What happens in Vegas....stays in Vegas

di Merryweather616
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La folie de Vegas ***
Capitolo 2: *** 'Till death do us part ***
Capitolo 3: *** You do? ***



Capitolo 1
*** La folie de Vegas ***


Era nata come una one-shot, un delirio mentale avuto durante una lezione di francese. Poi è diventata una 4-shot, poi improvvisamente invece di aver scritto una sacchetto di demenza, mi sono resa conto che forse era spuntata fuori una cosa carina, senza senso, ma carina. Questo grazie a:

-Mr. Johnny Cash, che con le sue canzoni ha ispirato le 20 pagine della storia e che è un mito infinito. E la sua storia d’amore con June mi ispira ogni giorno di più

- A D e S, che l’hanno letta e non mi hanno sputato in faccia, anzi, si sono affezionate e i loro complimenti mi hanno convinta a postarla xD (ragazze siete ancora in tempo per dirmi la verità LOL)

 

 

What happens in Vegas, stays in Vegas

 

 

Valigia.

Portatile.

Bagaglio a mano.

Cellulare.

C’era tutto.

Fissai il letto bianco, coperto da un soffice e decisamente invitante piumone, mi lasciai accarezzare dalla fresca aria condizionata, paradisiaca nell’afa del Nevada, guardai in basso verso la piscina dell’hotel.

Un tuffo non mi avrebbe di certo ucciso.

E invece sì.

Avevo un’ora. Una preziosissima ora, durante la quale dovevo: farmi una doccia, controllare la posta elettronica, preparare almeno dieci domande da fare a uno dei cantanti più strani e lunatici di cui fossi a conoscenza, cercare di darmi un tono.

Questo accadeva quando il responsabile della musica rock decideva di andare in luna di miele a farsi coccolare alle Hawaii e la country rep, che sarei io, doveva inventarsi un’intervista a un completo sconosciuto, in realtà sapevo bene chi era, ma conoscerlo bene a livello musicale era tutta un’altra storia, e fare la solita banale intervista era così triste. Ma a qualcuno toccava farlo e non è che il capo mi avesse lasciato così tanta scelta.

“Andy, ecco i biglietti. Ci vediamo lunedì mattina”.

Queste erano state le mie opzioni, tantissime no?

Non avevo nemmeno voglia di replicare, avrei potuto intervistarlo al telefono, aspettare che la tournee arrivare a New York, o mandargli un piccione viaggiatore. No, Lon era stato categorico, io, me e me stessa dovevamo andare a Las Vegas.

Disgustorama disgustomatico.

Così avevo detto addio ai cupcakes della 27th strada, salutato il mio impianto stereo da triliardi di watt e avevo fatto armi e bagagli pronta ad una settimana nel caldo del Nevada. Un giorno per l’intervista, il resto “potevo prendermelo come ferie, ero tanto stanca”. Dovevo controllare di nuovo i biglietti aerei e scoprire un modo più o meno legale di cambiarli e tornarmene nella grande mela il prima che potevo.

Dieci domande. Come minimo. Cosa diamine potevo chiedergli? Di lui sapevo tre cose.

Il suo nome. Piuttosto singolare tra l’altro.

Il nome della sua band. Facile, non c’è che dire.

La forma del simbolo che aveva inventato e che avevo spesso visto tatuato. Ne ero molto affascinata. Magari in un'altra vita gli avrei fatto la domanda, ma ora come ora sarei stata solo la milionesima giornalista a chiederlo, e io, annoiare un povero cristo che deve stare per contratto a rispondermi, decisamente,  non era nelle mie corde.

Avrei dovuto fare la diplomatica, altro che giornalista, ero decisamente troppo buona.

Aprii il plico lasciatomi da quel traditore di Jack, se lo conoscevo bene ci aveva messo dentro una foto di qualche donna nuda e scritto sopra “buon pesce d’aprile”, ma tanto valeva provare.

C’erano poche righe scritte in una calligrafia netta.

 

Attenta, ammaliatore professionista.

Fuma come un turco.

