La storia inversa: fiori d'arancio e improbabili complicazioni di smarsties (/viewuser.php?uid=247570)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Domenica ***
Capitolo 2: *** Lunedì ***
Capitolo 3: *** Martedì ***
Capitolo 4: *** Mercoledì ***
Capitolo 5: *** Giovedì ***
Capitolo 6: *** Venerdì ***
Capitolo 7: *** Sabato ***
Capitolo 1 *** Domenica ***
Ai miei tre anni sul sito. Grazie
per il vostro
continuo supporto, vi voglio bene.
La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili
complicazioni»
Domenica«
Toronto,
Ontario,
Canada.
13 luglio, ore otto e
trentotto di sera.
Per
narrarvi questa storia al meglio, è necessario
cominciare dal principio.
Come un’intrigante avventura
iniziò. E per intrigante,
intendo divertente ed
esilarante. Per voi che leggete, ovvio.
Tutto cominciò in un salotto, quello di John.
La persona sopracitata era, come suo solito, seduta sul
divano sgraziatamente mangiando un trancio di pizza fumante quattro
stagioni. Nel
frattempo guardava distrattamente una partita di basket in televisione.
Erano anni che, ormai, andava avanti così: era
rimasto a lavorare al bar, con la sua solita frequenza “un
giorno sì, venti
no”, per ancora qualche mesetto - dopo la fine delle vicende.
Poi, dopo un
incidente con la macchinetta del caffè, Daniel si
è visto costretto a
licenziarlo seduta stante - aveva un sorriso smagliate, in quel
momento:
finalmente si sarebbe liberato di quello scansafatiche per un motivo
valido. Da
allora, passò le sue giornate a poltrire, rompere le scatole
a - quel
poveraccio di - Duncan per puro divertimento e a pellegrinare da un
impiego
all’altro, col disperato intento di racimolare qualcosa - con
scarso risultato.
Quindi quella era un’altra delle molteplici giornate passate
nell’ozio più completo, l’ennesimo turno
di lavoro saltato. Una domenica coi
fiocchi, oserebbe dire. O, più precisamente, era stata una
domenica coi fiocchi
sino al momento in cui suonarono alla porta. E questa causa comprendeva
l’effetto di doversi alzare dal divano per andare ad aprire.
Chi è
il mentecatto che
viene a suonarmi alla porta in un’ordinaria domenica sera?
Spero almeno abbia
una buona ragione per disturbarmi.
Aprì
la porta con uno sbuffo. Si trattava del proprietario
del palazzo in cui abitava, affiancato da due suoi impiegati, che
tenevano in
braccio delle grosse scatole di cartone.
Questi ultimi lo superarono senza nemmeno guardarlo in
faccia e cominciarono, per qualche assurdo motivo, a riempire gli
scatoloni che
si erano portati con tutti i suoi beni personali.
«Signor Collins!» esclamò, con un
sorriso falsamente
mascherato, in direzione dell’uomo minuto e tutto vestito
perbene. «Prego, si
accomodi. Vuole qualcosa? Un caffè, da mangiare? E,
soprattutto, cosa stanno
facendo quei due con la mia
roba?»
Il suo indice sinistro indicò quelli, che continuavano ad
infilare oggetti nelle scatole, fino a riempirle del tutto e chiuderle
con
dello scotch spesso.
«Ehi tu, attento con quella cornice! E tu, invece, lascia
stare il mio orsacchiotto di peluche! E no, non è affatto
strano che un uomo
abbia ancora i peluche della sua infanzia!» Urlava loro di
mollare quella roba,
per lui, molto importante. I due si fermavano; poi, in seguito ad un
cenno
della mano del loro capo, continuavano a fare il loro lavoro
ignorandolo
completamente.
Prima che potesse sbraitare qualcosa sugl’ipoacusici e
l’importanza di curarsi l’udito - non che a lui,
quelle cose, interessassero
sul serio -, Collins prese la parola: «Già.
Immaginavo che lei non leggesse la
posta, signorino Gray» si limitò a dire,
sospirando e ripensando a tutti i suoi
arretrati - che, poi, era proprio quello il motivo per cui si trovava
lì.
John aveva il dannato vizio di bruciare - e dico in senso
letterale: accendeva il camino e ci buttava le lettere da lui ritenute
inutili
- tutto ciò riguardante “bollette” e
“pagamenti”, essendo, appunto, un gran
menefreghista.
Assunse un’espressione perplessa. Cosa c’entrava la
posta
con quella visita inaspettata?
«Mi scusi, ma, davvero, non capisco»
mormorò confuso.
«Se avesse aperto la busta rossa che le ho invitato tre
giorni fa, saprebbe benissimo che, entro quarantotto ore
dall’arrivo della
lettera, avrebbe dovuto sgomberare
l’appartamento»
Aggrottò le sopracciglia. Non ci arrivava!
«È indietro di un anno con l’affitto e
il contratto che ha
firmato prima di venire ad abitare qui diceva chiaramente che, in caso
di
mancato pagamento di dodici o più mesi, si viene sfrattati.
Ebbene, è quello
che è appena successo a lei: la sto cacciando di
casa»
Rimase attonito e quasi non si rese conto che i due operai
avevano caricato sulle sue braccia il peso di ben tre scatoloni.
«Ma, io…» cercò di
protestare, prima che potessero spingerlo
con forza sino fuori dal cancello del palazzo.
Sentì il portone di
ferraglia sbattere alle sue spalle e dei passi allontanarsi verso
l’interno.
Era la terza volta
nel giro di tre anni che veniva sfrattato, ormai ci stava facendo
l’abitudine.
Il problema era sostanzialmente un altro: i suoi non
l’avrebbero mai e poi mai
fatto tornare l’ennesima volta a casa.
Erano stati piuttosto
chiari con l’ultima ramanzina: “Una
volta
va bene, due pure… ma alla terza, puoi scordarti di avere
una famiglia!”
Inoltre, dal momento
che in tasca aveva a malapena i soldi per affittare un motel di
periferia per
due notti, la sua unica speranza era appoggiarsi su qualcuno per
qualche tempo.
Quello necessario per mettere da parte dei risparmi per affittare un
appartamento… cioè, per
l’eternità.
Afferrò il cellulare
dalla tasca, per cercare una soluzione. O meglio, per cercare un
poveraccio tra
i suoi amici e parenti che potesse ospitarlo per un paio di mesi.
Dopo una lista
infinita di nomi compresi tra la A e la C - la maggior parte di questi
li
detestava, l’altra parte comprendeva parecchi dei parenti
serpenti e una ancora
più piccola si trattava di compagni del liceo che non
rivedeva da secoli -,
quasi esultò, leggendo quel nome.
Insomma, proprio la persona che faceva a caso suo.
Courtney.
Ci
pensò sedici,
forse diciassette volte, prima di premere il tasto di avvio della
chiamata.
«Pronto?» Uno sbuffò
non attardò ad arrivare dall’altro capo.
«Ehi, sono John.
Senti, mi chiedevo se…»
«No» Lo interruppe.
«Ma se nemmeno ti ho
esposto ciò di cui ho bisogno!»
replicò. «Non essermi così tanto
diffidente!«
«Diffidente?!»
domandò come indignata. «L’ultima volta
che mi hai chiesto un favore, sono
rimasta sotto la pioggia battente, alla fermata dell’autobus,
ad aspettare non
si sa cosa, mentre tu te ne stavi beatamente nel suo
appartamento».
Ricordava quel giorno. Quello che aveva mangiato quel pomeriggio, era
forse
il migliore hot-dog di sempre.
«Ecco, il problema è
proprio casa mia… o dovrei forse dire la mia ex
casa». Non sapeva come aveva
trovato le parole giuste. Le aveva
dette, e basta. E, forse, non erano proprio quelle giuste.
«Mi hanno sfrattato e ora mi servirebbe un appoggio
momentaneo. Ti giuro, un mese e sto fuori dai piedi».
Come no.
«Il
tuo “appoggio
momentaneo”», già se la immaginava
mimare le virgolette con le dita della mano libera,
«va dai sei mesi ai cinque anni. Scordatelo!»
Stava per
riattaccare, quando…
«Aspetta!» esclamò il
ragazzo. «Non è che potresti darmi
l’indirizzo di un albergo, di un bed &
breakfast…»
«Oh, ti darò di
meglio!» esclamò maliziosa. Era ovvio che meditava
vendetta contro qualcuno.
«Stanford Avenue, numero 58B, decimo piano. La porta
è quella di fronte
all’ascensore».
«Grazie, sei
un’amica!» E, finalmente, riattaccò.
Già, provate ad
immaginare la felicità del proprietario di casa non appena
si ritroverà John
davanti. E provate ad immaginare chi sarà il proprietario di casa.
•
• •
Ore
ventuno e ventisette.
Chiuse
la chiamate e, con uno sbuffo, tornò
a chinarsi sul suo computer portatile, picchiettando rumorosamente
sulla
tastiera mentre decine di fogli di Word continuavano velocemente a
riempirsi.
Stava preparando un
paio di documenti per un imminente processo che si sarebbe tenuto di
lì a un
paio di giorni. Certo, c’era ancora parecchio tempo, ma
Courtney era quel tipo
di lavoratrice che - come penso ormai abbiate capito - si portava
sempre avanti
nei suoi impieghi.
Questo aveva sì i
suoi aspetti positivi, ma anche quelli negativi.
Ultimamente, essendo
una delle avvocatesse più gettonate, non aveva mai avuto un
secondo di pace.
Viveva ormai nel suo ufficio nel centro di Toronto ventiquattro ore al
giorno
e, anche quando era a casa, aveva sempre qualche incarico da completare
con la
massima urgenza. In pratica, era schiava del suo stesso mestiere.
La sua vita sociale
si era praticamente annullata nel giro di qualche mese e ciò
non era sfuggito a
Duncan, che pensava che riempirsi di lavoro fosse la sua ultima
innovazione per
evitarlo. Sì, esatto: suo malgrado, continuavano a
frequentarsi.
A distanza di ormai
sei anni, ancora si era
deciso ad arrendersi. E, ahimè, credo che mai
lo farà.
Si era
persino trovato un lavoro vicino alla sua sede lavorativa, pur di
tormentarla
in eterno. Era stato assunto in un’officina a pochi metri dal
suo ufficio da
circa un anno.
Nonostante tutto, erano
due settimane che non lo vedeva, né lui aveva dato segno di
vita. Non l’aveva
tempestata di chiamate, né aveva fatto irruzione nello
studio in modi irruenti
e poco garbati. Temeva il peggio. O forse aveva imparato a non
disturbarla
mentre lavorava.
Sbadigliando, si alzò
di scatto dalla scrivania e s’incamminò lungo il
corridoio. Non ne poteva più,
necessitava di una lunga pausa.
La cucina, quella
sera, le sembrava un posto dannatamente macabro e privo di qualsivoglia
rumore.
Nemmeno i passi sul pavimento freddo riecheggiavano.
Alle volte, pensava,
quell’appartamento pareva immenso per una sola persona.
Courtney mise a
preparare una caraffa di tè a fuoco lento sul piano cottura;
intanto si sedette
al tavolino della cucina.
Soltanto allora si
accorse che un mucchio di lettere giaceva al centro di questo. Era la
posta che
le era stata recapitata il giorno prima e che si era ripromessa di
aprire una
volta tornata a casa, di sera.
Dopo aver scartato
tutte le varie bollette, fu colpita da una busta candida chiusa con un
sigillo
di ceralacca rossa. La aprì e cacciò fuori la
lettera.
Lesse rapidamente le
righe, scritte in un impeccabile corsivo… e rimase scioccata
dal contenuto.
Trent McCord
&
Gwendolyn Fahlenbock
Sono lieti di
annunciare le loro nozze
il 19 luglio, nella
cattedrale di Vancouver.
La prima cosa che
riuscì a realizzare fu: «Il diciannove luglio?! E me lo dicono solo adesso?!»
Infuriata, si alzò di
scatto dalla sedia e si mise a frugare in ogni angolo
dell’appartamento alla
ricerca del suo fidato palmare, che, stranamente, finiva per smarrirsi
negli
angoli più assurdi ed impensabili. Quella volta, difatti, lo
trovò in salotto,
dietro il televisore.
Si mise a scorrere la
rubrica fino alla lettera G, fino al nome della sua migliore amica.
Esatto, lei
e Gwen erano tornate ad essere grandi amiche. Dopo che la seconda aveva
rotto
con Duncan, si era presentata seduta stante al bar - vi aveva
continuato a lavorare
per un altro mese, prima di cominciare il college e intraprendere il
suo sogno,
quello di divenire un avvocato - e, con gli occhi lucidi, le aveva
chiesto
scusa meglio che poteva. Inutile dire che non riuscì a
resisterle e, mezzo
secondo dopo, si stavano abbracciando.
Ricordava bene quando
le aveva comunicato che si sarebbe trasferita a Vancouver. Il giorno
della sua
partenza, sebbene si fosse psicologicamente preparata, aveva fatto una
scenata
assurda in aeroporto, pregandola di non andare via.
Una volta che trovò
il nome, avviò la chiamata senza pensarci due volte. Tre
squilli dopo, una voce
familiare le invase le orecchie: «Pronto?»
Ma non poté
aggiungere altro perché Courtney aveva già
cominciato a urlare: «Ti rendi conto
che hai intenzione di sposarti e
non hai
detto niente a me, che sono la tua migliore amica? Quando avevi
intenzione di
riferirmelo, dopo aver dato alla luce tre bambini? E ti rendo conto che
il
matrimonio è tra sette giorni e che l’invito è
arrivato ieri? E ti rendi
conto-»
«Ehi, calma» la
interruppe Gwen, prima che potesse aggiungere altro. «Sono
ancora a lavoro e
qui tutti mi guardano storto».
Si era laureata in
architettura, materia che l’aveva sempre affascinata sin da
bambina, e adesso
lavorava in un importante studio di Vancouver.
«Innanzitutto, ho
cercato di dirtelo tante volte, ma tu mi hai sempre interrotta con i
tuoi
problemi e con le tue lamentele. Devi sapere che sei… ehm, intrattabile, dopo
un’estenuante giornata di lavoro».
Ci fu un attimo di
silenzio.
Non era la prima
volta che qualcuno le diceva che con lei non si poteva parlare, una
volta
tornata dal tribunale. Duncan, addirittura, glielo ricordava tre volte
al
giorno come minimo.
«Poi,» riprese, «mi
dispiace tanto per l’invito, ma c’è
stato un problema con la spedizione e
alcune lettere sono arrivate estremamente in ritardo, specie quelle -
come la
tua - dirette a Toronto».
La bruna fece un
respiro profondo: «Scusa se ti ho aggredita in quel modo. Ci
tenevo soltanto ad
essere la prima cui avresti dato questa meravigliosa notizia».
Okay, potrete pensare
che Courtney sia impazzita per scusarsi di spontanea
volontà. Eppure, davanti a
Gwen, le veniva naturale gettare la maschera dell’acida
scorbutica per un po’ e
mostrare il lato più “umano”.
«Lo capisco» la
giustificò «Anch’io vorrei essere la
prima persona cui annuncerai del tuo
matrimonio».
«Be’, me ne ricorderò
in futuro» ridacchiò.
E poi si lanciarono
in una fitta, fittissima conversazione, quasi infinita.
•
• •
Ore
ventidue e undici.
John
guidava come un
pazzo nelle strade piuttosto tranquille della periferia di Toronto. Nel
frattempo, imprecava in turco contro il navigatore satellitare che, per
sei
volte, gli aveva fatto percorrere il tragitto più lungo.
Forse dovrei
ricomprarmene uno nuovo, questo è completamente
fuso.
«Arrivo
fra
cinquecento metri» annunciò la voce metallica del
navigatore.
Sperò con tutto se
stesso che, quella volta, aveva indovinato; altrimenti, tra cinquecento
metri,
quell’affare avrebbe fatto un volo di sola andata fuori dalla
macchina.
Con sua grande
felicità, notò all’inizio di un viale
un cartello scarsamente illuminato che
recitava “Stanford Avenue” e trovare
l’appartamento 58B non fu affatto
complicato.
Parcheggiato,
s’infilò nel portone socchiuso con tutti i bagagli
e poi dentro l’ascensore,
adocchiando il pulsante con numero dieci. Qualche istante dopo, le
porte si
riaprirono, mostrando una grande porta nera. Dall’altro lato
arrivava una
musica fastidiosa sparata a volume eccessivo.
Non gli restava altro
che suonare e conoscere il suo nuovo coinquilino.
Ma una volta che la
porta si aprì, il sorriso cordiale dipinto sulla sua faccia
e il bel
discorsetto che si era preparato andarono in fumo.
«Allora, cosa vuole
questa-»
Sul volto del
proprietario di casa comparve una smorfia.
«Cosa ci fai qui?!»
Penso abbiate capito
da chi Courtney lo abbia condotto. Esattamente, parlo proprio di Duncan.
«E come mai hai
quelle valige con te?» chiese, visibilmente preoccupato,
passandosi una mano
tra i capelli scompigliati completamente neri.
Aveva, difatti, deciso
di eliminare la sua amata cresta qualche anno prima, spinto da una
ventata di
maturità improvvisa, assieme a qualche piercing - rimanevano
soltanto quello
sul naso e un orecchino sul lobo sinistro.
«Un anonimo
benefattore mi ha consigliato di venire a domandare alloggio in questo
appartamento, quindi ora mi lasci entrare, senza se e senza
ma».
Egli, che
evidentemente aveva capito chi fosse l’anonimo
benefattore e che stava escogitando vendetta contro quello,
si preparò a
ribattere… ma troppo tardi.
John lo aveva
superato ed era entrato in casa, dove si ritrovò davanti lo
scenario più
confusionario che avesse mai visto dai tempi del liceo: cartoni di
piazza e
bottiglie di birra gettate al suolo, mobili rovesciati e devastati e un
gruppo
di persone che ballavano a ritmo di qualche canzone heavy-metal di
pessimo
gusto.
Aveva pur sempre una
laurea in meccanica - era stata Courtney a spingerlo
affinché riprendesse gli
studi, dopo aver riposato sugli allori per circa due anni; nel giro di
un
annetto e mezzo, era riuscito a laurearsi sempre con l’aiuto
di quest’ultima -
e un lavoro redditizio, ma le buone e vecchie abitudini non muoiono mai.
«Ehi amico, chi è
questo essere?» chiese
un tipo che si
era accorto della presenza di John.
«Nessuno» ringhiò
Duncan in direzione del bruno, come se quel gesto stesse a significare
che
dovesse sparire dalla circolazione entro pochissimi secondi.
«Be’, visto che ora
sono qui,» disse John, fulminando il suo coinquilino con lo
sguardo, «perché
non movimentiamo un po’ la festa?»
Il moro non osava
chiedere quale fosse la sua idea, poiché sapeva che non le
sarebbe piaciuta
affatto.
Dai, magari ti
sbagli, lo
cercò di convincere una vocina
nella sua testa - che aveva imparato ad identificare come la sua
coscienza. Sì,
la sua coscienza parlava. Magari ha
davvero un’idea geniale per rendere la serata ancora
più memorabile.
Ma l’affermazione
dell’altro andò ben oltre le poche aspettative che
nutriva.
«Che ne dite del gioco della
bottiglia?»
Ogni speranza andò a
farsi benedire nel giro di tre secondi e la sua coscienza si
zittì di colpo.
«Sei serio?» chiese
una voce indefinita.
Ma John già aveva
recuperato una bottiglia e si era seduto per terra, facendo cenno di
imitarlo.
Cosa che, molto svogliatamente, fecero.
«Siccome l’idea è
stata mia, io deciderò la prima penitenza».
Nessuno osò
contestare. Prima quello strazio cominciava, prima finiva.
Così fece roteare la
bottiglia e il suo collo, dopo alcuni vorticosi giri, si
fermò puntando verso…
«Duncan!» esclamò con
un sorrisetto, trattenendo più che poteva le risate.
Lui, tirando giù
qualche Santo dal cielo, prese un respiro profondo:
«Sentiamo: cos’hai in
mente?»
Si sfregò le mani
soddisfatto e, dopo averci pensato un po’ su, rispose:
«Dovrai ascoltare Nyan Cat.
Per dieci ore. Se non lo
farai, io entrerò in possesso della tua camera».
Cercò di fare mente
locale, per ricordare dove avesse già sentito quel nome. E
poi, sotterrato nei
meandri della memoria, eccolo.
Era stato Geoff a
parlargliene, un paio di anni prima. In pratica si trattava di una
musichetta
veramente idiota ed indecifrabile accompagnata dal video di una specie
di
gatto-biscotto che sparava da dietro arcobaleni.
«Spero tu stia
scherzando» fu l’unica cosa che riuscì a
sillabare, sbiancando di colpo.
Quella volta era
riuscito a resistere per sì e no due minuti - poi, si era
precipitato a
spegnere il computer per la sua sanità mentale -, figurati
resistere per dieci lunghe ore!
«Scusa, dovresti
cambiare penitenza» disse un tipo biondo, alzando la mano per
farsi notare «Non
possiamo aspettare che Duncan crolli, prima di continuare il
gioco».
O potremmo
proprio cambiare gioco, disse la
coscienza
del moro. Non sarebbe male, dopotutto.
«Allora,
eclissatevi!» esclamò il bruno
«Continueremo il gioco un’altra volta».
E prima che qualcuno
potesse aprire bocca per ribattere, li trascinò tutti fuori
dall’appartamento,
sbattendo la porta rumorosamente.
«Spero tu sia felice,
hai appena mandato all’aria la festa» disse Duncan
senza nascondere un pizzico
di rabbia.
«Ti ricordo che tu
devi ancora scontare la tua “punizione”»
cambiò discorso l’altro.
«Nemmeno se mi
paghi!» rispose con indignazione.
Ma John si era già
avvicinato al computer dell’altro, appoggiato al tavolo della
cucina, lo aveva
accesso e, qualche attimo dopo, si era lanciato alla frenetica ricerca
del
video desiderato.
Qualche attimo dopo
si diffuse per la stanza una musica patetica, infantile e soprattutto
fastidiosa. Una di quelle melodie che ti fanno venire un mal di testa
allucinante e la voglia di prendere la prima cosa che capiti sotto tiro
e
schiantarla contro il muro.
Senza pensarci due
volte, Duncan gli strappò di mano il computer e lo spense di
colpo, mentre gli
si formò una ruga fra le sopracciglia. Non
poteva sopportarlo.
«Tu sei pazzo»
bofonchiò, senza degnarlo di uno sguardo.
«Può essere, ma
siccome non hai superato la prova…»
Lasciò la frase in
sospeso e, prima che chiunque potesse accorgersene, aveva recuperato i
bagagli
e aveva spiccato una corsa disperata verso la camera da letto, con il
coinquilino alle calcagna, che cercò di buttarsi addosso a
lui per fermarlo. E
mentre il primo diede una botta violenta contro il pavimento, il
secondo riuscì
a buttarvisi all’interno e, con insistenza, a sigillare sotto
chiave la porta.
«Apri questa dannata
porta, altrimenti ti giuro che la butto giù!»
urlò il moro dall’altra parte,
cominciando a tirare pugni dall’altro lato.
Ma le sue
imprecazioni furono vane, poiché bellamente ignorate da
John, che nel frattempo
aveva già colonizzato la stanza.
•
• •
Ore
ventitré e quattro.
«Ecco
fatto!»
Courtney, pienamente soddisfatta del lavoro svolto, chiuse con un
leggero tonfo il portatile sulla sua scrivania.
Evidentemente la tazza di tè che si era concessa e la
piacevole
chiacchierata con Gwen l’avevano visibilmente rilassata.
Gwen. E chi se
l’aspettava che, da un giorno all’altro, avrebbe
preso
l’importante decisione di metter su famiglia con Trent?
Non poteva che esserne felice. Insomma, non capita mica tutti i giorni
che la propria migliore amica si sposi!
Inoltre, durante la conversazione, si era lasciata sfuggire anche un
piccolissimo dettaglio, che avrebbe dovuto essere una gradita sorpresa:
sarebbe
stata la sua testimone. Era stato uno dei momenti migliori della sua
vita,
probabilmente.
Alle volte le sembrava strano, pensare che erano ormai quattro anni che
era andata a vivere a Vancouver. Sembrava ieri quando l’aveva
abbracciata più
forte che poteva in aeroporto, inchiodandola a terra e impedendole di
prendere
il volo, fino a quando una hostess l’aveva dovuta spingere
fuori.
Tante volte si ritrovava a fare il percorso verso
l’appartamento dove
aveva abitato - inizialmente da sola; poi, dopo essersi chiariti, con
Trent -
per un po’, per poi ricordarsi che lei non era più
lì, ma a migliaia di
chilometri di distanza.
Sebbene si organizzassero e si vedessero molto spesso, non riusciva
ancora a realizzare di non averla più accanto. Le mancava
terribilmente.
E ora si sposava.
Già,
ne era passato di tempo, da quando avevano fatto pace, in quel
vecchio bar.
Aveva un disperato bisogno di dormire. Dopo aver lavorato
ininterrottamente per ore, la stanchezza cominciava a farsi sentire.
Inoltre,
era solita anche lavorare di notte, quando non terminava una pratica o
essa era
estremamente lunga, perciò le ore di veglia erano molto
spesso maggiori
rispetto a quelle di sonno.
Stava già iniziando a mettersi sotto le coperte, quando il
palmare,
poggiato sopra il comodino, cominciò a squillare
ininterrottamente. Chiedendosi
chi potesse chiamare a quell’ora così assurda,
sbloccò la chiamata e si portò
il cellulare all’orecchio.
«Pronto?» chiese sbuffando.
«È questo il modo di salutare un vecchio amico che
non si fa sentire da
un pezzo?» rispose il suo interlocutore, avente una voce
molto familiare. «Mi
aspettavo quantomeno un’accoglienza calorosa»
Sospirò: «Senti non ho tempo da perdere con i tuoi
giochetti idioti, Duncan. Dimmi
subito cosa vuoi e
facciamola finita».
«Come siamo acidi, oggi!»
E a quel punto non poté evitare di ridacchiare, anche se
cercò di
mascherarlo al meglio. Non l’avrebbe mai ammesso ma, dopo
tutto, parlare con
lui le faceva veramente bene. Era capace di strapparle una risata anche
se era
stressata o triste.
«Ad ogni modo, John ha deciso di trasferirsi qui da me e ha
preso
possesso della mia camera; adesso sono fuori, lungo il corridoio,
seduto per
terra, con la schiena poggiata al muro e, mentre ti sto parlando, sto
escogitando
un modo per fartela pagare. Perché sì, lo so che
sei stata tu a mandarmelo qui.
Per esempio, che ne dici se venissi sotto il tuo ufficio e ti cantassi
una
serenata? Ho già in mente un bel po’ di
versi».
«Non osare nemmeno pensarci, ti denuncio per
molestie» rispose, con tono
falsamente isterico. «E questa è la mia personale
vendetta per avermi
infastidito tutti i giorni, da circa sei anni a questa parte. Te lo sei
meritato».
«Sì, sono una persona ignobile, lo
ammetto» disse, roteando gli occhi.
«Come seconda cosa, volevo solo darti la buonanotte. Potrebbe
diventare una
specie di rituale».
«Okay» disse semplicemente, con un sorriso sincero
che le spuntava sulle
labbra. Dopo un po’ di silenzio, aggiunse:
«Buonanotte, Duncan».
«’Notte, principessa».
Hayle’s
wall
Ehm, salve gente.
Probabilmente, non avrete la minima idea di chi io
sia, ma alcuni di voi, se c’è ancora gente che
frequentava il fandom circa due
anni fa, mi conoscono… solo che con un altro nome.
Vi ricordate di Solluxy? Ebbene, sono io. Ho avuto una crisi
d’identità
e ho deciso di cambiare nome, esatto. E no, non sono un miraggio. Sono
veramente tornata nel fandom; per giunta, l’ho fatto
pubblicando il sequel di
una fan fiction che scrissi nel luglio 2013 - «La storia
inversa ~ Ovvero, come
distruggersi in sette giorni», “famosissima”,
si fa per dire, fan fiction Duncney. Quindi, se siete arrivati qui e
siete un
po’ confusi, vi consiglio di dare una letta veloce - per
quanto possa fare
pietà - al prequel. Giusto per chiarirvi le idee.
Era da secoli che volevo pubblicare questo sequel; ora, a distanza di
due anni, ho finalmente trovato l’ispirazione necessaria per
portarla avanti.
Spero che possa essere di vostro gradimento e, come il suo prequel,
conterrà sette capitoli, uno per ogni giorno della
settimana, fino ad arrivare
al finale più dolce di tutti. Lo giuro, questa volta
sarà definitivo.
L’aggiornamento dovrebbe essere abbastanza veloce,
poiché ho molte idee
per questa storia - devo solo metterle per iscritto - e il secondo
capitolo è
quasi completo. Inoltre, vorrei anche pubblicare una one shot/song-fic
Duncney:
non appena troverò un modo quantomeno decente per
continuarla e concluderla, la
pubblicherò.
Se trovate qualche errore, fatemelo sapere. Io ho ricontrollato ma
è
probabile che mi sia sfuggito qualcosa.
Angolino uno di sette completato, non mi resta che salutarvi. Ci
vediamo
nel prossimo capitolo e nelle recensioni.
Hayle xx
P.S. Vi consiglio, per vostra
sanità mentale, di non andare a cercare Nyan Cat su
Youtube. Fidatevi.
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Capitolo 2 *** Lunedì ***
La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Lunedì«
Toronto,
Ontario, Canada.
14 luglio, ore otto e trenta del mattino.
Quella
poteva essere una giornata perfetta, per Duncan.
Era il
suo giorno libero, il che implicava il poter rimanere a letto fino a
mezzogiorno. Dopodiché avrebbe ordinato una pizza, guardato
un bel film
splatter in televisione - magari con un amico - e infine sarebbe andato
a
prendere Courtney al suo ufficio, organizzando un piano che potesse
metterla il
più possibile in imbarazzo davanti ai suoi colleghi. Certo,
probabilmente non
gli avrebbe parlato per una settimana - anche due, nel peggiore dei
casi -, ma
ne valeva la pena.
Poteva
essere, appunto. Perché in realtà non la fu,
nemmeno un poco.
Innanzitutto,
quella mattina qualche imbecille si era attaccato al campanello di
casa,
minacciando di rimanere lì fuori fino a quando non avrebbe
aperto, rovinandogli
il sonno.
