l’altra.
        Potter si sentì pervaso da un senso di disagio estremo: non sapeva spiegarsi la ragione di quel pianto, e aveva paura di chiedere quale fosse. Sotto sotto, forse, anche se un po’ vagamente, la presagiva, rifiutandosi però di crederci.
        Si fece coraggio. «Perché piangi?»
        «Piango perché mi sento schifosamente in colpa». Quante volte l’aveva già detto? Ormai aveva perso il conto; ma non poteva farci nulla, sentiva il bisogno patologico di ripeterlo. «Sono una cattiva persona», mormorò tra sé e sé.
        Lui non la seguiva. O, meglio, aveva definitivamente intuìto cosa stesse accadendo, ma continuava a non volersi fidare di se stesso – insomma, quella non poteva essere la verità.
        Eppure lo era. E divenne ufficiale non appena Ginny si lasciò scivolare tra le labbra le parole che le avevano corroso il cuore in quegli ultimi giorni.
        «Io ho pensato che dovremmo fare un passo indietro, Harry». Preferì non guardarlo negli occhi. Non perché non ne avesse il coraggio, quanto perché non avrebbe tollerato vedere così da vicino il dolore che – ne era certa – gli stava procurando.
        La reazione di Potter fu assurdamente blanda: batté le palpebre in fretta e schiuse le labbra, incredulo, poi serrò la mascella.
        Lei si sentì in dovere di dare spiegazioni, perciò riprese: «Ti voglio molto bene. Sono affezionata a te e a quello che abbiamo, ma mi sono resa conto che― che provo strani sentimenti». Sospirò, affondando le unghie nella carne morbida dei palmi e continuando a piangere lacrime silenziose. «Ricordo bene come mi sono sentita quando ci siamo baciati per la prima volta, e adesso… non è uguale».
        Harry ascoltava senza fiatare. Per quanto le sue aspettative per quella loro chiacchierata non fossero propriamente rosee, non aveva messo in conto un tale scenario. E viverlo così all’improvviso faceva male.
        «Non so né quando, né come sia successo, ma qualcosa è cambiato. Mi dispiace da morire». La voce le si strozzò sulle ultime sillabe, e coprendosi il volto con le mani si concesse un attimo di tregua. «Vorrei così tanto poterti dire che ti amo anche io; vorrei essere più felice che mai con te, perché sei davvero un ragazzo fantastico. Ma non ci riesco: quello che provo non basta, e non me la sento di illuderti, di far finta. Capisci? È― è per questo che ho pensato che, forse, una pausa è la cosa migliore».
        Per qualche interminabile secondo, Potter credette di essere andato in tilt. Per fortuna, però, trovò il modo di riprendersi e si sforzò di mettere a fuoco la situazione, per processarla per bene. Decise di non lasciarsi abbattere – per quanto possibile, s’intende – e di mantenere la calma. Poi, finalmente, aprì bocca.
        «Beh, non ha senso andare avanti se non proviamo le stesse cose», bisbigliò. Una voce sibillina gli risuonò in testa, ricordandogli che, dopotutto, nemmeno lui era certo di essere innamorato: di conseguenza, perse l’orientamento emotivo e non seppe più bene cosa provare.
        Ginny si asciugò gli occhi per l’ennesima volta. «Diamoci un po’ di tempo. Magari è solo di questo che abbiamo bisogno, e poi andrà bene». Parlando, cercò di convincere prima di tutto se stessa.
        «Spero che tu abbia ragione».
        Lei scoppiò in un lamento soffocato e tirò su col naso. «Non sei arrabbiato?»
        Quel quesito lo fece accigliare. «No. Che senso avrebbe? Non posso prendermela con te perché non mi ami». Si sentì bruciare gli occhi – non avrebbe saputo dire se per la tristezza o a causa del vento.
        «Probabilmente un giorno mi pentirò di questa cosa», confessò di getto la ragazza, toccata dal tono di Harry che, chissà come, le aveva fatto vibrare dolorosamente il petto. «Adesso, però, io― io credo davvero che sia la scelta più giusta. Perdonami».
        Lui non ribatté, impegnato com’era a ripetersi che – guarda un po’ – l’universo gli stava portando via qualcos’altro. Si chiese se e quando avrebbe mai smesso di perdere pezzi.
        «So che non dovrei neanche osare dirlo», mormorò Ginny, attirando nuovamente su di sé l’attenzione del ragazzo, «ma non voglio perderti. Non so cosa succederà tra noi, ma― almeno come amico. Non dico domani, o la settimana prossima― solo, prima o poi. Per noi, per Ron, per gli altri».
        Mesto, Harry annuì. Ancora non aveva metabolizzato appieno la faccenda, ma decisamente non voleva che si creassero strane tensioni: restare in buoni rapporti gli parve un’idea sensata. Si disse di doverci almeno provare.
        Con un silenzio carico di occhiate pesanti e afflitte, rimasero insieme al freddo per un po’. Poi lei, con rosse guance umide sferzate dal vento, cercò un contatto che, se ne resero conto entrambi, aveva tanto il sapore di un ultimo abbraccio.
        «Io― credo di dover rientrare, adesso», soffiò Ginny, prendendo le distanze.
        «Va bene. Io penso che rimarrò fuori ancora un po’».
        Così, si ritrovò da solo sotto quel cielo che minacciava pioggia. Camminò stringendosi nel mantello; il suo cuore batteva più forte del normale, e c’era un nonsoché di doloroso che gli faceva pressione sulle tempie. Scosso dal senso di mancanza, lasciò che il proprio morale colasse a picco.
 
 

        Quando rientrò in Sala Comune, non vi trovò nessuno d’importante. Non avendo alcuna voglia di andare in giro a cercare gli amici, si accomodò in un posticino vicino al caminetto per aspettarli.
        Ron e Hermione fecero la loro comparsa poco prima dell’ora di cena: ridevano e si portavano appresso dei libri – Harry dedusse che dovevano essere stati in biblioteca.
        Non appena videro Potter, e soprattutto la sua espressione mogia, i due compresero che qualcosa non andava.
        «Ehi, Harry. Ehm, dov’è Ginny?» domandò diretto Weasley. «Pensavo che vi avremmo trovati insieme».
        «Non saprei».
        Impensierita, Hermione si sedette accanto all’amico. «Com’è andata tra voi? Avete chiarito?»
        Non aveva voglia di rispondere, ma non poteva sottrarsi. Sospirò, dopodiché riassunse rapidamente ciò che era successo nel cortile, sottolineando che volevano cercare di mantenere rapporti civili e che: «forse è davvero la cosa migliore».
        Ritrovatosi in una posizione un po’ scomoda, Ron non commentò che con qualche parolina spiccia: si limitò infatti a dirsi dispiaciuto per l’accaduto. Poi s’imbronciò, temendo il verificarsi di situazioni imbarazzanti tra la sorella e il migliore amico.
        Hermione si dimostrò più empatica. «Come ti senti?» chiese ad Harry, scoccandogli un’occhiata premurosa.
        «Ho avuto giornate migliori».
        «Vuoi parlarne un po’?»
        «No, non mi va».
        Così la questione, per quella sera, fu dichiarata chiusa. Certo, durante la cena volarono sguardi fastidiosi, e subito dopo Ron si prese qualche minuto per discutere con Ginny, ma nulla più.
 
 
* * *
 
 

        Il pettegolezzo sulla rottura tra Harry e Ginny fece il giro di Hogwarts in pochi giorni. Ovviamente, ai due diretti interessati la cosa non piacque granché, ma non avevano modo di impedire agli altri di parlare.
        Potter non sarebbe stato in grado di dire se il passare del tempo lo stesse facendo stare meglio o meno. Magari giusto un pochino.
        Cercava di distrarsi; principalmente col Quidditch e con le partite a scacchi. Hermione gli aveva anche suggerito un libro, ma l’idea non aveva riscosso molto successo.
        Comunque, era talmente impegnato a non darsi il tempo di pensare che non si era affatto accorto degli occhi grigi che avevano preso a posarglisi addosso di tanto in tanto.
 
 

        Draco Malfoy era consapevole di star passando inosservato, e se ne compiaceva. Circostanze del genere gli davano il tempo di riflettere a piacimento.
        Non gli era ben chiaro quale improbabile sortilegio, in biblioteca, avesse fatto sì che parlare con Potter alleviasse le sue pene. Fatto stava che era successo, e da subito si era sentito in bilico. Era ancora a disagio all’idea di avere a che fare con quel Grifondoro eroe di guerra; tuttavia, essendo umano, tendeva a cercare di non stare male, e quell’insignificante momento di sollievo era stato la medicina più efficace che avesse sperimentato. Perciò, era naturale che ne desiderasse un’altra dose. Si era però persuaso di non poter fare una mossa per procurarsela, perché sarebbe stato inutilmente rischioso – non voleva mostrarsi bisognoso. Di cosa, poi? Non lo sapeva, e tutto sommato non era importante: tanto, non aveva una ragione “di facciata” per interagire con Potter; era bloccato.
        Questo, finché la voce sulla rottura con Ginevra piattola Weasley non era giunta alle sue orecchie.
        La sua prima reazione era stata una mezza risatina. Comportamento molto cattivo, in effetti; e lo sarebbe stato anche di più se solo fosse stato in forma – probabilmente avrebbe riso di gusto, gioendo molto più apertamente per quella piccola disgrazia.
        Ad ogni modo, pareva essere l’occasione perfetta: poteva punzecchiare il Grifondoro come in passato, o almeno fare un tentativo, per scoprire cosa di preciso dell’atto di parlargli avesse giovato al suo umore. Peccato che in lui ci fosse ancora il seme di quell’insicurezza che l’aveva cambiato.
        Così, continuava a sbirciare nella sua direzione senza prendere iniziative. Ponderava.
 
 

        Era mercoledì mattina quando, durante una lezione di Trasfigurazione, un grazioso origami attraversò l’aula battendo le piccole ali di carta per posarsi sul banco di Harry Potter.
        D’istinto, Harry mise su un’espressione a dir poco stralunata. Smise di prendere appunti senza pensarci due volte, e allungò una mano per sfiorare il minuto volatile con le dita – era un cigno? Hm, lo sembrava – e poi afferrarlo. Da subito si fece una chiara idea sull’identità del mittente, e spostò lo sguardo laddove sapeva di poterlo trovare.
        Incrociò una criptica occhiata di Malfoy, che sembrava sogghignare tra sé e sé. Non era uno dei suoi classici sogghigni, però; era un po’ più moderato. Gli occhi, in compenso, gli brillavano di una sinistra luce furba.
        Osservato da Ron, che gli sedeva accanto, Potter si decise a dedicare attenzione al bigliettino ricevuto.
 
Insomma, non riesci a soddisfare neanche una Weasley.
 
        Pura, gratuita malignità. Aveva anche buone ragioni per pensare che il doppio senso fosse più che volontario. Tipico, avrebbe commentato tra sé e sé – peccato che quella vicenda fosse tutt’altro che tipica: era da parecchio che Malfoy non gli dedicava una frecciatina.
        Per un microsecondo, senza neanche accorgersene, sulle sue labbra fiorì una minuscola, apparentemente insensata smorfia soddisfatta.
        Era sbagliato, lo sapeva; lui e Ginny non stavano più insieme da neanche una settimana: ancora soffriva, e il Serpeverde era stato semplicemente un bastardo a rigirare il coltello nella piaga. Ma comunque quella smorfietta era esistita, perché anche se gli avevano portato via Ginny, era come se gli avessero restituito il vecchio Draco Malfoy – come se avesse improvvisamente ritrovato un tassello andato perduto. Credeva di meritarselo, dopotutto.
        Detto ciò, nel suo petto esplose un prevedibile e giustificato incendio di rabbia, orgoglio e afflizione, che lo spinse a rivolgere al Serpeverde uno sguardo a dir poco penetrante. Purtroppo per lui, però, in quel momento Malfoy stava seguendo la lezione e poté scamparla.
        Sbuffò sonoramente, piccato.
        «Harry», lo chiamò Ron sottovoce, in cerca di conferme. «Quello te l’ha scritto Malfoy, vero?»
        «Sì».
        «Cosa dice?»
        «Cattiverie».
        «Posso leggere?» Prese il biglietto che l’amico gli passò con un pizzico di riluttanza, e lesse velocemente le parole che vi erano scritte sopra. «Miseriaccia, mi ero davvero illuso che ci avrebbe lasciati in pace».
        Potter alzò le spalle, omettendo – così come aveva omesso fino a quel momento – di sottolineare che, per certi versi, era stato lui stesso a chiedere al Serpeverde di ricominciare a tormentarlo. «Posso gestirlo», mormorò, mentre Ron gli restituiva il bigliettino. Rilesse per l’ultima volta la provocazione di Malfoy, poi intascò il tutto ripromettendosi di ribattere a tono.
        Di fatto, scribacchiò di getto la risposta su un angolo di pergamena, che piegò, e poi, approfittando di un momento in cui la professoressa McGranitt dava loro le spalle, la incantò perché giungesse a destinazione. Non era molto fiero di ciò che aveva scritto – avrebbe potuto fare di meglio –, ma era difficile condensare l’ira e la frustrazione in poche parole, perciò dovette accontentarsi.
        Quando Draco riuscì a decifrare il messaggio, si concesse un sorrisino compiaciuto.
 
Pensa ai fatti tuoi.
 
        Senza esitare, elaborò la propria risposta e, anche quella volta sotto forma di cigno, la recapitò al destinatario.
        Pansy Parkinson, seduta al suo fianco, lo scrutò attentamente, per poi sussurrare: «Che significa? Credevo non gli rivolgessi più la parola».
        Malfoy le scoccò un’occhiata gelida. «Non è un tuo problema».
        Lei, sospirando con fare teatrale, incrociò le braccia al petto. «Volevo solo sapere perché la tua faida contro Potter e compagni è ripresa all’improvviso».
        «Chi ti dice che sia ripresa?»
        «Non lo è?» Non era stupida; si era accorta degli sguardi che d’un tratto il compagno di Casa aveva iniziato a lanciare ai Grifondoro.
        Draco avrebbe volentieri sfoderato una replica acida, se solo l’insegnante non si fosse accorta del loro chiacchiericcio e li avesse tacitamente ripresi con un cenno.
        Nel frattempo, più in là, Harry leggeva il biglietto appena ricevuto.
 
Sei tu quello che ha detto che gli mancavo.
Te la sei cercata.
 
        Svelto, nascose il foglietto in tasca prima che Ron potesse chiedergli di leggerlo: non era proprio il caso che venisse a sapere certe falsità – era abbastanza sicuro di non aver mai detto a Malfoy “mi manchi”. Non l’aveva fatto, no – non con quelle esatte parole, almeno.
        Ancora arrabbiato, abbozzò una sottospecie d’insulto su un secondo brandello di pergamena, che poi inoltrò con le stesse meccaniche di poco prima.
        Leggendo il messaggio, il Serpeverde inarcò un sopracciglio.
 
Non ho mai detto di voler avere a che fare con uno stronzo.
Credevo che avessi persino dimenticato come si fa ad esserlo.
 
        Decise di non rispondere con l’ennesimo biglietto, soprattutto perché la McGranitt si era chiaramente accorta di quello che stavano combinando e sembrava sul punto di ammonirli.
        Aspettò pazientemente la fine della lezione, e quando finalmente giunse il momento di uscire dall’aula, prima di imboccare la porta trovò la forza di farsi avanti e avvicinare il Grifondoro – ma non troppo.
        «È come andare sulla scopa, Potter. Non si dimentica mai», fece, riferendosi esplicitamente a ciò che l’altro gli aveva scritto. Poi, senza aspettare repliche di sorta, gli diede le spalle e s’incamminò nel corridoio.
        Era fiero di sé: malgrado le insicurezze, prendere in giro Potter si era rivelato facile come lo era sempre stato. Lo trovò sorprendente e rincuorante, e per un po’ si sentì meglio del solito.
 
 
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Angolo di Tormenta

Dopo dosi massicce di Ginny, io per prima avevo bisogno di tirare in ballo Draco. c': Comunque - mi auguro d'essere riuscita a convincervi a non provare odio puro per la Weasley. Ho messo molto di me stessa in lei, questa volta, e... niente; se vi va, fatemi sapere che ne pensate. 

Mille grazie a tutti coloro che leggono, commentano, e fanno altre cose per supportarmi. Love you all! ♥ :D

Baci baci e alla prossima,
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Capitolo 8
*** 7. (Quasi) come ai vecchi tempi ***


7.
Quasi come ai vecchi tempi
 
 
 

        Avanzando nel corridoio a passo sostenuto, i tre Grifondoro borbottavano fitto tra loro, facendosi strada nel mare di studenti che avevano attorno.

        «Sei sicuro che non sia un problema, Harry?»
        «Sì, ne sono sicuro. È solo un pomeriggio alla settimana, non preoccupatevi».
        Hermione sembrava ancora poco convinta: si sentiva in colpa ad abbandonare l’amico per passare del tempo da sola con Ron quando la storia con Ginny era finita da così poco. Tuttavia, non volle insistere troppo. «D’accordo», soffiò.
        Weasley scoccò un’occhiata di ringraziamento a Potter, poi la buttò sullo scherzo, sorridendo sornione: «Avrai un sacco di tempo libero per studiare».
        Harry rise, «Sì, certo».
        Lei li rimproverò con lo sguardo, disapprovando tacitamente il loro atteggiamento. «Potresti davvero studiare. Dobbiamo sostenere degli esami, l’hai dimenticato?»
        Fissando dritto davanti a sé, Potter perse il sorriso. Lo stesso accadde a Ron, che subito si rivolse alla ragazza con tono lamentoso: «Hermione, lascia che te lo dica – hai il talento innato di distruggere la mia gioia».
        «Io lo dico per voi. Non voglio che vi riduciate a studiare all’ultimo».
        «Mancano ancora mesi agli esami. Mesi! Non vogliamo parlarne adesso. Dico bene, Harry?» Si voltò verso l’amico in cerca di sostegno, ma lo trovò con l’espressione accartocciata e gli occhi ancora puntati più in là nel corridoio. Non capendo, cercò di individuare cosa lui stesse fissando con tanto astio.
        Spostò lo sguardo in avanti, allora, e lo vide: Malfoy, con la fronte corrucciata e i pugni stretti, affiancato da Theodore Nott e Pansy Parkinson.
        I tre Serpeverde si stavano avvicinando in fretta, e lui girò nuovamente il capo verso Potter prima d’incupirsi e mettere su la faccia più seria di cui era capace.
        Harry serrò la mascella: il ricordo dei bigliettini meschini di Draco l’aveva infervorato, ed era stato travolto da una rinnovata rabbia. Non tolse gli occhi di dosso a Malfoy neanche per un secondo, e quando lui e i suoi compagni sfilarono loro accanto, superandoli, istintivamente si fermò e si voltò.
        «Malfoy», chiamò con voce sicura.
        Quello, insieme a Parkinson e Nott, si bloccò di colpo, ruotando il busto per vederlo in viso. Sentendosi appesantito dai vari sguardi affilati che aveva addosso, esitò, prima di borbottare: «Cosa vuoi, Potter?»
        «So che non ti applichi molto, quest’anno, ma vedi di non saltare i prossimi allenamenti di Quidditch. Non c’è gusto a batterti a occhi chiusi». A breve si sarebbe tenuta una partita tra le loro squadre: la prospettiva di stracciarlo lo allettava non poco.
        Draco soffiò con fare supponente. «Non preoccuparti. Non ti renderò il gioco facile».
        Si fissarono in cagnesco per un po’, dopodiché ognuno riprese a camminare per la propria strada.
        «Cos’era quello?» fece Hermione, vagamente preoccupata.
        Harry alzò le spalle, senza replicare.
        Lei, turbata, si raccolse in un silenzio denso di pensieri, mentre parallelamente Ron prese a bofonchiare commenti cattivi riguardanti i Serpeverde.
        Intanto, alle loro spalle, Pansy Parkinson gongolava. «L’avevo detto, che la faida era ripresa».
        Malfoy mugugnò, scocciato. «Risparmia il fiato».
        «Non essere così scontroso», lo riprese, stufa. «Anche se non vuoi dirci a cosa è dovuto il tuo improvviso cambiamento di rotta, ti copriremo le spalle lo stesso», aggiunse a voce più bassa, parlando anche a nome di Nott.
        In quel momento, Malfoy la detestò meno del solito. Sulle sue labbra nacque una piccola smorfia, che si trasformò rapidamente in un mite sogghigno quando, osservando Theodore, si vide rivolgere un silenzioso cenno di assenso.
        Decisamente, c’erano delle occasioni in cui far parte di un gruppo non faceva poi così schifo.
 
 
* * *
 
 

        Il professor Holmwood aveva preso l’abitudine di dividere in due parti, spesso senza soluzione di continuità, le proprie lezioni. Cioè, prima dedicava tempo alle spiegazioni teoriche, poi cambiava argomento e proponeva le più disparate esercitazioni pratiche. Ciò per, a suo dire, «alleviare la noia» – non si era ben capito se la sua o quella degli studenti.
        In ogni caso, in quel venerdì novembrino, dopo aver blaterato a lungo di Negromanzia, mostrò agli alunni dell’ultimo anno di Grifondoro e Serpeverde un nuovo incantesimo. Per illustrarne l’effetto, si avvalse dell’aiuto di una piccola creatura ingabbiata che recuperò da un baule rimasto chiuso sino a quel momento.
        «È una Gontallantula», asserì freddamente, mentre quella che sembrava una scura palla di pelo si dimenava, sibilando con fare minaccioso e strabuzzando i minuscoli occhietti rossi. «È una specie piuttosto aggressiva e territoriale». A rimarcare le sue parole, ci pensarono gli artigli di otto zampette sottili, che suonarono sordamente sul metallo della gabbia.
        «Vorrei che vi esercitaste con l’incantesimo Aferox, per calmarla. Potrebbe risparmiarvi parecchie grane, se mai ne incontrerete un esemplare».
        Puntò la bacchetta contro la creatura, accompagnò la formula ad un sicuro movimento del polso, e di colpo i soffi irritati e il clangore degli artigli che colpivano la gabbia si estinsero. «Oh, e fate attenzione – se spostate la bacchetta troppo in fretta», e nel dirlo, lo fece, «l’incanto si rompe». L’agitazione della Gontallantula esplose nuovamente. «Vorrei che provaste a mettere in atto la variante non verbale», aggiunse, curioso di scoprire chi ci sarebbe riuscito.
        Seduta al proprio posto, Hermione controllò sul libro le pagine dedicate a quegli esserini dal pelo nodoso; storse il naso quando lesse delle violenze che erano in grado di commettere. Poco più in là, anche Ron mise su un’espressione poco felice: più che altro perché la bestiola assomigliava un po’ troppo ad un ragno, per i suoi gusti.
        Prima di dare il via alle esercitazioni, Holmwood elargì un paio di istruzioni e di consigli. In particolare, ripeté più d’una volta: «Non guardatela troppo a lungo negli occhi. La interpreterebbe come una provocazione».
        Ben rinchiusa, la Gontallantula fu posta davanti alla cattedra: gli studenti furono invitati a farsi avanti, e si schierarono spontaneamente in due gruppi, in base alla Casa d’appartenenza. Per un po’, tutto filò liscio.
        Poi, giunse il turno Ron.
        Era avanzato con la ferma intenzione di eseguire al meglio la magia, e subito aveva puntato la bacchetta sul bersaglio. Tuttavia, una volta che fu davanti al mostriciattolo, finì con l’esitare di fronte all’aspetto da aracnide che tanto trovava repellente e, senza volerlo, fissò un po’ troppo a lungo lo sguardo in quegli occhietti rossi che lo scrutavano dal basso.
        «Smetti di fissarla», suggerì prontamente il professore; ma era già troppo tardi.
        Con un verso a metà tra un sibilo e un ringhio, infatti, l’animale caricò la gabbia nell’intento di sembrare minaccioso, e la rovesciò.
        Istintivamente Weasley indietreggiò di un mezzo passo, temendo di venir attaccato. Strinse la presa sulla bacchetta, capace solo di pensare che doveva realizzare l’incanto Aferox il prima possibile – insomma, aveva fronteggiato ragni ben più terrificanti di quello, perciò doveva farcela.
        La situazione degenerò in un istante. Holmwood s’era avvicinato, pronto a intervenire, ma prima che potesse fare alcunché sia il Grifondoro, sia la Gontallantula agirono: da una parte, la creatura si dimenò con forza facendo sobbalzare la gabbia; dall’altra, Ron tentò di scagliare l’incantesimo assegnato. L’agitarsi della bestiola, però, lo distrasse e, emettendo una sottospecie di lamento con voce acuta, fallì. Miseramente, per giunta, perché subì una sorta di contraccolpo al braccio e dal nulla la manica della sua divisa prese fuoco.
        «Miseriaccia», bofonchiò, a dir poco allarmato, mentre alcuni compagni di Casa sopraggiungevano; senza tante cerimonie, Hermione gli riversò addosso un Aguamenti ben assestato.
        «Tutto okay?» gli chiese, preoccupata.
        Zuppo d’acqua, Ron controllò di non aver riportato danni gravi, poi annuì.
        Dopo che si fu assicurato che il problema delle fiamme fosse risolto, l’insegnante fece levitare la creatura imprigionata per riportarla al proprio posto, e provvide a placarla almeno in parte. «Serve calma, Weasley», fece poi, rivolgendo un’occhiata di rimprovero allo studente. «Ed è anche necessario aprire le orecchie quando vi dico cosa va fatto e cosa non va fatto. Potrei sottrarre punti a Grifondoro per incompetenza».
        Alcuni lievi risolini stupiti si alzarono dalle fila dei Serpeverde, i quali si guadagnarono un’abbondante quantità di sguardi di rimprovero. In particolare, Draco Malfoy, che s’era concesso un mezzo sorrisino, venne fulminato da un seccato Harry Potter.
        I due si scrutarono brevemente, e Draco capì che quello era un buon momento per lanciare una frecciatina. Tentennò per svariati secondi prima di decidersi ad aprir bocca e mormorare: «Incompetenza. Ti suona familiare, Potter?»
        Harry strinse i pugni. «Sta’ zitto, Malfoy».
        E forse era una cosa ridicola – il Serpeverde proprio non avrebbe saputo giudicare con precisione –, ma essere zittito da Potter aveva un retrogusto nostalgico tutt’altro che terribile.
        La loro parentesi, comunque, si concluse lì, senza tanti fronzoli; eppure colpì in maniera significativa l’attenta osservatrice Hermione Granger. In quel momento, però, lei non poté soffermarsi sui due ragazzi troppo a lungo, perché Holmwood ricominciò a parlare attirando la sua attenzione.
        «Sapresti almeno dirmi cos’è appena successo al tuo braccio?» chiese, rivolgendosi a Weasley.
        Quello, sforzandosi di riflettere, scrollò la manica gocciolante. «Hm, è stato un effetto collaterale di un incantesimo sbagliato?» borbottò, incerto.
         «Più precisamente?»
        Vedendo che Ron titubava, Hermione alzò una mano per rispondere al suo posto – proprio non poteva suggerirgli cosa dire: l’insegnante se ne sarebbe accorto.
        Dopo alcuni secondi di silenzio, Holmwood si arrese e le diede la parola.
        «È stato un Maleficio di Finnstock. Cioè, la conseguenza di un incantesimo non verbale con difetti di esecuzione».
        Annuendo, il professore soffiò tra sé e sé, rinunciando all’idea di sottrarre punti alla Casa dei rosso-oro – in fondo, almeno una di loro era ben preparata e reattiva. «Temo sia necessario un po’ più di studio, Weasley. Non ci sarà sempre Granger a tirarti fuori dai guai», proferì, per poi riprendere con le esercitazioni.
        Colpito nell’orgoglio, Ron diventò tutto rosso; per fortuna, però, incrociò uno sguardo di Hermione, e si tranquillizzò. Ciò, grazie alla sicurezza che – a priori da ciò che poteva pensare l’insegnante – : lei ci sarebbe sempre stata.
 
 

        Non appena Holmwood dichiarò la lezione terminata e li congedò, Hermione si avvicinò con passi decisi ad Harry. «Dobbiamo parlare di una cosa», mormorò, facendo un cenno col capo in direzione dei Serpeverde. «Si tratta di Malfoy».
        Potter aggrottò la fronte, perplesso. «Sì, hm― che succede?»
        «Questo pensavo di chiederlo io a te».
        «Perché?»
        «Che c’è?» intervenne Ron, che non aveva colto il tema della discussione.
        La ragazza sospirò, prima di illustrare, concisa: «Ho notato qualcosa di strano. In Malfoy».
        Uscirono dall’aula lasciando in sospeso il discorso. Prima d’imboccare la porta, di nascosto, Potter lanciò un’occhiata non ricambiata a Draco.
        «Che c’entra Malfoy?» riattaccò Weasley, mentre camminavano nel corridoio.
        Hermione arricciò le labbra, concentrata. «Per un bel po’ ci ha ignorati. No?» I due ragazzi confermarono. «Ora invece ci parla di nuovo. O, meglio, ti parla» si corresse, indicando Harry.
        Lui inarcò un sopracciglio. «Già. Quindi?»
        «Non lo trovate strano? Voglio dire, in passato Malfoy non si è mai fatto scrupoli a prendere in giro me, Ron o chiunque altro. Poi ha smesso di farlo – e fin qui tutto bene. Ma perché ricominciare prendendo di mira solo te?» Ancora una volta, si rivolse a Potter.
        «Solo me?» Storse il naso, «Prima ha fatto lo stupido dopo l’incidente di Ron».
        «Dimentichiamoci di questa storia, per favore», mormorò Weasley in sottofondo, ancora un po’ imbarazzato.
        Lei, intanto, mise su un’espressione compiaciuta, come se avesse voluto sentirgli dire proprio quella frase. «Lo ha fatto, è vero; ma non se l’è presa con Ron. Si è rivolto a te».
        «Beh, Ron era vicino al professore. Non poteva prendersela con lui», fece Harry, non cogliendo il punto.
        «Io lo trovo comunque strano», replicò Hermione. «Tra voi due non è successo niente di spiacevole, vero?»
        «No».
        «Sicuro? Perché mi sono accorta di come vi comportate».
        «Come ci comportiamo?» Potter non riusciva a capire cosa avessero fatto di male.
        «Ho notato che ogni tanto lo fissi e, ultimamente, anche lui fissa te. In più, ti ha scritto quelle cose cattive l’altro giorno, e l’hai fermato in mezzo a un corridoio per provocarlo». Sbuffò, pensierosa. «Non so, ho creduto fosse successo qualcosa».
        Harry si fece mogio e puntò gli occhi a terra con aria colpevole. Probabilmente, era giunto il momento di vuotare il sacco. «Forse― forse ho capito a cosa ti riferisci. È successa una cosa, in effetti», ammise in un soffio.
        «Cosa?»
        Sia Hermione, sia Ron gli rivolsero sguardi a metà tra il preoccupato e il curioso.
        «La settimana scorsa l’ho incontrato in biblioteca».
        «Quando la settimana scorsa?» chiese Weasley, perplesso.
        «Giovedì. Ginny quel giorno doveva studiare e―» s’incupì, bloccandosi a causa del groppo alla gola che comparve nel momento in cui dovette pronunciare il nome della sua ormai ex ragazza. «Ero da solo», riassunse, «e, insomma, l’ho incrociato in biblioteca. Abbiamo parlato».
        «Di cosa?»
        Di colpo, a Potter tornò alla mente il motivo per cui aveva evitato di confessare agli amici quella vicenda: chissà che avrebbero pensato di lui, una volta saputa la verità. «Niente di che. Però, ecco – potrei avergli chiesto di tornare quello di prima».
        Per qualche secondo, su di loro calò il silenzio.
        Poi, Ron reagì: «Miseriaccia, Harry! Perché?» Ai suoi occhi, non aveva alcun senso. «Si stava tanto bene senza Malfoy!»
        «Io non stavo poi così bene». Le parole gli scivolarono fuori dalle labbra senza che se ne accorgesse, e subito, gesticolando, si sentì in dovere di spiegare: «Un sacco di cose sono diverse da quando c’è stata la guerra, e non mi piace. Volevo solo che questa restasse normale».
        Hermione sospirò, poggiandogli gentilmente una mano su un braccio. «Capisco quello che vuoi dire, Harry, ma non credo proprio che sia stata una buona mossa».
        Lui tacque.
        «Perché non ce l’hai detto prima?» tornò alla carica Weasley, incredulo.
        «Non volevo che vi faceste strane idee».
        La ragazza rifletté per qualche istante. «Spero che tutto ciò non ti si ritorca contro».
        «Se ricomincerà a dare fastidio anche a noi, ti riterrò responsabile!» si lamentò ancora Ron, inquieto.
        Harry sbuffò, senza ribattere.
        Per alcuni lunghi momenti, si sentì un po’ folle: capiva che potesse sembrare strano, controproducente, insensato che si fosse ripreso Malfoy; e capiva anche la reazione degli amici. Ma non riuscì a convincersi a curarsene più di tanto, perché al di là del buon senso, della logica e di cosa potesse essere giusto fare, lui, col Serpeverde a farlo dannare, stava bene. Meglio di prima, se non altro, perché Hogwarts sembrava più quella di un tempo, e aveva una ragione in più per credere che non tutti, ad un certo punto, fossero destinati a sparire dalla sua vita.
 
 
* * *
 
 

        Draco Malfoy, vestendo i panni del diligente cercatore della squadra di Quidditch di Serpeverde, si presentò più puntuale che mai agli allenamenti della settimana successiva. E non perché glielo avesse suggerito Potter – per carità, avrebbe fatto presenza comunque; checché se ne dicesse in giro, infatti, non aveva dato buca poi tante volte ai propri compagni. S’impegnò più del solito, però – e questo , lo fece perché spronato dalle parole del Grifondoro.
        Voleva un avversario? Avrebbe provato ad esserlo. Magari sarebbe stato facile come prenderlo in giro.
        In effetti, nonostante tutto, con Potter ogni cosa sembrava stupidamente semplice. Non poteva esserne certo, ma forse era proprio quello il dettaglio capace di dargli sollievo.
 
 

        Il giorno della partita, diede il meglio di sé. Riuscì a tenere testa a Potter e, per un attimo, rendendosi conto di essere a tanto così dal raggiungere il boccino, provò l’inebriante sensazione di avere la vittoria in pugno. Doveva solo allungare il braccio un altro po’, curvare nel modo giusto, mantenere il proprio vantaggio – poteva farcela, e così infliggere ai rosso-oro una sconfitta che non avrebbero dimenticato tanto in fretta.
        Ma si rivelò solo un’illusione: il boccino fece una svolta imprevista sgusciandogli via dalle dita e, ancora prima che potesse impostare una nuova traiettoria, Harry lo intercettò, catturandolo con un gesto fluido.
        Grida festose s’innalzarono dagli spalti. Venne annunciata la vittoria della squadra di Grifondoro. Volarono alcuni complimenti.
        Draco non sentì nulla di tutto ciò: mentre rallentava l’andatura, tenne lo sguardo puntato sul rivale – e se gli sguardi avessero potuto causare combustioni, il suo l’avrebbe fatto. Strinse forte la presa sul manico della scopa, travolto da un’immensa frustrazione, e imprecò ripetute volte tra sé e sé.
        Inacidito, non rivolse la parola né a Potter, né a chiunque altro. Solo più tardi, negli spogliatoi, avrebbe trovato la voglia di fare commenti; e anche in quel frangente non fu particolarmente sportivo nell’accettare la sconfitta. Infatti, bofonchiò, rivolto ai compagni di squadra: «È tutta colpa vostra. Siete per metà degli incapaci, e anche chi non lo è oggi ha giocato da schifo».
        Mai partita persa gli diede più fastidio. Forse perché s’era illuso di poterla vincere. Non che non avesse creduto di potercela fare anche in passato; però quella volta era diverso, perché l’idea di essere ancora il solito perdente, e di esserlo nientemeno che in confronto alleroe del Mondo Magico, faceva bruciare dolorosamente il suo orgoglio e gli riportava alla mente il fallimento che vedeva in se stesso.
        Aveva creduto di potersi ancora confrontare con Potter, per un po’. Ma forse aveva commesso un errore: magari, dopotutto, per lui sarebbe stato meglio stargli alla larga, se la conseguenza dell’averci a che fare doveva essere quel sentirsi una nullità.
        Harry, ovviamente, rimase all’oscuro dell’esistenza di tali pensieri. Tuttavia, si accorse degli effetti che ebbero, perché a seguito della partita – dal suo punto di vista, senza motivo – Malfoy interruppe la scia positiva a cui avevano dato inizio: tornò praticamente ad ignorarlo, privandolo della piccola frazione del loro rapporto che s’era convinto d’aver recuperato.
        La cosa non gli piacque per niente. E mentre Hermione, sollevata, notava che la situazione era “migliorata”, sostenendo che «per fortuna vi siete resi conto che odiarsi ancora non ha senso», lui morì un pochino dentro.
        Tra sé e sé, comunque, decise che non avrebbe gettato la spugna tanto facilmente.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Insomma, Malfoy ha dei dubbi e "scappa" - non me la sentivo proprio di liquidare le sue insicurezze con tanta leggerezza. Ma Harry è un tipo cocciuto; e con ciò ho detto tutto. ;)
Poi, Holmwood. Non è sparito nel vuoto cosmico! Come tutti, anche lui avrà un ruolo nella vicenda, quindi era doveroso farvelo conoscere un po' meglio. Detto ciò, sono terrorizzata dall'idea di aver combinato un disastro con lui, la sua lezione, la bestiola con troppe zampe - tutto quanto. Perciò ora fuggo e corro a nascondermi (?).

Mille grazie a chi segue la storia! Love you all! ♥
Alla prossima,
T. ♪
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Capitolo 9
*** 8. Da capo, con più (in)decisione ***


8.
Da capo, con più indecisione
 
 
 


        Dicembre scorreva veloce.

        Era nevicato. Attorno ad Hogwarts, tutto sembrava avvolto in un bianco ovattato. All’interno della scuola, invece, l’atmosfera si era fatta calorosamente nitida: gli animi si stavano già scaldando in previsione dell’arrivo del Natale – e anche della pausa dalle lezioni.
 
 

        Harry aveva concesso a Malfoy un po’ di tempo, ma lui continuava ostinatamente a non dargli udienza. Non lo sopportava.
        Per dare una scossa alla situazione, lo cercò con sguardi e alcune parole secche che, però, caddero sempre nel silenzio. Cocciutamente, non si arrese nemmeno di fronte a quei chiari inviti a lasciar perdere, e pensò bene di replicare le azioni già compiute.
        Parlargli in biblioteca, la prima volta, aveva funzionato: l’avrebbe fatto di nuovo.
        Dovette solo aspettare che arrivasse il giovedì più vicino e poi, congedandosi da Neville, che gli aveva fatto compagnia le settimane precedenti, si diresse al quarto piano. Solo una volta lì, camminando tra gli scaffali, si rese conto d’essere stato avventato – non c’erano garanzie che il Serpeverde fosse al tavolo a cui l’aveva scorto precedentemente. Se non l’avesse trovato, sarebbe stato catapultato di nuovo al punto di partenza.
        Non volle preoccuparsene prima d’aver controllato. E fu una scelta saggia, la sua, perché, grazie a quello che volle interpretare come un aiuto del destino, rintracciò Malfoy esattamente dove preventivato. Con lui c’erano anche altri Serpeverde, però.
        Harry avrebbe preferito non doverli affrontare tutti insieme, perciò, prendendo posto ad un tavolo vicino, scelse d’aspettare un momento più consono per intervenire. Ammesso e non concesso che ne sarebbe mai giunto uno.
        «Cosa fa?» mormorò Pansy Parkinson, osservando il Grifondoro.
        Draco, vicino a lei, sospirò. «Non lo so». E da come pronunciò quelle parole, fu chiaro a tutti che non aveva alcuna intenzione di addentrarsi nell’argomento.
        Ricominciarono a studiare silenziosamente, quindi, e nel mentre, senza che nessuno sospettasse nulla, Malfoy pensò a Potter – a quell’incredibilmente testardo, seccante imbecille che continuava a ronzargli attorno malgrado i mille tentativi fatti per scacciarlo. E avrebbe dovuto ammetterlo, sapere d’essere tanto desiderato non era poi così orribile; il suo ego approvava.
        Si concesse di lanciare occhiate dalla sua parte, ogni tanto; sembrava determinato a restare. Quasi gli sembrò surreale che stesse facendo tutto quello per lui.
        Ma , lo stava proprio facendo, e poté appurarlo definitivamente nel momento in cui, insieme agli altri Serpeverde, s’alzò per andar via. Infatti, non appena imboccarono il percorso tra gli scaffali che li avrebbe portati all’uscita della biblioteca, il Grifondoro scattò in piedi e si mise platealmente al loro inseguimento.
        Agire non fu particolarmente semplice, per Harry; non aveva, infatti, una precisa idea di come comportarsi. Era da solo, mentre loro erano in quattro, e per quanto fosse audace non era certo di poter combattere contemporaneamente tutte quelle lingue affilate.
        Stavano ancora marciando tra le scaffalature, quando decise d’improvvisare – tanto, aveva pensato, non si divideranno. «Malfoy», chiamò.
        Draco e i suoi, di colpo, s’arrestarono. Pansy Parkinson, Gregory Goyle e Daphne Greengrass – che, sin da quando avevano abbandonato il tavolo, si erano messi in attesa di uno scontro con l’inseguitore rosso-oro – non esitarono a voltarsi per fronteggiare Potter. Malfoy, invece, continuò a dargli le spalle, irrigidito.
        «Non ignorarmi», sbottò Harry, con voce bassa ma dura.
        Al che, Draco l’accontentò e si girò verso di lui. Probabilmente tutti s’aspettavano che dicesse qualcosa, che sparasse un commento tagliente dei suoi, ma non lo fece, causando spaesamento soprattutto in Goyle, che per alcuni istanti fece saettare lo sguardo da lui, al Grifondoro.
        Vedendo che Malfoy non accennava a voler rompere il silenzio, Pansy pensò bene di prendere in mano le redini della questione. «Può ignorare chi gli pare», sibilò.
        «Già», confermò Goyle, spalleggiando la compagna.
        Daphne non disse nulla, ma sul suo viso nacque un’espressione minacciosa piuttosto eloquente.
        Costretto ad affrontare quel loro fronte comune, Harry non poté che stringere i pugni e costringersi a pensare a qualcosa d’intelligente da dire. Ma, purtroppo per lui, non ebbe grandi idee, perciò tacque.
        Colto da sentimenti contrastanti, Malfoy sbuffò. Non disdegnava l’aiuto che i compagni gli stavano fornendo, ma comunque li detestò per quell’intromissione: già troppe volte aveva lasciato che altri parlassero al posto suo e prendessero decisioni per lui, e non era incline a lasciare che succedesse di nuovo. Così, un po’ irritato, finalmente aprì bocca: «Andate».
        Parkinson, Goyle e Greengrass, straniti, si voltarono di scatto per guardarlo in viso. Credevano d’aver capito male.
        Ma no, avevano capito benissimo, e Draco era serio. «Avete sentito. Via», soffiò.
        «Cosa vuoi fare?» domandò Pansy, accigliata.
        «Non devi preoccupartene».
        Basiti, i tre non osarono protestare oltre. Si fecero da parte e si allontanarono, ma non prima d’essersi assicurati d’aver fulminato Potter un’ultima volta.
        Piacevolmente colpito dall’evolversi degli eventi, Harry s’ammorbidì un pochino.
        «Cosa vuoi?» chiese il Serpeverde con aria stufa una volta che furono soli.
        L’altro tentennò, perché non era facile introdurre l’argomento. «È come all’inizio dell’anno», esordì. «Mi ignori. Credevo avessimo chiarito».
        Fu dura, per Malfoy, combattere contro il sogghigno compiaciuto che premeva per fiorirgli sulle labbra. «Fammi capire: davvero sei così tanto disperato, Potter?»
        «Non sono disperato. Ma avevamo chiarito», ribadì. «Quindi qual è il problema?»
        Draco fece schioccare la lingua, piccato, poi indurì l’espressione e incurvò impercettibilmente le spalle. «Per te tutto è facile, vero?»
        Lievemente perplesso, Harry corrugò la fronte. «No».
        «Invece sì». Era sicuro di quello che diceva, che per lui tutto fosse scontato e immediato; e quasi si stupiva di se stesso, perché, per un po’, s’era lasciato illudere da lui e dalle sue prospettive semplicistiche. Aveva creduto di potercela fare, di poter riprendere da dove avevano lasciato prima della guerra. Invece, non poteva. Non con tanta leggerezza, almeno, perché avere a che fare con quel dannato eroe poteva essere tanto opprimente da togliergli il fiato. «Non è facile, per quanto tu ti diverta a credere il contrario», asserì, cupo.
        «Non fare il filosofico, Malfoy», lo riprese il Grifondoro. Poi sospirò e si morse una guancia, e senza neanche domandare a cosa l’altro si fosse riferito – non ce n’era alcun bisogno, aveva capito –, disse: «So che non è facile. Lo so meglio di quanto credi». Si sentì vagamente a disagio, perché parlare di quelle cose proprio con lui faceva uno strano effetto. «È per questo che mi servi», ammise tutto d’un fiato.
        Anche se ne ebbe l’occasione, Draco non commentò quell’ultima frase, perché vide Potter abbassare lo sguardo e ingoiare l’orgoglio e prendere colore in viso e, davvero, era già uno spettacolo abbastanza pietoso senza che infierisse. E sè detto tutto.
        «E io servo a te», aggiunse Harry, concitato.
        Inarcò un sopracciglio, «Come fai a esserne tanto sicuro?»
        Oh, lui non ne era affatto sicuro. Solo, lo sperava; perché pensare d’essere l’unico tra loro due ad avere bisogno dell’altro in quel maledetto dopoguerra era deprimente. «Lo so e basta», replicò, secco. «Perciò smetti di fare così, e riprenditi una volta per tutte».
        Malfoy, con malcelata supponenza, sgranò lentamente gli occhi: seriamente quell’idiota aveva appena calpestato problemi psicologici che neanche conosceva? E l’aveva più o meno giudicato per come aveva scelto di comportarsi? Gli parve pazzesco. S’arrabbiò, ma fu una rabbia strana, perché mista ad uno stupore che prese piede in lui sino quasi a paralizzarlo – proprio a causa di tale semi paralisi, dovette rinunciare a snocciolare gli insulti che gli stavano facendo pizzicare la punta della lingua.
        Un silenzio denso li avvolse per diversi secondi, mentre si fissavano. Ad un tratto il Grifondoro lo spezzò, schiarendosi la voce – aveva ripetuto tra sé e sé ciò che s’erano detti, e gli pareva d’aver portato a termine il proprio compito. Con un vago cenno della testa, quindi, accompagnato da un ultimo sguardo più penetrante degli altri, si congedò; fece un passo avanti, aggirò il Serpeverde, e avanzò tra gli scaffali senza voltarsi indietro.
        Ancora scosso, Draco per un po’ non reagì. Rimase lì, impalato, colto da quell’immobilizzante senso di confusione che non accennava a voler scomparire.
        Provò l’irrefrenabile desiderio di far qualcosa a Potter. Qualcosa di brutto. Di violento, forse; non si soffermò a mettere bene a fuoco il tutto. Pensò solo che sarebbe stato bello corrergli dietro e criticarlo, fargli presente quanto poco sapesse di lui e che non doveva permettersi di dirgli cosa fare; magari avrebbe potuto anche tirargli un pugno, perché se lo meritava, e―
        Ecco. Quel beota l’aveva fatto di nuovo. Chissà come, c’era riuscito.
        Gli aveva messo in testa l’idea di poter fare tutte quelle cose, d’esserne ancora capace. E di volerle fare, addirittura; d’avere, in sostanza, la possibilità di aggrapparsi al loro odio reciproco. Di sperare che servisse a qualcosa. E la speranza non era una cosa alla quale era avvezzo – affatto. Ad essere onesti, stentava a fidarsene e un po’ la temeva, perché gli pareva tanto un’accozzaglia di false promesse; e pur pensandola a quel modo, ne era umanamente attratto.  
        Contrasse i muscoli e quasi ringhiò sommessamente, non sapendo se essere grato a Potter o detestarlo con più forza. Nel dubbio, fece entrambe le cose. Ma soprattutto lo detestò.
 
 
* * *
 
 

        Una volta che furono rientrati in Sala Comune dopo la cena, Hermione prese brevemente da parte Ron mentre Harry s’accomodava vicino al caminetto.
        «Credo di dovergli parlare», gli disse. «Solo noi due. Lasciaci un attimo da soli, d’accordo?»
        Si erano entrambi accorti che nell’amico c’era qualcosa fuori dall’ordinario – una specie di accenno di agitazione –, e non capivano cosa lo stesse spingendo a trattenersi dal confidarsi con loro.
        «Cos’hai in mente?»
        Lei arricciò le labbra. «Da quando lui e Ginny non stanno più insieme, non ha ancora voluto parlare di come si sente. Magari è giunto il momento, e tu sei il fratello di Ginny, perciò―»
        Ron annuì. «Capito. Va bene, pensaci tu». Le sorrise, poi scoccò un’occhiata a Potter e si fece da parte: per non restare a fare lo stoccafisso mentre loro discutevano, si aggregò a Seamus e Dean, che stavano parlando di banalità.
        Dopo un istante di tentennamento, Hermione avanzò e prese posto accanto a Harry, sussurrando in tono materno: «Ehi. Va tutto bene?»
        Lui, colto quasi alla sprovvista, fece spallucce. «Hm, sì. Perché me lo chiedi?»
        «Ti vedo un po’ agitato. Ho pensato che ne volessi parlare».
        «Non sono agitato». Pronunciò quelle parole con fin troppa decisione, velocemente, tradendo se stesso.
        «Ne sei sicuro?»
        «Sì. Sicuro».
        Non se la sentì di parlarle del fatto che, in effetti, era un po’ su di giri – e questo per il semplice motivo che il tutto era dovuto alla chiacchierata fatta con Malfoy quel pomeriggio. Pregava di aver fatto le mosse giuste e di non aver esagerato, soprattutto nel rendersi ridicolo di fronte all’altro. Era un pensiero che un po’ lo tormentava, quello; proprio non riusciva a scacciarlo. In ogni caso, sapeva quale fosse l’opinione dell’amica a riguardo, e preferì risparmiarsi la lavata di capo che, senza dubbio, sarebbe derivata dal confidarsi con lei.
        «Non― non è a causa di quello che è successo con Ginny, vero?» insistette Hermione, onestamente preoccupata.
        Harry, serio, negò col capo. «No, no». La figura della ragazza gli attraversò la mente, e per un secondo s’incupì. «No», ripeté in un sussurro. «È tutto a posto».
        «Okay», mormorò l’altra, costretta ad arrendersi – pensò che lui non fosse ancora pronto ad aprirsi. «Ma ricordati che se vuoi parlare di qualcosa, io sono qui».
        «Certo. Grazie», e sorrise.
        Poco dopo, lei fece un cenno a Ron, che li raggiunse. Passarono il resto della serata chiacchierando.
 
 

        Prima di dirigersi al dormitorio femminile, Hermione si premurò di far sapere a Weasley che «Non mi ha detto nulla. Non so se sta male per la storia di Ginny». Lui, di colpo, s’appesantì, e sentì il bisogno di scambiare due parole con l’amico: per sua grande frustrazione, infatti, non gli era ancora chiaro come avesse preso la rottura con sua sorella – sembrava abbattuto, ma non troppo. O non abbastanza, non avrebbe saputo dirlo.
        In ogni caso, lo chiamò quando erano già in stanza, nel dormitorio, mentre stavano per infilarsi sotto le coperte. «C’è una cosa che devo chiederti», fece.
        Potter si sedette sul proprio letto, in ascolto.
        «Come va fra te e mia sorella?»
        Si morse una guancia. Poi, sottotono, rispose: «Tutto normale, direi. Ci hai visti».
        Lui e Ginny non avevano completamente tagliato i ponti. Non cercavano di evitarsi, e quando si incontravano riuscivano a rivolgersi un saluto impacciato e dei sorrisini di circostanza. Non era sorto rancore, solo tanta malinconia. Ma anche se si trattava di una specie di allontanamento “amichevole”, Harry non avrebbe potuto negare di sentire una puntura al petto ogni volta che tra sé e sé pensava che s’erano lasciati.
        Ron rifletté per qualche secondo. «Sai che sei invitato a passare il Natale con noi; ci farebbe piacere se venissi alla Tana. Pensi che― insomma, che sia possibile?»
        Avrebbe fatto l’impossibile, pur di potersi godere le feste in un ambiente familiare. «Mi piacerebbe», replicò, «ma forse dovresti chiedere anche a Ginny».
        «Per lei va bene», replicò prontamente l’altro, che con la sorella s’era già consultato.
        «Oh. Allora, grazie mille per l’invito. Accetto volentieri». E sorrise debolmente.
 
 
* * *
 
 

        Quando, il giorno successivo, Potter entrò nell’aula di Difesa contro le Arti Oscure, si sentì carico d’aspettativa: quella sarebbe stata la prima lezione condivisa con Serpeverde dopo la discussione con Malfoy; la prima vera occasione che aveva d’interagire con lui. Avrebbe dunque potuto scoprire se prendersi la briga di cercarlo in biblioteca aveva sortito l’effetto sperato.
        Discretamente, si demoralizzò un pochino quando si rese conto che a stento Draco lo guardava.
        Durante l’ora non si rivolsero la parola. Ed era già pronto a lasciarsi travolgere dalla mortificazione, quando, al termine della lezione, mentre s’avvicinava alla porta affiancato da Ron, all’improvviso fu scosso da una mezza spallata.
        Rivendicando quel gesto, Malfoy gli si portò davanti alla distanza d’un passo, scoccandogli un’occhiata torva. «Guarda dove vai», fece, arrogante, continuando a camminare.
        Harry, pervaso da un qualcosa a metà tra la soddisfazione e l’irritazione, soffiò minaccioso osservando l’altro uscire dall’aula. In sottofondo, Weasley espresse il proprio disappunto, ma lui non l’ascoltò.
 
 

        Avanzando a passi sicuri nel corridoio, Draco fu attraversato da una scossa di timore.
        L’aveva fatto: s’era lasciato cadere per la seconda volta in un buco di sfocata speranza. E lì per lì non era stato terribile – anzi, era stato piuttosto appagante. Prendersela con Potter, sapendo d’essergli necessario, lo gonfiava d’autocompiacimento e lo faceva star bene. Ma doveva star all’erta e procedere con attenzione – non poteva proprio permettersi d’esagerare, d’essere ingordo del sollievo che era in grado di procurarsi, perché gli era già capitato di peccare d’eccessiva sicurezza, e ne aveva sofferto. Ancora vibrava dal fastidio al ricordo dello scenario che era susseguito all’ultima partita di Quidditch; s’era sentito orribilmente piccolo, e se fosse ricapitato il suo amor proprio non avrebbe retto il colpo.
        Immerso a metà in quei ricordi, pensò, distrattamente e con una punta di insofferenza, che l’effetto che Potter gli faceva non poteva essere confinato in alcuno schema logico. Quell’idiota era capace di sfasciare le sue barriere, e averci a che fare era un po’ come maneggiare del veleno. Piccole dosi assunte con cautela, infatti, sembravano essere innocue e gli ingigantivano l’ego, perché il grande eroe del Mondo Magico in fondo era solo un ragazzo un po’ smilzo che aveva bisogno di lui; e sapere d’essere un tassello importante per qualcuno era una sensazione che decisamente causava dipendenza. D’altro canto, se calcava la mano e osava tanto così più del dovuto, avvicinandolo e provando a rapportarcisi, la mole di quel suo titolo – d’eroe, per l’appunto – pareva proiettare un’ombra che oscurava tutto, e allora la maledetta tossina gli stringeva il petto e lo schiacciava.
        Era assurdo: mai avrebbe creduto che odiare qualcuno potesse essere tanto difficile. E soprattutto, mai avrebbe creduto di potersi riscoprire disposto a far tanti sforzi pur di portare avanti un rapporto di quel tipo.
        Evidentemente, ne valeva la pena.
 
 
» …
 



 
Angolo di Tormenta

Non volevo che i fatti di questo capitolo fossero un copia incolla di quelli del quinto. Per quel che riguarda la scena tra Potter e Malfoy, intendo; l'intenzione era di renderla più "diretta", ad indicare un bisogno più impellente. Spero d'esserci riuscita! A voi la sentenza. ;) 

Vi ringrazio per aver letto sin qui! Love you all! c:
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Capitolo 10
*** 9. Le parole (meno) adeguate ***


9.
Le parole meno adeguate
 


 
        Del giorno della partenza da Hogwarts in occasione delle vacanze natalizie, in futuro, Harry avrebbe ricordato solo il momento in cui, ridendo, salì sull’Espresso insieme agli amici.
 
 

        I coniugi Weasley lo accolsero trattandolo come un membro della famiglia, e si sentì a casa sin dal primo istante che passò insieme a loro. L’arrivo alla Tana, poi, gli scaldò il cuore – l’atmosfera era calda, accogliente e c’era quel senso di affetto nell’aria capace di metterlo sempre a suo agio.
        Durante la sua permanenza, lunghi pranzi e cene abbondanti non mancarono all’appello, così come le partite di Quidditch improvvisate, gli scherzi, la gita a Diagon Alley – fu bello. Ma le luci soffuse delle serate passate a sorridere proiettarono sui muri lunghe ombre.
        Sguardi vacui si posarono in più occasioni su punti indefiniti. Smorfie divertite si trasformarono in ghigni intristiti. Certi silenzi, a volte, si protrassero alcuni secondi più del dovuto. E nessuno volle riconoscere l’esistenza di quei dettagli; ma fermo restava che erano reali, cupi, dolorosi, e tutti, in quella casa, ne sentirono il peso. Perché quello era il primo Natale senza Fred, e non potevano dimenticarlo.
        Solo una volta Potter osò parlarne, e lo fece rivolgendosi a Ron, una sera, prima d’andare a letto; non poté trattenersi, non dopo aver notato per l’ennesima volta quanto spento fosse George, e aver sentito attraverso le pareti l’eco ovattata del pianto soffocato di Molly.
        L’amico, però, da subito si dimostrò ben poco disposto a trattare l’argomento. Infatti, borbottò: «Ho paura che non tornerà mai come prima» e poi non ci fu verso di spillargli una sola altra sillaba a riguardo.
        A seguito di quell’episodio, Harry si sentì un po’ più consapevole del dolore della famiglia Weasley. In certi particolari frangenti percepì addirittura il bisogno di farsi piccolo, e sperò che perdonassero quello che era quasi un infiltrarsi, da parte sua, nel loro terribile lutto. Non che non ne sentisse il carico sulle spalle anche lui; solo, non aveva la presunzione di pensare che la propria sofferenza per l’assenza del gemello fosse comparabile a quella di chi l’aveva visto crescere, e c’era cresciuto assieme.
        Capitò – e quasi se ne sorprese – che venne chiamato a vivere più da vicino quel cordoglio. Ad invitarlo fu Ginny. Non lo fece in maniera esplicita, iniziando a parlargli di Fred o di quanto ne sentisse la mancanza; tutt’altro: semplicemente, una sera, mentre insieme a Ron lui stava per avviarsi in stanza, lo trattenne.
        «Rimani», soffiò.
        E a Harry tanto bastò: l’affiancò sul divano e, in silenzio, le fece compagnia. Di lì a poco, gli altri li lasciarono soli.
        «Lui non c’è più, ma io gli ho comprato lo stesso un regalo». Questo mormorò Ginny d’un tratto, generica eppure orribilmente specifica. Prese a torturarsi nervosamente le dita delle mani, e gli occhi le si riempirono di lacrime.
        Potter non commentò: sapeva di non essere bravo con le parole. Si limitò a farle intendere con uno sguardo che capiva, che era addolorato anche lui, e che avrebbe tanto desiderato poter fare qualcosa di più.
        Lei lo intese alla perfezione. Sospirò, impedendosi di piangere, poi si sporse quasi implorando per avere un abbraccio.
        Mesto, Harry glielo concesse senza esitare.
        Si strinsero forte per un tempo indefinito.
        «Grazie per esserci», sussurrò senza preavviso la ragazza, per poi tirare su col naso debolmente. Non accennando a voler sciogliere la stretta, incastrò meglio la testa su una sua spalla.
        «Hm».
        Tacquero per diversi istanti, stravolti da tutt’una serie di formicolanti sensazioni. Dopodiché, Ginny s’allontanò lentamente, malinconica.
        «È bello che siamo amici», fece, poi di getto gli rubò un secondo abbraccio, molto più breve del primo.
        Harry s’irrigidì: che fossero amici era bello, , ma a lui comunque faceva un po’ male. Non disse nulla a riguardo.
        «Grazie per essere rimasto con me. Io― io sono davvero contenta che tu sia venuto da noi, questo Natale».
        Lui esitò, prima di replicare con un filo di voce: «Sono contento anch’io». E lo era davvero, anche se una sua piccola parte, nel profondo, in quel momento non ne era del tutto convinta.
        Per impedirsi di tornare col pensiero al fratello, la ragazza affondò i denti in un labbro, poi inspirò con lentezza per tranquillizzarsi. «Ora è meglio che vada a letto», mormorò, sfiorando la mano di Potter a mo’ di saluto prima d’alzarsi. «Buonanotte». Gli sorrise debolmente e, in punta di piedi, s’allontanò.
 
 
* * *
 
 

        Durante il viaggio in treno verso Hogwarts, a seguito del periodo natalizio, in tanti si lamentarono della brevità delle vacanze. Draco Malfoy non fu tra questi.
        Non che smaniasse dalla voglia di riprendere a frequentare le lezioni, o che improvvisamente avesse iniziato ad apprezzare l’ambiente scolastico – tutt’altro. Solo, il dover trascorrere giorni al maniero di famiglia era stato per lui tanto fastidioso da spingerlo a provare il desiderio d’andar via, di fuggire. A seguito degli eventi dell’anno precedente, infatti, aveva sviluppato un’incredibile repulsione nei confronti di quella casa. In fondo, in quelle stanze si erano svolte vicende indicibili; quelle pareti avevano visto orrori da incubo; in quegli spazi erano riverberate urla da far gelare il sangue nelle vene. Come si poteva pretendere che lui ci vivesse come niente fosse?
        Che provasse un’avversione anche per Hogwarts era innegabile; tuttavia si trattava sicuramente del male minore, e quasi non vedeva l’ora di tornarci.
        In ogni caso, odiò per motivi indefiniti ogni singolo secondo che fu costretto a spendere a bordo dell’Espresso. E osservando dal finestrino il paesaggio che correva, non poté evitare di tornare con la mente ai momenti passati su quello stesso convoglio ferroviario pochi mesi prima, quando l’anno scolastico doveva ancora cominciare. Il vecchio disagio settembrino si rifletté su di lui nel presente, e ciò lo portò ad irrigidire i muscoli e l’espressione. Non perse il controllo come allora, però – rimase saldo, anche se un lieve turbamento gli solleticò il petto e il cuore accelerò appena a causa dei pensieri tediosi.
        Non sarebbe stato capace di dare un nome alla ragione del miglioramento della propria condizione, ma non ci fece caso, perché, dopotutto, non gli importava. L’essenziale era tornare a vivere un’esistenza serena – per quanto avrebbe mai potuto esserlo la sua –, e finalmente, forse anche solo grazie al trascorrere del tempo, si stava avvicinando a quell’obiettivo.
        Pensava proprio a quanto tutto il resto fosse trascurabile, quando finalmente il treno giunse alla propria meta.
        Si fiondò fuori dallo scompartimento sulle note di alcune parole spicce, senza prendersi la briga di aspettare tutti i compagni che avevano viaggiato con lui. Solo Blaise Zabini fece in tempo ad accodarglisi.
        E davvero non avrebbe saputo dire se l’universo lo detestava, o semplicemente amava metterlo alla prova – fatto sta che avanzando s’imbatté in un Harry Potter intento a sbucar fuori da una cabina. D’istinto, mugugnò tra sé e sé.
        Quando il Grifondoro s’accorse di lui, si bloccò, mettendosi sulla difensiva. Alle sue spalle risuonò la voce di Ron: «Che succede? Come mai ti sei fermato?» ma nessuno gli rispose.
        «Non vedevo l’ora di rivedere la tua brutta faccia, Potter», sbottò sarcastico Draco, rallentando inconsciamente il passo.
        Harry s’accigliò, «A chi lo dici».
        A quel punto, Weasley parlò ancora, ma Malfoy non perse tempo ad ascoltarlo, sfilando davanti all’altro e proseguendo per la propria strada: aveva bisogno di scendere dall’Espresso il prima possibile, e nessun Grifondoro al mondo sarebbe mai stato capace di trattenerlo.
        Non si rammaricò per quell’occasione persa; sapeva che ce ne sarebbero state altre, per prendersela con Potter.
 
 

        E in effetti, ce ne furono. Parecchie.
        Mantenendo sempre una certa distanza di sicurezza, riuscì ad ingranare la giusta marcia. Per diversi giorni si lanciarono tranquillamente le loro frecciatine, e non incapparono in particolari complicazioni. Fu semplice; troppo, quasi, tanto che un allarme mentale lo mise in allerta, suggerendogli di prestare attenzione, perché non era possibile che fosse tutto così lineare. Non per lui, almeno; non era il tipo di persona a cui il destino sorrideva. Ergo, o c’era un dettaglio fuori posto, o un disastro era in agguato.
        Di qualsiasi cosa si trattasse, ne fiutò per la prima volta l’odore a Gennaio inoltrato, mentre, nell’aula di Trasfigurazione, battibeccava con Potter aspettando che la lezione avesse inizio.
        Nulla di serio; le loro erano sempre conversazioni brevi e superficiali. In quell’occasione, però – difficile dire se per sua fortuna o sua sventura – a seguito della solita frase un po’ acida non s’allontanò subito: si soffermò qualche secondo in più; abbastanza da poter scorgere Granger, in piedi accanto a Potter, scuotere la testa con aria rassegnata.
        «Questa cosa è davvero necessaria?» la sentì sussurrare con tono apprensivo. «Pensaci. Perché dovreste continuare a farvi del male a vicenda?»
        Harry sospirò, lanciando un’occhiata all’amica. Poi, entrambi fissarono lo sguardo sul Serpeverde; e da come lo fecero, Draco capì che ciò che stava borbottando la ragazza lo coinvolgeva in qualche modo. Assottigliò gli occhi, quindi, e aprì bene le orecchie.
        «Ne abbiamo già parlato», cercò di tagliar corto Potter, chinando e voltando il capo in modo che Malfoy non potesse origliare.
        «Lo so. È che mi dispiace che dobbiate comportarvi ancora così».
        Ron, che era stancamente spalmato su un banco e si reggeva la testa con una mano, sbuffò scocciato. «Hermione, è inutile», fece. «Lascia perdere. Harry è evidentemente impazzito».
        Quello roteò gli occhi, preferendo non commentare.
        «Non è impazzito», lo difese lei, per poi perdere alcuni secondi cercando le parole giuste per descrivere l’atteggiamento dell’amico. Non le trovò, e si sciolse in un sospiro. «Non so perché crede che questo possa avere senso, ma non è impazzito», soffiò, parlando di lui quasi come se non fosse presente.
        A quel punto, una voce li colse tutti alla sprovvista.
        «Non hai informato i tuoi cari amici di come stanno le cose?» intervenne spavaldo Draco, certo d’aver intuìto la natura del loro argomento di conversazione. Si rivolse a Potter, provocandolo con lo sguardo, e s’accorse subito d’averlo allarmato. In qualche contorta maniera, se ne compiacque, e sentì crescere il desiderio di continuare a parlare – solo per fargli un dispetto. «Non hai detto loro che mi sei venuto a cercare? Che mi hai chiesto di odiarti perché ti servo?» proferì quindi, stando ben attento a cogliere tutte le loro reazioni.
        Vide Weasley drizzarsi scompostamente sulla sedia, mentre le sue guance si tingevano di rosso a macchie; da come strinse i pugni, capì d’averlo fatto arrabbiare. Notò poi che Granger s’incupì e abbassò la testa, e che Potter scrutò gli amici come a sondarne il comportamento.
        Per una manciata di secondi, infatti, Harry temette che Hermione e Ron avrebbero preteso da lui chissà quali spiegazioni. Fortunatamente non accadde: rimasero in silenzio, l’una a riflettere con serietà, l’altro a scagliare sguardi infiammati al Serpeverde. Non avrebbe potuto chiedere di meglio – non aveva confidato a nessuno dei due d’aver discusso una seconda volta con Malfoy, d’averlo spudoratamente spronato a fare del proprio peggio, e credeva che non ci fosse alcuna necessità che lo scoprissero.
        Si sentì parecchio sollevato quando realizzò che loro, probabilmente, neanche sospettavano che una cosa del genere fosse accaduta; magari erano convinti che il Serpeverde si stesse riferendo alla loro prima – e, dal loro punto di vista, unica – chiacchierata. E andava benissimo così.
        «Seriamente, Potter», ricominciò Draco con tono saccente, sollevando in quel modo tutto suo un angolo del labbro superiore e le sopracciglia. «Dovresti essere più aperto riguardo queste tue debolezze, o si faranno strane i―»
        «Tappati la bocca, Malfoy», l’interruppe velenoso Ron, incapace di trattenersi.
        Il bel sogghigno fiorito sul suo viso scomparve, mentre, fiacco, replicava: «Non stavo parlando con te, Weasley».
        «Continua a non farlo, allora».
        Hermione, sospirando tra sé e sé, mormorò: «Non ti ci mettere anche tu, Ron».
        «Cosa dovrei fare? Stare a guardare in silenzio mentre quello lì se la prende con Harry?»
        «Me la prendo con lui perché mi ha chiesto di farlo», ribadì il Serpeverde con aria di sufficienza. «O dovrei dire implorato
        Potter, con le labbra strette e l’espressione indurita, mugugnò infastidito, per poi sibilare: «Non esagerare, Malfoy».
        «Non esagero. E lo sai». Acquistò fiducia in sé, mentre Parkinson e Goyle lo affiancavano come a volergli dare man forte. «Non dovresti vergognarti tanto del tuo masochismo».
        «Lo dici per esperienza?» s’intromise ancora Weasley, desideroso di coprire le spalle all’amico.
        Perplesso, Draco lo fulminò. «Persino le tue provocazioni sono da quattro soldi», fece, e al suo fianco Pansy si concesse un mezzo sorrisino. «Cosa dovrebbe significare?»
        Ron, alzando le spalle, intercettò un’eloquente occhiata di rimprovero di Hermione, e sbuffò. «Non sai quello che si dice di te, immagino», bofonchiò tra i denti, per poi voltare con stizza il capo dall’altra parte.
        Malfoy tentennò, osservando Potter ammorbidire l’espressione e rivolgere al compagno uno sguardo che esprimeva evidente preoccupazione e stupore. «Cioè?» si sforzò di chiedere, ma nessuno gli rispose: tutto ciò che ottenne fu che Harry puntasse gli occhi su di lui, e fu strano. Si sentì analizzato, giudicato, ma soprattutto commiserato. Qualcosa gli bruciò fastidiosamente nel petto, e continuò a non capire.
        Forse quella conversazione si sarebbe evoluta in una vera e propria lite, o forse sarebbe terminata senza scoppi e scintille – non poterono scoprirlo, perché la professoressa McGranitt sopraggiunse e, con alcune spicce parole, spedì ognuno al proprio posto. Nel giro di poco, la lezione ebbe inizio.
        Draco continuò a percepire lo sguardo del Grifondoro su di sé. Turbato, si distrasse più volte e non fu in grado di ascoltare con attenzione le ciarle dell’insegnante.
        In primo luogo, pensò e ripensò a quanto Potter fosse ostinato: neanche l’opinione dei suoi stupidi amichetti pareva essere sufficiente a convincerlo a rinunciare al loro malsano rapporto. Non poté non dirsi compiaciuto.
        Rifletté poi sulle parole di Weasley – cosa che, normalmente, non avrebbe mai fatto. Ma quella era un’occasione particolare, perché quel dannato pel di carota aveva sfiorato un tasto a dir poco dolente, tirando in ballo le voci che giravano sul suo conto.
        Sapeva dei pettegolezzi, delle critiche, e di tutto il resto; insomma, sapeva che la gente parlava. Per lo più, sapeva anche di cosa; ma in quel frangente non riuscì a mettere a fuoco a quale voce Weasley avesse fatto riferimento. Ciò lo seccò abbastanza da spingerlo a ripromettersi di rimediare.
 
 

        Agì al termine di quell’ora, una volta uscito dall’aula: prese da parte chi sapeva essere in grado di fornirgli aiuto.
        «Devi fare una cosa per me».
        Pansy Parkinson, intrigata, arricciò le labbra. «Di che si tratta?»
        Malfoy tacque brevemente, ripetendosi quanto poco gli piacesse ciò che era costretto a fare. «Voglio sapere quello che gli idioti di Hogwarts dicono di me. Devi chiedere in giro».
        «Non puoi farlo direttamente tu?»
        «No». Non aveva alcuna voglia di avere a che fare con moli di patetici insulti, dicerie e quant’altro – preferiva di gran lunga risparmiarsi una buona parte della pena e aspettare che qualcuno gli riferisse le informazioni che contavano davvero qualcosa. «Voglio che lo faccia tu. I pettegolezzi inutili sono la tua specialità».
        Lei, tutt’altro che lusingata, ponderò per un momento. «D’accordo», sentenziò poi, «ma ricorda che mi devi un favore. Ah, e― Malfoy?» chiamò, trattenendolo.
        «Cosa?»
        «Quello che hai detto prima di Trasfigurazione… che Potter ti ha chiesto di dargli fastidio. È vero?»
        Si prese un paio di secondi prima di rispondere: «Sì».
        Il sogghigno sul volto di Pansy s’allargò pian piano, e sfociò in un’acuta risata di scherno. «Che soggetto! Dev’essere proprio disperato». Fece del proprio meglio per tornare seria. «Come mai lo stai accontentando?»
        «Non accontento nessuno. Men che meno lui».
        «Allora― perché
        Con un’occhiata gelida, mise in chiaro che l’argomento era chiuso. «Fammi sapere quando scopri qualcosa», sbottò; poi, senza salutare, s’avviò nel corridoio.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Salve! c:
Non sono riuscita a trattenermi dal dedicare un po' d'attenzione alla questione del povero Fred. Spero abbiate gradito. E poi... qualche tremore si fa strada sulla scena. Sta arrivando la tempesta (?), e porta con sè le voci dei pettegolezzi! 
Comunque - giovedì prossimo sarà la vigilia di Natale. E forse voi non ci sarete, ma, in caso, mi troverete qua come ogni settimana - perchè Tormenta ha una gran dedizione e non va in vacanza! Poi, ecco, mi piace considerare il prossimo capitolo un po' come il mio regalo per voi. Magari neanche lo volete, ma io ve lo rifilo lo stesso (?). 

Mille grazie a tutti coloro che seguono, preferiscono, commentano. Love you all! ♥ c:
Un bacione e a presto,
T. ♪
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Capitolo 11
*** 10. Mille (e una) buone ragioni ***


10.
Mille e una buone ragioni
 
 

 
        La squadra di Quidditch di Grifondoro disputò una partita amichevole contro quella di Corvonero in una giornata incredibilmente limpida. Così tanto, che per Harry non fu affatto difficile localizzare il boccino e stargli dietro.

        Lo agguantò piuttosto in fretta, e i compagni di squadra non avrebbero potuto essere più contenti; i Corvonero, infatti, erano organizzati molto bene, e stavano dando loro non poco filo da torcere.
        Potter stava ancora ricevendo qualche complimento mentre svolazzava qua e là sulla scopa, quando per caso gli capitò d’abbassare lo sguardo verso terra. Ciò che scorse cancellò in un battibaleno la smorfia soddisfatta che era fiorita sul suo viso a seguito della vittoria.
        Ginny, ancora in volo ma ad altezza misera, stava conversando con un ragazzo della squadra avversaria, che l’affiancava. Ridevano. Li vide stringersi la mano. Notò anche il peculiare sorriso gioioso sulla faccia di lei.
        Prima ancora che potesse processare il tutto, un gran magone gli si formò sul petto. Turbato, distolse lo sguardo dai due.
        Non fu capace di spiegarsi la propria reazione. Semplicemente, soffrì – ed era così stanco di farlo.
        S’incupì a tal punto che persino Ron, seppur distratto dalla gioia per l’esito della partita, s’accorse che qualcosa, in lui, non quadrava.
        «Che ti prende?» gli chiese una volta che furono negli spogliatoi, impensierito. «Insomma, abbiamo vinto! E non mi sembri molto felice».
        «Niente».
        «Non dirmi bugie».
        Facendo spallucce, Potter mugugnò per esprimere quanta poca voglia avesse di confidarsi. Tuttavia, alla fine parlò con sincerità: «Ginny», esordì, telegrafico.
        «Ginny?»
        «Prima era con un Corvonero. Quando ancora eravamo in campo, dopo la partita. Parlavano». Tenendo gli occhi puntati verso il basso, si passò una mano sulla nuca. «Lei non― non stava facendo niente di male. Non deve rendere conto a me; non dico questo. Però― mi ha fatto uno strano effetto, ecco». S’azzardò a cercare lo sguardo di Weasley, e dalla sua espressione capì d’averlo messo in una posizione un po’ scomoda. Così aggiunse: «Non è niente, davvero. Lascia stare». Rimarcò le proprie parole con un gesto della mano, poi, mesto, si diresse alle docce.
        Ron si morse una guancia, interdetto. Sapeva di non essere un gran oratore in materia di sentimenti, per questo pensò bene di rivolgersi a chi, al contrario di lui, avrebbe potuto essere d’aiuto a Harry: Hermione.
        Le raccontò l’accaduto quando s’incontrarono in Sala Comune, prima di cena, prendendola un attimo da parte. Poi la invitò a farsi avanti con Potter; lei, ovviamente, non se lo fece ripetere due volte.
        Gli si sedette vicino. Nei pressi c’era anche Neville: lui e Harry stavano chiacchierando. Con uno sguardo e un cenno pregò Paciock di lasciarli soli. Poi andò dritta al punto, mormorando: «Ron mi ha detto quello che è capitato oggi con Ginny».
        «Oh. Hm, okay». Divenne spaventosamente serio.
        «Vuoi parlarne?»
        «Non― non ho niente da dire. Non è successo niente di che».
        «Ma ti ha fatto stare male». Non voleva essere indelicata – solo, si preoccupava, e le sarebbe piaciuto riuscire a farlo sfogare. «Ti senti geloso
        «No. Almeno, non credo». Abbassò la testa, mogio. «È che sono stanco, tutto qua», ammise.
        «Stanco?»
        «Già».
        Dopo alcuni istanti di silenzio, lo spronò a continuare: «In che senso?»
        Harry sospirò. «È già da un po’ che ci siamo lasciati. Ora siamo più o meno amici, e sono stanco di sentirmi così». Tentennò, prima di aggiungere: «Lei sta bene. Insomma, meglio. Vorrei fosse così anche per me».
        Intenerita, Hermione gli poggiò la testa su una spalla e lo strinse in un mezzo abbraccio. «Ti riprenderai», sussurrò.
        Lui mugolò come a dire che lo sapeva, che si sarebbe ripreso – il punto era che voleva che accadesse presto.
        Poco dopo, mentre scendevano in Sala Grande per la cena, Ron venne informato del frutto di quel piccolo colloquio. Si sentì quasi impotente, preso com’era in mezzo ai due fuochi – Harry e Ginny, per l’appunto –, e volendo bene ad entrambi s’impegnò per fare la propria parte cercando di non deludere nessuno.
        Dopo aver mangiato, parlò con la sorella: s’informò con quanto più tatto poté di certe cose. Poi tenne per sé quel sapere per il resto della serata, aspettando l’occasione giusta per ritagliarsi un momento con Potter – occasione che giunse mentre, soli nella loro stanza nei dormitori, si preparavano per andare a letto.
        «Harry», chiamò, insicuro. «So che non dovrei intromettermi, ma― ho parlato con Ginny», confessò.
        L’altro prese nota della cosa senza fare una piega, annuendo lievemente; non sembrava affatto propenso a mandare avanti il discorso.
        Ma Weasley non s’arrese. «Non le ho detto che oggi in campo l’hai vista. Insomma, non le ho detto quello che ti è successo – che stai passando questo momento e― hm». Ingarbugliato nelle parole, tacque per una manciata di secondi. Poi ricominciò, con più calma: «Non le ho parlato di te, ecco. Però le ho chiesto delle cose riguardo quel Corvonero con cui era».
        A quel punto, Harry gli fece segno di non proseguire. «Ron, non voglio sapere nulla. Va bene così; non― non voglio sapere», ripeté con un filo di voce.
        «No, no; non hai capito. Sono solo amici! Me l’ha praticamente giurato. Ha detto che si chiama Nicholas qualcosa, e che hanno giocato a Quidditch insieme un paio di volte. Tutto qua».
        Sbuffando, Potter si lasciò cadere di schiena sul letto. Sapeva che le intenzioni dell’amico erano buone, ma proprio non l’aveva aiutato mettendolo al corrente di quelle cose; perché non importava che quel ragazzo in particolare fosse solo un amico: un giorno sarebbe comunque arrivato qualcun altro che sarebbe stato qualcosa di più. In sostanza, non cambiava nulla. Non dal suo punto di vista, almeno. «Ginny non mi deve spiegazioni», asserì, «e non me le devi neanche tu. Lasciamo perdere questa faccenda; mi passerà».
        L’altro, immusonito, non commentò. Solo dopo qualche momento si decise a borbottare: «Volevo solo fare qualcosa. Per te. Perché mi dispiace».
        «Lo so». Si alzò a sedere e incurvò le spalle, sistemandosi gli occhiali sul naso. «E puoi ancora fare qualcosa, se ti va».
        «Cosa?»
        Misterioso, Harry rifletté velocemente con lo sguardo puntato sul pavimento. Poi disse: «Fai una cosa stupida insieme a me».
        Weasley, confuso e intrigato, pretese subito più dettagli.


