La storia inversa: fiori d'arancio e improbabili complicazioni

di smarsties
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Domenica ***
Capitolo 2: *** Lunedì ***
Capitolo 3: *** Martedì ***
Capitolo 4: *** Mercoledì ***
Capitolo 5: *** Giovedì ***
Capitolo 6: *** Venerdì ***
Capitolo 7: *** Sabato ***



Capitolo 1
*** Domenica ***


Ai miei tre anni sul sito. Grazie per il vostro continuo supporto, vi voglio bene.

 

 

 

 

La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 

 

 

Domenica«

 

Toronto, Ontario, Canada.
13 luglio, ore otto e trentotto di sera.

Per narrarvi questa storia al meglio, è necessario cominciare dal principio.
Come un’intrigante avventura iniziò. E per intrigante, intendo divertente ed esilarante. Per voi che leggete, ovvio.
Tutto cominciò in un salotto, quello di John.
La persona sopracitata era, come suo solito, seduta sul divano sgraziatamente mangiando un trancio di pizza fumante quattro stagioni. Nel frattempo guardava distrattamente una partita di basket in televisione.
Erano anni che, ormai, andava avanti così:
era rimasto a lavorare al bar, con la sua solita frequenza “un giorno sì, venti no”, per ancora qualche mesetto - dopo la fine delle vicende. Poi, dopo un incidente con la macchinetta del caffè, Daniel si è visto costretto a licenziarlo seduta stante - aveva un sorriso smagliate, in quel momento: finalmente si sarebbe liberato di quello scansafatiche per un motivo valido. Da allora, passò le sue giornate a poltrire, rompere le scatole a - quel poveraccio di - Duncan per puro divertimento e a pellegrinare da un impiego all’altro, col disperato intento di racimolare qualcosa - con scarso risultato.
Quindi quella era un’altra delle molteplici giornate passate nell’ozio più completo, l’ennesimo turno di lavoro saltato. Una domenica coi fiocchi, oserebbe dire. O, più precisamente, era stata una domenica coi fiocchi sino al momento in cui suonarono alla porta. E questa causa comprendeva l’effetto di doversi alzare dal divano per andare ad aprire.

Chi è il mentecatto che viene a suonarmi alla porta in un’ordinaria domenica sera? Spero almeno abbia una buona ragione per disturbarmi.
Aprì la porta con uno sbuffo. Si trattava del proprietario del palazzo in cui abitava, affiancato da due suoi impiegati, che tenevano in braccio delle grosse scatole di cartone.
Questi ultimi lo superarono senza nemmeno guardarlo in faccia e cominciarono, per qualche assurdo motivo, a riempire gli scatoloni che si erano portati con tutti i suoi beni personali.
«Signor Collins!» esclamò, con un sorriso falsamente mascherato, in direzione dell’uomo minuto e tutto vestito perbene. «Prego, si accomodi. Vuole qualcosa? Un caffè, da mangiare? E, soprattutto, cosa stanno facendo quei due con la mia roba?»
Il suo indice sinistro indicò quelli, che continuavano ad infilare oggetti nelle scatole, fino a riempirle del tutto e chiuderle con dello scotch spesso.
«Ehi tu, attento con quella cornice! E tu, invece, lascia stare il mio orsacchiotto di peluche! E no, non è affatto strano che un uomo abbia ancora i peluche della sua infanzia!» Urlava loro di mollare quella roba, per lui, molto importante. I due si fermavano; poi, in seguito ad un cenno della mano del loro capo, continuavano a fare il loro lavoro ignorandolo completamente.
Prima che potesse sbraitare qualcosa sugl’ipoacusici e l’importanza di curarsi l’udito - non che a lui, quelle cose, interessassero sul serio -, Collins prese la parola: «Già. Immaginavo che lei non leggesse la posta, signorino Gray» si limitò a dire, sospirando e ripensando a tutti i suoi arretrati - che, poi, era proprio quello il motivo per cui si trovava lì.
John aveva il dannato vizio di bruciare - e dico in senso letterale: accendeva il camino e ci buttava le lettere da lui ritenute inutili - tutto ciò riguardante “bollette” e “pagamenti”, essendo, appunto, un gran menefreghista.
Assunse un’espressione perplessa. Cosa c’entrava la posta con quella visita inaspettata?
«Mi scusi, ma, davvero, non capisco» mormorò confuso.
«Se avesse aperto la busta rossa che le ho invitato tre giorni fa, saprebbe benissimo che, entro quarantotto ore dall’arrivo della lettera, avrebbe dovuto sgomberare  l’appartamento»
Aggrottò le sopracciglia. Non ci arrivava!
«È indietro di un anno con l’affitto e il contratto che ha firmato prima di venire ad abitare qui diceva chiaramente che, in caso di mancato pagamento di dodici o più mesi, si viene sfrattati. Ebbene, è quello che è appena successo a lei: la sto cacciando di casa»
Rimase attonito e quasi non si rese conto che i due operai avevano caricato sulle sue braccia il peso di ben tre scatoloni.
«Ma, io…» cercò di protestare, prima che potessero spingerlo con forza sino fuori dal cancello del palazzo.
Sentì il portone di ferraglia sbattere alle sue spalle e dei passi allontanarsi verso l’interno.
Era la terza volta nel giro di tre anni che veniva sfrattato, ormai ci stava facendo l’abitudine. Il problema era sostanzialmente un altro: i suoi non l’avrebbero mai e poi mai fatto tornare l’ennesima volta a casa.
Erano stati piuttosto chiari con l’ultima ramanzina: “Una volta va bene, due pure… ma alla terza, puoi scordarti di avere una famiglia!
Inoltre, dal momento che in tasca aveva a malapena i soldi per affittare un motel di periferia per due notti, la sua unica speranza era appoggiarsi su qualcuno per qualche tempo. Quello necessario per mettere da parte dei risparmi per affittare un appartamento… cioè, per l’eternità.
Afferrò il cellulare dalla tasca, per cercare una soluzione. O meglio, per cercare un poveraccio tra i suoi amici e parenti che potesse ospitarlo per un paio di mesi.
Dopo una lista infinita di nomi compresi tra la A e la C - la maggior parte di questi li detestava, l’altra parte comprendeva parecchi dei parenti serpenti e una ancora più piccola si trattava di compagni del liceo che non rivedeva da secoli -, quasi esultò, leggendo quel nome. Insomma, proprio la persona che faceva a caso suo.

Courtney.
Ci pensò sedici, forse diciassette volte, prima di premere il tasto di avvio della chiamata.
«Pronto?» Uno sbuffò non attardò ad arrivare dall’altro capo.
«Ehi, sono John. Senti, mi chiedevo se…»
«No» Lo interruppe.
«Ma se nemmeno ti ho esposto ciò di cui ho bisogno!» replicò. «Non essermi così tanto diffidente!
«
«
Diffidente?!» domandò come indignata. «L’ultima volta che mi hai chiesto un favore, sono rimasta sotto la pioggia battente, alla fermata dell’autobus, ad aspettare non si sa cosa, mentre tu te ne stavi beatamente nel suo appartamento».
Ricordava quel giorno. Quello che aveva mangiato quel pomeriggio, era forse il migliore hot-dog di sempre.
«Ecco, il problema è proprio casa mia… o dovrei forse dire la mia ex casa». Non sapeva come aveva trovato le parole giuste. Le aveva dette, e basta. E, forse, non erano proprio quelle giuste. «Mi hanno sfrattato e ora mi servirebbe un appoggio momentaneo. Ti giuro, un mese e sto fuori dai piedi».

Come no.
«Il tuo “appoggio momentaneo”», già se la immaginava mimare le virgolette con le dita della mano libera, «va dai sei mesi ai cinque anni. Scordatelo!»
Stava per riattaccare, quando…
«Aspetta!» esclamò il ragazzo. «Non è che potresti darmi l’indirizzo di un albergo, di un bed & breakfast…»
«Oh, ti darò di meglio!» esclamò maliziosa. Era ovvio che meditava vendetta contro qualcuno. «Stanford Avenue, numero 58B, decimo piano. La porta è quella di fronte all’ascensore».
«Grazie, sei un’amica!» E, finalmente, riattaccò.
Già, provate ad immaginare la felicità del proprietario di casa non appena si ritroverà John davanti. E provate ad immaginare chi sarà il proprietario di casa.

 

• • •

 

Ore ventuno e ventisette.
Chiuse la chiamate e, con uno sbuffo, tornò a chinarsi sul suo computer portatile, picchiettando rumorosamente sulla tastiera mentre decine di fogli di Word continuavano velocemente a riempirsi.
Stava preparando un paio di documenti per un imminente processo che si sarebbe tenuto di lì a un paio di giorni. Certo, c’era ancora parecchio tempo, ma Courtney era quel tipo di lavoratrice che - come penso ormai abbiate capito - si portava sempre avanti nei suoi impieghi.
Questo aveva sì i suoi aspetti positivi, ma anche quelli negativi.
Ultimamente, essendo una delle avvocatesse più gettonate, non aveva mai avuto un secondo di pace. Viveva ormai nel suo ufficio nel centro di Toronto ventiquattro ore al giorno e, anche quando era a casa, aveva sempre qualche incarico da completare con la massima urgenza. In pratica, era schiava del suo stesso mestiere.
La sua vita sociale si era praticamente annullata nel giro di qualche mese e ciò non era sfuggito a Duncan, che pensava che riempirsi di lavoro fosse la sua ultima innovazione per evitarlo. Sì, esatto: suo malgrado, continuavano a frequentarsi.
A distanza di ormai sei anni,
ancora si era deciso ad arrendersi. E, ahimè, credo che mai lo farà.
Si era persino trovato un lavoro vicino alla sua sede lavorativa, pur di tormentarla in eterno. Era stato assunto in un’officina a pochi metri dal suo ufficio da circa un anno.

Nonostante tutto, erano due settimane che non lo vedeva, né lui aveva dato segno di vita. Non l’aveva tempestata di chiamate, né aveva fatto irruzione nello studio in modi irruenti e poco garbati. Temeva il peggio. O forse aveva imparato a non disturbarla mentre lavorava.
Sbadigliando, si alzò di scatto dalla scrivania e s’incamminò lungo il corridoio. Non ne poteva più, necessitava di una lunga pausa.
La cucina, quella sera, le sembrava un posto dannatamente macabro e privo di qualsivoglia rumore. Nemmeno i passi sul pavimento freddo riecheggiavano.
Alle volte, pensava, quell’appartamento pareva immenso per una sola persona.
Courtney mise a preparare una caraffa di tè a fuoco lento sul piano cottura; intanto si sedette al tavolino della cucina.
Soltanto allora si accorse che un mucchio di lettere giaceva al centro di questo. Era la posta che le era stata recapitata il giorno prima e che si era ripromessa di aprire una volta tornata a casa, di sera.
Dopo aver scartato tutte le varie bollette, fu colpita da una busta candida chiusa con un sigillo di ceralacca rossa. La aprì e cacciò fuori la lettera.
Lesse rapidamente le righe, scritte in un impeccabile corsivo… e rimase scioccata dal contenuto.
 

 

Trent McCord & Gwendolyn Fahlenbock
Sono lieti di annunciare le loro nozze
il 19 luglio, nella cattedrale di Vancouver.

 

 
La prima cosa che riuscì a realizzare fu: «Il diciannove luglio?! E me lo dicono solo adesso?!»
Infuriata, si alzò di scatto dalla sedia e si mise a frugare in ogni angolo dell’appartamento alla ricerca del suo fidato palmare, che, stranamente, finiva per smarrirsi negli angoli più assurdi ed impensabili. Quella volta, difatti, lo trovò in salotto, dietro il televisore.
Si mise a scorrere la rubrica fino alla lettera G, fino al nome della sua migliore amica. Esatto, lei e Gwen erano tornate ad essere grandi amiche. Dopo che la seconda aveva rotto con Duncan, si era presentata seduta stante al bar - vi aveva continuato a lavorare per un altro mese, prima di cominciare il college e intraprendere il suo sogno, quello di divenire un avvocato - e, con gli occhi lucidi, le aveva chiesto scusa meglio che poteva. Inutile dire che non riuscì a resisterle e, mezzo secondo dopo, si stavano abbracciando.
Ricordava bene quando le aveva comunicato che si sarebbe trasferita a Vancouver. Il giorno della sua partenza, sebbene si fosse psicologicamente preparata, aveva fatto una scenata assurda in aeroporto, pregandola di non andare via.
Una volta che trovò il nome, avviò la chiamata senza pensarci due volte. Tre squilli dopo, una voce familiare le invase le orecchie: «Pronto?»
Ma non poté aggiungere altro perché Courtney aveva già cominciato a urlare: «Ti rendi conto che hai intenzione di sposarti  e non hai detto niente a me, che sono la tua migliore amica? Quando avevi intenzione di riferirmelo, dopo aver dato alla luce tre bambini? E ti rendo conto che il matrimonio è tra sette giorni e che l’invito è arrivato ieri? E ti rendi conto-»
«Ehi, calma» la interruppe Gwen, prima che potesse aggiungere altro. «Sono ancora a lavoro e qui tutti mi guardano storto».
Si era laureata in architettura, materia che l’aveva sempre affascinata sin da bambina, e adesso lavorava in un importante studio di Vancouver.
«Innanzitutto, ho cercato di dirtelo tante volte, ma tu mi hai sempre interrotta con i tuoi problemi e con le tue lamentele. Devi sapere che sei… ehm, intrattabile, dopo un’estenuante giornata di lavoro».
Ci fu un attimo di silenzio.
Non era la prima volta che qualcuno le diceva che con lei non si poteva parlare, una volta tornata dal tribunale. Duncan, addirittura, glielo ricordava tre volte al giorno come minimo.
«Poi,» riprese, «mi dispiace tanto per l’invito, ma c’è stato un problema con la spedizione e alcune lettere sono arrivate estremamente in ritardo, specie quelle - come la tua - dirette a Toronto».
La bruna fece un respiro profondo: «Scusa se ti ho aggredita in quel modo. Ci tenevo soltanto ad essere la prima cui avresti dato questa meravigliosa notizia».
Okay, potrete pensare che Courtney sia impazzita per scusarsi di spontanea volontà. Eppure, davanti a Gwen, le veniva naturale gettare la maschera dell’acida scorbutica per un po’ e mostrare il lato più “umano”.
«Lo capisco» la giustificò «Anch’io vorrei essere la prima persona cui annuncerai del tuo matrimonio».
«Be’, me ne ricorderò in futuro» ridacchiò.
E poi si lanciarono in una fitta, fittissima conversazione, quasi infinita.

 

• • •

 

Ore ventidue e undici.
John guidava come un pazzo nelle strade piuttosto tranquille della periferia di Toronto. Nel frattempo, imprecava in turco contro il navigatore satellitare che, per sei volte, gli aveva fatto percorrere il tragitto più lungo.
Forse dovrei ricomprarmene uno nuovo, questo è completamente fuso.
«Arrivo fra cinquecento metri» annunciò la voce metallica del navigatore.
Sperò con tutto se stesso che, quella volta, aveva indovinato; altrimenti, tra cinquecento metri, quell’affare avrebbe fatto un volo di sola andata fuori dalla macchina.
Con sua grande felicità, notò all’inizio di un viale un cartello scarsamente illuminato che recitava “Stanford Avenue” e trovare l’appartamento 58B non fu affatto complicato.
Parcheggiato, s’infilò nel portone socchiuso con tutti i bagagli e poi dentro l’ascensore, adocchiando il pulsante con numero dieci. Qualche istante dopo, le porte si riaprirono, mostrando una grande porta nera. Dall’altro lato arrivava una musica fastidiosa sparata a volume eccessivo.
Non gli restava altro che suonare e conoscere il suo nuovo coinquilino.
Ma una volta che la porta si aprì, il sorriso cordiale dipinto sulla sua faccia e il bel discorsetto che si era preparato andarono in fumo.
«Allora, cosa vuole questa-»
Sul volto del proprietario di casa comparve una smorfia.
«Cosa ci fai qui?!»
Penso abbiate capito da chi Courtney lo abbia condotto. Esattamente, parlo proprio di Duncan.
«E come mai hai quelle valige con te?» chiese, visibilmente preoccupato, passandosi una mano tra i capelli scompigliati completamente neri.
Aveva, difatti, deciso di eliminare la sua amata cresta qualche anno prima, spinto da una ventata di maturità improvvisa, assieme a qualche piercing - rimanevano soltanto quello sul naso e un orecchino sul lobo sinistro.
«Un anonimo benefattore mi ha consigliato di venire a domandare alloggio in questo appartamento, quindi ora mi lasci entrare, senza se e senza ma».
Egli, che evidentemente aveva capito chi fosse l’anonimo benefattore e che stava escogitando vendetta contro quello, si preparò a ribattere… ma troppo tardi.
John lo aveva superato ed era entrato in casa, dove si ritrovò davanti lo scenario più confusionario che avesse mai visto dai tempi del liceo: cartoni di piazza e bottiglie di birra gettate al suolo, mobili rovesciati e devastati e un gruppo di persone che ballavano a ritmo di qualche canzone heavy-metal di pessimo gusto.
Aveva pur sempre una laurea in meccanica - era stata Courtney a spingerlo affinché riprendesse gli studi, dopo aver riposato sugli allori per circa due anni; nel giro di un annetto e mezzo, era riuscito a laurearsi sempre con l’aiuto di quest’ultima - e un lavoro redditizio, ma le buone e vecchie abitudini non muoiono mai.
«Ehi amico, chi è questo essere?»  chiese un tipo che si era accorto della presenza di John.
«Nessuno» ringhiò Duncan in direzione del bruno, come se quel gesto stesse a significare che dovesse sparire dalla circolazione entro pochissimi secondi.
«Be’, visto che ora sono qui,» disse John, fulminando il suo coinquilino con lo sguardo, «perché non movimentiamo un po’ la festa?»
Il moro non osava chiedere quale fosse la sua idea, poiché sapeva che non le sarebbe piaciuta affatto.

Dai, magari ti sbagli, lo cercò di convincere una vocina nella sua testa - che aveva imparato ad identificare come la sua coscienza. Sì, la sua coscienza parlava. Magari ha davvero un’idea geniale per rendere la serata ancora più memorabile.
Ma l’affermazione dell’altro andò ben oltre le poche aspettative che nutriva.
«Che ne dite del gioco della bottiglia
Ogni speranza andò a farsi benedire nel giro di tre secondi e la sua coscienza si zittì di colpo.
«Sei serio?» chiese una voce indefinita.
Ma John già aveva recuperato una bottiglia e si era seduto per terra, facendo cenno di imitarlo. Cosa che, molto svogliatamente, fecero.
«Siccome l’idea è stata mia, io deciderò la prima penitenza».
Nessuno osò contestare. Prima quello strazio cominciava, prima finiva.
Così fece roteare la bottiglia e il suo collo, dopo alcuni vorticosi giri, si fermò puntando verso…
«Duncan!» esclamò con un sorrisetto, trattenendo più che poteva le risate.
Lui, tirando giù qualche Santo dal cielo, prese un respiro profondo: «Sentiamo: cos’hai in mente?»
Si sfregò le mani soddisfatto e, dopo averci pensato un po’ su, rispose: «Dovrai ascoltare Nyan Cat. Per dieci ore. Se non lo farai, io entrerò in possesso della tua camera».
Cercò di fare mente locale, per ricordare dove avesse già sentito quel nome. E poi, sotterrato nei meandri della memoria, eccolo.
Era stato Geoff a parlargliene, un paio di anni prima. In pratica si trattava di una musichetta veramente idiota ed indecifrabile accompagnata dal video di una specie di gatto-biscotto che sparava da dietro arcobaleni.
«Spero tu stia scherzando» fu l’unica cosa che riuscì a sillabare, sbiancando di colpo.
Quella volta era riuscito a resistere per sì e no due minuti - poi, si era precipitato a spegnere il computer per la sua sanità mentale -, figurati resistere per dieci lunghe ore!
«Scusa, dovresti cambiare penitenza» disse un tipo biondo, alzando la mano per farsi notare «Non possiamo aspettare che Duncan crolli, prima di continuare il gioco».

O potremmo proprio cambiare gioco, disse la coscienza del moro. Non sarebbe male, dopotutto.
«Allora, eclissatevi!» esclamò il bruno «Continueremo il gioco un’altra volta».
E prima che qualcuno potesse aprire bocca per ribattere, li trascinò tutti fuori dall’appartamento, sbattendo la porta rumorosamente.
«Spero tu sia felice, hai appena mandato all’aria la festa» disse Duncan senza nascondere un pizzico di rabbia.
«Ti ricordo che tu devi ancora scontare la tua “punizione”» cambiò discorso l’altro.
«Nemmeno se mi paghi!» rispose con indignazione.
Ma John si era già avvicinato al computer dell’altro, appoggiato al tavolo della cucina, lo aveva accesso e, qualche attimo dopo, si era lanciato alla frenetica ricerca del video desiderato.
Qualche attimo dopo si diffuse per la stanza una musica patetica, infantile e soprattutto fastidiosa. Una di quelle melodie che ti fanno venire un mal di testa allucinante e la voglia di prendere la prima cosa che capiti sotto tiro e schiantarla contro il muro.
Senza pensarci due volte, Duncan gli strappò di mano il computer e lo spense di colpo, mentre gli si formò una ruga fra le sopracciglia. Non poteva sopportarlo.
«Tu sei pazzo» bofonchiò, senza degnarlo di uno sguardo.
«Può essere, ma siccome non hai superato la prova…»
Lasciò la frase in sospeso e, prima che chiunque potesse accorgersene, aveva recuperato i bagagli e aveva spiccato una corsa disperata verso la camera da letto, con il coinquilino alle calcagna, che cercò di buttarsi addosso a lui per fermarlo. E mentre il primo diede una botta violenta contro il pavimento, il secondo riuscì a buttarvisi all’interno e, con insistenza, a sigillare sotto chiave la porta.
«Apri questa dannata porta, altrimenti ti giuro che la butto giù!
» urlò il moro dall’altra parte, cominciando a tirare pugni dall’altro lato.
Ma le sue imprecazioni furono vane, poiché bellamente ignorate da John, che nel frattempo aveva già colonizzato la stanza.

 

• • •

 

Ore ventitré e quattro.
«Ecco fatto!»
Courtney, pienamente soddisfatta del lavoro svolto, chiuse con un leggero tonfo il portatile sulla sua scrivania.
Evidentemente la tazza di tè che si era concessa e la piacevole chiacchierata con Gwen l’avevano visibilmente rilassata.

Gwen. E chi se l’aspettava che, da un giorno all’altro, avrebbe preso l’importante decisione di metter su famiglia con Trent?
Non poteva che esserne felice. Insomma, non capita mica tutti i giorni che la propria migliore amica si sposi!
Inoltre, durante la conversazione, si era lasciata sfuggire anche un piccolissimo dettaglio, che avrebbe dovuto essere una gradita sorpresa: sarebbe stata la sua testimone. Era stato uno dei momenti migliori della sua vita, probabilmente.
Alle volte le sembrava strano, pensare che erano ormai quattro anni che era andata a vivere a Vancouver. Sembrava ieri quando l’aveva abbracciata più forte che poteva in aeroporto, inchiodandola a terra e impedendole di prendere il volo, fino a quando una hostess l’aveva dovuta spingere fuori.
Tante volte si ritrovava a fare il percorso verso l’appartamento dove aveva abitato - inizialmente da sola; poi, dopo essersi chiariti, con Trent - per un po’, per poi ricordarsi che lei non era più lì, ma a migliaia di chilometri di distanza.
Sebbene si organizzassero e si vedessero molto spesso, non riusciva ancora a realizzare di non averla più accanto. Le mancava terribilmente.

E ora si sposava.
Già, ne era passato di tempo, da quando avevano fatto pace, in quel vecchio bar.
Aveva un disperato bisogno di dormire. Dopo aver lavorato ininterrottamente per ore, la stanchezza cominciava a farsi sentire. Inoltre, era solita anche lavorare di notte, quando non terminava una pratica o essa era estremamente lunga, perciò le ore di veglia erano molto spesso maggiori rispetto a quelle di sonno.
Stava già iniziando a mettersi sotto le coperte, quando il palmare, poggiato sopra il comodino, cominciò a squillare ininterrottamente. Chiedendosi chi potesse chiamare a quell’ora così assurda, sbloccò la chiamata e si portò il cellulare all’orecchio.
«Pronto?» chiese sbuffando.
«È questo il modo di salutare un vecchio amico che non si fa sentire da un pezzo?» rispose il suo interlocutore, avente una voce molto familiare. «Mi aspettavo quantomeno un’accoglienza calorosa»
Sospirò: «Senti non ho tempo da perdere con i tuoi giochetti idioti, Duncan. Dimmi subito cosa vuoi e facciamola finita».
«Come siamo acidi, oggi!»
E a quel punto non poté evitare di ridacchiare, anche se cercò di mascherarlo al meglio. Non l’avrebbe mai ammesso ma, dopo tutto, parlare con lui le faceva veramente bene. Era capace di strapparle una risata anche se era stressata o triste.
«Ad ogni modo, John ha deciso di trasferirsi qui da me e ha preso possesso della mia camera; adesso sono fuori, lungo il corridoio, seduto per terra, con la schiena poggiata al muro e, mentre ti sto parlando, sto escogitando un modo per fartela pagare. Perché sì, lo so che sei stata tu a mandarmelo qui. Per esempio, che ne dici se venissi sotto il tuo ufficio e ti cantassi una serenata? Ho già in mente un bel po’ di versi».
«Non osare nemmeno pensarci, ti denuncio per molestie» rispose, con tono falsamente isterico. «E questa è la mia personale vendetta per avermi infastidito tutti i giorni, da circa sei anni a questa parte. Te lo sei meritato».
«Sì, sono una persona ignobile, lo ammetto» disse, roteando gli occhi. «Come seconda cosa, volevo solo darti la buonanotte. Potrebbe diventare una specie di rituale».
«Okay» disse semplicemente, con un sorriso sincero che le spuntava sulle labbra. Dopo un po’ di silenzio, aggiunse: «Buonanotte, Duncan».
«’Notte, principessa».
 

 

 

 

Hayle’s wall

Ehm, salve gente.
Probabilmente, non avrete la minima idea di chi io sia, ma alcuni di voi, se c’è ancora gente che frequentava il fandom circa due anni fa, mi conoscono… solo che con un altro nome.
Vi ricordate di Solluxy? Ebbene, sono io. Ho avuto una crisi d’identità e ho deciso di cambiare nome, esatto. E no, non sono un miraggio. Sono veramente tornata nel fandom; per giunta, l’ho fatto pubblicando il sequel di una fan fiction che scrissi nel luglio 2013 - «La storia inversa ~ Ovvero, come distruggersi in sette giorni», “famosissima”, si fa per dire, fan fiction Duncney. Quindi, se siete arrivati qui e siete un po’ confusi, vi consiglio di dare una letta veloce - per quanto possa fare pietà - al prequel. Giusto per chiarirvi le idee.
Era da secoli che volevo pubblicare questo sequel; ora, a distanza di due anni, ho finalmente trovato l’ispirazione necessaria per portarla avanti.
Spero che possa essere di vostro gradimento e, come il suo prequel, conterrà sette capitoli, uno per ogni giorno della settimana, fino ad arrivare al finale più dolce di tutti. Lo giuro, questa volta sarà definitivo.
L’aggiornamento dovrebbe essere abbastanza veloce, poiché ho molte idee per questa storia - devo solo metterle per iscritto - e il secondo capitolo è quasi completo. Inoltre, vorrei anche pubblicare una one shot/song-fic Duncney: non appena troverò un modo quantomeno decente per continuarla e concluderla, la pubblicherò.
Se trovate qualche errore, fatemelo sapere. Io ho ricontrollato ma è probabile che mi sia sfuggito qualcosa.
Angolino uno di sette completato, non mi resta che salutarvi. Ci vediamo nel prossimo capitolo e nelle recensioni.

Hayle xx

 

P.S. Vi consiglio, per vostra sanità mentale, di non andare a cercare Nyan Cat su Youtube. Fidatevi.

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Capitolo 2
*** Lunedì ***


La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 


 

Lunedì«

 

Toronto, Ontario, Canada.
14 luglio, ore otto e trenta del mattino.