E, una
volta sveglio, realizzò quello che era successo la sera
prima: John aveva fatto
irruzione nel suo appartamento,
rovinato la sua festa e
colonizzato
la sua camera da letto. Ragion per
cui, si ritrovava accovacciato lungo il corridoio, con la testa
poggiata al
muro e gli stessi vestiti del giorno precedente, mentre il suo nuovo
coinquilino dormiva beatamente nel
suo comodo
letto.
E
intanto il campanello continuava a suonare senza alcuna interruzione,
senza
nessuna pietà per le sue orecchie, istigandolo a buttare una
bestemmia così
grossa da far tremare i vetri delle finestre.
Insomma,
chi era il mentecatto che veniva a suonare alle otto e mezza di un
normalissimo
lunedì mattina di metà estate? Non aveva niente
da fare tipo, che so, dormire?
«Sta’
calmo, arrivo!» gridò attraverso il corridoio con
tutto il fiato che aveva in
gola, rialzandosi a fatica da terra e trascinandosi verso
l’ingresso.
Una
volta aperta la porta, non ebbe nemmeno il tempo di vedere chi fosse e
di
lanciargli contro le peggio maledizioni, perché costui - o
costei - si era
precipitato nel suo salotto di corsa.
«Innanzitutto,
un buongiorno sarebbe quantomeno gradito, principessa» disse,
chiudendosi la
porta alle spalle e voltandosi lentamente.
Naturalmente,
aveva già capito di chi si trattasse dal modo in cui
l’aveva scansato: davanti
a lui vi era una Courtney pettinata, vestita in modo impeccabile e
fresca come
una rosa sin dal primo mattino. Aveva la sua borsa a tracolla e si
rigirava tra
le mani le chiavi della sua auto. A giudicare
dall’espressione che aveva in
volto, era in preda al nervosismo - come la maggior parte delle volte.
«Cosa
ci fai ancora conciato in quella maniera?! Sei
impresentabile!» sbraitò lei,
ignorando completamente la sua precedente frase. «Perlomeno,
quando vieni ad
aprire la porta, potresti avere un aspetto quantomeno
decente… e dovresti anche
lavarti i denti».
Effettivamente,
per strada avrebbero potuto tranquillamente scambiarlo per un barbone:
i
capelli spettinati, due enormi occhiaie, un’alitosi da
spavento e la barba
sfatta. Almeno, punto a suo favore, per quanto sporchi e fradici di
sudore
fossero, aveva dei vestiti addosso. Solitamente, infatti, si presentava
con una
canottiera bianca incrostata di sugo o, peggio ancora, in boxer.
«Mi
sono appena svegliato e non ho avuto il tempo di pensare al mio aspetto
esteriore, anche perché avevi deciso di non mollare quel
maledetto campanello»
si giustificò. «Ecco perché sono
“ancora
conciato in quella maniera”».
«Allora
farai meglio a vestirti perché abbiamo un sacco di cose da
fare, questa
mattina» gli rispose, accomodandosi aggraziatamente sul
divano, scansando varie
lattine di birra e briciole varie e poggiando la borsa accanto a lei.
Ci mise
un po’ ad elaborare la frase - erano pur sempre le otto di
mattina, dannazione!
- ed un’unica domanda gli affiorò in mente: che
cosa dovevano fare di così
tanto importante, in un ordinario lunedì mattina?
Prima
che potesse formulare il quesito direttamente, qualcuno fece il suo
trionfale ingresso
in salotto a gran passi e si piazzò davanti al televisore.
Aveva la faccia
ricoperta di schiuma, teneva in una mano uno spazzolino e
nell’altro una
lametta e tutto ciò che indossava era un semplice
asciugamano attorno alla
vita.
«Okay,
si può sapere chi è il mentecatto che si era
attaccato al campanello di prima
mattina e mi ha fatto tagliare la faccia con questo maledettissimo
rasoio da
due soldi?!» annunciò, con uno sguardo accigliato
in volto. «Se lo becco io-
oh, ciao Courtney».
Adesso,
l’espressione sul suo volto era di puro terrore.
«John»
ricambiò lei il saluto, facendo un cenno col capo.
«Quindi
eri tu che-»
«Già»
lo interruppe subito, con tono piatto.
«Io non
le pensavo veramente tutte quelle cose».
«Lo
spero».
Duncan,
impegnato a sghignazzare, non si accorse subito con cosa
il suo coinquilino si fosse presentato lì. Si era
già
sistemato per il meglio, insomma.
«Scusa
se ti interrompo,» iniziò, «ma ti stai
facendo la barba con la mia lametta
- che, tanto per la cronaca,
non è da due soldi -, ti sei lavato i denti col mio spazzolino e quello che hai intorno
alla vita è il mio
asciugamano».
La
frase avrebbe dovuto suonare come una domanda, ma venne fuori come una
fredda
affermazione.
«Già,
non avevo voglia di disfare i bagagli. Troppa fatica» gli
rispose, facendosi
spazio sul divano, prese dal tavolino il suo
portatile e lo accese, poggiandoselo sulle gambe.
Evitò
anche di commentare, non ne aveva la voglia… e, ad ogni
modo, non l’avrebbe mai
ascoltato. Ormai aveva perso ogni speranza verso
quell’individuo da un sacco di
tempo.
Così
decise di sedersi sul bracciolo del divano e di riprendere il discorso
lasciato
in precedenza: «Cos’è che, di preciso,
dovremmo fare tu ed io insieme questa
mattina?» chiese, guardando il suo profilo.
«Sapevi
del matrimonio di Gwen e Trent, immagino» rispose, senza
guardarlo.
Fece
per un secondo mente locale. Si ricordava di quando gli era arrivato
quell’invito, mesi prima: all’inizio era rimasto
incredulo, poi non poté fare a
meno che essere felice per la sua amica, nonché ex ragazza.
La chiamò anche per
congratularsi direttamente - e ricordare anche un po’ di
vecchi tempi.
«Naturalmente,
e anche da parecchio tempo. E con questo?»
Finalmente
si voltò in sua direzione: «Sai che il matrimonio
è questo sabato, vero?»
chiese nuovamente, alzando un sopracciglio. Evidentemente, conosceva
già la
risposta.
«Impossibile,
l’ho segnato sul calendario. Il matrimonio
è,» e lanciò uno sguardo alla parete
di fronte, spalancando gli occhi, «questo sabato»
concluse, con un mormorio. «E
io non ho il vestito. Né un regalo decente».
Lei
incrociò le braccia al petto, soddisfatta. Aveva ragione,
come al solito.
«Un
momento,» li interruppe John, alzando lo sguardo dal
computer, «perché Gwen e
Trent si sposano e non mi hanno invitato?»
«Perché
noi siamo vip e tu sei un povero plebeo» scherzò
Duncan, anche se la battuta
non fece ridere nessuno. «Perché a malapena ti
conoscono, razza di scimmia
decerebrata!»
Prima
che potesse ribattere, scatenando così una rissa, Courtney
prese la parola:
«Mentre io e questa sottospecie di uomo,» e qui
indicò Duncan, «andremo a fare
spese - perché il mio invito è misteriosamente
arrivato ieri e non ho avuto
tempo -, te ne starai a casa, senza disturbare il vicinato e senza
demolire
l’intero appartamento».
All’apparenza
sembrava un’ottima idea, ma c’era un punto che non
andava: Duncan non avrebbe
mai e poi mai lasciato John da solo per quelle poche ore, figuriamoci
se
l’avrebbe fatto per un paio di giorni - specie se si trovava
a più di duemila
chilometri da casa!
«Dobbiamo
rivedere il piano: io non permetterò in nessun modo che lui
rimanga qui,
completamente da solo» obiettò, scattando in
piedi. «Quindi le soluzioni sono
due: o fa le valige e si trova un altro alloggio, oppure viene con noi
a Vancouver.
Io, personalmente, scelgo la prima opzione».
«E io
la seconda» rispose il bruno. «Voglio venire
anch’io al matrimonio».
Courtney
non ci pensò nemmeno per un secondo:
«Dimenticatelo, non sei stato invitato!»
«E
quindi, addio, quella è la porta» aggiunse Duncan
con un sorriso smagliante,
indicando l’uscita.
Ma John
lo ignorò completamente: andò, invece, di fronte
all’amica e si mise in
ginocchio con le mani giunte.
«Ti
prego!» esclamò, allungando esageratamente la
“e”.
Lei
distolse lo sguardo, e fissò un punto indefinito alla sua
destra. Guardarlo
significava cedere seduta stante: era stranamente bravo a far sentire
le
persone in colpa con una semplice espressione facciale.
Ce
l’avrebbe fatta, non era una debole.
Purtroppo
resistette per circa una trentina di secondi. Per un fatale scherzo del
destino, non poté fare a meno di incrociare i suoi occhioni
color nocciola e il
labbruccio tremolante. E a quel punto, fallì miseramente.
«D’accordo,
verrai, ma solo perché mi fa pena vederti solo come un
cane» sospirò; nel
frattempo, John faceva i salti di gioia, ringraziandola in tutte le
lingue che
conosceva, e Duncan imprecò sonoramente, perché
sapeva che l’avrebbe avuto in
mezzo ai piedi anche durante quella vacanza. «Ora andate
immediatamente a
vestirvi, non ho tempo da perdere con voi».
Si
prospettava una lunghissima giornata.
• •
•
Ore nove e quarantadue.
Circa
un’ora dopo si ritrovavano a camminare per le sontuose strade
del centro di
Toronto, con Courtney che procedeva in testa al terzetto con passo
veloce e due
affannati John e Duncan che cercavano di starle dietro.
Continuava
ad impartire ordini da quando avevano lasciato casa, circa venti minuti
prima,
e ogni tanto dava un’occhiata al suo telefono, per
controllare la lista che si
era preparata.
«Ripetiamo
ancora una volta,» annunciò, accingendosi a
rileggere il tutto per la terza
volta, «questa mattina ci recheremo a comprare uno smoking
decente per tutti e
due e un abito che possa adattarsi al mio ruolo di
testimone». Indugiò per un
attimo nell’ultima parte, come a voler sottolineare quanto
tenesse a quel
compito.
«Domanda»
esordì Duncan, alzando l’indice e fermandosi un
secondo per riprendere fiato.
«È proprio necessario il vestito elegante? Sai,
non metto uno smoking dal
lontano…», e qui si fermò a riflettere,
grattandosi la testa, «non ho mai messo
uno smoking!»
Tra un
respiro affannoso e l’altro, si udì John dire
qualcosa come “sciattone”.
«Scordatelo,
non ti permetterò di farmi fare una brutta figura»
rispose, voltandosi appena
ma senza smettere di camminare. «Poi, dopo una velocissima
pausa pranzo, andremo
a comprare un adeguato regalo di nozze. Tutto ciò
dovrà avvenire in meno tempo
possibile, dato che io devo finire il mio lavoro».
«Ehm,»
cominciò John con audacia, «sai che il matrimonio
è fra più di cinque giorni,
vero? Perché affrettarsi tanto, mi chiedo!»
Ma non
ricevette risposta, perché quella - forse non aveva sentito,
forse l’aveva
volutamente ignorato - continuò a procedere per la sua via,
senza degnarlo di
un piccolo sguardo.
Alla
fine di quel lungo viale, svoltò a destra e si
fermò davanti ad una vetrina,
mentre i due uomini si appoggiarono ad un palo e cercarono di fermare
il
fiatone. Lei, invece, era perfettamente ritta e non mostrava segni di
fatica,
come se fosse abituata a fare sempre tutto di fretta.
«Ci
siamo» annunciò loro, fissando i capi esposti
nella vetrina.
Si
trattava di un negozio di abiti eleganti abbastanza modesto, un outfit,
senza
prezzi esageratamente alti né era troppo squallido.
Prima
che potessero accorgersene, Courtney era già entrata nel
negozio e aveva
salutato la cassiera esponendole ciò che le serviva. Cinque
secondi dopo,
questa la portò via, lasciandoli completamente soli e
spaesati.
«Fantastico»
commentò John. «E ora che si fa?»
Non
ebbero il tempo di pensare a qualche piano o brillante idea che una
ragazza
biondissima, slanciata e dalle lunghe gambe si materializzò
davanti a loro, con
un sorriso a trentadue denti stampato in volto.
«Salve,
avete bisogno di aiuto?» chiese con tono gentile, fissando
prima uno e poi
l’altro.
Duncan
mise su la sua migliore espressione da rimorchiatore e rispose con il
tono più
seducente possibile: «Non è che per caso si
potrebbe avere il numero di questa bella
commessa? Sarebbe un peccato sprecare tanta bellezza senza nemmeno aver
provato
ad uscirci assieme» disse, ammiccando.
Quella
sorrise e cercò di nascondere il lieve rossore sulle gote.
«Nessuno
mi aveva mai detto una cosa del genere» mormorò,
guardando altrove per
l’imbarazzo.
La
situazione stava diventando fin troppo scomoda e fastidiosa. Chiunque
avrebbe
vissuto quella situazione come terzo incomodo, sarebbe stato
maledettamente a
disagio. Così John, evidentemente stufo di quel banale
flirt, da bravo
salvatore della patria, compì un gesto eroico: fece
accidentalmente cadere il
suo piede sopra quello di Duncan, che emise un grido così
acuto che farebbe
invidia ad un soprano.
Mentre
quello lo riempiva di coloriti insulti a malapena borbottati, prese
abilmente
la parola: «Perdona questo povero essere, è
soltanto un cretino. Siccome la
sergente che entrata qui con noi ci sbrana vivi, se non ci presentiamo
in modo
impeccabile al matrimonio della sua migliore amica, ci servirebbe
qualcosa di
quantomeno presentabile. Ora, capisco che trovare un vestito che regga
il
confronto con la mia fantastica persona,» e qui Duncan fece
di tutto per non
scoppiare a ridere, beccandosi un’occhiataccia,
«sia difficile, però ti chiedo
di fare un piccolo sforzo».
La
ragazza, ridacchiando, fece gesto di seguirli: «Potete
cominciare ad
accomodarvi nei camerini, mentre io cercherò qualcosa di adeguato
all’occasione».
Per
quanto ci fosse soltanto una ragazza nel suo cuore, non si
può certo pretendere
che il nostro caro Duncan abbandoni le sue vecchie abitudini dalla sera
alla
mattina: in sei anni, più che altro per passare il tempo,
aveva continuato a
sedurre giovani donzelle con lo scopo di passare qualche nottata
indimenticabile e, soprattutto, di far ingelosire la sua preda.
A
Courtney, naturalmente, tutto questo non era sfuggito e, sebbene
cercasse di
mantenere un atteggiamento sobrio davanti a lui, non poteva negare che
questo
le desse profondamente fastidio. Non perché fosse innamorata
- non sia mai! -,
perché, facendo così,
non le dimostrava affatto che a lei
ci teneva.
Già,
principalmente era questo il motivo per cui il nostro amico era ancora
single.
Ce ne sarebbero circa altri trecento novantaquattro(1),
ma sarebbe troppo lungo e borioso elencarli tutti.
Nel
frattempo la commessa, che avevano scoperto chiamarsi Cherry leggendo
la
targhetta appuntata al suo petto, aveva portato loro tre diversi
completi a
testa e, mentre si cambiavano, John diede il meglio di sé,
esordendo con frasi
del calibro «Non si abbottona la camicia!», oppure,
venti volte più umiliante,
«Questo mi sta stretto al cavallo».
Dopo
due minuti buoni di lamentele, Duncan, al limite della sopportazione,
con
l’intento di farsi capire bene da chiunque gridò:
«Non è colpa nostra se sei
uno schifoso obeso e passi le tue giornate a poltrire, piuttosto che a
sgobbare
per portare a casa un misero stipendio!»
Non appena la disse, trovò che quella
frase suonasse molto male per uno come lui. Certo, aveva un lavoro ben
retribuito e non era un pigrone di prima categoria, ma non si trovava
mica
nella posizione di poter criticare, quando pochi anni addietro era
nelle stesse
condizioni!
«Ha parlato l’uomo vissuto!» rispose,
irritato. «E poi questa non è trippa, è
una cover per i miei addominali».
Dopo un altro paio di minuti di frasi
imbarazzanti e insulti gratuiti, come se tutto fosse programmato,
uscirono in
contemporanea dai camerini e si voltarono l’uno verso
l’altro. Servirono circa
cinque secondi per studiarsi dalla testa ai piedi, dopodiché
scoppiarono a
ridere fragorosamente, piegandosi in due e cercando di trattenere le
lacrime.
«Sembri un paggetto, con quel vestito!»
commentò Duncan, indicandolo.
«E tu, con quella pelle cadaverica e
quelle occhiaie profonde tre centimetri?» ribatté
John, cercando di darsi un
contegno. «Potresti benissimo essere uno della famiglia
Addams».
«Siete fantastici» commentò Cherry,
spingendoli davanti ad un grosso specchio rettangolare, posto sulla
parete a
loro di fronte. «Ecco, vedete se vi piacciono e ditemi cosa
ne pensate».
Duncan si scrutò nello specchio e non
poté fare a meno di spalancare gli occhi. Quello non era
decisamente lui.
Lì riflesso, vi era un uomo a tutti gli
effetti, i tratti del viso ben accentuati e una barba incolta. A
completare il
tutto, la suite elegante che indossava lo faceva apparire
più maturo di quello
che era.
Era davvero passato così tanto tempo,
da quando era un adolescente senza grilli per la testa? Quello nello
specchio
era veramente lui, o solo qualcuno che gli somigliava?
Eppure non gli sembrava di essere
cresciuto - ed invecchiato tanto: sotto sotto, forse era ancora quel
ragazzo di
un tempo, strafottente e spensierato. Sembrava fosse ieri.
E
invece erano già sei anni dall’ultima stagione del
reality.
Mentre
era assorto nei suoi pensieri,
John si fissava orripilato, con la bocca semiaperta.
«Scherziamo? Non si addice per niente
al mio corpo, mi fa sembrare un pinguino!»
sbraitò, sbattendo i piedi a terra;
intanto la commessa fece un passo indietro, colta in flagrante dalla
sua
reazione.
«Beh, se vuoi ti prendo un altro
completo» balbettò quasi, sparendo dietro un alto
scaffale.
Non era mai stato vanitoso, né gli
importava di cosa indossava. Spesso gli piaceva far impazzire i
commessi, con i
suoi gusti strabici; era difficile da accontentare e aveva da ridire su
qualunque cosa, tanto da farsi lanciare mentalmente ogni maledizione
dal
personale - talvolta anche ad alta voce, come quando un negoziante,
siccome era
lì da ore e avrebbe dovuto chiudere venti minuti prima, gli
aveva cominciato ad
urlare contro le peggio bestemmie.
Inoltre, per quell’occasione ci teneva
ad essere perfettamente impeccabile. Un po’ perché
non voleva rimanere da solo
in città, senza nessuno da disturbare; un po’
perché il vestito era
dannatamente aderente in ogni punto e non voleva rimanere nudo nel bel
mezzo
della celebrazione - avrebbe potuto scandalizzare tante gente; e un
po’ anche
perché, se non avrebbe seguito alla lettera le istruzioni,
Courtney avrebbe
deliberatamente impedito che prendesse l’aereo. Non
l’avrebbe mai ammesso, ma
molto spesso quella donna le faceva paura.
E poi aveva bisogno di una vacanza e di
ferie non meritate dal suo
noiosissimo lavoro - in quel periodo, era un impiegato della biblioteca
della
città; possiamo considerarlo un paradosso, dato che lui odia il silenzio -, era da tanto che non
se ne prendeva - circa tre
settimane, tempo relativamente lungo.
Duncan, capendo che la faccenda avrebbe
avuto lunga durata, con uno sbuffo e le mani dietro la schiena, prese a
camminare senza una meta precisa. Andava dove le sue gambe lo portavano
e,
misteriosamente, si ritrovò nel reparto femminile, a
camminare tra vestiti
casual e lunghi abiti da sera con scarso interesse.
Ad un certo punto si bloccò di scatto,
sorpreso per la seconda volta nell’arco di una manciata di
minuti: davanti a
lui, intenta ad aggiustarsi al meglio l’abito di fronte ad
uno specchio, vi era
una Courtney elegante quanto mai. Il vestito era di un rosso acceso,
con le
maniche lunghe di pizzo, una scollatura ad U sulla schiena e la gonna
toccava alle
ginocchia.
«Wow» si lasciò sfuggire, mentre lei si
girò di scatto nella sua direzione. «Sei
semplicemente… wow».
Era rimasto completamente senza parole,
incapace di formulare una frase di senso compiuto. La bellezza davanti
ai suoi
occhi era esageratamente tanta ed era come se si sentisse impotente,
davanti ad
essa.
«Anche tu sei… stai veramente alla
grande» mormorò con un imbarazzo che non le
apparteneva, stampandosi in faccia
uno dei sorrisi più belli e sinceri che le aveva visto fare.
Vederla con quelle vesti eleganti, gli
faceva capire di quanto anche lei sia cresciuta e maturata negli ultimi
anni,
senza che se ne fosse reso conto. Dopotutto, il carattere era ancora
molto
simile a quello adolescenziale e neanche i modi di fare erano cambiati
più di tanto.
Forse averla avuta sotto gli occhi per
tutto quel tempo gli aveva giocato un brutto scherzo, forse
l’aveva vista
diventare adulta gradualmente, senza darvi conto più di
tanto. Probabilmente,
se l’avrebbe rivista in quel momento, dopo ben sei anni, non
l’avrebbe
riconosciuta: i capelli leggermente più lunghi, delle
rughette attorno agli
occhi e dei tratti del viso più marcati, caratteristici di
un adulto.
Solo in quel momento si rese conto di
quanto la sua principessa fosse
cresciuta… e sì, anche diventata più
bella.
Mentre era impegnato a boccheggiare
come un idiota, lei prese la parola, interrompendo
quell’imbarazzante silenzio:
«Allora prendo questo» sentenziò,
ritornando al suo solito tono autoritario.
«Quanto vi manca? Siamo leggermente in ritardo con la tabella
di marcia».
«Io ho fatto, solo il tempo di
rivestirmi» rispose, risvegliandosi da quella specie di coma,
scuotendo la
testa. «John è ancora in alto mare, ma immagino
che non ci vorranno più di
altri cinque minuti».
•
• •
Ore quattro
e un quarto.
E si sbagliava di grosso,
eccome!
John non ci mise
cinque minuti per
scegliere l’abito, bensì due ore e mezza
abbonanti. Dopo aver provato ogni
singolo capo del negozio, indovinate per quale abito optò?
Esatto, il primo che
aveva indossato.
In seguito ad una
sfuriata di Courtney,
in preda ad un attacco isterico, durata per tutto il tragitto in
macchina, in
cui urlò le peggio cose a John - il quale, naturalmente non
aveva ascoltato una
parola; Duncan, invece, aveva passato tutto il viaggio a ridere e a
guadagnarsi, di conseguenza, occhiate di fuoco -, si erano fermati in
una
piccola e squallida trattoria, il cui proprietario era un amico del
nostro
Duncan, per rifocillarsi.
E poi
un’altra volta in auto, alla
ricerca del regalo di nozze perfetto.
«Quelle
polpette mi sono rimaste tutte
sullo stomaco» commentò John con una mano sulla
pancia, sdraiato sui sedili
posteriori. «Naturalmente i posti squallidi tutti tu li
becchi!».
«La prossima
volta fermati ad un
ristorante di lusso, dato che hai un palato fine» gli rispose
con tono Duncan,
seduto sul sedile del passeggere, leggerissimamente adirato.
«Sembrate
due bambini» dichiarò
Courtney, al volante, ruotando gli occhi. «Mentre voi due
eravate impegnati a
litigare e a tirarvi pezzi di melone in faccia, io ho fatto
sì che Gwen
aggiungesse un posto anche per John - a proposito, non appena saremo a
Vancouver, ti darà l’invito -, ho prenotato il
volo per domani, per le tre meno
un quarto del pomeriggio, e l’hotel».
«Perché
partiamo domani, se il
matrimonio è sabato?» domandò John,
appoggiando la testa al finestrino. «Hai
paura di arrivare troppo tardi?»
«Gli altri
voli erano tutti pieni e gli
unici disponibili erano - appunto - per domani e per
domenica» rispose,
guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore. Pochi istanti dopo,
aggiunse
con un grido: «E togli i piedi da lì, mi sporchi
tutto il sedile».
Sobbalzando e col
cuore che batteva a
mille, si mise a sedere come una persona civile.
«Credo di
aver perso l’udito» constatò
Duncan, massaggiandosi le orecchie. «E fa attenzione
al-».
Non poté
finire la frase, che quella
frenò pericolosamente davanti ad un semaforo che
diventò all’istante rosso,
mentre lui fu sbalzato in avanti e sferrò un colpo con il
mento all’airbag.
Per dei buoni cinque
minuti, non si sentirono
altro che pesanti bestemmie, che Courtney fece finta di non sentire,
accompagnate dalla risata malefica di John, che godeva come non mai.
«Siamo
arrivati» annunciò la ragazza,
dopo un quarto d’ora di guida, parcheggiando davanti ad una
piccola gioielleria.
«Mi sono fatta inviare la lista di nozze per e-mail, so
esattamente cosa
comprare».
Senza aggiungere
altro, entrarono nel
negozio. Non appena il campanellino apposto sulla porta
squillò, si
materializzò dietro un bancone un vecchietto minuto e calvo,
con dei grossi
occhiali rettangolari sul volto.
«Oh, prego
giovanotti, accomodatevi
pure» li accolse calorosamente, col tono di chi non vedeva
clienti da secoli.
«Cosa vi serve? Una collana? Degli orecchini?» Si
voltò verso Duncan e aggiunse,
indicando con un cenno della testa l’unica femmina del
gruppetto. «Un anello
per la fidanzatina?»
«Niente di
tutto questo» lo interruppe
Courtney, stranamente a disagio. «Cerchiamo un regalo per il
matrimonio della
mia migliore amica».
«Oh, allora
questo è il posto che fa
per voi» disse quello e, con un cenno della testa, aggiunse
in direzione della
donna: «Se vuole seguirmi».
Prima che i due
scomparirono dietro il
bancone, lasciando i due ragazzi indietro, Courtney lanciò
loro un’occhiata
come per dire: «Se fate danni, vi assicuro che non vedrete la
luce di domani».
Un primo momento,
rimasero entrambi
immobili come pali, senza sapere cosa fare e tentati, per un attimo, di
seguire
il negoziante e di esprimere anche loro pareri sul regalo di nozze.
Dopotutto,
avrebbero dovuto comunque sborsare un terzo dell’importo a
testa.
Dopo questi attimi di
esitazioni, John
decise di cominciare ad aggirarsi pericolosamente tra le vetrine che
esponevano
articoli di inestimabile valore.
Dico pericolosamente
perché egli era
conosciuto per non essere esattamente delicato ed aggraziato come una
ballerina; al contrario, era irruento e devastante come un uragano.
Spesso,
infatti, quando si trovava in qualche negozio, distruggeva qualunque
cosa gli
capitasse sotto tiro, vedendosi costretto a rimborsare ogni suo danno.
Duncan che,
naturalmente, sapeva bene
queste cose, cominciò a stargli alle calcagna, pronto ad
intervenire in caso di
qualche passo falso. Non intendeva cacciare una cifra esorbitante di
dollari
per danni da lui non commessi, né sorbirsi una delle
più lunghe ramanzine della
storia dell’umanità.
Dopo qualche minuto di
pedinamento,
John esordì con uno sbuffo: «Non serve che mi fai
da balia, non sono così
maldestro da demolire l’intera gioielleria» e,
detto questo, si poggiò alla
vetrinetta alla sua destra.
Non l’avesse
mai fatto!
Essa, evidentemente in
equilibrio
precario, cominciò a traballare avanti e indietro, fino a
che non cadde
verticalmente sul suolo. Poco prima che toccasse terra, inoltre, gli
sportelli di
vetro si aprirono e tutti gli oggetti in porcellana al loro interno si
infransero in mille pezzettini. Il tutto accadde in meno di tre secondi
e
nessuno riuscì ad intervenire in tempo.
Il fragore si
propagandò fino a dietro
il bancone in modo talmente assordante che, in un quarto di secondo, il
vecchietto e Courtney già si erano precipitati nella stanza.
Fu in quel preciso
istante che John
cominciò a fare sfoggio della sua conoscenza in materia di
Santi, pregandoli
dal primo all’ultimo.
•
• •
Ore
cinque e sette.
Vi
risparmierò quella che, come Duncan
aveva previsto, fu una ramanzina storica.
Non appena vide quel disastro, Courtney
cominciò ad urlare contro le due povere vittime, dicendo che
erano peggio dei
lattanti, che non poteva lasciarli soli un attimo perché
combinavano casini,
che erano completamente inaffidabili. Inoltre, aggiunse anche che
avrebbero
dovuto ripagare fino all’ultimo centesimo tutta la merce
polverizzata -
qualcosa come una cifra di tanti zero, che quasi li fece piangere per
la
disperazione.
Il tutto davanti a dei Duncan e John
con uno sguardo misto tra il rassegnato e il terrorizzato, e un
vecchietto
rimasto a dir poco scioccato e attonito.
Dopodiché si era limitata a pagare il
regalo di nozze - una splendida cornice in argento - e a scortare i due
a casa,
senza degnarli di un’altra parola.
I ragazzi avevano provato più volte ad
aprire bocca, a cercare di farsi perdonare, ma lei li
liquidò ogni volta con un
gesto della mano. Era veramente nera.
Passarono tutto il resto del viaggio in
religioso silenzio, fino a quando non arrivarono sotto il palazzo dei
due.
John scese immediatamente dall’auto,
salutandola con un secco «ciao», intenzionato a
prendere la TV per primo;
Duncan, invece, indugiò un attimo.
«Allora, ci sentiamo stasera» disse,
facendo qualcosa di completamente inaspettato: le depositò
un leggero bacio
sulla guancia.
Prima che lei potesse fare qualsiasi
cosa, era già sotto il porticato e ammiccava in sua
direzione.
Per un secondo indugiò, sfiorandosi la
guancia con la punta delle dita, senza nascondere un alone improvviso
di
sorpresa e, sì, di euforia. Ma, dopo pochissimi attimi, si
riprese.
Sei
patetica, urlò
una vocina nella
sua testa.
Senza degnarlo di un altro sguardo,
schiacciò sull’acceleratore e la sua macchina
sparì per le trafficate vie di
Toronto.
