La città degli Dei 3- la linea di sangue di SagaFrirry (/viewuser.php?uid=819857)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I- il figlio dei morti ***
Capitolo 2: *** II- senza vita ***
Capitolo 3: *** III- follia ***
Capitolo 4: *** IV- incontro ***
Capitolo 5: *** V- scacchi ***
Capitolo 6: *** VI- nuova famiglia ***
Capitolo 7: *** VII- colpe ***
Capitolo 8: *** VIII- maestri ed allievi ***
Capitolo 9: *** IX- Nesidey ***
Capitolo 10: *** X- ruoli perduti ***
Capitolo 11: *** XI- maturità ***
Capitolo 12: *** XII- sigillo d'amore ***
Capitolo 13: *** XIII- verde e nero ***
Capitolo 14: *** XIV- falci ed alleanze ***
Capitolo 15: *** XV- intrusione ***
Capitolo 16: *** XVI- la forza delle parole ***
Capitolo 17: *** XVII- evocazione ***
Capitolo 18: *** XVIII- l'ultimo petalo ***
Capitolo 19: *** XIX- Crocus ***
Capitolo 20: *** XX-legami d'acciaio ***
Capitolo 21: *** XXI- giudici e giudizi ***
Capitolo 22: *** XXII- pause, proposte e prediche ***
Capitolo 23: *** XXIII- testimone ***
Capitolo 24: *** XXIV- prigionia ***
Capitolo 25: *** XXV- alleanza d'elementi ***
Capitolo 26: *** XXVI- verità ***
Capitolo 27: *** XXVII- cambio di forma ***
Capitolo 28: *** XXVIII- lacrime d'inchiostro ***
Capitolo 29: *** XXIX- Ragnarok ***
Capitolo 30: *** XXX- psicostasia ***
Capitolo 31: *** XXXI- crepuscolo ***
Capitolo 32: *** XXXII- Ouroboros ***
Capitolo 1 *** I- il figlio dei morti ***
DOVE
ERAVAMO RIMASTI?
Kasday, dopo essere divenuto una
delle divinità Alte, cade
in uno stato di follia e depressione da cui pare non possa e non voglia
uscire.
Momoia, madre degli Alti, lo considera una sua proprietà e,
di conseguenza, lo
maltratta e lo deride, soprattutto in seguito alla relazione fra Kasday
e la sua
unica figlia nata per amore, poi portata al suicidio. La madre, resosi
conto
che il numero degli Alti sta calando, vorrebbe combinare
l’unione fra Kasday e
Raido, Signore del Cielo, ma Kasday, turbato dall’abbandono
per paura di
Vereheveil e disperato per la separazione da tutto ciò che
amava, rifiuta di
unirsi a Raido, provocando l’ira sempre più viva
di Momoia. Nel frattempo gli
Alti incominciano una guerra con i Celesti, creature viventi in un
universo
parallelo ed a loro corrispondenti. Entrambe le fazioni, rendendosi
conto di
non potersi sconfiggere a vicenda, decidono di chiedere aiuto ai loro
sottoposti, Dèi ed esseri magici. Questi, però,
spaventati da un conflitto
catastrofico, date le forze degli opponenti, si mostrano titubanti e
poco
propensi a collaborare. Momoia perciò decide di unire ai
suoi eserciti
Luciherus, facendolo divenire Dio della Forza e del Coraggio. Lo
incontrerà in
una spiaggia su cui il Principe tentava invano di scacciare i pensieri
che lo
rendevano infelice. Si era, infatti, reso conto solo ora, con la sua
lontananza, di quanto fosse legato a Kasday. Con la promessa che,
divenuto un
Dio, lo avrebbe rincontrato di nuovo, e con la prospettiva di nuovo
potere,
Luciherus accetta di divenire un Dio con grande sconcerto delle altre
divinità,
specie Vereheveil, che lo ritengono troppo impulsivo ed irascibile. I
due,
Vereheveil Dio delle Letterature e Luciherus, si odiano profondamente e
si
scontreranno spesso nel corso della storia, incolpandosi a vicenda per
l’accaduto passato e per il destino di Kasday. La guerra con
i Celesti non si
svolge come Momoia aveva previsto. Si rende subito conto, infatti, che
entrambe
le parti stanno perdendo membri senza rinascere, come invece accadeva
solitamente. Confusa da questa nuova situazione, sfoga la sua rabbia su
Kasday,
che si rifiuta di combattere, e sulle divinità minori, che
costringe ad andare
ad una guerra da cui sa che non potrebbero far ritorno. La Dea della
Guerra,
consapevole del fatto che il patto fra il figlio Kasday e gli Alti non
è più
valido perché i nuovi Kaos e Destino sono cresciuti, esprime
il desiderio di
rivederlo e chiede aiuto a Luciherus, che è ora una
divinità potente.
Vereheveil sconsiglia alla Dea di farsi accompagnare da un individuo
simile
perché pericoloso ma poi, vista la determinazione della Dea,
decide di aiutarla
ed affrontano tutti e tre le guardie che sorvegliano il palazzo di
Kasday,
blindato e proibito. Riescono nel loro intento solo grazie
all’aiuto di spiriti
non più in vita: l’antico Kaos, sposo della
Guerra; Kadmon, padre di Luciherus,
e la bellissima madre di Vereheveil. Kasday non vuole incontrarli ma,
grazie
all’aiuto del suo angelo vigilante Nosmagiés,
hanno modo di vedersi.
Vereheveil, ancora spaventato dal nuovo aspetto inquietante di Kasday,
non
nasconde i suoi timori, ma Luciherus, sempre più attratto
dall’impossibilità di
averlo, gli fa capire che non potrebbe mai spaventarlo o odiarlo e
capisce di
amarlo, non solo nel suo aspetto femminile. All’inizio della
guerra globale in
cui tutti si incontrano, Dèi ed altre creature, ecco che si
scopre che in
realtà la causa della morte di Alti e Celesti è
proprio Kasday, che li uccide e
li assimila a sé. Luciherus, a conoscenza della cosa dopo il
loro momento di
passione, non interviene e rispetta il suo desiderio di morire, pur non
comprendendolo. Kasday uccide Momoia, unica creatura in grado di farlo
rinascere, ma viene attaccato dal figlio Kavahel, che teme che gli
universi
possano finire una volta morti tutti gli Alti ed i Celesti. Sotto un
albero al
tramonto, Kasday muore abbracciando Luciherus, che piange
perché non vuole
perderlo. L’albero fiorisce, mentre il corpo del creatore di
quel mondo si
dissolve. Kavahel diviene una divinità molto più
potente, mentre Luciherus si
ritira su un’isola, lasciando la guida del pianeta dei Demoni
a Mihael, nel
frattempo caduto. Il Principe dei demoni, in isolamento, si ritrova a
guardare
l’orizzonte oltre il mare, udendo in lontananza la voce dei
suoi nipotini e
comprendendo il desiderio di morte di Kasday. Sentendone la mancanza,
è
convinto di avvertirne la presenza ovunque e, quando la vede, in forma
femminile, fra le onde del mare, la segue. Solo in seguito si accorge
che
solamente la sua anima l’ha seguita, mentre il suo corpo
è rimasto in terra,
senza vita, ignorando le visioni avute in precedenza in cui lui e
Kasday
dovranno avere un figlio che porterà alla fine del Mondo.
Ricordate?
I
IL FIGLIO DEI MORTI
Kevihang aprì gli occhi,
aranciati e luminosi, con le
pupille sottili come fogli di carta, e guardò fuori. Era
buio, ma fuori era
sempre buio. Si rigirò nell’alto letto in cui
stava sprofondando, a causa
dell’eccessivo numero di coperte e cuscini, e
sbadigliò, agitando lievemente le
piccole orecchie a punta. Una risata fanciullesca gli
comunicò che i suoi
compagni di stanza erano già svegli.
Sbirciò distrattamente
l’orologio e sospirò. Era prestissimo
ma, del resto, gli altri due bambini con cui divideva la stanza avevano
ottime
ragioni per essere felici, svegli e pimpanti. Era un giorno
importantissimo:
giorno d’adozioni. L’orfanotrofio, in cui Kevihang
viveva fin dalla nascita,
apriva le sue porte al pubblico una volta al mese per dare la
possibilità ai
suoi piccoli ospiti di trovare una casa ed una famiglia. Ma per quel
bambino
dagli occhi aranciati quello era un giorno come tanti. Erano ormai
diversi mesi
che aveva abbandonato la speranza di lasciare quel luogo in compagnia
di un papà
e di una mamma. Per anni era stato trascinato fuori dalla sua cameretta
dall’istitutrice per essere messo in fila, mano nella mano
con altri bambini,
ad essere ispezionato dalle coppie che desideravano avere un figlio.
Mano nella
mano, in quel rito così simile alla scelta
dell’animale da uccidere per la
festa di famiglia, con tutti quei commenti su quanto un bambino fosse
alto o
basso, magro o grasso, da fare disgusto all’abbandonato
Kevihang. Animali
pronti al macello, l’uno accanto all’altro, di
fronte all’occhio critico di
coppie esaminatrici.
Kevihang non aveva mai ricevuto un
solo sguardo d’approvazione
da parte di qualcuno, salvo dai due adulti che gestivano la struttura
che lo
ospitava. Lui era strano. Lui era diverso.
Sospirò di nuovo,
raccogliendo i capelli blu scuro in una
coda. Non erano lunghissimi, gli arrivavano fino alle spalle, ma
tendevano a
gonfiarsi ed a coprirgli gli occhi. Coloro che gli facevano da
insegnanti e
tutori, insistevano perché tenesse almeno un ciuffo sul viso
per coprire quel
disegno. Era quel disegno la causa principale della sua mancata
adozione. Il
lato sinistro del suo volto era coperto dall’immagine di un
teschio, di un
mezzo teschio, la cui orbita corrispondeva quasi perfettamente con la
cavità
oculare del bambino. Il tutto era fissato, ricamato, con un sottile
filo
spinato o gambo di rosa che si arricciava sul suo mento e sulla fronte.
Quella
specie di tatuaggio, che sapeva di avere fin da quando aveva memoria,
lo
rendeva inquietante. Nessun genitore lo voleva e nessuna coppia lo
avrebbe mai
voluto. Lui era il “figlio dei morti”, colui che
portava sul viso l’eterno
respiro della fine della vita. Ma non era solo quel teschio a renderlo
diverso.
I suoi capelli, ad esempio, non erano di un colore unico, o con lievi
riflessi,
ma venivano bruscamente disturbati da due enormi ciuffi rossi, simili
ad
antenne, che non ne volevano sapere di stare in ordine. Stavano sempre
in
piedi, dritti, oppure ripiegati in avanti creando un semicerchio
piuttosto
ampio e, a detta di Kevihang, fastidioso. Quella massa blu scuro che
portava in
testa, spesso celava le sue due piccole corna scure, quasi nere ma con
lievi
riflessi magenta, che apparentemente lo facevano rientrare nella
cerchia delle
creature demoniache. Ma quelle due corna erano l’unica cosa
“demoniaca” che il
piccolo possedeva. Non aveva ali, cosa che suscitava parecchia ironia
ed
ilarità fra i suoi “colleghi”
d’orfanotrofio. Di certo, però, non erano tanto le
sue ali mancate a far nascere le più crudeli derisioni
quanto la sua coda. A
Kevihang, dopotutto, piaceva, ma quella coda era morbida, affusolata,
lunga e
ricoperta da un soffice pelo rossiccio. Era la coda di un gatto, o di
una
scimmia, ma non quella di un demone!
Lui era “Kevihang: il
figlio dei morti”, “Kevihang: il coda
morbida” e “Kevihang: il
senz’ali”. Il bambino si vedeva semplicemente come
“Kevihang: il senza famiglia”.
La cosa lo rattristava e lo irritava,
ogni giorno di più.
Era convinto che perfino sua madre si fosse spaventata al momento della
sua
nascita, e che per questo fosse stato abbandonato. Frustrato, solo ed
abbattuto, faceva sempre più fatica a nascondere la sua
rabbia ed il suo
rancore, ma anche quella mattina scese dal letto con un mezzo sorriso,
cercando
di essere gioviale con i suoi compagni di stanza, che avrebbe potuto
non
rivedere più. Se, la fuori, fossero stati scelti da
qualcuno, non sarebbero più
tornati. Nessuno mai tornava in quel luogo, una volta che aveva la
possibilità
di lasciarlo. Non perché si stesse male, ma
perché era carico di solitudine e
ricordi che si cercava di cancellare per sempre.
E così Kevihang, bambino
infelice, sperava un giorno di
trovare comunque la sua via e di poter sostituire tutte quelle ore di
mancati
abbracci con tanti sorrisi ed amore. Se non l’amore di
qualcun altro, almeno
l’amore per se stesso. Lui si odiava. Odiava il suo viso,
quel disegno
raccapricciante, quella coda, quei piedi a punta ed esageratamente
grandi,
quelle due antenne rosse fatte di capelli ribelli e quelle due ali
mancate.
Odiava tutto di se stesso. E non capiva a che razza potesse
appartenere.
L’orfanotrofio si trovava
in uno dei pianeti ribattezzati
“neutri”, cioè quelli in cui risiedevano
Angeli, Demoni e Dèi, assieme ad altre
creature, senza particolari gerarchie o problemi. Ormai quasi tutti i
pianeti,
nei vari Universi e Multiversi, erano neutri o misti, tranne qualche
eccezione.
Questo perché, a seguito della grande guerra fra Alti e
Celesti, non c’erano
stati altri conflitti e non era più necessario che ogni
creatura avesse il suo
spazio e la sua posizione gerarchica. Kevihang non sapeva in che
categoria
inserirsi, a differenza di tutti gli altri bambini che conosceva e che
collocava benissimo chiunque in una di queste. Lui cos’era?
Non era un angelo,
aveva le corna! Non era un demone, aveva la coda morbida! E di sicuro
non era
un Dio. Sanguemisto? E fra che specie? Non lo capiva. Ma una cosa la
sapeva:
lui possedeva la magia. E non una magia debole ed a malapena
percepibile bensì
una forza che a volte faticava a controllare e che escludeva la sua
appartenenza alle creature senza forza magica che popolavano molti
pianeti.
Lui non era niente ed allo stesso
tempo era tutto.
La cosa lo faceva a volte sorridere
ed a volte piangere,
altra caratteristica che lo separava dai demoni, ma era più
che consapevole di
essere tremendamente testardo e che nulla gli avrebbe impedito di
raggiungere
il suo scopo: scoprire chi fossero i suoi veri genitori. Non sapeva
nulla di
loro, non era sicuro che fossero ancora in vita e da dove venissero, se
lo
avevano abbandonato di proposito oppure per scelta, se lo amavano anche
solo un
poco o se erano fuggiti da lui. Non sapeva nulla. Ciò che
sapeva era che era
stato trovato sotto l’albero delle lacrime, uno dei pochi che
ancora mostrava i
suoi fiori al cielo, avvolto proprio da uno di quegli enormi fiori
rosso sangue
a riflessi azzurri. Non aveva indizi su cui lavorare, ma aveva un
piano. In
quell’orfanotrofio si studiava ed in una delle lezioni si era
parlato della
biblioteca del Principe Mihael, in cui erano riposti, si diceva, tutti
i libri
dei Mondi. Era la biblioteca del Dio delle Letterature e delle Lingue,
Vereheveil, e si diceva che in quel luogo si potessero trovare tutte le
risposte. Kevihang, piuttosto ottimista oltre che testardo, aveva
congeniato un
complesso piano di “fuga” che poteva permettergli
di raggiungere il palazzo del
Principe e trovare la sua risposta.
In ogni caso, anche se tutto
ciò che aveva in mente si fosse
rivelato un fallimento totale, era più che intenzionato a
non tornare
all’orfanotrofio. I maestri erano gentili ed il posto era
carino, ma era stanco
di essere preso in giro e voleva guardare oltre, oltre quel piccolo
cancelletto, che dava su quello che una volta era un rigoglioso
giardino a
detta degli adulti, oltre quella sconfinata distesa di ghiaccio e neve
che
riusciva a scorgere dalla finestra e che era l’unica cosa che
aveva visto da
anni, oltre la sua condizione d’orfano e di figlio di
nessuno.
Convinto come non mai, si
coprì per bene con un pesante
mantello, approfittando del fatto che i suoi compagni di stanza ed i
tutori
erano tutti impegnati con le coppie in visita alla struttura, ed
uscì dalla
finestra, con in spalla un piccolo zaino. Un profondo respiro, caldo e
sicuro,
e poi si lanciò in quel mondo freddo, inospitale e
sconosciuto. Sfidando il
buio ed il pericolo, si allontanò a passi svelti mentre la
neve già ricopriva
le sue orme. Si avviò verso la piazza del paese, sicuro di
sapere dove trovare
un passaggio per il Mondo dei Demoni, il mondo del Principe, dove stava
la biblioteca
che conteneva le sue tanto desiderate risposte. Alzando il cappuccio,
per
nascondere il teschio sul suo volto, si fece guidare
dall’istinto e, senza
paura, chiese ad un grosso demone se sapeva come poter raggiungere il
regno del
suo popolo. Il demone gli sorrise e, porgendogli la mano, gli
offrì un
passaggio. Kevihang, di risposta, sfoggiò un sottile ghigno,
mostrando un
piccolo dentino a punta, e allungò la manina verso quella
dello sconosciuto,
pronto a partire.
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Capitolo 2 *** II- senza vita ***
II
SENZA
VITA
“Volo d’avvoltoi, in
cerchio, attorno al corpo senza vita
mentre cade l’ultima
lacrima, segno di una speranza ormai svanita.
Volo d’avvoltoi, in
cerchio, attorno all’anima senza pace
mentre il resto del
Mondo guarda, passa e…tace”.
“Che allegria,
Kavahel…”.
Kavahel sorrise leggermente,
sentendosi dire questo: “Non ti
piace la mia canzone, mio caro Apollo, Aton, Hammon, Helios, Horus,
Inti, Mihr,
Saule, Suria, Tezcatlipoca, Tiwaz, Vivasvat, Wi, Yarhibol, Rik o
qualsiasi
altro nome che i nostri sottoposti ed adoratori ti hanno
dato?” commentò, a
mezza voce.
“Ma…chiamarmi
"Sole" come fanno tutti ti è troppo
difficile, Kavahel? Ad ogni modo, no. Non mi piace la tua canzone.
È
deprimente, come il Mondo là fuori”.
Kavahel guardava fuori dalla
finestra, tenendo la fronte ed
il suo piccolo corno rosso contro il vetro. Il cielo era nero, nero
come i
capelli del suo genitore scomparso che portava il nome di Kasday. Le
stelle
invece, molto numerose ma non sufficienti a smorzare il nero della
notte, brillavano
di un intenso color rosso a riflessi aranciati, com’erano gli
occhi di
Luciherus. Il vento soffiava senza sosta e Kavahel non sapeva come
fermarlo.
Doveva avere lui il controllo sui Mondi, ma non era così.
Gli alberi,
pietrificati e gelati come tanti delicati cristalli, protendevano i
loro rami
spogli verso quel cielo sempre coperto ed ogni essere vivente non
divino doveva
la sua esistenza esclusivamente alla protezione degli Dèi.
“Guarda che io sono stufo
di lavorare per venire sempre
coperto da nuvole, nebbia e neve!” borbottò il Dio
del Sole, avvolto nel lungo
mantello rosso per proteggersi dal freddo.
“Non è colpa
mia…” sussurrò Kavahel
“…è come se i Pianeti ed
i Mondi fossero morti e non mi volessero più ascoltare. Io
provo a governarne
l’equilibrio, ma è
difficile…”.
“Hei! Tranquillo!
Scherzavo!” ridacchiò il Sole “Siamo
tutti
nella stessa barca, amico. Nessuno ti incolpa, ragazzino dalle mille
responsabilità!”.
“Io incolpo me
stesso…” sospirò, rassegnato, Kavahel,
osservando il suo riflesso alla finestra con quegli enormi occhi dorati
e quei
capelli sparati in aria.
“Non dovresti” si
intromise Vereheveil, che fin ora era
rimasto in disparte.
Nel salone, erano riunite diverse
divinità con i rispettivi
Messaggeri. Il fuoco del camino non bastava a scaldarli e, respirando,
formavano piccole nuvolette bianche.
“Non dovresti, figlio mio,
sentirti in colpa. Non sei
responsabile di ciò che sta accadendo”.
“E allora di chi sarebbe la
colpa?” sibilò Kavahel, senza
guardare Vereheveil.
Il Dio delle Letterature era cambiato
molto nell’ultimo
periodo. Era invecchiato. Gli occhi d’oro, una volta
così grandi e luminosi,
ora erano infossati e stanchi. I suoi capelli verde acqua ora erano
quasi
bianco latte e tutto il suo corpo mostrava i segni del tempo passato,
era
ricurvo ed acciaccato. Solo le mani non erano cambiate, mantenevano la
bellezza
che avevano sempre avuto.
“Non devi dare la colpa a
te stesso” riprese Vereheveil
“Stai facendo un buon lavoro, in fondo. La pace regna fra
tutti i Mondi, la
gente crede in te e, bene o male, si và avanti,
no?”.
“Quanto sei
ottimista…” si sentì dire, alle spalle,
da una
voce melodica.
“Ma guarda un
po’…l’Alto Krì si
è svegliato…” sogghignò il
Sole, con uno strano tono di fastidio.
“Problemi, accendino
rotondo?” ringhiò Krì, di risposta,
alzandosi in piedi e sfiorando il soffitto.
“No, nessun
problema…” rispose il Sole, alzando lo sguardo
“…dico solo che, dato che Lei è un
Alto, dovrebbe fare qualcosa per questo…come
dire…tempo di merda…”.
“Le nuvole ti rendono
nervoso, papà” cercò di calmarlo una
giovane al suo fianco, la Dea della Luna e dei satelliti, succeduta a
sua madre
una volta che questa si era spenta.
Krì non rispose alla
provocazione della divinità solare e si
avvicinò a Kavahel.
“Figlio delle Letterature e
degli Equilibri…” iniziò a
parlargli “…tutti noi facciamo il possibile per
far sì che gli Universi vivano
ma, forse, è cambiato per loro il modo di vivere”.
Kavahel lo guardò in modo
interrogativo e poi rivolse il suo
sguardo alla Messaggera di Krì, Kiaritanya, che
alzò le spalle e gli fece
segno, con la mano, che il suo padrone era un po’ fuori di
testa e che,
probabilmente, stava vaneggiando come sempre. Krì, ignorando
lo scambio di
gesti dei due, riprese a parlare, incrociando leggermente le gambe.
“Ciò che intendo
dire, e che voi non capite, è che siamo
troppo impegnati a pensare alla vita come l’abbiamo sempre
concepita: con il
caldo, le stagioni, il verde e tutto il resto. Ma chi ci dice che, ora,
non sia
il tempo di cambiare concezione? Magari questo gelo, questo inverno
perenne,
questa apparente fine, non è altro che l’inizio di
un nuovo tipo di vita?”.
“Tu sei pazzo”
rimbeccò Kavahel.
“Non ti uccido solo
perché sei l’ultimo Equilibrio rimasto”
sbottò Krì.
“Sei in una botte di ferro,
amico” rise il Sole.
“Vale lo stesso per te,
astro smorto!” rimbeccò l’Alto e il
Sole, di risposta, gli mostrò la lingua.
Vereheveil sorrise. Quelle
discussioni gli ricordavano le
sue liti con Luciherus. Nessuno nella sala capì il
perché della sua risatina
sommessa ma, dato che era da tanto che non mostrava segni di gioia, si
rallegrarono a loro volta.
“Suvvia, Krì,
non litighiamo! Dopotutto, io sono il Dio del
Sole! Dovrei essere amichevole, caloroso e tenero, non certo una gran
lagna
come invece mi fa diventare questo tempaccio! E poi, cosa importante,
se
restiamo uniti sono sicuro che una soluzione si trova. Non dire
minchiate del
tipo che la vita deve stare nel ghiaccio e simili. IO sono il SOLE! E
la vita
nasce da ME! Dal calore che emetto e dalla mia forza, non dalla
neve!”.
Krì sorrise, non molto
convinto, e si rilassò, tornando a
sedersi: “Il tuo lavoro lo fai, in fondo, Sole. Alimenti le
piante di Heket, la
Vita, che fan sì che le creature viventi crescano e
sopravvivano”.
Le piante di Heket erano degli alberi
nuovi, nutriti dai
poteri di tutti gli Dèi e dal nucleo del Pianeta stesso,
ricco di linfa magica.
In quell’epoca buia, il Tempo si era intorpidito, forse
sopraffatto dal gelo, e
non andava più avanti. Lui, divinità antica,
assieme alla moglie Memoria ed i
loro figli, restava immobile, ad occhi chiusi, nel suo grande palazzo.
Ad ogni
suo lieve respiro, l’eternità avanzava di qualche
secondo. I Pianeti, le
stagioni e la vita stessa, con la mancanza dello scorrere del Tempo,
erano
immutabili. E questo non a causa del Dio del Tempo ma per
volontà del pianeta
stesso. Il Pianeta degli Dèi, centro dei Multiversi e
dispensatore dell’energia
divina, non voleva più eseguire gli ordini del suo attuale
governante. Ignorava
gli sforzi di Kavahel di riportarlo all’Equilibrio, e
trasmetteva la sua
volontà a tutti gli altri Pianeti. Per questo le
divinità avevano creato gli
alberi di Heket, in grado di fornire la capacità, a chi ne
mangiava i frutti,
di crescere. Questi frutti venivano dispensati ai mortali ed a tutte le
creature incapaci di avere magia propria, o con magia insufficiente per
crescere autonomamente, fino alla maturità.
Dopodiché dovevano cavarsela da
soli e la cosa generava non pochi problemi, perché i Pianeti
non fornivano
grandi quantità di cibo e possibilità di
sopravvivenza. Questo creava un numero
sempre più alto di orfani e decessi. Il Sole protestava per
questo ma era
perfettamente consapevole che anche le divinità avevano i
loro problemi. Erano
sempre più deboli, a causa della sempre minore fede in loro,
e sempre di meno.
Molte divinità, sopraffatte, si spegnevano. A che serviva la
Dea della
Primavera fra dei mondi di infinito ghiaccio? Non nascevano piccoli
Dèi da un
bel po’, dato che le loro energie erano tutte concentrate sul
mantenimento
della vita negli Universi. Il Sole stesso era preoccupato per questo.
Sua
moglie era morta e lui aveva solo una figlia femmina che,
sì, aveva preso il
posto della madre ma restava il dubbio su chi avrebbe preso il posto
suo. Il
ruolo di Dio del Sole passava di padre in figlio, fin
dall’inizio dei tempi, ed
ora non sapeva bene a chi sarebbe passato. Sapeva solo che iniziava a
sentirsi
stanco, specie perché lavorava invano, dato il forte gelo!
“Forse siamo giunti alla
fine…” azzardò Kavahel.
A risposta di questo, Krì,
inaspettatamente, gli tirò un
ceffone dietro la nuca.
“Smettila di piagnucolare!
Sei peggio di Kasday! La mia
compagna non c’è più e
l’unico figlio che mi è rimasto mi detesta, ma non
per
questo mi piango addosso!”.
“Ma io ho ucciso Kasday! Se
non lo avessi fatto…a quest’ora
sarebbe stato tutto diverso!”.
“Kasday voleva morire! Se
non lo avessi ucciso tu, ci
avrebbe pensato qualcun altro, scemo!”.
“Se solo
rinascesse…” azzardò Vereheveil.
“No!”
tuonò Krì, in uno strano eccesso d’ira
“Non dobbiamo
sempre e solo pensare al passato, a ciò che sarebbe potuto
essere ed a ciò che
mai sarà! Kasday è morto e noi dobbiamo imparare
a vivere e a sopravvivere
senza di lui, lei o quel che era! Tutti noi volevamo bene a Kasday, chi
più,
chi meno, ma tutti noi siamo anche consapevoli di ciò che
è successo quel
giorno…tranne te, mia cara” concluse, indicando la
Dea della Luna e dei
Satelliti che a quel tempo non aveva quel ruolo.
“Giusto”
annuì il Dio del Sole, guardando fisso il fuoco nel
camino, come ipnotizzato.
“Tu non sei un cattivo Dio,
Kavahel…” iniziò a parlare
Vereheveil, ma il figlio lo zittì.
“Non voglio sentire simili
discorsi d’incoraggiamento, papà.
Sono cresciuto ormai e non serve indorarmi la pillola. Guarda come ti
sei
ridotto tu in pochi anni! Ti sei consumato!”.
“Questo non è
certo per colpa tua. Ormai nessuno ha tempo
per leggere, scrivere e ricordare. Solo i bambini, che ormai sono
sempre meno,
stanno sui libri. Gli altri sono tutti impegnati a sopravvivere.
Inoltre, il
numero di parlanti è sempre più esiguo e molte
lingue stanno scomparendo.
Infine…hai sentito come parlano i giovani d’oggi?
Sembrano dei poveri
ritardati…è questo che mi indebolisce e mi
invecchia. È questo che mi consuma e
mi uccide, figlio mio. E tu, di questo, non hai colpa.
Sinceramente…non ho nemmeno
voglia che la cosa sia diversa. Il mio tempo è giunto. Sono
nato fra gli angeli,
e dovrei essermene andato già diverse Ere fa, ed invece sono
ancora qui”.
“Certo che sei ancora qui!
Sei un Dio, papà! E gli Dèi non
muoiono perché si svegliano la mattina e decidono di farlo,
come ha fatto il
signor Kasday!”.
“Signor?!”
esclamò il Sole, inclinando la testa.
Non aveva mai considerato Kasday come
un “Signore” anche se
era stato alle sue dipendenze.
“E se la pensi
così, allora perché vuoi che sia la fine del
Mondo?” domandò Krì, con il suo solito
fare enigmatico e con lo sguardo perso
nella bufera di neve che vedeva fuori.
“Non voglio che lo sia!
Solo che…non so cosa fare” ammise
Kavahel, chinando il capo.
“Non mollare. Ecco cosa
devi fare. Tutti i presenti in
questa stanza devono promettere che non si arrenderanno, che non si
spegneranno, che non moriranno, e che insieme daremo nuova vita a
questo
Pianeta depresso. Promettetelo!” ordinò
Krì, rialzandosi per l’ennesima volta.
“Prometto!”
esclamò il Sole, alzandosi a sua volta.
“Prometto!”
rispose sua figlia Selene, andandogli accanto.
“Prometto!”
sussurrò Heket, la Dea della Vita, che fino a
quel momento era rimasta in silenzio.
“Prometto!”
ringhiò Luciheday, la Dea della Morte, sempre
presente anche se senza più il marito.
“Prometto…”
mormorò Vereheveil, guardando suo figlio.
“Prometto”
dissero altre divinità che fin ora non erano
intervenute.
“Prometto” disse,
infine, Kavahel dopo un profondo sospiro.
Lo disse poco convinto.
Krì, soddisfatto,
annuì. Poi lasciò la stanza, seguito a
ruota dalla sua Messaggera Kiaritanya.
“Hai idea di dove sia mio
figlio?” le domandò.
“Di solito sta da Mihael o
dalle parti della Dea del Kaos”.
“Potresti andare da Mihael
e vedere se è là?”.
Kiaritanya sbuffò:
“Io…veramente…”
iniziò, con lo sguardo
accigliato “…ne avrei abbastanza di angeli, demoni
e via discorrendo”.
“Ma tu sei un
angelo!” le fece notare Krì, con un sorriso.
“Sì…ma
preferirei che non me lo faceste notare”.
Detto questo, aprì le ali
e scrisse in aria il sigillo per
passare nel regno di Mihael.
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Capitolo 3 *** III- follia ***
III
FOLLIA
Mihael fissava il soffitto, senza
un motivo particolare.