Sarcasmo che traspira come cioccolato al sole dentro la tasca di una giacca.

Non ho ancora capito se si contraddice o se spara cazzate, se lo scopri fammi un fischio.

 

Enjoy Vegas Hon.

 

“Molto, molto utile Jack. Ora sì che sono a posto” mormorai tra me e me, decisamente sconsolata. Accesi Frost, il mio portatilino color ghiaccio e fissai depressa la schermata bianca di word. Su, su idee arrivate, siete sempre le benvenute lo sapete. Tentai con la respirazione, lo yoga (trenta secondi non di più), una barretta Mars, una sigaretta. Niente, la mia intelligenza aveva fatto i bagagli e se ne era tornata a New York senza di me.

Datemi una lametta che mi taglio le vene.

4.48.

Alle cinque dovevo essere nella lobby.

Time out. Dovevo scrivere qualsiasi cosa e catapultarmi giù. Presi una vecchia intervista standard dal mio archivio, la sistemai, segnai i punti fondamentali su un taccuino e quasi uccidendo qualcuno scesi nell’enorme lobby dell’hotel.

 

Cinque minuti dopo io, Andrea Donovan, ero seduta davanti a Ville Valo, cantante degli HIM. Lui non conosceva me, tanto quanto io non conoscevo lui. Ottimo inizio.

“Vado a prendermi una soda, vuoi qualcosa?”

Fu le prime parole che mi disse. Perlomeno era amichevole, tirai un sospiro di sollievo. Odiavo lavorare con star che si credevano padrone del mondo intero.

“Sono a posto così, grazie mille”

Appoggiai le mani sul candido tavolino di una saletta privata dove si sarebbe svolta l’intervista e iniziai a tamburellare. Senza neanche accorgemene il mio tamburellio seguiva il ritmo di una delle canzoni della mia adolescenza, la canzone che mi aveva fatto desiderare di fare il lavoro che ora facevo.

 

But it ain't me babe
No, no, no, it ain't me babe
It ain't me you're lookin' for, babe

 

“Johnny Cash, uh?”

Ville era tornado con una coca cola in mano e un sorriso sornione in faccia.

Ammaliatore, decisamente. Jack – Andy 1 a 0

“Proprio lui” dissi portandomi la mano in grembo smettendo di mugugnare la canzone.

“Ti piace il country?” mi chiese.

Dovevo fargliela io l’intervista, diamine.

“Ci lavoro, sono la responsabile di questo genere per il giornale dove lavoro”.

“Wow” rispose ridendo. “E io che pensavo che fossi Jack, ormai la chirurgia plastica ha fatto miracoli, sai com’è.”

Una strana risata roca gli uscì dal petto riempiendo l’ambiente e gli si illuminarono gli occhi.

“Simpatico” borbottai. “Adesso basta smancerie, facciamo quest’intervista così ce la togliamo dalle palle, che dici?”

“Agli ordini, capo!” si mise sardonicamente una mano vicino alla fronte in una parodia mal riuscita di un saluto militare. Riuscì a strapparmi un sorriso. Stavo perdendo su tutta la linea.

Tirai un sospiro profondo e partii con la prima domanda.

“Le tue canzoni sono piene di amori spezzati e dolori di cuore, cosa c’è della tua vita amorosa in loro?”

Mi facevo schifo da sola e facevo schifo anche a lui, giudicando la faccia.

“Tutto qui?” chiese iniziando di nuovo a ridere.

Se avessi potuto ringhiare l’avrei fatto.

“Sono un’esperta di country, arrivata per caso qui a fare l’intervista a un cantante che fa un genere unico al mondo, senza sapere nulla di te tranne due cose, non pretendere troppo da me.”

“Almeno sei onesta” disse sfiorandomi la mano.

No, fermo lì brivido. Non hai il permesso di passare per la mia schiena, non siamo in una storia di Maeve Binchy, quindi puoi tornare lì alla simpatica terminazione nervosa che ti ha creato. Grazie mille.

“Facciamo così, ti mando per email la vera intervista, appena il mio collega torna dalla luna di miele, ok?”