        Pochi minuti dopo, scesero alla chetichella le scale del dormitorio e sgattaiolarono fuori dalla Sala Comune.
        S’avviarono nel corridoio cautamente. Potter aveva con sé il mantello dell’invisibilità, ma considerato che non erano più due ragazzini minuti, muoversi sotto di esso sarebbe stato un po’ complesso. Per questo, optarono per camminare allo scoperto; avrebbero usato il mantello solo nel caso in cui avessero sentito sopraggiungere qualcuno.

        Scesero fino ai sotterranei, guardandosi bene dal parlare a voce troppo alta, e una volta giunti davanti al dipinto con la frutta da cui si apriva l’accesso alle cucine, s’arrestarono. Ron fece il solletico alla pera.
        Veloci come fulmini, sgraffignarono dei dolciumi: biscotti al cioccolato, un po’ di pane dolce, della marmellata; Weasley s’appropriò anche di una fetta di ciambella, che addentò ancor prima di uscire dalle cucine.
        Percorsero il tragitto di ritorno rapidamente, e per loro fortuna non ci furono intoppi. Poterono quindi rintanarsi col bottino nel dormitorio e, dopo che si furono accomodati sul letto di Harry, diedero inizio alla scorpacciata, condividendo il ben di dio trafugato anche con i compagni che, nel frattempo, erano saliti in stanza.
        «Non si dice mai di no ai dolci», buttò lì Seamus, sgranocchiando un biscotto.
        «Di chi è stata l’idea?» domandò contento Neville.
        «Harry!» rispose subito Ron, a bocca piena.
        «Approvo», fece Finnigan con una serietà disarmante mentre Dean ridacchiava.
        Potter, che s’era avventato sulla marmellata a cucchiaiate, per la prima volta dopo la fine della partita contro i Corvonero si sentì leggero. Con quella briciola di ritrovato buonumore, mormorò in direzione di Weasley, assicurandosi che gli altri non potessero sentire: «Mi dispiace che tu sia nel mezzo. Nella faccenda di Ginny, dico».
        Ron gli sorrise scompostamente, dandogli una pacca su una spalla. «Tutto okay, amico».
        Harry sapeva che non era necessario preoccuparsi per lui, ma comunque pronunciare quelle vaghe scuse lo fece stare un po’ meglio, perché servirono come ad assicurargli che con Ron non sarebbe cambiato nulla. Di certo, la loro amicizia non si sarebbe deteriorata per qualcosa di banale come una rottura con una ragazza: non l’avrebbe permesso, a costo d’attraversare chissà quanti momenti imbarazzanti, perché non poteva neanche immaginare di perdere una parte tanto importante di sé.
        E forse i suoi pensieri si stavano facendo un po’ troppo profondi per quell’ora della notte, ma non poté fare a meno di dirsi che, dopo tutto quello che avevano passato insieme, non gli era proprio possibile fare a meno di Ron. E neanche di Hermione, di Neville, di Seamus e Dean, della famiglia Weasley – Ginny inclusa –, di Luna, di―
        Si bloccò per un istante, poi: Già. Neanche di lui, pensò, e il volto di Draco Malfoy prese forma nella sua mente.
        Una strana scossa l’attraversò e, per un millisecondo, detestò se stesso: pensava a quel Serpeverde davvero troppo spesso. Iniziando ad essere quasi allarmato per la propria sanità mentale, cacciò con decisione il cucchiaio nella marmellata.
        Era da alcuni giorni che non si parlavano, lui e Malfoy; da quella discussione nell’aula di Trasfigurazione, a voler essere precisi. Non era da molto, quindi, ma comunque Potter per un momento temette che Draco avesse avuto un altro cambio d’umore e avesse preso ad ignorarlo di nuovo. Ma no, si rassicurò poi, non è possibile.
        Anche se… Ron aveva tirato fuori quella storia; quella delle voci. Lì per lì aveva stentato a crederci, ma : Weasley aveva proprio fatto riferimento ai vecchi pettegolezzi sull’autolesionismo. E chissà che razza d’effetto quella questione aveva fatto a Malfoy – da come aveva reagito, gli era parso all’oscuro di tutto. Ma non poteva esserne certo.
        Non che fosse preoccupato. Insomma, magari un pochino lo era, ma col tempo era riuscito a convincersi che Draco Malfoy non era una persona dalla quale ci si poteva aspettare un comportamento autolesionista, perciò era tutt’altro che intenzionato a perdere tempo ad arrovellarsi il cervello. Non l’avrebbe fatto in quel momento, soprattutto, con i dolci sparsi sul letto e gli amici tutt’attorno; voleva, infatti, che quel frangente fosse dedicato al proposito di abbandonare il malessere provato a causa di Ginny.
        Aveva deciso: avrebbe superato la faccenda e sarebbe andato avanti. In fondo, la sua vita sentimentale non poteva di certo dirsi finita lì – doveva solo riuscire a darsi una spinta nella direzione giusta. E il primo passo in tale direzione consisteva nell’assicurarsi che un’abbondante quantità di zucchero gli risollevasse il morale.
        Che dire? Fin lì, pareva funzionare.
 
 
* * *
 
 

        Il giorno successivo fu piuttosto piatto. Tuttavia, sotto alle apparenze, una bomba ad orologeria era stata innescata, e si preparò ad esplodere in quell’ennesimo freddo tardo pomeriggio.
 
 

        «Non ci crederai mai».
        «Smetti di girarci attorno e sputa il rospo».
        Pansy Parkinson, comodamente seduta su uno dei divanetti scuri della Sala Comune di Serpeverde, incrociò con aria saccente le braccia al petto, mentre Draco Malfoy prendeva posto lì vicino. Attirati da una discussione che pareva promettere risvolti interessanti, Blaise Zabini e Theodore Nott s’avvicinarono e s’accomodarono a loro volta.
        Era già da un po’ che Pansy stuzzicava Malfoy facendo riferimento alle voci di cui era venuta a conoscenza, ma non gli aveva ancora raccontato nulla di concreto: da una parte, rimandava il momento clou perché si divertiva a tenerlo sulle spine; dall’altra, lo faceva perché temeva d’indisporlo e di farlo arrabbiare, e non voleva affrontarlo.
        «Sicuro di non voler provare a indovinare?»
        «Per Salazar, Pansy – falla finita e parla».
        Lei, nascondendo ad arte il lieve brivido d’insicurezza che l’attraversò, sbuffò. «D’accordo, d’accordo» buttò lì, facendosi seria. «Vuoi che inizi dalla parte peggiore, o dalla migliore?»
        «Da dove ti pare», rispose con cattiveria Draco, a dir poco seccato da quel suo continuo prender tempo.
        «Comincia dalle cose migliori», suggerì atono Zabini.
        Parkinson accolse la richiesta, ignorando la reazione di Malfoy. «Okay. Hai presente che hai ricominciato a parlare con Potter, no? Ecco. Qualcuno dice che non dovresti. Che hai un bel coraggio, a farlo ancora». Pronunciò quella frase con astio – aveva odiato doversi informare di certi pettegolezzi e, poco ma sicuro, stava odiando doverli riportare al suo mandante.
        Coi denti affondati in una guancia, Draco s’impose d’incamerare i fatti senza lasciarsi prendere dalla rabbia o dall’indignazione. «Poi?» sputò, e subito Nott sollevò un sopracciglio, stupito dalla sua calma.
        «Parlano― parlano di tuo padre».
        Certo. Ovvio che lo facessero. Chiuse per un momento gli occhi, profondamente rammaricato – l’immagine di Lucius Malfoy, lo sapeva, l’avrebbe sempre pedinato, come una sorta di spettro, un modello con il quale a priori l’avrebbero sempre associato e paragonato. E non era una cosa che detestava del tutto; in fondo, si trattava pur sempre di suo padre, e Merlino solo sapeva quanto l’aveva stimato, quanto era stato grande il desiderio di renderlo fiero. Però, dopo le vicende della guerra, sentiva di poter dire di non essere come lui – di non esserlo affatto, e di non volergli neanche assomigliare. Non fino a quel punto, almeno.
        «Va’ avanti», sibilò tagliente, lo sguardo fisso davanti a sé.
        Pansy, cauta, gli puntò gli occhi addosso per tenere traccia delle sue reazioni. «Dicono che saresti dovuto finire in carcere come lui. Che ci saremmo dovuti finire tutti, in realtà», precisò amaramente, e un labbro le tremò. «O, alternativamente, che non saremmo dovuti tornare a Hogwarts».
        Di punto in bianco, Draco emise un verso a metà tra un sospiro e un ringhio. «Sai dirmi anche qualcosa che non so già?»
        Stizzita, Parkinson schioccò la lingua. «Forse, se me ne dai il tempo», fece. «E non scaldarti. Sei tu che mi hai chiesto di dirti queste cose, io ne farei volentieri a meno».
        Zabini, inespressivo, rivolse a Malfoy un’occhiata penetrante e criptica. Quando lui l’intercettò, comprese che si trattava d’un mezzo rimprovero e, seppur contrariato, tornò in uno stato d’apparente calma.
        Dopo un attimo d’esitazione, Pansy prese nuovamente parola: «C’è una voce della quale non credo tu sia a conoscenza».
        «Ti ascolto», soffiò Draco.
        «Pensano tu sia depresso».
        «Depresso?»
        «Sì, depresso», confermò la ragazza, per poi aggiungere sottovoce: «e autolesionista».
        Di primo acchito, Malfoy non fece una piega. Poi ghignò ed esplose in un rumoroso lamento, scuotendo la testa. «Autolesionista?» ripeté, incredulo, «Io
        Parkinson non poté far altro che alzare le spalle, esibendo un’espressione che urlava: “a quanto pare”. «Ho sentito parlare di tagli».
        «È assurdo», sentenziò freddamente il ragazzo, incrociando per caso uno sguardo stralunato di Nott. «Non guardarmi così, tu – è una stronzata».
        «Non mi sembra d’aver insinuato il contrario», si difese Theodore.
        Non avendo alcuna voglia di discutere, Draco mise su una smorfia seccata senza replicare, per poi incurvare le spalle verso le ginocchia e imprecare tra sé e sé.
        Tagliarsi, lui – lui, che aveva montato una tragedia greca per il graffio di un Ippogrifo. Lui, che piuttosto che sopportare uno spillo in un dito avrebbe schiantato qualcuno. Era a dir poco ridicolo. Quanto bisognava essere ciechi e stupidi per inventare un pettegolezzo del genere, e per crederlo fondato?
        Abbozzò uno sbuffo di disapprovazione, ormai del tutto convinto d’essere circondato da un branco di decerebrati.
        Gli altri intuirono con facilità il suo disagio, e cercarono di rispettarlo tacendo.
        Anche se avessero provato a parlare, comunque, Draco non avrebbe dato loro l’occasione per farlo: s’alzò di scatto, infatti, e mormorò, per nulla intenzionato a sottoporsi un solo secondo in più a quella tortura psicologica: «Basta così».
        S’allontanò e, sulla soglia della Sala Comune, si scontrò accidentalmente con Daphne Greengrass, affiancata dalla sorella minore. Non perse tempo a scusarsi, tirando dritto; Blaise, scattante, gli fu subito dietro.
        «Cosa gli è preso?» chiese piccata Daphne, rivolgendosi a Parkinson.
        Quella, imitata da Nott, non rispose, e le sorelle Greengrass non poterono far altro che scambiarsi uno sguardo confuso.
        Intanto, Malfoy e Zabini avanzavano nel corridoio. «Non ho voglia di parlare», mise in chiaro il primo.
        «Ho solo una domanda: perché hai chiesto a Pansy di scoprire certe cose?»
        Sospirò. «Perché ogni tanto dimentico fino a che punto le persone fanno schifo. Ora lasciami in pace».
 
 

        Passo dopo passo, una gran collera gli montò nel petto, accompagnata da una buona dose di frustrazione dovuta alla consapevolezza di non poter far nulla per mettere a tacere la gente. Avrebbero parlato sempre, quegli idioti. L’avrebbero giudicato. Sapeva di poterli ignorare, di poter stringere i denti e fare il muso duro, ma comunque quei pettegolezzi cattivi arrivavano a solleticargli i nervi in una maniera che quasi non sarebbe stato capace di descrivere.
        Erano tutti così ingiusti – perché lui aveva sbagliato, certo, e l’aveva fatto in più occasioni, ma non meritava di finire ad Azkaban. Né tantomeno d’essere ostracizzato. E anche se non stava bene, non era depresso; insomma, tagliarsi? – continuava a ripeterselo, spiazzato.
        Era un’idea veramente assurda, quella: non sarebbe mai stato capace di farsi del male da solo; odiava troppo il dolore.
        Con lo sguardo a terra, inconsciamente strinse la mano destra attorno all’avambraccio sinistro. Quello aveva fatto male.
        In un lampo, gli venne in mente Potter – l’eroe della dannata guerra a causa della quale la sua vita era andata a rotoli. Vibrò dall’ira, aumentando la forza della presa sul braccio. Il dilemma delle voci sul suo conto passò in secondo piano, perché altro che tagli! – aveva ben altro da nascondere, sotto alle maniche.
        Un concetto, quello, che gli si piantò con forza in testa.
 
 

        E pur sbiadendo di tanto in tanto, non poi così sorprendentemente, si rivelò sempre pronto a ricomparire e a travolgerlo. Tali ritorni di fiamma, forse a causa della natura della catena di ragionamenti che aveva fatto nascere quel pensiero in primo luogo, si dimostrarono essere scatenati dalla figura di Harry Potter. Cioè, a Draco bastava scorgerlo e subito, con una prepotenza inarrestabile, le idee del proprio braccio marchiato, della guerra, delle voci di corridoio che lo riguardavano gli attraversavano la mente. Tutte insieme, senza pietà.
        Faceva male. Un male particolare che aveva il sapore del desiderio d’incolpare qualcuno. E chi, se non proprio Potter? Era il candidato perfetto.
        Tra sé e sé l’incolpò di tutto, quindi, senza remore di sorta. Si ritrovò così con l’istinto di odiarlo di più, quasi reclamando una qualche vendetta; e non si trattenne: imparò a cogliere quante più occasioni possibili per accanirsi su di lui con battutine e provocazioni.
        Era disperatamente in cerca d’una catarsi. Sapeva che, molto probabilmente, non l’avrebbe trovata su quella strada, ma non se ne curò: pareva essere la via più semplice, e dal suo punto di vista meritava d’essere percorsa almeno per un po’.
        Harry, dal canto suo, per quanto sorpreso dall’improvvisa irruenza del Serpeverde – degna dei loro anni d’oro –, non cercò di individuarne una motivazione logica. Si limitò a crucciarsene – perché era una situazione molto, molto fastidiosa –, pur senza essere veramente dispiaciuto.
 
 

        Ci furono più e più giorni di bisticci, dunque.
        Inizialmente, si trattò di baruffe del tutto innocue, volte alla volontà di schernirsi a vicenda. Poi, la faccenda si fece gradualmente sempre più seria: da «Nessuno fa quasi esplodere calderoni come te, Potter» e «Pensa a contare quante partite hai perso a Quidditch, Malfoy», passarono, quasi senza rendersene conto, all’artiglieria pesante.
        «Vedo che non sai neanche schiantare un fantoccio, Potter», sibilò Draco durante una lezione di Difesa, subito dopo che il Grifondoro ebbe eseguito uno Schiantesimo non verbale imperfetto. «Che eroe scadente. Non c’è da meravigliarsi, se mettendo le cose nelle tue mani la gente muore».
        «Non ci provare», ringhiò Harry, stringendo i pugni.
        «A far cosa? A dire quanto sei scarso?»
        Mentre alle sue spalle Hermione si preoccupava e Ron arrossiva dalla rabbia, Potter emise un verso minaccioso. «Vediamo chi è quello scarso: fatti sotto. O forse hai paura che si scopra quanto sei debole?»
        Il professore, udito il chiacchiericcio astioso e non pertinente alla lezione, li ammonì entrambi e fece sì che s’allontanassero l’uno dall’altro.
        In quell’occasione, Harry dovette fare i conti con la sorpresa e l’agitazione degli amici.
        «Si può sapere cosa stavi facendo?» gli chiese Hermione, sottovoce.
        «Mi ha provocato».
        «Lo so, l’ho sentito. Ma non devi dargli corda! Dammi retta, la questione sta degenerando».
        «È sempre più un bastardo», commentò Weasley.
        Lei sospirò, rivolgendo a Potter un’occhiata carica di significato. «Ti prego, Harry – ascolta il mio consiglio. Smetti di fare così con Malfoy. Finirete col combinare un pasticcio, e te ne pentirai e, davvero, non è il caso». Parlò con enfasi, noncurante persino dello sguardo di rimprovero che l’insegnante le scoccò per via del suo borbottare.
        Mesto, ma ancora un po’ alterato, il ragazzo non replicò.
 
 

        Rifletté sulle parole dell’amica solo in seguito. A mente fresca, si ritrovò quasi a darle ragione; tuttavia, quando gli ricapitò d’avere a che fare col Serpeverde – in un corridoio, subito dopo una lezione di Storia della Magia –, ciò non riuscì a fermarlo dal lasciarsi prendere dalla foga del momento.
        S’infervorò ancora, forse persino più che in precedenza.
        Quella volta, comunque, fu Draco ad osare maggiormente. Infatti, buttò lì, caustico: «La tua proposta di sfida è ancora valida, Potter? Perché potrei farti l’onore di accettarla».
        Con Hermione lontana per via della sua lezione di Aritmanzia, Ron paralizzato dall’irritazione e un gran pizzicore alle mani, Harry accantonò la coscienza. «Quando vuoi, Malfoy».
        «Stanotte, all’una. All’entrata dei sotterranei».
        «Bene», sbottò il Grifondoro, assottigliando gli occhi.
        «Bene». Detto ciò, il Serpeverde girò i tacchi e, in un turbinio dello scuro mantello, s’avviò affiancato da un perplesso Goyle, il quale non aveva fatto altro che tacere e guardare in cagnesco Weasley.
        Proprio quest’ultimo, una volta che fu solo con l’amico, soffiò amareggiato. «Lo vuoi fare davvero, Harry?»
        Lui non rispose, esitando con le labbra dischiuse.
        Per un po’, restò in silenzio anche Ron. Poi fece, con uno spirito coscienzioso che non gli apparteneva del tutto: «Hermione ti direbbe di non andare».
        «Lo so».
        «Magari non ne vale la pena. Non per quello snob isterico che è Malfoy».
        «Hm». Presero a camminare nel corridoio a passo lento, e nel frattempo Potter s’impegnò per riacquistare la calma. «È una cosa stupida. Non dovrei farla», sussurrò, rivolto più a se stesso che all’altro. «Non― non raccontare niente a Hermione, okay?»
        «Perché no?»
        «Non voglio che si preoccupi».
        «Ma tu non andrai, vero?»
        Tentennò. «No, no – non andrò». E non avrebbe saputo dire se si trattava d’una bugia o della verità; era ancora troppo esagitato per discriminare certe sottigliezze. Parlò meccanicamente, senza pensare, perché in quel momento tutto in Ron, dalla sua faccia al suo comportamento, sembrava urlare: “se non risponderai così, saranno guai”.
        Lo fece contento, insomma, rimandando ogni tipo di decisione.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Harry ci ha messo un po', ma finalmente si lascia alle spalle Ginny. c': E potete fidarvi delle parole di Ron, il ragazzo della squadra di Quidditch di Corvonero - "Nicholas qualcosa" - è per davvero solo un amico per la Weasley. Per quel che riguarda Draco: spero d'essere riuscita a descrivere delle reazioni verosimili!  
Oh, e...
Buon Natale! 
 
Mille grazie a tutti coloro che leggono, seguono, preferiscono, commentano. Love you all! ♥ Ci risentiamo giovedì prossimo - riuscirò a farvi gli auguri per l'inizio del 2016 giusto in tempo! Un bacione,
T. ♪
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Capitolo 12
*** 11. Ad armi (im)pari ***


11.
Ad armi impari
 
 
 

        La mezzanotte era passata già da un po’ quando Potter si alzò a sedere sul letto, scostando dolcemente le coperte. Recuperò gli occhiali e, ascoltando distrattamente il ronfare dei compagni di stanza, con una buffa agitazione addosso prese a torturarsi le dita delle mani.

        La sfida con Malfoy si sarebbe dovuta tenere a breve, e non aveva ancora deciso come comportarsi.
        Sapeva perfettamente che presentarsi, e quindi affrontarlo, era una pessima idea. Il Serpeverde l’aveva fatto arrabbiare, certo, e non desiderava tirarsi indietro, ma comunque una lontana eco nella mente l’aveva convinto che quel loro scontro sarebbe stato del tutto inappropriato.
        Forse aveva ragione Hermione, a dire che la situazione era degenerata – in effetti, tra loro era dal nulla ricominciata una guerra a colpi serrati. E, come risultato, non era soddisfacente quanto preventivato; affatto.
        Nel buio, voltò istintivamente il capo in direzione del letto di Ron.
        Gli aveva assicurato che non l’avrebbe fatta, la follia della sfida. Si chiese distrattamente come avrebbe reagito, nel caso in cui non avesse mantenuto la parola data. Non bene, probabilmente. Per un attimo, pensò che avrebbe potuto svegliarlo: magari sarebbe riuscito a rimediare un consiglio. Ma no, si disse scuotendo tra sé e sé il capo; non era il caso di farlo, perché non voleva che Weasley sapesse di quella sua confusione.
        Rifletté per un po’ senza giungere a nessuna conclusione degna di nota. Poi, tagliando la testa al toro, saltò giù dal letto.
        Correva il rischio di combinare un disastro: ne era consapevole. Dopotutto, tra una sfida fuori luogo, il Serpeverde che poteva presentarsi con chissà quanti scagnozzi, le aspettative di Ron e, implicitamente, quelle di Hermione, le probabilità che tutto filasse liscio erano poche. Anzi, nulle. Ma la prospettiva di restare sotto le coperte e di essere coscienzioso, per un qualche motivo che non riuscì bene a cogliere, gli parve ben più terrificante – più sbagliata d’un possibile sbaglio.
        Sarebbe andato, allora.
        Una volta che fu pronto per uscire, esitò brevemente davanti alla porta della stanza. Prendendo un bel respiro, si convinse a forza d’avere una chance per gestire la situazione nel modo migliore. Poi, armato di mantello dell’invisibilità, allungò una mano, afferrò saldamente la maniglia e abbandonò il dormitorio.
 
 

        Sgusciò fuori da dietro il ritratto della Signora Grassa e avanzò alla chetichella nel silenzio notturno, vagamente distratto dal ronzare dei propri dubbi.
        Era già al piano terra quando, prima soffuso e poi deciso, uno scalpiccio non identificato risuonò tra i muri. D’istinto, Harry s’appiattì contro la parete e, cercando d’avvicinarsi alla fonte del rumore, strisciò fino allo sbocco del corridoio per sporgersi e dare un’occhiata.
        Il suo primo pensiero era volato a Gazza e alla sua gatta. Non avrebbe potuto essere più in errore di così: poco lontano ed in avvicinamento, infatti, ad incedere a passi sicuri, c’era il professor Holmwood. Serio in volto, si stringeva in un caldo mantello grigio scuro; indossava guanti, sciarpa e scarpe pesanti, e in una mano brandiva la bacchetta.
        Potter s’insospettì. Cosa poteva fare lì a quell’ora? Controllava forse che nessuno infrangesse il coprifuoco? Sembrava decisamente poco probabile. Che si fosse attardato in qualche modo dopo cena, e che si stesse concedendo un giro per il castello prima di ritirarsi? Ma anche quell’ipotesi non aveva propriamente basi solide.
        Scrutandolo con un po’ più d’attenzione, dedusse che doveva esserci un motivo ben preciso se s’era bardato a quel modo. Quale, non avrebbe saputo dirlo.
        Quasi trattenne il respiro fino a quando l’insegnante, ignaro della sua presenza, gli sfilò davanti.
        Tentennò un paio di secondi, poi, spinto da un’incurabile curiosità, abbandonò la propria strada per accodarglisi. In fondo, era un po’ in anticipo: qualche minuto da dedicare a quella stranezza lo aveva.
        Poco dopo, Holmwood rallentò sino a fermarsi. Si mise in ascolto e, lanciando sguardi acuti a destra e a manca, assottigliò gli occhi, mentre alle sue spalle il ragazzo, temendo d’essersi fatto scoprire, si sforzava per non emettere fiato.
        Per un breve lasso di tempo, rimasero in stallo. Dopodiché, il professore riprese con rinnovata fiducia la propria marcia.
        Harry tirò un impercettibile sospiro di sollievo e, distanziandosi maggiormente rispetto a prima, continuò a seguirlo per i corridoi.
        Si fece sempre più perplesso. Stando dietro al mago, infatti, ebbe l’occasione di osservare meglio il suo abbigliamento e, anche a giudicare dalla via che aveva preso, iniziò a pensare che potesse essere intenzionato ad uscire dalle mura di Hogwarts.
        Quell’ipotesi si verificò ben presto azzeccata. Corrucciando la fronte, Potter portò avanti l’inseguimento anche nel buio della notte, illuminata debolmente dal Lumos di cui Holmwood si servì per rischiarare il proprio cammino. Nella mente del ragazzo si dipinsero le più disparate teorie, le quali, neanche a dirlo, assunsero toni cupi nel momento in cui il professore, senza alcuna esitazione, indirizzò i propri passi verso la Foresta Proibita.
        Infreddolito – i vestiti che aveva indosso e il mantello dell’invisibilità non erano abbastanza pesanti per far fronte al vento notturno di fine Gennaio –, Harry s’arrestò al limitare della foresta. Lì, nel più assoluto silenzio, osservò la figura dell’uomo scomparire tra gli alberi, inghiottita man mano dalle tenebre. Sentì il folle impulso di andargli ancora dietro, ma una forza misteriosa – la coscienza, probabilmente – lo trattenne, suggerendogli di fare dietrofront.
        Si ricordò di Malfoy. Ormai doveva essere l’una; doveva darsi una mossa e raggiungere l’entrata dei sotterranei.
        Combattuto, serrò la mascella. Ponderò le opzioni per un po’, poi, sulle note di un mezzo sbuffo, spronato anche dal bisogno di ripararsi dal freddo, girò i tacchi e, quasi correndo, s’avviò verso il castello.
 
 
* * *
 
 

        Non era stato facile, per Draco, abbandonare il tepore del letto. Non che l’idea di prendersela con Potter non lo attirasse – anzi, tutt’altro. Purtroppo, però, gli trasmetteva anche un senso di disagio piuttosto acuto, un fastidio che fomentò la sua ansia.
        Una parte di lui aveva preso in considerazione la possibilità di non andare, ma l’orgoglio s’era fortemente opposto: non poteva tirarsene fuori a quel modo. Non dopo che, per la prima volta da quando la guerra aveva incasinato tutto, s’era sentito veramente in grado di fronteggiare il Grifondoro. Perché era successo; si era detto: posso farlo, senza che sorgessero paure o complessi d’inferiorità. E, per Salazar, non era poco.
        Ma non era neanche una garanzia di successo – e questo lo tenne bene a mente sin dal principio. Non poteva rischiare che il briciolo di sicurezza che aveva coltivato sin lì andasse in frantumi gettandosi in chissà quale impresa contro il dannato eroe; doveva fare in modo di minimizzare le possibili perdite. Proprio per questo, aveva deciso di non richiedere il supporto di nessuno – avere dei compagni attorno avrebbe reso quella cosa molto, troppo più grossa del necessario. In quel modo s’era messo nella condizione di potersi ritrovare da solo contro una schiera di grifoni, certo – era convinto che Potter si sarebbe trascinato appresso come minimo Weasley –, ma era abbastanza sicuro di poter far leva sul loro apprezzamento per il gioco leale per indurli ad uno scontro uno contro uno.
        Che poi, scontro – non avevano in alcun modo definito quale sarebbe stato l’ambito della sfida. Erano stati affrettati nel mettersi d’accordo, e questo dettaglio decisamente non secondario alimentò le sue insicurezze. La voce di queste ultime, comunque, venne ancora una volta zittita dall’orgoglio; perché poteva farcela: l’organizzazione maniacale non era essenziale. O, almeno, questo fu quello che si ripeté più volte mentre, pochi minuti prima che scoccasse l’una, procedeva spedito nei corridoi dei sotterranei.
 
 

        Si mise in attesa dove avevano concordato. Poco tranquillo, da subito drizzò le orecchie e prese a guardarsi attorno con circospezione, così da poter scorgere con anticipo chiunque fosse in avvicinamento.
        Harry, però, riuscì comunque ad eludere il suo controllo. Sopraggiunse celato dal mantello, infatti, e avanzò di soppiatto, piazzandosi alle sue spalle. Solo a quel punto si rese visibile e, infantilmente, si rallegrò del timoroso sussulto che fu in grado di provocargli.
        Sforzandosi per nascondere il lampo di paura che l’aveva colto, Draco indurì l’espressione. «Da quando ti muovi così silenziosamente, Potter?» lo schernì.
        «Non ti avrò mica spaventato?»
        Pieno di sé, mentì: «Certo che no». Poi, sospettoso, lanciò un’occhiata al mantello piegato alla buona che il Grifondoro reggeva con un braccio. Sollevò appena un angolo del labbro superiore, ma non fece commenti, distratto da altri particolari ben più rilevanti. «Nessuno dei tuoi amichetti ti ha accompagnato, vedo», asserì.
        «Potrei dire la stessa cosa», gli rinfacciò Potter, che, in effetti, era piuttosto sorpreso dell’assenza di Goyle, Parkinson e compagni.
        Malfoy soffiò, risparmiandosi di borbottare che non aveva alcun bisogno di rinforzi per avere a che fare con lui – cosa che, per altro, sarebbe stata una mezza bugia. Preferì andare dritto al sodo: con lo sguardo vagante, si strinse nelle spalle, poi parlò. «Cos’hai in mente, allora?»
        Preso quasi alla sprovvista, Harry esitò. «Hm―»
        Passati alcuni secondi e registrata la mancata risposta dell’altro, Draco inarcò un sopracciglio con aria esterrefatta. «Non hai un piano?» appuntò. «Ti rendi conto che tu hai proposto questa cosa, vero?»
        «Ce l’ho, un piano». Ma no, non lo aveva, e fu costretto ad affidarsi alla prima idea che gli venne in mente. «Un duello», sussurrò.
        Per un attimo, si guardarono negli occhi restando in silenzio. Fu strano: entrambi ebbero la sensazione di star vivendo un momento particolarmente sbagliato. Tuttavia, nessuno dei due proferì una sola parola a riguardo.
        Il Serpeverde, sentendo crescere dentro di sé uno spettro d’insicurezza, si morse forte una guancia e strinse i pugni, nella speranza che tanto bastasse per restare saldo. «Bene», scandì. «Se proprio vuoi essere umiliato così― facciamolo». S’impegnò per recitare quella battuta, ma proprio perché l’aveva recitata, senza sentirla davvero propria, la sua voce risultò piatta e quasi inespressiva.
        Potter, irrigiditosi, si concesse un flebile sospiro. Per un attimo sentì il bisogno di dire no, non possiamo farlo, e d’aggiungere anche c’è qualcosa che non va, ma, non volendo fare la figura del rinunciatario, tacque.
        A Malfoy parve di scorgere sul suo viso un’ombra d’incertezza. Desiderò di potersi aggrappare a quel vago spiraglio, di avere l’audacia di questionare la sicurezza del Grifondoro; ma, pur avendo l’opportunità di farlo, non aprì bocca. Semplicemente non poté, perché, tra loro due – e detestava doverlo ammettere –, Potter era quello forte. Se c’era qualcuno che doveva essere sicuro, quello era lui: non poteva avere incertezze; non gli avrebbe concesso un tale lusso. Doveva essere convinto, per entrambi.
        Ignorò quanto notato, dunque, e si nascose dietro ad una maschera sprezzante. «Dove?» domandò spiccio.
        Apparentemente immerso in qualche pensiero, Harry spostò brevemente lo sguardo sul nulla alla propria destra. Poi, col cuore che batteva con più vigore del normale, si fece amaramente serio. «Seguimi», proferì, iniziando ad avanzare.
        Dopo un fugace tentennamento, Draco lo assecondò.
        Si spostarono lungo i corridoi e su per le scale, immersi in un silenzio teso. Dubbiosi, continuarono a riflettere, ciascuno a ripetersi quanto, di secondo in secondo, quella storia della sfida si facesse sempre più inadeguata e campata per aria.
        A parole sembrava tutto più semplice – prendersi in giro; persino odiarsi –, e proprio per quello avevano esagerato: erano passati ai fatti senza quasi rendersene conto.
        Non volevano che accadesse. Una sfida correva il rischio di portare a galla i dolori – e se n’erano dette tante, di cattiverie capaci di avere lo stesso effetto, ma un duello sarebbe stato così tanto più tangibile, più brutto, più inutile. Ce n’erano state anche troppe, di battaglie: non aveva alcun senso crearne di nuove. Eppure – e lo pensarono entrambi – era un po’ come se farsi la guerra fosse l’unica cosa che sapessero fare. Perciò, magari, anche se sembrava così errata, quella era la strada da imboccare.
        Se vuole farlo lui, si dissero, tenendosi quasi costantemente d’occhio a vicenda. E, paradossalmente, notarono i reciproci segni di perplessità, ma comunque continuarono a non voler riconoscere l’esistenza della riluttanza dell’altro – lui vuole farlo. Deve volerlo, si ripeterono allo sfinimento, ignari di pensarla allo stesso modo.
        D’un tratto, l’illusorio equilibrio che li aveva accompagnati sin lì vacillò: Malfoy, infatti, agitato, rallentò. Sul suo volto, un’espressione a metà tra l’arrabbiato e il disgustato.
        Quando notò d’averlo distanziato, Potter si voltò appena. «Che c’è?» chiese enfatico, con una forse bizzarra nota di speranza nella voce.
        Guardandosi attorno, Draco soffiò pesantemente e deglutì. «Niente» sibilò con cattiveria, cercando di scacciare dalla testa la consapevolezza di conoscere fin troppo bene il percorso che stavano seguendo.
        Ricominciarono ad avanzare a passo sostenuto, e Harry abbassò appena il capo. Aveva pregato che il Serpeverde avesse qualche obiezione da muovere, o magari una lamentela da esprimere; insomma, qualcosa in grado di mettere un freno alla vicenda. Rammaricandosi e prendendo un profondo respiro, realizzò che non era così che sarebbe dovuta andare – doveva mettere in chiaro le cose, se quello che stavano combinando non gli andava a genio.
        E l’avrebbe fatto, davvero – aveva già le labbra dischiuse. Non poté proferir verbo, però, perché Malfoy, che era rimasto di nuovo indietro, lo precedette.
        «Potter», chiamò cupo, evidentemente alterato e con gli occhi pieni di risentimento; da come articolò il suo nome, apparve chiaro che qualcosa l’aveva spinto al limite della sopportazione. «Stiamo andando dove penso?»
        Harry, colpito da quel tono catastrofico, aggrottò la fronte e si girò di scatto dalla sua parte. «Stanza delle Necessità», sussurrò, titubante.
        Ecco, appunto, pensò Draco. Ghignò spaventosamente e, mentre un gran turbamento gli montava nello stomaco e nel sangue, si prodigò con una mano in un gesto teatrale. Aprì bocca come se fosse intenzionato a dir qualcosa: gli tremarono le labbra, ma non proferì parola. Ringhiò, però, e subito dopo, frettolosamente, tornò sui propri passi pestando i piedi a terra.
        Travolto da un vaghissimo sollievo e da una buona quantità di confusione, l’altro si mise all’inseguimento. «Ehi! Dove vai?»
        Dovettero passare diversi istanti prima che Malfoy gli rispondesse. «Lasciami in pace», sbottò scendendo i gradini d’una rampa di scale a due a due.
        Harry però non s’arrese. «Si può sapere che succede?»
        «Succede che sei un idiota, Potter».
        «Fermati!» Irritato, lo agguantò per un braccio e lo costrinse a fronteggiarlo. «Qual è il problema?»
        Il Serpeverde tese tutti i muscoli, poi strattonò il braccio per liberarsi dalla sua presa. Grazie alla matta rabbia che aveva in corpo, trovò la forza di essere sincero: «Il problema è che non voglio più farlo. Perciò vattene».
        Ma Harry, scombussolato dalla concitata piega che avevano preso gli eventi, continuò a seguirlo giù per le scale, senza neanche soffermarsi a riflettere.
        «Smetti di seguirmi!» tuonò Draco, quasi urlando.
        «No! Non finché non mi avrai spiegato cosa―»
        «Non c’è niente da spiegare!»
        «Sì che c’è. Da cosa stai scappando?»
        Provocato, Malfoy si pietrificò, piantandosi dov’era. Stava scappando, era vero, ma non sopportava l’idea che fosse tanto evidente. Voltò il capo per guardare l’altro dritto negli occhi e, con ira, scandì: «Non scappo. È che quella stanza―» ma non terminò la frase.
        «Quella stanza…?»
        Si morse una guancia. «Non ci metterò mai più piede, Potter». Detto ciò, riprese a correr via.
        Nella mente del Grifondoro si formò un abbozzo di comprensione: in un istante, tutt’una serie di pensieri sull’accaduto gli si riversarono addosso. Ma li avrebbe processati dopo. «Aspetta!»
        «No, non aspetto! Va’ via, lasciami in pace!» Accelerò, per quanto possibile. «È tutt’una stronzata, questa. Non avremmo dovuto farlo. Non avrei dovuto darti corda!» rettificò immediatamente, rifiutandosi di riconoscere come propria parte della colpa.
        Nonostante tutti quei rifiuti e quelle accuse, Potter non volle demordere: affrontando anche gli sguardi indignati di qualche dipinto, gli stette alle calcagna lungo rampe e corridoi, pur non sapendo bene cos’altro fare o come esprimersi. In effetti, non era nemmeno del tutto certo che ci fosse qualcosa d’appropriato da dire.
        «È la volta buona che ti schianto», lo minacciò infuriato Draco, stanco d’essere braccato. «Sparisci».
        Serrò la mascella fino quasi a farsi male. «No».
        Sconcertato, il Serpeverde sbuffò e, girato l’ennesimo angolo, si costrinse a fermarsi per vedersela con lui. «Si può sapere cosa vuoi ancora da me? Ho detto: niente duello».
        «Non è per il duello!»
        «Per cosa, allora?» La voce quasi gli tremò.
        Incapace di rispondere, Harry mugugnò mettendo su una faccia dura.
        Malfoy roteò gli occhi, piccato, e «Fuori dai piedi», sentenziò prima di dargli nuovamente le spalle.
        «No
        Lasciandosi sfuggire un versetto scocciato, col cuore a mille e un casino di proporzioni bibliche in testa e nel petto, tornò a rivolgergli lo sguardo. «Per Morgana, Potter―» ed era a tanto così dall’estrarre la bacchetta per puntargliela contro, quando all’improvviso una voce roca li fece sussultare.
        «Guarda, guarda». Dietro al Grifondoro, era comparso Gazza: una smorfia storta gli increspava le labbra. «Non dovreste essere qui. Ma questo già lo sapete, vero?» Appena ebbe finito di parlare, Mrs. Purr, zampettando ai suoi piedi, miagolò con aria strafottente.
        Simultaneamente, i due ragazzi s’irrigidirono e Draco, con tono quasi disperato, mormorò ciò che entrambi pensavano: «Grandioso».
 
 

        Furono scortati sino all’ufficio della preside McGranitt. Lì, la strega, infastidita e palesemente delusa dal loro comportamento, sottrasse com’era prevedibile punti alle loro Case, per poi lanciarsi in un rimprovero da manuale.
        Né Malfoy, né Potter l’ascoltarono davvero. Il primo perché intento a tenere a bada – con scarsi risultati – l’agitazione e il desiderio d’eclissarsi; il secondo perché occupato a lanciare occhiate in tralice all’altro.
        Vennero congedati dopo l’assegnazione d’una punizione da scontare la sera successiva.
        Non appena furono lasciati liberi, si separarono senza congedarsi. Cioè, Draco se ne andò senza voltarsi indietro, diretto ai sotterranei, ed Harry fu costretto a lasciarlo fuggire. Lo fissò mentre s’allontanava per alcuni secondi, dopodiché s’avviò verso la Sala Comune.
 
 

        Quella notte non dormirono bene.
        Il Serpeverde neanche ricordava l’ultima volta che si era sentito tanto arrabbiato, frustrato, pervaso da un fuoco insopportabile – un fuoco, sì, come quello che era avvampato in quella stanza. La stanza dove aveva riparato l’armadio. La stanza che rappresentava i suoi mille sbagli e le sue mille colpe.
        Com’era venuto in mente a Potter di cercare di potarlo lì? E beh, certo, si disse; Potter era ignorante. Davvero molto, molto ignorante, perciò era ovvio che non avesse capito niente. Non capiva mai niente, lui.
        Al contrario di ciò che pensava Draco, però, quella sera Harry aveva capito un sacco di cose. In ritardo, certo, ma le aveva capite, e questo non gli diede pace.
        Loro due non potevano più essere veramente quelli di prima: era diventato ovvio anche per lui; tanto da far male. Chiedere a Malfoy di tornare quello di una volta era stato egoista, e mettere in scena quella dannata sfida era stato incredibilmente stupido. Non avevano più voglia di combattere, di odiarsi per davvero. E anche farlo per scherzo, come a volersi illudere di poter recuperare qualche brandello dal passato, era doloroso, perché a dividerli c’era un campo minato: ordigni ovunque, pronti ad esplodere; ed erano targati guerra, responsabilità, perdite, ruoli, Sectumsempra, processi, Mangiamorte… e doveva essercene anche uno etichettato Stanza delle Necessità, o Armadio Svanitore, o Ardemonio – qualunque fosse il suo nome, Potter era certo d’averlo sfiorato. Si diede dell’idiota per questo.
        Poteva aver mandato tutto all’aria. E forse il suo era solo il pensiero d’un folle – non avrebbe saputo giudicare obiettivamente –, ma per l’ennesima volta l’idea di aver perso quel morboso cercarsi, che pur era un farsi del male, gli compresse orribilmente il petto.
        Per quanto si sforzò, non ebbe modo di non pensarci.
        Quando finalmente s’addormentò, vinto da una stanchezza radicata, il buio della notte s’era già diradato.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Mannaggia a Harry, non considera mai tutte le variabili. :c A parte gli scherzi - quest'idea, di Potter e Malfoy che effettivamente non possono tornare a essere quelli di prima, è un po' la mia regina. E' un dato di fatto magari amaro, ma ehi! non implica che tra i due non possa svilupparsi qualcosa di... nuovo. (Che allusione sottile! XD) Inoltre, sullo sfondo, finalmente assume rilievo anche il professore di Difesa. ...Succederanno cose.
Oh, e ovviamente:
BUON ANNO! ☻~

Come sempre, mille grazie a tutti coloro che leggono, seguono, commentano. Love you all! ♥
A risentirci nel 2016,
T. ♪
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Capitolo 13
*** 12. (Dolce)amare conseguenze ***


12.
Dolceamare conseguenze
 
 
 

        La mattina successiva al disastro della sfida, Harry dovette fare i conti con quello che fu tutto meno che un dolce buongiorno.

        S’alzò con un battente mal di testa e due ombre scure a sottolineargli lo sguardo – chiari sintomi del mancato riposo. Sentendosi rintronato e con la bocca impastata, si vestì trascinandosi in giro, e s’assicurò di parlare il meno possibile. I compagni di stanza, a suon di battute, lo compararono ad un morto vivente.
        Fu Ron il primo a preoccuparsi davvero per lui: lo avvicinò prima che scendessero in Sala Comune, rivolgendogli un’occhiata penetrante. «Ehi, Harry», mormorò, «a parte gli scherzi. Stai bene?»
        «Sì, ho― ho dormito poco».
        «L’avevo intuito». Accennò una smorfietta divertita, che però svanì in fretta. «Come mai? Incubo?» buttò lì, mesto.
        Potter fece no con la testa, concedendosi un sospiro mentre i ricordi relativi ai pasticci combinati quella notte riemergevano sempre più prepotenti.
        «Perché non hai dormito, allora?»
        Alzando le spalle e uscendo dalla stanza, glissò la domanda senza pensarci due volte: l’idea di dover dare spiegazioni gli trasmetteva un gran senso di riluttanza. Ma non poteva sottrarsi; per via della punizione da scontare, infatti, sarebbe stato impossibile tenere segreto ciò che aveva fatto. Lo realizzò scendendo le scale del dormitorio, e se ne rammaricò tra sé e sé.
        «Buongiorno», li salutò Hermione, avanzando verso di loro; dedicò un sorriso luminoso a Weasley, e poi si rabbuiò vedendo l’espressione sbattuta dell’altro. «Che brutta cera, Harry», soffiò, «cos’è successo?»
        Lui, per la seconda volta, non rispose, nascondendosi dietro ad un vago cenno del capo. Vide gli amici scambiarsi uno sguardo confuso, e si rallegrò della loro debole insistenza – sarebbe comunque stato costretto a vuotare il sacco, certo, ma se non altro poteva prendersi un po’ di tempo per ordinare le idee.
        Ascoltò passivamente le chiacchiere di Hermione e Ron per uno, due minuti; dopodiché, varcata la soglia della Sala Comune, s’incamminò al loro fianco per raggiungere la Sala Grande e far colazione.
        Passo dopo passo, percepì crescere sempre di più il desiderio di raccontare tutto ciò che era accaduto senza girarci tanto attorno – e non avrebbe saputo descrivere a cosa fosse dovuta la propria incoerenza; era solo certo del fatto che, sebbene sino a pochi istanti prima aspettare gli era parsa l’opzione migliore, in quel momento nulla prometteva una risoluzione veloce e il più possibile indolore come una secca confessione. Perché non farla, allora?
        «Ehm. Devo dirvi una cosa».
        I due voltarono il capo dalla sua parte. «Certo. Di che si tratta?» chiese la ragazza, pacata.
        Solo dopo essersi impulsivamente esposto a quel modo, ed aver quindi attirato l’attenzione degli amici, Potter si rese conto di non aver pensato a come introdurre l’argomento. Prima di parlare, perciò, si ritagliò un paio di istanti di riflessione facendoli fermare – s’addossarono alla parete per non essere d’intralcio agli altri studenti.
        «Io― ho fatto una cosa, stanotte», ammise sottovoce.
        Hermione inarcò un sopracciglio, occhieggiando istintivamente entrambi i ragazzi. «Dovrei preoccuparmi?»
        «No», replicò in fretta e furia Harry; «insomma, ormai è andata».
        «Di cosa stai parlando?» intervenne Ron con tono ambiguo.
        Via il dente, via il dolore. «Della sfida con Malfoy». Subito, Weasley aggrottò la fronte e quasi s’immusonì, mentre Granger divenne il ritratto della perplessità. «Avevo chiesto a Ron di non dirtelo», spiegò concitato Potter rivolgendosi a lei, «è― è successo ieri, Malfoy mi ha provocato e― uh, è saltata fuori la sfida».
        «Ci sei andato?» bofonchiò l’altro, incredulo. «Mi avevi detto che non l’avresti fatto!»
        «Lo so. Non― non so perché ho deciso di andare, okay? Non ho potuto fare altrimenti, anche se era un’idea stupida e pericolosa; e lo era, davvero», si curò di sottolineare, messo in soggezione dallo sguardo di rimprovero che l’amica gli rivolse. «Ne sono consapevole. Il punto è che sono andato lo stesso, ed è successo un mezzo casino». Lì si fermò, sentendosi un po’ a disagio.
        Passandosi una mano sul viso con fare quasi disperato, Hermione sospirò e scosse appena il capo. «Cosa avete combinato?» domandò, grave.
        «Niente – abbiamo solo discusso, perché Malfoy s’è arrabbiato, ha iniziato a urlare per i corridoi, e Gazza ci ha beccati».
        «Oh, Merlino», mormorò lei, sconsolata.
        «Poi la McGranitt ci ha dato una punizione», aggiunse Harry, completando il quadro della situazione. «Ma il problema non è questo», borbottò di getto, spostando brevemente gli occhi su Ron, il quale, scuro in volto, lo fissava come se fosse stato Giuda in persona.
        «Come sarebbe a dire il problema non è questo? C’è dell’altro?» Apprensiva, raddolcì l’espressione. «Vi siete picchiati?» Ma immediatamente capì che no, non potevano essersi picchiati, perché Potter pareva sano come un pesce.
        Infatti lui rispose: «No! Ve l’ho appena detto, abbiamo solo discusso».
        Hermione dischiuse le labbra, pronta a porre un altro quesito, ma fu interrotta da Ron che, senza tanti preamboli, prese l’amico per un braccio e lo trascinò alcuni metri più in là. Lei, intuendo che Weasley aveva bisogno d’un attimo, incrociò le braccia al petto e non li seguì.
        «Perché non me l’hai detto?» tuonò Ron, più serio che mai.
        Harry, colto alla sprovvista, non fu capace di replicare.
        «Sai che non sono come Hermione; io non ti avrei fatto la morale». Strinse i pugni, turbato.
        «Sì, lo so».
        «E allora perché mi hai detto una bugia?»
        «Non ti ho detto una bugia – pensavo che non l’avrei fatto! Ma poi questa notte non mi sono addormentato e― e sono andato».
        «Potevi svegliarmi, Harry. Sarei anche venuto con te, se me l’avessi chiesto!»
        «Lo so», soffiò nuovamente Potter, «ma sapevo che non ti andava a genio l’idea». Era una motivazione blanda, ma non seppe trovarne una migliore che non fosse né troppo imbarazzante, né una menzogna.
        «Certo che non mi andava a genio! Dopo tutto quello che Malfoy ha fatto, l’ultima cosa che voglio è continuare a dargli un’attenzione che non merita! Ma tu sei il mio migliore amico, sarò sempre e comunque dalla tua parte – anche se vuoi avere a che fare con lui».
        Mortificato, Harry sbuffò. «Mi dispiace».
        Ron, lievemente arrossito, si concesse di pensare, con una punta di cattiveria, che se la meritava proprio, quella punizione che la McGranitt gli aveva assegnato. Non disse più nulla, però, e, serrando la mascella, girò i tacchi per riavvicinarsi ad Hermione.
        La ragazza osservò Weasley mentre le passava accanto, poi spostò lo sguardo su Potter: decise di aspettarlo e di proseguire accanto a lui, mentre pochi passi più avanti Ron sbolliva l’irritazione.
        «Va tutto bene?» sussurrò una volta che l’amico l’ebbe raggiunta.
        Mogio e titubante, Harry annuì. «Sì. Gli― gli passerà».
        Entrambi scrutarono brevemente il ragazzo che li precedeva, e per un momento non aprirono bocca. Poi lei fece: «Cosa ti è passato per la testa?»
        «Non ne ho idea, davvero».
        «Una sfida», sussurrò ancora Hermione, col tono di chi disapprova fortemente. «Ti avevo avvertito; sapevo che questa faccenda di ricominciare a litigare con Malfoy non avrebbe portato a nulla di buono». Conclusa la ramanzina, sospirò, prima d’aggiungere con un filo di voce: «Almeno non vi siete fatti male».
        «Già, non ci siamo fatti male. Ma ho comunque combinato un disastro».
        «Con Ron, dici?»
        «No. Cioè, anche con lui; ma intendevo con Malfoy».
        «Cos’è successo, di preciso?»
        Potter esitò, concentrandosi per un attimo sulla rampa di scale che stavano scendendo. C’era un nonsoché di sgradevole nella prospettiva di confidare la storia del “campo minato” presente tra lui e il Serpeverde; alla fine, comunque, per quanto riluttante, si decise a parlare. «Dovevamo scontrarci in duello. Ci abbiamo provato, ma non ci siamo riusciti».
        «In che senso?»
        «Ho cercato di portarlo alla Stanza delle Necessità, ma è scappato prima che ci arrivassimo», ammise, incurvando le spalle.
        «Quindi, se non fosse stato per lui, tu l’avresti sfidato? In duello
        «Beh, forse sì, ma― ma non volevo. Non proprio, diciamo; non è che avessi molta scelta». Hermione fece per dir qualcosa, ma lui glielo impedì, riattaccando: «Il punto, però, non è questo. È che― che non è più come prima. Noi non siamo più come prima».
        «Certo che non lo siete», sussurrò lei nel tentativo di rassicurarlo; ciò che ottenne, però, fu l’esatto opposto, e se ne accorse, perché poté individuare nell’espressione dell’amico un’ombra d’afflizione. Rifletté per qualche istante e, ricordando anche conversazioni affrontate in precedenza, credette di capire. «Sei ancora convito che odiare Malfoy possa aiutarti ad andare avanti?»
        Mantenendo lo sguardo fisso davanti a sé, Harry alzò le spalle. «Non credo sia poi così assurdo», bisbigliò.
        «Invece, fidati, lo è. Ci sono altri modi per sentirsi meglio – ad esempio, ci siamo noi: io e Ron. Puoi parlarci. E ci sono anche un sacco di altri amici pronti ad aiutarti se― se c’è qualcosa che ti opprime». Non volle nominare apertamente la guerra e i suoi strascichi, ma chiaramente si stava riferendo a quelli. «Non serve condannarsi con Malfoy. È solo peggio per entrambi, così».
        Potter, amareggiato, non replicò.
 
 

        Raggiunta la Sala Grande, si accomodarono per far colazione in un silenzio quasi totale. Harry detestò con tutto se stesso l’atmosfera tesa che si creò tra loro e, anche agganciandosi ai discorsi di Neville e Seamus, che sedevano lì accanto, cercò più volte d’iniziare un dialogo. Con pessimi risultati, purtroppo – Ron, infatti, testardamente arrabbiato, praticamente l’ignorò, e nemmeno Hermione si mostrò troppo loquace.
        Aveva già contemplato l’idea di lasciar perdere quando, per caso, gli occhi gli caddero sul tavolo dei professori, ed ebbe un flash.
        «Questa notte ho visto una cosa strana», asserì, spinto dal cieco bisogno di confidarsi.
        Weasley gli lanciò un’occhiata poco simpatica, come a fargli intuire che aveva appena toccato un tasto dolente; e sebbene in lui si fosse risvegliata una certa curiosità, non chiese spiegazioni. Cosa che, comunque, fece Hermione: «Cioè?»
        «Ho incontrato il professor Holmwood».
        «Questa notte, Harry?» s’inserì nella conversazione Neville.
        «Uhm. Sì, io― io sono uscito».
        Paciock sorrise a cuor leggero, «Sei andato a svaligiare di nuovo le cucine?»
        Hermione, non capendo, aggrottò la fronte. «Che significa di nuovo?» borbottò.
        Potter, però, liquidò la faccenda un gesto della mano, come a dire che non si trattava d’una cosa importante. «L’ho incontrato», ripeté riferendosi all’insegnante, così da riportare la discussione in carreggiata. «Non credo si sia accorto di me; avevo il mantello addosso. L’ho seguito», confessò, abbassando la voce.
        «E?» l’incalzò l’amica.
        Deglutì. «È entrato nella Foresta Proibita».
        Quelli che l’ascoltavano, Ron incluso, sgranarono appena gli occhi e s’insospettirono.
        «Nella… foresta?» sussurrò mesto Neville, girando per un attimo il capo verso i professori.
        Weasley, pur non commentando, lo imitò e poi sbuffò, come scocciato; l’ultima cosa con cui voleva avere a che fare era l’ennesimo insegnante con un armadio pieno di scheletri.
        «Fin dove l’hai seguito?» indagò Hermione, allarmata.
        «Solo fin dove iniziano ad esserci gli alberi».
        Lei, con aria crucciata, rifletté. «Magari― magari Hagrid aveva chiesto il suo aiuto per qualcosa».
        «Credi sia possibile?» mugugnò Harry.
        «Sì, può essere. Forse». Presa in contropiede, abbassò lo sguardo sul piatto. «È che non voglio pensare male. Lui sembra una brava persona». A quel punto, fu il suo turno d’osservare rapidamente Holmwood: girò il capo, e lo trovò a discutere col collega che l’affiancava. Sul volto, il solito cipiglio severo e un’espressione corrucciata.
        «Possiamo chiedere ad Hagrid se ne sa qualcosa», fece Potter, remissivo.
        «Possiamo», ripeté lei.
 
 
* * *
 
 

        Fu una giornata lunga. Soprattutto per Draco Malfoy.
        Non dovette dare chissà quali spiegazioni per le occhiaie che gli appesantivano lo sguardo, né tantomeno per il cattivo umore – gli bastò bofonchiare distrattamente che s’era beccato una punizione con Potter, per saziare la curiosità degli arditi che s’interessarono alla sua condizione. Pochi, davvero; giusto Parkinson, Zabini, Nott e, a modo suo, Goyle. Tutti abbastanza furbi – o sufficientemente ignoranti, nel caso di Goyle – da intuire che non era il caso d’insistere più di tanto.
        Era positivo non essere circondati da persone a cui rendere conto. Un po’ triste per certi aspetti, forse, ma positivo.
        In ogni caso, macerando nel risentimento, per il tutto il giorno ebbe la cura di evitare Harry Potter. Era infatti arrivato ad odiarlo così tanto da star fisicamente male a causa sua – già solo pensando a lui, e a quello che aveva fatto quella notte, gli bruciava lo stomaco, perciò non voleva neanche immaginare che razza di reazione avrebbe avuto nel vederlo.
        Non che avesse la fortuna di risparmiarsi una tale disgrazia, ovviamente; la punizione, dopotutto, era dietro l’angolo, e sarebbe stato costretto ad incontrarlo.
 
 

        Il momento giunse alle nove di quella sera.
        Draco arrivò all’aula di Trasfigurazione per primo, ma non appena si piazzò davanti alla porta, sentì il rumore di passi in avvicinamento. Gli bastò voltare il capo per intercettare, più in là nel corridoio, il Grifondoro – subito s’irrigidì. E forse anche per via di quell’intorpidimento, aspettò che l’altro lo raggiungesse.
        Harry, che aveva iniziato ad agitarsi ancor prima d’uscire dalla Sala Comune, appese definitivamente al chiodo la propria tranquillità non appena scorse la figura del Serpeverde. Sentì l’impulso di dirgli qualcosa, anche se solo per litigarci – perché più di tutto aveva bisogno di capire in quale condizione versava il loro rapporto, di tastare il terreno.
        Con un’estrema ed inconscia crudeltà, però, Malfoy gli negò esattamente ciò di cui necessitava, non dandogli il tempo d’aprir bocca. Non appena furono vicini, infatti, gli dedicò una breve occhiata intensa per poi fiondarsi dentro l’aula; e a quel punto, per quanto frustrato fosse, Potter non poté far altro che seguirlo sulle note d’un mezzo sbuffo.
        La professoressa McGranitt, seduta dietro la cattedra, era immersa nella lettura di qualche foglio; non appena s’accorse dei due, però, sollevò gli occhi nella loro direzione, invitandoli a farsi avanti. Entrambi i ragazzi, a causa delle passate esperienze e, forse, d’una punta di pessimismo, s’aspettavano che venisse loro assegnata chissà quale mansione; insomma, erano psicologicamente pronti al peggio.
        Ma tale preparazione si rivelò perfettamente inutile. La strega, infatti, non affidò loro alcun incarico particolare; semplicemente, li invitò a prendere posto ad uno dei banchi: «Sedetevi pure», fece, indicando la prima fila.
        Istintivamente, Potter e Malfoy si accomodarono il più lontano possibile l’uno dall’altro, ancora una volta preparati allo scenario peggiore – pensarono distrattamente a compiti extra, a pergamene da riempire eccetera. Ma niente di tutto ciò parve avere a che fare con la loro punizione, la cui entità, in effetti, continuava ad essere piuttosto vaga.
        «Bene», mormorò l’insegnante con tono piatto, «tre ore a partire da adesso».
        «Tre ore di cosa?» s’azzardò a chiedere Harry, perplesso.
        «Di silenzio», rispose la McGranitt, tornando alle proprie letture con aria stanca.
        I ragazzi si scambiarono uno sguardo, presto interrotto da Draco che, come scottato, si voltò di scatto dall’altra parte. Similmente demoralizzati, sospirarono, e incurvarono scompostamente la schiena.
        Non avrebbero potuto dirlo con certezza, ma ipotizzarono che la preside avesse assegnato loro quella particolare punizione per non essere eccessivamente dura. La strega poteva dunque aver agito in buona fede; peccato che per loro, in quel momento, il silenzio fosse la peggior cosa in assoluto.
        Non avevano modo di frenare i pensieri, se dovevano star zitti e se non potevano distrarsi tenendosi occupati. E non era un fattore positivo, considerata la natura di ciò che passava per le loro menti.
        Da un lato c’era Malfoy, che si mordeva la lingua nel tentativo di non concentrarsi sul fastidio che gli stava facendo contorcere le interiora sin da quando aveva visto il Grifondoro nel corridoio. Mai come in quel frangente, dacché erano tornati a Hogwarts, aveva sentito tanto forte il desiderio d’intraprendere una lotta – potendo, avrebbe piazzato un pugno dritto sul naso di Potter. Perché, per Salazar, se lo meritava, dopo che gli aveva fatto passare la notte praticamente in bianco, dopo che non era stato assolutamente capace di gestire la sfida, dopo che aveva cercato d’incastrarlo nella Stanza delle Necessità.
        Che razza d’idiota, pensò, tanto scombussolato da non riuscire nemmeno a girare la testa per fulminarlo con un’occhiataccia.
        Dall’altra parte del ring, poi, c’era per l’appunto Harry, che a stento era in grado di star fermo. Era più che convinto che quella fosse una ben architettata forma di tortura – aveva davvero bisogno di parlare, di fare cose, di chiarire, e invece era costretto a perder tempo bloccato su quella sedia. Come se non bastasse, non poté neanche sfogarsi lanciando sguardi al Serpeverde, perché quello s’ostinava a non voltarsi verso di lui.
        Neanche a dirlo, detestò ogni singolo, infinito secondo passato a sopportare un tale supplizio.
 
 

        «Potete andare».
        Quando finalmente la professoressa pronunciò quelle parole, i due – l’uno ancora intento a rodersi il fegato per la rabbia, l’altro praticamente caduto in trance a causa dell’impazienza – balzarono in piedi e s’osservarono per un attimo.
        «Che vi sia di lezione», continuò la McGranitt. «Ora tornate alle vostre Sale Comuni, il coprifuoco scatterà tra poco».
        Si congedarono con poche parole spicce ed uscirono dalla stanza a passo spedito, anchilosati e parecchio assonnati. E forse ciò che Malfoy bramava era poter davvero filare nei sotterranei e dormire, ma, purtroppo per lui, Potter era d’altro avviso ed aveva già deciso che non gli avrebbe permesso di fuggire. Non prima d’aver parlato, almeno.
        «Ehi», lo chiamò frettolosamente, stando ben attento a non alzare troppo la voce.
        Draco contrasse i muscoli e, dandogli le spalle – era un paio di passi avanti rispetto a lui –, si prese qualche istante prima di dedicargli attenzione. «Cosa?» sputò tagliente, con un’espressione che ben chiariva quanta poca voglia avesse di chiacchierare.
        Harry esitò. «Ieri notte―» soffiò, lasciando però la frase in sospeso. «Ehm. Noi―» riprovò, bloccandosi ancora.
        Roteando gli occhi, l’altro tentò di liquidarlo con un gesto seccato della mano. «Non ho tempo da perdere con te», asserì, per poi riprendere ad avanzare per la propria strada.
        Il Grifondoro mosse alcuni passi, allungò un braccio, lo agguantò e lo costrinse a fermarsi. Aprì bocca, ma non riuscì ad articolare neanche una parola, perciò si limitò a fissarlo.
        «Cosa cavolo vuoi?» ringhiò spazientito Malfoy, liberandosi seccamente dalla sua presa. «Se hai qualcosa da dire, dillo e basta, prima che mi venga voglia di spaccarti la faccia». E siccome quella voglia già l’aveva, lo spintonò costringendolo a indietreggiare.
        Provocato, Potter mugugnò e, per un momento, fu tentato dal rispondere alla violenza con altra violenza; alla fine, però, non lo fece, perché le maniere forti gli parvero davvero eccessive. In ogni caso, in quel secondo d’incertezza, aveva lasciato che s’abbassassero le difese coscienti, perciò si ritrovò a borbottare, con tono duro e risentito: «Non siamo più come prima. Non possiamo più esserlo».
        Basito, il Serpeverde assottigliò gli occhi. «Per Merlino, Potter; tu sì che sei perspicace!» Schioccò la lingua, «Sul serio, l’hai capito solo ora? Perché è da mesi che te l’ho detto».
        Calò brevemente il silenzio.
        «Quello che abbiamo fatto ieri notte―»
        «No, non ci provare», l’interruppe Draco, acido, con l’atteggiamento di chi vuole mettere in guardia. «Non voglio parlarne». Con aria stravolta, alzò le mani e, gesticolando, tentò di tirarsene fuori, allontanandosi a passo spedito. «Lasciami in pace e basta», sentenziò.
        Harry, però, armato d’una cocciutaggine senza rivali, subito gli fu dietro. «Perché scappi?»
        Sulle note d’un lamento esterrefatto, l’altro alzò le spalle. «Non scappo, me ne vado. C’è differenza. Poi – cos’altro diamine t’aspetti che faccia?»
        Per la seconda volta, allungò un braccio per afferrarlo e trattenerlo. Desiderò essere capace di rispondere alla sua domanda, ma, di fatto, non lo era, perciò tacque, gli occhi nei suoi.
        Incredibilmente, anche Malfoy restò zitto: si liberò nuovamente dalla presa che lo teneva fermo e poi, travolto da un nonsoché che gli fece accelerare il cuore, s’immobilizzò spostando lo sguardo a terra.
        «Magari se― se ci andiamo piano―»
        «Magari un cazzo, Potter». Mandati i francesismi a farsi benedire, scosse amaramente il capo. «Hai combinato un fottuto casino».
        «Abbiamo combinato un fottuto casino. C’eri anche tu. Rispondevi, m’insultavi. Hai accettato la sfida. La colpa non è solo mia». E non ci fu alcun bisogno di specificare di quale colpa stessero parlando, perché tanto lo sapevano entrambi, che si trattava di quella associata all’aver lasciato che le loro liti sfociassero in qualcosa di deleterio. «Abbiamo esagerato», ammise Harry, ingoiando l’orgoglio.
        Draco non replicò, quasi ignorandolo. Dopo un attimo di tentennamento, però, sibilò: «Devi solo lasciarmi in pace. Solo questo. Non è difficile, persino tu puoi riuscirci».
        E al Grifondoro sarebbe tanto piaciuto poter dire no, non voglio, perché anche se era una cosa assurda e si odiavano e faceva male, per l’ennesima volta si trovò a pensare che voleva proseguire sulla strada che avevano intrapreso. Lasciarlo in pace, d’altronde, avrebbe significato perderlo – e sì, si trattava di quell’insopportabile di Malfoy perciò sai che perdita, però, cavolo, era una figura importante per lui; e in quanto a figure importanti, beh, erano quasi vent’anni che non faceva altro che restarne orfano. Perciò al diavolo – non gli avrebbe dato retta.
        Gli ci volle un momento per realizzare, molto vagamente, che forse per il Serpeverde era diverso: magari lui aveva davvero bisogno di stargli lontano. In quel caso, il suo sarebbe stato egoismo puro. Ma non volle soffermarsi a riflettere su quel dettaglio – anche perché, in fondo, non era una persona perfetta. Poco importava che la gente l’avesse innalzato a eroe; restava solo un ragazzo, e a volte poteva concedersi d’essere un po’ egoista.
        «No», sbottò quindi in risposta a ciò che l’altro aveva detto.
        Attonito, Draco ghignò. «Sei veramente un idiota – un idiota masochista. E, sai, ti chiederei perché insisti tanto nel volermi dare fastidio, se solo non sapessi che tireresti fuori di nuovo il fatto che hai bisogno di me, o stronzate simili». Si morse un labbro, poi, sentendosi insensatamente ed improvvisamente più leggero, sospirò. E a quel punto, con suo sommo fastidio, mise a fuoco che a Potter era bastato un nonnulla per rivoltarlo come un calzino – l’aveva incastrato, aveva bofonchiato qualche cavolata delle sue, l’aveva fissato per un po’ e voilà: l’aveva fatto star meglio. Pazzesco, se si considerava che proprio lui era la causa delle sue sofferenze.
        L’odiò da morire. Con l’amor proprio che si ritrovava, infatti, non poté proprio accettare che un Grifondoro rimbambito gli facesse un tale effetto, che lo tenesse in pugno sino a quei livelli. Lo guardò malissimo, quindi, quasi a voler dimostrare a se stesso d’aver ancora tutto quanto sotto controllo, e poi sentì crescere il desiderio di scacciarlo, così da potersi liberare della sua influenza.
        «Stammi lontano e basta», soffiò, non sapendo che altro dire per congedarsi.
        Quella volta, quando Malfoy s’incamminò nel corridoio, Harry non lo inseguì. Rimase dov’era, dicendosi che poteva anche concedergli un po’ di tempo, se proprio ne aveva bisogno; fermo restando che sarebbe però presto tornato all’attacco.
 
 

        Entrando in Sala Comune, Draco si riscoprì molto meno afflitto di quanto preventivato. Tuttavia, ciò non implicava che non fosse inquieto; in effetti, lo era tanto da rifuggire il sonno – cosa alquanto significativa, considerato che praticamente non riposava da due giorni. In ogni caso, decise di concedersi qualche momento di meritata tranquillità: si sedette su uno dei divani scuri, rilassando la schiena e socchiudendo mollemente gli occhi. A ronzargli nella mente, pensieri sull’insensata e ostinata testardaggine di Potter.
        Passarono diversi secondi, forse persino più d’un minuto – non avrebbe proprio saputo dirlo –, poi una voce, sussurrando, lo fece tornare sull’attenti.
        «Ehi. Ti va un po’ di compagnia?»
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Ma io dico - con un capitolo tanto lungo, è normale che la mia prima preoccupazione siano le tre parole in croce che ho messo in bocca alla McGranitt? ...Argh! Professori
Uhm, in ogni caso - spero che il capitolo vi sia piaciuto e, in particolare, che vi siano sembrate quantomeno verosimili le reazioni di Harry e Draco. c: Oh, e per darvi un po' di speranza (e darla anche a me stessa): giuro che tra loro scatterà qualcosa a breve. Un "qualcosa" su cui però non vi darò indizi.

Mille e mille grazie a tutti coloro che leggono, seguono, recensiscono - insomma, love you all! c:
Baci e a presto,
T. ♪
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Capitolo 14
*** 13. (Pen)ultimo tassello ***


13.
Penultimo tassello
 
 
 
        Astoria Greengrass era una delle persone più particolari che Draco Malfoy avesse mai conosciuto. Non che avesse doti straordinarie; anzi, era… normale, ma in un modo tutto suo.

        Era piuttosto introversa. Per questo, in principio, quando sua sorella Daphne li aveva presentati, non avevano parlato granché – e anche in seguito non erano diventati propriamente amici. Potevano più che altro definirsi buoni conoscenti. Rispettavano sempre i reciproci spazi e, nelle occasioni in cui conversavano, stavano ben attenti a trattare solo argomenti banali. C’erano però alcuni preziosi dettagli della personalità di Astoria, che, a priori dalla natura di quel loro quasi inesistente rapporto fatto di chiacchiere superficiali, Draco era stato capace di cogliere: era incredibilmente carismatica e, al contrario di tanti, tantissimi altri Serpeverde, era spontanea, per nulla impostata – o, alternativamente, sapeva comportarsi con una sprezzatura tale da risultare perfettamente naturale in ogni espressione, ogni gesto, ogni lieve sorriso.
        Tanta autenticità non poteva far altro che spingere coloro che le parlavano a sentirsi a proprio agio. E Malfoy – pur essendo, beh, Malfoy – non faceva eccezione: quando si trattava d’avere a che fare con la più giovane delle sorelle Greengrass, in lui spariva ogni traccia di senso d’incomodo. Era un po’ come se, inconsciamente, sapesse che lei non gli avrebbe mai potuto fare alcun torto, quindi non aveva alcuna ragione per barricarsi dietro atteggiamenti difensivi, né tantomeno alcun istinto che gli suggerisse di farlo, quando se la ritrovava attorno; in qualsiasi momento ciò accadesse. Insomma, accettava la sua presenza di buon grado, poiché non era affatto molesta.
        Ad esempio, non l’aveva allontanata quando, dopo che era rientrato in Sala Comune in quella notte di fine Gennaio, lei gli era comparsa accanto.
 
 

        «Ehi. Ti va un po’ di compagnia?» aveva mormorato per annunciarsi Astoria.
        Prima di rispondere, Draco l’aveva fissata per un momento come a volerla analizzare. «Uh, okay. Ma non ho molta voglia di parlare».
        «Neanch’io, in realtà». Prendendo posto vicino a lui sul divanetto, gli aveva mostrato il grosso libro che si portava appresso – stava tenendo il segno ad una pagina con un dito. «Maratona di studio. Ma non ne posso proprio più; un altro minuto, e potrei impazzire. Ho bisogno di una pausa».
        S’erano crogiolati nel silenzio per un po’, comodamente e fiaccamente rilassati. E non erano stati istanti tesi o imbarazzanti – tutt’altro: quello che li aveva avvolti era un silenzio neutro, che nessuno dei due s’era sentito in dovere di spezzare.
        Pian piano, i pensieri di Malfoy erano scivolati in direzione della ragazza: aveva voltato appena il capo dalla sua parte, occhieggiando i capelli biondi raccolti e lievemente fuori posto, poi il viso appesantito da chiara stanchezza, e infine aveva fissato lo sguardo sul libro poggiato sulle sue ginocchia. A quel punto quasi s’era imbronciato perché, cavolo, per quanto si potesse essere bravi alunni, studiare di notte per lui equivaleva all’autoinfliggersi una pena.
        Per un po’, aveva ponderato per decidere se fosse o meno il caso di far commenti. Poi, non potendo più sopportare tutte quelle riflessioni, s’era semplicemente lasciato andare: «Perché cavolo studi di notte? È follia pura».
        «Lo è davvero» aveva riso candidamente Astoria, «ma non ho scelta».
        «Uh».
        «Insomma, potrei farlo di pomeriggio. E in effetti lo faccio, solo che― a volte non riesco proprio a concentrarmi. Colpa di mia sorella».
        «Daphne?»
        «Sì, è l’unica sorella che ho». Nel dirlo, s’era girata verso di lui e aveva sorriso sorniona.
        Draco, mettendo su una smorfia vagamente simile ad un sogghigno, aveva alzato le spalle e scosso appena il capo. «Lo so. È che non immagino cosa possa fare per distrarti. Ci ho studiato insieme, non è così terribile».
        «Scherzi, vero?»
        «Hm». A quel punto aveva chiuso per un istante gli occhi, sorprendendosi della propria improvvisa voglia di chiacchierare. «No, sul serio. Sta zitta. È molto più di quello che si può dire di altri».
        «Okay, non parla, ma― Salazar, è tutto il resto il problema! Non ti sei mai accorto di niente?»
        Spendendo un paio di secondi per cercare di ricordare qualche possibile dettaglio, Malfoy aveva inspirato profondamente per scacciare la pesantezza dovuta al sonno. «Non so; non credo. Cosa fa di così terribile?»
        Al che, con aria un po’ divertita e un po’ esasperata, Astoria s’era concessa una debole risata e aveva lasciato ricadere la testa all’indietro. «Farei prima a dirti cosa non fa. Giuro, è un incubo – ogni volta che devo studiarci insieme non fa altro che interrompermi in continuazione; mi colpisce il braccio mentre scrivo, mi tira calci da sotto al tavolo, sospira rumorosamente, invade il mio spazio». Lì s’era fermata, ma dal tono che aveva usato era chiaro che ci fossero mille altre piccole cose che la infastidivano. «È terrificante».
        Draco, senza riuscire ad immaginare una Daphne tanto seccante, aveva supposto che si trattasse di spontanea non-sopportazione tra sorelle. O qualcosa del genere. «Non studiare con lei», s’era quindi ritrovato a consigliare.
        «Ci provo! Ma a volte siamo in gruppo e c’è anche lei – di certo non posso dirle vai via, e non mi va di fare l’outsider studiando da sola».
        «Quindi, giustamente, sopporti e poi fai comunque l’outsider studiando da sola… di notte».
        Non intenzionata ad ammettere che, tutto sommato, per lei studiare di notte non era poi così terribile, Astoria aveva esitato e sbuffato, per poi aprirsi in un sorriso elegantemente impacciato e buttar lì: «Più o meno».
        «Geniale, davvero».
        Facendo spallucce con aria impettita, aveva arricciato le labbra. «Dimmi di te – come mai sei ancora sveglio? Se posso chiedere».
        Malfoy s’era incupito di colpo, colto di sorpresa da una risacca di pensieri su quell’incurabile idiota che era Harry Potter, e non aveva risposto.
        Perspicace, lei aveva capito l’antifona e non s’era azzardata ad insistere. «Va bene», aveva borbottato pacatamente, per poi aprire e sollevare il libro. «Ultimo paragrafo della giornata! Augurami buona fortuna».
        Quelle poche parole, leggere e appena mormorate, avevano avuto il potere di restituire a Draco una qualche serenità; era sempre piacevole quando le persone non s’intromettevano nei suoi affari. «Buona fortuna», aveva sussurrato alzando entrambe le sopracciglia; poi, dopo aver ascoltato brevemente il rinnovato silenzio tra loro, s’era alzato. «Io vado. Buona notte», aveva bisbigliato congedandosi con un cenno.
        «Buona notte». Astoria l’aveva osservato muovere i primi passi, con un accenno di sorriso sulle labbra. «Grazie per la compagnia».
        Per un istante, lui s’era sentito quasi in dovere di ribattere con un educato “A te”. Si era persino fermato per rivolgerle uno sguardo, praticamente pronto a parlare; alla fine, però, l’aveva fissata senza dir nulla, dedicandole solo un secondo cenno di saluto.
 
 

        Anche se forse non l’avrebbe ammesso, in quell’occasione parlare con Astoria Greengrass lo aiutò a ritrovare quel briciolo di calma e di pace interiore di cui aveva bisogno per dormire. Gli fu d’aiuto, ecco; ma non per questo sviluppò una maggiore simpatia per la ragazza. Di sicuro, però, s’appuntò che la sua presenza poteva essere ancor più piacevole di quanto ipotizzato.
 
 
* * *
 
 

        Per Harry Potter la fine del primo mese dell’anno fu fastidiosa.
        Per più e più giorni, si sentì come schiacciato da un peso del quale non ebbe modo di liberarsi – e, inutile negarlo, la cosa era correlata alla figura d’un certo Serpeverde biondo che gli stava dedicando il trattamento del silenzio.
        Provò a confrontarsi con lui in un paio di occasioni; niente di esagerato, davvero. La prima volta si limitò, dopo una lezione, a fargli capire con occhiate piuttosto eloquenti d’essere interessato a mettere in piedi una conversazione; la seconda, invece, incrociandolo lungo un corridoio, semplicemente rallentò il passo quando furono vicini, cercando d’intercettare un suo sguardo. Neanche a dirlo, non ottenne nulla. Beh, nulla meno i rimproveri velati di Hermione che, sempre attenta, si rese conto in ambedue i casi di ciò che lui stava cercando di combinare.
        Lui, comunque, non l’ascoltò. Cioè, l’ascoltò, ma non le diede retta, perché la resa non figurava nei suoi piani.
        Tra sé e sé, s’era detto che Malfoy poteva aver bisogno di altro tempo; qualche altro giorno per metabolizzare quello strappo che c’era stato tra loro. Con un po’ di fortuna, dopo le cose sarebbero andate meglio, perché anche se non potevano più essere per davvero quelli di prima, magari avevano la possibilità d’essere qualcosa di diverso. Questo, almeno, sperava ingenuamente.
 