Era fermo in quella posizione da ore, con un’aria nostalgica
ed assente.
Accarezzava la sua spada, con evidente orgoglio, e borbottava parole
sconnesse
fra loro che, però, nessuno poteva udire. Era solo. Sedeva
sul suo trono,
imbottito di recente con cuscini arancione acceso, e ripensava al
passato.
Chiuse gli occhi, assumendo un’espressione sognante, e
ridacchiò. Si rivedeva
da piccolo, assieme al suo gemello Luciherus. Scacciò subito
quel pensiero,
anche se lo rendeva felice. Si alzò di scatto e, brandendo
la spada, iniziò a
parlare da solo, ad urlare a se stesso con convinzione, in piedi sul
seggio.
“Io sono il
Signore dei Demoni, il
più grande, il più figo, il migliore di tutti!
Nessuno è come me e nessuno
potrà mai esserlo! Nemmeno quell’impiastro del mio
fratello gemello! Quest è
sicuro!”.
Per auto-convincersi ulteriormente,
iniziò ad agitare la
spada ed a farla ruotare, accompagnandola con il movimento della coda e
con
strani versi. Poi tornò a sedersi.
“Mi annoio”
mugolò “Mi annoio, non c’è
niente da fare qui.
Niente guerre, niente nemici, niente angeli da spiumare, niente
avversari da
decapitare…niente di niente! A cosa serve un Principe, se
poi non sa che
ordinare ai suoi sottoposti? Tanto vale andare tutti al mare a
crogiolarsi al
sole!”.
Si rigirò un paio di volte
sul trono, tentando di trovare
una posizione comoda. Non trovandola, si rassegnò ed
iniziò a fissare la sua
spada con un largo sorriso.
“Sei bella. Sei bellissima!
Sei splendida quasi quanto me,
altro che quello sbruffone di Luciherus che si definisce
l’angelo più bello!
Tutte balle! Che splendore…” l’ultima
frase la disse, probabilmente,
riferendosi più al suo riflesso che alla sua spada.
La fissava orgoglioso e poi, ad un
tratto, l’abbracciò,
noncurante del fatto che fosse un’arma tagliente ed affilata.
“Solo tu mi
capisci…” le sussurrò
“…sono tutti contro di me
in questo posto, lo sai? Ci spiano, complottano, tramano alle mie ed
alle tue
spalle. In questo momento ci stanno spiando. Vedo mille occhi su di
noi, amica
mia, e nulla possiamo fare per nasconderci!”.
La spada, ovviamente, non rispose e
Mihael non ne capì bene
il motivo.
“Forse anche tu stai dalla
loro parte. Forse anche tu, un
giorno, mi farai del male e mi tradirai. Tu, piccola ingrata, che ti ho
vista
nascere ed imparare! Ti sono sempre stato vicino, io! Ma tu sei
un’ingrata,
come tutti là fuori, e presto mi tradirai”.
Seguì un breve periodo di
silenzio, in cui Mihael si era
voltato, con aria offesa, nel senso opposto alla spada.
Cambiò subito idea e
tornò a stringerla fra le braccia.
“Ma che dico?! Tu,
tradirmi?! No, mai! Tu sei stata la mia
compagna fedele in questi lunghi secoli e la mia migliore amica. Ed io
voglio
bene a te, soltanto a te!”.
Il Principe dei Demoni aveva chiuso
gli occhi, cullando la
sua arma fra le braccia come una bambina, quando sentì un
lieve colpo di tosse.
Il piccolo demone Azazel lo stava fissando, con grandi occhi sgranati e
sguardo
interrogativo, dalla porta d’ingresso della sala.
“Non si bussa,
nano?!” lo apostrofò, malamente, Mihael.
“Ho bussato!”
protestò Azazel, agitando la coda per il
fastidio di essere stato definito “nano”.
“Bussa più
forte, la prossima volta!” ordinò Mihael.
“Sarà
fatto” rispose l’altro, aggiungendo un
“malato di
mente” a bassa voce.
“Che cosa vuoi, Azazel? E
dov’è il mio cappuccino?”.
“Ne avete bevuto
già uno di cappuccino!”.
“Ma io ne bevo almeno tre
per potermi svegliare per bene! E
quello che mi avete portato era troppo poco zuccherato! Portamene un
altro!”.
“L’ho zuccherato
io stesso! Come piace a Voi!”.
“Sei un incompetente! Siete
tutti incompetenti! Ora capisco
perché mio fratello era sempre isterico! Non siete nemmeno
in grado di
preparare la colazione!”.
“Il mio compito non
è, veramente, portare la colazione ma…”.
“E allora qual
è?” lo interruppe Mihael “Non
c’è niente di
più importante della colazione!”.
“Io porto messaggi. Me ne
frego del fatto che siate in calo
di zuccheri…devo solo riferirvi che il figlio
dell’Alto Krì, Kuetzalikay, è
nella vostra biblioteca”.
“Oh! Kuetzy!
Bene…finalmente qualcuno con cui fare una
conversazione al mio stesso livello intellettivo! Sparisci adesso,
moscerino…”.
Azazel uscì dalla stanza,
senza arrabbiarsi. Il Principe
ultimamente mostrava chiari segnali di squilibrio mentale, con diversi
cambi
d’umore repentini e quindi, su consiglio, aveva deciso di
assecondarlo sempre,
come si fa con i matti.
Mihael, riponendo la spada nel
fodero, uscì da una piccola
porticina che lo portava direttamente in biblioteca. Imprecò
contro le ali, che
tendevano ad impigliarsi dappertutto, ed entrò canticchiando
nella stanza
illuminata solo dalle candele.
“Kuetzy? Dove
sei?”.
Il figlio di Krì
agitò leggermente la coda, terminante a
spatola. Odiava, sopra ogni altra cosa, essere chiamato
“Kuetzy”. Non rispose
al Principe, rimanendo concentrato sulla lettura del libro che aveva
fra le
mani. Era alto quasi fino al soffitto, cosa piuttosto normale essendo
uno degli
“Alti”. La sua pelle era verde, squamosa e
luminosa, piena di disegni giallo-dorati.
Aveva un naso a malapena accennato, che non si notava data
l’enormità di
dimensioni dei suoi occhi, gialli e con sottilissime pupille. Anche la
sua
bocca era molto larga, con due dentini che ne uscivano. Le orecchie, a
punta,
erano nascoste dall’aspetto che l’Alto preferiva di
se stesso: i capelli. Non
erano capelli normali, erano piume rosse lunghe fino ad oltre
metà della sua
schiena. Aveva mani piccole e braccia sottili. Tutto il suo corpo era
sottile
ed affusolato e si muoveva in modo sinuoso. Coperto solamente da una
lunga,
strana, gonna del colore dei capelli, alzò appena lo sguardo
quando Mihael lo
chiamò di nuovo.
“Come stai, serpente
piumato?” ridacchiò il Demone.
Kuetzalikay gli mostrò la
lingua, biforcuta, e tornò a
leggere.
“Cosa stai leggendo di
così interessante?”.
L’Alto non rispose.
“Dai…Kuetzy…rispondimi!”
insistette Mihael.
“Oh, Mikino! Certo che sei
testardo…” sbuffò Kuetzalikay,
con voce calma e suadente.
“Non mi piace essere
chiamato Mikino!”.
“E a me non piace essere
chiamato Kuetzy!”.
“Ah…bene…allora
siamo pari!” sorrise Mihael.
L’Alto alzò gli
occhi al cielo e ripose il libro, sicuro di
non riuscire a leggerlo con il Principe accanto ,e lo fissò,
con un larghissimo
sorriso.
“Mihael…”
iniziò “…sto cercando un libro in
particolare.
Puoi aiutarmi?”.
“Non so, amico. Questa
è la libreria di Vereheveil,
appartiene a mio fratello e…”.
“Apparteneva”
venne corretto.
“Come?”.
“La libreria apparteneva a
tuo fratello, mio caro Demone.
Luciherus non c’è più da
tempo…”.
“Sì, certo. Ora
non c’è. Non so cosa stia combinando, ma
tornerà, prima o poi”.
L’Alto non volle indagare e
tornò al suo discorso: “Dicevo…mi
serve un libro in particolare e…”.
“Ed io ti stavo dicendo che
non conosco tutti i volumi di
questa biblioteca perché mi ci vorrà ancora
un’eternità per leggerli tutti.
Dovresti parlare con Vereheveil”.
“Non posso parlare con
Vereheveil” sbottò Kuetzalikay.
“Perché?”
domandò Mihael, inclinando la testa.
“Perché
Vereheveil è uno spione e quello che cerco riguarda
una faccenda personale che non voglio si sappia troppo in
giro”.
“E tuo padre?”.
“Cosa?”.
“Lui sa
tutto…è un Alto anziano…possibile che
riesca a dirti
dov’è il libro che cerchi…”.
“Io non parlo con mio
padre. Mai!” esclamò il giovane Alto e
chinò il capo.
Si era appoggiato alla scrivania
dove, un tempo, sedeva per
ore Luciherus. Aveva incrociato gambe e braccia, agitando la coda. I
capelli,
per il fastidio, si erano gonfiati leggermente. Questo faceva sempre
ridere
Mihael.
“Anche tu hai problemi in
famiglia, Kuetzy?”.
“Piantala di chiamarmi
Kuetzy!! Non lo sopporto proprio!!”.
“Ok, ok!
Scusa…” sghignazzò il demone e, senza
motivo,
sfoderò la spada “Ti va di combattere?”
domandò, inaspettatamente, rivolto a
Kuetzalikay.
L’Alto ghignò e
scosse il capo, sconcertato da quella
richiesta.
“Quanto sei stupido,
Mihael? Ricordi che sono uno degli
Alti? Come speri di battermi?”.
“Io sono il Principe dei
Demoni, ex Arcangelo guerriero. Non
mi fai paura, serpentello piumoso!”.
Kuetzalikay rizzò tutte le
sue piume, quasi con rabbia, e
guardò il Demone con occhi spalancati. Mihael, con totale
incoscienza, cominciò
ad attaccare l’Alto. Questi si difese con
facilità, pur rimanendo del tutto
allibito dalla follia di quell’essere. Il Principe, ridendo,
continuava ad
attaccare senza nemmeno pensare a chi aveva di fronte. Provava il
disperato
bisogno di trovare un avversario. Kuetzalikay lo assecondò,
per un po’. Si
faceva anche colpire, a volte, sicuro che tutte le sue ferite si
rimarginassero
all’istante. Infatti era quello che accadeva e Mihael lo
notò.
“Come si fa a sconfiggere
una strana cosa come te?”
protestò.
“Credi che sia semplice,
demonietto? Noi Alti moriamo solo
se il nostro oblò viene infranto”.
Il Principe, allora, provò
ad attaccare il cerchio di vetro
che l’Alto aveva all’altezza del cuore, ma nulla
accadde. Kuetzalikay lo lasciò
colpire e gli mostrò che nessuna arma mortale avrebbe potuto
pensare di
scalfirlo. Mihael ci rimase male e fece una smorfia.
“E se qualcuno ti taglia la
testa?” azzardò, dopo un po’ di
riflessione.
“In effetti, in quel caso,
avresti qualche possibilità. Ma
dovresti subito rompere l’oblò, altrimenti mi
rigenererei. Ad ogni modo…se tu
fossi mio nemico, avrei già alzato una barriera contro di te
in modo da
impedirti ogni mossa, mio caro. Ma…mi auguro che tu non sia
così incredibilmente
stupido da volermi come nemico, vero?”.
“Certo che no! Era solo per
sapere…metti che un Alto mi
attacca un giorno…”.
“Di questo puoi stare
tranquillo. Mio padre è un rammollito
e non ce ne sono altri, oltre me e lui, della nostra specie. Ovviamente
io non
vedo perché dovrei attaccarti, Miky”.
“Non avete
femmine?” si stupì il Principe.
“In effetti…no.
Ma tranquillo, io trovo come divertirmi
altrove”.
“Ma così non
nascono figli bastardi?”.
“Sai quanti figli bastardi
ci sono in giro? Le divinità sono
sempre di meno e gli Dèi si divertono come possono, con
mortali e simili. Ti
stupiresti di quanti Semidèi vagano per i
Pianeti…”.
“Potrei assoldarne qualcuno
per le mie truppe…”.
“A che ti servono le
truppe, scusa? C’è un trattato di pace
fra Angeli e Demoni…”.
“Pft…quei
pallini piumosi ed irritanti! Vedrai che prima o
poi troverò una scusa per tornare a spaccargli la faccia! E
anche
qualcos’altro…che in effetti non
hanno…ma pazienza…”.
L’Alto alzò un
sopracciglio con aria interrogativa ma non
chiese niente.
In quel momento entrò
Azazel, timidamente, impaurito di
certo più dalla presenza dell’Alto che dal suo
capo e padrone con i suoi
attacchi di follia. Si inchinò leggermente ed
informò il Principe che aveva
fatto preparare un cappuccino come desiderava. Mihael sorrise,
raggiante: era
la notizia migliore che potessero dargli in quel momento. Prese
commiato da
Kuetzalikay ed uscì dalla biblioteca, fischiettando felice.
L’Alto, rimasto solo,
riprese a leggere scuotendo il capo:
“Se questi sono i nostri sottoposti…” si
chiese “…perché mio padre ci tiene
tanto a mantenerli in vita?”.
Era assorto nella lettura, quando un
rumore attirò la sua
attenzione, ma non vide nulla. Rizzò le orecchie. Erano
rumori di passi,
piccoli passi. Troppo piccoli perché fossero di qualche
guardia. Pensò ad un’allucinazione
e riprese a leggere. Sentì un altro rumore e
tornò a distogliere lo sguardo dal
grande libro dorato che stringeva fra le mani. La sua coda si
attorciglio con
fare interrogativo. Davanti a lui, ritto sulla porta, stava un bambino,
con
spettinati capelli blu scuro, che lo fissava.
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Capitolo 4 *** IV- incontro ***
IV
INCONTRO
Kevihang, giunto fino al palazzo di
Mihael, se ne restava
sulla porta della biblioteca, fissando quello strano individuo
altissimo e
dalla pelle verde che la occupava. Nessuno dei due parlava ma si
scrutavano di
soppiatto, con fare sospettoso.
“E tu da dove sei
entrato?” domandò, infine, Kuetzalikay.
“Dalla porta”
rispose, semplicemente, il bambino.
L’Alto si stupì.
Si trovavano nel palazzo di Mihael, il
Principe dei Demoni! Sarebbe dovuto essere sorvegliato e protetto per
bene,
invece quel bambino era entrato come se niente fosse.
“Come sarebbe a dire?! Non
puoi essere entrato dalla
porta!”.
“A te che importa,
lucertolone anoressico? Non c’era nessuno
all’ingresso e sono entrato!”.
Kuetzalikay dedusse che,
evidentemente, le guardie eran
tutte a fare altro.
“Come ti chiami, ragazzino
impertinente?” sbottò.
“Io sono Kevihang. E mi
serve un libro”.
“Quanta
fretta…immagino che tu sappia chi sono
io…”.
“Sicuramente un pezzo
grosso, data la tua spocchia e la tua
superbia. Ma per il resto non saprei collocarti se non sotto
l’insieme degli
esseri strani…ma di quelli ne conosco
tanti…”.
“Non hai paura di
me?”.
“No. Dovrei?”.
“E non hai paura di
trovarti qui, da solo, in mezzo a
sconosciuti potenzialmente pericolosi?”.
“No…”.
“Sei molto
coraggioso” ammise l’Alto, riponendo il libro che
teneva fra le mani ed avvicinandosi al piccolo “O
estremamente stupido!”.
Si inginocchiò per
osservarlo meglio e gli sorrise: “Da dove
vieni, piccolo esserino con uno splendido disegno sul viso?”
domandò.
“Vengo
dall’orfanotrofio di Baumtien e sono qui per poter
trovare delle risposte”.
“La famosa storia che tutte
le risposte degli Universi sono
racchiuse in questa biblioteca? Vorrei aiutarti, ma sono nella tua
stessa
situazione. Cerco un libro da tempo ma, senza aiuto, non so se mai
sarò in
grado di trovarlo”.
“Possiamo darci una mano a
vicenda. Io sono piccolo e tu sei
alto, possiamo dividerci gli scaffali. Io controllo tutti quelli in
basso…”.
“Ma che carino che
sei…ma, dimmi…che cosa vai cercando? Che
risposte ti servono?”.
“Voglio sapere chi sono i
miei genitori”.
“E
perché?” borbottò l’Alto, con
una smorfia.
“Tu sei il figlio di
Krì?” volle sapere Kevihang, ricordando
una delle lezioni dell’orfanotrofio.
“Sì,
esatto…” ammise Kuetzalikay, con fastidio
“…anche se
preferirei non esserlo!”.
“Sei fortunato, invece. Io
darei qualunque cosa per avere
anche solo uno dei miei genitori”.
“Avere una famiglia non
è poi così bello come dicono, sai
piccolo?”.
“Ma non averla per niente
ti assicuro che è molto brutto”.
Rassegnato, e ancora stupito,
l’Alto si accordò col piccolo
per un aiuto reciproco. Iniziarono a cercare fra gli scaffali con cura,
consapevoli dell’immensità della biblioteca.
“Com’è
essere un Alto?” chiese, ad un tratto, Kevihang.
“Com’è
essere un semplice mortale?”.
“Io non sono un semplice
mortale!”.
“Non sei un Dio!
Perciò, per me, sei un semplice mortale”.
“Ah…capisco…”.
“Ad ogni modo è
divertente. Essere un Alto, intendo! Anche
se spesso la gente si aspetta chissà che cosa da te e tu non
puoi aiutarla”.
“Ma non è il
vostro compito aiutare la gente?”.
“Sì, certo, ma
il nostro potere è proporzionale a ciò che la
gente crede. Se i mortalucci sono scarsi in numero e
fede…anche noi siamo più
scarsi in forza magica. Ed è ovvio che per noi è
più importante pensare in
grande, guardare oltre, verso l’equilibrio e la
continuità degli Universi,
piuttosto che ai capricci di un gruppetto di insignificanti
esserucoli”.
“Però la
continuità degli Universi non sarebbe più
semplice
se il Tempo ricominciasse a scorrere normalmente e se il gelo se ne
andasse
almeno per un po’?”.
“Fai il saputello,
eh?” sghignazzò l’Alto, aprendo
l’ennesimo libro per lui inutile.
“No. Non è
vero!”.
“Sì che
è vero ma sta tranquillo…è normale!
Tutti i nostri
sottoposti parlano come te! Questo perché tutti quanti voi,
Dèi minori e
mortali, considerate il mestiere di chi vi comanda più
semplice. In realtà non
siete in grado di guardare oltre al vostro naso e perciò
è ovvio che non sapete
comprendere le nostre azioni, compiute pensando alle Ere a
venire”.
“Per me, in
realtà, state tutto il giorno a girarvi i
pollici e perciò va tutto in malora…”.
“Senti un
po’…microbo…”
iniziò Kuetzalikay, agitando la
coda, quando vide che il piccolo Kevihang teneva fra le mani un libro
molto
interessante.
Aveva la copertina rossa, brillante,
con i bordi consumati e
scoloriti. Le pagine, ingiallite e incurvate
dall’umidità, presentavano
numerose pieghe, strappi ed orecchie. Non aveva titolo e profumava
d’antico. Il
bambino lo aprì, senza pensarci, e ne osservò i
caratteri blu scuro.
Interamente scritto a mano, completo di illustrazioni e miniature, non
veniva
aperto da secoli.
“Questo libro
risulterà utile ad entrambi, mio giovane
amico” affermò l’Alto, abbassandosi e
sfiorando le spalle del bambino con le
mani sottili.
“Questo
volume…” spiegò
“…apparteneva a Luciherus. Era un
dono di Madama Lilim e del suo compagno, divenuto poi Dio
dell’Equilibrio e
Alto”.
“Questo libro è
stato scritto da Kasday?”.
“Da Kasday in persona! Ti
parlo di Ere ed Ere fa. Fammi dare
un’occhiata…”.
Detto questo l’Alto
allungò la mano verso il libro ma questi
si richiuse, da solo, e lo respinse con una potente barriera dorata.
Kuetzalikay ritrasse la mano, gonfiando i capelli.
“Che storia è
mai questa?! Perché tu lo puoi aprire ed io
no?”.
“Forse Kasday ci ha fatto
un incantesimo per far sì che gli
Alti non lo tocchino…”.
“Quando Kasday ha scritto
questo libro, sono sicuro che non
avesse nemmeno idea di cosa fosse un Alto. Al tempo era una specie di
demone
mingherlino e deboluccio che si manteneva facendo lo scriba. Dubito
perfino che
sapesse usare la magia…”.
Kuetzalikay provò ad
afferrare altri due libri, uno nero ed
uno blu, posti accanto a dove aveva riposato per Ere il libro rosso.
Anche
questi lo respinsero. Avvicinandosi notò che, sul dorso di
ognuno di essi, era
stato inciso un piccolo simbolo.
“Devono essere libri
speciali” commentò Kevihang, riuscendo
ad afferrare quello blu e leggendone il titolo ad alta voce,
rigirandolo fra le
mani.
“La città degli
Dèi…La luce dei Celesti…ed infine
questo
libro rosso senza nome. Perché solo loro tre hanno un
sigillo disegnato sopra?”
pensò ad alta voce.
“Non te lo so
dire…” gli rispose l’Alto
“…ma quel sigillo è
stato fatto da Vereheveil e, interpretandolo, prevede che solo lui,
Luciherus e
Kasday possano aprirli e sfogliarli”.
“Cioè nessuno,
oggigiorno, tranne Vereheveil. Luciherus e
Kasday non sono quei due Dèi morti secoli fa? O mi
sbaglio?”.
“Non sbagli, piccoletto.
Luciherus e Kasday sono morti prima
della mia nascita e questo significa che è passato un bel
po’ di tempo…forse il
sigillo va letto in un altro modo o forse la barriera non si alza se a
sfogliarlo è una creatura insignificante come te”.
Kevihang si accigliò
leggermente per essere stato definito
insignificante, per poi riaprire il libro rosso. Kuetzalikay si accorse
che non
solo non poteva afferrare fra le mani il volume, ma nemmeno avvicinarsi
in modo
da leggerlo. Esso, infatti, si richiudeva all’istante.
Infastidito, giunse alla
conclusione che, se voleva utilizzare le parole scritte su quel
prezioso tomo,
doveva farlo grazie al ragazzino che aveva accanto. La cosa non gli
piaceva,
anche perché vide che il bambino aveva un certo potenziale
magico ma
insufficiente a pronunciare gli incantesimi contenuti sul manuale color
del
sangue. Lo fece notare al piccolo, che si avvilì.
“Qui
c’è la formula che mi permetterebbe di scoprire
chi
sono i miei veri genitori ma, visto che io sono un essere inutile, non
sono
abbastanza forte per pronunciarla” singhiozzò.
L’Alto, spiazzato dalla
reazione del bambino, tentò di
calmarlo come poteva pur non avendo la minima esperienza con creaturine
simili:
“Non piangere, Kevihang! In realtà sei molto bravo
per l’età che hai! E poi…io
posso aiutarti!”.
“Davvero?”
mormorò il piccolo, tirando su la testa.
“Certo! Non piangere
più! Asciugati le lacrime e stringi i
denti, giovanotto!”.
Kevihang annuì, stringendo
i pugni, e si avvicinò all’Alto.
“Come?”
domandò il bambino.
“Come cosa?”.
“Come puoi aiutarmi,
lucertolone?”.
“Posso portarti in un posto
speciale, dove imparerai a fare
ciò che necessario. Fidati!”.
“Bene! Andiamo!”.
“Adesso?”.
“Ovvio!! Prima andiamo e
meglio è! Forza!”.
Kevihang prese per mano
l’Alto, stringendola forte e non
lasciandolo rialzare se non con il bambino aggrappato e sollevato da
terra.
“Ok, ok! Però
lasciami!”.
L’Alto, una volta libero,
prese in prestito l’enorme drago
rosso di Mihael e fece salire il piccolo dietro di sé,
raccomandandogli di
tenersi forte. Kevihang lo strinse, sentendo come avesse la pelle
viscida ed
inquietante. Non fece commenti e guardò giù,
sospeso nell’aria sul dorso
dell’animale del Principe dei Demoni. L’Alto
sussurrò qualcosa nell’orecchio
della creatura rossa e questa si librò nel cielo, nascosta
fra le nuvole. Oltre
quella coltre grigia e bianca, il Sole splendeva ed il bambino sorrise.
Non
aveva vissuto un solo giorno sereno in tutta la sua vita!
“Dove andiamo?”
domandò, gridando per farsi udire nel vento.
“In un piccolo villaggio
oltre il palazzo della Principessa
Nera. Lì troverai delle persone in grado di aiutarti e dove
sarai al sicuro”.
“Al sicuro da
cosa?”.
“Da quello che
sei”.
“Io non sono
niente…”.
“Appunto”.
Kuetzalikay fece scendere di quota il
destriero, permettendo
al bambino di vedere il palazzo della Principessa che si stagliava nel
cielo,
immenso e tetro. Poco oltre il perimetro nero di
quell’edificio, Kevihang vide
mille e più luci colorate.
“Cosa
c’è laggiù?” volle sapere.
“Quella è la
foresta dei cristalli. Un tempo era una vera
foresta, piena d’alberi e rigogliosa. Ora le piante si sono
cristallizzate.
Quel luogo è dove è stata concepita Luciheday, la
Dea della Morte, ed è
proprietà della Principessa. Chi vi si addentra lo fa a suo
rischio e
pericolo”.
“Capito…”
annunciò Kevihang, continuando ad osservarne i
colori con un sorriso.
Proseguirono ancora oltre, per
parecchio tempo, sorvolando
distese di roccia, neve, luoghi inospitali e deserti. Solo dopo
parecchie ore,
e diversi problemi con le situazioni atmosferiche che il drago odiava,
come il
gelo e la tempesta, i due videro in lontananza un piccolo villaggio.
Accuratamente
nascosto fra le rocce, in un’insenatura della montagna,
pareva disabitato, ma
l’Alto fece un larghissimo sorriso per rassicurare Kevihang.
“Non è deserto,
piccolino! Adesso atterriamo e
vedrai…conoscerai un sacco di gente interessante!”.
Sussurrando un’altra volta
degli ordini al drago,
Kuetzalikay cominciò a fargli perdere quota mentre il
bambino, aggrappandosi
più forte, si preparò all’atterraggio.
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Capitolo 5 *** V- scacchi ***
V
SCACCHI
Lei era una Dea, una fra le
più belle fra le Dee, ma anche
una fra le più cattive. Sedeva sul trono irregolare, nero
lucido, e guardava
l’orizzonte dall’alto della torre più
alta del suo palazzo. Sorrideva, gelida,
davanti allo spettacolo di morte e devastazione che poteva scorgere.
Ovunque
girasse lo sguardo, non vedeva altro che ghiaccio, terra senza vita e
caos.
Tanto caos. Ed a lei questo piaceva. Lei era la Principessa del Caos,
lei era
la Dea del Kaos.
Rise, beffarda e soddisfatta, sicura
di poter sopraffare in
qualsiasi momento il suo fratello gemello Destino, e si
alzò. Alzò il viso
verso la cima della torre, mentre una sottilissima linea di luce di non
si sa
quale provenienza la illuminava e le faceva splendere gli occhi dorati
e la pelle
nera. Il suo sorriso, bianchissimo e quasi innaturale, la rendeva
ancora più
affascinante. Il suo bel volto, sottile e proporzionato, era solo in
parte
incorniciato dai capelli neri, che portava cortissimi, drittissimi.
Sistemò un
ciuffo di questi, sempre in piedi, e si incamminò lungo gli
scalini irregolari
che la facevano scendere dalla torre. Era una divinità
piccina di statura e
compensava questo con l’uso di stivali altissimi, in pelle
nera, con una zeppa
vertiginosa che tentava di celare sotto il lungo vestito dello stesso
colore
che, però, aveva un ampio spacco. Questo rendeva vano il suo
intento. L’abito,
in pelle anch’esso, era una regalo di sua zia, la Dea delle
Armi, e lo
apprezzava molto.
Sbirciando fuori da una piccola
finestra lungo il corridoio,
a sette angoli, la Dea vide sfrecciare il drago rosso di Mihael. Non
riuscì a
capire chi lo cavalcasse ma sorrise con più convinzione.
Ammirava le capacità
guerriere del Principe dei Demoni, anche se non ne comprendeva gli
intenti.
Sapeva bene che ultimamente era fuori di testa ma lei era abituata a
stare fra
i matti. Del resto era stata generata da un uovo magico di Vereheveil e
Kasday,
famosi per la loro mancanza di sanità mentale in diverse
occasioni. Strizzò
leggermente le palpebre e riuscì a capire che
c’era un essere verde sopra al
drago e sobbalzò.
“Kuetzalikay”
sussurrò.
Con un breve fischio, la Dea
chiamò a sé uno dei suoi corvi
blu scuro. Lo accarezzò sulla testa con le sue lunghe unghie
laccate di rosso e
gli diede un piccolo bacio. Gli parlò con dolcezza e poi lo
fece uscire dalla
finestra. L’uccello iniziò a seguire il drago
rosso, gracchiando.
La Dea, fatto questo, si
sistemò gli abiti distrattamente e
diede un’occhiata alla grossa sfera sospesa
nell’aria che brillava portando il
suo simbolo: la spirale nera. Era soddisfatta. Brillava forte e questo,
per
lei, era un gran bel segno. Però era anche preoccupata. Non
era normale che i
mortali si affidassero tanto al Kaos, eppure ultimamente la gente non
credeva
in molto altro. Non sapeva di certo come dargli torto. Stringendo i
pugni, con
un ghigno, decise che si stava annoiando e che sapeva come rimediare.
Disegnò
un piccolo portale rosso fuoco e ci passò attraverso,
diretta al palazzo del
Principe Bianco, suo fratello e Dio del Destino.
Il Principe Bianco camminava, a mani
giunte, per il suo
castello eburneo. Era seguito a ruota dal suo angelo Messaggero,
Erezehimsay,
che fischiettava un allegro motivetto. Quell’angelo, con i
suoi capelli
arancio, era l’unica nota colorata in tutta quella casa
completamente bianca.
Il suo padrone teneva i lunghi capelli verde acqua in un ampio
cappuccio
candido e quindi non si vedevano. E camminava ad occhi chiusi,
celandone il
dorato. Assomigliava molto a suo padre, Vereheveil, ed al fratello
maggiore
Kavahel. Si rifletteva lungo gli specchi del palazzo, con la sua lunga
tunica
bianchissima ed i piedi scalzi. Dio e Messaggero uscirono nel giardino
interno,
coperto da una cupola trasparente che lo rendeva simile ad
un’immensa serra.
Era interamente ricoperto da rose bianche, profumatissime, che si
perdevano a
vista d’occhio.
“Ogni rosa è
un’anima” affermò il Destino, come
recitando
una poesia.
La sua voce era profonda,
inquietante, in forte risalto con
il suo viso dolce e con i suoi occhi enormi. Con le mani
guidò alcune farfalle
da un fiore all’altro, mentre queste ci scrivevano sopra con
le loro antenne
dorate. Ogni rosa un’anima, ogni fiore una persona. Sui loro
petali, con
inchiostro d’oro, era riportata la storia di ogni singolo
individuo che, quando
questa era esaurita, cadeva. Quando l’ultimo petalo era
caduto, l’anima era
giunta alla fine della sua vita ed il suo proprietario moriva.