Sembrò approvare l’idea, ma non dava cenni di volersi alzare e andarsene.

“E ora che si fa?”

“Ognuno per la sua strada” tentai.

“Ho un’ora libera, intrattienimi”.

Detto questo si sedette comodo sulla poltroncina fissandomi, c’era da dire che incrociava le braccia nella maniera più sexy che avessi visto, se non si fosse trattato di lavoro ci avrei davvero fatto un pensierino.

Come potevo intrattenerlo?

Lapdance?

Karaoke?

“Giochiamo?” chiesi tentennante.

“Ci sto, a cosa? Poker? Roulette?”

“Ho un’idea” dissi. Questa volta toccava a me sogghignare, forse potevo trarre da questa intervista qualcosa di decisamente innovativo. Feci mente locale cercando di ricordarmi un giochino che facevano al liceo, soprattutto alle feste, un po’ per passare il tempo, un po’ perché se ne uscivano sempre dei gran casini.

Una volta ricordato lo stile del gioco e le fatidiche due domande finali, iniziai. Tutto stava nel ritmo del gioco, perderlo significava la sconfitta.

“Ora dirò una parola, rispondi con la prima cosa che ti viene in mente, se ci pensi non vale” dissi categorica.

“Ok!”

Sembrava incuriosito da questo repentino cambiamento di programma.

Ok, si inizia.

“Nero”

“Protezione”

“Dolore”

“Vita”

“Sigarette”

“Necessarie”

“Libri”

Passione”

“Noia”

“Ci tocca”

“Politica”

“Inutile”

“Bush”

“Il demonio

Non devi fermarti, gridavo a me stessa. Ma ero sempre più incantata.

“Amore”

“A trovarlo”

 

“Mi ami?”

Ecco la prima. Trabocchetto. Dopo la raffica, se fatta bene, la persona era incapace di mentire.

“Potrei”

Dovevo fare l’ultima, poi avrei potuto far cadere la mascella che si era già staccata sentendo la sua risposta.

“Vuoi sposarmi?”

“Perché no?”.

 

Ora potevo ufficialmente dire di essere sconvolta. Lo fissai a lungo negli occhi, era illeggibile, e dire che ero brava a capire quando qualcuno mi stava prendendo in giro.

“L’avevi già fatto, vero?” chiesi.

Annuì non smettendo di ridere. Mi fissava e io, dura e pragmatica gli sorridevo di rimando come un’oca giuliva.

“Però ho risposto sinceramente” aggiunse tirando su le gambe e incrociandole sulla poltroncina. Aveva un che di una riccio che cerca protezione, un riccio molto sexy.

“Bastardo” digrignai tra i denti.

“Vero” rispose come se stessimo ancora giocando, poi si alzò di scatto, mi prese la mano e mi trascinò verso la lobby.

“Dove andiamo?”

“What happens in Vegas, stays in Vegas”

Fu l’unica, sibillina risposta che ricevetti prima di essere trascinata nel peggior incubo di tutta la mia vita. O forse il più bello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** 'Till death do us part ***


Till death do us part

 

Notte profonda, seppellita sotto un piumone, senso di completezza col mondo.

Nuda.

Nuda?

Perché ero nuda, sotto un piumone e sentivo un senso di completezza col mondo?

Venni improvvisamente colpita dall’idea di aver fatto la più grande, enorme cazzata della mia intera vita, e di essermi anche divertita nel mentre. Cercai di diradare le nebbie del sonno per arrivare a capire cosa diamine avevo combinato nelle ultime 12 ore.

Ma prima che potessi farlo sentii un respiro costante dietro il mio, un corpo che premeva contro la mia schiena e un braccio tatuato che penzolava sul mio fianco. Istintivamente mi strinsi di più contro quel corpo, mentre la mia mente lottava con la memoria, il mio corpo sembrava attratto da un’invisibile calamita. Traditore.

Poi un bacio, un dolcissimo bacio sulla base del collo.

E mi ricordai tutto.

 

“Siamo a Las Vegas, facciamo cosa si fa a Vegas” mi disse Ville mentre ridendo come un matto mi trascinava verso lo shop dell’hotel.