 

        Emerse – o, meglio, riaffiorò una seconda – ma non per importanza – causa di grane: il pensiero del professor Holmwood nella Foresta Proibita. E con quello, l’idea di parlarne con Hagrid, come avevano stabilito.
        Si trattava d’una faccenda piuttosto gravosa, per Harry, Ron e Hermione. Spesero una buona parte delle lezioni di Difesa a tener d’occhio l’insegnante, cercando con poco successo di leggergli dentro; più volte, poi, ne parlarono amaramente tra loro.
        Sembrava proprio un professore a posto, Holmwood. Non il massimo in quanto a spiegazioni, a detta di Hermione, e secondo Ron fin troppo serio, ma comunque a posto. Faceva male e anche un po’ paura, quindi, pensare che potesse nascondere qualche cupo segreto, perché la guerra era finalmente finita ed era profondamente ingiusto che dovessero ancora preoccuparsi di certe cose.
        Animati da quello spirito, lasciarono passare i giorni senza fare alcuna mossa. E qualcuno avrebbe potuto dire che se la stavano prendendo comoda e che stavano sbagliando, perché, cavolo, poteva essere una questione seria; loro, comunque, non si sentivano in torto. Forse perché s’erano messi in testa che con buona probabilità era tutto un malinteso, e che non c’era nulla da temere.
        In ogni caso, alla fine decisero di procedere e di parlare al Guardiacaccia: marciarono verso la sua capanna durante il pomeriggio d’un giorno nuvoloso.
        Il mezzogigante li accolse calorosamente e li invitò ad entrare, scusandosi mestamente per il caos e addossandone la colpa ad una qualche bestiola che, a suo dire, l’aveva fatto diventare matto a forza di saltare da una parte all’altra. «Sulle pareti, sul soffitto; sul serio, non smetteva più di rimbalzare!» commentò ridendo.
        «Siete venuti a fare due chiacchiere?» chiese ai ragazzi dopo che questi si furono accomodati.
        «Sì e no», rispose con tono piatto Hermione, facendosi avanti per compensare il tentennamento degli amici.
        «Cioè?»
        «Abbiamo una cosa da chiederti. Si tratta del professor Holmwood», asserì Harry, prima di umettarsi nervosamente le labbra. «L’altra notte io― io l’ho visto mentre entrava nella Foresta Proibita».
        Tra lo stupore e la perplessità di Hagrid e l’atteggiamento un po’ ritroso dei tre Grifondoro, finirono col perdere un paio di minuti in silenzi densi intervallati da battute atte a confermare che , Potter era uscito di notte infrangendo il coprifuoco, ma che no, non era un problema perché aveva già scontato la propria punizione. 
        Poi, finalmente, tornarono ad occuparsi di ciò che era importante.
        «Avevamo pensato che potessi saperne qualcosa», soffiò Hermione, le braccia incrociate al petto.
        Scuotendo scompostamente il capo e strabuzzando appena gli occhi, l’omaccione negò. «Non so niente di professori nella foresta».
        Ron, mogio, sospirò. «Era troppo semplice perché potesse essere vero».
        «Sicuro che fosse proprio lui?» domandò il Guardiacaccia rivolgendosi a Potter, preoccupato e un po’ titubante.
        Harry annuì. «Sì, l’ho visto bene».
        «Allora― forse devo parlarne con gli altri insegnanti. Con la preside», si corresse Hagrid, incerto. «Ma, però―» e sbuffò, lasciando la frase in sospeso.
        «Cosa?» intervenne concitato il ragazzo.
        «Mi fido di quello che dici, Harry, ma― è strano, ecco». Alzò le larghe spalle, abbassando lo sguardo su un gingillo che aveva appena distrattamente estratto da una tasca, e che posò poi sul tavolo senza particolare cura. «Non ci ho parlato molto, visto che non è proprio un chiacchierone. Però è un professore rispettato. E non m’è sembrato una persona cattiva o pericolosa».
        I tre capirono alla perfezione dove volesse andare a parare: anche loro, infatti, non erano del tutto convinti che fosse il caso di creare un gran polverone attorno alla faccenda; in fondo, rischiavano di complicare inutilmente le cose e di mettere in dubbio la buonafede d’un uomo innocente. C’era da dire, però, che in passato insegnanti apparentemente per bene s’erano rivelati nemici.
        Erano combattuti, quindi, e, con lo sguardo rivolto a Hagrid, s’affidarono a lui perché li alleggerisse della responsabilità di prendere una decisione.
        Il mezzogigante s’accorse che stavano aspettando un responso da parte sua. Mugugnò sommessamente a testa bassa, riflettendo, poi fece: «Posso tenerlo d’occhio, per sicurezza. Se scopro qualcosa, ne parlerò immediatamente con la preside McGranitt. Voi― voi statene fuori».
        I Grifondoro si scambiarono alcune veloci occhiate cercando conferme e sicurezze l’uno nell’altro. Poi Hermione prese parola: «Forse è la cosa migliore».
 
 
* * *
 
 

        Era già Febbraio quando, nell’aula di Pozioni, Draco Malfoy si sentì chiamare da una voce sin troppo familiare prima che la lezione iniziasse.
        «Uhm, Malfoy».
        Fu praticamente un sussurro.
        In principio quasi non reagì: si limitò a strizzare gli occhi e a mordersi una guancia. Poi, spinto da una malsana e forse controproducente curiosità, voltò il capo per lanciare un’occhiata all’imbecille che l’aveva interpellato – Harry Potter, chiaramente.
        Lo fissò per una manciata di secondi, sentendosi addosso non solo gli sguardi dei componenti del Trio dei Miracoli, ma anche quelli d’un paio di Serpeverde che l’affiancavano. Sbuffò tra sé e sé, tacendo – perché, davvero, cosa avrebbe dovuto dire?
        Era da un po’ che non dava attenzione a Potter, e che gli stava il più possibile alla larga; o, meglio, che ci provava. Questo, perché il suo spirito razionale s’era convinto che fosse la cosa migliore da fare per guarire; cioè, per dimenticare l’orrida sensazione che l’aveva travolto la notte in cui s’erano incontrati. E c’era da dire che tutto sommato quel piano stava funzionando: con ormai una settimana di notti più o meno tranquille alle spalle, poteva dire d’essersi quasi ripreso. Un risultato, quello, raggiunto non certo grazie all’aiuto di Potter. Anzi, il Grifondoro praticamente l’aveva osteggiato, considerato che non aveva mai smesso di scrutarlo e di stargli addosso.
        All’inizio s’era a stento trattenuto dal mangiargli la faccia, covando il pressante desiderio di ripetergli che doveva lasciarlo in pace. Poi, come solitamente accade quando ci si concede del tempo, la repulsione era via via scemata e s’era ritrovato per le mani nulla più d’un blando senso di fastidio. Ed era a quel punto che il tutto si era fatto un po’ strano, perché – e detestava doverlo anche solo riconoscere a se stesso – s’era riscoperto quasi rincuorato dalla perseveranza di Potter.
        Come se― come se fosse pronto a ricominciare da capo. Ad odiarlo di nuovo, a riprendere a lanciargli frecciatine. Assurdo, davvero: tornare ad averci a che fare gli sembrava una prospettiva così semplice e normale, sebbene fosse cosciente del fatto che sarebbe stata l’ennesima mossa rischiosa.
        Aver l’istinto di fare qualcosa di apparentemente insensato e pericoloso lo preoccupava non poco. Neanche avesse una natura autodistruttiva.
        Ecco, forse era quello che Potter gli faceva: lo trasformava in un folle con manie autodistruttive, e per farlo gli bastava dondolare sotto al suo naso la promessa d’attenzioni, di battute antipatiche e d’un pizzico di sollievo.
        Per quella che forse era la milionesima volta, si disse che era semplicemente inaccettabile che quel maledetto Grifondoro avesse un tale ascendente su di lui – la sola idea lo scocciava non poco. E ad aggravare il tutto c’era la consapevolezza che, da ingenuo e disattento idiota qual era, Potter con tutta probabilità neanche si rendeva conto del potere che poteva esercitare.
        Lui era ignaro. Fottutamente ignaro. E se ne sbucava fuori con quel suo “Uhm, Malfoy” così, con quella faccia innocente, come se non si trattasse di niente di speciale; come se non ne andasse affatto dell’atteggiamento del suddetto Malfoy, dei suoi livelli di frustrazione, e in parte anche della sua sanità mentale.
        Per carità, Draco non voleva che sapesse come stavano le cose; il suo a stento rattoppato orgoglio non avrebbe retto il colpo. Ma Salazar – quel modo di porsi fu per lui dannatamente irritante. Così tanto, che non poté trattenersi dal lanciargli un’occhiataccia accompagnata da un ghigno scocciato. E se non fosse stato il ragazzo pseudo-maturo che era, forse avrebbe ceduto anche all’impulso di fargli le boccacce scimmiottando quel suo patetico “Uhm, Malfoy”.
        «Hm», mugolò Harry, non sapendo bene come affrontare il silenzio del Serpeverde; intanto, Hermione lo teneva d’occhio chiaramente disapprovando il suo tentativo di dialogo. Era quasi certo che lei gli avrebbe fatto presente la propria opinione più tardi; chiedendo anche spiegazioni, s’intende.
        In tutta onestà, Potter non sarebbe stato capace di spiegare perché, dopo quei giorni di calma piatta, si fosse deciso a chiamare Malfoy proprio in quel momento. Magari aveva solo colto un’occasione qualunque perché s’era stancato d’aspettare. In ogni caso, era lì.
        Cavolo, se era lì. Ci sarebbe sempre fottutamente stato, fino a quando avrebbe potuto. E Draco lo sapeva – così come sapeva anche che scacciarlo non avrebbe sortito alcun effetto rilevante. Dannata cocciutaggine, pensò osservando il Grifondoro, incapace d’evitare di apprezzare la sua costanza, e di desiderare che non sparisse mai.
        Gli aveva senza ombra di dubbio instillato – o, meglio, aveva fatto riemergere in lui quello stesso bisogno di giocare a “Potter e Malfoy” che aveva dichiarato d’avere. Ripensandoci, sentì crescere la rabbia nelle vene e, sbuffando con aria mezza disperata e mezza rassegnata, decise di risparmiare all’altro il compito di trovare qualcosa da dire.
        «Non smetterai mai di farlo, vero? Di darmi fastidio». S’espresse con tono duro e acido, ma nella sua voce vibrò anche una nota di preoccupazione – perché una parte di lui voleva solo tastare il terreno prima di rimettersi stupidamente in ballo, così da accertarsi di poter riporre fiducia in una rivalità svuotata di senso e nell’imbecille che già due volte l’aveva fregato.
        Harry intercettò una significativa occhiata di Hermione. Non fece una piega, e sbottò: «Probabilmente no».
        Draco fece schioccare la lingua, poi esalò un sospiro – forse di sollievo, perché incredibilmente Potter aveva appena borbottato ciò che lui voleva sentirsi dire, e un nonsoché di profondo subito gli aveva attanagliato le viscere trasmettendogli una forte sensazione. Positiva o negativa, non avrebbe saputo dirlo. Non stette a pensarci su, comunque, abbandonandosi ad un a lungo trattenuto sprazzo di animosità.
        «Non hai mai preso in considerazione l’idea di trovare qualcun altro da scocciare? Un’altra Weasley, magari. È già passato un po’ da quando l’ultima ti ha piantato».
        Punto sul vivo, il Grifondoro aggrottò la fronte e fece per ribattere, ma Ron, al suo fianco, lo precedette: «Non mettere in mezzo mia sorella!»
        Malfoy, col battito appena accelerato a causa della gran soddisfazione che gli era montata in petto, alzò le spalle e roteò gli occhi.
        Non ebbero modo di portare avanti la conversazione, perché il professor Lumacorno diede inizio alla lezione. Tuttavia, prima di dedicarsi all’intruglio della giornata, il Serpeverde s’assicurò di lanciare un ultimo sguardo affilato a Potter.
        Un dettaglio, quello, che restò forse insensatamente impresso nella mente di Harry, insieme al ricordo delle poche battute che s’erano scambiati.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Insomma, Astoria Greengrass. Siate sinceri, vi ho sorpresi? :P A parte gli scherzi - come immaginate questa ragazza? Io vedo una (futura) donna di società in lei, di quelle che sanno sempre come prendere tutti. Qui, data l’età, è ancora un po’ acerba. Oh, e per me è bionda con gli occhi chiari, perciò nel testo la descriverò in questo modo. Non che sia poi troppo importante; generalmente, infatti, resterà nel background. c:
Questa settimana vi risparmio le mie insicurezze sul professore di turno (Hagrid, argh), passando a confermare che Potter e Malfoy sono pronti per un piccolo "cambiamento". Nel prossimo capitolo ci sarà una specie di... curva a gomito (?) tra loro - e non aggiungo altro per scaramanzia. 

Ringrazio tantissimo tutti coloro che leggono, seguono, preferiscono, commentano. c: Love you all! ♥
Kiss kiss e a presto,
T. ♪
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Capitolo 15
*** 14. Pensieri che ri(n)corrono ***


14.
Pensieri che rincorrono
 
 
 

        La cosa accadde durante un pomeriggio del tutto anonimo, in biblioteca.
        Mentre quell’evento aveva luogo, Malfoy, seduto al suo solito tavolo e circondato da alcuni compagni di Casa, teneva gli occhi incollati ad un libro. Più in là, dietro alle scaffalature vicine, Potter lo fissava come se improvvisamente gli fossero cresciute le antenne. Ma credeva davvero d’averne il diritto.
 
 

        Non era passato molto dall’episodio nell’aula di Pozioni; episodio che, tra l’altro, rappresentava anche la loro ultima interazione.
        Lì per lì, nel momento in cui il Serpeverde gli aveva rivolto l’occhiataccia finale, Harry aveva creduto che, in qualche contorto modo, tra loro fossero ricominciate le danze. Evidentemente, però, non era così, visto che Malfoy ancora non gli rivolgeva attenzione. S’era sforzato per riflettere sulla questione, cercando in tutti i modi di decifrare quell’ambiguo comportamento. Non aveva ottenuto buoni risultati, però – un po’ perché Malfoy sapeva essere incredibilmente ermetico, e un po’ perché ogni volta che ci provava l’eco della sua voce gli metteva i bastoni tra le ruote.
        …qualcun altro da scocciare? Un’altra Weasley, magari. E: l’ultima ti ha piantato.
        Malgrado si fosse lasciato Ginny alle spalle già da un po’, quelle parole a dir poco lo irritavano, perché sapeva che erano state scelte apposta per ferirlo e, maledizione, c’erano riuscite. Come se non bastasse, poi, rimbalzavano tra i suoi pensieri con una frequenza allucinante. Questo, forse, era dovuto anche al fatto che erano le ultime parole che Draco gli aveva rivolto; magari una piccola parte di lui era convinta che la chiave per risolvere il mistero sulle intenzioni del Serpeverde consistesse nel decriptare il tono con cui s’era espresso. Harry non poteva esserne certo. Tutto ciò di cui era sicuro, era che quella frase cattiva iniziava a ripetersi nella sua mente non appena pensava – anche se solo distrattamente – a Malfoy; per non parlare di quando gli capitava di vederlo o d’incrociarlo. In quei casi, ovviamente, era persino peggio: le parole gli piovevano addosso, pungendo come dannati spilli sottopelle.
        E in biblioteca, durante quel pomeriggio anonimo, poco prima che la cosa accadesse, l’aveva visto, perciò s’era beccato una dose di bruciante prurito, mentre Un’altra Weasley, magari. L’ultima ti ha piantato gli risuonava nelle orecchie.
        La sua prima reazione era stato un soffocato lamento. Poi, costringendosi ad allontanare lo sguardo da Draco, aveva cercato di gestire il fastidio distraendosi; in particolare, cercando un libro sugli scaffali. Libro per il quale, per inciso, si trovava lì – non aveva alcuna intenzione di spiare il Serpeverde, o di combinare un incontro.
        Aveva trovato il tomo piuttosto in fretta. Stringendolo tra le mani, in uno slancio forse masochistico, s’era poi concesso di lanciare una seconda occhiata a Malfoy.
        Una serie di coincidenze, a quel punto, aveva creato la concomitanza di certi eventi.
        Un’altra Weasley, magari aveva sentito ancora una volta rimbombare Harry, mentre al tavolo dei Serpeverde Daphne Greengrass spostava troppo velocemente un braccio e colpiva la sorella minore. Subito dopo, Potter aveva serrato la mascella e, piccato, s’era detto: “Un’altra Weasley! Dovrebbe pensare alle sue, di conquiste”; intanto, Astoria Greengrass aveva osservato lo scarabocchio che imbrattava la propria pergamena a causa del gesto di Daphne. Aveva quindi alzato gli occhi per incrociare quelli di Draco, e per lanciargli uno sguardo che urlava: “Vedi? Lo fa, te l’avevo detto!” Con una gran naturalezza, Malfoy aveva ridacchiato: il suo volto s’era illuminato per un attimo – attimo durante il quale il Grifondoro, pur notando con perplessità l’inaspettata risata, non si era potuto risparmiare d’essere investito nuovamente da Un’altra Weasley.
        Tutto, infine, era tornato nei ranghi: a seguito d’un rapido scambio di battute tra le sorelle Greengrass, i Serpeverde s’erano acquietati; sul volto di Draco, una smorfietta testimoniava il passaggio del riso. Harry era tornato a guardare il libro che reggeva tra le mani.
        Una calma solo apparente. Nella mente di Potter, infatti, era esploso un piccolo caos, poiché i tasselli degli avvenimenti verificatisi nella precedente manciata di secondi si erano scombussolati, per poi ricomporsi in un puzzle tutto nuovo. S’era aperto un bizzarro spiraglio: l’aveva sfiorato col pensiero, corrugando la fronte, e la cosa era successa.
 
 

        Un’altra Weasley; Malfoy. Le sue conquiste!
        La risata – una risata per la ragazza che ha davanti. Per lei, sì. Si sono guardati.
        Un’altra Weasley – la ragazza. Conquiste. Malfoy.
        L’illuminazione, all’improvviso: per Harry fu come riuscire a mettere a fuoco un lontano ricordo. Come soffiare via la polvere da una vecchia foto, che dopo tanto tempo in qualche modo non è più la stessa; ha qualcosa di nuovo, che s’era dimenticato o che mai s’era notato prima.
        Malfoy, conquiste, ragazza.
        Merlino santissimo.
 
 

        Aveva riportato lo sguardo su Draco in un lampo, stranito.
        Lui… poteva fare conquiste. Avere ragazze. Quelle cose là. E forse fu perché quella del Serpeverde era una figura che gli veniva spontaneo collegare agli anni passati, a quando erano ancora ragazzini, e perché accompagnare Pansy Parkinson al Ballo del Ceppo non contava nulla – fatto sta che si sentì come se qualcuno avesse appena calpestato ciò che rimaneva della sua innocenza di fanciullo.
        Draco Malfoy, lo spocchioso bulletto dei suoi anni d’oro a Hogwarts, era un essere umano come tutti gli altri. Proprio pazzesco.
        Quasi non riusciva ad immaginarlo. Insomma – ovviamente lo immaginava come una persona. Lo vedeva, per Godric. Ciò che non riusciva ad immaginare era lui che stava con una ragazza. Non che volesse farlo – ma se avesse voluto, ecco, non ci sarebbe riuscito. E come biasimarlo? In fondo, come si fa a dipingere Malfoy che sta con qualcuno? Che dimostra, probabilmente in maniera contorta, affetto? Che… bacia?
        Solo pensando quella parola, bacio, Harry sgranò gli occhi.
        Erano tutte cose naturali e normali, certo; normalissime! Ma comunque l’idea che fossero legate anche al Serpeverde lo indispose in un modo tutto strano.
        Percepì un chiaro alone di disagio attorno a sé, ed ebbe l’impulso di prendere le distanze. Lo fece senza esitare: girò i tacchi e marciò verso il tavolo a cui, insieme a Ron ed Hermione, s’era accomodato.
        Occupò la propria sedia silenziosamente, tenendo lo sguardo basso.
        «Che faccia», lo inchiodò pacatamente Weasley, inarcando un sopracciglio.
        Riscuotendosi, Hermione alzò lievemente il capo. «È vero, hai una strana faccia».
        Potter improvvisò un’alzata di spalle. «Uh, davvero? Non so, è tutto okay».
        I due, non avendo motivo di dubitare delle parole dell’amico, non indagarono oltre, e Harry, contento d’essersela cavata con tanto poco, s’immerse in una poco attenta lettura del libro che aveva appena recuperato dalla scaffalatura.
        Non avrebbe mai confessato d’aver fatto quei pensieri su Malfoy. Non si trattava di nulla di scabroso, ma comunque non voleva esporsi. Anche se, magari, se l’avesse fatto, avrebbe potuto lasciarsi confortare dalla consapevolezza che qualcun altro condivideva le sue opinioni – perché era certo che Ron avrebbe reputato quella faccenda stravagante esattamente come aveva fatto lui. Ma la verità era che non voleva parlare con Ron di Draco Malfoy che baciava la gente. Non voleva parlarne con nessuno, in effetti.
        Tacque, dunque, e mordendosi un labbro sperò di poter presto dimenticare tutta la questione.
 
 

        Ovviamente non la dimenticò. Sarebbe stato tutto troppo facile, se fosse successo – e la vita non gli aveva mai reso le cose facili. Piuttosto, gliele aveva di volta in volta complicate; quindi forse fu per par condicio se lo fece anche in quel caso.
        Comunque fosse, Harry si rese conto dell’esistenza della propria croce nel giro di poco. Più precisamente, quando finalmente il Serpeverde si rivolse a lui.
        Capitò nell’aula di Difesa contro le Arti Oscure, appena dopo il termine d’una lezione.
        «Come sempre tra i piedi, Potter», soffiò Draco, affiancato da Goyle e Zabini. I tre, avanzando verso la porta, s’erano scontrati col Grifondoro che sì, in effetti intralciava un po’ il passaggio, ma non così tanto da non permetterlo. Fu piuttosto ovvio a tutti, dunque, che Malfoy l’aveva deliberatamente punzecchiato per il solo gusto di farlo.
        Particolare, quello, che colse Harry un po’ impreparato; di primo acchito lo sorprese, poi soprattutto lo soddisfò, perché cavolo se quella peste d’un Serpeverde non s’era fatto attendere.
        «A quanto pare», sbottò, mentre Ron, lì vicino, metteva su l’espressione più minacciosa di cui era capace.
        «Dovresti spostarti», gli fece presente Draco.
        «Oppure, tu potresti passare più in là».
        Zabini, dopo aver guardato prima uno e poi l’altro, sbuffò roteando gli occhi e, non volendo aver nulla a che fare con quell’immatura lotta tra bambini, s’allontanò aggirando Potter, che colse l’occasione per dire: «Ecco, vedi, così».
        Malfoy gli lanciò un’occhiataccia, notando di sfuggita che Granger era sopraggiunta e lo stava studiando. Con aria boriosa, fece schioccare la lingua.
        Uno schiocco, quello, che praticamente per Harry fu fatale. Commise, infatti, in maniera del tutto spensierata, l’errore di lasciarsi distrarre, e istintivamente occhieggiò la fonte del suono – cioè la bocca di Draco. Avrebbe spostato lo sguardo in fretta, magari senza neanche rendersi conto d’averlo per un istante posato lì, se solo non gli fosse piombato addosso come grandine dal cielo quel pensiero.
        Malfoy bacia la gente.
        Fu attraversato da un leggero brivido, gli occhi ancora puntati sulle labbra dell’altro. Le vide muoversi – doveva aver detto qualcosa, quindi, ma non capì bene cosa.
        Dopo due, tre, cinque secondi, si sforzò di guardare altrove, non molto a proprio agio.
        Per giorni era stato tormentato da Un’altra Weasley. Non l’aveva creduto possibile, ma quasi desiderò votarsi a quel tarlo; perché alla prospettiva di portarsi dietro l’idea di Malfoy che faceva cose, preferiva di gran lunga condannarsi alle punture degli spilli sottopelle, e tante grazie.
        «Hai veramente una faccia da stupido, al momento. Insomma, più del solito», sbottò Draco, perplesso.
        Harry, sentendosi come colto con le mani nel sacco, aggrottò la fronte ed evitò accuratamente d’incrociare lo sguardo del Serpeverde. Intanto, Hermione s’assicurò di persuadere Ron a non intervenire.
        Per alcuni momenti, su di loro calò uno strampalato silenzio. Poi Malfoy, tutt’altro che intenzionato a protrarre quell’assurda condizione di stallo, emise un versetto seccato e, inarcando appena un angolo del labbro superiore, avanzò seguito da Goyle verso la porta dell’aula. Nel farlo, diede una lieve spallata a Potter.
        Lui, ignorando un improvviso borbottio di Weasley, si odiò un pochino per non essere stato capace di sfruttare a pieno l’occasione che gli si era presentata, e per la quale tanto aveva aspettato. Inoltre, sentendosi gli occhi degli amici addosso, provò una leggera vergogna per i pensieri che gli avevano attraversato la mente.
        Su due piedi, decise che non avrebbe mai più permesso alla vocina nella propria testa di metterlo in situazioni quasi compromettenti come quella.
 
 

        Un proposito, il suo, che non ebbe vita lunga. La colpa di ciò, comunque, non fu totalmente sua; anzi, si prodigò per restare fedele alle proprie intenzioni quanto più poté, ed ottenne anche ottimi risultati – riuscì, infatti, a mettere almeno da parte le bizzarre idee su Malfoy e lo affrontò dignitosamente nelle successive occasioni in cui si rivolsero la parola. Non che discussero più di tanto – giusto qualche frase, veloci conversazioni –, ma si trattò pur sempre di qualcosa. Un qualcosa che, pensò bene Harry, avrebbe potuto rappresentare il loro rapporto da lì in avanti. Poteva essere abbastanza, in effetti, e lui si sarebbe accontentato.
        Se i suoi piani si risolsero in un nulla di fatto, dunque, fu principalmente a causa del caso.
        Mosse inconsapevolmente il primo passo verso il baratro mentre, insieme agli amici, un pomeriggio s’avviava verso l’aula di Incantesimi.
        Vide Malfoy insieme ad un gruppo di altri Serpeverde in un corridoio, un po’ in disparte. La sua strada l’avrebbe inevitabilmente portato ad avvicinarli, perciò decise di tenerli d’occhio.
        Ben presto scorse i verde-argento salutarsi e disperdersi; gli parve che anche Draco avesse mosso un passo, ma al contrario degli altri, non s’allontanò: qualcuno, infatti, lo trattenne. Potter poté osservare l’interlocutore misterioso solo allungando il collo: si trattava di una ragazza bionda. Era certo d’averla già vista, ma non riuscì a metterne a fuoco il nome.
        Quando alla fine passò accanto ai due, stava ascoltando distrattamente con un orecchio le ciarle di Ron e Hermione e, cercando di non dare troppo nell’occhio, teneva lo sguardo puntato su Malfoy. Sguardo che, per un breve istante, fu ricambiato.
        Non accadde null’altro di rilevante: Draco tornò a concentrarsi subito sulla compagna di Casa, e scambiò qualche altra parola con lei prima d’incamminarsi per la propria strada, mentre Harry tirò dritto.
        Potter ebbe la netta sensazione che la presenza della ragazza l’avesse appena privato d’un rapido scambio di battute col Serpeverde. Ovviamente, non poté prendersela più di tanto, e si rifiutò di sprecare tempo a pensarci su.
        E tutto sarebbe finito lì, se solo più tardi, quello stesso giorno, non avesse incrociato nuovamente la biondina, e non si fosse improvvisamente ricordato che si trattava della stessa ragazza che, in biblioteca, aveva fatto ridere Malfoy. Quella che gli era seduta di fronte quando lui aveva realizzato che Malfoy bacia la gente.
        A lungo represso, quel pensiero lo investì come un’onda anomala trasmettendogli un ormai familiare disagio; senza che Harry se ne accorgesse veramente, poi, si legò all’immagine della bionda Serpeverde. Iniziò quindi a risuonare nella mente del povero Grifondoro ogni qual volta esso s’imbatteva nella ragazza – e ovviamente nei giorni successivi cominciò a vederla ovunque: nei corridoi, fuori dalle aule, nel cortile, in Sala Grande.
        Fu così, dunque, che Potter fu costretto a tornare ad affrontare le malsane idee su Malfoy.
        Non le affrontò per davvero, però. Si limitò a lasciarsi sopraffare ogni tanto, e per il resto cercò ancora di scacciarle, preferendo piuttosto concentrarsi su qualcosa che gli pareva meno strano; cioè, sull’identità della misteriosa biondina – punto interrogativo, anche quello, che non fu in grado di togliersi dalla testa.
 
 

        Greengrass, si disse illuminato una sera in Sala Comune, distraendosi e non prestando quindi attenzione alle parole che Ron stava pronunciando; parole che fecero ridere Hermione. Non fece caso neanche a questo, però, ripetendosi: Greengrassecco! Quella ragazza era la sorella minore di Daphne Greengrass; in effetti, in viso si somigliavano abbastanza.
        Non ne era certo, ma probabilmente aveva sentito parlare di lei, una volta. Non s’era però mai preso la briga di localizzarla tra le fila dei verde-argento; perché avrebbe dovuto farlo, in fondo?
        In ogni caso, fu fiero d’essersi ricordato il dettaglio del cognome e, con curiosa cocciutaggine, si sforzò per riportare alla memoria anche il nome. Non ci riuscì, però.
        D’istinto, pensò di chiedere aiuto agli amici, ma non lo fece subito: aprì bocca, infatti, solo dopo alcuni momenti d’esitazione, passati a convincersi del fatto che “si tratta solo di un nome, è una cosa innocente”.
        «Ricordate come si chiama la sorella di Daphne Greengrass? La Serpeverde» buttò lì, forse interrompendo qualche inutile chiacchiera in corso.
        Ron ed Hermione, colti alla sprovvista, esitarono. Così qualcun altro, più disinvolto di loro, ebbe l’occasione di intervenire: «Intendi Astoria?» fece Ginny, che aveva poco prima preso posto sulla poltrona lì accanto ed aveva quindi ascoltato la domanda.
        Astoria. Astoria Greengrass. Harry lo ripeté tra sé e sé qualche volta; non suonava sbagliato. «Sì, Astoria. Giusto», decretò.
        «Perché volevi saperlo?» chiese Hermione, dubbiosa.
        Potter scrollò le spalle con finta noncuranza, e mentì: «Nessun motivo. Cioè― hm, l’ho vista in giro. Non riuscivo a ricordare il suo nome e non mi davo pace».
        Nessuno questionò la sua ragione. Ron, però, borbottò, in direzione della sorella: «Tu come la conosci?»
        «Abbiamo delle lezioni in comune» rispose Ginny; poi, la conversazione tornò a divergere verso altri argomenti.
 
 

        Dopo quella sera, Harry ebbe un nome da associare alla faccia della biondina e, per estensione, al pensiero Malfoy bacia la gente, che alla sua figura era ancora correlato.
        In maniera esponenziale, il tutto divenne sempre più strano. D’improvviso, infatti, e senza aver ben chiaro il perché, si riscoprì ad osservare attentamente la ragazza, piuttosto che a notarne la mera presenza; cominciò quasi a studiarla. Così, nel cumulo nebuloso di idee di che aveva in testa, e che ancora tentava con tutto se stesso di sopprimere, iniziarono a farsi strada nuovi concetti.
        “Astoria Greengrass non è brutta” si ritrovò a pensare proprio mentre nel tempo di un’occhiata la scrutava. E davvero, Astoria non era brutta – non lo era affatto. Anzi, era piacente in quanto a fisico, aveva dei bei capelli sempre ben sistemati, e uno sguardo chiaro che Harry avrebbe definito furbo, o intrigante.
        Non la conosceva, perciò per lui la sua personalità non poteva essere che un’ipotesi; tuttavia, era sicuro – se n’era accorto vedendola in giro – che in lei ci fosse un nonsoché di posato, di composto, di aggraziato. Un nonsoché che, si sarebbe potuto dire, ben s’armonizzava con la figura di Draco Malfoy, e che come in un circolo vizioso richiamava l’idea di lui che baciava la gente.
        “Ma Draco Malfoy è Draco Malfoy” si disse Harry in un lampo di quasi disperata non-accettazione – e non importa quanto bene ti ci armonizzi insieme, non puoi baciarlo, o fare certe cose con lui. Semplicemente non puoi.
        Solo in un secondo momento Potter ebbe la cura di analizzare i propri pensieri folli, e se ne pentì seduta stante perché, cavolo, gravitare attorno alla natura di quelle certe cose oltre al baciare che Malfoy faceva o non faceva era proprio l’ultimo dei suoi desideri. Il solo fatto d’averci pensato sbadatamente lo fece sentire orribilmente sporco e lo fece agitare non poco – tanto da spingerlo a chiedersi se e come sarebbe riuscito a guardare ancora il Serpeverde negli occhi.
        Scosso e con più fermezza che mai, si convinse dell’impellente necessità di archiviare per sempre tutta la questione.
 
 

        L’universo gli diede presto l’ennesima prova di avercela con lui. Era, infatti, passato poco meno d’un giorno da quando aveva deciso di mantenersi “pulito”, che con inconscia crudeltà Hermione rese vani tutti i suoi sforzi.
        «Harry, vorrei chiederti una cosa», gli anticipò in Sala Comune dopo cena, per poi informare con un cenno Ron, impegnato in una partita di scacchi, che loro si sarebbero allontanati un attimo.
        «Dimmi».
        «Forse ti sembrerà un po’ strano, ma: hai presente che l’altra sera ci hai chiesto il nome di quella Serpeverde?»
        Lui s’irrigidì di colpo, e a stento trovò la forza di annuire in risposta alla domanda dell’amica.
        Hermione andò dritta al punto: «Per caso c’è qualcosa che non ci hai detto a riguardo?»
        «Tipo?»
        «Tipo― non so; perché volevi sapere quel nome?»
        «Ve l’ho detto», si difese lui in un soffio.
        «Sì, ma non è che per caso c’è un altro motivo?»
        «Ehm― no». Una delle bugie peggio recitate della storia.
        Lei, infatti, mangiò la foglia e inarcò lievemente un sopracciglio. «Sicuro?»
        Potter alzò le spalle nella speranza di sembrare naturale, e abbassò lo sguardo per alcuni istanti.
        «Perché, vedi―» ricominciò Hermione, sciogliendosi in un sospiro. «Forse è solo una coincidenza, ma sono abbastanza sicura di aver visto quella ragazza insieme a Malfoy. Un paio di volte», precisò.
        «E?» l’incalzò Harry, per poi deglutire.
        «Non lo so», mormorò lei, tentennando. «Insomma, il fatto è che ho pensato che li avessi visti insieme anche tu; e siccome hai ancora una specie di fissazione per Malfoy mi sono chiesta se ci fosse una connessione». Si sistemò una ciocca di capelli ribelle dietro un orecchio, sorridendo. «Dicendolo a voce alta suona molto più stupido del previsto», ammise poi, iniziando a credere d’aver fatto dei ragionamenti forse un po’ tirati.
        Se a quel punto Potter avesse sbottato che no, lui non aveva alcuna fissazione per Malfoy, o se avesse riso, o comunque l’avesse buttata sullo scherzo, avrebbe avuto la possibilità di cavarsela. Ma non fece nulla di simile; si limitò a mordersi un labbro e a chinare appena il capo, non sapendo se maledire o adorare l’incredibile intuito dell’amica. Sebbene una parte di lui desiderasse solo passarla liscia, infatti, un’altra fremeva all’idea di confessare tutto quanto e di cercare conforto e supporto, così che non avrebbe più dovuto portare da solo il peso delle pazzie a cui aveva dato vita. Ma, per Merlino, quanto sarebbe stato indisponente confessare certe cose!
        Profondamente combattuto, allora, tacque.
        Hermione colse il suo tormento, e gli sfiorò un braccio per riscuoterlo. «Tutto okay? C’è― c’è qualcosa di cui vuoi parlare?»
        Lui storse il naso e negò con la testa, per poi mettere su una smorfietta di circostanza.
        Non era pronto ad aprirsi, no. 
 
 
* * *
 
 

        Nel silenzio della notte, passi sicuri risuonarono sordi tra le mura di Hogwarts. Una bacchetta fu brandita e un pesante mantello fu sistemato perché meglio facesse il proprio dovere; intanto, corridoi furono percorsi di soppiatto e angoli vennero girati fluidamente.
        Nel buio della nottata che seguiva l’ultimo lunedì del mese, tutto taceva mentre Vivian Holmwood s’addentrava nella Foresta Proibita.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

Dunque. Come avevo anticipato, le cose da qui in poi si fanno più... esplicite tra Draco e Harry. Questo
 capitolo è un po' una chiave di volta, e spero davvero che non risulti né "affrettato", né troppo pesante. Insomma, abbiamo avuto tanta pazienza sinora; ci tengo, a non gettarla alle ortiche.
L’idea che sta alla base di tutto, cioè che, agli occhi di Potter, Malfoy sia stato a lungo una specie di “mistica creatura asessuata” (tipo un mito dell’infanzia) mi ha conquistata e fatta sorridere come un'ebete sin dal primo momento in cui ci ho pensato. c': Tuttavia, confesso che mi rende insicura perchè ho paura che sia un po' sciocca. Non so; mi auguro che possa piacervi. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. :)

Come sempre, mille grazie a tutti per aver letto! Love you all! ♥
Oh, quasi dimenticavo. Riguardo le ultime righe del capitolo - Holmwood. Next week. ;)
Baci,
T. ♪
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Capitolo 16
*** 15. Qualcosa in cui (voler) credere ***


15.
Qualcosa in cui voler credere
 
 
 
        «Piano, piano! Fa’ silenzio!»

        Malgrado il tono di Hagrid fosse calmo e i suoi gesti fossero calibrati, la bestiola nella piccola gabbia di legno che si portava appresso non trovava pace: era tutto uno squittire, un agitarsi, un lanciarsi contro le sbarre per poi lamentarsi. Faceva un caos infernale; un caos che strideva col silenzio della notte, e che non metteva certo il Guardiacaccia in una buona posizione: era sempre meglio guardarsi dall’attirare troppa attenzione nella Foresta Proibita, specialmente se si era da soli. E lui lo era, visto che Thor, mugolando, s’era rifiutato di seguirlo.
        Raggiunto uno spiazzo che l’omaccione dichiarò tra sé e sé adeguato, la gabbietta, e con quella anche la lanterna usata per rischiarare la strada, vennero posate a terra.
        «Ecco; siamo arrivati. È tempo di tornare a casa», sussurrò in direzione della creaturina, poggiando fermamente una delle ampie mani sul legno della gabbia. Dopo tanto trambusto, l’animaletto – una chiara palla di pelo con occhioni acquosi che si reggeva su quattro zampette magre – trovò alla fine la propria calma. «Finalmente fai silenzio», commentò Hagrid, prima di aprire la porticina sulle note d’un sospirò quasi malinconico; quell’insopportabile peste, si disse, forse un pochino gli sarebbe mancata.
        La osservò saltar fuori dalla gabbietta e, dopo aver fatto un cenno per incentivarla ad allontanarsi, la guardò rimbalzare a terra e svanire nel buio del sottobosco. Si concesse un istante d’esitazione; dopodiché, con una qual certa soddisfazione a gonfiargli il petto, tornò sui propri passi tenendo alta la guardia.
 
 

        Vivian Holmwood aveva un buon udito. La sua vista, forse, stava perdendo lentamente colpi; ma l’udito! Quello no. Era più fine che mai; anzi, pareva andasse migliorando di giorno in giorno.
        Per lui non fu quindi affatto difficile sentire risuonare tra i tronchi e l’oscurità della notte il rumore di quelli che, indiscutibilmente, erano passi. Piedi che calpestavano foglie, rametti. Il crepitio non lasciava dubbi.
        «C’è qualcuno», bisbigliò – e un’ombra scivolò alle sue spalle, portandolo a voltarsi rapidamente. Non vide nessuno e, sbuffando appena, tornò a concentrarsi sul rumore di passi che ancora sentiva distintamente. Con la bacchetta stretta in pugno, eseguì l’incanto Nox per spegnere il Lumos usato in precedenza; così nascosto, poi, decise di farsi avanti.
        Pronto al peggio, scrutò attentamente lo spazio attorno a sé.
        Vide la luce d’una lanterna. S’avvicinò di più e poté così scorgere la massiccia e amica figura di Rubeus Hagrid – ovviamente, trasse un sospiro di sollievo e rilassò almeno in parte i muscoli tesi.
        Per un istante tentennò, poi girò i tacchi e fece per andarsene.
        Peccato che il Guardiacaccia, proprio come lui, avesse delle orecchie ben funzionanti: riuscì infatti a captare un cric, e immediatamente si fermò, alzando la lanterna e scandagliando il buio mentre recuperava la bacchetta. Gli parve di notare una sagoma.
        «Chi c’è?» sbottò, la voce salda.
        Pochi secondi dopo, un Lumos squarciò il nero della notte: il volto di Holmwood, illuminato eppur segnato da scure ombre, divenne ben visibile.
        Hagrid batté le palpebre e assottigliò gli occhi per assicurarsi che si trattasse proprio del professore, e quando poté stabilire che , era sicuramente lui, avanzò d’un passo nella sua direzione.
        «Non volevo prenderti alle spalle» soffiò l’insegnante con tono morbido e rassicurante, e chissà come al contempo anche piuttosto freddo.
        «Oh, non ne dubito» replicò piatto Hagrid, investito dal ricordo di Harry Potter che gli raccontava d’aver visto il professore di Difesa entrare nella foresta. Una lieve agitazione lo colse, ma non si lasciò sopraffare. «Posso chiedere cosa― cosa ci fa lei qui?» borbottò, rigido e vagamente in soggezione.
        Holmwood, pacato come suo solito, mosse due passi in avanti. «Dammi del tu; siamo pur sempre colleghi». Con una smorfia forse fintamente cordiale sul viso, alzò lo sguardo al cielo e tacque per un momento, come perso in qualche riflessione. «Cerco del Menisco Verde. È per la mia Gontallantula», proclamò tornando con gli occhi sul Mezzogigante.
        Quello inarcò le folte sopracciglia, schiudendo appena la bocca e concedendosi un istante per pensare. Menisco Verde ripeté tra sé e sé, come a voler tentare di recuperare qualche informazione a riguardo nella memoria; ma qualcos’altro di ben più interessante lo distrasse.
        «Gontallantula? Ha― hai una Gontallantula?»
        «Sì».
        «Ad Hogwarts?»
        «Certamente». Candidamente, abbozzò un mezzo sorriso.
        Hagrid di primo acchito combatté l’impulso di sgranare gli occhi ammirato. Alla fine, però, cedette, mentre un qual certo entusiasmo s’impossessava di lui. «Non ne ho mai vista una» buttò lì, domandandosi come fosse possibile che nessuno l’avesse informato prima della presenza di quella creatura a scuola.
        «Avevo sentito dire che le creature pericolose t’interessavano», ammise a bassa voce il professore, per poi aggiungere con tono più deciso: «Posso mostrartela, se vuoi».
        «Oh, sì! Sì, mi piacerebbe».
        Holmwood fece un cenno col capo, così da far intendere all’altro che aveva preso atto del suo consenso. «Un giorno di questi, allora. Ma dimmi – perché tu sei qui?» Parve quasi mettersi sulla difensiva.
        L’omaccione scosse lievemente la testa, bofonchiando sotto alla barba prima di rispondere. «Beh, sono il Guardiacaccia. Vengo nella foresta, a volte. Ci sono creature… amiche». Non stette a precisare a cosa si stesse riferendo, ricominciando a dire: «Oggi sono venuto per liberare un Klip. L’avevo trovato ferito un po’ di tempo fa. A loro non piace molto la luce, perciò―»
        «Capisco», l’interruppe l’altro e, per non dare l’impressione d’essere scortese, aggiunse: «I Klip sono animali notturni. Li conosco».
        Hagrid annuì. Per un attimo rifletté, dopodiché si decise a tornare a prestare attenzione all’elefante nella stanza. «Di solito i professori non vengono nella foresta. Insomma, a parte me», fece.
        «Sì, lo so. Ma qui cresce del buon Menisco Verde; e preferisco utilizzarne di fresco, piuttosto che procurarmelo già essiccato come si trova sul mercato. Certo, magari è un po’ pericoloso» nel dirlo, si guardò attorno con aria circospetta, «lo riconosco; ma so guardarmi le spalle».
        «Non lo metto in dubbio» borbottò il Guardiacaccia, colpito in un modo che non riuscì a mettere bene a fuoco dalle motivazioni del collega.
        Holmwood alzò appena le spalle, quasi inespressivo. «Se me lo permetti, credo che ora tornerò alle mie ricerche».
        «Potrei venire anch’io», propose d’istinto il Mezzogigante.
        «Oh, non serve. Posso cavarmela da solo».
        «Certo, certo; ma― per sicurezza. Farebbe comodo anche a me un po’ di compagnia, tra questi alberi».
        Per un momento, calò il silenzio. Poi l’insegnante di Difesa soffiò: «Certo. Va bene, allora». Mentre Hagrid lo raggiungeva, lui mosse i primi passi, dicendo: «Non ci metteremo molto; ricordo d’aver intravisto una pianta di Menisco qui vicino».
 
 

        Così come Holmwood aveva promesso, localizzarono presto un arbusto di Menisco: ne raccolsero alcuni fiori – piccoli, bianchi – e qualche foglia, poi s’avviarono verso il castello.
        Si separarono nei pressi delle mura della scuola, subito dopo essersi scambiati dei saluti di circostanza.
        Prima di ritirarsi, il Guardacaccia esitò per alcuni secondi osservando l’altro insegnante mentre esso s’allontanava. A ronzargli in testa, dubbi e pensieri incerti – per riordinarli, avrebbe avuto bisogno come minimo d’una buona notte di riposo.
 
 
* * *
 
 

        Harry e gli altri meritano di sapere – questo sentenziò Hagrid tra sé e sé dopo aver ben riflettuto.
        Meritavano di sapere che aveva incontrato il professore di Difesa contro le Arti Oscure nella Foresta Proibita. Che ci aveva parlato, e che aveva scoperto le sue ragioni. Meritavano di non doversi più preoccupare di quella faccenda, di star tranquilli; e se per forza qualcuno doveva fare i conti con i lati ancora poco definiti della questione, allora quel qualcuno sarebbe stato lui. Ne avrebbe discusso anche con la preside McGranitt, magari, ma loro― loro meritavano di starne fuori. Anzi, dovevano starne fuori: non era il caso che si esponessero e che corressero rischi inutili. Voleva che si sentissero quanto più possibile al sicuro – e che lo fossero, ovviamente.
        Quando li chiamò al termine di una delle proprie lezioni, dunque, fu per metterli al corrente delle novità e soprattutto per rassicurarli. Non che volesse indorare loro la pillola; desiderava semplicemente proteggerli evitando che s’immischiassero in futili grane.
        «Vi rubo solo cinque minuti», sussurrò in direzione dei tre Grifondoro una volta che essi l’ebbero raggiunto, mentre gli altri studenti si disperdevano.
        Riassunse loro i fatti avvenuti nella foresta, soffermandosi solo sugli aspetti più importanti – cioè che Holmwood aveva dichiarato d’essere alla ricerca di un’erba, che l’avevano raccolta insieme, e che poi l’aveva riaccompagnato al castello. Terminò dicendosi piuttosto tranquillo. «Non dovete più preoccuparvi. Non credo che ci sia qualcosa di brutto sotto», borbottò, incapace di nascondere completamente le proprie sottili incertezze.
        «Che tipo di erba cercava?» l’interrogò Hermione.
        «Menisco Verde».
        La ragazza annuì, mentre Ron, perplesso, inarcò un sopracciglio. «Cos’è?»
        «Dovresti saperlo», gli fece presente lei.
        «Davvero?»
        Prima che Hermione si lanciasse in una delle sue esposizioni, Hagrid borbottò, in risposta al ragazzo: «Bisogna essiccarla e frantumarla. Poi, aggiunta al cibo degli animali più violenti, aiuta a tenerli calmi. È per la sua Gontallantula».
        Al sentir nominare quella bestia, Weasley mise su un’espressione schifata; Harry se ne accorse e quasi sorrise, ricordando le disavventure dell’amico.
        «Ne ha una e nessuno me l’aveva ancora detto. Ci credete?» continuò il Guardiacaccia, raggiante.
 
 

        Lasciarono Hagrid di lì a poco, mettendosi in marcia per raggiungere l’aula della lezione successiva.
        «Che ne pensate?» buttò lì la ragazza del trio, seria. «Secondo voi è tutto qui? Cercava un’erba e basta?»
        Ron fece spallucce. «Non so. Forse. Insomma, Hagrid dice di sì, e lui l’ha visto e ci ha parlato».
        «Beh, l’ho visto anche io» asserì Potter, «ed era parecchio serio e sull’attenti, per essere solo in cerca di un’erba».
        «È sempre serio», puntualizzò l’altro. «Credo sia proprio incapace di sorridere».
        Harry lasciò spazio ad una piccola smorfia divertita, mentre Hermione rifletteva accuratamente; una volta che ebbe pensato, disse: «Mi domando se tornerà ancora nella foresta, visto che c’è già stato almeno due volte».
        «Se cerca qualcosa per tenere a bada quella schifosa belva, forse sì», sostenne Weasley.
        Al che, Potter corrucciò la fronte. «Ancora non riesco a capire perché dovrebbe andare a cercare erbe di notte».
        «Teoricamente questo ha senso», appuntò Hermione. «I fiori del Menisco Verde si aprono solo di notte, e i petali sono la parte migliore della pianta, se l’obiettivo è sfruttarne gli effetti rilassanti. Raccogliendoli chiusi, essiccarli senza rovinarli sarebbe difficile». Lanciò all’amico un’occhiata per metà di rimprovero e per metà scherzosa, aggiungendo: «A quanto pare Ron non è l’unico che non ricorda le lezioni di Erbologia».
        I due ragazzi, complici, si scambiarono un paio di deboli gomitate.
        «Non serve che le ricordiamo noi. Ci sei tu!» sottolineò Weasley, in un modo che, forse, a qualcuno sarebbe potuto sembrare poco carino. Ma Hermione non era semplicemente “qualcuno”, e in quegli ultimi tempi aveva imparato a guardare un po’ oltre alle mezze cattiverie che ogni tanto Ron si lasciava scappare; per questo, in quel caso, riuscì a cogliere un nonsoché d’affettuoso nelle parole del ragazzo. Così, sorrise.
 
 

        A seguito di quella breve chiacchierata, di tacito accordo, misero da parte la “faccenda Holmwood” per quel giorno, concedendosi di metabolizzare le informazioni di cui erano venuti a conoscenza. Informazioni che, per quanto blande e, da certi punti di vista, rassicuranti, non risultarono comunque facili da digerire; probabilmente a causa dell’impalpabile alone di mistero che le circondava.
        Forse perché abituati ad aspettarsi il peggio, nei giorni successivi ognuno dei tre Grifondoro tenne alta la guardia nei confronti del professore di Difesa; gli lanciarono più e più occhiate indagatrici, osservandolo minuziosamente alla ricerca d’indizi.
        Non trovarono in lui alcun dettaglio fuori posto – spiegava le proprie lezioni come sempre, era serio e pacato come al solito, e non mostrava segni di cedimento. Se nascondeva qualcosa, sapeva dissimularlo molto bene.
        Solo dopo un po’, con titubanza, si concessero d’ipotizzare che, magari, Holmwood non aveva nulla da dissimulare. Magari era semplicemente un innocente fanatico delle bestie-ragno abbastanza assennato da voler tenere sotto controllo la propria. Magari― magari potevano darsi la possibilità di dargli fiducia. Sarebbe stato davvero bello, poterlo fare. Liberatorio, quasi.
        A Harry l’idea di fidarsi alla cieca parve persino troppo bella; quasi un miraggio. Un miraggio che potevano scegliere di riconoscere come reale, e così ubriacarsi d’una confortante illusione. E anche se apparentemente si trattava d’un atteggiamento sbagliato su tutti i fronti, non si sentì per nulla nella posizione di criticarlo.
        Questo, perché in quei giorni si trovava in una situazione di quel tipo anche in un altro contesto, e aveva per l’appunto deciso di crogiolarsi in costatazioni confortanti e incoraggianti – lo erano così tanto, che aveva praticamente perso del tutto di vista il fatto che potessero essere false. Tale “altro contesto”, così come tanti altri in quell’ultimo periodo, coinvolgeva Draco Malfoy.
        Potter stava cercando di scendere a patti con l’idea che il Serpeverde facesse… cose.
        Non aveva mai pensato a lui in quel modo e gli pareva piuttosto sconcertante il solo fatto d’aver iniziato a farlo. Ormai, comunque, era successo, e tutto ciò che poteva fare era trovare una maniera per arginare la preoccupante ondata di curiosità mista a repulsione che gli aveva allagato la mente.
        Non sono affari miei, s’era detto – e ciò era perfettamente vero: cosa Malfoy facesse, con chi o come, non era di certo una questione che lo riguardava (e, per Merlino, non si era soffermato a pensarci più del minimo indispensabile. Non intenzionalmente, almeno). Aveva poi iniziato a ripetersi anche altre cose; Tutto ciò non importa. Non cambierà niente, ad esempio. Se n’era pian piano convito, tranquillizzandosi – in fondo, la vita privata del Serpeverde non avrebbe mai potuto intaccare ciò che loro due avevano. La sua, di vita privata, non l’aveva mai fatto.
        Gli capitò di chiedersi distrattamente se, per caso, anche Malfoy avesse avuto un’epifania riguardo alla sua… umanità.
        Sessualità, si corresse Harry tra sé e sé, un po’ a disagio. Sessualità. Non c’è nulla di male a dirlo, perché tanto non cambierà niente.
        Giunse alla conclusione che, se anche mai Draco quell’epifania l’aveva avuta, probabilmente era stato capace di gestirla piuttosto bene. Insomma, non ricordava che si fosse mai mostrato particolarmente scandalizzato dalle sue relazioni. Un po’ schifato nei confronti di Ginny, forse – ma probabilmente più perché era una Weasley, che per altro.
        Lui non voleva essere da meno. Poteva affrontare la questione in maniera matura, e giurò a se stesso che l’avrebbe fatto.
        Cercando di mantenere quella promessa, dunque, continuò a coltivare con quanta più disinvoltura possibile il “nuovo” rapporto che aveva con il Serpeverde, nutrendolo delle sporadiche parole che si scambiavano. A volte fu semplice, come se davvero nulla fosse cambiato. In altre occasioni, però, capitò che pensieri inappropriati lo distraessero – pensieri magari su Pansy Parkinson che stava veramente molto vicina a Malfoy, o su Astoria Greengrass che ancora a volte gli parlava e che con lui sembrava così in armonia. Pensieri, insomma, che avrebbe tanto desiderato poter incenerire, ma che per sua sfortuna continuavano a ripresentarsi come la risacca del mare.
        Trovò la forza di non impazzire nella convinzione che Si tratta solo d’una fase. In fondo, non poteva essere altrimenti. Giusto?
        Comunque fosse, si vergognava d’essere impelagato in simili affari, e per questo continuò a tener nascoste le proprie piccole follie. Soprattutto col Serpeverde, inoltre, si sforzò di non dare a vedere d’essere ogni tanto turbato.
        Ottenne risultati discreti.
 
 

        “Discreti” e non “buoni”, perché Draco aveva un eccellente fiuto quando si trattava di scovare segreti e, neanche a dirlo, il comportamento di Potter gli fece pizzicare ripetutamente il naso. Malgrado non avesse materiale sufficiente per esser certo che nascondesse effettivamente qualcosa, s’appuntò insospettito di tenerlo d’occhio.
        Una decisione, la sua, che si rivelò ben presa. Gli bastò infatti osservare accuratamente il Grifondoro per un paio di giorni, parlandogli un po’ più del solito per poterlo scrutare più da vicino, per accorgersi dell’evidente presenza di un invisibile e indefinito velo che a momenti alterni gli inscuriva l’espressione. Non sarebbe stato capace di descriverlo dettagliatamente, ma a volte quasi vacillò tanto poté vederlo chiaramente spalmato su quella faccia squadrata e persino nell’improvvisa opacità degli occhi verdi dietro alle brutte lenti tonde.
        L’aspetto più assurdo della faccenda, e anche la più importante di tutte le sue scoperte, fu realizzare che ogni qualvolta l’ombra calava sul volto di Potter mentre parlavano, puntualmente lui fuggiva. Quasi letteralmente – diventava di colpo meno reattivo, tentennava e poi se ne usciva fuori con una frase raffazzonata che ne decretava l’uscita di scena. E semplicemente s’allontanava.
        Malfoy non seppe come interpretare un tale atteggiamento. A dirla tutta, non si diede neanche troppa pena per decifrarlo; perché non era di certo un problema suo, se Harry Potter aveva l’umore ballerino. Non aveva neanche motivo di curarsi tanto della cosa, in effetti.
        Non ancora, almeno.
 
 
* * *
 
 

        Con tutta la discrezione del caso, ad alcuni giorni dal suo peculiare incontro nella Foresta Proibita, Hagrid ebbe l’accortezza di rivolgersi alla preside di Hogwarts. Condivise con lei timori, preoccupazioni, impressioni; l’unica cosa che tenne per sé fu l’informazione sul minimo coinvolgimento di Harry e compagni. Questo, sempre perché voleva tenerli lontani dai guai.
        La strega, indubbiamente, ebbe di che riflettere.
        E se il Mezzogigante era stato discreto nell’organizzare la loro conversazione, lei lo fu ancor di più nel momento in cui, con fermezza e audacia, decise di farsi avanti e di sondare l’entità della nuova potenziale minaccia che poteva star crescendo proprio sotto al suo naso.
 
 

        Fece la propria mossa alla prima occasione. Così, una notte, mentre il coprifuoco era già in vigore, per un lungo tempo che nessuno si prese la briga di quantificare, l’ufficio del professore di Difesa contro le Arti Oscure rimase ermeticamente sigillato: la porta fu incantata per respingere le intrusioni, e le pareti vennero insonorizzate.
        Quando Minerva McGranitt ne uscì, si lasciò alle spalle un Vivian Holmwood provato e spaventosamente serio. Tra i due, nessuna traccia di collera o agitazione.
        Successivamente, il Guardiacaccia venne messo al corrente dei frutti della discussione avvenuta in gran segreto. «Lui― cercava erbe», proferì la preside, con un tono ed un’espressione ben più eloquenti delle parole stesse.
        Hagrid non poté che prendere atto della cosa.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

Thor e non Zanna perché sono un tipo nostalgico. E okay, non sono brava a inventare nomi, perciò vi beccate il Menisco Verde. Chiedo venia (?).
Le intenzioni del professore di Difesa sono ancora un po' ambigue, e vi anticipo che i chiarimenti si faranno attendere un pochino. Ma nel mentre ci intratterremo con altre questioni - Harry rosola pian piano e questo porterà a buffi sviluppi, ahah!

Mille e mille grazie a tutti coloro che leggono, seguono, commentano. Love you all! ♥ c: Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Baci e a presto,
T. ♪
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Capitolo 17
*** 16. L'allusione (è solo l'inizio) ***


16.
L’allusione è solo l’inizio
 
 
 
        Il mese di Marzo per Draco Malfoy iniziò in quello che si sarebbe potuto definire il migliore dei modi. Dopo tante insoddisfazioni e critiche, infatti, in barba alle basse aspettative dell’intero corpo studentesco, finalmente la squadra di Quidditch di Serpeverde portò a casa una vittoria, stracciando i Tassorosso.

        Tra le fila dei giocatori verde-argento c’erano ancora diverse mezze calzette, che nonostante gli sforzi profusi durante gli allenamenti non parevano essere in grado di dare un apporto positivo al team; in quell’occasione, però, la loro presenza – e quindi la loro incapacità – fu del tutto irrilevante. Il vero protagonista del gioco fu infatti Draco – e a far da cornice, in secondo piano, ci pensò il cercatore avversario.
        Il boccino si fece vedere sin dai primi momenti della partita e i due scattarono subito all’inseguimento, destreggiandosi tra curve secche e giravolte varie. Più d’una volta si ritrovarono a tanto così dall’agguantare la piccola sfera dorata, spingendo la massa di studenti sugli spalti a trattenere il fiato; e puntualmente la maledetta pallina sgusciò via dalle loro dita. Poi, al suo ormai terzo tentativo, Malfoy trionfò: piombò sull’obiettivo dall’alto, scendendo quasi in picchiata e sporgendosi abbastanza da rischiare seriamente di cadere dalla scopa – fortunatamente, riuscì a mantenere l’equilibrio.
        Solo dopo un istante, dedicato a controllare mentalmente d’essere tutto intero, si rese conto d’aver catturato il boccino: una smorfia soddisfatta gli fiorì prepotentemente sulle labbra. L’entusiasmo dei compagni di Casa – sia quelli sugli spalti, sia quelli in campo con lui – gli giunse alle orecchie sotto forma di grida concitate, mentre la vittoria di Serpeverde veniva dichiarata ufficialmente.
        Stringendo finalmente tra le mani il titolo di vincitore, ancora a mezz’aria, si sentì invadere da una forte sensazione di gioia. Finalmente, aveva una prova che testimoniava che era ancora in grado di combinare qualcosa, se voleva; che non era destinato ad essere un eterno perdente. E a proposito di perdenti – il risultato di quella partita implicava che i Serpeverde si fossero guadagnati la possibilità di combattere seriamente per primeggiare sulle altre Case. Avevano davanti una sfida contro Corvonero e, soprattutto, Grifondoro; una questione, quella, che affascinò parecchio Draco, poiché equivaleva ad un’altra occasione per misurarsi con Harry Potter. Per tenergli meglio testa, magari persino per batterlo una volta per tutte; e, in ogni caso, per dimostrare a se stesso che poteva non crollare a causa sua. Insomma, aveva la possibilità di rifarsi per il risultato dell’ultimo scontro sul campo di Quidditch con i rosso-oro, e anche per la crisi che aveva dovuto attraversare subito dopo.
        Decisamente, le cose andavano bene.
 
 

        Uno stato, quello, che ovviamente non poteva durare. E chi si sarebbe mai potuto far carico del compito di rovinare la festa a Draco Malfoy, se non proprio quell’imbecille recidivo che era Harry Potter?
        La situazione mostrò i primi segni di instabilità, e quindi di pericolo, durante una mattina apparentemente tranquilla, subito prima d’una lezione di Trasfigurazione.
        Erano passati pochi giorni dalla vittoria sul campo di Quidditch dei verde-argento, perciò ancora se ne parlava. In effetti, la conversazione tra Potter e Malfoy – quella che di lì a poco avrebbe dato vita ad una minacciosa slavina di guai – iniziò proprio con un commento sul risultato dello scontro.
        «Insomma, avete vinto una partita anche voi. Alla buon’ora», buttò lì Harry, approfittando dell’instante in cui Draco gli sfilò accanto per raggiungere un posto a sedere.
        Ron, approvando la lieve provocazione dell’amico, s’aprì in un sorrisino divertito. Hermione, invece, rimase neutrale: ormai era stanca di mostrarsi avversa al comportamento di Potter; inoltre, dopo aver osservato le meccaniche del rapporto tra lui e Malfoy in quegli ultimi tempi, s’era quasi convinta che fossero riusciti a sintonizzarsi su una lunghezza d’onda che consentiva loro di restare in equilibrio. Discutevano ogni tanto, senza esagerare, e parevano aver imparato a stare alla larga dagli argomenti più spinosi. E se volevano continuare così, stando attenti a non farsi del male a vicenda – se proprio lo desideravano, ecco, allora non sarebbe stata lei a mettere loro i bastoni tra le ruote. Perché per quanto intelligente fosse, di certo non pretendeva di capire alla perfezione la psicologia altrui, e malgrado sapesse riconoscere quelle che potevano essere influenze negative per le persone che le stavano attorno, non si sentiva nella posizione di giudicare quelle che invece potevano o non potevano essere positive.
        «Finalmente sai cosa si prova a tenere in mano un boccino», aggiunse Harry, spontaneo.
        Draco assottigliò gli occhi. «Credi di essere simpatico, Potter?»
        «Un po’, sì». E sogghignò.
        «Beh, non lo sei. E togliti quel sorriso dalla faccia. Anzi – te lo strapperò personalmente quando ti batterò».
        Weasley mugugnò, poco convinto. «Non ci batterete, Malfoy».
        L’unica risposta che il Serpeverde gli concesse fu un’occhiata poco carina; e non appena l’ebbe scoccata, tornò a posare lo sguardo sull’altro Grifondoro.
        «Già, non mi batterai» confermò quello, gonfiando orgogliosamente il petto.
        «Aspetta e vedrai».
        «Oh, aspetto quanto vuoi». Fece spallucce, «Contro di me non basta la fortuna».
        Draco strinse i pugni. «Non ho avuto solo fortuna, contro i Tassorosso».
        «Continua pure a crederlo. E intanto, per sicurezza, inizia a metabolizzare la sconfitta».
        Inconsapevolmente, Potter aveva sfiorato un tasto un po’ dolente. Malfoy non volle lasciarsi condizionare troppo, però, perciò fece del proprio meglio per passarci sopra con discrezione, e sbottò: «Sempre per sicurezza, inizia a farlo anche tu».
        «Devi spiegarmi i segreti del mestiere. Da dove si comincia?»
        «Non saprei. Tu da dove cominci, quando ogni mattina ti rendi conto di essere ancora il solito, patetico Grifondoro?»
        Forse perché si trattava di battutine molto meno affilate di quanto non potesse sembrare, Harry decise di stare al gioco, lasciando anche emergere il sorriso malandrino che stava premendo per nascergli sulle labbra. «Dalla gestione della frustrazione, forse. Ti dice niente?»
        «Hm. Ormai sarai un esperto di frustrazione, allora. Qualche consiglio da condividere?»
        Si guardarono dritto negli occhi per un lungo, straniante secondo. Poi Potter, scagliando inconsapevolmente il sasso che li avrebbe condannati ad essere sommersi dalla valanga in agguato, borbottò: «Per i consigli sulla gestione della frustrazione, forse dovresti chiedere alla tua ragazza».
        Draco inarcò un sopracciglio e si domandò, retorico: Ha appena fatto un’allusione sessuale?
        Ron soffocò a stento una mezza risata, le guance rosse; Hermione roteò gli occhi; e allo stesso modo, anche tutte le altre persone che stavano prestando attenzione alla conversazione tra i due rivali ebbero la loro reazione. Solo i due protagonisti, per l’appunto Potter e Malfoy, fecero esperienza d’un istante di totale, confusa inespressività. Il primo perché si rese conto con lieve ritardo di ciò che aveva detto, e fu scosso da tutt’una serie di pensieri; il secondo perché impegnato a notare l’ombra che improvvisamente era calata sul viso dell’altro.
        Fu strano. Anzi, stranissimo.
        Il Serpeverde confermò a se stesso che , Potter aveva proprio fatto un allusione sessuale. E per lui non era un problema, ben inteso – ascoltava battute simili ogni giorno, e di certo non si scandalizzò. Il dettaglio che più lo stranì fu la reazione del Grifondoro: se ne stava lì, a fissarlo con gli occhi quasi sbarrati, come se avesse appena lanciato una Maledizione Senza Perdono. Riconobbe tutti i segni del velo che più volte gli aveva adombrato l’espressione nelle loro passate conversazioni; solo che in quel momento il tutto era molto, molto più pesante. Possibile che tale peggioramento fosse dovuto all’insinuazione di natura sessuale che aveva appena fatto? Se fosse stato così, decretò che sarebbe stato assurdo; insomma, Potter non poteva essere un tale verginello pudico.
        Esclusa quella possibilità, non seppe a cosa imputare la faccia quasi inquietata che l’altro aveva messo su. Magari era semplicemente un po’ matto, o― niente, proprio non aveva altre idee. Quasi sbuffò, perché che Morgana mi fulmini se so cosa passa per il micro cervello di questo dannato grifone.
        Ciò che accadde nel giro di un paio di secondi, Draco se l’aspettava: Harry bofonchiò alcune parole praticamente incomprensibili, fece un cenno sgangherato con la testa e, praticamente evitando d’incrociare il suo sguardo, prese posto al banco, mettendo fine all’amorevole chiacchierata. Finiva sempre così quando il velo gli calava sul viso. Malfoy schioccò la lingua, dopodiché lo assecondò, allontanandosi.
        Rigido come un blocco di legno, il Grifondoro si ritrovò quindi solo con i propri pensieri.
 
 

        Qualcosa, dentro di lui, stava cercando di distruggerlo – non poteva essere altrimenti.
        Dopo aver sbattuto il naso per troppe, troppe volte contro quel muro di mattoni che era la consapevolezza che Draco Malfoy avesse una vita privata come chiunque altro, era quasi riuscito a mettersi il cuore in pace e ad accettare la realtà. Ormai, infatti, il disagio misto ad incredulità che l’aveva colto inizialmente era del tutto scomparso, lasciando spazio ad una forse un po’ riluttante accettazione – com’era giusto che fosse. Ma persisteva in lui un tarlo, lo spettro d’una qualche insicurezza; e in certe occasioni continuava a non aver modo d’evitare che tale “lato oscuro” prendesse il sopravvento.
        Occasioni come quella, in cui un momento prima tutto filava liscio e, da normale ragazzo qual era, non aveva problemi a punzecchiare Malfoy con un’allusione sessuale; e un momento dopo si sentiva imbarazzato e sbagliato e in pericolo come se potesse comparirgli sulla fronte la scritta: “Ho pensato a Draco Malfoy che bacia la gente”.
        Avrebbe tanto voluto poter capire se stesso, trovare una ragione per la persistenza di pensieri così fastidiosi e deleteri. Non credeva d’esserne capace, però.
        La sola teoria vagamente sensata che riuscì a mettere insieme fu: Forse è invidia. E anche se era un po’ assurdo, poteva essere vero; perché vedere e, soprattutto, pensare e ripensare che persino uno come Malfoy aveva – o, meglio, sembrava avere più contatti con le ragazze di lui era davvero demoralizzante. Se poi si teneva in considerazione anche che la sua ultima storia era terminata con l’essere scaricato, e che cominciava davvero a provare il bisogno di voler bene a qualcuno, ciò che si otteneva era un orribile mix di colpi bassi e coltelli che si rigiravano nelle piaghe. In parole povere, un brutto smacco alla sua autostima – che era esattamente come avrebbe descritto, magari sommariamente, la sensazione che lo pervadeva quando il tarlo prendeva il controllo.
        Ma non voleva dar corda a quell’interpretazione. L’orgoglio, infatti, glielo impediva: non voleva essere invidioso di Draco Malfoy, perciò continuò testardamente a ripetersi di non esserlo, e che necessariamente doveva esserci un’altra spiegazione che non era in grado d’afferrare.
        Alla fin fine, gli sarebbe stato bene anche non afferrarla mai, a patto di poter eliminare definitivamente ogni idea molesta dalla propria testa.
        Più d’una volta gli capitò, stuzzicato da una folle impulsività, di sfiorare il pensiero di sfogarsi confessando finalmente tutto quanto agli amici. Cioè, a Hermione – voleva bene a Ron e a Neville e a tutti agli altri, ma Godric santissimo non aveva alcun desiderio di discorrere allegramente con loro di certe cose. Non tanto perché si trattava di relazioni e sessualità, ma perché a tutto ciò s’accompagnava il nome di Malfoy. Probabilmente persino Hermione l’avrebbe guardato storto, all’inizio; ma lei sapeva essere logica, avrebbe potuto capire.
        Era davvero parecchio tentato. Ma c’era ancora un po’ troppa vergogna in lui, e ciò lo spinse a continuare a mantenere il segreto; peccato che più i giorni passavano, più le sue tattiche per nascondere il problema peggioravano – inconsciamente, forse, cercava di lanciare segnali d’aiuto. Segnali che, alla fine, qualcuno captò. E che ovviamente vennero completamente fraintesi.
 
 

        «Ti vedo un po’ strano ultimamente», gli disse Hermione un pomeriggio, in Sala Comune, mentre aspettavano che Ron, fermatosi a scambiare due parole con Seamus Finnigan, li raggiungesse per scendere insieme in biblioteca.
        «Ah sì?» soffiò pacato Harry, non sapendo bene come reagire.
        «Sì. E credo di sapere perché».
        Lui corrucciò la fronte, lievemente preoccupato; proprio in quel momento, Weasley li avvicinò borbottando un «Andiamo?» che lasciava perfettamente intendere quanta poca voglia avesse di studiare.
        Si misero in marcia, ma non per questo la ragazza lasciò cadere il discorso; anzi, lo riprese con persino più enfasi. «C’è qualcosa che non va», asserì, fomentando involontariamente la lieve agitazione di Potter. «Riguarda il professor Holmwood».
        Harry afflosciò immediatamente le spalle. «Holmwood?» ripeté, indeciso se essere sollevato o afflitto.
        «Sì. Io non― non sono riuscita a smettere di pensare a quello che ha fatto. Ho provato a tenerlo d’occhio. E so che l’avete fatto anche voi».
        «Un po’», ammise Ron. «È che mi inquieta – quando mi fissa a volte mi sembra d’avere davanti Piton!»
        A sentir pronunciare quel nome, Potter venne attraversato da una scossa, ma per fortuna durò solo un attimo. «Hm, sì – l’ho osservato anche io», fece.
        «Ho fatto alcune ricerche», proseguì Hermione, con una nota di esitazione nella voce.
        Weasley inarcò un sopracciglio. «Su cosa?»
        «Sul Menisco Verde. Non è un gran punto di partenza, ma è praticamente tutto ciò che abbiamo, e l’unica cosa su cui potevo cercare qualche informazione in più».
        «Hai scoperto qualcosa?» chiese Harry.
        «Credo di sì».
 
 

        Prima di approfondire la questione, si accomodarono in biblioteca. Una volta lì, la ragazza tirò fuori un grosso libro dalla robusta copertina verde scuro, che riportava il titolo Botanica avanzata e, più sotto, volume secondo. Velocemente, aprì il tomo ad una ben precisa pagina per mostrarla agli amici.
        «Ecco. È una delle fonti più dettagliate che sono riuscita a trovare», commentò a bassa voce, recuperando anche una pergamena su cui aveva trascritto degli appunti.
        I due ragazzi fissarono le facciate, piene zeppe di frasi scritte in caratteri minuscoli sulle quali fecero scorrere rapidamente gli occhi. «Cosa dice?» domandò mestamente Ron, dopo essersi soffermato a scrutare per alcuni secondi le illustrazioni.
        «Cose interessanti. Anche se alcune già le sapevo», rispose Hermione. «Ci sono scritte tutte le proprietà del Menisco Verde; che è usato per gestire le creature feroci, ad esempio. E come ricordavo i petali dei fiori sono la parte migliore». Rileggendo le proprie note sul foglio di pergamena, aggiunse: «È un pianta diffusa un po’ ovunque, perché resiste bene al freddo e non ha bisogno di tanta luce, però cresce più rigogliosa negli ambienti caldi. E ovviamente, più la pianta è rigogliosa, più è di qualità, e migliore è l’effetto calmante».
        «Quindi il Menisco che cresce da queste parti― beh, fa schifo», riassunse Harry, in cerca di una conferma.
        «Essenzialmente, sì. Specialmente d’inverno».
        «Beh, se Holmwood ne ha bisogno per tenere sotto controllo il suo stupido ragno, deve accontentarsi – no?» bofonchiò Weasley.
        «In realtà no, non deve. Ed è proprio questo il punto», lo corresse lei. «Visto che è tanto diffuso, sul mercato il Menisco Verde ha un prezzo piuttosto basso. Holmwood potrebbe tranquillamente comprarne un po’, magari proveniente da zone più a sud. Non solo sarebbe di qualità maggiore, ma si risparmierebbe anche di doverlo essiccare e, soprattutto, di dover fare passeggiate nella Foresta Proibita, di notte, per raccoglierlo».
        Potter si morse una guancia, riflettendo brevemente. «Quindi credi che nasconda qualcosa?»
        «Non lo so. Forse». Sospirò, «Quello che fa è senza dubbio strano, ma potrebbe avere delle ragioni – magari lo essicca in modo particolare, o ci tiene a far tutto da sé». Ascoltandosi, si rese conto di star cercando di giustificare il professore di Difesa, perciò rettificò, non senza un pizzico di avversione: «Okay. Molto probabilmente nasconde qualcosa».
        Ron emise tra sé e sé un mugolio sconsolato, prima di mugugnare, lamentoso: «Non poteva essere altrimenti, vero? Non era possibile che almeno uno dei nostri anni a Hogwarts fosse tranquillo».
        Potter sbuffò, capendo i sentimenti dell’amico. «Secondo voi anche Hagrid ha capito che Holmwood è sospetto?»
        «Può essere. Magari ci ha detto di non essere preoccupato per tenerci lontani dai guai», replicò Hermione.
        Per alcuni secondi, rimasero in silenzio. Poi Weasley sussurrò, incerto: «Dovremmo― non so, fare qualcosa?»
        «Cosa potremmo fare?» borbottò pensierosa la ragazza, tenendo gli occhi fissi sul piano del tavolo attorno al quale erano seduti.
        «Possiamo provare a, hm, indagare», azzardò Harry. «Anche se non saprei come».
        «Già; non possiamo di certo piazzarci davanti alla Foresta Proibita e aspettare che si faccia vivo», mormorò lei. «Devo pensarci un po’. Magari mi verrà in mente qualcosa».
 
 
* * *
 
 

        «Potter, m’intralci la strada».
        Queste furono le parole che una mattina sorpresero Harry mentre, nel bel mezzo d’un corridoio, incedeva lentamente ascoltando le sapute ciarle di Hermione. Lei, al suo fianco, gli stava mostrando gli appunti di Storia della Magia che gli avrebbe poi prestato.
        Neanche a dirlo, voltò il capo di scatto – si trovò così a fronteggiare Draco Malfoy e Gregory Goyle.
        «Occupi troppo spazio», fece ancora il Serpeverde, con aria boriosa.
        «Un po’ come il tuo ego», lo rimbeccò prontamente Potter.
        Draco schioccò la lingua, aggirando i due Grifondoro con Goyle al seguito. Quando li ebbe superati, girò appena il busto per sbottare: «Oh, e per la frustrazione – ricordi? – ho effettivamente chiesto consigli alla mia ragazza. Niente male, davvero». Sogghignò, «Mi sa che tu non puoi proprio dire lo stesso». Notò il solito velo calare sul viso dell’altro, e decise che quella volta avrebbe messo fine alla conversazione prima che potesse farlo lui. Affrettò quindi il passo, tornando ad avanzare noncurante per la propria strada.
        Harry, ignorando il bisbigliato commento che Hermione si concesse di fare sulla loro immaturità, deglutì e s’adombrò, mentre il rumore del tarlo che rosicchiava i suoi pensieri gli invadeva la mente. Non avrebbe saputo dire se a dargli più fastidio fu il fatto che Malfoy gli aveva ricordato, per quella che forse era la centesima volta, la rottura con Ginny; oppure il dettaglio, non poi così irrilevante, che risiedeva nelle parole: alla mia ragazza.
        Ne aveva veramente una, dopotutto. O forse no. Magari l’aveva detto solo per farsi grande. Sì, sì – doveva essere così; non gli pareva d’averlo mai visto davvero appiccicato a qualcuna. Anche se, in fondo, sembrava un tipo piuttosto riservato; probabilmente coltivava certi rapporti lontano da occhi indiscreti.
        Sulle note d’un lamento seccato, scosse il capo sforzandosi di mettere da parte il mare di parole che l’aveva travolto; perché dannazione! quelli non erano affari suoi e, soprattutto, non si trattava d’argomenti che gli interessavano. Assolutamente. Malfoy poteva fare quello che gli pareva, con chi diavolo voleva, dove, come e quando preferiva.
        Solo, ecco, poteva risparmiarsi di sbatterglielo in faccia.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

E' confermato: Holmwood è sospetto. Piccola nota a riguardo: non ho trovato un modo non forzato di specificarlo nel testo, ma l'incongruenza relativa al Menisco Verde è una delle ragioni che ha portato Hagrid a rivolgersi alla preside. :) Parallelamente a tutto ciò, Potter compie qualche "passo falso" (spero che questa sua non-poi-così-lenta discesa nell'oblio (?) possa continuare ad essere recepita come plausibile). E' vicino ad un punto di rottura e... mini anticipo: nel prossimo capitolo lo raggiungerà. ;)

Come sempre, mille grazie a tutti coloro che seguono la storia - non immaginate quanto mi faccia piacere condividerla con voi! Love you all! ♥ c:
Un bacione e alla prossima,
T. ♪
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Capitolo 18
*** 17. Vicolo (non del tutto) cieco ***


17.
Vicolo non del tutto cieco
 
 
 
        Che si trattasse d’invidia – cosa che Harry ancora si ostinava a non voler prendere in considerazione –, o di follia, o di qualsiasi altra strana capriola mentale, ormai non aveva più alcuna importanza. Il tarlo continuava ad assalirlo, ed era capace solo d’urlare Draco Malfoy e ogni volta riportava a galla tutti gli annessi e connessi. Le occasioni in cui accadeva non s’erano fatte più frequenti nel tempo, fortunatamente; ma questa era solo una magra consolazione alla luce del fatto che il Grifondoro, a seguito degli episodi legati alla sua poco fortunata allusione sessuale, aveva ormai raggiunto il proprio limite di sopportazione. La convivenza con certe particolari idee, infatti, s’era fatta quasi ingestibile, e lui, insofferente, non tollerava più di non essere in grado né di scacciarle, né di esorcizzarle, né di razionalizzarle.

        Qualche volta, preso dalla frustrazione, desiderò persino di potersi prendere a pugni da solo.
        L’inevitabile passo successivo fu la paura. La paura densa e pienamente motivata che non si trattasse affatto solo d’una fase, come fino a quel momento gli aveva fatto comodo supporre; la paura, quindi, d’essere condannato a portarsi quel peso dentro ancora per molto, molto tempo.
        Perché? gli capitò di chiedersi, Cos’ho fatto di male?
        Avere un normale rapporto – uno qualsiasi – con Malfoy pareva essere impossibile. Da qualche parte, c’era sempre un inghippo. Decretò tra sé e sé che si trattava d’una cosa fottutamente ingiusta.
 
 

        Quella che assomigliava tanto all’ultima goccia cadde nel vaso che era la pazienza del povero ragazzo in un tardo pomeriggio.
        Insieme a Ron, stava marciando nei corridoi diretto in biblioteca, dove Hermione li aspettava per costringerli a studiare. Lungo la strada, gli capitò d’incrociare Malfoy, che era accompagnato da una parte della sua solita cricca – Parkinson, Bulstrode e Nott. Questi ultimi ignorarono bellamente i due Grifondoro; Draco, invece, con una chiara scintilla d’intraprendenza negli occhi, spostò lo sguardo su Potter.
        E lui se ne accorse. Si vide rivolgere una sottospecie di cenno provocatorio, e notò che il Serpeverde aveva appena dischiuso le labbra, come se si stesse preparando a dir qualcosa.
        Nel tempo d’un battito di ciglia, realizzò che probabilmente si sarebbero parlati, e che si sarebbe dovuto mettere sull’attenti per rispondere a tono. Ma proprio in quell’istante, alcune confuse parole di Ron – «Miseriaccia, non ho proprio voglia di studiare» – gli ricordarono dov’erano diretti, e nella sua mente esplose una piccola rivolta.
        Malfoy; la biblioteca. Era lì che per la prima volta aveva fatto strani pensieri su di lui, e da quelli era partita l’epopea che ancora lo affliggeva.
        Si chiese distrattamente se per caso Draco si fosse accorto del suo bizzarro comportamento, e non poté trattenersi dall’ipotizzare il peggio.
        Chissà che figuraccia, se proprio lui l’avesse smascherato. Si proibì di pensarci, mentre il solito tarlo scivolava in una posizione di comando.
        Quando tornò ad incrociare lo sguardo del Serpeverde dopo averlo fatto brevemente vagare, sul suo viso campeggiava – a sua insaputa – il velo: Malfoy lo riconobbe in un lampo. Malgrado ciò, decise di dargli lo stesso la battutina che, effettivamente, aveva in serbo; si spostò quindi un po’ lateralmente, così da potergli intralciare il cammino per spingerlo a fermarsi e a prestargli attenzione.
        Erano ormai vicini, ed era sul punto di aprir bocca; peccato che Harry, appesantito e tormentato, finì col sorprendere tutti quanti – se stesso incluso – aggirandolo per proseguire per la propria strada.
        Questo, perché non si sentiva affatto dell’umore per affrontarlo. Non con quei pensieri in testa, con la sopportazione quasi del tutto sfumata e con quel terribile fastidio a bruciargli nel petto – un fastidio imputabile al fatto che aveva sentito il bisogno di comportarsi proprio in quel modo. Aveva voluto evitare Malfoy, sebbene fosse il primo ad apprezzare quella mezza cosa che erano stati capaci di ricostruire tra loro. Odiò se stesso, ma comunque non poté che tirare dritto.
        Draco, bloccatosi nel bel mezzo del corridoio, si voltò per fulminarlo mentre s’allontanava. Un indescrivibile vuoto gli attanagliò lo stomaco, portandolo a stringere i pugni e a sbottare, a voce piuttosto alta: «Qual è il tuo problema, Potter?»
        I compagni di Casa lo osservarono stralunati. Harry, dal canto suo, pur senza neanche rallentare il passo, girò appena il capo per lanciargli una rapida occhiata priva di un qualunque accompagnamento verbale.
        «Mi domando quale sia il suo problema», borbottò Weasley. E dopo aver detto ciò, con la fronte aggrottata, scrutò velocemente l’amico. «Tutto okay, Harry? Sembri― strano». Forse non era l’aggettivo giusto, ma non gliene vennero in mente di migliori.
        «Sì, tutto a posto. Sto bene», replicò seccamente Potter, incapace di nascondere una nota di stizza nel proprio tono.
 