(1) Trecento novantaquattro: ovvio
riferimento ad Harry Potter.
Hayle’s wall
Lo
so, ci ho messo
una vita ad aggiornare. Con le molteplici verifiche ed interrogazioni,
non ho
avuto un secondo di pace, benché questo capitolo fosse
concluso già da un po’.
Ma ora sono qui, e vi
ringrazio per le due recensioni. Sono poche, certo, ma non
m’immaginavo che i
vecchi recensori tornassero - soprattutto perché il fandom
è morto -, né che mi
notassero tutti i nuovi autori.
Vi annuncio che nel
prossimo capitolo entrerà in scena il fuso orario.
Perché Vancouver è indietro
di - se non sbaglio - tre ore, rispetto a Toronto, quindi, se leggete
cose
strane, è per questo, don’t
worry.
Dato questo annuncio,
spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Ho cercato di mettere
equivoci
complicazioni e qualche parte più sentimentale e un poco
introspettiva. Che
volete farci, io amo l’introspezione!
Mi auguro di
aggiornare una volta alla settimana - o sabato, o domenica - con
proverbiale
puntualità. Un grosso bacio e ci si vede prestissimo.
Hayle xx
|
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Capitolo 3 *** Martedì ***
La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Martedì«
Toronto,
Ontario, Canada.
15 luglio, ore dodici e tredici del
pomeriggio.
Era un
soave martedì pomeriggio di metà luglio. Le
strade erano poco frequentate, visto
che la maggior parte della gente stava mangiando oppure non ancora
aveva
cessato il turno di lavoro.
Tutto
era avvolto dalla quiete, nessun rumore osava distruggerla…
tranne che per una
giovane donna sotto il portone dell’appartamento 58B di
Stanford Avenue. Era
circa un’ora che citofonava e urlava i peggio insulti verso
colui che non osava
aprirle, guadagnandosi quindi sgridate da vecchietti che volevano
godersi un
po’ di pace e famigliole che pranzavano assieme. Alcuni la
minacciarono anche
di chiamare la polizia ma, dopo aver visto lo sguardo omicida di lei,
preferirono sparire dietro la finestra intimoriti.
L’ultima
temeraria persona che aveva osato dirle qualcosa - una vecchietta del
quarto
piano sulla settantina -, si era dovuta sorbire tutta la sua isteria e,
per il
suo bene, aveva deciso di battere ritirata, borbottando qualcosa sui
pazzi
insani e sui manicomi.
Finalmente
alle dodici e diciassette, la persona richiesta rispose al citofono,
per gioia
immensa di tutto il palazzo che non avrebbe più dovuto
sorbirsi quelle urla.
«Sì?»
domandò la voce di questo, con il tono adirato di chi
è stato interrotto in un
momento importante.
«Senti un po’, ha tre secondi per
aprire questo dannato portone, altrimenti ti farò ricordare
questo giorno» lo
minacciò lei. La sua voce fece capire che non scherzava,
affatto.
«Bene, arrivederci» disse semplicemente
l’altro, riagganciando e ignorandola pesantemente.
E fu in quel momento che la donna
esplose, cominciando ad inveire contro quello e a tirare pugni al
portone,
gesti per cui gli altri coinquilini la classificarono come
“soggetto
pericoloso”.
Durante questo eccesso di ira, decise
anche di tempestare di telefonate non si sa chi e di suonare ad alcuni
appartamenti, chiedendo gentilmente se potessero andare a suonare alla
porta di
quel disgraziato. Ovviamente quelli, pieni di paura, la assecondarono
ma non
riuscirono a riportare alcun tipo di successo.
Il miracolo avvenne quando, alle dodici
e mezza, una moto parcheggiò davanti al palazzo e ne scese
Duncan, con il casco
in una mano e un mazzo di chiavi nell’altra.
«Courtney?» chiese quello, non appena
si accorse della donna sotto il porticato. «Perché
diamine mi hai fatto
sessantadue chiamate in meno di dieci minuti, se sapevi che ero al
lavoro?»
Non appena vide il suo volto accigliato
dipingersi di una pericolosa sfumatura bordeaux, fece un passo indietro
istintivamente.
Lei gli si avventò praticamente contro,
cominciando una lunga sfuriata: «È più
un’ora - un’ora!
- che sto
citofonando
a John e ha pure la faccia tosta di non rispondermi! E tu invece?
Saresti
dovuto essere qui mezz’ora fa. Per colpa vostra, perderemo di
sicuro il volo, e
allora sarete due uomini morti! Quindi o voi
due vi organizzate e
prendete questa cosa seriamente, altrimenti vi lascio a Toronto! Sono
stata
abbastanza chiara?»
Concluse puntandogli un dito contro il
petto e avvicinando di colpo il viso al suo. Erano a due centimetri
l’uno
dall’altra.
Quello, avendo quell’espressione
corrucciata tanto vicino, non sapeva se provare un po’ di
timore, oppure ridere
sguaiatamente per le minacce da due soldi e per le guance di un rosso
intenso.
«Scusa se lavoro per portare dei soldi
- che, tra l’altro, serviranno anche per rimediare al
disastro commesso da John - e un
pezzo di pane a
casa» si limitò a dire, sfoderando uno dei suoi
ghigni.
«Apri immediatamente il portone»
articolò per bene, allontanandosi di colpo.
Non si parlarono fino a quando non
misero piede nell’appartamento - più che altro per
far rilassare la ragazza.
Una volta dentro, Courtney si precipitò di corsa verso la
camera da letto, dove
trovò John arrotolato tra le lenzuola e che ronfava
indisturbato, abbracciando
il cuscino e russando rumorosamente.
Il suo sonno durò per altri tre
secondi, quando due braccia tentarono di spintonarlo giù dal
letto malamente e
una voce armoniosa
cominciò ad
urlargli dentro le orecchie.
«Hai esattamente due secondi per
alzarti e prepararti, altrimenti non parti!»
«Dai, lasciami dormire per altri cinque
minuti» rispose con voce assonnata.
«Non esiste, siamo già in ritardo. Per
colpa tua!»
«Ho sonno!»
«Non mi interessa! Alzati, subito!»
Attirato dalle urla degne di due
cavernicoli, Duncan decise di raggiungerli in camera, dove assistette
ad una
delle scene più raccapriccianti
dell’umanità: John era ancorato con le mani alla
testiera del letto, intenzionato a non abbandonarlo, mentre Courtney lo
prendeva per le caviglie e tentava di scrollarlo da lì,
senza evidenti
successi.
Stava per fare dietrofront, quando la
voce di lei lo incollò al suolo: «Non osare
svignartela» gli ordinò. «E dammi
una mano, invece!»
«Perché? Io mi sto divertendo un mondo»
ridacchiò, incrociando le braccia al petto e alzando un
sopracciglio. «È lo
spettacolo più bello che abbia mai visto, giuro».
«Bene, allora farò da sola» rispose
acidamente. Dopodiché, strattonò così
forte il bruno che questo non riuscì più
a tenersi al letto e cadde di schiena sul pavimento.
«Il mio povero deretano!» si lamentò,
facendo conseguire alla frase un’altra miriade di
imprecazioni.
Senza aggiungere un’altra singola parola,
Courtney lo costrinse a rialzarsi, tirandolo per un orecchio, e lo
spinse
dentro al bagno, lanciandogli un fagotto di abiti e sbattendosi la
porta alle
spalle. A quei gesti, era sottointeso un secco
«Sbrigati».
Dopodiché, si rivolse verso Duncan, che
era rimasto immobile sul ciglio della porta a godersi la scena.
«Be’, cosa stai aspettando?» gli
chiese. «Carica i tuoi bagagli e quelli di John in macchina,
siamo in
ritardo!».
Stava quasi per riuscire quando,
voltandosi impercettibilmente verso di lui: «E cambiati
quella maglia, è
sudicia!» aggiunse, facendo un cenno col capo verso la
canotta incrostata di
grasso e uscendo dalla stanza.
Rimasto solo, lanciò un’occhiata verso
il suo armadio. “Sarà
meglio che incominci
a preparare la valigia” pensò,
sospirando.
•
• •
Ore
due e trentacinque.
A questo
punto, voi immaginerete che
Duncan sia riuscito a preparare la sua valigia in tempo record e a
caricare
tutti i bagagli in macchina, che John ci abbia messo un attimo a
prepararsi e
che tutti assieme siano riusciti ad arrivare all’aeroporto ad
un orario
decente, fatto il check-in e partiti alla volta di Vancouver.
E invece no.
John, invece di prepararsi, si era
addormentato sulla tazza del gabinetto, dove era stato ritrovato da
Courtney
alle tredici e cinque minuti. Dopo una lunga ramanzina e dopo aver
perso
quindici anni di vita, si era finalmente deciso di prepararsi a dovere.
Tornò
in camera solo alle tredici e quarantasette, dopo una rapida
doccia, ancora coi capelli bagnati e la maglietta indossata
alla rovescia.
Poi si scoprì che nessuno dei due aveva
preparato i bagagli, il che fece andare la ragazza ancora
più in bestia. Li
obbligò a mettere dentro solo lo stretto necessario in meno
di dieci minuti:
alle due in punto sarebbe partita, con o senza di loro.
Il più velocemente possibile, avevano
messo tutto quello che capitava sotto tiro in valigia e si erano
precipitati al
piano terra, con un borsone e un trolley ricolmi di roba, che sembrava
stessero
per esplodere. Per l’ora stabilita erano già tutti
in macchina e sfrecciavano
sulla tangenziale a centoventi chilometri orari verso
l’aeroporto, dove fecero
il loro trionfo alle due e tredici minuti.
E poi, dopo intricate peripezie,
riuscirono finalmente ad imbarcarsi e ad arrivare sani e
salvi… no, sto
scherzando.
Avevano svolto quasi tutte le pratiche
necessarie in pochissimo tempo; ne mancava solo una,
dopodiché sarebbero potuti
partire senza alcun tipo di intoppo: il metal detector.
Sia Courtney che Duncan passarono senza
alcun intoppo. E poi fu il turno di John.
Il nostro eroe avanzava lentamente
verso quell’oggetto insidioso, suo ultimo ostacolo da
superare e grande nemico.
Deglutì e, sudando a freddo, pregò tutti i Santi
che non cominciasse a suonare.
Un ultimo passo e poi ce l’avrebbe fatta.
Peccato che il metal detector emise un
fischio assordante e John, inizialmente propenso a darsela a gambe,
rimase
inchiodato al suolo, mentre due sbirri avanzavano verso di lui e
cominciarono a
perquisirlo da cima a fondo. Trovarono subito quello che cercavano:
incollato
con lo scotch sulla schiena, vi era una console di gioco e un joystick.
Persero un buon quarto d’ora per
spiegare il perché avesse avuto intenzione di far passare
stoltamente una
playstation sotto il metal detector, sapendo che era proibito portarla
con sé
sull’aereo e che avrebbe dovuta imbarcarla. Poi, grazie
all’abile parlantina di
Courtney, riuscirono a scamparsela senza nessuna sanzione. Erano le due
e
trentacinque.
«Ora mi spieghi perché diamine hai
deciso di portarti dietro la mia
console!» gli ringhiò Duncan in faccia, non appena
furono lontani. «Grazie a
te, mi è stata confiscata e probabilmente non la
rivedrò mai più».
«Volevo semplicemente avere qualcosa
con cui svagarmi, una volta in vacanza» si
giustificò, scrollando le spalle.
«Non immaginavo sarebbe finita così».
Già, John non brillava in intelligenza
e nemmeno in furbizia.
Probabili insulti e una successiva
litigata furente furono impediti da una voce femminile
all’altoparlante, che
annunciò: «Attenzione, il volo delle due e
quarantacinque, diretto a Vancouver,
partirà tra dieci minuti al gate 275».
«Gate 275?» sbottò Courtney.
«Non ce la
faremo mai e la colpa è solo vostra!» concluse,
indicando i due ragazzi che si
guardavano in cagnesco.
«Sta’ tranquilla, abbiamo tutto il
tempo» la rassicurò Duncan.
«Abbiamo
tutto il tempo?» ripeté irata,
avvicinandosi pericolosamente a lui.
«Saranno forse cinque chilometri di aeroporto a piedi, il
tutto con un carico
di circa cinque chili a testa. No che non abbiamo tutto il
tempo!»
E poi, inspiegabilmente, si ritrovarono
a correre per tutto l’aeroporto, zigzagando da una parte
all’altra tra le
persone e salendo e scendendo varie scale. Pur avendo un carico
abbastanza
pesante a testa, correvano piuttosto veloce. Varie volte rischiarono di
sbattere contro oggetti o di incollarsi dietro gruppi di persone, ma,
nonostante questo, ce la stavano quasi per fare, erano quasi al gate
275.
E poi, a circa cinque minuti dal volo,
John, non notando una vecchietta che sostava proprio davanti a lui, vi
si
scontrò. Entrambi caddero rovinosamente a terra e la
valigia fece un
volo di circa duecento metri e, poiché era chiusa a
pressione, tutti i vestiti
al suo interno volarono fuori e si sparsero per tutto il pavimento.
Tra i borbottii dell’anziana, le urla
isteriche di Courtney e le risate sommesse di Duncan, John,
bestemmiando quanti
più Santi conosceva, si sbrigò a raccogliere
tutto da terra, aiutato dalla
bontà d’animo di alcuni passanti.
Quattro minuti… tre minuti… due minuti…
Il volo stava quasi per partire, quando
i nostri tre eroi apparvero all’orizzonte del gate 275,
gridando qualcosa di
incomprensibile alle hostess e sventolando i loro biglietti. Pur di
arrivare in
tempo, Duncan decise per qualche arcano motivo di arrampicarsi sopra
una fila
di panche e di scavalcarla con un balzo. Ma per uno scherzo del
destino,
ricadde male e, impattando contro il pavimento, per poco non si ruppe
il collo.
Il bagaglio cadde malamente sul suo stomaco, facendogli emettere un
suono
strozzato.
«Ehm, non c’era bisogno di dare
spettacolo» mormorò una hostess dai capelli
castani raccolti in uno chignon,
aiutandolo a rialzarsi. «Vi avevamo visti arrivare».
E finalmente, dopo intricate e funeste
peripezie, riuscirono a salire sull’aereo con un minuto di
anticipo e a
sistemarsi nei loro rispettivi sedili.
«Ma cosa ti è saltato in mente!» lo
sgridò
Courtney, depositando la valigia sopra la sua testa. «Ti
saresti potuto rompere
qualcosa! Dico io, ma bisogna insegnarti tutto come ai bambini
dell’asilo?»
Duncan, dietro di lei, si preparò a
quella che sarebbe stata una ramanzina degna di sua madre. Ormai ci era
abituato.
«Se fai un’altra volta una cosa del
genere, non ci penserò due volte a squartarti vivo, sono
stata chiara?» lo minacciò,
puntandogli l’indice contro il petto.
Annuì, non sapendo se ridere per quel
colorito bordeaux che si era impossessato delle sue guance, o mostrarsi
annoiato da quella scenata.
Ma non ebbe il tempo né di dire e né di
fare nulla. A quell’ultima frase conseguì qualcosa
di totalmente inaspettato:
lei si era praticamente fiondata tra le sue braccia e lo stava
abbracciando.
•
• •
Da
qualche parte in Alberta, Canada.
Le due
e ventisette.(1)
Il pilota aveva appena annunciato
l’orario: le due e ventisette sul fuso orario
dell’America centrale.
Le hostess camminavano sopra e sotto
l’aereo da una buona mezz’ora con i carrelli
stracolmi di cibo, per rifocillare
tutti i passeggeri. John, che non aveva avuto la possibilità
di pranzare
decentemente, non faceva che prendere una porzione di tutto quello che
gli
passava sotto gli occhi. Quando, poi, passò il carrello con
tutti i dolci e
leccornie varie, si attrezzò al meglio: siccome non poteva
mangiare
qualcos’altro senza scoppiare, decise di prendere dal
portabagagli la prima
cosa che gli capitò sotto tiro - una borsetta rossa di
un’anziana seduta
davanti a lui - e di cominciare a riempirla di bignè e
pasticcini.
«Sei un essere disgustoso» commentò
Courtney affianco a lui, orripilata dallo spettacolo del ragazzo che
riempiva
la borsa di una perfetta sconosciuta e, di tanto in tanto, si cacciava
qualcosa
in bocca, per placare il suo stomaco.
«Qual è il problema?» si
limitò a
chiedere con il viso immerso nella bisaccia. «Ho
fame».
Lei roteò gli occhi, scuotendo energeticamente
la testa. Era capace di sorprenderla ogni giorno di più,
quell’essere.
«Spero ora tu sia felice» disse dopo un
po’, addentando una bomba alla crema. «Siamo
riusciti a prendere l’aereo senza
nessun contrattempo».
«Già» confermò lei laconica.
«E tra
un’oretta saremo a Vancouver. Non vedo l’ora di
rivedere Gwen».
Ma, naturalmente,
le cose non andarono come tutti avrebbero immaginato.
A seguito di queste parole, ci fu una
turbolenza che costrinse tutti quanti ad allacciarsi le cinture di
sicurezza.
Durante tutto quel momento, Courtney tenne gli occhi sbarrati e John
pensò a
rimpiazzarsi per bene: se doveva morire, era meglio avere lo stomaco
pieno.
Duncan, intrappolato un sedile dietro di fianco ad un omone largo
cinque volte
di più di un uomo normale, ronfava felice e beato senza
accorgersi di nulla.
Dopo uno scombussolio generale, tutto
tornò al proprio posto. Ma il sospiro generale fu
accompagnato da una notizia
non esattamente gradita.
«Signori, è il comandante che vi parla»
annunciò una voce tranquilla all’altoparlante.
«A causa di un problema all’ala
sinistra, ci troviamo costretti a fare scalo all’aeroporto di
Calgary. La sosta
prevista può variare dalle tre alle otto ore. Ci scusiamo
per il disagio».
Le scuse furono coperte dall’urlo
strappa timpani di Courtney, che fece risvegliare tutti coloro che si
erano
appisolati: «Cosa vuol dire che la sosta prevista
può variare dalla tre alle otto ore?!
Non esiste!»
John cercò di calmarla, invano:
cominciò ad urlare insulti contro il pilota, contro le
hostess, contro la
compagnia aerea… contro tutti. Urlava così forte
che un anziano seduto sei file
più avanti le gridò di smetterla immediatamente
ma, terrorizzato, aveva deciso
in fretta di lasciar perdere.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima
sosta.
•
• •
Calgary,
Alberta, Canada.
Le
sei e trentadue.
Erano
quattro ore che erano fermi
all’aeroporto di Calgary e nessuno aveva deciso di dar loro
qualche notizia.
Courtney, per la felicità di tutti i
passeggeri, dopo aver capito che nessuno le dava ascolto - era persino
entrata
in cabina pilotaggio e aveva minacciato chiunque si trovasse
là dentro di far
ripartire il mezzo in fretta, altrimenti avrebbe fatto causa alla
compagnia -,
aveva deciso di darsi una calmata e di attendere che i lavori si
fossero
conclusi. Dopotutto, il matrimonio era sabato e loro non avevano
nessuna
fretta.
John aveva invece intrapreso un’altra
strada: mangiare. Si stava annoiando a morte, quindi che altro poteva
fare se non
ingozzarsi fino a scoppiare?
«Prenderai almeno dieci chili, se continuerai
così» lo rimproverò Courtney, quando si
servì la quinta fetta di torta al
cioccolato. Evidentemente aveva deciso di prendersela con lui, per
sfogare
tutta la sua ira.
«Che importa!» esclamò con la bocca
piena, suscitando tutto il suo disappunto. «Vuoi un
pezzo?»
«No grazie, sono a dieta» rispose,
scansando il piatto che le aveva gentilmente offerto.
Lui fece spallucce e ingurgitò tutto il
dolce in pochi bocconi. E, dopo un sonoro rutto, annunciò:
«Vado a fare i miei
bisogni» e si allontanò alla volta del bagno.
«Sai, penso che tu abbia bisogno di
rilassarti un po’» sussurrò una voce al
suo orecchio, qualche istante più
tardi.
Si voltò di scatto e si ritrovò davanti
il ghigno beffardo di Duncan, che si era seduto al posto di John ed era
intento
a sciogliere un nodo particolarmente insidioso dai suoi amati
auricolari.
«Cosa intendi?» chiese scontrosa,
incrociando le braccia al petto. «Io sono perfettamente
calma».
Ridacchiando un poco, si accinse a
passarle una cuffietta e a collegare gli auricolari al suo fedele iPod.
Mentre
scorreva alla ricerca di una canzone adeguata, le ordinò:
«Avanti, mettila e
lascia fare al maestro».
Visibilmente contrariata, decise di
obbedirgli e si preparò psicologicamente al peggio.
Duncan prediligeva generi quali il punk
e il metal e tutti i vari sottogeneri, tutta roba che Courtney aveva
sempre
detestato. Non riusciva a capire cosa ci trovasse di bello la gente in
quella
melodia confusionaria e che dopo un po’ faceva venire un mal
di testa
insopportabile. Per lei, non era altro che rumore.
Ma evidentemente Duncan, che aveva la
camera tappezzata di poster di famose rock band e scaffali pieni di cd
e vecchi
vinili, non la pensava alla stessa maniera. Possedeva anche una
chitarra
elettrica rossa fiammante, che aveva imparato ad usare
all’età di quindici
anni, quando aveva messo su il suo primo gruppo musicale, e che
utilizzava ogni
tanto per il solo gusto di infastidirla.
Difatti, presto il suono della
grancassa, seguito da quello del basso e delle chitarre,
cominciò rimbombarle
nelle orecchie, confermando i suoi peggiori sospetti.
Per un attimo ebbe l’impulso di
strappargli l’iPod dalle mani e di stoppare la musica,
evitando così che le sue
meningi potessero esplodere; poi, però, ci fu qualcosa che
la fece fermare.
Non seppe mai cosa fosse di preciso,
ma, in qualche modo, quel rumore
che
lei tanto odiava la stava aiutando a calmarsi, a sfogarsi,
quasi come un’efficiente terapia. Dopotutto, quella
musica non era poi così male.
E prima che potesse accorgersene, tutti
i suoi muscoli si rilassarono, gli occhi si chiusero istintivamente e
la sua
testa scivolò lentamente sulla spalla di Duncan.
•
• •
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
Le
nove e quarantatré di sera.
La sosta
era durata in totale cinque
ore; successivamente, l’aereo aveva lasciato Calgary e, circa
un’oretta più
tardi, stava sorvolando i cieli di Vancouver, preparandosi per compiere
il
tanto agognato atterraggio.
Vancouver, come ebbero modo di
testimoniare i nostri amici una volta sul taxi che li avrebbe condotti
al loro
hotel, pur essendo meno estesa rispetto a Toronto, offriva dei paesaggi
suggestivi, che la loro città non riusciva a donare. Non
avevano mai visto una
cosa del genere.
Forse era il modo in cui le luci, che
adornavano gli enormi grattacieli, si riflettevano nell’acqua
dell’oceano - che
circondava l’intera città e che a Toronto era un
miraggio -, creando mille
sfumature e spettacoli mozzafiato.
Si trattava pur sempre di un’enorme
metropoli, ma aveva un qualcosa di speciale che mancava alla loro
città.
Il viaggio in auto durò meno del
previsto e, ancora rapiti da ciò che li circondava, scesero
dal taxi, mentre
l’autista li aiutava a scaricare i bagagli.
«Io vado a prendere le chiavi delle
stanze alla reception» annunciò Courtney, mollando
qualche banconota nelle mani
del tassista. «Voi, intanto, portate le valige
dentro».
E, detto questo, sparì dietro la porta
a vetro dell’hotel.
Ben presto i ragazzi si pentirono di
tutto quello che avevano portato: le tre valige, il borsone e gli
ingombranti
abiti da cerimonia risultarono essere estremamente pesanti. Non solo fu
arduo
portarli fino all’ingresso, ma, dato che gli ascensori erano
fuori uso,
dovettero trascinarli anche per tre piani. Durante tutto il tragitto,
John non
fece altro che lamentarsi di come quell’albergo non meritasse
nessuna delle quattro
stelle che aveva, rendendo - se possibile - il lavoro ancora
più duro.
«Siamo arrivati,» annunciò Courtney,
mentre gli altri due si appoggiarono al muro per riprendere fiato e
asciugarsi
il sudore, «stanze novantasette e novantotto».
Aprì la prima delle due porte e vi fece
scivolare dentro due dei tre trolley, che da soli erano già
la metà del peso
complessivo.
Fece per entrare, quando si voltò di
scatto, come se un pensiero l’avesse fulminata
all’istante: «Domattina andremo
a fare una sorpresa a Trent e Gwen, dopodiché ho intenzione
di fare un giro
panoramico della città» annunciò.
«Io vado a letto, è stato un viaggio molto
intenso. E, se fossi in voi, farei lo stesso. Buonanotte».
E, detto ciò, si richiuse la porta alle
spalle, lasciandoli da soli lungo il corridoio.
Ma le brutte sorprese non erano di
certo finite lì!
Quando recuperarono il fiato, Duncan
fece scivolare la chiave nella toppa ed entrò per primo
nella stanza. In fondo
ad essa, c’era l’ultimo dei suoi incubi: un letto
matrimoniale.
John lo raggiunse mentre ancora era
intento a studiarlo e, notando che l’amico mostrava
così tanto interesse,
decise di voltarsi a vedere ciò che aveva tanto catturato la
sua attenzione. E
poi capì anch’egli: avrebbero dovuto condividere
lo stesso letto per le
prossime cinque notti.
Lo stesso pensiero attraversò entrambe
le menti: «Tu dormi sul divano» sbottarono
all’unisono.
Sarebbe stata una lunga notte.
(1) No,
non avete letto male, né siamo tornati indietro nel tempo:
entra in scena il
fattore “fuso orario”
di cui vi avevo
accennato. Tra Calgary e Toronto ci sono due ore di differenza
(esempio, se a
Calgary sono le due, a Toronto saranno le quattro). Spero di avervi
chiarito le
idee.
Hayle’s wall
Sì,
lo so, avrei
dovuto aggiornare molto prima. E sì, sono una persona
ignobile per non averlo
fatto. Il mio comportamento non merita alcuna
giustificazione… ma, d’altro
canto, non sono famosa per essere puntuale ad aggiornare.
Però, devo darvi una
brutta notizia: non so quando posterò il quarto capitolo. Il
motivo è la
mancanza di ispirazione, lo stesso che mi ha fatto tardare la
pubblicazione di
questo. Spero di riuscire a trovare un po’ di tempo, durante
queste vacanze.
A proposito, buon
Natale passato a tutti. Mi auguro abbiate passato un bel giorno.
Beh, che dire?
Finalmente i nostri eroi sono a Vancouver e presto ritroveremo altri
due
personaggi molto amati.
Spero che il capitolo
vi sia piaciuto e ci vediamo al prossimo aggiornamento.
Nel caso non dovessi
farcela, vi faccio anche gli auguri di un sereno anno nuovo.
Un abbraccio.
Hayle xx
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Capitolo 4 *** Mercoledì ***
La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Mercoledì«
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
16 luglio, ore nove e sedici del mattino.
Come
Duncan aveva sospettato, quella era stata la nottata più
lunga della sua vita.
John
non si era dimostrato solo un coinquilino piuttosto insidioso, ma anche
un
insopportabile compagno di letto.
Poiché
era tardissimo e se l’erano giocata in tutti i modi possibili
ed immaginabili,
non avevano avuto altra scelta che dormire assieme, con eterno orrore e
disgusto di entrambi.
Era
andata bene per circa dieci minuti; successivamente John aveva
cominciato ad
agitarsi e a riempire di calci il poverello che, per difendersi,
rispondeva con
colpi altrettanto forti, nella vana speranza di spostarlo o svegliarlo.
Siccome
non riusciva ad addormentarsi, tra l’una e le due e mezza di
notte non aveva
fatto altro che alzarsi e sdraiarsi, una volta per andare in bagno,
un’altra
per prendere una boccata d’aria, un’altra ancora
per bere un bicchiere d’acqua…
e così via. Tutto questo non era sfuggito a Duncan che, per
sua sfortuna, aveva
avuto sempre un sonno piuttosto leggero.
Quando finalmente
si era ambientato e calmato e quando Duncan aveva cominciato a sperare
che forse avrebbe dormito, ecco che
aveva
sfoderato l’arma più fastidiosa e più
letale di tutti: il russare.
Accompagnato
da quell’insopportabile sottofondo, Duncan capì
che avrebbe passato una notte
insonne, poiché il suo amico non dava segni di volerla
smetterla; dopo un tempo
indefinito, però, quel rumore conciliò
misteriosamente col suo sonno e cadde
nelle accoglienti braccia di Morfeo.
Stava
così bene, era così rilassato e profondamente
addormentato… Eppure parve che
fossero passati solo pochi minuti, quando fu svegliato da un continuo
rimbalzare sul materasso.
Col
senno di poi, si disse, avrebbe anche potuto sopportare quel rumore:
dopo una
nottata del genere quello era il minimo… peccato che circa
cinque secondi dopo
qualcuno spalancò le tende e i raggi del sole entrarono
dalla finestra,
illuminando perfettamente il suo volto.
Il
cigolio delle molle e la luce solare lo costrinsero ad alzarsi, mentre
il suo
cervello riusciva a formulare solo bestemmie, una più
creativa dell’altra.
«Finalmente
ti sei alzato!» esclamò qualcuno ad un centimetro
dal suo orecchio.
Ancora
in uno stato di semi-coscienza, quella stessa persona lo
inchiodò al letto,
mettendosi a cavalcioni su di lui. Quando i suoi occhi si abituarono
alla luce
del sole, il viso di John era insopportabilmente vicino al suo e lo
fissava con
un’espressione troppo felice.
«Oggi è
un giorno speciale, quindi alza il tuo sedere flaccido da questo
materasso e
vestiti» continuò, senza togliersi quel sorriso
dalla faccia.
Duncan
cercò di far funzionare gli ingranaggi arrugginiti del suo
cervello, cercando
di ricordarsi cosa potesse esserci di così importante quel
giorno. Ma non gli
veniva in mente nulla.
Notando
l’espressione interrogativa, John si affrettò ad
aggiungere: «Il 16 luglio non
ti dice niente? Ebbene, ti darò un indizio: è il
compleanno di una persona
speciale».