“Andiamo a vedere il Cirque Du Soleil?” proposi, non capendo assolutamente dove voleva arrivare.

“Tenta di nuovo” rispose mentre rovistava tra i vestiti esposti.

“Tributo a Sinatra?”

“Magari dopo”

“Poker?”

“No”.

Non capivo, assolutamente non capivo. Cosa si fa a Vegas, mi chiesi.

E improvvisamente l’illuminazione. Quell’uomo era decisamente un pazzo, un folle da rinchiudere. Bello, ma pazzo.

“Alt. Fermo lì. Dimmi che non vuoi fare quello che sto pensando, ti prego DIMMELO” lo intimai senza essere troppo gentile.

Se la sua risata avesse potuto parlare sarebbe stata una sorta di ghghgh.

Prima di urlargli contro vari insulti lo guardai bene.

Pantaloni neri aderenti, ma non troppo, quello che bastava per farmi desiderare ardentemente di toglierli. Camicia nera aperta, glabro, non cerettato. Glabro naturale, come dire scotch a doppio malto ad un alcolista, per me. Enormi occhi verdi luminosi come due fari, capelli boccolosi che incorniciavano la faccia. Alto. Gli arrivavo all’altezza del collo. E dannatamente, maledettamente secco.

Tutto questo però non bastava di certo a convincermi a sposarlo. Io, cinicamente sposata col mio lavoro, che non avevo relazioni durature, non potevo gettare la spugna così.

“Ma non ci conosciamo, te ne rendi conto?”

“E’ questo il bello” disse, poi mi porse la mano destra “piacere, Ville Hermanni Valo, nato a Helsinki, Finlandia, il 22 novembre del 78, ex-alcolista, annoiato, troppo romantico, musicista, bugiardo”.

Lo fissai mentre mi raccontava chi era, sempre sorridendo, sempre convinto di procedere con questa follia. A Vegas, si sa, nessuno prende niente sul serio.

Decisi che per una volta, potevo farlo anche io.

“Piacere, Andrea Donovan, giornalista, cinica, pragmatica, frustata, annoiata”.

E poi.

Poi.

Mi lasciai prendere la mano, mi lasciai trovare un vestito nero che mi andasse bene, mi lasciai portare dentro una di quelle cappelle dove ti sposa un sosia di Elvis.

E poi lo dissi: “Lo voglio” al ritmo di Can’t help falling in love with you, la sua voce roca che si mischiava a quella del Re. Pensavo che in quel momento il peso della grandissima idiozia che stavo facendo mi sarebbe caduto addosso, e invece ridevo, ridevo come una matta. Non mi divertivo così da anni. E davanti a me, c’era uno sconosciuto, ma ormai era andata. Le spese del divorzio mi sarebbero costate i pochi risparmi che avevo, ma me la sarei goduta finchè durava.

Isn’t that what life is about?

Per il poco tempo che la nostra pazzia sarebbe durata, lui sarebbe stato mio e tanto valeva approfittarne. Avevo un bel principe ai miei piedi e non sfruttarlo sarebbe stato peccato mortale.

“Baciami, idiota” gli dissi mentre continuava a guardarmi, incredulo anche lui di essere andato a fondo in questo delirio. Lo presi per i morbidi capelli e lo avvicinai al mio volto.

“Ai suoi ordini, Mrs. Valo”.

Ugh” suonava davvero strano, ma non ebbi il tempo di pensare al suono del mio nuovo cognome che mi ritrovai stretta tra le sue braccia magre, con le labbra, tutt’altro che scheletriche posate sulle mie e la lingua, avida e veloce, in cerca della mia.

Non so come ma arrivammo alla sua stanza d’albergo, il mio cellulare squillava, il suo squillava. Potevamo continuare a farlo, avevamo di meglio da fare.

Dimenticando cos’era la grazia e la dolcezza lo spogliai dai vari strati di vestiti che aveva indosso. Un fisico da angelo, ecco cosa mi ritrovai davanti quando tutta la stoffa in eccesso si trovava sul pavimento. Bianco come la neve, lineare, sottile, fragile. E i tatuaggi, rimasi incantata almeno dieci minuti a studiarli, toccarli e sfiorarli.