 

        In quell’occasione, senza saperlo, Harry si lasciò alle spalle un Draco Malfoy dannatamente terrorizzato.
        Per la prima volta da quando aveva notato che al Grifondoro capitava d’adombrarsi e di scappare, infatti, il Serpeverde si azzardò ad ipotizzare che poteva essersi di nuovo inceppato un qualche meccanismo tra loro. In particolare, prese corpo tra i suoi pensieri l’idea che Potter si fosse stancato di lui, di quell’insensato botta e risposta a cui si dedicavano ogni tanto.
        Comprese che si trattava d’un concetto che aveva dell’assurdo, visto che era stato Potter stesso ad insistere perché quello sopravvivesse; ma agli occhi del suo lato istintivo, ciò risultò perfettamente trascurabile. Ergo, si lasciò pervadere dallo spavento.
        Fu un’esperienza tragica, per lui.
        Quell’idiota l’aveva manipolato, s’era divertito ed aveva risvegliato la sua malsana dipendenza da inutili frecciatine; e ora s’allontanava. Così, come niente fosse.
        Vecchi drammi non si risparmiarono di ricomparire, e di trascinarlo dritto nel cuore della burrasca di negatività che prese ad imperversargli in testa e nel petto.
        Non è abbastanza, si disse – quello che poteva dargli non era abbastanza. Magari Potter voleva di più; non s’accontentava di quella mezza rivalità rattoppata che lui poteva offrirgli. D’altro canto, quando mai lui era stato abbastanza per qualcuno? Ricordava le mille e mille volte in cui suo padre gli aveva ripetuto che poteva dare di più, che poteva – anzi, che doveva migliorare. In tutto. E, poi, quando era stato capace di combinare seriamente qualcosa? Qualcosa di non disastroso e distruttivo, s’intende; insomma, quando era stato in grado di costruire rapporti veri, di compiere gesti di cui andar fiero? Se anche l’aveva fatto, in quel momento non poté tenerlo in considerazione, perché fu sommerso dal ricordo dei propri innumerevoli sbagli e fallimenti.
        Vagando in quella fredda tempesta interiore, si strinse nelle spalle mentre nel sangue gli ribollivano rabbia, insoddisfazione e vergogna.
        Intanto, esternamente, non poté far altro che mantenere alta una maschera impassibile.
 
 

        In biblioteca, Hermione accolse Harry e Ron con l’espressione di chi è all’inseguimento d’un pensiero di cui si sono intravisti i contorni, ma a cui ancora non si riesce a dare veramente una forma.
        «Siete un po’ in ritardo», fece sottovoce, radunando le proprie pergamene di appunti per mettere un po’ d’ordine sul tavolo a cui s’era accomodata.
        «Dieci minuti; cosa vuoi che sia?» borbottò Weasley prendendo posto su una sedia; Potter fece lo stesso, ma non aprì bocca.
        «Stavo pensando ancora alla faccenda di Holmwood» soffiò la ragazza, che chiaramente necessitava di sfogarsi un pochino.
        «Come mai? Scoperto qualcosa di nuovo?» l’interrogò Ron.
        «Non ne ho idea. Può essere». Recuperò una pergamena tra quelle che aveva davanti, ritrovando subito con gli occhi l’appunto che la stava tormentando. «Pensavo alle date».
        «Quali date?»
        «Quelle dei giorni in cui Holmwood è uscito per andare nella foresta». Si portò delle ciocche ribelli dietro alle orecchie, come se questo potesse aiutarla a far più chiarezza. «Harry l’ha visto a fine Gennaio. Il venticinque, per la precisione; perché poi il ventisei era in punizione. Hagrid, invece, l’ha incontrato durante l’ultima settimana di Febbraio».
        Weasley corrugò la fronte, cercando di analizzare i dati fornitigli. «E
        «In entrambi i casi, è successo a fine mese. Quindi, magari si tratta di una cosa che fa mensilmente». Si morse una guancia, concentrata. «Non so. Potrebbe anche trattarsi semplicemente di una coincidenza; senza contare che, per quanto ne sappiamo, potrebbero essere stati due casi isolati». Sbuffò, frustrata. «Sento che c’è qualcosa che mi sfugge. Voi cosa ne pensate?»
        Ron mugugnò tra sé e sé, sforzandosi di riflettere; Harry, invece, tenendo lo sguardo basso, parve quasi ignorare la domanda dell’amica.
        Hermione storse il naso, colta da un lampo di preoccupazione. «Ehi, Harry» chiamò per riscuoterlo; «c’è qualcosa che non va?»
        Lui scosse appena il capo. «Uhm― no, no. Tutto okay».
        «Sicuro? Sembri un po’ distratto».
        «Sto bene, davvero; ho solo un po’ di pensieri per la testa. Non saprei cosa dire su Holmwood». Anche se di sfuggita, l’aveva ascoltata. E se aveva scelto di non intervenire nel discorso, era per il semplice e forse un po’ egoistico motivo che in quel momento il professore di Difesa era l’ultimo dei suoi problemi. Questo perché, tanto per cambiare, la sua mente era sintonizzata su Draco Malfoy.
        Si sentiva in colpa: aveva evitato il Serpeverde, e così facendo gli era parso quasi di fargli un torto. Era poi ancora profondamente arrabbiato con sé stesso, e non trovava pace.
        Sapeva che gli amici avevano capito che mentiva, quando diceva che andava tutto bene; e, onestamente, la loro moderata insistenza lo sorprendeva. Forse attendevano semplicemente che si confidasse senza pressioni esterne.
        In quanto a confessioni – ormai Harry era giunto a domandarsi se si sarebbe mai effettivamente sentito in grado di farne una. Questo, perché temeva davvero il giudizio degli altri. Insomma, già al sesto anno era stato accusato d’essere ossessionato da Malfoy; e in quel caso aveva dedicato tanto tempo al Serpeverde per un più che valido motivo. In quei giorni, invece, le sue ragioni erano talmente indefinite che lui stesso faticava a comprenderle.
        A tutto ciò, però, si opponeva il sempre più pressante bisogno di un aiuto, di qualche parola di conforto e d’incoraggiamento. Che nessuno fosse ancora riuscito a leggere in lui e a capire le sue ovvie necessità, era un fatto che aveva dell’incredibile. Comunque, per fortuna, le cose erano destinate a cambiare.
 
 
* * *
 
 

        Alla squadra di Quidditch di Grifondoro capitò d’allenarsi in un pomeriggio assolato di Marzo inoltrato. Il tepore del sole sulla pelle preannunciava l’imminente arrivo della primavera.
        Harry pensò bene di misurarsi col boccino: lo liberò e l’inseguì quanto più velocemente poté. Fu un’azione quasi catartica: mentre si trovava lì, a sfrecciare a mezz’aria a cavallo d’un manico di scopa, si sentì bene. Ma purtroppo l’idillio durò poco: bastò infatti che acciuffasse la sferetta dorata e che rallentasse per concedersi di assaporare il raggiungimento del proprio obiettivo, che, nel giro di pochi secondi, la pesantezza tipica di quel periodo l’ebbe assalito di nuovo.
        Sbuffò e lanciò una rapida occhiata ai compagni di squadra: erano tutti impegnati; chi a comunicare per mettere a punto qualche tattica, chi a destreggiarsi in allenamenti pratici. Nessuno lo stava osservando, né sembrava aver bisogno di aiuto, perciò decise di prendersi una breve pausa.
        Planò verso gli spalti e saltò giù dalla scopa, poi si sedette stancamente. Per tenersi impegnato, prese a rigirarsi tra le dita il boccino appena catturato, scrutandolo attentamente come se lo vedesse per la prima volta. La sua mente, però, era focalizzata su tutt’altro – cioè su Draco Malfoy, e sul fatto che lo stava ancora più o meno evitando.
        Si trattava sempre di Draco Malfoy. Realizzarlo lo spinse a serrare la mascella fin quasi a farsi male e ad imprecare col pensiero; perché per Merlino! probabilmente neanche una tredicenne disperata e in balìa degli ormoni sarebbe stata capace di fissarsi sino a quei livelli su qualcuno.
        «Harry», si sentì chiamare, e subito si riscosse ed alzò testa. Poco distante, Ginny Weasley lo fissava con aria interrogativa. La vide fare un cenno e poi avvicinarsi.
        Pochi istanti dopo, la ragazza fu sugli spalti, la scopa stretta in una mano. Gli si sedette accanto, dedicandogli un’occhiata perplessa. «Come mai qui? Sei già stanco?» chiese, sorridendo.
        Lui si sforzò di sorridere a sua volta, purtroppo con deludenti risultati. «Faccio una piccola pausa», buttò lì, riportando pigramente lo sguardo sul boccino.
        «Stai bene?» domandò ancora lei, facendosi seria – aveva infatti notato la nota di amarezza nella sua voce.
        «Hm-hm. Sì».
        Con un gesto veloce, Ginny gli rubò il boccino dalle dita; riconquistò così l’attenzione del ragazzo, e gli rivolse un secondo sorriso, più mesto e rassicurante del primo. «Sai che se c’è qualcosa che non va puoi parlarmene, vero? Insomma― capisco se non ti va, ma se vuoi―» e alzò appena le spalle, non aggiungendo altro.
        «Sì, uhm, grazie. Non è niente di che, davvero; ho solo un po’ di pensieri per la testa. Mi passerà». Non era nulla più di ciò che aveva detto anche alle altre persone che gli avevano fatto domande, e non s’aspettava certo che Ginny reagisse in maniera sorprendente.
        Invece, lei lo fece: al contrario degli altri, non cercò di fargli sputare il rospo per avere più dettagli, né prese semplicemente atto della sua condizione congedandolo con un paio di paroline gentili. Gli diede piuttosto un lieve colpo su una spalla, poi mise su una faccia un po’ buffa, dicendo: «Devono essere pensieri davvero tosti, per ridurre così Harry Potter!»
        Lui inarcò appena le labbra all’insù, e soffiò: «Lo sono».
        «Vedi di combatterli, allora. Vogliamo un cercatore in forma per le ultime partite dell’anno!» Che non fosse quella l’unica ragione del suo interessamento, e che stesse scherzando, risultò evidente dal tono con cui s’espresse, e soprattutto dalla mezza risata che si concesse dopo aver parlato.
        «Ci sto provando, a combatterli. Non è così semplice», ammise Harry, sentendosi un po’ più leggero di poco prima.
        «Sono certa che tu possa farcela», lo rassicurò Ginny. «Ne abbiamo passate tante; è fuori discussione che dei miseri pensieri ti buttino giù». Se si fosse fermata lì ed avesse quindi dato a Potter il tempo di intervenire, lui le avrebbe fatto presente che non sapeva di quali pensieri stesse parlando, e che dunque non poteva giudicare. Ma lei non tacque: «Ti va una sfida?» propose infatti, mostrandogli eloquentemente il boccino.
        Harry si morse un labbro, poi, con decisione crescente, cominciò ad annuire. «Sì, perché no. Ti dimostrerò che come cercatore sono perfettamente in forma».
        «Bene, perché sono in forma anch’io, e non ci sarei comunque andata piano con te». Sorrise sorniona, per poi lasciare libero il boccino; e mentre quello schizzava via perdendosi nell’aria, lei scattò in piedi e saltò sulla scopa.
        Lui la imitò, dopodiché fece: «Pronta?»
        «Quando vuoi».
 
 

        Forse la cosa aveva dell’assurdo, ma le parole di Ginny gli furono sorprendentemente d’aiuto. Lo spronarono, infatti, a convincersi d’essere effettivamente in grado di affrontare i propri tormenti. Iniziò a sentirsi un po’ meglio, e pian piano l’idea di avere a che fare col Serpeverde riacquistò l’appeal di un tempo, fin quando arrivò persino a credere d’esser pronto a rimettersi in gioco con lui.
        Ingenuamente, si rallegrò per quel tanto atteso miglioramento.
 
 

        Un’occasione per mettersi alla prova gli venne offerta dal caso di lì a poco, nel momento in cui, durante un alquanto noioso pomeriggio in biblioteca, mentre cercava disperatamente sulle scaffalature un libro consigliatogli da Hermione, Draco Malfoy comparve nei paraggi. Era a propria volta alla ricerca di un tomo, e nello scorgere il Grifondoro roteò gli occhi e sbuffò con fare scocciato.
        Al contrario di Potter, che era riuscito a far progressi in quanto ad umore, lui continuava ad essere afflitto. In particolare, a roderlo dall’interno era ancora l’idea che l’altro potesse essersi stancato di ciò che avevano perché non era abbastanza.
        «Mi tampini ancora mentre studio, Potter?» sbottò tanto per dir qualcosa.
        Harry, colto alla sprovvista, aggrottò la fronte. «No. Non ci crederai, ma non sei il centro del mio universo», borbottò. Una peculiare scelta di parole, la sua – effettuata inconsciamente col mascherato intento di dissociarsi dai pensieri che tanto l’avevano assillato.
        Draco affondò i denti in una guancia, facendo scorrere lo sguardo sui titoli dei libri sugli scaffali e nascondendo quella che qualcuno avrebbe definito delusione.
        «Poi, non è che sono venuto a cercarti», proseguì il Grifondoro, sottolineando l’ovvio.
        «Sì. Bravo», fu la casuale ed irritata replica che ottenne.
        «Simpatico come al solito, Malfoy».
        «Almeno io sono coerente».
        Harry inarcò un sopracciglio, non riuscendo ad intuire dove l’altro volesse andare a parare. Si voltò finalmente verso di lui, perdendo interesse nei libri, e chiese: «Cosa c’entra ora la coerenza?»
        A dir poco stupito, Draco emise un versetto allucinato. «Oh, ma per favore».
        Potter scosse tra sé e sé il capo, confuso, poi ammise con un filo di voce: «Io proprio non ti capisco».
        «Routine, insomma – tu che non capisci. Ogni tanto mi domando cos’hai in testa e, sai, la risposta non è mai “un cervello funzionante”».
        Harry lo guardò male; perché Malfoy bacia la gente! – ecco cosa aveva in testa. «Sai, non mi va proprio di ascoltare i tuoi deliranti insulti», sentenziò poi, stizzito, prima di fare un mezzo passo indietro. Forse, per lui affrontare il Serpeverde non era ancora così semplice.
        «Deliranti? Dire che tu non capisci è tutto meno che delirante», appuntò Malfoy.
        «Certo. Magari ne parliamo un’altra volta». Girando i tacchi, fece per allontanarsi.
        «Scappa pure. Ti riesce così bene, ultimamente», lo attaccò Draco.
        Potter si bloccò immediatamente, sussultando appena e contraendo i muscoli. Una vaga ombra d’agitazione lo travolse. «Come?» soffiò, tornando a rivolgergli lo sguardo.
        «Hai capito perfettamente», lo apostrofò Malfoy mentre individuava sulla scaffalatura il tomo che gli serviva. Lo recuperò, dopodiché scoccò al Grifondoro un’occhiataccia carica di disprezzo e rabbia, ed iniziò ad avanzare nella sua direzione con passo cadenzato. «Scappi. Credevi davvero che fossi tanto stupido da non rendermene conto?»
        Harry deglutì, lasciandosi distrarre da un dettaglio banale come il particolare modo in cui l’altro aveva assottigliato gli occhi. E in sua difesa: li aveva assottigliati davvero tanto, sino a ridurli quasi a fessure, ed era un po’ inquietante.
        «Non so che diamine tu voglia fare; ma mi stai prendendo per il culo, e non mi piace».
        «In che modo ti starei prendendo per il culo?» bofonchiò Potter, piccato, radunando tutta la propria buona volontà per sbaragliare la resistenza a cui lui stesso aveva dato vita.
        Draco arrestò la propria avanzata ad un passo da lui; era abbastanza vicino da poter sussurrare per comunicare. E lo fece – con aria minacciosa, anche. «Lo sai».
        Harry non stette a questionare quell’ultima, sibilata affermazione, poiché ingaggiò con decisione quella che, aveva deciso, sarebbe stata la battaglia finale col tarlo.
        «Tu mi hai chiesto di fare questo; di odiarti. Io stavo bene anche senza!» sputò il Serpeverde, pronto a riversargli addosso tutto il proprio rancore.
        E intanto, senza tanti preamboli, Potter affrontava il nocciolo del proprio problema: magari era invidioso di Malfoy, e finalmente l’ammise a se stesso. Ma non si fermò lì – affatto; proseguì e trovò il modo di reagire.
        «Mi hai praticamente implorato di non smettere; e ora scappi», continuò a borbottare nel frattempo l’altro. «Mi ignori! Ma chi cazzo ti credi essere? Tu mi hai― mi hai―» reso dipendente da te, avrebbe voluto dire, e poi pretendi di sparire. Ma non pronunciò nulla di tutto ciò, comprimendo tutta la propria ira in un seccato mugolio.
        In quel momento, Harry si chiese come diavolo aveva potuto lasciare che il pensiero che Malfoy potesse avere una vita privata – o che potesse averne una migliore della sua, per quel che importava – lo turbasse tanto. Era stato stupido, infantile e cieco. Insomma, si trattava pur sempre di Malfoy – quel ragazzo troppo alto, col naso troppo dritto, gli occhi troppo assottigliabili, le labbra troppo piccole, e il carattere più insopportabile del pianeta. Questo, citando solo le prime voci dell’infinita lista dei suoi difetti.
        «Sai cosa? Vaffanculo», ricominciò a dire Draco, rabbioso, per poi concedersi di spintonarlo.
        Incassato il colpo, il Grifondoro corrucciò la fronte con aria spaesata, fissando gli occhi sul viso dell’altro con rinnovata consapevolezza. Sarebbe ricorso anche lui ad una moderata violenza, forse, se solo una domanda non gli fosse comparsa in testa, chiaro segno d’una ricerca di espiazione e simbolo della tanto attesa vittoria sul suo mostro interiore: Sul serio, chi mai vorrebbe baciare Draco Malfoy?
        «Dico davvero; fottiti», rincarò la dose quello, sfogandosi.
        Già, chi? riecheggiò l’interrogativo nella mente di Harry, subito prima che avanzasse d’un mezzo passo e si sporgesse col busto verso l’altro.
        Chissà cos’avrebbe fatto, se il Serpeverde non avesse avuto buoni riflessi e non fosse riuscito a scansarsi indietreggiando.
        In realtà non ebbero bisogno di domandarselo, né di viaggiare troppo con la fantasia; entrambi, infatti, scambiandosi una lunga occhiata stralunata e sconvolta, parvero capire benissimo ciò che era appena quasi avvenuto.
        Draco esalò un sospiro tremolante, allontanandosi di più – fece un passo indietro, due, cinque. Cercò con scarsissimi risultati di dir qualcosa, poi si girò e filò via, chiaramente esterrefatto.
        Harry lo guardò sparire dietro agli scaffali con gli occhi sgranati, mentre deglutiva e si rendeva conto d’avere il battito accelerato. Una volta che fu solo, poi, piombò in uno scombussolato e confuso stato di panico.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Le cose iniziano a farsi concrete tra questi due! ...Troppo improvviso? Affrettato? O abbastanza giustificato? Vi aspettavate qualcosa di più, di meno? Insomma, sono ancora una volta un po' insicura: mi rimetto al vostro giudizio. :)
Mille e mille grazie a tutti quanti per aver letto sin qui - love you all! ♥ Mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto!
A risentirci la settimana prossima! Baci,
T. ♪
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Capitolo 19
*** 18. (Vana) lotta contro le etichette ***


18.
Vana lotta contro le etichette
 
 
 

        No.
        Nella mente di Harry, mentre ancora se ne stava impalato tra gli scaffali della biblioteca, quella fu l’unica parola capace di imporsi sul caotico andirivieni di pensieri senza capo né coda. Un semplice, categorico, gigantesco No.

        Non aveva appena cercato di fare quello. Assolutamente. Era fuori discussione.
        Merlino santissimo – chissà cosa s’era immaginato Malfoy. Solo cercando di mettersi per un istante nei suoi panni, morì di vergogna e fu travolto da un’onda anomala di disagio; arrossì vistosamente, ed avvertì l’impellente bisogno di scappare e di nascondersi in un remoto buco nel terreno per un po’.
        Dopo alcuni attimi di totale disorientamento, inspirò profondamente, cercando con disperazione la forza necessaria per restare lucido.
        Non è successo niente, si ripeté più volte. Certo, c’era stato un momento strano – anzi, assurdo, e anche terribilmente imbarazzante, ma nulla più. Poteva gestirlo.
 
 

        Invece no, non poteva. E se ne rese conto non appena fece ritorno al tavolo a cui Ron e Hermione lo aspettavano.
        «Non hai trovato il libro?» gli chiese innocentemente lei, vedendolo ricomparire a mani vuote; subito dopo averlo osservato brevemente in viso, però, si fece più seria e aggrottò la fronte con aria preoccupata. «Harry?» lo chiamò con tono cupo mentre lui si sedeva scompostamente sulla propria sedia.
        Anche Weasley, che era scattato sull’attenti non appena la voce di Hermione s’era fatta grave, posò lo sguardo sull’amico. Nel vederlo tanto stravolto, inarcò perplesso le sopracciglia.
        Potter lanciò un’occhiata prima all’uno, poi all’altra; successivamente chinò e scosse appena il capo. E pur lasciandosi scappare un lieve sbuffo, si rifiutò di spiccicare anche solo mezza parola.
        «È successo qualcosa?» domandò ancora Hermione, mormorando.
        In un battito di ciglia, Harry rivisse, adeguatamente dilatati, i fatidici secondi che l’avevano condannato e spiazzato; rivide quindi il viso di Malfoy che di colpo si faceva più vicino, i suoi occhi che da fessure si trasfiguravano in enormi fanali accesi, e poi la sua figura che, scattando, prendeva le distanze. Un incommensurabile vuoto gli comparve nel petto, accelerandogli il battito e facendogli avere un contatto ravvicinato con quella che gli parve la quint’essenza dell’imbarazzo.
        Deglutì, coprendosi in parte il viso con una mano. «Niente» sibilò poi, incapace di dir la verità.
        «Amico, sembra che al posto dei libri tu abbia visto un Ungaro Spinato», commentò schiettamente Ron.
        Magari, si concesse di pensare l’altro, che con Ungaro Spinato ci avrebbe volentieri anche ballato il valzer, pur di potersi risparmiare la tortura a cui la sua stessa psiche lo stava sottoponendo.
        «Harry». Hermione non dovette dir altro per far intendere al ragazzo che, quella volta, non se la sarebbe affatto cavata con un paio di bugie raffazzonate.
        E Potter la comprese al volo. Non poté proprio scendere a patti con l’idea di sbottonarsi, però; non ancora. L’immagine della faccia di Malfoy ad un palmo dalla sua, infatti, non pareva intenzionata a sparire, e gli trasmetteva una gran ansia – anche volendo non sarebbe stato capace di spiegar nulla a nessuno. Per questo, seguendo un cieco istinto s’alzò in piedi senza preavviso e cominciò a radunare ciò che di suo c’era sul tavolo.
        «Cosa fai?» l’interrogò Weasley, confuso.
        «Ho bisogno di― di stare un po’ da solo».
        «Ma si può sapere che ti prende?» continuò basito Ron, osservandolo maltrattare e ammucchiare alla buona appunti e compiti mezzi svolti.
        «Non― non lo so. Sono― uhm» e lì Harry si fermò, la lingua annodata. Fu solo capace d’aggiungere, seccamente: «Dopo. Ci― ci vediamo dopo». Poi diede loro le spalle e mosse i primi passi verso l’uscita della biblioteca.
        Sotto lo sguardo attonito di Weasley, Hermione si mise all’inseguimento; camminando velocemente, riuscì ad agguantare l’amico poco lontano dal tavolo. «Harry, mi stai facendo preoccupare. Anzi, ci stai facendo preoccupare», sbottò. «Cos’è successo?»
        «Sto bene», mentì lui, cercando di tranquillizzarla.
        «È da un po’ che lo ripeti, eppure continui a comportarti in modo strano». Raddolcì l’espressione, «Sai che puoi fidarti di noi».
        «Sì, ma―» nuovamente bloccato, sospirò. «Non adesso. Per favore».
        Lei, vedendolo tanto sconvolto e sentendolo praticamente implorare, preferì non insistere. «Va bene. Ma sappi che ne dobbiamo parlare».
        Potter annuì distrattamente, lanciando un ultimo sguardo a Ron che, ancora seduto al tavolo, li scrutava con aria turbata. Occhieggiò poi Hermione, senza saper bene come congedarsi. Alla fine, girò i tacchi e riprese ad allontanarsi senza dir nulla.
 
 

        Uscì dalle mura del castello, dirigendosi al cortile. Una volta lì, non seppe bene che fare; perlomeno, l’aria fresca del pomeriggio inoltrato gli fu un po’ di conforto.
        Provò a mettere ordine tra i propri pensieri. Fallì miseramente, e tutto nella sua mente si ridusse allo stesso, enorme No che gli era rimbombato nelle orecchie poco prima tra gli scaffali.
        Fu solo capace di dirsi che, in ogni caso, lui col Serpeverde non aveva fatto nulla. Non poté più negare, però, d’averci provato.
        Non cercò affatto di connotare il proprio tentato gesto – anzi, lasciò volontariamente da parte definizioni e nomi, rifuggendoli. Ciò, perché già sapeva perfettamente quale fosse la giusta etichetta da attribuire al fatto, e non era per niente pronto ad accettarne la natura.
 
 

        Incontrare Malfoy in Sala Grande, quella sera per cena, fu tutt’altro che d’aiuto.
        Non ebbero chissà quale interazione; neanche si parlarono: a malapena si scambiarono un rapidissimo sguardo nei pressi dell’entrata della sala. Tanto bastò, però, per far irrigidire Harry. E mentre lui veniva corroso dall’interno, e al suo fianco Hermione e Ron aspettavano impensieriti che li rendesse partecipi dei suoi problemi, Draco, poco più in là, attraversava a sua volta un piccolo inferno in terra.
        Anche se si era convinto d’aver finalmente scoperto il grande mistero dietro alle fughe di Potter, infatti, era tutto meno che soddisfatto: il ricordo del Grifondoro che gli si avvicinava così tanto, per altro con un’improponibile spontaneità, non gli dava pace. E come biasimarlo? Quello dell’altro era stato un gesto improvviso ed insensato, e lui non era certo di sapere come interpretarlo. Insomma, come si fa a trattare l’idea di Harry Potter che cerca di―
        Ma no, si disse; non ci avrebbe pensato durante la cena: non voleva correre il rischio di perdere l’appetito.
 
 
* * *
 
 

        A seguito d’una notte tormentata, un unico, soffocante impulso la faceva da padrone nella testa di Harry, mettendo in fibrillazione ogni sua cellula. Doveva chiarire; mettere le mani avanti, i puntini sulle i, scansare gli equivoci – e chi più ne ha, più ne metta.
        Doveva e, soprattutto, voleva fare tutte quelle cose; immediatamente, se possibile. Ovviamente, non per quanto concerneva l’ancora vivida curiosità mista a preoccupazione di Ron e Hermione – loro, dal suo punto di vista, potevano aspettare. Prima di tutto, voleva chiarire con Malfoy.
        Che non sapesse bene come fare, era solo un trascurabilissimo dettaglio. Si sarebbe inventato qualcosa sul momento; e, davvero, quella era la sua sola possibilità: non c’era speranza che trovasse la maniera di mettere in piedi un piano d’azione che tenesse conto dei vari fattori in ballo – la fretta che aveva addosso non gliel’avrebbe mai permesso. Ripose totale fiducia nel proprio istinto, dunque, sperando d’incappare il prima possibile in un’occasione adeguata per fare una mossa.
        Ciò, in effetti, accadde: Grifondoro e Serpeverde avrebbero condiviso una lezione di Trasfigurazione, quel giorno. La consapevolezza d’avere il proprio obiettivo a portata di mano gli trasmise una gran trepidazione.
        Una volta che fu nell’aula, prima ancora che la professoressa McGranitt iniziasse a spiegare, gli capitò d’intercettare uno sguardo di Draco. Non fu capace di decifrarlo del tutto, ma gli parve d’intravedere un’ombra di sorpresa mista a repulsione. Non ebbe il tempo materiale per parlargli subito, perciò dovette attendere che la lezione terminasse – lo fece mordendosi ripetutamente le guance e le labbra, muovendo convulsamente una gamba e cercando di evitare le occhiate a dir poco perplesse di Ron.
        Quando finalmente l’insegnante li congedò, scattò in piedi e, nel farlo, attirò l’attenzione di qualche amico. Non si curò di dar spiegazioni per l’urgenza dei proprio gesti, però, né tantomeno si degnò di guardare in faccia coloro che lo stavano osservando. Semplicemente, abbandonando anche libri e pergamene sul banco, s’avvicinò al Serpeverde prima che potesse uscire dalla stanza e svanire nel corridoio.
        «Malfoy» chiamò, per poi ritrovarsi già ammutolito. «Ehm, devo parlarti», si risolse di borbottare, mentre gli occhi di più e più serpi prendevano a scrutarlo.
        Draco, praticamente impassibile in volto, per alcuni istanti lo studiò in silenzio. Poi, facendo saettare lo sguardo anche sui compagni di Casa che lo circondavano, indurì l’espressione e asserì: «No». Terminò di raccogliere le proprie cose dal banco, e fece per allontanarsi insieme a Zabini, Nott e Parkinson.
        Ma Harry non si diede per vinto: «Dobbiamo parlare. Adesso», soffiò, mentre Ron avanzava per raggiungerlo e, poco distante, Hermione lo fissava stranita. Non diede agli amici il tempo di trattenerlo, perché seguì Malfoy sin nel corridoio; una volta lì, poi, lo chiamò ancora, a voce più alta.
        Chiaramente alterato e punzecchiato anche dalle inutili frasi di contorno di chi lo accompagnava, Draco non poté proprio permettersi d’ignorarlo; si fermò, dunque, e si voltò verso di lui con aria cupa. «Potter, ho detto no. Sparisci».
        «Non ci penso neanche».
        Proprio nell’istante in cui Weasley s’affacciava dalla porta dell’aula di Trasfigurazione, Pansy Parkinson ebbe la brillante idea di mettersi in mezzo. «Cerchi rogne, Potter?» sbottò.
        «Harry, che succede?» chiese Ron, affiancandolo.
        «Non succede niente. Solo, dobbiamo parlare», ripeté con gli occhi puntati su Malfoy.
        Quello sbuffò tra sé e sé, ascoltando suo malgrado Zabini mormorare: «Io mi dissocio». Non poté ribattere, perché Blaise girò fluidamente i tacchi e s’allontanò nel corridoio.
        «Girate a largo. Non siete desiderati», riprese a ringhiare Pansy in direzione dei due Grifondoro.
        «Sei tu quella che non è desiderata», replicò piccato Weasley.
        Fu a quel punto il turno di Hermione di far capolino dalla porta dell’aula: teneva stretti al petto un paio di libri e aveva la fronte corrucciata. Non esitò ad avvicinare i compagni, e subito borbottò: «Cosa sta succedendo, qui? La professoressa McGranitt vi ha guardati male mentre uscivate, se non la fate finita potrebbe intervenire».
        Parkinson fece schioccare la lingua. «Ci mancava solo la so tutto io».
        Ron, stringendo i pugni e prendendo colore in viso, si preparò ad attaccare verbalmente la Serpeverde; nel frattempo, Nott seguì silenziosamente – e letteralmente – le orme di Zabini.
        Guardando il secondo compagno allontanarsi, Draco quasi grugnì tra sé e sé. Benché avesse diverse parole sulla punta della lingua, non fece in tempo a pronunciarne nessuna, perché Pansy e Ron intavolarono un colorito scambio di provocazioni e mezzi insulti.
        Harry colse la frustrazione nell’espressione e nei gesti del rivale – una frustrazione che gli parve adeguato comparare con la propria. Sbuffò rumorosamente, quindi, e mentre sullo sfondo Hermione diceva qualcos’altro di ragionevole per calmare gli spiriti, lui buttò lì: «Basta!» Avrebbe aggiunto altro, forse, se non avesse avuto agitazione liquida al posto del sangue, ma l’aveva, perciò semplicemente guardò male sia Weasley, sia Parkinson, e colmò la distanza che lo separava da Malfoy in due lunghi passi.
        «Cosa combini?» bofonchiò quello, vedendosi improvvisamente prendere per un braccio. «Lasciami!»
        «No. Ora parliamo», ribatté Potter trascinandoselo dietro; e per sua fortuna, quella volta nessuno s’intromise. Ciò, perché – così come Granger aveva previsto – la McGranitt sbucò dall’aula e s’assicurò d’intrattenere i litiganti rimasti indietro con una sana, e mai tanto opportunamente piazzata, lavata di capo.
 
 

        Draco si liberò quanto prima poté dalla presa sul proprio braccio. «Si può sapere cosa vuoi, Potter?» Malgrado l’evidente ritrosia, continuò a seguirlo. «Hai attirato l’attenzione di mezza Hogwarts. Come sempre, sei uno spettacolo da baraccone» sentenziò con una nota di rabbia nella voce.
        Harry scelse d’ignorare quel giudizio acido. «Io volevo solo parlarti. Non è colpa mia se tutti si sono messi in mezzo».
        «È quello che succede se fai una scenata in un’aula piena di persone, idiota».
        «Smetti di insultarmi!»
        «E tu smetti di camminare verso chissà dove!» Prendendolo per una spalla, lo costrinse a fermarsi nel bel mezzo del corridoio in cui erano finiti. «Cosa vuoi?» chiese con veemenza.
        Per una manciata di secondi, Potter non poté che tentennare.
        «Datti una mossa, o me ne vado».
        «Riguardo ieri», cominciò Harry spingendo le parole fuori dalla bocca. «Io―»
        Draco, che di istante in istante era sempre meno in grado di nascondere l’ansia, si umettò le labbra. «No. Ascolta― non m’interessa».
        «Ascolta tu. È― è stato―» e sbuffò, la lingua nuovamente inceppata. «Non so cos’è stato, d’accordo? Ma di sicuro non quello che pensi tu».
        Istintivamente, Malfoy indietreggiò di un passo. «Davvero? Perché non credo ci siano tanti modi per interpretare quel gesto».
        Harry si sentì sprofondare.
        «Senti― se la tua paura è che ne parli in giro―» e non poteva negarlo, c’era stato un tempo in cui l’avrebbe fatto senza pensarci due volte, «non lo farò. Non m’importa se stai attraversando qualche strana fase o ti sei svegliato così la mattina; basta che tu mi tenga fuori. Chiaro?»
        Pesante come un’incudine, la consapevolezza d’aver incasinato un rapporto già di per sé assurdamente ingarbugliato colpì Potter dritto in testa. «No, no― non hai capito. Io non―»
        Ma l’altro l’interruppe: «Risparmiami i tuoi borbottii. Scappa come facevi prima; stammi lontano». Aggiunse le ultime parole mormorando e incupendosi, ed un incomprimibile afflizione gli si sparse sul viso. Per non lasciare che il Grifondoro la notasse, si girò ed andò via.
        Sebbene avesse già le labbra dischiuse, Harry non riuscì a scandire una sola parola. Avrebbe voluto dire, infatti, per rassicurare se stesso e non far fuggire l’altro, che lui non aveva cercato di― Ma tacque, perché realizzò che la sua sarebbe stata solo una bugia.
        L’aveva fatto. Si sentì bruciare dalla vergogna, e la confusione si tradusse presto in un martello contro le sue povere tempie.
 
 
* * *
 
 

        Nessuno sarebbe stato capace di sciorinare una lista di aggettivi che descrivesse con completezza il caos che scoppiò quel giorno tra i componenti del Trio. Harry, dal canto suo, neanche ci provò. Si limitò a lasciarsi trascinare in una scombussolata discussione, rifiutandosi di illustrare agli amici perché avesse avuto una tale urgenza di parlare con Malfoy e rimandando qualsiasi altra spiegazione.
        Ciò, solo inizialmente. Dopo un infinito pomeriggio trascorso in compagnia dei pensieri che gli stavano macerando in testa, infatti, si riscoprì totalmente incapace di affrontare tutto quello da solo. Aveva oltrepassato il limite; non aveva speranza di uscire dalle sabbie mobili in cui era caduto senza un aiuto. Si arrese, dunque, e cercò mestamente chi potesse offrirgliene, confidando che fosse la scelta più giusta.
 
 

        «Hermione, posso parlarti?»
        Si rivolse all’amica dopo cena, una volta che furono rientrati in Sala Comune. La colse a dir poco di sorpresa, e ottenne anche di far aggrottare la fronte a Ron, che era ancora piuttosto irritato per via del trambusto verificatosi in precedenza.
        Lei annuì immediatamente. «Certo».
        S’appartarono in un angolino tranquillo sotto agli sguardi indagatori di tutt’una serie di Grifondoro – non erano pochi, infatti, coloro che erano venuti a sapere della “crisi” di Potter. Fortunatamente, però, sembrarono tutti inclini a non intaccare la riservatezza della chiacchierata tra i due amici.
        «Finalmente vuoi parlare. Mi fa piacere».
        «Hm».
        Impiegarono un po’ per giungere al nocciolo della questione; Harry, infatti, per quanto fuori fase e affannato fosse, non riuscì a convincersi a sputare in fretta il rospo. Questo, perché era cosciente che per alleggerire un po’ il peso che gli gravava addosso sarebbe dovuto ricorrere alla parola con la B – la stessa che aveva accuratamente evitato in quelle ultime ventiquattr’ore.
        «Io ho― ho pensato a cose», aveva detto in principio e, a seguito di brevi pause, tentennamenti, frasi campate per aria, momenti il cui unico scopo fu aumentare la tensione, sganciò la bomba: «Credo di aver pensato di baciare― hm, un ragazzo».
        Ecco, l’ho detto. Di botto, il caos che gli abitava dentro prese corpo: parve addensarsi attorno a quella parola – bacio, baciare – e quasi gli si incastrò in gola.
        «Oh», mugolò Hermione con tono neutrale. «Tu― davvero
        Lui, scioccato, annuì.
        Per alcuni lunghi secondi, lei si chiuse in un silenzio riflessivo. Poi, prendendo un bel respiro, parve sciogliersi. «Non immagini quanto sono contenta. Temevo che ci nascondessi qualcosa d’irreparabile, che ci fosse di mezzo chissà quale magia e― scusa. Non voglio dire che questo non sia importante. Parlamene».
        «È stato― strano. Mi ha spaventato».
        «Posso― posso chiederti chi è il ragazzo in questione?»
        Sentendosi scandagliato sin dentro le ossa, Potter negò enfaticamente e chinò il capo mugugnando.
        Al che, Hermione assottigliò gli occhi e, meccanicamente, mise insieme i pezzi nella propria mente. Abbozzò quasi senza volerlo una strampalata ipotesi, e i dubbi l’assalirono: Possibile che― no, no. Anche se―
        «Harry» sussurrò col tono di chi la sa lunga ma teme d’esporsi, «per caso in tutto ciò c’entra qualcosa la scenata che hai fatto oggi dopo Trasfigurazione?»
        Lui, sentendosi come colto con le mani nel sacco, si morse la lingua e inveì tra sé e sé a causa dell’eccessivamente sviluppato intuito dell’amica. L’idea di essere giudicato negativamente lo terrorizzò, perciò disse: «Forse devo― devo pensarci su ancora un po’. Da solo». Senza aggiungere altro, si diresse verso le scale del dormitorio.
        «Aspetta―!» sbottò di scatto Hermione per trattenerlo, ma fallì; Potter, infatti, imboccò testardamente la rampa e sparì. Lei, saggiamente, si sforzò di mettere da parte la curiosità e scelse di non inseguirlo, concedendosi piuttosto un rumoroso sospiro.
        Fu presto raggiunta da Ron. «Allora? Cosa ti ha detto?»
        «Non credo che gli farebbe piacere se te ne parlassi. Dovresti chiedere direttamente a lui. Ma non ora!» esclamò, osservando anche Weasley muoversi in direzione della via per i dormitori. «Credo che abbia davvero bisogno di tempo».
        Lui esitò. «Sarò delicato».
        «Tu non sai essere delicato, Ronald».
        «Lasciami provare». Non perse tempo ad esprimere a parole la brutta sensazione d’esclusione che l’aveva colto, preferendo correr dietro all’amico.
        Hermione, sentendo già puzza di guai, restò indietro.
 
 

        In stanza, Harry fu sorpreso dal rumore della porta che s’apriva mentre marciava nervosamente scompigliandosi i capelli. Quando vide sbucare Ron, non seppe bene cosa aspettarsi.
        «Ehi».
        «Uhm».
        Weasley, spaventosamente serio in volto, avanzò di qualche passo. «Le hai detto cosa c’è che non va?» sussurrò, pur conoscendo già la risposta.
        «Più o meno. Ma non voglio―»
        «Dillo anche a me, per favore».
        Per quanto si sforzò, Potter non fu capace di tirar fuori una replica adeguata. In fondo, come avrebbe potuto confessare certe cose a Ron? O, alternativamente, come avrebbe potuto scacciarlo senza offenderlo? Alla fine, fu costretto a correre il rischio d’essere sfacciato: «Hm― non posso».
        «Come sarebbe a dire non posso? Hai potuto dirlo a Hermione».
        «Non è la stessa cosa».
        «In che modo non dovrebbe essere la stessa cosa?» Seccato, s’imbronciò. «Cosa succede di così scandaloso da spingerti a tenermi fuori? Sai che puoi dirmi tutto».
        Scandaloso, ripeté Potter mentalmente – era proprio un aggettivo azzeccato. «Io― io non sono pronto a dirtelo, e credo che tu non sia pronto ad ascoltarlo», buttò lì.
        «Cioè, vuoi tenermi fuori», ribadì Weasley.
        L’altro tentennò, cominciando a trovare irritante tanta insistenza. «Forse», si concesse di bisbigliare, vagamente acido. «Per un po’».
        «Perché
        Sbuffò, «Perché non devo dirti sempre tutto».
        Per un attimo, il silenzio li avvolse. Poi Ron soffiò, amareggiato: «Certo. Giusto». Chiaramente turbato, si voltò ed imboccò frettolosamente la porta.
        Rimasto solo, Harry emise un lamento tormentato per poi lasciarsi cadere sul letto. Con una gran confusione in testa, non poté far altro che sperare che l’amico non gli tenesse il muso troppo a lungo.
 
 

        Glielo tenne, invece. E, ovviamente, quello non fu l’unico dei suoi crucci: dovette fare i conti anche con Hermione, che continuò a lanciargli occhiate misteriose come se cercasse di carpire qualche suo segreto, e con il ricordo di ciò che aveva quasi fatto con Malfoy – ricordo che, seppur sempre più sfocato, già da quella sera divenne una costante tra i suoi pensieri. Se non altro, pian piano, a forza di averci a che fare, riuscì a sfondare la prima barriera di rigetto che era sorta spontanea in lui.
        Cominciò a chiamare l’accaduto col nome che gli spettava – bacio. Anzi, quasi bacio –, smettendo di struggersi per rinnegare la parola con la B. Poi, alla buon’ora, iniziò ad analizzare la vicenda.
        Cosa mi è passato per la testa? si domandò all’infinito, mentre la vergogna cresceva rigogliosa e l’appesantiva sempre più. Giunse ad averne addosso una quantità abbastanza abbondante da tarpare le ali sia al coraggio, sia alla voglia di rivolgersi al Serpeverde per appianare le cose. Per un attimo, gli capitò persino di pensare che, quella volta, poteva averlo perso per davvero; considerato come aveva reagito quando aveva cercato di spiegargli la situazione, infatti, di certo non s’aspettava che fosse Malfoy a riprendere i contatti.
        Incredibilmente, però, andò proprio così.
 
 

        «Potter».
        Quel richiamo, pronunciato da una voce inconfondibile – volutamente strascicata e con un’irriproducibile nota di derisione –, lo colse impreparato mentre, insieme ad un silenziosissimo Ron, avanzava lungo un corridoio tra una lezione e l’altra. Per un attimo, quasi credette d’aver avuto una visione uditiva; ma no, aveva sentito benissimo. Alle sue spalle, infatti, convenientemente senza il classico stuolo di Serpeverde a far da contorno, c’era Draco Malfoy in tutto il suo splendore.
        Si fermò per voltarsi dalla sua parte e, nel farlo, gli parve di captare un borbottio contrariato di Weasley, che però passò totalmente in secondo piano.
        «Malfoy», soffiò.
        Quello tacque brevemente, scrutando con aria criptica gli studenti di passaggio. Quando poi tornò a fissare il Grifondoro, sul suo viso si fece spazio una vaga impronta di inquietudine, e gli occhi gli brillarono d’una luce strana. «Oserei dire che abbiamo un conto in sospeso, io e te», proferì.
        «Sì» fece Harry mestamente, per poi rettificare con più sicurezza: «». Non aveva idea del perché, ma l’altro gli stava offrendo l’occasione di rifarsi su un piatto d’argento e, a costo d’annegare nell’imbarazzo, si disse che l’avrebbe colta.
        Registrata tale partecipazione con un cenno del capo, Draco, in maniera piuttosto eloquente, fece saltare un paio di volte lo sguardo verso Weasley. Si soffermò sulla sua figura quel tanto che bastava per far comprendere anche al più lento di grifoni che voleva vederlo sparire.
        Ron s’accorse in fretta di non essere desiderato. E da parte di Malfoy, beh, se l’aspettava; ciò che lo sorprese e lo ferì fu che anche Harry lo guardò in quel modo. Incredulo, emise un versetto a metà tra lo sbuffo e il sospiro. «Oh, scusa. Vuoi― vuoi che vi lasci soli?» chiese all’amico, basito.
        Potter non fu capace di rispondere. Non che Weasley avesse bisogno di sentirglielo dire; aveva capito perfettamente cosa voleva già dalla sua faccia.
        «Sai cosa?» bofonchiò, offeso. «Va bene. Me ne vado. Corri pure dietro a Malfoy come al solito! E tieniti i tuoi segreti – non sto neanche a chiederti cosa cavolo hai in testa; tanto scommetto che non sono pronto ad ascoltarlo». Detto ciò, prese ad allontanarsi con aria stizzita.
        Harry si sentì opprimere dal senso di colpa, ma non riuscì proprio a trattenere Ron; la smorfia furba che esibì il Serpeverde, infatti, lo distrasse. «Cos’hai in mente?» gli chiese, appena avvilito.
        Draco non rispose. Con un gesto, però, gli fece capire che voleva che lo seguisse.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

Caos, rigetto, frustrazione e un principio d'accettazione; siamo più o meno sulla strada giusta. c': Comunque - oltre alla lotta interiore di Harry, c
iò che mi premeva di rendere bene, questa volta, erano le azioni/reazioni di Hermione e Ron. Spero possiate trovarle adeguate.
Mini appunto (magari superfluo): 
le motivazioni che hanno portato Draco a cambiare atteggiamento (e che forse potete già immaginare) saranno ovviamente esplicitate nel prossimo capitolo. :)

Mille grazie a tutti per aver letto sin qua! :*
A risentirci presto,
T. ♪
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Capitolo 20
*** 19. Le(t)ale come una serpe ***


19.
Letale come una serpe
 
 
 
        Che in principio, a seguito del folle ed insensato gesto che Potter aveva compiuto tra gli scaffali della biblioteca, Draco avesse provato un forte disgusto era incontestabile. Si era letteralmente sentito male, e un gran magone di ribrezzo s’era depositato sul suo petto. Erano state quelle brutte sensazioni, poi, a spingerlo a cercare di tener lontano il Grifondoro.

        Una reazione perfettamente comprensibile e univoca, la sua. O, almeno, questo lui aveva trovato opportuno ritenere – all’inizio. Col tempo, infatti, le cose erano cambiate. Nuove, apparentemente innocenti idee gli erano fiorite nella mente, e di pari passo al lento ma continuo cambiamento di quelle, s’era sviluppato un radicato dubbio.
        Magari, quello che aveva tenuto non era il solo atteggiamento che si confaceva alla situazione; magari il suo giudizio era stato affrettato. Sempre magari, accecato dall’impulso di dirsi schifato, aveva tralasciato o trattato con superficialità degli importanti dettagli. Sfaccettature. Chiavi di lettura.
        Una volta che la repulsione iniziale era scemata, s’era detto che , era andata proprio in quel modo: s’era lasciato sfuggire dei particolari oltremodo cruciali. Era “tornato indietro”, allora, e li aveva recuperati.
        Dopo un approssimato reset mentale, era ripartito dal fatto nudo e crudo: Harry Potter aveva cercato di― di fare quello (anche lui aveva qualche problema a rapportarsi con la parola con la B. Ovviamente non sapeva di non essere l’unico). Si era detto che non era essenziale dare un nome alla cosa; lo era solo considerare che Potter l’aveva fatta. E l’aveva fatta. Per davvero. Assurdo.
        Non perdersi nuovamente nei meandri del rigetto che ancora gli veniva spontaneo gli era costato non poca fatica. Comunque – aveva proseguito la propria ricerca; ricerca che s’era rivelata spaventosamente breve, perché era incappato subito in un gigantesco interrogativo. Uno che, beninteso, aveva già incrociato, ma mai come in quell’occasione gli parve spaventosamente risonante.
        Perché?
        Perché mai Potter aveva fatto una cosa del genere? Era stupidamente impulsivo, certo, ma santo Salazar! per azzardare una mossa come quella doveva necessariamente aver avuto una buona ragione.
        Draco non aveva neanche considerato la possibilità che si fosse trattato d’un inquietante, mal congegnato scherzo; Potter avrebbe reagito in maniera diversa se lo fosse stato. S’era quindi concentrato sulle motivazioni “serie” e, in tutta onestà, non s’era sentito affatto a proprio agio nel tirare in ballo quella che pareva essere la più ovvia. Questo, poiché di così ovvio, alla fine, quella ragione non aveva nulla.
        Le persone fanno quello che aveva fatto il Grifondoro quando sono interessate a qualcuno – almeno in generale. E Malfoy proprio non sapeva che farci con l’idea che Harry Potter potesse essere interessato a lui.
        Di primo acchito, aveva storto il naso reprimendo un brivido: s’era sentito come scottato dalla faccenda, ed aveva preso per un po’ le distanze mettendola da parte. Poi, però, erano entrati in gioco alcuni particolari elementi che avevano ribaltato tutto.
        Che la sua fosse la mente d’un soggetto quasi sempre pronto a prendersi gioco del prossimo non era un segreto. E a quella naturale tendenza, s’era sommata l’attrazione verso la prospettiva di avere, in qualche modo, potere sull’eroe del Mondo Magico – un potere che gli avrebbe concesso di tenerlo in pugno, esattamente come il Grifondoro aveva inconsapevolmente fatto con lui in quei mesi e, a voler essere sinceri, forse in tutti quegli anni. Di tali fattori, s’era nutrita una sibillina curiosità che aveva reso le sue orecchie sensibili al richiamo del proibito, e ben presto s’era ritrovato a volerne sapere di più. A voler scoprire se davvero e, in caso affermativo, sino a che punto di preciso s’estendeva la sua influenza su Potter.
        E magari era una cosa folle, ma a seguito d’un brevissimo periodo di esitazione, durante il quale aveva fatto del proprio meglio per riflettere e cercare di prevedere i possibili sviluppi, aveva deciso di farsi avanti, di osare. Alla prima occasione, quindi, s’era liberato dei compagni di Casa, svicolando in corridoi diversi da quelli che avrebbero percorso loro, e aveva dato spudoratamente la caccia a Harry.
        Considerato che sbarazzarsi di Weasley e convincere la sua preda a seguirlo era stato sorprendentemente semplice, s’era concesso d’ipotizzare che l’universo volesse supportarlo.
 
 

        Avanzando tra i vari gruppi di studenti diretti alle aule, Draco mantenne sempre alcuni metri di vantaggio sul Grifondoro. Di tanto in tanto, voltava appena il capo per controllarlo. Dal canto suo, Potter, che ancora non aveva ben chiaro cosa l’altro avesse intenzione di fare, rimase costantemente sull’attenti.
        Nel giro di uno o due minuti, raggiunsero una zona più o meno tranquilla del terzo piano. Una volta lì, Malfoy rallentò il passo e si fece pensieroso.
        «Dove stiamo andando?» gli chiese Harry, la fronte corrucciata.
        La risposta impiegò diversi secondi ad arrivare; il Serpeverde, infatti, combatté contro se stesso per decidere se replicare seriamente o intimargli di tacere e stargli dietro. «C’è un’aula inutilizzata qui vicino».
        «E cosa dobbiamo farci, in un’aula inutilizzata?»
        Sbuffò, «Seguimi e basta».
        Qualche altra decina di secondi, e Draco fu davanti alla porta che stava cercando. Si fece strada con un Alohomora.
        I cardini cigolarono appena, rivelando una stanza polverosa con alcuni vecchi banchi ammassati sulla destra, e diversi scaffali vuoti a sinistra. Non c’era molta luce; le finestre, infatti, erano state coperte con pesanti tende scure. Appese alle pareti ed ingiallite dal tempo, si trovavano quelle che a prima vista potevano sembrare cartine – erano praticamente illeggibili. Non che ai due ragazzi importasse qualcosa, in realtà; si limitarono, infatti, a sfruttare la privacy fornita dall’ambiente.
        Il Grifondoro entrò per secondo, tentennando il necessario – un senso del pericolo, in fondo, lo aveva ancora, per quanto ammaccato. Si curò di socchiudere la porta, ed avrebbe volentieri detto subito qualcosa, se solo l’altro non l’avesse battuto sul tempo.
        «Voglio sapere perché l’hai fatto», esordì per l’appunto Malfoy, andando dritto al punto e sforzandosi di sopprimere sul nascere la lieve ansia che l’aveva colto all’improvviso. «E non chiedermi a cosa mi riferisco, perché hai capito benissimo».
        Harry deglutì ringraziando la pessima illuminazione dell’aula, che rendeva la vergogna un po’ meno opprimente. «Uhm».
        Per alcuni istanti, ci fu silenzio. Il Serpeverde esalò un impercettibile sospiro e si morse debolmente una guancia, percependo crescere il desiderio di sapere e di porre mille altre domande. Non ne fece nessuna, però; un po’ perché non volle sbilanciarsi, e un po’ perché avere il battito accelerato lo distrasse. Non che avesse il batticuore – per carità –, ma comunque aveva un po’ troppo fermento in petto, ed era quasi del tutto sicuro di non doversi sentire così.
        «Non― non lo so», mormorò d’un tratto Potter.
        «Come sarebbe a dire che non lo sai?»
        «Non lo so e basta, d’accordo? È stato un incidente».
        «Un incidente? Davvero
        «Sì, davvero». Si passò una mano sul viso, poi bofonchiò: «Dimentichiamolo».
        Piccato, Draco strinse i pugni. «Non è facile dimenticare un incontro ravvicinato con la tua stupida faccia. È materiale da incubo, sai?»
        «Non è un ricordo divertente neanche per me, Malfoy». S’impegnò per mettere su un’espressione disgustata, resa appena meno tirata dalla penombra. «Senti― io vorrei― insomma, mi piacerebbe che tornassimo alla cosa di prima. Le prese in giro ogni tanto; quelle andavano bene. Ignoriamo il― hm, hai capito. Tanto non è successo niente».
        «Potter, hai cercato di infilarmi la lingua in gola. Questo, io non lo definirei niente. È qualcosa; qualcosa di piuttosto rivoltante, per altro».
        Harry morì un pochino dentro, in preda all’imbarazzo. «No», asserì, «non― la lingua, no. Merlino!»
        «Hai il coraggio di negare?»
        «Non sto negando».
        «Ah, no?»
        «Dico solo che esageri: la lingua non l’avrei infilata da nessuna parte». Stupendo persino se stesso, riuscì a darsi un certo tono e parlò con serietà e fermezza. «Non vorrei mai fare una cosa del genere con te».
        «Meno male che ne sei convinto!» ribatté Draco, sarcastico.
        «Ovviamente ne sono convinto».
        «Eppure siamo qui a parlarne».
        «Cosa vorresti dire?»
        «Secondo te?»
        Potter tentennò, messo a disagio dalla piega che il discorso stava prendendo. «Malfoy― no. Qualsiasi cosa tu stia pensando, toglitela dalla testa».
        «Certo». Roteò gli occhi, dopodiché, travolto da un prepotente fastidio, s’agitò brevemente sul posto: non si sentiva affatto tagliato per affrontare la situazione. Alla fine, cedette alla propria codardia e si mosse verso la porta. «Per oggi ne ho avuto abbastanza» commentò sottovoce.
        Il Grifondoro non trovò opportuna l’idea di trattenerlo. Chiese, però, con tono speranzoso: «Questione chiusa?» L’unica risposta che ottenne fu uno sguardo a metà tra l’arrabbiato e lo schifato, che si prese la libertà d’interpretare come un secco no.
 
 

        Dirigendosi, incurante del proprio ritardo, verso l’aula di Antiche Rune, il Serpeverde pestò i piedi a terra ad ogni passo, come se tanto potesse bastare per scaricare l’odio nei confronti del turbamento che l’aveva costretto a ritirarsi.
        Avrebbe dovuto torchiare Potter più a lungo, lo sapeva. Quella volta non c’era riuscito, ma si ripromise che presto o tardi avrebbe riprovato – ce n’era necessità. L’unico vero problema era mettere a punto la modalità d’azione.
 
 
* * *
 
 

        Il mese di Aprile iniziò con la pausa primaverile. Quasi nessuno lasciò Hogwarts; Harry e gli amici, per l’appunto, rimasero. Hermione, considerato che gli esami erano ormai “imminenti”, si mise in testa di frequentare assiduamente la biblioteca; stava proprio per dirigercisi durante il primo giorno di vacanza dalle lezioni, quando consigliò a Potter di approfittare del tempo che aveva per cercare di sistemare le cose con Ron. I due, infatti, a seguito dei vari bisticci, si erano un po’ allontanati. Weasley, in particolare, stava mantenendo le distanze.
        Harry, stanco della situazione, radunò la forza per affrontarlo e si fece avanti: gli si sedette accanto in Sala Comune, dopo che l’ebbe osservato vincere una partita di scacchi.
        «Ehi. Parliamo?» bisbigliò, non sapendo da dove cominciare.
        «Oh. Ora ne hai voglia?»
        Come inizio, non era molto promettente. «Ron, non fare così».
        «Scusa, Harry, ma ce l’ho ancora con te».
        «Me ne sono accorto».
        Sistemando pigramente i pezzi degli scacchi, Weasley evitò accuratamente d’incrociare lo sguardo dell’amico e tacque.
        «Mi dispiace per l’altro giorno. Per la storia di Malfoy, intendo. Io― io non so perché non ti ho fermato. Non volevo che te ne andassi» e forse quella era una piccola bugia, ma si concesse comunque di dirla. «È che lui― hm, io volevo―»
        «Harry», l’interruppe l’altro, per poi sussurrare tra sé e sé: «miseriaccia, questo è il problema». Sospirò. «Guarda che capisco. Il punto è che tu non capisci che io capisco, e soprattutto che per me è lo stesso. Non sai quanto mi fa arrabbiare».
        Potter aggrottò la fronte, perplesso.
        Dopo un attimo di silenzio, Ron vinse la propria riluttanza e tentò di spiegarsi meglio. «Io so cosa vuoi fare con Malfoy. Ne abbiamo parlato, e ti capisco», ribadì. «Siamo passati attraverso gli stessi brutti momenti. So cosa vuol dire― perdere le persone, così come lo sai tu. Nessuno di noi due vuole perderne altre». La sua voce s’era fatta grave, e s’impegnò tanto per non ingarbugliarsi nelle frasi. «Che Merlino mi fulmini se so perché non vuoi perdere proprio lui, ma, sai― te l’ho già detto. Sono dalla tua parte in ogni caso. Vedi? non pretendo che tu mi dica tutto. Ma le cose importanti – quelle sì. Voglio saperle. Invece tu mi dici bugie e mi nascondi dei segreti come se non ti fidassi. Parli con Hermione, ma non con me! Ma sono il tuo migliore amico. Forse― non so, te ne sei dimenticato. Corri dietro a quello snob che è Malfoy e ti dimentichi di me; e non sto dicendo che non devi prendertela con lui, se questo è quello che vuoi fare. Però non puoi cercare persone del genere, ignorando quelle che sono qui. Io sono qui, Harry. E non mi piace come mi tratti ultimamente».
        Potter non poté che raccogliersi in riflessione per un po’. «Non volevo offenderti. E anche se non ti dico certe cose, non significa che non mi fido di te».
        «Nei sei sicuro?» Con quella domanda, quasi volle sfidarlo.
        «, ne sono sicuro. Poi – magari, se me ne dai il tempo, un giorno ti dirò quello che vuoi sapere».
        «Magari non aspetterò per sempre. Magari mi stancherò e ci allontaneremo». Più d’ogni altra cosa, insomma, temeva di perdere l’amico di una vita, e proprio non riusciva a capire come il diretto interessato non fosse capace di rendersene conto. «Magari non dovresti darmi per scontato». Dopo aver mugugnato quelle ultime parole, chiaramente in subbuglio, si alzò e s’avviò sgraziatamente verso le scale del dormitorio.
        Tentando di reprimere la nascita d’una punta d’irritazione, che sicuramente si sarebbe evoluta in risentimento, Harry prese un respiro profondo. Pensò che probabilmente Weasley aveva bisogno di qualche altro giorno per sbollire, e si disse che gli avrebbe lasciato tutto il tempo che voleva – in fondo, sfogarsi e riflettere prima di discutere ancora avrebbe fatto comodo anche a lui.
 
 

        La situazione virò verso una piega decisamente scomoda nel momento in cui, per via di quella faccenda, Ron litigò con Hermione, che s’era trovata ingiustamente presa nel mezzo. Il giorno in cui accadde, Potter, sentendosi in colpa, decise di far compagnia all’amica in biblioteca.
        «Si è arrabbiato con me perché dice che prendo troppo le tue difese. Non vuole capire che quando sono con te prendo le sue, che lo faccio per aiutarvi!» si sfogò lei durante una pausa dallo studio, per poi sospirare amaramente. «Dovete darvi una mossa a chiarire».
        «Mi spiace che se la sia presa con te. Io ci ho provato, a far la mia parte».
        Hermione scosse il capo e fece un debole cenno con una mano, lasciando perfettamente a intendere che non aveva alcuna voglia di ascoltare le arringhe difensive di nessuno. «Cambiamo argomento». Fissò gli occhi sull’amico e, pur restando seria, pian piano lasciò svanire l’acidità dalla propria espressione. «Come va con la storia del― baciare un ragazzo?» Per terminare la frase, ridusse la voce a un sussurro.
        Harry, colto alla sprovvista, arrossì e abbassò lo sguardo, passandosi una mano tra i capelli con aria tesa. «Uhm. Io―» deglutì, «ci sto pensando. Va un po’ meglio di prima, credo». Quello, soprattutto perché Malfoy si era rivolto a lui, dandogli modo di sperare che tra loro non fosse tutto sfumato. Ma di certo non lo precisò.
        Lei gli rivolse un’occhiata indagatrice. «Quindi ora sei pronto a dirmi chi è il fortunato?»
        Quasi tossì, «No».
        Per avergli ricordato nuovamente delle sue poco felici gesta, lui un pochino la detestò. Non volle darlo a vedere, però, perciò tornò a studiacchiare; peccato che ormai avesse perso ogni forma di serietà e di concentrazione.
        Dopo più di dieci minuti passati a divagare col pensiero e a fissare un paragrafo senza mai nella lettura andar oltre la seconda riga, si arrese e chiuse i libri sbuffando.
        «Già finito?» l’interrogò Hermione.
        «No, ma per oggi basta così, non ce la faccio più. Riprenderò domani».
        «Non procrastinare, Harry James Potter».
        «Penso che invece lo farò», ribatté scherzando – ma non troppo – lui, mentre s’alzava dalla sedia e recuperava le proprie cose. «Vado a fare un giro. Ci vediamo dopo».
        E se con quel gesto sperava di liberarsi della bufera di pensieri che gli imperversava in testa, o perlomeno di placarla, dovette presto disilludersi. Molto presto: non fece neanche in tempo ad uscire dalla biblioteca. Ad appena due passi dalla porta, infatti, ebbe un faccia a faccia con la personificazione di quella che sembrava a tutti gli effetti una presa in giro dell’universo: Draco Malfoy.
        Qualcosa nel petto di Harry si contrasse. Fece del proprio meglio per restare impassibile, ma dall’espressione che il Serpeverde mise su capì di non aver fatto un buon lavoro.
        Sfilandogli di fronte, Malfoy rallentò l’andatura per scrutarlo. Per un attimo parve intenzionato a dir qualcosa, ma in principio tacque; c’erano già diversi metri tra loro, quando superò le proprie incertezze e parlò: «Guarda dove metti i piedi. Potresti inciampare e cadere addosso a qualcuno». Senza aggiungere altro, si voltò e filò via.
        E forse fu perché la sua mente era già invasa da quelle idee, ma Harry ebbe la netta sensazione che la frecciatina facesse riferimento ad un certo episodio in cui qualcuno era inciampato avvicinandosi troppo a qualcun altro. Varcando la porta, decise di dargli il beneficio del dubbio.
 
 

        Ma non avrebbe dovuto: si sarebbe dovuto fidare sin dal principio del proprio intuito, perché Malfoy s’era a tutti gli effetti riferito a quella faccenda, e non si sarebbe fermato lì.
        S’incontrarono nuovamente sul campo di Quidditch un paio di giorni più tardi.
        A trascinare sin lì Potter era stata Ginny Weasley, che s’era adoperata per radunare chi della loro squadra era rimasto ad Hogwarts durante le brevi vacanze. Ai giocatori, s’erano aggregate anche alcune altre persone che erano semplicemente in vena di fare una partita.
        Con un po’ di sano sport, la ragazza sperava di rendere più semplice la riconciliazione tra il fratello e il suo migliore amico. Tutto sarebbe potuto andare per il meglio, se solo sul campo i rosso-oro non si fossero scontrati con un gruppo di Serpeverde che insisteva nel sostenere d’aver prenotato lo spazio. Tra questi, figurava anche Malfoy.
        Era scoppiata una rumorosa discussione; qualcuno aveva proposto di giocare un’amichevole tra le due Case, ma i verde-argento s’erano insensatamente impuntati nel rifiuto di voler condividere il campo.
        «Avete solo paura di perdere», aveva proferito una voce tra le fila dei Grifondoro.
        «Di perdere tempo, certo», ribatté un componente dell’altro schieramento.
        Ad un certo punto, scocciato, Draco prese le distanze dai compagni: pur di scaricare un po’ di stress, era pronto a montare sulla scopa a dispetto di tutti. Harry, d’impulso, gli fu subito dietro.
        Ron, ancora impegnato a far valere le proprie opinioni nella battaglia verbale contro le serpi, s’accorse della sparizione dell’amico. Pur sentendosi stringere lo stomaco, si sforzò di non darci peso.
        «Non credevo ti piacesse rifiutare le sfide» buttò lì Potter, alludendo alla partita amichevole.
        Malfoy lo fulminò. L’idea di tirarsi indietro non gli andava molto a genio, certo, ma comunque non si sentiva stimolato a mettersi in gioco; durante la discussione, infatti, Ginny Weasley s’era fatta avanti come cercatrice per i rosso-oro, perciò, in caso, in quello scontro avrebbe dovuto vedersela con lei. La prospettiva non gli trasmetteva chissà quale adrenalina – preferiva rivaleggiare con qualcun altro. Ma di certo non si sarebbe messo a spiegare quelle questioni all’imbecille che aveva alle calcagna; imbecille che, dopo alcuni istanti di silenzio, prese nuovamente parola.
        «Mi stupisci».
        Col rancore annidato nel cuore, il Serpeverde lasciò galoppare a briglie sciolte la lingua. «Beh, fino a qualche giorno fa io non pensavo fossi un pericolo anche per il genere maschile, e invece: eccoci qui. Chi pensi sia più stupito?»
        Harry s’irrigidì e sbarrò gli occhi; si sciolse solo quando appurò che nessuno, a parte lui, aveva sentito. Per un attimo tentennò, dopodiché raggiunse l’altro e gli si piazzò davanti, impegnandosi per soffocare la vergogna. «Ti avevo detto di dimenticare quella storia».
        «Non mi pare di aver promesso che l’avrei fatto».
        Strinse i pugni. «Avevi detto che non ne avresti parlato in giro, però».
        «Magari ho cambiato idea».
        Potter, arrabbiandosi, mugugnò tra sé e sé e affilò lo sguardo. «Senti― non sono un pericolo per il genere maschile, chiaro?»
        «Mi perdonerai se faccio fatica a crederti».
        «È stato un incidente; nulla più! Io non voglio―» si bloccò momentaneamente, mordendosi la lingua prima di attingere a piene mani dalla propria riserva di coraggio. «Non voglio baciarti. Né te, né nessun altro». 
        Dopo tanta attesa, la parola con la B aleggiava tra loro. Sentendosi a disagio, Draco accartocciò l’espressione.
        Per scacciare l’improvvisa atmosfera tesa e imbarazzata, e anche per far passare in secondo piano il rossore che gli aveva tinto il viso, Harry riprese a borbottare: «Qual è il tuo problema, comunque? Sei una specie di omofobo?»
        «No». Piccato, Malfoy storse il naso e, in vena di teatrali esagerazioni, asserì, con tono contenuto e fermo: «Credevo fosse evidente che il mio problema sei tu. Mi disgusti, Potter».
        Quello aggrottò la fronte, concedendosi un paio di secondi di riflessione. «Se non fossi stato io non saresti comunque disgustato?»
        A tanto così dal replicare con un deciso No, l’altro venne assalito da uno strano dubbio, e lentamente assottigliò gli occhi con aria minacciosa. «Cosa stai insinuando?» sibilò.
        Harry, perplesso, alzò appena le spalle; aveva insinuato qualcosa? Non se n’era reso conto. Prima che potesse difendersi, però, Draco ricominciò a parlare.
        «Tu hai cercato di― di―» La parola con la B non voleva decidersi ad uscire dalle sue labbra; la spinse fuori con le cattive, allora, perché il Grifondoro era stato capace di gestirla, e lui non voleva essere da meno: «di baciare me, e poi osi anche mettere in dubbio la mia sessualità? Ma che cazzo, Potter» imprecò piattamente, basito.
        Quasi spaesato, l’altro dischiuse la bocca senza saper bene come ribattere. «Ehm. Non ho―» iniziò a bofonchiare, ma venne interrotto.
        «Non faccio il filo ai ragazzi, chiaro?» Sulle note di quella dura affermazione che s’era sentito quasi in dovere di pronunciare, Malfoy scorse negli occhi del grifone, e più in generale sul suo volto, un’indefinita scintilla. Di primo acchito, non seppe descriverla. Pian piano, poi, si convinse d’identificarla come un sintomo di curiosità.
        Per una manciata di secondi, rimasero entrambi in silenzio.
        Draco si ripeté più volte che bastava così, che doveva star zitto; non voleva assolutamente cedere al prurito mentale che stava cercando di spingerlo ad esporsi. Ma si trattava d’un prurito molto seducente, e gli bisbigliava nelle orecchie con una tale morbidezza da rendere la tentazione impossibile da rinnegare.
        Finì con l’abbandonarsi ad essa, dunque. S’aprì così in un mezza smorfia seria e, accantonando il nervosismo e ignorando l’accelerazione del proprio battito, si preparò a tastare astutamente il terreno.
        «Non faccio il filo neanche alle ragazze» sussurrò, calibrato.
        Ottenne esattamente il risultato sperato: Harry, infatti, scattò più sull’attenti di quanto già non fosse. Pur non capendo dove il Serpeverde volesse andare a parare, era intrigato, e non fu assolutamente in grado di mascherarlo.
        L’altro se ne compiacque. «Non ha neanche senso fare distinzioni; tanto, siete a priori tutti troppo idioti per avere a che fare con me», proseguì, ambiguo.
        «Malfoy!» chiamò proprio in quel momento una voce in lontananza. «Sbrigati, abbiamo una partita da vincere!»
        Si trattava d’uno dei giocatori della squadra di Quidditch dei verde-argento. Era a cavallo di una scopa, in volo sopra le loro teste. A quanto pareva, alla fine gli altri avevano trovato un accordo, e l’amichevole si sarebbe disputata.
        Poco male, si disse Draco. Saltando sul manico lanciò un’ultima occhiata a Potter, che lo scrutava quasi inebetito. Prese poi quota, sentendo di colpo il pressante bisogno d’allontanarsi da lui.
        Osando forse sin troppo, aveva lanciato un’esca. Non sapeva come sentirsi a riguardo. Comunque, ormai non gli restava che aspettare per scoprire se l’altro avrebbe abboccato.
 
 
» …


 
Angolo di Tormenta

Ho riletto e limato questo capitolo così tante volte che ormai lo odio. c':
Mi premeva, per quel che riguarda le incomprensioni tra Potter e Weasley, di lasciar intendere che Ron ha motivi validi per arrabbiarsi. Spero che il suo sfogo sia quantomeno decente. Poi, ovviamente, tenevo a 
rendere credibile l'evoluzione dell'approccio di Draco alla vicenda in corso - è più aperto di quanto vi aspettavate? Meno? Se vi va, fatemi sapere che ne pensate. :)

Mille e mille grazie per aver letto, seguito, preferito, ricordato, commentato sin qui. Love you all! ♥
Baci,
T. ♪
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Capitolo 21
*** 20. Gesta ero(t)iche ***


20.
Gesta erotiche
 
 
 
        Dopo tutte le complicazioni che c’erano state nel rapporto con Malfoy, Harry s’era convinto d’aver toccato il fondo, che peggio di così proprio non potesse andare. Ma s’era sbagliato.

        Lo intuì nell’esatto istante in cui il Serpeverde, nel campo di Quidditch, salì a cavallo della scopa per prendere parte all’amichevole tra le loro Case. Proprio in quel momento, infatti, si scambiarono un’occhiata a dir poco significativa.
        Che la loro conversazione l’avesse lasciato disorientato, era palese. Il punto, era che Draco gli era parso consapevole – come se avesse intenzionalmente detto qualcosa di compromettente per provocarlo. E quello sguardo, per lui, valse come conferma.
        Subito, si disse che non gliel’avrebbe data vinta; che avrebbe ignorato il suo tentativo di spingerlo a fare un passo falso. Si sforzò per restare inespressivo, allora, e soprattutto per non pensare alle parole dell’altro. Grazie ad un tale spirito, e anche distraendosi con gli altri Grifondoro che non erano scesi in campo – questo, poiché erano in sovrannumero –, poté tenersi lontano dai guai. Almeno, sinché la partita durò. Cioè non per molto, considerato che poco dopo l’inizio del gioco di botto cominciò a piovere a catinelle.
        Senza vincitori né vinti, furono costretti a rientrare. Mentre cercavano riparo dall’acqua che scendeva a secchiate, Harry si ripeté ancora che poteva resistere al richiamo delle calamità, e che se Malfoy voleva farlo cadere in trappola per continuare a prenderlo in giro per la storia del bacio, si sarebbe dovuto impegnare di più di così.
 
 

        Ma in realtà s’era impegnato abbastanza. Quella sera, infatti, pur avendo resistito quasi mezza giornata, Potter capitolò: mentre era disteso sul letto in attesa che arrivasse il sonno, la curiosità ebbe la meglio su di lui, e lo trascinò nei profondi meandri di argomenti che lui aveva molto ingenuamente pensato di poter evitare.
        Mosse i primi passi in tali ambiti con estrema cautela, barricandosi dietro alla mera volontà di capire; e se c’erano delle cose che non gli erano chiare, si trattava senza ombra di dubbio delle ultime parole che Draco gli aveva rivolto.
        “Non faccio il filo ai ragazzi” aveva detto; e fin lì, non c’era nulla di anomalo. Da “Non faccio il filo neanche alle ragazze”, però, la questione si faceva un po’ confusa, sino a culminare con l’enorme punto interrogativo che era l’affermazione: “Non ha neanche senso fare distinzioni”.
        Secondo l’interpretazione meno fantasiosa, quelle frasi potevano essere semplicemente lette come un’esagerazione metaforica atta ad indicare che in quel momento Malfoy non era interessato a fare il filo proprio a nessuno. Da lui, in effetti, ci si poteva anche aspettare la lieve misantropia che pareva celarsi dietro alle parole: “Siete a priori tutti troppo idioti per avere a che fare con me”. Si trattava di una teoria sensata, dunque – tuttavia, Harry non trovò modo di dirsene soddisfatto. La faccia che il Serpeverde aveva messo su, infatti, così come il modo in cui l’aveva guardato, suggerivano tutt’un’altra storia, qualcosa di meno scontato. E magari era assurdo, ma la sua mente si settò comunque su una particolare idea che non poté reprimere – un’ipotesi quasi costruita ad hoc, di comodo per il suo inconscio. Insomma, lesse nelle parole di Draco i sottintesi che lui stesso, senza rendersene del conto, scelse di trovarvi.
        Se “Non ha senso fare distinzioni”, perché “tanto, siete a priori tutti troppo idioti”, allora c’era la possibilità che―
        Malfoy, con i maschi.
        Quel pensiero lo investì con la forza di un esercito, lasciandolo scioccato ed irrigidito. Come a cercare di sfuggirgli, si rigirò di scatto sotto le coperte; poi, maledicendosi, forzò l’interruzione della scia di ragionamenti intrapresa.
 
 

        Nei giorni successivi, fu capace d’evitare di cadere in trappola solo perché, grazie all’assenza di lezioni, finì col restare piuttosto distante dal Serpeverde, e non vederlo rese più semplice il non pensare a lui. Tenerlo lontano, tuttavia, lo rese insoddisfatto. Nel momento in cui le vacanze terminarono e la routine scolastica fu ripristinata, quindi, non seppe se sentirsi più timoroso o impaziente.
        Quando si ritrovò nella sua stessa aula – quella di Pozioni – per la loro prima lezione condivisa, finì con l’agitarsi; esattamente come aveva temuto, infatti, la presenza di Draco negli immediati dintorni scoperchiò con violenza il suo vaso di Pandora. In un battito di ciglia, brandelli d'idee e frasi troncate, trattenuti sin troppo a lungo, gli affollarono prepotentemente la mente, prendendone possesso.
        Malfoy con un ragazzo.
        Era un concetto pazzamente campato per aria, eppure al contempo dannatamente concreto. Gli faceva un effetto che non sarebbe riuscito a descrivere.
        Aveva impiegato giorni e giorni per metabolizzare il fatto che il suo vecchio rivale poteva imboscarsi in luoghi appartati con le ragazze, che con loro poteva fare cose, e ancora non riusciva comunque a dipingersi la scena in testa. Quindi forse era una crudeltà del destino che, invece, l’immagine del Serpeverde insieme ad un maschio gli risultasse tanto banale da creare; al punto che se la ritrovò davanti agli occhi in mille versioni, con mille diverse prospettive e mille diversi sfondi.
        Vide Draco baciare, e stringersi a persone – ombre sfocate, in contrasto con la nitidezza della sua figura –, e lo vide anche toccare e affondare le unghie, e scorse le sue dita intrecciarsi ad altre ed immergersi tra i capelli e Merlino santissimo, da quando la sua fantasia era diventata tanto fervida? Non trovò risposta, impegnato com’era a naufragare tra i mille Malfoy a cui aveva dato vita, e tra le loro mille bocche impegnate in quelle che parevano dilettevoli attività.
        Notò labbra rosse – un rosso pieno e lucido, e poi fu costretto a deglutire, perché l’ennesimo sbuffo ispirato della sua di colpo creativa mente abbozzò un pensiero da brivido.
        In quanti posti potevano posarsi, quelle labbra?
        Si sentì come chi si pente quando ormai è troppo tardi d’essere salito su una giostra: voleva scendere dal treno, e la sua parte razionale era tutta un no no no fermatemi, ma il meccanismo era stato azionato e non c’era più nulla che potesse fare per salvarsi.
        Piombò impotente tra mille altri scenari, dunque. Fu il turno di baci dati sulle guance, sul collo, sulle spalle e sul petto e sta scendendo troppo in fretta – ed era così: scendeva. Baci sulle mani e sulla pancia, sotto l’ombelico e―
        «Harry, il calderone!»
        La voce di Neville lo fece letteralmente sussultare. Da un momento all’altro, fu pervaso da sensazioni che erano sin lì passate in secondo piano: scoprì d’avere le mani orribilmente sudate, la bocca secca e un ritmo di tamburi nel petto; per non parlare del calore che si sentiva sul viso. Se non altro, si disse, l’allagamento di immagini che gli aveva messo sottosopra la testa era stato arginato. Tirò un mezzo sospiro di sollievo.
        «Fa’ qualcosa, prima che esploda!» insisté Paciock, con tono preoccupato.
        Solo a quel punto Potter fece cadere lo sguardo sul proprio banco, ritrovandovi il calderone fumante. Al suo interno, ribolliva con sin troppo vigore un intruglio verdastro, denso e chiaramente da buttare, che con buona probabilità era a tanto così dallo scoppiargli in faccia.
        Cercò di arginare i danni. Riuscì ad evitare il peggio, ma fu comunque costretto ad affrontare un’occhiata delusa di Lumacorno, che sottrasse una manciata di punti a Grifondoro e gli intimò di restare concentrato e di ricominciare da capo la preparazione della pozione.
        Quando spostò gli occhi dal professore, gli capitò di cadere nel campo gravitazionale di uno sguardo di Malfoy. Si ritrovò così faccia a faccia non solo con lui, ma anche e soprattutto col falso ricordo di labbra rosse, e avvampò. Prima di fare figuracce di sorta, si risolse di chinare di scatto la testa; peccato che a volte non si può scappare. La vergogna che cercò di risparmiarsi in quel momento, infatti, trovò comunque modo d’arrivare a lui, e lo fece alla fine della lezione.
        «Temperatura troppo alta, Potter?» lo schernì Draco mentre gli sfilava accanto per uscire dall’aula.
        Mentre il suo orgoglio si ripiegava dolorosamente su se stesso, Harry fu costretto ad affrontare una nuova ondata d’imbarazzo e la memoria dell’acceso rossore che, sicuramente, era fiorito sul suo viso poco prima. Per non lasciarsi sopraffare, affondò i denti in una guancia. «Qual è il tuo gioco, Malfoy?» sbottò poi, ottenendo di far arrestare il Serpeverde.
        «Gioco?» ripeté quello, ghignando con naturalezza. «Nessun gioco. Solo la tua solita incompetenza in Pozioni». Accennò col capo al banco del Grifondoro, su cui giaceva ciò che era rimasto dell’intruglio venuto male, dopodiché riprese ad allontanarsi e svoltò nel corridoio.
        L’altro, riprendendo a radunare le proprie cose, non poté che incassare il colpo e serrare la mascella.
 