Il Dio passò accanto ad
un’aiuola con delle rose
particolari, di cristallo. Quelle erano le rose che contenevano
l’anima degli
Dèi, immortali. I loro petali non cadevano e, se la
divinità doveva passare ad
un altro stadio di esistenza, era compito del Destino cogliere il fiore
del Dio
designato ed infrangerlo. Questo si spezzava in milioni di pezzi e la
sua vita
finiva. Compiere quel gesto al Destino dispiaceva. Non voleva uccidere
le
divinità ma lui riceveva ordini precisi e doveva solo
obbedire. Molte volte
aveva pianto, nel recidere le rose senza più petali o nel
rompere i fiori degli
Dèi. Soprattutto se conosceva le divinità o i
mortali a cui erano collegati.
Vide, con rammarico, che alcune delle rose di cristallo stavano
perdendo la
loro luce e questo non era mai un buon segno. Passò oltre,
lasciandosi pungere
dalle numerose spine del suo giardino, e recise alcuni gambi spogli. Si
assicurò che le nuove rose, piccole e neonate, avessero
sufficiente calore e
nutrimento, però era difficile. Il freddo era pungente
nonostante la cupola, il
giardino era sempre meno fertile e faceva sempre più fatica
a fiorire. Il Dio
sospirò. Poi si immobilizzò, rizzando le
orecchie.
Tolse il cappuccio per poter udire al
meglio ed alzò gli
occhi: sua sorella, la Dea del Kaos, stava scendendo dal cielo.
La Principessa Nera sfondò
la cupola in vetro ed atterrò nel
giardino, calpestando molti fiori.
Il fratello, inorridito, la
fissò con profondo fastidio e
rimase senza parole. Spalancò le braccia e riuscì
solo a balbettare dei “ma”
senza nient’altro vicino. Le sorella rideva, sprezzante, e
non si preoccupò del
fatto di aver provato non pochi danni.
“Buongiorno, fratellino! Ti
sono mancata?” disse lei,
spalancando le braccia.
“Neanche un po’.
Leva i piedi dai miei fiori!” rispose lui.
“Quanta
scortesia…”.
“Scortesia ‘sti
cazzi! Hai rotto, per l’ennesima volta, la
mia cupola!”.
“Ti manderò dei
controllori di fuoco e terra per farti
rifare il vetro, suvvia! Non farne una tragedia! E per quanto riguarda
le
rose…dai su, sono mortalucci insignificanti!”.
“Quei mortalucci
insignificanti si fidano e credono in me!”.
“Quanta insolenza! Non
credono mica in te, piccolo
mostriciattolo bianco! Ma credono in me, il Kaos, forza primigenia dei
Multiversi!”.
“Con che coraggio tu dici a
me di essere un mostriciattolo?
Tu, che sei poco più alta di un fungo!”.
“Hei! Ma come ti permetti?!
Razza di mezza checca bianchiccia
con il vocione da drago panciuto? Sarò anche più
bassa di te, ma sicuramente
sono anche molto più forte! Posso batterti in qualunque
momento, stanne
certo!”.
“Questo lo so. Di fatti non
ci tengo a sfidarti, sorellina”.
“Allora non
irritarmi!”.
“Sei tu che mi irriti,
sfracassandomi la cupola, i fiori e
anche qualcos’altro che, dato che sono un signore, non
includerò esplicitamente
nell’elenco!”.
“Pft…mezza
sega!”.
“Nana da
giardino!”
“Asparago!”.
“Formica!”.
“Bastardo!”.
“Sono il tuo gemello,
piccola stupida! Ti offendi da sola
dicendo così!”.
La Dea del Kaos rimase in silenzio,
per qualche istante, per
poi digrignare i denti con rabbia.
“Vuoi la guerra!”
sibilò.
I due fratelli iniziarono uno scontro
piuttosto singolare,
con il Destino che prendeva numerosi colpi senza reagire più
di tanto. Il Kaos
saltellava sulle zeppe, protestando vivacemente, mentre il Destino
tentava di
rimanere calmo. Questo fino a quando la sorella non lo
iniziò a colpire in modo
serio.
La Dea si inginocchiò
repentinamente, afferrando uno dei
grossi frammenti di vetro della cupola, e lo usò come arma.
Trafisse la gamba
del fratello che fece una smorfia, per il dolore e per la macchia sul
vestito.
Lui tentò di difendersi, schivando i colpi a casaccio che
dava lei, ma sapeva
di essere in svantaggio: sua sorella lo aveva sempre battuto, fin da
quando
erano bambini. Tentò di spostare il campo di battaglia, in
modo da rovinare
meno fiori possibile, e ci riuscì grazie all’aiuto
del suo Angelo Messaggero.
Erezehimsay, infatti, sapendo di non poter interferire in uno scontro
fra Dèi,
era intervenuto colpendo violentemente uno degli specchi sulle colonne
d’ingresso del giardino. Quel suono e quel gesto avevano
distratto, per qualche
istante, la Dea del Kaos che reagì volgendo lo sguardo verso
il rumore. Il
Destino ne approfittò per allontanarsi di qualche metro,
giusto il necessario
per far uscire entrambi dal giardino di rose. Così facendo,
si ritrovarono ad
inseguirsi sotto un lungo colonnato fatto di specchi e sfere di
cristallo, che
la Dea infrangeva con immenso piacere. Lui correva, lei saltellava come
se
fosse un gioco.
“Ti prenderò,
razza di sproporzionato albino dai capelli a
spazzola!” urlò il Kaos.
“Non sono un albino e non
ho i capelli a spazzola!” protestò
il Destino.
“Sicuramente sei un
codardo, dato che scappi!”.
Detto questo, la Dea
lanciò il pezzo di vetro che stringeva
fra le mani che andò a colpire in pieno la schiena del
fratello. Questi urlò e
si fermò, tentando di togliere il frammento. Non
riuscendoci, continuò a
dimenarsi e lamentarsi per il dolore. La sorella, invece, rideva
felice.
“Ti ho battuto anche questa
volta!” gongolò, prima di
fiondarsi contro il fratello.
Il Destino, con le braccia incrociate
dietro la schiena nel vano
tentativo di liberarsi del grosso frammento di vetro, non
riuscì a respingere
quella piccola pazza della parente e lei lo afferrò per le
gambe. Perse
l’equilibrio e cadde di schiena, conficcando ancora di
più il pezzo di cupola.
“Skrich!”
urlò una voce, mista fra maschile e femminile.
La Dea del Kaos smise di ridere e
rizzò le orecchie, sempre
rimanendo sulla pancia del fratello.
“Skrich, che
combini?” si sentì ancora.
“Kavahel? Fratellone? Sei
tu?” azzardò il Dio del Destino,
lottando con tutte le sue forze per non urlare per la sofferenza.
“Certo che sono io,
bambinetti!” li rimproverò Kavahel,
scendendo a terra con un ultimo battito d’ali blu acceso.
Atterrò con grazia e
fissò con rabbia i suoi fratelli: tre
paia d’occhi dorati che si fissavano. Il Dio
dell’Equilibrio afferrò la sorella
minore per un braccio e la costrinse ad alzarsi. Poi porse la mano al
fratello
e lo mise seduto, sui tre scalini che introducevano al giardino alla
fine del
colonnato.
Con un cenno, fece avvicinare
Erezehimsay che, nel
frattempo, si era organizzato per poter curare il suo padrone. Uno dei
suoi
padroni…lui, di fatto, era l’Angelo Messaggero di
tutti e tre i fratelli
presenti. Un lavoraccio, ma ormai era abituato e non gli pesava.
L’angelo dai capelli
arancio estrasse, con delicatezza, il
frammento di vetro dalla schiena del Destino e poi, in fretta,
compresse la
ferita con un fazzoletto pulito. Era un brutto taglio ma,
fortunatamente, non
aveva provocato danni irreparabili. Kavahel, con apprensione, osservo
tutti i
movimenti dell’angelo e guardò con rimprovero la
Dea del Kaos.
“Non ti
vergogni?” la rimproverò “Pochi
centimetri più in
profondità e avresti potuto provocare gravi danni a tuo
fratello. Possibile che
non pensi mai alle conseguenze?”.
“Che vuoi che mi importi
delle conseguenze? Io sono il
Kaos!”.
“Tu sei una stupida! Tutti
e due siete degli stupidi! Non
sapete far altro che litigare e dar fastidio!”.
“E tu non sai far altro che
dare ordini” mormorò il Destino,
mentre Erezehimsay lo fasciava.
“Ben detto!” lo
acclamò la sorella, subito zittita da
un’occhiataccia di Kavahel.
“Io non ci sarò
sempre a dividervi. Non potrò sempre, e per
tutta l’eternità, farvi da balia! Un giorno vi
ritroverete soli, l’uno contro
l’altro, e se io non sarò presente per dividervi
che cosa pensate di fare?
Volete uccidervi a vicenda? Non può esistere niente, senza
il Kaos,
l’Equilibrio ed il Destino! Come avrò mai la
certezza che, se non sarò in grado
di fermarvi in tempo, non vi ucciderete a vicenda combinando un
casino?”.
“A me piace il
casino…” affermò la Dea.
“Non è questo il
punto, piccola scema! Se tu uccidi lui, non
c’è più equilibrio e quindi muoio
anch’io. E senza l’Equilibrio…indovina
un
po’?! Non c’è nemmeno il
Kaos!”.
Lei non sembrava convinta. Storse il
viso, senza ribattere,
ed optò per la strategia dell’assenso. Quella che
ti diceva di annuire e dare
ragione al proprio interlocutore per non menare il discorso tanto per
le
lunghe.
“Hai capito?”
sbottò Kavahel.
La Dea del Kaos annuì.
“Sei sicura?”
incalzò l’Equilibrio.
“Sì! Non sono
stupida!”.
“E tu,
fratellino?” domandò di nuovo Kavahel, girandovi
verso il Destino.
“Ha iniziato
lei!” protestò questi, rivestendosi una volta
medicato.
“Non mi interessa chi ha
iniziato! Non è questo il punto! Ma
non lo capite?” si lamentò il fratello maggiore,
con aria afflitta “Fratellini…”
ricominciò “…io mi preoccupo per voi.
Io ho molte cose a coi badare e, devo
ammetterlo, nessuna di queste mi riesce particolarmente bene. Dovrei
preservare
la vita fra gli universi ma è sempre più
difficile e, soprattutto, non sono
nemmeno in grado di salvaguardare alla vita delle persone che amo,
figuriamoci
del resto del creato! Sto facendo del mio meglio ma non è
semplice, e voi non
fate altro che complicarmi le cose! Litigate continuamente, mettendo a
rischio
tutto il precario esistere che ci circonda, e fate sempre una gran
confusione!
Sono finite le guerre fra Dei! Non ci saranno scontri epocali fra
mortali e
divinità per voi schierati! Non contiamo più come
a quei tempi.
Perciò…piantatela! Vi chiedo solo una cosa:
silenzio! Desidero tanto, e solamente,
il silenzio. Non è molto…”.
“Capito…”
annuì la Dea del Kaos, guardando il fratellino
Destino con una faccia stupita quanto divertita dal monologo di Kavahel.
“Staremo più
attenti la prossima volta. Faremo meno rumore”
promise il Destino.
“Gradirei che non litigaste
proprio, veramente…” ribatté
l’Equilibrio.
“Ma questo è
impossibile! È intrinseco alla nostra natura!”
affermò il Kaos.
“Allora va
bene…fatelo ma senza uccidere mortali” si arrese
il fratello maggiore, indicando le rose calpestate, spezzate e morte
fra i
frammenti di vetro ed i piedi dei due litiganti.
I gemelli, imbarazzati, promisero che
una cosa del genere
non sarebbe più successa. Si scusarono profondamente, con un
piccolo inchino,
non avendo idea di come rimediare.
“Manderò il Dio
dell’Estate. Lui ha in sé il potere della
fertilità. So bene che dovrebbe, come da contratto, visitare
il giardino solo
un paio di volte l’anno ma, per questa volta, farò
un’eccezione perché vedo che
le tue rose hanno dei problemi”.
“Grazie,
Kavahel…” sorrise il Destino.
L’Equilibrio riprese il
volo, senza dire altro, e si
allontanò in fretta nel cielo plumbeo.
“Perché le
divinità dell’Equilibrio sono tutte pazze e
depresse?” ridacchiò la Dea del Kaos, prima di
andarsene a sua volta con l’uso
del portale magico.
Il Destino alzò le spalle,
ignorando la cosa, e ricominciò a
girare per il giardino chiacchierando alle sue migliaia e migliaia di
rose,
mentre dal cielo riprendeva a scendere la pioggia, mista a ghiaccio e
neve.
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Capitolo 6 *** VI- nuova famiglia ***
VI
NUOVA
FAMIGLIA
L’atterraggio di
Kuetzalikay e Kevihang non fu affatto
facile. Si era alzato un vento impetuoso e gelido, che aveva ridotto
notevolmente la visuale del drago che, preso dal panico, aveva
aumentato la
velocità ed era sfuggito al controllo dell’Alto.
Nonostante questo, Kuetzalikay
era riuscito a portare a terra la bestia. Con le lunghe gambe verdi
scese,
sistemandosi le piume. Poi si voltò verso Kevihang che
sorrideva, per nulla
spaventato dall’atterraggio di fortuna. Il piccolo villaggio
in cui erano
giunti era molto silenzioso, quasi tetro. Non si vedeva nessuno. Poi
una luce
apparve da dietro l’ingresso dell’abitazione
più grande ed una donna si
avvicinò ai due.
“Kuetzalikay?”
domandò lei, sospettosa.
Indossava un abito semplice, chiaro,
che lasciava trasparire
la luce emessa dalla pelle di lei. Aveva occhi luminosi e grandi, i
capelli
corti e dritti, ed un bel sorriso. Kuetzalikay le sorrise a sua volta e
spalancò le braccia, in segno di saluto.
“Mama!” le disse,
andandole appresso.
Si abbracciarono, nonostante la
notevole differenza
d’altezza. L’Alto la sollevò da terra e
la fece girare un paio di volte. Erano
felici di rivedersi.
“Quanti anni sono passati,
‘likay? E tu non sei cambiato…”.
“L’ultima volta
che son giunto qui, i tuoi figli erano
piccoli. Non è molto…”.
“Considerato che presto il
mio secondo figlio maschio
affronterà la prova dei cristalli…direi che ne
è passato di tempo!”.
“Già la
cerimonia dei cristalli?! Ha già l’età
per
affrontare la prova di maturità?”.
“Certo. Ma comprendo che
per voi Alti sia poco tempo…”.
“Quindi il maggiore
l’ha già affrontata?”.
“Ovvio…”.
“E come è
andata?”.
“Benissimo. Anche
se…non importa, te lo dirà lui se ne
avrà
voglia…”.
In quel momento una voce infantile
chiamò sua mamma ed una
bella bambina mora andò accanto alla donna di luce. La madre
la prese in
braccio e la presentò all’Alto.
“Lei è la mia
bambina, Marinditi-ya, nata sei anni fa…”.
“Oh!
Come
te, Kevihang!” ridacchiò l’Alto,
rendendo partecipe della conversazione anche
il bambino, che nel frattempo non aveva fiatato.
“Più o meno
sì” ammise Kevihang, guardando la bambina con un
pizzico d’invidia.
“Chi è questo
giovanotto?” domandò la donna di luce.
“Si chiama Kevihang,
è un bambino…speciale. Come tutti voi”.
“Lo vedo. Io sono
Valek-hiteia, piacere! Da dove vieni?”.
“Da un brutto posto, con
brutta gente” sbottò il bambino.
“Va bene. Non ne parliamo
allora” gli sorrise la donna.
“L’ho portato qui
per un motivo” parlò l’Alto
“L’ho trovato
nella biblioteca del Principe dei Demoni Mihael. Ha aperto uno dei
libri
sigillati da Vereheveil senza essere respinto dalla sua barriera. Ha un
grande
potenziale…e vorrei che tu lo aiutassi a
svilupparlo”.
“Sarà per me un
piacere…”.
Kevihang non ascoltava. Guardava una
casetta arancio da cui
riusciva a scorgere una figura china sui libri. Incuriosito, si
incamminò verso
essa.
“Kevihang! Torna
qui!” lo richiamò Kuetzalikay ma la donna
di luce gli fece un segno con la mano.
“Non lo fermare. Lascia che
vada. Credo che possa trovare da
solo il suo maestro”.
L’Alto annuì e
lo lasciò andare. Kevihang entrò nella casa
arancione, attraverso una piccola porticina verde chiaro che brillava
leggermente.
“Di chi è
figlio?” sussurrò la donna a Kuetzalikay.
“Non lo so. È
orfano. I libri che ha cercato erano per
scoprire da chi è stato generato”.
“Capisco…lo
aiuteremo anche in questo. Stai pure tranquillo.
Puoi tornare ai tuoi affari”.
L’Alto, con un sorriso,
risalì sul drago.
“Ti saluto, mia cara.
Congratulazioni, anche se in ritardo,
per la bambina!”.
“Ci sono rimasta male. Per
i miei tre maschi eri venuto a
trovarmi ed a vederli, ma per la bambina non sei venuto…ma
ti perdono perché mi
hai portato quel bel bambino sperduto”.
“Ho avuto problemi a casa,
scusami”.
“Problemi per quasi 18
anni?”.
“Per noi Alti non
è nulla. Buon proseguimento. Tornerò,
promesso!”.
“Fra quanti anni? Guarda
che io non sono una degli Alti!”.
“Tornerò, cara,
luminosa, Semidea. E sarai sempre giovane e
bella, come sei ora! A presto!”.
La donna di luce lo vide andar via,
avvolta da un vento
altalenante, e sospirò sorridendo.
“Dèi, Alti,
Semidèi o mortali…le frasi fatte sono sempre le
stesse!” ridacchiò felice e tornò verso
casa, vedendo le condizioni
atmosferiche peggiorare.
Kevihang entrò nella casa
arancio, senza bussare,
ovviamente.
“Salve…”
salutò, educatamente, ma non ricevette risposta.
Vide che la stanza in cui era entrato
era occupata e quindi
si stupì di non sentirsi rispondere. L’occupante
della sala guardava fuori
dalla finestra, giocherellando con una piccola trottola di legno,
stando seduto
a gambe incrociate di fronte alla scrivania, con una risma di fogli
accuratamente impilati che lo circondavano. Tutta la stanza era
ordinata,
perfettamente ordinata.
Le pareti erano aranciate, illuminate
da un caminetto acceso
e da delle candele sparse su uno strano lampadario e sui mobili. Niente
luce
elettrica. Il mobilio era di legno lucido, come il pavimento, ed in
terra
c’erano dei piccoli tappeti in tinta con le pareti.
“Scusami? È
permesso?” domandò Kevihang, rivolto alla
persona seduta davanti al tavolino.
Non ricevette nessuna risposta.
Sbatté la porta, per farsi
notare, ma nulla accadde. Si avvicinò al tavolo, con
discrezione, e sorrise.
“Ciao. Io sono Kevihang. Tu
come ti chiami?”.
Una risata alle sue spalle lo fece
girare.
“Ciao, piccolo!
È inutile che provi a parlargli, adesso.
Guardalo in faccia…sta facendo i suoi soliti voli pindarici
nel mondo della
fantasia. Non ti risponderà. Io sono Loreatehenzi, il suo
fratello minore. Cosa
ti porta qui? Sei nuovo?”.
A parlare era stato un giovane,
seduto su un piccolo
mobiletto rossastro, a braccia incrociate. Sorrideva, ed il bambino
notò che
era come avvolto da una piccola patina d’aria in continuo
movimento che gli
alzava e gli abbassava i lunghi capelli mori.
“Io sono Kevihang e sono
appena arrivato. Una signora
luminosa mi ha detto che posso restare qui e che devo cercarmi un
maestro…”.
“Una signora luminosa?
Quella è mia madre, Valek-hiteia. È a
capo di questo villaggio. Se cerchi un maestro non posso essere io, che
devo
ancora affrontare la prova dei cristalli. Ma il mio fratellone
potrebbe…immagino…”.
“Lascia
perdere…” si aggiunse una terza voce.
Questa volta a parlare era stato un
altro ragazzo, di poco
più grande del primo, che se ne stava in un angolo,
silenzioso, il più lontano
possibile dal fuoco. I suoi occhi erano come ghiaccio e Kevihang
sentì che era
circondato da un’aura o da una barriera freddissima.
“Lascia perdere, Lore! Non
vedi che se ne sta lì a disegnare
lune? Ha la testa altrove…”.
“Io so come
svegliarlo!” affermò il più giovane,
soffiando
lievemente sul caminetto.
Questo fece sì che il
fuoco si spegnesse all’istante.
“Come hai fatto?”
si stupì Kevihang.
“Io sono il figlio del Dio
dell’Aria, posso controllare il
vento. Quello che vedi seduto nell’angolo distante dal fuoco
si chiama Enrikiran
ed è il figlio dell’Inverno, può
controllare l’acqua ed il gelo. Quello alla
scrivania, invece, è il nostro fratello maggiore.
È Rikarathör, figlio del Dio
del Sole”.
“Forte! Siete tutti
Semidèi! Siete tre fratelli?”.
“Madre uguale, padre
diverso. Siamo tutti Semidèi qui, anche
tu! Non sai di chi sei figlio?”.
“Io non sono un
Semidio!”.
“Va bene, come
vuoi…” sorrise al bambino, storcendo un
po’
il naso quando vide che il fratello maggiore non si era scomposto al
fatto che
aveva spento il fuoco del camino.
“Hei! Apelle, figlio
d’Apollo! Qui c’è qualcuno, con dei bei
tatuaggi, che ti cerca!” lo chiamò il fratello
minore.
“Te la sei
voluta…” mormorò poi, non ricevendo
risposta.
Si alzò, sempre con i
lunghi capelli un po’ levitanti, ed
andò vicino alla scrivania del maggiore. Con le mani in
tasca, e fischiettando
un allegro motivetto, buttò per aria tutte le carte che il
fratello aveva
riordinato con tanta cura e si limitò a mormorare uno
“scusa” poco convinto,
quando Rikarathör lo guardò fisso negli occhi. I
due fratelli avevano le iridi
dello stesso colore ma, in quell’occasione, il maggiore le
aveva color del
fuoco per via del nervosismo del loro proprietario.
“Bentornato coi piedi per
terra, fratellone” lo salutò il
fratello di mezzo, provando qualche accordo con uno strano strumento a
corda.
Rikarathör
respirò a fondo un paio di volte, trattenendo a
stento un movimento involontario del lato della bocca che lo colpiva se
innervosito. Con un gesto della mano, senza girare il viso, riaccese il
fuoco
del camino. I due fratelli si guardarono ancora un po’, senza
dire niente, fino
a quando Kevihang non intervenne: si sentiva a disagio in mezzo a quei
tre che
si lanciavano occhiatacce!
“Io sono Kevihang. Sono
nuovo di qui e mi hanno detto che mi
serve un maestro”.
“Hai davvero dei bei
tatuaggi, ha ragione mio fratello.
Farai colpo…” mormorò
Rikarathör, guardando ancora un po’ male il fratello
minore.
“A me non interessa far
colpo!” protestò Kevihang.
“Adesso no,
perché sei piccolo. Neanche a me importava quando
avevo la tua età. Ma poi le cose
cambiano…credimi!”.
“Non sono qui per parlare
di questo. Mi serve un maestro.
Puoi farlo tu?”.
“Come sei diretto,
ragazzino! Certo che posso, che domande!
Dimmi, però, cosa sai fare…”.
Apparentemente era tornato calmo,
anche se muoveva le gambe
in modo strano. Il bambino iniziò a descrivergli le sue
capacità, mentre
Rikarathör riordinava la propria scrivania. I due fratelli
più giovani,
Enrikiran e Loreatehenzi, nel frattempo si divertivano ad unire i
propri
poteri, per creare piccoli tornado d’aria e ghiaccio, e
singolari nuvolette.
Questo piaceva e divertiva molto Kevihang, che interrompeva spesso il
suo
discorso per seguire le evoluzioni delle magie dei due ragazzi.
Dopo che il terzo o il quarto
soprammobile fu ribaltato da
dove stava, a causa del loro simpatico gioco, il maggiore perse la
pazienza.
Interruppe il loro passatempo alzando le fiamme delle candele.
“Cosa credi di fare, aptero
che non sei altro?” ridacchiò
Loreatehenzi “Non mi fai paura!”.
“Anche tu sei un
aptero!” commentò Rikarathör.
“Certo. Però io
volo grazie al controllo dell’aria, tu no!”.
“Tu ancora non sai
controllare per bene quel potere e rischi
di schiantarti due volte su tre, capirai! In quanto a
me…posso fare ben
altro!”.
Detto questo, prese fra le mani la
fiamma di una delle
candele e la ingrandì fino a farla divenire grande
più di un pugno. Fatto
questo la lanciò verso il fratello che riuscì a
deviarla solo in parte. La
parte che non deviò lo scottò leggermente.
“E mi sono
trattenuto!” ridacchiò il fratello maggiore,
prima di accorgersi che la fiamma deviata da Loreatehenzi stava dando
fuoco ad
una tenda e ad un tappeto.
Spense le fiamme immediatamente ma la
stanza si riempì di un
denso fumo nerastro.
“Che combinate
qui?!” urlò una voce di donna.
Subito i tre fratelli tentarono di
riordinare, alla bene e
meglio, i disastri che avevano combinato. Valek-hiteia era entrata
nella casa ed
aveva capito immediatamente che cosa era successo.
“Rik!”
gridò, guardando il figlio maggiore “Tu dovresti
dare
l’esempio!”.
“Ma mamma! Guarda che
casino han combinato!”.
“Non importa! Enri, fila
subito di sopra ad esercitarti per
l’imminente prova dei cristalli. Lore, vieni qui che ti curo
quelle bruciatore
e poi, per favore, lascia da solo tuo fratello con il suo nuovo allievo
e va a
farti un giro”.
Loreatehenzi obbedì, dopo
essere stato curato dal tocco di
sua madre, e si allontanò.
“In quanto a te,
Rik…” iniziò la madre, ma il giovane la
fermò.
“Mi sono controllato,
mamma!”.
“Voglio crederti. Ma
ricorda perché porti quel sigillo”
concluse la madre “E ora pensa al bambino”.
Rikarathör si
toccò il collo, attorno al quale era fissato
il suo sigillo. Era una sorta di collare dorato con su incastonato, in
rilievo,
l’occhio di un’antica divinità solare
che i mortali chiamavano “Ra”. Aveva
l’iride che si muoveva davvero, indipendentemente, come un
occhio vero, e non
veniva mai tolto per evitare pessime conseguenze.
Rimasti soli, maestro ed allievo si
sedettero uno accanto
all’altro, di fronte al caminetto. Era tanto che Kevihang non
avvertiva un
calore così intenso e rassicurante.
“Allora…fratellino…che
mi racconti?” parlò Rikarathör.
“Fratellino?” si
stupì il bambino.
“Sì. Sei stato
accolto nella nostra famiglia. Sei uno di noi
adesso. Sarai il terzo mio fratellino, quasi gemello della mia
sorellina,
direi”.
“Mi avete
adottato?”.
“Te ne stupisci
tanto?”.
“Sì…nessuno
mi ha mai voluto per via del mio tatuaggio”.
“Non è un
problema quello. Tutti noi abbiamo tatuaggi dalla
nascita. Io ho delle fiamme, mia sorella delle foglie, i miei fratelli
dei
disegni blu e azzurri…ad ognuno il suo. Ci collegano al
nostro genitore
divino”.
“Io non sono sicuro di
avere un genitore divino…”.
“Devi averlo. Almeno uno
dei tuoi genitori deve essere un
Dio altrimenti non avresti avuto la forza necessaria per oltrepassare e
sopravvivere alla barriera che c’è attorno a
questo villaggio”.
Il piccolo sorrise, per nulla
preoccupato o spaventato
all’idea che sarebbe potuto morire poco tempo prima. Si
avvicinò di più a
Rikarathör, fissandolo negli occhi scuri.
“Quindi, ora, tu sei il mio
fratellone?”.
“Tecnicamente
sì…”.
“Posso
abbracciarti?”.
“Certo. Adoro gli
abbracci”.
Kevihang abbracciò il
figlio del Sole, socchiudendo gli
occhi. Era una sensazione di pace ed affetto che non aveva mai provato
prima e
gli piacque un sacco. Tanto da non volersi staccare se non dopo un bel
po’.
“Mi piace la tua
tunica…è molto morbida!”
commentò.
“Te ne farò fare
una solo per te, allora. Con lo stesso
materiale”.
“Grazie, fratellone! Scusa
se non ti chiamo per nome ma…è
complicato!”.
“Eh, eh, lo so! A mamma
piace complicarsi la vita! Puoi
chiamarmi Rik se vuoi, ma fratellone va benissimo. Io posso chiamarti
Kevy?”.
Kevihang rise ed annuì,
con convinzione. Era la prima volta
che non si sentiva giudicato “strano” da chi aveva
di fronte.
“Però
dovrò imparare il tuo nome intero, Rik. E anche il
nome della signora luminosa e dei tuoi due fratelli più
piccoli. Senza
dimenticarmi della sorellina!”.
“La signora luminosa la
puoi chiamare mamma, se vuoi.
Abbiamo tutti dei soprannomi, comunque. Puoi usare quelli, se ti
và. E puoi
chiedermi quello che vuoi su di loro. Sono il figlio più
grande, anche se di
poco, e conosco molto bene questo villaggio e tutti i suoi
abitanti”.
“Tu sei il figlio del Dio
del Sole?”.
“Figliastro,
tecnicamente…ad ogni modo, sì, in
persona!”.
“Sei fortunato. Io ho le
corna, questi strani occhi, questo
strano teschio sulla faccia…tu invece sembri una persona
normale!”.
“Esteriormente
sì, lo sembro. Non ho corna, non ho ali, non
ho la pelle di strani colori salvo per i tatuaggi ed assomiglio in
tutto e per
tutto ad un comune mortale. Ho perfino i capelli mori del lato mortale
di mia
madre. Ma, interiormente, sono molto più complicato di
quanto tu possa credere.
Lascia pure che la gente stia a giudicare, per il tuo aspetto e per la
tua
follia, la verità è che noi siamo migliori di
loro. In tutto. E questo non te
lo devi mai scordare, chiaro?”.
Stavano seduti in terra a gambe
incrociate, perdendosi in
mondi immaginari creati dalle fiamme in continuo movimento, incuranti
del
brutto tempo esterno.
“Perdona il mio fratellino
del vento. È stata colpa sua se
siete atterrati male prima, col drago. Si stava esercitando ma non
è ancora in
grado di controllare del tutto il suo elemento e quindi, ogni tanto, fa
danni”.
“Sembra simpatico. E
anch’io voglio i capelli volanti! E
lunghi come i suoi!”.
“Non dovrai attendere
molto, mi pare. Per la lunghezza,
intendo! Li hai gia molto lunghi, piccoletto. Per quanto riguarda il
fatto che
volino…magari un giorno imparerai!”.
“E sarai tu ad
insegnarmi?”.
“Farò il
possibile…”.
“Cos’è
le prova dei cristalli?”.
“Quanto sei curioso!
È la prova finale. Quando il tuo
maestro stabilisce che sei in grado di controllare il tuo potere,
allora dovrai
affrontare questa prova che consiste nel raccogliere un cristallo nella
foresta
della principessa nera e portarlo qui”.
“Non sembra
difficile”.
“Lo è, invece.
Rischi di smarrirti lungo il cammino, di non
compiere il rito di raccolta nel modo corretto, di dover affrontare la
principessa adirata o uno dei suoi amichetti feroci e via dicendo. Non
è per
niente facile”.
“Il cristallo che porti al
collo è quello che hai raccolto
in quella prova?”.
“Sì”.
Rikarathör portava al collo
uno splendido cristallo rosso,
che gli faceva da fibula per il lungo mantello dello stesso colore. Era
molto
luminoso e riempiva di sfumature la sua tunica scarlatta.
“E il sigillo a che cosa
serve?”.
“Storia lunga. Non ho
voglia di raccontartela ora” rispose,
amareggiato, il maestro.