Mi piaceva sempre di più essere sposata.

“Ne ho uno anche io, sai?” annunciai fiera.

“Ah sì?” chiese sorpreso “una rosellina sulla spalla?”.

“Tenta di nuovo” risi mentre mi sfilavo la maglietta, e girandomi per mostrargli il mio capolavoro, un pezzo d’arte che risiedeva sulla mia schiena.

“Wow” non mormorò altro. Si limito ad avvicinarsi con mani ghiacciate, intento a seguire le linee del labirinto disegnato sulla mie pelle, un intreccio di rovi, morbidissimi e bellissimi rovi a protezione del mio angelo personale. Un tatuaggio nero che copriva tutta la mia schiena, per intero. Uno solo che valeva per dieci.

“E’ semplicemente stupendo” disse in un sol respiro.

“E assomiglia maledettamente al tuo” aggiunsi, voltandomi quel che bastava per osservare il suo braccio sinistro.

“Casi del destino” osservò.

Eravamo nudi, uno di fronte all’altro. Le mani avide toccavano e scoprivano. Ma le parole continuavano a scorrere, parlare e poi raccontarsi e parlare di nuovo. Ci stavamo narrando le nostre vite mentre i corpi facevano conoscenza, ma le mani si stancarono, le voci no. Seduti a gambe incrociate sul letto, stranamente privi di pudore l’uno con l’altro, chiacchierammo tutta la notte.

Scoprii che era decisamente troppo lunatico per i miei gusti. Che non si contraddiceva, sparava cazzate. Ci provò anche con me, fu messo a tacere da un pizzicotto che avrebbe fatto illividire un Cullen. Che era tremendamente romantico, e credeva nell’amore eterno. Non è che me lo disse, ma diciamo che mentre io lo guardavo con interesse e lussuria, lui mi guardava come un pesce lesso che aveva appena visto la madonna dei pesci crudi, e la cosa mi piaceva parecchio, se devo ammetterlo. Che aveva una mente contorta e strana, era talmente sulle nuvole che forse potevamo quasi quasi andare d’accordo. Io, con i piedi nel cemento, e lui in cielo, tra angioletti col kajal.

Quasi.

E poi mentre gli raccontavo di come avevo lasciato l’ultimo uomo che aveva confessato di amarmi, stretta tra le braccia di quell’uomo sconosciuto eppure stranamente noto al mio cuore, mi addormentai.  Non pensai che mi ero sposata, che il giorno dopo mi sarei data della pazza, che era un sogno. Pensai che ,forse, la vita a volte ti fa strani regali. Quel pensiero mi accompagnò finché mi addormentai, feci in tempo a dirgli addio, perché non l’avrei rivisto per molto tempo.

 

 

Tirai su la mano, vidi un enorme anello d’argento sul mio anulare sinistro, una fascia che arrivava quasi fino al primo metacarpo, avvolgendolo. Mr. Valo non aveva voluto usare una delle fascette simil-oro che forniva la cappella, si era semplicemente sfilato uno dei suoi anelli e l’aveva messo al mio dito.

Un uomo d’oro.

Ma prima che finissi di apprezzarlo, un’altra idea attraversò la mia mente.

Cazzo.

Sono sposata.

Con uno sconosciuto.

“Svegliati, maledetto” gli dissi scuotendolo per farlo svegliare.

Grugnì girandosi dall’altra parte, istintivamente trascinandomi con lui.

“Lasciami, bastardo!” continuai.

“Che succedde, honey?” borbottò ancora addormentato.

“Mi hai sposato, lurido imbecille”.

La sua risata roca riempì la stanza, si ributtò sul letto facendomi distendere lungo il suo corpo e iniziò a ronfare.

“E per di più non abbiamo nemmeno consumato”.

Aiuto.

 

 

 

 

Un ringraziamento infinito a S e Mossi che si sono anche la briga di commentare il mio delirio!