 
* * *
 
 

        Hermione e Ron avevano ancora delle questioni da appianare. Harry, di certo, non voleva mettersi in mezzo; per questo, quando i due sparirono dalla circolazione per un pomeriggio, lui non stette neanche a chiedere come l’avrebbero speso. Piuttosto, pensò bene d’approfittarne per distrarsi un po’.
        Decise di andare da Hagrid: sperava di poter passare del tempo in allegria, così da alleviare i postumi della confusione e della pesantezza di quei giorni.
        Quando era ormai a pochi passi dalla capanna del Guardiacaccia, accadde qualcosa d’inaspettato: vide uscire dalla porta un uomo, che riconobbe immediatamente come il professor Holmwood, seguito a ruota dal Mezzogigante.
        «Potter» fece lievemente perplesso l’insegnante di Difesa, notando lo studente.
        «Buon pomeriggio, professore» ricambiò il saluto quello, esitando appena.
        «Oh, Harry!» lo chiamò spontaneo Hagrid, sorridendo sotto alla folta barba.
        Holmwood spostò per un paio di volte lo sguardo dal ragazzo al collega e viceversa, poi asserì: «Io tolgo il disturbo. Buon proseguimento».
        «Hm, buon pomeriggio», si ripeté Harry, osservando l’insegnante allontanarsi.
        «Vieni. Rientriamo», propose il Guardiacaccia una volta che furono soli.
        «Lui―» cominciò a dire il Grifondoro, confuso, «viene qui spesso?»
        «No. Solo ogni tanto, per chiedermi qualche consiglio per la cura della sua Gontallantula».
        «Ma―» insistette Potter, non sapendo bene come esprimersi.
        «Cosa?»
        «Lui è, insomma, pulito? Per davvero?»
        «Sì, Harry. Ve l’avevo detto. Non devi preoccuparti».
 
 

        Quella sera, il racconto sull’accaduto che il ragazzo fece agli amici scatenò un certo scalpore. Tra le incomprensioni e i litigi che c’erano stati tra loro, infatti, avevano accantonato la questione del professore di Difesa da un po’; non ne parlavano più e persino Hermione, dopo essere giunta ad un vicolo cieco, aveva abbandonato le ricerche. Tornare in argomento, dunque, li scosse. Quasi in senso positivo – in fondo, era passato del tempo e nulla di brutto era accaduto.
        «Dovrei davvero credere che è tutto a posto?» indagò Weasley, scettico.
        «A quanto pare», soffiò Harry.
        Hermione, incrociando le braccia, scelse di non si lasciarsi abbindolare. «Io continuo a non fidarmi».
 
 

        A partire dalla successiva lezione di Difesa contro le Arti Oscure, ricominciarono – non che avessero mai veramente smesso – a scrutare Holmwood. A dispetto del rigetto che provano nei confronti di nuovi potenziali pericoli, infatti, l’istinto suggerì loro di non abbassare completamente la guardia.
        Quella ritrovata preoccupazione non fu l’unico guaio nell’aria – almeno non per Potter. La lezione, infatti, era condivisa per sua immensa fortuna con gli studenti di Serpeverde, e Draco Malfoy era in agguato.
        Se lo ritrovò attorno durante le esercitazioni pratiche, e l’ancora più che vivido ricordo dei propri vaneggiamenti lo rese teso e lo spinse a restare sul chi va là. Quando poi si sentì rivolgere un paio di affilate e sussurrate parole, praticamente contrasse ogni muscolo scattando sulla difensiva.
        «Sembri distratto».
        Il Serpeverde lo scrutava con aria di superiorità, e lui sbuffò. «Tu mi distrai» scandì – per poi subito pentirsene. «Non in quel senso», aggiunse quindi frettolosamente; la sua intenzione era intendere che a distrarlo erano le battutine durante la lezione, ma ebbe il timore di non essersi spiegato per bene.
        Con fare innocente, Draco inarcò un sopracciglio. «Quale senso?»
        Osservato da tutt’una serie di compagni di Casa e di serpi, Harry mugugnò tra sé e sé e scelse saggiamente di tacere.
        Malfoy, insospettito ed incuriosito, schioccò la lingua. «Dovresti stare attento a dove punti la bacchetta. Potresti essere un pericolo, combinar danni» mormorò, la voce lievemente tremante.
        E Potter sapeva essere paziente, se voleva, ma cavolo ogni dannata parola gli risuonò nelle orecchie come un terrificante doppio senso, fomentando la vergogna che aveva dentro e il pizzicore sulle guance. «Smetti d’incasinarmi!» sbottò a disagio, per poi prendere quanto più poté le distanze.
        Vagamente insuperbito, Malfoy s’aprì in un sogghigno.
        «Cos’ha?» domandò sottovoce Pansy Parkinson, ficcanasando.
        «Non lo so».
        E davvero non lo sapeva. Sospettava d’aver innescato in lui qualche peculiare reazione e, doveva ammetterlo, era ciò che aveva desiderato. Ma gli pareva d’aver ottenuto un risultato sin troppo buono: di certo, non voleva che quel poco che rimaneva della materia grigia di Potter desse forfait per colpa sua.
        Che poi, seriamente a quell’imbecille bastava tanto poco per dare di matto? Aveva così tanto potere su di lui?
        Uno strano vuoto gli attanagliò lo stomaco. Non riuscì ad analizzarlo, né tantomeno a cercare una risposta al quesito che s’era posto.
 
 

        Nessuno era nella posizione di criticarlo per la sua incapacità. Insomma, Harry stesso aveva totalmente perso di vista la misura del caos che Draco aveva instillato in lui. Tuttavia, presto un rilevante indizio gliene suggerì le dimensioni.
        Capitò una notte, in principio lievemente tormentata come tutte le altre. Era già piombato in un sonno pesante, quando dal nulla un familiare prurito diffuso un po’ ovunque risvegliò la sua attenzione.
        Dapprima, ci fu solo il buio. Poi, una scintilla, uno scossone e un istante di disorientata perplessità più tardi, scorse Malfoy avvinghiato ad una sagoma, ed esponenzialmente nel tempo la scena divenne più nitida e dettagliata – vide più respiri affogare in baci, mani che stringevano e scorrevano, capelli tirati e attraversati da dita affusolate. E la parte più pazzesca di tutte fu che percepì ognuna di quelle cose in prima persona, sebbene gli sembrasse d’essere nulla più d’un estraneo osservatore; vibrò in balìa dei tocchi che gl’infiammarono la pelle, e per un attimo si sentì quasi cadere. Qualcosa prese a ribollirgli in pancia, trasmettendogli un gran senso di potere e di debolezza insieme.
        Di colpo, poi, cominciò ad udire suoni lontani ed ovattati, rumori leggeri che parevano farsi sempre più vicini.
        Sospiri. Sbuffi. Mugolii.
        Si sentì sciogliere, e iniziò ad avere molto, molto caldo. E a rendere il tutto ancora più forte, più stretto, più magnetico, ci pensò Draco, il quale, dritto davanti a lui, tenendo la testa poggiata su una spalla dell’ombra che gli faceva compagnia, gli scoccò uno sguardo a dir poco penetrante.
        Harry non poté che restare incatenato a quell’occhiata – un’occhiata tale e quale a quella furba ed insinuante che Malfoy gli aveva lanciato sul campo di Quidditch.
        Non ebbe modo di reagire. Era costretto a guardare, e ad ardere nel mentre. Guardò, quindi, e vide sempre meno vestiti e sempre più pelle; notò baci sul collo e sul viso e percepì ognuna delle scosse che ad essi s’accompagnarono.
        Il cuore gli esplodeva nelle orecchie ad ogni battito. Credette d’essere sul punto di sentirselo esplodere anche in petto, quando s’accorse che la figura del Serpeverde, che ancora non aveva distolto neanche per un istante gli occhi dai suoi, s’abbassava sempre più – si stava inginocchiando, e seppe che era per fare cose con la bocca, con la lingua. Draco Malfoy non sembrava per nulla il tipo di persona che s’inginocchiava, e forse fu anche per questo che quella visione gli parve la cosa più sconcia, più scioccante e più bollente dell’universo.
        Fu con quell’immagine marchiata a fuoco nella mente che, senza preavviso, venne strappato dal mondo dei sogni per essere catapultato nella sua stanza nei dormitori. Sobbalzò sul letto e, inspirando affamato d’aria, si riscoprì sudato ed in fibrillazione. Immerso nell’oscurità, poi, s’irrigidì ed artigliò le coperte.
        No, sentenziò il suo offuscato lato razionale, incredulo. Non è appena successo. Ma sì, era appena successo – la sua psiche aveva plasmato proprio quello scenario.
        S’accorse di star tremando, e di botto assunse rilievo la poderosa, avvolgente sensazione che aveva già preso una qual certa consistenza tra le sue gambe, e che minacciava di rendere la situazione ancor più… dura. Strizzò gli occhi e affondò i denti nelle guance e No, non provarci neanche, si disse.
        Gattini tristi. La McGranitt in biancheria intima. La McGranitt con gattini tristi al posto della biancheria intima.
        Prese un profondissimo respiro, poi un altro e un altro ancora e, forse grazie ad un miracolo, trovò il modo di riprendere controllo su se stesso e di far scemare la libido. Per una tale impresa, si fece sfacciatamente i complimenti da solo – avrebbe sfidato chiunque a resistere come aveva fatto lui dopo aver visto Malfoy che, per tutti gli dèi del cielo, s’inginocchiava.
        Tornando su quel pensiero, vacillò e sentì l’impellente bisogno d’alzarsi per sciacquarsi la faccia con acqua fredda. Anzi, gelida.
        Fece un salto al bagno, dunque, per poi tornare a malincuore a letto. Seduto sul materasso, dovette fare i conti con un’enorme ondata d’agitazione.
        A lui non piacevano i ragazzi. O, almeno, non gli erano mai piaciuti. Draco Malfoy, poi, era per l’appunto Draco Malfoy, ancor prima d’essere un ragazzo, perciò cosa cavolo mi prende? si chiese, scivolando sotto alle coperte per poi portarsele sin sopra al naso.
        Non fu in grado di racimolare abbastanza brandelli di senno per mettere insieme una capacità di giudizio funzionante. Rimase disteso in silenzio, allora, passando da un’espressione sconvolta all’altra.
        Aveva paura. E spezzoni del sogno di poco prima si ripetevano all’infinito nella sua testa senza che potesse fermarli; senza che volesse fermarli.
        Non era attratto da lui. Sapeva di non esserlo – o, almeno, di non esserlo nel senso tradizionale del termine. Si sentiva più che altro incastrato, invischiato, curioso in modo malsano, incendiato e bruciante; la sua era come una perversione. Il solo concetto lo fece rabbrividire, e non volle credere d’essere sul serio colpevole.
        In un imprecisato momento, tra l’ennesimo inutile tentativo di mantenere la calma e il successivo, capì tutto quello che c’era da capire: Sono fottuto.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Holmwood ricompare brevemente per ricordarci che è ancora in giro, ma chi si ferma a pensarci quando c’è Draco che s’inginocchia? c’: …A parte gli scherzi – non perdete la speranza, i nodi legati al professore verranno al pettine. Prima o poi.

Mi sono divertita un mondo a scrivere questo capitolo; spero vi sia piaciuto, e che la definitiva dipartita dell'ingenuità di Harry non sembri eccessiva. :)
Grazie un milione a tutti quanti! ♥ A presto,
T. ♪
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Capitolo 22
*** 21. Vari(abili) gradi d'impulsività ***


21.
Variabili gradi d’impulsività
 
 
 
        Di indizi sul bizzarro comportamento di Potter – diventato improvvisamente molto suscettibile –, Draco Malfoy ne raccolse parecchi: gli sguardi strani, l’apparente imbarazzo, la tendenza a borbottare frasi prive di senso quando gli era attorno. Dall’analisi di quei fatti, giunse dritto alla conclusione che senza ombra di dubbio la sua persona sfiorava qualcuna delle corde di quell’imbecille.

        Era un’idea che non smetteva d’essere rinvigorente, perché gli dava potere, ma un lato di lui sviluppò un’intolleranza e cominciò a faticare a digerirla.
        Aveva provocato il Grifondoro – specialmente giocando con le parole sul campo di Quidditch –, e l’aveva anche punzecchiato e un po’ sfottuto, ma non riusciva proprio a convincersi d’aver fatto abbastanza per ridurlo in quello stato. Dovevano necessariamente esserci altre ragioni.
        Nella sua mente gironzolava un’interpretazione.
        Era dal bacio che combatteva contro la destabilizzante idea di un Harry Potter a tutti gli effetti interessato a lui, e qualcosa gli stava suggerendo di rivedere la questione, di darle più rilevanza. Ma il tutto era ancora ingessato sotto gli strati d’un po’ troppo incallito scetticismo, che s’ostinava a vedere quel concetto come qualcosa di ridicolo ed insensato e allora l’ipotesi rimase bloccata allo stato di sensazione non espressa.
        L’incapacità di trovare spiegazioni lo rese frustrato; sempre più dopo ciascuno dei brevi contatti che continuò ad avere con Potter. In fondo, non poteva certo immaginare che quest’ultimo fosse perseguitato dalla memoria di certe particolari avventure oniriche.
        In ogni caso, tra loro si stava creando una spessa barriera di disagio. E sebbene stessero entrambi contribuendo in prima persona alla sua costruzione, non desideravano altro che abbatterla.
 
 
* * *
 
 

        In quanto a Quidditch, ad interporsi tra i Serpeverde e la loro possibilità di disputare, affrontando i rosso-oro, quella che sarebbe stata l’ultima partita dell’anno, rimaneva un solo ostacolo: la squadra di Corvonero. Si trattava d’un team compatto ed agguerrito, che aveva già portato a casa diverse vittorie; e se a ciò si sommava la presenza dei numerosi anelli deboli che facevano capolino tra le fila dei verde-argento, sulla carta il risultato dello scontro pareva essere già segnato.
        Tuttavia, per le serpi c’era ancora speranza. Appena pochi giorni prima della partita, infatti, durante un allenamento, la ragazza che ricopriva il ruolo di cercatrice per gli avversari aveva subìto un infortunio – brutto abbastanza da precluderle la chance di giocare al fianco dei compagni. Il fatto, di per sé, non aveva nulla di speciale; il punto era che tra i Corvonero, ad eccezione dell’infortunata, non figuravano grandi cercatori. Sarebbero dunque stati costretti a schierare una probabile mezza calzetta, su cui Malfoy avrebbe potuto tranquillamente avere la meglio.
        Per tali ragioni, il giorno della partita i Serpeverde erano in fermento: fomentarono le loro aspettative, e sino all’ultimo cercarono di mettere a punto tattiche per sopperire all’incapacità degli elementi carenti della squadra.
        «Si è capito chi scende in campo contro di me?» s’informò Draco rivolgendosi ai compagni prima dell’inizio del gioco.
        «Un certo Bennett. Quinto anno. Ho sentito dire che non ha molta esperienza».
        Bennett, ripeté mentalmente Malfoy. Quello era il nome dell’ultimo ostacolo sulla strada che portava ad essere il rivale di Harry Potter nell’ultima partita del loro ultimo anno. Abbatterlo era l’unica cosa da fare.

        Quando lo vide tra gli avversari, quasi rise: gli parve d’avere già la vittoria in tasca. Si trattava, infatti, d’un ragazzotto basso, robusto, a prima vista piuttosto goffo; stentava a credere che fosse il meglio che i Corvonero erano riusciti a rimediare. Eppure, era così.
        Tanto meglio, si disse, sogghignando.
        Non appena la partita ebbe inizio, però, perse il sorriso: detestò doverlo riconoscere, ma in quanto a giravolte sulla scopa quel Bennett ci sapeva fare, e sembrava avere anche un occhio molto acuto. Non era comunque bravo quanto lui, certo – in ognuno dei testa a testa che ebbero, la sua maggiore esperienza emerse chiaramente sia dall’elevata precisione delle sue mosse, sia dalla sicurezza e dalla rapidità con cui le eseguì.
        Il suo più grande problema, comunque, non fu tanto il cercatore avversario, quanto i suoi compagni di squadra. Essi, infatti, parevano pronti a tutto pur di dar man forte a quello che sapevano essere un novellino.
        D’un tratto, per l’appunto, notò con la coda dell’occhio un Corvonero volargli contro. Cercando di non lasciarsi sfuggire il boccino, lanciò qualche veloce sguardo dalla sua parte: ebbe così la conferma che l’avversario puntava dritto su di lui, almeno sinché di colpo non virò verso l’alto. Di primo acchito non capì. Poi, però, notò il bolide sfrecciargli contro correndo sulla scia del Corvonero.
        Impennando verso il cielo, quel simpaticone s’era liberato della palla che lo inseguiva offrendole Draco come nuovo bersaglio.
        Malfoy imprecò tra sé e sé. Nel giro di un secondo, dovette necessariamente cambiare rotta per non essere colpito in pieno; riuscì ad evitare la sfera di ferro, fortunatamente, ma ciò implicò il lasciare un essenziale vantaggio a Bennett.
        Quanto essenziale? Abbastanza da far levare sul campo il commento: «Stupendo tutti nella sua prima partita da cercatore, Nicholas Bennett è riuscito ad acchiappare il boccino d’oro! E con i questi centocinquanta punti, che si sommano ad un già consistente vantaggio, i Corvonero vincono!»
 
 

        Appesantito dalla sconfitta, Draco non perse neanche tempo ad arrabbiarsi con gli impediti compagni di squadra. Tanto, cosa sarebbe cambiato? Per loro era in ogni caso finita lì: niente più grandi partite. A ben vedere, considerati i componenti del team, nel corso dell’anno non se l’erano cavata neanche troppo male.
        Ma fanculo il corso dell’anno; avevano perso proprio adesso e per lui questo voleva dire veder sfumare il confronto con Potter. La dannata partita contro di lui poteva essere lo scontro più normale che avrebbero avuto in quell’ultimo periodo; invece, niente. I rosso-oro avrebbero affrontato i Corvonero e lui sarebbe stato costretto a guardare dagli spalti mentre continuava a scervellarsi per comprendere l’ammattimento di Harry.
        Interiorizzò l’ira, tacendo, e capì che c’era necessità che facesse una mossa, che intervenisse per sanare la situazione; perché il Grifondoro era e sarebbe sempre stato un imbecille, e poco ma sicuro non avrebbe trovato nell’immediato un modo per mettere a posto le cose tra loro. Lui neanche sapeva cosa ci fosse da sistemare, in realtà, ma si ripromise che l’avrebbe scoperto – questo, poiché malgrado tutto quello che era successo, che stava ancora succedendo, il suo bisogno d’avere a che fare con Potter non era svanito, né tantomeno scemato, e l’idea che finisse tutto nella più totale confusione, a ritmo d’un reciproco cercarsi e poi scappare, non gli stava affatto bene.
 
 

        Restando fedele a tattiche semplici, pensò che avrebbe potuto parlargli per estorcere spiegazioni. L’ultima volta che ci aveva provato non aveva ottenuto chissà quali risultati, ma non si fece scoraggiare.
        Togliere di mezzo gli eventuali spettatori sarebbe probabilmente risultato il passaggio più complesso. Escludendo la noia di dover trovare una ragione di facciata per farsi avanti, s’intende.
        A seguito di attente riflessioni, approcciò l’obiettivo alla fine d’una lezione condivisa di Storia della Magia. «Potter», chiamò attirando su di sé anche l’attenzione di Theodore Nott, che l’affiancava.
        Harry, che ancora era nei pressi del banco appena occupato, si voltò quasi di scatto dalla sua parte, sfoggiando una malcelata punta di agitazione. «Malfoy», soffiò, e per un attimo calò su di loro uno scomodo silenzio. «Ti sei già ripreso dalla sconfitta dell’altro giorno? I Corvonero vi hanno fatti a strisce».
        Turbato dal ricordo di quella piccola tragedia, Draco s’incattivì. «Se faranno a strisce anche voi, giuro che mi troverai in prima fila a ridere».
        «Preparati a rimanere deluso. È impossibile che ci sconfiggano in maniera così plateale».
        «Tante cose sembrano impossibili. Poi però succedono».
        Il Grifondoro, avvertendo la presenza di un riferimento ad un certo evento avvenuto tra loro, s’incupì di botto e abbassò lo sguardo. In silenzio, terminò di raccogliere il proprio materiale dal banco mentre malediceva l’istante in cui Malfoy aveva iniziato a strisciargli dentro. «Quasi succedere non equivale a succedere. C’è differenza. Una differenza enorme», borbottò evitando d’incrociare le occhiate dell’altro e sperando di non insospettire chi gli era attorno.
        «Io non credo».
        «La pensiamo in modo diverso. Buono a sapersi». E dopo aver bofonchiato ciò, Harry fece per allontanarsi in direzione della porta accodandosi a Ron, che l’aveva di poco preceduto.
        Ma Draco lo trattenne: «Non ho finito con te».
        Potter girò il capo per rivolgergli uno sguardo truce; peccato che non appena fissò gli occhi nei suoi fu scosso da un lieve brivido che cancellò tutto ciò che c’era di minaccioso nella sua espressione. «Io dico di sì».
        «E sbagli». Lo raggiunse avanzando di due passi, ma non prima d’aver congedato Nott con un più che eloquente cenno.
        «Cosa stai facendo?» gli chiese pacato Theodore, bisbigliando.
        «Regolamento di conti. Vai pure».
        Sospirando e alzando le spalle, Nott gliela diede vinta; prima di marciare verso l’uscita della stanza, però, sbottò: «Quando capirò cosa diamine succede tra voi due, pioveranno cani e gatti». Una volta che lui ebbe imboccato la porta, gli altri Serpeverde rimasti nell’aula lo imitarono senza neanche perder tempo a far domande a Malfoy.
        Quest’ultimo, dal canto suo, non li degnò d’attenzione, preso com’era dal far intuire al Grifondoro che aveva davanti che non aveva scelta: doveva fermarsi.
        A proposito di Grifondoro – «Harry?» fece Hermione, che dalle prime file era sopraggiunta avvicinandosi a Ron. «Vieni?»
        Lui esitò, serrando la mascella e facendo saettare lo sguardo dall’amica alla serpe che incombeva lì vicino. «Arrivo subito», decretò con la voce di chi s’è già pentito della scelta appena compiuta.
        Weasley, senza neppur prendersi la briga di nascondere d’essere scocciato, varcò la porta senza guardarsi indietro. La ragazza tentennò un po’ di più, ma alla fine anche lei s’arrese all’idea di uscire di scena.
        «Fin quando hai intenzione di prenderti gioco di me? Perché ne ho veramente abbastanza» tuonò Potter prima che l’altro potesse aprir bocca.
        Tutto meno che compiaciuto da tanta ira, Draco si barricò dietro ad una maschera di supponenza. «Oh, mi prendo gioco di te?»
        «Non ci provare, a fare il finto tonto. Non fai altro che tirare in ballo questa― quella storia. Devi smettere».
        «È perché tiro in ballo quella storia che non riesci neanche a guardarmi in faccia? Che ti comporti come― una ragazzina?» lo provocò amaramente il Serpeverde.
        «Non mi comporto come una ragazzina».
        «Invece sì. E sei piuttosto ridicolo, lascia che te lo dica». Si concesse di metter su un mezzo sogghigno, prima di proseguire: «Se sono solo un paio di frecciatine a ridurti così, allora sei messo peggio di quanto credevo».
        Harry, contraendo i muscoli, si morse una guancia e ribollì di fastidio. «Magari sarei messo meglio se tenessi per te le tue stupide frecciatine».
        «Potter, te la sei cercata. Non dare la colpa a me».
        «Cavolo se te la do!» Dovette far violenza su se stesso per trattenersi dal dargli uno spintone. «Insomma― non avevi detto d’essere schifato? Di provare repulsione? E allora perché diamine continui a torturare entrambi così?» Sbuffò rumorosamente, seccato. «Sul serio, se non smetti di farlo comincerò a farmi strane idee su di te». Come se non se ne fosse già fatte.
        Malfoy scattò sulla difensiva, non sapendo come replicare alle domande che gli erano state poste; di certo, non avrebbe ammesso che la prospettiva di tenerlo in pugno gli piaceva. «Quali strane idee potresti mai farti?»
        Fu il turno del Grifondoro di tentennare per mancanza di adeguate risposte. «Sei dannatamente sadico», mormorò con la testa china.
        «Non è sadismo», lo rimbeccò Draco schioccando la lingua.
        «Ah no?» Risollevò il capo con aria di sfida, per poi bloccare le parole sulla punta della lingua con vibrante esitazione. «Usciamo da qui», proferì, messo a disagio dall’idea di discutere di certi argomenti nel bel mezzo di un’aula, per di più a portata d’orecchio del professor Rüf. Non che l’insegnante (morto fuori e molto probabilmente anche dentro) li stesse degnando d’attenzione – anzi, li ignorava completamente –, ma comunque la sua presenza lo indisponeva.
        Il Serpeverde, pur aggrottando la fronte, non s’oppose alla sua proposta. Con incertezza, dunque, attraversarono la stanza e ne uscirono svoltando nel corridoio.
        Poco più in là, addossati alla parte, c’erano Hermione e Ron, in attesa. Lei scattò sull’attenti quando vide sbucare l’amico dalla porta, e si fece perplessa non appena notò che l’altro ragazzo gli era appresso. Non fece in tempo a chiedere spiegazioni, poiché subito Harry con un cenno le comunicò mestamente che non c’era bisogno che l’aspettassero.
        Quasi abbattuto, Weasley bofonchiò qualcosa tra sé e sé prima d’incamminarsi. La ragazza fu presto sulle sue orme, e anche Potter e Malfoy s’allontanarono dall’aula.
        Tra i due s’instaurò un consistente silenzio teso scandito dal rumore dei passi.
        «Non ho tutto il giorno», buttò lì Draco d’un tratto.
        L’altro sospirò e s’accontentò della misera privacy offerta da un corridoio poco trafficato. Non appena poté, tentò d’andare dritto al punto: «Stai rendendo tutto strano».
        «Tu rendi tutto strano», lo corresse Malfoy. «Le tue reazioni non hanno verso!»
        Sgranando gli occhi e sopportando un tremito dato a metà dall’incredulità, a metà dalla collera, il Grifondoro mugugnò. «Tutte le volte che mi parli tiri fuori quella storia―»
        «È la naturale conseguenza delle tue azioni, Potter. Non posso dimenticare quello che è successo! Avresti dovuto pensarci due volte, prima di fare una cosa come quella».
        «Avrei tanto voluto poterlo fare!» asserì Harry e, ascoltandosi parlare, storse il naso: detestò se stesso per la propria infelice scelta di termini. «Non― non intendo quello! Pensare, avrei tanto voluto poter pensare», precisò, mettendo le mani avanti.
        «Il fatto che tu abbia appena ammesso di non aver pensato non mi sorprende. Chissà perché», sibilò caustico il Serpeverde, nascondendo un vago divertimento – in fondo, osservare l’eroe del Mondo Magico che si correggeva pieno d’imbarazzo in quel modo era semplicemente buffo. Era come vederlo annaspare in un bicchier d’acqua: faceva quasi tenerezza. «Comunque, la tua ambiguità mi turba».
        «La mia ambiguità? Sul serio?» Esterrefatto, si preparò a sciorinare il discorso che aveva troncato poco prima nell’aula di Storia della Magia. «Dopo quello che hai detto al campo―» sbottò, messo in difficoltà ed interrotto da una scossa di vergogna.
        Draco inarcò un sopracciglio. «Cos’ho detto al campo?»
        «Sai cos’hai detto». Gli scoccò un’occhiataccia, dopodiché lasciò scivolare tra i denti le parole che tanto l’avevano tormentato: «L’hai fatto apposta, vero? So che è così – per Merlino, ammettilo».
        Temendo di fare un passo falso, l’altro tacque.
        «Ti diverti a giocare con me, immagino. Ma: indovina? Non c’è nulla di spassoso in quello che fai!»
        «Potter», sussurrò Malfoy come se volesse rimetterlo in riga. «Di cosa stai parlando?»
        Sulle note d’un mugolio seccato, Harry strinse i pugni. Poi, con l’agitazione in costante aumento, gli diede lo spintone che gli aveva risparmiato in precedenza. «Non prendermi per il culo!» ringhiò, prima di scandire, con tutta la cauzione di cui era capace e scimmiottando la voce del Serpeverde: «Non ha senso fare distinzioni! Tanto siete tutti troppo idioti!»
        Basito, Draco dischiuse le labbra: la scenata a cui stava assistendo era la conferma che era stato in grado di toccare il Grifondoro ad una profondità considerevole. Non seppe se dirsene più soddisfatto, intimorito o disturbato. In ogni caso, il cuore gli accelerò in petto.
        «Mi spieghi cosa cavolo significa?» continuò l’altro con impeto, per poi piombare in un mare d’imbarazzo; in pratica, aveva appena confessato d’essersi fatto dei complessi riguardo ai gusti della sua nemesi scolastica – grandioso, davvero. Ci mancava solamente che sbandierasse ai quattro venti d’aver fatto un fottuto sogno erotico su di lui.
        Il solo pensiero lo fece avvampare. Immediatamente s’appuntò l’ovvietà che mai, mai si devono rinvangare certe fantasie (soprattutto se involontarie) di fonte al protagonista delle stesse. Brutto errore.
        Malfoy poté godersi tutta la varietà d’espressioni impacciate e turbate che il Grifondoro mise su. «Il significato mi sembra piuttosto chiaro».
        «Non lo è per me», lo contraddisse Harry, che più d’ogni altra cosa in quel momento desiderava di potersi vendicare – di potergli riversare addosso tutto il caos che gli vorticava in dentro.
        «Tanto peggio per te, allora. Di certo non mi metterò a farti la maledetta parafrasi». Dettò ciò, s’aprì in un ghigno fissandolo con l’aria di chi giudica.
        L’altro affondò le unghie nei palmi, sforzandosi di mantenere almeno una parvenza di calma – cosa parecchio difficile, considerato che si sentiva più o meno andare a fuoco. Istintivamente s’interrogò su quali erano le mosse che poteva fare per ripicca, cercando d’identificare quella più cattiva di tutte.
        «Ma fammi capire, Potter», riprese a dire in quegli istanti il Serpeverde, lasciando trapelare giusto un pochino di smania in più rispetto a prima. «In quale universo la mia sessualità è un tuo problema?»
        Harry si sciolse in uno sbuffo esasperato, che di per sé poteva tradursi in tutto e niente. Per lui, significava irritazione e frustrazione e confusione ed ansia, perché a quella domanda avrebbe tanto voluto rispondere Nessuno, e non poteva.
        “In quale universo?” chiedeva Malfoy, e “A quanto pare in questo”, doveva ammettere a se stesso lui.
        Scrutò Draco, che pareva attendere stando sulle spine una replica, e una formicolante sensazione gli invase il busto. Con buona probabilità quello snob bisbetico si stava ancora prendendo gioco di lui, accumulando materiale per continuare ad infastidirlo. La sete di vendetta s’intensificò.
        Il caso volle che lo sguardo gli cadesse per un secondo sulle sue labbra.
        Un’idea gli passò per la mente. Una pessima, pessima idea – folle, senza garanzie. Non era il caso di metterla in pratica, davvero; anche perché sapeva che non doveva prendere decisioni affrettate quando era fuori di sé.
        Lo sapeva. Ma era così maledettamente accattivante, e voleva davvero farlo.
        Un momento di silenzio si posò su di loro. Assottigliando gli occhi, il Serpeverde s’accorse della scintilla sospetta che era comparsa sul volto di Potter. Non fece in tempo a decifrarla, però. In un battito di ciglia, infatti, si ritrovò il grifone a tanto così dalla faccia e, prima che potesse reagire in alcun modo, accadde.
        Bocche appiccicate. Trattenne il respiro, come pietrificato.
        Harry tenne costantemente le palpebre serrate. Inizialmente non sentì nulla, poi pian piano cominciò a percepire un certo fremito sottopelle, e il battito forte nelle tempie, e Morgana santissima lo sto facendo davvero il tepore delle labbra dell’altro sulle proprie. Ebbe un secondo di scompenso, ma non perse la decisione.
        Draco voleva spostarsi. Quello o, alternativamente, spinger via l’altro; purché potesse sgombrare il proprio spazio personale. Eppure, per una manciata di secondi non riuscì a far nulla: percepire sul viso la fastidiosa pressione della montatura degli occhiali del Grifondoro lo distrasse, e per via delle circostanze fece esperienza d’un piccolo cortocircuito mentale.
        Quando tornò a controllare le proprie funzioni motorie, ed ebbe modo di indietreggiare d’un passo, finì col prendere le distanze proprio mentre anche Potter si ritraeva. Il suo gesto, dunque, non emerse affatto come una ferma presa di posizione.
        A dir poco attonito, non seppe bene come reagire: c’erano talmente tanti pensieri ad affollargli la testa che scegliere a quale dare la priorità gli fu impossibile. Alla fine, nel disperato tentativo di recuperare le redini della situazione, optò per una sana espressione di disgusto: mugugnò tra sé e sé e si strofinò il dorso della mano sulla bocca come a volersi pulire.
        «Ma che cazzo fai?» sbottò, e il tremolio nella voce tradì la sua agitazione.
        Altrettanto scosso, Harry non rispose: si limitò ad alzare le spalle con gli occhi sgranati, con fare quasi provocatorio.
        Malfoy s’allontanò d’un altro mezzo passo, con la rabbia che entrava in circolo. «Cosa diamine significa, Potter?»
        «Non ti farò la maledetta parafrasi», scandì quello, sfrontato.
        Si fissarono silenziosamente per qualche istante, entrambi resi irrequieti dal mare in burrasca che s’era ingrossato dentro di loro. Dopodiché, captati i primi segnali del ritorno del pensiero razionale e della vergogna, il Grifondoro s’adombrò. Quasi vibrò – cercò di resistere, ma presto fu costretto a cedere e, a scatti, scivolò via: mosse un passo lento, due, tenendo sempre d’occhio l’altro, e quando fu sufficientemente lontano si voltò e proseguì frettolosamente nel corridoio.
        Draco sentì l’impulso di fermarlo. Provò a farlo, ma le parole non vollero collaborare e ogni sua fibra si rifiutò categoricamente di toccare Potter, anche se solo per prenderlo per i vestiti. Rimase da solo, quindi, ad agonizzare tra le più disparate congetture.
 
 

        Marciando coi pugni stretti, Harry fu costretto a fare i conti con la graduale ma continua sparizione dell’adrenalina, la cui assenza si tradusse presto in un’abbondante quantità di imprecazioni mentali e in sprazzi di panico.
        Non si diresse all’aula in cui era atteso: la mera idea di doverci rimanere chiuso dentro per la durata d’un’intera lezione lo soffocò. Non fu in grado di tollerare neanche la prospettiva di isolarsi dove non potevano scovarlo; non era pronto per un confronto forzato con la propria psiche. Ciò che fece, dunque, fu individuare un compromesso: raggiunse l’aula di Aritmanzia, dietro la cui porta, chiusa per via della lezione in corso, si trovava quella che forse era l’unica persona in grado di aiutarlo.
        S’appostò nei dintorni, nervosamente in attesa.
        Cos’ho fatto? Tormentato, s’afflosciò nelle spalle e si coprì il volto con le mani.
        Fu ripetutamente tentato di sfiorarsi le labbra come a voler cercare la riprova che quello era successo per davvero. Non lo fece mai, però, deviando sempre le dita all’ultimo ed immergendole nei capelli.
        Quando finalmente Hermione Granger fece capolino dalla porta della classe, a lui pareva d’aver aspettato un intero secolo.
        «Harry? Che fai qui?» l’interrogò la ragazza vedendolo sopraggiungere. «E cos’è quella faccia?» Perplessa, corrucciò la fronte.
        «Devo parlarti». Le fece segno di seguirlo: volendo prendere le distanze dagli altri studenti, la condusse in una zona il più possibile tranquilla.
        «Cos’hai? E come sei arrivato qui così in fretta?» domandò ancora lei mentre camminavano, rivolgendogli un’occhiata penetrante. «Non sei andato a lezione, vero?»
        Potter sbuffò, perché in quel momento la lezione persa era l’ultimo dei suoi problemi. «Non è importante».
        Hermione cercò di dargli il tempo di cui aveva bisogno per sputare il rospo, ma non ci riuscì – lo vedeva spaventosamente sbattuto, ed iniziò a preoccuparsi sul serio. «Cos’è successo?» mormorò quindi, col tono di chi pretende di essere messo al corrente della verità seduta stante.
        Harry la fece fermare vicino ad una parete. «Ho combinato un casino». Agitato, si torturò brevemente la lingua coi denti prima di soffiare: «Gli ho―» si indicò impacciatamente le labbra «sulla bocca».
        «Non credo di aver capito».
        «A quel― quel ragazzo di cui ti avevo parlato» mugugnò mangiandosi le parole, poi finalmente sputò il rospo: «un bacio».
        Lei tentennò brevemente. «Hm― oh. Quindi―»
        «Hermione» l’interruppe Potter che, a discapito della voce che minacciava di morirgli in gola, si sentiva in dover di far cogliere allamica la gravità della situazione, «quel ragazzo è Malfoy».
 
 
» …



 

Angolo di Tormenta

...E' successo. Dopo 20 capitoli, un bacio vero (circa). Mi auguro che il tutto sia risultato abbastanza naturale e, dopo tanta attesa, almeno un pochino soddisfacente. :)
"Nicholas qualcosa" - qualcuno si ricorda di lui? Il Corvonero amico di Ginny? Ecco, il suo ruolo era quello di soffiare la vittoria (e la possibilità di confrontarsi con Harry) a Draco. Uno sporco lavoro, certo, ma qualcuno doveva pur farlo!

Piccolo avviso: siamo ormai giunti al clou della storia, per cui, a questo, seguiranno diversi capitoli piuttosto corposi. :)
Grazie mille per aver letto, commentato, seguito sin qui! A risentirci la settimana prossima,
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Capitolo 23
*** 22. (Im)presa di coscienza ***


22.
Impresa di coscienza
 

 
        «Hermione, quel ragazzo è Malfoy».

        A seguito di tale confessione, la ragazza quasi si trasformò in una statua di sale. Poi, lentamente, si riscosse: sgranò gli occhi e batté rapidamente le ciglia con fare frastornato, mentre la sua mente, dopo il blackout momentaneo, ripartiva. Quando finalmente tornò a regime, iniziò ad elaborare delle reazioni verbali: «Merlino. Non voglio crederci».
        «Uh―»
        «Aspetta, aspetta. Dammi un attimo». Un’ombra le oscurò il volto quando ripeté: «Malfoy», scandendo bene le sillabe e cercando conferma negli occhi dell’amico. E la trovò – la trovò eccome, perciò non poté che passarsi frettolosamente una mano sulla fronte, sussurrando lamentosa: «Lo sapevo».
        Harry deglutì. «Lo― lo sapevi?» Aveva avuto dei sospetti riguardo le intuizioni di Hermione, ma di certo non le aveva credute così accurate.
        «Era un’ipotesi. Sai com’è, hai fatto una scenata solo per parlargli ed è da mesi che giocate a fare i rivali». Si morse la lingua per non proseguire, ma non fu proprio capace di trattenersi: «Senza contare che sei ossessionato da lui da quanto? due anni. Quando mi hai raccontato di questa cosa― del ragazzo» affievolì la voce «ho dovuto pensare anche a lui. Per quanto improbabile fosse». Si spostò nervosamente una ciocca di capelli dietro un orecchio, poi, accanita, riprese a dire: «È lui davvero? Non mi stai prendendo in giro, giusto?»
        Potter, mesto, scosse il capo per negare.
        «Oh, Merlino» imprecò ancora Hermione, per poi sforzarsi di processare razionalmente la questione. «Significa che hai dato un―» imitando il gesto che l’altro aveva fatto in precedenza, s’indicò le labbra «sulla bocca― a Malfoy
        Per Potter ritrovarsi faccia a faccia con quel concetto fu come battere la testa contro un muro di mattoni: dire che ne rimase stordito è un eufemismo.
        «Come? Perché?» Messa a dura prova dall’assenza di risposte, sbuffò, borbottando: «Harry! Parla».
        Lui, nel panico, lì per lì non fu capace d’articolare alcun suono: si limitò a corrucciare la fronte e a gesticolare emettendo un versetto esasperato. Poi, all’ennesimo tentativo, finalmente riuscì a mettere insieme una tremolante frase: «Ho bisogno che tu mi dica che non sto diventando matto».
        «Beh, forse mi stai chiedendo di mentire».
        Potter affondò i denti in una guancia, perché sapeva che l’amica aveva ragione – magari era impazzito. Una prova poteva essere il fatto che, nonostante il caos che l’aveva travolto, ancora non provava alcun vero rimorso per ciò che aveva fatto. Era il dettaglio, quello, che più di ogni altro lo terrorizzava. Chissà come avrebbe reagito Hermione se l’avesse messa al corrente, considerato che già così lo giudicava senza ritegno con quella sua occhiata da mamma apprensiva.
        No, no – non voleva dirglielo, non voleva che sapesse; alla sola idea, la vergogna quasi lo soffocò, rendendogli insopportabile la prospettiva di mandare avanti la conversazione. «Devo andare» bisbigliò, indietreggiando seccamente d’un passo.
        «Aspetta―!» esclamò la ragazza, ma fu inutile: lui, infatti, continuò ad allontanarsi nel corridoio, evitando come la peste qualunque anima viva (e morta) sul suo cammino.
 
 
* * *
 
 

        Col proprio gesto folle, Potter fu capace di mandare Draco in paranoia.
        Non avrebbe potuto essere altrimenti, a ben vedere. Cosa avrebbe dovuto fare il Serpeverde, in fondo, se non arrovellarsi nervosamente il cervello per capire? Il rimanere incastrato nei pensieri, poi, era stata una naturale conseguenza, così come lo era stato il dormire poco e male, quella notte.
        Si sentì perseguitato dalla memoria del volto del Grifondoro appiccicato al proprio. La sua frustrazione crebbe minuto dopo minuto, di pari passo con una cieca rabbia. Cercò di tenere sotto controllo entrambe, con scarsi risultati: già dalla mattina successiva, infatti, finì con l’insospettire i compagni di Casa. Non se ne curò, però, e non appena gli si presentò un’occasione di sfogarsi, la colse senza alcuna esitazione.
 
 

        Scorse Potter in un corridoio subito dopo la fine delle lezioni. Un nonsoché nella sua espressione lo convinse che non era in piena forma. Con lui, c’era quell’imbranato di Paciock. Chiacchieravano.
        Di riflesso, schioccò la lingua e strinse i pugni. «Ci vediamo dopo», borbottò in direzione di Zabini, Nott e Goyle, che l’affiancavano.
        Gregory prese atto del suo mezzo saluto rimanendo praticamente impassibile; Theodore inarcò un sopracciglio scoccandogli un’occhiata acuta, come a volergli leggere dentro; infine, Blaise corrugò la fronte e sbottò: «Dove vai?»
        Non perse tempo a rispondere verbalmente: si limitò a gesticolare per far capire che erano affari privati, dopodiché si separò dal gruppetto e prese a marciare in direzione dei due Grifondoro.
        Quando Harry notò che Malfoy si stava avvicinando, s’irrigidì. Subito un velo d’ansia lo ricoprì; si zittì di botto, ma non smise certo di camminare, né tantomeno tentò di fuggire.
        S’aspettava che il Serpeverde s’arrestasse a qualche metro da lui e – a giudicare dall’espressione che aveva stampata sul viso – che dicesse qualcosa di poco carino. Si preparò mentalmente ad un confronto, quindi; peccato che all’ultimo le sue aspettative vennero tradite.
        Draco non si fermò affatto ad un paio di passi da lui: proseguì, invadendo il suo spazio e compiendo un gesto che, sino a quel momento, quell’anno erano riusciti ad evitare.
        Lo colpì. Un pugno, dritto allo stomaco.
        Poiché inaspettato, il dolore risultò amplificato. Potter s’accartocciò su se stesso lasciandosi sfuggire un lamento, poi boccheggiò coprendo con le braccia la parte lesa mentre l’aggressore indietreggiava il minimo indispensabile per tenerlo d’occhio.
        «Merlino! Ma che diamine fai, Malfoy?» chiese allarmato Neville, soccorrendo l’amico. «Stai bene, Harry?»
        Quello non rispose che con un mezzo ringhio e, per la seconda volta all’insegna dello stupore generale, raddrizzò la schiena quel tanto che bastava per caricare il Serpeverde e ripagarlo con la sua stessa moneta.
        Lievemente avvantaggiato, Draco riuscì quasi a schivarlo: fu colpito di striscio. Guaendo sottovoce, si curò di spintonare il grifone per toglierselo di dosso.
        Diversi studenti li scrutarono con aria preoccupata; qualcuno, primo fra tutti Paciock, fu sul punto d’intervenire per calmarli, ma i due misero sorprendentemente fine alla rissa lampo in maniera autonoma. Potter, infatti, non rispose allo spintone, e Malfoy parve scaricare la voglia di violenza rimastagli in circolo in un rumoroso sbuffo.
        Si fissarono in cagnesco senza proferire parola finché Neville non li interruppe, chiamando: «Harry?»
        Senza distogliere lo sguardo dal rivale, lui lo rassicurò: «Tutto okay».
        «Sicuro?»
        «Sì. È che Malfoy ha un modo tutto suo di attirare l’attenzione delle persone».
        Quello mugugnò tra sé e sé, lasciandosi provocare. «Vaffanculo, Potter».
        Paciock chiese implicitamente spiegazioni al compagno di Casa, facendogli al contempo intuire che riteneva opportuno che levassero le tende, così da non peggiorare la situazione. Harry, dal canto suo, s’impensierì e tentennò, mentre l’indolenzimento all’addome si affievoliva consentendogli di riacquistare la propria normale postura.
        Il Serpeverde comprese con facilità il significato delle mezze occhiate tra i due rosso-oro. «Non ci provare neanche», asserì, caustico e minaccioso, in direzione di Potter – dell’altro, gli importava meno di zero. «Tu non scappi. O dovrò attirare di nuovo la tua attenzione».
        Per nulla intimidito, Harry serrò la mascella. «Va’ pure» mormorò in direzione di Neville.
        «Ma―»
        «Non preoccuparti. Ti raggiungo tra poco».
        «Non ti lascio da solo con lui! Ti ha appena dato un pugno, cavolo!»
        «Ho sopportato di peggio. Dico davvero – va’».
        Dando retta a quello che pareva più un ordine che un invito, Paciock s’incupì e riprese ad avanzare per la propria strada.
        A quel punto, Harry domandò all’altro, non senza sfoggiare una malcelata tensione: «Cosa c’è?»
        Draco, spiazzato, s’incattivì. «Osi chiedermi cosa c’è?»
        Dal tono con cui vennero pronunciate quelle parole, il Grifondoro capì – poche altre volte Malfoy era stato tanto palese nell’espressione delle proprie emozioni. Individuò in lui la confusione e la paura e l’insicurezza e, visto che c’era passato per primo, riconobbe la causa di quei sintomi: Sono stato io. Fu tentato di gonfiare il petto – evitò, però, perché il cuore, che in un momento imprecisato aveva iniziato a ballare ad un ritmo incalzante, già minacciava di salirgli in gola, e non voleva facilitargli il viaggio.
        Prima che potesse aprir bocca per ribattere, sulle note d’un mezzo ringhio il Serpeverde colmò la distanza rimasta tra loro. Quando gli fu appresso, poi, lo spinse per la seconda volta – a differenza della prima, però, non fu particolarmente feroce. D’altronde, fu solo il delicato metodo che impiegò per invitarlo a seguirlo in un posto meno trafficato.
 
 

        Trovarono rifugio nell’ennesimo corridoio semi deserto.
        «Ti ha dato di volta il cervello, o cosa?» esordì Draco, enfatico – esaltato com’era, lui stesso non sapeva bene dove quella discussione sarebbe andata a parare.
        Harry si mise sulla difensiva, ma non rispose.
        «Come ti è venuto in mente di fare una cosa come quella? Perché? E poi hai osato persino andar via come se nulla fosse, come se fosse normale, e― cazzo, vorrei pestarti a sangue!»
        Pur colpito da tanta ira, il Grifondoro tenne testa al suo sguardo di ghiaccio senza fare una piega. «Non è così divertente quando sono gli altri a prendersi gioco di te, vero?» Nello scagliare quella tagliente provocazione, ostentò una sicurezza che non era per nulla certo d’avere.
        Agitandosi sul posto ed esibendo tutta una serie di espressioni tra l’arrabbiato e il minaccioso, Malfoy mugugnò esalando mezzi sbuffi. «Fottiti, Potter» sbottò velenoso dopo un momento di silenzio. «Tanto è questo che ti piace».
        Punto sul vivo, Harry lo fulminò stringendo i pugni. «Non è vero!»
        «Ah, no? Ne sei sicuro?»
        Esitò. «Non mi piacciono i maschi, Malfoy».
        «Come spieghi la cosa di ieri, allora?»
        «Volevo solo― hm».
        «Solo cosa?» Esterrefatto, con un cenno lo sfidò a rispondere. «Non m’incanti. È già la seconda volta che lo fai, e―»
        «È la prima volta!»
        «Seconda! Per quanto ti diverta pensare il contrario, un tentativo andato a vuoto conta – conta eccome! E non so quale meccanismo ti si sia rotto in testa, ma chiaramente non ti rendi conto che tutto questo è raccapricciante!» Si morse una guancia, cercando di tenere a bada i tamburi che aveva in petto e il formicolio che gli stava facendo quasi prudere il viso e le mani.
        L’altro tacque. Sapeva, infatti, che quello che aveva fatto aveva dell’assurdo, e per quanto raccapricciante fosse un aggettivo esagerato per descrivere le circostanze, si sentì come trafitto. Il battito gli schizzò a mille e, appesantito, lasciò che il volto gli s’inscurisse tendendo i muscoli.
        Draco colse al volo quel cambiamento d’atteggiamento. Non lo commentò, però, proseguendo col dire: «La tua intenzione era incasinare ancor di più le cose? Perché se è così, cavolo, ci sei riuscito. Congratulazioni!» Schioccò la lingua, «Ora dovrò convivere con il terrore di saperti intenzionato a saltarmi addosso per la terza volta. Bel modo di chiudere l’anno!»
        Tramutando l’amarezza in collera, Potter s’incupì maggiormente e avanzò d’un mezzo passo.
        Quel movimento istigò in Malfoy il ricordo del bacio del giorno precedente; un ricordo che per un solo, infinito istante, lo illuse dandogli l’impressione che l’esperienza stesse per ripetersi. Non fu così, però: Harry, infatti, ben lontano dal voler replicare l’esperimento bocca a bocca, non fece altro che dargli un forte spintone.
        Per accompagnare il gesto, avrebbe tanto voluto dir qualcosa. Un insulto, magari, ma un gran magone gli si incastrò in gola e lo bloccò, così si limitò a fissare gli occhi in quelli del Serpeverde.
        Senza che sapesse perché, un nonsoché gli si rimestò nello stomaco. Fu una sensazione spiacevole: quasi lo indebolì. Pur di liberarsene, distolse frettolosamente lo sguardo e, una volta che si fu reso conto che ciò non sarebbe bastato, non poté far altro che aggirare Draco e prendere ad allontanarsi.
        Rimasto solo, Malfoy s’irrigidì.
        Fu costretto a fare i conti con l’immenso senso di oppressione che gli aveva trasmesso l’occhiata del Grifondoro.
        Era cosciente d’averlo turbato. Offeso. Probabilmente ferito. Non si sentiva propriamente in colpa, ma comunque la situazione non gli andava a genio, perché l’unica cosa che aveva ottenuto era stata allontanarlo. E malgrado le circostanze, non voleva farlo.
        Non voleva. Così come in quell’infinito istante di poco prima, pur temendo l’arrivo d’un terzo – secondo – bacio, non s’era voluto scostare. Era rimasto immobile, in attesa, a fremere. La consapevolezza di ciò gli trasmise un brivido di paura e, insieme col fatto che nonostante tutto Potter non aveva negato di volergli saltare ancora addosso, lo convinse d’essere nei guai fino al collo. Guai a cui diede presto un nome.
 
 

        Dopo tanto girarci attorno e dopo tanta ritrosia, con quella che sembrava la forza della disperazione, diede finalmente voce a quel concetto ridicolo ed insensato che già da un po’ gli vagava in testa: Potter era interessato a lui. E fece di più che banalmente confrontarsi con l’idea: la prese sul serio. Se ne convinse, addirittura.
        Non fu come quando s’era riscoperto incuriosito dalla prospettiva d’avere un’influenza sul Grifondoro – affatto. In quel caso, s’era limitato a giocare mentalmente con gli eventuali lati intriganti della faccenda, senza aver l’occasione di delinearne i contorni. Quella volta, invece, poté metterli bene a fuoco, e gli apparvero così nitidi da incutere timore. In sua difesa – quale altro effetto poteva fargli il pensiero che Potter volesse dipingere un noi tra loro due?
        Si trattava di follia pura. Una follia spaventosa, perché dipendeva da quell’idiota in modi che non avrebbe mai voluto, e se davvero lui lo vedeva sotto quella luce, allora c’erano conseguenze agghiaccianti dietro l’angolo.
        Di certo, non l’avrebbe più guardato con gli stessi occhi. Poi, tra loro sarebbe stato strano ed indisponente ed imbarazzante, e Che Salazar mi salvi!
        Maledisse con forza l’istante in cui aveva ceduto, in cui s’era lasciato tentare dalle stille di sollievo che le vecchie abitudini promettevano; cioè, l’istante in cui s’era fidato di Potter, permettendogli di entrargli in testa. Era stato ingenuo, da parte sua, appoggiarsi a lui, ma non ne aveva potuto fare a meno: dopo i drammi e il dolore, non era riuscito a negarsi la comodità d’avere un punto fermo da cui ripartire. Peccato che l’avesse individuato nella persona più sbagliata di tutte.
        Non che fosse tutta colpa sua. Anzi, non lo era per nulla; come avrebbe potuto, quando era stato il Grifondoro che non aveva smesso di corrergli dietro? Che l’aveva indotto a cadere in trappola? Era chiaramente una vittima.
        Vittima o carnefice, però, poco importava: c’era comunque dentro sino al collo, e il peggio stava per arrivare.
 
 

        Esattamente come aveva immaginato, giunsero i momenti tinti di vergogna e imbevuti di disagio – sguardi che si evitavano, conversazioni aggirate, interminabili istanti di vicinanza forzata. Fu lacerante; abbastanza da consumare ben presto tutta la sua sopportazione.
        Mentre la pazienza sfumava, afferrò un dettaglio che gli parve pazzesco: era Potter ad avere strane tendenze, perciò teoricamente avrebbe dovuto tenerlo in pugno. Ed era così, era chiaro – solo che, si rese conto, continuava ad esser vero anche il contrario. Quell’imbecille non smetteva d’avere su di lui il solito ascendente, che lo portava a non saper lasciar perdere.
        Era una condanna, che si condensava nella morbosa mancanza che sentiva della loro cosa – delle parole scambiate di sfuggita, delle occhiate, di tutto quanto –; una mancanza abbastanza intensa da portarlo, nel giro di poco, a vagliare le possibilità considerate in precedenza del tutto irrazionali.
        Pensò di poter passar sopra al comportamento del Grifondoro, di poter accettare le sue bizzarre inclinazioni. Cominciò a ponderare l’eventualità di aver a che fare con lui a priori da esse, perché tanto non sono io quello che ne è uscito male; era l’altro quello matto.
        Ma: e se lo rifacesse? Il bacio, intendeva. E se― se glielo lasciassi rifare?
        Non che volesse! Per carità. Vero era, però, che aveva già rischiato di lasciare che accadesse nuovamente, quando in quel corridoio era rimasto impalato come uno stoccafisso concedendo a Potter il tempo di fare i propri comodi.
        Lui non poteva comportarsi in quel modo. Non poteva, perché si trattava di un Sangue Sporco, di una persona che era abituato ad odiare, eccetera. Si sentì sottosopra, e non riuscì a sopportare l’idea che tanto fastidio fosse dovuto proprio ad un tale soggetto; diamine, non era neanche bello!
 
 

        Quel ragazzo non bello, in ogni caso, fu costretto a nuotare in un mare di confusione del tutto simile a quello che attraversò Draco, con un bonus di difficoltà, per giunta: il dover affrontare la curiosità mista a preoccupazione di Hermione.
        Entrambi cercarono risposte; entrambi fallirono ripetutamente nell’impresa.
        Non furono comunque gli unici ad avere una parte nel quadro di caos di quei giorni. Dietro le quinte, infatti, anche Vivian Holmwood si trovò ad affrontare delle inaspettate grane. Ad innescare le sue preoccupazioni, un articolo sulla Gazzetta del Profeta: un trafiletto breve, quasi anonimo; l’ennesimo riguardante i processi minori legati alla guerra, che parevano andare avanti ad oltranza.
        Senza che nessuno lo venisse a sapere, il professore ebbe persino un incontro privato con la preside McGranitt.
 
 
* * *
 
 

        Harry aveva realizzato piuttosto facilmente che, se c’era una remota possibilità di appianare le cose con Malfoy, allora l’unico modo per coglierla era darsi tempo. Per questo aveva deciso d’aspettare senza compiere mosse azzardate – insomma, anche per quello. Più che altro perché l’orgoglio, che ancora ribolliva, gli impediva di rivolgersi al Serpeverde.
        In ogni caso: attendeva. Non avrebbe saputo dire quanto a lungo sarebbe durato quello stallo, e ciò gli aveva piantato il seme dell’agitazione nel petto; ormai, infatti, mancava poco più d’un mese al termine dell’anno scolastico: anche tenendo in considerazione il periodo degli esami, non avevano poi tanto margine.
        Aveva messo vagamente in conto almeno un paio di settimane di silenzio radio. Esso, invece, si sarebbe protratto per appena pochi giorni, e lui era sul punto di scoprirlo.
 
 

        Mantenendo il più possibile le distanze, Draco continuava a rimuginare. Oramai, i tormenti che lo assediavano lo tenevano in scacco: gli concedevano solo alcuni rarissimi istanti di pace, i quali puntualmente venivano interrotti da provvidenziali eventi che gli riportavano alla mente Potter.
        Capitò che, mentre in biblioteca marciava in direzione del proprio posto, la sua condizione s’aggravasse ulteriormente a causa della peggiore tra tutte le circostanze – cioè, la diretta vista del Grifondoro.
        Lo scorse ad un tavolo. Era insieme ad alcuni soggetti che non si curò d’indentificare e, apparentemente in maniera svogliata, studiava.
        Non poté trattenersi dall’affrettare il passo: quasi corse via. Sperò che tanto bastasse a scappare anche dai pensieri che minacciavano di investirlo nuovamente, ma ovviamente non fu così. Anzi, quando arrivò ad occupare la sedia, già aveva perso il controllo: il senso di mancanza era riemerso prepotente, insieme ad un alone d’inadeguatezza.
        Non poteva più tollerare che le cose andassero avanti così. Potter s’era già preso sin troppo di lui, e non gli avrebbe permesso di rubargli anche la sanità mentale. O meglio, ciò che ne rimaneva.
        Inspirò profondamente socchiudendo stancamente gli occhi, dopodiché si ripeté per quella che doveva essere la centesima volta: Riprenditi. Non dargliela vinta. Nonostante gli sforzi, però, non fu capace di riportare nei ranghi lo scompiglio che gli imperava dentro. Pur di calmarsi, ricorse all’artiglieria pesante; cioè, si concesse di sfiorare l’argomento che più d’ogni altro gli premeva di chiarire.
        Non riaccadrà. Lui non lo rifarà, si disse, mentre il vivo ricordo del bacio gli scorreva sottopelle. E in ogni caso non lo lascerai succedere, perché è sbagliato e disgustoso e strano e―
        Ma se lo rifacesse?
        Quel dubbio era sempre dietro l’angolo, pronto a colpirlo quando era più debole, e sebbene gli desse i brividi, lo preferiva di gran lunga all’altra grande insicurezza che lo perseguitava.
        Se io lo rifacessi? Cioè, parafrasando: se non lo fermassi? Se non volessi fermarlo? Aveva smesso di porsi domande tanto esplicite perché lo spaventavano, ma per sua sfortuna era comunque in grado di percepirle e di intuirne le implicazioni.
        L’incertezza, mista a perplessità e a vergogna, lo conquistò in un battito di ciglia.
        Avrebbe dato qualunque cosa pur di ricevere una prova che testimoniasse che nulla di irreparabile sarebbe avvenuto, e che gli desse l’opportunità di sbarazzarsi di quelle fastidiosissime crisi ricorrenti.
        Una prova. Come poteva procurarsene una? S’interrogò mentalmente a riguardo e, preda del vigoroso caos che ancora gli imperversava in testa, ebbe un’idea indefinibile e giunse ad una matta conclusione.
        Se solo ne avessi il coraggio― pensò, scettico. In effetti di coraggio non ne aveva, ma d’altro canto ormai non aveva più neanche la pazienza: il solo concetto di dover convivere con quella tortura più a lungo di quanto non avesse già fatto lo mandava in bestia.
        In un lampo d’intraprendenza, s’alzò di scatto dalla sedia come fosse convinto ad agire. Successivamente, però, esitò parecchio col capo chino, perché quello che aveva ideato era un progetto stupido e come se non bastasse non si stava dando il tempo di limarne i dettagli.
        Non seppe dire quanti secondi erano passati, quando finalmente rialzò lo sguardo e strinse forte i pugni. A convincerlo a muovere il primo passo, fu l’odio nei confronti del malato potere che Potter esercitava su di lui: si ripromise che l’avrebbe annullato una volta per tutte.
 
 

        Quando una macchia bionda comparsa da dietro una scaffalatura attirò casualmente la sua attenzione, e soprattutto quando identificò tale macchia col nome di Malfoy, Harry non seppe bene come reagire. Corrucciò appena la fronte mentre si scambiavano una rapida occhiata, a seguito della quale riportò allarmato lo sguardo sui libri.
        Poté verificare che Neville e Luna, seduti vicino a lui, non s’erano accorti di nulla; stavano infatti mantenendo la testa bassa, l’uno a scrivere e l’altra a leggere. In un primo momento, pensò d’imitarli e d’ignorare la presenza del Serpeverde. In fondo, non stava di certo nascosto a metà dietro quello scaffale per lui.
        O sì?
        Occhieggiò la zona il più discretamente possibile, e costatò che Draco praticamente pareva appostato. Non lo fissava più, però: aveva gli occhi incollati al pavimento e sembrava impegnato a riflettere su chissà cosa. Lo reputò bizzarro, ma ancora non volle montarsi la testa.
        Lasciò passare quasi un minuto – istanti, quelli, che pesarono sulle sue spalle come fossero stati secoli –, dopodiché cedette e cominciò ad interrogarsi sulle intenzioni di Malfoy; perché chiaramente aveva in mente qualcosa. Un qualcosa in cui si concesse di sospettare d’essere coinvolto, considerato che fu destinatario d’una seconda occhiata a dir poco enigmatica.
        Una parte di lui rigettò l’idea di dargli corda, un’altra si spaventò e un’altra ancora s’arrabbiò. Principalmente, però, si sentì intrigato e piacevolmente sorpreso. Prima ancora che potesse ben analizzare tutti i dettagli, dunque, si trovò a dire: «Vado a cercare un libro». Scattò in piedi e, senza consentire agli amici di ficcanasare, prese ad avvicinarsi agli scaffali.
        Dapprima, gli parve che la figura del Serpeverde fosse scomparsa: non faceva più capolino da dietro l’angolo. Per questo, quasi sobbalzò quando, svoltando, se lo ritrovò praticamente di fronte.
        Draco, che era parzialmente appoggiato alla scaffalatura, nel veder comparire il Grifondoro scattò sull’attenti e s’irrigidì. Un evidente turbamento gli oscurò il volto.
        Harry iniziò improvvisamente a percepire un qual certo disagio. «Hm», mugolò ricambiando con incertezza lo sguardo dell’altro. Pensò di dover fare qualche domanda, ma optò comunque per il silenzio.
        A seguito d’una manciata di momenti di esitazione, Malfoy sbuffò: non ne poteva più di rodersi il cervello per colpa di un imbecille del calibro dell’eroe del Mondo Magico. Decise quindi di procedere: se era di una prova che aveva bisogno, una prova si sarebbe procurato.
        Fu con imbarazzata fermezza che prima spinse e poi guidò Potter tra i muri di tomi; il tutto, mentre quello borbottava finalmente gli interrogativi di rito: «Che fai?», «Dove stai andando?» e «Mi stavi fissando da dietro lo scaffale?» Inutile dire che lui non rispose. Neanche provò ad aprir bocca, per esser precisi; almeno, finché non raggiunsero una sezione della biblioteca dedicata a testi di Storia della Magia. Uno spazio deserto, e per buone ragioni: i soli titoli dei volumi sulle scansie trasudavano noia. Persino una studentessa modello come Hermione Granger se ne sarebbe tenuta alla larga – e con ciò, s’è detto tutto.
        Comunque, una volta che furono giunti lì, Draco parlò.
        Non fu semplice, per lui: dovette combattere contro i rimasugli del proprio convalescente buonsenso, che ancora si opponeva a tanta avventatezza, e al contempo non poté sottrarsi dal gestire l’ansia e il cuore accelerato, il quale minacciava di fargli assumere colorazioni inappropriate. Riuscì nell’impresa ripetendosi che sono un Malfoy, e i Malfoy sanno sempre come prendersi ciò che vogliono (soprattutto se ne andava della loro stabilità).
        «Fallo».
        Una sola parola, un sibilo della durata d’una frazione di secondo. Un mero soffio, insomma: eppure portava con sé titaniche implicazioni.
        Harry s’insospettì. «Cosa dovei fare?»
        Il Serpeverde accartocciò l’espressione e pensò che s’era ridotto parecchio male, per uno che voleva semplicemente mettere alla prova il proprio perverso rivale. «Fallo e basta».
        Se Potter si fosse rifiutato, avrebbe potuto tranquillizzarsi. Se invece avesse fatto strane mosse, avrebbe potuto provare a se stesso di poterlo respingere. In ogni caso, dunque, la cosa gli sarebbe stata di conforto – ciò, ovviamente, al prezzo della figuraccia che era il dovergli chiedere di farsi avanti e, a quanto pareva, il dovergli spiegare perché. A giudicare dal modo in cui lo scrutava, infatti, il Grifondoro non sembrava aver pienamente colto il punto della questione. Draco non aveva alcuna intenzione di sottoporsi alla vergognosa condanna di parlare esplicitamente, perciò tutto ciò che fece fu spronarlo con quelli che, a parer suo, furono sguardi privi d’ogni ambiguità.
        Dopo un attimo di disorientamento, Harry capì. Subito mise su una faccia stralunata e aggrottò la fronte, incredulo. «Vuoi che―?» borbottò, agitandosi e preoccupandosi.
        Malfoy non fiatò.
        «Non― No. Scordatelo, non ci penso neanche». Indietreggiò d’un mezzo passo. «Ma che diamine significa?»
        Le ombre sul viso di Draco assunsero un’illeggibile configurazione. «Curiosità».
        Potter non seppe come interpretare una tale risposta: la testa gli si riempì d’ipotesi sconclusionate. Tra le tante, ne emerse una particolarmente inquietante che vedeva come protagonista un Malfoy curioso in quel particolare ambito – sessualmente, ecco – per, beh, causa sua. Solo a pensarlo, s’imbarazzò e mugugnò contrariato tra sé e sé.
        Suvvia, non era possibile. Assolutamente. Di sicuro lo stava solo provocando. Lui non voleva certo concedergli di prenderlo in giro a quel modo, dunque ribadì: «Non lo farò». Che poi, davvero aveva capito bene? Gli aveva chiesto di… baciarlo? Magari aveva viaggiato con la fantasia; eppure, gli occhi del Serpeverde parevano parlare chiaro.
        E da quando in qua gli occhi parlano? Non lo sapeva, ma o quelli dell’altro lo stavano facendo, o lui era definitivamente impazzito.
        Tentò disperatamente di frenare il convoglio di pensieri scuotendo appena il capo, poi «Non voglio», borbottò.
        Facendosi i complimenti da solo per la pseudo calma che stava riuscendo ad inscenare, Draco inarcò un sopracciglio. «Davvero?» mormorò, al contempo neutrale ed insinuante.
        Davvero, avrebbe voluto replicare seccamente Harry, perché rifare quello con Malfoy era l’ultimo dei suoi desideri – anche se, in realtà, considerati i recenti avvenimenti, non era più sicuro di sapere quali fossero i propri desideri. Comunque fosse, non fu capace di scandire alcun suono: si lasciò infatti distrarre dal rimbombo della pulsazione del cuore nelle orecchie, e tentennò.
        A quel punto, forse il Serpeverde avrebbe dovuto accontentarsi e fare dell’evidente ritrosia dell’altro la prova di cui aveva bisogno. Accontentarsi, tuttavia, era una cosa che era talmente poco abituato a fare, che d’impulso scartò la possibilità. Si rese conto che proseguire su quella strada sarebbe stato insensato, ma non fu in grado di persuadersi a curarsene. Non osò interrogarsi sul perché e si lasciò cogliere da un lampo d’irrequietezza, a causa del quale non poté impedire la progressiva rottura della maschera posata dietro cui era riuscito a nascondersi dacché aveva portato Potter in quella deserta distesa di libri inutilizzati.
        Il Grifondoro, osservando l’espressività che lenta ma costante riemergeva sul volto di Malfoy, si sentì come si sente chi ascolta una lingua sconosciuta: intuì la presenza d’idee complesse, d’emozioni e di significati, ma non riuscì a far proprio alcuno di essi. Uno spettro di frustrazione crebbe in lui.
        «Perché di colpo mi chiedi di farlo?» domandò.
        Draco avrebbe potuto ammettere che si trattava solo d’un test e lavarsene le mani, ma non lo fece. Ribatté, piuttosto: «Davvero non vuoi farlo?»
        Una strana nota della sua voce riverberò in Harry, portandolo a serrare la mascella. «Perché, tu vuoi?»
        Per svariati secondi, aleggiò il silenzio.
        Cogliendo l’occasione per riflettere, Potter si convinse d’aver identificato una qual certa serietà nel modo di porsi dell’altro. Avrebbe potuto interpretarla in mille modi, certo, ma ce n’era uno in particolare che, per quanto astruso fosse, quasi lo pregò di sceglierlo – lo tentò. E alla fine, lui cedette.
        Vuole farlo davvero?
        Non era del tutto persuaso, beninteso, ma cominciò ad attribuire una certa rilevanza alla possibilità. Rilevanza che crebbe esponenzialmente quando mise a fuoco che Malfoy ancora non aveva negato nulla, né tantomeno s’era mostrato schifato come al solito. A causa della portata di tali speculazioni, della fretta che gli mise addosso l’assordante riecheggiare del suo stesso battito, della curiosità e forse anche d’un pizzico di follia, d’un tratto mosse un passo in avanti, in cerca di ulteriori conferme o d’una smentita.
        Per sua vaga sorpresa, Draco non l’attaccò per respingerlo. Anzi, non mosse proprio muscolo. Avrebbe voluto farlo, sia chiaro – solo, non ci riuscì. In parole povere, il suo incubo peggiore stava diventando realtà: si stava scoprendo incapace di reagire adeguatamente ai gesti del Grifondoro. Ma se era un incubo, allora perché non aveva paura?
        Per un istante, Harry parve intenzionato a parlare. Tacque, invece, distratto sia dalla penetrante occhiata che il Serpeverde gli scoccò, sia dalla convinzione che s’aspettasse qualcosa da lui. Forse, aspettava che gli desse ciò che aveva chiesto – un bacio. Deglutì nervosamente, perché non voleva darglielo; o meglio, non poteva volerglielo dare.
        In maniera contraddittoria, avanzò ancora un pochino. Di nuovo, pur avendo massicce dosi d’agitazione nelle vene, Malfoy restò impalato dov’era ad annaspare tra i pensieri, esibendo un’espressione ammorbidita dalla confusione.
        Rimasero in stallo per un po’ – giusto il tempo di cui Potter necessitò per mordersi forte una guancia e decidere se dar ascolto al caos che gli stava crescendo in petto o al buonsenso. Quest’ultimo, in un disperato tentativo di arginare i danni, prontamente gli suggerì di prendere le distanze, di non far nulla di compromettente e― oh, al diavolo.
        Mezzo secondo dopo quell’imprecazione mentale, tenendo gli occhi rigorosamente strizzati, appiccicò impacciato le labbra a quelle di Draco, trovandole tese ma piacevolmente calde. Una scarica di adrenalina lo mandò in fibrillazione.
        Dal canto suo, il Serpeverde s’irrigidì ma non si ribellò. Non tanto perché non poté, quanto perché non volle: qualcosa di gorgogliante a livello dello stomaco lo convinse a restare mansueto, trasmettendogli un curioso senso di sollievo e di sicurezza.
        Di una prova s’era messo alla ricerca, e una prova ora aveva; non del tipo che aveva auspicato, certo, ma pur sempre d’una prova di qualcosa si trattava. Non riuscì che ad avere una sfocata visione di ciò che essa comportava, e non si curò di metterla a fuoco; non in quel momento, almeno, perché c’era una bocca premuta contro la sua e magari – solo magari – la cosa meritava tutta la sua attezione.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Tra Potter e Malfoy comincia a sfumare il diniego! :) Godiamoci un altro bacino. ~ Nel marasma vediamo anche un cameo di Holmwood; per lui, preoccupazione e articoli di giornale (è quasi giunto il suo momento, giuro!).
Spero che i passaggi introspettivi non sembrino né affrettati, né ermetici, soprattutto per quel che riguarda Draco. Poi mi auguro che la reazione di Hermione sia almeno un po' convincente, anche se non ha avuto occasione per dare vere e proprie dritte a Harry. 

Questo capitolo è corposo, come anticipato. Vi spaventate se vi dico che ce ne saranno anche di più lunghi? A parte gli scherzi, se pensate che sia troppo, che c’è il rischio che la lettura s’appesantisca, vi prego di farmelo sapere. Intanto, grazie per aver letto, seguito, preferito, commentato sin qui! c:
Baci e a presto,
T. ♪
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Capitolo 24
*** 23. Senso (in)compiuto ***


23.
Senso incompiuto
 
 
 
        Baciare Draco Malfoy era una di quelle esperienze che Harry, anche solo riavvolgendo il tempo di pochi mesi, non avrebbe mai creduto di poter vedere sul proprio curriculum. Soprattutto non con la postilla: “evento volontariamente ripetuto”. Eppure eccolo lì, con la bocca impegnata proprio a ripetere.

        Fu strano in tutti i modi possibili, a partire dalla sensazione d’essere appiccicato ad una sottospecie di statua vivente. Non che avesse il diritto di criticare l’immobilità dell’altro: lui per primo s’era irrigidito di botto non appena s’erano sfiorati.
        Proprio a causa di tanto gelo, ben presto fece un passo indietro. Si ritrovò davanti un Serpeverde a dir poco ingessato: teneva le palpebre serrate e, impalato sul posto, con le spalle e la schiena tese, stringeva forte i pugni. Non sembrava per nulla intenzionato a sciogliersi.
        Prendendo un bel respiro, Harry affrontò la realtà: aveva fatto quello, per davvero. Perché aveva voluto. Perché gli era stato chiesto.
        Già, Malfoy gliel’aveva chiesto. Quindi―
        «Hm» mugugnò, lottando contro l’imbarazzo; sperava che tanto bastasse a spronare l’altro a riprendersi: aveva un sacco di domande da porgli.
        Ciò che ottenne, fu di far finalmente schiudere gli occhi a Draco; neanche a dirlo, la prima cosa che quegli occhi fecero fu scagliare uno sguardo pungente di cui lui si ritrovò ad essere il bersaglio, e che causò la prematura morte della sua voce. Tacque, quindi, e presero ad osservarsi a vicenda.
        Pochi secondi, e il Serpeverde azzardò un movimento: sollevò di scatto un braccio, tenendolo per un istante bloccato al livello del petto prima di completare la manovra e portarsi la mano alla bocca. Morbidamente, si passò il dorso sulle labbra; gesto, quello, che aveva già compiuto in simili circostanze, ma che in quel caso, a differenza dell’occasione precedente, non parve proprio essere dettato dallo schifo. Potter se ne accorse ed accolse piacevolmente il dettaglio – tanto, che osò rilassarsi un pochino. Non appena lo fece, qualcosa gli sfarfallò sulla punta della lingua, quasi a ricordargli che c’era necessità che parlasse.
        «Uhm». Si morse una guancia per non fermarsi lì e proseguire: «Mal―»
        «Zitto».
        Quel sibilo, tagliente come pochi, ebbe il potere di turbarlo. S’immusonì, ritentando: «Non starò z―»
        «Non una parola» l’interruppe ancora Malfoy, lasciando suo malgrado trapelare un’abbondante quantità d’incertezza. Fece appena in tempo a terminare la frase che un’ombra gli inscurì il viso, mentre esalava un lieve e tremolante sospiro.
        Fosse dipeso da Harry, avrebbe azzardato un ennesimo tentativo di dialogo. Ma non ne ebbe la possibilità: a seguito d’un attimo d’esitazione, infatti, tenendo la testa bassa e facendo scattare nervosamente gli occhi a destra e a manca, Draco iniziò ad indietreggiare. Pochi istanti, e girò i tacchi per scappar via. Il Grifondoro, dal canto suo, cercò d’agguantarlo – e ci riuscì: gli afferrò un braccio, ma la sua presa fu scacciata seduta stante sulle note d’un lamento rabbioso e, prima ancora che potesse decidere di agire di nuovo, il Serpeverde s’era già allontanato di diversi passi. A quel punto, non poté che lasciarlo andare.
        Rimase, così, in compagnia dei soli polverosi libri.
        La confusione lo assalì. Si sforzò di gestirla, e nel farlo s’accorse di non essere agitato – insomma, lo era, ma assolutamente non quanto avrebbe dovuto. Aveva appena dato un bacio a Draco Malfoy, per la seconda volta, e non stava perdendo la ragione; era sì e no un pochino su di giri. Non seppe se dirsene più sollevato o inquietato.
 
 

        Tornò al tavolo a cui erano seduti Neville e Luna dopo un paio di minuti di inconcludente riflessione. Era consapevole che non sarebbe più riuscito a combinar nulla in quanto a studio, ma prese comunque posto sulla sedia, riversandosi sulle pergamene di appunti con un’espressione combattuta stampata sul volto.
        «Niente libro?» sussurrò Paciock, legittimamente curioso.
        Harry, solleticato da un senso di déjà-vu, fu tentato di chiedere: Quale libro? ma all’ultimo evitò la gaffe ricordandosi delle parole che aveva borbottato in direzione degli amici prima di raggiungere Malfoy dietro lo scaffale. Scosse il capo per negare, quindi.
        Neville, innocentemente, non indagò oltre. Luna, invece, parve volerlo fare: impassibile in viso, puntò gli occhi su Potter e lo scrutò per una decina di secondi senza batter ciglio. Inevitabilmente incatenato allo sguardo della Corvonero, lui contrasse i muscoli. Non aveva idea di cosa la ragazza avrebbe potuto dire o fare, e una spolverata di tensione lo colse.
        Alla fine, lei si limitò ad aprirsi in un ambiguo, eppur luminoso, sorriso; non proferì parola. Cosa avesse o non avesse pensato sul suo conto in quel frangente, Harry non l’avrebbe mai saputo.
 