«Mi
spiace, ma per il mio compleanno manca ancora un
po’» aggiunse con un pizzico
di ironia e un grosso sbadiglio.
«Non
parlavo di te, inutile egocentrico» rispose quello.
«Si dà il caso che la
persona in questione sia mille volte più importante, e che
quella persona sia
io» e si portò una mano al petto.
Tra il
viaggio improvviso e il matrimonio imminente, si era completamente
dimenticato
del venticinquesimo compleanno di John. Okay, era fastidioso e con
qualche
rotella fuori posto, ma era comunque suo amico e si conoscevano da
anni. Uno
strano senso di colpa si impossessò per un poco di lui, ma
poi ricordò: nemmeno
John si era mai ricordato del suo compleanno.
In
fondo non erano poi così diversi, se ci pensava: nessuno dei
due dava
importanza a eventi frivoli come quello. Riteneva, infatti, che i
compleanni
servissero a ricordare solo che stai invecchiando, che hai un anno in
più
rispetto al giorno precedente.
«Bene,
auguri a te, dopo ti canto pure la canzoncina»
scherzò, sdraiandosi nuovamente.
«Ora voglio solo dormire fino a mezzogiorno, quando Courtney
mi verrà a
svegliare con qualche minaccia da due soldi».
Purtroppo,
non andò come si sarebbe aspettato: non appena aveva
poggiato la testa sul
cuscino, John lo aveva afferrato per le gambe e aveva cominciato a
spingerlo
prima giù dal letto e poi sul pavimento gelido, fino al
bagno, dove lo aveva
scaricato e minacciato di picchiarlo, se non fosse stato pronto entro
cinque
minuti, lanciandogli dietro gli stessi vestiti che aveva lasciato per
terra il
giorno prima.
In un
primo momento il suo cervello elaborò l’idea di
chiudersi dentro e di
utilizzare il tappeto come letto, anche se non era così
comodo come sembrava.
Purtroppo, la chiave l’aveva presa John, proprio per
prevenire questo pericolo,
e anche se fosse il ragazzo avrebbe potuto chiamare Courtney da un
momento
all’altro… e allora sì, sarebbero stati
affari suoi. Perciò, siccome alla sua incolumità
ci teneva, decise di prepararsi e di scendere dagli altri.
Quindici
minuti più tardi si ritrovò a varcare
l’enorme sala da pranzo e a servirsi la
colazione su un vassoio di metallo. Fu facile trovare il tavolo,
poiché una
cinquantina di testa guardavano in quella direzione con fare
disgustato: John
stava ingurgitando voracemente il settimo cornetto, mentre Courtney,
sentendosi
tutti quegli occhi addosso, avrebbe voluto sprofondare, ma si
limitò a
fulminarlo con lo sguardo e a borbottargli contro svariati insulti e
minacce.
«Eccoti,
ce l’hai fatta!» esclamò gioviale il
bruno, facendogli segno di sedersi accanto
a lui; nel frattempo qualcuno si era voltato a guardarlo.
Il più
velocemente possibile, fece scivolare il suo vassoio sul tavolo e si
sedette, cercando di ignorare tutta quella gente.
«Buongiorno,
principessa» esclamò, salutando la ragazza di fronte a lei con un ghigno.
«Buongiorno»
rispose, leggermente a disagio. «Dormito bene?»
aggiunse con un sorrisetto,
accennando alle occhiaie profonde sotto i suoi occhi.
«Meravigliosamente» ironizzò,
voltandosi verso la causa della sua insonnia. «Non ha fatto
che girarsi e
rigirarsi per tutta la notte».
Di tutta risposta, si limitò a mescolare
per bene il suo cappuccino con un cucchiaino. Sembrava vagamente
soddisfatta e
divertita.
«Comunque,» aggiunse Duncan poco dopo,
«il nostro amico qui presente sembra un poco eccitato per il
suo compleanno».
«Ehi, venticinque anni non si compiono
una volta sola!» disse quello, sentendosi chiamato in causa,
con la bocca piena
di pasta sfoglia e marmellata, cosa che suscitò il notevole
disappunto della
ragazza. Poi aggiunse: «Sappiate che mi aspetto una torta,
possibilmente al
cioccolato. E anche un regalo sarebbe gradito».
Di fatto, a John non interessava il
compleanno di per sé, ma i privilegi che ne avrebbe
ottenuto: anno dopo anno,
aspettava quel giorno solo per i regali e per ingozzarsi come un maiale
con
torta e schifezze varie.
«Sì, poi ci pensiamo» lo
liquidò
Courtney con un gesto della mano. «Ora, quello che mi
interessa è fare una
bella sorpresa a Gwen. Non vedo l’ora!»
«Ti brillano gli occhi» non poté non
notare Duncan, mentre lei sorseggiava il cappuccino lentamente.
Abbassò la tazza e si limitò a
sorridere. Un po’ di schiuma le impregnava il labbro
superiore.
Non avrebbe mai immaginato, dopo tutto
quello che era successo in quel reality, di poter tornare ad essere
amica di
Gwen così in fretta. La disprezzava così tanto
per pensare che fosse una
situazione plausibile. E adesso, a distanza di sei anni, si ritrovava
ad aver
percorso più di duemila miglia solo per essere presente al
suo matrimonio e
vederla felice con l’uomo della sua vita. Era così
fiera di lei.
Duncan invece stava pensando totalmente
ad altro, ovvero a quanto fosse adorabile con quel labbro macchiato. E,
quando
lei stava per pulirselo, la precedette.
«Lascia, faccio io» dichiarò con
nonchalance, prendendo il suo tovagliolo e sporgendosi verso di lei,
con
l’intento di tamponarle la macchia.
Mentre si muoveva in avanti, però, urtò
violentemente il tavolo con il corpo e la tazza col cappuccino,
pericolosamente
vicina al bordo del tavolo, cadde a terra infrangendosi in mille pezzi;
il
liquido, invece, si riversò sulla maglia di Courtney.
«Bravo, complimenti! Hai idea di quanto mi sia
costata?» urlò, scattando
in piedi e guardandosi la macchia che lentamente si espandeva.
«Non sai fare
altro che combinare guai».
E si allontanò a grandi passi verso la
hall, con aria offesa e al contempo infuriata.
Lui si limitò a commentare il tutto con
un’imprecazione così sonora che strappò
versi stizziti a qualcuno vicino.
Successivamente, si dette mentalmente dello stupido circa
un’infinità di volte.
John, che aveva assistito a tutta la
scena, si limitò ad ammiccargli e ad alzare i pollici in sua
direzione,
profondamente ammirato.
«Amico, lasciatelo dire» annunciò,
dandogli una sonora pacca sulla spalla. «Devi essere davvero
disperato, per
andare dietro alla stessa pollastrella da sei anni».
Duncan sfoderò il suo miglior ghigno:
«Disperato, ma non senza speranza».(1)
•
• •
Ore
undici e trentatré.
Dopo avergli tenuto il broncio
per
circa un’ora e mezza, Courtney sembrava aver deciso che,
quello del cappuccino,
era stato solo un incidente madornale e aveva deciso di perdonare
Duncan.
Dopotutto, la macchia sarebbe andata via e aveva ben altro a
cui
pensare, come la sorpresa ormai imminente.
Aveva organizzato
tutto nel minimo
dettaglio: dopo che Gwen le aveva assicurato che quella settimana
avrebbe
lavorato soprattutto da casa, aveva cominciato a studiare tutti i
tragitti
degli autobus che si fermavano davanti al loro albergo, per vedere
quale
passasse il più vicino possibile alla via in cui abitava, e
i rispettivi orari.
Optò per il 164/ delle undici e dieci, che aveva una fermata
giusto a seicento
metri dall’abitazione di Gwen e Trent.
«Dobbiamo
scendere alla prossima»
annunciò Courtney, dopo circa venti minuti di viaggio,
sporgendosi per
prenotare la fermata.
«Interessante»
commentò John, seduto
sul lato opposto affianco ad un’anziana. «E adesso
cosa si fa? Entriamo in casa
dalla finestra, ci nascondiamo dietro qualcosa e, non appena passano,
usciamo
dai nostri nascondigli, urlando “sorpresa!” e
sparando stelle filanti in aria?»
«O
magari,» lo interruppe lei, mentre
l’autobus si accingeva a fermarsi, «ci limitiamo a
suonare al campanello e
aspettiamo che qualcuno ci apra».
«Il mio
piano era più di impatto» si
giustificò con una scrollata di spalle.
«Certo, ora
sbrighiamoci!» lo liquidò,
cominciando a scendere dal mezzo di trasporto.
John, trovandosi
affianco al finestrino,
si voltò verso la vecchietta con l’intento di
passare, ma non vi era
sufficiente spazio.
«Mi scusi,
signora» la chiamò,
schiarendosi la voce. «Io sono arrivato. Potrebbe,
cortesemente, spostarsi?»
«Sposarmi?»
domandò confusa. «Non potrei mai tradire mio
marito, anche se è morto da un po’
ormai».
«Non ha
capito, io le ho chiesto se può
farmi passare» sillabò per bene, alzando un
po’ il tono per farsi sentire
meglio.
«Oh
sì, lo so cucinare il passato. Se
vuoi, ti invito a casa mia, così potrai provarlo tu
stesso».
«Non
passato, ma passare!» esclamò,
ormai sul punto di esplodere. «Si levi di mezzo e basta! Devo
scendere!»
«Come ti
permetti, piccolo
impertinente? Io non sono scema!» gli urlò contro
corrucciata, picchiandolo con
la sua borsetta rossa.
Intanto, fermo sul
ciglio della porta,
Duncan osservava attentamente la scena, ridendo sommessamente.
«Ti diverti,
cresta verde, non è vero?»
gli chiese John, cercando di schivare i letali colpi di borsa.
«Non
immagini quanto» ghignò,
asciugandosi una lacrima.
«Bambini,
volete muovervi?» la voce
leggermente irata di Courtney arrivò chiara dal marciapiede,
interrompendo la
scenetta comica.
Allora il nostro prode
John, avendo
capito che le parole non servivano a nulla, passò ai fatti:
si arrampicò sulla
vecchietta, la superò, mentre lei borbottava frasi riguardo
il comportamento
maleducato dei giovani d’oggi, e scese con passo solenne
dall’autobus, sotto
l’occhiata attonita di tutti i passeggeri.
Non appena ebbe messo
piede sul
marciapiede, fu letteralmente trascinato per tutto il viale da
Courtney, che
procedeva svelta fra gli appartamenti a schiera di Thompson Boulevard.
I tre si fermarono
davanti al numero
126, una casetta a due piani con i muri dipinti di rosso carminio, il
tetto a
punta e un piccolo giardinetto ben curato davanti. L’insieme
era estremamente
grazioso.
La ragazza, che
guidava la fila, si
infilò attraverso il cancelletto in legno, appena socchiuso,
e percorse
velocemente il sentiero ciottolato. Una volta davanti
all’ingresso, fece
saettare l’indice verso il campanello e lo fece squillare.
Qualche istante
più tardi, la porta
si aprì con uno scatto, rivelando la figura di Gwen. Non era
cambiata granché
negli anni, tranne che, ora, i suoi capelli erano di un unico colore,
nero.
Aveva delle profonde occhiaie sotto gli occhi e una matita dietro
l’orecchio
sinistro, il che lasciava presagire che aveva passato la notte in
bianco a
lavorare a qualche progetto. Sembrava anche leggermente sciupata,
magari a
causa dello stress lavorativo e pre-matrimoniale.
Prima che potesse dire
qualunque
cosa, Courtney si era già fiondata tra le braccia
dell’amica, mormorandole un
«Mi sei mancata tantissimo».
«E voi che
ci fate qui?» domandò
Gwen non appena riuscì a liberarsi dalla stretta, con
un’espressione sorpresa e
allo stesso tempo raggiante. «Non vi aspettavo prima di
venerdì».
Fece cenno loro di
entrare in casa,
scansandosi per farli passare.
«Era
l’unico volo disponibile prima
di domenica» spiegò prontamente la bruna,
appendendo la sua borsa
all’attaccapanni.
«Ehilà
Gwen, chi non muore si
rivede» la salutò amichevolmente Duncan, dandole
una leggera pacca sulla
schiena.
Non c’era
alcun tipo d’imbarazzo tra
di loro, sembrava che non fossero mai stati assieme: somigliavano,
infatti, più
ad amici di vecchia data, pronti a scherzare e fare battute.
«È
sempre un piacere rivederti»
ridacchiò, battendogli il pugno.
«Pensa un
po’, è la stessa cosa che
gli dico sempre io. Naturalmente nella mia voce
c’è molto più sarcasmo»
esclamò
John, superando i due. «Ad ogni modo, ciao Gwen».
«Vedo che
non hai abbandonato le
vecchie abitudini» gli sorrise lei di rimando, per poi
rivolgersi a tutti:
«Volete del caffè? L’avevo appena
preparato per me».
«Non si
rifiuta mai del caffè»
recitò solenne Duncan.
Il gruppo si
spostò nella zona
cucina, una piccola stanza dalle pareti color panna e una grande
finestra che
ridava sul giardinetto. Sul fondo era addossato un piano cottura,
affiancato
dal frigorifero strapieno di post-it, tutti che indicavano appuntamenti
più o
meno importanti. Al centro della stanza, un tavolo rotondo faceva la
sua bella
figura.
«Allora,
dov’è il futuro sposo?»
domandò
Courtney con un sorriso mellifluo, sedendosi su una sedia.
«È
sotto la doccia, immagino» rispose
l’altra, armeggiando con delle tazzine. «Si
è svegliato da poco, ieri sera ha
lavorato fino a tardi».
Trent gestiva un
locale della
periferia di Vancouver insieme ad un caro amico, nonché suo
testimone di nozze.
E, essendo per metà proprietario, poteva liberamente
esibirsi con la sua
chitarra in qualche mini concerto, facendo così
ciò che più amava.
«Rallenta un
secondo» la fermò
Duncan. «Trent è sotto la doccia e tu qui? Fossi
in te l’avrei già raggiunto.
Magari lo rendi anche felice».
Courtney gli
sferrò da sotto il
tavolo una potente gomitata in pieno stomaco, che lo fece rantolare per
un po’.
«Oh, ma
guardatevi» ridacchiò Gwen,
che aveva osservato tutta la scena. Versò il
caffè nelle tazzine e le mise su
un vassoio di metallo, assieme ad una zuccheriera e tre cucchiaini, che
poggiò
al centro del tavolo. «Sembrate proprio una coppia di
sposini. A proposito,
come va la vostra “relazione”?»
chiese, accennando per bene l’ultima parola.
Courtney per
poco non si strozzò con il caffè.
«Cosa?»
riuscì a balbettare, tra un colpo di tosse e un altro.
«Come, principessa, non gliel’hai
ancora detto?» scherzò Duncan,
cingendole le spalle con un braccio. «È la tua
migliore amica, dovrebbe venire
a conoscenza di questi dettagli».
La ragazza lo avrebbe
deliberatamente ucciso a mani nude davanti a tutti, se solo John non
fosse
intervenuto.
«Quali
dettagli?» domandò divertito.
«Dopo sei anni di corteggiamento, è già
tanto che tu sia riuscito ad avere un
appuntamento».
«Oh, andiamo
Court!» esclamò Gwen,
appoggiandosi contro il piano cottura e sorseggiando il suo
caffè fumante.
«Cos’altro deve fare questo povero ragazzo per
dimostrarti che è cotto di te?»
La diretta
interessata, che nel
frattempo aveva raggiunto una chiara sfumatura di rosso - non si sapeva
se per
la rabbia, oppure per l’imbarazzo -, si limitò a
versare dello zucchero nella
tazza e a mescolare per bene con il cucchiaino. Prima che potesse
formulare una
risposta adeguata, qualcuno entrò in cucina interrompendo il
discorso.
«Chi
è cotto di chi?»
A differenza della sua
compagna,
Trent aveva subito un mutamento più profondo. I suoi capelli
erano più
arruffati e più ribelli, aveva messo su un po’ di
massa muscolare e sulle
guance spuntava una deliziosa barbetta incolta. Sembrava molto
più adulto,
adesso.
«Ragazzi,
che gradita sorpresa!» li
salutò con un enorme sorriso.
«Ecco il
nostro Elvis!» disse
Duncan, ammiccando in sua direzione. «Mancavi solo
tu».
Trent batté
il cinque ai due maschi,
diede un fugace bacio sulla guancia a Courtney e poi si diresse verso
la sua
futura moglie, afferrandola per la vita e tuffandosi sulle sue labbra.
«Sì,
tutto molto romantico» disse
rapido John, rovinando tutto come solo lui sapeva fare. «Ma
noi siamo ancora
qui. Se volete un po’ di intimità, potete
trasferirvi-».
Ma non seppero mai
dove trasferirsi: un calcio al ginocchio, lo fece mugolare di dolore e
non riuscì a
continuare la frase.
I due si separarono
all’istante,
ridacchiando imbarazzati.
Poi Gwen
poggiò la sua tazzina sul
lavello e, avvicinandosi alla sua amica, la prese per un braccio.
«Vi dispiace
se ve la rubo un
istante?» chiese, aiutandola ad alzarsi. «Devo
farle vedere una cosa».
E le due scomparvero
al piano di
sopra, parlottando sommessamente tra di loro.
Nella stanza
calò così un silenzio
imbarazzante. Sebbene non fossero completamente soli e avessero
già chiarito i
loro antichi dissapori, Trent continuava a non sentirsi del tutto a suo
agio a
parlare con Duncan. Dopotutto, lui e Gwen avevano avuto una relazione,
per
quanto breve fosse stata.
«Ehm,
allora» cominciò, cercando di rompere il ghiaccio. «Quando siete arrivati?»
«Ieri
sera» rispose evasivo Duncan.
«Capisco…
cosa mi raccontate? È da
una vita che non ci vediamo».
«Oggi
è il mio compleanno, per
esempio» si intromise John, bevendo un lungo sorso.
Trent
sembrò sollevato che il bruno
avesse aperto una conversazione.
«Fantastico,
tanti auguri!» esclamò.
«Se vuoi, questa sera possiamo comprare una torta e
festeggiare nel mio locale.
Cosa ne pensi?»
«Non saprei,
non è il mio genere di
serata ideale».
Nel frattempo Gwen
aveva condotto
l’amica nella sua camera e, dopo averla fatta sedere sul
letto, aveva
cominciato a frugare dentro all’armadio, in cerca di qualcosa.
«Dai,
sbrigati, sono curiosa!» la
incitò Courtney, avendo già intuito quale fosse
la sorpresa.
«D’accordo,
non ti agitare» disse
lei, continuando a cercare dentro l’armadio.
«Però, chiudi gli occhi».
L’altra
obbedì e, quando li riaprì, non
riuscì a fare a meno di sorridere.
Il pallido corpo di
Gwen era
fasciato da un lungo abito nero con delle maniche a sbuffo. Il velo si
spandeva
leggero lungo il pavimento e il vestito aveva dietro la schiena una
piccola
scollatura a U. Emanava luce propria nel complesso.
«Sei
splendida» esclamò estasiata,
dopo una breve analisi. «Ma, non fraintendermi, come mai
nero?»
Non poteva di certo
negare che
l’amica sapeva indossare il nero con una grazia mai vista in
nessun’altra, ma
rimaneva comunque un’idea inusuale.
«Io e Trent
abbiamo deciso di
scambiare i colori. Io avrò un abito nero e lui uno smoking
bianco. Volevamo
fare qualcosa di diverso, di innovativo» rispose, come se
fosse la cosa più
normale del mondo. «Che c’è, non ti
piace?» aggiunse dopo un po’, vedendo
l’espressione dubbiosa sul suo volto.
Courtney si
alzò in piedi e prese a
sistemarle meglio le maniche.
«Lo
adoro» disse soltanto, e Gwen
sorrise.
«Sono felice
per te» dichiarò dopo
un po’, guardandola negli occhi con le mani poggiate ancora
sulle sue spalle.
«Davvero, te lo meriti».
E poi si abbracciarono.
Non sapeva
perché, ma le veniva
naturale dimostrarle il suo affetto con dei piccoli gesti o delle
parole
carine. Di solito, era una persona fredda e incline a lasciarsi andare,
ma con
Gwen era diverso, era come se la conoscesse da una vita. Le voleva un
mondo di
bene.
Quel bellissimo
momento fu
interrotto dal rumore di un oggetto di vetro che si infrange contro il
pavimento.
«Porco
Duncan!» imprecò sonoramente
John.
A quella frase,
Courtney uscì di
corsa dalla stanza, pronta a dirgliene quattro.
«Che cosa
state facendo?» urlò da in
cima alle scale.
«Oh nulla,
John non sa tenere
nemmeno una semplice tazzina in mano» rispose la voce di
Duncan, chiaramente
ironica, dalla cucina.
«Ci
riuscirei, se una scimmia
decerebrata come te non mi avesse tirato una manata in
faccia» disse il fautore del
danno, con ancora più ironia.
«Ma quale
manata, mi stavo
semplicemente stiracchiando!»
Inutile dire che si
aprì un’accesa
discussione e la ragazza decise saggiamente di lasciare perdere: era
una cosa
stupida, come al solito.
Prima che potesse
tornare in camera
da letto, vide materializzarsi Trent ai piedi della scalinata, con le
mani
sulle tempie come se la testa gli stesse per esplodere.
«La
smetteranno mai?»
chiese semplicemente, guardandola.
Lei scosse la testa,
mentre un
sorrisetto le nasceva in volto: «Mai».
Non
poteva fare a meno di quei due.
• •
•
Ore
ventitré e quindici di sera.
La cosa
sorprendente fu che John
accettò la proposta di Trent di festeggiare il suo
venticinquesimo compleanno
nel suo locale, quando aveva già progettato tutto da un
po’: due pizze extra
large e la prima stagione del suo telefilm preferito. Dopotutto, era
una serata
speciale.
E la cosa ancora più sorprendente fu
che Courtney acconsentì quasi subito di passare
l’intera serata in quel locale
di periferia, con tanto di alcol e la musica a palla, dopo che Gwen la
pregò
per cinque minuti interi. E se ne pentì amaramente.
Certo, doveva ammettere che era
stato piuttosto divertente vedere Duncan affondare la testa di John
nella torta
di compleanno, con seguenti imprecazioni di quest’ultimo. E
non poteva negare
che l’immagine esilarante di John che ballava il Gangnam
Style sul bancone,
dopo nemmeno tre bicchierini di brandy, le aveva strappato una
risatina. E
sicuramente si era sciolta un pochino quando Trent aveva dedicato
quella
sdolcinata canzone d’amore a Gwen, mentre Duncan
commentò il tutto con un verso
disgustato, beccandosi la seconda gomitata nello stomaco della giornata da parte sua.
Ma tutto era finito: Gwen era in
prima fila sotto il palchetto e ammirava il suo futuro sposo con occhi
sognanti, John chiacchierava del più e del meno con Adam -
il ragazzo con cui
Trent gestiva il locale, nonché suo testimone di nozze -, e
Duncan era sparito
da qualche parte in mezzo alla folla. E lei era
rimasta completamente sola, seduta su un
divanetto in fondo al locale con un milk-shake in mano.
Proprio mentre rifletteva su quanto
erano squallidi pub, discoteche et
similia,
le si avvicinò un tipo sulla trentina, avendola
vista spaesata ed isolata:
era enorme, con dei capelli bruni scompigliati e i denti un
po’ ingialliti, e
portava dei vestiti sciatti.
«Vorresti concedermi un ballo,
zuccherino?» chiese beffardo, sedendosi accanto a lei e
gettandole un braccio
attorno alle spalle.
La sua voce era strascicata e
puzzava di fumo.
«Zuccherino un corno» sbottò acida.
«E ti consiglierei di levare le tue sudicie manacce da me, se
non vuoi marcire
in galera. Sai, sono avvocato».
Sottolineare per bene il suo
mestiere ebbe l’effetto desiderato, poiché quello
roteò gli occhi e andò via. Courtney
poté giurare di averlo sentire dire: «Non
è abbastanza sbronza».
Quell’avance sessuale fu la goccia
che fece traboccare il vaso. Se prima non sopportava quei posti, adesso
li
detestava e non voleva passarci un secondo di più.
Poggiò il drink sul tavolino di
fronte e si alzò di scatto, facendosi spazio tra la folla
per raggiungere Gwen.
«Voglio andarmene» scandì vicino al
suo orecchio, in modo tale che la sentisse.
«Di già? Ma è prestissimo» si
lamentò lei delusa. «Non puoi aspettare cinque
minuti? Trent suona una nuova
canzone, devi sentirla assolutamente».
«Gwen, lo sai che ti voglio bene, ma
comincia a scoppiarmi la testa e quello che con tutta
probabilità era un
barbone ci ha provato con me. Voglio andarmene adesso»
spiegò, con un tono che non ammetteva repliche.
«Vi riaccompagno in macchina»
sospirò dopo un attimo di esitazione, consapevole di aver
perso. «Gli autobus
non passano più a quest’ora».
«Perfetto» disse l’altra con
l’aria
vittoriosa di chi aveva appena vinto un processo. «Io vado a
recuperare
Duncan».
Ma non dovette cercarlo a lungo. Non
appena riuscì a liberarsi da quella bolgia di persone, lo
ritrovò appoggiato
alla parete dinnanzi, avvinghiato ad una ragazza bionda dal
fondoschiena bello
pieno. I due erano impegnati a scambiarsi animatamente la saliva con
una foga, come
se il mondo dovesse finire da un momento all’altro, e niente
e nessuno avrebbe
potuto distrarli.
Quella scena fu un colpo al cuore.
Ovviamente sapeva che in quei sei anni Duncan aveva avuto numerose
donne, ma un
conto era solo saperlo e l’altro ritrovarlo a limonarsene una
davanti a lei. Faceva terribilmente male.
Doveva mettere subito quanta più
distanza possibile tra lei e loro, prima che potesse urlare, strozzare
quell’ochetta
con le sue stesse mani o prendere a schiaffi il ragazzo. Sentiva
fastidio alla gola. Pensò bene, quindi, di
tornare da Gwen.
«Ripensandoci, è ancora presto» si
giustificò Courtney, dopo averla trovata seduta al bancone
con John e Adam, che
a quanto pare avevano scoperto di amare la stessa serie tv e ne
parlavano
animatamente di fronte ad un drink fresco. Modulò per bene
la voce, tentando di
non farla tremolare. «E ho davvero voglia di sentire la
canzone di Trent».
«Ottimo» si intromise John, alzando
il bicchiere in loro direzione. «Perché il mio
amico qui è un grande estimatore
di telefilm e videogiochi. Non ci penso proprio ad andarmene!»
«Sei sicura?» la chiese invece l’amica,
un tantino preoccupata per il cambio repentino d’umore.
«Se vuoi andar via, non
c’è nessun problema, non preoccuparti».
Il
ricordo era ancora vivido.
«Ne
sono certa» rispose, cercando di
convincere più se stessa che Gwen, strattonandola per un
braccio e trascinandola
verso la pista. «Su, andiamo».
Doveva distrarsi, sfogarsi, non
pensare in alcun modo a ciò che accadeva a pochi metri da
lei. Ma l’immagine
continuava a ripetersi insistentemente nella sua testa, rischiando di
farla
impazzire di rabbia e gelosia.
Le
bruciava lo stomaco e le pizzicavano gli occhi.
E un
angolino remoto della sua mente
desiderò ardentemente di essere al posto della bionda, a
baciare le labbra di
Duncan.
Note:
(1)
Riprendendo il
primo verso di Murder City, canzone dei
Green Day
Angolo
dell’autrice
Non
posso credere di aver
aggiornato.
Nutrivo un sacco di dubbi su questa
storia, dubbi alimentati anche dal mio periodo di blocco, e avevo
pensato di
sospenderla più volte. La storia non riusciva più
a prendermi come prima e
trovavo questo capitolo piatto.
E, invece, alla fine l’ho fatto, l’ho
pubblicato. Sì, non è un capitolo molto dinamico
e non mi entusiasma, fin ora è
il peggiore; ma, anche il prequel aveva i suoi momenti statici che non
mi
facevano impazzire, quindi…
Finalmente abbiamo rincontrato Gwen
e Trent, più innamorati che mai. Ho voluto trattare per bene
l’amicizia tra lei
e Courtney, che personalmente adoro. Spero di non essere caduta troppo
nell’OOC.
E poi ci sono Duncan e John, che si
amano ed odiano sempre di più. Loro sono una gioia sempre e
comunque.
Non so da dove mi sia venuta l’idea
del compleanno di John, l’ho scritta e basta. Anche se ho
sempre pensato che il
suo compleanno fosse lo stesso giorno del mio, come J.K. Rowling e
Harry Potter
- insomma, tale madre e tale figlio -, oppure in inverno inoltrato.
E infine abbiamo anche qualche
sprizzo Duncney. Si ricominciano ad avvicinare, finalmente.
Spero che il capitolo non risulti
troppo pesante e di ricevere anche solo una recensione, dato che non
aggiorno
da fine dicembre. Conto di concludere la fan fiction entro settembre,
ma non
prometto nulla.
Inoltre, stavo pensando ad una
crossover. Il primo capitolo è quasi concluso e, se mi
soddisferà, voglio
davvero pubblicarlo.
Quindi, ci vediamo presto.
Un abbraccio,
Hayle
xx
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Capitolo 5 *** Giovedì ***
La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Giovedì«
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
17 luglio, ore nove e due del mattino.
Gwen si
sarebbe aspettata ogni cosa quella mattina.
Magari
avrebbero chiamato da lavoro, chiedendole di venire in ufficio per
coprire le
ore di qualche collega malato o in vacanza; oppure avrebbe ricevuto
finalmente
quel nuovo banco da lavoro che aveva ordinato su internet settimane fa;
o forse
qualche altro invitato sarebbe arrivato in città in anticipo
e avrebbe deciso
di passare a trovarla.
Ma, di
certo, Gwen non si sarebbe mai aspettata quello.
Courtney,
seguita a ruota da John e Duncan, era piombata nel suo salotto e si era
limitata ad annunciare: «Ho prenotato estetista, parrucchiere
e una mezza giornata
alle terme per noi due».
La
ragazza, sveglia da poco e ancora in pigiama, si limitò a
sbadigliare,
analizzando per bene ciò che le avesse detto. Ma, dopo
essere tornata a casa a
l’una e mezza passata, la sua mente faticava ad elaborare
pensieri e concetti
di ogni tipo.