Si passò una mano fra i
capelli, corti e spettinati, prima
di alzarsi. Il bambino lo seguì.
“Com’è
il tuo papà?” chiese Kevihang.
“In che senso?”.
“Com’è.
Gentile, cattivo, simpatico…”.
“Direi menefreghista. Ma
non l’ho visto abbastanza per
giudicare. Non ha mai avuto tempo per me. Dopotutto, in fondo, lui
è il Dio del
Sole! Avrà una marea di cose da fare, immagino. Controlla
tutti gli Astri degli
Universi, le Stelle, i Soli, il fuoco che abita nelle
profondità di ognuno di
essi eccetera, eccetera…non può certo perdere
tempo con un Semidio come me”.
“Beh…io non so
nemmeno chi sia mio padre, perciò…”.
“Perciò ora
sorridi perché hai una mamma, una sorellina e
ben tre fratelli maggiori!”.
Kevihang di questo era immensamente
felice. Mai si sarebbe
sognato di avere, un giorno, la famiglia che aveva tanto sognato.
“Vieni, Kevy. Ti mostro il
villaggio e ti faccio conoscere
un po’ di gente”.
“Arrivo!”.
Maestro ed allievo si imbacuccarono
in lunghi mantelli,
prima di uscire. Dal piano di sopra provenivano strani rumori, di
passi, e
musica ad un volume sempre più elevato. Il maggiore sapeva
che il fratello non
si stava esercitando un granché per la prova dei cristalli,
ma ricordava
perfettamente di aver avuto anche lui un sacco di distrazioni nel
periodo
precedente quell’esame. Solo ricordando questo, decise di non
dire nulla e di
uscire, lasciando la casa arancio alla mercé dei suoi
fratelli minori, con la
loro musica ed i loro amici.
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Capitolo 7 *** VII- colpe ***
VII
COLPE
Kuetzalikay era tornato a casa. Il
drago di Mihael conosceva
bene la strada ed era atterrato, con relativa dolcezza, sul palazzo in
cui un
tempo viveva Kasday. Quello era il luogo in cui risiedeva ora il
giovane Alto,
assieme al padre ed all’angiolessa vigilante Kiaritanya.
Amava chiamarlo “il palazzo
dei K”.
Entrò dal cortile interno,
senza far rumore e permettendo al
drago rosso di tornare dal suo padrone demone. Scostò ed
aprì, con due dita, la
porta a vetri, ed entrò nel grande salone principale.
Lì un allegro fuocherello
scoppiettava, incurante della sofferenza che aveva procurato in passato
all’antico occupante di quell’edificio. Kuetzalikay
rimase in silenzio, per
ascoltare e notare l’eventuale presenza di qualcuno, ma
sentì solo il solito
vociare di Urihel. Il Dio del Cielo e dell’Aria abitava
ancora sulla cupola
dell’antico palazzo dell’Equilibrio. Probabilmente
era andato a fargli visita
il Sole, come era consueto fare, e stavano discutendo in ricordo dei
bei tempi
andati.
“Nosmagiés!”
chiamò l’Alto, sapendo che l’Angelo
Messaggero
era sempre nei pressi di quel luogo in cui serbava la maggior parte dei
suoi
ricordi.
L’angelo rispose, dal piano
di sopra.
“Nosmagiés…hai
visto Ansuz?”.
“Intendete vostro padre
Krì? Non di recente…”.
“Bene.
Benissimo!” esclamò Kuetzalikay, sedendosi accanto
al
fuoco e sibilando leggermente.
Nosmagiés, con i lunghi
capelli magenta raccolti in una
crocchia, scese dalle scale con prudenza. Non amava avere a che fare
con gli
Alti, ma quello era il palazzo del suo antico padrone e lo avrebbe
mantenuto
per sempre in ordine, come aveva sempre fatto. Per questo passava e
ripassava
per le stanze buie e vuote, spolverando e sospirando, mantenendo tutto
il più
inalterato possibile.
Povero angelo si
ritrovò a pensare Kuetzalikay,
guardandolo con tenerezza e compassione povero angelo,
creatura fedele e
sognatrice, che speri che il tuo padrone un giorno torni. E anche se
non speri
questo, resti in attesa serbandone il ricordo come la cosa
più preziosa in tuo
possesso. Quante Ere lascerai passare ancora, prima di spalancare le
tue ali e
volare lontano da qui?
Molte volte aveva visto questa scena:
divinità che morivano
ed angeli vigilanti che non volevano accettarne la scomparsa. Il
più delle
volte morivano poco tempo dopo per il dolore. Nosmagiés era
diverso. Nosmagiés
era speranzoso. Guardava il cielo nero, nelle notti quando era libero
da nubi,
e ricordava i capelli del suo padrone. Guardava gli alberi spogli del
giardino
interno e ritornava con la mente a quando erano verdi e vivi, pieno di
voglia
che fioriscano di nuovo. Kuetzalikay, da quando aveva memoria, non
aveva mai
visto un solo fiore se non quelli dell’albero della Vita, gli
alberi di Heket.
Erano fiori magnifici di certo, ma non potevano essere paragonati alla
bellezza
che si diceva raggiungesse il pianeta nel pieno della sua primavera.
Negli
occhi di quell’angelo si poteva scorgere la bellezza di
quella dimenticata
stagione ed il calore dell’amore, ma anche la tristezza del
tempo passato ed il
gelo della morte. Quell’angelo, il cui viso sembrava giovane
e fresco, portava
nello sguardo color smeraldo il peso dei millenni trascorsi.
Nosmagiés..che al
momento della morte del suo padrone aveva pianto, guardando la sua
essenza
dissolversi in mille farfalle, senza ricevere consolazione. Kuetzalikay
in
parte capiva il dolore di quella creatura. Lui aveva perso la madre,
Berkana,
ed era rimasto solo, l’unico di tanti fratelli che era
riuscito a sopravvivere
al gelo ed al calo di fede dei mortali che era avvenuto in passato e
che ora
stava peggiorando sempre più.
“Credo stia arrivando suo
padre, signor Kuetzalikay” mormorò
il Messaggero, con un piccolo vaso di ceramica fra le mani, che
pulì con cura
prima di riporre.
Il quadro affisso sopra il caminetto
brillò, simbolo che
qualcuno stava oltrepassando il passaggio che apriva. In pochi secondi,
Ansuz,
Krì, entrò nella stanza. Noncurante del figlio,
guardò l’angelo Messaggero
chiedendogli dove stava Kiaritanya. Nosmagiés
indicò il piano di sopra e l’Alto
sorrise. Probabilmente era a divertirsi con Urihel ed il Sole. Poi
Krì si girò,
distrattamente, e notò il figlio, spaparanzato su una
poltroncina color cenere.
“Oh…sei qui.
Come mai?” domandò, con voce calma.
“Ci abito. Altrimenti non
ci verrei in un posto come questo”
commentò, acido, Kuetzalikay.
Il giovane Alto non amava quella
casa, in cui aveva
trascorso la sua infanzia e che era piena di voci e fantasmi del
passato, per
niente piacevoli da sentire.
“Dove, o da chi, sei andato
ad auto commiserarti oggi,
Kuetzy?”.
“E tu dove, o da chi, sei
andato a rompere le palle oggi,
vecchio?”.
Nosmagiés capì
che era meglio alzare i tacchi e se ne andò,
verso la cupola. Là almeno ci stava gente simpatica e poco
incline alle
litigate…
Krì non amava il tono di
sfida del figlio ed incrociò le sue
quattro braccia, accigliandosi. Kuetzalikay, di risposta, si
alzò ed iniziò ad
agitare la coda, a scuoterla, in modo da farla suonare come se ci
avesse appeso
dei piccoli sonagli. Nel frattempo sibilava, mostrando la coda
biforcuta.
Padre e figlio si guardarono, con
sfida, poi Krì parlò con
un tono di voce solo leggermente alterato:
“Figlio…io non intendo farti del
male. Perciò calmati e torna seduto”.
“Non vuoi sfidarmi
perché sai di perdere…”.
“Scemenze!
Piuttosto…sono stato informato del fatto che sei
tornato in quel villaggio”.
“Quello dei
Semidèi? Sì, certo! Perché?”.
“Non ti avevo vietato di
farlo?”.
“E con questo? Guarda che
io faccio quello che mi pare…”.
“Quel villaggio ospita
gente di sanguemisto che non dovrebbe
esistere”.
“Ma che tu hai contribuito
a creare”.
“In che senso? Figlio mio,
le scempiaggini che spari a volte
sono…”.
“Fai silenzio. Gli
Dèi stanno morendo, non nascono più
Dèi
bambini e tu sai quanto è raro che una mortale possa
concepire una creatura con
una simile forza magica da essere considerata una
Semidivinità. Il mio compito
è stato quello di proteggere le preziose creature in grado
di dar vita a simili
esseri. Se più nessun Dio nascerà, Ansuz, chi
credi che prenderà il posto delle
divinità attuali che si spengono? Non certo io!”.
“Non sono affari che ti
riguardano. Io e te siamo gli ultimi
Alti rimasti, credi che per questo ci toccherà far figli con
delle Dee o delle
mortali?”.
“Perché no? Un
tempo lo facevi…”.
“Quando ero un Dio! Non
certo adesso che sono un Alto!”.
“Ma loro sono
Dèi!”.
“Loro chi?”.
E Kuetzalikay indicò le
scale, dove Urihel ed il Dio del
Sole si erano messi ad origliare.
“Voi due avete dei figli in
quel villaggio?” si stupì Krì.
“Sì, in
effetti” ammise Urihel, non nascondendo una punta
d’orgoglio.
“Ma…è
contro le regole!” li rimproverò l’Alto.
“Andiamo, papà!
Se non ti fossi sottostato sempre alle
regole, a quest’ora mamma sarebbe ancora viva e tu lo sai
bene. Ma non le hai
permesso di staccarsi dalla sua dipendenza dalla fede dei mortali che,
scemando, l’hanno portata alla debolezza ed alla morte. Si
è ammalata perché
non le hai permesso di infrangere le regole!” sibilo
Kuetzalikay.
“Io devo sottostare alle
leggi degli Universi!”.
“Con la morte di mamma,
è morto l’ultimo Celeste! E tu sei
il capo degli Alti! Sono le leggi degli Universi che devono sottostare
a quello
che dici tu, coglione!”.
Krì non sapeva che
rispondere. Guardò suo figlio e poi
guardo le due divinità sulle scale che nel frattempo stavano
parlottando fra
loro dei propri figlioli.
“Urihel!”
sbottò Krì, dopo un attimo di sconcerto
“Urihel…tu
sei sempre qui nella cupola, come sei riuscito ad avere un
figlio?”.
“Vuoi un disegnino? Esco
anch’io, ogni tanto, sai! Hai visto
il mio ragazzo, Kuetzalikay?”.
“Loreatehenzi?
Sì, di sfuggita. Sta diventando grande! E sta
imparando sempre più in fretta a controllare
l’aria, il vento e simili. Presto
credo sarà in grado di volare con
agilità”.
“E Rikarathör, mio
figlio?” si informò il Dio del Sole.
“Ha ancora il sigillo ma,
del resto, dopo quello che ha combinato…ad
ogni modo sta bene ed ora è maestro della sua sorellina e di
un altro piccolo
bambino appena arrivato”.
I due padri sorrisero, con orgoglio,
ignorando le
occhiatacce di disapprovazione di Krì. Il Sole stava
osservando il caminetto
acceso, alimentandone le fiamme con il solo sguardo. Urihel invece
aveva le ali
grigio scuro, come il cielo, e la cosa non gli piaceva molto.
“Sapete che potreste essere
puniti per aver stretto rapporti
con i mortali, generando dei figli…”
iniziò a parlare Krì ma venne subito
interrotto con un: “Fai pure. Poi vediamo a chi dai il mio
ruolo” da parte del
Sole, che aggiunse uno “Stronzo” a bassa voce.
Urihel ridacchiò, sentendo
il sottovoce, ed iniziò a
risalire lungo la cupola. Krì fece per avanzare e ribattere
ma Kuetzalikay lo
bloccò. I due si fissarono, con odio.
“Pensa ai tuoi errori,
Ansuz! E lascia stare coloro che
cercano di riparare ai tuoi sbagli”.
“Nessun errore,
Kuetzalikay, e nessuno sbaglio. Un giorno lo
capirai”.
“Un giorno verrai
giudicato, ricordatelo”.
“Stai parlando di tua
madre?”.
“Anche. Sei un Alto, siamo
rimasti in due, io e te, eppure
ancora tenti di dare le colpe di ogni cosa ad altri. A chi? So che non
è bello
essere additato ed accusato ma è la verità. Se
qualcosa accade…è per colpa
tua!”.
“E colpa tua non
può essere mai, ragazzo mio? Sei un Alto
anche tu”.
“Non posso essere la causa
degli errori da te commessi
quando ero bambino. Di ciò che è stato dopo ho
piena consapevolezza. Sta
tranquillo”.
“Io non ho ucciso Berkana.
La amavo”.
“Non l’hai uccisa
di persona. Ma il tuo egoismo e fissazione
per le regole l’ha fatta appassire”.
“So che mi odi tanto per
questo, figlio mio. Ammetto i miei
errori ma non sarebbe accaduto nulla di diverso. Guardati
attorno…non c’è
rimedio a tutto questo”.
“Credi che sia la
fine?”.
“Non lo so, ma in troppi
sono morti”.
“Forse dovresti morire
anche tu…”.
“Uccidimi allora.
Raggiungerò tua madre che mi manca tanto.
E lascerò a te tutto questo, se ti piace tanto e se ti
ritieni all’altezza. Ma
per uccidermi dovrai indebolirmi ancora parecchio”.
“Smettila di darmi idee,
cosetto azzurro!”.
“Senti…serpentello…mi
rendo conto che Berkana sia morta
perché ho cercato e cerco tutt’ora, con tutte le
mie forze, di seguire le
regole. Non l’ho aiutata e lei si è indebolita,
perché i mortali non credono
più e stanno scomparendo. Lo ammetto questo. Non
l’ho aiutata. Ma non è stata
colpa mia, di questo sono più che sicuro”.
“Un giorno verrai
giudicato, te lo ripeto e lo ribadisco”
sbottò Kuetzalikay, dando le spalle al padre e salendo ai
piani superiori.
Nosmagiés, sentendo tutto il discorso di sfuggita,
sospirò. Questi Dèi sono
solo in grado di litigare tutto il tempo!
Urihel era tornato sulla cupola,
seguito dal Dio del Sole e,
poco dopo, da Nosmagiés. Il Dio del Cielo
controllò, preoccupato, la
traiettoria di un paio di pianeti che, senza vita e senza
più rotazione,
vagavano sconnessi per la stanza. Guardò, altrettanto
preoccupato, il Dio del
Sole.
“Perdonami” gli
disse il Dio Solare.
“Per cosa?” si
stupì Urihel.
“Un'altra stella si
è spenta. Quella lassù in alto, la vedi?
Credimi se ti dico che faccio del mio meglio, ma coloro che devo
controllare
non sempre reagiscono e rispondono ai miei comandi”.
“Non è certo
colpa tua!”.
“I mortali pensano di
sì”.
“I mortali sono liberi di
pensare quello che vogliono. Io so
che non è colpa tua”.
“Io, che controllo il fuoco
ed il cuore pulsante del
pianeta, ricco di magma e calore, sento che sempre più si
raffredda e rallenta.
Anche questo pianeta morirà”.
“Beh, che è sta
storia??!!! Non eri tu l’ottimista? Un po’
di allegria!”.
“Guarda che non sono
depresso o triste. Se muore questo
pianeta ne nascerà un altro. E via discorrendo…mi
spiace solo un po’ per gli
abitanti. Ma in sostanza la cosa non mi deprime”.
“Mi sarei preoccupato del
contrario” sorrise Urihel, dando
un piccolo colpetto ad un pianeta per farlo restare in traiettoria.
La pallina del mondo colpito
vibrò leggermente e ripartì la
sua corsa. Il Sole si avvicinò ad un’altra pallina
e la prese fra le mani.
Chiuse gli occhi per un attimo e questa brillò
più intensamente.
“Una volta non dovevo farle
splendere una per una, che
smeno!”.
“Che linguaggio!”
ridacchiò il Dio del Cielo, fissando
scocciato le nuvole grigie che coprivano sia l’azzurro, che
lui amava tanto,
che la luce del Sole.
Le due divinità avevano
unito più volte le loro forze per
far venire bel tempo ma non erano riuscite a contrastare
l’inspiegabile voglia
dei pianeti di congelare.
“Ricomincia a
nevicare” mormorò l’ex Arcangelo.
Il Sole sbuffò,
avvolgendosi di nuovo nel lungo mantello ricoperto
di morbido pelo rosso, proveniente da qualche sconosciuto animale ormai
estinto. Urihel strinse un po’ a sé le ali
piumate, coprendo in parte la tunica
blu scuro.
Nosmagiés, rimasto fino a
quel momento in silenzio, si
intromise nella conversazione.
“Avete mai pensato di
chiamare in vostro aiuto i vostri
figli? Potrebbero unire le forze e…”.
“Fuori
discussione!” sbottò il Sole, mentre invece Urihel
ammise di averci pensato.
“Ma devo aspettare che
Loreatehenzi svolga il rito di
maturità” specificò il Dio del Cielo
“Così sarà in grado di controllare
pienamente il suo elemento e dimostrerà di potermi davvero
aiutare. Tu,
piuttosto, Sole caro, perché non vuoi che
Rikarathör ti aiuti?”.
“Affari di famiglia. E,
comunque, alla sua prova di maturità
ha dimostrato di non essere in grado di controllarsi e quindi
è meglio non
contare molto in un suo eventuale soccorso”.
“Considera,
però, che non hai figli maschi in grado di
prendere il tuo posto e perciò dovresti prendere in
considerazione il fatto che
quel ragazzo dovrà aiutarti, prima o poi, che tu lo voglia o
no. Cosa credi che
possa fare?”.
“Non ti riguardano certe
faccende. Ad ogni modo…mi annoio e
mi sto addormentando. Mettiamo un po’ di musica?”.
Urihel, stupito
dall’improvviso cambio d’argomento, scosse
il capo ridendo.
“Che matto che
sei!”.
“Se non sono matti non li
vogliamo, troppo Sole fa male al
cervello e si vede”.
“Sei fuori come un
balcone”.
“Da che
pulpito…ha parlato quello che passa la sua vita
contando le palle di una cupola!”.
“Detto così
suona un po’ male, ma te lo perdono.
Piuttosto…non credi che dovremmo…”
parlò il Dio del Cielo ma si interruppe
perché il Sole non lo ascoltava più, rapito da
una strana musica che ascoltava
attraverso un piccolo aggeggio elettronico con le cuffie, rubato ai
mortali.
Urihel scosse di nuovo il capo.
L’ex Arcangelo manteneva
inalterato il suo aspetto nonostante le numerose Ere passate. Era
più vecchio
del Sole, che a sua volta non dimostrava di certo tutti i sui miliardi
di anni
di vita, e si sforzava di fare il coscienzioso ed il responsabile, ma
si
accorse subito che in un’Era come quella non ne valeva la
pena. Domandò
cortesemente a Nosmagiés se poteva portargli una tazza di
tè e tornò a
concentrarsi sulle sfere rappresentanti i pianeti e le stelle.
Ricordava con
nostalgia i giorni in cui c’era solo da pensare al fatto che
i pianeti
governati dal Kaos non se ne andassero troppo al di fuori dai propri
confini.
Adesso invece era tutto un macello incontrollato di pianeti ribelli,
morenti, e
menefreghisti, per quanto menefreghista possa essere un pianeta.
Sorseggiando
il suo tè, con la compagnia di Nosmagiés e lo
sguardo distante del Sole, Urihel
si chiese dentro di sé chi Krì credesse di
essere. Ma si rispose da solo: un
Alto, deficiente!
Si morse la lingua per non parlarne
male. Dopotutto Krì era
il capo ed il Dio del Cielo aveva già abbastanza problemi
senza stare a pensare
anche ad un Alto con cambi d’umore improvvisi che voleva
ucciderlo. Sbatté le
ali, lasciandone cadere qualche piuma. Nosmagiés lo
imitò, finendo l’ultimo
sorso di tè impregnato di zucchero, ed insieme, dopo una
rapida occhiata
d’intesa, fecero sobbalzare il Dio del Sole con un
“Buh!” corale.
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Capitolo 8 *** VIII- maestri ed allievi ***
VIII
MAESTRI
ED ALLIEVI
“Buongiorno
papà” mormorò Rikarathör,
svegliato da un
rarissimo raggio di luce che entrava dalla sua finestra.
Era piacevolmente caldo e
lasciò che gli illuminasse il
viso. Sapeva che presto la grande stella si sarebbe nascosta fra le
nubi nere e
che doveva godersi quel rapido momento d’alba. Socchiuse gli
occhi scuri,
brillanti per l’illuminare del Sole, e sorrise. Quella notte
sarebbe stata Luna
piena ed era la notte del mese che attendeva con più
impazienza. Si rilassò,
assaporando il silenzio del primo mattino, che però venne
subito interrotto da
un forte rumore di vetri rotti proveniente dal piano superiore.
“Ma Thiudangardi Gudis! Che
combinate?!”.
Si era alzato di colpo a sedere sul
letto, ma una fitta al
collo lo tornò a far stendere. Il sigillo gli aveva
rilasciato la sua solita
scarica magica per tenere sotto controllo l’irruenza del
fuoco. Stringendosi il
suo torturatissimo pomo d’Adamo, si rialzò
lentamente. Uscendo dal letto, si
soffermò solo un attimo ad osservare i tatuaggi di fuoco e
fiamme che si
facevano sempre più evidenti su tutto il suo corpo. Un altro
forte rumore gli
fece alzare gli occhi verso il piano superiore. Si vestì in
fretta e risalì le
scale, lungo le quali vide un sacco di oggetti fuori posto.
Ma perché tocca
sempre a me riordinare il casino che
lasciano gli altri in 'sta casa? si chiese, cercando in ogni
modo di
restare calmo. La scalinata era ripida e rumorosa. Aprì la
botola in legno che,
sopra la sua testa, gli permetteva di entrare nella mansarda. Questa
era stata
modificata, tempo fa, per permettere ai fratelli di esercitarsi con il
loro
elemento e la magia. Di forma triangolare, seguendo la forma del tetto,
era
stata aperta nella metà di destra. Così facendo,
la casa aveva preso
un’insolita forma e la mansarda, tronca, era divenuta una
specie di piano
aggiunto con una grande terrazza che la piccola sorellina che
controllava la
terra aveva ricoperto di verdi rampicanti. Rikarathör
entrò nella parte coperta
del sottotetto e storse il naso, vedendo i letti dei fratelli disfatti
e tutta
la stanza in disordine, poi uscì all’esterno
attraversando una porticina rossa
e scricchiolante. Sulla terrazza, sotto la neve, i suoi due fratelli
creavano
piccoli tornado e spirali di ghiaccio. Non si accorsero della presenza
del
fratello maggiore fino a quando non apparve qualche fulmine nelle loro
creazioni, effetto collaterale del nervosismo di Rikarathör, e
l’acqua mista a
neve che stava in terra non iniziò ad evaporare.
Il fratello più piccolo,
Loreatehenzi, si fermò subito. Non
amava “scaldare” il suo fratellone. Ma Enrikiran
continuò ancora per un po’,
usando la scusa che si doveva esercitare per l’imminente
prova dei cristalli.
Comandò la neve e il ghiacciò in movimenti
innaturali, per vedere fino a che punto
poteva ed era in grado di spingersi.
Rikarathör notò
una delle finestre che dava sulla terrazza:
era infranta e sparsa in terra. Ora aveva capito cos’era quel
rumore di vetri
rotti che aveva sentito prima. Incrociò le braccia,
attendendo spiegazioni ma, dato
che non arrivavano, iniziò a protestare. E
rincarò la dose quando vide che il
suo nuovo allievo, Kevihang, si trovava assieme a loro e si stava
divertendo da
morire osservando i danni che riuscivano a creare i due fratelli quando
si
sentivano “ispirati”.
“Cosa state
facendo?” iniziò, scandendo bene parola per
parola, il Semidio del fuoco “Vi rendete conto che
è l’alba? Cosa credete di
poter fare, qui sopra, così presto, senza maestri o
supervisori a controllarvi?
Mi avete svegliato e…”.
“Fermo, bello!”
lo interruppe Loreatehenzi “Guarda che tu
sei solo il figlio del Sole. Vale solo per lui la teoria eliocentrica.
Tu non
sei il centro degli Universi! Non tutto ruota attorno a te. Volevamo
esercitarci e lo abbiamo fatto. Che ci possiamo fare se tu, prima
dell’alba,
hai il cervello in stand-by e non riesci a svegliarti?!”.
Rikarathör, sconcertato da
quella risposta, rimase
insolitamente in silenzio. Ricordò i bei tempi in cui,
ancora bambini, loro tre
fratelli camminavano e giocavano per il villaggio. Si tenevano per mano
e non
si separavano mai. Lui era il maggiore, anche se per poco, ed i suoi
due
fratellini lo seguivano e gli obbedivano. Lui era “il
grande”, colui che doveva
dare l’esempio e che i “i piccoli”
osservavano continuamente, ma non era più così
già da anni. I motivi erano molteplici:
l’adolescenza, la nascita della loro
sorellina Marinditi-ya, la sua distrazione nei confronti di una certa
persona a
cui stava cercando di non pensare…insomma tutta una serie di
cose che avevano
cambiato la situazione. Erano così carini da piccoli, con le
manine strette
l’una all’altra ed i giochi costanti, senza troppi
pensieri. Ora invece erano
cresciuti e, soprattutto dopo la sua prova dei cristalli, non vivevano
più
negli stessi rapporti.
“Il problema principale non
è che mi avete svegliato. Avete
rotto un vetro e state insegnando al mio allievo, Kevihang, ad usare la
magia
in modo sconsiderato. Ricordate che siamo Semidèi, non
divinità complete, ed è
per questo che portiamo i sigilli. Capita spesso che quelli come noi
non siano
in grado di controllare pienamente il proprio potere. Solo la prova dei
cristalli potrà stabilire in che modo poter usare la magia.
Voi due,
fratellini, non avete ancora la possibilità di togliere il
sigillo e Kevihang
ha ancora anni ed anni di lavoro da fare, perciò risparmiate
energia per i
giorni in cui sarete liberi di farlo e lasciate che questo bambino
impari le
tecniche nel modo giusto!”.
Detto questo, afferrò
Kevihang per un braccio e lo tirò
verso di sé, fra le proteste del piccolo.
“Smettila di
agitarti!” lo rimproverò il suo maestro,
prendendolo in braccio e portandolo al piano di sotto “Lo
faccio per il tuo
bene. Non capisci che è pericoloso?
L’incapacità di dominio completo sui propri
poteri comporta l’alto rischio che accada qualcosa che non si
è in grado di
controllare. Potresti rimanere ferito o peggio, perché non
sei in grado di
creare una barriera o una forza contraria per contrattaccare”.
Kevihang si fermò. Aveva
compreso il rischio e si era
rassegnato, lasciandosi trasportare.
“Scusami, Kevy. Non voglio
essere il maestro severo e
lagnoso ma mi preoccupo per te, capisci? Loro due, Loreatehenzi ed
Enrikiran,
sono forti abbastanza da potersi affrontare fra loro ma tu, che sei il
mio
fratellino, rischi di farti male seriamente. Faresti meglio a non
avvicinarti
così tanto mentre loro si esercitano. Fai come
Marinditi-ya…”.
Il bambino non disse altro. Si
accoccolò fra le braccia del
maestro, non sapendo come sfuggirgli, e si fece condurre fino al piano
terra.
“Kevy…”
parlò ancora Rikarathör, tentando di far sorridere
ancora il suo allievo “Vieni con me alla serra con i frutti
dell’albero della
Dea della Vita? Gli alberi di Heket?”.
“Posso davvero?”
si stupì il piccolo, al quale era sempre
stato proibito di andarci.
“Copriti per bene, che
fuori fa freddo, e ci andiamo
assieme”.
“Se mi prendi in braccio e
mi scaldi…non avrò bisogno di
coprirmi”.
“Sfruttatore!”
rise il maestro, facendosi circondare dai
braccini del bambino ed uscendo.
Le impronte sulla neve, che
lasciavano gli stivali ed il
bordo del mantello, venivano subito ricoperte da altra neve fresca che
cadeva,
accompagnata dal solito vento gelido. Passarono accanto
all’edificio principale
del paese, con la sua torre di guardia costruita per sventare ogni
possibile
attacco nemico, coperta da una momentanea nebbiolina bianca, e
proseguirono con
decisione. Kevihang rabbrividì e si dimenò per
cercare di ottenere più caldo
possibile dall’abbraccio del fratello maggiore che
sghignazzava.
“Te lo avevo detto io di
coprirti, Kevy. Ma tu hai poca
voglia di starmi ad ascoltare!”.
Non incrociarono nessuno per strada
ed arrivarono in fretta
alla meta. La serra, una specie di cupolone d’argento e
bianco, dall’esterno
non lasciava intravedere le meraviglie che conteneva
all’interno. Era un ambiente
delicato e sensibile, nel quale a pochi era concesso
l’ingresso. Questo per
evitare di alterarne l’equilibrio naturale già
precario. Rikarathör aveva
libero accesso ma fin ora non ci aveva mai portato Kevihang, che moriva
di
curiosità.
Il maestro afferrò il
mazzo di chiavi che pendeva sempre dal
suo fianco, tintinnando, e cercò quella giusta.
Aprì una piccola porta che, ad
occhio inconsapevole, era impossibile notare. Il bambino lo precedette,
divincolandosi dal suo abbraccio scendendo a terra, e non
poté trattenere un
gridolino di meraviglia e stupore. Nella serra vi era una piccola
foresta di
alberi di Heket, gli alberi che fornivano i frutti che permettevano ai
nuovi
nati di crescere. Erano delle piante molto belle, con dei fiori enormi
e
coloratissimi, riscaldati grazie ad un sofisticato sistema che
permetteva di
ampliare e conservare ogni raro raggio di Sole. Kevihang non aveva mai
visto un
prato verde prima d’ora e ne restò affascinato. Lo
accarezzò con le mani e
ridacchiò per il solletico.
“Questo posto è
bellissimo!” affermò.
Rikarathör gli sorrise. E
poi si sentì chiamare per nome.
Marinditi-ya, la sua sorellina, stava correndo verso i due fratelli a
braccia
spalancate. Era una bambina bellissima, con due codini fatti di ricci
capelli
biondi e quegli occhi dolci, ed era estremamente legata al suo fratello
maggiore.
“Fratellone!”
gridò, facendosi abbracciare in cerca di
calore.
“Ciao, pulcina!”
rispose lui, sollevandola da terra e
facendole fare qualche giro in aria fra le sue braccia, fra le risate
di lei.
“Ciao, Kevy!”
salutò, poi, la bambina e Kevihang rispose
scuotendo la mano.
“Vieni, ti mostro tutte le
cose belle della serra” lo invitò
Marinditi-ya, porgendogli la mano.
Il piccolo esitò per un
attimo ma poi si lasciò condurre,
mano nella mano.
“Come sono
carini” mormorò una voce, alle spalle di
Rikarathör.
“Già.
Adorabili” concordò lui.
Era il Dio dell’Estate, il
padre di Marinditi-ya, colui che
aveva parlato. Era un uomo massiccio, imponente, muscoloso, con una
lunga barba
scura ed i capelli legati da un nastro rosso.
“Come stai,
ragazzo?” domandò il Dio, avvolto in pesanti
vesti verde scuro.
“Non mi lamento”.
“Bravo. Mai lamentarsi.
Perché se ci si inizia a lamentare
in questo freddo mondo, si finisce per appassire come una rosa al
gelo”.
“Non credo possa essere il
mio caso” ridacchiò il figlio del
Sole.