Quella poteva essere una giornata perfetta, per Duncan.
Era il suo giorno libero, il che implicava il poter rimanere a letto fino a mezzogiorno. Dopodiché avrebbe ordinato una pizza, guardato un bel film splatter in televisione - magari con un amico - e infine sarebbe andato a prendere Courtney al suo ufficio, organizzando un piano che potesse metterla il più possibile in imbarazzo davanti ai suoi colleghi. Certo, probabilmente non gli avrebbe parlato per una settimana - anche due, nel peggiore dei casi -, ma ne valeva la pena.
Poteva essere, appunto. Perché in realtà non la fu, nemmeno un poco.
Innanzitutto, quella mattina qualche imbecille si era attaccato al campanello di casa, minacciando di rimanere lì fuori fino a quando non avrebbe aperto, rovinandogli il sonno.
E, una volta sveglio, realizzò quello che era successo la sera prima: John aveva fatto irruzione nel suo appartamento, rovinato la sua festa e colonizzato la sua camera da letto. Ragion per cui, si ritrovava accovacciato lungo il corridoio, con la testa poggiata al muro e gli stessi vestiti del giorno precedente, mentre il suo nuovo coinquilino dormiva beatamente nel suo comodo letto.
E intanto il campanello continuava a suonare senza alcuna interruzione, senza nessuna pietà per le sue orecchie, istigandolo a buttare una bestemmia così grossa da far tremare i vetri delle finestre.
Insomma, chi era il mentecatto che veniva a suonare alle otto e mezza di un normalissimo lunedì mattina di metà estate? Non aveva niente da fare tipo, che so, dormire?
«Sta’ calmo, arrivo!» gridò attraverso il corridoio con tutto il fiato che aveva in gola, rialzandosi a fatica da terra e trascinandosi verso l’ingresso.
Una volta aperta la porta, non ebbe nemmeno il tempo di vedere chi fosse e di lanciargli contro le peggio maledizioni, perché costui - o costei - si era precipitato nel suo salotto di corsa.
«Innanzitutto, un buongiorno sarebbe quantomeno gradito, principessa» disse, chiudendosi la porta alle spalle e voltandosi lentamente.
Naturalmente, aveva già capito di chi si trattasse dal modo in cui l’aveva scansato: davanti a lui vi era una Courtney pettinata, vestita in modo impeccabile e fresca come una rosa sin dal primo mattino. Aveva la sua borsa a tracolla e si rigirava tra le mani le chiavi della sua auto. A giudicare dall’espressione che aveva in volto, era in preda al nervosismo - come la maggior parte delle volte.
«Cosa ci fai ancora conciato in quella maniera?! Sei impresentabile!» sbraitò lei, ignorando completamente la sua precedente frase. «Perlomeno, quando vieni ad aprire la porta, potresti avere un aspetto quantomeno decente… e dovresti anche lavarti i denti».
Effettivamente, per strada avrebbero potuto tranquillamente scambiarlo per un barbone: i capelli spettinati, due enormi occhiaie, un’alitosi da spavento e la barba sfatta. Almeno, punto a suo favore, per quanto sporchi e fradici di sudore fossero, aveva dei vestiti addosso. Solitamente, infatti, si presentava con una canottiera bianca incrostata di sugo o, peggio ancora, in boxer.
«Mi sono appena svegliato e non ho avuto il tempo di pensare al mio aspetto esteriore, anche perché avevi deciso di non mollare quel maledetto campanello» si giustificò. «Ecco perché sono “ancora conciato in quella maniera”».
«Allora farai meglio a vestirti perché abbiamo un sacco di cose da fare, questa mattina» gli rispose, accomodandosi aggraziatamente sul divano, scansando varie lattine di birra e briciole varie e poggiando la borsa accanto a lei.
Ci mise un po’ ad elaborare la frase - erano pur sempre le otto di mattina, dannazione! - ed un’unica domanda gli affiorò in mente: che cosa dovevano fare di così tanto importante, in un ordinario lunedì mattina?
Prima che potesse formulare il quesito direttamente, qualcuno fece il suo trionfale ingresso in salotto a gran passi e si piazzò davanti al televisore. Aveva la faccia ricoperta di schiuma, teneva in una mano uno spazzolino e nell’altro una lametta e tutto ciò che indossava era un semplice asciugamano attorno alla vita.
«Okay, si può sapere chi è il mentecatto che si era attaccato al campanello di prima mattina e mi ha fatto tagliare la faccia con questo maledettissimo rasoio da due soldi?!» annunciò, con uno sguardo accigliato in volto. «Se lo becco io- oh, ciao Courtney».
Adesso, l’espressione sul suo volto era di puro terrore.
«John» ricambiò lei il saluto, facendo un cenno col capo.
«Quindi eri tu che-»
«Già» lo interruppe subito, con tono piatto.
«Io non le pensavo veramente tutte quelle cose».
«Lo spero».
Duncan, impegnato a sghignazzare, non si accorse subito con cosa il suo coinquilino si fosse presentato lì. Si era già sistemato per il meglio, insomma.
«Scusa se ti interrompo,» iniziò, «ma ti stai facendo la barba con la mia lametta - che, tanto per la cronaca, non è da due soldi -, ti sei lavato i denti col mio spazzolino e quello che hai intorno alla vita è il mio asciugamano».
La frase avrebbe dovuto suonare come una domanda, ma venne fuori come una fredda affermazione.
«Già, non avevo voglia di disfare i bagagli. Troppa fatica» gli rispose, facendosi spazio sul divano, prese dal tavolino il suo portatile e lo accese, poggiandoselo sulle gambe.
Evitò anche di commentare, non ne aveva la voglia… e, ad ogni modo, non l’avrebbe mai ascoltato. Ormai aveva perso ogni speranza verso quell’individuo da un sacco di tempo.
Così decise di sedersi sul bracciolo del divano e di riprendere il discorso lasciato in precedenza: «Cos’è che, di preciso, dovremmo fare tu ed io insieme questa mattina?» chiese, guardando il suo profilo.
«Sapevi del matrimonio di Gwen e Trent, immagino» rispose, senza guardarlo.
Fece per un secondo mente locale. Si ricordava di quando gli era arrivato quell’invito, mesi prima: all’inizio era rimasto incredulo, poi non poté fare a meno che essere felice per la sua amica, nonché ex ragazza. La chiamò anche per congratularsi direttamente - e ricordare anche un po’ di vecchi tempi.
«Naturalmente, e anche da parecchio tempo. E con questo?»
Finalmente si voltò in sua direzione: «Sai che il matrimonio è questo sabato, vero?» chiese nuovamente, alzando un sopracciglio. Evidentemente, conosceva già la risposta.
«Impossibile, l’ho segnato sul calendario. Il matrimonio è,» e lanciò uno sguardo alla parete di fronte, spalancando gli occhi, «questo sabato» concluse, con un mormorio. «E io non ho il vestito. Né un regalo decente».
Lei incrociò le braccia al petto, soddisfatta. Aveva ragione, come al solito.
«Un momento,» li interruppe John, alzando lo sguardo dal computer, «perché Gwen e Trent si sposano e non mi hanno invitato?»
«Perché noi siamo vip e tu sei un povero plebeo» scherzò Duncan, anche se la battuta non fece ridere nessuno. «Perché a malapena ti conoscono, razza di scimmia decerebrata!»
Prima che potesse ribattere, scatenando così una rissa, Courtney prese la parola: «Mentre io e questa sottospecie di uomo,» e qui indicò Duncan, «andremo a fare spese - perché il mio invito è misteriosamente arrivato ieri e non ho avuto tempo -, te ne starai a casa, senza disturbare il vicinato e senza demolire l’intero appartamento».
All’apparenza sembrava un’ottima idea, ma c’era un punto che non andava: Duncan non avrebbe mai e poi mai lasciato John da solo per quelle poche ore, figuriamoci se l’avrebbe fatto per un paio di giorni - specie se si trovava a più di duemila chilometri da casa!
«Dobbiamo rivedere il piano: io non permetterò in nessun modo che lui rimanga qui, completamente da solo» obiettò, scattando in piedi. «Quindi le soluzioni sono due: o fa le valige e si trova un altro alloggio, oppure viene con noi a Vancouver. Io, personalmente, scelgo la prima opzione».
«E io la seconda» rispose il bruno. «Voglio venire anch’io al matrimonio».
Courtney non ci pensò nemmeno per un secondo: «Dimenticatelo, non sei stato invitato!»
«E quindi, addio, quella è la porta» aggiunse Duncan con un sorriso smagliante, indicando l’uscita.
Ma John lo ignorò completamente: andò, invece, di fronte all’amica e si mise in ginocchio con le mani giunte.
«Ti prego!» esclamò, allungando esageratamente la “e”.
Lei distolse lo sguardo, e fissò un punto indefinito alla sua destra. Guardarlo significava cedere seduta stante: era stranamente bravo a far sentire le persone in colpa con una semplice espressione facciale.

Ce l’avrebbe fatta, non era una debole.
Purtroppo resistette per circa una trentina di secondi. Per un fatale scherzo del destino, non poté fare a meno di incrociare i suoi occhioni color nocciola e il labbruccio tremolante. E a quel punto, fallì miseramente.
«D’accordo, verrai, ma solo perché mi fa pena vederti solo come un cane» sospirò; nel frattempo, John faceva i salti di gioia, ringraziandola in tutte le lingue che conosceva, e Duncan imprecò sonoramente, perché sapeva che l’avrebbe avuto in mezzo ai piedi anche durante quella vacanza. «Ora andate immediatamente a vestirvi, non ho tempo da perdere con voi».
Si prospettava una lunghissima giornata.

 
• • •

 
Ore nove e quarantadue.

Circa un’ora dopo si ritrovavano a camminare per le sontuose strade del centro di Toronto, con Courtney che procedeva in testa al terzetto con passo veloce e due affannati John e Duncan che cercavano di starle dietro.
Continuava ad impartire ordini da quando avevano lasciato casa, circa venti minuti prima, e ogni tanto dava un’occhiata al suo telefono, per controllare la lista che si era preparata.
«Ripetiamo ancora una volta,» annunciò, accingendosi a rileggere il tutto per la terza volta, «questa mattina ci recheremo a comprare uno smoking decente per tutti e due e un abito che possa adattarsi al mio ruolo di testimone». Indugiò per un attimo nell’ultima parte, come a voler sottolineare quanto tenesse a quel compito.
«Domanda» esordì Duncan, alzando l’indice e fermandosi un secondo per riprendere fiato. «È proprio necessario il vestito elegante? Sai, non metto uno smoking dal lontano…», e qui si fermò a riflettere, grattandosi la testa, «non ho mai messo uno smoking!»
Tra un respiro affannoso e l’altro, si udì John dire qualcosa come “sciattone”.
«Scordatelo, non ti permetterò di farmi fare una brutta figura» rispose, voltandosi appena ma senza smettere di camminare. «Poi, dopo una velocissima pausa pranzo, andremo a comprare un adeguato regalo di nozze. Tutto ciò dovrà avvenire in meno tempo possibile, dato che io devo finire il mio lavoro».
«Ehm,» cominciò John con audacia, «sai che il matrimonio è fra più di cinque giorni, vero? Perché affrettarsi tanto, mi chiedo!»
Ma non ricevette risposta, perché quella - forse non aveva sentito, forse l’aveva volutamente ignorato - continuò a procedere per la sua via, senza degnarlo di un piccolo sguardo.
Alla fine di quel lungo viale, svoltò a destra e si fermò davanti ad una vetrina, mentre i due uomini si appoggiarono ad un palo e cercarono di fermare il fiatone. Lei, invece, era perfettamente ritta e non mostrava segni di fatica, come se fosse abituata a fare sempre tutto di fretta.
«Ci siamo» annunciò loro, fissando i capi esposti nella vetrina.
Si trattava di un negozio di abiti eleganti abbastanza modesto, un outfit, senza prezzi esageratamente alti né era troppo squallido.
Prima che potessero accorgersene, Courtney era già entrata nel negozio e aveva salutato la cassiera esponendole ciò che le serviva. Cinque secondi dopo, questa la portò via, lasciandoli completamente soli e spaesati.
«Fantastico» commentò John. «E ora che si fa?»
Non ebbero il tempo di pensare a qualche piano o brillante idea che una ragazza biondissima, slanciata e dalle lunghe gambe si materializzò davanti a loro, con un sorriso a trentadue denti stampato in volto.
«Salve, avete bisogno di aiuto?» chiese con tono gentile, fissando prima uno e poi l’altro.
Duncan mise su la sua migliore espressione da rimorchiatore e rispose con il tono più seducente possibile: «Non è che per caso si potrebbe avere il numero di questa bella commessa? Sarebbe un peccato sprecare tanta bellezza senza nemmeno aver provato ad uscirci assieme» disse, ammiccando.
Quella sorrise e cercò di nascondere il lieve rossore sulle gote.
«Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere» mormorò, guardando altrove per l’imbarazzo.
La situazione stava diventando fin troppo scomoda e fastidiosa. Chiunque avrebbe vissuto quella situazione come terzo incomodo, sarebbe stato maledettamente a disagio. Così John, evidentemente stufo di quel banale flirt, da bravo salvatore della patria, compì un gesto eroico: fece accidentalmente cadere il suo piede sopra quello di Duncan, che emise un grido così acuto che farebbe invidia ad un soprano.
Mentre quello lo riempiva di coloriti insulti a malapena borbottati, prese abilmente la parola: «Perdona questo povero essere, è soltanto un cretino. Siccome la sergente che entrata qui con noi ci sbrana vivi, se non ci presentiamo in modo impeccabile al matrimonio della sua migliore amica, ci servirebbe qualcosa di quantomeno presentabile. Ora, capisco che trovare un vestito che regga il confronto con la mia fantastica persona,» e qui Duncan fece di tutto per non scoppiare a ridere, beccandosi un’occhiataccia, «sia difficile, però ti chiedo di fare un piccolo sforzo».
La ragazza, ridacchiando, fece gesto di seguirli: «Potete cominciare ad accomodarvi nei camerini, mentre io cercherò qualcosa di adeguato all’occasione».
Per quanto ci fosse soltanto una ragazza nel suo cuore, non si può certo pretendere che il nostro caro Duncan abbandoni le sue vecchie abitudini dalla sera alla mattina: in sei anni, più che altro per passare il tempo, aveva continuato a sedurre giovani donzelle con lo scopo di passare qualche nottata indimenticabile e, soprattutto, di far ingelosire la sua preda.
A Courtney, naturalmente, tutto questo non era sfuggito e, sebbene cercasse di mantenere un atteggiamento sobrio davanti a lui, non poteva negare che questo le desse profondamente fastidio. Non perché fosse innamorata - non sia mai! -, perché, facendo così, non le dimostrava affatto che a lei ci teneva.
Già, principalmente era questo il motivo per cui il nostro amico era ancora single. Ce ne sarebbero circa altri trecento novantaquattro(1), ma sarebbe troppo lungo e borioso elencarli tutti.
Nel frattempo la commessa, che avevano scoperto chiamarsi Cherry leggendo la targhetta appuntata al suo petto, aveva portato loro tre diversi completi a testa e, mentre si cambiavano, John diede il meglio di sé, esordendo con frasi del calibro «Non si abbottona la camicia!», oppure, venti volte più umiliante, «Questo mi sta stretto al cavallo».
Dopo due minuti buoni di lamentele, Duncan, al limite della sopportazione, con l’intento di farsi capire bene da chiunque gridò: «Non è colpa nostra se sei uno schifoso obeso e passi le tue giornate a poltrire, piuttosto che a sgobbare per portare a casa un misero stipendio!»
Non appena la disse, trovò che quella frase suonasse molto male per uno come lui. Certo, aveva un lavoro ben retribuito e non era un pigrone di prima categoria, ma non si trovava mica nella posizione di poter criticare, quando pochi anni addietro era nelle stesse condizioni!
«Ha parlato l’uomo vissuto!» rispose, irritato. «E poi questa non è trippa, è una cover per i miei addominali».
Dopo un altro paio di minuti di frasi imbarazzanti e insulti gratuiti, come se tutto fosse programmato, uscirono in contemporanea dai camerini e si voltarono l’uno verso l’altro. Servirono circa cinque secondi per studiarsi dalla testa ai piedi, dopodiché scoppiarono a ridere fragorosamente, piegandosi in due e cercando di trattenere le lacrime.
«Sembri un paggetto, con quel vestito!» commentò Duncan, indicandolo.
«E tu, con quella pelle cadaverica e quelle occhiaie profonde tre centimetri?» ribatté John, cercando di darsi un contegno. «Potresti benissimo essere uno della famiglia Addams».
«Siete fantastici» commentò Cherry, spingendoli davanti ad un grosso specchio rettangolare, posto sulla parete a loro di fronte. «Ecco, vedete se vi piacciono e ditemi cosa ne pensate».
Duncan si scrutò nello specchio e non poté fare a meno di spalancare gli occhi. Quello non era decisamente lui.
Lì riflesso, vi era un uomo a tutti gli effetti, i tratti del viso ben accentuati e una barba incolta. A completare il tutto, la suite elegante che indossava lo faceva apparire più maturo di quello che era.
Era davvero passato così tanto tempo, da quando era un adolescente senza grilli per la testa? Quello nello specchio era veramente lui, o solo qualcuno che gli somigliava?
Eppure non gli sembrava di essere cresciuto - ed invecchiato tanto: sotto sotto, forse era ancora quel ragazzo di un tempo, strafottente e spensierato. Sembrava fosse ieri.

E invece erano già sei anni dall’ultima stagione del reality.
Mentre era assorto nei suoi pensieri, John si fissava orripilato, con la bocca semiaperta.
«Scherziamo? Non si addice per niente al mio corpo, mi fa sembrare un pinguino!» sbraitò, sbattendo i piedi a terra; intanto la commessa fece un passo indietro, colta in flagrante dalla sua reazione.
«Beh, se vuoi ti prendo un altro completo» balbettò quasi, sparendo dietro un alto scaffale.
Non era mai stato vanitoso, né gli importava di cosa indossava. Spesso gli piaceva far impazzire i commessi, con i suoi gusti strabici; era difficile da accontentare e aveva da ridire su qualunque cosa, tanto da farsi lanciare mentalmente ogni maledizione dal personale - talvolta anche ad alta voce, come quando un negoziante, siccome era lì da ore e avrebbe dovuto chiudere venti minuti prima, gli aveva cominciato ad urlare contro le peggio bestemmie.
Inoltre, per quell’occasione ci teneva ad essere perfettamente impeccabile. Un po’ perché non voleva rimanere da solo in città, senza nessuno da disturbare; un po’ perché il vestito era dannatamente aderente in ogni punto e non voleva rimanere nudo nel bel mezzo della celebrazione - avrebbe potuto scandalizzare tante gente; e un po’ anche perché, se non avrebbe seguito alla lettera le istruzioni, Courtney avrebbe deliberatamente impedito che prendesse l’aereo. Non l’avrebbe mai ammesso, ma molto spesso quella donna le faceva paura.
E poi aveva bisogno di una vacanza e di ferie non meritate dal suo noiosissimo lavoro - in quel periodo, era un impiegato della biblioteca della città; possiamo considerarlo un paradosso, dato che lui odia il silenzio -, era da tanto che non se ne prendeva - circa tre settimane, tempo relativamente lungo.
Duncan, capendo che la faccenda avrebbe avuto lunga durata, con uno sbuffo e le mani dietro la schiena, prese a camminare senza una meta precisa. Andava dove le sue gambe lo portavano e, misteriosamente, si ritrovò nel reparto femminile, a camminare tra vestiti casual e lunghi abiti da sera con scarso interesse.
Ad un certo punto si bloccò di scatto, sorpreso per la seconda volta nell’arco di una manciata di minuti: davanti a lui, intenta ad aggiustarsi al meglio l’abito di fronte ad uno specchio, vi era una Courtney elegante quanto mai. Il vestito era di un rosso acceso, con le maniche lunghe di pizzo, una scollatura ad U sulla schiena e la gonna toccava alle ginocchia.
«Wow» si lasciò sfuggire, mentre lei si girò di scatto nella sua direzione. «Sei semplicemente… wow».
Era rimasto completamente senza parole, incapace di formulare una frase di senso compiuto. La bellezza davanti ai suoi occhi era esageratamente tanta ed era come se si sentisse impotente, davanti ad essa.
«Anche tu sei… stai veramente alla grande» mormorò con un imbarazzo che non le apparteneva, stampandosi in faccia uno dei sorrisi più belli e sinceri che le aveva visto fare.
Vederla con quelle vesti eleganti, gli faceva capire di quanto anche lei sia cresciuta e maturata negli ultimi anni, senza che se ne fosse reso conto. Dopotutto, il carattere era ancora molto simile a quello adolescenziale e neanche i modi di fare erano cambiati più di tanto.
Forse averla avuta sotto gli occhi per tutto quel tempo gli aveva giocato un brutto scherzo, forse l’aveva vista diventare adulta gradualmente, senza darvi conto più di tanto. Probabilmente, se l’avrebbe rivista in quel momento, dopo ben sei anni, non l’avrebbe riconosciuta: i capelli leggermente più lunghi, delle rughette attorno agli occhi e dei tratti del viso più marcati, caratteristici di un adulto.
Solo in quel momento si rese conto di quanto la sua principessa fosse cresciuta… e sì, anche diventata più bella.
Mentre era impegnato a boccheggiare come un idiota, lei prese la parola, interrompendo quell’imbarazzante silenzio: «Allora prendo questo» sentenziò, ritornando al suo solito tono autoritario. «Quanto vi manca? Siamo leggermente in ritardo con la tabella di marcia».
«Io ho fatto, solo il tempo di rivestirmi» rispose, risvegliandosi da quella specie di coma, scuotendo la testa. «John è ancora in alto mare, ma immagino che non ci vorranno più di altri cinque minuti».

 
• • •

 
Ore quattro e un quarto.
E si sbagliava di grosso, eccome!
John non ci mise cinque minuti per scegliere l’abito, bensì due ore e mezza abbonanti. Dopo aver provato ogni singolo capo del negozio, indovinate per quale abito optò? Esatto, il primo che aveva indossato.
In seguito ad una sfuriata di Courtney, in preda ad un attacco isterico, durata per tutto il tragitto in macchina, in cui urlò le peggio cose a John - il quale, naturalmente non aveva ascoltato una parola; Duncan, invece, aveva passato tutto il viaggio a ridere e a guadagnarsi, di conseguenza, occhiate di fuoco -, si erano fermati in una piccola e squallida trattoria, il cui proprietario era un amico del nostro Duncan, per rifocillarsi.
E poi un’altra volta in auto, alla ricerca del regalo di nozze perfetto.
«Quelle polpette mi sono rimaste tutte sullo stomaco» commentò John con una mano sulla pancia, sdraiato sui sedili posteriori. «Naturalmente i posti squallidi tutti tu li becchi!».
«La prossima volta fermati ad un ristorante di lusso, dato che hai un palato fine» gli rispose con tono Duncan, seduto sul sedile del passeggere, leggerissimamente adirato.
«Sembrate due bambini» dichiarò Courtney, al volante, ruotando gli occhi. «Mentre voi due eravate impegnati a litigare e a tirarvi pezzi di melone in faccia, io ho fatto sì che Gwen aggiungesse un posto anche per John - a proposito, non appena saremo a Vancouver, ti darà l’invito -, ho prenotato il volo per domani, per le tre meno un quarto del pomeriggio, e l’hotel».
«Perché partiamo domani, se il matrimonio è sabato?» domandò John, appoggiando la testa al finestrino. «Hai paura di arrivare troppo tardi?»
«Gli altri voli erano tutti pieni e gli unici disponibili erano - appunto - per domani e per domenica» rispose, guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore. Pochi istanti dopo, aggiunse con un grido: «E togli i piedi da lì, mi sporchi tutto il sedile».
Sobbalzando e col cuore che batteva a mille, si mise a sedere come una persona civile.
«Credo di aver perso l’udito» constatò Duncan, massaggiandosi le orecchie. «E fa attenzione al-».
Non poté finire la frase, che quella frenò pericolosamente davanti ad un semaforo che diventò all’istante rosso, mentre lui fu sbalzato in avanti e sferrò un colpo con il mento all’airbag.
Per dei buoni cinque minuti, non si sentirono altro che pesanti bestemmie, che Courtney fece finta di non sentire, accompagnate dalla risata malefica di John, che godeva come non mai.
«Siamo arrivati» annunciò la ragazza, dopo un quarto d’ora di guida, parcheggiando davanti ad una piccola gioielleria. «Mi sono fatta inviare la lista di nozze per e-mail, so esattamente cosa comprare».
Senza aggiungere altro, entrarono nel negozio. Non appena il campanellino apposto sulla porta squillò, si materializzò dietro un bancone un vecchietto minuto e calvo, con dei grossi occhiali rettangolari sul volto.
«Oh, prego giovanotti, accomodatevi pure» li accolse calorosamente, col tono di chi non vedeva clienti da secoli. «Cosa vi serve? Una collana? Degli orecchini?» Si voltò verso Duncan e aggiunse, indicando con un cenno della testa l’unica femmina del gruppetto. «Un anello per la fidanzatina?»
«Niente di tutto questo» lo interruppe Courtney, stranamente a disagio. «Cerchiamo un regalo per il matrimonio della mia migliore amica».
«Oh, allora questo è il posto che fa per voi» disse quello e, con un cenno della testa, aggiunse in direzione della donna: «Se vuole seguirmi».
Prima che i due scomparirono dietro il bancone, lasciando i due ragazzi indietro, Courtney lanciò loro un’occhiata come per dire: «Se fate danni, vi assicuro che non vedrete la luce di domani».
Un primo momento, rimasero entrambi immobili come pali, senza sapere cosa fare e tentati, per un attimo, di seguire il negoziante e di esprimere anche loro pareri sul regalo di nozze. Dopotutto, avrebbero dovuto comunque sborsare un terzo dell’importo a testa.
Dopo questi attimi di esitazioni, John decise di cominciare ad aggirarsi pericolosamente tra le vetrine che esponevano articoli di inestimabile valore.
Dico pericolosamente perché egli era conosciuto per non essere esattamente delicato ed aggraziato come una ballerina; al contrario, era irruento e devastante come un uragano. Spesso, infatti, quando si trovava in qualche negozio, distruggeva qualunque cosa gli capitasse sotto tiro, vedendosi costretto a rimborsare ogni suo danno.
Duncan che, naturalmente, sapeva bene queste cose, cominciò a stargli alle calcagna, pronto ad intervenire in caso di qualche passo falso. Non intendeva cacciare una cifra esorbitante di dollari per danni da lui non commessi, né sorbirsi una delle più lunghe ramanzine della storia dell’umanità.
Dopo qualche minuto di pedinamento, John esordì con uno sbuffo: «Non serve che mi fai da balia, non sono così maldestro da demolire l’intera gioielleria» e, detto questo, si poggiò alla vetrinetta alla sua destra.
Non l’avesse mai fatto!
Essa, evidentemente in equilibrio precario, cominciò a traballare avanti e indietro, fino a che non cadde verticalmente sul suolo. Poco prima che toccasse terra, inoltre, gli sportelli di vetro si aprirono e tutti gli oggetti in porcellana al loro interno si infransero in mille pezzettini. Il tutto accadde in meno di tre secondi e nessuno riuscì ad intervenire in tempo.
Il fragore si propagandò fino a dietro il bancone in modo talmente assordante che, in un quarto di secondo, il vecchietto e Courtney già si erano precipitati nella stanza.
Fu in quel preciso istante che John cominciò a fare sfoggio della sua conoscenza in materia di Santi, pregandoli dal primo all’ultimo.

 
• • •

 
Ore cinque e sette.

Vi risparmierò quella che, come Duncan aveva previsto, fu una ramanzina storica.
Non appena vide quel disastro, Courtney cominciò ad urlare contro le due povere vittime, dicendo che erano peggio dei lattanti, che non poteva lasciarli soli un attimo perché combinavano casini, che erano completamente inaffidabili. Inoltre, aggiunse anche che avrebbero dovuto ripagare fino all’ultimo centesimo tutta la merce polverizzata - qualcosa come una cifra di tanti zero, che quasi li fece piangere per la disperazione.
Il tutto davanti a dei Duncan e John con uno sguardo misto tra il rassegnato e il terrorizzato, e un vecchietto rimasto a dir poco scioccato e attonito.
Dopodiché si era limitata a pagare il regalo di nozze - una splendida cornice in argento - e a scortare i due a casa, senza degnarli di un’altra parola.
I ragazzi avevano provato più volte ad aprire bocca, a cercare di farsi perdonare, ma lei li liquidò ogni volta con un gesto della mano. Era veramente nera.
Passarono tutto il resto del viaggio in religioso silenzio, fino a quando non arrivarono sotto il palazzo dei due.
John scese immediatamente dall’auto, salutandola con un secco «ciao», intenzionato a prendere la TV per primo; Duncan, invece, indugiò un attimo.
«Allora, ci sentiamo stasera» disse, facendo qualcosa di completamente inaspettato: le depositò un leggero bacio sulla guancia.
Prima che lei potesse fare qualsiasi cosa, era già sotto il porticato e ammiccava in sua direzione.
Per un secondo indugiò, sfiorandosi la guancia con la punta delle dita, senza nascondere un alone improvviso di sorpresa e, sì, di euforia. Ma, dopo pochissimi attimi, si riprese.

Sei patetica, urlò una vocina nella sua testa.
Senza degnarlo di un altro sguardo, schiacciò sull’acceleratore e la sua macchina sparì per le trafficate vie di Toronto.

 

 

 (1) Trecento novantaquattro: ovvio riferimento ad Harry Potter.