«Scusami?»
si limitò a domandare stropicciandosi gli occhi, mentre
dalla sua bocca uscì un
altro grosso sbadiglio.
«Ho
detto che oggi io e te andremo dal parrucchiere,
dall’estetista e alle terme»
scandì per bene Courtney, con più pazienza che
poteva.
Questa
volta riuscì a recepire per bene le parole e non le
piacquero per niente. Lei
sapeva bene che detestava ogni singola cosa che aveva nominato, eppure
aveva
deciso ugualmente di portarcela.
«Perché
mi odi?» fu l’unica cosa che riuscì a
dire, dopo aver tenuto la bocca aperta
per due minuti.
«Non ti
odio, lo faccio per il tuo bene» rispose comprensiva.
«Hai delle doppie punte
che si vedono da un chilometro e, senza offesa, quelle sembrano
più le gambe di
un orso che di una giovane donna».
Gwen si
passò una mano tra i capelli e abbassò lo sguardo
verso le gambe, coperte solo
da un leggero pantaloncino di cotone. A lei la situazione non pareva
così
disastrosa, ma evidentemente Courtney non la pensava così, a
giudicare dallo
sguardo scettico con cui la stava studiando.
Doveva
trovare una scusa adeguata per scampare a quell’intera
giornata di torture,
doveva assolutamente farlo. E poi, come un fulmine a ciel sereno,
l’idea
perfetta le si presentò davanti.
«Mi
dispiace Court, ma avevo progettato di svolgere alcune mansioni
stamattina,
come ritirare le fedi e i fiori per la chiesa. Senza dimenticare che
devo
sistemare degli ultimi dettagli per il ristorante»
spiegò dettagliatamente,
cercando di suonare il più mortificata possibile.
«Purtroppo devo farlo io,
Trent è molto impegnato con il locale oggi. Senza contare
che deve passare in
città, per provarsi lo smoking».
Era
certa di avercela fatta, ma la risposta dell’altra fece
crollare il suo bel
castello di carte.
«Ed è
qui che entrano in scena loro» esclamò, indicando
Duncan e John, che non
avevano esattamente un’aria entusiasta.
«Svolgeranno tutti i lavoretti
pre-matrimoniali che li chiederai di fare, mentre noi due ci prendiamo
una
giornata di relax».
Gwen
non era sicura che farsi strappare peli da ogni parte del corpo fosse
rilassante, ma evitò di contraddirla.
«Noi
sgobbiamo per tutta la città e voi alle terme. Non mi sembra
esattamente equo»
si lamentò Duncan. «Alla faccia della
parità di sessi!»
«Senza
contare che io avevo di meglio da fare, come ad esempio dormire fino a
tardi, e
invece qualcuno non solo mi ha buttato giù dal letto ad un
orario indecente -
le otto di mattina, ci rendiamo conto?! -, ma vuole anche obbligarmi ad
andare
a fare shopping!» quasi urlò John indignato.
«Scordatelo, sorella».
«Dai,
non puoi obbligarli a fare qualcosa che non vogliono»
cercò di difenderli Gwen,
sollevata che i due avessero tanto da ridire. «E poi
è il mio matrimonio, non è
giusto che ci pensino loro».
Ma
anche questa volta la sorprese.
«Certo
che posso obbligarli!» esclamò.
«Lui,» e qui indicò John, che
sbarrò gli occhi,
«mi deve un favore grande come questa città: gli
ho trovato una sistemazione a
prezzo zero».
«Peccato
che quella sistemazione sia casa mia e chi ci rimette sono
io» specificò
Duncan, sentendosi chiamato in causa.
Ma
Courtney fece finta di non ascoltare, incrociando invece le braccia al
petto e
assumendo un atteggiamento intimidatorio, che li fece zittire
all’istante; poi
tornò a guardare la ragazza.
«Gwen,
non è solo perché sei - perdona la schiettezza -
impresentabile, io voglio
davvero passare un giorno con te, completamente sole, come ai vecchi
tempi»
disse, cambiando completamente approccio e mostrandosi il più
dolce possibile. «È da
tanto che non ci prendiamo un po’
di tempo solo per noi. Ti prego!»
E poi mise su una delle sue armi più
letali, il labbruccio.
Era già successo molte altre volte:
ogni volta che Courtney voleva fare qualcosa che lei detestava con
tutta se
stessa, metteva su quell’espressione tenera e compassionevole
e la faceva
cedere nel giro di cinque secondi.
E avvenne anche quella volta.
La mora tentò in ogni modo di sembrare
impassibile, ma dovette ammettere che era troppo esperta. Quel
labbruccio
tremolante le sciolse il cuore e, come sempre, non riuscì
più a resistere.
«E va bene» sospirò alla fine,
avviandosi sconsolata verso le scale. «Vado a
prepararmi».
E, vedendola scomparire al piano di
sopra, Duncan e John si scambiarono uno sguardo di puro terrore: lo
shopping li
attendeva.
• •
•
Ore
dieci e ventitré.
«Non
posso credere che Gwen si sia
fatta intenerire dall’espressione da cucciolo abbattuto di
Courtney» sbraitò
Duncan, non appena furono scesi dall’autobus.
«Fossi in te, eviterei» lo fermò John,
con un ghigno. «Sbaglio o anche tu ti sei fatto raggirare
più volte dalla
stessa espressione?»
Tacque all’improvviso, ripensando a
tutte le volte che il labbruccio di Courtney lo aveva spinto a fare
cose che
non avrebbe mai fatto in vita sua. In generale, lo costringeva ad
accompagnarla
a fare compere, poiché aveva bisogno di qualcuno che le
reggesse le borse.
«È una cosa diversa» ringhiò.
«Io lo
faccio per riconquistarla».
«Cioè, ti fai miseramente sfruttare
solo perché vuoi riconquistarla?» chiese
l’altro scettico. «Bah, contento te».
«È un metodo di corteggiamento
infallibile. Ma cosa vuoi saperne tu, che negli ultimi sei anni avrai
avuto sì
e no quattro donne?»
«Perlomeno io ho ancora una dignità, a
differenza di una certa persona».
Non riusciva a concepire che John
avesse una battuta pronta per ogni cosa che dicesse, non era umanamente
possibile.
«Lasciamo perdere» sbuffò Duncan,
cambiando discorso. «Secondo le indicazioni, la gioielleria
dovrebbe essere qui
vicino».
E infatti, non appena svoltarono
l’angolo, si ritrovarono davanti ad un enorme vetrina
stracolma di collane e
anelli che costavano più di qualunque cosa avessero mai
visto.
Prima che il bruno potesse entrare, fu
bloccato da una mano.
«Vedi di combinare uno dei tuoi soliti
danni, mi raccomando» disse con molta ironia il suo compagno
di avventura,
alludendo alla vetrinetta che aveva devastato tre giorni prima. Tutti
quegli
zero continuavano a tormentarlo nel sonno.
«Rilassati, ex cresta verde» lo rassicurò,
togliendogli la mano dalla sua spalla. «Non sono un bambino,
so come comportarmi».
Duncan non ne era propriamente
convinto, ma siccome voleva farla finita in fretta e litigare con quel
pazzo
non rientrava nei suoi piani, decise di evitare ogni commento
sarcastico e di
entrare nel negozio.
A differenza di quella a Toronto, la
gioielleria era enorme e, a quanto sembrava dall’affluenza,
gli affari andavano
a gonfie vele. I prezzi erano comunque molto simili, esponenziali a
livelli
estremi.
Il moro si avvicinò al bancone e
premette il campanellino d’ottone piazzato sopra ad esso. In
un nanosecondo si
materializzò una signora rugosa e spigolosa sulla
cinquantina, con un paio di
occhiali rossi e vistosi sugli occhi.
«Posso esservi d’aiuto?» chiese con
tono cordiale.
«Sì, dovrebbe esserci una prenotazione
a nome McCord» rispose. «Si tratta di due fedi
nuziali».
La gioielliera annuì e scomparve dietro
la cassa, per farvi ritorno qualche istante più tardi con
una scatoletta di
velluto blu aperta, dove vi erano depositate due splendide fedi
d’oro.
«L’ordinazione è già stata
pagata» specificò,
per poi sporgersi verso di loro. «Personalmente, ho sempre
appoggiato le unioni
tra persone dello stesso sesso, dopotutto l’amore
è amore. Auguri!»
A quella frase Duncan sbiancò e John
prese a tremare di orrore. Quella signora aveva appena ipotizzato che i
due non
solo fossero gay, ma anche in procinto di sposarsi. Sembrava una storia
del
terrore.
«Deve esserci stato un malinteso»
mormorò Duncan, il primo dei due che riuscì a
ricordare come si parlasse. «Non…
stiamo insieme… e non si
tratta del
nostro matrimonio».
«È di due amici» specificò
ancora di
più il bruno, ancora profondamente traumatizzato.
«Oh, capisco» disse la gioielliera a
disagio. «Mi spiace, davvero. Pensavo che fossero per voi
due. Vi porgo le mie
scuse».
«Non si preoccupi» la rassicurò Duncan,
mentre dietro di lui sembrava che John volesse ucciderla con lo
sguardo. Poi
prese la scatola e, uscendo dal negozio, aggiunse:
«Arrivederci».
Una volta fuori, John prese a sbottare
il suo disappunto con aria indignata.
«Ho praticamente scritto sulla fronte
la parola etero»
gridò sconvolto. «E,
anche se fosse, di certo non mi metterei con te».
L’altro borbottò di risposta:
«Più che
altro sulla fronte hai tatuata a lettere cubitali la parola
cogl-».
Ma non riuscì a finire la frase: poiché
guardava dritto davanti a sé come se fosse incantato, non si
accorse di un
crepa nel marciapiede e ci inciampò. Duncan
riuscì a rimettersi in equilibrio
subito, senza che sbattesse la testa per terra, ma, durante il breve
volo, la
scatoletta con le fedi gli sfuggì di mano e
cominciò a rotolare lungo la
strada. John prese a rincorrerla il più velocemente
possibile - e la dieta a
base di pizza e coca cola non lo aiutò affatto - ma, prima
che potesse
afferrarla, cadde in un tombino aperto e, con lei, tutte le speranze di
completare quelle mansioni del giro di mezza giornata.
«Ma porco Duncan!» imprecò,
inginocchiandosi vicino al tombino.
«Sì, io sto bene, grazie per
l’interessamento» disse colui a cui era rivolta la
“bestemmia”, avvicinandosi e
spolverandosi i vestiti.
«Non me ne frega niente di come stai.
Ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai mandato all’aria
la possibilità di
sbrigarcela in due o tre ore e, soprattutto, quella di riuscire a fare
un
pranzo decente!» gli urlò in faccia, rialzandosi.
«Poi sono io Mister Mani di
Burro, colui che non fa che combinare danni e rompere oggetti
preziosi!»
«Punto primo, non sputare» disse
allontanandosi e stropicciandosi un occhio, dentro il quale era entrata
della
saliva. «E punto secondo, solitamente tu rompi
qualcos’altro di altrettanto
prezioso e che mi appartiene» aggiunse alludendo ai suoi
genitali e cercando di
allentare la tensione senza alcun successo.
«Basta con le volgarità e muovi quelle
chiappe flaccide che ti ritrovi. Ho intenzione di trovare
un’altra gioielleria
prima di sera».
«Io sarei volgare!» replicò Duncan
beffardo, seguendolo per il marciapiede lungo il cui procedeva quasi
correndo.
«E, ad ogni modo, se fossi gay, nemmeno io farei mai la
pazzia di mettermi con
te, almeno che non diventi un pazzo masochista».
«Vedo che su una cosa siamo d’accordo,
cresta verde!»
Ah, quant’era solida ed armoniosa la
loro amicizia!
•
• •
Ore
undici e cinquantotto.
«Potresti
rallentare un secondo?»
Courtney, che procedeva a passo svelto
lungo le vetrine, si fermò a guardare Gwen, un paio di metri
più indietro, la
quale camminava lentamente e con le gambe stranamente divaricate e
un’espressione sofferente in volto.
«Era proprio necessario?» chiese non
appena riuscì ad affiancarla. «Sai
com’è, l’inguine mi va a
fuoco».
«Certo che lo era» rispose la bruna
roteando lo sguardo. «Non si è mai vista una sposa
con tutti quei peli che
avevi. E dovresti ringraziarmi, avrai probabilmente perso tre
chili» ironizzò,
con un sorrisetto malizioso.
«Grazie, Courtney, per avermi provocato
del male fisico» disse con più sarcasmo possibile.
«Credo che il tuo dolore l’abbia
sentito chiunque in quel posto» ridacchiò la
diretta interessata, alludendo
alle urla che Gwen aveva lanciato ogni volta che l’estetista
le strappava via i
peli. «Hai mai fatto una ceretta?»
«No. Sai com’è, preferisco il pratico e
soprattutto indolore rasoio».
Gwen temeva che l’amica avesse potuto
portare ancora avanti il discorso - come se farsi depilare ogni parte
del corpo
non fosse già abbastanza umiliante; per sua fortuna,
però, erano arrivati
davanti al parrucchiere e, prima che potesse farci caso, Courtney era
già
entrata e si era diretta verso le casse.
«Ho prenotato a nome Barlow per
mezzogiorno» disse alla cassiera, una ragazza di colore con
una zazzera di
capelli riccissimi in testa.
Quella prese un blocco appunti da sotto
il banco, lo aprì e cominciò a scorrere fino a
quando non trovò il suo nome.
«Oh sì, eccolo qui» annunciò.
Poi
indicò con un dito due sedute in fondo al locale e disse:
«Potete cominciare ad
accomodarvi lì. I miei colleghi arrivano tra un
attimo».
Il negozio era piccolo, con una fila di
poltroncine sistemate davanti a degli specchi e dei lavandini neri per
lavare i
capelli sistemati sulla parete affianco. I muri erano tappezzati di
poster di
capigliature di ogni tipo.
«Posso chiederti una cosa?» proferì
Gwen, non appena prese posto, a Courtney, che leggeva una rivista presa
da un
cesto di vimini all’ingresso.
Lei annuì distrattamente, senza alzare
lo sguardo da quelle pagine. Cercava un’acconciatura che la
soddisfacesse a
pieno.
Ma prima che riuscì a spiccicare una
singola parola, dietro di lei si era materializzato un ragazzo
muscoloso e con
dei lunghi e setosi capelli bruni.
«Buongiorno!» esclamò raggiante,
salutando la sua immagine nello specchio. «Tu devi essere
Gwen».
«In persona» confermò con aria
annoiata.
«La tua amica ci ha detto che sabato ti
sposi» vaneggiò lui, estasiato.
«Congratulazioni!»
«Grazie» rispose con cortesia, mentre
il suo sguardo saettò alla sua destra.
Courtney parlava con una signora da un
folto caschetto rosso riguardo al suo taglio e usando parole che,
giurò, non
riusciva a comprendere. Non era molto pratica di capelli, unghie e
tutto ciò
che riguardasse il termine “estetica” oppure il
più specifico “moda”.
«Mio Dio, tesoro!» esclamò la voce del
parrucchiere, facendola sussultare. «Questi capelli sono un
disastro!»
Gwen si guardò meglio allo specchio,
mentre quello studiava le sue ciocche con estrema
professionalità e uno sguardo
scettico.
Si era sempre occupata dei suoi capelli
da sola, sin da quando aveva quindici anni e sua mamma le aveva
categoricamente
proibito di farsi le mèche blu. In quel periodo ascoltava
solo quello che la
sua testa le diceva di fare - non che ora le cose fossero molto diverse
-,
quindi, non andandole giù quel divieto, comprò la
tinta e, con l’aiuto di una
sua amica del liceo, se le fece da sola. Per sua madre fu uno shock,
tanto che
la mise in punizione per tre settimane intere.
Da allora, aveva cominciato a gestire
da sola i suoi capelli, tagliandoli quando era necessario e tingendoli
quando
il colore cominciava a rovinarsi. Solo che non era mai stata brava, e
si
vedeva.
«Da quanto tempo non vai da un
parrucchiere?» domandò il ragazzo, confrontando
due ciocche di lunghezza
diversa, strapiene di doppie punte.
“Da quasi dieci anni” pensò, ma non
poteva di certo dirlo, o avrebbe rischiato di ucciderlo sul colpo.
«Ehm, da un po’» decise di rispondere,
dopo un attimo di meditazione, rimanendo sul vago.
«E si vede» borbottò, passandosi una
mano dietro la nuca.
La stava trattando come una bambinetta
di otto anni. Probabilmente credeva che fosse una menomata mentale
oppure una
sciatta con nessun gusto. O magari entrambe.
«Ci sarà molto da lavorare»
sentenziò
alla fine Brandon - Gwen aveva scoperto che si chiamava
così, leggendo il suo
nome dal cartellino affisso sul petto -, porgendole una mano per
aiutarla ad
alzarsi. «Seguimi, cara» disse, accompagnandola
verso uno dei lavandini.
Un’ora e mezza più tardi, dopo
sforbiciate e frecciatine di Brandon riguardo il suo pessimo stile e la
sua
scarsa conoscenza in materia di moda, Gwen, che era arrivata a meditare
di
ammazzarlo usando solo un paio di forbici, ebbe l’onore di
vedere il risultato
finale. E dovette ricredersi: per quanto presuntuoso e narcisista
fosse, aveva
fatto un gran lavoro. Il suo caschetto, più nero e ordinato
che mai, senza
nessuna ciocca fuori posto, non era mai stato così perfetto.
Dopo averlo ringraziato, si avviò verso
Courtney, seduta su uno dei pouf all’ingresso, adibito come
sala attesa, che
rispondeva a delle mail di lavoro dal suo palmare. Nel suo vocabolario
non
esisteva la parola vacanza.
Si schiarì la voce e, finalmente, la
ragazza si accorse della sua presenza.
«Finalmente ti stai trasformando in una
donna» sorrise.
A differenza di Gwen, lei aveva deciso
di non alterare la lunghezza dei suoi capelli, preferendo renderli solo
leggermente più mossi in vista del matrimonio.
«Anche tu sei splendida» disse,
vedendola tornare con lo sguardo sul suo palmare.
Era sempre così: ogni volta che uscivano
insieme, Courtney passava buona parte del tempo al telefono. Era una
donna in
carriera, lo capiva, ma rischiava davvero l’esaurimento
nervoso, se continuava
così.
«Dovresti smetterla di usare
quell’affare, sei in vacanza!» la
rimproverò, portando le mani sui fianchi. Poi
si rese conto che c’era qualcosa che non andava, lo vedeva dal
suo volto. «Sei
sicura di stare bene? Ti vedo giù».
Smise per un secondo di ticchettare
sulla tastiera e aprì la bocca, cercando di parlare.
Sospirò solamente.
«Sto benissimo, davvero» la rassicurò
Courtney, guardandola per un secondo. Per quanto si sforzò
di sorridere, si
vedeva che non era così. Poi prese a riscrivere la mail.
Gwen stava per indagare più a fondo,
quando anticipò le sue mosse. Rimise il palmare in borsa, da
dove cacciò il
portafoglio. Si alzò e, dirigendosi verso la cassa, disse:
«Paghiamo, così
possiamo andare a mangiare».
Non
stava bene.
• •
•
Ore
tre e dodici del pomeriggio.
In
quelle ore, John e Duncan avevano
girato ben sei gioiellerie e in nessuna di queste avevano avuto
fortuna. Una
era chiusa per ristrutturazione, due per ferie, una perché
era il giorno di
riposo e le altre due erano così piene che faticarono
persino ad entrare. La
loro ultima possibilità era quel squallido negozietto fuori
città.
«È tutta la mattina che giriamo a
vuoto» sbottò John. «Se non abbiamo
fortuna nemmeno qui, giuro che bestemmio».
«Avremmo potuto metterci di meno, se
non ti fossi fermato a quella panineria» borbottò
Duncan, ricordando fin troppo
bene i tre quarti d’ora spesi dentro quel posto che sapeva di
pane bruciato.
«Dovevo pur mettere sotto i denti
qualcosa» si giustificò, scrollando le spalle e
spingendo la porta per entrare.
Presto fu ben chiaro perché quel posto
era desertico e dimenticato da Dio. Era piccolo, decadente e polveroso,
circondato da vetrinette mezze vuote.
«Benvenuti» li accolse un uomo sulla quarantina,
con una camicia verde vomito, da dietro il bancone. «In cosa
posso esservi
utile?»
«Stiamo cercando delle fedi quanto più
simili alle originali, spesse e dorate» spiegò
Duncan, avvicinandosi. «E ci
servono entro oggi, altrimenti la sposa e la sua testimone ci
ammazzano.
Soprattutto la testimone».
Immaginò vagamente cosa avrebbe potuto
dire e fare Courtney, non appena avrebbe scoperto cosa fosse successo
quella
mattinata. E in quel pensiero lui era morto.
«Ne abbiamo in quantità!»
esclamò,
felice che quel giorno avrebbe concluso un affare.
«E prima che possa supporre cose
assolutamente false, sono per due amici, non siamo gay, non siamo
legati
sentimentalmente in alcun modo, ed è colpa sua se abbiamo
girato l’intera
città, poiché ha fatto cadere le fedi originali
in un tombino» lo precedette
John, ancora traumatizzato dalle parole di quella gioielliera,
indicando
l’amico.
L’uomo uscì da dietro la cassa e li
fece segno di seguire. Li condusse davanti ad una cristalliera, in cui
vi erano
anelli di ogni tipo e dimensione.
«Scegliete pure quello che ci
assomiglia di più» disse con tono gioviale.
«Il terzo della seconda fila» disse con
aria sicura Duncan, dopo aver esitato a lungo.
Il negoziante stava per prenderlo,
quando John si intromise nel discorso.
«Stai scherzando, vero?» domandò.
«Hai
scelto quello che ci somiglia di meno. Guarda il quarto della prima
fila, è
identico».
Spostò lo sguardo verso la posizione
indicata dal ragazzo e assunse un’aria dubbiosa e scettica.
«Ma ci vedi? Non c’entra niente con
quelli originali».
«Mentre invece quello che hai scelto tu
ci somiglia parecchio. Ma per favore, ho una memoria fotografica, so
esattamente com’erano!»
«Ti prego, dimmi una volta sola in cui
hai ritrovato una cosa senza sfasciare casa, signor Memoria
Fotografica!»
«Ma non c’entra nulla, questo! Fatto
sta che il quarto della prima fila ci somiglia molto di
più».
«Il terzo della seconda fila, al
limite».
«Il quarto della prima».
«Il terzo della seconda».
Il gioielliere stava impazzendo. Quei
due avevano davvero intrapreso una conversazione su quale anello fosse
migliore. Doveva fare qualcosa.
«Che ne dite,» propose a voce alta,
intromettendosi tra i ragazzi per fermare la litigata focosa,
«della terzultima
della prima fila? È molto simile a entrambi gli anelli che
vi piacciono».
Duncan e John si limitarono a guardarsi
in cagnesco. Nella loro lingua, significava un
“sì”.
Aprì la cristalliera, con una piccola
chiave in ottone che gli pendeva da collo, ed estrasse un anello
piuttosto
spesso color oro. Poi, mentre le portava al bancone,
annunciò: «Ho bisogno di
un’oretta per le incisioni. Se volete, potete farvi un giro e
tornare più
tardi, così concorderemo anche il prezzo».
«Per me va bene» grugnì John.
«Ho
bisogno di un gelato».
L’altro lo guardò disgustato.
«Dopo cinque panini vuoi anche un
gelato?»
«Che c’è? Dimostrare che io ho ragione
e tu torto è un’attività che richiede
molte calorie».
A distanza di sei anni, Duncan si chiedeva ancora
perché erano amici.
•
• •
Ore quattro e
trentasei.
«Ora
che hai finito, vieni o no a rilassarti?»
gridò Gwen dalla piscina.
Courtney chiuse la telefonata con il suo capo,
turbata. Il processo era stato anticipato alla prossima settimana e lei
si
trovava fuori città, con pochissimo tempo a disposizione per
prepararsi per
bene. Con tutta probabilità avrebbe perso per la prima volta
in tutta la sua
breve carriera, e non poteva permetterlo.
Rimise il palmare in borsa e la chiuse. Non ne
poteva più.
«Perdonami, era urgente. Una chiamata
improrogabile»
si giustificò una volta a bordo vasca.
Raccolse i suoi capelli freschi di parrucchiere in
una pinza, lasciò scivolare ai suoi piedi
l’accappatoio e si tuffò.
«Io dico che dovresti darci un taglio» la
rimproverò. «Spegni il telefono per qualche ora,
non sarà una tragedia».
Courtney la guardò come se avesse detto un’eresia.
«Nel mio lavoro non esistono ferie» si
limitò a
dire.
Aveva raggiunto il culmine dello stress. Se
avesse continuato con quei ritmi, il suo organismo ne avrebbe
risentito, e lo
sapeva. Ma non poteva comunque farne a meno.
E poi, onestamente, riempirsi di lavoro la aiutava
anche a non pensare a quello che i suoi occhi avevano visto ieri sera.
Più ci
ripensava, più ci soffriva. Quindi, se avesse fatto
dell’altro, non avrebbe
avuto modo di rimuginarci ancora e ancora.
«C’è qualcosa che ti turba, non
è vero?» chiese
all’improvviso Gwen, muovendosi in sua direzione.
«Cosa te lo fa pensare?» mormorò,
sentendo la sua
mano sulla spalla.
«È tutto il giorno che non ti fermi un secondo,
persino a pranzo hai passato più tempo al cellulare che a
parlare con me!»
espose, ed erano tutte argomentazioni valide. «E comincio a
sospettare che
tutto questo,» aggiunse, guardandosi attorno, «sia
un escamotage per non
pensare a questo qualcosa».
Da quando era diventata così perspicace?
Courtney esitò un secondo, indecisa se parlargliene o
continuare a mentire.
Poi, si disse, che era la sua migliore amica e che si era sempre
confidata. Non
sarebbe stato onesto nei suoi confronti.
«Ieri sera,» cominciò, prendendo un
respiro
profondo per rilassarsi, «ho visto Duncan in compagnia di una
ragazza… erano
appiccicati, si stavano baciando» e dopo una breve pausa
aggiunse, rendendo
completamente vano il suo tentativo di calmarsi:
«Quell’infido, schifoso
bastardo la stava baciando!»
Dirlo, ammetterlo a voce alta, faceva ancora più
male.
Sul viso di Gwen apparve un enorme sorriso, e non
capì se era di conforto o era seriamente felice.
«Ma è fantastico» si limitò
ad esclamare.
Courtney pensò che la stesse prendendo in giro e la
cosa la fece irritare ancora di più.
«Hai sentito quello che ho detto?!»
domandò,
cercando di non urlare. Anche se ci era andata molto vicino.
«Non capisci?» disse, scuotendo la testa e
cercando di reprimere la risatina che minacciava di uscire dalla sua
bocca.
«Quello che è successo ti rende gelosa, non
provare a negarlo!,» la bloccò non
appena la vide sul punto di replicare, «E sei gelosa
perché lo ami».
Scoppiò a ridere, una risata isterica e di
scherno.
Non amava Duncan, affatto! Certo, le dava fastidio
che parlasse di altre ragazze in sua presenza, che le fissasse e che lo
trovasse in atteggiamenti scomodi con una di loro, ma questo non
significava
che l’amasse.
Dopotutto, non l’aveva atteso sotto il suo ufficio
quasi ogni sera.
Non aveva aspettato anche solo un singolo
messaggio o una semplice chiamata, quando non lo vedeva per tutto il
giorno.
Non aveva visto andare e venire miriadi di donne e
non si era ripetuta più volte di non darci conto, ogni volta
che ce n’era una
nuova, mentre dentro di sé moriva di gelosia.
Non aveva passato ogni giorno degli ultimi sei
anni a sperare che si accorgesse di lei, che si rendesse conto che
dietro ogni
sfuriata e insulto che gli rivolgeva c’era molto di
più.
E non aveva fatto tutto questo e altro solo perché
lo amava da quanto era una sciocca bambinetta di sedici anni.
«No che non lo amo!» ribatté,
riassumendo tutti i
pensieri caotici che le attraversavano la testa in quel momento.
Cercò di convincere più se stessa che Gwen che
non
fosse così. Bugiarda.
«Potrai mentire quanto vuoi, ma sai che non è
così» rispose lei. «E, detto tra di noi,
anche Duncan è cotto di te. Ci sarà
sicuramente un motivo valido per cui l’ha fatto».
Courtney voleva credere che avesse ragione, lo
voleva davvero. Ma, più si sforzava di giustificare
quell’azione, più non
riusciva a trovare argomentazioni valide.
E, anche se non
l’avrebbe mai ammesso, voleva anche
credere che l’amasse.
Le scoppiava la testa, aveva bisogno di spegnere i
suoi ragionamenti contorti, di dimenticarsi di quella faccenda per un
po’, di
tenere a bada i suoi sentimenti. E ci riuscì solo quando
Gwen la abbracciò. E
per ora bastò.
• •
•
Ore cinque e
cinquanta.
«Questa
è senza dubbio una delle cose più
imbarazzanti che abbiamo mai fatto» mormorò John,
digrignando i denti.
Lui e Duncan erano seduti sul fondo di un autobus,
che li avrebbe riportati a casa di Trent e Gwen dopo quella lunga
giornata,
circondati da vasi e mazzi di fiori di ogni tipologia e colore. Inutile
dire
che gli occhi di tutti erano puntati su quella strana coppia.
«Direi che hai un criterio di valutazione pessimo»
disse l’altro. «Non ricordi di quando siamo rimasti
chiusi nell’ascensore
assieme?»
Il bruno rabbrividì al solo ricordo.
Courtney li aveva invitati a cena e, abitando al
penultimo piano, avevano deciso di prendere l’ascensore.
Erano quasi arrivati,
quando si sentì un tonfo e rimasero completamente al buio.
Dopo varie
imprecazioni e movimenti di vario genere, si era accesa la luce di
emergenza,
mostrando i due ragazzi a pochi centimetri tra di loro, avvinghiati e
con i
nasi che si sfioravano. Era seguito un urlo di puro terrore e disgusto.
Avevano chiamato immediatamente Courtney, ma
quella li aveva lasciati marcire un’ora lì dentro,
solo perché entrambi si
erano inventati una scusa colossale per non accompagnarla a fare
shopping
durante la settimana dei saldi. Ragion per cui avevano trascorso
quell’ora
seduti a gambe incrociate, separati da un ragionevole spazio vitale, a
guardarsi in silenzio religioso, limitandosi a balbettare monosillabi
imbarazzati
di tanto in tanto. Dopodiché, la ragazza aveva mandato i
soccorsi, per infinita
gioia di entrambi.