 

        La sorprendente pseudo calma che l’aveva avvolto in biblioteca lo accompagnò per il resto del giorno, trasmettendogli un’estranea sensazione di impalpabile perplessità: percepiva la presenza d’un peso sulle spalle, ma non riusciva a preoccuparsene. Era come se una parte di lui già conoscesse tutte le risposte – e forse era proprio così. In fondo, l’atteggiamento del Serpeverde e il suo mancato disgusto, almeno da un certo punto di vista, avevano chiare implicazioni.
        Draco l’aveva cercato, gli aveva chiesto un bacio e se l’era lasciato dare. Più Harry ripercorreva con la memoria i vari passaggi, più l’insicurezza diventava labile. A mano a mano che la certezza si consolidava, però, il cuore di pari passo accelerava, perché quel bacio gliel’aveva proprio dato e, come anche in precedenza, non era pentito.
        Non sapeva cosa questo significasse di preciso. Tuttavia, sapeva d’aver avuto il desiderio di ripetere; il punto era, quindi: lo aveva ancora?
        Forse. Bramava la conoscenza; voleva toccare con mano, vedere coi propri occhi, scoprire quel lato di Malfoy quasi per assicurarsi che davvero esistesse. E l’istinto di cedere al desiderio, per altro, non fece che intensificarsi minuto dopo minuto; fu quello che, alla fine, vinse la sua resistenza, condannandolo a fare i conti con un’impaziente frustrazione.
        Che avesse qualcosa per la testa, dunque, apparve ben presto evidente a tutti quanti; a qualcuno più di altri. Hermione ricoprì il ruolo di questo qualcuno.
        Dopo che l’amico le aveva parlato dell’identità del “ragazzo”, aveva provato e riprovato a spillargli altre informazioni. S’era fatta in quattro per tentare di convincerlo a concederle una discussione privata – specialmente dopo che aveva saputo del pugno e della conseguente breve rissa –, purtroppo senza ottenere risultati: Harry non aveva fatto altro che negarsi, reclamando tempo per sbrogliare i propri nodi psicologici; tempo che lei sapeva essere giusto concedergli. Quando quella sera lo scorse in Sala Comune, però, trovandolo afflosciato e permanentemente immerso in sconosciuti pensieri, non poté trattenersi dall’azzardare ancora una volta un approccio.
        Gli si sedette accanto approfittando di un momento in cui entrambi erano soli – Ron, più in là, stava disputando una partita a scacchi, e Seamus, che per un po’ era rimasto con Potter, s’era appena allontanato per chiacchierare con Dean.
        «Mi sembri distratto. Tutto okay?» mormorò, rivolgendogli una morbida occhiata.
        Mugolando appena, lui parve riscuotersi e tornare coi piedi per terra. Corrucciò la fronte, abbassando lo sguardo e tormentandosi le dita delle mani, e per un lungo momento tacque.
        Hermione sospirò, già pronta, seppur con rammarico, a rinunciare. Un inaspettato soffio, però, la fece scattare sull’attenti, infondendole la speranza d’esser riuscita a far breccia nella muraglia difensiva eretta dall’altro.
        «Mi ha chiesto di farlo. Di rifarlo». Harry si lasciò scivolare tra le labbra quelle parole con un’impensabile leggerezza, spronato dall’impazienza che gli scorreva sottopelle e che non sapeva come incanalare.
        Lei, a dir poco colpita, sgranò gli occhi e si schiarì la voce come se qualcosa le fosse andato di traverso. «Cosa
        «Hai― hai capito».
        «Forse no».
        «Io credo di sì».
        Per un istante, Hermione tentennò battendo ripetutamente le ciglia con aria disorientata. Poi bisbigliò, incredula: «Davvero
        Potter, mesto, annuì a testa bassa.
        «E tu cosa― cos’hai fatto?»
        Lui, imbarazzato, non rispose: semplicemente le scoccò uno sguardo che, ne era certo, le avrebbe concesso di capire da sé com’erano andate le cose.
        A seguito di quella rivelazione, lei avrebbe tanto voluto proseguire con le domande, ma la ricomparsa di Seamus la mise in difficoltà. Non era sua intenzione mettere a disagio l’amico forzandolo a discutere davanti ad altri, e sapeva per esperienza che lui non l’avrebbe seguita in un angolo più tranquillo. Non si perse comunque d’animo, confidando in una seconda sparizione di Finnigan – peccato che il miracolo non avvenne. Anzi, di lì a poco si unì a loro anche Ron, e tutti i suoi piani andarono in fumo. Non poté che cercare di farsene una ragione.
        Harry s’accorse della frustrazione di Hermione, e se ne dispiacque. Non fece nulla a riguardo, però, tornando a perdersi tra i propri pensieri; si riscosse brevemente solo quando Weasley li raggiunse.
        Che Ron avesse ancora delle riserve nei suoi confronti non era un segreto. In fondo, era da ormai un mese che tiravano avanti a ritmo di silenzi ed incomprensioni.
        Sapeva che, presto o tardi, avrebbe dovuto chiarire anche con lui. Solo, non aveva idea di come muoversi; anche perché dare alla questione la rilevanza che meritava non gli risultava affatto semplice: Malfoy gli aveva infettato la mente, lasciando troppo poco spazio per tutto il resto.
 
 

        In quegli stessi momenti, dall’altra parte di Hogwarts, c’era chi, spalmato scompostamente sotto lenzuola orribilmente fredde, attendeva un sonno che non sarebbe arrivato. Non quella notte, almeno.
 
 

        C’erano cose che Draco non aveva mai detto a nessuno, neanche a se stesso; cose che era stato necessario tenere taciute. Paure, idee, ipotesi, speranze – un groviglio indefinito di concetti mai nemmeno sfiorati ammassato nell’ombra.
        Mantenersi liberi da ciò che è potenzialmente pericoloso è una cosa che s’impara a fare, se si è assoggettati ad un padre come Lucius Malfoy e si è costretti a vivere alla mercé d’un mago assassino che in qualsiasi momento può entrarti in testa. Lui, quell’abilità, l’aveva acquisita in fretta – così era diventato un buon Occlumante, e sempre così aveva accumulato tutti quei segreti – e, anche se ormai non ce n’era più bisogno, a volte ancora si riscopriva a farne uso.
        Era in quel modo che aveva cercato d’impedirsi di restare incagliato nel ricordo di ciò che era accaduto in biblioteca: era scappato dalla consapevolezza e dalla memoria, come sigillandosi nell’omertà, così da mettersi in salvo. Come sempre, c’era riuscito. Ma aveva finito col detestare se stesso; malgrado gli effetti apparentemente benefici, infatti, odiava quella tecnica d’autodifesa, perché lo riportava ai giorni della guerra e lo faceva sentire debole. Il fatto che quel comportamento fosse radicato in lui abbastanza da venirgli spontaneo, poi, non mancava mai di fargli presente quanto l’anno trascorso nel terrore l’avesse cambiato, corrodendolo dall’interno.
        Non lo sopportava: nulla lo mandava in bestia come la prospettiva di darla vinta a tutto quel nero che gli aveva invaso il corpo e, temeva, anche l’anima. Voleva ribellarsi, rivendicare la propria libertà, debellare gli spettri del passato, sebbene sapesse che ciò non sarebbe mai stato interamente possibile.
        Già racimolare il coraggio di fare un tentativo, per lui, sarebbe stato importante. Fu quasi con disperazione che, infine, rigirandosi pesantemente tra le coperte, si convinse di volerci provare – si dette la possibilità di lasciar correre i pensieri, sino a quel momento ingiustamente intrappolati.
        L’immagine di Potter che lo baciava divenne subito più vivida che mai, e contribuì al verificarsi d’un picco di vergogna che finì con l’incendiargli il viso.
        Aveva lasciato che quello succedesse. Anzi: aveva fatto in modo che succedesse; se l’era andata a cercare. E non era neanche lontanamente l’aspetto peggiore – a competere per il titolo c’erano ben altre verità. Ad esempio, il fatto che la cosa gli fosse più o meno piaciuta.
        Quando finalmente si concesse di riconoscere l’esistenza di quel dettaglio, tremò per i più disparati motivi: per l’imbarazzo, perché aveva pazzescamente a che fare con quello che a lungo era stato lo Sfregiato; per l’euforia, perché dopo averlo tanto desiderato si stava alla fine ribellando e stava riacquistando fiducia nella privacy della propria mente; per la paura, sia d’essere scoperto e punito, sia di dover affrontare le conseguenze che l’aspettavano.
        L’agitazione che derivò dal mix di sentimenti gli mise in subbuglio lo stomaco.
        D’un tratto, realizzò che non avrebbe chiuso occhio. L’unica cosa che poté fare fu lamentarsi sospirando rumorosamente.
 
 
* * *
 
 

        Hermione, pur senza smettere di scrutare attentamente Harry, prese a lanciare occhiate indagatrici anche a Malfoy. Nel momento in cui Potter se ne accorse, fu attraversato da una scossa di disagio che lo fece irrigidire e che alimentò il suo impellente bisogno di trovare uno sfogo.
        L’istinto gli suggeriva di prendere la faccenda di petto, ma non era certo che fosse un piano affidabile; s’aspettava, infatti, che il Serpeverde fuggisse, che lo evitasse, o, ancora peggio, che osasse scaricare su di lui tutta la colpa. La sola idea lo fece rabbrividire dalla rabbia.
        A riprova del fatto che non sempre tutto va per il verso sbagliato, ogni sua previsione venne presto smentita. Per sua somma sorpresa, infatti, subito prima dell’inizio di una lezione condivisa di Difesa contro le Arti Oscure, fu Malfoy stesso a cercarlo – non in maniera plateale: non gli parlò e non gli si avvicinò. Lo guardò e basta, ma lo fece in un modo talmente schietto che Harry non ebbe alcun problema ad intendere quale fosse il messaggio.
        Vide apertura in lui, come se fosse pronto ad un confronto. All’inizio, quasi stentò a crederci; poi, però, mentre la voce del professor Holmwood suonava piatta in sottofondo, lo scetticismo si fece da parte lasciando spazio ad una timida ventata d’ottimismo.
        Attendere la fine dell’ora – e dunque il momento in cui, forse, ci sarebbe stata l’occasione di combinare qualcosa – fu insieme straziante ed intrigante per via delle aspettative che creò tra sé e sé.
        Quando finalmente l’insegnante li congedò, fu preda d’un passeggero formicolio diffuso.
        Ordinando il proprio materiale, occhieggiò la schiera di Serpeverde dall’altra parte dell’aula, come andando in cerca d’un qualche segnale. Non ne captò nessuno, però – Malfoy non stava prestando attenzione a lui, né pareva intenzionato a farlo. Al pensiero d’essersi illuso, il Grifondoro si lasciò sopraffare da un lieve panico.
        Terminò di radunare libri e pergamene con una lentezza sovrumana, così da poter studiare Draco. Lo vide esitare ed intrattenersi in chiacchiere inutili gironzolando a vuoto attorno ai banchi, ed ipotizzò che, magari, non era l’unico a tentare di prender tempo; magari lo stava facendo anche l’altro, e dovevano solo fabbricare le circostanze che avrebbero concesso loro d’interagire.
        «Hai fatto?» lo richiamò all’ordine Ron con una punta d’acidità nella voce. Era stato trattenuto da Hermione perché aspettasse l’amico, e l’evidente motivo del ritardo – le occhiate che Potter non smetteva di scoccare ai verde-argento – lo stava irritando non poco.
        Harry, dopo essersi pigramente voltato verso Weasley e Granger, s’accorse al volo d’essere stato sgamato da entrambi. Fu imbarazzante: di riflesso abbassò il capo e, siccome aveva ormai radunato tutto ciò che c’era di suo, non poté più ritardare l’avanzata verso l’uscita della stanza.
        Si mosse a passi brevi, continuando a sbirciare i Serpeverde. Ormai se n’erano andati quasi tutti; con Malfoy era rimasta solo Parkinson e, a giudicare dall’espressione che aveva stampata in faccia, anche lei era spazientita dall’attesa. Proprio spostando gli occhi dalla ragazza, finalmente intercettò un secondo sguardo da parte di Draco.
        Una morsa gli attanagliò lo stomaco, perché Forse è tardi. Hermione e Ron avevano già varcato la porta, lui stava per imitarli, e considerato che era già stato dannatamente esplicito poco prima, il suo lato coscienzioso gli sconsigliò di fermarsi e di rendersi ancor più palese.
        Si rese conto che d’essere palese, in fondo, non gli importava più granché quando ormai aveva già messo piede nel corridoio: rallentò e si bloccò immediatamente. A costo di fare una figuraccia, poi, sussurrò: «Uhm, voi andate». Gli amici, subito, girarono il busto perplessi. Non diede loro la possibilità di chiedere spiegazioni, aggiungendo: «Vi raggiungo tra un attimo. Devo solo― fare una cosa».
        Se Hermione, a quel punto, ancora aveva dei dubbi sulla natura della cosa che l’altro doveva fare, essi di sicuro furono spazzati via dalla comparsa di Malfoy, che fece capolino dall’aula e istantaneamente prese a fissare Potter. A quest’ultimo lei rivolse una miriade d’interrogativi solo alzando le sopracciglia, e si vide rispondere con uno sguardo supplichevole che la spinse a sospirare appena. Ponderò brevemente, dopodiché si arrese: prese Weasley per una mano calmando il suo confuso borbottio, e con lui s’avviò.
        Harry osservò i due andar via per un secondo, poi cercò con gli occhi il Serpeverde: l’aveva sentito sopraggiungere.
        Pansy, che l’affiancava tenendo le braccia incrociate, gli stava facendo il terzo grado borbottando sottovoce. «Si può sapere che ti prende, oggi? E non rifilarmi un’altra bugia».
        «Niente. Va’ e basta; quante volte dovrò chiedertelo ancora?»
        «Tante, perché non me ne andrò – non finché non mi dirai cos’hai». Arricciò le labbra, «È inutile che ripeti che non è niente, non me la bevo».
        Draco, scocciato, si morse una guancia. «Credevo di essere stato chiaro, ma evidentemente non è così. Lascia che riformuli il concetto: non sono affari tuoi, smetti d’insistere. Ora, sparisci».
        Oltraggiata, Parkinson lo fulminò. «Non so proprio perché m’interesso ancora a te» bofonchiò dandogli teatralmente le spalle e cominciando ad allontanarsi – nel farlo, s’assicurò di dedicare un’occhiata truce anche al Grifondoro.
        Quello, che della discussione tra le due serpi non aveva ascoltato granché, si mise sulla difensiva sostenendo arditamente lo sguardo della ragazza, che gli sfilò accanto. Poi, una volta che lei fu passata oltre, tornò a cercare Malfoy. E lo trovò.
        Condivisero un meraviglioso istante denso di vergogna, che si protrasse sinché entrambi non spostarono impacciatamente gli occhi per posarli su muri e pavimenti circostanti. Una simpatica cappa di silenzio li avvolse. A distruggerla, dopo un indefinito lasso di tempo, ci pensò Harry.
        «Ehm. Insomma―» ma si bloccò subito, la lingua annodata.
        Qualche secondo, e Draco si decise ad intervenire. «Stai sul serio cercando di fare conversazione?»
        «Qualcuno doveva iniziare».
        A ciò, seguì un secondo momento di teso imbarazzo. Fu il turno del Serpeverde di mettervi fine, e lo fece sospirando, scandagliando i dintorni e sbottando, con tono rassegnato: «Non qui».
 
 

        Muoversi nei corridoi senza destare troppi sospetti non si rivelò affatto semplice: dovettero fare i conti con altri lunghi istanti di disagio, gentilmente innescati dagli studenti che non si risparmiarono di squadrarli. Alla fine, comunque, trovarono il modo di raggiungere una destinazione appropriata. Non un banale angolino tranquillo – a Malfoy proprio non sembrava abbastanza –, bensì un’aula in disuso; la stessa di cui avevano già precedentemente approfittato.
        Entrarono assicurandosi che nessuno li scorgesse, per poi chiudere la porta e sigillarsi nella penombra; la stanza era polverosa, scura e desolata esattamente come l’avevano lasciata.
        «Hm» mugolò sommessamente Potter.
        L’altro, lasciandosi cogliere da un lampo di spaventata presa di coscienza, mise a fuoco d’essersi probabilmente appena messo in guai seri e, col battito accelerato, sigillò le labbra e chinò la testa.
        Passandosi distrattamente una mano tra i capelli, Harry deglutì e soffiò, sincero: «Credevo che saresti scappato, e che non avresti voluto chiarire».
        Draco aggrottò la fronte, inasprendosi e raccogliendo il coraggio per parlare. «Perché cavolo siete tanto convinti che io sia masochista
        Per più ragioni, il Grifondoro non rispose. Siete? pensò infatti, reso perplesso dal plurale, e Masochista? ripeté tra sé e sé, colpito – significava forse che la mancanza di dialogo tra loro lo faceva star male? Il solo pensiero gli trasmise un piacevole brivido di lusinga. In ogni caso, non si concesse di perder la concentrazione; cercò dunque di riportare la conversazione in carreggiata, sforzandosi d’andar dritto al punto. O, almeno, d’avvicinarcisi.
        Non fu facile, per niente. «Visto che siamo qui, uhm, credo che prima di tutto dovresti―» Alle prese con una frase che s’arrampicava sugli specchi, tentennò e gesticolò nervosamente. Inspirò profondamente prima di ritentare: «Voglio dire, tu sei― hm, a te― a te piacciono i maschi? Dovresti metterlo in chiaro, ecco».
        A Malfoy esplose una bolla di vergogna sul viso. Strinse i pugni e serrò la mascella, poi roteò gli occhi e sbuffò e, infine, affondò i denti nel labbro inferiore. «Non ho intenzione di parlare di questo con te».
        «Invece lo farai, considerato che mi hai chiesto di― di, uh, baciarti». L’ultima parola a stento la sussurrò, ma s’aggiudicò comunque la propria ennesima dose d’imbarazzo.
        Con le guance spruzzate d’un rosa sempre più acceso, il Serpeverde ricorse d’istinto alla miglior difesa che conosceva: l’attacco. «Correggimi se sbaglio: tu l’hai fatto. Quindi che mi dici di te? Scommetto che non sei più tanto convinto di non essere un pericolo per il genere maschile».
        «Io― non lo so».
        «Allora non lo so neanch’io».
        Potter, a costo d’andare in overdose d’agitazione, non volle demordere: «L’avevi già fatto con un ragazzo?»
        «Tu?»
        Soppresse un versetto lamentoso. «No. Non― non era mai successo».
        Draco, tentando di tenere a bada il pizzicore che lo stava a mano a mano invadendo, sulle note d’una mezza risatina isterica si portò brevemente le mani al viso. «Oh, sono speciale. Che onore» mormorò sarcastico.
        Harry lo guardò male. «Tocca a te rispondere».
        «Non ci penso nemmeno».
        Dopo un istante di irritata esitazione, il Grifondoro lo rimbeccò: «Perché hai voluto parlare se non avevi intenzione di farlo sul serio?»
        Piccato, Malfoy accartocciò l’espressione. «Sto cercando di farlo sul serio, credimi».
        «Ah, sì? Non sembra».
        «Cosa ti aspettavi? Questa situazione è dannatamente assurda!»
        «Non serve che me lo dica tu».
        Tacquero per un po’, ciascuno fissando imprecisati punti nell’aria. Sapevano entrambi che, al di là delle questioni che già avevano sollevato – e che non li avevano portati proprio da nessuna parte –, era uno e uno solo il quesito di cui dovevano veramente preoccuparsi; quesito che incombeva, che nessuno dei due pareva aver voglia di formulare, e che, temevano, o sarebbe caduto nel silenzio, o avrebbe portato a pazzesche conseguenze.
        Fu Potter che, spazientito, ad un tratto decise di azzardare: in fondo, aveva fatto cose ben più pericolose del porre una domanda, e non aveva più molto da perdere. Prese un bel respiro, dunque, e farfugliò, risparmiandosi d’essere specifico: «Vuoi rifarlo?»
        L’iniziale assenza di risposte di qualsivoglia tipo divenne subito per lui dolorosamente assordante, e gli incendiò lo stomaco e la faccia. Dovette fare violenza su se stesso per restare saldo.
        Al contrario, Draco non fece alcuna fatica a mantenere uno stato di calma apparente: praticamente si pietrificò sul posto, mentre ogni pensiero nella sua mente si ribaltava e vorticava, intrecciandosi e sovrapponendosi a mille altri per dar vita ad un incomprensibile minestrone d’idee traballanti.
        Seppur con un discreto ritardo, la voce della ragione, pur essendo molto meno convinta del solito, riuscì ad imporsi sul caos.
        No, proclamò. No, no e ancora no.
        Assolutamente no. Per nessun motivo al mondo.
        No.
        Per quanto quel monosillabo si ripeté nella sua mente, non lo pronunciò. Piuttosto, tacque, fissando lo sguardo sul nulla alla propria sinistra. Solo in un secondo momento, con malcelato disagio, bofonchiò: «Tu vuoi rifarlo?»
        Harry dapprima esitò, poi, sentendosi schiacciare, alzò a scatti le spalle.
        Malfoy, a quel punto, si chiuse in un tormentato silenzio assenso – silenzio che l’altro impiegò diversi secondi a decifrare. Quando credette d’avercela fatta, si schiarì la voce come a chiedere implicitamente conferma; sino all’ultimo, infatti, preferì conservare un pizzico di opportuno scetticismo.
        Il Serpeverde mugolò con aria scocciata. A seguito di un non trascurabile attimo di tentennamento, poi, quasi annegando nella vergogna, girò il capo per esibirsi in un ambiguo cenno.
        Al che, il Grifondoro deglutì a vuoto ed intuì che per ottenere certezze avrebbe dovuto calcare di più la mano. Avanzò d’un mezzo passo, dunque, e poiché non riscontrò reazioni allarmate, se ne concesse altri due. Col cuore a mille che gli batteva forte nelle orecchie e perfino sotto la punta delle dita, si chiese cosa sarebbe successo se avesse osato azzerare del tutto la distanza tra loro.
        Mentre lui quell’eventualità ancora la ponderava, Draco già l’aveva data per scontata – tant’è che, dopo aver atteso a vuoto il verificarsi dell’inevitabile, sibilò, rigorosamente rigido e con gli occhi puntati da tutt’altra parte: «Datti una mossa prima che torni sano di mente, Potter».
        Quello, sbarazzandosi in fretta dell’incredulità iniziale, esalò un sottilissimo soffio. Un impulso gli montò fragoroso nel petto: mosse l’ultimo passo per poi serrare le palpebre e sporgersi, così da colmare definitivamente lo spazio che li divideva.
        Fu un bacio impacciatamente statico, ma caldo e piuttosto morbido. Una goccia di goffaggine lo addolcì.
        Harry quasi si perse nelle percezioni che l’investirono. Guidato solo da un insicuro istinto, ebbe alcuni momenti di totale confusione; le mani, ad esempio – cosa doveva farci con quelle? Meglio tenerle ferme, forse. E la testa? Doveva piegarla di più? Perché la posizione in cui s’era gettato in principio non era delle più funzionali. Per quel che riguardava la durata, poi – poteva già ritirarsi? Magari giusto un altro po’.
        Draco, dal canto suo, andò internamente a fuoco strizzando gli occhi. Fu lui a prendere le distanze, e lo fece principalmente per dire, senza nemmeno sollevare le ciglia: «Non posso credere che lo sto facendo davvero».
        «È strano» mormorò in accordo il Grifondoro.
        «Strano non rende l’idea».
        Potter si torturò per un attimo una guancia coi denti. «Hm» mugugnò e, prima che l’altro potesse aggiungere qualsiasi cosa, si tuffò per tornare a tappargli la bocca con la propria.
        Colto quella volta alla sprovvista, Malfoy percepì contrarsi ogni fibra del proprio essere: sussultò, il respiro gli si troncò nei polmoni e, come attraversate da un fulmine, le sue mani si spalancarono di scatto, le dita tirate come corde di violino. Riacquistò controllo su di sé solo dopo un infinito momento di dolorosa tensione. Strinse prima di tutto i pugni, e poi, armato d’un’intraprendenza rimasta a lungo sopita, fece ciò che ancora, al loro quarto, quinto bacio, non aveva mai fatto: ricambiò. Non in maniera spudorata; si limitò a portare un po’ avanti il capo, andando a contribuire alla pressione che li teneva uniti. Una scarica di adrenalina lo fece sentire il re del mondo.
        Se solo non avesse avuto le labbra impegnate, Harry avrebbe boccheggiato; per quanto casto, infatti, quel corrisposto contatto gli mise definitivamente sottosopra lo stomaco, risvegliando in lui una scintilla d’ingordigia. Decisamente, pensò, si trattava d’una sensazione che avrebbe potuto causargli dipendenza.
        La sola idea lo riempì di paura. D’una paura buona, però.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Un capitolo quasi ciclico, questo, con Harry e Draco che ritornano ad una situazione simile a quella di partenza, con la differenza che le ultime briciole di riluttanza si sono finalmente consumate. Spero possa esservi piaciuto. c:
Vi do appuntamento alla prossima settimana, col ritorno in scena di personaggi che si sono fatti un po' attendere! ;) Intanto...
Buona Pasqua! ~
Come sempre, grazie mille per aver letto, seguito, commentato sin qui. Mi rendete felice!
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Capitolo 25
*** 24. Sicurezza mina(ccia)ta ***


24.
Sicurezza minacciata
 
 
 
       Nel momento in cui il secondo bacio finì, Draco si ritirò frettolosamente, indietreggiando d’un passo. Quasi tremando e chinando il capo, si portò una mano al viso ed esalò un pesante sospiro.

       Un lato di lui, terrorizzato, desiderò di fuggire, di potersi dissociare da quello che era appena accaduto. Si trattava del lato che incarnava la costruita moralità che da sempre l’accompagnava, che era tutto un È Potter! Un Sangue Sporco, Ricordati chi sei, e Cosa direbbe tuo padre se ti vedesse adesso? Ma già da un po’ quella parte della sua persona stava avvizzendo: presa da sola era impotente, e di sicuro lo fu contro la forte sensazione di calore che l’attanagliò.
       Non fuggì, quindi. Piuttosto, si sforzò di risollevare gli occhi per incontrare quelli del Grifondoro, che nella penombra lo scrutava con aria attonita e timorosa.
       Tacquero più a lungo di quanto non avrebbero mai voluto, divorati da un bruciante imbarazzo e una non trascurabile dose di confusione.
       Fu Harry a spezzare il silenzio: lo fece d’un tratto, schiarendosi la voce. «Come― come funziona questa cosa
       Malfoy inarcò appena un angolo del labbro superiore e aggrottò la fronte. Fu tentato di sbottare: davvero pensi che io lo sappia? ma si trattenne. «Dovresti dirlo tu a me. Tu hai cominciato».
       «Ma adesso l’abbiamo fatto in due! Quindi― hm, ora cosa succede?» L’unica risposta che ottenne fu un’esasperata scrollata di spalle, a cui replicò con uno sbuffo stanco. «L’abbiamo fatto in due» ripeté poi mormorando, facendo con un lieve ritardo totalmente proprio quel concetto; erano definitivamente sulla stessa barca. La cosa gli trasmise una rincuorata incredulità.
       «Non serve che lo ripeti» lo freddò il Serpeverde, scosso da un battito mancato. Fece vagare per un po’ lo sguardo e, non appena gli capitò d’incrociare un’occhiata dell’altro, qualcosa gli stritolò la gabbia toracica. Subito asserì: «Smetti di guardarmi così».
       «Così come?»
       «Così».
       Harry non capì, ma, preso com’era a crogiolarsi in quell’inaspettato e felice pizzicore che l’aveva colto, non se ne curò.
       «Se osi raccontarlo a qualcuno, giuro, ti faccio del male», riattaccò Malfoy, caustico.
       «Quindi― significa che lo facciamo?»
       «Facciamo cosa
       Tentennò, la voce in sciopero. «Uhm, questo. Tra noi». I baci, avrebbe voluto precisare, ma non ci riuscì.
       L’altro a dir poco avvampò. Per sua fortuna, la scarsa illuminazione della stanza gli fornì una decente copertura. «Frena, Potter» sibilò ardendo di vergogna, «non farti strane idee».
       «Che idee dovrei farmi, allora?»
       Draco si ritrovò dolorosamente senza parole: un vago panico s’impossessò di lui. Pochi secondi, e l’aspettativa di Harry, che lo fissava con insistenza, si sovrappose ed attivò il senso di terrore dovuto allo spettro della radicata moralità che l’inseguiva, rendendogli insopportabile la prospettiva di trattenersi un solo istante in più. «Devo andare» biascicò quindi, fiondandosi a testa bassa verso la porta della deserta aula. Veloce, l’altro lo prese per un braccio, ma: «Tempo. Me lo devi, è il minimo» sentenziò lui, sfoggiando un’espressione quasi minacciosa.
       Al che, il Grifondoro, pur con le esitazioni del caso, si convinse ad ammorbidire la presa e a lasciarlo andare.
       L’osservò svoltare nel corridoio senza proferir verbo.
 
 

       Successivamente a quella che sarebbe dovuta essere una discussione col fine di chiarire, s’erano dunque incagliati in un ennesimo scoglio. Ma non era così terribile – non per Potter, almeno, perché in fondo Malfoy non aveva fatto altro che chiedere del tempo; cosa che, tutto sommato, poteva anche concedergli, ora che nulla l’ostacolava dall’affermare con certezza che non era l’unico a voler fare cose con la persona meno indicata tra tutte.
       Un dato di fatto, quello, su cui non fece altro che tornare e ritornare col pensiero. Lo trovava pazzesco ed estraniante, e non smetteva di riscoprirsi rinfrancato ogni volta che si ribadiva che , era proprio vero. D’altronde, aveva passato più giorni di quanti non avrebbe mai voluto a gestire pulsioni considerate, per validissimi motivi, non ricambiate, e l’idea d’aver compagnia nel baratro di follia in cui era piombato non poteva che essere un toccasana.
       Percepì il progressivo alleviarsi del peso che a lungo si era portato appresso. Ovviamente se ne rallegrò; tanto, che tutto d’improvviso gli parve un po’ meno brutto – persino il broncio che Ron pareva avere cucito in viso quando si rivolgevano la parola.
       Proprio in quanto a Weasley: con lui, Harry, forte del vago buonumore che l’aveva invaso, decise finalmente d’adottare l’atteggiamento di chi, dopo troppi litigi, è abbastanza assennato da mettere a fuoco che non c’è nulla per cui valga la pena d’ingaggiare l’ennesimo. Decretò, insomma, che era giunta l’ora di cominciare ad arginare i danni alla loro amicizia, e non solo: si sentì pronto anche a mettere un po’ di carte in tavola.
       Era ancora insicuro, certo, e voleva indubbiamente evitare i pentimenti che sarebbero potuti scaturire da mosse azzardate, ma si persuase che lo stato di stallo in cui si trovavano aveva ormai fatto il suo tempo.
       Cercò un dialogo con Ron non appena gli si presentò un’occasione adeguata; cioè quella sera stessa, nei dormitori.
       Weasley era salito in stanza per primo – se si escludeva Neville, che ronfava già. Potter fece per seguirlo a ruota nel momento in cui s’accorse che Dean e Seamus si stavano intrattenendo in Sala Comune, e che dunque lui e l’amico avrebbero avuto almeno qualche minuto per discutere in privato.
       «Sei già stanco anche tu?» lo inchiodò Hermione, intercettandolo mentre sgattaiolava verso le scale.
       «Uhm, voglio parlare con Ron. Per mettere un po’ a posto le cose».
       La ragazza si mostrò contenta e, assottigliando le labbra, s’esibì in un cenno che lasciava perfettamente a intendere quanto approvasse quel proposito. «Cosa vuoi dirgli?» sussurrò.
       «La― la verità».
       «Tutta la verità?»
       Lui, esitando, s’imbarazzò. «No. Non lo so». Per un attimo tacquero: credette che la conversazione fosse terminata, perciò, a seguito d’un gesto di saluto, tentò nuovamente di raggiungere la scalinata.
       Invece, Hermione lo bloccò una seconda volta per domandargli, pacata: «Posso chiederti cosa, alla buon’ora, ti spinge a volergli parlare?»
       Con falsa innocenza, Harry distolse lo sguardo da quello dell’amica e alzò appena le spalle. «Io― uh. È che― questa cosa sta succedendo davvero, ecco, e―» indicò approssimativamente i gradini con eloquenza, «vale la pena provare». Senza lasciarsi più trattenere, riprese la propria avanzata.
 
 

       Quando entrò in stanza, si ritrovò subito addosso gli occhi di Weasley. Nessuno dei due fiatò, e lui semplicemente richiuse la porta dietro di sé prima d’avvicinarsi d’istinto al letto.
       Ron, dopo essersi brevemente distratto per vedere chi fosse arrivato, tornò alle proprie faccende – cioè, riprese a trafficare coi vestiti. Era chiaramente quasi pronto ad abbandonarsi ad una lunga notte di sonno.
       Sedendosi sul materasso, Potter realizzò di doversi dare una mossa. Per attirare l’attenzione dell’altro, mugugnò; ciò gli valse uno sguardo interrogativo, al quale rispose bofonchiando: «Parliamo».
       La replica fu preceduta da una specie di sbuffo. «Di cosa?»
       «Di quello che sta succedendo».
       Weasley, sorpreso, ammorbidì la postura sciogliendosi nelle spalle e lasciando ricadere mollemente le braccia lungo i fianchi. «Vuoi― vuoi dirmi che ti è preso? Adesso
       «Mi sono stancato di questa situazione, quindi― sì. » ripeté, cercando d’impedirsi di pronunciare un potenzialmente pericoloso “più o meno”. «Se vuoi ascoltarmi».
       Ron, in quel momento, desiderò di poter ribattere con uno sfacciato Magari non voglio – tutta colpa delle sue orgogliose e testarde insicurezze. Comunque non diede ad esse corda; la forte curiosità che da tanto fermentava in lui, infatti, ottenne facilmente il controllo delle sue azioni. Fu con un malcelato vivo interesse, dunque, che deglutì e tentennò chinando il capo.
       «Ti ascolto» soffiò.
       Iniziando a sentir crescere una certa agitazione, Harry si concesse qualche istante di silenzio. Si rese conto di non aver pensato ad un piano per esporre la faccenda, e Merlino, davvero si era appena messo nella posizione di dover confidare a Ron quelle cose?
       In un battito di ciglia, i ricordi dei baci, delle espressioni di Malfoy, del sogno che lo vedeva protagonista e di tutto il resto lo investirono. Ebbe una crisi acuta di vergogna: se la vide brutta e detestò se stesso per aver pensato che la discussione con l’amico sarebbe potuta essere una buona idea. Giunse quasi al punto di rimangiarsi tutto, ma prima che fosse troppo tardi una calda giravolta nel petto lo tranquillizzò.
       Tornò con la mente a poche ore prima. Rivide la buia aula in disuso e il Serpeverde che gli intimava di smettere di guardarlo così; un secondo, e percepì sulle labbra l’ombra della sensazione provata durante l’ultimo bacio che c’era stato tra loro – quello ricambiato. Accarezzare per la millesima volta la sicurezza che quell’episodio si fosse verificato sul serio gli trasmise l’ormai consueto conforto; fu quello che, pur accelerandogli il cuore, lo calmò.
       Prese un bel respiro, tentando di ricomporsi.
       «Harry?»
       «Hm». Sollevando gli occhi, che aveva inconsciamente incollato al pavimento, scoprì che Weasley s’era fatto più vicino. «Non― non so da dove partire» mormorò per giustificare la propria esitazione.
       «Che te ne pare di: dall’inizio?»
       «Non è così facile. Non so qual è l’inizio». Pizzicato da un sottile turbamento, si morse una guancia; dopodiché, scoccando un’occhiata di controllo a Paciock, che dormiva beato, invitò l’altro a sederglisi accanto.
       «Allora fa’ come hai fatto con Hermione» borbottò Ron, accomodandosi sul letto. «Dimmi quello che hai detto a lei».
       Neanche quello era un consiglio semplice da seguire, ma Potter si risparmiò di precisarlo. Piuttosto, si sforzò di sussurrare: «C’è― una persona». Sin dalla prima sillaba, condannò se stesso all’imbarazzo e catturò tutto l’interesse del compagno. «E questa persona― insomma» rifletté per trovare i giusti termini «penso― credo di pensare a lei nello stesso modo in cui tu pensi a Hermione. Cioè, non proprio lo stesso» s’affrettò a precisare, allarmato, «qualcosa del genere. Circa».
       «Quindi c’è una ragazza?»
       «No». Suscitò la perplessità di Ron, il quale gli dedicò uno sguardo indagatore che l’innervosì ed appiccò una volta per tutte un incendio sul suo viso.
       «Allora forse non ho capito».
       Cercando di gestire il disagio, Harry prese a torturarsi le mani. Aprì la bocca a vuoto per un paio di volte, prima di riuscire a bisbigliare: «Hai capito. Solo – è un ragazzo».
       Un paralizzante silenzio calò di botto su di loro. Fu solo dopo diversi secondi che Weasley, che aveva preso colore in volto, s’azzardò a spezzarlo: «Oh» fece, piatto. «E
       «E cosa?»
       «È tutto qui?»
       «Uh, ehm― sì?» Non avrebbe di certo osato più di così, spiattellando il nome di Malfoy ai quattro venti.
       «Perché credevi di non potermelo dire?» mormorò Ron.
       Non sapendo definire la reazione dell’amico, Potter aggrottò la fronte. «Non so; perché è strano».
       «Harry, io non― non ho niente contro, hm, i ragazzi a cui piacciono altri ragazzi». Pur essendo più rosso dei propri capelli, trovò il modo di metter da parte l’imbarazzo dovuto alla sorpresa e mise su un’espressione quasi arrabbiata. «Cosa credevi che ti avrei detto? Che idea hai di me?» Emise un versetto scocciato, per poi tirare in ballo vecchie parole: «Non sei pronto ad ascoltarlo! – è così che mi giudichi?»
       Seccato da quella dimostrazione di vago egoismo, l’altro sbuffò. «No, io― no».
       «Come no?»
       «Smettila. Non sapevo cosa avresti potuto dire ed ero troppo impegnato a non dare di matto per pensarci davvero; ho sbagliato, okay? Non― non eri tu il problema. Ero io. Non ero preparato per dirtelo, ecco; quindi ora vedi di non cogliere ogni minima occasione per fare l’offeso».
       Per la seconda volta, tacquero per un po’ – in quel caso, per sbollire il principio d’irritazione e sventare il pericolo di sfociare in una lite.
       Fu nuovamente Weasley a ridare inizio al dialogo. «Chi è?»
       Potter a dir poco s’irrigidì. Decise di nascondersi dietro a quella che, in fin dei conti, era la verità: «Mi ha chiesto di non dirlo a nessuno».
       Grazie a quelle parole, Ron poté dedurre che dovevano esserci stati dei contatti tra l’amico e il ragazzo del mistero. Ciò lo spinse a farsi delle domande, e poi a porle direttamente all’altro: «Harry, significa che tu sei― insomma, che hai capito che ti piacciono i maschi? Anche i maschi?»
       «No. Non credo. Forse. A me― a me piacciono le ragazze. Lui― beh, non so cos’è lui. Sono confuso» ammise sottovoce.
       «Capisco».
       Aleggiò il terzo velo di silenzio.
       «Non tagliarmi più fuori da questo tipo di cose. Non sono Hermione e forse non posso aiutarti come lei, ma sono lo stesso tuo amico e so dirti che non c’è niente di male in―» gesticolò «hai capito».
       «Hm». Potter apprezzò l’accettazione di Weasley, ma non pienamente – in fondo, gli aveva taciuto la componente più preoccupante della questione, non mettendolo al corrente dell’identità del ragazzo che gli infestava i pensieri. Ma ci avrebbe pensato in futuro; in quel momento, infatti, l’importante era che fosse riuscito ad aprirsi almeno un po’ – s’augurava che tanto bastasse a dare inizio al risanamento del rapporto tra lui e Ron.
       L’impressione che ebbe gli fece ben sperare: per la prima volta dopo settimane, infatti, prima d’infilarsi sotto le coperte, l’altro gli rivolse un cordiale «Buonanotte», aggiungendo anche: «Grazie per avermi finalmente detto la verità. Cominciavo a credere che non t’importasse di farlo».
 
 

       Una volta che si fu sistemato a letto, Harry si ritrovò a scrutare lo sfocato e scuro nulla sopra la propria testa. Ciò, non solo a causa delle travolgenti emozioni provate quel giorno, ma anche e soprattutto dei sibillini dubbi che gli serpeggiavano per la mente.
       C’erano un sacco di cose che non sapeva. Come aveva messo in evidenza anche l’assenza d’una ferma risposta ad una puntuale domanda di Weasley, ad esempio, non era in grado di definire la propria sessualità. Non temeva di dirsi interessato ragazzi, beninteso – solo, una parte di lui non si vedeva a vestire quei panni. Forse, dunque, Malfoy era un’eccezione. O un punto di partenza.
       Malfoy. Col viso del Serpeverde stampato dietro le palpebre, ripeté tra sé e sé quel nome finché non iniziò a perderne di vista il significato; a quel punto, ne assaporò il suono.
       Non sapeva molto neanche di lui. Lo conosceva, certo, ma non abbastanza; non quanto avrebbe voluto poter dire di conoscerlo in quel momento. Provò il bisogno d’andare più a fondo, di togliere di mezzo le apparenze, di guardargli dentro. Di parlargli, di scoprire cosa provava e cosa aveva provato in passato. Di baciarlo di nuovo.
       Tra loro stava accadendo una cosa che aveva dell’incredibile, caotica e calda e impossibile da rinnegare com’era; avvertì l’impulso d’esplorarla, di viverla. Subito, anche se non erano ancora riusciti ad inquadrarla, con spavalda avventatezza e a costo di farsi male.
       Draco, però, gli aveva chiesto del tempo. E un’altra delle cose che non sapeva era quanto avrebbe dovuto dargliene.
       Qualunque tipo d’attesa ai suoi occhi parve troppo: ora che ci aveva pensato, infatti, che aveva sfiorato l’idea d’un altro bacio, non poteva aspettare.
       Col cuore accelerato, s’agitò tra le coperte. Si ritrovò a domandarsi se anche l’altro poteva essere ancora sveglio; dopodiché, con gran determinazione, si sforzò d’elaborare qualche metodo d’azione che potesse sposarsi con la sua fremente impazienza.
 
 

       A dispetto della fretta che aveva addosso, concesse al Serpeverde l’intero week end appena giunto; un po’ per rispetto e un po’ perché, senza lezioni, non ebbe comunque molte occasioni per intercettarlo.
       Quando s’aprì la nuova settimana, invece, non esitò a farsi avanti. Cercò però di muoversi con cautela; preferì, infatti, evitare di fornire a Ron degli indizi che gli consentissero di puntare il dito contro Malfoy – anche se probabilmente non si sarebbe neanche sognato di farlo –, o di dar motivo a Hermione d’intensificare il ritmo delle richieste di spiegazioni.
       Il primo luogo in cui incontrò Draco da vicino fu l’aula di Storia della Magia. Lo vide provato, stanco: quasi si preoccupò, e la considerò una ragione in più per agire quanto prima. Decise che l’avrebbe fatto durante quella stessa ora.
       Malgrado disponesse di tanta convinzione, in principio indugiò. Ciò, a causa dello scompiglio interiore che dovette affrontare dopo essersi chiesto, per quella che doveva essere ormai la millesima volta, a cosa l’altro avesse pensato in quei giorni. Immaginava che avesse riflettuto sugli stessi argomenti che avevano dato del filo da torcere a lui, ma non poteva esserne certo e, soprattutto, non aveva modo d’indovinare a quali conclusioni fosse giunto. Sempre che le avesse già raggiunte, s’intende; magari era ancora troppo presto.
       Ricacciò l’insicurezza da dov’era venuta mordendosi la lingua. L’impulsività e l’impellenza tornarono così a farla da padrone, e riprese a concentrarsi sulla propria tattica.
       Intanto, poco più in là, Malfoy ascoltava pigramente la lezione prendendo distrattamente appunti. Tanti pensieri gli ronzavano in testa.
       Quasi sussultò quando, sgraziatamente, un biglietto compì un atterraggio di fortuna sul suo banco. Inarcò un sopracciglio, osservando la piccola pergamena dimenarsi battendo tristemente ed inutilmente un angolo ripiegato a mo’ d’ala – gli parve una farfalla morente.
       Non ce ne sarebbe stato bisogno, ma voltò comunque il capo per identificare il mittente; così come s’aspettava, incrociò un eloquente sguardo di Potter. Non lo ricambiò troppo a lungo, scegliendo piuttosto di far sparire in fretta il messaggio ricevuto prima che qualcuno potesse notarlo.
       Lo coprì con una mano e ne lesse di nascosto il contenuto.
 
Stanotte, all’una
All’entrata dei sotterranei
 
       Fu immediatamente stuzzicato da un marcato senso di déjà-vu. Non impiegò molto a decifrarlo: ricordò che s’erano già dati un appuntamento del genere quando avevano cercato di mettere in scena la sfida. Era stata la notte, insomma, in cui quell’idiota d’un Grifondoro aveva cercato di portarlo alla Stanza delle Necessità. La sola memoria dell’accaduto lo turbò, e lo spinse a scrivere di getto una risposta cauta e un po’ scettica che poi inoltrò elegantemente.
       Harry, scorto il bigliettino in arrivo, si preparò per assicurarsi di catturarlo al volo; sperava in quel modo di minimizzare le probabilità che Ron, seduto nel banco accanto al suo, o chiunque altro, potesse accorgersi di qualcosa. Di sicuro, il fatto che una buonissima parte della classe fosse in uno stato di coma da noia fu d’aiuto.
       Divorò avidamente le parole scribacchiate sul foglietto.
 
Per?
Comunque, no
Ne ho avuto abbastanza l’ultima volta
 
       Senza perder tempo, buttò giù una disordinata replica che, a seguito d’un silenzioso viaggio per l’aula, si schiantò come precedentemente al cospetto del Serpeverde.
 
Per parlare
E rimediare all’altra volta
 
       Posto che aveva pensato ad un incontro notturno principalmente per non dare troppo nell’occhio, aveva scelto quell’ora e quel luogo apposta – visto che ne avevano la possibilità, voleva a tutti gli effetti porre rimedio agli errori commessi. Per quanto questo fosse possibile.
       Pur comprendendo quell’intenzione, Malfoy storse il naso, distratto da un peculiare fermento che gli scattò nel petto, colorandogli blandamente il viso.
       In quegli ultimi giorni non s’era dato pace: aveva fatto appello a tutta la propria razionalità per ritrovare l’equilibrio. Ciò che aveva ottenuto era stato ripetersi più e più volte che , era Potter ed era pazzesco, ma l’idea d’interessargli lo stuzzicava lo stesso. Anzi, era stuzzicato in particolar modo proprio perché si trattava di lui. Non avrebbe avuto alcun senso negare che quello che c’era stato tra loro gli era piaciuto, e che, ecco, magari non era così contrario all’idea di ripetere l’esperienza. Dunque, di fronte a quella che, a seguito del secondo messaggio ricevuto, era una proposta allettante, vibrò per l’aspettativa, pur senza esimersi dal ponderare con titubanza il da farsi.
       Avrebbe forse optato per un’altra risposta scritta, se solo non si fosse ritrovato nel mirino di attenti sguardi scoccati da Theodore Nott. Per non rendersi più sospetto di quanto già non fosse, fu costretto ad interrompere ogni comunicazione col Grifondoro fino al termine della lezione; solo quando il professore li congedò, infatti, coperto dal via vai di studenti che abbandonavano l’aula, poté cercare indisturbato un contatto visivo con l’altro.
       Una volta che quello venne stabilito, Harry, reduce da interminabili minuti passati ad attendere un responso, drizzò la schiena con aria timorosa. S’irrigidì, anche, ma solo per poi sciogliersi registrando il modesto annuire del Serpeverde, accompagnato da un’occhiata che gli permise di capire che la sua proposta era stata accettata.
       Tra sé e sé, compiaciuto, quasi sorrise.
 
 
* * *
 
 

       Ventosa, la notte calò tempestando di stelle il cielo terso d’inizio Maggio.
       A mezzanotte passata, nella Torre di Grifondoro, qualcuno scostò le coperte del letto, recuperando poi il proprio fedele paio d’occhiali tondi prima di scattare in piedi. Poco dopo, attrezzato di mantello dell’invisibilità e pizzicato da una legittima lieve agitazione, scivolò fuori dal dormitorio e quindi dalla Sala Comune. Nel mentre, negli umidi sotterranei, qualcun altro faceva più o meno lo stesso, con appena un po’ più d’ansia e meno mantelli addosso.
 
 

       Una volta che fu giunto dove accordato, Malfoy dovette attendere perché l’altro comparisse. Durante quei momenti, si sentì schiacciare dal pesante silenzio che l’avvolse – per fortuna, il supplizio durò poco: Potter lo raggiunse presto. Ebbe persino l’accortezza di non sbucare all’improvviso, rendendosi visibile per tempo.
       Quando incrociarono l’uno lo sguardo dell’altro, entrambi dovettero fare i conti con un subitaneo aumento del ritmo cardiaco. Si scambiarono un mezzo cenno, ma tacquero, anche una volta che furono vicini.
       Solo dopo una manciata di secondi, con gli occhi vaganti, il Serpeverde spianò la strada al dialogo, mormorando: «Se Gazza ci becca di nuovo, ti riterrò responsabile».
       Harry si concesse di metter su una smorfietta. «Non ci beccherà».
       «Sei fastidiosamente sicuro di te».
       «Quanto basta. Se non ci mettiamo a urlare per i corridoi, non avremo problemi». In fondo, aveva anche un asso nella manica: l’invisibilità, per le emergenze.
       «Oltre a non urlare, forse dovremmo anche spostarci da qui. Non trovi?» chiese Draco, retorico e sarcastico.
       «Hm, sì. – l’aula dell’altro giorno va bene?» Pose la domanda sottovoce e con fare circospetto, volendo a tutti i costi evitare di combinare danni.
       L’altro, serio, tentennò per un istante; dopodiché confermò: «Può andare». Mosse subito i primi passi, invitando implicitamente il Grifondoro a seguirlo. Avanzando, poi, conservò il vantaggio iniziale. «Di cosa vorresti parlare?» bisbigliò, i pugni stretti.
       «Di te» replicò svelto Potter con tono sentito, per poi aggiungere, più contenuto: «e di me. Di questa cosa».
       «Intendevo― nello specifico».
       Si prese un attimo per riflettere. «Vorrei sapere cosa pensi».
       «Cosa penso?» Esalò una specie di sbuffo, «Penso che questa sia la faccenda più inverosimile dell’universo. Sul serio, sembra uno scherzo». Tentò d’abbozzare una vaga risatina ironica, ma tutto ciò che ottenne fu un versetto tremolante che tradì la sua incredula paura.
       Harry se n’accorse, ma non fece commenti. «Uno scherzo― perché sono io?» buttò lì, pur conoscendo già la risposta – più che a quella, infatti, era interessato alla reazione che l’avrebbe accompagnata.
       Malfoy voltò il capo per lanciargli un’occhiataccia, e sbottò: «Morgana! sì, perché sei tu. Credevo che almeno questo concetto l’avessi afferrato».
       Ignorò tutta la cattiveria condensata in quelle ultime parole, preferendo borbottare, con vibrante convinzione: «A te è già successo, vero? Di fare questo con un ragazzo».
       Il Serpeverde esitò. «Ti ho già detto che non ne parlerò con te».
       «Ma ho ragione!» Allungò il passo per affiancarlo e guardarlo in faccia, «Non― non è un problema, non c’è niente di male».
       «Certo che non c’è niente di male» ribatté Draco, le guance rosate.
       «Quindi lo ammetti?»
       Prese ancor più colore, «No, non lo ammetto! Sono affari miei». Detto ciò, chinò la testa e si sigillò in un cocciuto silenzio, nella speranza che tanto bastasse a chiudere una volta per tutte l’argomento.
       Il Grifondoro, a quel punto, scelse saggiamente di non insistere. Sussurrò, piuttosto, dopo aver posato brevemente gli occhi sulle labbra dell’altro: «Noi― noi lo facciamo anche se è uno scherzo, giusto?»
       Reso beffardo dalle circostanze, Malfoy alzò appena le spalle, replicando: «Beh, siamo qui. Qualcosa stiamo facendo di sicuro». Affondò i denti in una guancia, in fibrillazione, poi ricominciò, in un soffio: «Per te― fin dove arriva questo
       Col cuore a mille, Harry deglutì. «Tu fin dove sei disposto ad arrivare?»
       Draco fece sì e no in tempo ad aprir bocca per ribattere, che di colpo l’istinto lo forzò a fermarsi e a tendere le orecchie: aveva, infatti, captato un rumore sospetto.
       «Che c’è?» chiese perplesso l’altro, bloccatosi un passo più avanti.
       «Zitto». Indicò debolmente l’angolo che erano sul punto di girare, concentrandosi per affinare l’udito.
       Poterono sentirlo entrambi: tra i muri risuonava uno scalpiccio deciso che si faceva a mano a mano più forte, più vicino; qualcuno stava per comparire.
       Senza pensarci due volte, Potter spiegò il mantello dell’invisibilità, retto sino a quel momento con un braccio. In un’unica, ampia falcata, raggiunse il Serpeverde e l’afferrò per un polso, poi lo tirò con sé verso la parete più prossima.
       «Ma che cavolo―»
       «Shh!» Contorcendosi e costringendo l’altro a fare altrettanto, fece del proprio meglio per coprire entrambi con la magica stoffa; sarebbe stato tutto molto più semplice, se solo Malfoy non fosse stato così stupidamente alto. Per esser certo che risultassero del tutto nascosti, non poté che spalmarglisi contro.
       Draco, a dir poco a disagio, si ritrovò a trattenere il respiro e a scrutare con diffidenza il mantello sotto al quale era finito. Solo dopo osò abbassare lo sguardo sul Grifondoro, e Salazar santissimo era troppo, troppo vicino. Morì d’imbarazzo – e non letteralmente solo perché la sua occhiata non fu ricambiata; Potter, infatti, teneva il capo voltato di lato. Il rumore, si ricordò, e prese a fissare lo spazio in quella direzione a sua volta.
       Pochi secondi, e assistettero all’entrata in scena del professore di Difesa contro le Arti Oscure. Camminava veloce, brandendo la bacchetta in una mano e sfoggiando un’espressione indecifrabile. Ad ogni passo, il lungo mantello scuro che indossava gli turbinava alle spalle. Era chiaramente agitato, di fretta; con buona probabilità fu anche per quello che, malgrado i lievi crepitii emessi, i due ragazzi riuscirono a passare del tutto inosservati.
       Una volta che l’insegnante fu sfilato loro accanto e che ebbe proseguito per un buon tratto la propria marcia, Harry sospirò. Era più o meno nei suoi piani ricreare una nuova versione di quella lontana notte di Gennaio in cui tutto era andato a rotoli, ma non sino a quel punto – avrebbe fatto volentieri a meno della presenza d’un losco Holmwood.
       «Cosa fa lui qui a quest’ora?» mormorò Malfoy.
       L’altro, andando a fuoco a scoppio ritardato per via della posizione in cui erano, non volle rispondere: si limitò a strizzare gli occhi e a serrare la mascella.
       «E cos’è quella faccia?»
       «Ehm, io―» balbettò, osservando il professore svoltare e sparir dalla loro vista. In uno schiocco di dita, gli montò in petto un gran senso del dovere, misto a curiosità e un pizzico di soggezione. «Devo seguirlo» asserì, indietreggiando e recuperando il mantello dell’invisibilità.
       «Come
       «Questa cosa – Holmwood, di notte, in giro – è già successa» spiegò Potter. «C’è qualcosa dietro, lo so».
       «Tipo cosa?»
       «Non ne sono sicuro. Ma devo almeno vedere dove sta andando». Di getto, fece per accodarsi all’uomo, ma si trattenne per lanciare al Serpeverde uno sguardo di facile interpretazione; Vieni? sembrava strillare.
       Draco percepì l’impulso di tirarsi indietro, ma follemente s’esibì lo stesso in un cenno che significava: ti seguo. Non desiderava farsi coinvolgere in certe questioni, ma, in fondo, poteva trattarsi una parentesi breve a seguito della quale avrebbero potuto riprendere da dove avevano interrotto.
 
 

       Muovendosi con celerità, ripresero presto l’insegnante. Procedendo poi alla chetichella, e senza risparmiarsi di sfruttare il vantaggio dell’invisibilità, lo pedinarono. Quando il mago mise piede fuori dalle mura di Hogwarts, però, la ritrosia di Malfoy s’intensificò; inutile dire che, nell’istante in cui lo scorsero addentrarsi nella Foresta Proibita, essa s’espanse senza controllo.
       «Fine della corsa» sentenziò, cupo. «Io lì non entro».
       Harry contrasse i muscoli. «Potrebbe essere pericoloso» disse con un filo di voce.
       «Appunto».
       «Ma―» boccheggiò non sapendo come esprimersi, gli occhi puntati laddove il professore s’era immerso nelle tenebre. «Almeno provare. Per capire». In preda all’adrenalina, tornò a fissare l’altro.
       Quello lo fulminò. «Cosa― cos’è questo?» Con un gesto esagerato, indicò tutta la sua persona. «In piena notte ti viene la brillante idea di compiere questa stupida, stupidissima impresa da Grifondoro e― e cerchi di convincere me ad essere il tuo complice?» S’adombrò, «Potter, non sono il tuo Weasley di scorta. Già il fatto che ti abbia seguito fin qui è assurdo».
       «Basterà poco! Ma se non vuoi, tu―» riprese a fissare la foresta, «tu puoi restare qui. Io devo vedere quello che fa».
       Draco lo prese per un braccio non appena osò avanzare d’un passo. «Non devi» proferì.
       «Invece sì». E il complesso dell’eroe colpiva ancora.
       «No. Torniamo indietro».
       «Potrebbe succedere qualcosa di brutto a qualcuno a causa di Holmwood, e sarebbe anche colpa mia, perché non ho fatto nulla quando potevo» proclamò Harry. «Vado a dare almeno un’occhiata». Impugnò la bacchetta e, testardamente, s’avviò.
       Sentendosi piantato in asso, Malfoy s’incattivì. Il cervello comandò al corpo di far dietrofront e alle gambe di filare di corsa, ma nonostante ciò non si mosse d’un millimetro. Una forte pressione, infatti, gli strinse orribilmente la gola e il busto, e la sensazione andò peggiorando a mano a mano che Potter s’allontanava. Fu seriamente tentato di sfogarsi con un urlo frustrato, perché comprese alla perfezione cosa un suo lato stava cercando di comunicargli e non gli piacque per nulla.
       Si lamentò tra sé e sé. Poi, forte d’un coraggio che era certo di non aver mai avuto e che, quindi, chissà da dove saltava fuori, estrasse anche lui la bacchetta e, tremante, seguì i passi dell’altro. «Ti concedo dieci metri dal primo albero» borbottò restandogli letteralmente dietro le spalle.
       Il Grifondoro si voltò di scatto, sorpreso e rincuorato. Non sapendo che dire, tacque.
       Varcarono il limite della foresta nel silenzio più assoluto.
       Tra i tronchi, la notte era color pece: rischiararono la strada con dei deboli Lumos, scandagliando i dintorni con attenzione. Nel mentre, sibili sinistri giunsero alle loro orecchie e incorporee masse scure li illusero d’essere osservati.
       «È inutile. È sparito» sottolineò presto Draco, bramando di fuggire.
       Harry sapeva che quella era la verità; ormai, l’avevano perso: continuare alla cieca parve insensato persino al suo senso del dovere. Sospirò, quindi, arrestandosi.
       «Possiamo andarcene?» chiese impaziente il Serpeverde.
       «Sì». Proprio pronunciando quel monosillabo, gli parve di scorgere un’ombra in movimento. Fece il possibile per inseguirla con gli occhi – almeno sinché l’altro non gli si parò davanti per spronarlo a far marcia indietro.
       «Ci sono un sacco di cose stupide e folli che potremmo fare senza correre rischi». Gli diede il tempo di capire a cosa si stava riferendo, dopodiché aggiunse: «Davvero vuoi sprecare un solo altro secondo qui?»
       Ma Potter non l’ascoltò. Non attentamente, almeno, perché portò il capo oltre la sua spalla per continuare a seguire quell’ombra; avrebbe potuto giurare d’averla vista fermarsi in un punto preciso, che quindi prese a fissare intensamente.
       «Ti sei incantato?»
       Dal nulla, una luce rossastra squarciò l’oscurità. Harry sgranò gli occhi e «Sta’ giù!» esclamò spintonando Malfoy senza remore; alzò la bacchetta per difendersi, ma la formula Protego gli si incastrò dolorosamente tra i denti.
       Colpito, rovinò sordamente a terra.
       Draco andò immediatamente nel panico.
       Era stata scagliata una magia, ma non sapeva quale e, soprattutto, non sapeva da chi. Fece scattare la testa a destra e a manca, stringendo convulsamente la presa sulla bacchetta; a causa della forte luce, che l’aveva abbagliato, il buio gli parve ancor più fitto di prima.
       L’istinto d’autoconservazione gli suggerì di darsela a gambe. Ma lo sguardo gli cadde sul Grifondoro e no, non poteva proprio lasciarlo lì, per quanto quello sarebbe stato il suo prezzo per essere andato di proposito in cerca di guai.
       Ma― perché non s’era ancora lamentato? O mosso? Il panico crebbe esponenzialmente, e cominciò a tremare.
       Sforzandosi di non abbassare la guardia, si chinò per scuoterlo – era caldo. Buon segno. E respirava. Buonissimo segno. Ma sembrava svenuto.
       Elaborando le informazioni che aveva a disposizione, concluse che la prima cosa da fare era azzardare un Reinnerva. Non ebbe il tempo d’eseguirlo, però, perché quello che era chiaramente un rumore di passi in avvicinamento reclamò tutta la sua attenzione.
       Facendosi piccolo nelle spalle, si voltò nella direzione da cui proveniva il suono.
       Prima che potesse far qualunque cosa, dalle tenebre emerse un’alta figura avvolta in un mantello: identificò al volo il professor Holmwood, e sbiancò. Quell’uomo non gli incusse mai tanto timore quanto in quel momento.
 
 
» …



 
 

Angolo di Tormenta

Tutti questi avvenimenti mi rendono non poco insicura (capita quasi tutte le volte, lo so. Che dire, dovete prendermi così). Spero che il dialogo con Ron possa aver reso giustizia all’attesa, e soprattutto che gli sviluppi tra Draco e Harry non paiano tirati – è abbastanza contestualizzato il fatto che Malfoy trovi il coraggio di seguire Potter tra gli alberi? O ho esagerato? Mi rimetto al vostro giudizio.
Ecco Holmwood, comunque! È tempo di svelare il mistero che si cela dietro la sua persona, e mi auguro che non vi deluda (?). :)

Mille e mille grazie per aver letto sin qui. Love you all! Un bacio,
T. ♪
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(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio crede)

 

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Capitolo 26
*** 25. (Im)prevedibile caos ***


25.
Imprevedibile caos
 
 
 
        Harry riprese coscienza lentamente, come scivolando con dolcezza nel proprio corpo.

        Una fibra dopo l’altra, tornò a percepire il busto, le braccia, le mani, le dita e tutto il resto, e ciascuna di quelle parti, a seguito d’un istante di disorientata insensibilità, gli inviò un intenso segnale d’intorpidito malessere che andava risvegliandosi. Prima ancora d’aprire gli occhi, quindi, mugolò lamentoso e accartocciò l’espressione.
        Tentò di muovere il collo: un battente mal di testa si presentò senza preavviso, spingendolo a gemere ancora.
        Di colpo, tra una fitta alle tempie e la successiva, ricordò: la foresta, Holmwood. Il lampo rosso. Draco.
        D’istinto, provò a contrarre i muscoli per tornare vigile, ma non ottenne nulla se non di procurarsi uno spasimo al livello del petto che quasi gli troncò il respiro. Soffrendo, tossicchiò, per poi sforzarsi di sollevare almeno le palpebre.
        Vide macchie di colore informi: si rese conto di non avere gli occhiali sul naso, e non poté che assottigliare le ciglia per mettere un pochino a fuoco l’ambiente, che a pelle gli parve famigliare. Pochi secondi e, unendo le informazioni visive alla riscoperta consapevolezza di star giacendo su un letto, riconobbe l’infermeria.
        Notò la luce filtrare dalle finestre. Era giorno, dunque; quanto tempo era passato? E, soprattutto, chi l’aveva portato lì?
        Cercò di guardarsi attorno a dispetto del dolore diffuso ovunque, e credette di localizzare i propri occhiali su di un mobiletto accanto al letto. Prese un bel respiro e serrò la mascella, preparandosi a tendere un braccio per afferrarli.
         Sin dalle prime manovre provò fastidio. Non fu quello, tuttavia, a stroncarlo, quanto il crampo che gli morse la carne sotto la clavicola sinistra non appena la mosse. Fu un male acuto e pungente, che s’irradiò in tutta la spalla sino a farlo urlare – la sua voce, secca, riverberò nella stanza.
        Udito tale pianto straziante, una figura si precipitò al suo capezzale. «No, no – non muoverti» asserì con calma fermezza, spingendolo delicatamente perché tornasse a distendersi in maniera composta.
        Riconosciuta Madama Chips, il ragazzo, tra i rantoli, obbedì. Boccheggiò tentando di parlare, e scoprì così d’avere anche la gola secca.
        «La spalla è in brutte condizioni, non sforzarla. Aspetta» riprese a dire la strega, per poi allontanarsi; ricomparve presto con un bicchiere colmo d’una pozione scura. «Bevi, ti farà star meglio» sussurrò, aiutandolo ad alzare la testa.
        Harry mandò giù un sorso dell’intruglio, e subito rischiò di risputarlo per via del terrificante saporaccio amaro che gli invase la bocca.
        «Forza, forza» lo incitò la donna che, pur vedendolo tanto ritroso, per il suo bene dovette continuare a spingergli il bicchiere contro le labbra.
        Fatta sparire ogni singola goccia del distillato, Potter mugugnò e deglutì a vuoto più volte per scacciare il pessimo retrogusto che gli stava rovinando il palato. «Cos’è successo?» riuscì a chiedere poi, in un roco soffio.
        «Niente di buono. Sei stato colpito da un incantesimo priva-energia, e sei rimasto incosciente per più di tre giorni».
        «Come sono arrivato qui? E― e Malfoy? Holmwood
        Sentendo pronunciare quell’ultimo nome, Madama Chips s’adombrò. «È stato il professore a portarti, l’altra notte. Per fortuna conosceva i giusti incantesimi di guarigione; ti ha soccorso ancor prima di venire da me, e non immagini quanto questo ti abbia aiutato». Breve silenzio. «Non so se posso dirti di più».
        «P-perché?»
        La strega non rispose. Piuttosto, mormorò: «Credi di riuscire a restare sveglio per un po’?» Aspettò di vederlo annuire, poi aggiunse: «La preside McGranitt mi ha detto di volerti parlare di queste cose di persona. Vado ad avvertirla che ti sei ripreso; ti spiegherà lei». Appoggiò il bicchiere ormai vuoto sul mobile che affiancava il letto e, prima di marciare verso l’uscita, si raccomandò: «Resta fermo. Anzi, immobile! Almeno finché la pozione non fa effetto».
        A lui, investito da un principio di preoccupazione, non restò che attendere.
 
 

        Le porte dell’infermeria tornarono ad aprirsi a breve. A varcarle, insieme a Poppy Chips, c’era Minerva McGranitt. Le due raggiunsero senza esitazione il Grifondoro, esibendo facce angosciate.
        «Nei guai fino alla fine, Potter» bisbigliò amaramente la preside.
        Nel mentre, l’altra donna controllò sommariamente che le condizioni del ragazzo fossero stabili. Una volta fatto ciò, seria, sibilò: «Vi lascio parlare».
        «Potrei riavere i miei occhiali?» la trattenne Harry.
        «Oh. Sì, certamente».
        Considerato che, grazie al terribile intruglio ingurgitato, l’indolenzimento ai muscoli si stava già affievolendo, lui fu capace d’afferrare la montatura quando essa gli venne porta e, poi, d’inforcarla. Tutto ciò con la mano destra, s’intende – la sinistra era ancora bloccata a causa del male alla spalla.
        Riuscendo finalmente a veder bene, osservò l’infermiera defilarsi e poi puntò lo sguardo sulla professoressa di Trasfigurazione, che s’era fatta ancor più vicina. Non ebbe il tempo di dir nulla, perché lei lo precedette.
        «Nella Foresta Proibita, di notte» cominciò, sottolineando i fatti. «Non è un gesto che resterà impunito, sia chiaro – ma non è per questo che sono qui, ora. Ci sono questioni più importanti». Sospirò con l’aria di chi ha fretta di giungere al dunque. «Ho bisogno che tu sia sincero. Cosa ricordi di quello che è accaduto?»
        «Non― non molto» ammise Potter. «Seguivo Holmwood, c’è stato un incantesimo; nient’altro. Ma― Malfoy? E il professore? Madama Chips mi ha detto che è stato lui a portarmi qui, ma―» tentennò, «cos’è successo?»
        «Una cosa per volta» asserì con tono saldo la strega. «È una faccenda complessa, e per ora l’importante è che tu sappia che si è trattato di un incidente». Un’ombra le attraversò il viso, «Anche se non è proprio di un incidente che parlano i giornali. Stanno mangiando vivo il professor Holmwood; attorno alla vicenda s’è alzato un inimmaginabile polverone».
        «Cioè?»
        «Sono emerse… questioni private. Hanno imbastito accuse e parlano di complotti – ma non è questa la sede per discuterne. Aspetteremo che le tue condizioni migliorino, anche perché» ridusse la voce ad un filo «il professore stesso vorrebbe raccontarti la sua versione dei fatti».
        Confuso da tanta reticenza, Harry aggrottò la fronte. «Posso avere una copia della Gazzetta?»
        «Sono certa che te ne sarà presto portata una».
        «Può spiegarmi di cosa parla? Per avere un’idea».
        Stanca e abbattuta, la McGranitt s’incupì. «Loro sostengono che sia stato il professor Holmwood a farti questo».
        «Non è così?»
        Con gli occhi puntati a terra, titubò. «Io non credo».
        «Chi è stato, se non lui? E cosa― cosa faceva nella foresta, comunque?»
        «Come ho già detto, è complicato, e non è questa la sede per parlarne». Prima che il Grifondoro riaprisse bocca per pretendere più spiegazioni, fece sapientemente virare la direzione della conversazione: «Piuttosto, riguardo a Draco Malfoy―»
        Gli occhi gli si illuminarono. «Sta― sta bene?»
        Di certo, lei non si aspettava che quell’argomento suscitasse un interesse tanto vivo nel ragazzo; d’altronde, il passato che lui condivideva col Serpeverde non era dei più rosei. Non perse però tempo a questionare il dettaglio, optando per ricominciare a dire: «Sì. Non ha riportato neanche un graffio». Prima d’aggiungere altro, si guardò attorno con fare circospetto. «È stato fortunato. Anzi, molto fortunato, visto che quasi nessuno è a conoscenza del suo coinvolgimento. Vedi― quello che ti ha detto Madama Chips è vero; è stato il professor Holmwood a portarti qui. Ma prima di farlo, ha scortato Draco Malfoy da me: chi era in infermeria non l’ha visto arrivare insieme a voi, e non ha avuto motivo di sospettare che fosse presente. Dunque, le notizie che girano non lo toccano». Strinse la labbra, «Gli ho parlato, e lui ovviamente non dirà nulla. Neanche io e il professore lo faremo, e― ti chiedo d’imitarci». Sapeva che il giovane Malfoy ne aveva già passate tante sia durante la guerra, sia nel periodo dei primi processi; trattandosi di un suo studente, aveva ben pensato di cercare di proteggerlo da ulteriori scandali. «Non c’è motivo di trascinarlo in questo caos – sono certa che tu possa capire».
        Di quel presunto caos, Potter in realtà aveva capito ben poco; soprattutto perché non gli erano stati forniti molti indizi per inquadrarlo. In ogni caso, considerato che si trattava di risparmiare a Draco delle grane, annuì e mormorò: «Okay. Non dirò niente».
        «Bene» esalò la strega. «Ora devo andare. Riprenderemo il discorso quando la tua salute lo permetterà; presto, mi auguro».
 
 

        Madama Chips gli consigliò di riposare. Dapprima si mostrò contrario, ma poi, con mille dubbi a vorticargli in testa, non poté che cedere alla stanchezza: si concesse di chiudere le palpebre.
        S’addormentò entro pochi minuti.
 
 
* * *
 
 

        «Aspettate! Credo si stia svegliando!»
        «Se non abbassate la voce, si sveglierà di sicuro! Cercate di portargli rispetto, ha bisogno di un po’ di sano sonno».
        «Credevo avesse dormito per tre giorni».
        «Ragazzi, sta aprendo gli occhi!»
        Mugolando, Harry rinvenne sulle note di quelle borbottate parole, pronunciate da più voci e rafforzate da altre che, nella cacofonia, non riuscì a distinguere. Scorse, nei pressi del proprio letto, una mandria di Grifondoro intenti a scrutarlo – in prima fila c’erano Hermione e Ron; dietro, poi, figuravano Dean, Seamus, Neville, Ginny e, eccezione ai colori rosso-oro, Luna. Erano tutti trattenuti da un’esasperata Madama Chips, che chiaramente aveva fallito nell’intento di non permettere loro di perturbare il suo riposo.
        Istintivamente, sorrise.
        «Visto? È sveglio!» esclamò Finnigan.
        «Adesso» precisò l’infermiera, sbuffando.
        «Ora possiamo rimanere, giusto? Solo per un po’» fece la più piccola dei fratelli Weasley, sperando di risultare persuasiva.
        La donna non ebbe alternative: «Solo per un po’» confermò, scostandosi per lasciarli passare. «Ma non avvicinatevi troppo! Lasciategli spazio per respirare».
        Neanche a dirlo, Potter fu subito accerchiato e tempestato da tutt’una serie di «Come stai?» e «Eravamo preoccupati» a cui non ebbe la forza psicofisica di rispondere. Riuscì ad alzare un po’ la schiena, però, e a sistemarsi gli occhiali sul naso.
        «Riesci a sederti, o preferisci rimanere steso?» gli chiese Ron, alla sua destra.
        Lasciando parlare i gesti, Harry gli tese la mano perché l’aiutasse a tirarsi su; non era certo che il dolore fosse sfumato abbastanza da consentirgli quei movimenti, ma volle tentare.
        Sollevandosi, emise diversi lamenti.
        «Ti fa molto male?» domandò apprensiva Hermione.
        «Hm» mugugnò affermativo lui. Alla fine, comunque, riuscì a stabilizzarsi – seppur a costo d’una fitta alla spalla sinistra. La sfiorò istintivamente con le dita della mano libera, azzardandosi anche a scostare il tessuto della maglia per verificare l’eventuale presenza di ferite.
        Ciò che trovò fu una grande, frastagliata macchia violacea; quasi un gigantesco pesto.
        «Uh. Non sembra piacevole» sussurrò Seamus, aggrottando la fronte.
        «Proprio per niente» rincarò la dose Dean.
        Madama Chips, facendosi largo tra gli studenti, avanzò portando una brocca d’acqua e un bicchiere per il convalescente. «È troppo presto per alzarsi!» sbottò contrariata vedendo il ragazzo seduto.
        «Ce la faccio» la rassicurò lui.
        «Non devi sforzarti». Poggiò quanto aveva in mano sul mobiletto lì affianco, e si avvicinò per assicurarsi che stesse bene. Lanciò qualche occhiata di controllo alla spalla infortunata, per poi aggiungere, più pacata: «Se però davvero riesci già a stare seduto, posso fasciarti quella. Qualche impacco l’aiuterà a guarire più in fretta».
        «Quanto ci metterà a riprendersi del tutto?» intervenne Paciock.
        «Dovrà rimanere qui almeno per qualche altro giorno. L’indolenzimento potrebbe persistere anche più a lungo, ma per allora mi auguro sarà gestibile». Versò l’acqua nel bicchiere che aveva portato, la offrì a Potter e, una volta che lui ebbe accettato, si allontanò.
        «È vero quello che si dice della McGranitt?» mormorò impaziente Ron.
        Harry si fece perplesso. «Cosa si dice?»
        «Che questa mattina ha interrotto una lezione per venire da te, quando ti sei svegliato».
        «Beh, non so se ha interrotto una lezione, ma è venuta».
        «E di cosa avete parlato?» proseguì ad interrogarlo Finnigan.
        «Mi ha chiesto cosa ricordassi e― hm, ha accennato ai giornali, e al fatto che hanno creato molta confusione».
        Ginny inarcò le sopracciglia, «Merlino se l’hanno creata! Hai già letto quello che dicono, Harry?»
        «No, non ancora».
        «Notizie pesanti! È da due giorni che Holmwood non fa lezione, e non si presenta nemmeno in Sala Grande» continuò la piccola Weasley.
        Hermione immerse una mano nella borsa dei libri, bofonchiando: «Dovrei avere una copia della Gazzetta. Solo un attimo».
        Intanto, Dean chiese, rivolto a Potter: «Cosa ricordi?»
        «Quasi niente. Solo la luce di un incantesimo nel buio». Fece appena in tempo a terminare la frase, che l’amica gli mise in mano il giornale, scambiandolo col bicchiere d’acqua ancora mezzo pieno.
        «È dell’altro giorno» commentò.
        «Ma cos’è successo prima dell’incantesimo? Holmwood― lui ti ha portato nella foresta?» scandì Seamus, mentre tutti mettevano su facce tese e dubbiose.
        «Cosa?» Harry storse il naso, «No. Io― l’ho seguito. Chi dice che mi ci ha portato lui?» Gli altri accennarono al quotidiano, e capì di doverlo subito leggere.
        I titoli in grassetto non poterono che saltargli all’occhio: Professore corrotto. Pericolo ad Hogwarts e, più sotto: Altri complotti da sventare?
        Il compito di alleggerire la pagina, su cui gravava un muro di testo, era affidato a tre diverse fotografie; due di esse ritraevano Holmwood. La prima doveva essere di repertorio, e lo vedeva esibire un’espressione cupa e sospetta mentre voltava il capo per spostare gli occhi dalla camera che aveva eseguito lo scatto. La seconda, invece, sembrava recente; dipingeva, infatti, l’insegnante fuggire dalla morsa d’un giornalista. Harry riconobbe il luogo sullo fondo: si trattava di Hogsmeade.
        La terza immagine, che a giudicare dall’ambiente era stata scattata al Ministero, raffigurava una donna con lunghi capelli nero pece e folte sopracciglia incurvate in un cipiglio spaventosamente serio. Un’espressione del tutto simile a quella tipica del professore di Difesa – e infatti, a mo’ di didascalia, a quella foto s’accompagnava l’eloquente scritta: Elliott Holmwood.
        Curioso e quasi preoccupato, il Grifondoro si tuffò tra le righe dell’articolo.
 
 

        Dramma ad Hogwarts: nella foresta che affianca il castello, si è sfiorata la tragedia. Il famoso Harry Potter, ancora una volta coinvolto in conflitti d’ampia portata, è stato colpito da un incantesimo priva-energia di livello avanzato ed è attualmente incosciente. I tentativi di rianimazione continuano a non dare frutti: è stato ipotizzato un trasferimento al San Mungo, ma non vi sono conferme.
        Chi può aver ridotto in questo stato l’Eroe del Mondo Magico? Per trovare risposta a questa domanda, non c’è stata necessità d’attendere: il colpevole si è da subito costituito. Egli è il professor Vivian Holmwood, detentore della cattedra di Difesa contro le Arti Oscure presso la scuola.
        Il mago ha dichiarato che l’accaduto è da considerarsi un incidente, risultato di una mossa di autodifesa, poiché il giovane l’ha messo in allarme mentre si trovava nella famigerata Foresta Proibita in cerca di erbe. Ma come ci si può fidare di tali parole, quando esse, in primo luogo, non forniscono che un motivo raffazzonato per la presenza del professore nella suddetta foresta? Chi ci garantisce che non sia stato lui stesso a trascinare il povero ragazzo tra gli alberi, per fargli del male al riparo da occhi indiscreti?
 
 

        Potter fissò per alcuni secondi quelle parole, stralunato. «Non mi ha trascinato da nessuna parte. L’ho visto nei corridoi, e l’ho seguito», ribadì.
        «Perché eri nei corridoi?» domandò Ron.
        «Niente. Ero― ero uscito. Tutto qui».
        «Sbaglio o era già capitato?» fece Neville, attirando l’attenzione generale. «Ricordo che una volta avevi detto d’averlo incontrato, e d’averlo visto andare nella foresta; è successo mesi fa, però».
        «È vero. Era già successo» disse Hermione in vece dell’amico. «A Gennaio».
        Seamus s’accigliò. «Quindi d’abitudine fa dei viaggetti notturni nella foresta?»
        «Non si può dire con certezza» continuò Granger, «ma a questo punto non è difficile credere che sia proprio così».
        Riportati gli occhi sulla Gazzetta, Harry serrò pensieroso la mascella. «Holmwood ha rilasciato delle interviste? E ha ammesso di aver lanciato l’incantesimo?» chiese, in cerca di conferme. Gli amici s’accavallarono nel rispondere; ciò che emerse, dunque, fu un sonoro collettivo che lo mandò a dir poco in confusione.
        Non aveva alcun senso. La McGranitt gli aveva confidato di non ritenere il professore colpevole, ma com’era possibile che lei avesse una tale opinione, se il mago stesso aveva confessato?
        Non ebbe il tempo né di ordinare le idee, né di mettere al corrente gli altri dei dubbi che l’avevano colto, perché Luna prese parola: «Cerca di difendersi dalle accuse. Ma più parla, più va a fondo. È molto tormentato. Credo soprattutto per via del coinvolgimento della sorella».
        Potter tornò a scrutare la fotografia della donna sul giornale e «Elliott Holmwood», bisbigliò.
        «Esatto! Anche se Elliott è un nome da uomo» biascicò a bassa voce Ron, come contrariato.
        «Lei è una Auror, a quanto pare. O meglio, era una Auror» l’informò Hermione. Senza spiegarsi, ordinò: «Continua a leggere!»
        Harry eseguì, cercando con lo sguardo i primi passaggi dell’articolo in cui compariva il nome della strega.
 