 

 

 

 

 

 

  

Hayle’s wall

Lo so, ci ho messo una vita ad aggiornare. Con le molteplici verifiche ed interrogazioni, non ho avuto un secondo di pace, benché questo capitolo fosse concluso già da un po’.
Ma ora sono qui, e vi ringrazio per le due recensioni. Sono poche, certo, ma non m’immaginavo che i vecchi recensori tornassero - soprattutto perché il fandom è morto -, né che mi notassero tutti i nuovi autori.
Vi annuncio che nel prossimo capitolo entrerà in scena il fuso orario. Perché Vancouver è indietro di - se non sbaglio - tre ore, rispetto a Toronto, quindi, se leggete cose strane, è per questo, don’t worry.
Dato questo annuncio, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Ho cercato di mettere equivoci complicazioni e qualche parte più sentimentale e un poco introspettiva. Che volete farci, io amo l’introspezione!
Mi auguro di aggiornare una volta alla settimana - o sabato, o domenica - con proverbiale puntualità. Un grosso bacio e ci si vede prestissimo.

Hayle xx

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Capitolo 3
*** Martedì ***


La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 
 

 

 

Martedì«
 

Toronto, Ontario, Canada.
15 luglio, ore dodici e tredici del pomeriggio.

Era un soave martedì pomeriggio di metà luglio. Le strade erano poco frequentate, visto che la maggior parte della gente stava mangiando oppure non ancora aveva cessato il turno di lavoro.
Tutto era avvolto dalla quiete, nessun rumore osava distruggerla… tranne che per una giovane donna sotto il portone dell’appartamento 58B di Stanford Avenue. Era circa un’ora che citofonava e urlava i peggio insulti verso colui che non osava aprirle, guadagnandosi quindi sgridate da vecchietti che volevano godersi un po’ di pace e famigliole che pranzavano assieme. Alcuni la minacciarono anche di chiamare la polizia ma, dopo aver visto lo sguardo omicida di lei, preferirono sparire dietro la finestra intimoriti.
L’ultima temeraria persona che aveva osato dirle qualcosa - una vecchietta del quarto piano sulla settantina -, si era dovuta sorbire tutta la sua isteria e, per il suo bene, aveva deciso di battere ritirata, borbottando qualcosa sui pazzi insani e sui manicomi.
Finalmente alle dodici e diciassette, la persona richiesta rispose al citofono, per gioia immensa di tutto il palazzo che non avrebbe più dovuto sorbirsi quelle urla.
«Sì?» domandò la voce di questo, con il tono adirato di chi è stato interrotto in un momento importante.
«Senti un po’, ha tre secondi per aprire questo dannato portone, altrimenti ti farò ricordare questo giorno» lo minacciò lei. La sua voce fece capire che non scherzava, affatto.
«Bene, arrivederci» disse semplicemente l’altro, riagganciando e ignorandola pesantemente.
E fu in quel momento che la donna esplose, cominciando ad inveire contro quello e a tirare pugni al portone, gesti per cui gli altri coinquilini la classificarono come “soggetto pericoloso”.
Durante questo eccesso di ira, decise anche di tempestare di telefonate non si sa chi e di suonare ad alcuni appartamenti, chiedendo gentilmente se potessero andare a suonare alla porta di quel disgraziato. Ovviamente quelli, pieni di paura, la assecondarono ma non riuscirono a riportare alcun tipo di successo.
Il miracolo avvenne quando, alle dodici e mezza, una moto parcheggiò davanti al palazzo e ne scese Duncan, con il casco in una mano e un mazzo di chiavi nell’altra.
«Courtney?» chiese quello, non appena si accorse della donna sotto il porticato. «Perché diamine mi hai fatto sessantadue chiamate in meno di dieci minuti, se sapevi che ero al lavoro?»
Non appena vide il suo volto accigliato dipingersi di una pericolosa sfumatura bordeaux, fece un passo indietro istintivamente.
Lei gli si avventò praticamente contro, cominciando una lunga sfuriata: «È più un’ora - un’ora! -  che sto citofonando a John e ha pure la faccia tosta di non rispondermi! E tu invece? Saresti dovuto essere qui mezz’ora fa. Per colpa vostra, perderemo di sicuro il volo, e allora sarete due uomini morti!
Quindi o voi due vi organizzate e prendete questa cosa seriamente, altrimenti vi lascio a Toronto! Sono stata abbastanza chiara?»
Concluse puntandogli un dito contro il petto e avvicinando di colpo il viso al suo. Erano a due centimetri l’uno dall’altra.
Quello, avendo quell’espressione corrucciata tanto vicino, non sapeva se provare un po’ di timore, oppure ridere sguaiatamente per le minacce da due soldi e per le guance di un rosso intenso.
«Scusa se lavoro per portare dei soldi - che, tra l’altro, serviranno anche per rimediare al disastro commesso da John - e un pezzo di pane a casa» si limitò a dire, sfoderando uno dei suoi ghigni.
«Apri immediatamente il portone» articolò per bene, allontanandosi di colpo.
Non si parlarono fino a quando non misero piede nell’appartamento - più che altro per far rilassare la ragazza. Una volta dentro, Courtney si precipitò di corsa verso la camera da letto, dove trovò John arrotolato tra le lenzuola e che ronfava indisturbato, abbracciando il cuscino e russando rumorosamente.
Il suo sonno durò per altri tre secondi, quando due braccia tentarono di spintonarlo giù dal letto malamente e una voce armoniosa cominciò ad urlargli dentro le orecchie.
«Hai esattamente due secondi per alzarti e prepararti, altrimenti non parti!»
«Dai, lasciami dormire per altri cinque minuti» rispose con voce assonnata.
«Non esiste, siamo già in ritardo. Per colpa tua
«Ho sonno!»
«Non mi interessa! Alzati, subito
Attirato dalle urla degne di due cavernicoli, Duncan decise di raggiungerli in camera, dove assistette ad una delle scene più raccapriccianti dell’umanità: John era ancorato con le mani alla testiera del letto, intenzionato a non abbandonarlo, mentre Courtney lo prendeva per le caviglie e tentava di scrollarlo da lì, senza evidenti successi.
Stava per fare dietrofront, quando la voce di lei lo incollò al suolo: «Non osare svignartela» gli ordinò. «E dammi una mano, invece!»
«Perché? Io mi sto divertendo un mondo» ridacchiò, incrociando le braccia al petto e alzando un sopracciglio. «È lo spettacolo più bello che abbia mai visto, giuro».
«Bene, allora farò da sola» rispose acidamente. Dopodiché, strattonò così forte il bruno che questo non riuscì più a tenersi al letto e cadde di schiena sul pavimento.
«Il mio povero deretano!» si lamentò, facendo conseguire alla frase un’altra miriade di imprecazioni.
Senza aggiungere un’altra singola parola, Courtney lo costrinse a rialzarsi, tirandolo per un orecchio, e lo spinse dentro al bagno, lanciandogli un fagotto di abiti e sbattendosi la porta alle spalle. A quei gesti, era sottointeso un secco «Sbrigati».
Dopodiché, si rivolse verso Duncan, che era rimasto immobile sul ciglio della porta a godersi la scena.
«Be’, cosa stai aspettando?» gli chiese. «Carica i tuoi bagagli e quelli di John in macchina, siamo in ritardo!».
Stava quasi per riuscire quando, voltandosi impercettibilmente verso di lui: «E cambiati quella maglia, è sudicia!» aggiunse, facendo un cenno col capo verso la canotta incrostata di grasso e uscendo dalla stanza.
Rimasto solo, lanciò un’occhiata verso il suo armadio. “Sarà meglio che incominci a preparare la valigia” pensò, sospirando.
 

• • •

 
Ore due e trentacinque.

A questo punto, voi immaginerete che Duncan sia riuscito a preparare la sua valigia in tempo record e a caricare tutti i bagagli in macchina, che John ci abbia messo un attimo a prepararsi e che tutti assieme siano riusciti ad arrivare all’aeroporto ad un orario decente, fatto il check-in e partiti alla volta di Vancouver.
E invece no.
John, invece di prepararsi, si era addormentato sulla tazza del gabinetto, dove era stato ritrovato da Courtney alle tredici e cinque minuti. Dopo una lunga ramanzina e dopo aver perso quindici anni di vita, si era finalmente deciso di prepararsi a dovere. Tornò in camera solo alle tredici e quarantasette, dopo una rapida doccia, ancora coi capelli bagnati e la maglietta indossata alla rovescia.
Poi si scoprì che nessuno dei due aveva preparato i bagagli, il che fece andare la ragazza ancora più in bestia. Li obbligò a mettere dentro solo lo stretto necessario in meno di dieci minuti: alle due in punto sarebbe partita, con o senza di loro.
Il più velocemente possibile, avevano messo tutto quello che capitava sotto tiro in valigia e si erano precipitati al piano terra, con un borsone e un trolley ricolmi di roba, che sembrava stessero per esplodere. Per l’ora stabilita erano già tutti in macchina e sfrecciavano sulla tangenziale a centoventi chilometri orari verso l’aeroporto, dove fecero il loro trionfo alle due e tredici minuti.
E poi, dopo intricate peripezie, riuscirono finalmente ad imbarcarsi e ad arrivare sani e salvi… no, sto scherzando.
Avevano svolto quasi tutte le pratiche necessarie in pochissimo tempo; ne mancava solo una, dopodiché sarebbero potuti partire senza alcun tipo di intoppo: il metal detector.
Sia Courtney che Duncan passarono senza alcun intoppo. E poi fu il turno di John.
Il nostro eroe avanzava lentamente verso quell’oggetto insidioso, suo ultimo ostacolo da superare e grande nemico. Deglutì e, sudando a freddo, pregò tutti i Santi che non cominciasse a suonare. Un ultimo passo e poi ce l’avrebbe fatta.
Peccato che il metal detector emise un fischio assordante e John, inizialmente propenso a darsela a gambe, rimase inchiodato al suolo, mentre due sbirri avanzavano verso di lui e cominciarono a perquisirlo da cima a fondo. Trovarono subito quello che cercavano: incollato con lo scotch sulla schiena, vi era una console di gioco e un joystick.
Persero un buon quarto d’ora per spiegare il perché avesse avuto intenzione di far passare stoltamente una playstation sotto il metal detector, sapendo che era proibito portarla con sé sull’aereo e che avrebbe dovuta imbarcarla. Poi, grazie all’abile parlantina di Courtney, riuscirono a scamparsela senza nessuna sanzione. Erano le due e trentacinque.
«Ora mi spieghi perché diamine hai deciso di portarti dietro la mia console!» gli ringhiò Duncan in faccia, non appena furono lontani. «Grazie a te, mi è stata confiscata e probabilmente non la rivedrò mai più».
«Volevo semplicemente avere qualcosa con cui svagarmi, una volta in vacanza» si giustificò, scrollando le spalle. «Non immaginavo sarebbe finita così».
Già, John non brillava in intelligenza e nemmeno in furbizia.
Probabili insulti e una successiva litigata furente furono impediti da una voce femminile all’altoparlante, che annunciò: «Attenzione, il volo delle due e quarantacinque, diretto a Vancouver, partirà tra dieci minuti al gate 275».
«Gate 275?» sbottò Courtney. «Non ce la faremo mai e la colpa è solo vostra!» concluse, indicando i due ragazzi che si guardavano in cagnesco.
«Sta’ tranquilla, abbiamo tutto il tempo» la rassicurò Duncan.
«Abbiamo tutto il tempo?» ripeté irata, avvicinandosi pericolosamente a lui. «Saranno forse cinque chilometri di aeroporto a piedi, il tutto con un carico di circa cinque chili a testa. No che non abbiamo tutto il tempo!»
E poi, inspiegabilmente, si ritrovarono a correre per tutto l’aeroporto, zigzagando da una parte all’altra tra le persone e salendo e scendendo varie scale. Pur avendo un carico abbastanza pesante a testa, correvano piuttosto veloce. Varie volte rischiarono di sbattere contro oggetti o di incollarsi dietro gruppi di persone, ma, nonostante questo, ce la stavano quasi per fare, erano quasi al gate 275.
E poi, a circa cinque minuti dal volo, John, non notando una vecchietta che sostava proprio davanti a lui, vi si scontrò. Entrambi caddero rovinosamente a terra e la valigia fece un volo di circa duecento metri e, poiché era chiusa a pressione, tutti i vestiti al suo interno volarono fuori e si sparsero per tutto il pavimento.
Tra i borbottii dell’anziana, le urla isteriche di Courtney e le risate sommesse di Duncan, John, bestemmiando quanti più Santi conosceva, si sbrigò a raccogliere tutto da terra, aiutato dalla bontà d’animo di alcuni passanti.
Quattro minuti… tre minuti… due minuti…
Il volo stava quasi per partire, quando i nostri tre eroi apparvero all’orizzonte del gate 275, gridando qualcosa di incomprensibile alle hostess e sventolando i loro biglietti. Pur di arrivare in tempo, Duncan decise per qualche arcano motivo di arrampicarsi sopra una fila di panche e di scavalcarla con un balzo. Ma per uno scherzo del destino, ricadde male e, impattando contro il pavimento, per poco non si ruppe il collo. Il bagaglio cadde malamente sul suo stomaco, facendogli emettere un suono strozzato.
«Ehm, non c’era bisogno di dare spettacolo» mormorò una hostess dai capelli castani raccolti in uno chignon, aiutandolo a rialzarsi. «Vi avevamo visti arrivare».
E finalmente, dopo intricate e funeste peripezie, riuscirono a salire sull’aereo con un minuto di anticipo e a sistemarsi nei loro rispettivi sedili.
«Ma cosa ti è saltato in mente!» lo sgridò Courtney, depositando la valigia sopra la sua testa. «Ti saresti potuto rompere qualcosa! Dico io, ma bisogna insegnarti tutto come ai bambini dell’asilo?»
Duncan, dietro di lei, si preparò a quella che sarebbe stata una ramanzina degna di sua madre. Ormai ci era abituato.
«Se fai un’altra volta una cosa del genere, non ci penserò due volte a squartarti vivo, sono stata chiara?» lo minacciò, puntandogli l’indice contro il petto.
Annuì, non sapendo se ridere per quel colorito bordeaux che si era impossessato delle sue guance, o mostrarsi annoiato da quella scenata.
Ma non ebbe il tempo né di dire e né di fare nulla. A quell’ultima frase conseguì qualcosa di totalmente inaspettato: lei si era praticamente fiondata tra le sue braccia e lo stava abbracciando.
 

• • •

 
Da qualche parte in Alberta, Canada.
Le due e ventisette.(1)

Il pilota aveva appena annunciato l’orario: le due e ventisette sul fuso orario dell’America centrale.
Le hostess camminavano sopra e sotto l’aereo da una buona mezz’ora con i carrelli stracolmi di cibo, per rifocillare tutti i passeggeri. John, che non aveva avuto la possibilità di pranzare decentemente, non faceva che prendere una porzione di tutto quello che gli passava sotto gli occhi. Quando, poi, passò il carrello con tutti i dolci e leccornie varie, si attrezzò al meglio: siccome non poteva mangiare qualcos’altro senza scoppiare, decise di prendere dal portabagagli la prima cosa che gli capitò sotto tiro - una borsetta rossa di un’anziana seduta davanti a lui - e di cominciare a riempirla di bignè e pasticcini.
«Sei un essere disgustoso» commentò Courtney affianco a lui, orripilata dallo spettacolo del ragazzo che riempiva la borsa di una perfetta sconosciuta e, di tanto in tanto, si cacciava qualcosa in bocca, per placare il suo stomaco.
«Qual è il problema?» si limitò a chiedere con il viso immerso nella bisaccia. «Ho fame».
Lei roteò gli occhi, scuotendo energeticamente la testa. Era capace di sorprenderla ogni giorno di più, quell’essere.
«Spero ora tu sia felice» disse dopo un po’, addentando una bomba alla crema. «Siamo riusciti a prendere l’aereo senza nessun contrattempo».
«Già» confermò lei laconica. «E tra un’oretta saremo a Vancouver. Non vedo l’ora di rivedere Gwen».
Ma, naturalmente, le cose non andarono come tutti avrebbero immaginato.
A seguito di queste parole, ci fu una turbolenza che costrinse tutti quanti ad allacciarsi le cinture di sicurezza. Durante tutto quel momento, Courtney tenne gli occhi sbarrati e John pensò a rimpiazzarsi per bene: se doveva morire, era meglio avere lo stomaco pieno. Duncan, intrappolato un sedile dietro di fianco ad un omone largo cinque volte di più di un uomo normale, ronfava felice e beato senza accorgersi di nulla.
Dopo uno scombussolio generale, tutto tornò al proprio posto. Ma il sospiro generale fu accompagnato da una notizia non esattamente gradita.
«Signori, è il comandante che vi parla» annunciò una voce tranquilla all’altoparlante. «A causa di un problema all’ala sinistra, ci troviamo costretti a fare scalo all’aeroporto di Calgary. La sosta prevista può variare dalle tre alle otto ore. Ci scusiamo per il disagio».
Le scuse furono coperte dall’urlo strappa timpani di Courtney, che fece risvegliare tutti coloro che si erano appisolati: «Cosa vuol dire che la sosta prevista può variare dalla tre alle otto ore?! Non esiste
John cercò di calmarla, invano: cominciò ad urlare insulti contro il pilota, contro le hostess, contro la compagnia aerea… contro tutti. Urlava così forte che un anziano seduto sei file più avanti le gridò di smetterla immediatamente ma, terrorizzato, aveva deciso in fretta di lasciar perdere.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima sosta.

 

• • •

 
Calgary, Alberta, Canada.
Le sei e trentadue.

Erano quattro ore che erano fermi all’aeroporto di Calgary e nessuno aveva deciso di dar loro qualche notizia.
Courtney, per la felicità di tutti i passeggeri, dopo aver capito che nessuno le dava ascolto - era persino entrata in cabina pilotaggio e aveva minacciato chiunque si trovasse là dentro di far ripartire il mezzo in fretta, altrimenti avrebbe fatto causa alla compagnia -, aveva deciso di darsi una calmata e di attendere che i lavori si fossero conclusi. Dopotutto, il matrimonio era sabato e loro non avevano nessuna fretta.
John aveva invece intrapreso un’altra strada: mangiare. Si stava annoiando a morte, quindi che altro poteva fare se non ingozzarsi fino a scoppiare?
«Prenderai almeno dieci chili, se continuerai così» lo rimproverò Courtney, quando si servì la quinta fetta di torta al cioccolato. Evidentemente aveva deciso di prendersela con lui, per sfogare tutta la sua ira.
«Che importa!» esclamò con la bocca piena, suscitando tutto il suo disappunto. «Vuoi un pezzo?»
«No grazie, sono a dieta» rispose, scansando il piatto che le aveva gentilmente offerto.
Lui fece spallucce e ingurgitò tutto il dolce in pochi bocconi. E, dopo un sonoro rutto, annunciò: «Vado a fare i miei bisogni» e si allontanò alla volta del bagno.
«Sai, penso che tu abbia bisogno di rilassarti un po’» sussurrò una voce al suo orecchio, qualche istante più tardi.
Si voltò di scatto e si ritrovò davanti il ghigno beffardo di Duncan, che si era seduto al posto di John ed era intento a sciogliere un nodo particolarmente insidioso dai suoi amati auricolari.
«Cosa intendi?» chiese scontrosa, incrociando le braccia al petto. «Io sono perfettamente calma».
Ridacchiando un poco, si accinse a passarle una cuffietta e a collegare gli auricolari al suo fedele iPod. Mentre scorreva alla ricerca di una canzone adeguata, le ordinò: «Avanti, mettila e lascia fare al maestro».
Visibilmente contrariata, decise di obbedirgli e si preparò psicologicamente al peggio.
Duncan prediligeva generi quali il punk e il metal e tutti i vari sottogeneri, tutta roba che Courtney aveva sempre detestato. Non riusciva a capire cosa ci trovasse di bello la gente in quella melodia confusionaria e che dopo un po’ faceva venire un mal di testa insopportabile. Per lei, non era altro che rumore.
Ma evidentemente Duncan, che aveva la camera tappezzata di poster di famose rock band e scaffali pieni di cd e vecchi vinili, non la pensava alla stessa maniera. Possedeva anche una chitarra elettrica rossa fiammante, che aveva imparato ad usare all’età di quindici anni, quando aveva messo su il suo primo gruppo musicale, e che utilizzava ogni tanto per il solo gusto di infastidirla.
Difatti, presto il suono della grancassa, seguito da quello del basso e delle chitarre, cominciò rimbombarle nelle orecchie, confermando i suoi peggiori sospetti.
Per un attimo ebbe l’impulso di strappargli l’iPod dalle mani e di stoppare la musica, evitando così che le sue meningi potessero esplodere; poi, però, ci fu qualcosa che la fece fermare.
Non seppe mai cosa fosse di preciso, ma, in qualche modo, quel rumore che lei tanto odiava la stava aiutando a calmarsi, a sfogarsi, quasi come un’efficiente terapia. Dopotutto, quella musica non era poi così male.
E prima che potesse accorgersene, tutti i suoi muscoli si rilassarono, gli occhi si chiusero istintivamente e la sua testa scivolò lentamente sulla spalla di Duncan.
 

• • •

 
Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
Le nove e quarantatré di sera.

La sosta era durata in totale cinque ore; successivamente, l’aereo aveva lasciato Calgary e, circa un’oretta più tardi, stava sorvolando i cieli di Vancouver, preparandosi per compiere il tanto agognato atterraggio.
Vancouver, come ebbero modo di testimoniare i nostri amici una volta sul taxi che li avrebbe condotti al loro hotel, pur essendo meno estesa rispetto a Toronto, offriva dei paesaggi suggestivi, che la loro città non riusciva a donare. Non avevano mai visto una cosa del genere.
Forse era il modo in cui le luci, che adornavano gli enormi grattacieli, si riflettevano nell’acqua dell’oceano - che circondava l’intera città e che a Toronto era un miraggio -, creando mille sfumature e spettacoli mozzafiato.
Si trattava pur sempre di un’enorme metropoli, ma aveva un qualcosa di speciale che mancava alla loro città.
Il viaggio in auto durò meno del previsto e, ancora rapiti da ciò che li circondava, scesero dal taxi, mentre l’autista li aiutava a scaricare i bagagli.
«Io vado a prendere le chiavi delle stanze alla reception» annunciò Courtney, mollando qualche banconota nelle mani del tassista. «Voi, intanto, portate le valige dentro».
E, detto questo, sparì dietro la porta a vetro dell’hotel.
Ben presto i ragazzi si pentirono di tutto quello che avevano portato: le tre valige, il borsone e gli ingombranti abiti da cerimonia risultarono essere estremamente pesanti. Non solo fu arduo portarli fino all’ingresso, ma, dato che gli ascensori erano fuori uso, dovettero trascinarli anche per tre piani. Durante tutto il tragitto, John non fece altro che lamentarsi di come quell’albergo non meritasse nessuna delle quattro stelle che aveva, rendendo - se possibile - il lavoro ancora più duro.
«Siamo arrivati,» annunciò Courtney, mentre gli altri due si appoggiarono al muro per riprendere fiato e asciugarsi il sudore, «stanze novantasette e novantotto».
Aprì la prima delle due porte e vi fece scivolare dentro due dei tre trolley, che da soli erano già la metà del peso complessivo.
Fece per entrare, quando si voltò di scatto, come se un pensiero l’avesse fulminata all’istante: «Domattina andremo a fare una sorpresa a Trent e Gwen, dopodiché ho intenzione di fare un giro panoramico della città» annunciò. «Io vado a letto, è stato un viaggio molto intenso. E, se fossi in voi, farei lo stesso. Buonanotte».
E, detto ciò, si richiuse la porta alle spalle, lasciandoli da soli lungo il corridoio.
Ma le brutte sorprese non erano di certo finite lì!
Quando recuperarono il fiato, Duncan fece scivolare la chiave nella toppa ed entrò per primo nella stanza. In fondo ad essa, c’era l’ultimo dei suoi incubi: un letto matrimoniale.
John lo raggiunse mentre ancora era intento a studiarlo e, notando che l’amico mostrava così tanto interesse, decise di voltarsi a vedere ciò che aveva tanto catturato la sua attenzione. E poi capì anch’egli: avrebbero dovuto condividere lo stesso letto per le prossime cinque notti.
Lo stesso pensiero attraversò entrambe le menti: «Tu dormi sul divano» sbottarono all’unisono.
Sarebbe stata una lunga notte.

 

 

 

(1) No, non avete letto male, né siamo tornati indietro nel tempo: entra in scena il fattore “fuso orario” di cui vi avevo accennato. Tra Calgary e Toronto ci sono due ore di differenza (esempio, se a Calgary sono le due, a Toronto saranno le quattro). Spero di avervi chiarito le idee.

 

 

 

 

 

 

 

Hayle’s wall
Sì, lo so, avrei dovuto aggiornare molto prima. E sì, sono una persona ignobile per non averlo fatto. Il mio comportamento non merita alcuna giustificazione… ma, d’altro canto, non sono famosa per essere puntuale ad aggiornare.
Però, devo darvi una brutta notizia: non so quando posterò il quarto capitolo. Il motivo è la mancanza di ispirazione, lo stesso che mi ha fatto tardare la pubblicazione di questo. Spero di riuscire a trovare un po’ di tempo, durante queste vacanze.
A proposito, buon Natale passato a tutti. Mi auguro abbiate passato un bel giorno.
Beh, che dire? Finalmente i nostri eroi sono a Vancouver e presto ritroveremo altri due personaggi molto amati.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo al prossimo aggiornamento.
Nel caso non dovessi farcela, vi faccio anche gli auguri di un sereno anno nuovo.
Un abbraccio.

Hayle xx

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Capitolo 4
*** Mercoledì ***


La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 


 

 

Mercoledì«

 
Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
16 luglio, ore nove e sedici del mattino.