“Di chi credi che sia
figlio il piccolo Kevihang?”.
“Domanda interessante. Non
ne ho idea. Tu non hai qualcuno
da suggerirmi?”.
“Quando sono
così piccoli è difficile da capire. Anche tu,
appena nato, eri un’incognita”.
“Ma poi si è
capito subito…”.
“Certo. Verso i dieci anni,
quando apparve il primo
tatuaggio a fiamme che dovevi aver ereditato per forza da tuo
padre…”.
“Avevo nove anni, a dir la
verità. Ma questo non conta. Dici
che, crescendo, si capirà?”.
“Solo il tempo
potrà dirlo. Tanto…voi mortali e
Semidèi
crescete ed invecchiate così in fretta che non ci
vorrà molto. Mi sembra ieri
il giorno in cui eri tu quello piccolino e meravigliato da ogni cosa
presente
in questa serra. E ricordo che, al tempo, mi sono chiesto di chi fossi
figlio”.
“Ora non hai più
dubbi, spero…”.
“Certo che no, stellina!
Ma, dimmi, quello scricciolo dai
capelli blu è davvero tuo allievo? È praticamente
da due giorni che hai
imparato a camminare e già insegni?”.
“Beh…io
veramente ho quasi 21 anni…”.
“Sei nato l’altro
ieri insomma…”.
“Per un Dio certo,
ma…”.
“È proprio vero
che crescete così in fretta…”.
“Mia madre è
qui?”.
“Sì. Come sempre
mi sta dando una mano con le piante”.
I due si avviarono assieme lungo il
prato verde, mentre
Kevihang e Marinditi-ya si rincorrevano fra gli alberi giocando a
nascondino.
“Attento a non rovinare gli
alberi, Kevy!” lo ammonì
Rikarathör.
“Attento tu a non rovinare
gli alberi, fiammifero
ambulante!” gli rispose il bambino, ridendo.
“Ha sempre la risposta
pronta” sorrise Valek-hiteia.
“Ciao, mamma” la
salutò Rikarathör.
Lei stava piantando nuovi alberelli,
dopo aver messo dei
bastoni accanto ad un paio di loro che stavano crescendo storti.
Aiutava, con
la sua luce, i germogli a crescere più in fretta.
“Rik, avanti, non stare
lì fermo. Vai a fare il solito giro
per la serra. Sai che solo così i frutti di Heket possono
maturare!”.
Il figlio del Sole annuì.
Lui e sua madre emettevano
entrambi luce ma erano di due tonalità differenti. Quella di
lei era quasi
bianca, più forte, una guida per i germogli che cercavano la
via dalla culla di
madre terra. Quella di Rikarathör invece era più
scura, tendente al rosso, più
calda e pulsante, come un cuore vivo. Era quella che faceva maturare i
frutti di
Heket e gli donava quel sapore dolce ed inconfondibile che solo la sua
luce
poteva donargli. Senza di lei, i frutti sarebbero maturati
più lentamente e
avrebbero avuto un sapore più aspro ed acidulo.
Kevihang e Marinditi-ya lo seguirono
nella sua passeggiata
fra gli alberi, con ammirazione.
“Un giorno avrò
anch’io uno scopo importante?” domandò
il
bambino.
“Non ho dubbi a proposito.
Certo!”.
“Io oggi ho fatto aprire le
gemme ed i fiori ad un albero!
Non ci ero mai riuscita, prima d’ora!”
esclamò la bambina, sorridendo con
orgoglio.
“Bravissima!” si
complimentò il fratello maggiore “Tuo padre
sarà davvero fiero di te!”.
“Lo sono!”
confermò il Dio dell’Estate, che si era unito al
gruppetto per controllare come proseguiva la crescita degli alberi.
“E anche tuo padre
è orgoglioso di te” parlò Valek-hiteia.
Ora erano tutti l’uno
accanto l’altro, come una piccola
processione carica di doni fra le piante della serra. Sotto i piedi del
Dio
dell’Estate venivano sparsi semi che venivano fatti
germogliare con l’aiuto della
luce della semidea luminosa. Marinditi-ya, sollevata fra le braccia del
padre,
sfiorava con le mani tutti i fiori e li faceva sbocciare, riempiendo la
serra
di profumo. Rikarathör, invece, aveva espanso la sua luce ed
il suo calore,
allacciando la camicia intorno alla vita e sorridendo. Non credeva
molto alle
parole di sua madre ma voleva che lui sapesse, che suo padre sapesse,
che era
in grado di svolgere il suo compito, nonostante portasse il sigillo
attorno al
collo che frenava in parte le sue capacità. Kevihang
sorrideva, ammirato,
agitando la coda rossa con felicità, desideroso di possedere
anche lui un
potere che gli permettesse di avere un ruolo importante nel villaggio.
Continuarono i loro giri per la serra per diverso tempo, raccogliendo i
frutti
maturi e riponendoli in una cesta di vimini. Il maestro, nel frattempo,
spiegava al suo allievo che questi frutti erano molto importanti e che
il loro
succo veniva fatto bere ai bambini appena nati ed a quelli malati per
farli
vivere e crescere. Erano un prezioso dono della Dea della Vita.
Fuori si stava facendo buio. I fiori,
come assonnati, si
stavano richiudendo avvolgendosi nei loro petali variopinti. Il bambino
li
osservava, sentendo a sua volta un po’ di stanchezza.
“Posso toccarli,
fratellone? Posso toccare uno di quei
fiori? O posso raccogliere uno dei frutti?”.
“Non ci sono problemi.
Aspetta che ti alzo…”.
Prese in braccio il fratellino,
sollevandolo da terra, e lo
avvicinò ad un fiorellino ancora aperto, tendendo le
braccia. Il bambino
sorrise ed allungò le mani. Ed avvenne una cosa strana. La
corolla, prima
delicata e morbida, si irrigidì e divenne acuminata, piena
di denti. Si mosse
di scatto, come una bocca piena di denti affilati, e morse il bambino,
che
urlò. La pianta reagì, mutando tutti i suoi fiori
in armi piene di denti, ed
emise un suono simile ad un ringhio o ad un sibilo.
Rikarathör, allarmato,
indietreggiò in fretta. Spaventato,
guardò Kevihang ed il punto in cui era stato morso. Non
aveva mai assistito ad
una reazione simile e, a quanto pare, nemmeno nessun’altro
dei presenti, che
osservavano la scena piuttosto scioccati.
“Ti sei fatto
male?” domandò il figlio del Sole, cercando di
celare la sua agitazione.
Kevihang mostrò il punto
in cui era stato morso e scosse il
capo. Era solo un piccolo morso da cui era scesa solo qualche goccia di
sangue.
“Meno male…sta
bene, tranquillizzatevi” disse Rikarathör,
rivolto agli altri che, però, continuavano a guardare
l’albero dai fiori
dentati.
“Io non credo che ti debba
preoccupare del bambino…” mormorò
il Dio dell’Estate.
Il figlio del Sole si girò
verso l’albero e strinse a sé
Kevihang, non sapendo che altro fare. La pianta era morta. Il tronco,
le
foglie, i fiori ed i frutti, avevano perso il loro colore divenendo del
tutto
di colore nero. I fiori versarono qualche lacrima dello stesso colore,
come
veleno, e poi persero i loro petali. Caddero assieme alle foglie,
riempiendo il
prato attorno con un tappeto di nero senza vita. Kevihang non capiva.
Non
riusciva a vedere, circondato dalle braccia del fratello, ma percepiva
che
c’era qualcosa che non andava dal modo in cui questo lo
stringeva e dal battito
accelerato del suo cuore. Che cosa era successo? Che cosa aveva fatto?
“Cosa
c’è?” domandò, dimenandosi
“Cosa avete? Lasciami!”.
Riuscì a liberarsi e vide
l’albero. Rimase in silenzio,
qualche istante, prima di girarsi verso il suo maestro. Nessuno
parlava.
Nessuno sapeva spiegarsi quel fenomeno.
“L’ho fatto
io?” chiese il piccolo, notando che la pianta
era morta “Sono stato io?”.
Rikarathör annuì,
sforzandosi di sorridere in modo
rassicurante, ma non gli riusciva facile. Kevihang, notando gli sguardi
spaventati, abbassò le orecchie a punta ed
arrotolò la coda attorno alla gamba
destra. Scese una lacrima dai suoi occhi aranciati, mentre chinava il
capo: “Avevano
ragione” mormorò.
“Chi aveva ragione,
Kevy?” gli domandò il fratello maggiore,
piegandosi sulle ginocchia.
“Loro. Tutti loro. Quelli
da cui stavo prima di venire qui.
Mi hanno sempre detto che sono un mostro. Il figlio dei morti. Avevano
ragione.
Visto? Ho ucciso uno degli alberi di Heket!”.
“Non è detto che
sia stata colpa tua…”.
“Non mentirmi! Non anche
tu…ti prego!”.
“Io non ti
mentirò. Te lo prometto…”
mormorò Rikarathör,
abbracciando il fratellino che si era messo a piangere
“…e ti dico che non devi
piangere. Non sei un mostro. Ciascuno di noi si spaventa al
manifestarsi del
proprio potere. Vedrai che, assieme, riusciremo a scoprire e
controllare ogni
tua capacità. Non sei un mostro, Kevihang, nessuno di noi lo
è!”.
“Forse è
imparentato con la Dea della Morte…”
azzardò il Dio
dell’Estate “In questo caso sarebbe del tutto
normale che l’albero della Vita
reagisca in questo modo!”.
“Potrebbe essere. Magari
non ne sei proprio il figlio, ma
potresti avere parte del suo sangue” confermò
Valek-hiteia, accarezzandogli i
capelli.
“E questo è un
bene o un male?” mormorò il piccolo,
dubbioso.
“Non è mai un
male. Magari il tuo compito sarà difenderci
dai nemici futuri con le tue capacità!” lo
rassicurò il fratello, alzandosi e
sorridendo, sinceramente.
Kevihang non sembrava molto convinto
ma si asciugò le
lacrime con la manica della tunica ed annuì.
Sospirò poi e confessò ai presenti
che aveva sonno.
“Adesso ce ne andiamo.
Fammi finire il giro. Tu intanto
siediti qui ed aspettami” gli disse Rikarathör,
allontanandosi assieme alla
madre ed al Dio dell’Estate fra gli alberi, lasciando il
piccolo assieme alla
sorellina che si stava appisolando.
“Non è figlio
della Dea della Morte, lo so per certo perché
la conosco molto bene. Queste piante non avevano mai reagito
così. Ti
sconsiglio di portarlo qui di nuovo…”
parlò il Dio dell’Estate.
“Tienilo sottocontrollo.
Potrebbe risultare pericoloso”
suggerì Valek-hiteia.
“Non è
pericoloso. E non ha niente di sbagliato, povero
piccolo, e troverò il modo di dimostrarlo. Fidatevi di me.
Crescerà ed io gli
insegnerò ad usare i suoi poteri!”
protestò Rikarathör.
“Che poteri ha mostrato fin
ora?” si informò la madre,
preoccupata dal fatto che, forse, il figlio maggiore era ancora troppo
giovane
per prendersi cura di un allievo così particolare.
“Superiori di quanto mi
aspettassi. Ma non saprei in che
categoria inserirli. Non seguono un singolo elemento ma ne sono al di
sopra,
come se riuscisse a prevedere cosa è giusto fargli fare.
Credo, inoltre, che
legga nei miei pensieri ed in quelli degli altri, a volte. Penso che,
opportunamente addestrato, possa diventare più forte di
tutti noi perché ha
qualcosa, qualcosa che non riesco a comprendere, che me lo fa
credere”.
“Per ora non sognarti di
togliergli il sigillo, sai!” lo
ammonì Valek-hiteia.
“Certo che no! Non sono
stupido! Quello non accadrà fino
alla prova dei cristalli, come a tutti!” esclamò
Rikarathör, scocciato perché
lo sapeva perfettamente che non era concesso togliere il sigillo prima
della
prova di maturità finale “O come quasi a
tutti…” aggiunse poi, stringendosi il
collo, rinchiuso il quel collare d’oro che ogni tanto lo
faceva sobbalzare con
le sue piccole scosse.
“Figlio mio…con
te è meglio prevenire che curare!”.
Madre e figlio si guardarono.
Entrambi erano perfettamente
consapevoli di quanto difficile fosse gestire ogni nuovo allievo con il
suo
nuovo potere.
“Non lo porterò
qui, allora. Tranquilli. Scoprirò di chi è
figlio ed affronterà la prova dei cristalli in modo
perfetto, vedrete. Sarà un
ottimo allievo. Ora, se volete scusarmi, riporto i piccoli a casa che
si sta
facendo tardi”.
“Corri, che la Luna piena
è gia sorta!” affermò il Dio
dell’Estate, incrociando le braccia e sorridendo in modo
stupido e volutamente
ambiguo.
Rikarathör ignorò
la cosa e tornò sui suoi passi,
rimettendosi la camicia, camminando con decisione e fastidio. Era
convinto
delle sue capacità e non si sarebbe di certo arreso davanti
a dei fiori
dentati! Sempre e solo fiori erano, niente di che! Le scosse che
avvertiva sul
collo lo informarono che si stava arrabbiando e che non doveva.
Sospirò, per
calmarsi, e sorrise con tenerezza quando vide i due bambini che
dormivano,
l’uno abbracciato all’altro. Senza svegliarli, li
prese fra le braccia e li
portò fuori dalla cupola, attento che non prendessero
freddo. Nessuno dei due
si svegliò, solo Kevihang protestò per un
po’ ma poi si calmò subito, sentendo
il calore del fratello.
Fuori non nevicava più. Il
cielo era limpido, tranne qualche
nuvola, e si vedevano le stelle rosse nel cielo nero. Ma le cose che
più si
notavano erano i due satelliti del Pianeta, entrambi tondi e luminosi.
Erano
appena sorti ed ancora eran tinti del rosso del tramonto.
“Rikarathör!”
si sentì chiamare alle spalle il figlio del
Sole.
Si voltò e vide lei, la
Dea della Luna e di tutti i
satelliti dei vari pianeti, che lo guardava.
“Sarò subito da
te” sussurrò, girandosi per mostrarle i suoi
fratellini addormentati.
Lei sorrise ed i due satelliti, in
cielo, si illuminarono
oscurando le stelle che avevano accanto.
Lui giunse in casa, mettendo a letto
i due piccoli,
coprendoli per bene e dandogli un tenero bacio della buonanotte.
Guardò fuori.
Dalla finestra poteva vedere lei che lo aspettava. Sospirò.
“È una Dea,
ricordatelo” ripeté a se stesso “E tu
non sei
altro che un…beh…tu sei quello che
sei!”.
Scese le scale, senza fretta e quasi
con riluttanza. Mise
subito a tacere quella vocina che gli suggeriva di non fare cretinate
ed uscì
nella notte. Lei era lì, bellissima come sempre, con gli
occhi rilucenti di
stelle e l’abito argento da cui si scoprivano le caviglie
sottili grazie ad un
generoso spacco del vestito. Con le ampie spalline avvolte attorno alle
sue
braccia, lasciava il collo libero di mostrare la bella collana, regalo
del
padre. Sorrideva e brillava, di una luce argentea ed impalpabile come
la
nebbia, avvolta dai capelli perlacei e che si aprivano a ventaglio,
formando un
semicerchio, a metà della sua schiena.
“Selene” la
salutò lui, sfiorandole la mano dello stesso
colore della luce che emetteva.
“Rikarathör…come
ogni notte in cui i satelliti del tuo mondo
splendono nel pieno della loro forma, io sono qui. Lieto di
vedermi?”.
“Come ogni volta, non avere
dubbi”.
Volevano avvicinarsi l’uno
all’altro, di più, ma il sigillo
bruciava come acido ogni volta.
“Vergine Luna…io
un giorno avrò il tuo bacio. Dovesse
costarmi la vita. Dovesse il mio sigillo bruciarmi e consumarmi la gola
fino a
restare senza respiro” aveva detto una di quelle notti.
“Non potrei mai
permettertelo” aveva risposto lei, ma sapeva
bene che lui di sicuro non si sarebbe arreso semplicemente
perché qualcuno
glielo aveva suggerito.
“E tu? Non sei stanca di
vedermi, Dea argentata?”.
“Brillo per te, solo per te
e per nessun’altro. La mia luce
si attenua quando ti sono lontana e si rafforza quando sto per
incontrarti. Ora
è al suo culmine, perché ti sono
accanto”.
“Papà lo sa che
tu brilli per me e non più per il suo
riflesso?”.
“Papà poteva
fare a meno di generare un figlio come te”
rispose lei, andandogli vicino.
Quasi si sfiorarono, con le mani e
con le labbra, ma lei
sapeva di non potersi avvicinare di più e si
fermò, guardandolo negli occhi con
una vena di tristezza.
“Andiamo,
fratello”.
“Ti seguo, sorella
mia…”.
I due si allontanarono dal villaggio,
avvolti dal freddo e
dal buio della notte, mentre in cielo le Lune splendevano sempre
più forte.
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Capitolo 9 *** IX- Nesidey ***
IX
NESIDEY
Camahel, Arcangelo dalle ali dorate,
camminava lentamente
lungo il corridoio del tempio della Città degli Angeli. Era
da tempo
l’assistente del Dio dell’Amore ma, quel giorno,
era libero da ogni impegno e
ne aveva approfittato per tornare momentaneamente al suo pianeta
d’origine.
Respirò, ad occhi chiusi, il profumo di casa. Quanta
nostalgia si poteva
scorgere nei suoi occhi scuri!
Ricordava quando era bambino ed
andava a scuola con gli
altri Arcangeli della sua età.
Ricordava Urihel, ora grande Dio del
Cielo che pregava
spesso.
Ricordava Remihel, Arcangelo della
Speranza, di cui non
aveva più notizie.
Ricordava Eleniel, sua giovane
allieva, ora non più in vita.
Ricordava con un sorriso Luciherus ed
il suo caratteraccio.
Ricordava l’ultima
battaglia in cui aveva visto cadere
Mihael e Gibrihel, divenuti poi dei demoni.
Ricordava Metatron ed i loro giochi
assieme sulla spiaggia.
Ricordava il piccolo Vereheveil,
Kasday, Samhian…tutti
divenuti Dèi o creature distanti da quel piccolo mondo in
cui ora lui, amore
puro, se ne stava.
Ricordava…ma colui di cui
sentiva di più la mancanza era
Rahahel. Povera creatura sfortunata era stata Rahahel. Sarah, la donna
che
l’Arcangelo guaritore amava, era morta come era lecito fra i
mortali ed ora era
divenuta una creatura angelica. Era stata una sorta di premio ad
Asmodai per la
fedeltà ed il coraggio con il quale aveva combattuto per il
regno. Sarah era un
bell’angelo, con i capelli ramati e la pelle olivastra, e
danzava per il suo
Arcangelo guerriero Asmodai.
Camahel non amava particolarmente
Asmodai, probabilmente
perché, una volta tornato ad essere un angelo, aveva preso
il posto di Mihael
come capo degli eserciti del Pianeta Angelico. Se doveva essere
sincero…Asmodai
gli stava proprio antipatico! Con quei ridondanti riccioli biondi che
stavano
così male sul suo fisico da guerriero e
quell’espressione poco rassicurante, da
cui ti potevi aspettare di vedere da un momento all’altro
qualche guizzo
demoniaco. Eppure quella Sarah l’aveva preferito al marito ed
a Rahahel,
divenuto mortale per lei.
Non poteva nemmeno immaginare la
sofferenza di Rahahel,
Arcangelo dolce, ingenuo e sognatore, davanti alla crudeltà
che la realtà
poteva riservare. E lui, Camahel, non era riuscito ad aiutarlo.
L’Arcangelo con
cui era cresciuto aveva espresso il desiderio di perdere le ali per
lei, per
starle sempre accanto, ignorando la voce che voleva che restasse.
Quante volte
l’Arcangelo dell’amore puro aveva tentato di farlo
desistere, ma non c’era
stato niente da fare ed aveva dovuto lasciarlo andare, pur non
capendone i
desideri. Non sentiva il bisogno di provare un amore diverso da
ciò che
rappresentava, immacolato, ma a Rahahel questo non bastava
più. Non gli bastava
più l’amore che nasceva dal cuore degli angeli ma
voleva amare con il corpo,
bruciando come faceva un demone.
Non potendo cadere, era troppo
dolcemente delicato per
divenire un demone, aveva perso le ali dorate ed era divenuto un misero
mortale. Senza più magia, né
immortalità. E senza più speranza non appena vide
che
Sarah non amava altri che Asmodai e che non desiderava essere
“liberata” dalla
sua presenza demoniaca e pericolosa.
Non era sopravvissuto a lungo. Era
appassito in fretta, come
i primi fiori di primavera, ed ora la sua anima nessuno sapeva dove
risiedesse.
Camahel ne era molto rattristato. Aveva davvero sperato in un lieto
fine per
l’amico.
Guardò la statua del Dio
dell’Equilibrio, Kavahel, posta
sull’altare del tempio, e ne controllò i vari
simboli. Molte delle mani del Dio
erano vuote, senza più luce né sigilli divini.
Molte divinità erano morte.
Tutte erano estremamente deboli e con i glifi pallidi da far spavento.
Cosa
stava succedendo? Perché gli Dèi si stavano
spegnendo? Perché li stavano
abbandonando?
Raguhel, l’Arcangelo
dell’armonia, interruppe i suoi
pensieri: “Dove hai la testa, Camahel? Mio caro Arcangelo
dell’amore puro…non
rendere il tuo sguardo così triste e malinconico. Cerca di
vedere il lato
positivo delle cose!”.
“Senza la Speranza
è piuttosto difficile…”.
Camahel scostò dagli occhi
un ciuffo di capelli rosso scuro,
che formava un piccolo boccolo verso la fine, e guardò il
suo collega. Raguhel
era magrolino ed aggraziato, con grandi occhi color del miele ed i
capelli
lunghi e ricci, con mille riflessi dorati. A lui era stato affidato il
compito
di controllare il tempio. L’unica statua rimasta
dell’Equilibrio, con i simboli
delle divinità, era riposta in quel luogo ed era
estremamente preziosa.
“Stai pensando al passato,
Camahel?” domandò l’Arcangelo
dell’armonia con voce dolce e delicata.
“Meglio non pensare al
futuro, non trovi?” rispose l’amore
puro, con la sua voce profonda e melodica, la più bella del
regno.
Guardava i simboli, con insistenza.
Non c’erano più sogni,
paure, guerre, pace, coraggio, feste, la primavera…quanto
gli mancava la
primavera! Sembrava che la rassegnazione regnasse sovrana nei cuori dei
viventi. Rassegnazione a cosa? Alla fine? E perché,
nonostante tutti
rivivessero sempre il passato, la Dea della Memoria aveva un simbolo
quasi
impercettibile? Forse perché nessuno aveva voglia di crearsi
più nuove
reminescenze, ma solo di rifugiarsi in antiche storie senza
più donare nuove
immagini ai propri ricordi?
“Che freddo che fa anche
oggi…” protestò Raguhel.
“Dovremmo ringraziare
Nesidey. La meravigliosa stella del
Pianeta dell’Equilibrio che ci è stata donata per
permetterci di sopravvivere
in questo eterno inverno. La sua luce azzurra è stata
l’ultimo dono di Kasday.
Dal giorno in cui è morto, lei è comparsa nel
nostro cielo. Come se sapesse che
sarebbe arrivato questo gelo. Ha espanso la sua superficie ed aumentato
il suo
calore, in modo da scaldare noi, angeli, e gli abitanti del mondo
dell’Equilibrio”.
“I pochi pianeti rimasti in
vita fanno parte tutti del
sistema di Nesidey. Perfino i Mondi del Kaos si sono messi a ruotare,
in modo
più o meno ordinato, attorno ad essa. I Pianeti che non
riescono ad allinearsi,
lentamente, muoiono. O almeno…questo è quello che
dicono”.
“Grazie Nesidey,
allora” interruppe Camahel.
“Grazie, Nesidey”
mormorò Raguhel.
Ora entrambi guardavano la statua.
Poi si concentrarono
sull’immensa vetrata posta dietro all’altare. Era
stata realizzata ed istallata
dopo l’ultima guerra a causa del crollo della cupola. I libri
in essa custoditi
erano stati spostati nell’immensa biblioteca di Vereheveil
mentre la parete di
fondo era stata sostituita da questa vetrata coloratissima.
Rappresentava
Kasday, nella sua forma di Alto, con le ali d’angelo
spalancate e lo sguardo
rivolto verso la navata centrale. Con le mani faceva dei segni
tranquillizzanti
nei confronti della creatura che lo osservava. “Non avere
paura. Anche se ho
questo aspetto che ti spaventa e che non puoi capire, non ti
farò del male”
sembrava dire.
Il gelo ed il freddo improvviso che
era calato fra tutti i
Pianeti era stato interpretato, da molti, come il simbolo
dell’ira di Kasday
per il loro pessimo comportamento. L’Alto era stato accusato
di essere la causa
di qualsiasi cosa e quindi era morto con la collera nei confronti delle
proprie
creature, che aveva punito togliendogli il proprio calore e con la
costante
presenza di freddo, pioggia, neve, vento e ghiaccio. E quella stella
azzurra…dello stesso colore dei suoi occhi divini. Come un
suo grande occhio
nel cielo che costantemente li rimproverava.
Camahel non pensava che Kasday li
avesse puniti. Non lo
vedeva come una divinità vendicativa o iraconda ma piuttosto
come una creatura
sola ed incompresa, che aveva dato tutto per chi amava senza ricevere
in cambio
ciò che desiderava se non in Luciherus, che aveva portato
via con sé.
Voleva tornare bambino. Voleva
tornare a quando Kasday era
un piccolo Serafino e tutto andava bene, salvo gli screzi fra Kaos e
Destino
che erano all’ordine del giorno, ma che non riguardavano
più di tanto il Mondo
degli Angeli. Ma ormai nulla di quel tempo passato sarebbe
tornato…oppure sì?
Come poteva essere così pessimista?
“Cantiamo!”
mormorò l’Arcangelo dell’amore puro.
“Come?” si
stupì Raguhel.
“Cantiamo. Come facevamo un
tempo. Non ti va?”.
“E cosa vorresti cantare?
Siamo rimasti così in pochi!”.
“Non importa quanti siamo!
Ma quello che trasmettiamo! Prova
a chiudere gli occhi…a sentire di nuovo dentro di te la fede
e la potenza del
pianeta come la sentivi un tempo! Ricordi? Come quando eravamo giovani
e
intonavamo melodie per le divinità che amavamo e celebravamo
la bellezza della
vita e le meraviglie del creato! Sono sicuro che possiamo ancora
riuscirci!”.
Raguhel lo guardò, con
tenerezza ed ammirazione.
“Io credo che la Speranza
ci sia ancora nel Mondo” disse “Tu
ne sei la prova vivente! E se tu ci credi allora…voglio
crederci anch’io!”.
“Allora aiutami, Raguhel, a
fare in modo che il mio canto ed
i miei sentimenti raggiungano ogni angolo di questo Pianeta
addormentato ed
anche oltre! Verso Nesidey e gli altri Universi! Non lasciamo che i
popoli si
chiudano nel silenzio e nella rassegnazione! Alziamo la nostra
voce!”.
Detto questo, l’Arcangelo
dell’amore puro spalancò le ali ed
emise una nota, tenendola sospesa nell’aria azzurrina del
mattino più a lungo
di quanto non avesse mai fatto. Aveva ancora la voce più
bella del Regno degli
Angeli ed aveva piena intenzione di farsi sentire! Nell’udire
la sua
inconfondibile nota, molte creature alate si destarono e rivolsero il
capo
verso il tempio, silenzioso e quasi del tutto vuoto da tempo.
“Camahel!”
sussurrò qualcuno, assaporandone la canzone.
E Camahel iniziò a
cantare, forte ed in modo impeccabile.
Raguhel, Arcangelo dell’armonia, si aggiunse al suo canto
rivolto al cielo. Gli
Angeli giunsero al tempio tenendosi per mano, con gli occhi che
brillavano di
vita dopo tanto tempo, come se qualcuno gli avesse donato qualcosa che
desideravano da tempo. In tutti i loro sguardi guizzava una scintilla
di
Nesidey. Le loro voci erano unite in un unico coro. Chi non cantava,
invece, si
dedicava al ballo ed anche in questo erano tutti uniti, come se una
mano
esterna li guidasse e li muovesse.
“Come puoi pensare che
l’Equilibrio e la Speranza ci abbiano
abbandonati? Guarda!” esclamò Raguhel,
piacevolmente stupito dall’improvvisa
vitalità di tutti coloro che aveva attorno.
Gli anziani, i pochi rimasti,
guardavano la scena dall’alto
con disappunto e Camahel li guardò male a sua volta. Lui era
molto più vecchio
di loro! Fece un piccolo giro su se stesso, si inchinò agli
spettatori
accigliati e tornò al suo canto. Dopotutto lui era
l’aiutante del Dio
dell’Amore e dell’Amicizia! Doveva fare in modo che
questi sentimenti non si
spegnessero nel cuore della gente che lo circondava e che aveva bisogno
di
riaprire gli occhi alla positività, come era tipico fare per
gli Angeli.
Danzavano in un modo davvero buffo e questo li faceva sorridere.
“Che state
facendo?” domandò un Serafino anziano, piuttosto
spelacchiato.
“Balliamo. E cantiamo agli
Dèi!” rispose Camahel.
“Gli Dèi ci
hanno abbandonato da millenni…”
rimbeccò
l’anziano.
“Mi permetta di
dissentire…finché noi ci crediamo, anche gli
Dèi crederanno in noi e non ci abbandoneranno! Ma in questo
momento hanno
bisogno di forza tanto quanto ne abbiamo bisogno noi! Non possiamo
ignorare il
fatto che c’è qualcosa che non
và…ma noi angeli abbiamo sempre guardato avanti
e lo faremo ancora!”.
Questa affermazione
dell’Arcangelo fu accolta con un’ovazione
inaspettata, che lo fece sobbalzare per lo spavento. Si riprese subito
e diede
inizio ad un’altra canzone.
“Poveri
illusi…” mormorò il Serafino, al sicuro
sopra l’alta
scalinata che portava alla terrazza rialzata che sovrastava
l’ingresso del
luogo sacro.
Dietro di lui, nascosto da un drappo
turchese, si potevano
intravedere le canne di un organo rimasto in silenzio per troppo tempo.
“Una volta uno di voi
anziani mi ha raccontato una storia…”
parlò Camahel, sovrastando con la sua voce le note della
canzone “..parlava di
un libro in cui era contenuto il destino dei Mondi. Dentro ad esso era
scritto
tutto ciò che era stato, tutto ciò che
è, e tutto ciò che sarà. E mi
è stato
raccontato che c’è una divinità che,
con la sua penna, scrive su di esso. Sono
sicuro che ora questa divinità sta rileggendo e sta
correggendo gli errori del
passato per poter scrivere un futuro migliore. Sono convinto che
è già all’opera…”.
“Certo. Per metterci un
punto alla sua Opera Omnia e
chiudere per sempre quel libro”.
“Come potete dire
questo?” mormorò Camahel, abbassando le
ali per lo sconforto.
Ora in tutta la sala era sceso il
silenzio. Raguhel osservò
tutti con preoccupazione malcelata. Non c’era paura nei loro
volti, né forza,
né speranza. Solo sconforto e rassegnazione. Osservavano
l’anziano che, dopo
aver spalancato le ali in un gesto piuttosto teatrale, puntò
il dito verso la
grande statua dell’Equilibrio sull’altare e
parlò, con voce impostata ed
apocalittica: “Guardate quei simboli, piccole creature
saltellanti! Guardate il
simbolo che il sommo Kavahel porta sulla fronte! Si stan spegnendo
tutti!