Inutile dire che, una volta saputa del
quasi-bacio, li aveva derisi per tutta la serata, che si era
trasformata più
che altro in un inferno.
«Okay, cambio la mia risposta».
Dopo aver taciuto per un po’, limitandosi ad
ignorare quelle occhiate invadenti, Duncan gli chiese: «Sai
se Courtney ce l’ha
con me?»
Quella frase sorprese pure lui. Nessuno dei due
aveva mai confidato le proprie preoccupazioni all’altro,
quella era
effettivamente la prima volta. La loro amicizia si basava su insulti
pesanti e
scherzi di pessimo gusto.
«Insomma,» continuò, dopo aver superato
lo stupore
iniziale, «questa mattina a colazione non mi ha rivolto la
parola, ha fatto finta
che non esistessi. Non mi ha nemmeno salutato!»
«Magari si è finalmente resa conto di quanto tu
sia inutile e fastidioso, cominciando a trattarti come il
sottoscritto» rispose
risoluto. Poi, cambiando totalmente atteggiamento, sbottò:
«Pensi che lo venga
a dire a me? E anche se fosse,
probabilmente non l’avrei ascoltata. Non è affare
mio se voi due avete dei
problemi».
Duncan cominciò a ricordare perché non
si fosse mai aperto a lui: era menefreghista e si interessava solo di
ciò che
gli facesse comodo.
Sbuffò infastidito.
«La prossima fermata è la nostra»
borbottò, chiudendo la conversazione.
•
• •
Ore dieci
e diciassette di sera.
Courtney
aveva rifiutato l’invito di
John di rimanere con lui nel salone del hotel a guardare un reality in
TV-
targato, ironia della sorte, Chris McLean -, preferendo invece
ritirarsi nella
sua stanza e concludere finalmente quella faticosa giornata. E
riordinare un
po’ i suoi pensieri.
Non appena salì fino al suo piano,
però, una voce familiare la chiamò.
«Courtney, aspetta!»
Si trattava di Duncan, che aveva il
fiatone dopo averla rincorsa lungo tutta la hall e su per le scale.
Non lo degnò nemmeno di una sguardo,
continuando a percorrere il corridoio con passo svelto. Quando si
fermò davanti
alla porta della stanza numero 97 e stava per infilare la chiave nella
toppa,
però, la bloccò afferrandole il braccio.
«Lasciami andare!» sbraitò lei senza
guardarlo, cercando di dimenarsi. Aveva dimenticato quanto fosse forte
fisicamente.
«Gradirei che mi guardassi in faccia,
quanto ti parlo».
La ragazza perse la testa. Senza
ragionare, la mano le partì in automatico ma non
colpì mai la sua guancia.
Quando finalmente guardò in sua direzione, si rese conto che
lui l’aveva
prontamente fermata.
«Ora, mi dici qual è il tuo problema?»
La situazione era piuttosto tesa:
Courtney, con entrambi i polsi immobilizzati, gli lanciava occhiate di
fuoco e
per un momento sembrò considerare l’idea di
prenderlo a calci.
«Assolutamente nessuno» sputò con
acidità.
«Non sei mai stata brava a mentire»
ridacchiò, facendola arrabbiare ancora di più.
«È
tutto il giorno che non mi rivolgi
la parola. Che ti ho fatto?»
«Devo avercela
per forza con te?» chiese, nascondendo tutto il suo sarcasmo.
«Magari posso
solo aver avuto una giornata no. Sai, non sei il centro
dell’universo».
«Oh beh, allora
tutto apposto» scherzò lui. «Per un
momento ho temuto-»
«Ma sei
stupido? È ovvio che ce l’ho con te, come
sempre!» urlò interrompendolo.
Calò il
silenzio, che fu interrotto poco dopo dalle risatine di Duncan, che
evidentemente trovava la situazione divertente. Cercò di
mascherarle meglio che
poteva… peccato che Courtney le sentì comunque e
queste gli costarono una
potente ginocchiata nelle parti intime, come
ai vecchi tempi.
«Perché?»
chiese dolorante, allontanandosi e portandosi le mani sui gioielli.
«Perché ce l’ho
con te o perché il calcio?» chiese innocentemente
lei, cosa che gli fece
roteare gli occhi.
«Al perché
della seconda ci arrivo pure da solo, grazie»
biascicò annoiato.
Lei si morse un
labbro, non riuscendo a trovare le parole più adatte. Parole
che, poi, uscirono
tutte insieme, all’improvviso.
«Ieri sera ti
ho visto con una ragazza, e non provare ad insinuare che non sia
così!» disse
tutto d’un fiato, come se così potesse risultare
meno doloroso.
Dilatò gli
occhi per la sorpresa. Non avrebbe mai dovuto saperlo, men che meno
vederlo con
i suoi stessi occhi.
«Ah, la bionda»
mormorò . «Ascolta, ti posso spiegare. Era ubriaca
e distrutta per la rottura
con il fidanzato. Io ho solo provato a
confortarla…»
«E hai pensato
di confortarla infilandole la lingua in bocca, brutto
stronzo?!» strillò con
tutto il rancore che aveva in corpo.
A Duncan parve
di sentire un singhiozzo e improvvisamente un bruciante senso di colpa
si
impossessò di lui, come mai era successo. Aveva davvero
fatto del male alla sua
principessa per l’ennesima volta?
«Non ci sono
andato a letto» disse, come se quello potesse giustificarlo.
«Ero qui con voi
ieri sera, lo sai».
«Lo so» annuì
lei.
E poi successe
qualcosa di straordinario.
Le si avvicinò
e le prese il viso tra le mani, guardando intensamente quegli splendidi
occhi
neri da cerbiatta.
«Perdonami
Courtney» disse, e lei capì che non era mai stato
più sincero di così.
Affondò la
testa nel suo petto e lo strinse come non aveva mai fatto. Quelle braccia erano casa.
Si staccò
controvoglia da lui, sussurrandogli un
«Buonanotte», ed entrò nella sua camera,
chiudendosi la porta alle spalle.
Due cose erano
certe.
La prima che
non poteva essere arrabbiata con lui troppo a lungo.
E la seconda
che Gwen aveva ragione, si era davvero innamorata di Duncan
un’altra volta.
Angolo
dell’autrice
Non
ho mai
impiagato così poco tempo per aggiornare. Una settimana
precisa, questo sì che
è un record!
Ed è anche il
capitolo più lungo finora, più di cinquemila
parole.
Devo dire che
ero molto ispirata e che Bang Bang, la nuova canzone dei Green Day, mi
ha
caricata così tanto da rendermi più produttiva
del solito.
Mi dispiace di
non aver parlato di Trent in questo capitolo, ma prometto di rifarmi
nei
prossimi due. Dopotutto, il matrimonio si avvicina.
E ho intenzione
di cimentarmi in una Gwent, una missing moment di questa serie,
ambientata tra
la prima e la seconda storia. Ho bisogno di tempo per sistemare un
po’ le idee,
spero di riuscire a scriverla e a pubblicarla presto.
In questo capitolo
John e Duncan - o, se preferite, i Johncan - diventano sempre
più
spudoratamente canon. Prima la gioielliera, poi l’aneddoto
sull’ascensore… sì,
ci regalano tante gioie.
Così come ce le
regala Courtney, che ha finalmente ammesso di amare Duncan. Se volete,
possiamo
festeggiare assieme. E sappiate che nei prossimi due capitoli ci
saranno
esplosioni di Duncney feels ovunque, vi avviso in anticipo
così potete
prepararvi.
Con questo
chiudo. Vado subito a scrivere il capitolo sei, prima che la mia
ispirazione
termini tutta d’un botto.
Ci vediamo
presto, un grosso abbraccio!
Hayle xx
|
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Capitolo 6 *** Venerdì ***
La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Venerdì«
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
18 luglio, ore otto e quindici del mattino.
Dopo
essersi svegliato ad un orario improponibile ieri mattina, John non
intendeva
alzarsi da quel letto prima delle undici.
Courtney,
inoltre, gli aveva giurato che in alcun modo avrebbe provato ad
attentare alla
sua vita, così com’era successo
martedì, quando erano partiti. Aveva anche
aggiunto che quella giornata sarebbe stata di riposo assoluto,
poiché
l’indomani ci sarebbe stato il matrimonio, e che intendeva
uscire solo per fare
una passeggiata per il centro di Vancouver.
Sarebbe,
perciò, stata una mattinata tranquilla. Fino a quel momento.
Una rumorosissima
chitarra elettrica partì a tutto volume, ridestandolo dal
suo sonno e
costringendogli a soffocare un’imprecazione vergognosa contro
il cuscino. Si
trattava della suoneria di Duncan.
«Imbecille,
il telefono» disse con la bocca impastata di sonno,
riempiendolo di calci fino
a quando non lo sentì muoversi. «La prossima volta
metti il silenzioso»
borbottò, rigirandosi per cercare la posizione
più adeguata per
riaddormentarsi.
Duncan
lo guardò malissimo - avrebbe potuto scegliere un modo meno
traumatico e doloso
per chiamarlo -, prima di accettare la chiamata.
«Pronto?»
chiese con voce rauca, trattenendo uno sbadiglio.
«Buongiorno
Duncan, sono Trent» la voce squillante del moro gli
riempì le orecchie. Tutta
quella felicità glielo fece odiare per un secondo.
«Ciao
Elvis» borbottò.
«Mi
dispiace se ti ho svegliato, ma è una cosa
importante» si scusò, percependo il
suo tono poco gentile e piuttosto indisponente.
Si
disse che nessuna cosa era abbastanza importante per svegliarlo alle
otto di
mattina di un comunissimo venerdì di vacanza.
«Adam
sta organizzando l’addio al celibato al locale questa sera, e
ovviamente tu e
John siete invitati».
Tutto qui?
Decisamente,
confermò, quella cosa non era importante quanto il suo sonno
interrotto.
«Ovviamente
ci saremo» si limitò a dire.
Dopotutto,
sarebbe stato divertente andare ad un addio al celibato, dopo due anni
dall’ultimo. Ricordava come era degenerato quello di Geoff,
quando avevano
aperto quelle casse di birra. Bridgette non seppe mai cosa fosse
successo
quella notte. Ed era meglio così.
Magari,
anche se Trent era un santarellino, anche quello sarebbe diventato
memorabile.
Dopotutto, Adam non sembrava responsabile e cosciente come lui.
«Perfetto,
allora ci vediamo stasera».
«A
dopo» lo salutò.
Riattaccò
e ripoggiò il cellulare sul comodino, ripiombando sul
materasso con tutta la
sua non-grazia. Poco dopo, constatando che non riusciva più
a riaddormentarsi,
decise di alzarsi e cominciare quella giornata.
«John»
disse, chiamando l’organismo pluricellulare che giaceva sul
letto, prima di
infilarsi in bagno. «Stasera andiamo all’addio al
celibato di Trent».
«Okay,
bello schifo» mugugnò lui.
E,
almeno lui, cominciò a ronfare, felice e beato.
•
• •
Ore otto e
quarantotto.
Courtney
sedeva tutta sola ad un tavolo in fondo alla sala, intenta a consumare
la sua
colazione in tutta tranquillità, quando il suo telefono
prese a squillare.
Sbuffando,
lesse il nome sul display e rimase sorpresa.
«Pronto,
Bridgette?» chiese, rispondendo alla chiamata.
«Ehi
ciao, Courtney» esclamò lei dall’altra
parte della cornetta. «È da un po’ che
non ci sentiamo».
Ed era
vero, l’ultima volta risaliva a Natale. Dopo le nozze con
Geoff, infatti, si
era trasferita ad Orlando, in Florida, e non avevano avuto
più modo di vedersi,
tranne quando entrambi venivano a trovare i genitori per le
festività.
Era
l’unica ragazza del reality, dopo Gwen, con cui aveva
mantenuto dei buoni
rapporti.
«Già»
affermò. «A cosa devo il piacere di
questa telefonata?»
«So che di solito a queste cose pensa
la testimone di nozze, ma so anche che sei una donna impegnata e che
non dà
conto a cose frivole» cominciò lei.
«Avevo pensato di organizzare un addio al
nubilato per Gwen, stasera a casa sua. Ho già pensato a
tutto, devi solo fare
in modo di tenerla alla larga fino alle otto e mezza».
Courtney odiava gli adii ai nubilati.
Aveva partecipato a solo uno di questi in tutta la sua vita, ed era
stato
proprio quello per Bridgette. La festicciola in realtà non
era andata tanto
male, fino a quando non erano entrati in gioco gli spogliarellisti ed
era
diventata un delirio. Era scappata via di nascosto.
A Gwen aveva detto, prima di arrivare
in città, che non avrebbe organizzato nulla e lei, sebbene
avesse provato a
replicare più volte, alla fine aveva ceduto. Peccato che
qualcun altro se n’era
ricordato e che aveva deciso di occuparsene al posto suo.
«D’accordo, consideralo fatto» le
annunciò, mentre il suo cervello aveva già
elaborato un piano infallibile.
Da quando aveva messo piede a
Vancouver, desiderava visitare la città per bene ma, per via
dei numerosi
imprevisti che non avevano fatto altro che accavallarsi, non ne aveva
ancora
avuto il tempo. Sarebbe quindi bastato chiedere a Gwen di farle fare un
tour
panoramico e costringerla, contro la sua volontà, a portarla
a fare shopping.
«Spero che non ti dispiaccia che io
abbia fatto un lavoro che spettava a te» le disse Bridgette
vagamente
dispiaciuta. «Ho agito con buoni propositi».
«Non ti preoccupare»
l’anticipò lei.
«Non fa nulla».
«Perfetto, allora ci vediamo stasera!»
«A stasera».
Courtney sospirò, poggiando il palmare
sul tavolo e tornando alla sua colazione.
«Qualcosa non va, dolcezza?» chiese una
voce al suo orecchio, facendola sussultare.
«Ma sei pazzo?» quasi gridò lei, mentre
Duncan prendeva posto al suo fianco, ridacchiando. «Rischiavi
di uccidermi».
«Sai che gran perdita» scherzò,
abbozzando un ghigno.
La frase gli costò uno schiaffo sulla
spalla.
«Okay, ti chiedo scusa, non lo dirò mai
più» disse sarcastico, alzando le mani e
scansandosi. Poi intercettò la sua
espressione corrucciata e le sue braccia incrociate e strette contro il
petto
e, a quella visione, non poté non scoppiare a ridere.
Lei voltò la testa dal lato opposto,
ancora più offesa di prima.
«Sei troppo permalosa» dichiarò e,
prima che potesse insultarlo, si affrettò ad aggiungere:
«Ad ogni modo, penso
che senza di te morirei».
Come aveva sperato, l’ultima
affermazione la fece sciogliere. Provò a rispondergli
qualcosa, ma dalla sua
bocca non ne uscì nulla; nel frattempo le guance le si erano
colorate di rosso,
cosa che nascose subito chinandosi sul suo piatto, e le nacque un
sorriso
sincero sulle labbra.
Subito si riprese, cercando di tornare
al suo atteggiamento consueto, freddo e distaccato.
Era stato difficile ammettere di
amarlo, ora non poteva darlo a vedere con così tanta
facilità. Aveva pur sempre
una dignità, accidenti! Non poteva comportarsi come
un’adolescente alla sua
prima cotta.
«Certo che moriresti» affermò con
convinzione. «Perché non ci sarebbe nessuno a
salvarti dai guai».
Lo vide sghignazzare e il suo cuore
mancò un battito.
Tentò di spazzare via dalla sua mente
quell’immagine adorabile, tornando a concentrarsi su
ciò che l’attendeva di lì
a poche ore.
Un’altra
serata da dimenticare.
•
• •
Ore otto
e sette di sera.
«Dammi
una buona ragione per cui stiamo
andando a questo addio al celibato» sbottò John,
non appena lui e Duncan
scesero alla fermata davanti al locale.
Ormai è risaputo che il nostro ragazzo
detestava ogni tipologia di festa per un semplice motivo,
l’abbondanza di
contatto umano. Non gli era mai piaciuto passare più del
tempo necessario -
massimo cinque minuti - in compagnia di troppa gente.
«Ehm, perché sono divertenti?» disse
Duncan, dopo averci pensato su per bene.
«Wow, che motivazione brillante,
Watson!» borbottò, roteando gli occhi.
«Siamo già in ritardo, come sempre per
colpa tua. Se, inoltre, devi passare la serata a lamentarti, puoi
benissimo
prendere un taxi e tornare in albergo» incarò il
moro irritato.
Si precipitò nel locale, intenzionato a
mettere fine alla conversazione e a godersi una festa tranquilla,
seguito a
ruota da John. Subito i due furono investiti da un uragano di musica e
luci
neon. Dovettero ammettere che Adam aveva fatto le cose in grande.
«Ehilà ragazzi, benvenuti!»
Parli
del diavolo e spuntano le corna.
«Grazie
amico» lo salutò Duncan. «Trent
è già qui?»
«Non è ancora arrivato». E poi, rivolto
a tutti gli invitati, aggiunse urlando: «Giro di vodka per
tutti!»
La proposta fu accolta da un sonoro
boato.
«Credo proprio che seguirò il tuo
consiglio» borbottò John, che lo seguiva come se
fosse la sua ombra.
Era stato diverse volte ad una festa
con lui e ogni volta se n’era pentito. Non gli bastava
isolarsi da tutto e
tutti, doveva anche esporre tutto il suo disappunto e lamentarsi del
baccano
ogni cinque secondi.
Ricordava che una volta, durante un
compleanno di un amico in comune, l’aveva tormentato per
forse quattro ore
ripetendogli la stessa frase, che si era insinuata nel suo encefalo
come il ronzio
di un martello pneumatico: «Quando ce ne andiamo?»
Pur di non sentirlo più, era stato
costretto a riaccompagnarlo a casa - perché ovviamente gli
aveva anche
scroccato il passaggio - prima che tagliassero la torta.
«Bevi e stai zitto» gli ordinò secco,
allungandogli un bicchiere di vetro preso dal bancone.
Quella sera, però, aveva intenzione di
farlo ubriacare, così entrambi avrebbero passato una serata
tranquilla.
Si sporse per prendersi un drink anche
per sé, quando qualcuno gli diede una sonora pacca sulla
spalla, accompagnata
dalla frase: «Ehi, fra-amigo!»
Si voltò verso la fonte di quella voce
e si ritrovò davanti i capelli setosi e gli occhi color
smeraldo di Alejandro.
«Ehi fratello, da quanto tempo!»
esclamò, ricambiando la pacca.
Non era cambiato di un millesimo,
dovette ammettere. Sempre avvenente e muscoloso come un tempo.
«Finalmente sei arrivato, amico!»
«Oh, che gioia rivederti!»
A parlare erano stati Geoff e Owen, il
secondo dei quali lo aveva stretto in un abbraccio così
forte da rischiare di
soffocarlo, che lo avevano intercettato tra la folla.
Li salutò entrambi battendo loro il
pugno.
«Porca paletta, che fine ha fatto la
cresta?» chiese il ragazzone, che negli ultimi sei anni
sembrava aver levato
qualche chilo.
«L’ho tolta un po’ di tempo fa
ormai»
rispose, con una vaga nota nostalgica. «Voi che mi
raccontate, ragazzi? Vedo
che ti stai lasciando crescere la barba, Geoff».
«Sì, mi dona un aspetto più maturo, non
trovate?» si vantò quello, passandosi una mano
sulla leggera peluria bionda che
gli spuntava dal mento.
Le chiacchiere dei quattro amici furono
interrotte da dei colpi di tosse. John aveva assistito a tutta la
scena, con il
bicchiere di vodka sospeso ancora a mezz’aria.
«Non dimentichi nulla, ex cresta
verde?» domandò, indicandosi.
Duncan aveva quasi dimenticato il suo
brutto vizio di
interrompere le
conversazioni, solo per potersi inserire e criticare e lagnarsi ancora
di più.
Alle volte - per non dire sempre- sapeva essere davvero insopportabile.
«Signori, permettetemi di presentarvi
John» sbuffò roteando gli occhi. «John,
loro sono Alejandro, Owen e Geoff» li
presentò a loro volta, indicandoli uno ad uno non appena li
chiamava.
Il bruno allungò la mano verso ognuno
dei tre, cercando di comportarsi in modo più cordiale
possibile.
«Wow, sei davvero tu? Sei quel famoso
John?» chiese Geoff ammirato, stringendogli saldamente la
mano.
Prima che potesse capire cosa
rispondere, lui aggiunse in fretta: «È un piacere
conoscerti, tu sei una star,
amico! Duncan ci ha raccontato ogni singolo particolare su di te.
È vero che
una volta hai bruciato la cucina, mentre cercavi di cucinare dei
pancake, e
hanno dovuto evacuare l’intero appartamento?»
Aprì la bocca per dire qualcosa.
«Oh, è vero,» si intromise Owen
richiamando la sua attenzione, mentre la sua mascella si richiuse di
scatto, «che
lavoravi ad un fruttivendolo e sei stato licenziato, perché
una vecchietta non
sapeva che tipo di arance volesse e tu gliele hai lanciate addosso
tutte?»
«Ed è vero,» disse Alejandro con un
sorrisetto mellifluo, «che tu e Duncan avete una sorta di
relazione omosessuale?»
«Come scusa?» sbottò lui
all’improvviso, stordito come se fosse appena caduto dalle
nuvole.
Fino a quando le sue orecchie non
avevano percepito quella frase, la situazione cominciava a piacergli.
Se
c’erano due cose che lui amava quelle erano stare al centro
dell’attenzione ed
essere adulato dalle masse.
«Dal resoconto delle avventure che
avete trascorso insieme, sembra proprio che voi due siate una
coppia»
sghignazzò il bel latino. «Non ufficializzata, ma
comunque a tutti gli
effetti».
Scoppiarono a ridere tutti, compreso -
e qui John lo incenerì con lo sguardo - Duncan.
Improvvisamente gli venne
voglia di lanciargli la sua vodka in faccia.
Prima che potesse prenderli tutti e
quattro a parolacce, Adam
richiamò
nuovamente l’attenzione su di sé.
«Lo sposo è arrivato»
annunciò solenne,
sollevandogli il braccio, come se avesse vinto un’importante
competizione, in
modo tale che lo vedessero tutti.
Era elegantissimo nel suo completo
grigiastro, anche se i capelli e la barba gli donavano comunque un
aspetto trasandato.
Qualcuno gridò al “discorso” e, prima
che potesse accorgersene, lo avevano aiutato a salire sopra il bancone
e gli
avevano allungato della vodka.
«È bello vedervi tutti qui a
festeggiare la mia ultima notte da scapolo con me»
cominciò, non appena ottenne
il silenzio assoluto. «Non voglio tediarvi troppo con le mie
parole, quindi mi
limiterò ad un semplice invito: divertiamoci!» e
alzò il bicchiere verso l’alto
e poi bevve un lungo sorso, imitato da molti altri.
Tutto attorno a lui si alzarono applausi,
grida e fischi di approvazione.
E la festa cominciò.
•
• •
Ore
otto e trentuno.
«Ora
possiamo, per favore, tornare a
casa? Comincio ad avere fame» chiese stremata Gwen con una
leggera nota di
supplica nella voce, guardando con la coda nell’occhio
Courtney che, seduta sul
sedile del passeggere, era intenta a vedere qualcosa sul suo palmare.
«Certo che sì, sono pur sempre le otto
e mezza!» rispose lei come se fosse la cosa più
scontata del mondo, rimettendo
il cellulare in borsa e sistemandosi le pieghe del vestitino bianco.
Poi,
rivolta verso di lei, aggiunse: «È stata una bella
giornata, non è vero?»
Si limitò ad annuire con la testa,
senza aggiungere nessun tipo di risata o frase sarcastica.
Certo, si era divertita a mostrarle
Vancouver, ma non era stato altrettanto spassoso entrare in ogni
singolo
negozio del centro, provarsi un’infinità di
vestiti, stare lì dentro per interi
quarti d’ora, e riuscire a mani nude.
Poi si accese una lampadina nella sua
testa.
L’ultima volta che la sua amica si era
comportata così, lei e Trent avevano escogitato un piano
malefico per
organizzare una semplicissima festa a sorpresa per il suo compleanno,
che si
era dimostrata una delle esperienze peggiori della sua vita. E se
stesse
preparando qualcos’altro di simile?
«Courtney, tesoro, cos’hai in mente?»
le domandò tentando un pessimo approccio gentile.
«Assolutamente nulla» le sorrise lei
angelica.
Evidentemente si era accorta della nota
sospetta nella sua frase, motivo per cui aveva mentito spudoratamente.
Gwen decise tuttavia di non dire
nient’altro per tutto il viaggio di ritorno. Insistere non
sarebbe servito a
nulla.
Parcheggiò davanti casa e, percorrendo
il vialetto, si preparò psicologicamente al peggio.
«C’è qualcosa che dovrei
sapere?» le
chiese di nuovo, aprendo la porta. La curiosità e il terrore
la stavano
divorando dentro.
«Direi di no» disse lei convinta,
seguendola dentro l’appartamento.
Accese l’interruttore della luce,
posizionato alla sinistra della porta, e una trentina di voci diverse
urlarono
«Sorpresa!», facendola sobbalzare, e altrettante
persone uscirono da disparati
angoli della casa.
Poi si rese conto che tutto il
soggiorno era addobbato a festa, pieno di stelle filanti e festoni in
ogni
dove.
E infine riuscì ad analizzare meglio i
volti delle presenti, tutte vecchie compagne di liceo o ex concorrenti
del
reality. Bridgette col pancione che cominciava ad intravedersi da sotto
il
vestito azzurro, Heather con il solito sguardo da vipera stampato in
faccia,
Leshawna decisamente ingrassata, Lindsay con i seni ancora
più grossi di prima,
Izzy e la sua faccia eternamente da ragazzina…
«Wow!» fu l’unica cosa che
riuscì ad
esclamare, mentre diverse braccia facevano a turno per abbracciarla.
«Non me
l’aspettavo».
Le salutò una ad una, chi più
affettuosamente e chi meno, limitandosi ad un cenno del capo quando
arrivò ad
Heather, la quale si limitò a guardare in un’altra
direzione.
«Non avevi detto che non avresti
organizzato nulla?» chiese dubbiosa a Courtney, dopo aver
scambiato qualche
parolina con ognuna di loro.
Scosse la testa: «Ha fatto tutto Bridgette»
ammise a bassa voce, accennando verso quella.
«Beh, grazie a tutte per essere venute»
disse più forte, posizionandosi in modo tale che tutti
potessero sentirla e
vederla. «Sono felice che siate qui, anche se tutte queste
attenzioni mi
mettono un po’ a disagio».
Seguì una risatina generale.
«Propongo un brindisi!» proruppe
Bridgette, decisa a prendere in mano le redini di quell’addio
al nubilato.
Si precipitò in cucina, che sembrava
conoscere molto bene, e tornò poco dopo con un vassoio pieno
di calici e una
bottiglia di costoso champagne. Lo aprì e lo verso
accuratamente nei bicchieri,
passandoli a tutte le invitate.
«A Gwen» annunciò, non appena tutte
ebbero il proprio. «Con la speranza che il suo matrimonio
possa essere felice
quanto il mio!»
Un tintinnio riempì subito la stanza.
Gwen, circondata da tutto
quell’affetto, sorrise spontaneamente.
•
• •
Ore nove
e quarantadue.
«Oh,
e vi ricordate quando abbiamo
rubato tutti i vestiti ad Harold?»
«Oh sì, è stato troppo esilarante
vederlo correre per il campo con solo un cuscino».
Duncan, Geoff, Dj e Owen, tutti e
quattro piuttosto brilli per via dell’alcol, sedevano ad un
tavolino in fondo
al locale e raccontavano storie dei tempi del reality, ridendo e
scherzando.
«E quando Owen ha dovuto recuperare
quella chiave legata al collo di un orso? Mitico!»
«Beh, Geoff, a te non andò tanto
meglio. Sbaglio o dovetti tuffarti nella fossa biologica?»
Un’altra ondata di risate.
«Come va la gravidanza di Bridgette?»
chiese Dj, il più sobrio dei quattro.
«Oh, alla grande!» disse il biondo.
«Fino a quando non comincia a fare richieste assurde o a
piangere
istericamente. Allora sì che diventa una vera e propria
palla al piede!»
«Amico, non parlarmene» lo compatì
Duncan, bevendo un altro sorso di brandy. «Sono sei anni che
sopporto
Courtney».
«A proposito, come va con lei?»
«È pazza di me» si limitò a
dire con un
ghigno dipinto in volto, sorvolando su quale fosse la dura
realtà. Non poteva
di certo dire che, dopo sei lunghi anni di corteggiamento, ancora non
aveva
ceduto, il suo ego ne avrebbe risentito.
«Tu Owen, invece?» domandò poi,
cercando di spostare le attenzioni da sé. «Ti sei
già pentito della convivenza
con Izzy?»
I due, dopo diversi tira e molla e dopo
che il ragazzone ebbe insistito un po’, avevano deciso di
compare casa nella
periferia di Toronto. Vivevano assieme da circa un anno e mezzo.
«Niente affatto, io la adoro!» esclamò
estasiato lui. «Certo, potrebbe evitare di svegliarmi nel
cuore della notte
facendomi acchiappare degli infarti, ma la adoro!»
«Ora basta parlare di donne, altrimenti
il nostro amico Dj si deprime» disse Geoff, cingendogli le
spalle con un
braccio, avendo notato il suo disagio. Dopo sei anni, infatti, viveva
ancora
con sua madre e non era ancora riuscito a staccarsi da lei.
«Giusto» convenne Duncan e,
sporgendosi, urlò a chissà chi: «Un
altro giro di brandy!»
«Allora ragazzi, vi state divertendo?»
chiese ad alta voce Trent, raggiungendoli e sedendosi su un pouf libero.
«Come non mai!» esultò Owen, finendo di
bere il suo drink. «E quanto era bella la canzone. Cavolo,
avevo le lacrime
agli occhi».
Adam lo aveva praticamente costretto a
cantare il brano che aveva scritto per Gwen davanti a tutti, per poi
bagnare
lui e tutti coloro che erano sotto il palco con una bottiglia di
spumante.
«Stavamo rievocando i vecchi tempi»
spiegò Dj. «Ti unisci a noi?»
«Volentieri».