Come Duncan aveva sospettato, quella era stata la nottata più lunga della sua vita.
John non si era dimostrato solo un coinquilino piuttosto insidioso, ma anche un insopportabile compagno di letto.
Poiché era tardissimo e se l’erano giocata in tutti i modi possibili ed immaginabili, non avevano avuto altra scelta che dormire assieme, con eterno orrore e disgusto di entrambi.
Era andata bene per circa dieci minuti; successivamente John aveva cominciato ad agitarsi e a riempire di calci il poverello che, per difendersi, rispondeva con colpi altrettanto forti, nella vana speranza di spostarlo o svegliarlo.
Siccome non riusciva ad addormentarsi, tra l’una e le due e mezza di notte non aveva fatto altro che alzarsi e sdraiarsi, una volta per andare in bagno, un’altra per prendere una boccata d’aria, un’altra ancora per bere un bicchiere d’acqua… e così via. Tutto questo non era sfuggito a Duncan che, per sua sfortuna, aveva avuto sempre un sonno piuttosto leggero.
Quando finalmente si era ambientato e calmato e quando Duncan aveva cominciato a sperare che forse avrebbe dormito, ecco che aveva sfoderato l’arma più fastidiosa e più letale di tutti: il russare.
Accompagnato da quell’insopportabile sottofondo, Duncan capì che avrebbe passato una notte insonne, poiché il suo amico non dava segni di volerla smetterla; dopo un tempo indefinito, però, quel rumore conciliò misteriosamente col suo sonno e cadde nelle accoglienti braccia di Morfeo.
Stava così bene, era così rilassato e profondamente addormentato… Eppure parve che fossero passati solo pochi minuti, quando fu svegliato da un continuo rimbalzare sul materasso.
Col senno di poi, si disse, avrebbe anche potuto sopportare quel rumore: dopo una nottata del genere quello era il minimo… peccato che circa cinque secondi dopo qualcuno spalancò le tende e i raggi del sole entrarono dalla finestra, illuminando perfettamente il suo volto.
Il cigolio delle molle e la luce solare lo costrinsero ad alzarsi, mentre il suo cervello riusciva a formulare solo bestemmie, una più creativa dell’altra.
«Finalmente ti sei alzato!» esclamò qualcuno ad un centimetro dal suo orecchio.
Ancora in uno stato di semi-coscienza, quella stessa persona lo inchiodò al letto, mettendosi a cavalcioni su di lui. Quando i suoi occhi si abituarono alla luce del sole, il viso di John era insopportabilmente vicino al suo e lo fissava con un’espressione troppo felice.
«Oggi è un giorno speciale, quindi alza il tuo sedere flaccido da questo materasso e vestiti» continuò, senza togliersi quel sorriso dalla faccia.
Duncan cercò di far funzionare gli ingranaggi arrugginiti del suo cervello, cercando di ricordarsi cosa potesse esserci di così importante quel giorno. Ma non gli veniva in mente nulla.
Notando l’espressione interrogativa, John si affrettò ad aggiungere: «Il 16 luglio non ti dice niente? Ebbene, ti darò un indizio: è il compleanno di una persona speciale».
«Mi spiace, ma per il mio compleanno manca ancora un po’» aggiunse con un pizzico di ironia e un grosso sbadiglio.
«Non parlavo di te, inutile egocentrico» rispose quello. «Si dà il caso che la persona in questione sia mille volte più importante, e che quella persona sia io» e si portò una mano al petto.
Tra il viaggio improvviso e il matrimonio imminente, si era completamente dimenticato del venticinquesimo compleanno di John. Okay, era fastidioso e con qualche rotella fuori posto, ma era comunque suo amico e si conoscevano da anni. Uno strano senso di colpa si impossessò per un poco di lui, ma poi ricordò: nemmeno John si era mai ricordato del suo compleanno.
In fondo non erano poi così diversi, se ci pensava: nessuno dei due dava importanza a eventi frivoli come quello. Riteneva, infatti, che i compleanni servissero a ricordare solo che stai invecchiando, che hai un anno in più rispetto al giorno precedente.
«Bene, auguri a te, dopo ti canto pure la canzoncina» scherzò, sdraiandosi nuovamente. «Ora voglio solo dormire fino a mezzogiorno, quando Courtney mi verrà a svegliare con qualche minaccia da due soldi».
Purtroppo, non andò come si sarebbe aspettato: non appena aveva poggiato la testa sul cuscino, John lo aveva afferrato per le gambe e aveva cominciato a spingerlo prima giù dal letto e poi sul pavimento gelido, fino al bagno, dove lo aveva scaricato e minacciato di picchiarlo, se non fosse stato pronto entro cinque minuti, lanciandogli dietro gli stessi vestiti che aveva lasciato per terra il giorno prima.
In un primo momento il suo cervello elaborò l’idea di chiudersi dentro e di utilizzare il tappeto come letto, anche se non era così comodo come sembrava. Purtroppo, la chiave l’aveva presa John, proprio per prevenire questo pericolo, e anche se fosse il ragazzo avrebbe potuto chiamare Courtney da un momento all’altro… e allora sì, sarebbero stati affari suoi. Perciò, siccome alla sua incolumità ci teneva, decise di prepararsi e di scendere dagli altri.
Quindici minuti più tardi si ritrovò a varcare l’enorme sala da pranzo e a servirsi la colazione su un vassoio di metallo. Fu facile trovare il tavolo, poiché una cinquantina di testa guardavano in quella direzione con fare disgustato: John stava ingurgitando voracemente il settimo cornetto, mentre Courtney, sentendosi tutti quegli occhi addosso, avrebbe voluto sprofondare, ma si limitò a fulminarlo con lo sguardo e a borbottargli contro svariati insulti e minacce.
«Eccoti, ce l’hai fatta!» esclamò gioviale il bruno, facendogli segno di sedersi accanto a lui; nel frattempo qualcuno si era voltato a guardarlo.
Il più velocemente possibile, fece scivolare il suo vassoio sul tavolo e si sedette, cercando di ignorare tutta quella gente.
«Buongiorno, principessa» esclamò, salutando la ragazza di fronte a lei con un ghigno.
«Buongiorno» rispose, leggermente a disagio. «Dormito bene?» aggiunse con un sorrisetto, accennando alle occhiaie profonde sotto i suoi occhi.
«Meravigliosamente» ironizzò, voltandosi verso la causa della sua insonnia. «Non ha fatto che girarsi e rigirarsi per tutta la notte».
Di tutta risposta, si limitò a mescolare per bene il suo cappuccino con un cucchiaino. Sembrava vagamente soddisfatta e divertita.
«Comunque,» aggiunse Duncan poco dopo, «il nostro amico qui presente sembra un poco eccitato per il suo compleanno».
«Ehi, venticinque anni non si compiono una volta sola!» disse quello, sentendosi chiamato in causa, con la bocca piena di pasta sfoglia e marmellata, cosa che suscitò il notevole disappunto della ragazza. Poi aggiunse: «Sappiate che mi aspetto una torta, possibilmente al cioccolato. E anche un regalo sarebbe gradito».
Di fatto, a John non interessava il compleanno di per sé, ma i privilegi che ne avrebbe ottenuto: anno dopo anno, aspettava quel giorno solo per i regali e per ingozzarsi come un maiale con torta e schifezze varie.
«Sì, poi ci pensiamo» lo liquidò Courtney con un gesto della mano. «Ora, quello che mi interessa è fare una bella sorpresa a Gwen. Non vedo l’ora!»
«Ti brillano gli occhi» non poté non notare Duncan, mentre lei sorseggiava il cappuccino lentamente.
Abbassò la tazza e si limitò a sorridere. Un po’ di schiuma le impregnava il labbro superiore.
Non avrebbe mai immaginato, dopo tutto quello che era successo in quel reality, di poter tornare ad essere amica di Gwen così in fretta. La disprezzava così tanto per pensare che fosse una situazione plausibile. E adesso, a distanza di sei anni, si ritrovava ad aver percorso più di duemila miglia solo per essere presente al suo matrimonio e vederla felice con l’uomo della sua vita. Era così fiera di lei.
Duncan invece stava pensando totalmente ad altro, ovvero a quanto fosse adorabile con quel labbro macchiato. E, quando lei stava per pulirselo, la precedette.
«Lascia, faccio io» dichiarò con nonchalance, prendendo il suo tovagliolo e sporgendosi verso di lei, con l’intento di tamponarle la macchia.
Mentre si muoveva in avanti, però, urtò violentemente il tavolo con il corpo e la tazza col cappuccino, pericolosamente vicina al bordo del tavolo, cadde a terra infrangendosi in mille pezzi; il liquido, invece, si riversò sulla maglia di Courtney.
«Bravo, complimenti! Hai idea di quanto mi sia costata?» urlò, scattando in piedi e guardandosi la macchia che lentamente si espandeva. «Non sai fare altro che combinare guai».
E si allontanò a grandi passi verso la hall, con aria offesa e al contempo infuriata.
Lui si limitò a commentare il tutto con un’imprecazione così sonora che strappò versi stizziti a qualcuno vicino. Successivamente, si dette mentalmente dello stupido circa un’infinità di volte.
John, che aveva assistito a tutta la scena, si limitò ad ammiccargli e ad alzare i pollici in sua direzione, profondamente ammirato.
«Amico, lasciatelo dire» annunciò, dandogli una sonora pacca sulla spalla. «Devi essere davvero disperato, per andare dietro alla stessa pollastrella da sei anni».
Duncan sfoderò il suo miglior ghigno: «Disperato, ma non senza speranza».(1)
 

• • •

 
Ore undici e trentatré.
Dopo avergli tenuto il broncio per circa un’ora e mezza, Courtney sembrava aver deciso che, quello del cappuccino, era stato solo un incidente madornale e aveva deciso di perdonare Duncan. Dopotutto, la macchia sarebbe andata via e aveva ben altro a cui pensare, come la sorpresa ormai imminente.
Aveva organizzato tutto nel minimo dettaglio: dopo che Gwen le aveva assicurato che quella settimana avrebbe lavorato soprattutto da casa, aveva cominciato a studiare tutti i tragitti degli autobus che si fermavano davanti al loro albergo, per vedere quale passasse il più vicino possibile alla via in cui abitava, e i rispettivi orari. Optò per il 164/ delle undici e dieci, che aveva una fermata giusto a seicento metri dall’abitazione di Gwen e Trent.
«Dobbiamo scendere alla prossima» annunciò Courtney, dopo circa venti minuti di viaggio, sporgendosi per prenotare la fermata.
«Interessante» commentò John, seduto sul lato opposto affianco ad un’anziana. «E adesso cosa si fa? Entriamo in casa dalla finestra, ci nascondiamo dietro qualcosa e, non appena passano, usciamo dai nostri nascondigli, urlando “sorpresa!” e sparando stelle filanti in aria?»
«O magari,» lo interruppe lei, mentre l’autobus si accingeva a fermarsi, «ci limitiamo a suonare al campanello e aspettiamo che qualcuno ci apra».
«Il mio piano era più di impatto» si giustificò con una scrollata di spalle.
«Certo, ora sbrighiamoci!» lo liquidò, cominciando a scendere dal mezzo di trasporto.
John, trovandosi affianco al finestrino, si voltò verso la vecchietta con l’intento di passare, ma non vi era sufficiente spazio.
«Mi scusi, signora» la chiamò, schiarendosi la voce. «Io sono arrivato. Potrebbe, cortesemente, spostarsi?»
«Sposarmi?» domandò confusa. «Non potrei mai tradire mio marito, anche se è morto da un po’ ormai».
«Non ha capito, io le ho chiesto se può farmi passare» sillabò per bene, alzando un po’ il tono per farsi sentire meglio.
«Oh sì, lo so cucinare il passato. Se vuoi, ti invito a casa mia, così potrai provarlo tu stesso».
«Non passato, ma passare!» esclamò, ormai sul punto di esplodere. «Si levi di mezzo e basta! Devo scendere!»
«Come ti permetti, piccolo impertinente? Io non sono scema!» gli urlò contro corrucciata, picchiandolo con la sua borsetta rossa.
Intanto, fermo sul ciglio della porta, Duncan osservava attentamente la scena, ridendo sommessamente.
«Ti diverti, cresta verde, non è vero?» gli chiese John, cercando di schivare i letali colpi di borsa.
«Non immagini quanto» ghignò, asciugandosi una lacrima.
«Bambini, volete muovervi?» la voce leggermente irata di Courtney arrivò chiara dal marciapiede, interrompendo la scenetta comica.
Allora il nostro prode John, avendo capito che le parole non servivano a nulla, passò ai fatti: si arrampicò sulla vecchietta, la superò, mentre lei borbottava frasi riguardo il comportamento maleducato dei giovani d’oggi, e scese con passo solenne dall’autobus, sotto l’occhiata attonita di tutti i passeggeri.
Non appena ebbe messo piede sul marciapiede, fu letteralmente trascinato per tutto il viale da Courtney, che procedeva svelta fra gli appartamenti a schiera di Thompson Boulevard.
I tre si fermarono davanti al numero 126, una casetta a due piani con i muri dipinti di rosso carminio, il tetto a punta e un piccolo giardinetto ben curato davanti. L’insieme era estremamente grazioso.
La ragazza, che guidava la fila, si infilò attraverso il cancelletto in legno, appena socchiuso, e percorse velocemente il sentiero ciottolato. Una volta davanti all’ingresso, fece saettare l’indice verso il campanello e lo fece squillare.
Qualche istante più tardi, la porta si aprì con uno scatto, rivelando la figura di Gwen. Non era cambiata granché negli anni, tranne che, ora, i suoi capelli erano di un unico colore, nero. Aveva delle profonde occhiaie sotto gli occhi e una matita dietro l’orecchio sinistro, il che lasciava presagire che aveva passato la notte in bianco a lavorare a qualche progetto. Sembrava anche leggermente sciupata, magari a causa dello stress lavorativo e pre-matrimoniale.
Prima che potesse dire qualunque cosa, Courtney si era già fiondata tra le braccia dell’amica, mormorandole un «Mi sei mancata tantissimo».
«E voi che ci fate qui?» domandò Gwen non appena riuscì a liberarsi dalla stretta, con un’espressione sorpresa e allo stesso tempo raggiante. «Non vi aspettavo prima di venerdì».
Fece cenno loro di entrare in casa, scansandosi per farli passare.
«Era l’unico volo disponibile prima di domenica» spiegò prontamente la bruna, appendendo la sua borsa all’attaccapanni.
«Ehilà Gwen, chi non muore si rivede» la salutò amichevolmente Duncan, dandole una leggera pacca sulla schiena.
Non c’era alcun tipo d’imbarazzo tra di loro, sembrava che non fossero mai stati assieme: somigliavano, infatti, più ad amici di vecchia data, pronti a scherzare e fare battute.
«È sempre un piacere rivederti» ridacchiò, battendogli il pugno.
«Pensa un po’, è la stessa cosa che gli dico sempre io. Naturalmente nella mia voce c’è molto più sarcasmo» esclamò John, superando i due. «Ad ogni modo, ciao Gwen».
«Vedo che non hai abbandonato le vecchie abitudini» gli sorrise lei di rimando, per poi rivolgersi a tutti: «Volete del caffè? L’avevo appena preparato per me».
«Non si rifiuta mai del caffè» recitò solenne Duncan.
Il gruppo si spostò nella zona cucina, una piccola stanza dalle pareti color panna e una grande finestra che ridava sul giardinetto. Sul fondo era addossato un piano cottura, affiancato dal frigorifero strapieno di post-it, tutti che indicavano appuntamenti più o meno importanti. Al centro della stanza, un tavolo rotondo faceva la sua bella figura.
«Allora, dov’è il futuro sposo?» domandò Courtney con un sorriso mellifluo, sedendosi su una sedia.
«È sotto la doccia, immagino» rispose l’altra, armeggiando con delle tazzine. «Si è svegliato da poco, ieri sera ha lavorato fino a tardi».
Trent gestiva un locale della periferia di Vancouver insieme ad un caro amico, nonché suo testimone di nozze. E, essendo per metà proprietario, poteva liberamente esibirsi con la sua chitarra in qualche mini concerto, facendo così ciò che più amava.
«Rallenta un secondo» la fermò Duncan. «Trent è sotto la doccia e tu qui? Fossi in te l’avrei già raggiunto. Magari lo rendi anche felice».
Courtney gli sferrò da sotto il tavolo una potente gomitata in pieno stomaco, che lo fece rantolare per un po’.
«Oh, ma guardatevi» ridacchiò Gwen, che aveva osservato tutta la scena. Versò il caffè nelle tazzine e le mise su un vassoio di metallo, assieme ad una zuccheriera e tre cucchiaini, che poggiò al centro del tavolo. «Sembrate proprio una coppia di sposini. A proposito, come va la vostra “relazione”?» chiese, accennando per bene l’ultima parola.
Courtney per poco non si strozzò con il caffè.
«Cosa?» riuscì a balbettare, tra un colpo di tosse e un altro.
«Come, principessa, non gliel’hai ancora detto?» scherzò Duncan, cingendole le spalle con un braccio. «È la tua migliore amica, dovrebbe venire a conoscenza di questi dettagli».
La ragazza lo avrebbe deliberatamente ucciso a mani nude davanti a tutti, se solo John non fosse intervenuto.
«Quali dettagli?» domandò divertito. «Dopo sei anni di corteggiamento, è già tanto che tu sia riuscito ad avere un appuntamento».
«Oh, andiamo Court!» esclamò Gwen, appoggiandosi contro il piano cottura e sorseggiando il suo caffè fumante. «Cos’altro deve fare questo povero ragazzo per dimostrarti che è cotto di te?»
La diretta interessata, che nel frattempo aveva raggiunto una chiara sfumatura di rosso - non si sapeva se per la rabbia, oppure per l’imbarazzo -, si limitò a versare dello zucchero nella tazza e a mescolare per bene con il cucchiaino. Prima che potesse formulare una risposta adeguata, qualcuno entrò in cucina interrompendo il discorso.
«Chi è cotto di chi?»
A differenza della sua compagna, Trent aveva subito un mutamento più profondo. I suoi capelli erano più arruffati e più ribelli, aveva messo su un po’ di massa muscolare e sulle guance spuntava una deliziosa barbetta incolta. Sembrava molto più adulto, adesso.
«Ragazzi, che gradita sorpresa!» li salutò con un enorme sorriso.
«Ecco il nostro Elvis!» disse Duncan, ammiccando in sua direzione. «Mancavi solo tu».
Trent batté il cinque ai due maschi, diede un fugace bacio sulla guancia a Courtney e poi si diresse verso la sua futura moglie, afferrandola per la vita e tuffandosi sulle sue labbra.
«Sì, tutto molto romantico» disse rapido John, rovinando tutto come solo lui sapeva fare. «Ma noi siamo ancora qui. Se volete un po’ di intimità, potete trasferirvi-».
Ma non seppero mai dove trasferirsi: un calcio al ginocchio, lo fece mugolare di dolore e non riuscì a continuare la frase.
I due si separarono all’istante, ridacchiando imbarazzati.
Poi Gwen poggiò la sua tazzina sul lavello e, avvicinandosi alla sua amica, la prese per un braccio.
«Vi dispiace se ve la rubo un istante?» chiese, aiutandola ad alzarsi. «Devo farle vedere una cosa».
E le due scomparvero al piano di sopra, parlottando sommessamente tra di loro.
Nella stanza calò così un silenzio imbarazzante. Sebbene non fossero completamente soli e avessero già chiarito i loro antichi dissapori, Trent continuava a non sentirsi del tutto a suo agio a parlare con Duncan. Dopotutto, lui e Gwen avevano avuto una relazione, per quanto breve fosse stata.
«Ehm, allora» cominciò, cercando di rompere il ghiaccio. «Quando siete arrivati?»
«Ieri sera» rispose evasivo Duncan.
«Capisco… cosa mi raccontate? È da una vita che non ci vediamo».
«Oggi è il mio compleanno, per esempio» si intromise John, bevendo un lungo sorso.
Trent sembrò sollevato che il bruno avesse aperto una conversazione.
«Fantastico, tanti auguri!» esclamò. «Se vuoi, questa sera possiamo comprare una torta e festeggiare nel mio locale. Cosa ne pensi?»
«Non saprei, non è il mio genere di serata ideale».
Nel frattempo Gwen aveva condotto l’amica nella sua camera e, dopo averla fatta sedere sul letto, aveva cominciato a frugare dentro all’armadio, in cerca di qualcosa.
«Dai, sbrigati, sono curiosa!» la incitò Courtney, avendo già intuito quale fosse la sorpresa.
«D’accordo, non ti agitare» disse lei, continuando a cercare dentro l’armadio. «Però, chiudi gli occhi».
L’altra obbedì e, quando li riaprì, non riuscì a fare a meno di sorridere.
Il pallido corpo di Gwen era fasciato da un lungo abito nero con delle maniche a sbuffo. Il velo si spandeva leggero lungo il pavimento e il vestito aveva dietro la schiena una piccola scollatura a U. Emanava luce propria nel complesso.
«Sei splendida» esclamò estasiata, dopo una breve analisi. «Ma, non fraintendermi, come mai nero?»
Non poteva di certo negare che l’amica sapeva indossare il nero con una grazia mai vista in nessun’altra, ma rimaneva comunque un’idea inusuale.
«Io e Trent abbiamo deciso di scambiare i colori. Io avrò un abito nero e lui uno smoking bianco. Volevamo fare qualcosa di diverso, di innovativo» rispose, come se fosse la cosa più normale del mondo. «Che c’è, non ti piace?» aggiunse dopo un po’, vedendo l’espressione dubbiosa sul suo volto.
Courtney si alzò in piedi e prese a sistemarle meglio le maniche.
«Lo adoro» disse soltanto, e Gwen sorrise.
«Sono felice per te» dichiarò dopo un po’, guardandola negli occhi con le mani poggiate ancora sulle sue spalle. «Davvero, te lo meriti».
E poi si abbracciarono.
Non sapeva perché, ma le veniva naturale dimostrarle il suo affetto con dei piccoli gesti o delle parole carine. Di solito, era una persona fredda e incline a lasciarsi andare, ma con Gwen era diverso, era come se la conoscesse da una vita. Le voleva un mondo di bene.
Quel bellissimo momento fu interrotto dal rumore di un oggetto di vetro che si infrange contro il pavimento.
«Porco Duncan!» imprecò sonoramente John.
A quella frase, Courtney uscì di corsa dalla stanza, pronta a dirgliene quattro.
«Che cosa state facendo?» urlò da in cima alle scale.
«Oh nulla, John non sa tenere nemmeno una semplice tazzina in mano» rispose la voce di Duncan, chiaramente ironica, dalla cucina.
«Ci riuscirei, se una scimmia decerebrata come te non mi avesse tirato una manata in faccia» disse il fautore del danno, con ancora più ironia.
«Ma quale manata, mi stavo semplicemente stiracchiando!»
Inutile dire che si aprì un’accesa discussione e la ragazza decise saggiamente di lasciare perdere: era una cosa stupida, come al solito.
Prima che potesse tornare in camera da letto, vide materializzarsi Trent ai piedi della scalinata, con le mani sulle tempie come se la testa gli stesse per esplodere.
«La smetteranno mai?» chiese semplicemente, guardandola.
Lei scosse la testa, mentre un sorrisetto le nasceva in volto: «Mai».

Non poteva fare a meno di quei due.


• • •

 
Ore ventitré e quindici di sera.

La cosa sorprendente fu che John accettò la proposta di Trent di festeggiare il suo venticinquesimo compleanno nel suo locale, quando aveva già progettato tutto da un po’: due pizze extra large e la prima stagione del suo telefilm preferito. Dopotutto, era una serata speciale.
E la cosa ancora più sorprendente fu che Courtney acconsentì quasi subito di passare l’intera serata in quel locale di periferia, con tanto di alcol e la musica a palla, dopo che Gwen la pregò per cinque minuti interi. E se ne pentì amaramente.
Certo, doveva ammettere che era stato piuttosto divertente vedere Duncan affondare la testa di John nella torta di compleanno, con seguenti imprecazioni di quest’ultimo. E non poteva negare che l’immagine esilarante di John che ballava il Gangnam Style sul bancone, dopo nemmeno tre bicchierini di brandy, le aveva strappato una risatina. E sicuramente si era sciolta un pochino quando Trent aveva dedicato quella sdolcinata canzone d’amore a Gwen, mentre Duncan commentò il tutto con un verso disgustato, beccandosi la seconda gomitata nello stomaco della giornata da parte sua.
Ma tutto era finito: Gwen era in prima fila sotto il palchetto e ammirava il suo futuro sposo con occhi sognanti, John chiacchierava del più e del meno con Adam - il ragazzo con cui Trent gestiva il locale, nonché suo testimone di nozze -, e Duncan era sparito da qualche parte in mezzo alla folla.
E lei era rimasta completamente sola, seduta su un divanetto in fondo al locale con un milk-shake in mano.
Proprio mentre rifletteva su quanto erano squallidi pub, discoteche
et similia, le si avvicinò un tipo sulla trentina, avendola vista spaesata ed isolata: era enorme, con dei capelli bruni scompigliati e i denti un po’ ingialliti, e portava dei vestiti sciatti.
«Vorresti concedermi un ballo, zuccherino?» chiese beffardo, sedendosi accanto a lei e gettandole un braccio attorno alle spalle.
La sua voce era strascicata e puzzava di fumo.
«Zuccherino un corno» sbottò acida. «E ti consiglierei di levare le tue sudicie manacce da me, se non vuoi marcire in galera. Sai, sono avvocato».
Sottolineare per bene il suo mestiere ebbe l’effetto desiderato, poiché quello roteò gli occhi e andò via. Courtney poté giurare di averlo sentire dire: «Non è abbastanza sbronza».
Quell’avance sessuale fu la goccia che fece traboccare il vaso. Se prima non sopportava quei posti, adesso li detestava e non voleva passarci un secondo di più.
Poggiò il drink sul tavolino di fronte e si alzò di scatto, facendosi spazio tra la folla per raggiungere Gwen.
«Voglio andarmene» scandì vicino al suo orecchio, in modo tale che la sentisse.
«Di già? Ma è prestissimo» si lamentò lei delusa. «Non puoi aspettare cinque minuti? Trent suona una nuova canzone, devi sentirla assolutamente
».
«Gwen, lo sai che ti voglio bene, ma comincia a scoppiarmi la testa e quello che con tutta probabilità era un barbone ci ha provato con me. Voglio andarmene adesso» spiegò, con un tono che non ammetteva repliche.
«Vi riaccompagno in macchina» sospirò dopo un attimo di esitazione, consapevole di aver perso. «Gli autobus non passano più a quest’ora».
«Perfetto» disse l’altra con l’aria vittoriosa di chi aveva appena vinto un processo. «Io vado a recuperare Duncan».
Ma non dovette cercarlo a lungo. Non appena riuscì a liberarsi da quella bolgia di persone, lo ritrovò appoggiato alla parete dinnanzi, avvinghiato ad una ragazza bionda dal fondoschiena bello pieno. I due erano impegnati a scambiarsi animatamente la saliva con una foga, come se il mondo dovesse finire da un momento all’altro, e niente e nessuno avrebbe potuto distrarli.
Quella scena fu un colpo al cuore. Ovviamente sapeva che in quei sei anni Duncan aveva avuto numerose donne, ma un conto era solo saperlo e l’altro ritrovarlo a limonarsene una davanti a lei. Faceva terribilmente male.
Doveva mettere subito quanta più distanza possibile tra lei e loro, prima che potesse urlare, strozzare quell’ochetta con le sue stesse mani o prendere a schiaffi il ragazzo. Sentiva fastidio alla gola. Pensò bene, quindi, di tornare da Gwen.
«Ripensandoci, è ancora presto» si giustificò Courtney, dopo averla trovata seduta al bancone con John e Adam, che a quanto pare avevano scoperto di amare la stessa serie tv e ne parlavano animatamente di fronte ad un drink fresco. Modulò per bene la voce, tentando di non farla tremolare. «E ho davvero voglia di sentire la canzone di Trent».
«Ottimo» si intromise John, alzando il bicchiere in loro direzione. «Perché il mio amico qui è un grande estimatore di telefilm e videogiochi. Non ci penso proprio ad andarmene!»
«Sei sicura?» la chiese invece l’amica, un tantino preoccupata per il cambio repentino d’umore. «Se vuoi andar via, non c’è nessun problema, non preoccuparti».

Il ricordo era ancora vivido.
«Ne sono certa» rispose, cercando di convincere più se stessa che Gwen, strattonandola per un braccio e trascinandola verso la pista. «Su, andiamo».
Doveva distrarsi, sfogarsi, non pensare in alcun modo a ciò che accadeva a pochi metri da lei. Ma l’immagine continuava a ripetersi insistentemente nella sua testa, rischiando di farla impazzire di rabbia e gelosia.

Le bruciava lo stomaco e le pizzicavano gli occhi.
E un angolino remoto della sua mente desiderò ardentemente di essere al posto della bionda, a baciare le labbra di Duncan.

 

 

 
Note:
(1)
Riprendendo il primo verso di Murder City, canzone dei Green Day

 

 

 

 

 

 
 

Angolo dell’autrice
Non posso credere di aver aggiornato.
Nutrivo un sacco di dubbi su questa storia, dubbi alimentati anche dal mio periodo di blocco, e avevo pensato di sospenderla più volte. La storia non riusciva più a prendermi come prima e trovavo questo capitolo piatto.
E, invece, alla fine l’ho fatto, l’ho pubblicato. Sì, non è un capitolo molto dinamico e non mi entusiasma, fin ora è il peggiore; ma, anche il prequel aveva i suoi momenti statici che non mi facevano impazzire, quindi…
Finalmente abbiamo rincontrato Gwen e Trent, più innamorati che mai. Ho voluto trattare per bene l’amicizia tra lei e Courtney, che personalmente adoro. Spero di non essere caduta troppo nell’OOC.
E poi ci sono Duncan e John, che si amano ed odiano sempre di più. Loro sono una gioia sempre e comunque.
Non so da dove mi sia venuta l’idea del compleanno di John, l’ho scritta e basta. Anche se ho sempre pensato che il suo compleanno fosse lo stesso giorno del mio, come J.K. Rowling e Harry Potter - insomma, tale madre e tale figlio -, oppure in inverno inoltrato.
E infine abbiamo anche qualche sprizzo Duncney. Si ricominciano ad avvicinare, finalmente.
Spero che il capitolo non risulti troppo pesante e di ricevere anche solo una recensione, dato che non aggiorno da fine dicembre. Conto di concludere la fan fiction entro settembre, ma non prometto nulla.
Inoltre, stavo pensando ad una crossover. Il primo capitolo è quasi concluso e, se mi soddisferà, voglio davvero pubblicarlo.
Quindi, ci vediamo presto.
Un abbraccio,

Hayle xx

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Capitolo 5
*** Giovedì ***


La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 

 

Giovedì«

 
Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
17 luglio, ore nove e due del mattino.