Stando alle profezie, Kavahel dovrebbe restare alla fine di ogni cosa,
permettendo
alle nostre essenze di rinascere di nuovo dopo la fine degli Universi.
Ma
guardate il suo glifo! È pallido e tremolante esattamente
come quello di tutti
gli altri! Come potrà restare alla fine di ogni cosa? Ve lo
dico io cosa
accadrà: lui morirà, assieme a tutti quanti noi.
La catastrofe è iniziata con
le scelte errate dell’Equilibrio Kasday e dei suoi figli
deboli. Suo padre, il
Kaos, e la sua eterna rivale, il Destino, che ci governava, avevano
già corroso
il ruolo di quel ragazzo dalle fondamenta. Più volte la fine
è stata vicina, e
più volte la sua venuta è stata allontanata, ma
stavolta non sarà così. Tutto
finirà. Mondi, Pianeti, Universi, Stelle,
Divinità…e noi con loro”.
“Smettila di ammorbarci con
il tuo Memento Mori, vecchio!”
lo interruppe un Cherubino accigliato che, sostenuto in parte dalla
folla,
continuò “Io credo in quello che dice Camahel. Lui
è in contatto diretto con le
divinità e perciò, se lui crede che si possa
ricominciare, allora io ci credo.
L’avete detto voi stesso che più volte il giorno
della fine è stato
allontanato. Allora perché non dovrebbe accadere di nuovo?
La mia specie è
stata generata per credere e vivere, non per odiare i propri
creatori!”.
“Fate come
volete…” borbottò l’anziano,
allontanandoci con
un gran sbattere d’ali.
Camahel rimase in silenzio. Aveva
anche lui un filo di
pessimismo nelle vene. Era piuttosto preoccupato ma una voce dentro di
sé gli
diceva che non doveva smettere di sperare. Guardò fuori ed
un immenso sorriso
gli si aprì sul viso. Le nuvole si erano momentaneamente
diradate, lasciando a
Nesidey ed a Iùno Caeléstis, la Luna del pianeta
degli Angeli, il cielo libero
e scoperto.
“Gli Dèi non ci
hanno abbandonato” disse, convinto, e
ricominciò a parlare.
Presi per mano e con un movimento
sincronizzato, gli angeli
cantavano ad occhi chiusi e sorridendo. La loro voce era bellissima ed
i loro
passi leggeri e coordinati.
Dopotutto perché
no…si ritrovò a pensare
Camahel…dopotutto
perché non dovrebbe ricominciare tutto da capo?
Perché non dovrebbe andare tutto
bene, un giorno? Perché le divinità avrebbero
dovuto abbandonarci? Che mai
abbiamo fatto? Niente! Siamo Angeli, servitori fedeli del loro volere!
Ed un
giorno so che qui, accanto a noi, ci saranno di nuovo tanti piccoli
Angeli
bambini sotto un caldo Sole d’estate. Perché no?
Perché le
divinità stanno morendo e, volenti o nolenti,
prima o poi dovranno abbandonarci rispose una voce
all’interno della sua
testa. Una voce indesiderata che mise subito a tacere.
Nessuno ci
abbandonerà! Kavahel, Vereheveil, il Sole, la
Luna, Urihel, il Kaos, il Destino, l’Amore, la Vita, la
Morte…nessuno di loro
ci abbandonerà! Forse non è ancora tempo. Forse
non è ancora giunto il momento
che qualcosa cambi.
Ricordati che fui io
a concederti la tua esistenza, mortale!
Ricorda che fummo
noi, Déi, a darti la vita!
Ricordati che sono io
a mantenerti immortale!
Ricorda che siamo noi
mortali a darti vita!
Esiste un popolo
disposto a difendere il suo Dio?
Esiste un Dio
disposto a sacrificarsi per il suo popolo?
Cantavano. Come cantava Kasday alla
vigilia della grande
battaglia contro Kaos e destino. Stesse parole, stretti in un abbraccio
collettivo.
Non è ancora
giunta l’ora si ripeté Camahel ma
un
giorno verrà. Alzò gli occhi al cielo.
Un giorno le cose
cambieranno. Io ci credo. Spero solo
che non passi troppo tempo…
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Capitolo 10 *** X- ruoli perduti ***
X
RUOLI
PERDUTI
Rahahel guardava fuori dalla
finestra. Si trovava nella
torre del palazzo di Mihael. Sorrideva, con i suoi inquietanti denti a
punta, e
ruotava gli occhi, rossi, a destra ed a sinistra. Tutti lo credevano
morto e,
in effetti, non era propriamente vivo. Il suo cuore non batteva, ma il
suo
corpo e la sua essenza non si separavano. Era la prova vivente che
qualcosa, ai
piani alti, non funzionava come dovrebbe. Aveva passato un periodo di
questa
sua condizione guardandosi sempre alle spalle, in attesa della falce di
Luciheday, Dea della Morte, ma non era mai giunta fin ora.
Si appoggiò con la mano
scheletrica al balcone e si sporse,
leggermente. Guardò con profonda invidia tutte le creature
che, aprendo le ali,
si libravano in aria sopra di lui e la torre. Lui aveva perso le
ali..ci aveva
rinunciato. E ancora bruciava il punto in cui crescevano. Eppure,
nonostante lo
avesse fatto per una donna che poi lo aveva rifiutato, non poteva fare
a meno
di amarla. La amava ancora. Ma che poteva farci? Ora non era nulla,
neppure in
vita. Come poteva pretendere di attirare l’attenzione di una
creatura che aveva
rifiutato il suo essere angelo?
Grattò le unghie sul
marmo, abbandonando la finestra.
Camminava lungo il corridoio, senza emettere alcun suono. Da sotto la
sua lunga
veste scura non si capiva se toccasse o meno terra con i piedi. Si
udiva solo
un vociare di guardie e demoni annoiati fra gli archi neri di quel
piano della
torre. Si sentivano le frasi di scherno che si rivolgevano fra loro e
le risate
di chi stava giocando a nascondino invece che svolgere il proprio
lavoro. Le
porte si susseguivano, in legno arancio con lo stemma del principato,
una “M”
fra le fiamme con due spade incrociate, incisa su ogni entrata. Fra una
soglia
ed un’altra stava qualche arma, appesa o semplicemente
appoggiata per
permettere a Mihael di divertirsi durante il cammino fra la sua camera
e le
cucine. Rahahel appoggiò la mano pallida su
un’armatura rossa e nera,
appartenuta a Luciherus. Era il pezzo più pregiato della
“collezione” di
Mihael, composta da numerose altre armature ed armi di amici ed
avversari,
oltre che proprie. Lucida e brillante, era liscia e fredda al tatto,
quella
corazza di due colori, ma Rahahel non lo sentiva. Non aveva
più il senso del
tatto, del gusto, dell’olfatto…
Si voltò, abbagliato da un
raggio di luce che si era
riflesso sul pettorale metallico, e sorrise.
Mihael aveva tappezzato la parete,
fra una finestra e
l’altra, di sue immagini e dipinti in pose da guerriero ed
eroe. Una sorta di
auto-celebrazione continua, tipica del Principe dei Demoni. Guardando
quelle
immagini, Rahahel ricordò molte cose e si perse nei suoi
pensieri fino a quando
una mano, bianca ed affusolata, gli si appoggiò sulla
spalla. Lilith.
“Madama Lilith”
la salutò, baciandole la mano.
“Sai che non è
questo che voglio da te!” rispose lei,
coperta solo da un minuscolo tubino nero lucido che non lasciava spazio
in
alcun modo all’immaginazione.
Rahahel, con un sorriso, le morse
leggermente la mano,
facendone uscire qualche goccia di sangue. La demoniessa
ribaltò la testa
all’indietro e si passò la lingua sulle labbra.
Adorava quel modo di salutare
di Rahahel e lo faceva sempre capire.
“Mio piccolo non
morto…” parlò lei, scuotendo i capelli
vermigli e sbattendo gli occhi grigi “…cosa fai
solo soletto per queste strane
torri?”.
“E Voi, madama, che fate
senza compagnia?”.
“Strano, vero?”
sospirò lei, ammiccando.
“In effetti
sì…” ridacchiò Rahahel.
“Ad ogni
modo…Mihael ti sta aspettando. Mi ha mandato a
chiamarti”.
“Non posso intrattenermi
qui ancora un po’ con Voi,
Lilith?”.
“Qui?”.
“Se
preferite…nelle Vostre stanze…”.
“Mihael ti
aspetta…” mormorò lei di nuovo,
stringendolo a sé
per poi allontanarlo “…forse più tardi,
mio piccolo vampiro!”.
La demoniessa si
allontanò, a piccoli e lievi passi,
canticchiando, mentre Rahahel le mandò un bacio con la mano.
Non era da lui
comportarsi così ma ormai…non aveva niente da
perdere! Cancellò temporaneamente
dalla sua mente la presenza di Lilith e si avviò di nuovo
verso il corridoio.
Contò le porte, sapendo quale fosse quella del Principe. Una
volta che l’ebbe
raggiunta, bussò, con insistenza, finché non
sentì un gemito dall’interno.
Entrò, con convinzione:
“Mandi [saluto friulano], Miky!”
salutò, ghignando.
“Sì,
sì…ciao anche a te!” rispose Mihael,
spaparanzato sul
letto e giocherellando con una spada.
“Perché mi hai
fatto chiamare?”.
Mihael fermò ogni sua
attività e storse il naso, con
un’espressione che voleva dire che, al momento, non gli
veniva in mente. Si
alzò di scattò, stringendo la lunga spada con due
mani, e guardò Rahahel con
uno strano sorriso.
“Combattiamo!”
esclamò.
“Mi hai fatto chiamare per
questo?!” si stupì Rahahel,
accigliandosi, ed i suoi occhi rossi brillarono.
“No. Ma perché
non combatti con me? Dai…ci divertiamo!”.
“Torna a dormire. Ho altro
da fare!” sbottò l’ex Arcangelo e
fece per andarsene.
“Hai visto Asmodai,
ultimamente?” domandò il Principe,
affilando la spada.
Rahahel si bloccò, con uno
strano tic al sopracciglio destro
ed una smorfia. Non rispose, ma Mihael insistette ripetendo la domanda
altre
volte.
“Perché?”
sibilò Rahahel.
“Perché
cosa?” si stupì Mihael.
“Perché mi
chiedi questo? Sai bene quanto io detesti quella
creatura…”.
“Ah…sì…giusto…”
fu la reazione, con l’espressione di chi non
ha idea di che cosa si sta parlando. Infatti, dopo un po’ di
riflessione, il
demone inclinò il capo e chiese perché lo
detestasse.
“Mi ha portato via la
donna, brutto scemo!” ringhiò Rahahel.
“Non è corretto.
Lei era sposata. E tu ti sei messo in
mezzo. Hai tu iniziato il gioco! E chi la fa, l’aspetti. Si
vede che la tua
bella preferisce quelli muscolosi e cattivi. Belli e
dannati…”.
“Ma vai al
diavolo!!”.
“Eh?!”.
“Lascia
stare…”.
“Antipatico”.
“Scemo!”.
“Cambiamo
argomento!” parlò Mihael, sorridendo e puntando la
spada verso Rahahel.
“Tirami via quel coltellino
dalla faccia” protestò l’altro,
spostandosi la spada da davanti al viso.
“Non offendere la mia
piccolina! Lei è la mia alleata più
fedele”.
“Pensavo fosse il tuo
campione, il guerriero più forte
dell’esercito”.
“Baggianate.
Sarà sempre e comunque secondo a me come
potenza, e perciò non sarà mai
all’altezza della mia piccola!”.
Più la guardava e meno
Rahahel ci vedeva qualcosa di piccolo
in quella spada enorme, ma non parlò per non peggiorare la
situazione.
“Cosa vuoi da me, Mihael?
Non sono dell’umore più adatto per
seguire i tuoi inutili giochetti…”.
“Piano con le parole! Sei
tu il più inutile qua dentro! Eri
un Arcangelo guaritore, ma ora cosa sei? Qual è il tuo
scopo? Non sei in grado
di curare nessuno…” ridacchiò il
demone, sedendosi di nuovo sul letto,
abbracciato alla sua spada.
“Tu, piuttosto, che scopo
hai? Arcangelo guerriero?! Che
cosa devi combattere?”.
“Sono le stesse parole che
mi ha rivolto Luciherus un
giorno, in classe…”.
“Lo so. Ma è una
domanda lecita anche ora, sorvolando sulla
sensazione di déjà-vu che può
suscitarti. Sei un guerriero, ma chi devi
combattere? In quest’epoca di pace e mancanza di problemi con
gli angeli…tu sei
proprio inutile!”.
“Sai chi è
inutile? Il Sole! Da quanto tempo non fa altro
che nevicare e far freddo?!”.
“Non cambiare
discorso…”
“E tu non farmi
piangere!”.
“Sei un demone! Non puoi
piangere!”.
“Beh, io sì!
Scommetti?!”.
“Non fare il
bambino…ad ogni modo, è normale che tu pianga.
Era pur sempre tuo fratello”.
“E questo cosa ci azzecca
con ciò di cui stavamo discutendo
prima?”.
“Sei triste
perché ti manca, oltre al fatto di non poter
combattere. Ed è normale, perché era il tuo
gemello. Eravate uniti, nonostante
tutto”:
“Siamo sempre stati molto
diversi…”.
“Certo. Ma siete nati
assieme”.
“Lu è nato
qualche minuto prima…”.
“Non ha importanza.
Condividevate lo stesso spazio prima di
nascere e siete cresciuti assieme…”.
“Ci sono delle cose che non
sai di lui”.
“Non importa quanto siete
stati diversi…eravate comunque
legati!”.
“Cosa ne sai tu di legami?
Sei morto per star dietro ad una
mortale che non ti ha mai ricambiato!”.
“E tu non hai mai fatto
altro che combattere per tutta la
vita. Io almeno ho provato una strada diversa. Ora che non hai nessuno
a cui
far la guerra, che ti ritrovi a fare?”.
“Vuoi proprio farmi
piangere”.
“Non sei adatto a fare il
Principe dei Demoni”.
“Io non sono il Principe
dei Demoni. Lucy lo è. Devo
aspettare il suo ritorno”:
“Luciherus non
tornerà”.
“Anche tu con questa
storia??!!”. Il demone si alzò di
scatto, con fare minaccioso.
“Luciherus è
morto, Mihael!” fu la risposta, calma.
“Non è vero! Il
suo corpo non è mai stato trovato! Non ci
sono prove!” affermò, con la voce che tradiva la
sua apparente tranquillità.
“È morto. Non
tornerà” ribatté di nuovo Rahahel,
rimanendo
impassibile e per nulla spaventato dall’espressione
minacciosa del Principe.
“Bugiardo!”
urlò Mihael, brandendo la spada e decapitando di
netto l’ex Arcangelo guaritore. Questi cadde in terra, diviso
in due, senza far
rumore e senza un solo lamento.
Il Guerriero rimase così,
con la lama a mezz’aria e
l’espressione folle, ansimando, mentre cercava di capire che
cosa esattamente
avesse fatto. E Rahahel si rialzò. Con incredibile
noncuranza dell’evento, come
se fosse una cosa da nulla, si riattaccò la testa e
brontolò.
“Per quante volte avrai
intenzione di ripetere sta cosa,
Miky?”.
Mettendosi le mani attorno al collo,
riuscì a guarirsi e,
dopo aver scosso leggermente il suo mantello, si avvicinò al
suo aggressore,
mettendogli una mano sulla spalla.
“Io ormai sono solo in
grado di curare le ferite infertami
da te, e tu…” mormorò
“…sei solo in grado di combattere contro te
stesso”.
“Smettila di fare il
saggio. Mi irriti” protestò il demone,
scansando la mano con la punta della spada ed andando verso la
finestra.
Storse il naso. Per quanto amasse la
neve, era decisamente
stanco di vederla cadere.
“Sai perché
Luciherus è caduto?” chiese a Rahahel.
“Ovvio. Perché
ha sfidato gli anziani e questi lo hanno
maledetto”.
“Questo è quello
che ha fatto. Ma non ti sei mai chiesto
perché si sia comportato in quel modo?”.
“Diciamo che tuo fratello
è sempre stato un po’
strano…”.
Ora i due si stavano guardando, il
demone appoggiato con i
gomiti al balcone ed il non-morto contro il muro, a braccia incrociate.
“Ti sbagli. Il mio
fratellino da piccolo era come tutti gli
altri Arcangeli. Era carino, dagli occhi grandi e miti, col viso dolce
e
angelico eccetera eccetera…”.
Rahahel chiuse gli occhi.
Tornò con la mente a quando era
bambino, ma non riusciva proprio a ricordare Luciherus da piccolo. Lo
ricordava
da adolescente, da giovane, da demone ed infine da Dio, ma da bambino
proprio
non ci riusciva. Poi, ad un tratto, gli apparve come una luce nella
mente. Un
Arcangelo, bellissimo, con enormi occhi tondi ed i capelli blu, tenuto
per mano
da Adam Kadmon, la leggendaria prima creatura del regno angelico, dalla
bellezza e dalla potenza ineguagliabili. Era proprio un bellissimo
bimbo quello
che Rahahel ricordava.
“Luciherus…”
sussurrò.
Non poteva credere che quel piccolo
fosse Luciherus. Ora
quell’immagine si era fatta molto precisa, con un minuscolo
Luciherus che
muoveva i suoi primi passi da solo, ancora incerto, a fianco del padre
che gli
sorrideva, orgoglioso. Dietro i due veniva una donna, Ignis Sophia, che
teneva
per mano Mihael, che ridacchiava osservando le nuvole del cielo.
“Se quello era
Luciherus…cosa è successo? Non lo
ricordo!”
ammise Rahahel.
“Non lo sai. Non
è che non te lo ricordi. Non lo sa nessuno,
tranne me credo, giunti a questo punto”.
“Puoi
parlarmene?”.
“Ne avevo il divieto. Ma
ora nessuno può venire a punirmi,
immagino, perciò…”.
Il Principe chinò il capo
e, dopo un attimo di silenzio,
ricominciò a raccontare. E Rahahel vedeva. Riusciva e vedere
le immagini
davanti a sé. Vedeva un piccolo Luciherus di fronte al
padre, con il nasino
all’insù, che sorrideva e voleva essere come il
genitore. Lo imitava e lo
seguiva, voleva essere come lui e crescere, divenire un grande
Arcangelo, il
migliore di tutti. Cresceva ed imparava, seguendo le orme del
leggendario
Kadmon. Aveva un sogno, lo si leggeva negli occhi, e per realizzarlo
era
disposto a fare tutto. Gli anziani, i maestri, gli
adulti…tutti osservavano
questi due gemelli, Mihael e Luciherus, crescere ed andare verso
l’età adulta.
Ma qualcosa, di difficile da comprendere, stava crescendo nel cuore di
Luciherus. Lui guardava sua madre ed ecco, si rendeva conto che
c’era qualcosa
di strano e diverso in lei. “La mamma è sempre la
mamma” si era detto per anni,
ma una sera, inaspettatamente, aveva capito. Suo padre, Adam, era
partito per
l’ennesima guerra contro i demoni e non era più
tornato. Prima della sua
partenza aveva affidato la moglie alle cure dei suoi due figli. Mihael,
una
volta saputo che il padre non avrebbe più fatto ritorno, era
entrato
nell’esercito e quella sera si trovava assieme agli altri
guerrieri in una
sorta di esercitazione notturna.
“Luciherus…”
parlò Sophia quella sera, rivolta al figlio che
le stava accanto.
“Sì,
madre?” rispose lui, senza nessuna “S”
sibilante.
Era giovane, nemmeno un adolescente,
ed era ancora confuso
dopo la scomparsa del padre.
“Chiamami Sophia. O mamma.
Madre è troppo formale”.
“Come
volete…”.
“Sai ballare, figlio
mio?”:
“Sì. Almeno
credo…”.
La madre gli porse la mano e lo fece
alzare. Lo strinse a sé
e lo guidò, in alcuni eleganti passi di danza. Luciherus
trattenne il respiro.
Che stava succedendo?
“Assomigli tanto a tuo
padre, bambino mio. Assomigli tanto
ad Adam…”.
Luciherus non rispondeva. Non sapeva
cosa dire.
“Sei bellissimo,
Luciherus” mormorò di nuovo lei, prima di
mettersi a piangere “Mi manca, piccolo mio. Kadmon mi manca
tanto”.
“Anche a me
manca…Sophia” ammise l’Arcangelo,
abbracciandola.
Chiuse gli occhi, avvolto dal profumo
della madre,
promettendo a se stesso che non avrebbe mai più permesso che
qualcuno la facesse
piangere. Quegli occhi così belli non dovevano
più versare lacrime! Mai più! E
si accigliò, per la prima volta nella sua vita.
Da quella sera lui aveva iniziato a
cambiare. Voleva sapere
la verità, qualunque fosse. Dov’era suo padre? Se
era caduto nel Mondo dei
Demoni, perché non era mai stato trovato il suo corpo?
Trovò un modo per entrare
nella cupola dei libri proibiti,
trasgredendo ad uno dei suoi primi tabù, coprendo un occhio
con i capelli per
fare in modo che nessuno notasse che li aveva letti. La
verità la voleva avere
nero su bianco, non a sfumature come invece erano abituati a fornirgli
gli
angeli. Dopo anni, il povero Arcangelo non aveva ancora mantenuto la
promessa
fatta a sua madre: ti dirò la verità, le aveva
detto, ti dirò cos’è successo.
Ora gli adulti, gli anziani e gli insegnanti lo giudicavano in modo
negativo.
Perfino io, ammise Mihael, pensai che fosse un pazzo ed un idiota a
fissarsi
tanto. Kadmon era morto in guerra. Punto. Niente da aggiungere.
Una notte di pioggia, Luciherus era
come sempre nella
cupola, aveva trovato un libro interessante. Era ricco di formule
magiche ed
aveva una copertina rossa. Seguì le sue istruzioni, che
promettevano di poter
vedere ciò che si desiderava. Lo portò con
sé a casa, non sicuro delle
conseguenze che avrebbe potuto portare. Io lo notai,
confessò Mihael, ma non
feci nulla per fermarlo perché tanto sapevo che non mi
avrebbe ascoltato.
Chiuso in camera da letto, l’Arcangelo più bello
pronunciò la formula indicata
ed attese. Dopo alcuni minuti, dato che non accadeva nulla, chiuse il
libro,
deluso, ed uscì. Camminava lungo il giardino, dandosi dello
stupido per aver
creduto ad una cosa come un libro in grado di mostrargli la
verità, quando
avvertì un dolore atroce al volto. Se lo prese fra le mani
ed urlò, mentre il
fratello corse a soccorrerlo. Rimase svenuto per parecchie ore e non fu
più lo
stesso. Il suo volto si era come scavato, divenendo affusolato ed a
punta, gli
occhi non erano più grandi e tondi ma sottili e sfuggenti.
Ed era apparsa la
“S”. La sua solita Esse sibilante.
“Sono stati loro”
disse, appena sveglio.
Da quel giorno cercò di
convincere la madre che Adam Kadmon
era stato giustiziato, non in guerra e non dai demoni! Giustiziato
dagli
Anziani perché era stanco di fare guerra continuamente e
perché si era
affezionato ed aveva aiutato il Dio del Kaos, spingendolo a creare
Lilith e
Lilim. Questo era un vero sacrilegio per i capi del Regno e per la Dea
del
Destino, che governava il Pianeta degli Angeli. E per questo era stato
giustiziato, come tutti coloro che commettevano eresie simili.
Sophia non credeva alle parole del
figlio, non aveva mai
voluto crederci. E questo aveva fatto allontanare sempre più
Luciherus dalla
mentalità del Regno degli Angeli. Non vedeva altro che
menzogne e false storielle.
Era stanco di tutto questo e voleva che tutto cambiasse. Ma
l’unica cosa che
cambiò da quando iniziò a raccontare
ciò che lui riteneva la verità, fu che
Ignis si ammalò. Mihael la ricordava, pallida e
febbricitante, distesa sul
letto, circondata dai suoi capelli ramati e luminosi. La ricordava,
bella
nonostante il deperimento dovuto dalla malattia, mentre lo guardava con
orgoglio nel vederlo vestito come un Guerriero Angelico. E ricordava lo
sguardo
preoccupato rivolto a Luciherus, che brillava di luce rossa in un
angolo della
stanza, per non aver ancora trovato la sua strada. Era preoccupata per
il
continuo arrampicarsi del figlio sugli specchi.
“Scusami” le
disse lui, quando erano rimasti da soli.
“Non devi chiedermi scusa,
piccolo mio, ma cerca di andare
avanti. Non potrai mai essere accettato in questo mondo, se ti comporti
come
uno dei nostri nemici”.
Luciherus aveva atteso che si
addormentasse, tenendole la
mano, senza pensare al fatto che la madre gli aveva appena detto che
assomigliava ad un demone. Attese che chiudesse gli occhi e le
osservò le
labbra, rosse e meravigliose, che si muovevano tremando a causa del
respiro
irregolare della proprietaria. Le guardava ed aveva capito.
Ricordò il ballo,
gli abbracci, le parole che fin ora le aveva rivolto…ogni
cosa…ormai sapeva
cosa significava.
“Scusami”
sussurrò di nuovo.
E si chinò.
“Perdonami…”
disse lentamente.
E la baciò.
Mihael, in piedi sulla porta, aveva
visto ogni cosa: aveva
capito chi avrebbe dovuto combattere.
Rahahel guardò il Principe
con aria interrogativa.
“Luciherus?”.
“Mia madre, Sophia,
è morta non molto tempo dopo. Noi siamo
finiti in classe assieme ed il resto lo conosci, caro compagno di
classe”.
“Luciherus…in
realtà…”.
“Sì. Esatto.
Luciherus ha iniziato a cadere molto tempo prima
della notte del tempio e della maledizione. È caduto
perché amava. Come te.
Solo che lui…amava Sophia, sua madre”.
Rahahel non disse nulla.
Guardò, con un sospiro, fuori dalla
finestra. Il passato era passato, il presente era gelido e
schifoso…magari il
futuro…magari il futuro riservava qualcosa di meglio che
avrebbe fatto cambiare
del tutto la situazione attuale.
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Capitolo 11 *** XI- maturità ***
XI
MATURITÁ
Kevihang era piuttosto teso. In
piedi, circondato dalla
popolazione del villaggio in cui era cresciuto, aspettava con ansia la
conclusione della sua cerimonia dei cristalli, agitando la coda rossa a
destra
ed a sinistra. Non poteva credere che quel giorno fosse già
arrivato. Al suo
fianco stava sua sorella, Marinditi-ya, anche lei in attesa del
verdetto e
della conclusione della prova. Stava ricominciando a piovere. I due si
guardarono e sorrisero. Cercavano di darsi coraggio a vicenda.
E Kevihang chiuse gli occhi,
rivivendo gli accadimenti fino
a quel momento.
Era stato svegliato da un violento
scossone e da una luce
improvvisa.
“Sveglia,
pigrone!” si era sentito urlare, mentre una “forza
misteriosa” gli toglieva la coperta. Inarcò la
schiena, nascondendo la testa
sotto il cuscino, mugugnando qualcosa di protesta. Ma la stessa forza
misteriosa gli strappò il cuscino dalla faccia.
“Svegliati!! Non vorrai
mica fare tardi proprio oggi?!”.
“Rikarathör? Sei
tu?”.
“No…sono la tua
fata madrina!”.
“Davvero?”
ridacchiò Kevihang, sbadigliando “Come sei
sexy!”.
“Quanto sei
stupido!” protestò Rikarathör
“Cerca di fare il
serio, almeno per oggi!”.
“Rilassati! Sono io quello
che dovrebbe essere nervoso, non
il contrario!”.
“Quella che affronterai
oggi è una prova importante, Kevy. E
non voglio che tu la prenda alla leggera. Possono esserci delle
conseguenze”.
“Cosa vuoi che succeda? Io
non sono come te…” commentò il
ragazzo, sorridendo e guardando il sigillo al collo di
Rikarathör.
Questi non rispose.
Incrociò le braccia e fece per
andarsene.
“Hei!” lo
fermò Kevihang “Scherzavo!”.
“Alzati!” si
limitò a rispondergli il fratello maggiore.
Poi uscì dalla camera,
lasciando il giovane allievo da solo.
14 anni, pensava
Kevihang. Non poteva credere che
fossero già passati 14 anni! Era arrivato in quel luogo che
era solo un bambino
che nemmeno sapeva scrivere ed ora era pronto ad affrontare la prova
finale,
quella che gli avrebbe permesso di avere un ruolo ed un potere
indipendente,
perché avrebbe dimostrato di essere in grado di controllare
la sua magia e
gestirla senza supervisione esterna. Si alzò, pigramente,
stiracchiandosi. Era
felice all’idea di poter non mettere più il
sigillo che portava attorno al
collo. Finalmente avrebbe avuto il suo cristallo e avrebbe tolto quel
collare
per cani che bloccava parte del suo potere!
Gli abiti per quella cerimonia gli
sembravano troppo
pomposi. Non gli parevano adatti per il lungo cammino che avrebbe
dovuto
affrontare. Ma li indossò comunque, sapendo di non avere
alternative. La
tunica, blu scuro, terminava con un ricamo a quadretti e spirali in oro
e
rosso. Sotto di essa si potevano vedere solo di sfuggita i pantaloni
rosso
cupo, rivestiti all’interno dal morbido pelo di qualche
animale a cui Kevihang
fu grato. Anche gli stivali erano imbottiti allo stesso modo. Sopra a
tutto
indossò un mantello, dello stesso colore dei pantaloni, che
terminava, lungo
tutto il bordo, con piccole piume verde scuro. Si agganciava al petto
con una
piccola spilla quadrata, oro e verde acqua. Anche questo era decorato
con
motivi geometrici dorati e si stringeva attorno al suo collo con un
piccolo
ricciolo arancio.
Uscì dalla sua camera,
tutta nera e rossa, parecchio
disordinata, e vide che sua sorella Marinditi-ya era già
pronta e lo aspettava.
Era divenuta davvero una bellissima donna. I capelli, color del grano
maturo e
ricci come i vitigni dell’uva, li aveva raccolti ma molti di
loro continuavano
comunque ad agitarsi indipendenti, mossi dal vento. Gli occhi, della
tonalità
del miele più dolce, erano grandi come un tempo ma molto
più sensuali ed
attraenti. Il lungo abito verde ed il mantello come la sabbia, per
quanto la
avvolgessero, non riuscivano a celare le sue forme, prosperose e ricche
della
fertilità della terra.
“Avanti, Kevihang! Non
vorrai fare tardi!” parlò lei, con un
grande sorriso sulle sue labbra carnose.
“Certo che no!”
esclamò lui, risvegliandosi dal momentaneo
torpore celebrale che gli aveva provocato la visione della sorella.
Assieme si avviarono verso la piazza,
dove tutto il
villaggio si era riunito. Kevihang capì subito che i due
draghi, legati al
centro di essa, stavano aspettando loro. La folla si
allargò, lasciandoli
passare. Ora era sceso il silenzio. Valek-hiteia, madre di entrambi, li
guardò
con tenerezza.
“Ecco…è
giunto anche il vostro momento” disse, seduta su una
sorta di trono decorato poggiato su un piano rialzato,
l’ultimo spiazzo in cima
ad una lunga scalinata in pietra.
Dietro di lei si poteva scorgere
l’ingresso del palazzo
principale del villaggio, con la sua alta torre di sorveglianza. Alla
sua
sinistra Rikarathör, suo figlio maggiore, guardava i due
esaminandi con uno
strano sguardo, misto di preoccupazione ed orgoglio. Kevihang gli
sorrise,
ricordando la prima volta in cui si erano visti. Erano cambiate molte
cose,
erano entrambi cresciuti, ed ora si sentiva un po’ in
suggestione a vederlo
lassù, che lo guardava, con quello sguardo da padre che
vuole dare una piccola
spinta al figlio perché lasci il nido ma non è
sicuro che sia la cosa migliore
da fare. Si fecero un cenno col capo, l’uno con
l’altro. Nessuno parlava e
tutti guardavano Valek-hiteia, che in tutti quegli anni non era
cambiata
minimamente. Era solo stanca, un po’ più stanca di
un tempo.