 

        Le possibili cattive intenzioni di Vivian Holmwood non sono affatto difficili da ritenere verosimili. Egli non sarebbe, infatti, il primo nella sua famiglia a commettere atrocità e bassezze: già la sorella Elliott si è macchiata di efferati crimini.
        La donna, che ha militato per anni tra le fila degli Auror al servizio del nostro Ministero, nel corso del recente conflitto contro il Signore Oscuro ha tradito la sua rispettabile posizione per collaborare con diversi Mangiamorte. È accusata di aver comunicato a questi ultimi fondamentali informazioni, che avrebbero concesso loro di rintracciare maghi e streghe successivamente sottoposti a torture. Tra questi…
        Seguivano tutt’una serie di nomi, che per la maggior parte Harry non conosceva e che dunque scorse distrattamente, riprendendo la lettura più sotto.
        Sono ancora in corso i processi che stabiliranno quella che sarà la sorte di Elliott Holmwood, già giustamente cacciata dai ranghi degli Auror e tenuta sotto stretto controllo.
        Che entrambi i fratelli siano corrotti? Possibile che, addirittura, siano invischiati in uno stesso complotto?
 
 

        Travolto da tante notizie da prendere con le pinze, Potter poté finalmente iniziare a mettere a fuoco l’entità del trambusto che si accompagnava alla faccenda: lo spettro d’una pesante agitazione si fece sempre più vivo in lui. Non aveva praticamente idea di ciò che era avvenuto la notte in cui era stato colpito; cioè, la notte a causa della quale quel macello era venuto a galla. Si sentì frustrato, e provò il bisogno di saperne di più, immediatamente. Ma a chi chiedere?
        Bastò un flash e: Draco, pensò. Lui, di sicuro, avrebbe saputo fornirgli qualche dettaglio attendibile.
        A riscuoterlo, e a far cessare il consistente mormorio di sottofondo dovuto alle parole degli altri ragazzi, fu la voce di Madama Chips, ricomparsa col necessario per realizzare una fasciatura. «Devo chiedervi di andare» scandì rivolta agli studenti in visita, «è ora che cerchi di aggiustare il vostro amico».
        S’alzarono lamentele e richieste per ottenere del tempo in più, ma la donna si oppose e costrinse il gruppetto ad allontanarsi – lasciò loro giusto una manciata di secondi per salutare Harry.
        Tutti gli promisero che sarebbero presto tornati a trovarlo. Lui, tuttavia, ormai focalizzatosi su Malfoy, aveva la testa altrove, e non ribatté in alcun modo.
        In quei pochi momenti, si rese conto di non aver praticamente alcuna speranza di discutere entro breve col Serpeverde – che non sarebbe passato spontaneamente per controllare le sue condizioni era poco ma sicuro, ed essendo lui inchiodato a quel letto non poteva prendersi la briga di cercarlo. A meno che―
        Lanciò un’intensa occhiata a Hermione, che, per ultima, si stava congedando. «Domani verrò a portarti gli appunti delle lezioni che hai perso, okay? Intanto riposa e riprenditi!»
        «Aspetta» le disse non appena lei fece per andar via, guadagnandosi un implicito rimprovero da parte dell’infermiera. «Solo un attimo» pigolò.
        «Un minuto» gli concesse sospirando Madama Chips, mentre gli altri s’avviavano verso l’uscita; tra loro, solo Ron esitò: fu un gesto della ragazza rimasta con Potter a convincerlo a ritirarsi.
        «Qualcosa non va, Harry?» domandò lei, analizzando l’espressione dell’amico.
        «No. Cioè sì, ma―» Incapace di decidere come approcciare la questione, si bloccò. Solo dopo un momento d’esitazione, sussurrò: «Vorrei davvero capire cos’è successo l’altra notte».
        «E io come posso aiutarti in questo?»
        Deglutì. «Ecco―» La preside gli aveva chiesto di non divulgare quell’informazione, ma di Hermione, ne era più che certo, ci si poteva fidare. «Non ero da solo. C’era qualcun altro con me – a parte Holmwood, intendo».
        Lei, tremendamente seria, corrucciò la fronte – segno che gli ingranaggi di ragionamento e deduzione s’erano messi in moto. «Chi c’era?» sibilò cautamente, «E perché non se ne sa niente?»
        «Non ho ben capito come si sono diffuse le voci, ma mi hanno detto che quando il professore mi ha portato qui, lui non c’era, quindi non l’hanno visto e non l’hanno coinvolto. Per altro la McGranitt mi ha chiesto di non parlarne in giro: considerato com’è andata, vogliono approfittarne e tenerlo fuori».
        La ragazza annuì, comprendendo. «Dunque è un lui» costatò poi, diffidente, prima di concedersi un istante di riflessione. «Perché ho il terrore di aver capito di chi si tratta?»
        «Perché, uh, forse hai davvero capito». Abbassò la testa, per poi sillabare timidamente: «Malfoy».
        «Merlino». Si portò una mano al viso, assalita da un qual certo tormento, dopodiché, tra i denti, riprese a parlare con foga: «So che adesso stai male e hai il diritto di rimuginarci su quanto vuoi, ma― devi davvero dirmi cosa diamine state combinando, voi due. Cosa― cosa facevi con lui, di notte? Non un’altra sfida, suppongo».
        «No. Parlavamo. Per inquadrare le cose».
        «Quali cose, Harry? Mi hai detto che ti ha chiesto di― baciarlo, e poi mi hai lasciata sulle spine e dannazione, io non so più cosa pensare, perciò: spiegami! Per favore. Sono preoccupata».
        «Non so spiegare molto. Solo che― non è male».
        «Non è male cosa
        «Lui. Quello che facciamo». Nel dirlo, quasi s’imbarazzò.
        Hermione per un secondo rimase immobile a ponderare, poi bisbigliò: «Da tutto ciò devo concludere che questi sentimenti – che poi, si può parlare di sentimenti? – sono ricambiati?»
        «S-sì. Credo che ci sia dentro quanto me». Osservando l’amica esalare uno strano sbuffo e passare da espressioni incerte ad altre scettiche, si morse una guancia. Poi ricominciò, tentando di chiudere la divagazione: «Il punto è: lui era lì, l’altra notte. Penso che potrebbe aiutarmi a chiarire cos’è successo».
        «E cosa vuoi che faccia io? Che gli parli al posto tuo?»
        «Non credo che parlerebbe con te».
        Lei roteò gli occhi ed incrociò le braccia al petto, a metà tra il piccato e l’indignato. «No, certo che no. Quindi?»
        Potter, titubante, mugugnò tra sé e sé, attivando solo in quel momento il pensiero critico. «Forse è un’idea stupida» ammise, scuotendo amaramente il capo. «Lui non verrebbe a parlarmi. No?»
        «Oh. Vorresti che gli chiedessi di venire da te?»
        «Oppure potresti fargli arrivare un mio messaggio, ma―» alzò lievemente la spalla non infortunata, decretando: «È stupido. Lascia perdere».
        A Hermione si strinse il cuore quando lo vide afflosciarsi ed incupirsi. Non fece però in tempo a far commenti, poiché Madama Chips tornò all’attacco: «Il minuto è passato».
        La ragazza ispirò e scoccò un’occhiata significativa all’altro. Prima d’incamminarsi mesta e meditante verso la porta, ribadì sottovoce: «Ti porterò gli appunti».
 
 

        E glieli portò. Il giorno successivo, all’ora di pranzo. Approfittò dell’occasione per cercare di spillargli qualche informazione in più riguardo a Malfoy, ma non ottenne granché: solo risposte frammentarie.
        «Lui ti piace?» chiese cinica, andando dritta al nocciolo.
        «Forse. Un po’. Mi― mi interessa, ecco».
        «E vorresti vederlo? Non solo per parlargli dellaltra notte, intendo».
        «Hm. Posso aspettare». L’espressione turbata lo tradì, rendendo ovvia la verità – perché d’accordo, voleva vederlo. Era simile ad una necessità e la cosa lo impensieriva non poco; gli vorticavano in testa, infatti, tanti interrogativi, a partire dal Per te fin dove arriva questo? di Draco.
        A priori dalle precise cause, in ogni caso, Hermione colse il suo desiderio e, soprattutto, notò il suo immusonirsi. Per non infastidirlo ulteriormente, non indagò oltre. Rifletté, però. A lungo.
        Il fatto che il Serpeverde fosse invischiato nella faccenda non le piaceva più di tanto; temeva per Harry: aveva paura che rimanesse incastrato in qualcosa che l’avrebbe condannato a soffrire. L’istinto le suggeriva di metterlo in guardia, di consigliargli di non fidarsi, ma, d’altronde, chi era lei per giudicare? Aveva il diritto d’immischiarsi, di mettere in dubbio il buonsenso dell’amico, considerato che sì e no conosceva il quadro generale?
        Trovare una risposta non si prospettava per nulla semplice. Pensò persino di sospendere il giudizio, di aspettare nuove informazioni, ma il caso le rovinò i piani, mettendola di fronte ad una rara circostanza che le fornì l’opportunità di modificare la propria prospettiva.
        Dopo un pomeriggio trascorso a studiare, aveva accumulato altro materiale da far avere a Potter. Stava per l’appunto uscendo dalla biblioteca per dirigersi in infermeria, quando, ad un tavolo, scorse Malfoy, solo e chinato sui libri. Subito s’arrestò e s’irrigidì.
        Lo analizzò, per quanto possibile. Di primo acchito, le parve il solito snob Purosangue; lo stesso che s’era preso gioco di loro per anni e che più volte li aveva messi nei guai. Eppure, al contempo, era diverso, perché diversa rispetto al passato era la sensazione che la sua figura le trasmetteva.
        Solo pochi mesi prima, l’aveva visto con il terrore negli occhi. Ricordava il processo di cui era stato protagonista e per Godric, l’idea che dovesse convivere con il Marchio sul braccio, e con tutto ciò che esso comportava, la fece vacillare, tanto l’empatia la sobbarcò di quello che, immaginava, fosse l’opprimente bagaglio emotivo del Serpeverde.
        Quello era il ragazzo che, a quanto pareva, aveva chiesto un bacio a Harry.
        Era il caso di tirar dritto, d’ignorarlo, di restarne fuori? O magari d’affrontarlo in qualche improvvisata maniera? Doveva tenere in conto tutti i fattori, agire per il bene d’una delle persone che più le stavano a cuore. Ma cosa sarebbe stato meglio per lui?
        Forse, si disse banalmente, il meglio era ciò che avrebbe potuto farlo contento.
        Tentennando, abbassò lo sguardo sulle pergamene di appunti che stringeva al petto insieme ad alcuni tomi, e assottigliò le labbra. Poi, forte d’una calibrata impulsività, mosse i primi, dubbiosi passi verso Malfoy, divenendo a mano a mano più sicura di sé e della posizione da prendere.
        Non si fermò finché non lo raggiunse e, una volta che gli fu appresso, si piantò saldamente sulle gambe. Attirò la sua attenzione schiarendosi la voce.
        Draco voltò lentamente il capo, perplesso e sulla difensiva. Scrutandola, non proferì verbo.
        Fu dunque Hermione a dar inizio al dialogo: «So tutto» scandì fermamente, senza girarci tanto attorno. Vide nell’immediato un velo di tensione posarsi su di lui, neanche gli stesse puntando la bacchetta alla gola.
        «Tutto cosa
        «Tutto».
        «Non ho idea di cosa tu stia parlando».
        «Non serve perder tempo a negare, non ho intenzione di smascherarti». Entrambi scandagliarono i dintorni durante un momento di silenzio, dopodiché lei riprese a dire, più posata: «Mi piace pensare che, sotto gli strati di antipatia e chiusura mentale, tu non sia una persona orribile. Ma non credere che abbasserò la guardia. Con Harry―» indurì l’espressione, riducendo il tono ad un sussurro «sta’ attento a quello che fai».
        Lui, pur celandolo alla perfezione, andò interiormente a fuoco, preda d’un mastodontico imbarazzo. Schiuse le labbra, esitando appena. «Mi stai minacciando, Granger?»
        «Ti sto minacciando, Malfoy».
        Si fissarono intensamente per una manciata di secondi, e l’attrito tra loro fu tale a chiunque l’assenza di scintille sarebbe parsa un miracolo.
        La Grifondoro, senza mai distrarsi, approfittò di quel tempo per pianificare la mossa successiva. Quando si sentì pronta, smussò lievemente il proprio muso duro e posò sul tavolo i fogli d’appunti che aveva con sé. Lentamente, li fece scivolare verso l’altro; non fu facile staccare la punta delle dita da quelle pergamene, ma si costrinse a farlo. «Forse questi vorresti portarglieli tu» soffiò, non senza titubanza.
        Draco s’accigliò e, tacendo, fece ripetutamente saettare lo sguardo tra la ragazza e le pagine che gli erano state porte, come esaminando la situazione.
        Prima di girare i tacchi col petto gonfio, Hermione aggiunse: «Non tardare ad andare. Ne ha bisogno». Se di lui o del materiale per studiare, non lo specificò.
 
 
* * *
 
 

        Durante la convalescenza, Harry ricevette parecchie visite. In primis dai compagni, che s’alternavano per non lasciarlo solo, ma anche altri si presentarono al suo capezzale; Hagrid, per esempio, tutto stretto nelle larghe spalle e con la colpa negli occhi.
        «Ti avevo assicurato che il professor Holmwood non era pericoloso, che ci si poteva fidare; e invece guarda cos’è successo!»
        Neanche a dirlo, fargli accettare che non erano state le sue parole a causare gli avvenimenti non era stato semplice.
        Comunque, tra le tante persone che andavano e venivano, continuava a non comparire quella che, ogni istante di più, gli premeva di vedere. Ciò, sino alla sua ultima serata in infermeria.
        Quando udì la porta aprirsi e sentì la sua voce, non volle crederci. Scattò quanto più velocemente poté a sedere sul materasso, e allungò il collo per sbirciare.
        «Come, prego?» stava sbottando Madama Chips, le mani sui fianchi.
        «Ho detto che ho degli appunti. Per Potter» ripeté Malfoy, chiaramente a disagio.
        «Potter sta già dormendo. È tardi! Per Merlino, tra poco più di mezz’ora scatterà il coprifuoco».
        «In realtà sono sveglio» s’inserì senza paura il Grifondoro, facendo voltare la donna.
        «Sono appunti molto importanti» sottolineò Draco.
        Al che, la strega, basita, osservò prima uno, poi l’altro. Sul serio credevano che si sarebbe bevuta la storia degli appunti? Erano pur sempre rivali storici, e lei non era stupida, quanto piuttosto preoccupata per la salute del proprio paziente. Tuttavia, proprio quest’ultimo le parve fremente, e non poté esimersi dal ricordare che, al suo risveglio, lui aveva chiesto nientemeno che del Serpeverde. Questo, poi, non sembrava sul piede di guerra, e c’era da dire che, quell’anno, non s’erano mai azzuffati.
        Il suo giudizio s’offuscò appena, e per un attimo si sentì combattuta. «Sto diventando troppo buona» commentò poi tra sé e sé, prima di stabilire: «Avete non più di dieci minuti. E rigate dritto! O ne pagherete le conseguenze».
        Pochi secondi dopo, Malfoy marciò in un’infermeria vuota – s’era assicurato che lo fosse, prima di presentarsi – sino a raggiungere il letto su cui giaceva l’altro. Gli consegnò seccamente i fogli che stava stringendo in mano; nel mentre, si scambiarono un’occhiata, ed entrambi furono scossi da un lieve brivido.
        «Sono di Hermione» affermò Harry, riconoscendo la calligrafia sulle pergamene. «Te li ha dati lei?»
        «Non li ho rubati, se è questo che intendi».
        «No― non intendevo questo». Sbuffò, «Grazie».
        Draco elargì un Prego sotto forma di cenno, sollevando appena un angolo del labbro superiore. Notò le bende che fasciavano la spalla sinistra del Grifondoro, e «Ti fa male la spalla?» chiese, quasi retorico.
        «Sì». Fece appena in tempo a scandire quel monosillabo, che, con una rapidità inaudita, il Serpeverde lo colpì dritto sotto la clavicola, esattamente laddove ancora campeggiava il pesto violaceo. Il dolore fu abbastanza acuto da fargli morire la voce in gola: istintivamente, si piegò in avanti, tenendo le palpebre strizzate e la bocca aperta per emettere un urlo che non sarebbe mai nato. «Bastardo» sibilò tra i denti, «perché
        «Non osare lamentarti – te lo sei meritato, e lo sai!» Nell’asserire ciò, gli puntò contro un indice accusatorio. «Hai raccontato a Granger di me, quando ti avevo detto di mantenere il segreto. Senza contare che cavolo! devo scontare una punizione infinita per colpa delle tue follie notturne! La McGranitt mi ha affibbiato la Cooman, ti rendi conto? Mi fa pulire i fondi di the!» Parlò frettolosamente, vomitandogli addosso sillabe strascicate come se non ci fosse un domani.
        Harry sollevò il capo quanto necessario per fulminarlo e ribattere che, comunque, non s’era meritato un pugno, per di più sulla spalla, ma all’ultimo si trattenne. A fermarlo, fu l’espressione rotta dell’altro – un’espressione che, più che collera, gli comunicò ansia. Dopo averla studiata per un po’, tornò a mugolare per il dolore.
        «Non c’è bisogno di fare tanta scena».
        «Fa un male cane. Stronzo» l’insultò di nuovo, ma quella volta con molta meno cattiveria rispetto a prima.
        Malfoy sospirò con ritrovata leggerezza, lieto d’essersi almeno in parte sfogato. «Perché diamine Granger mi ha dato il biglietto per venire qui?»
        Anche se a fatica, Potter tornò a sollevare il busto. «Le ho chiesto io di farlo».
        «Questo lavevo intuito. Ma: perché? Ti mancavo?» lo punzecchiò sarcasticamente la serpe, tagliente.
         sarebbe stata la legittima risposta, ma Harry non la pronunciò. «Volevo parlarti per sapere cos’è successo quando abbiamo seguito Holmwood. Ho letto la Gazzetta, e non capisco».
        «Oh». Di colpo, si fece titubante. «Incredibilmente, non sto colando a picco con questa storia, quindi―»
        «Lo so, lo so. La McGranitt me l’ha spiegato, non dirò niente. Ma com’è andata? Quanto tempo è passato prima che il professore mi portasse qui? Cos’hai visto?»
        «Rallenta». Non impazziva dalla gioia all’idea di discutere di certe cose, ma non si sottrasse. «Dopo che sei crollato, Holmwood è arrivato praticamente subito». Venne spronato a continuare da un gesto approssimato e, per quanto nervoso fosse, si sforzò di soddisfare la richiesta.
 
 

        Stagliandosi contro la densa oscurità della notte e scrutando dall’alto i due studenti – uno inginocchiato a terra, l’altro mollemente disteso –, il professore di Difesa aveva prima di tutto agitato la bacchetta accesa per mettere in chiaro – letteralmente – la situazione.
        «È stato colpito, vero?» aveva chiesto, cupo.
        Malfoy, tremante, s’era ritrovato ad annuire e, poi, a scattare all’indietro; in un battito di ciglia, infatti, Holmwood era avanzato, piombando sul corpo incosciente del Grifondoro. Aveva iniziato a bisbigliare qualche formula, ma d’improvviso la comparsa d’un’ombra l’aveva interrotto.
        Una voce femminile, agitata e appena stridula, era emersa tetra dal buio. «Sta bene?»
        «Sì, per fortuna. Ora vattene».
        «Ma in che condizioni è? Fammi vedere, posso―»
        L’insegnante era spaventosamente trasalito, furente. «Per l’amor di Morgana – Elliott, sparisci! Adesso! A lui penso io». Con una rapida magia, aveva fatto levitare Potter e «Tu: seguimi» aveva ordinato all’altro, autoritario.
        La donna, ancora celata dal nero della notte, aveva fatto rumore, molto probabilmente pestando i piedi a terra. «Non posso andarmene così. Lascia che―»
        «Ti ho detto di sparire. Non farmelo ripetere». Guidando con la bacchetta il corpo del ragazzo privo di sensi, e sorreggendo con un braccio il Serpeverde che, pur riuscendo a stare in piedi, sprizzava paura e agitazione da ogni poro, Vivian Holmwood s’era incamminato verso Hogwarts. Non s’era guardato indietro nemmeno una volta.
 
 

        «E mi ha portato dalla McGranitt». Così, si concluse lo stringato riassunto.
        «Elliott? Come Elliott Holmwood? Quella di cui si parla sul giornale?»
        «Suppongo di sì».
        Potter piombò in un mare di congetture: gli avvertimenti della preside, le notizie apprese dall’articolo e il racconto di Draco si sovrapposero nella sua mente. Possibile che la professoressa di Trasfigurazione sapesse di quella misteriosa Elliott? Poi, qual era la misura dei loschi affari dietro alle figure dei fratelli Holmwood?
        S’incupì, inquieto. «Non sai nient’altro?»
        «No. E non ho neanche chiesto spiegazioni; se io sto zitto, loro faranno lo stesso, perciò―» non completò la frase, convinto che non fosse necessario.
        Calò un pesante silenzio, che perdurò per svariati istanti.
        «Se l’interrogatorio è finito, me ne vado» ricominciò a dire Malfoy, distaccato.
        «Cos― no, aspetta». Maldestramente, divenne di botto più conscio del proprio mezzo batticuore.
        «Che c’è?»
        «Uhm. Avevamo dieci minuti».
        «Appunto. Stanno per scadere».
        «Hai fretta di andar via?»
        Il Serpeverde non rispose che con un’alzata di spalle, per poi mormorare, insinuante: «Vuoi che rimanga?» Non aveva previsto che quel quesito avrebbe spolverato imbarazzo anche su di lui, perciò quando percepì un certo pizzicore farsi strada sottopelle quasi ci rimase male.
        Tormentandosi le dita d’una mano, Harry annuì a scatti. Poi soffiò: «Una volta che tutto questo sarà passato, dovremmo riprovare a parlare».
        «Vedremo».
        Per un po’, si fecero taciturni. Potter, intanto, esaminò minuziosamente la figura dell’altro, domandandosi quanto, di preciso, fosse folle il desiderio d’averlo appena più vicino. Da lì, scaturì una valanga di pensieri che, ingombrante, lo sommerse – c’erano scandali in corso, segreti, misteri e, a giudicare delle sue condizioni, persino dei pericoli; eppure, bloccato su quello stupido letto, lui si perdeva a fissare Draco Malfoy con un assurdo tremore nel petto, prendendosi la licenza di mettere tutto il resto da parte. E nemmeno si sentiva in torto.
        Era strano, stranissimo – guardarlo e soffrire per la distanza, sebbene essa fosse misera; gioire perché s’era fatto vivo, malgrado gli avesse appena dato un pugno; convivere con la consapevolezza d’averlo baciato, e di volerlo baciare ancora. Il prima possibile. Sbuffò e quasi rise per la disperazione, trasportato da una marea che fluttuava tra la sensazione d’un’estenuante, pungente tortura e quella della più soffice, carezzevole coccola.
        Tale mix di emozioni si fece poi persino più scioccante, intrigante, spaventoso ed accogliente di quanto già non fosse quando incrociò un’occhiata del Serpeverde. Qualcosa gli si sciolse dentro: si sentì debole ed impotente, e talmente poco intimorito dall’idea d’esserlo, che una scarica d’adrenalina finì col farlo vibrare, regalandogli un’espressione pazzamente beata.
        «Cos’è quella faccia, Potter?»
        Arse piacevolmente in un lago di vergogna. «Niente. Solo―» deglutì, impacciato «possiamo farlo
        «Cosa?»
        Harry si spiegò semplicemente indicandosi la bocca.
        Nell’esatto attimo in cui Malfoy capì, avvampò e sgranò gli occhi. «Ma che―»
        «Non c’è nessuno».
        Quell’imbecille d’un Grifondoro gli parve talmente spudorato, che il suo cuore saltò un battito ed accelerò senza pietà, stordendolo. Si riscoprì anche provocato e stupidamente lusingato e maledizione se il retrogusto di tutto ciò gli piacque – ragion per cui tentennò scandagliando l’ambiente. Poté costatare che no, in effetti non c’era nessuno; Madama Chips era sparita. Per andar dove, non gli importava.
        A dispetto della discreta esperienza ormai accumulata, l’ammettere di volersi concedere il bacio proposto fu per lui arduo. D’altronde, restava una cosa matta e Salazar, era Potter!
        Era Potter, sì. E vuole me. Il suo ego s’espanse deliziosamente, sino a persuaderlo ad avanzare per affiancare il letto.
        Harry a stento trattenne una smorfietta. Considerato che l’altro non si chinò più di tanto – anzi, quasi per nulla – per compensare il dislivello che li separava toccò a lui arrampicarsi. Lo fece seguendo la strada indicata dall’impellenza, inclinando il collo e spingendosi con una mano poggiata sul materasso; e una volta che fu , ad un soffio dall’azzerare lo spazio tra loro, si concesse un momento d’esitazione. Lo assaporò al ritmo dettato dai risonanti tamburi che aveva nella cassa toracica. Dopodiché, si sporse.
        Fu un bacio asimmetrico e un po’ scomodo, tutt’altro che perfetto, e non avrebbe potuto essere più calzante: condensò l’incertezza, la voglia, l’impazienza; si nutrì di labbra appena dischiuse; vacillò come vacillano i primi tentativi inesperti. Si concluse sulle note d’un ovattato schiocco.
        Convincerli a rifiutare un bis non sarebbe stato affatto semplice, se solo un improvviso rumore non li avesse avvertiti della ricomparsa dell’infermiera.
        Col cuore a mille, il Grifondoro tornò a sistemarsi sul letto. «Noi― dobbiamo decisamente riparlarne» sibilò, concitato.
        Quella volta, Draco non borbottò alcuna clausola condizionale.
 
 
» …



 
 

Angolo di Tormenta

Dopo tanto caos, un bel bacino finale per rinfrancarsi lo spirito. ♥ c: A parte gli scherzi – scrivere questo capitolo è stato molto difficile, per me. Tra i tanti personaggi da gestire, la paura di dar vita a una McGranitt sloppy e l’articolo di giornale (tipologia di testo che non sono mai stata brava a mettere insieme), credevo d’impazzire. Per altro finalmente sono stati svelati anche molti dettagli riguardanti Holmwood, e sono in apprensione per le vostre reazioni. Non posso che sperare che il prodotto dei miei sforzi sia quantomeno accettabile, e che non ci siano scivoloni in quanto a tempistiche di narrazione o altro.
Piccolo appunto: il nome della sorella di Holmwood è da uomo. C’entra qualcosa col fatto che lui ha un nome da donna? Sì, l’ho fatto apposta. Ciò ha un qualunque senso logico? No, nessuno. Solo, mi divertiva l’idea (?).

Per la vostra e la mia salute, i prossimi capitoli torneranno ad avere una lunghezza umana. Intanto, grazie mille per aver letto, seguito, preferito, commentato sin qui! :) Un bacio,
T. ♪
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(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio crede)

 

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Capitolo 27
*** 26. Il vento (st)ride ***


26.
Il vento stride
 
 
 
        Era capitato, mentre Harry Potter recuperava pian piano le forze in infermeria, che Vivian Holmwood, chiuso ermeticamente nel proprio ufficio, avesse perso interminabili minuti, ore perfino, a leggere e rileggere missive di conoscenti ficcanaso, di giornalisti insinuanti, di vecchi amici allarmati. Nell’atto di scegliere a quali messaggi rispondere, s’era spesso perso per via di attacchi di cieca rabbia e frustrazione, che mai una volta avevano mancato di spingerlo a riprendere in mano le pagine dei quotidiani – le aveva ormai consumate, quelle, a forza di consultarle.

        Ancora stentava a credere d’essere stato gettato sotto i riflettori da quell’immeritata ignobile fama. E avevano osato mettere alla gogna anche Elliott! Quella sorella i cui presunti crimini sprecavano inchiostro negli articoli stampati; la stessa di cui, per fortuna, nessuna cornacchia aveva ancora intuito il reale livello di coinvolgimento.
        Per suo grande sconforto, tuttavia, c’era chi era già riuscito nell’impresa.
 
 

        Minerva McGranitt non era il tipo di strega che forniva chissà quale rosa di vie di fuga, quando incastrava qualcuno. Di certo, non l’aveva fornita a lui.
        Era piombata nel suo ufficio cogliendolo mentre immancabilmente scartabellava, e l’aveva attaccato stagliandosi davanti alla scrivania dietro cui lui era seduto. «Pretendo che tu mi dica la verità». Così aveva cominciato, solenne, inchiodandolo con lo sguardo ed insonorizzando la stanza con un colpo di bacchetta. Dopo un momento di silenzio, sul suo viso una cupa serietà aveva preso il posto della minacciosa aria determinata. «Non potrò esserti d’aiuto, altrimenti».
        «C’è davvero qualcosa che potresti fare per aiutarmi?»
        «Sei uno dei miei insegnanti, fai parte di questa scuola. Quindi , ci sono cose che potrei fare; la mia voce ha ancora un po’ di risonanza, anche se non sono il Primo Ministro. Ma: voglio conoscere la verità. Tutta quanta».
        Holmwood, a quel punto, s’era riservato di non fiatare.
        «Un mio studente è stato ferito. Un altro ha rischiato d’esserlo. Non dovevano trovarsi dove si trovavano e questo nessuno lo nega, ma nemmeno tu dovevi essere lì. C’eri perché io non te lo avevo proibito, perché ti avevo concesso di continuare a fare ciò che stavi facendo – mi sono fidata. Ora il minimo che tu possa fare è ricambiare, e dirmi come sono andate davvero le cose».
        «È stato un incidente».
        «Non voglio neanche pensare di dover mettere questo in discussione. Il punto è: un incidente causato da chi
        «Da me».
        «Credo che tu stia mentendo» l’aveva accusato apertamente la preside. «Il ragazzo che hai portato da me quella notte mi ha riferito d’averti sentito parlare con qualcuno. Con Elliott. Trovo veramente curioso il fatto che, all’inizio, tu abbia dimenticato di dirmi che lei era già lì, e che l’hai cacciata in malo modo prima di rientrare. Risparmia le menzogne per i giornali, e dimmi: è stata lei a scagliare quell’incantesimo?»
        Il professore, messo con le spalle al muro, s’era adombrato, incurvando le marcate sopracciglia in un’espressione concentrata. Non aveva risposto, ma il suo tacere era stato parimenti eloquente.
        La McGranitt, esalando un sospiro, aveva arricciato le labbra. «Come immaginavo».
 
 
* * *
 
 

        A Harry furono accordate le dimissioni dall’infermeria di primissimo mattino. Era certo che avrebbe fatto in tempo a far colazione con gli amici – o, almeno, lo fu sinché, per suo sommo rammarico, non venne forzato a trattenersi a letto più del dovuto.
        «Devi ricevere un’ultima visita» l’informò misteriosa Madama Chips. «Sarà breve, non preoccuparti» aggiunse prima di congedarsi sulle note della promessa di tornar presto.
        Così come era già accaduto, ricomparve con la preside al seguito; chiaramente, la strega l’aveva incaricata di ritagliarle qualche momento in privato con lo studente prima che lui riprendesse le proprie attività.
        «Mi fa piacere che tu sia tornato in salute» cominciò a dirgli la McGranitt una volta che l’ebbe avvicinato. «Ora puoi sapere che Grifondoro ha perso ben centocinquanta punti per la tua bravata, e che nessuno ti risparmierà un’adeguata punizione». Nel dir ciò, quasi parve scherzosa – non lo era, però. Solo, il poter costatare che il ragazzo s’era ripreso senza riportare danni collaterali di sorta le trasmise un sollievo tale, che non poté non esternare un pizzico di rincuorata gioia alleggerendo il tono.
        Peccato che dovette appesantirlo nuovamente; purtroppo, infatti, c’erano questioni serie di cui discutere. Le introdusse senza tanti preamboli: «Se sei d’accordo, riprenderemo i discorsi in sospeso. Oggi stesso, nell’ufficio del professor Holmwood». Con un cenno, parve voler spingere Potter a dir subito se aveva qualcosa in contrario.
        Lui non s’oppose: accettò l’offerta di buon grado, tentando di mascherare uno spontaneo atteggiamento diffidente. Poi, qualche precisazione, alcuni convenevoli e sette minuti più tardi, ebbe il permesso di varcare l’uscio di quella che sin troppo a lungo gli era parsa una prigione.
 
 

        Si diresse verso la Sala Grande a passo svelto, con mille pensieri ad infestargli la mente e una gran impazienza addosso.
        Solo quando aveva già raggiunto la propria meta, ebbe un istante d’esitazione: restò impalato nel corridoio, a pochi metri dalla porta della sala che, a giudicare dal chiacchiericcio che gli giunse alle orecchie, doveva essere ancora piena. A bloccarlo, fu la previsione di quella che sarebbe stata la reazione della scuola alla sua ricomparsa: dovette mettere in conto una pioggia di domande e di sguardi incuriositi.
        Non appena trovò la forza di avanzare, entrò: come aveva supposto, più e più occhi si fissarono sulla sua persona. Tra i tanti, anche quelli d’un certo Serpeverde biondo. Lui, però, non ebbe il tempo materiale d’accorgersi di quest’ultimo dettaglio; un coro di voci proveniente dal tavolo di Grifondoro, infatti, catturò tutta la sua attenzione.
        «Harry!» lo chiamò raggiante Hermione, alzandosi per corrergli incontro.
        Ron drizzò la schiena e s’illuminò in viso. Al contrario della ragazza, non abbandonò il proprio posto; s’esibì piuttosto in un ampio gesto di saluto, sorridendo a bocca piena.
        «C’è Harry» sussurrarono delle voci, «è tornato!» E come pedine nel domino, uno dopo l’altro, coloro che non avevano ancora alzato il capo lo fecero, sfoggiando variopinte espressioni.
        Seamus si concesse una leggera risatina, «È bello rivederti in piedi!»
        Raggiunto l’amico, Granger si sporse per un rapido abbraccio. «Saremmo passati da te dopo la colazione. Madama Chips ti ha lasciato andare presto» commentò.
        «Come stai?» s’inserì Ginny, poco distante, col busto girato verso di loro.
        Potter sorrise. «Meglio, grazie». Seguì Hermione per accomodarsi, rispondendo chetamente ai Bentornato e affrontando le facce un po’ sghembe di chi, dedusse, non doveva essergli particolarmente grato per aver fatto perdere alla Casa un’abbondante quantità di punti.
        Dopo aver sfilato accanto alla tavolata, si sedette tra l’amica e Neville, di fronte a Weasley.
        «Sono felice che tu sia guarito» disse Paciock.
        «In realtà non sono del tutto guarito, la spalla mi fa ancora un po’ male. Ma almeno ora posso muovermi».
        Ron, ingerito l’abbondante boccone, chiese: «Già da oggi ricomincerai a frequentare le lezioni?»
        «Sì».
        «Brutto modo per tornare in pista». Con ciò, si guadagnò un’occhiata di rimprovero da parte di Hermione, che lo spinse a borbottare: «Stavo solo scherzando!»
        Vagamente divertito, Harry voltò la testa per scrutare il tavolo dei professori. Holmwood era assente, così come la McGranitt – in quanto a quest’ultima, poteva più o meno spiegarsi il perché.
        «Lui ancora non viene in Sala Grande» l’informò la ragazza al suo fianco, attenta e perspicace. «Credo sia già molto che abbia ricominciato ad insegnare». Non ebbe bisogno di esplicitare il nome della persona a cui si stava riferendo: tutti capirono al volo.
        «Ora che ti sei ripreso, ti tartasseranno» fece Weasley, schietto, dopo una rapida riflessione. «I giornali, intendo. Vorranno delle dichiarazioni».
        «Non farmici pensare».
        «Cosa dirai?» domandò Neville, sottovoce.
        «Non so. Vedrò come vanno le cose». Affamato, s’avventò sul cibo, annegando intanto nelle ciarle dei rosso-oro che lo circondavano.
        Scelse di non riferire agli amici della conversazione avuta con la preside quella mattina, né di quella che avrebbero avuto nel pomeriggio. Per metterli al corrente, infatti, preferì rimandare ad un momento in cui sarebbero stati osservati da meno occhi indiscreti.
        E se quel discorso dovette aspettare per vedere la luce, un altro, invece, poté essere presto intavolato; per la precisione, quando, insieme ad un gruppo di compagni di Casa, uscì dalla Sala Grande. Ad innescarlo fu un misero, eppur essenziale, sguardo.
        Nel tragitto verso la porta, a Harry capitò d’intercettare, tra le fila dei verde-argento, Draco Malfoy. Venne attraversato da un tremito e, senza nemmeno rendersene conto, mise su una smorfietta imbambolata. Non mantenne il capo girato da quella parte più di uno, due secondi per ovvi motivi, ma, per quanto fugace, la vista del Serpeverde bastò a spronarlo.
        Mentre camminavano nel corridoio, prese delicatamente Hermione per un braccio, facendole intuire che desiderava parlarle. Entrambi rallentarono l’andatura e si lasciarono superare dagli altri, così da assicurarsi d’essere fuori dalla portata delle loro orecchie.
        Andando dritto al dunque, Potter bisbigliò: «Grazie per avergli dato quegli appunti».
        Lei comprese in un battito di ciglia a chi l’amico si stesse riferendo, e corrucciò la fronte. «Lui― è venuto? Te li ha portati davvero?» A renderla perplessa non fu solo quel fatto, ma anche la contentezza che dava bella mostra di sé sul viso di Harry.
        «Hm. Ieri sera».
        «Oh». Definirla stupita sarebbe stato riduttivo. «E gli hai chiesto quello che volevi sapere?»
        «Sì. Mi ha raccontato com’è andata».
        «Cioè?»
        Considerato che doveva dir loro anche della McGranitt, non volle anticiparle più di tanto. «Le cose sono più complicate del previsto. Ne riparleremo dopo, con calma».
        «Ma―»
        Mise a tacere l’interrogativo con un gesto, ribadendo: «Dopo».
        A quel punto, s’istaurò tra loro un breve silenzio, che fu spezzato da Hermione. «Volevi vederlo, vero?» mormorò infatti, «Non per parlargli – per vederlo e basta».
        Potter chinò la testa, e «Volevo vederlo» ammise in un soffio.
        Quella risposta lei già la conosceva. Tuttavia, aveva comunque posto la domanda, perché non sapeva di preciso in quale altra maniera istigare qualche confidenza. «Capisco».
        «Toglimi una curiosità» buttò lì lui, «perché gli appunti?»
        «Beh, l’ho incontrato uscendo dalla biblioteca, e non avevo idea di come avrei dovuto dirgli di venire da te. Ho improvvisato». Accennò un sorriso, «Per fortuna ti ha portato quelle pergamene. Temevo che non le avrei mai più riviste».
        Harry, con un’espressione appena divertita che andava smorzandosi, prese a fissare il pavimento. La figura di Malfoy, tanto per cambiare, gli aveva prepotentemente invaso i pensieri, e lo distrasse. Fu solo dopo diversi istanti che cercò di scandir qualcosa; si ritrovò però con la lingua di botto annodata, e tentennò. «Tu― tu credi che sia sbagliato? Questo. Io e lui».
        Con disarmante tranquillità, Hermione gli regalò un’occhiata dolce e rassicurante. «No, non credo che sia sbagliato. Anche perché non mi permetterei mai di giudicarti. Ho solo paura per te».
        «Paura?»
        «Certo. Che ti faccia star male, o che t’illuda. Ogni tanto muoio dalla voglia di dirti di troncare questa faccenda, ma― non posso. E comunque non mi ascolteresti».
        «No, probabilmente no».
        Lei sospirò. «Promettimi solo che starai attento».
        Coi denti affondati in una guancia, lasciò trascorrere un attimo; poi, proprio quand’era sul punto di pronunciare il Lo prometto di rito, un richiamo di Weasley l’interruppe.
        «Che succede? State rimanendo indietro».
        «Tutto okay» lo rassicurò Hermione, colta alla sprovvista. «Arriviamo». Contraddicendosi, però, non allungò il passo; preferì sibilare, voltata verso Potter: «Quando dirai a Ron di lui
        «Non so. Sai anche tu che non reagirà bene, e non sono ancora pronto per affrontarlo. Senza contare che― beh, gli ho detto che c’è un ragazzo che mi interessa, e non ha insistito neanche un po’ per sapere di chi si tratta. Io―» titubante, deglutì «io credo che in fondo non abbia del tutto accettato questa storia».
        «È solo un po’ confuso, non fargliene una colpa. Sei il suo migliore amico, credeva di conoscere tutto di te e l’hai colto di sorpresa». Chiaramente, Weasley s’era confidato con lei. «Non aspettare troppo, d’accordo? Se tu e Malfoy fate sul serio» ancora le pareva un concetto assurdo «devi dirlo a Ron. Più tempo passa, peggio sarà». Scoccò un’occhiata apprensiva per assicurarsi che il messaggio fosse stato recepito, dopodiché accelerò, borbottando: «Ora andiamo, o faremo tardi».
 
 

        Harry si fece accompagnare da Hermione e Ron alla Torre di Grifondoro, dove recuperò i libri e il resto del materiale di cui aveva bisogno. Fu in quel frangente che, approfittando della Sala Comune semi deserta, raccontò ai due della visita della preside e dell’incontro che con lei aveva programmato. Confidò loro anche della presenza nella foresta, la notte del fattaccio, d’una certa Elliott – ovviamente omettendo la fonte dell’informazione.
        Neanche a dirlo, le sue rivelazioni scatenarono tutt’una serie di interrogativi a cui non seppe rispondere e una buona dose di confusa preoccupazione, che sarebbe persistita almeno sino alla resa dei conti di quel pomeriggio.
 
 
* * *
 
 

        Dopo una lunga giornata di lezioni, condita dagli invasivi sguardi che buona parte degli alunni non aveva mai smesso di scoccargli, Vivian Holmwood s’era accomodato alla scrivania, in ufficio. Tenendo il capo lievemente reclinato e gli occhi fissi nel vuoto, torturava nervosamente con le dita una penna, e aspettava che Minerva McGranitt comparisse insieme a Harry Potter.
        Nell’istante in cui, finalmente, nella stanza risuonò un sommesso bussare, quasi sussultò. Riuscì tuttavia a celare con maestria l’agitazione, assumendo una posa composta e nascondendosi dietro un’anonima inespressività.
        «Prego» sibilò invitando i due ad entrare.
        La preside si fece avanti per prima, per poi scostarsi e lasciar passare lo studente che, coi pugni chiusi, non esitò a stabilire un contatto visivo col professore.
        Questo, con studiata calma, l’invitò a prender posto davanti a lui. «Siediti pure».
        Mentre il ragazzo eseguiva, mantenendo rigorosamente alta la guardia, la strega, rimasta poco più in là, provvide a sigillare l’ambiente con un paio d’incantesimi. «Bene» soffiò una volta che ebbe finito, per poi avanzare e dare, alzando significativamente le sopracciglia, una virtuale autorizzazione all’inizio della conversazione.
        Holmwood si schiarì la voce, rivolgendosi al Grifondoro. «Prima di tutto, ti chiedo scusa per quello che è successo. Spero tu possa credermi quando dico che è stato un incidente».
        «Uhm. ». Riteneva improbabile che avesse avuto cattive intenzioni nei suoi confronti; fosse stato così, non l’avrebbe soccorso, né tantomeno portato in infermeria.
        «Mi fa piacere. Molto piacere – come immagino tu sappia c’è chi a stento è disposto a darmi il beneficio del dubbio».
        «Sì, ho letto i giornali».
        L’uomo s’incupì, posando sul tavolo la penna sino a quel momento tenuta saldamente in mano. «Sono certo che vorranno parlare anche con te».
        «Lo credo anch’io».
        «Cos’hai intenzione di dire?» Ponendo la domanda, lasciò trapelare una spolverata di smania che tradì il suo turbamento.
        Harry colse quel segnale, e subito l’interpretò. «C’è qualcosa in particolare che vorrebbe che dicessi, signore?»
        Il mago sciolse calibrato l’espressione. «Non perderò tempo a negare che una dichiarazione positiva dell’Eroe del Mondo Magico potrebbe farmi comodo. Quindi , c’è qualcosa che vorrei che dicessi».
        «Io dirò la verità. Perciò: mi spieghi. Se davvero è stato un incidente, e ha delle ragioni, sarò il primo a crederle». Sentendosi addosso la pesantissima attenzione dei due professori, tacque brevemente. «Cos’è successo? Perché si trovava nella Foresta Proibita?»
        Holmwood esitò, evidentemente non del tutto persuaso ad aprirsi, ma «Vivian» lo richiamò all’ordine la preside, fredda, «diglielo». E così, iniziò a raccontare.
        «Hai detto d’aver letto i giornali. Dunque sai che ho una sorella – Elliott».
        «Sì. Lei― lei era lì quella notte, vero?»
        Per un istante, entrambi gli insegnanti si domandarono come facesse ad essere a conoscenza di quell’informazione; non impiegarono molto, comunque, ad intuire che a metterlo al corrente doveva essere stato l’altro ragazzo, Draco Malfoy.
        «Era lì» confermò il professore di Difesa. «Dovevamo incontrarci; non per portare avanti chissà quale complotto, ma per parlare. Perché è la mia famiglia, e non avevamo altro modo di vederci se non di nascosto, come clandestini». Sospirando, si bloccò, appesantito.
        La McGranitt ne approfittò per confessare, rivolgendosi all’alunno: «Sapevo degli incontri; quando l’ho scoperto non li ho fermati. Ho letto la sua mente, le intenzioni erano buone». Attimo di silenzio. «Non avrei mai pensato che sarebbe potuto accadere questo».
        Harry prese atto delle dichiarazioni della strega senza batter ciglio. «Incontri. Ce ne sono stati diversi» fece, ripensando alle occasioni in cui prima lui, poi Hagrid avevano avvistato Holmwood tra gli alberi. «Perché l’unico modo era incontrarsi nella foresta?»
        Il professore, cupo, tentennò. «Elliott è stata a lungo sotto processo per un errore commesso durante la guerra – è sul punto di essere scagionata, anche se questo non lo stampano in prima pagina». Tra sé e sé, sbuffò contrariato. «Non ha mai voluto che le facessi visita ufficialmente, a causa delle accuse che le hanno rivolto. Temeva che venisse infangato anche il mio nome. Invece, guarda adesso. Ci siamo lo stesso dentro entrambi: anche senza alcun vero indizio l’hanno invischiata in questa vicenda». Abbassò il capo, per poi incattivirsi di botto e scoccare un’occhiata penetrante al Grifondoro. «Di lei non si deve sapere nulla; che è venuta qui, che c’era quella notte. Le hanno già attribuito abbastanza colpe».
        Da come venne pronunciata quell’ultima frase, Potter poté cogliere l’ombra d’una verità ancora nascosta; ad indicargliela, il ricordo della preside che gli confidava di non ritenere Holmwood il vero responsabile. «Chi ha lanciato l’incantesimo che mi ha colpito?» domandò quasi retorico.
        L’uomo si sentì colto con le mani nel sacco, e cercò supporto negli occhi della collega.
        «È stata lei, vero? Elliott» continuò lo studente, pacato.
        Al che, il mago comprese che non avrebbe avuto senso negare, e che piuttosto avrebbe dovuto assicurarsi che nessun gesto venisse frainteso. «Non voleva farti del male» scandì, grave. «Cercava solo di proteggersi. Era agitata, ha visto qualcuno che non ero io, e ha agito d’impulso. Si è accorta che eravate alunni di Hogwarts quand’era troppo tardi― ha sbagliato». Adombrato, strinse le labbra. «Non dirlo alla stampa, lascia che mi prenda la colpa».
        La McGranitt portò una mano sulla spalla del ragazzo, rivolgendogli uno sguardo eloquente che rafforzò ancor di più la preghiera formulata da Holmwood.
 
 

        Poche altre battute, qualche rassicurazione da parte della preside, e Harry venne congedato: uscì dalla stanza in religioso silenzio, lasciandosi alle spalle una strega speranzosa e un mago parecchio agitato.
        «Nessuno scandalo è per sempre» commentò asciutta la McGranitt in direzione dell’altro professore. «Con la testimonianza di Potter, le cose andranno meglio. Potrai tornare ad essere un insegnante rispettato».
        «Non ne sono così sicuro» ribatté amareggiato Holmwood, che era tornato a torturare la penna con le dita. «Insomma – certo, questa storia non durerà all’infinito. Prima o poi si stancheranno d’attaccarmi e passeranno al prossimo obiettivo. Ma per allora, con tutta questa diffamazione, in quanto all’essere insegnante, sappiamo entrambi cosa sarà successo». Abbassò lo sguardo, dopodiché, con il tono di chi s’arrende, proseguì: «In realtà non posso lamentarmi. Sapevo sin dall’inizio che questa è una cattedra che porta guai, e che si ha per un anno solamente».
 
 

        Nei giorni successivi, Harry dovette destreggiarsi tra mille questioni: ebbe a che fare con le domande degli amici, che volevano far luce sul mistero celato dal professore di Difesa; con una terrificante quantità di studio da recuperare, legata agli ormai imminenti M.A.G.O.; con i serrati allenamenti di Quidditch, in vista della partita contro Corvonero; con la punizione che gli affibbiò la preside, che fortunatamente consisté “solo” nell’assistere Hagrid; con la stampa che, come previsto, si fece viva. Riguardo a quest’ultimo punto – la Gazzetta inviò un giovane giornalista, che ascoltò ciò che il ragazzo aveva da dire durante un incontro organizzato ad hoc a Hogsmeade.
        Lui tenne fede la parola data e raccontò la verità, pur tralasciandone qualche sfumatura.
        Confermò che quello avvenuto nella Foresta Proibita era stato un incidente, ma non contraddisse l’ammissione di colpevolezza del proprio insegnante. Non era affatto certo di potersi fidare delle buone intenzioni della sorella del mago, ma scelse comunque di non smascherarla. Di fidarsi, ; non di Elliott, né di suo fratello, quanto piuttosto del giudizio di Minerva McGranitt.
 
 

        Bastarono meno di ventiquattr’ore perché le parole del Bambino Sopravvissuto approdassero sulle facciate della Gazzetta del Profeta.
        Vivian Holmwood le lesse in solitudine, mentre si trovava, come spesso in quel periodo, chiuso in ufficio. Inutile dire che sperò ardentemente che quell’ulteriore tassello calmasse in maniera definitiva l’opinione pubblica.
        Distrattamente, si chiese che ne sarebbe stato della sua carriera. Che ne sarebbe stato di Elliott, anche, ed entro quando di preciso le persone avrebbero cominciato a dimenticare quella brutta faccenda. Non tardi, ipotizzò, conscio d’esser nulla più d’una postilla nella storia, una parentesi presto chiusa e aperta probabilmente per errore.
        Andò alla deriva naufragando tra i pensieri.
        Intanto, fuori tirava forte il vento.
 
 
* * *
 
 

        «Ne sei sicuro, Harry? So che questa partita è importante per te, ma, se la spalla ti fa ancora male, non hai che da dirlo. Posso sostituirti».
        Grato per l’interesse, Potter sorrise quando, al termine d’un allenamento, mentre ancora erano in campo, Ginny Weasley gli si rivolse a quel modo. «La spalla sta bene, non preoccuparti. È l’ultima partita, voglio giocare».
        Lei non se la sentì d’insistere. «D’accordo. Allora rendici fieri, cercatore!»
        Rise, «Sarà fatto».
 
 

        Mantenne la promessa: diede il meglio di sé, malgrado in realtà la sua spalla sinistra fosse ancora un po’ acciaccata.
        Con maestria, riuscì a portare a casa la vittoria per i rosso-oro.
        Quello scontro fu come l’aveva immaginato, con gli spalti in subbuglio, il gioco di squadra, boccino che sfrecciava e il suo bagliore dorato che si perdeva nell’aria, l’adrenalina nel sangue, le folate taglienti sulle guance e, alla fine, la dolce sensazione d’una vittoria conquistata. Perfetto.
        O almeno così avrebbe potuto definirlo, se solo un microscopico dettaglio non fosse stato per tutto il tempo fuori posto.
        Gli avversari. Perché , i Corvonero erano forti e confrontarsi con loro era piacevolmente impegnativo, ma non erano i Serpeverde: un gran finale sul campo da Quidditch di Hogwarts combattuto contro di loro gli sarebbe parso ben più appropriato. E c’era poco da girarci attorno – a spingerlo a tirar certe conclusioni non fu di sicuro l’amore per i cliché, quanto piuttosto la voglia, il bisogno d’aver più vicino un esponente dei verde-argento in particolare.
        Tra le lunghe e disperate sessioni di studio, le ore perse per via della punizione, i duri allenamenti e tutto il resto, da quando era uscito dall’infermeria non s’era ancora fabbricato alcuna occasione per approcciare Draco Malfoy. Non come l’avrebbe voluta, almeno; c’erano state giusto sporadiche brevi battute scambiate di fretta e qualche occhiata.
        Lì, sulla scopa, col boccino stretto tra le dita, mentre ancora tutti i Grifondoro l’acclamavano e la soddisfazione gli cresceva in petto, si rese conto che mancava troppo poco al termine dell’anno scolastico per rimandare così. Era stato uno sbaglio lasciar fuggire quei preziosi giorni, uno sbaglio immenso; in un battito di ciglia, decise che avrebbe rimediato.
 
 

        Non appena poté si sottrasse dal centro dell’attenzione e, di nascosto, scribacchiò una noticina. Poi, inscenando finta noncuranza, fuggì alla chetichella dai festeggiamenti scatenati dai compagni di Casa e si diresse, il più rapidamente possibile, alla Guferia, dove affidò il biglietto al primo pennuto che gli capitò a tiro.
        L’osservò spiccare il volo mentre l’impellenza gli faceva prudere la punta delle dita.
 
Parliamo.
Stanotte, stessa ora, stesso posto
HP
 
 
* * *
 
 

        Potter raggiunse l’entrata dei sotterranei per primo. Per un po’, attendendo, temette che il messaggio non fosse arrivato a destinazione, o che l’invito per qualche motivo non fosse stato accettato. Ma si trattava di timori inutili, presto spazzati via dall’elegante comparsa di Malfoy.
        Subito, tacendo, si scambiarono uno sguardo intenso che denunciò la tensione, l’agitazione e l’allarmate dose d’impazienza che, pur in maniere diverse, entrambi covavano.
        «La terza volta è quella buona» buttò lì Harry, in un triste tentativo di far dell’umorismo.
        Draco abbozzò un minuscolo sogghigno, a metà tra il divertito e lo scettico. «Te lo dico dopo, se lo è».
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Anche questa volta, tremo per Holmwood. Mi auguro d’essere riuscita a fornire tutte le risposte del caso e che la risoluzione della vicenda vi abbia almeno un po’ soddisfatti, soprattutto perché (come ho cercato di far emergere dal testo) a grandi linee la storyline del professore di Difesa si chiude qui.
E a titolo informativo: sì, dal prossimo capitolo Harry e Draco torneranno ad essere gli indiscussi protagonisti. :)

Grazie mille per aver letto sin qui! Un abbraccio e a presto,
T. ♪
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Capitolo 28
*** 27. (Ultimi) momenti ***


27.
Ultimi momenti

 
 
        «Andiamo nei sotterranei» asserì Malfoy prima che l’altro avesse il tempo di porre la domanda che gli danzava sulla lingua. «Le stanze vuote non mancano ed è più vicino. Meno scale, meno corridoi e soprattutto meno probabilità d’incontrare persone».

        Potter, bloccatosi con le labbra dischiuse, non poté che annuire ed accodarglisi.
        Scesero nella penombra, quindi, guardandosi dal fare rumore.
        Più d’una volta, mentre avanzavano, Draco parve essere sul punto di dir qualcosa, ma non andò mai oltre l’abbozzare un soffocato suono. Almeno, sinché non sospirò e, con lo sguardo che vagava, non si costrinse a borbottare: «Ci hai messo un’eternità».
        «Per
        «Avevi detto di voler parlare». Incapace d’annullare la reticenza dovuta all’orgoglio, finì col ripetere, lasciandosi sfuggire una nota d’astio nel tono: «Ci hai messo un’eternità».
        Harry capì, e per un istante fu tentato di concedersi un mezzo sorriso. «Lo so. Sono successe tante cose». Avrebbe potuto sciorinare la lunga lista degli impegni che l’avevano tenuto occupato, ma se lo risparmiò; piuttosto, scagliò una minuscola provocazione: «Potevi anche organizzare tu, comunque, se volevi parlare prima». Al che, il Serpeverde s’immusonì e si chiuse in un testardo silenzio, e lui si pentì d’averlo stuzzicato. «Hai letto i giornali?» sibilò per ridar vita al dialogo.
        «Sì, li ho letti». Stizzito, s’assicurò d’essere il più freddo e pungente possibile. «Tu non― non hai detto niente di quella donna nella foresta. Perché?»
        «La McGranitt e Holmwood non ti hanno spiegato nulla?»
        «No. Te l’ho detto: non ho fatto domande, e loro non hanno insistito».
        «Vuoi che ti spieghi io?» Registrata una mera alzata di spalle come risposta, il Grifondoro riassunse sbrigativo le vicende, così come già più volte aveva fatto per gli amici. Concluse il discorso mentre l’altro sussurrava l’incantesimo d’apertura porte che permise loro d’entrare in una stanza apparentemente adibita a sgabuzzino.
        Polverose mensole occupavano buona parte dello spazio sulla destra; sul lato opposto, invece, troneggiava un ampio armadio con un’anta rotta. In fondo, in un angolo, erano stipate vecchie scope spelacchiate. A fendere il buio c’era ben poca luce.
        «Dunque non c’è nessuna vera minaccia; solo una tizia dall’incantesimo facile». Affermò stringato Draco, chiedendo implicitamente una conferma finale.
        «Più o meno, è così» mugugnò Harry, chiudendosi l’uscio alle spalle.
        «Bene. Suppongo».
        Tacquero per un po’, tesi, mettendosi alla ricerca della giusta cosa da dire per instradare la conversazione sull’argomento che entrambi volevano trattare.
        «Non siamo qui per parlare di Holmwood» soffiò Potter, col cuore appena accelerato. «Parliamo di noi. Cosa― cosa siamo?» attaccò subito, non senza un pizzico di titubanza.
        «Fuori di testa?» propose Malfoy, sarcastico.
        «Sono serio. Cos’è questo? Tra me e te».
        Scandagliando l’oscurità, Draco esitò. «Vale davvero la pena di chiederselo?»
        «» replicò di getto Harry, riflettendo più accuratamente sulla domanda solo in un secondo momento. «Aspetta. In che senso?»
        «Beh, tra quanto? due settimane, poco più, saremo fuori da qui. Per sempre. Perciò―» scrollò le spalle, «niente. Due settimane sono poche».
        Mentre un famigliare pizzicore ansioso riemergeva prepotente, il Grifondoro tentennò emettendo pacati versetti sconnessi. «Non ti seguo» ammise mormorando, «due settimane sono poche per cosa? Per capire? Perché credo che ci sia tutto il tempo per definir―»
        «No. Non per capire» l’interruppe l’altro. «Sai a cosa mi riferisco».
        In realtà, non lo sapeva. O, meglio, voleva credere di non saperlo, perché l’idea che il Serpeverde stesse suggerendo che, di lì a quindici giorni, a priori da quell’intricato rapporto che avevano istaurato, sarebbe sparito lo turbava non poco. «Nessuno ci vieta di far durare questa cosa più di due settimane, Malfoy» appuntò.
        «Potter, siamo noi. Io e te. Vuoi davvero portare questo fuori da Hogwarts?»
        «Io― io non avrei paura di farlo. Insomma, perché no?»
        Deliziato, l’ego di Draco vibrò. «Tu sei pazzo».
        Nell’ombra, restando muti, si fissarono brevemente. La seria voglia di discutere sbiadì inesorabilmente, sostituita da una pesante sensazione d’astinenza che istillò in loro il desiderio d’avvicinarsi; desiderio che assecondarono senza remore, poiché nulla li tratteneva dal farlo.
        Gli ultimi sprazzi di insicurezza li tennero in scacco per pochi istanti, venendo poi violentemente sbaragliati un impetuoso gesto di Harry che, senza chiedere il permesso, azzerò la distanza che li separava per prendersi un bacio. Il Serpeverde, con le palpebre socchiuse, lo lasciò agire docilmente.
        Fu un contatto timido ed innocente, simile ad altri che avevano già condiviso. Ma, ormai, non c’erano più né consistenti dubbi, né la paura d’esser scoperti a tarpar loro le ali; avevano campo libero. Non si ritrassero intimoriti, dunque; all’opposto: si scambiarono un altro piccolo bacio e poi un altro ancora, muovendosi piano sul sottofondo creato da echeggianti battiti veloci. E il resto venne da sé.
        Persero presto la cognizione dei pensieri. Proseguirono con la mente vuota e la testa leggera, quindi, a ritmo di bocche premute e respiri flebili, sino a ritrovarsi in balìa d’uno sfarfallio diffuso, che li guidò a combattere l’insicurezza e a dischiudere man mano le labbra.
        D’un tratto, un’effusione calda, più umida delle precedenti, segnò il punto di non ritorno: spinse Harry a cedere al formicolante impulso che gli scorreva sottopelle, ad allungare prima una e poi entrambe le mani per poggiarle sull’altro e stringerlo maggiormente a sé. Malfoy, dal canto suo, non oppose alcuna resistenza, né tantomeno lo scacciò. Ogni sua inibizione era bellamente sfumata, e ciò che fece fu assecondarlo, non solo ricambiando l’impacciata stretta, ma anche e soprattutto imponendogli una certa voracità: s’avventò senza ritegno su di lui, gettando le basi d’un primo, vero bacio alla francese – un morbido incontro di lingue che mandò alle stelle i tamburi che avevano in petto, e che proseguì ad oltranza, sicché nessuno, lì, aveva alcun interesse a mettervi fine.
        Ci furono palmi stretti sui fianchi e polpastrelli a scorrere sui vestiti, petti premuti e scossi da terremoti d’emozioni, labbra lambite con delicatezza e dita immerse avidamente tra i capelli.
        Catturato in quel vortice, Potter ebbe ben pochi lampi di lucidità. Durante uno di questi, mentre riprendeva fiato, osò domandarsi com’è che non avevano cominciato a fare quello prima, molto prima. Per un attimo pensò di porre il quesito ad alta voce, ma dovette rinunciare, perché un mugolio di Draco risuonò e cavolo! l’idea che Draco Malfoy si fosse lasciato sfuggire qualcosa che assomigliava molto ad un soffio di piacere, per di più mentre era tra nientemeno che tra le sue braccia, lo stordì ed istigò il suo stomaco ad azzardare giravolte poco raccomandabili.
        Si godette l’ebbrezza dovuta a tale rimestamento interiore, dopodiché, quando essa scemò, come se ne fosse diventato di colpo dipendente, diede inizio alla successiva sessione di baci, col preciso intento di strappare altri lievi gemiti.
        E li strappò. Eccome.
 
 

        Fecero, insomma, il pieno d’endorfine, amoreggiando come i due ragazzini spensierati che non erano mai veramente stati, e fu stupidamente fantastico. Il lato più negativo di tutta la faccenda fu il dovervi mettere fine.
        Il Serpeverde si assunse il compito di farlo, sottraendosi al tocco del ruvido palmo dell’altro che, in un momento imprecisato, s’era posato sul suo volto. Rintronato, bofonchiò, non senza riserve: «Fermati».
        «Uh? Cos―»
        Non lo lasciò terminare, parlandogli sopra: «Devo rientrare». Non che volesse rientrare, beninteso; solo, era ormai stremato, con la stanchezza che pulsava sulle tempie e le ciglia pesanti. Se avesse continuato a nutrire quel pericoloso vuoto mentale che l’attanagliava, avrebbe seriamente rischiato di collassare lì dove si trovava.
        Harry parve capire, e infatti bisbigliò, conciso: «Stanco?»
        «Sì».
        «Hm». Lo era anche lui, ma si risparmiò di sottolinearlo. «Okay. Va bene». Non insistette, sebbene il suo cuore stesse strillando per convincerlo a fare almeno un tentativo.
        Sciolsero con un pizzico di riluttanza il mezzo abbraccio in cui s’erano stretti, e di primo acchito ad entrambi sembrò strano non aver più nulla – nessuno – a cui aggrapparsi. Stagnarono brevemente in un artificioso ed imbarazzato silenzio durante il quale, nel buio, non fecero che scrutarsi.
        «Dovremmo rifarlo» mormorò senza preavviso il Grifondoro, piacevolmente distratto dal brivido che stava persistendo sulle sue labbra.
        Malfoy, nascondendo il bruciante sentimento che gli serpeggiava nelle viscere – perché Davvero gli ho messo la lingua in bocca? –, sogghignò. Non ebbe il coraggio d’assentire verbalmente, ma annuì.
        «Possiamo― potremmo metterci d’accordo già da adesso».
        «Proposte?»
        La replica non arrivò immediatamente: Harry, infatti, fu come travolto da un’idea, e in principiò faticò a formularla. «Forse», sibilò. «C’è una cosa. Grifondoro― noi abbiamo vinto, a Quidditch».
        L’altro inarcò un sopracciglio, allucinato. «Potter. Si può sapere come sei arrivato alla conclusione che questo fosse il momento giusto per vantarti?»
        «No― non voglio vantarmi. Anche se non me la sono cavata per niente male». Sorrise debolmente, divertito, prima di precisare: «È che― era l’ultima partita. Dell’ultimo anno».
        «Già. Quindi?»
        Ci volle qualche secondo perché Harry si decidesse a giungere al dunque: «Ho sempre pensato che l’avrei disputata contro di te».
        Distendendo l’espressione, Draco dischiuse le labbra pur senza avere la forza di commentare. Non avrebbe saputo descrivere come si sentì in quel frangente, posto di fronte alla consapevolezza di non esser l’unico ad aver fatto certi pronostici.
        Per un attimo, s’incupì per via del ricordo che vedeva i Corvonero soffiare ai verde-argento, a lui, il posto in finale – Che scocciatura. Tuttavia, ripensandoci, a breve tornò ad illuminarsi, perché credette d’intendere ciò l’altro stava cercando di combinare. Per debellare ogni dubbio, chiese, insinuante: «Dove vuoi arrivare?»
        Facendo spallucce, Potter tentennò. «Gioca con me».
        Tra sé e sé, il Serpeverde si sciolse sotto al peso della lusinga. Per mascherarlo, esibì un qual certo atteggiamento di sfida. «Se lo facciamo, il tuo ultimo ricordo su quel campo potrebbe essere una brutta sconfitta. Sei disposto a rischiare?»
        «E tu?» ribatté il Grifondoro, sicuro di sé. «Non credere che solo perché mi baci ci andrò piano con te».
        Ascoltando quelle parole sfacciate, Malfoy venne percorso da un tremito. «Quando?» mormorò, spiccio.
        «Non so – un pomeriggio, prima che finiscano le lezioni». Rifletté in un lampo, «Giovedì?»
        Una smorfietta a metà tra il soddisfatto e l’impaziente gli fiorì sul viso, e «Giovedì» confermò Draco.
 
 

        Harry non lo lasciò uscire dalla stanza prima d’avergli maldestramente scucito un ultimo bacio veloce.
        «Non esagerare, Potter».
        «Onestamente― non penso che ti dispiaccia, se esagero un pochino».
 
 
* * *
 
 

        Fu solo quando Hermione fece notare a lui e a Ron che, ormai, si potevano contare i giorni che li separavano dagli esami sulle sole dita delle mani, che Harry mise per la prima volta veramente a fuoco il fatto che entro poco, pochissimo, avrebbero lasciato in maniera definitiva Hogwarts. Quel castello che era stato una casa, che da bambino l’aveva accolto facendosi simbolo d’un mondo a cui a stento aveva creduto di poter appartenere, in cui era cresciuto; lo stesso che aveva visto mettere a ferro e fuoco, in cui tanti avevano combattuto e le cui ombre, ancora, erano capaci di rievocargli orribili ricordi.
        Ricordi. Quanti ne aveva, di ambientati tra quelle mura! I visi, le voci, le lezioni, i libri, il Quidditch – non avrebbe mai dimenticato. La memoria delle cose più importanti l’avrebbe sempre accompagnato; gli incontri, le avventure, le emozioni provate, gli avvenimenti cruciali, positivi o negativi, facevano ormai parte del suo bagaglio. Alcuni di essi, si rese conto, avrebbe persino voluto poterli cancellare. O come minimo modificare.
        Forse perché era ormai troppo abituato a farlo, volò con la mente alla figura di Draco Malfoy.
        Sectumsempra.
        L’immagine del Serpeverde a terra, in quello sporco bagno, sanguinante, gli si piantò davanti agli occhi. Il rimorso l’invase, spingendolo a serrare i pugni tanto forte da farsi male. Adesso sta bene. È vivo e sta bene, ripeté tra sé e sé con la cadenza d’una litania, cercando disperatamente di ritrovare la pace. In fondo, non poteva fare altro che quello – provare a perdonarsi, poiché una catarsi, di sicuro, quel ricordo non l’avrebbe mai trovata.
        Ma altri forse sì. Magari c’erano cose che poteva fare prima di lasciare la scuola, cose che gli avrebbero consentito d’avere di essa e degli episodi a cui aveva fatto da palcoscenico una memoria più dolce. E certune di quelle cose, a ben vedere, avrebbero potuto coinvolgere proprio Malfoy – per ben più d’una partita a Quidditch.
        Da quella, comunque, avrebbero cominciato.
 
 

        S’incontrarono quando accordato, direttamente al campo. La giornata era grigia ma tiepida, e in giro non sembrava esserci nessuno.
        In principio dovettero attraversare un minuto buono d’imbarazzata incertezza; d’altronde, durante il precedente tête-à-tête, il ruolo chiave l’avevano avuto le loro lingue, e non certo per comporre parole. Fortunatamente la vergogna scemò non appena salirono a cavallo delle scope.
        «Che sia un gioco leale» si raccomandò il Grifondoro prima di liberare il boccino.
        «Sono mai stato sleale, Potter?» lo provocò lupescamente Draco. L’unica risposta che ottenne fu uno sguardo pungente, scoccato sulle note del ronzio della pallina dorata che iniziava a battere le ali e schizzava via.
        Partirono in quarta.
        Il primo ad avvistare il boccino fu Malfoy: ne scorse il luccichio a mezz’aria, nei pressi degli anelli. Senza esitare, si tuffò per raggiungerlo. Harry, con una mano saldamente stretta al manico di legno e l’altra pronta a scattare in avanti per agguantare l’obbiettivo, gli fu immediatamente dietro.
        Con il vento contro e gli occhi assottigliati per affilare la vista, sfrecciarono affiancati in un duro testa a testa tra curve, giravolte, guizzi e rallentamenti. Più volte i loro sguardi s’incontrarono e, pur muti e fulminei, furono eloquenti quanto le più articolate proposte di sfida.
        Eseguirono le manovre finali praticamente rasoterra; il boccino, infatti, dopo aver zigzagato a destra e a manca, cambiò rotta e puntò verso il basso, trascinando con sé i due ragazzi. Mentre ancora scendevano in picchiata, il Serpeverde si sporse ed azzardò un tentativo di presa: sfiorò la sferetta dorata, ma non riuscì a fare di più e, per non cadere, dovette ritirarsi. Perse velocità: in una frazione di secondo, annotando lo svantaggio che s’era procurato, intuì quale sarebbe stato l’esito del gioco.
        Volando ad un soffio dal terreno, compiendo un fluido sforzo, Potter catturò il titolo di vincitore. Non attese ad esultare con un grido contento; intanto, Draco impennò momentaneamente verso l’alto per non schiantarsi contro la base degli spalti.
        Emozionato e con la vittoria stretta tra le dita, il Grifondoro saltò giù dalla scopa per primo. Mise su una larga smorfia compiaciuta e, quando anche l’altro tornò a poggiare i piedi a terra a pochi metri da lui, non si fece scrupoli a rivolgergliela, pur trasfigurandola quasi involontariamente in un mezzo sorriso.
        «Ho vinto» soffiò fiero.
        Malfoy inarcò un angolo del labbro superiore e, sbuffando, spostò gli occhi sul nulla alla propria sinistra. «Ho visto» ribatté con una punta d’acido nella voce; era stato sconfitto, e ciò non poteva non dargli fastidio. Tuttavia, passati i primi istanti di delusa insoddisfazione, non si ritrovò in balìa di chissà quale indignata rabbia. Ciò, perché aveva perso contro Potter e, doveva ammetterlo, in parte aveva già messo in conto che sarebbe andata a finire in quel modo. Era uno scenario sensato – di sicuro, più di quanto non lo fosse terminare la propria carriera nel Quidditch perdendo contro quel Corvonero qualunque, Chi-mi-conosce Bennett o come caspita si chiamava. Quindi , poteva accettarlo, e non si lamentò. Piuttosto, per cacciare ogni stilla di turbamento, cercò di distrarsi riportando al loro posto le ciocche di capelli scompigliate dal vento.
        Harry s’incantò momentaneamente a fissarlo, per poi prorompere in un inaspettato complimento: «Hai giocato bene».
        Il Serpeverde si voltò di scatto per guardarlo con tanto d’occhi, curandosi di nascondere il lusingato stupore iniziale sotto ad uno spesso strato di superbia. «Lo so». Un sogghigno gli fiorì sulle labbra, «Secondo round?»
        «Ehm―» Titubò. Non perché non sapesse come rispondere, quanto perché venne colto dalla bruciante voglia di stampargli un bacio sulla bocca, , senza preoccuparsi d’essere beccato con le mani nel sacco. E come rimproverarlo? Era su di giri per la vittoria e Malfoy sfoggiava quella sua maledettamente irresistibile espressione, e okay, non era del tutto da escludere che avesse un debole per i giocatori di Quidditch.
        Non senza riluttanza, in onore della propria causa, si contenne e riprese a parlare. «Mi piacerebbe. Però― c’è un’altra cosa che vorrei chiederti di fare».
        «Cioè?»
        «Probabilmente l’idea non ti piacerà».
        «Non che mi fidi troppo del tuo giudizio, ma se hai già il sospetto che sia una pessima idea, non perdere neanche tempo a proporla».
        «No, io― credo che dovremmo farlo».
        Draco, intrappolato nella morsa d’una curiosa ma cauta impazienza, aggrottò la fronte. «Non girarci tanto attorno, allora. Di che si tratta?»
        «Saliamo sulla Torre di Astronomia» borbottò teso il Grifondoro, mangiandosi a tratti le parole.
        «Cosa?» Istintivamente, s’adombrò e s’incattivì. «Non ci penso nemmeno».
        «Posso capire che non ti piaccia, ma―»
        «Esatto. Non mi piace» l’interruppe Malfoy con tono cupo, «quindi non ci vengo». Mentre fiumi di brutte sensazioni gli si riversavano addosso, ridusse la voce ad un sussurro: «Com’è possibile che tu sia così idiota? Lo fai apposta?»
        Harry era coscio d’aver sfiorato un tasto sensibile e, pur avendo le proprie ragioni, non poté che pentirsene un pochino, perché di colpo sentì il Serpeverde a chilometri di distanza. Ciò gli trasmise una soffocante agitazione. «So che è come la Stanza delle Necessità» asserì, avendo ben presente che effetto aveva fatto all’altro la prospettiva di recarsi in quel posto, «ma― dovremmo farlo».
        «Con quale autorità vieni a dirmi quello che dovrei fare?» Tormentato, cominciò ad indietreggiare a passi corti. «Tu neanche immagini quello che―»
        «Invece lo immagino». Avanzò e l’afferrò per un braccio, così da impedirgli di fuggire. «Quella torre non piace neanche a me, cosa credi? La―» tentennando, deglutì per spazzar via il nodo alla gola che gli impediva di parlare chiaro «la morte di Silente è uno dei miei ricordi peggiori. Volevo provare ad aggiustarlo prima che la scuola finisse. Questa cosa è importante anche per te, e ho pensato che― che magari, andandoci in due, non avrebbe fatto poi così schifo».
        Per un indeterminato lasso di tempo, Draco lo scrutò intensamente, tenendo lo sguardo fisso nel suo. «Certe cose non si aggiustano, Potter».
        «Ma prima di gettare la spugna bisogna almeno tentare». Tacque brevemente e poi sospirò, intristendosi. «Non possiamo cambiare quello che è successo. Però possiamo imparare a conviverci, e rivedere la torre― hm, sotto un’altra luce―» Lì s’arrese, lasciando la frase in sospeso.
        «Perché con me?» chiese secco Malfoy.
        «Perché no?»
        La logica suggeriva che c’erano un sacco di modi per rispondere adeguatamente, eppure, lì per lì, a Draco non ne venne in mente neppure uno.
        E non era persuaso, davvero, quindi non seppe spiegarsi cosa, di preciso, due minuti dopo lo portò a saltare a cavallo della scopa e a prender quota per raggiungere in volo la cima della Torre di Astronomia. Tutta colpa di quell’imbecille di Potter, dei suoi discorsi apparentemente sconclusionati e, soprattutto, della sua odiosa, odiosissima tendenza a riuscire a far sembrare tutto così facile.
        Una volta che furono giunti a destinazione, percepì un peso non indifferente fargli pressione sulle spalle e, presto, un gran senso di vertigine lo costrinse a sedersi a terra. Senza proferir verbo, col cuore che martellava nelle orecchie, ripercorse con la memoria alcuni dei momenti più terrificanti della propria esistenza.
        Vide Albus Silente. Vide Severus Piton. Vide il vuoto e la paura. Vacillò senza potersi nemmeno aggrappare alla sicurezza che rivivere quell’orrore sarebbe servito a qualcosa, mentre il suo spirito si contorceva dolorosamente.
        Intanto, il Grifondoro fece a sua volta i conti coi propri fantasmi. Se ne sentì assalito, ma li scacciò coraggiosamente per mettersi nei panni del ragazzo accanto al quale aveva preso posto: pensò alle costrizioni a cui aveva dovuto sottostare, alle minacce e alla solitudine che aveva affrontato. Quasi, l’empatia l’asfissiò.
        Spontaneamente, voltò il capo per osservare Malfoy: lo trovò stravolto, con gli occhi spalancati e – riuscì a notarlo – le pupille dilatate. Non sopportò di vederlo così, e si sentì in dovere di adoperarsi per farlo star meglio.
        Per evitare di peggiorare ancor di più la situazione, non parlò; agì e basta.
        Facendo leva su un palmo poggiato a terra, si piegò e si sporse, così che il loro visi fossero vicini. Diede all’altro il tempo di scostarsi, se lo desiderava, ma Draco, pur guardandolo insospettito, non si mosse d’un millimetro. Avanzò ancor di più, allora, e gli baciò impacciatamente un angolo della bocca, per poi ritirarsi con lentezza.
        Bruciante, si risistemò a sedere, assicurandosi che fossero meno distanti rispetto a prima. Con ciò, parve voler dire: Sono qui.
        Il Serpeverde non fiatò: ancora lievemente ottenebrato dal panico innescato dai ricordi e intontito dalla portata delle sensazioni che gli imperversavano dentro, s’irrigidì con aria imbarazzata.
        Senza scambiarsi alcun tipo di spiegazione, rimasero a lungo immersi un denso silenzio che non richiedeva d’essere spezzato.
        Non fu complesso, per Harry, comprendere che quello sarebbe stato uno dei momenti che di lì in poi avrebbe sempre portato con sé.
 
 

        «Non chiedermi mai più di fare una cosa del genere».
        «Anche se―»
        «Mai più, Potter». Ma grazie per oggi.
 
 
» …



 

Angolo di Tormenta

Un capitolo tutto per Harry e Draco, con tanto bonding (spero non eccessivamente scadente) perché ne avevano bisogno. c:
Comunicazione di servizio: manca poco al termine della storia! È nata con l’intento di raccontare le vicende d’un ipotetico ultimo anno a Hogwarts e poco più, dunque, come si può notare dal tempo del racconto, siamo in dirittura d’arrivo. :) Ci separano dalla fine ancora un paio di capitoli, più un piccolo epilogo. 

Grazie mille a tutti coloro che leggono, seguono, commentano. Baci e a presto,
T. ♪
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Capitolo 29
*** 28. Fine d'un epoca(le stallo) ***


28.
Fine d’un epocale stallo
 
 
 
        Considerato che mancava tanto poco all’inizio degli esami finali, Draco Malfoy pretendeva da se stesso concentrazione, impegno e serietà. I M.A.G.O., d’altronde, erano l’ultimo scoglio che lo separava dall’abbandonare Hogwarts, quello che aspettava di poter superare sin da quando era tornato sui libri a Settembre, e dopo tanti mesi di fatica e sopportazione, non poteva in alcun modo accettare l’idea di accontentarsi di votacci. Avrebbe concluso la sua carriera da studente in bellezza, in barba a chi ancora lo guardava storto.

        Voleva farcela, lo voleva davvero. Per lui, dunque, era uno smacco non trascurabile il riscoprirsi quasi costantemente distratto, incapace d’incamerare anche i concetti più banali, con la mente sintonizzata sulla figura di Harry Potter.
        Non era propriamente una novità che il Grifondoro gli invadesse i pensieri, ma mai prima gli era capitato di essere così tanto succube della sua persona. Non riusciva ad impedirsi di pensare a lui e, quando lo faceva, una nuvola calda gli abbracciava le guance e il petto. Sapeva alla perfezione cosa ciò significava, e il tutto gli pareva ogni minuto di più una barzelletta; una di quelle neanche tanto divertenti. Eppure era vero – si perdeva ad immaginare la sua voce e la sua faccia, con quegli orribili occhiali tondi, e la sua bocca. Soprattutto la sua bocca.
        Se c’era un’àncora che gli impediva d’impazzire, si trattava sicuramente della certezza che Potter stesse attraversando un inferno tale e quale al suo. Solo, ecco, con lui come protagonista. Non dubitava minimamente che fosse così, un po’ perché Lo so, faccio questo effetto, e un po’ perché non poteva essere altrimenti. Proprio no. Se fosse stato l’unico ad essere coinvolto sino a quel punto― no. Non voleva neanche pensarci. Meglio concentrarsi su cose più importanti, tipo il cancellare lo stucchevole sogghigno che aveva inconsapevolmente sfoggiato quando Harry, con un biglietto, gli aveva chiesto d’incontrarsi di nuovo quella notte – cancellarlo immediatamente. Dal proprio volto e dalla storia; era imperativo, perché Morgana, sono ridicolo.
 