I owe you big time, angelzz

 

Ps: HELLLLLLLDOOOOOOOOONE *_____* -46

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Capitolo 3
*** You do? ***


You do?

 

 

 

La mattina arrivò troppo velocemente, sebbene avessi passato il resto della notte a fissare il soffitto inquieta, stare lì al calduccio mi piaceva. Al buio della stanza, in silenzio potevo ancora fare finta che fosse uno strano sogno, che non mi ero davvero sposata con una rockstar finlandese, che il ragazzo accanto a me, che mi stringeva contro di lui, fosse una persona qualunque, conosciuta per caso e per caso condiviso una notte di passioni.

E invece no.

Era un bellissimo e pallido angelo, che veniva da una remota parte dell’Europa, che avevo anche difficoltà a rintracciare sulla cartina geografica, e faceva per qualche strano scherzo del fato, parte della mia vita.

Nei film, i matrimoni a Vegas prendono in considerazione tutta la parte romantica, i sospiri, il divertimento nello sposare uno sconosciuto. Ma poi finisce lì. Dopo arriva la mattina e non si è più indipendenti, bisogna avvisare amici e parenti, trovare i soldi per l’avvocato o cercare in qualche modo di costruire una vita insieme.

E’ difficile, dannatamente disperatamente difficile.

E io già sguazzavo allegramente nelle seghe mentali.

Cosa dovevo fare ora?

Dovevo chiamare mia madre. Almeno lei povera donna, le sarebbe preso un infarto. Era una lesbica convinta, democratica e contro il matrimonio. L’avrei uccisa.

E poi chiamare in ufficio, sicuro volevano sapere com’era andata l’intervista. Cosa gli dovevo dire? Ho sposato l’intervistato. Anzi, mi sono fatta convincere a farlo.

E ora. Lui aveva il suo tour, io il mio lavoro. Inconciliabili. Io vivevo a New York e andarmene era fuori questione. Lui girava il mondo a suonare. Zero futuro.

Però. C’era un però. Stare lì tra quelle braccia magre, guardarlo dormire…era così dannatamente invitante.Non sapevo chi era. Ma volevo, anzi, speravo di avere una vita per conoscerlo, per innamorarmi di lui. Avevamo iniziato al contrario, ma il cuore mi diceva, che, forse questo per me era l’unico modo di legarmi a qualcuno. La logica urlava di dolore per lo sgarbo che le stavo facendo, ma il cuore batteva forse, giocando a bowling con la ragione. E facendo strike.

 

“Svegliati” tentai, togliendo tutte le coperte e lasciandolo nudo. Argh. Difficile resistere, ma dovevo farlo. Prima parlavamo, poi potevamo permetterci di passare a cose più divertenti.

“Che c’è?” chiese stiracchiandosi e cercando i boxer sparsi da qualche parte sul letto.

“Dobbiamo parlare” dissi solenne. Incrociando le gambe e le braccia.”E non sento scuse!”.

Sorridendo si mise sull’attenti, pronto ad ascoltarmi, anche qualcos’altro si stava mettendo sull’attenti, ma cercai di non farci caso.

“Che si fa ora?”

Pensieroso frugò nella sua giacca buttata per terra, ne tirò fuori una sigaretta, l’accese e ma la porse, poi fece lo stesso per lui.

“Ci serviranno” disse.

Stupita. Ero stupita. Come faceva a sapere che necessitavo urgentemente di una sigaretta? Era disumano.

“Allora. Ormai la pazzia l’abbiamo fatta”

Grugnii. Ci voleva un genio per capirlo. Capra, che non era altro.

“Io sarei per provarci, che ne dici?”

Tutto qui?

Provarci.

E tutti gli altri problemi dove li mettiamo? Non siamo nel paese dei balocchi, dissi a me stessa. In realtà non avevo la forza di parlare, la mia parlantina aveva collassato, insieme al mio cuore. Non volevo ammettere che un po’ ci speravo che avesse risposto così. Forse bastavo io a farmi i problemi. Se lui la faceva semplice, e io mi complicavo la vita, magari non sarebbe poi finita così male.