Gwen si sarebbe aspettata ogni cosa quella mattina.
Magari avrebbero chiamato da lavoro, chiedendole di venire in ufficio per coprire le ore di qualche collega malato o in vacanza; oppure avrebbe ricevuto finalmente quel nuovo banco da lavoro che aveva ordinato su internet settimane fa; o forse qualche altro invitato sarebbe arrivato in città in anticipo e avrebbe deciso di passare a trovarla.
Ma, di certo, Gwen non si sarebbe mai aspettata quello.
Courtney, seguita a ruota da John e Duncan, era piombata nel suo salotto e si era limitata ad annunciare: «Ho prenotato estetista, parrucchiere e una mezza giornata alle terme per noi due».
La ragazza, sveglia da poco e ancora in pigiama, si limitò a sbadigliare, analizzando per bene ciò che le avesse detto. Ma, dopo essere tornata a casa a l’una e mezza passata, la sua mente faticava ad elaborare pensieri e concetti di ogni tipo.
«Scusami?» si limitò a domandare stropicciandosi gli occhi, mentre dalla sua bocca uscì un altro grosso sbadiglio.
«Ho detto che oggi io e te andremo dal parrucchiere, dall’estetista e alle terme» scandì per bene Courtney, con più pazienza che poteva.
Questa volta riuscì a recepire per bene le parole e non le piacquero per niente. Lei sapeva bene che detestava ogni singola cosa che aveva nominato, eppure aveva deciso ugualmente di portarcela.
«Perché mi odi?» fu l’unica cosa che riuscì a dire, dopo aver tenuto la bocca aperta per due minuti.
«Non ti odio, lo faccio per il tuo bene» rispose comprensiva. «Hai delle doppie punte che si vedono da un chilometro e, senza offesa, quelle sembrano più le gambe di un orso che di una giovane donna».
Gwen si passò una mano tra i capelli e abbassò lo sguardo verso le gambe, coperte solo da un leggero pantaloncino di cotone. A lei la situazione non pareva così disastrosa, ma evidentemente Courtney non la pensava così, a giudicare dallo sguardo scettico con cui la stava studiando.
Doveva trovare una scusa adeguata per scampare a quell’intera giornata di torture, doveva assolutamente farlo. E poi, come un fulmine a ciel sereno, l’idea perfetta le si presentò davanti.
«Mi dispiace Court, ma avevo progettato di svolgere alcune mansioni stamattina, come ritirare le fedi e i fiori per la chiesa. Senza dimenticare che devo sistemare degli ultimi dettagli per il ristorante» spiegò dettagliatamente, cercando di suonare il più mortificata possibile. «Purtroppo devo farlo io, Trent è molto impegnato con il locale oggi. Senza contare che deve passare in città, per provarsi lo smoking».
Era certa di avercela fatta, ma la risposta dell’altra fece crollare il suo bel castello di carte.
«Ed è qui che entrano in scena loro» esclamò, indicando Duncan e John, che non avevano esattamente un’aria entusiasta. «Svolgeranno tutti i lavoretti pre-matrimoniali che li chiederai di fare, mentre noi due ci prendiamo una giornata di relax».
Gwen non era sicura che farsi strappare peli da ogni parte del corpo fosse rilassante, ma evitò di contraddirla.
«Noi sgobbiamo per tutta la città e voi alle terme. Non mi sembra esattamente equo» si lamentò Duncan. «Alla faccia della parità di sessi!»
«Senza contare che io avevo di meglio da fare, come ad esempio dormire fino a tardi, e invece qualcuno non solo mi ha buttato giù dal letto ad un orario indecente - le otto di mattina, ci rendiamo conto?! -, ma vuole anche obbligarmi ad andare a fare shopping!» quasi urlò John indignato. «Scordatelo, sorella».
«Dai, non puoi obbligarli a fare qualcosa che non vogliono» cercò di difenderli Gwen, sollevata che i due avessero tanto da ridire. «E poi è il mio matrimonio, non è giusto che ci pensino loro».
Ma anche questa volta la sorprese.
«Certo che posso obbligarli!» esclamò. «Lui,» e qui indicò John, che sbarrò gli occhi, «mi deve un favore grande come questa città: gli ho trovato una sistemazione a prezzo zero».
«Peccato che quella sistemazione sia casa mia e chi ci rimette sono io» specificò Duncan, sentendosi chiamato in causa.
Ma Courtney fece finta di non ascoltare, incrociando invece le braccia al petto e assumendo un atteggiamento intimidatorio, che li fece zittire all’istante; poi tornò a guardare la ragazza.
«Gwen, non è solo perché sei - perdona la schiettezza - impresentabile, io voglio davvero passare un giorno con te, completamente sole, come ai vecchi tempi» disse, cambiando completamente approccio e mostrandosi il più dolce possibile. «
È da tanto che non ci prendiamo un po’ di tempo solo per noi. Ti prego!»
E poi mise su una delle sue armi più letali, il labbruccio.
Era già successo molte altre volte: ogni volta che Courtney voleva fare qualcosa che lei detestava con tutta se stessa, metteva su quell’espressione tenera e compassionevole e la faceva cedere nel giro di cinque secondi.
E avvenne anche quella volta.
La mora tentò in ogni modo di sembrare impassibile, ma dovette ammettere che era troppo esperta. Quel labbruccio tremolante le sciolse il cuore e, come sempre, non riuscì più a resistere.
«E va bene» sospirò alla fine, avviandosi sconsolata verso le scale. «Vado a prepararmi».
E, vedendola scomparire al piano di sopra, Duncan e John si scambiarono uno sguardo di puro terrore: lo shopping li attendeva.
 

• • •

 
Ore dieci e ventitré.
«Non posso credere che Gwen si sia fatta intenerire dall’espressione da cucciolo abbattuto di Courtney» sbraitò Duncan, non appena furono scesi dall’autobus.
«Fossi in te, eviterei» lo fermò John, con un ghigno. «Sbaglio o anche tu ti sei fatto raggirare più volte dalla stessa espressione?»
Tacque all’improvviso, ripensando a tutte le volte che il labbruccio di Courtney lo aveva spinto a fare cose che non avrebbe mai fatto in vita sua. In generale, lo costringeva ad accompagnarla a fare compere, poiché aveva bisogno di qualcuno che le reggesse le borse.
«È una cosa diversa» ringhiò. «Io lo faccio per riconquistarla».
«Cioè, ti fai miseramente sfruttare solo perché vuoi riconquistarla?» chiese l’altro scettico. «Bah, contento te».
«È un metodo di corteggiamento infallibile. Ma cosa vuoi saperne tu, che negli ultimi sei anni avrai avuto sì e no quattro donne?»
«Perlomeno io ho ancora una dignità, a differenza di una certa persona».
Non riusciva a concepire che John avesse una battuta pronta per ogni cosa che dicesse, non era umanamente possibile.
«Lasciamo perdere» sbuffò Duncan, cambiando discorso. «Secondo le indicazioni, la gioielleria dovrebbe essere qui vicino».
E infatti, non appena svoltarono l’angolo, si ritrovarono davanti ad un enorme vetrina stracolma di collane e anelli che costavano più di qualunque cosa avessero mai visto.
Prima che il bruno potesse entrare, fu bloccato da una mano.
«Vedi di combinare uno dei tuoi soliti danni, mi raccomando» disse con molta ironia il suo compagno di avventura, alludendo alla vetrinetta che aveva devastato tre giorni prima. Tutti quegli zero continuavano a tormentarlo nel sonno.
«Rilassati, ex cresta verde» lo rassicurò, togliendogli la mano dalla sua spalla. «Non sono un bambino, so come comportarmi».
Duncan non ne era propriamente convinto, ma siccome voleva farla finita in fretta e litigare con quel pazzo non rientrava nei suoi piani, decise di evitare ogni commento sarcastico e di entrare nel negozio.
A differenza di quella a Toronto, la gioielleria era enorme e, a quanto sembrava dall’affluenza, gli affari andavano a gonfie vele. I prezzi erano comunque molto simili, esponenziali a livelli estremi.
Il moro si avvicinò al bancone e premette il campanellino d’ottone piazzato sopra ad esso. In un nanosecondo si materializzò una signora rugosa e spigolosa sulla cinquantina, con un paio di occhiali rossi e vistosi sugli occhi.
«Posso esservi d’aiuto?» chiese con tono cordiale.
«Sì, dovrebbe esserci una prenotazione a nome McCord» rispose. «Si tratta di due fedi nuziali».
La gioielliera annuì e scomparve dietro la cassa, per farvi ritorno qualche istante più tardi con una scatoletta di velluto blu aperta, dove vi erano depositate due splendide fedi d’oro.
«L’ordinazione è già stata pagata» specificò, per poi sporgersi verso di loro. «Personalmente, ho sempre appoggiato le unioni tra persone dello stesso sesso, dopotutto l’amore è amore. Auguri!»
A quella frase Duncan sbiancò e John prese a tremare di orrore. Quella signora aveva appena ipotizzato che i due non solo fossero gay, ma anche in procinto di sposarsi. Sembrava una storia del terrore.
«Deve esserci stato un malinteso» mormorò Duncan, il primo dei due che riuscì a ricordare come si parlasse. «Non… stiamo insieme… e non si tratta del nostro matrimonio».
«È di due amici» specificò ancora di più il bruno, ancora profondamente traumatizzato.
«Oh, capisco» disse la gioielliera a disagio. «Mi spiace, davvero. Pensavo che fossero per voi due. Vi porgo le mie scuse».
«Non si preoccupi» la rassicurò Duncan, mentre dietro di lui sembrava che John volesse ucciderla con lo sguardo. Poi prese la scatola e, uscendo dal negozio, aggiunse: «Arrivederci».
Una volta fuori, John prese a sbottare il suo disappunto con aria indignata.
«Ho praticamente scritto sulla fronte la parola etero» gridò sconvolto. «E, anche se fosse, di certo non mi metterei con te».
L’altro borbottò di risposta: «Più che altro sulla fronte hai tatuata a lettere cubitali la parola cogl-».
Ma non riuscì a finire la frase: poiché guardava dritto davanti a sé come se fosse incantato, non si accorse di un crepa nel marciapiede e ci inciampò. Duncan riuscì a rimettersi in equilibrio subito, senza che sbattesse la testa per terra, ma, durante il breve volo, la scatoletta con le fedi gli sfuggì di mano e cominciò a rotolare lungo la strada. John prese a rincorrerla il più velocemente possibile - e la dieta a base di pizza e coca cola non lo aiutò affatto - ma, prima che potesse afferrarla, cadde in un tombino aperto e, con lei, tutte le speranze di completare quelle mansioni del giro di mezza giornata.
«Ma porco Duncan!» imprecò, inginocchiandosi vicino al tombino.
«Sì, io sto bene, grazie per l’interessamento» disse colui a cui era rivolta la “bestemmia”, avvicinandosi e spolverandosi i vestiti.
«Non me ne frega niente di come stai. Ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai mandato all’aria la possibilità di sbrigarcela in due o tre ore e, soprattutto, quella di riuscire a fare un pranzo decente!» gli urlò in faccia, rialzandosi. «Poi sono io Mister Mani di Burro, colui che non fa che combinare danni e rompere oggetti preziosi!»
«Punto primo, non sputare» disse allontanandosi e stropicciandosi un occhio, dentro il quale era entrata della saliva. «E punto secondo, solitamente tu rompi qualcos’altro di altrettanto prezioso e che mi appartiene» aggiunse alludendo ai suoi genitali e cercando di allentare la tensione senza alcun successo.
«Basta con le volgarità e muovi quelle chiappe flaccide che ti ritrovi. Ho intenzione di trovare un’altra gioielleria prima di sera».
«Io sarei volgare!» replicò Duncan beffardo, seguendolo per il marciapiede lungo il cui procedeva quasi correndo. «E, ad ogni modo, se fossi gay, nemmeno io farei mai la pazzia di mettermi con te, almeno che non diventi un pazzo masochista».
«Vedo che su una cosa siamo d’accordo, cresta verde!»
Ah, quant’era solida ed armoniosa la loro amicizia!
 

• • •

 
Ore undici e cinquantotto.
«Potresti rallentare un secondo?»
Courtney, che procedeva a passo svelto lungo le vetrine, si fermò a guardare Gwen, un paio di metri più indietro, la quale camminava lentamente e con le gambe stranamente divaricate e un’espressione sofferente in volto.
«Era proprio necessario?» chiese non appena riuscì ad affiancarla. «Sai com’è, l’inguine mi va a fuoco».
«Certo che lo era» rispose la bruna roteando lo sguardo. «Non si è mai vista una sposa con tutti quei peli che avevi. E dovresti ringraziarmi, avrai probabilmente perso tre chili» ironizzò, con un sorrisetto malizioso.
«Grazie, Courtney, per avermi provocato del male fisico» disse con più sarcasmo possibile.
«Credo che il tuo dolore l’abbia sentito chiunque in quel posto» ridacchiò la diretta interessata, alludendo alle urla che Gwen aveva lanciato ogni volta che l’estetista le strappava via i peli. «Hai mai fatto una ceretta?»
«No. Sai com’è, preferisco il pratico e soprattutto indolore rasoio».
Gwen temeva che l’amica avesse potuto portare ancora avanti il discorso - come se farsi depilare ogni parte del corpo non fosse già abbastanza umiliante; per sua fortuna, però, erano arrivati davanti al parrucchiere e, prima che potesse farci caso, Courtney era già entrata e si era diretta verso le casse.
«Ho prenotato a nome Barlow per mezzogiorno» disse alla cassiera, una ragazza di colore con una zazzera di capelli riccissimi in testa.
Quella prese un blocco appunti da sotto il banco, lo aprì e cominciò a scorrere fino a quando non trovò il suo nome.
«Oh sì, eccolo qui» annunciò. Poi indicò con un dito due sedute in fondo al locale e disse: «Potete cominciare ad accomodarvi lì. I miei colleghi arrivano tra un attimo».
Il negozio era piccolo, con una fila di poltroncine sistemate davanti a degli specchi e dei lavandini neri per lavare i capelli sistemati sulla parete affianco. I muri erano tappezzati di poster di capigliature di ogni tipo.
«Posso chiederti una cosa?» proferì Gwen, non appena prese posto, a Courtney, che leggeva una rivista presa da un cesto di vimini all’ingresso.
Lei annuì distrattamente, senza alzare lo sguardo da quelle pagine. Cercava un’acconciatura che la soddisfacesse a pieno.
Ma prima che riuscì a spiccicare una singola parola, dietro di lei si era materializzato un ragazzo muscoloso e con dei lunghi e setosi capelli bruni.
«Buongiorno!» esclamò raggiante, salutando la sua immagine nello specchio. «Tu devi essere Gwen».
«In persona» confermò con aria annoiata.
«La tua amica ci ha detto che sabato ti sposi» vaneggiò lui, estasiato. «Congratulazioni!»
«Grazie» rispose con cortesia, mentre il suo sguardo saettò alla sua destra.
Courtney parlava con una signora da un folto caschetto rosso riguardo al suo taglio e usando parole che, giurò, non riusciva a comprendere. Non era molto pratica di capelli, unghie e tutto ciò che riguardasse il termine “estetica” oppure il più specifico “moda”.
«Mio Dio, tesoro!» esclamò la voce del parrucchiere, facendola sussultare. «Questi capelli sono un disastro!»
Gwen si guardò meglio allo specchio, mentre quello studiava le sue ciocche con estrema professionalità e uno sguardo scettico.
Si era sempre occupata dei suoi capelli da sola, sin da quando aveva quindici anni e sua mamma le aveva categoricamente proibito di farsi le mèche blu. In quel periodo ascoltava solo quello che la sua testa le diceva di fare - non che ora le cose fossero molto diverse -, quindi, non andandole giù quel divieto, comprò la tinta e, con l’aiuto di una sua amica del liceo, se le fece da sola. Per sua madre fu uno shock, tanto che la mise in punizione per tre settimane intere.
Da allora, aveva cominciato a gestire da sola i suoi capelli, tagliandoli quando era necessario e tingendoli quando il colore cominciava a rovinarsi. Solo che non era mai stata brava, e si vedeva.
«Da quanto tempo non vai da un parrucchiere?» domandò il ragazzo, confrontando due ciocche di lunghezza diversa, strapiene di doppie punte.
“Da quasi dieci anni” pensò, ma non poteva di certo dirlo, o avrebbe rischiato di ucciderlo sul colpo.
«Ehm, da un po’» decise di rispondere, dopo un attimo di meditazione, rimanendo sul vago.
«E si vede» borbottò, passandosi una mano dietro la nuca.
La stava trattando come una bambinetta di otto anni. Probabilmente credeva che fosse una menomata mentale oppure una sciatta con nessun gusto. O magari entrambe.
«Ci sarà molto da lavorare» sentenziò alla fine Brandon - Gwen aveva scoperto che si chiamava così, leggendo il suo nome dal cartellino affisso sul petto -, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi. «Seguimi, cara» disse, accompagnandola verso uno dei lavandini.
Un’ora e mezza più tardi, dopo sforbiciate e frecciatine di Brandon riguardo il suo pessimo stile e la sua scarsa conoscenza in materia di moda, Gwen, che era arrivata a meditare di ammazzarlo usando solo un paio di forbici, ebbe l’onore di vedere il risultato finale. E dovette ricredersi: per quanto presuntuoso e narcisista fosse, aveva fatto un gran lavoro. Il suo caschetto, più nero e ordinato che mai, senza nessuna ciocca fuori posto, non era mai stato così perfetto.
Dopo averlo ringraziato, si avviò verso Courtney, seduta su uno dei pouf all’ingresso, adibito come sala attesa, che rispondeva a delle mail di lavoro dal suo palmare. Nel suo vocabolario non esisteva la parola vacanza.
Si schiarì la voce e, finalmente, la ragazza si accorse della sua presenza.
«Finalmente ti stai trasformando in una donna» sorrise.
A differenza di Gwen, lei aveva deciso di non alterare la lunghezza dei suoi capelli, preferendo renderli solo leggermente più mossi in vista del matrimonio.
«Anche tu sei splendida» disse, vedendola tornare con lo sguardo sul suo palmare.
Era sempre così: ogni volta che uscivano insieme, Courtney passava buona parte del tempo al telefono. Era una donna in carriera, lo capiva, ma rischiava davvero l’esaurimento nervoso, se continuava così.
«Dovresti smetterla di usare quell’affare, sei in vacanza!» la rimproverò, portando le mani sui fianchi. Poi si rese conto che c’era qualcosa che non andava, lo vedeva dal suo volto. «Sei sicura di stare bene? Ti vedo giù».
Smise per un secondo di ticchettare sulla tastiera e aprì la bocca, cercando di parlare. Sospirò solamente.
«Sto benissimo, davvero» la rassicurò Courtney, guardandola per un secondo. Per quanto si sforzò di sorridere, si vedeva che non era così. Poi prese a riscrivere la mail.
Gwen stava per indagare più a fondo, quando anticipò le sue mosse. Rimise il palmare in borsa, da dove cacciò il portafoglio. Si alzò e, dirigendosi verso la cassa, disse: «Paghiamo, così possiamo andare a mangiare».

Non stava bene.
 

• • •

 
Ore tre e dodici del pomeriggio.
In quelle ore, John e Duncan avevano girato ben sei gioiellerie e in nessuna di queste avevano avuto fortuna. Una era chiusa per ristrutturazione, due per ferie, una perché era il giorno di riposo e le altre due erano così piene che faticarono persino ad entrare. La loro ultima possibilità era quel squallido negozietto fuori città.
«È tutta la mattina che giriamo a vuoto» sbottò John. «Se non abbiamo fortuna nemmeno qui, giuro che bestemmio».
«Avremmo potuto metterci di meno, se non ti fossi fermato a quella panineria» borbottò Duncan, ricordando fin troppo bene i tre quarti d’ora spesi dentro quel posto che sapeva di pane bruciato.
«Dovevo pur mettere sotto i denti qualcosa» si giustificò, scrollando le spalle e spingendo la porta per entrare.
Presto fu ben chiaro perché quel posto era desertico e dimenticato da Dio. Era piccolo, decadente e polveroso, circondato da vetrinette mezze vuote.
«Benvenuti» li accolse un uomo sulla quarantina, con una camicia verde vomito, da dietro il bancone. «In cosa posso esservi utile?»
«Stiamo cercando delle fedi quanto più simili alle originali, spesse e dorate» spiegò Duncan, avvicinandosi. «E ci servono entro oggi, altrimenti la sposa e la sua testimone ci ammazzano. Soprattutto la testimone».
Immaginò vagamente cosa avrebbe potuto dire e fare Courtney, non appena avrebbe scoperto cosa fosse successo quella mattinata. E in quel pensiero lui era morto.
«Ne abbiamo in quantità!» esclamò, felice che quel giorno avrebbe concluso un affare.
«E prima che possa supporre cose assolutamente false, sono per due amici, non siamo gay, non siamo legati sentimentalmente in alcun modo, ed è colpa sua se abbiamo girato l’intera città, poiché ha fatto cadere le fedi originali in un tombino» lo precedette John, ancora traumatizzato dalle parole di quella gioielliera, indicando l’amico.
L’uomo uscì da dietro la cassa e li fece segno di seguire. Li condusse davanti ad una cristalliera, in cui vi erano anelli di ogni tipo e dimensione.
«Scegliete pure quello che ci assomiglia di più» disse con tono gioviale.
«Il terzo della seconda fila» disse con aria sicura Duncan, dopo aver esitato a lungo.
Il negoziante stava per prenderlo, quando John si intromise nel discorso.
«Stai scherzando, vero?» domandò. «Hai scelto quello che ci somiglia di meno. Guarda il quarto della prima fila, è identico».
Spostò lo sguardo verso la posizione indicata dal ragazzo e assunse un’aria dubbiosa e scettica.
«Ma ci vedi? Non c’entra niente con quelli originali».
«Mentre invece quello che hai scelto tu ci somiglia parecchio. Ma per favore, ho una memoria fotografica, so esattamente com’erano!»
«Ti prego, dimmi una volta sola in cui hai ritrovato una cosa senza sfasciare casa, signor Memoria Fotografica!»
«Ma non c’entra nulla, questo! Fatto sta che il quarto della prima fila ci somiglia molto di più».
«Il terzo della seconda fila, al limite».
«Il quarto della prima».
«Il terzo della seconda».
Il gioielliere stava impazzendo. Quei due avevano davvero intrapreso una conversazione su quale anello fosse migliore. Doveva fare qualcosa.
«Che ne dite,» propose a voce alta, intromettendosi tra i ragazzi per fermare la litigata focosa, «della terzultima della prima fila? È molto simile a entrambi gli anelli che vi piacciono».
Duncan e John si limitarono a guardarsi in cagnesco. Nella loro lingua, significava un “sì”.
Aprì la cristalliera, con una piccola chiave in ottone che gli pendeva da collo, ed estrasse un anello piuttosto spesso color oro. Poi, mentre le portava al bancone, annunciò: «Ho bisogno di un’oretta per le incisioni. Se volete, potete farvi un giro e tornare più tardi, così concorderemo anche il prezzo».
«Per me va bene» grugnì John. «Ho bisogno di un gelato».
L’altro lo guardò disgustato.
«Dopo cinque panini vuoi anche un gelato?»
«Che c’è? Dimostrare che io ho ragione e tu torto è un’attività che richiede molte calorie».
A distanza di sei anni, Duncan si chiedeva ancora perché erano amici.
 

• • •

 
Ore quattro e trentasei.
«Ora che hai finito, vieni o no a rilassarti?» gridò Gwen dalla piscina.
Courtney chiuse la telefonata con il suo capo, turbata. Il processo era stato anticipato alla prossima settimana e lei si trovava fuori città, con pochissimo tempo a disposizione per prepararsi per bene. Con tutta probabilità avrebbe perso per la prima volta in tutta la sua breve carriera, e non poteva permetterlo.
Rimise il palmare in borsa e la chiuse. Non ne poteva più.
«Perdonami, era urgente. Una chiamata improrogabile» si giustificò una volta a bordo vasca.
Raccolse i suoi capelli freschi di parrucchiere in una pinza, lasciò scivolare ai suoi piedi l’accappatoio e si tuffò.
«Io dico che dovresti darci un taglio» la rimproverò. «Spegni il telefono per qualche ora, non sarà una tragedia».
Courtney la guardò come se avesse detto un’eresia.
«Nel mio lavoro non esistono ferie» si limitò a dire.
Aveva raggiunto il culmine dello stress. Se avesse continuato con quei ritmi, il suo organismo ne avrebbe risentito, e lo sapeva. Ma non poteva comunque farne a meno.
E poi, onestamente, riempirsi di lavoro la aiutava anche a non pensare a quello che i suoi occhi avevano visto ieri sera. Più ci ripensava, più ci soffriva. Quindi, se avesse fatto dell’altro, non avrebbe avuto modo di rimuginarci ancora e ancora.
«C’è qualcosa che ti turba, non è vero?» chiese all’improvviso Gwen, muovendosi in sua direzione.
«Cosa te lo fa pensare?» mormorò, sentendo la sua mano sulla spalla.
«È tutto il giorno che non ti fermi un secondo, persino a pranzo hai passato più tempo al cellulare che a parlare con me!» espose, ed erano tutte argomentazioni valide. «E comincio a sospettare che tutto questo,» aggiunse, guardandosi attorno, «sia un escamotage per non pensare a questo qualcosa».
Da quando era diventata così perspicace?
Courtney esitò un secondo, indecisa se parlargliene o continuare a mentire. Poi, si disse, che era la sua migliore amica e che si era sempre confidata. Non sarebbe stato onesto nei suoi confronti.
«Ieri sera,» cominciò, prendendo un respiro profondo per rilassarsi, «ho visto Duncan in compagnia di una ragazza… erano appiccicati, si stavano baciando» e dopo una breve pausa aggiunse, rendendo completamente vano il suo tentativo di calmarsi: «Quell’infido, schifoso bastardo la stava baciando!»
Dirlo, ammetterlo a voce alta, faceva ancora più male.
Sul viso di Gwen apparve un enorme sorriso, e non capì se era di conforto o era seriamente felice.
«Ma è fantastico» si limitò ad esclamare.
Courtney pensò che la stesse prendendo in giro e la cosa la fece irritare ancora di più.
«Hai sentito quello che ho detto?!» domandò, cercando di non urlare. Anche se ci era andata molto vicino.
«Non capisci?» disse, scuotendo la testa e cercando di reprimere la risatina che minacciava di uscire dalla sua bocca. «Quello che è successo ti rende gelosa, non provare a negarlo!,» la bloccò non appena la vide sul punto di replicare, «E sei gelosa perché lo ami».
Scoppiò a ridere, una risata isterica e di scherno.
Non amava Duncan, affatto! Certo, le dava fastidio che parlasse di altre ragazze in sua presenza, che le fissasse e che lo trovasse in atteggiamenti scomodi con una di loro, ma questo non significava che l’amasse.
Dopotutto, non l’aveva atteso sotto il suo ufficio quasi ogni sera.
Non aveva aspettato anche solo un singolo messaggio o una semplice chiamata, quando non lo vedeva per tutto il giorno.
Non aveva visto andare e venire miriadi di donne e non si era ripetuta più volte di non darci conto, ogni volta che ce n’era una nuova, mentre dentro di sé moriva di gelosia.
Non aveva passato ogni giorno degli ultimi sei anni a sperare che si accorgesse di lei, che si rendesse conto che dietro ogni sfuriata e insulto che gli rivolgeva c’era molto di più.
E non aveva fatto tutto questo e altro solo perché lo amava da quanto era una sciocca bambinetta di sedici anni.
«No che non lo amo!» ribatté, riassumendo tutti i pensieri caotici che le attraversavano la testa in quel momento.
Cercò di convincere più se stessa che Gwen che non fosse così. Bugiarda.
«Potrai mentire quanto vuoi, ma sai che non è così» rispose lei. «E, detto tra di noi, anche Duncan è cotto di te. Ci sarà sicuramente un motivo valido per cui l’ha fatto».
Courtney voleva credere che avesse ragione, lo voleva davvero. Ma, più si sforzava di giustificare quell’azione, più non riusciva a trovare argomentazioni valide.

E, anche se non l’avrebbe mai ammesso, voleva anche credere che l’amasse.
Le scoppiava la testa, aveva bisogno di spegnere i suoi ragionamenti contorti, di dimenticarsi di quella faccenda per un po’, di tenere a bada i suoi sentimenti. E ci riuscì solo quando Gwen la abbracciò. E per ora bastò.
 

• • •

 
Ore cinque e cinquanta.
«Questa è senza dubbio una delle cose più imbarazzanti che abbiamo mai fatto» mormorò John, digrignando i denti.
Lui e Duncan erano seduti sul fondo di un autobus, che li avrebbe riportati a casa di Trent e Gwen dopo quella lunga giornata, circondati da vasi e mazzi di fiori di ogni tipologia e colore. Inutile dire che gli occhi di tutti erano puntati su quella strana coppia.
«Direi che hai un criterio di valutazione pessimo» disse l’altro. «Non ricordi di quando siamo rimasti chiusi nell’ascensore assieme?»
Il bruno rabbrividì al solo ricordo.
Courtney li aveva invitati a cena e, abitando al penultimo piano, avevano deciso di prendere l’ascensore. Erano quasi arrivati, quando si sentì un tonfo e rimasero completamente al buio. Dopo varie imprecazioni e movimenti di vario genere, si era accesa la luce di emergenza, mostrando i due ragazzi a pochi centimetri tra di loro, avvinghiati e con i nasi che si sfioravano. Era seguito un urlo di puro terrore e disgusto.
Avevano chiamato immediatamente Courtney, ma quella li aveva lasciati marcire un’ora lì dentro, solo perché entrambi si erano inventati una scusa colossale per non accompagnarla a fare shopping durante la settimana dei saldi. Ragion per cui avevano trascorso quell’ora seduti a gambe incrociate, separati da un ragionevole spazio vitale, a guardarsi in silenzio religioso, limitandosi a balbettare monosillabi imbarazzati di tanto in tanto. Dopodiché, la ragazza aveva mandato i soccorsi, per infinita gioia di entrambi.
Inutile dire che, una volta saputa del quasi-bacio, li aveva derisi per tutta la serata, che si era trasformata più che altro in un inferno.
«Okay, cambio la mia risposta».
Dopo aver taciuto per un po’, limitandosi ad ignorare quelle occhiate invadenti, Duncan gli chiese: «Sai se Courtney ce l’ha con me?»
Quella frase sorprese pure lui. Nessuno dei due aveva mai confidato le proprie preoccupazioni all’altro, quella era effettivamente la prima volta. La loro amicizia si basava su insulti pesanti e scherzi di pessimo gusto.
«Insomma,» continuò, dopo aver superato lo stupore iniziale, «questa mattina a colazione non mi ha rivolto la parola, ha fatto finta che non esistessi. Non mi ha nemmeno salutato!»
«Magari si è finalmente resa conto di quanto tu sia inutile e fastidioso, cominciando a trattarti come il sottoscritto» rispose risoluto. Poi, cambiando totalmente atteggiamento, sbottò: «Pensi che lo venga a dire a me? E anche se fosse, probabilmente non l’avrei ascoltata. Non è affare mio se voi due avete dei problemi».
Duncan cominciò a ricordare perché non si fosse mai aperto a lui: era menefreghista e si interessava solo di ciò che gli facesse comodo.
Sbuffò infastidito.
«La prossima fermata è la nostra» borbottò, chiudendo la conversazione.
 