Inaspettatamente, fu Enrikiran, con i
capelli corti ritti
sulla testa come punte di ghiaccio e gli occhi altrettanto gelidi, ad
avanzare
per primo verso i due ragazzi e parlare. Si era confuso fra la folla,
pur
spiccando leggermente per via della sua altezza. Stringeva fra le mani
due
fagotti, legati da un nastro arancio che sciolse. Poi ne diede uno
ciascuno a
Kevihang ed a Marinditi-ya. La stoffa scura avvolgeva due spade
trasparenti.
“Queste vi
serviranno” affermò, con orgoglio.
Le due armi erano, evidentemente,
state create e forgiate da
lui, controllore dell’acqua e del ghiaccio, e brillavano
nonostante la scarsa
luce dovuta al cattivo tempo.
“Non curatevi del fatto che
sono fatte di ghiaccio…”
rassicurò i due “…sono infrangibili ed
impossibili da sciogliere. Ci ho
lavorato a lungo. Sono il mio regalo per voi, fratellino e sorellina,
per
permettervi di affrontare al meglio questa prova
e…guardate!” esclamò,
agitandole in aria “Se vengono mosse in un particolare modo,
emettono un suono,
una musica, che vi aiuterà con le sue vibrazioni ad
affrontare ogni ostacolo!”.
“Grazie…”
mormorò Marinditi-ya, mentre Kevihang prendeva la
propria spada fra le mani e la provava, visibilmente soddisfatto.
“Buona fortuna”
rispose Enrikiran, e guardò sua madre.
Lei annuì ed il suo viso
si illuminò.
“Siete pronti a partire? Vi
ricordo che ognuno di voi due
dovrà affrontare la prova in modo indipendente, non
è previsto che vi aiutiate
in nessun modo. Raggiungete la foresta dei cristalli, nella valle del
Kaos,
prendete quello che più vi sembra adatto a voi e portatelo
qui, senza toccarlo.
Avvolgetelo in un telo, che troverete nella borsa che porta al fianco
il vostro
drago, e portatelo da me. Solo in presenza di tutti quanti noi potrete
stringerlo fra le mani e dimostrare che la vostra prova è
superata. Ci sono
domande?”.
“Come raggiungeremo la
foresta? Non sappiamo la strada…”.
“A questo non devi
pensare…” la madre guardò il figlio
maggiore, che scese dalla scalinata di pietra in silenzio e fra lo
stupore
generale.
Di solito era Valek-hiteia che
svolgeva quel compito. Ma,
del resto, era già strano che fosse in cima alla scalinata
accanto a lei…
“Pronta, figlia
dell’Estate?” parlò il fratello
maggiore,
rivolto a Marinditi-ya.
Lei annuì, non sapendo che
altro fare.
“Prendi la mia mano
allora”.
Fratello e sorella si presero per
mano e lei ebbe un
tremito. Un calore inaspettato l’aveva travolta ed ora lo
sentiva pulsare, come
il suo cuore, sul palmo. Da esso vide sprigionarsi una fiamma, una
piccola
sferetta di luce, che rimase sospesa a mezz’aria.
“Questa sarà la
tua guida ed il tuo calore là fuori. Seguila
e torna da noi, una volta completato il tuo compito. Seguila e torna da
me,
sorellina. Buona fortuna”.
Lei lo abbracciò, mentre
la sferetta le ruotava attorno.
Rikarathör si rivolse poi a Kevihang, stringendogli la mano e
tirandolo verso
di sé, in modo che altri non sentissero le sue parole.
“Ricordati quello che ti ho
detto: Marinditi-ya non si
tocca! Non mi interessa se, di sangue, non avete legami. Tocca la mia
sorellina
e sei morto!”.
“Ho capito,
capellone!” rispose Kevihang, ridacchiando e
prendendo in giro il fatto che, da quando era arrivato al villaggio,
Rikarathör
si era fatto crescere i capelli, che avevano acquisito una strana
colorazione
rossastra verso la fine.
“Buona fortuna anche a te,
figlio dei morti, e torna presto”
salutò, infine, il maggiore.
Kevihang e Marinditi-ya salirono sul
proprio drago, tesi ma
determinati. Alzarono entrambi il cappuccio e coprirono il viso dal
freddo,
pronti a partire. Individuarono fra la folla dei volti familiari che
non
rivedevano da tempo. La ragazza vide suo padre, Dio
dell’Estate, presente
nonostante la debolezza ed il gelo, ed il ragazzo vide Kuetzalikay,
sorridente
come non lo aveva mai visto prima, salutare con la mano verdastra. Poi
c’era il
Dio dell’Inverno, che si congratulava con il figlio per la
splendida fattura
delle spade che aveva donato ai due giovani. Anche Urihel, Dio del
Cielo, era
venuto ad assistere alla prova e sembrava di buon umore.
“Loreatehenzi!”
urlò Rikarathör, alzando lo sguardo e
toccando il suo sigillo, cercando di non pensare alla sua prova dei
cristalli,
l’ultima volta in cui aveva visto suo padre.
Il figlio del Dio del Cielo era
là, sulla cima della torre,
avvolto da un turbine di vento che lo faceva librare a
mezz’aria senza sforzo,
ed osservava la scena. I due fratelli si guardarono e,
contemporaneamente, si
mossero. Loreatehenzi spalancò le braccia ed
incanalò l’aria attorno ai due
draghi, mentre i suoi capelli, che mutavano colore seguendo le
tonalità del
cielo, si attorcigliarono come un tornado. Rikarathör mise le
mani a coppa e
chiuse gli occhi. Su di esse si formò una piccola stella
molto luminosa. La
prese delicatamente con la mano destra e soffio su di lei, dirigendola
verso i
due draghi. In un vorticare di luci e vento, i due animali si alzarono
in volo.
“Il vento vi
guiderà e vi darà tregua, la mia piccola stella
illuminerà il vostro cammino fino a quando ci
sarà concesso, fino ai confini
con il regno del Kaos. Oltre quel confine non sarà possibile
per noi aiutarvi e
dovrete cavarvela da soli. Non avrete più il vento mitigato
e la stella che vi
scalda, ma con voi ci sarà la vostra spada e la luce che
nasce dalla vostra
mano e che vi riporterà qui. Buona fortuna, di nuovo,
e…non fate cretinate!”
parlò Rikarathör, sorridendo con l’ultima
frase.
Loreatehenzi alzò la mano
ed i draghi si sollevarono da
terra, preceduti dalla stella, e sparirono velocemente fra le nubi che
tornarono
ad addensarsi.
Kevihang aveva passato anni ad
addestrarsi per imparare a
guidare quei draghi lungo le nubi e fra i venti gelidi del pianeta, ma
fin ora
non si era mai allontanato dai pressi del villaggio.
L’animale volava veloce e
lui si guardò indietro, cercando con gli occhi la sorella.
Sapeva che non si
potevano aiutare, ma nulla gli vietava di fare il percorso fino alla
foresta
dei cristalli con lei. Insieme sorvolarono pianure deserte e aride,
coperte di
ghiaccio, tempeste di neve e vento che respingevano le creature che li
stavano
trasportando. Diverse volte rischiarono di cadere, con il gelo che
tagliava
ogni lembo di pelle che veniva scoperto con il freddo. Impiegarono
diversi
giorni per giungere in prossimità della foresta dei
cristalli. Nel momento
stesso in cui entrarono nel territorio del Kaos, come predetto da
Rikarathör,
il vento cominciò a soffiare più forte e la luce
che li guidava scomparve.
Fortunatamente i cristalli brillavano molto intensamente e permettevano
la loro
individuazione da molto lontano. Però il freddo si faceva
sempre più pungente e
fastidioso man mano che si avvicinavano.
“Sbrighiamoci a trovare il
cristallo e torniamo a casa!”
gridò alla sorella, cercando di sovrastare il sibilo del
vento ed il ringhio
del drago che non vedeva l’ora di rientrare.
Marinditi-ya annuì,
spronando la sua cavalcatura a scendere
di quota per atterrare. Scesero assieme, l’uno accanto
all’altro, assicurando i
draghi a due rocce acuminate in modo da poterli ritrovare con relativa
facilità.
“Buona fortuna”
le disse Kevihang, prendendo fra le mani lo
straccio con cui doveva avvolgere il suo cristallo, allontanandosi da
lei.
Non voleva di certo interferire con
la ricerca di
Marinditi-ya per poi sentirsi dire che l’aveva aiutata! I due
si separarono ed
iniziarono a camminare, circondati da altissimi cristalli colorati e
lucenti.
Li superavano in altezza di diversi metri poiché, del resto,
quei cristalli un
tempo erano gli alberi di un’antica foresta. Kevihang
camminò su un pavimento
di cristalli appuntiti, attento a non ferirsi. Sarebbe stato un
problema
rientrare sanguinando, data la difficoltà del viaggio.
Passò parecchie ore fra
quei cristalli, alla ricerca di quello che avrebbe portato con
sé, ma nessuno
gli sembrava adatto. Ormai il sole stava per tramontare e le tenebre
iniziavano
a calare, ma il ragazzo non voleva demordere. La luce del primo
satellite, uno
spicchio nel cielo, lo aiutò a compiere la sua scelta. Un
cristallo, infatti,
gli sembrò risplendere più degli altri e gli
piacque subito. Senza più esitare,
si avvicinò e lo avvolse nello straccio di velluto, con
delicatezza.
Soddisfatto, iniziò a ritornare verso il drago, ansioso di
tornare a casa. Però
un ringhio violento lo fece voltare. Non proveniva da una delle due
bestie che
avevano condotto i fratelli fino a quel luogo. Una creatura enorme,
proprietà
del Kaos, era stata mandata fino a lì dalla sua padrona per
scacciare gli
intrusi senza che questi portassero via preziosi cristalli.
Kevihang, senza pensarci,
sguainò la spada di ghiaccio, che
emise una lunga nota vibrante. La creatura nemica rimase sconcertata,
per un
attimo, in seguito a quel suono, ma poi attaccò convinta,
spalancando le fauci
irte di denti e punte. Con le sue sei zampe, che si muovevano ognuna in
modo
sconnesso dalle altre, caricò il ragazzo che la attese,
senza paura, con la
spada fra le mani.
Non
ci mise molto a sconfiggere
la bestia, conficcandole la spada nel petto, ma sapeva che la Dea del
Kaos non
poteva aver inviato solo quella creatura ad attaccarli e quindi decise
che era
meglio risalire sul drago ed allontanarsi. Corse verso la sua
cavalcatura,
inseguito, come temeva, da diverse bestie ostili molto più
grosse di quella che
aveva appena sconfitto. Fece un balzo, fra un alto cristallo ed un
altro,
aiutandosi con la coda, e per poco non cadde a causa dello spostamento
d’aria
provocato dalle ali dei suoi nemici.
“Marinditi-ya!! Dove
sei?” urlò, chiamando la sorella,
allarmato perché non la vedeva e temeva che si potesse fare
del male.
La creatura più grossa
alle sue spalle spalancò l’enorme
bocca e soffiò un misto di fiamme, schegge di pietra e
ghiaccio, che investì in
parte Kevihang, il quale prontamente si era accovacciato dietro un
cristallo
incastrato di piatto, che lo coprì. Affrontò con
coraggio anche quella belva,
decapitandola, e riuscì ad intravedere il suo drago. Con un
altro balzo gli
giunse vicino e, dopo un ultimo fendente al nemico per farlo
allontanare il
necessario, si alzò in volo in groppa alla sua cavalcatura.
Con sollievo, vide
la sorella seguirlo poco dopo.
“Andiamo via,
sorellina!”.
“Veloci come il vento,
fratellino!”.
Volarono, velocissimi, fianco a
fianco per un tratto, con
sempre le bestie nemiche alle spalle. Davanti a loro non riuscivano a
vedere
nulla, dato che il Kaos aveva fatto alzare una fitta nebbia nera.
Seguivano la
luce che avevano sul palmo della mano per sapere che direzione
prendere. Il
vento li respingeva ed i due ragazzi speravano di lasciare presto il
territorio
della Dea ostile.
“Sorellina,
attenta!” gridò Kevihang, vedendo alle spalle di
Marinditi-ya l’ombra di un animale nemico pronto ad attaccare.
Lei virò, prontamente, ma
l’artiglio della bestia la fece
sbandare, ferendo il drago. Kevihang, disobbedendo all’ordine
di non doverla
aiutare, fece invertire la corsa alla sua cavalcatura e si diresse
verso la
sorellina, porgendole la mano. Il drago di lei stava precipitando,
ferito al
fianco, e non c’era modo di farlo volare di nuovo. Fratello e
sorella si
presero per mano e Marinditi-ya si aggrappò al fratello. Al
solo contatto dei
loro palmi, le luci che ci stavano sopra scintillarono e bruciarono,
facendo
fare una smorfia ai due giovani.
“Kevihang! Davanti a
noi!” gridò lei, dato che una creatura
enorme bloccava loro la strada.
“Non mi fai paura,
bestione! Non farai del male alla mia
sorellina!”.
Il ragazzo affrontò
l’animale con rabbia, roteando la spada.
Anche la ragazza sguainò la sua arma, colpendo altre bestie
che li stavano
circondando. Kevihang, resosi conto della situazione, tentò
di prendere quota,
ma non avevano via d’uscita. Si fece strada a colpi di
fendenti, con sempre più
forza, lasciando alle sue spalle numerosi cadaveri. Si accorse,
però, che più
ne uccideva e più ne giungevano.
“Guarda, Kevy! Seguono
tutti la bestia più grossa” gli fece
notare la sorella “Se uccidiamo quella, probabilmente si
disperderanno!”.
Senza farselo ripetere, il ragazzo si
scagliò contro la
creatura di dimensioni maggiori.
“Tieniti forte, sorellina.
La farò a pezzi!” ringhiò
Kevihang, con gli occhi aranciati che emettevano piccole scintille, che
spaventarono un poco la giovane semidea della terra, che
però lo strinse a sé
più forte per farsi trasmettere il suo coraggio.
Il ragazzo gridò, puntando
la spada verso il nemico, ed il
suo potere si aggiunse alla già efficiente arma di ghiaccio.
Senza averne la
consapevolezza, Kevihang trasmise la sua magia alla lama che si tinse
di nero.
Dopodiché, il giovane la mosse rapidamente e
dall’arma si separò un’onda oscura
carica di magia ed elettricità. Il nemico, colpito in pieno,
gemette e
precipitò al suolo.
“Allontaniamoci velocemente
adesso, sorella, prima che si
riprenda”.
“Va bene ma…cosa
hai fatto?”.
“L’ho sconfitta,
quella brutta bestia…”.
“Sì, ma
come?”.
“Non importa!
L’ho sconfitta, non ti basta?”.
Con sollievo, videro ricomparire
davanti a loro la stella di
luce assieme al vento mitigato e si resero conto di essere salvi, fuori
dal
territorio del Kaos.
“Spero non ci siano
conseguenze. Insomma…ti ho aiutato…” si
preoccupò lui.
“Vedrai che
andrà tutto bene” rispose lei ed insieme
rientrarono di nuovo al villaggio.
Ed ora erano lì, fianco a
fianco, al centro della piazza, in
attesa del verdetto. Molti li avevano sgridati dato che si erano
aiutati a
vicenda ma i due ragazzi ignorarono la cosa, troppo nervosi per pensare
ad
altro se non al fatto che presto avrebbero avuto il loro cristallo.
Per prima toccò a
Marinditi-ya, che fu chiamata dalla madre
ad andarle vicino. La ragazza esitò, un attimo, ma poi
avanzò ed allungò le
mani, mentre la madre le porgeva il cristallo.
“Ne hai scelto uno molto
bello, figlia dell’Estate, ora
vediamo quanto bello diverrà grazie alla tua magia ed a
ciò che saprà
trasmettergli il tuo cuore”.
Marinditi-ya osservò il
suo cristallo e lo sciolse dal suo
involucro di stoffa. Lo prese delicatamente fra le mani e chiuse gli
occhi. Una
dolce sensazione di calore si trasferì lungo tutto il suo
corpo e lei sorrise,
mentre la pietra assumeva un nuovo colore. Passò dal
trasparente originale ad
un bel color cioccolato, pieno di sfumature ramate. Il suo sigillo
reagì con il
cristallo e si staccò, liberandole il collo e lasciando che
il suo potere si
manifestasse pienamente. I capelli si sciolsero e si riempirono di
profumi di
fiori e di frutti, la sua pelle si scurì leggermente come la
terra, mostrando i
disegni di foglie e piante verdi, e sotto di lei crebbe un piccolo
cerchio
d’erbetta fresca: la prova era superata. Ora quel cristallo
sarebbe stato
trasformato in un gioiello e lo avrebbe portato sempre con
sé, come prova della
sua maturità e della sua forza.
“Ora tocca a te,
Kevihang” parlò Valek-hiteia, porgendo il
fagottino con il cristallo al ragazzo.
A fianco della donna stava
Rikarathör, che non nascondeva la
sua preoccupazione. Ricordava quel giorno nella serra, quando
l’albero della
vita era morto.
Il giovane esaminato prese fra le
mani la pietra, anch’essa
giudicata valida e senza imperfezioni, e prese un profondo respiro. Poi
chiuse
gli occhi e lasciò che questa prendesse il suo colore. Non
avvertì sensazioni
piacevoli ma di fastidio e tristezza, come di qualcosa di imprigionato
dentro
di sé che voleva uscire e che non aveva mai avuto la
possibilità di farlo. Si
rivide da piccolo ed era solo, abbandonato, avvolto dal buio. Il
sigillo si
spezzò, rompendosi di netto in due. La sua pelle bruciava,
mentre su di essa
apparivano, netti e marcati, i disegni a filo spinato o a gambo di rosa
che lo
avevano sempre accompagnato. Ma ora non erano solo accennati, erano
neri come
il cielo di notte e ne ricoprivano le braccia ed il petto, parti del
suo corpo
scoperte perché le sue vesti erano state dilaniate. Dilaniate
da cosa?
Si chiese il ragazzo, ed alzò gli occhi. Ali! Due immense
ali blu si erano
aperte sulla sua schiena, squarciando i vestiti e coprendo i pochi
raggi di
Sole che gli giungevano sulla pelle. Respirò a fatica,
lentamente, non
riuscendo a capacitarsi del fatto che fossero sue. Poi
abbassò lo sguardo, e
guardò la sua pietra: era nera, come il buio che lo
avvolgeva nelle immagini
che aveva appena visto. D’istinto, la gettò in
terra avvertendo che aveva
qualcosa che non andava. Ora anche la sua pelle era avvolta da una nube
nera e
non sapeva come liberarsene. Si scosse ed agitò le ali,
disseminando piume blu
fra i presenti, non abituato a tutta quella magia ed a quel potere
nelle vene.
Era libero! Libero da sigilli ed impedimenti. E questo, nonostante lo
stupore
iniziale, lo fece sorridere. Ma il suo non era un sorriso, era un
ghigno
malvagio, con i denti a punta che si erano ingranditi così
come le corna scure.
Solo in quell’istante si accorse che tutti, attorno a lui, lo
guardavano
allarmati.
“Stai fermo,
Kevihang!” stava tentando di ordinargli
Rikarathör, avvicinandosi lentamente “Stai fermo! La
vedi quella luce nera
attorno a te? Non è normale, è meglio che ti
rimetta il sigillo”.
“No! Non lo rivoglio il mio
sigillo!”.
“È per il tuo
bene, Kevy! Non ti fidi di me?”.
“Non è che ti
sei accorto che sono molto più forte di te e
non vuoi che lo sia?” azzardò il ragazzo, e, in
effetti, la sua energia
superava di molto quella della maggior parte dei presenti.
“Kevihang…non
costringermi ad usare le maniere forti! Torna
a farti mettere il sigillo”.
“Mai. Ora ho capito. La mia
natura non è adatta nemmeno a
questo posto e voi stessi lo vedete e non mi accettate. Avete sempre
avuto
paura di me, fin dal giorno in cui ho ucciso uno degli alberi di Heket,
e mi
volete sottomettere! Ma non ci riuscirete! Il mio posto non
è qui!”.
“Fratellino, mio allievo,
ti prego di non essere avventato.
Io sto cercando di aiutarti!”.
“Forse tu,
Rikarathör, ma non di certo questi qui” rispose,
indicando un gruppetto di abitanti del villaggio che lo guardavano
spaventati e
desiderosi di vederlo andar via.
“Non ti curar di loro e
vieni qui. Io posso aiutarti”.
“A fare cosa?”.
“A controllare il tuo
potere ed a scoprire chi sei”.
“Non mi serve il tuo aiuto
per questo, anche perché, per
cercare di aiutarmi, tenteresti di cambiarmi in ogni modo per renderti
più
semplice l’insegnamento e la sopportazione della mia persona,
come hai fatto
fin ora. Mi spiace. Rikarathör, Valek-hiteia, Enrikiran,
Loreatehenzi,
Marinditi-ya…tutti voi siete stati una famiglia magnifica
ma…non siete la mia
vera famiglia. È ora che lasci questo nido, che mi ha
cresciuto ed aiutato fino
ad adesso, e trovi le risposte che cerco da una vita. Vi ringrazio, di
cuore, e
spero di rivedervi ma…ora è tempo che
vada!”.
Aprì le ali e si
sollevò da terra, fra lo stupore e lo
sconcerto iniziale.
“No, aspetta! Kevihang!
Torna qui!” urlò Rikarathör, ma non
riuscì a fermarlo.
Il giovane, riprendendo fra le mani
la sua pietra nera,
scomparve fra le nuvole senza guardarsi indietro ed al suo maestro
rimase
soltanto qualche piuma blu fra le mani. Era successo tutto troppo in
fretta e
non poteva crederci. Prese quella piuma fra le dita e, chiudendo gli
occhi,
sperò che il suo piccolo protetto potesse trovare le
risposte che cercava,
senza farsi sconfiggere dal crudele e spietato mondo esterno.
“Spero di averti preparato
per questo, Kevihang” mormorò, e
tornò nella serra dove aveva modo di riflettere da solo.
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Capitolo 12 *** XII- sigillo d'amore ***
XII
SIGILLO
D’AMORE
“E
così…lo hai lasciato andare”.
“Esatto. Non ho potuto fare
niente. Non sono riuscito a
fermarlo”.
“E questo ti fa sentire in
colpa?”.
Rikarathör non rispose
subito. Guardava il cielo, pieno di
stelle, seduto a gambe incrociate su un grosso sasso piatto, mentre
lei, la
Luna, lo guardava stesa a terra.
“Peccato che sia andato
via” ricominciò a parlare la Dea dei
Satelliti “Mi stava simpatico quel ragazzino. E sono sicura
che non ha mai
mostrato a nessuno le sue reali capacità”.
“Vuoi farmi
ingelosire?”.
“Senti,
senti…quello che è sempre abbracciato alla sua
sorellina!”.
“Beh…dai…non
puoi essere gelosa di lei! È la mia
sorellina!”.
“Anche tu sei il mio
fratellino. Che problema c’è?”.
“Ma abbiamo 15 anni di
differenza!”.
“Io sono nata prima di
Destino e Kaos. Fai i conti di quanti
anni ho…”
“E va bene! Mi arrendo! Hai
ragione tu! Comunque sta
tranquilla. Io non ho occhi che per te! Ci tengo molto alla mia
sorellina, ma
da fratello maggiore! Non potrei mai vederla in un altro
modo”.
La Dea non sembrava convinta. Ma alla
fine sorrise,
assumendo un’espressione estremamente dolce grazie ai suoi
grandi occhi
luminosi.
“Povero il mio
Rik…che ha buttato la gioventù per star
dietro ad una chimera che porta il mio nome” disse,
incrociando le braccia
dietro la nuca.
“In che senso?”
chiese lui, inclinando la testa.
“Guardati! Non sei
più un ragazzino! Sei cresciuto, a
differenza di me. Sei…invecchiato!”.
“Non sono
vecchio!”.
“No. Ma avresti potuto
vivere la tua vita in modo diverso,
ed è da anni che te lo dico”.
“Non vuoi che stia con
te?”.
“Certo che lo voglio,
però…io sono una Dea e resterò
così,
giovane ed immutata, ancora a lungo. Tu no. E cosa penserai quando, una
volta
vecchio, ti vedrai circondato dai figli e dai nipoti dei tuoi fratelli
e tu sarai
solo?”.
“Non sarò solo.
Avrò te”.
“E questo ti
basterà?”.
“Per
l’eternità” sussurrò lui,
provando ad andarle vicino.
Sapeva bene che il suo sigillo lo
avrebbe bloccato,
trasmettendogli quella fastidiosissima scossa, ma ogni volta non
riusciva a
resistere al desiderio di starle accanto.
“Un giorno, vergine Luna,
avrò il tuo bacio!” mormorò,
guardandola negli occhi.
Aveva una gran voglia di lasciarsi
andare, di rilassare le
braccia che lo sostenevano ed appoggiarsi su di lei, facendosi
avvolgere da un abbraccio
e da un bacio a lungo desiderato. Sospirò, sedendosi, questa
volta, con la
schiena contro la pietra sopra la quale prima stava seduto.
“Non è destino,
Rik. Forse…nella prossima vita…”.
“Macché
destino!! Sai bene chi mi ha messo questo sigillo!”.
“Certo. Ricordo ogni
istante. Ricordo la prima volta in cui
ci siamo visti e…non voglio dimenticarlo mai! E
tu…lo ricordi?”.
Anche lei era seduta ora ed i due si
guardavano, sorridendo.
Le loro mani erano molto vicine e le loro aure si mescolavano con
piccole
scintille di magia.
“E come potrei
dimenticarlo?” rispose Rikarathör, mentre con
la mente tornava a quel giorno.
Aveva nove anni. Ricordava i sogni
agitati di quella notte.
Lui bruciava e nessuno lo aiutava. Faceva caldo, tanto caldo, e le
fiamme erano
sempre più alte. Una mano. Una mano lo aveva afferrato
saldamente per il
braccio destro, alimentando il calore.
“Mamma!”.
Si era svegliato sudato e spaventato,
con quella sensazione
di bruciore al braccio destro. Toccandolo lo sentì caldo al
tatto e lo guardò.
Una lingua di fuoco vi era ora disegnata sopra, come un tatuaggio, ed
emetteva
calore. Rikarathör, stupito quanto allarmato, era corso dalla
madre che lo
aveva guardato con tenerezza e lo aveva riassicurato.
C’era un uomo quella
mattina seduto al tavolo con la
famiglia. Ed una ragazza. L’uomo, avvolto in un pesante
mantello rosso, guardò
il piccolo Rikarathör con un grande sorriso. Ed il bambino,
guardandolo negli
occhi, capì chi fosse e rispose al sorriso.
“Papà!”
disse, mentre il Dio del Sole si alzava e gli andava
vicino.
Rikarathör ricordava
l’abbraccio che gli aveva dato subito
dopo suo padre ed il calore che aveva provato. Poi aveva alzato lo
sguardo ed
aveva visto la ragazza. Era bellissima. Lo colpì con quegli
occhi e quel viso,
quel sorriso e quella pelle chiara, e lui, subito, non
riuscì a capire ed
elaborare quella sensazione che provò dentro appena
incrociò il suo sguardo.
“Quella
ragazza…era la sua fidanzata?” aveva chiesto poi a
sua madre, una volta che i due se ne furono andati, e lei si era messa
a
ridere.
“Ma no, sciocchino! Non hai
visto quanto è più giovane di
lui?!” gli aveva risposto.
Ricordava che da quel giorno si era
impegnato a fondo per
essere degno del nome di suo padre. Lui gli aveva fatto una promessa.
Gli aveva
detto che, una volta cresciuto e superato la prova dei cristalli,
sarebbe stato
un valido aiuto e che perciò sarebbe dovuto essere pronto
per il giorno in cui
il padre non avrebbe più voluto splendere nel cielo.
Rikarathör ci credeva.
Aveva visto, con gli anni, i genitori dei suoi fratelli che facevano la
stessa
promessa ai loro figli e li aiutavano a gestire i loro elementi. Non
sapeva se
sarebbe mai stato in grado di prendere il posto del padre, ma sperava
di poter
risultare utile, un giorno, con il proprio potere. E poi
c’era quella ragazza…
L’aveva rivista tre anni
dopo. Lui era sul lago assieme ai
suoi due fratelli. Giocavano, tirandosi palle di neve, sicuri che lo
spesso
strato di ghiaccio che ricopriva l’acqua li avrebbe retti. Ed
era così, perché
saltavano e si divertivano senza nemmeno incrinarne la superficie.
Rikarathör
rideva, dopo aver colpito in piena faccia uno dei bambini che giocava
con il
trio dei fratelli, quando vide lei sul bordo del lago. Lo guardava e
sorrideva.
Lui, mosso da sbalzi ormonali adolescenziali e da manie di grandezza,
gonfiò il
petto per sembrare più grosso e grande. Non si accorse che,
sotto i suoi piedi,
il suo elemento stava avendo il sopravvento e stava sciogliendo il
ghiaccio. In
pochi secondi si ritrovò a mollo nel lago, con uno
“splash” ed un gridolino di
sorpresa. Quando riemerse, sputacchiando acqua gelida, trovò
sua madre ad
attenderlo, con un’aria di rimprovero. Era stato messo in
punizione e lei era
sparita, inutile dire quanto si sentisse frustrato. Quella notte
pioveva ed era
molto buio ma lui uscì dalla finestra, illuminando la strada
con la, al tempo,
tenue luce aranciata che emetteva la sua pelle. Camminava con le mani
in tasca,
calciando i sassi, quando sentì una voce provenire da un
punto imprecisato del
buio.
“Così ti
prenderai un malanno!” si sentì dire.
“Chiunque tu
sia…ho già una madre che me ne dice fin troppe
di queste cose, perciò fatti gli affari tuoi e lasciami in
pace, non sono in
vena!”.
“Oh…ok…come
vuoi…” e solo allora vide lei, la ragazza,
sorridente, che si copriva con un piccolo ombrellino argento, come
d’argento
erano i suoi capelli e le sue vesti.
Lui rimase in silenzio, non sapendo
che cosa dire né in che
modo scusarsi.
“Ti ho visto al
lago” parlò lei, e lui ruotò gli occhi.
“Vuoi prendermi anche tu in
giro? Fai pure…l’han fatto tutti
oggi…”.
Rikarathör si aspettava di
sentirla ridere, ma lei non lo
fece. Inaspettatamente si avvicinò e gli porse la mano,
bianca ed affusolata.
“Io sono Selene”
si presentò.
“Rikarathör”
rispose lui, balbettando leggermente.
“Emetti calore, come il Dio
del Fuoco” gli disse,
appoggiando le mani sulle spalle di lui.
“L’ho…l’ho…l’ho
sempre fatto!” riuscì a dire il ragazzino, a
fatica.
Quanti anni può
avere? Si chiedeva Rikarathör. Era
una Dea…poteva averne anche qualche migliaio, ma ai suoi
occhi non ne aveva più
di venti.
“Mi piace il potere che
hai, Rik, ma adesso è davvero meglio
che rientri. Non vorrei saperti ammalato”.
“Io non mi ammalo tanto
facilmente. Sono forte!”.
“Non ne
dubito…”.
“Ora te ne andrai. Quando
tornerai?” chiese lui.
“Non dipende da me. Ma
tornerò. E sono sicuro che sarai
divenuto ancora più grande e forte!”.