Ma il gruppetto fu interrotto da un
grido di giubilo proveniente dalla pista da ballo. Si trattava di John,
ubriaco
fradicio, che sventolava i suoi pantaloni come se fossero una bandiera,
mentre
improvvisava una danza gioiosa.
«Viva la vita!» urlò senza un apparente
motivo.
Successivamente fu colto da un conato
di vomito e tutti gli stuzzichini, che aveva ingerito non molto tempo
prima,
finirono con lo spandersi per tutta la pista da ballo.
Conseguì un verso
disgustato di quelli nelle vicinanze.
Duncan, alla vista di quella scena
ripugnante, scoppiò a ridere rumorosamente con tutto il
fiato che aveva nei
polmoni. Come sempre, da sbronzo sapeva donare degli spettacoli unici.
«Ed ecco, ragazzi,» annunciò ai quattro
amici, che lo fissavano come se fosse impazzito di colpo,
«perché ho deciso di
far ubriacare completamente John».
•
• •
Ore
undici e dodici.
Doveva
aspettarselo, Courtney. La festa
era stata troppo tranquilla fino a quel momento: si erano limitate a
delle
semplici chiacchiere, davanti a delle pizze, e ad alcuni stupidi giochi
da
liceo. E poi era avvenuta la svolta.
Si scoprì che Bridgette aveva invitato
degli spogliarellisti e adesso, al lume di diverse candele sparse qua e
là,
quei tre ragazzi dal corpo marmoreo si muovevano in modo sensuale, sul
ritmo di
una musica dance, al centro del salotto. Tutto intorno, Katie e Sadie
discutevano su chi fosse il migliore, Leshawna - palesemente ubriaca -
si era
sfilata il reggiseno e lo aveva lanciato verso di loro, e Lindsay
flirtava con
lo sguardo con il più alto dei tre. Gwen, la sposa, fu
tirata al centro e fatta
sistemare su una sedia, mentre gli spogliarellisti la stuzzicavano
danzando
attorno a lei.
Tutto ciò sapeva di déjà-vu.
A Courtney cominciava ad esplodere la
testa. Se fosse rimasta un secondo di più lì
dentro, sarebbe impazzita.
Si liberò dalle chiacchiere di
Bridgette e Beth, due delle poche ancora sobrie - una per via della
gravidanza,
l’altra perché astemia -, con una scusa patetica
e, afferrando il suo calice
colmo di vino rosso, uscì nel cortile, appoggiandosi
stremata con la schiena
contro il muro. Quei fastidiosissimi beat sembravano lontani.
Non si era mai sentita a suo agio a feste
del genere; difatti, quando vi veniva invitata al liceo, molto spesso
rifiutava. Semplicemente, quel ambiente rumoroso non faceva per lei,
abituata
alla quiete e al rigore.
«Stai cercando di scappare anche da
questo addio al nubilato?» chiese qualcuno con tono
strafottente, interrompendo
il flusso dei suoi pensieri.
Si voltò lentamente e vide Heather
accanto alla sua destra, con una sigaretta in bocca e le labbra piegate
in un
sorrisetto mellifluo. Era stata così silenziosa che non
l’aveva sentita arrivare.
«Avevo solo bisogno di una pausa»
sospirò, bevendo un sorso di vino.
La mora le allungò un pacchetto di
sigarette, come tacito invito a prenderne una.
«Non fumo» rispose secca.
Lei si limitò ad accendere la sua con
un accendino fucsia e a fare un lungo tiro.
Stettero in silenzio a lungo. Non si
erano mai andate a genio e non avevano granché in comune,
non avrebbero
comunque avuto nulla da dirsi.
«A quanto pare, tra te e Duncan va
sempre meglio» disse all’improvviso Heather.
Courtney dovette impedire che il vino
non le andasse di traverso. Come mai si interessava alla sua vita
sentimentale?
«Ho sentito dire che avete fatto il
viaggio assieme e che alloggiate nello stesso hotel»
continuò, notando lo
sguardo spaesato sul volto della bruna. «E, sempre a
giudicare dalle
conversazioni con la darkettona e la surfista, vi frequentate
assiduamente.
Addirittura le serenate sotto l’ufficio!» E qui si
fermò per ridacchiare. Una
volta che si fu ripresa, aggiunse: «Insomma, eravate
già affiatati dal
matrimonio di Geoff e Bridgette, e adesso questo».
Courtney si sentì avvampare.
«Non stiamo da soli, c’è un amico con
noi» si affrettò a spiegare, rimanendo comunque
sul vago. «E non è così
semplice come immagini».
«Peccato» sillabò lei, prima di fare un
altro tiro.
Decisamente, dietro quello che aveva
origliato c’era un mondo intero.
«Tu e Alejandro, invece?» domandò
all’improvviso, forse più per cortesia che per
vero interesse.
Dopo la terza stagione, lui e Heather avevano
avuto modo di rincontrarsi e, a seguito di un lungo corteggiamento
durato per
mesi, il bel ragazzo era finalmente riuscita a farla innamorare. Da
allora non
si erano mai lasciati e vantavano ben cinque anni di fidanzamento.
«Bene» si limitò a dire, ma qualcosa
nel suo sguardo faceva presagire che c’era
dell’altro. Sembrava, infatti, in
preda ad una battaglia interiore.
Poco dopo, sospirando, annunciò: «Mi ha
chiesto di sposarlo».
«Davvero?» quasi esclamò Courtney, con
un sorriso raggiante. «E cosa le hai risposto?»
«Sono scappata».
Non capiva. Quei due si amavano alla
follia, non aveva potuto fare a meno di notarlo al matrimonio di
Bridgette e
Geoff: il modo in cui si guardavano, come battibeccavano amorevolmente
su
qualunque cosa, i baci che si scambiavano. Erano palesemente fatti
l’uno per
l’altra, perché era così indecisa?
«Lui ti ama» dichiarò ingenuamente.
«E tu ami lui».
«Non è così semplice come
immagini» disse
Heather con un piccolo ghigno.
Stranamente, quella sera a nessuna
delle due dette fastidio la presenza dell’altra.
•
• •
Ore
undici e trentasette.
Bastarono
poche bottiglie di birra per
far degenerare quell’addio al celibato. Coloro che in quel
locale erano ancora
sobri e in pieno possesso delle loro facoltà mentali si
contavano sulle dita di
un'unica mano.
Le luci a led guizzavano abbaglianti e
quel brano techno rimbalzava contro le quattro pareti e si amplificava
ripetutamente nella testa di chiunque.
Sul palco due spogliarelliste attraenti
e formose davano spettacolo, strusciandosi contro Trent, spinto
lì a forza, che
sembrava molto a disagio.
Quelli più vicini lanciavano banconote
e foglietti con numeri di telefono, con la speranza vana di essere
ricontattati. Altri si limitavano soltanto ad incitarle a fare di
più,
lasciandosi andare in lunghi fischi e ululati.
Più dietro, la gente ballava in modo
confusionario, cosa dovuta al troppo alcol, e ogni tanto urlava frasi
sconnesse. Addossati in fondo, i fumatori avevano alzato una nube densa
di
fumo.
«Un’altra birra?» chiese Geoff, alzando
una bottiglia colma fino all’orlo.
John, che non si reggeva in piedi, si
avvicinò barcollando e la afferrò,
dopodiché si appoggiò a Duncan, la persona
più vicina, e cominciò a berla, sbrodolandosi
tutto.
Non fece nemmeno in tempo a finirla,
che dovette correre urgentemente in bagno. Alla fine, essendo troppo
lontano,
decise di vomitare dietro il bancone.
«Dacci dentro, amico!» lo incitò Duncan
assistendo alla scena, finendo di bere la bottiglia che gli aveva
lasciato
prima di darsela a gambe.
Ma fu un errore madornale, quell’ultimo
lungo sorso. Prima che potesse realizzare, aveva raggiunto John ed
prese a
vomitare l’anima assieme a lui, il tutto sotto le grida di
approvazione di
Geoff e Owen.
Una notte memorabile.
• •
•
19
luglio, ore dodici e quarantotto di notte.
Trent,
forse l’unico ancora in
condizioni decenti, aveva caricato John e Duncan, non potendo tornare
da soli
in quello stato, sul sedile posteriore della propria auto e adesso
sfrecciava a
cinquanta chilometri orari lungo le strade di Vancouver, diretto a casa
dove
sapeva che avrebbe trovato anche Courtney, mentre la radio sparava a
volume
basso una piacevole canzone jazz.
«Allora, dov’è questo pub?»
chiese
Duncan, dopo un paio di minuti trascorsi nel silenzio.
Effettivamente, si era limitato a
rifilare loro una scusa patetica, ovvero che la festa sarebbe
continuata
altrove, perché il proprietario del locale li aveva
cacciati. Loro, per quanto
ubriachi e storditi erano, ci avevano creduto. In realtà
voleva solo strapparli
via da quell’addio al celibato, che minacciava di protendersi
per tutta la notte,
prima che potessero sentirsi male.
«Vi ho mentito» rispose con sincerità.
«Vi sto riportando da Courtney».
«Bugiardo!» lo accusò John.
«Voglio
tornare alla festa!»
Ma Trent non disse altro, continuando a
guidare indisturbato.
Il bruno si voltò verso il suo compagno
e gli disse: «Avevi ragione, mi sono divertito».
«Io ho sempre ragione» si vantò, e
singhiozzò.
«Sei il mio migliore amico, ti voglio
bene» confessò.
E poi successe qualcosa di
straordinario, qualcosa che da sobrio non avrebbe mai fatto: si
avvicinò alla
sua guancia e vi scoccò un bacio rumoroso. Duncan non fece
una piega; anzi,
sembrò piacergli.
«Wow, è proprio vero che l’alcol fa
miracoli!» esclamò Trent colpito, che aveva
osservato tutta la scena dallo
specchietto retrovisore.
Una volta al 126 di Thompson Boulevard,
li aiutò a percorrere il viale e, con delle leggere spinte,
li condusse dentro l’appartamento,
dove Gwen e Courtney erano intente a togliere tutti quei festoni.
«Siamo a casa» annunciò, buttando i due
ragazzi, più morti che vivi, ma comunque felici, sul divano.
Subito la bruna si gettò su Duncan e
John, con lo sguardo preoccupato che ha una madre quando suo figlio
torna
tardi. E forse era proprio quello Courtney, per quei due: una mamma
pronta a
crescerli, accudirli, sgridarli quando necessario e tirarli fuori dai
guai.
«Mio Dio, cos’hanno fatto?» chiese con
ansia e in preda al panico. «Stanno male?»
«Hanno solo bevuto un po’ troppo»
spiegò Trent, stringendo la sua quasi moglie per la vita.
«Qui com’è andata,
invece?» domandò, dandole un bacio sulla testa.
«Tutto bene» rispose Gwen, sorridente.
«Sai, le solite festicciole di Bridgette. Niente di
che».
Già, proprio niente di che.
«Dai Courtney, vi riporto in hotel» si
propose il moro, ricacciando le chiavi della macchina dalla tasca.
«Hanno bisogno
di riposare».
«Grazie Trent,
sei un tesoro» lo ringraziò frettolosamente lei,
troppo impegnata ad accertarsi
che stessero veramente bene.
Salutò Gwen con
un abbraccio e si caricò Duncan in spalla, mentre il ragazzo
faceva lo stesso
con John. Guardandoli, si disse che il mestiere di mamma alle volte era
davvero
faticoso.
•
• •
L’una
e ventotto.
«Tieni,
questo
ti aiuterà» disse Courtney, allungando un
bicchiere colmo d’acqua in cui aveva
versato una bustina di aspirina a John.
Si alzò a
fatica dal letto, sul quale era inchiodato da un tremendo mal di testa,
si
allungò per prenderlo e bevve tutto in un solo sorso.
Dopodiché, ripiombò
disteso a peso morto, lamentandosi.
«Così
imparerete a bere responsabilmente, una volta per tutte»
cantilenò lei.
Non era la
prima volta che tornavano completamente ubriachi, alle volte
singolarmente e
altre insieme, e che si era vista costretta a prendersi cura di loro.
«Per te» disse,
dando un bicchiere identico anche a Duncan, che sedeva sul bordo del
letto con
la testa tra le mani.
«Lo berrò dopo»
borbottò con voce rauca, poggiandolo sul comodino.
«Cercate di
dormire» li raccomandò affettuosamente.
Poi si girò di
scatto e si incamminò verso l’uscita.
«Non andartene»
la bloccò la voce di Duncan, prima che potesse afferrare la
maniglia, la mano
ancora sospesa a mezz’aria.
«Che c’è?» gli
chiese.
Lui si avvicinò
lentamente e le prese le mani. Il suo battito cardiaco
accelerò.
Restarono a
guardarsi in silenzio, accompagnati dal russare sommesso di John, che
si era
addormentato subito.
Quando dormiva
così tranquillamente, poteva benissimo essere scambiato per
un angioletto.
Nessuno, vedendolo così, avrebbe potuto immaginare che, da
sveglio, potesse
essere un essere rumoroso, ingombrante e sputasentenze.
«Non andartene»
ripeté. E, esitante, aggiunse in un mormorio: «Ho
bisogno di te».
A quella
dichiarazione, la parte più irrazionale di Courtney - che
stranamente esisteva,
sebbene fosse segregata in qualche angolo oscuro e remoto -
esultò e cominciò
ad urlare di gioia, contenta che anche lui ricambiasse i sentimenti.
Ma la parte
razionale la soppresse subito, ricordandole che il ragazzo era
completamente
ubriaco e che, probabilmente, non aveva una vaga idea di quello che
stava
dicendo.
Anche se,
dopotutto, quel vecchio proverbio non
recitava forse “in
vino veritas”?
«È l’alcol che
sta parlando» disse risoluta, e nella sua voce
c’era una nota di delusione.
Duncan la
sorprese, avvinandosi pericolosamente al suo viso.
«Credimi,»
sussurrò ad un centimetro dalle sue labbra, «non
sono mai stato più sobrio di
così».
Lei non ne era
convinta, ma non fece mai in tempo a replicare. Bastò un
nonnulla per far
incontrare le loro bocche in un rapido bacio, piatto e senza alcun tipo
di
passione. Non sentì nulla, se non un leggero retrogusto di
birra.
«I baci da
ubriaco non contano» replicò Courtney tristemente,
fissandolo dritto negli
occhi. Quell’azzurro risaltava ancora di più al
buio. «L’hai detto tu».
Il ragazzo,
inizialmente confuso, biascicò: «Pensavo non te lo
ricordassi».
Ed era vero,
ricordava poco e niente di quella serata, se non la bottiglia di sherry
che si
era scolata tutta in una botta e di come ci aveva spudoratamente
provato con
Duncan, saltandogli addosso. Ringraziando il cielo, egli ebbe il
buonsenso di fermarla.
Quando, il
giorno dopo, le raccontò cosa fosse successo, gli fece
giurare che mai e poi
mai ne avrebbe parlato con nessuno. Da allora anche lei aveva provato a
dimenticare.
«Lo pensavo
anch’io» ammise. «Ora, va’ a
letto» gli ordinò sorridendo, ritirando le mani
dalle sue.
Non doveva
andare così, non voleva che Duncan si dichiarasse e che il
mattino successivo
non ricordasse nulla. E baciare un ubriaco era zero emozioni; avrebbe
voluto
che quel tanto agognato contatto di labbra le avrebbe stretto il cuore
fino a
farlo sanguinare.
Uscì dalla
stanza, lasciandolo lì solo, immobile e ancora
più scosso di prima.
Angolo
dell’autrice
Ultimamente
sto
sfornando un capitolo dopo l’altro. Non potete capire quanto
sia bello essere
così ispirati e scrivere tutto di getto!
Mi sento
triste, questo è il penultimo capitolo e quindi il penultimo
angolo
dell’autrice per quanto riguarda questa storia. Avevo
dimenticato la sensazione
di malinconia che ti assale quando stai per concludere una fan fiction.
Ma bando alle
ciance, passiamo al capitolo!
È molto confusionario, succedono un sacco di cose tutte
assieme. Non sono brava
a descrivere le feste, mi sono limitata a far percepire il caos che
regna nella
maggior parte dei paragrafi.
Si comincia
anche ad approfondire la parte sentimentale della storia, che
già da qualche
capitolo era in secondo piano. Un esilarante John ubriaco confessa a
Duncan di
essere il suo migliore amico e sugella il tutto con un bacio sulla
guancia; un
altrettanto Duncan sbronzo finalmente
si dichiara a Courtney, ma viene “rifiutato”.
Sì, questi due vi - e ci -
faranno patire fino alla fine.
Il matrimonio è
alle porte e noi ci avviamo verso questo romantico epilogo. Cosa
succederà mai?
Lo scoprirete soltanto leggendo!
Spero che il
capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo prossimamente con il prossimo - ed
ultimo.
Un grande
abbraccio!
Hayle xx
|
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Capitolo 7 *** Sabato ***
La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Sabato«
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
19 luglio, ore dieci e otto.
Un
leggero ticchettio la ridestò dal sonno.
Courtney,
inizialmente, pensava che fosse solo un sogno, quel rumore che le
rimbombava
nella testa; poi, capì che era reale, che qualcuno stava
bussando alla porta
con insistenza.
Sbatté
più volte le palpebre, per abituarsi alla luce del sole che
entrava
prepotentemente dalla finestra - si era dimenticata di abbassare le
tapparelle,
ieri notte -, e con l’aiuto delle braccia sollevò
il suo corpo dal materasso.
Si
stropicciò gli occhi. Sembravano passati solo pochi minuti
da quando si era
addormentata, invece erano già le dieci passate, come
poté testimoniare il suo
cellulare poggiato sul comodino.
Si
avvicinò alla porta e la spalancò, pronta a dirne
quattro a colui che aveva
avuto il coraggio di svegliarla così dopo la giornata
infernale di ieri.
«Mi dia
una buona ragione per cui io non-»
Ma si
ammutolì di colpo. Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e
senza maglia.
Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno,
principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima
volta» la
derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire
conciata così? C’è
il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino,
accennando al suo
pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una
vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai
forse perso la maglietta? In
tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
«Okay, siamo
pari» concesse.
Si
scansò per farlo passare. Non voleva che qualche passante li
vedesse conciati
in quella maniera, avrebbero potuto pensare male. E ci teneva a
mantenere una
reputazione adeguata.
«Immagino
che tu abbia qualcosa di estremamente urgente da dirmi» disse
lei,
richiudendosi la porta alle spalle. «Altrimenti non vedo come
mai tu sia
piombato in camera mia, svegliandomi per giunta, senza nemmeno esserti
vestito».
«Effettivamente,
ho un paio di domande e forse tu sai rispondere» ammise.
«Ad esempio, come mai
stamattina mi sono risvegliato con addosso gli stessi pantaloni di ieri
e un
terribile mal di testa? E perché ho ritrovato John a dormire
rannicchiato per
terra?»
«Vi
siete soltanto presi una sbronza epocale» rispose con un
sorrisetto. «Mi avete
fatto preoccupare».
«Come
se fosse la prima volta» ribatté, vagamente
divertito.
Risero
entrambi, risero spontaneamente. Courtney pensò che le loro
risate suonavano
così bene assieme, avrebbe voluto registrarle.
E poi,
all’improvviso, gli chiese, mordendosi il labbro:
«Davvero non ricordi niente?»
«Non
molto» rifletté, tormentandosi il pizzetto.
«Ricordo un paio di cose dell’addio
al celibato. E ricordo che ieri sera eri nella nostra stanza».
Un
lampo gli balenò negli occhi azzurri.
«Cos’è
successo dopo?» chiese improvvisamente serio. «Non
avremo mica-»
«Nulla del genere» lo interruppe. «Mi
hai baciata, ma ti ho fermato subito».
Lo vide tirare un grande sospiro di
sollievo e rilassarsi di colpo.
«Meno male» mormorò.
«Meno… male?» ripeté lei
confusa. Cosa
voleva dire?
«Sì, insomma,» balbettò
Duncan,
«sarebbe stato imbarazzante».
Imbarazzante.
Eppure
non lo aveva trovato
imbarazzante, quando era successo l’opposto. Anzi, sembrava
che gli fosse
piaciuto. Cosa cambiava adesso?
Courtney si sentì montare da una rabbia
improvvisa.
«Ora che ho risposto alle tue domande,»
proruppe con freddezza e acidità, «ti sarei grata
se uscissi dalla mia camera.
Dovrei vestirmi e non vorrei che la cosa diventasse imbarazzante».
Duncan percepì il suo cambio repentino
d’umore - sebbene non comprese a cosa fosse dovuto - ma, non
appena aprì la
mandibola in cerca di spiegazioni, si sentì spintonare fuori
dalla stanza;
subito dopo la porta sbatté con forza alle sue spalle.
Forse aveva avuto una reazione troppo
eccessiva, si disse la ragazza non appena lo ebbe cacciato, forse non
aveva
tutti i torti. Ritrovarsi nello stesso letto, dopo quasi nessun
contatto fisico
negli ultimi sei anni, sarebbe potuto sembrare davvero imbarazzante e
fuori
luogo.
Ma lei lo desiderava davvero e ieri
sera, se la sua razionalità non l’avesse fermata,
probabilmente avrebbe
ottenuto ciò che voleva.
•
• •
Ore
cinque e mezza di pomeriggio.
Gwen
fissò la sua immagine riflessa
nello specchio, mentre Courtney le fissava in testa meglio che poteva
il lungo
velo nero con delle forcine.
Non riusciva a credere che stava
davvero per sposarsi con l’uomo della sua vita. Quegli anni
di relazione con
Trent erano stati magici, tra i migliori della sua vita; non si era mai
sentita
così amata e apprezzata da una persona sola. Voleva davvero
passare il resto
della sua vita con lui.
«Manca solo un po’ di trucco»
constatò
la bruna.
La fece voltare verso di lei e cominciò
a frugare nella sua trousse, in cerca di qualcosa di adeguato.
Mentre Courtney le applicava l’eyeliner
sulle palpebre, disegnando due linee perfette, Gwen non poté
fare a meno di
credere che, in quel momento, nessuno potesse essere più
felice di lei. Non
solo aveva accanto il ragazzo migliore del mondo, ma anche la migliore
amica e
testimone di nozze che potesse mai desiderare.
In quei giorni si era dedicata appieno
a lei e al suo matrimonio, tanto che sembrava che fosse lei quella in
procinto
di sposarsi, e non avrebbe mai potuto ringraziarla abbastanza per il
suo
contributo.
Era la sorella che non aveva mai avuto.
«Sei perfetta» esclamò, facendola
specchiare.
E lo era davvero. Non aveva mai visto
un trucco così bello in tutta la sua vita. Neanche se ci si
fosse messa
d’impegno, sarebbe riuscita ad emularlo.
«Sono così fiera di te» disse
all’improvviso Courtney, in uno dei suoi sorrisi
più belli e sinceri. «Stai per
sposarti e io non posso che augurarti tutta la felicità di
questo mondo. Te lo
meriti».
Erano le più belle parole che qualcuno
le avesse mai rivolto. Potrebbe sembrare infantile, ma sentiva che
sarebbe
potuta scoppiare in lacrime di gioia da un momento all’altro.
Si alzò dalla specchiera e si pose
davanti a lei, sorridendole.
«Grazie» mormorò Gwen. «Grazie
per
esserci sempre stata. Sei la mia migliore amica».
E si abbracciarono per un tempo
indeterminato. Il mondo sotto ai loro piedi sembrò sparire
in quel bellissimo e
prezioso attimo.
Fu Courtney la prima a staccarsi.
«Meglio andare adesso, prima che mi
metta a piangere» dichiarò con la voce tremolante.
«E sappiamo che se piango
io, piangi anche tu».
Molte volte si erano trovate a sfogarsi
- al telefono o di persona - per i motivi più disparati e,
quando una cominciava
a frignare, l’altra la seguiva a ruota.
Alzò il velo da terra, per evitare che
la mora vi inciampasse, e scesero in strada, dove le attendeva la
macchina di
Gwen, che si sistemò sul sedile posteriore, facendo ben
attenzione a non
sgualcire il vestito. Courtney, invece, si sistemò al
volante.
Aveva insistito tanto che fosse proprio
lei a portarla in chiesa.
Ma, quando provò ad accendere il
motore, non successe nulla. Girò la chiave più
volte, ma la situazione non
cambiò minimamente.
«Non può essere!» esclamò la
bruna in
preda al panico. «No, no, no! Ti prego non adesso, ti prego
non adesso!»
«Calmati» le ordinò Gwen, prima che
potesse cominciare ad urlare istericamente.
«L’auto non parte e non arriveremo mai
in tempo. Come faccio a calmarmi?!»
«Dimentichi una cosa» disse a voce
alta, mentre l’amica rischiava di andare in iperventilazione.
«Duncan è un
meccanico».
Immediatamente si lanciò sulla sua
pochette, buttata sul sedile del passeggero, dandosi mentalmente della
stupida
per non averci pensato prima, vi estrasse il palmare e compose il
numero del
ragazzo.
«Dimmi, principessa» rispose lui
qualche istante più tardi.
«Qualunque cosa tu stia facendo,
mollala e vieni a risolvere il problema!» gli
ordinò lei.
«Che diamine è successo?» chiese,
leggermente preoccupato dal suo tono.
«Non lo so, la macchina non parte!»
gridò ancora più in panico di prima.
Sembrò replicare, perché Courtney
aggiunse, sempre più irritata ed agitata: «Non ne
ho idea, sei tu l’esperto!
Vieni immediatamente e basta».
Riattaccò e si lasciò andare contro il
sedile, buttando fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni. E
poi si chiese: era
per caso una calamita umana di sfortune?
•
• •
Ore
cinque e cinquantotto.
Duncan arrivò
immediatamente e compì il
miracolo. Rilevò subito che la batteria si era scaricata e,
grazie a dei cavi
trovati nel garage, riuscì a rimettere in moto la macchina
in tempo record. Per
il suo nobile gesto, si guadagnò anche un bacio sulla
guancia da Courtney che,
accecata dalla felicità e dal sollievo, si rese conto di
quello che aveva fatto
solo dopo che vide un ghigno dipingersi sul volto di lui.
I tre arrivarono alla
cattedrale con
due minuti di anticipo, quando ormai tutti gli invitati avevano
già preso
posto.
«Visto che
con la calma si risolve
tutto?» dichiarò Gwen, quando Courtney la
aiutò a scendere dall’auto.
«Tutto
è bene quel che finisce bene»
recitò saggiamente Duncan. «Ora, se non vi
dispiace, vado a trovarmi un posto
per assistere alla cerimonia».
Ma dopo nemmeno tre
passi fu bloccato
da un urlo di Gwen.
«Che
succede?» chiese la bruna
voltandosi di scatto.
«Ho
dimenticato le fedi!» esclamò
scoraggiata. «Trent si è andato a preparare al
locale e gli avevo promesso che
le avrei prese io. Sono un’idiota!» concluse
sfogandosi contro se stessa e
coprendosi il viso con le mani.
Lo sguardo di Courtney
saettò subito
verso il ragazzo, che rabbrividì istantaneamente. Aveva
già capito dove volesse
andare a parare e non gli piaceva per nulla.
«Te lo puoi
scordare» sbottò,
incrociando le braccia al petto. «Non tornerò
indietro per prendere le fedi».
«La
cerimonia sta per cominciare e io
sono la testimone, non posso muovermi» spiegò.
«Figurati se può andare Gwen,
che è la sposa. Quindi, resti solo tu».
Vedendo che non aveva
fatto una piega,
aggiunse in tono compassionevole: «Per favore!»
Cercò di
resisterle, ma quando vide
quegli occhioni dolci si sciolse subito. Doveva essere una strega,
conosceva a
menadito i suoi punti deboli e sapeva come farlo cedere.
«Va
bene» sospirò lui.
Gli passarono le
chiavi dell’auto e di
casa, gli dettero le indicazioni per trovarle e lo incitarono a
muoversi,
mentre loro due si incamminarono verso l’ingresso della
chiesa, dove il signor
Fahlenbock attendeva la figlia.
Duncan
intercettò John, in piedi vicino
ad un carretto degli hot-dog davanti alla chiesa. Sapeva che avrebbe
approfittato del matrimonio per ingozzarsi come un porco. Non ci
pensò due
volte: si avvicinò e lo afferrò per la
collottola, trascinandolo lungo il
marciapiede.
«Lasciami,
se non vuoi che ti denunci
per sequestro di persona!» lo minacciò,
puntandogli contro un wurstel
molliccio.
L’altro si
limitò ad aprire il
portellone della macchina e a sbatterlo dentro, senza dire una parola.
«Mi dici
dove andiamo?» chiese il
bruno, guardandolo allacciarsi la cinta e mettere in moto.
«A
riprendere le fedi che Gwen ha
dimenticato» rispose, sfrecciando a tutto gas.
«E
perché devo venire anch’io?»
«Perché
noi siamo una coppia» ghignò,
guardandolo con la coda dell’occhio. «Soffro io,
soffri anche tu».
John ne era certo: una
volta finito il matrimonio,
quelle fedi avrebbero tormentato i suoi sogni in eterno.
•
• •
Ore
sei e trentanove.
La
cerimonia era stata perfetta, sin
dal momento in cui due bimbe identiche dai lunghi capelli neri - due
cuginette
di Trent - avevano cosparso la navata con dei petali di rose.
Successivamente,
Gwen aveva fatto il suo ingresso con il padre nel suo splendido abito
da sposa.
Ai piedi dell’altare, il signor Fahlenbock baciò
entrambe le guance della
figlia, sussurrandole delle parole che solo lei percepì, la
passò al
quasi-marito, meraviglioso con quello smoking bianco, e si sedette
vicino a sua
moglie, che guardava la coppia con estremo orgoglio.
Nessun occhio era rimasto asciutto
troppo a lungo.
Tutto era proceduto per il meglio e il
momento cruciale arrivò in fretta.
«Vuoi tu, Trent McCord, prendere come
sposa la qui presente Gwendolyn Fahlenbock?» chiese il
sacerdote, un uomo
bassino con pochi capelli bianchi sulle tempie, il viso solcato da
profonde
rughe e degli occhialini tondi.
«Lo voglio» disse deciso.
Adam, alla sua destra, ammiccò in sua
direzione, alzando un pollice in segno di approvazione.
«E vuoi tu, Gwendolyn Fahlenbock,
prendere come sposo il qui presente Trent McCord?» chiese
nuovamente, stavolta
rivolgendosi alla sposa.