• • •

 
Ore dieci e diciassette di sera.

Courtney aveva rifiutato l’invito di John di rimanere con lui nel salone del hotel a guardare un reality in TV- targato, ironia della sorte, Chris McLean -, preferendo invece ritirarsi nella sua stanza e concludere finalmente quella faticosa giornata. E riordinare un po’ i suoi pensieri.
Non appena salì fino al suo piano, però, una voce familiare la chiamò.
«Courtney, aspetta!»
Si trattava di Duncan, che aveva il fiatone dopo averla rincorsa lungo tutta la hall e su per le scale.
Non lo degnò nemmeno di una sguardo, continuando a percorrere il corridoio con passo svelto. Quando si fermò davanti alla porta della stanza numero 97 e stava per infilare la chiave nella toppa, però, la bloccò afferrandole il braccio.
«Lasciami andare!» sbraitò lei senza guardarlo, cercando di dimenarsi. Aveva dimenticato quanto fosse forte fisicamente.
«Gradirei che mi guardassi in faccia, quanto ti parlo».
La ragazza perse la testa. Senza ragionare, la mano le partì in automatico ma non colpì mai la sua guancia. Quando finalmente guardò in sua direzione, si rese conto che lui l’aveva prontamente fermata.
«Ora, mi dici qual è il tuo problema?»
La situazione era piuttosto tesa: Courtney, con entrambi i polsi immobilizzati, gli lanciava occhiate di fuoco e per un momento sembrò considerare l’idea di prenderlo a calci.
«Assolutamente nessuno» sputò con acidità.
«Non sei mai stata brava a mentire» ridacchiò, facendola arrabbiare ancora di più. «
È tutto il giorno che non mi rivolgi la parola. Che ti ho fatto?»
«Devo avercela per forza con te?» chiese, nascondendo tutto il suo sarcasmo. «Magari posso solo aver avuto una giornata no. Sai, non sei il centro dell’universo».
«Oh beh, allora tutto apposto» scherzò lui. «Per un momento ho temuto-»
«Ma sei stupido? È ovvio che ce l’ho con te, come sempre!» urlò interrompendolo.
Calò il silenzio, che fu interrotto poco dopo dalle risatine di Duncan, che evidentemente trovava la situazione divertente. Cercò di mascherarle meglio che poteva… peccato che Courtney le sentì comunque e queste gli costarono una potente ginocchiata nelle parti intime, come ai vecchi tempi.
«Perché?» chiese dolorante, allontanandosi e portandosi le mani sui gioielli.
«Perché ce l’ho con te o perché il calcio?» chiese innocentemente lei, cosa che gli fece roteare gli occhi.
«Al perché della seconda ci arrivo pure da solo, grazie» biascicò annoiato.
Lei si morse un labbro, non riuscendo a trovare le parole più adatte. Parole che, poi, uscirono tutte insieme, all’improvviso.
«Ieri sera ti ho visto con una ragazza, e non provare ad insinuare che non sia così!» disse tutto d’un fiato, come se così potesse risultare meno doloroso.
Dilatò gli occhi per la sorpresa. Non avrebbe mai dovuto saperlo, men che meno vederlo con i suoi stessi occhi.
«Ah, la bionda» mormorò . «Ascolta, ti posso spiegare. Era ubriaca e distrutta per la rottura con il fidanzato. Io ho solo provato a confortarla…»
«E hai pensato di confortarla infilandole la lingua in bocca, brutto stronzo?!» strillò con tutto il rancore che aveva in corpo.
A Duncan parve di sentire un singhiozzo e improvvisamente un bruciante senso di colpa si impossessò di lui, come mai era successo. Aveva davvero fatto del male alla sua principessa per l’ennesima volta?
«Non ci sono andato a letto» disse, come se quello potesse giustificarlo. «Ero qui con voi ieri sera, lo sai».
«Lo so» annuì lei.
E poi successe qualcosa di straordinario.
Le si avvicinò e le prese il viso tra le mani, guardando intensamente quegli splendidi occhi neri da cerbiatta.
«Perdonami Courtney» disse, e lei capì che non era mai stato più sincero di così.
Affondò la testa nel suo petto e lo strinse come non aveva mai fatto. Quelle braccia erano casa.
Si staccò controvoglia da lui, sussurrandogli un «Buonanotte», ed entrò nella sua camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Due cose erano certe.
La prima che non poteva essere arrabbiata con lui troppo a lungo.
E la seconda che Gwen aveva ragione, si era davvero innamorata di Duncan un’altra volta.

 

 

 

 

 

 
Angolo dell’autrice
Non ho mai impiagato così poco tempo per aggiornare. Una settimana precisa, questo sì che è un record!
Ed è anche il capitolo più lungo finora, più di cinquemila parole.
Devo dire che ero molto ispirata e che Bang Bang, la nuova canzone dei Green Day, mi ha caricata così tanto da rendermi più produttiva del solito.
Mi dispiace di non aver parlato di Trent in questo capitolo, ma prometto di rifarmi nei prossimi due. Dopotutto, il matrimonio si avvicina.
E ho intenzione di cimentarmi in una Gwent, una missing moment di questa serie, ambientata tra la prima e la seconda storia. Ho bisogno di tempo per sistemare un po’ le idee, spero di riuscire a scriverla e a pubblicarla presto.
In questo capitolo John e Duncan - o, se preferite, i Johncan - diventano sempre più spudoratamente canon. Prima la gioielliera, poi l’aneddoto sull’ascensore… sì, ci regalano tante gioie.
Così come ce le regala Courtney, che ha finalmente ammesso di amare Duncan. Se volete, possiamo festeggiare assieme. E sappiate che nei prossimi due capitoli ci saranno esplosioni di Duncney feels ovunque, vi avviso in anticipo così potete prepararvi.
Con questo chiudo. Vado subito a scrivere il capitolo sei, prima che la mia ispirazione termini tutta d’un botto.
Ci vediamo presto, un grosso abbraccio!

Hayle xx

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Capitolo 6
*** Venerdì ***


La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 

 
 

Venerdì«
 

Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
18 luglio, ore otto e quindici del mattino.

Dopo essersi svegliato ad un orario improponibile ieri mattina, John non intendeva alzarsi da quel letto prima delle undici.
Courtney, inoltre, gli aveva giurato che in alcun modo avrebbe provato ad attentare alla sua vita, così com’era successo martedì, quando erano partiti. Aveva anche aggiunto che quella giornata sarebbe stata di riposo assoluto, poiché l’indomani ci sarebbe stato il matrimonio, e che intendeva uscire solo per fare una passeggiata per il centro di Vancouver.
Sarebbe, perciò, stata una mattinata tranquilla. Fino a quel momento.
Una rumorosissima chitarra elettrica partì a tutto volume, ridestandolo dal suo sonno e costringendogli a soffocare un’imprecazione vergognosa contro il cuscino. Si trattava della suoneria di Duncan.
«Imbecille, il telefono» disse con la bocca impastata di sonno, riempiendolo di calci fino a quando non lo sentì muoversi. «La prossima volta metti il silenzioso» borbottò, rigirandosi per cercare la posizione più adeguata per riaddormentarsi.
Duncan lo guardò malissimo - avrebbe potuto scegliere un modo meno traumatico e doloso per chiamarlo -, prima di accettare la chiamata.
«Pronto?» chiese con voce rauca, trattenendo uno sbadiglio.
«Buongiorno Duncan, sono Trent» la voce squillante del moro gli riempì le orecchie. Tutta quella felicità glielo fece odiare per un secondo.
«Ciao Elvis» borbottò.
«Mi dispiace se ti ho svegliato, ma è una cosa importante» si scusò, percependo il suo tono poco gentile e piuttosto indisponente.
Si disse che nessuna cosa era abbastanza importante per svegliarlo alle otto di mattina di un comunissimo venerdì di vacanza.
«Adam sta organizzando l’addio al celibato al locale questa sera, e ovviamente tu e John siete invitati».

Tutto qui?
Decisamente, confermò, quella cosa non era importante quanto il suo sonno interrotto.
«Ovviamente ci saremo» si limitò a dire.
Dopotutto, sarebbe stato divertente andare ad un addio al celibato, dopo due anni dall’ultimo. Ricordava come era degenerato quello di Geoff, quando avevano aperto quelle casse di birra. Bridgette non seppe mai cosa fosse successo quella notte. Ed era meglio così.
Magari, anche se Trent era un santarellino, anche quello sarebbe diventato memorabile. Dopotutto, Adam non sembrava responsabile e cosciente come lui.
«Perfetto, allora ci vediamo stasera».
«A dopo» lo salutò.
Riattaccò e ripoggiò il cellulare sul comodino, ripiombando sul materasso con tutta la sua non-grazia. Poco dopo, constatando che non riusciva più a riaddormentarsi, decise di alzarsi e cominciare quella giornata.
«John» disse, chiamando l’organismo pluricellulare che giaceva sul letto, prima di infilarsi in bagno. «Stasera andiamo all’addio al celibato di Trent».
«Okay, bello schifo» mugugnò lui.
E, almeno lui, cominciò a ronfare, felice e beato.

 
• • •

 
Ore otto e quarantotto.
Courtney sedeva tutta sola ad un tavolo in fondo alla sala, intenta a consumare la sua colazione in tutta tranquillità, quando il suo telefono prese a squillare.
Sbuffando, lesse il nome sul display e rimase sorpresa.
«Pronto, Bridgette?» chiese, rispondendo alla chiamata.
«Ehi ciao, Courtney» esclamò lei dall’altra parte della cornetta. «È da un po’ che non ci sentiamo».
Ed era vero, l’ultima volta risaliva a Natale. Dopo le nozze con Geoff, infatti, si era trasferita ad Orlando, in Florida, e non avevano avuto più modo di vedersi, tranne quando entrambi venivano a trovare i genitori per le festività.
Era l’unica ragazza del reality, dopo Gwen, con cui aveva mantenuto dei buoni rapporti.
«Già
» affermò. «A cosa devo il piacere di questa telefonata?»
«So che di solito a queste cose pensa la testimone di nozze, ma so anche che sei una donna impegnata e che non dà conto a cose frivole» cominciò lei. «Avevo pensato di organizzare un addio al nubilato per Gwen, stasera a casa sua. Ho già pensato a tutto, devi solo fare in modo di tenerla alla larga fino alle otto e mezza».
Courtney odiava gli adii ai nubilati. Aveva partecipato a solo uno di questi in tutta la sua vita, ed era stato proprio quello per Bridgette. La festicciola in realtà non era andata tanto male, fino a quando non erano entrati in gioco gli spogliarellisti ed era diventata un delirio. Era scappata via di nascosto.
A Gwen aveva detto, prima di arrivare in città, che non avrebbe organizzato nulla e lei, sebbene avesse provato a replicare più volte, alla fine aveva ceduto. Peccato che qualcun altro se n’era ricordato e che aveva deciso di occuparsene al posto suo.
«D’accordo, consideralo fatto» le annunciò, mentre il suo cervello aveva già elaborato un piano infallibile.
Da quando aveva messo piede a Vancouver, desiderava visitare la città per bene ma, per via dei numerosi imprevisti che non avevano fatto altro che accavallarsi, non ne aveva ancora avuto il tempo. Sarebbe quindi bastato chiedere a Gwen di farle fare un tour panoramico e costringerla, contro la sua volontà, a portarla a fare shopping.
«Spero che non ti dispiaccia che io abbia fatto un lavoro che spettava a te» le disse Bridgette vagamente dispiaciuta. «Ho agito con buoni propositi».
«Non ti preoccupare» l’anticipò lei. «Non fa nulla».
«Perfetto, allora ci vediamo stasera!»
«A stasera».
Courtney sospirò, poggiando il palmare sul tavolo e tornando alla sua colazione.
«Qualcosa non va, dolcezza?» chiese una voce al suo orecchio, facendola sussultare.
«Ma sei pazzo?» quasi gridò lei, mentre Duncan prendeva posto al suo fianco, ridacchiando. «Rischiavi di uccidermi».
«Sai che gran perdita» scherzò, abbozzando un ghigno.
La frase gli costò uno schiaffo sulla spalla.
«Okay, ti chiedo scusa, non lo dirò mai più» disse sarcastico, alzando le mani e scansandosi. Poi intercettò la sua espressione corrucciata e le sue braccia incrociate e strette contro il petto e, a quella visione, non poté non scoppiare a ridere.
Lei voltò la testa dal lato opposto, ancora più offesa di prima.
«Sei troppo permalosa» dichiarò e, prima che potesse insultarlo, si affrettò ad aggiungere: «Ad ogni modo, penso che senza di te morirei».
Come aveva sperato, l’ultima affermazione la fece sciogliere. Provò a rispondergli qualcosa, ma dalla sua bocca non ne uscì nulla; nel frattempo le guance le si erano colorate di rosso, cosa che nascose subito chinandosi sul suo piatto, e le nacque un sorriso sincero sulle labbra.
Subito si riprese, cercando di tornare al suo atteggiamento consueto, freddo e distaccato.
Era stato difficile ammettere di amarlo, ora non poteva darlo a vedere con così tanta facilità. Aveva pur sempre una dignità, accidenti! Non poteva comportarsi come un’adolescente alla sua prima cotta.
«Certo che moriresti» affermò con convinzione. «Perché non ci sarebbe nessuno a salvarti dai guai».
Lo vide sghignazzare e il suo cuore mancò un battito.
Tentò di spazzare via dalla sua mente quell’immagine adorabile, tornando a concentrarsi su ciò che l’attendeva di lì a poche ore.

Un’altra serata da dimenticare.

 
• • •

 
Ore otto e sette di sera.

«Dammi una buona ragione per cui stiamo andando a questo addio al celibato» sbottò John, non appena lui e Duncan scesero alla fermata davanti al locale.
Ormai è risaputo che il nostro ragazzo detestava ogni tipologia di festa per un semplice motivo, l’abbondanza di contatto umano. Non gli era mai piaciuto passare più del tempo necessario - massimo cinque minuti - in compagnia di troppa gente.
«Ehm, perché sono divertenti?» disse Duncan, dopo averci pensato su per bene.
«Wow, che motivazione brillante, Watson!» borbottò, roteando gli occhi.
«Siamo già in ritardo, come sempre per colpa tua. Se, inoltre, devi passare la serata a lamentarti, puoi benissimo prendere un taxi e tornare in albergo» incarò il moro irritato.
Si precipitò nel locale, intenzionato a mettere fine alla conversazione e a godersi una festa tranquilla, seguito a ruota da John. Subito i due furono investiti da un uragano di musica e luci neon. Dovettero ammettere che Adam aveva fatto le cose in grande.
«Ehilà ragazzi, benvenuti!»

Parli del diavolo e spuntano le corna.
«Grazie amico» lo salutò Duncan. «Trent è già qui?»
«Non è ancora arrivato». E poi, rivolto a tutti gli invitati, aggiunse urlando: «Giro di vodka per tutti!»
La proposta fu accolta da un sonoro boato.
«Credo proprio che seguirò il tuo consiglio» borbottò John, che lo seguiva come se fosse la sua ombra.
Era stato diverse volte ad una festa con lui e ogni volta se n’era pentito. Non gli bastava isolarsi da tutto e tutti, doveva anche esporre tutto il suo disappunto e lamentarsi del baccano ogni cinque secondi.
Ricordava che una volta, durante un compleanno di un amico in comune, l’aveva tormentato per forse quattro ore ripetendogli la stessa frase, che si era insinuata nel suo encefalo come il ronzio di un martello pneumatico: «Quando ce ne andiamo?»
Pur di non sentirlo più, era stato costretto a riaccompagnarlo a casa - perché ovviamente gli aveva anche scroccato il passaggio - prima che tagliassero la torta.
«Bevi e stai zitto» gli ordinò secco, allungandogli un bicchiere di vetro preso dal bancone.
Quella sera, però, aveva intenzione di farlo ubriacare, così entrambi avrebbero passato una serata tranquilla.
Si sporse per prendersi un drink anche per sé, quando qualcuno gli diede una sonora pacca sulla spalla, accompagnata dalla frase: «Ehi, fra-amigo
Si voltò verso la fonte di quella voce e si ritrovò davanti i capelli setosi e gli occhi color smeraldo di Alejandro.
«Ehi fratello, da quanto tempo!» esclamò, ricambiando la pacca.
Non era cambiato di un millesimo, dovette ammettere. Sempre avvenente e muscoloso come un tempo.
«Finalmente sei arrivato, amico!»
«Oh, che gioia rivederti!»
A parlare erano stati Geoff e Owen, il secondo dei quali lo aveva stretto in un abbraccio così forte da rischiare di soffocarlo, che lo avevano intercettato tra la folla.
Li salutò entrambi battendo loro il pugno.
«Porca paletta, che fine ha fatto la cresta?» chiese il ragazzone, che negli ultimi sei anni sembrava aver levato qualche chilo.
«L’ho tolta un po’ di tempo fa ormai» rispose, con una vaga nota nostalgica. «Voi che mi raccontate, ragazzi? Vedo che ti stai lasciando crescere la barba, Geoff».
«Sì, mi dona un aspetto più maturo, non trovate?» si vantò quello, passandosi una mano sulla leggera peluria bionda che gli spuntava dal mento.
Le chiacchiere dei quattro amici furono interrotte da dei colpi di tosse. John aveva assistito a tutta la scena, con il bicchiere di vodka sospeso ancora a mezz’aria.
«Non dimentichi nulla, ex cresta verde?» domandò, indicandosi.
Duncan aveva quasi dimenticato il suo brutto vizio  di interrompere le conversazioni, solo per potersi inserire e criticare e lagnarsi ancora di più. Alle volte - per non dire sempre- sapeva essere davvero insopportabile.
«Signori, permettetemi di presentarvi John» sbuffò roteando gli occhi. «John, loro sono Alejandro, Owen e Geoff» li presentò a loro volta, indicandoli uno ad uno non appena li chiamava.
Il bruno allungò la mano verso ognuno dei tre, cercando di comportarsi in modo più cordiale possibile.
«Wow, sei davvero tu? Sei quel famoso John?» chiese Geoff ammirato, stringendogli saldamente la mano.
Prima che potesse capire cosa rispondere, lui aggiunse in fretta: «È un piacere conoscerti, tu sei una star, amico! Duncan ci ha raccontato ogni singolo particolare su di te. È vero che una volta hai bruciato la cucina, mentre cercavi di cucinare dei pancake, e hanno dovuto evacuare l’intero appartamento?»
Aprì la bocca per dire qualcosa.
«Oh, è vero,» si intromise Owen richiamando la sua attenzione, mentre la sua mascella si richiuse di scatto, «che lavoravi ad un fruttivendolo e sei stato licenziato, perché una vecchietta non sapeva che tipo di arance volesse e tu gliele hai lanciate addosso tutte?»
«Ed è vero,» disse Alejandro con un sorrisetto mellifluo, «che tu e Duncan avete una sorta di relazione omosessuale?»
«Come scusa?» sbottò lui all’improvviso, stordito come se fosse appena caduto dalle nuvole.
Fino a quando le sue orecchie non avevano percepito quella frase, la situazione cominciava a piacergli. Se c’erano due cose che lui amava quelle erano stare al centro dell’attenzione ed essere adulato dalle masse.
«Dal resoconto delle avventure che avete trascorso insieme, sembra proprio che voi due siate una coppia» sghignazzò il bel latino. «Non ufficializzata, ma comunque a tutti gli effetti».
Scoppiarono a ridere tutti, compreso - e qui John lo incenerì con lo sguardo - Duncan. Improvvisamente gli venne voglia di lanciargli la sua vodka in faccia.
Prima che potesse prenderli tutti e quattro a parolacce,  Adam richiamò nuovamente l’attenzione su di sé.
«Lo sposo è arrivato» annunciò solenne, sollevandogli il braccio, come se avesse vinto un’importante competizione, in modo tale che lo vedessero tutti.
Era elegantissimo nel suo completo grigiastro, anche se i capelli e la barba gli donavano comunque un aspetto trasandato.
Qualcuno gridò al “discorso” e, prima che potesse accorgersene, lo avevano aiutato a salire sopra il bancone e gli avevano allungato della vodka.
«È bello vedervi tutti qui a festeggiare la mia ultima notte da scapolo con me» cominciò, non appena ottenne il silenzio assoluto. «Non voglio tediarvi troppo con le mie parole, quindi mi limiterò ad un semplice invito: divertiamoci!» e alzò il bicchiere verso l’alto e poi bevve un lungo sorso, imitato da molti altri.
Tutto attorno a lui si alzarono applausi, grida e fischi di approvazione.
E la festa cominciò.

 
• • •

 
Ore otto e trentuno.

«Ora possiamo, per favore, tornare a casa? Comincio ad avere fame» chiese stremata Gwen con una leggera nota di supplica nella voce, guardando con la coda nell’occhio Courtney che, seduta sul sedile del passeggere, era intenta a vedere qualcosa sul suo palmare.
«Certo che sì, sono pur sempre le otto e mezza!» rispose lei come se fosse la cosa più scontata del mondo, rimettendo il cellulare in borsa e sistemandosi le pieghe del vestitino bianco. Poi, rivolta verso di lei, aggiunse: «È stata una bella giornata, non è vero?»
Si limitò ad annuire con la testa, senza aggiungere nessun tipo di risata o frase sarcastica.
Certo, si era divertita a mostrarle Vancouver, ma non era stato altrettanto spassoso entrare in ogni singolo negozio del centro, provarsi un’infinità di vestiti, stare lì dentro per interi quarti d’ora, e riuscire a mani nude.
Poi si accese una lampadina nella sua testa.
L’ultima volta che la sua amica si era comportata così, lei e Trent avevano escogitato un piano malefico per organizzare una semplicissima festa a sorpresa per il suo compleanno, che si era dimostrata una delle esperienze peggiori della sua vita. E se stesse preparando qualcos’altro di simile?
«Courtney, tesoro, cos’hai in mente?» le domandò tentando un pessimo approccio gentile.
«Assolutamente nulla» le sorrise lei angelica.
Evidentemente si era accorta della nota sospetta nella sua frase, motivo per cui aveva mentito spudoratamente.
Gwen decise tuttavia di non dire nient’altro per tutto il viaggio di ritorno. Insistere non sarebbe servito a nulla.
Parcheggiò davanti casa e, percorrendo il vialetto, si preparò psicologicamente al peggio.
«C’è qualcosa che dovrei sapere?» le chiese di nuovo, aprendo la porta. La curiosità e il terrore la stavano divorando dentro.
«Direi di no» disse lei convinta, seguendola dentro l’appartamento.
Accese l’interruttore della luce, posizionato alla sinistra della porta, e una trentina di voci diverse urlarono «Sorpresa!», facendola sobbalzare, e altrettante persone uscirono da disparati angoli della casa.
Poi si rese conto che tutto il soggiorno era addobbato a festa, pieno di stelle filanti e festoni in ogni dove.
E infine riuscì ad analizzare meglio i volti delle presenti, tutte vecchie compagne di liceo o ex concorrenti del reality. Bridgette col pancione che cominciava ad intravedersi da sotto il vestito azzurro, Heather con il solito sguardo da vipera stampato in faccia, Leshawna decisamente ingrassata, Lindsay con i seni ancora più grossi di prima, Izzy e la sua faccia eternamente da ragazzina…
«Wow!» fu l’unica cosa che riuscì ad esclamare, mentre diverse braccia facevano a turno per abbracciarla. «Non me l’aspettavo».
Le salutò una ad una, chi più affettuosamente e chi meno, limitandosi ad un cenno del capo quando arrivò ad Heather, la quale si limitò a guardare in un’altra direzione.
«Non avevi detto che non avresti organizzato nulla?» chiese dubbiosa a Courtney, dopo aver scambiato qualche parolina con ognuna di loro.
Scosse la testa: «Ha fatto tutto Bridgette» ammise a bassa voce, accennando verso quella.
«Beh, grazie a tutte per essere venute» disse più forte, posizionandosi in modo tale che tutti potessero sentirla e vederla. «Sono felice che siate qui, anche se tutte queste attenzioni mi mettono un po’ a disagio».
Seguì una risatina generale.
«Propongo un brindisi!» proruppe Bridgette, decisa a prendere in mano le redini di quell’addio al nubilato.
Si precipitò in cucina, che sembrava conoscere molto bene, e tornò poco dopo con un vassoio pieno di calici e una bottiglia di costoso champagne. Lo aprì e lo verso accuratamente nei bicchieri, passandoli a tutte le invitate.
«A Gwen» annunciò, non appena tutte ebbero il proprio. «Con la speranza che il suo matrimonio possa essere felice quanto il mio!»
Un tintinnio riempì subito la stanza.
Gwen, circondata da tutto quell’affetto, sorrise spontaneamente.

 
• • •

 
Ore nove e quarantadue.

«Oh, e vi ricordate quando abbiamo rubato tutti i vestiti ad Harold?»
«Oh sì, è stato troppo esilarante vederlo correre per il campo con solo un cuscino».
Duncan, Geoff, Dj e Owen, tutti e quattro piuttosto brilli per via dell’alcol, sedevano ad un tavolino in fondo al locale e raccontavano storie dei tempi del reality, ridendo e scherzando.
«E quando Owen ha dovuto recuperare quella chiave legata al collo di un orso? Mitico!»
«Beh, Geoff, a te non andò tanto meglio. Sbaglio o dovetti tuffarti nella fossa biologica?»
Un’altra ondata di risate.
«Come va la gravidanza di Bridgette?» chiese Dj, il più sobrio dei quattro.
«Oh, alla grande!» disse il biondo. «Fino a quando non comincia a fare richieste assurde o a piangere istericamente. Allora sì che diventa una vera e propria palla al piede!»
«Amico, non parlarmene» lo compatì Duncan, bevendo un altro sorso di brandy. «Sono sei anni che sopporto Courtney».
«A proposito, come va con lei?»
«È pazza di me» si limitò a dire con un ghigno dipinto in volto, sorvolando su quale fosse la dura realtà. Non poteva di certo dire che, dopo sei lunghi anni di corteggiamento, ancora non aveva ceduto, il suo ego ne avrebbe risentito.
«Tu Owen, invece?» domandò poi, cercando di spostare le attenzioni da sé. «Ti sei già pentito della convivenza con Izzy?»
I due, dopo diversi tira e molla e dopo che il ragazzone ebbe insistito un po’, avevano deciso di compare casa nella periferia di Toronto. Vivevano assieme da circa un anno e mezzo.
«Niente affatto, io la adoro!» esclamò estasiato lui. «Certo, potrebbe evitare di svegliarmi nel cuore della notte facendomi acchiappare degli infarti, ma la adoro!»
«Ora basta parlare di donne, altrimenti il nostro amico Dj si deprime» disse Geoff, cingendogli le spalle con un braccio, avendo notato il suo disagio. Dopo sei anni, infatti, viveva ancora con sua madre e non era ancora riuscito a staccarsi da lei.
«Giusto» convenne Duncan e, sporgendosi, urlò a chissà chi: «Un altro giro di brandy!»
«Allora ragazzi, vi state divertendo?» chiese ad alta voce Trent, raggiungendoli e sedendosi su un pouf libero.
«Come non mai!» esultò Owen, finendo di bere il suo drink. «E quanto era bella la canzone. Cavolo, avevo le lacrime agli occhi».
Adam lo aveva praticamente costretto a cantare il brano che aveva scritto per Gwen davanti a tutti, per poi bagnare lui e tutti coloro che erano sotto il palco con una bottiglia di spumante.
«Stavamo rievocando i vecchi tempi» spiegò Dj. «Ti unisci a noi?»
«Volentieri».
Ma il gruppetto fu interrotto da un grido di giubilo proveniente dalla pista da ballo. Si trattava di John, ubriaco fradicio, che sventolava i suoi pantaloni come se fossero una bandiera, mentre improvvisava una danza gioiosa.
«Viva la vita!» urlò senza un apparente motivo.
Successivamente fu colto da un conato di vomito e tutti gli stuzzichini, che aveva ingerito non molto tempo prima, finirono con lo spandersi per tutta la pista da ballo. Conseguì un verso disgustato di quelli nelle vicinanze.
Duncan, alla vista di quella scena ripugnante, scoppiò a ridere rumorosamente con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Come sempre, da sbronzo sapeva donare degli spettacoli unici.
«Ed ecco, ragazzi,» annunciò ai quattro amici, che lo fissavano come se fosse impazzito di colpo, «perché ho deciso di far ubriacare completamente John».