 

        Ridicolo quanto la portata del tremito che l’attraversò non appena, al sicuro nell’ombra d’una stanza vuota nei sotterranei, poté finalmente sentire quelle labbra sulle proprie, e quelle mani su di sé.
        Potter non aveva una tecnica perfetta. Era impacciato, la sua presa era a tratti troppo o troppo poco stretta, e non conosceva – non ancora, almeno – quelli che erano i punti in cui a lui più piaceva essere sfiorato. Ma comunque l’inebriava; quei baci, nella loro follia, l’inebriavano. Tanto che, mentre coi polpastrelli saggiava la ruvida stoffa che copriva i fianchi dell’altro, e ci si aggrappava disperatamente, oltrepassò un limite sino ad allora solamente osservato da lontano.
        A spingerlo oltre i confini fu, neanche a dirlo, Harry: diede inizio alla reazione a catena abbandonando la sua bocca all’improvviso. Non s’allontanò, però: rimase ad un soffio dal suo viso, e per un attimo sembrò esitare, come distratto da un ronzante pensiero.
        Malfoy non osò muoversi. Non sollevò nemmeno le palpebre, anzi, le strinse di più, corrucciando anche la fronte e domandandosi quale fosse la ragione di quella che chiaramente non era una pausa atta a riprender semplicemente fiato. C’era qualcosa – un qualcosa di sconosciuto eppur non del tutto estraneo, ed era nell’aria, nel calore che li avvolgeva e l’investiva, nel lieve vibrare delle dita del Grifondoro. Attendendo e fremendo, con una goccia di paura diluita nel desiderio, deglutì.
        Poi, accadde. Leggero come una carezza, con l’insicura timidezza di chi non sa se ciò che sta per fare è lecito o meno, Potter gli posò un minuscolo bacio su una guancia. Lui, seppur distratto dall’assordante battito, percepì il suo subitaneo irrigidirsi, e capì che, probabilmente, stava aspettando un responso; un lasciapassare o un alt. Sottosopra com’era, non gli fornì nessuno dei due. E nel dubbio, forse, in un’altra circostanza Harry si sarebbe fermato, ma , in balìa delle tentazioni, proprio non riuscì a trattenersi. Con una mano placidamente poggiata su una spalla del Serpeverde, allora, si sporse ancora, in quel caso per baciargli la mandibola; lo fece una, due, un imprecisato numero di volte, scorrendo pacato verso l’orecchio.
        Abbandonatosi alle scosse dovute a quel dolce trattamento, Draco esalò un tremolante sospiro. Fu colto da un capogiro stranamente piacevole, un intrigante formicolio gli invase i palmi e, nell’istante in cui il suo cuore batté un colpo più forte degli altri, poté assaporare la consapevolezza d’avere sangue bollente nelle vene, sangue che fluiva – anzi, che correva sottopelle, guizzando inesorabilmente verso il basso.
        Potter proseguì, intanto, facendo scivolare la mano sulla sua spalla fin dietro al capo; immerse la punta delle dita nelle ciocche di capelli biondi, procurandogli un evidente brivido. Dopodiché, con un’inspiegabile ed insopportabile calma, piegando la testa gli baciò il collo. E tanto bastò a condannare Malfoy in maniera definitiva: emise un flebile sussurro d’assenso e, istintivamente, espose la gola. Si godette un secondo e poi un terzo bacio, mentre la percezione del corpo dell’altro così tanto vicino al suo si faceva sempre più concreta e pressante. Al quarto contatto tra le labbra di Harry e quel lembo della propria pelle, affondò le unghie nei vestiti a cui era appigliato e, per una frazione di secondo, trattenne il respiro: gli parve d’andare a fuoco.
        S’eccitò. Gradualmente, certo, ma a gran velocità: tese i muscoli e si morse forte una guancia e, tra sé e sé, non poté che andare in confusione, bruciando per via d’un inestinguibile imbarazzo.
        Non fu in grado di discriminare se voleva o meno che il Grifondoro s’accorgesse della sua situazione; temeva di risultare esagerato, di creare disagio, di essere il solo a versare in certe condizioni. Il suo ego non avrebbe resistito all’onta legata ad una figuraccia di quel calibro, sarebbe imploso – e lui non voleva che ciò accadesse. Di getto, quindi, ritrasse goffamente il bacino.
        Potter lo notò. Ebbe una vaga intuizione, ma, rintronato dalla voglia di continuare ad elargire quei piccoli baci che gli solleticavano la pancia e gl’infiammavano il viso, non la processò attentamente. Piuttosto, chiese, sottovoce: «Che c’è?»
        Draco sgranò gli occhi, sentendosi colto con le mani nel sacco. «Hm―» Provò il desiderio di fuggire quanto più lontano possibile, ma non si mosse d’un millimetro.
        «Ti piace?» domandò ancora l’altro, sforzandosi di definire i contorni dell’impressione che di primo acchito l’aveva fulminato. Nel momento in cui credette di riuscirci, mise su un malizioso sogghigno, che presto soffocò in un ennesimo bacio sul collo.
        Malfoy mugolò perché , gli piaceva – parecchio. Ma, nervoso ed orgoglioso, non racimolò abbastanza coraggio per ammetterlo. Non che il quesito di Harry richiedesse per davvero una risposta, in realtà.
        Quando Potter poté dire d’esser sicuro d’aver afferrato ciò che stava accadendo, pur a scoppio ritardato, s’interrogò per capire sino a che punto era pronto a mettersi in gioco. Dovette confessare a se stesso che, malgrado l’emozionante batticuore e l’impulso di gettarsi a braccia aperte incontro all’esperienza, ancora prontissimo non era e che, dunque, per non combinare disastri, forse la scelta migliore poteva essere non azzardare, stare sul sicuro. Capì che Draco era della stessa opinione scrutandolo, e registrando la chiara tensione nella sua espressione.
        Fu arduo – molto, molto arduo –, ma, dopo aver rubato un ultimo bacio, trovò le forze necessarie ad allontanarsi da lui quel tanto che bastava per non intrappolarlo in un contatto incriminante. «Senza fretta» mormorò per precisare che non s’era scostato perché schifato, quanto invece per rispetto.
        «Senza fretta» ripeté il Serpeverde, con giusto un pizzico di vergogna in meno addosso.
        Tale modesto tracciamento di confini, comunque, non impedì loro di scambiarsi qualche ulteriore calibrata effusione. Contatti, questi ultimi, che di certo non aiutarono Malfoy a raffreddarsi – e sebbene lo facessero sentire pericolosamente esposto, non ebbe proprio il fegato di negarseli, né di privarsi dei fremiti che ad essi s’accompagnarono.
 
 

        «La prossima volta― quando?» Con le gambe quasi molli e la testa spaventosamente leggera, il Grifondoro non riuscì ad articolare la domanda più di così.
        «Ci sono gli esami».
        «Sì. Quindi?»
        «Devo studiare. E dormire. Tu no?»
        «Sì― uh, certo. Giusto. Allora― dopo gli esami?»
        «Dopo gli esami» confermò Draco, e sin dal primo momento in cui pronunciò quelle parole, seppe che l’astinenza l’avrebbe pizzicato di giorno in giorno, e che non avrebbe potuto far nulla di concreto per debellarla.
        Quella consapevolezza lo punse per la restante durata della spiccia conversazione, e poi, una volta che fu uscito dalla stanza occupata con Potter, lo scortò sino alla Sala Comune e quindi ai dormitori. Per un po’, mentre si preparava per andare a letto, credette di essersene liberato; tuttavia, quando si fu accomodato sotto le coperte, il senso d’impotenza tornò a tormentarlo. Era sua preda, nella mente e nel corpo.
        Pensò e ripensò alle emozioni che lo governavano, e a ciò che le aveva scatenate – Harry. Il suo essere vicino, i suoi baci, i suoi tocchi imprecisi: i freschi ricordi del tempo trascorso nella stanza buia iniziarono a scorrergli pigramente davanti agli occhi e, grazie ad essi, si procurò un non trascurabile batticuore. Per poco non perse il controllo di sé; pian piano, infatti, serpeggiando, si risvegliò in lui un’ombra d’eccitazione, la stessa che in precedenza aveva respinto. Di primo acchito, si riscoprì incapace di decidere se era il caso d’assecondarla o meno. Poi, però, mise a fuoco che, ormai, non c’era più nessuno a cui rendere conto, nessuno a giudicarlo: era solo con la propria voglia, la moralità accantonata. Fu senza alcuna remora, quindi, che accantonò la paura e, con la vista appannata e la carne in fibrillazione, con un palmo prese ad accarezzarsi il petto, e poi la pancia, e poi ancor più giù.
        Trattenendo gli ansiti, si regalò attenzioni con una spontaneità disarmante, immaginando mani e labbra su di sé, dita che l’esploravano, e anche una morbida bocca che l’accoglieva.
        Raggiunse il culmine coi denti affondati in una guancia, sulle note d’un insinuante Ti piace? che riecheggiava.
        Successivamente, giacendo umido, bollente e stremato, si ritrovò a vagare in uno sfocato limbo: si perse in un’effimera pace totale, che lo coccolò infondendogli lentamente le energie che aveva dissipato. Con avidità, godette di ogni singolo istante di dolce rilassamento, le palpebre socchiuse.
        Fu rigenerante. Così tanto che dopo, quando già poteva dichiararsi libero dall’offuscamento dovuto alla bramosia, senza alcuna vergogna o titubanza, riconobbe finalmente il giovane, timido sentimento che nutriva nel profondo come la perla che era. E non sapendo neanche lui con quale coraggio, l’abbracciò senza più scappare.
 
 
* * *
 
 

        Con lo sguardo sottolineato da macchie scure, dovute alle troppo brevi ore di sonno che s’era potuto concedere, all’indomani dell’incontro notturno col Serpeverde Potter trascorse una giornata tutt’altro che produttiva. Si trascinò da un’aula all’altra, sforzandosi di seguire le lezioni, pur divagando costantemente col pensiero.
        Sentì l’impellente bisogno di parlare approfonditamente a qualcuno di Malfoy, di quello che con lui aveva fatto, di quello che voleva fare. Voleva dar voce alle insicurezze e alle aspettative, alle speranze e ai desideri; ciò che agognava, insomma, era uno sfogo che gli consentisse di tradurre in parole quell’enorme agglomerato di emozioni lo stringeva deliziosamente.
        Mi piace Draco Malfoy, avrebbe adorato poter declamare. Non lo fece, però. Evitò persino di costruire le circostanze necessarie a confidare alcuni dei propri pensieri a Hermione, che poi era l’unica con cui avrebbe effettivamente potuto aprirsi, perché per quanto la prospettiva di condividere i propri sentimenti l’elettrizzasse, capì che non era il momento giusto per farlo, che avrebbe solo inutilmente rischiato di permettere a fattori esterni di perturbare quella magnifica bolla di calore in cui si sentiva avvolto. L’amica, d’altronde, avrebbe potuto ribadire che era il caso di raccontare tutto a Ron e, che, comunque, i M.A.G.O. erano alle porte e dunque non doveva tralasciare lo studio, se desiderava procurarsi voti che gli consentissero di raggiungere lo standard richiesto al corso per diventare Auror. Riuscì senza alcuna difficoltà ad immaginare la seria voce della ragazza scandire ognuna di quelle parole, e l’ultima cosa che desiderava era ascoltarla dal vivo. Non voleva che il proprio estasiato buonumore venisse sminuito così, che ciarle superflue sporcassero il piccolo, stupendo tesoro che aveva scovato in sé. Continuò testardamente a covarlo in segreto, dunque, proteggendolo, beandosi del tepore che emanava e attingendo dalle forze che esso gli instillava in ogni fibra.
        Forze, queste ultime, che si fecero sempre più affidabili e resistenti a mano a mano che le ore e i giorni trascorrevano, andando a ridurre il divario che lo separava dall’incontro fissato col Serpeverde, e che gli furono necessarie nel momento in cui fece i conti coi propri doveri. Dopo una breve riflessione e una conversazione con Weasley riguardante quello che vollero etichettare come sprint finale, infatti, si mise nell’ordine di idee di dover immergere il naso nei libri; e lo fece. Studiò e si esercitò con la bacchetta, con impegno, per pomeriggi interi.
 
 

        Quando le ultime lezioni si svolsero, quasi non volle credere che il tempo, che i mesi a partire da Settembre fossero passati tanto rapidamente. Eppure era così: il suo ultimo anno scolastico ad Hogwarts era essenzialmente giunto al capolinea. L’idea gli fece uno stranissimo effetto. Quasi, venne travolto da un velo di malinconia.
        Ma non rimase triste per molto – l’entusiasmo dei compagni gli tirò facilmente su il morale, e si lasciò rimettere in sesto anche e soprattutto dal caotico festeggiare che s’accompagnò all’abbondante banchetto di fine anno.
        In quell’occasione, nel turbinio di bronzo e blu che esplose in Sala Grande in onore di Corvonero, vincitrice della Coppa delle Case, poté condividere un fulmineo momento con Draco – uno di quelli che, successivamente, non avrebbe esitato ad inserire tra i migliori.
        Si scambiarono uno sguardo, e Malfoy gli sorrise. Non in maniera altezzosa o provocatoria come di solito faceva nei corridoi e nelle aule, ma con una sincera delicatezza che quasi pareva non appartenergli. Chiaramente non si stava curando delle decine di persone che li circondavano e che avrebbero potuto coglierli in fallo, e a Potter questo causò un brivido. S’esaltò, sfoggiando una smorfia soddisfatta che permase sulle sue labbra ben più a lungo di quanto gli occhi dell’altro non rimasero puntati nei suoi.
        Nessuno, in ogni caso, se ne accorse. O, meglio, nessuno si rese conto di quanto diversa dalle altre fosse la ragione di quella sua particolare espressione contenta; nessuno tranne, forse, Hermione Granger, la quale tuttavia non commentò né s’intromise in alcun modo.
 
 
* * *
 
 

        Giugno s’aprì inesorabile, portando con sé temperature miti ed esami.
        I primi giorni del mese furono sfiancanti per gli alunni; eppure, anche se c’era chi l’aveva messo in dubbio, in quello che sembrò uno schiocco di dita volarono via. Ed era già tempo di saluti.
 
 

        Durante le ultime ore di permanenza nella scuola, eludendo il controllo di amici e conoscenti insospettiti, Potter e Malfoy, così come da accordi, s’incontrarono nella stessa aula in disuso al terzo piano di cui già in passato avevano approfittato.
        Il Grifondoro, che giunse sul posto per primo, attese per forse una decina di minuti nella penombra, torturandosi le mani e mordicchiandosi distrattamente le labbra. Quando poi la porta della stanza cigolò, annunciando l’arrivo del Serpeverde, scattò sull’attenti raddrizzando la schiena.
        Si rivolsero l’un l’altro un cenno, forgiando improvvisati sogghigni che tradirono il rispettivo appena accennato imbarazzo.
        «Ehi» soffiò Harry.
        Immediatamente, Draco inarcò un sopracciglio con aria giudicante. «Ehi – questo è il meglio che sai fare? Sei una costante delusione, Potter».
        Quello incassò la frecciatina con un mezzo sorriso, intendendola come la battuta scherzosa che era. «Hai mai pensato che potresti chiamarmi per nome? Potter è― uh, triste».
        Storcendo divertito il naso ed abbassando per un attimo lo sguardo, l’altro emise un versetto simile ad un Nah. «Non voglio darti questa soddisfazione».
        «E se io ti chiamassi per nome?»
        «Non so ancora se ti meriti un tale privilegio».
        «Fermami, Draco».
        Un brivido l’attraversò, costringendolo a distogliere nuovamente gli occhi dai suoi. «Lo pronunci in modo strano» buttò lì, governato da un’indefinibile sensazione; ciò, sebbene l’unica cosa veramente strana fosse il fatto che, dopo i baci e le carezze, ancora si chiamassero per cognome. Che dire, le vecchie abitudini erano dure a morire.
        Harry, distrattamente, sorrise di nuovo. Dopodiché, sentendo crescere sottopelle una qual certa impellenza e non sapendo bene come incanalarla, cambiò discorso: «Come è andata? Con i M.A.G.O.».
        «Bene. Ovviamente». In maniera implicita, esprimendosi con un gesto che a metà si perse nell’oscurità dell’ambiente, gli rivolse la sua stessa domanda.
        «Io ho raggiunto i miei obiettivi. Non mi lamento».
        Stagnarono per alcuni istanti in un neutro silenzio, spezzato poi da un sospiro di Malfoy. «Non ho molto tempo» asserì, indicando vagamente con una mano l’uscio alle proprie spalle, «sai, i bagagli e il resto. E si staranno chiedendo dove sono finito».
        Al che, il Grifondoro, colto dalla frettolosa e preoccupata sorpresa trasmessagli dall’immagine mentale dell’altro che se ne andava troppo presto, attaccò a borbottare: «Tu non―» tentennò, praticamente col fiato sospeso «non mi hai mai― insomma, ti avevo detto che questo poteva durare più di due settimane. Non hai mai risposto».
        «Già». Col battito piacevolmente accelerato, non aggiunse altro.
        «Potrei scriverti» propose Harry con avventata innocenza.
        E c’erano mille motivi per cui Draco avrebbe dovuto fargli presente che no, non era il caso, eppure, dopo aver taciuto per una studiata manciata di secondi, un timido «Fallo» fu l’unica parola che gli scivolò tra i denti.
        Potter, compiaciuto e rincuorato, si concesse l’ennesima smorfia contenta. Poi, guidato dall’entusiasmo, avanzò e si prese sfacciatamente un bacio; bacio che, corrisposto, proseguì schiudendosi e riscaldandosi a ritmo di respiri titubanti.
        Seppur riluttante, il Serpeverde ad un tratto dovette tirarsi indietro. «Devo andare» mormorò.
        «Di già?»
        «Poco tempo, te l’avevo detto».
        Harry annuì, ricacciando in gola l’amarezza. «Okay». Lo lasciò libero, sciogliendo la presa con cui s’era ancorato ai suoi fianchi. A quel punto, essendo incapaci di congedarsi, finirono col fissarsi brevemente, e lui bofonchiò, ironico: «Dovrei, tipo, salutarti con una stretta di mano?»
        «Potter, ti prego. Sei sette anni in ritardo per quello».
        Entrambi, a cuor leggero, inarcarono verso l’alto gli angoli della bocca.
 
 
* * *
 
 

        Con gli occhi posati sul paesaggio che correva al di là del vetro del finestrino dell’Espresso, Draco Malfoy riposava la mente. Attorno a lui, qualche compagno di Casa – anzi, qualche ex compagno di Casa chiacchierava a bassa voce.
        Mesi addietro, percorrendo quella stessa tratta in senso opposto, per poco l’aria avvelenata del treno non l’aveva asfissiato; lo ricordava alla perfezione. Il tormento era impresso a fuoco nella sua memoria. A salvarlo era stato il mero pensiero che quel momento, l’ora di tornare per sempre indietro, sarebbe presto o tardi arrivato.
        Finalmente, si disse, esalando uno sbuffo appena percettibile e reclinando il capo.
        Correva verso la stazione, ma anche verso un opprimente vecchio maniero e un futuro con poco o nulla di delineato; ad attenderlo, insomma, non c’era un avvenire rose e fiori. Ma comunque, stava bene. Era sopravvissuto ad un anno a Hogwarts, tra pettegolezzi corrosivi e giorni pesanti, con un costante memento della guerra stampato in nero su di un braccio; meritava d’esser fiero di sé, e di non preoccuparsi, almeno per un po’.
        Poi c’era Harry Potter. Era a pochi scompartimenti distanza, ma soprattutto era nella sua testa.
        Se a Settembre, o anche solo a Natale, qualcuno gli avesse raccontato come si sarebbero evolute le cose tra loro, avrebbe brutalmente riso senza bersi una sola parola. Eppure eccoli lì. In altre circostanze, forse, si sarebbe curiosamente interrogato, rivangando nel passato per delineare l’evolversi della vicenda, ma quella volta si risparmiò la fatica. Perché qualsiasi combinazione d’eventi si fosse verificata, qualsiasi matto piano dell’universo si fosse realizzato, poteva dire di star stringendo tra le dita un qualcosa di buono. Di delicato. Di terapeutico. E gli piacque pensare che, magari, oltre alla pace, si meritasse anche quello.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Qualche altra goccia di miele e un pizzico di peperoncino (?) tra Potter e Malfoy, mentre l’anno scolastico giunge al termine. Sugli esami ho sorvolato brutalmente perché non so voi, ma io ne ho abbastanza dei miei. c':
Come sempre, grazie per aver letto sin qui. Vi do appuntamento alla prossima settimana, con un ultimo capitolo taglia XL. ;) Baci,
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Capitolo 30
*** 29. (Im)perfetto ***


29.
Imperfetto
 
 
 
        A Harry servirono un paio di settimane abbondanti per abituarsi a vivere a Grimmauld Place; a vivere da solo, stabilmente, a tempo indeterminato. La cosa in principio gli trasmise un vago senso d’abbandono, che però successivamente scemò con dolcezza sino a lasciarlo svuotato dalle paure, e pronto a cominciare quel nuovo capitolo della vita che gli si poneva davanti.
 
 

        Scrisse una lettera a Draco Malfoy quand’ormai erano già trascorsi più di venti giorni dalla partenza da Hogwarts. Non che non avesse pensato di farlo prima, beninteso; solo, aveva esitato. Se qualcuno gli avesse domandato la ragione, non sarebbe riuscito a limitarsi a darne una singola: s’era trattato di tutt’insieme di cose. Equilibri da ritrovare dopo l’arrivo in stazione a Londra, una familiarità da stabilire tra nuove vecchie mura, sentimenti da lasciar decantare. Forse persino la curiosità di scoprire se Malfoy avrebbe avuto il coraggio di scrivergli per primo – e no, non l’aveva avuto.
        Insomma, diede il via alla loro corrispondenza, e lo fece con un messaggio stringato.
        Esibendo una smorfia sbilenca che nessuno poté vedere, aprì il messaggio scusandosi, perché Vuoi dirmi di nuovo che ci ho messo un’eternità? Ed È vero, è così. Mi spiace. Continuando a far scorrere la penna sulla carta, poi, tornò serio. Riempì poche righe con commenti su quella che era diventata la sua casa, concedendosi anche d’appuntare che, nonostante tutto, la scuola un po’ gli mancava. Concluse con un sinceramente interessato Come stai?, si firmò con caratteri disordinati, ed inoltrò la missiva frettolosamente, sentendo il bisogno di recuperare il tempo perduto, come se il mettere nero su bianco quelle parole avesse abbattuto la diga dietro cui aveva per un po’ trattenuto le emozioni.
        Ricevette presto una risposta – tanto presto, che quasi di primo acchito stentò a crederci.
        Facendo scorrere gli occhi sull’elegante calligrafia di Draco, sul suo Sì, Potter, ci hai di nuovo messo un’eternità. Ma in effetti non mi aspettavo altro, si concesse un sorriso. Poi lesse che Sto bene, anche se ho avuto giorni migliori, e la sua espressione acquistò un’appena percettibile nota d’amarezza.
        Buttò giù una replica quanto prima poté. E dopo quella, ce ne furono altre; tra le sillabe, s’affacciarono timide alcune confessioni – per esempio, Malfoy rivelò d’odiare il maniero. Non dovette nemmeno spiegare il perché.
        Il Possiamo incontrarci? di Harry, nel momento in cui venne scritto, non poté che risultare l’invito più naturale del mondo.
 
 

        Scelsero di vedersi a Diagon Alley. Una mossa, la loro, alquanto illogica da qualsiasi punto di vista la si studiasse, considerato che né l’uno, né l’altro desiderava rendere i propri affari più pubblici di quanto già non fossero. Ma tant’è – si diedero appuntamento nei pressi d’una delle vetrine del negozio di articoli di Quidditch, in un angolino che d’appartato non aveva molto.
        Per sopperire ad una tale allarmante mancanza di privacy, entrambi uscirono di casa con un piano ben stampato in mente. Ben poco Malfoy poteva sapere di come si sarebbero sviluppate le cose, e di certo non s’aspettava che l’idea da lui messa a punto venisse completamente ignorata (non ebbe neanche l’occasione d’esporla), per essere ingiustamente surclassata dalla proposta o, per meglio dire, dalla mezza imposizione di Potter.
        «Andiamo nella Londra babbana» gli disse sottovoce una volta che furono vicini, con gli occhi pieni d’aspettativa e una smorfia gioiosa sulle labbra.
        «Cosa
        «Sarà bello. Forza».
        Draco non ebbe neanche il tempo di ribattere, che, tirato per un braccio, si trovò a correr dietro ad un ex Grifondoro coi capelli spettinati ed un’orrenda maglia addosso. Lo seguì lungo la strada di Diagon Alley, stando ben attento a stringersi nell’ampio mantello scuro e a tener la testa bassa – ringraziò Merlino che non troppe persone fossero in giro, e sperò di passare il più possibile inosservato.
        Si rilassò un pochino e smise di nascondersi solo quando sbucarono dietro al Paiolo Magico. In quel frangente, ebbe l’occasione d’aprir bocca, e la colse al volo.
        «Non possiamo andare― da un’altra parte?»
        «Qui non è male».
        «È che―» mi sento fuori posto. Ma appesantito da ricordi che minacciavano di travolgerlo, non finì la frase: preferì sciogliersi un rumoroso sospiro.
        Non protestò oltre, e Harry l’apprezzò. Poteva immaginare, lui, quali fossero le incertezze di Malfoy; capiva d’aver azzardato un po’ a trascinarlo lì senza preavviso. Ma per certi versi, s’era sentito in dovere di farlo: non voleva che quello fosse un terreno minato tra di loro. Ci sarebbe rimasto parecchio male, se avesse dovuto ascoltare qualche tediosa lamentela del tipo I babbani qui, i babbani là – Draco poteva comportarsi meglio di così, lo sapeva.
        «Da queste parti nessuno ci riconoscerà» mormorò, riprendendo a camminare ed esortandolo con un cenno a seguirlo ancora.
        Dopo qualche istante di tentennamento iniziale, procedettero fianco a fianco avventurandosi su Charing Cross Road.
        Guardando di sottecchi Malfoy, Potter si ritrovò ad accennare un sorriso tra sé e sé. La parte di lui che ancora covava una qual certa nostalgia tremò, scossa da un sospiro adorante – perché quei capelli chiari e quel viso affilato lo portavano indietro, al pari delle ramanzine di Hermione e delle risate di Ron. Pur non sapendo discriminare se fosse stupido o meno, fu brevemente tentato dall’idea d’abbracciarlo; su due piedi, così. Nel traffico d’una città che l’altro scrutava cautamente, al cospetto di volti sconosciuti, senza vergogna. Non fece nulla del genere, però, principalmente perché Draco, con aria turbata, borbottò qualche asciutta parola.
        «Mi fissano. Non lo sopporto».
        Harry impiegò un attimo a capire che si stava riferendo ai passanti. «Uh, credo sia per come sei vestito».
        «Sì, l’avevo intuito». Con l’orgoglio in ebollizione, irrigidì la postura, mostrandosi nonostante tutto fiero di quegli abiti lucidi chiaramente incantati, la cui stoffa lo proteggeva dal caldo estivo.
        Loro lo giudicavano. Non tollerava l’idea che se ne sentissero in diritto. Provò il deplorevole desiderio d’insultarli, ma la stessa pesantezza di poco prima, quella proveniente dal passato, gli frenò sia la lingua, sia il pensiero.
        «Se ti togliessi almeno il mantello, forse non ti guarderebbero così».
        Draco roteò gli occhi, piccato, bofonchiando un «Okay» stiracchiato, per poi seguire il consiglio che gli era stato dato: sciolse il nodo e liberò i bottoni che gli fermavano il mantello sulle spalle, poi lo fece scivolare e lo ripiegò con cura in modo da poterlo reggere con un braccio. «Che roba».
        Cogliendo le tracce dell’alone di negatività che andava delineandosi attorno alla sua testa bionda, Potter si sentì in dovere di cambiar argomento. Si schiarì distrattamente la voce, «Dove preferiresti andare?»
        «Non qui. Ma visto che ormai ci siamo – non ho preferenze».
        «Che ne dici di Hyde Park?» Rifletté per un attimo, concentrandosi e cercando di riportare alla memoria le principali strade della città, «È un po’ distante, ma ne vale la pena».
        Ancora imbronciato, Malfoy assentì.
 
 

        Procedettero rigorosamente a piedi, perché per quanto coraggioso fosse, Harry non s’azzardò a trascinare Draco Malfoy ai binari della metropolitana.
        Certo, però, sarebbe stata una scena comica: un rampollo Purosangue ed il suo ingombrante ego stipati in un minuscolo vano insieme a decine di sconosciuti. Alla sola idea, gli sfuggì un lieve risolino.
        «C’è qualcosa che ti diverte, Potter?»
        «Uhm― no, niente».
 
 

        Passo dopo passo, sfilando accanto ai palazzi e tra la folla, Draco s’ammorbidì sempre più, pur senza mai riuscire ad accantonare del tutto il senso d’estraneità – un senso, quello, dovuto non tanto all’ambiente che lo circondava, quanto alla moralità che gli stagnava dentro. Per tenerlo sotto controllo, si rivelò efficace il concentrarsi su quel mondo che non gli era mai stato concesso di conoscere, e al quale, a dirla tutta, non aveva mai avuto l’ardire d’interessarsi.
        Le sue modeste occhiate si fecero curiose. C’erano tanti dettagli che non gli erano chiari; ad esempio, come facessero le persone a gestire le auto, quali codici ne regolassero il transito. C’erano poi tanti odori nell’aria, per la maggior parte tutt’altro che familiari, che gli pizzicavano impudentemente il naso in modo a tratti spiacevole, e rumori che non seppe ben identificare.
        Preferì non domandare spiegazioni a Harry. Aveva una dignità da difendere, lui, e poco ma sicuro non avrebbe fatto la figura del marmocchio che non comprende le meccaniche di ciò che ha attorno. Non così presto, almeno – un domani, chissà.
 
 

        Avevano già marciato per una manciata di minuti, quando Potter, stanco del silenzio (che in realtà non era vero e proprio silenzio, considerato il brusio in cui erano immersi), parlò. «Quando ti ho spedito la prima lettera― tu hai risposto subito». Mise su una smorfia compiaciuta, «Mi hai stupito».
        «Perché?»
        «Credevo che ti saresti fatto attendere».
        «Ti sei fatto attendere tu – per tre settimane. Non tutti sono disposti a perder tempo facendo inutilmente i preziosi».
        «Detto da te, suona strano».
        «Cosa vorrebbe dire detto da me
        Vagamente in difficoltà, Harry scosse appena il capo. «Ero convinto che fossi il tipo di persona che― ehm, si fa desiderare, in questo tipo di cose. Non so, forse perché ci sono voluti mesi per darti un, beh, bacio vero».
        Malfoy inarcò un sopracciglio. «Sai com’è, metterti la lingua in bocca non era esattamente uno dei miei propositi per l’anno nuovo».
        «Se la metti così, non era neanche uno dei miei».
        «Ecco. Allora, nonostante le tue ridotte capacità cognitive, puoi capire».
        «Però―»
        «Non c’è alcun però. Fidati, Potter: tu non hai idea di come io mi comporti in queste situazioni».
        «Hm. Forse hai ragione, non ce l’ho». E inconsciamente, con gli occhi spalmati sul viso dell’altro, inarcò gli angoli delle labbra insù.
        Quando Draco se ne accorse, gli rivolse un’occhiata interrogativa. «A cosa devo questa faccia?»
        «Niente. È solo che― voglio scoprirlo. Come sei, dico».
        Il cuore di Malfoy accelerò sensibilmente e il volto gli si intiepidì. Dovette distogliere lo sguardo da quello di Harry, perché Morgana, che razza d’effetto mi fa. Per un istante, si sentì una ragazzina.
 
 

        «A tua madre cos’hai detto? Di oggi, del fatto che sei uscito».
        «Non preoccuparti di questo».
        Apparentemente senza motivo, dopo un secondo speso a tacere, Harry rise tra sé e sé.
        «Cosa c’è, adesso?»
        «Pensavo― aspetta che lo venga a sapere tuo padre!» Ingenuamente divertito, affondò i denti in una guancia. «Pessima battuta, lo so».
        Quanto pessima, di preciso, lo colse quand’era già troppo tardi: Draco s’incupì e lo fulminò, stretto da una morsa che lo spinse a serrare i pugni. Scherzare a quel modo tirando in ballo vecchie parole legate ad un uomo tutt’altro che innocente, allontanato dalla famiglia ed incarcerato, era una delle mosse peggiori che si potessero fare.
        «Scusa» sussurrò mesto Potter, accortosi della gaffe «non avrei dovuto parlare di lui. Mi spiace».
        Malfoy, però, l’ignorò. Strozzato da un rospo amaro, si chiuse in se stesso e si barricò dietro un impenetrabile muso duro. Percepì intensificarsi il desiderio d’abbandonare quel dannato mondo babbano, d’isolarsi per un po’, di scappare, ma continuò comunque a camminare, forte d’una testardaggine che non seppe bene inquadrare.
 
 

        Quando misero piede negli ampi giardini, tra loro l’atmosfera non s’era ancora distesa: Harry continuava a dibattersi impotente di fronte all’impulso di fare ammenda, e Draco restava in silenzio.
        «Allora? È un bel posto» sussurrò incerto il primo, nel tentativo di riattizzare il dialogo.
        «Sì» soffiò l’altro, conciso. Non era più troppo turbato, tuttavia trovava difficile tornare ad aprirsi.
        Avanzarono ancora un po’ senza aggiungere ulteriori parole, tra il verde e le persone a passeggio, sinché Potter non mise finalmente a fuoco quanto tempo stessero sprecando, e si stancò. «Ho detto che mi dispiace. Prima».
        «Ti avevo sentito».
        «Dunque― lasciamo perdere?»
        «È meglio, sì». Si vide rivolgere un vago cenno che significava chiaramente “forza, dì qualcosa”, e deglutì e sospirò. Poi, spinse fuori dalle labbra: «Ora vivi nella vecchia casa dei Black, quindi».
        Quella semplice affermazione casuale bastò a rincuorare Harry, che annuì rasserenandosi. «Già» rispose e, anche se s’erano già detti diverse cose a riguardo nelle lettere, fu ben felice di raccontare di come si trovava, e di come s’era ambientato.
 
 

        Si sedettero su una panchina. A mano a mano che le chiacchiere tornavano ad essere fluide, si sciolsero nelle spalle, mettendosi comodi.
        «…e frequenterò il corso per diventare Auror».
        «L’intero Mondo Magico non si aspetta altro da te, Potter».
        «È soprattutto quello che io mi aspetto da me. E tu, invece, cosa― cosa farai?»
        Malfoy, con aria di superiorità, esibì un’elegante smorfia disinteressata. «Cose. Per ora non definite».
        «Perché non l’Auror anche tu?» Non riuscì proprio a trattenersi dal chiederlo.
        «Scherzi?» Lo guardò storto, corrucciando la fronte davanti alla serietà di cui dava sfoggio. «Solo perché vuoi farlo tu non significa che sia la vocazione di tutti. Non è proprio la mia strada».
        «Io ti ci vedo».
        «Devo ricordarti quanto la tua vista sia difettosa?»
        Al che, risero, perdendosi a scrutare brevemente la gente di passaggio. Harry, col sorriso ancora stampato sulla faccia, realizzò quanto fosse assurdo essere nel bel mezzo di Hyde Park in compagnia di Draco Malfoy, a ridere amichevolmente mentre decine e decine di babbani sfilavano sotto i loro occhi. Una parte di lui stentò a credere che si trattasse della realtà – ma lo era. Eccome. Ripetendosi ciò, afferrò un interessante concetto.
        «Noi― stiamo uscendo insieme. Letteralmente» asserì, catturando subito l’attenzione dell’altro.
        Quello, intuendo l’evoluzione del discorso, non poté evitare che il proprio battito accelerasse lievemente. «Così sembra» mormorò.
        «Quindi siamo― hm» s’agitò appena, «una specie di coppia? Ufficialmente?» Si trattava d’una prospettiva stravagante, ma a giudicare dal rimestio che gli solleticò lo stomaco, l’idea non gli dispiaceva affatto.
        Draco intrecciò le dita delle mani, mordendosi una guancia e abbassando il capo; di nuovo, si sentì una scolaretta imbranata, ma si sforzò per mantenere un certo decoro. «Se insisti, possiamo provare» bisbigliò, coi palmi che pizzicavano. «Senza impegno. Vediamo come va».
        Potter fu assalito dalla voglia di tirarlo più vicino. Per la seconda volta, però, Malfoy gli mise inconsapevolmente i bastoni tra le ruote parlando.
        «Offrimi qualcosa» buttò lì per scacciare l’imbarazzo – e il suo non era un suggerimento, quanto piuttosto un pacato ordine. Ordine che Harry, su di giri, non si rifiutò d’eseguire.
 
 

        Lo condusse fuori dai giardini, nuovamente sulla strada. Iniziarono così a dar la caccia ad un locale adeguato, imboccando svolte senza una meta precisa – potevano anche perdersi, in fondo, perché in ogni caso poi ci sarebbero state le bacchette a riportarli a casa.
        Imbattutisi in un piccolo caffè dall’aria spartana ma accogliente, Potter insistette per entrare. Neanche a dirlo, l’altro storse il naso, ben poco colpito da quella scelta.
        «Hai veramente un pessimo gusto» commentò dopo che ebbero preso posto ad un tavolino. «Insomma, hai avuto una relazione con una Weasley, quindi in realtà già lo sapevo, ma con questo― sei ufficialmente un caso disperato».
        Harry, insinuante, fece scattare verso l’alto le sopracciglia. «A quanto pare ora mi sto interessando a te, perciò magari non dovresti criticare tanto i miei gusti».
        Draco schioccò la lingua e assottigliò gli occhi, riflettendo. «Hm. È un insulto o un complimento?»
        «Devo ancora decidere». S’impegnò per celare il sorriso che premeva per fiorirgli sulle labbra, ma fu tutto inutile.
        Optò per una semplice tazza di caffè, mentre Malfoy si fece servire del the nero accompagnato da qualche biscotto secco. Aveva già la tazzina tra le dita e se la stava portando alle labbra, quando disse, lupesco: «Sul serio, però, Potter. La Weasley».
        Perplesso, Harry fu tentato dal mettersi sulla difensiva. «Non osare cominciare a parlar male di lei» l’avvertì, tutto sommato bonario.
        «Non ne parlo male». Sorseggiò aggraziatamente il the, lo sguardo incatenato al suo. «Solo, mi domando: cosa ci trovavi in lei? È così sciatta».
        «Non è sciatta. Ma― vuoi veramente parlare di Ginny?»
        Fece spallucce, «Non ho paura dei confronti. O della concorrenza, per quel che vale – cioè, io sono io, e lei è― beh, lei».
        «Per fortuna non dovevi parlarne male» mugugnò sommessamente l’altro, gli occhi puntati sul caffè. «Comunque: non l’hai provata, non puoi giudicare». Non appena, ascoltandosi, colse la sporca accezione delle parole usate, accartocciò l’espressione. «No, aspetta― mi è uscita male» s’affrettò a borbottare, ma era troppo tardi: dietro la tazzina, sul volto di Draco s’era già aperto un enorme sogghigno.
        «Oh. Ora mi è tutto molto più chiaro».
        «No, lei― lei non è così. Dimentica quello che ho detto, ho sbagliato». Tremò, pensando che se Molly Weasley fosse stata nei paraggi, sarebbe già stato trasformato in poltiglia. E non tramite un incantesimo.
        «Rilassati, non ti giudico». Sorseggiò ancora del the, divertito. «D’altronde, ci si arrangia con ciò che si ha. E non tutti possono avere me».
        Harry non doveva sorridere. Ma lo fece lo stesso, perché sebbene non fosse stato con Ginny per quello, e non volesse che Malfoy si facesse strane idee sulla ragazza, che non tutti potessero avere lui era vero. Perché adesso ce l’ho io. E a pensare questo, come poteva non sorridere come un beota?
        Con un cenno d’imbarazzo spruzzato sulle guance, cercò di nascondersi bevendo del caffè. «A parte gli scherzi» bofonchiò, i polpastrelli che giocavano col manico della tazza «non parlare male dei miei amici. O non dureremo un mese». Aveva sì detto a parte gli scherzi, ma comunque si pose in modo tutt’altro che serio.
        Draco non mancò di notarlo, tant’è che, rosicchiando un biscotto, ribatté, sempre ironizzando: «In tal caso – puoi scommetterci la cicatrice, che non dureremo un mese».
 
 

        Una volta che entrambi ebbero finito di bere, continuarono ad occupare il tavolino a cui erano seduti malgrado il locale si stesse pian piano affollando. Si scambiarono lunghe occhiate sulle note di leggere ciarle; fu piacevole, almeno sinché Malfoy non prese ad alludere, attraverso un’evidente gestualità, ad un indefinito qualcosa che mandò Harry in confusione.
        «Dovremmo andare» suggerì l’ex Serpeverde, come indicandogli la direzione da seguire.
        «Se vuoi, va bene».
        Evidentemente, una semplice spintarella non bastava. D’accordo, allora – sarebbe stato più esplicito. «Vivi in casa Black».
        Potter aggrottò la fronte, perché di quello avevano già ampiamente discusso. «Uh―»
        «Non credi che dovresti invitarmi ad entrare?»
        «Oh». Finalmente capì, e fu scosso da un brivido. «Sì, ehm― ».
        Per la gioia dei nuovi avventori, alla buon’ora lasciarono libere le sedie.
 
 

        Celati dall’ombra d’un vicolo, si smaterializzarono a Grimmauld Place. E una volta che furono al sicuro tra quelle mura, bastò poco: una serie di parole appena bisbigliate, mani che si tendevano e che afferravano, l’addossarsi alla parete del corridoio, un paio di ghigni ammiccanti, e poi ci furono solo baci.
        Prima di quel momento, Harry non avrebbe mai creduto di poter ritenere umane una tale foga ed una tale impellenza. Eppure eccole lì, a stuzzicarlo e a massaggiargli i nervi, a guidargli le dita mentre le immergeva tra ciocche di capelli biondi e stringeva costosi vestiti su misura bramando di poter toccare di più. Con la testa svuotata, credette d’essere sul punto di perder la ragione. Draco, poi, non fece che aggravare costantemente la sua condizione, sfiorandogli il viso e il collo, affondandogli le unghie nei fianchi e premendolo sempre più contro il muro.
        Dopo un imprecisato lasso di tempo, si concessero di riprender fiato – lo fecero tenendo rispettivamente gli occhi fissi in quelli dell’altro, non tanto per volontà, quanto perché fu ciò che venne loro più spontaneo.
        Col cuore che rimbombava nelle orecchie, Potter tentò d’incollare i brandelli d’un pensiero relativo a quanto caldo avesse, ma non ebbe il tempo di portare a termine l’impresa; la bocca di Malfoy, infatti, tornò sulla sua, e ogni spettro di razionalità svanì senza lasciar traccia.
 
 

        Come riuscirono a separarsi, nessuno dei due sarebbe stato capace di descriverlo.
        «Bella casa. Dovevamo venirci prima» affermò Draco, pronto a togliere il disturbo.
        «Sì».
        «Vedi di non farmi aspettare altre tre settimane, adesso».
        «No―! Uh, sabato. Può andare?»
        Finse di rifletterci su. «Sì, può andare».
        Pochi secondi, un incantesimo ed un rumore di strappo più tardi, Harry era solo. Quasi, in principio, si sentì a metà.
 
 
* * *
 
 

        Malfoy conosceva posti del Mondo Magico che lui a stento aveva sentito nominare: piccoli villaggi fuori dal mondo, rinomati locali, zone d’interesse turistico; perlopiù luoghi d’un romantico che mai, mai avrebbe pensato di poter considerare associabili alla figura dell’algido Purosangue degli anni passati. Ed era soprattutto quello, il bello: scoprirlo, e lasciarsi scoprire.
        «Dove mi porti, oggi?»
        «Sorpresa».
 
 

        Non ne aveva mai abbastanza.
        «Ti va di uscire mercoledì?»
        «Perché, dopodomani sei occupato?»
        «Uhm, no. Volevo― volevo fare mercoledì e dopodomani. Ma se non vuoi, o non riesci―»
        «No. Va bene. Mercoledì ci sono».
        Harry non si rendeva affatto conto di quanto certe smorfie contente lo facessero apparire imbranato, e continuava a metterle su ignaro – come in quel caso – per la pura delizia di Draco. «Bene, perché ho pensato ad un posto che voglio farti vedere».
        «D’accordo. Ma non dimenticare che ho degli standard».
 
 

        Per quanto catturati da quel vortice di novità e d’esplorazione, non scordarono di rivolgere la propria attenzione a ciò che era stato. I loro trascorsi non erano l’argomento che preferivano trattare, ma non potevano ignorarli e, di tanto in tanto, oltre ai battibecchi, ne veniva fuori persino qualcosa di buono.
        «Posso vederlo?» domandò Potter un giorno, mentre, rintanati a Grimmauld Place, per la precisione spalmati su un sofà che lui stesso aveva da poco piazzato in casa, si proteggevano dalla pioggia che aveva improvvisamente preso a scrosciare.
        «Hm?»
        «Ho detto― posso vederlo?» ripeté, lanciando un rapido sguardo al suo braccio sinistro.
        Scettico e travolto da un’ondata di gelo, Malfoy avvolse d’istinto la mano destra attorno all’avambraccio che, sotto alla stoffa dell’elegante camicia, era e sarebbe sempre stato marchiato. Esitò a reagire in altre maniere: per un po’ restò in silenzio, col capo chino, ponderando tra sé e sé.
        Parevano esser trascorsi secoli, quando finalmente risollevò la testa. Non disse nulla, ma deglutì e, con studiata lentezza, fece scivolare i polpastrelli sino al polso. Spinse fuori dall’asola il piccolo bottone che teneva uniti i lembi di tessuto, e una volta che quelli furono liberi, li fece scorrere, mettendo a nudo la pelle.
        Non volle guardare la macchia nera che lo deturpava. Lasciò, però, che Harry gli prendesse la mano, che gli giostrasse il braccio, che osservasse ciò che desiderava. Percependo la punta delle sue dita su di sé, fu attraversato da un fremito.
        Attese senza emettere alcun suono. Più i secondi passavano, più gli pareva che l’altro lo stesse accarezzando; d’un tratto, dunque, incuriosito, seppur con incertezza, raccolse il coraggio necessario a spostare gli occhi laddove sapeva esserci il Marchio. Ma non ne vide che alcuni frammenti, poiché il palmo di Potter, strategicamente, ne copriva una buonissima parte. E forse era insensato, ma quella visione lo rassicurò e lo riscaldò indicibilmente; per non parlare del bacio che senza preavviso si ritrovò stampato sulle labbra, e del mormorato «Grazie» che l’accompagnò.
 
 

        A partire da occasioni del genere, risultava loro talmente semplice avvicinarsi ed intrecciarsi, continuare a baciarsi e stringersi, che a volte nemmeno si rendevano conto d’aver cominciato a pomiciare sfacciatamente come ragazzini della peggior specie. Non mancavano mai di capirlo i loro corpi, però, che senza chiedere il permesso li trascinavano incontro a quell’aspetto d’un rapporto che, quand’ancora erano ad Hogwarts e s’incontravano nelle stanze buie, avevano scelto d’affrontare senza fretta – il desiderio fisico. La voglia. Il sesso.
        Da lucidi, danzavano intorno all’argomento armati d’una disinibizione che andava consolidandosi; combattevano la paura di quella cosa tanto intima e tanto forte tastando il terreno a ritmo di scherzi ed allusioni.
        Ad esempio, era capitato che Draco sibilasse, con gran naturalezza: «Hai mai fatto un sogno erotico su di me?»
        Subito, Harry s’era irrigidito e aveva preso colore. «Ehm―»
        «Potter. Di’ la verità».
        Non l’aveva detta. Non aveva detto niente, in realtà, limitandosi ad alzare le spalle e ad ammiccare con aria colpevole.
        «Lo sapevo».
        Così come quella, tante altre conversazioni erano sfociate in risolini contenuti, in cuori appena accelerati e nelle occhiate d’intesa di chi sa esattamente dove vuole andare a parare.
        Quand’erano coinvolti, però, era diverso. Avere le mani dell’altro addosso, la sua bocca sulla propria, un gran formicolio nelle vene; essere travolti dalla sensazione d’andare a fuoco, di aver bisogno di qualcosa di più – erano tutti dettagli che rendevano parecchio arduo il procedere per gradi, e che facevano apparire sempre più appetitosa la prospettiva di fare un salto nel vuoto.
        Alla fine – era inevitabile – cedettero. E anche se era Harry l’impavido ex Grifondoro, fu Draco ad oltrepassare la linea.
        Azzardò mentre, vibrando e mugolando piano con la schiena poggiata al muro d’una stanza (poco importava quale) a Grimmauld Place, godeva dei morbidi baci che gli stavano solleticando il collo. I pantaloni s’erano fatti stretti già da un po’, e le carezze che Potter, con una mano assurdamente calda, elargiva sfiorandogli il basso ventre minacciavano di portarlo alla pazzia.
        «Fallo» soffiò supplicante, la voce arrochita. L’altro tentennò, respirando contro la sua pelle e causandogli scariche di brividi; non poté, quindi, che lasciarsi sfuggire un versetto lamentoso.
        In un lampo di nitidezza, Harry tornò indietro col pensiero. Fallo, aveva detto Malfoy pretendendo per la prima volta un bacio; Fallo, aveva bisbigliato quando gli aveva proposto di restare in contatto dopo la fine della scuola; Fallo, diceva ora che erano tanto vicini. La ricorrenza d’una misera parola non era certo il particolare più eclatante, in quel frangente, ma comunque gli regalò un sorriso e gli rubò un battito.
        Facendo finalmente scivolare la mano verso il basso, tenne le palpebre serrate e il viso bruciante nascosto contro la spalla di Draco.
        Un gemito soddisfatto rotolò fuori da labbra gonfie. Entrambi vacillarono: risuonò un istante di vuoto, tra animi languenti e vestiti di troppo; poi, ci fu spazio solo per la discesa in un mondo di pulsioni.
 
 

        Si scoprirono come ancora non s’erano scoperti – cioè, mettendosi letteralmente a nudo.
        Toccare diventò pericolosamente divertente. Guardare e soprattutto guardarsi, eccitante. Sperimentare, intrigante. Fidarsi l’uno dell’altro, inebriante.
 
 

        A tempo debito, Harry si scontrò col fatto che, contrariamente ad ogni sua previsione, Draco Malfoy era il tipo di persona che s’inginocchiava. Ma per descrivere quello, beh, non esistevano aggettivi adeguati.
 
 
* * *
 
 

        La prima volta che trascorsero un’intera notte insieme, fu quasi un incidente. Erano reduci da un bisticcio, perché «Non possiamo vederci, domenica. Gli Weasley mi hanno invitato a pranzo. E tecnicamente, hanno invitato anche te».
        «Cosa
        «Uh, non proprio te; la persona con cui sanno che sto uscendo».
        «Non voglio pranzare da loro. E se sapessero chi sono, loro non vorrebbero me».
        «Non― non dire così. Devo solo trovare il modo giusto per… metterli al corrente».
        «Non so se voglio che tu lo faccia».
        «Perché non dovrei? Sono praticamente la mia famiglia; è importante che sappiano di noi, che sappiano chi sei».
        «Più persone lo sapranno― ecco― hm. Esporsi è problematico, per me. Capisci?»
        «Sì, ma― tu capisci che per me, invece, è problematico tenerti segreto?»
        S’erano arrabbiati, erano volate lamentele e sbuffi, e poi, quando tutto sembrava destinato a terminare in malo modo, Harry se n’era uscito con un pungente «Hai paura? Perché non dovresti. Non ha senso averne, arrivati a questo punto di certo non ci lasceremo per quello che pensa la gente». Era la cosa più semplicistica ed edulcorata che potesse dire, e Draco, di norma, non si sarebbe lasciato imbambolare tanto facilmente – ma aveva comunque voluto concedersi la resa. Perché magari era vero, che aveva un po’ paura; era felice e temeva che qualcosa, anche solo il cambiamento più piccolo, potesse rovinare tutto.
        Aveva smesso di ribattere, e aveva lasciato che Potter l’avvicinasse, che lo toccasse, che lo baciasse piano. Per lunghi istanti s’era sentito orribilmente sdolcinato, schiacciato dall’imbarazzo, ma poi, fortunatamente, era subentrata una bollente presa allo stomaco che l’aveva distratto; i baci erano diventati più umidi, le dita più impavide, i vestiti meno necessari.
        S’erano spostati sul letto, e avevano fatto ciò che entrambi desideravano fare.
 
 

        Quasi un incidente, per l’appunto: quando Malfoy riaprì gli occhi, scosso da rumori ovattati, fuori era già buio. Impiegò un attimo a mettere a fuoco dove si trovava, che non era rientrato al maniero, e che – Morgana – Harry gli si stava accoccolando affianco.
        D’istinto scattò a sedere, guadagnandosi un mugugno di disapprovazione da parte dell’altro. «Che ore sono?» biascicò, stropicciandosi gli occhi per scacciare il pizzicore dovuto alla stanchezza.
        «È tardi» asserì conciso Potter, più sveglio di quanto non sembrasse. «Rimani».
        Forse fu perché Draco era davvero, davvero stanco – le ciglia pesavano come massi –, o perché, dacché s’era alzato scostando le coperte, il freddo l’aveva fastidiosamente punto sulle braccia nude e sul petto; fatto sta che, a seguito d’un momento d’esitazione, sospirando si lasciò ricadere sul materasso. Ritrovò il proprio tepore: mugolò sommessamente, e si rilassò.
        Harry, voltato su un fianco, gli poggiò una mano sulla pancia: nel silenzio, non s’alzò alcuna protesta.
 
 
* * *
 
 

        Al pranzo alla Tana, Potter si presentò da solo.
        «Oh, Harry caro. Ci avevo proprio sperato, questa volta» confessò Molly, accogliendolo in casa. «Ancora non vuoi farcelo conoscere?»
        «Lui è― timido».
 
 

        Trovare l’occasione adeguata per mettere in tavola il nome di Malfoy si rivelava puntualmente ben più complesso di quanto non immaginasse. E ogni volta, persuaso anche dalla convinzione che, almeno di primo acchito, non sarebbe stato preso sul serio, sceglieva di rimandare un pochino.
        Un giorno, poi, alla dissoluzione dei suoi dilemmi ci pensò il caso: tutt’una serie d’improbabili circostanze si verificarono, e un brusco rimedio pose fine al suo titubare.
        Era riuscito a trascinare Draco nel centro della Londra babbana. Lì, s’erano fermati davanti alla vetrina d’un negozio d’abbigliamento; ridacchiando, s’era perso ad ascoltare l’interminabile lista di commenti negativi che l’altro, evidentemente scherzando, aveva cominciato a dedicare a quella che a suo dire era una moda da sempliciotti.
        «Troppe, troppe paillettes. Sul serio c’è gente che si veste così?»
        «Non immagini quanta». Gli cinse la vita con un braccio, sorridendo, e per qualche secondo ancora fu tutto perfetto. Poi, una voce che entrambi ben conoscevano li colse impreparati, e l’idillio andò in frantumi.
        «Harry
        Ron Weasley, accompagnato da un’accigliata Hermione Granger, li scrutava come se avesse davanti due mostri. In particolare, scrutava l’ex Serpeverde, e la mano del suo migliore amico sul suo fianco.
        «Ron» salutò Potter, agitato, dopo aver inutilmente cercato aiuto negli occhi sgranati della ragazza.
        «Lui è―?» continuò Weasley, esterrefatto.
        L’altro non rispose. Tuttavia, percependo Draco irrigidirsi oltre misura, lo strinse di più a sé come a volerlo calmare.
        Non capiva cosa ci facessero lì Ron e Hermione. A giudicare dal gran numero di buste che l’amico reggeva, forse s’erano concessi dello shopping, oppure stavano anticipando le compere natalizie. Non che fosse un dettaglio rilevante, in realtà.
        «Lui è― Malfoy» sillabò ancora il ragazzo, apparentemente indeciso tra il diventare più rosso dei propri capelli e lo sbiancare per lo shock.
        Draco, sentendosi addosso una rapida occhiata di Harry, strinse i denti e «Sì, sono io» confermò. «Noto con piacere che sei arguto come al solito, Weasley».
 
 

        Le parole non si sprecarono, in quella conversazione. Poi, però, una volta che Potter e Malfoy furono rientrati a Grimmauld Place, copiose imprecazioni e grugniti lagnosi riverberarono tra i muri.
        «Merlino. Mi terrà il muso per mesi. E c’ero così vicino― gliel’avrei detto! Dannazione, sapevo di doverlo fare prima, di doverlo fare subito! Invece, ho aspettato. E adesso― cazzo».
        «Smetti di borbottare, non serve a nulla».
        «Cosa dovrei fare? L’hai visto, stava per esplodere. A dir la verità, mi stupisce che non sia svenuto, o qualcosa del genere».
        Volendo esorcizzare la propria ansia e quella dell’altro, Draco fece l’impossibile per restare saldo. «Anche se non è svenuto, sono convinto che gli abbiamo comunque fatto perdere come minimo quindici anni di vita».
        «Questo è sicuro. Che casino».
        «Poteva andare peggio». Non era mai stato un tipo particolarmente positivo, ma gli venne naturale tentare d’esserlo. Per Harry. «Poteva, che so, comparire durante un bacio. Così sì che l’avremmo fatto svenire».
        Per alcuni istanti, Potter parve combattuto. Poi, chissà come, trovò la forza di metter su una microscopica smorfia divertita.
 
 

        «Ora che lo sanno― sarai il mio più uno ai pranzi alla Tana?»
        «Io… là dentro? Che Morgana me ne scampi». E pur dicendo così, si mostrò meno schifato del solito. Un dettaglio, quello, che di certo non passò inosservato.
 
 
* * *
 
 

        Il tempo, zigzagando tra piccoli scandali familiari e conseguenti scosse di assestamento, trascorse in sordina.
 
 

        «Stavo pensando― vorrei cercare una casa. Un’altra, insomma».
        Perplesso e preso a dir poco in contropiede, Draco inarcò un sopracciglio. «Per?»
        «Trasferirmi».
        Corrugò la fronte. «Cos’ha la tua attuale casa che non va?»
        «Uh― è grande, per dirne una; enorme per una persona sola. E non importa quante cose sposto e aggiungo, non smette di sembrarmi vuota».
        «Quindi il problema è che hai troppo spazio?» Gli dedicò un’occhiata scettica.
        «No. Cioè, non solo». Con aria concentrata, Harry rifletté brevemente a capo chino. «Dentro ci sono un sacco di ricordi. Del periodo della guerra, di persone… che non ci sono più. Mi fa piacere riviverli, a volte, ma―» sospirò «sono ingombranti, e convincerci quotidianamente sta diventando pesante».
        «Non― non me ne hai mai parlato. Perché?»
        «All’inizio credevo che col tempo la sensazione sarebbe passata. Poi, non so, non volevo che ti preoccupassi; in fondo non puoi farci niente».
        «Non trovi che sarebbe comunque stato più carino farmelo sapere, piuttosto che uscirtene all’improvviso con un voglio trasferirmi
        «Hm― hai ragione. Mi spiace».
 
 

        Molto probabilmente, fu anche per via di quel conflittuale primo approccio alla questione che Draco sviluppò un’avversione abbastanza palese alla faccenda della casa nuova. Detestò il perdere ore tra gli annunci immobiliari di Potter, il suo informarsi presso la banca e la tediosa collaborazione di Arthur Weasley; tutto ciò, sebbene capisse alla perfezione l’orrore che era il sentirsi soffocati dai ricordi imprigionati tra le mura domestiche.
        Il punto era che per lui Grimmauld Place era diventato un rifugio, un posto sicuro. Ci si era affezionato, senza contare che era la storica dimora della famiglia Black e lui era un Black per metà. L’idea di abbandonare la proprietà alla polvere lo metteva a disagio, e ancor di più lo turbava il non aver voce in capitolo – dopotutto, se Harry desiderava trasferirsi, era suo diritto farlo. Ed era anche la scelta più saggia, se lì stava male; egoisticamente, però, una parte di lui avrebbe voluto poterlo trattenere.
 
 

        «L’ho trovata: la casa giusta».
        Nel momento in cui Potter gli rivolse quelle parole, eccitato come un bambino e con una più che evidente soddisfazione dipinta sul volto, Malfoy proprio non se la sentì di stroncarlo. «Sono― felice per te» biascicò, e il sorriso che l’altro gli rivolse lo ripagò dello sforzo.
        «Vedrai, ti piacerà».
        Ma già dalle fotografie che poté vedere, Draco storse il naso.
        Si trattava d’una di quelle casette modeste, un po’ pacchiane, con un semplice giardino ed una microscopica veranda ad introdurre l’ingresso. Insomma, nulla di sensazionale all’esterno. E nemmeno all’interno, scoprì, perché le stanze erano poche e piccole, e qua e là spuntavano sospetti marchingegni babbani di cui non era affatto certo di conoscere (o di voler conoscere, per quel che poteva valere) l’impiego.
        Però― c’era Harry. Harry che andava fierissimo di quelle quattro mura, che faceva il possibile per renderle accoglienti. Harry che riutilizzava alcuni dei migliori mobili che Grimmauld Place poteva offrire per convincerlo che, nonostante le impressioni iniziali, quel posto sarebbe potuto diventare bello. Harry che prima ancora di trasferirsi definitivamente lo baciava sul letto nuovo, sul sofà ancora avvolto nella plastica e contro le pareti. Harry che, durante il trasloco, con impacciata tranquillità, proponeva: «Se ti va― quando capita, potresti lasciare qui un po’ delle tue cose. Sai, per aiutarmi a riempire i cassetti».
        Quella volta, il suo cuore incespicò per un attimo, lasciandolo insieme terrorizzato e compiaciuto. Inutile dire che bastò un battito di ciglia perché cominciasse, con un pizzico di perdonabile ritardo e un sogghigno insinuante sulle labbra, a cogliere anche lui le spaventosamente intriganti potenzialità dell’ambiente.
 
 
» …



 
Angolo di Tormenta

Vado fierissima della semplicità del titolo di questo capitolo. E: feels gratuiti per tutti, perché sì (?). …Comunque, mi auguro che l’atteggiamento di Draco nella Londra babbana sia abbastanza contestualizzato e, ovviamente, che il ritmo dello sviluppo del rapporto tra lui e Harry sia perlomeno buono, soprattutto per quel che riguarda le dosi di romanticismo. Non vorrei aver corso troppo.

È davvero un’enorme soddisfazione essere riuscita a portare questi due pasticcini sin qui, a partire da quel silenzio che li divideva nei primi capitoli. Vi ringrazio moltissimo per aver seguito le loro giravolte, e per aver lasciato che ve le raccontassi. c': Ci risentiamo presto per i saluti finali, con un breve epilogo. Baci,
T. ♪
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Capitolo 31
*** Epilogo ***


~
Epilogo
 
 
 
        Di vita mondana, Draco Malfoy non ne faceva tanta. Partecipava solo agli eventi più importanti e più in vista; quelli, insomma, a cui non avrebbe avuto modo di sottrarsi senza causare la nascita di scomode voci. Ciò equivaleva, circa, ad una o due uscite al mese.

        Era giusto appena rientrato da una serata di gala – rientrato non al maniero, ma a casa di Harry, perché onestamente era l’unico posto in cui avesse voglia di passare la notte.
        Piombato sulle note d’uno strappo nel corridoio buio e appesantito dalla stanchezza, ripose la bacchetta. L’assoluto silenzio che regnava tra le pareti gli diede motivo di presumere che Potter stesse già dormendo.
        Lungo il tragitto verso la camera da letto, con un gesto veloce, allentò il nodo della cravatta. Nel mentre, s’impose di scacciare i pensieri che lo stavano turbando; non ebbe molto successo, però.
        Entrò nella stanza furtivamente: venne accolto dal rilassante susseguirsi di respiri regolari, e poté immediatamente individuare un corpo familiare avvolto nelle coperte. Tentennò per un attimo, poi, coi denti affondati in una guancia, avanzò.
        Si fermò a metà strada tra il letto e la poltrona sulla quale ricordava di aver lasciato uno dei propri pigiami, come indeciso sul da farsi. Lanciò un’occhiata a Harry, poi, sbuffando, fece vagare lo sguardo nella semioscurità.
        Fatta eccezione per il torturarsi le dita con le unghie, restò immobile per un’indefinita quantità di tempo, prima che lo scomodo peso che gli gravava sulla cassa toracica avesse la meglio e guidasse i suoi passi verso il materasso.
        Rumoroso e sgraziato, si sedette sul copriletto, assicurandosi d’essere impossibile da ignorare. Il sibilante suono del lento respiro svanì, e fu presto rimpiazzato da un mugugno sommesso. Pochi istanti, e―
        «Draco?»
        Ecco. Svegliarlo di proposito era stato un po’ scortese, ma non si sentì in colpa – aveva bisogno di qualcuno. Di lui. Si voltò lentamente per guardarlo in viso, salutandolo con un mesto «Hm».
        «Ehi, uh― che ci fai qui?» mormorò con tono ingenuo Potter, la voce roca e impastata dal sonno e gli occhi strizzati.
        «Non mi vuoi?» scherzò.
        «No, io― non mi avevi detto che saresti venuto. Se― se l’avessi saputo, ti avrei aspettato sveglio».
        «La serata è finita presto, ma era comunque tardi per avvisarti» spiegò Malfoy, asciutto, godendo intanto delle approssimate carezze che l’altro, sfiorandogli con un palmo la schiena, gli stava regalando.
        «Capito. Com’è andata?»
        «Normale». Ma da come lo disse, fu chiaro che stava mentendo – e davvero non avrebbe saputo descrivere il motivo per cui scelse di rispondere a quel modo, considerato che in realtà desiderava follemente sfogarsi. Questione di abitudini da persona riservata, probabilmente.
        Per sua fortuna, comunque, per quanto rintronato, Harry s’insospettì. Storse il naso, deglutì e, rinnegando il sonno con un mugolio, raccolse le energie necessarie ad alzarsi a sedere. «Normale? Sicuro?»
        Solo quando si sentì pronto, Draco soffiò, rassegnato: «No».
        «Cos’è successo?»
        Un pesante sospiro fesse il silenzio, e Malfoy, punto dal fastidio, scattò in piedi. Voleva parlare, confidarsi, ma la sua lingua s’era inspiegabilmente fatta timida, perciò, per distrarsi, cominciò a liberarsi degli abiti eleganti: tolse la giacca e sfilò la cravatta, e poggiò entrambe sul letto, con molta meno cura del solito.
        Potter, investito da una forte curiosità mista ad una goccia di preoccupazione, allungò un braccio verso il comodino; pochi secondi, e la luce giallognola della lampadina dell’abatjour invase la camera, costringendo entrambi ad assottigliare le palpebre per un momento. Cercò gli occhiali a tastoni e li inforcò, soffermandosi poi, senza malizia, sulla figura di Draco che si svestiva. Lo vide trattare con sufficienza la camicia e scompigliarsi volontariamente i capelli, e tanto bastò a far crescere la stilla d’agitazione che già covava in petto.
        Si schiarì la voce e «Draco. Cos’è successo?» ripeté, con più serietà.
        «Nulla di veramente inaspettato».
        «Cioè?»
        Malfoy esitò, spostando gli abiti appena tolti sulla poltrona vicina e recuperando il pigiama. «Una ragazza» biascicò distrattamente prima d’affondare la testa nella maglia di cotone che avrebbe indossato per la notte, e riemergerne un secondo più tardi. «Astoria Greengrass – suppongo che tu non la conosca».
        «Ho vaghi ricordi. A Hogwarts― bionda, Serpeverde?»
        «Sì».
        «Okay. E, ehm, cosa c’entra? L’hai incontrata?»
        «Sì». Incrociò brevemente lo sguardo di Harry, e vi lesse dentro un incoraggiante Va’ avanti. «Abbiamo passato la serata insieme. Lei… non è male, in mezzo a quella gente».
        Forse (solo forse) Potter fu stuzzicato da una sottilissima gelosia, ma fece del proprio meglio per nasconderlo. «Se non è male, qual è il problema?»
        «Mia madre». Combattuto ed inquieto, Draco prese tempo togliendo di mezzo anche i pantaloni scuri abbinati alla giacca: li sostituì con quelli comodi del pigiama, dando le spalle al letto e a chi c’era seduto sopra. Si girò solo dopo aver racimolato un po’ di coraggio, e finalmente sputò il rospo: «Lei mi ha visto con Astoria. E indovina― mi ha suggerito di frequentarla, perché è un buon partito, è carina ed è così a modo». Mentre fronteggiava l’espressione indurita di Harry, un sogghigno amaro e disilluso gli si aprì sulle labbra. «Un consiglio simpatico, non trovi?» borbottò, tentando miseramente di trasformare tutto quello in una battuta, di ignorarne le titaniche implicazioni, e di esorcizzare il terrore che lo teneva in scacco.
        Potter parve cogliere l’entità del disastroso miscuglio di negatività che l’opprimeva. Non sapendo bene che dire, si limitò ad invitarlo con un cenno a sistemarglisi accanto. Spostatosi più in là sul materasso per fargli posto, aspettò che si accomodasse e poi, voltato per metà verso di lui, gli allacciò impacciatamente un braccio al busto. «Che significa?» bisbigliò contro la sua spalla, teso.
        Draco rifletté con la mascella serrata. «Non ne sono sicuro. Forse niente. O forse, sarà un casino».
        Per un po’, tacquero. Harry, pur restando imbronciato, si concesse di chiudere gli occhi. «Tua madre―» sussurrò d’un tratto, pensieroso «non le hai ancora detto di noi».
        «No. Ma―» quella semplice parolina, se ne accorse, provocò a Potter un minuscolo sussulto. «Sa che esisti».
        «Uh?» Perplesso, sollevò le ciglia e, aggrottando la fronte, chiese implicitamente più informazioni.
        «Non è stupida» asserì Malfoy con un velo d’orgoglio. «Passo come minimo quattro notti a settimana fuori casa; ti garantisco che sa perfettamente che c’è qualcuno».
        «E non ha mai nemmeno provato a chiedere chi
        Draco scosse la testa. «Per come la vedo io, sa che se la sto tenendo segreta, significa che la relazione che ho non è con un’esponente d’una famiglia d’alta società. Immagino che preferisca non sapere. Magari― spera che questo finisca al più presto, che io metta la testa a posto, o qualcosa del genere». Scosso, si morse la lingua e s’incupì.
        Il tormento che veniva macinato in quella spettinata testolina bionda era talmente fisico, talmente fuori controllo, che Harry avrebbe giurato di poter sentire il rumore dei pensieri ansiosi che correvano. «Non saltare alle conclusioni» proferì, sovrastato dal bisogno di calmarlo. «Può essere che sia solo un malinteso; forse ti ha detto quella cosa senza alcun doppio fine. Se le dicessi la verità, se confermassi che stai già con una persona, allora forse―»
        «Potter, il punto è che ci sono delle regole―»
        «Regole che tu non vuoi seguire».
        Roteando gli occhi, Malfoy soffiò con aria sdegnata, perché Certo che non le voglio seguire. Ma cosa conta quello che voglio io?
        «Credo che questo lei lo sappia». Si sporse per baciargli un angolo della bocca e poi, col sonno a stritolargli le tempie e a fargli pizzicare la vista, chinò il capo su di lui. «Niente panico, okay?» Lasciò nuovamente calare le palpebre, inspirando profondamente. «Non è niente d’irreparabile; non ha mica cercato di mettervi un anello al dito. Dormici su, vedrai che domani starai già meglio».
        Il consiglio era valido ed onesto; le notti, però, non avevano mai portato soluzioni ai problemi di Draco Malfoy. E quella non fu un’eccezione.
 
 

        Rimase disteso nell’oscurità ad inseguire inutilmente l’inganno del riposo, stretto in un mezzo abbraccio al quale s’aggrappò senza remore.
        Non aveva idea di come avrebbe gestito la faccenda, se Narcissa l’avesse posto davanti all’obbligo di render conto alla famiglia della sua vita. Così come aveva confidato a Harry, si aspettava che una cosa del genere sarebbe accaduta, prima o poi; erano Purosangue, c’erano facciate da mantenere e doveri a cui rispondere. Ma tra l’avere un presagio e lo sbattere il naso contro l’ombra del fatto compiuto c’era una considerevole differenza. E lui, in quell’ombra, era convinto d’esserci immerso, sebbene sua madre non avesse fatto che un solo, misero commento riguardante la più piccola delle sorelle Greengrass.
        Era davvero bastato tanto poco, a condannarlo? Beh, . A priori infatti dal fatto che si trattasse dell’affabile Astoria, col suo sorriso caldo che sapeva scacciare ogni disagio, o di una qualsiasi altra persona col cognome giusto, non voleva nemmeno pensare di doverci avere a che fare. Non in quel senso – era già a posto, tante grazie, perché per quanto potesse sembrare pazzesco, lui e Potter funzionavano. E gli risultava spontaneo e sperare che avrebbero continuato a farlo – continuato a lungo.
        La sola idea che le alte sfere detenessero il potere di togliergli tutto, di togliergli quello, l’atterriva.
        Ma non l’hanno fatto. Non ancora. Tecnicamente, era salvo. Eppure la paura, nutrendosi di se stessa, non l’abbandonava, perché Potrebbero farlo in qualsiasi momento. Era come maneggiare una bomba che poteva esplodere senza preavviso; una bomba che non aveva modo di disinnescare.
 
 

        Era ancora buio pesto, quando finalmente, esausto ed afflitto, crollò in un sonno denso e privo di sogni.
 
 
* * *
 
 

        Harry era impegnato a versare del caffè in una tazza, quando fu sorpreso da passi leggeri e dallo stridere d’una sedia spostata. Voltandosi, poté notare che Draco, con gli occhi sottolineati dalle impronte d’una notte agitata, era entrato in cucina e s’era accomodato al tavolo.
        «Buongiorno» fece, e una nota di stupore riverberò nel suo tono; era raro, infatti, che Malfoy s’alzasse tanto presto, considerato che poteva tranquillamente restare sotto le coperte sin quando lui non usciva di casa. «Come mai già in piedi? Dormito male?»
        Draco annuì, lo sguardo fisso sul piatto su cui Potter s’era servito del toast preparato per la colazione; senza chiedere il permesso, ne rubò una fetta e l’addentò.
        «Ne preparo anche per te?»
        Di nuovo, assentì senza fiatare, incurvando la schiena e poggiando stancamente la testa su una mano.
        «Vuoi anche del caffè?»
        «Tanto».
        Senza alcuna esitazione, gli porse la tazza che aveva appena riempito per sé, per poi procurargli anche un altro piatto, un bicchiere e delle posate. «Sei― ehm, sei ancora preoccupato per la storia di ieri sera?» chiese, il più delicatamente possibile.
        «Sì».
        Sia per gentilezza, sia per sollevargli il morale, recuperò nella dispensa la marmellata d’arance – quella che più gli piaceva – e gliela offrì, così che potesse mangiarla insieme al pane tostato.
        «Grazie».
        «Prego».
        Servendosi caffè in una seconda tazza ed occupandosi della preparazione di altro toast, non smise di scoccargli occhiate fugaci; avrebbe voluto potergli essere più d’aiuto, dir qualcosa di ragionato e di carino che potesse lavargli via dal viso quel brutto broncio affranto.
        All’ennesimo sguardo, lo colse mentre, in un gesto languido ed apparentemente distratto, con la lingua ripuliva il coltello con cui aveva spalmato la marmellata. E le parole, semplicemente, frivole ed incuranti d’esserlo, gli scivolarono fuori dalla bocca: «Sai di essere indecente, vero?»
        Subito, Draco cercò i suoi occhi: per un istante restò impassibile, poi, però, s’aprì in un naturale piccolo sorrisino divertito. «Come sei sensibile» sibilò compiaciuto prima di leccare nuovamente la lama, quella volta in maniera volutamente maliziosa.
        Harry, servito a tavola il pane ormai pronto, gli si accomodò di fronte ridendo pacatamente. «Servivano le allusioni al sesso per farti sorridere. Ad averlo saputo prima―» mugugnò, completando la frase con un sommesso «Hm» accompagnato da un insinuante scatto verso l’alto delle sopracciglia.
        «Il sesso è un’arma potente. Ma non basta».
        «Aiuta, però».
        Non potendo negare, Malfoy fece mestamente spallucce ed esibì ciò che restava della propria smorfia allegra.
        Sorseggiando caffè, Potter tornò gradualmente serio. «Ehm, se― se posso fare qualcosa per te―»
        «Non credo ci sia qualcosa che puoi― possiamo fare. A parte sperare che non succeda, beh, quello che potrebbe succedere». Sospirò e, col capo abbassato, s’avventò su un altro boccone di pane e marmellata.
        Harry, non potendo contenere il disprezzo per un tale vittimismo, sbuffò. «Ci sono cose che potremmo fare» lo contraddisse impulsivamente, «se pensi che la tua famiglia voglia― mettersi in mezzo, ecco».
        «Tipo, cosa?»
        Tentennò, lo sguardo vagante. Poi, con voluta esagerazione, buttò lì: «Possiamo far scoppiare uno scandalo».
        «Uh?»
        «Dirlo a tutti – dire di noi. Lasciare che lo scoprano». Sarebbe stato folle, il suo lato razionale lo riconosceva. Al lato istintivo, però, della follia importava ben poco. «Ho capito che per te sarebbe difficile, e che non sono il compagno― canonico, ma ho un nome e me ne sto a qua a dirti che ti amo e ehm, questo deve― deve contare qualcosa anche per loro. No?»
        Travolto dalla proposta, Draco sgranò appena gli occhi e prese ad osservare attentamente il volto dell’altro, che s’era fatto di colpo più vivace per via dell’ombra del me ne sto qua a dirti che ti amo che ancora gli campeggiava sulle labbra.
        Non era la prima volta che quello saltava fuori. Era già capitato, per lo più tra le lenzuola, che tra loro aleggiassero bisbigliate dichiarazioni, insieme coi più velati (ma non troppo) ti prego amore non fermarti – ma per l’appunto era raro che indugiassero in confessioni del genere mentre discutevano di tutt’altro. E quand’accadeva, per entrambi era come essere percorsi da una lieve scarica elettrica.
        Per questo, non ebbe modo di reprime l’inarcarsi degli angoli della bocca; e fu così, con un’espressione stupidamente lieta stampata sulla faccia, che si ritrovò a mettere a fuoco, pazzamente, che il piano di Potter, pur non essendo che un concentrato d’irruenza, non era poi tanto fallato. Non lo disse ad alta voce, però, quasi avesse paura di ammettere che magari, al momento giusto, avrebbe anche potuto accettare la proposta e fare un salto nel vuoto con lui. L’ennesimo.
        Un vago senso di vertigine lo colse: avvertì il bisogno di parlare, come se tanto bastasse a scacciarlo. Borbottò, quindi, animato da un’improvvisa energia: «Dovresti dire più spesso che sei cotto di me. Insomma, puoi farlo».
        Harry lasciò che una disorientata sorpresa gli modellasse il viso. «Sì― uh, beh, grazie per il permesso. Ne terrò conto».
        «Nessuno può biasimarti. Cioè, guardami».
        «Oh, già― sei uno splendore». E malgrado i pestoni e l’aria stanca, non sentì d’aver mentito. In ogni caso, sorrise, perché anche se non avevano affatto analizzato la sua idea, a quanto pareva era comunque riuscito a ridare un po’ di vita a Draco, e tanto gli bastava.
 
 

        Spazzolata la colazione, mentre il padrone di casa si preparava per uscire, Malfoy si concesse una doccia calda. L’acqua, delicatamente, lavò via gran parte dell’ansia che s’era incrostata sulla sua pelle, e che aveva cominciato ad allentare la presa solo grazie alle chiacchiere di poco prima.
        Uno spettro d’angoscia sarebbe sempre rimasto in lui, lo sapeva. Ma c’erano tante cose per cui valeva la pena di sopportare quel peso; ad esempio, tutte le piccole certezze quotidiane di cui il suo animo si nutriva avidamente, come il fatto che nella dispensa di Potter non mancasse mai la marmellata d’arance. Da quei piccoli dettagli avrebbe potuto trarre conforto e forza, se mai avesse dovuto affrontare i propri incubi. Nel frattempo, si disse, tanto valeva imparare a convivere col velo di timore e godersi il viaggio.
 
 

        Aveva ancora i capelli umidi ed era mezzo svestito, quando Harry lo raggiunse in stanza.
        «Io vado, o farò tardi. A stasera―?» soffiò, col tono di chi aspetta una conferma.
        Draco gli accordò un mezzo bacio, per poi metter su un modesto ghigno. «A stasera».
 
 

   
Fine







 
Angolo di Tormenta

Se non avessi almeno accennato ad uno scontro con la famiglia e con la società, mi sarebbe sembrato di lasciare il personaggio di Draco incompleto. Quello del matrimonio combinato, però, è un tema che ho già trattato più approfonditamente altrove e, non potendo sopportare l’idea di ripetermi, ho optato per un dramma molto all’acqua di rose e per un finale che voleva essere “delicato”, teoricamente in linea con l’atmosfera degli ultimi capitoli.
Spero davvero che, per quanto stringato, quest’epilogo possa avervi lasciato un buon retrogusto, perché è così che vi saluto. Per l’ennesima volta, grazie per aver letto e per aver seguito il racconto in questi mesi. ♥ Mi auguro possiate esservi divertiti almeno la metà di quanto mi sono divertita io scrivendo. c':
Alla prossima storia! Baci,
T. ♪
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Questa storia fa ora parte della serie Fuori fuoco, in cui sono inclusi altri racconti ad essa legati.

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