«Lo voglio» rispose lei, al culmine
della felicità.
E tutto si fermò.
Nessuno sull’altare si mosse e la
platea restava a guardare, trattenendo il fiato.
«Ehm, le fedi?» chiese il prete,
sporgendosi verso la coppia.
Trent si voltò prima verso Adam e
Courtney - il primo alzò le spalle, con
un’espressione interrogativa in volto,
e la seconda gli sorrise angelica -, poi verso Gwen, che cercava di
nascondere
il suo rossore e la sua colpevolezza.
«Stanno arrivando» si limitò a
borbottare,
imbarazzata.
«A quanto pare,» disse il parroco alla
platea, «abbiamo avuto un piccolo contrattempo».
Il poveretto non sapeva davvero cosa
fare o dire per mantenere accesa l’attenzione della gente.
Subito nella chiesa cominciarono a
diffondersi mormorii e commenti sussurrati a voce bassa. Tutti si
domandavano
cosa fosse successo per far ritardare la conclusione di quella
splendida
cerimonia.
Courtney, alla sinistra di Gwen, si
sporse verso l’enorme portone in legno, spalancato sulla
strada, alla ricerca
di John e Duncan.
Dove diamine si erano cacciati?
•
• •
Ore
sei e trentanove.
Le
uniche cose che il cervello di
Duncan riusciva ad elaborare erano un’infinità di
bestemmie ed imprecazioni,
una più fantasiosa e creativa dell’altra.
Erano riusciti a recuperare le fedi
senza alcun intoppo ed erano ripartiti alla volta della cattedrale,
quando si
erano ritrovati imbottigliati nel traffico. Come potevano immaginare
che quella
fosse l’ora di punta?
«Certo che anche quel dannato autobus
potrebbe smetterla di fermarsi per far scendere la gente» si
lamentò John,
accennando al mezzo di trasporto che si trovava quattro macchine
davanti a
loro.
Spesso, quando era arrabbiato o
frustrato, cominciava a delirare e se ne usciva con delle frasi prive
di senso.
«Ti senti quando parli?» ringhiò Duncan
roteando gli occhi.
Dopo venti minuti di quella fila assurda,
non sopportava più nulla, figurarsi se riusciva a tollerare
i commenti senza
senso di quell’essere.
«Perdonami, ma non sei l’unica persona
annoiata a morte qui dentro!» sbraitò quello.
«Almeno tu non devi guidare in mezzo ad
un’orda di gente che non conosce nemmeno le regole
basilari».
Poco prima, ad esempio, l’auto davanti
a loro si era fermata ad un semaforo giallo, tramutatosi in rosso forse
solo
dopo un minuto, facendo perdere loro tempo prezioso. Duncan gli
strombazzò,
mentre John si limitò ad insultarlo. Si beccarono un dito
medio e per poco il
secondo dei due non scese dalla macchina per andargliene a dire
quattro. Il
tipo dovette ringraziare che il semaforo diventò verde.
Un altro, invece, non aveva rispettato
uno stop e li aveva tagliato la strada con rapidità;
rischiarono di andargli
addosso. Anche in questa situazione il moro si lasciò andare
in una sonora
strombazzata di clacson, il bruno in epiteti sconvenienti. Almeno
questa volta,
nessuno si sfogò con alcun gesto.
«Ora basta» sentenziò Duncan, svoltando
per una stradina secondaria. «Parcheggiamo qui e andiamo a
piedi» decise,
lasciando la macchina nel primo buco libero che trovò.
«E sai dove si trova la chiesa?»
domandò John, non esattamente convinto da quella proposta.
«Certo, ho già fatto la strada e l’ho
memorizzata» lo rassicurò lui.
«Arriveremo in un secondo».
E anche quella volta non andò come
sperato. Duncan pensava di aver
memorizzato la strada, ma non fu affatto così.
Morale della fiaba, i due vagarono per
le strade a passo veloce per una ventina di minuti, con degli smoking
addosso e
delle fedi dietro, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti. In quei
venti
minuti John, naturalmente, non perse tempo per insultarlo fino alla
morte.
Fortunatamente, prima che potessero collassare, riuscirono a ritrovare
la
cattedrale, per immensa gioia di entrambi.
Varcarono il portone con aria solenne
e, al cenno di una signora vestita in verde, che si era accorta di
loro, un
centinaio di teste si voltarono in loro direzione. Molti si chiesero
chi
fossero e cosa stessero facendo.
«Abbiamo le fedi!» dichiarò John
affannato, alzando la scatoletta di velluto blu come se fosse una coppa
d’oro.
E fu in quell’istante che i presenti tirarono un sospiro di
sollievo.
Camminò a testa alta lungo la navata,
tutti che guardavano verso di lui, sventolando la scatola. Ma, una
volta ai
piedi dell’altare, non si accorse della presenza di una
scalinata e inciampò,
rischiando di andare a battere la testa contro lo spigolo del gradino
più in
alto. Le fedi, invece, volarono dritte in mano a Trent.
Il bruno cercò di non bestemmiare in
quel luogo sacro; si rialzò e prese posto accanto a Duncan,
in un banco della
quarta fila a sinistra, che sghignazzava sommessamente; risolse il
tutto
pestandogli un piede e la soddisfazione di vederlo quasi in lacrime per
il
dolore lo ripagò.
«Direi che possiamo procedere con i
voti nuziali» dichiarò il sacerdote.
«Gwen,» disse Trent guardandola negli
occhi, «sin dal primo momento in cui ti ho vista, ho capito
che eri una ragazza
fantastica, eri troppo per uno come me».
Dal suo labiale, riuscì a decifrare
parole molto simili a «Non devi nemmeno pensarlo».
«E, nonostante tutto, tu hai scelto me,
e io non potrei esserne più felice» aggiunse.
«Ringrazio ogni giorno quel
reality per avermi fatto incontrare la donna migliore di
quest’universo»
E, prendendo la fede dal contenitore,
la fece scivolare lungo l’anulare sinistro di lei.
Gwen aveva un sorriso ebete stampato in
volto e non riusciva a cancellarlo in alcun modo.
«Non sono mai stata brava con le
parole, né ho preparato un discorso» premise,
cercando di darsi un contegno.
«Volevo solo dirti che sono la persona più
fortunata al mondo, perché ti ho al
mio fianco».
E ripeté i medesimi gesti del ragazzo.
Si presero le mani e dai loro occhi si
poteva evincere l’amore incondizionato che provavano
l’uno per l’altra.
«E con il potere conferitomi,» annunciò
solenne il parroco, «io vi dichiaro marito e
moglie».
La folla esplose in un applauso
scrosciante nel momento in cui la loro unione fu ufficializzata. Nelle
prime
file, i parenti più stretti erano tutti in lacrime.
Courtney, che cercava di non scoppiare
a piangere come una bambina, guardava i due con estremo orgoglio e
gioia. Si
sentiva fortunata ad essere la testimone di un matrimonio
così bello e
commovente.
E poi, istintivamente, il suo sguardo
si mosse alla ricerca di Duncan. Anche lui la stava guardando e per un
momento
i loro occhi si incrociarono.
Alla fine della cerimonia, i due
neo-sposini si scambiarono un bacio appassionato sulla gradinata della
chiesa,
mentre venivano investiti da una pioggia di riso di cui Izzy aveva
preso il
comando.
La madre di Trent singhiozzava senza
sosta tra le braccia del marito; i genitori di Gwen non erano mai stati
così
felici.
Bridgette e Geoff e anche Tyler e
Lindsay emulavano gli sposi e pure Alejandro era intenzionato a
ricreare la
scena con Heather, che non sembrava propensa ad acconsentire.
Ci fu il lancio del bouquet. Fu una
cugina di Gwen ad afferrarlo, ma Sierra glielo strappò
letteralmente di mano,
afferrandola per i capelli e spintonandola via con forza, e si
precipitò a
stritolare Cody, il quale si limitò a rabbrividire.
Owen e Dj sembravano due fontane; Eva e
Noah li guardarono scettici.
John se ne stava in disparte, guardando
la scena con un sorrisetto sbilenco. Sul volto di Adam, in piedi
accanto a lui,
scivolò una lacrima solitaria.
E Courtney era al culmine della gioia,
emozionata come se fosse lei la sposa. Duncan la teneva fra le sue
braccia e
lei non opponeva alcun tipo di resistenza.
Il fotografo immortalò questi ed altri
momenti.
Tutto era estremamente perfetto. O
meglio, tutto fu estremamente perfetto fino a quel momento.
Quando Duncan e John andarono a
riprendere la macchina, scoprirono di essersi beccati una multa per
divieto di
sosta. Il primo tirò giù una scarica di Santi dal
cielo; il secondo si limitò
ad apostrofarlo con termini poco gentili, ricordandogli che fosse solo
colpa
sua.
Alla fine raggiunsero un punto fermo e
stabilirono un tacito accordo: Courtney non avrebbe mai dovuto saperlo.
Era una
questione di vita o di morte.
•
• •
Ore
nove e cinquantasette di sera.
La cena
era proceduta tra brindisi,
proposti principalmente da Adam e Geoff, ai due sposi, parole
entusiastiche e
di augurio da parte di molte persone - Harold aveva addirittura
preparato un
discorso di cinque pagine e lo lesse davanti alle espressioni
esasperate dei
presenti; Leshawna si vergognò terribilmente di essere la
sua ragazza - e
romanticherie sdolcinate di ogni genere tra i due piccioncini.
Dopo innumerevoli portate,
tutti in quel ristorante stavano per esplodere. L’unica
persona, impavida, che
continuava ad ingozzarsi, era John: era già la terza volta
che si era alzato
per andare al tavolo dei buffet, per poi tornare con ogni tipo di dolce
esistente.
«Dacci un taglio» ordinò secco Duncan,
tirando il piatto verso di sé. «Sul serio, amico,
ho la nausea solo a
guardarti!»
L’orchestra, stipata dall’altra parte
dell’enorme stanza, finì di suonare un grande
classico e attaccò con una
ballata lenta.
Trent si alzò dalla sua sedia e tese
una mano verso Gwen, che la afferrò esitante. La condusse al
centro della sala,
la afferrò saldamente per la vita e cominciarono a roteare
per la stanza al
ritmo di quelle note. Superato l’imbarazzo iniziale, la
ragazza si lasciò
trasportare da una parte all’altra come se fosse una bambola.
«Sono stomachevoli» si espresse John,
bevendo un lungo sorso di vino.
Per tutta la serata non aveva fatto che
commentare tutto quello zucchero con frasi acide e versi di disgusto.
Courtney evidentemente non la pensava
come lui. Con il mento poggiato sulle mani, osservava con aria sognante
i due
ragazzi danzare, più innamorati che mai. Aveva sempre
desiderato una relazione
come quella, un principe azzurro che la portasse via a bordo del suo
cavallo
bianco.
Qualcuno le picchiettò la spalla e lei
si girò di scatto, con lo sguardo di uno che era stato
risvegliato da un bella
visione.
«Se hai finito di sognare ad occhi
aperti,» le disse Duncan, seduto alla sua destra,
«avevo intenzione di invitarti a
ballare».
«Tu, ballare?» lo derise con una
risatina di scherno. «Non farmi ridere».
«Beh, se tu non vuoi, credo che andrò a
chiedere a qualcun’altra» disse con una scrollata
di spalle, cercando di farla
cedere. «Per esempio, che mi dici della cugina bruna di
Trent? Quella laggiù,
con quei due cocomeri al posto delle tette».
Courtney comprese il suo giochetto
imbecille. Lo afferrò per la giacca e lo trascinò
di peso sulla pista, che
aveva cominciato a riempirsi. Gli gettò le braccia al collo,
mentre sentiva lui
stringerle la vita, e cominciarono a muoversi.
Aveva sempre sognato il principe
azzurro, ma alla fine si era innamorata dell’orco brutto e
cattivo. E lei era
la sua principessa.
Lo osservò, i suoi occhi puntati sui
suoi piedi, ben attento ai passi. Se le avesse schiacciato i piedi come
l’ultima volta, sapeva che le avrebbe tenuto il broncio per
tutta la serata. La
ragazza apprezzava il fatto che ci desse peso e che cercasse di
evitarlo in
ogni modo.
«Hai preso delle lezioni?» scherzò lei,
notando tutta la sua accortezza.
Lui rise e lei si morse un labbro.
Amava la sua risata.
Poi disse, senza riuscire a
controllarsi: «Sono felice che tu sia con me».
E l’istinto la fece muovere verso le
sue labbra. Voleva sugellare quel momento perfetto con un bacio
indimenticabile. Sempre più
vicino…
Prima che potesse solo sfiorargliele,
si accorse che lui si era allontanato di colpo. Perché?
«Scusami» borbottò Duncan e si
allontanò.
Courtney, inizialmente spiazzata, prese
ad inseguirlo e a chiamarlo a voce alta. Quando raggiunse
l’esterno, era troppo
tardi: era già sparito in mezzo al giardino.
Rientrò dentro, i pugni stretti, le
nocche ormai rosse e un insopportabile nodo alla gola. Che motivo lo
aveva
spinto ad allontanarsi? “Scusami”
per
cosa?
Le bruciava la gola e sentiva che
avrebbe potuto cominciare ad urlare da un momento all’altro.
«Courtney» la chiamò Gwen, accorrendo
verso di lei, con un’aria estremamente preoccupata. Aveva
assistito a tutta la
scena e temeva il peggio. «Stai bene?»
«Cos’è successo?» le
domandò Trent, al
seguito della moglie, avendo notato la sua espressione affranta.
Tutte quelle attenzioni la
infastidirono un poco. Non era una bambina, non aveva bisogno di essere
consolata.
«Non è successo nulla, sto alla grande
e so badare a me stessa da sola!» sbottò
acidamente e tutto d’un fiato.
Gwen cercò di trattenerla per il
braccio, ma lei si liberò facilmente e corse via.
Si rifugiò in bagno e si accovacciò
dietro il lavandino, in modo tale che nessuno potesse vederla.
Combatteva
contro le lacrime e cercava di non singhiozzare. Si sentiva
un’idiota.
«Court, lo so che sei lì» disse Gwen,
sul ciglio della porta, notando le sue gambe spuntare da dietro il
lavandino.
«Vattene» sillabò.
Naturalmente non se ne andò. Si
avvicinò, si accovacciò accanto a lei, attenta a
non calpestare la stoffa del
vestito, e le cinse le spalle con un braccio.
«Allora, che ne dici di raccontarmi
tutto dal principio?» le chiese dolcemente.
La bruna prese un respiro profondo e
prese a spiegare dettagliatamente tutto quello che era appena successo.
«E poi mi ha abbandonata sulla pista da
ballo» concluse, tirando su col naso. E solo una volta che
l’ebbe detto, riuscì
a realizzarlo appieno. «Mi ha abbandonata sulla pista da
ballo!» ribadì ad alta
voce.
Gwen la strinse più forte, per paura
che potesse cominciare a piangere da un momento all’altro. Ma
non lo fece.
«Non darci troppo peso» le disse, e la
vide sgranare gli occhi.
«Come faccio a non pensarci?» chiese
Courtney indignata. «Gwen, io lo amo. Lo amo!»
Si tappò la bocca con una mano. L’aveva
davvero detto ad alta voce?
Un conto era ammetterlo a se stessa, un
altro confessarlo davanti a qualcun altro. Era strano, era totalmente
diverso.
Ed era anche così vero e suonava maledettamente bene.
“Lo
amo.”
Gwen la guardò con un enorme sorriso
stampato in volto.
«Finalmente l’hai capito anche tu,
zuccona» quasi esultò.
L’aveva compreso da anni che quei due
erano fatti l’uno per l’altra, eppure loro ci
avevano messo così tanto tempo a
capirlo. Quale problema avevano?
«Lo sapevano tutti!» esclamò ad alta
voce qualcuno fuori dal bagno. Trent, con un sorrisetto stampato sulle
labbra,
aveva origliato l’intera conversazione.
«Ci stai forse spiando?» chiese
beffarda la sua sposa.
«Io? Assolutamente no!» mentì
spudoratamente. Poco dopo lo sentirono allontanarsi.
Scoppiarono entrambe a ridere.
Gwen, la prima a riprendersi, si alzò, riaggiustandosi le
pieghe del lungo
abito.
«Dove stai andando?» chiese Courtney,
vedendola uscire.
«A dirne quattro a Duncan» rispose,
voltando la testa in sua direzione. «Nessuno può
ferire la mia migliore amica
senza vedersela con me».
Le sorrise riconoscente. Le voleva un
mondo di bene.
• •
•
Ore
dieci e trentatré.
Duncan
si era rifugiato in fondo al
giardino, il più possibile lontano da tutti. Dietro di lui,
seduti su una
panchina, una giovane coppia si scambiava effusioni. Lanciò
loro un’occhiata
disgustata, tornando a concentrarsi sulla sua sigaretta e concedendosi
un altro
tiro.
Le immagini di quella giornata si facevano
spazio tra la sua mente: come Courtney l’aveva cacciato
malamente dalla sua
stanza, il bacio che gli aveva scoccato sulla guancia quando aveva
fatto
ripartire l’auto, l’abbraccio fuori dalla chiesa,
quel ballo che le aveva
domandato, le sue labbra sempre più vicine…
E anche quel mezzo bacio da ubriaco che
le aveva dato ieri notte. Adesso riusciva a ricordarlo.
Non sapeva come comportarsi, era
confuso.
«Tu!» strillò qualcuno.
Si voltò e vide Gwen, più infuriata che
mai, camminare a passo rapido verso di lui.
Lo avverrò per le spalle e lo scrollò
per bene.
«Sei uno schifoso pezzo di merda!» lo
accusò ringhiandogli contro.
La rabbia le sfigurava il viso. Non
l’aveva mai vista così.
«Ti prego Gwen, smettila! Così mi fai
arrossire!» esalò con quanto più
sarcasmo poté.
Questo peggiorò la situazione ancora di
più.
«Cosa ti passa per quell’encefalo
sottosviluppato?» gli chiese, con un’altra violenta
scrollata.
«Chiedo scusa, ma non capisco» disse,
cercando di non incrociare troppo a lungo lo sguardo con lei. Temeva
potesse
incenerirlo. «Se potessi spiegarmi…»
«Non fare il finto tonto, Courtney mi
ha raccontato tutto» esclamò.
«L’hai mollata in mezzo alla pista senza
spiegazioni! Ti rendi conto?»
Aprì la bocca, ma lei lo sorprese.
«Non mi interessano le tue
giustificazioni» sbottò. «So solo che
l’hai distrutta, mi basta questo. Ora tu
torni dentro e le chiedi scusa».
Lo spinse con tutta la forza che aveva,
mandandolo a sbattere contro un albero, e si allontanò. Ma
dopo qualche passo
si fermò e tornò a guardarlo, stavolta molto
più tranquilla.
«Lei ti ama» gli confessò con un
sorriso sbilenco. «Non sprecare
quest’occasione».
Le diede le spalle e la sentì rientrare
nel ristorante.
Ora tutto acquisì un nuovo senso. Tutti
quei segnali che gli aveva lanciato, quelle frasi, quelle
occhiate…
Quel
tentativo di baciarlo in mezzo alla sala.
Lei lo
amava, come aveva fatto a non
comprenderlo prima?
E lui aveva mandato tutto a monte per
via del suo senso di colpa e dei suoi sentimenti confusi. Era stato uno
stupido.
Gettò la sigaretta, che si era ormai
spenta, nel posacenere più vicino e si diresse verso
l’interno, non prima di
aver gettato un altro sguardo verso quella coppietta. Erano troppo
impegnati a
succhiarsi la faccia a vicenda per accorgersi di qualunque cosa.
Una volta nel salone si guardò attorno,
cercando di scorgerla tra la massa di invitati che ballava al ritmo di
una
canzone scatenata. Di Courtney nessuna traccia.
«Ehi amico, dove sei stato?»
John, seduto al tavolo da solo e con un
bicchiere di spumante in mano, gli faceva cenno di avvicinarsi.
«Ti sei perso la plateale dichiarazione
d’amore di Alejandro. Non ho mai visto una cosa
così esagerata!»
Il latino era salito sul palco,
interrompendo la musica e facendosi passare il microfono dal cantante.
Aveva
giurato amore eterno ad Heather, riempiendola di parole dolci e
romantiche.
Dopodiché si era avvicinato a lei, si era inginocchiato e
l’aveva pregata di
sposarlo. Alla fine, lei, più innamorata che mai, aveva
accettato e la stanza
era esplosa in applausi e acclamazioni, mentre loro si baciavano
appassionatamente.
«Sì, poi mi racconti» tagliò
corto
Duncan. «Hai visto per caso Courtney?»
Ci pensò un po’ su.
«Da quella parte» concluse, indicando
una porta dall’altra parte della stanza. «Ha detto
che aveva bisogno di
cambiare aria».
Lo ringraziò frettolosamente e si avviò
verso il luogo indicato, ma John lo fermò.
«Duncan» lo chiamò, ed era forse la
prima volta che usava il suo nome, senza aggiungere alcun altro
epiteto. «Vedi
di limonartela per bene, stavolta» si raccomandò.
Era la cosa più carina ed incoraggiante
che gli avesse mai detto. Ne rimase piacevolmente sorpreso.
«Certo, amico» ghignò lui in risposta,
facendogli
l’occhiolino.
Attraversò la porta e si ritrovò a
percorre un lungo corridoio spoglio, su cui si affacciavano altre due
grandi
sale - in entrambe si svolgevano due celebrazioni, un compleanno e una
festa di
laurea - e che terminava con un enorme balconata. Lì fuori,
intenta ad
osservare il cielo, vi era Courtney, i capelli acconciati e la gonna
del
vestito rosso che svolazzavano al vento. Sembrava una visione eterea.
«Principessa» mormorò.
La vide sussultare, segno che lo aveva
riconosciuto.
«Cosa vuoi?» chiese con tono a metà tra
l’acido, l’irritato e l’annoiato.
Si mise affianco a lei, alla sua
destra, appoggiandosi alla ringhiera. Fissò il suo profilo,
regale e perfetto;
eppure il suo viso era così triste e abbattuto.
«Immagino che tu ti sia chiesta perché
me ne sia andato senza dire una parola» disse lui guardando
dritto davanti a sé,
e pensò che non potesse esserci un incipit peggiore di
quello. «Posso
spiegarti».
«Illuminami, idiota» sbottò,
rivolgendogli
una smorfia.
Ma non riuscì a pensare a nulla che
avesse un minimo di senso. Forse non c’era davvero una
giustificazione
adeguata.
Vedendo che non spiccicava parola, lei
ridacchiò, e la sua risata aveva un nonsoché di
amaro e malinconico.
«È così evidente, come ho fatto a non
pensarci prima?» chiese più a se stessa che a lui.
«È imbarazzante,
non è vero? Passare del tempo con me».
«Cosa diamine stai dicendo?» domandò.
«Che io e te proviamo sentimenti
diversi» rispose e poi aggiunse in un mormorio: «E
io stupida che ci ho anche
creduto… Beh, dopotutto eri ubriaco, come poteva essere
vero?»
«Stai straparlando, come al solito» la
avvertì. Alle volte era talmente logorroica che perdeva il
filo del discorso.
«Che ne diresti se provassi a spiegarti?»
Per la prima volta dall’inizio di
quella conversazione Courtney lo fissò. Nei suoi occhi non
si leggeva nulla se
non assoluta indifferenza. Era troppo brava a nascondere ciò
che provava.
Sospirò e distolse lo sguardo,
affacciandosi nuovamente.
«Ieri notte hai detto che hai bisogno
di me» mormorò. «Ma eri ubriaco,
probabilmente farneticavi… e io ci ho creduto
comunque».
Si aspettava che scoppiasse a ridere, o
che la deridesse, o che distruggesse le sue aspettative in qualunque
altro
modo. Ma non fu così.
Duncan le prese il viso tra le mani e
la costrinse a guardarlo negli occhi. Pensò che si sarebbe
opposta in qualche
modo, invece lei rimase immobile.
«La verità è che ho paura» le
confessò,
senza riuscire ad impedire che quelle parole gli uscissero dalla bocca.
«Ho
paura di esternare i miei sentimenti».
E ora che l’aveva finalmente detto,
seppe che era quello il motivo per cui si era tirato indietro.
Aveva passato gli ultimi sei anni della
sua vita a corteggiarla in ogni modo, e lei non aveva fatto una piega.
Ora che
Courtney aveva finalmente ceduto ed era pronta a dichiararsi, lui
l’aveva
rifiutata. Il tutto perché lei aveva preso in mano le redini
di quel gioco
mandandolo in confusione: solitamente, in una relazione, era il ragazzo
a
prendere il comando. Cosa c’era di sbagliato in lui?
Non aveva mai avuto paura di nulla, sin da quando era un fanciullo.
Eppure non
riusciva a dire quelle due semplici e fatidiche parole alla ragazza che
tormentava i suoi sogni da quando aveva sedici anni.
Aveva avuto innumerevoli donne, prima e
dopo di lei. Eppure Courtney era l’unica che gli aveva fatto
provare un
sentimento tanto forte da scombussolarlo. Tanto forte da non riuscire a
confessarglielo.
«È
così idiota» borbottò con voce roca,
spostandole con
il pollice una ciocca, che le ricadeva sulla fronte, dietro
l’orecchio.
«Non lo è» lo
contraddisse. «Io ne ho avuto paura per sei anni».
Duncan cominciò
a ridacchiare sotto i baffi.
«Non ci credo»
disse. «Courtney Barlow che ammette di avere paura di
qualcosa».
«Aver avuto» lo
corresse. «E poi, non
sono io quella che è scappata perché non sa
ammettere i propri sentimenti, se
non da sbronzo».
«Guarda che
posso farlo tranquillamente quando voglio. E senza
ubriacarmi».
«Ebbene,
sorprendimi» lo sfidò con lo sguardo. «Fallo».
La tensione si
era sciolta di colpo. Erano rimasti solo due giovani, inesorabilmente
infatuati
l’uno dell’altra, pronti a scherzare e a
punzecchiarsi a vicenda. Come ai
vecchi tempi, non era cambiato nulla.
E forse fu
quella situazione, molto più familiare di prima, a farlo
lasciare andare e
spingerlo finalmente a parlare.
«Ho bisogno di te»
disse Duncan con voce ferma e decisa.
Courtney gli
rivolse un enorme sorriso.
«Anch’io».
Poggiò le
labbra sulle sue in un bacio casto e leggero. Si allontanò
di colpo, come se si
fosse scottata.
«Mio Dio»
imprecò lui.
«Cosa?» chiese
titubante. Cosa succedeva adesso?
«Non mi
ricordavo che baciassi così male»
ghignò strafottente.
«Davvero? Vuoi scommettere?»
E fu in quel
momento che mandò a farsi benedire la delicatezza. Si
fiondò nuovamente su di
lui, catturandogli le labbra con le sue. Questa volta il bacio era
decisamente
più violento e spinto. Lo baciava con tanta foga da non
farlo respirare.
Portò le mani
dietro la sua nuca, approfondendo il bacio ancora di più,
mentre lui la afferrò
dai fianchi e la spinse ancora più vicina.
E continuarono
a cercarsi, a riscoprirsi fino in fondo. Con le lingue, con le bocche,
con le
mani. Erano stati distanti troppo a lungo.
Aveva
dimenticato come fosse baciarlo, dei brividi lungo la schiena e della
mente
scombussolata e incapace di formulare qualsiasi tipo di ragionamento.
Si
sentiva viva.
Era questo che
desiderava da sempre, pensò sentendo il suo cuore batterle
all’impazzata. Lo
aveva atteso a lungo, bramato con tutta se stessa. E finalmente era
arrivato ed
era anche meglio di quanto potesse mai immaginare.
Si staccarono
per riprendere fiato e si guardarono intensamente. Fu in quel momento
che capì
che avrebbe voluto Duncan al suo fianco per tutto il resto della sua
vita. Ne
aveva davvero bisogno.
«Stanotte non
mi scappi» sussurrò lui con malizia, prima di
rituffarsi ancora e ancora su
quelle labbra.
E Courtney ne
era certa, non sarebbe andata da nessuna parte. Mai più.
Angolo
dell’autrice
E siamo arrivati
alla fine di questo lungo viaggio.
Un’altra
storia
archiviata, sembra ieri che la iniziavo. Non potete capire quanto tutto
ciò mi
renda triste.
Voglio
ringraziarvi, perché siete stati una piccola ed importante
parte di questo
progetto.
Grazie a Blacklu e Ale del trio Ale_Marti_Ola
per aver recensito tutti i capitoli - o quasi.
Grazie a Madness17 per aver recensito il primo
capitolo e a Valedxclove per aver
recensito i primi due. Spero che abbiate continuato a seguire la
storia, sebbene non vi siate più fatte sentire.
Grazie a mia
cugina Porpora_, che ha recensito
tutti i capitoli dal quarto in poi, che è stata anche lei
ideatrice di questo
progetto, in quella giornata di luglio di tre anni fa. Senza di lei,
probabilmente “La Storia Inversa” non sarebbe mai
esistita.
Grazie a mia
sorella, che ha recensito solo il terzo capitolo ma che ha seguito
tutto il
processo creativo della serie, dall’inizio alla fine.
È una delle mie lettrici
più affezionate.
Grazie a tutti
i lettori silenziosi, in particolar modo a chi mi segue da davvero
tantissimo
tempo ma che non mi ha mai recensito. So che siete lì, siete
fantastici.
Grazie a chi ha
messo la storia tra preferiti, seguiti o ricordati.
E grazie anche
a chi ha seguito il prequel. Non vi cito perché siete
davvero tanti e molti di
voi probabilmente sono spariti, ma sappiate che vi adoro, ovunque voi
siate.
Grazie a tutti
voi, vi voglio un mondo di bene!
Davvero, non so
cos’altro dire.
Spero che le
avventure di questi pazzoidi vi abbiano fatto divertire e vi abbiano
strappato
una risata. E spero anche che sia riuscita a sciogliervi un
po’ nei momenti romantici.
Non sarà la
fine de “La Storia Inversa”.
C’è la possibilità che io pubblichi
delle missing
moments, dei piccoli aneddoti sulla fan fiction originale
però non trattati in
questa, oppure un epilogo conclusivo - anche se, mi piace lasciare i
finali in
sospeso. Nel frattempo, mi concentrerò su altri progetti.
Grazie ancora
per il vostro sostegno.
Ci vediamo
presto, un abbraccio a tutti!
Hayle xx
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