 
• • •

 
Ore undici e dodici.

Doveva aspettarselo, Courtney. La festa era stata troppo tranquilla fino a quel momento: si erano limitate a delle semplici chiacchiere, davanti a delle pizze, e ad alcuni stupidi giochi da liceo. E poi era avvenuta la svolta.
Si scoprì che Bridgette aveva invitato degli spogliarellisti e adesso, al lume di diverse candele sparse qua e là, quei tre ragazzi dal corpo marmoreo si muovevano in modo sensuale, sul ritmo di una musica dance, al centro del salotto. Tutto intorno, Katie e Sadie discutevano su chi fosse il migliore, Leshawna - palesemente ubriaca - si era sfilata il reggiseno e lo aveva lanciato verso di loro, e Lindsay flirtava con lo sguardo con il più alto dei tre. Gwen, la sposa, fu tirata al centro e fatta sistemare su una sedia, mentre gli spogliarellisti la stuzzicavano danzando attorno a lei.
Tutto ciò sapeva di déjà-vu.
A Courtney cominciava ad esplodere la testa. Se fosse rimasta un secondo di più lì dentro, sarebbe impazzita.
Si liberò dalle chiacchiere di Bridgette e Beth, due delle poche ancora sobrie - una per via della gravidanza, l’altra perché astemia -, con una scusa patetica e, afferrando il suo calice colmo di vino rosso, uscì nel cortile, appoggiandosi stremata con la schiena contro il muro. Quei fastidiosissimi beat sembravano lontani.
Non si era mai sentita a suo agio a feste del genere; difatti, quando vi veniva invitata al liceo, molto spesso rifiutava. Semplicemente, quel ambiente rumoroso non faceva per lei, abituata alla quiete e al rigore.
«Stai cercando di scappare anche da questo addio al nubilato?» chiese qualcuno con tono strafottente, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Si voltò lentamente e vide Heather accanto alla sua destra, con una sigaretta in bocca e le labbra piegate in un sorrisetto mellifluo. Era stata così silenziosa che non l’aveva sentita arrivare.
«Avevo solo bisogno di una pausa» sospirò, bevendo un sorso di vino.
La mora le allungò un pacchetto di sigarette, come tacito invito a prenderne una.
«Non fumo» rispose secca.
Lei si limitò ad accendere la sua con un accendino fucsia e a fare un lungo tiro.
Stettero in silenzio a lungo. Non si erano mai andate a genio e non avevano granché in comune, non avrebbero comunque avuto nulla da dirsi.
«A quanto pare, tra te e Duncan va sempre meglio» disse all’improvviso Heather.
Courtney dovette impedire che il vino non le andasse di traverso. Come mai si interessava alla sua vita sentimentale?
«Ho sentito dire che avete fatto il viaggio assieme e che alloggiate nello stesso hotel» continuò, notando lo sguardo spaesato sul volto della bruna. «E, sempre a giudicare dalle conversazioni con la darkettona e la surfista, vi frequentate assiduamente. Addirittura le serenate sotto l’ufficio!» E qui si fermò per ridacchiare. Una volta che si fu ripresa, aggiunse: «Insomma, eravate già affiatati dal matrimonio di Geoff e Bridgette, e adesso questo».
Courtney si sentì avvampare.
«Non stiamo da soli, c’è un amico con noi» si affrettò a spiegare, rimanendo comunque sul vago. «E non è così semplice come immagini».
«Peccato» sillabò lei, prima di fare un altro tiro.
Decisamente, dietro quello che aveva origliato c’era un mondo intero.
«Tu e Alejandro, invece?» domandò all’improvviso, forse più per cortesia che per vero interesse.
Dopo la terza stagione, lui e Heather avevano avuto modo di rincontrarsi e, a seguito di un lungo corteggiamento durato per mesi, il bel ragazzo era finalmente riuscita a farla innamorare. Da allora non si erano mai lasciati e vantavano ben cinque anni di fidanzamento.
«Bene» si limitò a dire, ma qualcosa nel suo sguardo faceva presagire che c’era dell’altro. Sembrava, infatti, in preda ad una battaglia interiore.
Poco dopo, sospirando, annunciò: «Mi ha chiesto di sposarlo».
«Davvero?» quasi esclamò Courtney, con un sorriso raggiante. «E cosa le hai risposto?»
«Sono scappata».
Non capiva. Quei due si amavano alla follia, non aveva potuto fare a meno di notarlo al matrimonio di Bridgette e Geoff: il modo in cui si guardavano, come battibeccavano amorevolmente su qualunque cosa, i baci che si scambiavano. Erano palesemente fatti l’uno per l’altra, perché era così indecisa?
«Lui ti ama» dichiarò ingenuamente. «E tu ami lui».
«Non è così semplice come immagini» disse Heather con un piccolo ghigno.
Stranamente, quella sera a nessuna delle due dette fastidio la presenza dell’altra.

 
• • •

 
Ore undici e trentasette.
Bastarono poche bottiglie di birra per far degenerare quell’addio al celibato. Coloro che in quel locale erano ancora sobri e in pieno possesso delle loro facoltà mentali si contavano sulle dita di un'unica mano.
Le luci a led guizzavano abbaglianti e quel brano techno rimbalzava contro le quattro pareti e si amplificava ripetutamente nella testa di chiunque.
Sul palco due spogliarelliste attraenti e formose davano spettacolo, strusciandosi contro Trent, spinto lì a forza, che sembrava molto a disagio.
Quelli più vicini lanciavano banconote e foglietti con numeri di telefono, con la speranza vana di essere ricontattati. Altri si limitavano soltanto ad incitarle a fare di più, lasciandosi andare in lunghi fischi e ululati.
Più dietro, la gente ballava in modo confusionario, cosa dovuta al troppo alcol, e ogni tanto urlava frasi sconnesse. Addossati in fondo, i fumatori avevano alzato una nube densa di fumo.
«Un’altra birra?» chiese Geoff, alzando una bottiglia colma fino all’orlo.
John, che non si reggeva in piedi, si avvicinò barcollando e la afferrò, dopodiché si appoggiò a Duncan, la persona più vicina, e cominciò a berla, sbrodolandosi tutto.
Non fece nemmeno in tempo a finirla, che dovette correre urgentemente in bagno. Alla fine, essendo troppo lontano, decise di vomitare dietro il bancone.
«Dacci dentro, amico!» lo incitò Duncan assistendo alla scena, finendo di bere la bottiglia che gli aveva lasciato prima di darsela a gambe.
Ma fu un errore madornale, quell’ultimo lungo sorso. Prima che potesse realizzare, aveva raggiunto John ed prese a vomitare l’anima assieme a lui, il tutto sotto le grida di approvazione di Geoff e Owen.
Una notte memorabile.

 
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19 luglio, ore dodici e quarantotto di notte.

Trent, forse l’unico ancora in condizioni decenti, aveva caricato John e Duncan, non potendo tornare da soli in quello stato, sul sedile posteriore della propria auto e adesso sfrecciava a cinquanta chilometri orari lungo le strade di Vancouver, diretto a casa dove sapeva che avrebbe trovato anche Courtney, mentre la radio sparava a volume basso una piacevole canzone jazz.
«Allora, dov’è questo pub?» chiese Duncan, dopo un paio di minuti trascorsi nel silenzio.
Effettivamente, si era limitato a rifilare loro una scusa patetica, ovvero che la festa sarebbe continuata altrove, perché il proprietario del locale li aveva cacciati. Loro, per quanto ubriachi e storditi erano, ci avevano creduto. In realtà voleva solo strapparli via da quell’addio al celibato, che minacciava di protendersi per tutta la notte, prima che potessero sentirsi male.
«Vi ho mentito» rispose con sincerità. «Vi sto riportando da Courtney».
«Bugiardo!» lo accusò John. «Voglio tornare alla festa!»
Ma Trent non disse altro, continuando a guidare indisturbato.
Il bruno si voltò verso il suo compagno e gli disse: «Avevi ragione, mi sono divertito».
«Io ho sempre ragione» si vantò, e singhiozzò.
«Sei il mio migliore amico, ti voglio bene» confessò.
E poi successe qualcosa di straordinario, qualcosa che da sobrio non avrebbe mai fatto: si avvicinò alla sua guancia e vi scoccò un bacio rumoroso. Duncan non fece una piega; anzi, sembrò piacergli.
«Wow, è proprio vero che l’alcol fa miracoli!» esclamò Trent colpito, che aveva osservato tutta la scena dallo specchietto retrovisore.
Una volta al 126 di Thompson Boulevard, li aiutò a percorrere il viale e, con delle leggere spinte, li condusse dentro l’appartamento, dove Gwen e Courtney erano intente a togliere tutti quei festoni.
«Siamo a casa» annunciò, buttando i due ragazzi, più morti che vivi, ma comunque felici, sul divano.
Subito la bruna si gettò su Duncan e John, con lo sguardo preoccupato che ha una madre quando suo figlio torna tardi. E forse era proprio quello Courtney, per quei due: una mamma pronta a crescerli, accudirli, sgridarli quando necessario e tirarli fuori dai guai.
«Mio Dio, cos’hanno fatto?» chiese con ansia e in preda al panico. «Stanno male?»
«Hanno solo bevuto un po’ troppo» spiegò Trent, stringendo la sua quasi moglie per la vita. «Qui com’è andata, invece?» domandò, dandole un bacio sulla testa.
«Tutto bene» rispose Gwen, sorridente. «Sai, le solite festicciole di Bridgette. Niente di che».
Già, proprio niente di che.
«Dai Courtney, vi riporto in hotel» si propose il moro, ricacciando le chiavi della macchina dalla tasca. «Hanno bisogno di riposare».
«Grazie Trent, sei un tesoro» lo ringraziò frettolosamente lei, troppo impegnata ad accertarsi che stessero veramente bene.
Salutò Gwen con un abbraccio e si caricò Duncan in spalla, mentre il ragazzo faceva lo stesso con John. Guardandoli, si disse che il mestiere di mamma alle volte era davvero faticoso.

 
• • •

 
L’una e ventotto.
«Tieni, questo ti aiuterà» disse Courtney, allungando un bicchiere colmo d’acqua in cui aveva versato una bustina di aspirina a John.
Si alzò a fatica dal letto, sul quale era inchiodato da un tremendo mal di testa, si allungò per prenderlo e bevve tutto in un solo sorso. Dopodiché, ripiombò disteso a peso morto, lamentandosi.
«Così imparerete a bere responsabilmente, una volta per tutte» cantilenò lei.
Non era la prima volta che tornavano completamente ubriachi, alle volte singolarmente e altre insieme, e che si era vista costretta a prendersi cura di loro.
«Per te» disse, dando un bicchiere identico anche a Duncan, che sedeva sul bordo del letto con la testa tra le mani.
«Lo berrò dopo» borbottò con voce rauca, poggiandolo sul comodino.
«Cercate di dormire» li raccomandò affettuosamente.
Poi si girò di scatto e si incamminò verso l’uscita.
«Non andartene» la bloccò la voce di Duncan, prima che potesse afferrare la maniglia, la mano ancora sospesa a mezz’aria.
«Che c’è?» gli chiese.
Lui si avvicinò lentamente e le prese le mani. Il suo battito cardiaco accelerò.
Restarono a guardarsi in silenzio, accompagnati dal russare sommesso di John, che si era addormentato subito.
Quando dormiva così tranquillamente, poteva benissimo essere scambiato per un angioletto. Nessuno, vedendolo così, avrebbe potuto immaginare che, da sveglio, potesse essere un essere rumoroso, ingombrante e sputasentenze.
«Non andartene» ripeté. E, esitante, aggiunse in un mormorio: «Ho bisogno di te».
A quella dichiarazione, la parte più irrazionale di Courtney - che stranamente esisteva, sebbene fosse segregata in qualche angolo oscuro e remoto - esultò e cominciò ad urlare di gioia, contenta che anche lui ricambiasse i sentimenti.
Ma la parte razionale la soppresse subito, ricordandole che il ragazzo era completamente ubriaco e che, probabilmente, non aveva una vaga idea di quello che stava dicendo.

Anche se, dopotutto, quel vecchio proverbio non recitava forse “in vino veritas?
«È l’alcol che sta parlando» disse risoluta, e nella sua voce c’era una nota di delusione.
Duncan la sorprese, avvinandosi pericolosamente al suo viso.
«Credimi,» sussurrò ad un centimetro dalle sue labbra, «non sono mai stato più sobrio di così».
Lei non ne era convinta, ma non fece mai in tempo a replicare. Bastò un nonnulla per far incontrare le loro bocche in un rapido bacio, piatto e senza alcun tipo di passione. Non sentì nulla, se non un leggero retrogusto di birra.
«I baci da ubriaco non contano» replicò Courtney tristemente, fissandolo dritto negli occhi. Quell’azzurro risaltava ancora di più al buio. «L’hai detto tu».
Il ragazzo, inizialmente confuso, biascicò: «Pensavo non te lo ricordassi».
Ed era vero, ricordava poco e niente di quella serata, se non la bottiglia di sherry che si era scolata tutta in una botta e di come ci aveva spudoratamente provato con Duncan, saltandogli addosso. Ringraziando il cielo, egli ebbe il buonsenso di fermarla.
Quando, il giorno dopo, le raccontò cosa fosse successo, gli fece giurare che mai e poi mai ne avrebbe parlato con nessuno. Da allora anche lei aveva provato a dimenticare.
«Lo pensavo anch’io» ammise. «Ora, va’ a letto» gli ordinò sorridendo, ritirando le mani dalle sue.
Non doveva andare così, non voleva che Duncan si dichiarasse e che il mattino successivo non ricordasse nulla. E baciare un ubriaco era zero emozioni; avrebbe voluto che quel tanto agognato contatto di labbra le avrebbe stretto il cuore fino a farlo sanguinare.
Uscì dalla stanza, lasciandolo lì solo, immobile e ancora più scosso di prima.

 

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice
Ultimamente sto sfornando un capitolo dopo l’altro. Non potete capire quanto sia bello essere così ispirati e scrivere tutto di getto!
Mi sento triste, questo è il penultimo capitolo e quindi il penultimo angolo dell’autrice per quanto riguarda questa storia. Avevo dimenticato la sensazione di malinconia che ti assale quando stai per concludere una fan fiction.
Ma bando alle ciance, passiamo al capitolo!
È molto confusionario, succedono un sacco di cose tutte assieme. Non sono brava a descrivere le feste, mi sono limitata a far percepire il caos che regna nella maggior parte dei paragrafi.
Si comincia anche ad approfondire la parte sentimentale della storia, che già da qualche capitolo era in secondo piano. Un esilarante John ubriaco confessa a Duncan di essere il suo migliore amico e sugella il tutto con un bacio sulla guancia; un altrettanto Duncan sbronzo finalmente si dichiara a Courtney, ma viene “rifiutato”. Sì, questi due vi - e ci - faranno patire fino alla fine.
Il matrimonio è alle porte e noi ci avviamo verso questo romantico epilogo. Cosa succederà mai? Lo scoprirete soltanto leggendo!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo prossimamente con il prossimo - ed ultimo.
Un grande abbraccio!

Hayle xx

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Capitolo 7
*** Sabato ***


La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 


 

Sabato«

 
Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
19 luglio, ore dieci e otto.

Un leggero ticchettio la ridestò dal sonno.
Courtney, inizialmente, pensava che fosse solo un sogno, quel rumore che le rimbombava nella testa; poi, capì che era reale, che qualcuno stava bussando alla porta con insistenza.
Sbatté più volte le palpebre, per abituarsi alla luce del sole che entrava prepotentemente dalla finestra - si era dimenticata di abbassare le tapparelle, ieri notte -, e con l’aiuto delle braccia sollevò il suo corpo dal materasso.
Si stropicciò gli occhi. Sembravano passati solo pochi minuti da quando si era addormentata, invece erano già le dieci passate, come poté testimoniare il suo cellulare poggiato sul comodino.
Si avvicinò alla porta e la spalancò, pronta a dirne quattro a colui che aveva avuto il coraggio di svegliarla così dopo la giornata infernale di ieri.
«Mi dia una buona ragione per cui io non-»
Ma si ammutolì di colpo. Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e senza maglia. Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno, principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima volta» la derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire conciata così? C’è il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino, accennando al suo pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai forse perso la maglietta? In tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
«Okay, siamo pari» concesse.
Si scansò per farlo passare. Non voleva che qualche passante li vedesse conciati in quella maniera, avrebbero potuto pensare male. E ci teneva a mantenere una reputazione adeguata.
«Immagino che tu abbia qualcosa di estremamente urgente da dirmi» disse lei, richiudendosi la porta alle spalle. «Altrimenti non vedo come mai tu sia piombato in camera mia, svegliandomi per giunta, senza nemmeno esserti vestito».
«Effettivamente, ho un paio di domande e forse tu sai rispondere» ammise. «Ad esempio, come mai stamattina mi sono risvegliato con addosso gli stessi pantaloni di ieri e un terribile mal di testa? E perché ho ritrovato John a dormire rannicchiato per terra?»
«Vi siete soltanto presi una sbronza epocale» rispose con un sorrisetto. «Mi avete fatto preoccupare».
«Come se fosse la prima volta» ribatté, vagamente divertito.
Risero entrambi, risero spontaneamente. Courtney pensò che le loro risate suonavano così bene assieme, avrebbe voluto registrarle.
E poi, all’improvviso, gli chiese, mordendosi il labbro: «Davvero non ricordi niente?»
«Non molto» rifletté, tormentandosi il pizzetto. «Ricordo un paio di cose dell’addio al celibato. E ricordo che ieri sera eri nella nostra stanza».
Un lampo gli balenò negli occhi azzurri.
«Cos’è successo dopo?» chiese improvvisamente serio. «Non avremo mica-»
«Nulla del genere» lo interruppe. «Mi hai baciata, ma ti ho fermato subito».
Lo vide tirare un grande sospiro di sollievo e rilassarsi di colpo.
«Meno male» mormorò.
«Meno… male?» ripeté lei confusa. Cosa voleva dire?
«Sì, insomma,» balbettò Duncan, «sarebbe stato imbarazzante».

Imbarazzante.
Eppure non lo aveva trovato imbarazzante, quando era successo l’opposto. Anzi, sembrava che gli fosse piaciuto. Cosa cambiava adesso?
Courtney si sentì montare da una rabbia improvvisa.
«Ora che ho risposto alle tue domande,» proruppe con freddezza e acidità, «ti sarei grata se uscissi dalla mia camera. Dovrei vestirmi e non vorrei che la cosa diventasse imbarazzante».
Duncan percepì il suo cambio repentino d’umore - sebbene non comprese a cosa fosse dovuto - ma, non appena aprì la mandibola in cerca di spiegazioni, si sentì spintonare fuori dalla stanza; subito dopo la porta sbatté con forza alle sue spalle.
Forse aveva avuto una reazione troppo eccessiva, si disse la ragazza non appena lo ebbe cacciato, forse non aveva tutti i torti. Ritrovarsi nello stesso letto, dopo quasi nessun contatto fisico negli ultimi sei anni, sarebbe potuto sembrare davvero imbarazzante e fuori luogo.
Ma lei lo desiderava davvero e ieri sera, se la sua razionalità non l’avesse fermata, probabilmente avrebbe ottenuto ciò che voleva.

 
• • •

 
Ore cinque e mezza di pomeriggio.

Gwen fissò la sua immagine riflessa nello specchio, mentre Courtney le fissava in testa meglio che poteva il lungo velo nero con delle forcine.
Non riusciva a credere che stava davvero per sposarsi con l’uomo della sua vita. Quegli anni di relazione con Trent erano stati magici, tra i migliori della sua vita; non si era mai sentita così amata e apprezzata da una persona sola. Voleva davvero passare il resto della sua vita con lui.
«Manca solo un po’ di trucco» constatò la bruna.
La fece voltare verso di lei e cominciò a frugare nella sua trousse, in cerca di qualcosa di adeguato.
Mentre Courtney le applicava l’eyeliner sulle palpebre, disegnando due linee perfette, Gwen non poté fare a meno di credere che, in quel momento, nessuno potesse essere più felice di lei. Non solo aveva accanto il ragazzo migliore del mondo, ma anche la migliore amica e testimone di nozze che potesse mai desiderare.
In quei giorni si era dedicata appieno a lei e al suo matrimonio, tanto che sembrava che fosse lei quella in procinto di sposarsi, e non avrebbe mai potuto ringraziarla abbastanza per il suo contributo.
Era la sorella che non aveva mai avuto.
«Sei perfetta» esclamò, facendola specchiare.
E lo era davvero. Non aveva mai visto un trucco così bello in tutta la sua vita. Neanche se ci si fosse messa d’impegno, sarebbe riuscita ad emularlo.
«Sono così fiera di te» disse all’improvviso Courtney, in uno dei suoi sorrisi più belli e sinceri. «Stai per sposarti e io non posso che augurarti tutta la felicità di questo mondo. Te lo meriti».
Erano le più belle parole che qualcuno le avesse mai rivolto. Potrebbe sembrare infantile, ma sentiva che sarebbe potuta scoppiare in lacrime di gioia da un momento all’altro.
Si alzò dalla specchiera e si pose davanti a lei, sorridendole.
«Grazie» mormorò Gwen. «Grazie per esserci sempre stata. Sei la mia migliore amica».
E si abbracciarono per un tempo indeterminato. Il mondo sotto ai loro piedi sembrò sparire in quel bellissimo e prezioso attimo.
Fu Courtney la prima a staccarsi.
«Meglio andare adesso, prima che mi metta a piangere» dichiarò con la voce tremolante. «E sappiamo che se piango io, piangi anche tu».
Molte volte si erano trovate a sfogarsi - al telefono o di persona - per i motivi più disparati e, quando una cominciava a frignare, l’altra la seguiva a ruota.
Alzò il velo da terra, per evitare che la mora vi inciampasse, e scesero in strada, dove le attendeva la macchina di Gwen, che si sistemò sul sedile posteriore, facendo ben attenzione a non sgualcire il vestito. Courtney, invece, si sistemò al volante.
Aveva insistito tanto che fosse proprio lei a portarla in chiesa.
Ma, quando provò ad accendere il motore, non successe nulla. Girò la chiave più volte, ma la situazione non cambiò minimamente.
«Non può essere!» esclamò la bruna in preda al panico. «No, no, no! Ti prego non adesso, ti prego non adesso!»
«Calmati» le ordinò Gwen, prima che potesse cominciare ad urlare istericamente.
«L’auto non parte e non arriveremo mai in tempo. Come faccio a calmarmi?!»
«Dimentichi una cosa» disse a voce alta, mentre l’amica rischiava di andare in iperventilazione. «Duncan è un meccanico».
Immediatamente si lanciò sulla sua pochette, buttata sul sedile del passeggero, dandosi mentalmente della stupida per non averci pensato prima, vi estrasse il palmare e compose il numero del ragazzo.
«Dimmi, principessa» rispose lui qualche istante più tardi.
«Qualunque cosa tu stia facendo, mollala e vieni a risolvere il problema!» gli ordinò lei.
«Che diamine è successo?» chiese, leggermente preoccupato dal suo tono.
«Non lo so, la macchina non parte!» gridò ancora più in panico di prima. Sembrò replicare, perché Courtney aggiunse, sempre più irritata ed agitata: «Non ne ho idea, sei tu l’esperto! Vieni immediatamente e basta».
Riattaccò e si lasciò andare contro il sedile, buttando fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni. E poi si chiese: era per caso una calamita umana di sfortune?

 
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Ore cinque e cinquantotto.
Duncan arrivò immediatamente e compì il miracolo. Rilevò subito che la batteria si era scaricata e, grazie a dei cavi trovati nel garage, riuscì a rimettere in moto la macchina in tempo record. Per il suo nobile gesto, si guadagnò anche un bacio sulla guancia da Courtney che, accecata dalla felicità e dal sollievo, si rese conto di quello che aveva fatto solo dopo che vide un ghigno dipingersi sul volto di lui.
I tre arrivarono alla cattedrale con due minuti di anticipo, quando ormai tutti gli invitati avevano già preso posto.
«Visto che con la calma si risolve tutto?» dichiarò Gwen, quando Courtney la aiutò a scendere dall’auto.
«Tutto è bene quel che finisce bene» recitò saggiamente Duncan. «Ora, se non vi dispiace, vado a trovarmi un posto per assistere alla cerimonia».
Ma dopo nemmeno tre passi fu bloccato da un urlo di Gwen.
«Che succede?» chiese la bruna voltandosi di scatto.
«Ho dimenticato le fedi!» esclamò scoraggiata. «Trent si è andato a preparare al locale e gli avevo promesso che le avrei prese io. Sono un’idiota!» concluse sfogandosi contro se stessa e coprendosi il viso con le mani.
Lo sguardo di Courtney saettò subito verso il ragazzo, che rabbrividì istantaneamente. Aveva già capito dove volesse andare a parare e non gli piaceva per nulla.
«Te lo puoi scordare» sbottò, incrociando le braccia al petto. «Non tornerò indietro per prendere le fedi».
«La cerimonia sta per cominciare e io sono la testimone, non posso muovermi» spiegò. «Figurati se può andare Gwen, che è la sposa. Quindi, resti solo tu».
Vedendo che non aveva fatto una piega, aggiunse in tono compassionevole: «Per favore!»
Cercò di resisterle, ma quando vide quegli occhioni dolci si sciolse subito. Doveva essere una strega, conosceva a menadito i suoi punti deboli e sapeva come farlo cedere.
«Va bene» sospirò lui.
Gli passarono le chiavi dell’auto e di casa, gli dettero le indicazioni per trovarle e lo incitarono a muoversi, mentre loro due si incamminarono verso l’ingresso della chiesa, dove il signor Fahlenbock attendeva la figlia.
Duncan intercettò John, in piedi vicino ad un carretto degli hot-dog davanti alla chiesa. Sapeva che avrebbe approfittato del matrimonio per ingozzarsi come un porco. Non ci pensò due volte: si avvicinò e lo afferrò per la collottola, trascinandolo lungo il marciapiede.
«Lasciami, se non vuoi che ti denunci per sequestro di persona!» lo minacciò, puntandogli contro un wurstel molliccio.
L’altro si limitò ad aprire il portellone della macchina e a sbatterlo dentro, senza dire una parola.
«Mi dici dove andiamo?» chiese il bruno, guardandolo allacciarsi la cinta e mettere in moto.
«A riprendere le fedi che Gwen ha dimenticato» rispose, sfrecciando a tutto gas.
«E perché devo venire anch’io?»
«Perché noi siamo una coppia» ghignò, guardandolo con la coda dell’occhio. «Soffro io, soffri anche tu».
John ne era certo: una volta finito il matrimonio, quelle fedi avrebbero tormentato i suoi sogni in eterno.

 
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Ore sei e trentanove.

La cerimonia era stata perfetta, sin dal momento in cui due bimbe identiche dai lunghi capelli neri - due cuginette di Trent - avevano cosparso la navata con dei petali di rose. Successivamente, Gwen aveva fatto il suo ingresso con il padre nel suo splendido abito da sposa. Ai piedi dell’altare, il signor Fahlenbock baciò entrambe le guance della figlia, sussurrandole delle parole che solo lei percepì, la passò al quasi-marito, meraviglioso con quello smoking bianco, e si sedette vicino a sua moglie, che guardava la coppia con estremo orgoglio.
Nessun occhio era rimasto asciutto troppo a lungo.
Tutto era proceduto per il meglio e il momento cruciale arrivò in fretta.
«Vuoi tu, Trent McCord, prendere come sposa la qui presente Gwendolyn Fahlenbock?» chiese il sacerdote, un uomo bassino con pochi capelli bianchi sulle tempie, il viso solcato da profonde rughe e degli occhialini tondi.
«Lo voglio» disse deciso.
Adam, alla sua destra, ammiccò in sua direzione, alzando un pollice in segno di approvazione.
«E vuoi tu, Gwendolyn Fahlenbock, prendere come sposo il qui presente Trent McCord?» chiese nuovamente, stavolta rivolgendosi alla sposa.
«Lo voglio» rispose lei, al culmine della felicità.
E tutto si fermò.
Nessuno sull’altare si mosse e la platea restava a guardare, trattenendo il fiato.
«Ehm, le fedi?» chiese il prete, sporgendosi verso la coppia.
Trent si voltò prima verso Adam e Courtney - il primo alzò le spalle, con un’espressione interrogativa in volto, e la seconda gli sorrise angelica -, poi verso Gwen, che cercava di nascondere il suo rossore e la sua colpevolezza.
«Stanno arrivando» si limitò a borbottare, imbarazzata.
«A quanto pare,» disse il parroco alla platea, «abbiamo avuto un piccolo contrattempo».
Il poveretto non sapeva davvero cosa fare o dire per mantenere accesa l’attenzione della gente.
Subito nella chiesa cominciarono a diffondersi mormorii e commenti sussurrati a voce bassa. Tutti si domandavano cosa fosse successo per far ritardare la conclusione di quella splendida cerimonia.
Courtney, alla sinistra di Gwen, si sporse verso l’enorme portone in legno, spalancato sulla strada, alla ricerca di John e Duncan.
Dove diamine si erano cacciati?