Drin drin.

I nostri cellulari squillarono insieme.

Era Lon. Dannazione.

“Si, si, Lon tutto bene. L’intervista, fantastica, te la mando appena posso.”

Come se ci stesse credendo. Mi chiese senza troppa gentilezza cosa avessi combinato.

“Ehm, niente di che. Mi sono solo sposata. Sai com’è Vegas…un bel ragazzo.”

Inizio a ridere come un’idiota.

“Bella questa Andy, hai sempre avuto una fantasia meravigliosa. Beh, quando ce l’hai pronta mandamela, ci vediamo quando torni.”

Ecco cosa succedeva quando facevi cose pazze, la gente non ci credeva. Sarebbe stato con tutti così, me lo sentivo.

“Babe?” La voce di Ville mi distolse dalle mie urla silenziose.

“Sì?”

“Io stasera ho il concerto, vuoi il pass?” mi chiese sovrappensiero.

“Solo se mi ci fai scrivere sopra Andrea Valo” risposi ridendo. Mi avvicinai e istintivamente gli spostai un boccolo dalla faccia.

“Ovviamente, che altro volevi scriverci?” disse prendendomi il polso, in un gesto possessivo. “Devo annunciarlo ai quattro venti che finalmente anche io mi sono sposato. Ah ah. E con una bella vipera di New York, cinica e antipatica. Era anche ora.”

Mi strinse contro il petto, la sua stranissima risata risuonava nella cassa toracica, scuotendomi. Era contagiosa. Iniziai a ridere anche io.

“Siamo senza speranza lo sai?” gli dissi strusciandomi contro di lui.

“Ce la faremo, mia signora” rispose, mi baciò la fronte. “Abbiamo una vita per conoscerci e tanto tanto sesso da fare. Non avrai pensato spero che non volessi riscuotere i miei diritti di marito vero?”.

“Non attendo altro, mio signore”.

Mi fissò un attimo. Poi controllo qualcosa sul piccolo cellulare che teneva in mano.

“Ah, hanno finito”.

“Finito cosa?”

“Di portare le tue valigie qui!”

Iniziai a ridere di nuovo. Senza speranze, decisamente senza speranze. Soprattutto se ogni minuto che passava mi convincevo, che forse, ma solo forse, la mia cazzata si stava rivelando la più grande figata della mia intera vita.

“Finito a Vegas me ne torno a casa prima di iniziare a registrare il nuovo album.” Disse, buttandola lì con nonchalance.

New York, pensai. Avevo tutto lì. Helsinki, non sapevo nemmeno dove fosse.

“Pensi alla tua città, eh?” mi chiese.

Annuii silenziosa.

“Io…” iniziò. “Ho passato un brutto periodo, molto brutto. Tornare nella mia città mi ha ridato vita. E’ un posto strano, misterioso e gentile. Si fanno cose normali, la vita è tranquilla. La mia famiglia è lì.”. Una lacrima, al pensiero di casa sua, gli sfiorò il volto.

Non mi stava narrando di Helsinki, la sua era una dichiarazione d’amore.

“Mi stai subdolamente cercando di convincere a venire con te a Helsinki?” chiesi.

“Uno sfrutta le carte che ha” rise.

“Ci devo pensare. Devo pensare a tutto” risposi. “New York no eh?” aggiunsi, con un briciolo di speranza.

“Ehm”

“Come non detto!”

Mi avvicinai e lo baciai. “Sei un pezzo di merda lo sai vero? Se riuscirai a convincermi a venire lì, pretendo ore di adorazione della mia persona, intesi?”

Vidi una luce di speranza brillare nei suoi occhi. Era bello a volte far felice qualcuno.

“Adesso andiamo a goderci un po’ Vegas!”

“In realtà volevo presentarti ai ragazzi” disse raggomitolandosi su una poltroncina e accendendosi un’altra sigaretta.

“Ai ragazzi?”

“Si, alla band. Saranno entusiasti di te.”

Si, come no. Sparane un'altra mio bel pinguino della Scandinavia.

 

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