 
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Ore sei e trentanove.
Le uniche cose che il cervello di Duncan riusciva ad elaborare erano un’infinità di bestemmie ed imprecazioni, una più fantasiosa e creativa dell’altra.
Erano riusciti a recuperare le fedi senza alcun intoppo ed erano ripartiti alla volta della cattedrale, quando si erano ritrovati imbottigliati nel traffico. Come potevano immaginare che quella fosse l’ora di punta?
«Certo che anche quel dannato autobus potrebbe smetterla di fermarsi per far scendere la gente» si lamentò John, accennando al mezzo di trasporto che si trovava quattro macchine davanti a loro.
Spesso, quando era arrabbiato o frustrato, cominciava a delirare e se ne usciva con delle frasi prive di senso.
«Ti senti quando parli?» ringhiò Duncan roteando gli occhi.
Dopo venti minuti di quella fila assurda, non sopportava più nulla, figurarsi se riusciva a tollerare i commenti senza senso di quell’essere.
«Perdonami, ma non sei l’unica persona annoiata a morte qui dentro!» sbraitò quello.
«Almeno tu non devi guidare in mezzo ad un’orda di gente che non conosce nemmeno le regole basilari».
Poco prima, ad esempio, l’auto davanti a loro si era fermata ad un semaforo giallo, tramutatosi in rosso forse solo dopo un minuto, facendo perdere loro tempo prezioso. Duncan gli strombazzò, mentre John si limitò ad insultarlo. Si beccarono un dito medio e per poco il secondo dei due non scese dalla macchina per andargliene a dire quattro. Il tipo dovette ringraziare che il semaforo diventò verde.
Un altro, invece, non aveva rispettato uno stop e li aveva tagliato la strada con rapidità; rischiarono di andargli addosso. Anche in questa situazione il moro si lasciò andare in una sonora strombazzata di clacson, il bruno in epiteti sconvenienti. Almeno questa volta, nessuno si sfogò con alcun gesto.
«Ora basta» sentenziò Duncan, svoltando per una stradina secondaria. «Parcheggiamo qui e andiamo a piedi» decise, lasciando la macchina nel primo buco libero che trovò.
«E sai dove si trova la chiesa?» domandò John, non esattamente convinto da quella proposta.
«Certo, ho già fatto la strada e l’ho memorizzata» lo rassicurò lui. «Arriveremo in un secondo».
E anche quella volta non andò come sperato. Duncan pensava di aver memorizzato la strada, ma non fu affatto così.
Morale della fiaba, i due vagarono per le strade a passo veloce per una ventina di minuti, con degli smoking addosso e delle fedi dietro, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti. In quei venti minuti John, naturalmente, non perse tempo per insultarlo fino alla morte. Fortunatamente, prima che potessero collassare, riuscirono a ritrovare la cattedrale, per immensa gioia di entrambi.
Varcarono il portone con aria solenne e, al cenno di una signora vestita in verde, che si era accorta di loro, un centinaio di teste si voltarono in loro direzione. Molti si chiesero chi fossero e cosa stessero facendo.
«Abbiamo le fedi!» dichiarò John affannato, alzando la scatoletta di velluto blu come se fosse una coppa d’oro. E fu in quell’istante che i presenti tirarono un sospiro di sollievo.
Camminò a testa alta lungo la navata, tutti che guardavano verso di lui, sventolando la scatola. Ma, una volta ai piedi dell’altare, non si accorse della presenza di una scalinata e inciampò, rischiando di andare a battere la testa contro lo spigolo del gradino più in alto. Le fedi, invece, volarono dritte in mano a Trent.
Il bruno cercò di non bestemmiare in quel luogo sacro; si rialzò e prese posto accanto a Duncan, in un banco della quarta fila a sinistra, che sghignazzava sommessamente; risolse il tutto pestandogli un piede e la soddisfazione di vederlo quasi in lacrime per il dolore lo ripagò.
«Direi che possiamo procedere con i voti nuziali» dichiarò il sacerdote.
«Gwen,» disse Trent guardandola negli occhi, «sin dal primo momento in cui ti ho vista, ho capito che eri una ragazza fantastica, eri troppo per uno come me».
Dal suo labiale, riuscì a decifrare parole molto simili a «Non devi nemmeno pensarlo».
«E, nonostante tutto, tu hai scelto me, e io non potrei esserne più felice» aggiunse. «Ringrazio ogni giorno quel reality per avermi fatto incontrare la donna migliore di quest’universo»
E, prendendo la fede dal contenitore, la fece scivolare lungo l’anulare sinistro di lei.
Gwen aveva un sorriso ebete stampato in volto e non riusciva a cancellarlo in alcun modo.
«Non sono mai stata brava con le parole, né ho preparato un discorso» premise, cercando di darsi un contegno. «Volevo solo dirti che sono la persona più fortunata al mondo, perché ti ho al mio fianco».
E ripeté i medesimi gesti del ragazzo.
Si presero le mani e dai loro occhi si poteva evincere l’amore incondizionato che provavano l’uno per l’altra.
«E con il potere conferitomi,» annunciò solenne il parroco, «io vi dichiaro marito e moglie».
La folla esplose in un applauso scrosciante nel momento in cui la loro unione fu ufficializzata. Nelle prime file, i parenti più stretti erano tutti in lacrime.
Courtney, che cercava di non scoppiare a piangere come una bambina, guardava i due con estremo orgoglio e gioia. Si sentiva fortunata ad essere la testimone di un matrimonio così bello e commovente.
E poi, istintivamente, il suo sguardo si mosse alla ricerca di Duncan. Anche lui la stava guardando e per un momento i loro occhi si incrociarono.
Alla fine della cerimonia, i due neo-sposini si scambiarono un bacio appassionato sulla gradinata della chiesa, mentre venivano investiti da una pioggia di riso di cui Izzy aveva preso il comando.
La madre di Trent singhiozzava senza sosta tra le braccia del marito; i genitori di Gwen non erano mai stati così felici.
Bridgette e Geoff e anche Tyler e Lindsay emulavano gli sposi e pure Alejandro era intenzionato a ricreare la scena con Heather, che non sembrava propensa ad acconsentire.
Ci fu il lancio del bouquet. Fu una cugina di Gwen ad afferrarlo, ma Sierra glielo strappò letteralmente di mano, afferrandola per i capelli e spintonandola via con forza, e si precipitò a stritolare Cody, il quale si limitò a rabbrividire.
Owen e Dj sembravano due fontane; Eva e Noah li guardarono scettici.
John se ne stava in disparte, guardando la scena con un sorrisetto sbilenco. Sul volto di Adam, in piedi accanto a lui, scivolò una lacrima solitaria.
E Courtney era al culmine della gioia, emozionata come se fosse lei la sposa. Duncan la teneva fra le sue braccia e lei non opponeva alcun tipo di resistenza.
Il fotografo immortalò questi ed altri momenti.
Tutto era estremamente perfetto. O meglio, tutto fu estremamente perfetto fino a quel momento.
Quando Duncan e John andarono a riprendere la macchina, scoprirono di essersi beccati una multa per divieto di sosta. Il primo tirò giù una scarica di Santi dal cielo; il secondo si limitò ad apostrofarlo con termini poco gentili, ricordandogli che fosse solo colpa sua.
Alla fine raggiunsero un punto fermo e stabilirono un tacito accordo: Courtney non avrebbe mai dovuto saperlo. Era una questione di vita o di morte.

 
• • •

Ore nove e cinquantasette di sera.
La cena era proceduta tra brindisi, proposti principalmente da Adam e Geoff, ai due sposi, parole entusiastiche e di augurio da parte di molte persone - Harold aveva addirittura preparato un discorso di cinque pagine e lo lesse davanti alle espressioni esasperate dei presenti; Leshawna si vergognò terribilmente di essere la sua ragazza - e romanticherie sdolcinate di ogni genere tra i due piccioncini.
Dopo innumerevoli portate, tutti in quel ristorante stavano per esplodere. L’unica persona, impavida, che continuava ad ingozzarsi, era John: era già la terza volta che si era alzato per andare al tavolo dei buffet, per poi tornare con ogni tipo di dolce esistente.
«Dacci un taglio» ordinò secco Duncan, tirando il piatto verso di sé. «Sul serio, amico, ho la nausea solo a guardarti!»
L’orchestra, stipata dall’altra parte dell’enorme stanza, finì di suonare un grande classico e attaccò con una ballata lenta.
Trent si alzò dalla sua sedia e tese una mano verso Gwen, che la afferrò esitante. La condusse al centro della sala, la afferrò saldamente per la vita e cominciarono a roteare per la stanza al ritmo di quelle note. Superato l’imbarazzo iniziale, la ragazza si lasciò trasportare da una parte all’altra come se fosse una bambola.
«Sono stomachevoli» si espresse John, bevendo un lungo sorso di vino.
Per tutta la serata non aveva fatto che commentare tutto quello zucchero con frasi acide e versi di disgusto.
Courtney evidentemente non la pensava come lui. Con il mento poggiato sulle mani, osservava con aria sognante i due ragazzi danzare, più innamorati che mai. Aveva sempre desiderato una relazione come quella, un principe azzurro che la portasse via a bordo del suo cavallo bianco.
Qualcuno le picchiettò la spalla e lei si girò di scatto, con lo sguardo di uno che era stato risvegliato da un bella visione.
«Se hai finito di sognare ad occhi aperti,» le disse Duncan, seduto alla sua destra, «avevo intenzione di invitarti a ballare».
«Tu, ballare?» lo derise con una risatina di scherno. «Non farmi ridere».
«Beh, se tu non vuoi, credo che andrò a chiedere a qualcun’altra» disse con una scrollata di spalle, cercando di farla cedere. «Per esempio, che mi dici della cugina bruna di Trent? Quella laggiù, con quei due cocomeri al posto delle tette».
Courtney comprese il suo giochetto imbecille. Lo afferrò per la giacca e lo trascinò di peso sulla pista, che aveva cominciato a riempirsi. Gli gettò le braccia al collo, mentre sentiva lui stringerle la vita, e cominciarono a muoversi.
Aveva sempre sognato il principe azzurro, ma alla fine si era innamorata dell’orco brutto e cattivo. E lei era la sua principessa.
Lo osservò, i suoi occhi puntati sui suoi piedi, ben attento ai passi. Se le avesse schiacciato i piedi come l’ultima volta, sapeva che le avrebbe tenuto il broncio per tutta la serata. La ragazza apprezzava il fatto che ci desse peso e che cercasse di evitarlo in ogni modo.
«Hai preso delle lezioni?» scherzò lei, notando tutta la sua accortezza.
Lui rise e lei si morse un labbro. Amava la sua risata.
Poi disse, senza riuscire a controllarsi: «Sono felice che tu sia con me».
E l’istinto la fece muovere verso le sue labbra. Voleva sugellare quel momento perfetto con un bacio indimenticabile. Sempre più vicino…
Prima che potesse solo sfiorargliele, si accorse che lui si era allontanato di colpo. Perché?
«Scusami» borbottò Duncan e si allontanò.
Courtney, inizialmente spiazzata, prese ad inseguirlo e a chiamarlo a voce alta. Quando raggiunse l’esterno, era troppo tardi: era già sparito in mezzo al giardino.
Rientrò dentro, i pugni stretti, le nocche ormai rosse e un insopportabile nodo alla gola. Che motivo lo aveva spinto ad allontanarsi? “Scusami” per cosa?
Le bruciava la gola e sentiva che avrebbe potuto cominciare ad urlare da un momento all’altro.
«Courtney» la chiamò Gwen, accorrendo verso di lei, con un’aria estremamente preoccupata. Aveva assistito a tutta la scena e temeva il peggio. «Stai bene?»
«Cos’è successo?» le domandò Trent, al seguito della moglie, avendo notato la sua espressione affranta.
Tutte quelle attenzioni la infastidirono un poco. Non era una bambina, non aveva bisogno di essere consolata.
«Non è successo nulla, sto alla grande e so badare a me stessa da sola!» sbottò acidamente e tutto d’un fiato.
Gwen cercò di trattenerla per il braccio, ma lei si liberò facilmente e corse via.
Si rifugiò in bagno e si accovacciò dietro il lavandino, in modo tale che nessuno potesse vederla. Combatteva contro le lacrime e cercava di non singhiozzare. Si sentiva un’idiota.
«Court, lo so che sei lì» disse Gwen, sul ciglio della porta, notando le sue gambe spuntare da dietro il lavandino.
«Vattene» sillabò.
Naturalmente non se ne andò. Si avvicinò, si accovacciò accanto a lei, attenta a non calpestare la stoffa del vestito, e le cinse le spalle con un braccio.
«Allora, che ne dici di raccontarmi tutto dal principio?» le chiese dolcemente.
La bruna prese un respiro profondo e prese a spiegare dettagliatamente tutto quello che era appena successo.
«E poi mi ha abbandonata sulla pista da ballo» concluse, tirando su col naso. E solo una volta che l’ebbe detto, riuscì a realizzarlo appieno. «Mi ha abbandonata sulla pista da ballo!» ribadì ad alta voce.
Gwen la strinse più forte, per paura che potesse cominciare a piangere da un momento all’altro. Ma non lo fece.
«Non darci troppo peso» le disse, e la vide sgranare gli occhi.
«Come faccio a non pensarci?» chiese Courtney indignata. «Gwen, io lo amo. Lo amo!»
Si tappò la bocca con una mano. L’aveva davvero detto ad alta voce?
Un conto era ammetterlo a se stessa, un altro confessarlo davanti a qualcun altro. Era strano, era totalmente diverso. Ed era anche così vero e suonava maledettamente bene.
Lo amo.
Gwen la guardò con un enorme sorriso stampato in volto.
«Finalmente l’hai capito anche tu, zuccona» quasi esultò.
L’aveva compreso da anni che quei due erano fatti l’uno per l’altra, eppure loro ci avevano messo così tanto tempo a capirlo. Quale problema avevano?
«Lo sapevano tutti!» esclamò ad alta voce qualcuno fuori dal bagno. Trent, con un sorrisetto stampato sulle labbra, aveva origliato l’intera conversazione.
«Ci stai forse spiando?» chiese beffarda la sua sposa.
«Io? Assolutamente no!» mentì spudoratamente. Poco dopo lo sentirono allontanarsi.
Scoppiarono entrambe a ridere.
Gwen, la prima a riprendersi, si alzò, riaggiustandosi le pieghe del lungo abito.
«Dove stai andando?» chiese Courtney, vedendola uscire.
«A dirne quattro a Duncan» rispose, voltando la testa in sua direzione. «Nessuno può ferire la mia migliore amica senza vedersela con me».
Le sorrise riconoscente. Le voleva un mondo di bene.

 
• • •

 
Ore dieci e trentatré.
Duncan si era rifugiato in fondo al giardino, il più possibile lontano da tutti. Dietro di lui, seduti su una panchina, una giovane coppia si scambiava effusioni. Lanciò loro un’occhiata disgustata, tornando a concentrarsi sulla sua sigaretta e concedendosi un altro tiro.
Le immagini di quella giornata si facevano spazio tra la sua mente: come Courtney l’aveva cacciato malamente dalla sua stanza, il bacio che gli aveva scoccato sulla guancia quando aveva fatto ripartire l’auto, l’abbraccio fuori dalla chiesa, quel ballo che le aveva domandato, le sue labbra sempre più vicine…
E anche quel mezzo bacio da ubriaco che le aveva dato ieri notte. Adesso riusciva a ricordarlo.
Non sapeva come comportarsi, era confuso.
«Tu!» strillò qualcuno.
Si voltò e vide Gwen, più infuriata che mai, camminare a passo rapido verso di lui.
Lo avverrò per le spalle e lo scrollò per bene.
«Sei uno schifoso pezzo di merda!» lo accusò ringhiandogli contro.
La rabbia le sfigurava il viso. Non l’aveva mai vista così.
«Ti prego Gwen, smettila! Così mi fai arrossire!» esalò con quanto più sarcasmo poté.
Questo peggiorò la situazione ancora di più.
«Cosa ti passa per quell’encefalo sottosviluppato?» gli chiese, con un’altra violenta scrollata.
«Chiedo scusa, ma non capisco» disse, cercando di non incrociare troppo a lungo lo sguardo con lei. Temeva potesse incenerirlo. «Se potessi spiegarmi…»
«Non fare il finto tonto, Courtney mi ha raccontato tutto» esclamò. «L’hai mollata in mezzo alla pista senza spiegazioni! Ti rendi conto?»
Aprì la bocca, ma lei lo sorprese.
«Non mi interessano le tue giustificazioni» sbottò. «So solo che l’hai distrutta, mi basta questo. Ora tu torni dentro e le chiedi scusa».
Lo spinse con tutta la forza che aveva, mandandolo a sbattere contro un albero, e si allontanò. Ma dopo qualche passo si fermò e tornò a guardarlo, stavolta molto più tranquilla.
«Lei ti ama» gli confessò con un sorriso sbilenco. «Non sprecare quest’occasione».
Le diede le spalle e la sentì rientrare nel ristorante.
Ora tutto acquisì un nuovo senso. Tutti quei segnali che gli aveva lanciato, quelle frasi, quelle occhiate…

Quel tentativo di baciarlo in mezzo alla sala.
Lei lo amava, come aveva fatto a non comprenderlo prima?
E lui aveva mandato tutto a monte per via del suo senso di colpa e dei suoi sentimenti confusi. Era stato uno stupido.
Gettò la sigaretta, che si era ormai spenta, nel posacenere più vicino e si diresse verso l’interno, non prima di aver gettato un altro sguardo verso quella coppietta. Erano troppo impegnati a succhiarsi la faccia a vicenda per accorgersi di qualunque cosa.
Una volta nel salone si guardò attorno, cercando di scorgerla tra la massa di invitati che ballava al ritmo di una canzone scatenata. Di Courtney nessuna traccia.
«Ehi amico, dove sei stato?»
John, seduto al tavolo da solo e con un bicchiere di spumante in mano, gli faceva cenno di avvicinarsi.
«Ti sei perso la plateale dichiarazione d’amore di Alejandro. Non ho mai visto una cosa così esagerata!»
Il latino era salito sul palco, interrompendo la musica e facendosi passare il microfono dal cantante. Aveva giurato amore eterno ad Heather, riempiendola di parole dolci e romantiche. Dopodiché si era avvicinato a lei, si era inginocchiato e l’aveva pregata di sposarlo. Alla fine, lei, più innamorata che mai, aveva accettato e la stanza era esplosa in applausi e acclamazioni, mentre loro si baciavano appassionatamente.
«Sì, poi mi racconti» tagliò corto Duncan. «Hai visto per caso Courtney?»
Ci pensò un po’ su.
«Da quella parte» concluse, indicando una porta dall’altra parte della stanza. «Ha detto che aveva bisogno di cambiare aria».
Lo ringraziò frettolosamente e si avviò verso il luogo indicato, ma John lo fermò.
«Duncan» lo chiamò, ed era forse la prima volta che usava il suo nome, senza aggiungere alcun altro epiteto. «Vedi di limonartela per bene, stavolta» si raccomandò.
Era la cosa più carina ed incoraggiante che gli avesse mai detto. Ne rimase piacevolmente sorpreso.
«Certo, amico» ghignò lui in risposta, facendogli l’occhiolino.
Attraversò la porta e si ritrovò a percorre un lungo corridoio spoglio, su cui si affacciavano altre due grandi sale - in entrambe si svolgevano due celebrazioni, un compleanno e una festa di laurea - e che terminava con un enorme balconata. Lì fuori, intenta ad osservare il cielo, vi era Courtney, i capelli acconciati e la gonna del vestito rosso che svolazzavano al vento. Sembrava una visione eterea.
«Principessa» mormorò.
La vide sussultare, segno che lo aveva riconosciuto.
«Cosa vuoi?» chiese con tono a metà tra l’acido, l’irritato e l’annoiato.
Si mise affianco a lei, alla sua destra, appoggiandosi alla ringhiera. Fissò il suo profilo, regale e perfetto; eppure il suo viso era così triste e abbattuto.
«Immagino che tu ti sia chiesta perché me ne sia andato senza dire una parola» disse lui guardando dritto davanti a sé, e pensò che non potesse esserci un incipit peggiore di quello. «Posso spiegarti».
«Illuminami, idiota» sbottò, rivolgendogli una smorfia.
Ma non riuscì a pensare a nulla che avesse un minimo di senso. Forse non c’era davvero una giustificazione adeguata.
Vedendo che non spiccicava parola, lei ridacchiò, e la sua risata aveva un nonsoché di amaro e malinconico.
«È così evidente, come ho fatto a non pensarci prima?» chiese più a se stessa che a lui. «È imbarazzante, non è vero? Passare del tempo con me».
«Cosa diamine stai dicendo?» domandò.
«Che io e te proviamo sentimenti diversi» rispose e poi aggiunse in un mormorio: «E io stupida che ci ho anche creduto… Beh, dopotutto eri ubriaco, come poteva essere vero?»
«Stai straparlando, come al solito» la avvertì. Alle volte era talmente logorroica che perdeva il filo del discorso. «Che ne diresti se provassi a spiegarti?»
Per la prima volta dall’inizio di quella conversazione Courtney lo fissò. Nei suoi occhi non si leggeva nulla se non assoluta indifferenza. Era troppo brava a nascondere ciò che provava.
Sospirò e distolse lo sguardo, affacciandosi nuovamente.
«Ieri notte hai detto che hai bisogno di me» mormorò. «Ma eri ubriaco, probabilmente farneticavi… e io ci ho creduto comunque».
Si aspettava che scoppiasse a ridere, o che la deridesse, o che distruggesse le sue aspettative in qualunque altro modo. Ma non fu così.
Duncan le prese il viso tra le mani e la costrinse a guardarlo negli occhi. Pensò che si sarebbe opposta in qualche modo, invece lei rimase immobile.
«La verità è che ho paura» le confessò, senza riuscire ad impedire che quelle parole gli uscissero dalla bocca. «Ho paura di esternare i miei sentimenti».
E ora che l’aveva finalmente detto, seppe che era quello il motivo per cui si era tirato indietro.
Aveva passato gli ultimi sei anni della sua vita a corteggiarla in ogni modo, e lei non aveva fatto una piega. Ora che Courtney aveva finalmente ceduto ed era pronta a dichiararsi, lui l’aveva rifiutata. Il tutto perché lei aveva preso in mano le redini di quel gioco mandandolo in confusione: solitamente, in una relazione, era il ragazzo a prendere il comando. Cosa c’era di sbagliato in lui?
Non aveva mai avuto paura di nulla, sin da quando era un fanciullo. Eppure non riusciva a dire quelle due semplici e fatidiche parole alla ragazza che tormentava i suoi sogni da quando aveva sedici anni.
Aveva avuto innumerevoli donne, prima e dopo di lei. Eppure Courtney era l’unica che gli aveva fatto provare un sentimento tanto forte da scombussolarlo. Tanto forte da non riuscire a confessarglielo.
«
È così idiota» borbottò con voce roca, spostandole con il pollice una ciocca, che le ricadeva sulla fronte, dietro l’orecchio.
«Non lo è» lo contraddisse. «Io ne ho avuto paura per sei anni».
Duncan cominciò a ridacchiare sotto i baffi.
«Non ci credo» disse. «Courtney Barlow che ammette di avere paura di qualcosa».
«Aver avuto» lo corresse. «E poi, non sono io quella che è scappata perché non sa ammettere i propri sentimenti, se non da sbronzo».
«Guarda che posso farlo tranquillamente quando voglio. E senza ubriacarmi».
«Ebbene, sorprendimi» lo sfidò con lo sguardo. «Fallo».
La tensione si era sciolta di colpo. Erano rimasti solo due giovani, inesorabilmente infatuati l’uno dell’altra, pronti a scherzare e a punzecchiarsi a vicenda. Come ai vecchi tempi, non era cambiato nulla.
E forse fu quella situazione, molto più familiare di prima, a farlo lasciare andare e spingerlo finalmente a parlare.
«Ho bisogno di te» disse Duncan con voce ferma e decisa.
Courtney gli rivolse un enorme sorriso.
«Anch’io».
Poggiò le labbra sulle sue in un bacio casto e leggero. Si allontanò di colpo, come se si fosse scottata.
«Mio Dio» imprecò lui.
«Cosa?» chiese titubante. Cosa succedeva adesso?
«Non mi ricordavo che baciassi così male» ghignò strafottente.
«Davvero? Vuoi scommettere?»
E fu in quel momento che mandò a farsi benedire la delicatezza. Si fiondò nuovamente su di lui, catturandogli le labbra con le sue. Questa volta il bacio era decisamente più violento e spinto. Lo baciava con tanta foga da non farlo respirare.
Portò le mani dietro la sua nuca, approfondendo il bacio ancora di più, mentre lui la afferrò dai fianchi e la spinse ancora più vicina.
E continuarono a cercarsi, a riscoprirsi fino in fondo. Con le lingue, con le bocche, con le mani. Erano stati distanti troppo a lungo.
Aveva dimenticato come fosse baciarlo, dei brividi lungo la schiena e della mente scombussolata e incapace di formulare qualsiasi tipo di ragionamento. Si sentiva viva.
Era questo che desiderava da sempre, pensò sentendo il suo cuore batterle all’impazzata. Lo aveva atteso a lungo, bramato con tutta se stessa. E finalmente era arrivato ed era anche meglio di quanto potesse mai immaginare.
Si staccarono per riprendere fiato e si guardarono intensamente. Fu in quel momento che capì che avrebbe voluto Duncan al suo fianco per tutto il resto della sua vita. Ne aveva davvero bisogno.
«Stanotte non mi scappi» sussurrò lui con malizia, prima di rituffarsi ancora e ancora su quelle labbra.
E Courtney ne era certa, non sarebbe andata da nessuna parte. Mai più.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice
E siamo arrivati alla fine di questo lungo viaggio.
Un’altra storia archiviata, sembra ieri che la iniziavo. Non potete capire quanto tutto ciò mi renda triste.
Voglio ringraziarvi, perché siete stati una piccola ed importante parte di questo progetto.
Grazie a Blacklu e Ale del trio Ale_Marti_Ola per aver recensito tutti i capitoli - o quasi.
Grazie a Madness17 per aver recensito il primo capitolo e a Valedxclove per aver recensito i primi due. Spero che abbiate continuato a seguire la storia, sebbene non vi siate più fatte sentire.
Grazie a mia cugina Porpora_, che ha recensito tutti i capitoli dal quarto in poi, che è stata anche lei ideatrice di questo progetto, in quella giornata di luglio di tre anni fa. Senza di lei, probabilmente “La Storia Inversa” non sarebbe mai esistita.
Grazie a mia sorella, che ha recensito solo il terzo capitolo ma che ha seguito tutto il processo creativo della serie, dall’inizio alla fine. È una delle mie lettrici più affezionate.
Grazie a tutti i lettori silenziosi, in particolar modo a chi mi segue da davvero tantissimo tempo ma che non mi ha mai recensito. So che siete lì, siete fantastici.
Grazie a chi ha messo la storia tra preferiti, seguiti o ricordati.
E grazie anche a chi ha seguito il prequel. Non vi cito perché siete davvero tanti e molti di voi probabilmente sono spariti, ma sappiate che vi adoro, ovunque voi siate.
Grazie a tutti voi, vi voglio un mondo di bene!
Davvero, non so cos’altro dire.
Spero che le avventure di questi pazzoidi vi abbiano fatto divertire e vi abbiano strappato una risata. E spero anche che sia riuscita a sciogliervi un po’ nei momenti romantici.
Non sarà la fine de “La Storia Inversa”. C’è la possibilità che io pubblichi delle missing moments, dei piccoli aneddoti sulla fan fiction originale però non trattati in questa, oppure un epilogo conclusivo - anche se, mi piace lasciare i finali in sospeso. Nel frattempo, mi concentrerò su altri progetti.
Grazie ancora per il vostro sostegno.
Ci vediamo presto, un abbraccio a tutti!
Hayle xx

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