E con quelle parole si erano
separati, per quella notte. E
quella notte aveva aumentato notevolmente l’impegno con cui
Rikarathör svolgeva
i suoi esercizi. Voleva essere in grado di dimostrarle che, anche se
era un
Semidio, era all’altezza di portare i geni del Dio del Sole.
Per gli Dèi gli anni
passano in fretta, e perciò lei si
stupì molto quando, quattro anni dopo, tornò al
villaggio e si ritrovò davanti
un ragazzo e non il bambino dodicenne che aveva salutato sotto la
pioggia. Era
giunta con il sorgere della prima Luna ed aveva chiesto ad una delle
abitanti,
incrociata per strada, se poteva dirle dove stava il figlio del Sole.
Le era
stata indicata la serra e lei ci era andata, con il sorriso sulle
labbra,
convinta di trovarci un bambino, o poco più, che giocava.
Appena entrò
avvertì subito un gran calore e ne rimase
deliziata. Da tanto non provava una sensazione simile. E rimase
meravigliata
quando vide che, al centro della serra, c’era
Rikarathör con accanto il Dio
dell’Estate che gli dava istruzioni ed ordini.
“Devi concentrarti. Il tuo
calore e la tua luce devono
essere uniformi ed equilibrati o finirai per dare fuoco a qualche
albero!” gli
diceva “Sei troppo irruento! Calmati!”.
Rikarathör, ad occhi chiusi,
tentava di controllare i suoi
poteri, respirando a fondo. Quando li riaprì vide lei.
Rimase immobile,
guardandola.
“Bravo! Così si
fa! Era difficile?” si complimentò il Dio,
suo maestro.
Guardandola era in grado di
trasmettere il calore ed il
potere necessario.
“Benvenuta fra di noi, Dea
della Luna” la salutò il Dio
dell’Estate che poi, guardando l’espressione del
suo allievo, aggiunse: “Vi
lascio soli. Continua così, Rikarathör. Sei sulla
strada giusta”.
Il Dio uscì ed i due
rimasero da soli. Lui si rimise la
camicia, pur sentendo un gran caldo, e lei si mise a guardare,
ammirata, i
bellissimi fiori dell’albero di Heket.
“Ne vuoi uno?”
azzardò il ragazzo, con la sua voce
altalenante a causa dello sviluppo che gliela stava cambiando,
arrampicandosi
per coglierne il più grande e colorato.
“Grazie” disse
lei, infilandoselo fra i capelli.
Per ringraziarlo gli diede un piccolo
bacio, sulla guancia,
che Rikarathör non si aspettava minimamente e che lo fece
arrossire. Lì, sulla
pelle sfiorata dalle labbra della Luna, apparve una piccola fiamma
simile a
quelle che aveva sulle braccia e sulle spalle.
“Sei cresciuto,
Rikarathör…” commentò lei,
mentre lui
continuava a fissarla ad occhi spalancati.
La Dea allora scoppiò a
ridere per la strana espressione di
lui e lo invitò a sedersi accanto a lei, sotto uno di quei
bellissimi alberi.
Lui, titubante, obbedì ma, appena si calmò un
po’, sentì una voce familiare
chiamarlo per nome da un punto imprecisato.
“Devo andare”
disse, con riluttanza “Mia madre mi chiama e,
adesso che la mia sorellina inizia a mettere i denti, devo andare ad
aiutarla
prima che si innervosisca. Scusami…”.
“Anch’io andrei
da mamma, se potessi. Ma io non ho una mamma
perciò…vai!”.
“Ci rivedremo presto,
vero?”.
“Non te lo posso
promettere. Ma ci terrei a rivederti
perciò…prima o poi accadrà!”.
Si separarono, ognuno con qualcosa in
più, chi un fiore e
chi una fiamma sul viso, desiderosi più che mai di
rivedersi, ma per la Dea il
tempo aveva una valenza così diversa rispetto alla vita del
mortale che non si
accorse di quanto in fretta scorressero gli anni.
Si ritrovarono il giorno della prova
dei cristalli di
Rikarathör. Lei rimase sconcertata, vedendolo. Quanto
rapidamente scorreva la
vita per quelle creature, anche se in parte divine! Lui era vicino al
lago, che
aveva sghiacciato con i suoi poteri, e si stava esercitando per
concentrare la
mente in qualcosa che non fosse per forza la prova finale. La sua
sorellina,
Marinditi-ya, che al tempo aveva quasi quattro anni, sedeva sotto quel
che
rimaneva di un albero rinsecchito e lo guardava, muovendo le manine con
stupore
ed ammirazione quando il suo fratellone “giocava”
con le fiamme. Lui rispondeva
ai suoi sorrisi, a volte, e continuava con i suoi esercizi. Prese un
profondo
respiro, congiunse le mani, e concentrò le sue energie
contro il tronco morto
di un altro albero. Questi, dai secoli e dal gelo, era divenuto duro
come la
pietra e l’impatto non fu quello che Rikarathör si
aspettava. L’albero si
disintegrò in pezzi, andandogli a colpire, con qualche
frammento, le mani.
“Attento, fratellone! Non
farti male proprio oggi. Le mani
ti servono ed io non posso prestarti le mie, questo è
sicuro!”.
A parlare era stato Loreatehenzi,
arrampicato sullo stesso
albero sotto cui sedeva la sorellina. Interamente vestito di nero, con
una
lunga catena pendente dalla cintura, rideva ed interferiva con gli
esercizi del
fratello maggiore spostando il vento a suo comando. Lo aveva sempre
fatto e per
Rikarathör era sempre stato un ottimo esercizio.
“Lo ammetto. Ho voluto
strafare” riconobbe il figlio del
Sole.
“Come sempre! O troppo o
niente!” ridacchiò Loreatehenzi.
“Vedi di non
esagerare!” ribatté l’altro,
lanciandogli una
piccola fiammata che, però, volutamente non lo
toccò “Era solo un avvertimento”
rise.
“Ma guarda
questo…e tu saresti il fratello grande e pronto
ad affrontare la prova di maturità?! Ma va là!
Tu non crescerai
mai !”.
“Scendi dal trespolo,
implume, e vieni qui che ti mostro
quanto sono maturo!”.
I due, ovviamente, si divertivano e
non prendevano le cose
molto sul serio. Loreatehenzi scese dal ramo che lo sosteneva e rimase
sospeso,
a mezz’aria, di fronte al fratello che stava attento a non
colpirlo in modo
pesante. Non per evitare di ferirlo, sapeva che la madre lo avrebbe
curato
subito, ma per non percepire la scossa del suo sigillo che gli impediva
di
usare a pieno le sue capacità.
L’uno volando e
l’altro lanciando piccole fiamme, si
affrontavano in un gioco che avevano sempre fatto, fin da bambini.
Consapevoli
del fatto che Valek-hiteia li avrebbe presi a scappellotti entrambi se
scoperti
a cercare di colpirsi a vicenda.
La Luna rise nel vederli e si fece
scoprire. Subito si
fermarono.
“Selene…”
le disse Rikarathör, dopo che lei lo ebbe salutato
con la mano, stupito nel vederla.
Ma ancora più stupito di
lui era suo fratello. Guardava
prima lei e poi lui ad occhi spalancati: “Wow.
Rik…conosci una bella donna che
non sia la mamma e che ti saluta pure. Sono decisamente spiazzato dalla
cosa.
Non lo avrei mai immaginato possibile!”.
Rikarathör, di risposta, gli
mise una mano sulla testa e
spinse, trasmettendo il calore del fuoco e chinandogli il capo.
“Ok, va bene!
Così mi fai male, lasciami!” sghignazzò
Loreatehenzi, dimenandosi.
Il maggiore lo lasciò
andare, con uno strattone, e gli fece
segno di sparire. Il minore sorrise, sempre più convinto,
dalla reazione del
fratello, che lì gatta ci covava. E che nidiata poteva
uscirne!
Prese fra le braccia la piccola
Marinditi-ya e si allontanò,
scuotendo i lunghi capelli mossi come una rock star e lanciando
occhiate
d’intesa.
“Torna a giocare con le
macchinine!” sbottò Rikarathör, in
un impeto di spocchia dettato dal desiderio di mettersi in mostra
davanti alla
Dea per sembrare più grande.
“Ma vaffanculo!”
rispose Loreatehenzi, mostrandogli la
lingua ed il dito medio, con un ghigno malefico, prima di allontanarsi
tornando
verso casa.
Ricominciava a nevicare.
Rikarathör tornò ad arrotolarsi nel
mantello rosso e guardò Selene, che si avvicinò
lentamente, avvolta dalla sua
solita grazia e luce argentea.
“Scusa se non sono tornata
prima” sussurrò lei, a mani
giunte e con aria affranta.
“Ora sei qui, è
questo che conta” rispose lui, stupendosi da
solo di quella frase.
“Ho saputo che oggi
affronterai la prova dei cristalli.
Diventerai uomo…”.
“Non sarà certo
un sassolino colorato a stabilire se sono un
uomo o meno!” affermò, di risposta,
Rikarathör, mentre nella sua testa si
chiedeva da dove gli venissero simili frasi mal interpretabili sotto
certi
punti di vista.
“Mi sei mancato”
parlò lei, inaspettatamente, dopo attimi di
silenzio.
Lui deglutì, sentendo
bruciare la guancia dove lei lo aveva
baciato, non sapendo bene che fare o rispondere. Si guardò
attorno, confuso.
Poi, stringendo i pugni, la guardò in volto,
tranquillizzandosi improvvisamente
alla vista degli occhi divini che, evidentemente, trasmettevano un
qualche
potere calmante.
“Anche tu. Ti ho
pensato…in questi anni…”
confessò
Rikarathör, arrossendo solo leggermente.
Ora, lo vedeva, non dimostrava tanti
più anni di lui
nonostante li avesse. Quel silenzio era fastidioso. Voleva riempirlo
con
qualche parola, ma aveva paura di pronunciare frasi inappropriate e
prive di
senso. Invidiò, in quell’istante, i suoi fratelli
e la loro “esperienza” con il
sesso opposto.
La Luna, senza emettere un suono, si
avvicinò fluttuante ed
eterea e lo abbracciò. Il ragazzo, preso totalmente alla
sprovvista, rimase
immobile, senza avere il coraggio di toccarla.
“Hai paura di
me?” mormorò lei.
“Eh?”
squittì lui, ancora avvolto dall’abbraccio ed
incapace
di formulare altre parole sensate.
“Non devi averne”
lo rassicurò lei, sfiorandogli il petto
dove si formò una fiamma, sulla sinistra, di una forma molto
simile a quella di
un cuore.
“Non ne ho”
mentì lui.
Lei sorrise ed inclinò il
volto. Lui, d’istinto,
indietreggio leggermente ma non riuscì a sfuggire a quel
bacio che lo travolse,
annullando qualsiasi altro suo pensiero, mentre una meravigliosa alba
colorava
il cielo assieme a qualche fiocco di neve che riluceva con la luce. I
capelli dritti
ed argento di lei, mossi dal vento, andavano ad incrociarsi con i
disegni di
fiamma sulla pelle di lui, con migliaia di scintille di magia luminosa.
“Rikarathör!”
sbottò una voce, in lontananza.
Il lago era tornato a ghiacciarsi.
Enrikiran, da una delle
sponde, stava avvertendo il fratello che la prova dei cristalli stava
per avere
inizio e che doveva affrettarsi.
“Aspetterò il
tuo ritorno. Buona fortuna” aveva detto la
Luna, mentre lui si allontanava.
Era andato tutto molto peggio di
quanto si aspettasse. Era
stato aggredito più volte dalle creature del Kaos, aveva
rischiato di perdere
il cristallo a causa dello spostamento d’aria ed infine si
era fatto un bel
pezzo a piedi, a causa di una ferita del suo drago provocata da un
predatore
naturale della bestia che non aveva trovato niente di meglio da fare,
in quel
momento, se non attaccarli. La cavalcatura, con l’ala
squarciata, non poteva
più volare, ma Rikarathör, ferito a sua volta,
l’aveva difesa e l’aveva
riportata al villaggio, passo dopo passo, tra la neve ed il vento. Solo
il
pensiero che lei lo attendeva lo aveva fatto proseguire. Non era tipo
da
arrendersi facilmente. Ed aveva piena intenzione di dimostrarlo a tutto
il
villaggio ed a suo padre, soprattutto.
Il primo a vederlo,
dall’alto della torre di guardia, fu
Loreatehenzi che chiamò tutti a raccolta. Finalmente
l’unico che doveva
affrontare la prova quell’anno era tornato! Circondato,
consegnò il fagottino
di stoffa con il cristallo a sua madre, Valek-hiteia, che come sempre
lo
esaminò assieme ad i massimi esponenti della magia del luogo
per decidere se
era adatto e senza imperfezioni. Una volta appurata la bontà
della pietra, fu
restituita al ragazzo avvolta nel panno. Rikarathör, nel
frattempo, era rimasto
in piedi in silenzio, guardandosi attorno. Aveva visto suo padre,
Selene, i
suoi fratelli e molte altre persone a lui care, al quale sorrise.
Lei era molto vicina. Anche senza
guardare verso la sua
direzione, lo percepiva. Sentiva il suo profumo e la sua aura. La folla
aveva
formato un cerchio attorno a lui ed aspettava di vedere il colore della
pietra,
ma lui esitava. Si sentiva stanco e gli faceva male la ferita alla
spalla.
“Coraggio”
parlò la Luna, avvicinandosi.
Ma il Dio del Sole la
fermò, convinto, con un braccio.
Rikarathör non capì il perché di quel
gesto e guardò il padre con aria
interrogativa.
“Lascia che tuo fratello si
concentri sulla sua prova”
affermò, ed il suo giovane figlio, colpito da quelle parole
che gli suonarono
così terribili, si bloccò, lasciando cadere per
inerzia il cristallo che
stringeva fra le mani, fra lo sgomento della gente.
Solo per miracolo non si ruppe, ma al
ragazzo non importava
più di quella prova.
“Fratello?”
mormorò, guardando Selene.
“Come sarebbe a dire
"fratello"?” esclamò
Loreatehenzi, fra gli sguardi interrogativi della folla attorno a lui,
che non
capiva il perché di quell’esclamazione.
“Sì. Lei
è mia figlia. E tua sorella maggiore. So che la
cosa ti sconvolgerà, sangue misto, e non credere che non vi
abbia visto, voi
due assieme, prima”.
“Papà, avanti!
Non è successo niente! Stai tranquillo!” gli
parlò, dolcemente, la figlia.
“Supera la tua prova
ragazzo…e cambiamo argomento!” sbottò
il padre.
Rikarathör scosse la testa,
tentando di tornare lucido a
sufficienza per colorare il suo cristallo.
“Come ti sei fatto quelle
cicatrici sulle mani?” domandò il
Sole, dopo avergliele notate.
“Sono vecchie queste.
Quando ero bambino e provavo a
controllare il mio elemento. Ma ero troppo inesperto e, a volte, mi
bruciavo
scottandomi”.
“Non riesci a controllare
il tuo elemento?”.
“Non ci riuscivo, un tempo.
Ero piccolo. Ma ora non ho
problemi”.
“Ne sei certo?”.
“Lo so! Sono in grado di
gestire i miei poteri pienamente,
senza ombra di dubbio”.
“Sei sempre e comunque un
semidio. Non mi stupisco se hai
dei problemi. Devi avere il coraggio di ammetterlo, senza perderti in
pensieri
inutili o sentirti a disagio”.
“Io gestisco i miei poteri
ed il mio elemento. Mi impegno e
lavoro sodo da anni, che per te forse non sono nulla ma per me
è tutta una
vita, e cerco sempre di fare tutto ciò che posso. I frutti
dell’albero di Heket
qui maturano grazie a me, non certo grazie alla tua luce, ormai quasi
sempre
impercettibile nel cielo!”.
“Non puoi permetterti di
parlarmi in questo modo, ragazzo.
Sei solo un mortale, dopotutto. Mi dispiace dirtelo, ma è la
verità. Non puoi
pretendere di giudicarti mio pari o addirittura superiore. Per far
maturare i
frutti di Heket non ci vuole di certo la forza di un Dio!”.
Rikarathör non rispose.
Restò in silenzio, con la pietra,
avvolta nella stoffa, stretta fra le sue mani. Selene, la donna che
qualche
giorno prima gli aveva donato quell’unico bacio, era
l’unico pensiero che aveva
nel cuore ed era…sua sorella. Non poté fare a
meno di guardare Marinditi-ya ed
immaginarsela da grande, se avesse avuto gli stessi pensieri nei suoi
confronti
non lo avrebbe mai potuto accettare. Arrossì, abbassando gli
occhi. Come aveva
potuto non capirlo? Sua sorella…
E poi c’era suo padre ,che
ora gli diceva che sarebbe
rimasto sempre e comunque un semidio, senza il potere necessario per
fare
qualcosa per quel mondo freddo e morente come sperava. Per anni si era
esercitato, quante scottature e quante ferite aveva dovuto farsi
curare, per
arrivare a guardare suo padre negli occhi e sentirsi degno di essere
considerato
suo figlio. Ma dopo quelle sue parole…vedeva solo
l’inutilità degli anni persi.
“Fratello…”
sussurrò Loreatehenzi, cogliendo l’insicurezza
negli occhi di Rikarathör.
Lui non lo sentì.
Scostò la stoffa dalla pietra e, chiudendo
gli occhi, la strinse fra le mani. Avrebbe dimostrato a tutti di essere
in
grado di superare quella prova e vincere ogni difficoltà.
Però…le parole di suo
padre e l’amore per Selene…sua sorella…
Confuso, arrabbiato e deluso, non
riusciva a concentrarsi a
sufficienza. Si sentiva stanco ed aveva freddo, tanto freddo, mentre il
cristallo assorbiva tutto il suo calore. Una voce…una voce
fra le fiamme, che
sentiva uscire dal suo corpo come gocce di sangue, gli ripeteva che era
tutto
inutile, che non era in grado di controllare la sua forza ed il fuoco.
“Non è
così!” ringhiò, mentre la sua pietra si
tingeva di
rosso “Ti sbagli! Io sono in grado di controllare il fuoco!
Io…IO SONO IL
FUOCO!!” gridò, ed il suo corpo si
riempì di fiamme vive, avvolgendolo
interamente.
Il cristallo rosso rimase sospeso a
mezz’aria, con
Rikarathör che spalancava le braccia per alimentare ancora di
più il suo
elemento. Gridava, sempre più forte, con il suo sigillo che
si infrangeva,
allarmando la folla attorno a lui che si allontanava spaventata.
“Fate attenzione!
È fuori controllo!” urlò qualcuno, fra
lo
scompiglio generale.
Poche persone rimasero ferme dove
stavano. Loreatehenzi, ad
esempio, non si mosse, fiducioso del fatto che suo fratello sapesse
perfettamente come gestire la situazione.
“Rikarathör! Ti
prego, calmati!” supplicò la Luna.
“Selene…”
le rispose lui, senza smettere di essere avvolto
dalle fiamme “Selene sta tranquilla. Và tutto
bene. E…non mi importa se…sei mia
sorella. Io…” prese fiato, per gridare a
perdifiato la frase successiva “Io ti
amo, sorella mia. E non mi importa se è sbagliato o strano.
Io capisco il fuoco
e so che buona parte del calore che sento scorrere dentro di me
proviene da ciò
che ho sempre provato per te, fin dal primo giorno in cui ti ho vista,
quasi
dieci anni fa. Parte del mio fuoco è dovuto
all’amore che provo per te. Lo so,
lo so bene e nessuno può farci
niente…Selene”.
La Luna rimase a guardarlo, ora certa
che sapesse gestire le
sue fiamme pienamente, e gli sorrise, dandogli conferma del fatto che
ricambiasse i suoi sentimenti.
Fu il Dio del Sole a fermare il
ragazzo, che nel frattempo
non smetteva di bruciare. Lo afferrò saldamente per il
collo, solo il Dio era
in grado di avvicinarsi a suo figlio data la situazione, e lo
bloccò. I due si
guardarono negli occhi, fiammeggianti e rossi.
“Basta, fiamma viva,
smettila. Così facendo finirai col
consumare la tua parte mortale e morirai. Ti spegnerai come una candela
quando
giunge alla fine della sua cera. Smettila!”.
“Lasciami!”.
“Basta!” il padre
aveva una voce più profonda, ferma e
decisa.
Lo teneva stretto, ora con entrambe
le mani, ed intanto gli
parlava nella lingua degli Dèi. Attorno al collo di
Rikarathör, laddove si era
appena infranto il suo sigillo, tornò a formarsi una sottile
catena di luce
dorata che nasceva dalle mani del Sole. Il ragazzo gemette. Non era una
sensazione piacevole. Il padre stava ricreando il sigillo del figlio,
sovrastandolo con il suo potere. Rikarathör, tentando in ogni
modo di resistere
alla forza del padre, alla fine si arrese ed iniziò a
spegnersi, lentamente,
facendosi sopraffare dalla stanchezza.
“Calmati ora, figlio mio.
Andrà tutto bene” gli sussurrò il
Dio del Sole, lasciandogli andare il collo e sostenendolo, ora che
stava per
perdere i sensi.
Rikarathör cadde in
ginocchio. Era spento ed infreddolito,
coperto solo da ciò che rimaneva delle sue vesti
bruciacchiate. Aveva freddo.
Freddo e si stava facendo buio. Non sentiva le grida, i parenti che lo
chiamavano, il suo maestro, Selene…si stava facendo
buio…ma solo nella sua
testa.
Venne sopraffatto dalle tenebre e
svenne.
Quando si svegliò, accanto
al letto vide sua madre, con in
braccio Marinditi-ya, ed i suoi fratelli.
“Rikarathör!”
si sentiva chiamare.
“Meno male…si
è svegliato!” si rassicurò la madre.
“Rikarathör! Dimmi
qualcosa!” quella voce…
“Selene!” gemette
il figlio del Sole, ancora confuso.
“Sì, sono
qui!” rispose lei e lui sorrise, girandosi per
guardarla.
Allungò la mano per
sfiorarla ma lei si ritrasse.
“Cosa
c’è, Selene?” chiese lui, deluso dalla
reazione della
Dea.
“Non posso”.
“Perché?”.
Lei gli toccò la mano ed
il nuovo sigillo lanciò una forte
scossa lungo la spina dorsale del giovane, che urlò, colto
alla sprovvista. Si
portò una mano al collo e sentì che, oltre alla
pietra della sua prova dei
cristalli, aveva un nuovo marchingegno che lo bloccava, più
potente del
precedente che indossava fin da bambino. Parve confuso dalla cosa e si
guardò
attorno, in cerca di spiegazioni.
“Quel sigillo
l’ha creato il Dio del Sole e del Fuoco, mio e
tuo padre, fratello mio. Solo lui potrà scioglierlo, ma non
credo che abbia
intenzione di farlo tanto presto” lei, dicendo questo, aveva
davvero un’aria
triste ed abbattuta.
“Figlio
mio…” il Dio del Sole era rimasto sulla porta e
guardava i suoi figli da lontano, ma decise di avvicinarsi
“Figlio mio…non
credere che lo abbia fatto per cattiveria o per puro divertimento. Mi
piange il
cuore ad intrappolarti con questo ma…” ora era
seduto sul letto e sosteneva il
mento di Rikarathör in modo che questi, pur non volendo, lo
guardasse negli occhi
“…esistono leggi precise fra noi
divinità, ragazzo. Una fra queste è che un
mortale ed un Dio non possono e non devono avere dei figli. Io sono
forte,
vecchio ed esperto nonostante ciò che tu credi, e quindi
sono in grado di
gestire le conseguenze e le punizioni che gli Alti possono riservarmi
in
seguito ad un atto come quello di generare una creatura, come te, con
una
mortale. Ma mia figlia, Selene, non è capace di fare
altrettanto e che cosa
succederebbe se…”.
“Hei, ferma
vecchio!” lo interruppe Rikarathör, liberandosi
dalla sua presa “Io e lei ci siamo dati solo un bacio, nulla
di più! È inutile
che mi fai le ramanzine sui figli e su cose simili!”.
“Questo lo so. Ma ho visto
il fuoco che c’è dentro di te e
so per certo che non può estinguersi con un semplice
bacio”.
Il giovane non disse più
niente e chinò il capo.
“Inoltre…”
riprese il Dio del Sole “…non sai fino a che
limite puoi reggere le tue fiamme. Guardati! Ti sei spinto troppo
oltre, in un
eccesso di ira ed orgoglio, e ti sei consumato!”.
Il figlio si guardò le
braccia e le mani. Si accorse che era
vero. Le fiamme nate da esse lo avevano ferito in più punti,
lungo tutto il
corpo.
“Tu sei prezioso,
Rikarathör. Sei il mio unico figlio
maschio e potresti, un giorno, dover avere il pesante e gravoso compito
di
sostituirmi. Non so quanto questo possa avere importanza, data la
brevità della
tua esistenza ma, se ora mi dovesse capitare qualcosa, allora
spetterà a te
governare al mio posto tutte le stelle degli Universi. Anche
se…se ora mi
dovesse capitare qualche cosa, tu non saresti in grado di prendere il
mio
posto. Hai rischiato di morire, poco fa. Il sigillo che ti ho imposto
non è una
punizione ma un aiuto. Oltre ad impedirti di toccare mia figlia,
quell’affare
ti fermerà quando rischierai di perdere il controllo ed
andare oltre, così
imparerai a gestire l’enorme potere che erediterai quando, e
se, verrà il
momento. Quando io non potrò più fare il mio
lavoro. Capisci?”.
“Capisco solo che sono in
gabbia e che non
posso…esprimermi”.
“Un giorno lo comprenderai.
Andiamo, Selene”.
La Dea si era alzata e se ne era
andata, assieme a suo
padre, lasciando però al suo amato una promessa: sarebbe
tornata ad ogni Luna
piena di quel Mondo e lo avrebbe aiutato a poter fare a meno del
sigillo.
“Scusa se, da allora, non
sono riuscita a far sì che il tuo
sigillo venisse tolto” sussurrò lei, una volta che
il loro racconto ed i loro
ricordi furono interamente svelati.
“Non è colpa
tua. Sono io quello che è impazzito nella prova
finale, non tu!” la rassicurò lui, guardando il
cielo che iniziava a tingersi
di rosso.
“Devo andare. È
l’alba…” mugugnò lei,
scocciata.
“Tornerai?”.
“Me lo chiedi ogni volta!
Certo che tornerò. E tu? Mi
penserai?”.
“Ti sognerò ogni
notte, nell’attesa che il mio sigillo sia
rotto”.
“Aspetterò quel
giorno allora. Ciao!”.
Si salutarono, l’uno
andando verso casa e l’altra camminando
verso il Sole, con un sospiro.
Attesa…lui era un
inguaribile ottimista ma…per quanto tempo
ancora avrebbe potuto aspettare? Restava sempre e comunque un mortale,
il cui
corpo, prima o poi, avrebbe ceduto il passo al tempo. Cosa avrebbe
provato la
sua Dea nel vederlo invecchiare? Per lei la giovinezza non passava mai
mentre
per lui…iniziava a divenire solo un ricordo e lo spaventava
l’idea di arrivare
al giorno in cui sarebbe divenuta solo un ricordo e non più
una realtà. L’importante
è sentirsi giovani dentro, si ripeteva sempre, ma
in che modo avrebbe
potuto aiutare il padre da vecchio? E come sarebbe stato baciare le
labbra di
lei…che avrebbe avuto l’aspetto di una delicata
bambina mentre il suo sarebbe
stato quello di un nonno prossimo alla fine dei giorni?
Scacciò dalla mente quei
pensieri negativi e sorrise.
“Io vincerò il
Destino stesso. Non mi importa che cosa c’è
scritto sul fiore che rappresenta la mia vita! Io non mi
arrenderò e riuscirò
ad essere il degno successore del Sole e…come promesso,
riuscirò ad avere il
tuo bacio, mia Dea. Riavrò la sensazione d’amore
che mi trasmettono le tue
labbra, mia Luna dai capelli argentei!”.
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Capitolo 13 *** XIII- verde e nero ***
XIII
VERDE
E NERO
Lei voleva dar vita ai suoi sogni.
Lei voleva seguire ciò
che desiderava e voleva vederlo realizzato. Ma, purtroppo, lei non era
una
creatrice e non poteva far altro che combattere per ciò che
credeva giusto e
sforzarsi di guardare avanti, ripetendosi quale fosse il suo ruolo fra
gli
Universi. Invidiava il suo predecessore, suo nonno, che con una parola
poteva
creare, distruggere ed avere tutte le risposte che cercava. Lui
sì che era
potente! Aveva l’appoggio di Guerra, Paura, Armi…
Lei, al contrario, era sola e
molto meno potente, con mille dubbi per la testa. Lei era la Dea del
Kaos e,
doveva ammetterlo, amava il suo ruolo ma non la sua vita.
Aprì la finestra,
respirando l’aria pungente dell’atmosfera la cui
temperatura era ben sotto lo
zero. Voleva dei cambiamenti, perché sentiva che
così le cose non potevano
continuare e la rendevano infelice ma, allo stesso tempo, aveva paura
delle
conseguenze che potevano creare i cambiamenti. Era sicura che suo nonno
non
avrebbe avuto tutti quei ripensamenti. O forse sì? Dopotutto
aveva trasmesso
tutti i suoi sensi di colpa a quel Luciherus durante la sua ultima
guerra.
“A cosa stai
pensando?” si sentì dire, alle spalle.
Kuetzalikay era lì, con la
sua pelle verde ed i capelli a
piume. Sorseggiava un liquido rosso cupo, a gambe incrociate, e fissava
con
interesse la piccola Dea che gli dava le spalle. In equilibrio
precario, su una
delle sedie assurde del palazzo, si era ormai abituato al fatto che in
quel
luogo non c’era nemmeno una linea dritta o un angolo retto.
“Pensavo a varie
cose…” rispose lei, senza voltarsi.
“E non preferisci farmi
compagnia? Vieni qui, siediti
accanto a me” le indicò una poltroncina messa
accanto alla sua, nera e lucida
come la pelle della Dea.
“Tuo padre sa che sei
qui?”.
“Krì?
Perché dovrebbe saperlo?”.
“Perché lui lo
giudica sbagliato e pensavo avessi avuto il
coraggio di dirglielo”.
“Non deve riguardargli
ciò che io faccio”.
Kuetzalikay si alzò e
camminò verso la Dea, che teneva le
braccia strette attorno al corpo mentre guardava ancora fuori dalla
finestra, e
la strinse a sé.
“Smettila di avere
quell’aria triste, Skritch. Non ti si
addice” mormorò l’Alto.
“Invece io credo che sia
l’espressione che mi si addice di
più!” protestò lei, storcendo il naso.
“Solo perché sei
la Dea del Kaos?”.
“Non cercare di fare il
saccente con me solo perché sei uno
degli Alti. Sono nata parecchio prima di te e so come sto meglio. Se
non ti sta
bene…sei libero di andartene. Sai dov’è
l’uscita”.
“Adoro questo tuo carattere
scontroso. Ed adoro ancora di
più quando ti schiudi e mi mostri il tuo lato più
dolce…” tentava di prenderle
le mani ma lei rimaneva serrata, guardando altrove e senza mostrare,
all’esterno, segni di cedimento.
“Smettila”
sibilò, mentre scuoteva la testa per liberarla
dalla cascata di piume rosse che la stavano avvolgendo.
“Cos’hai oggi,
amore?” volle sapere Kuetzalikay, lasciandola
andare e fissandola con apprensione.
Non capiva mai cosa passasse per la
testa a quella femmina
con quei capelli corti da maschiaccio e gli occhi dorati come un
prezioso
gioiello “Mia piccola pantera…” la
chiamava sempre così per via della pelle
nera di lei “…se ho fatto qualcosa che ti ha
infastidito o irritato…dimmelo!
Vale lo stesso se, per te, ho fatto qualcosa di sbagliato o scorretto
nei tuoi
confronti…”.
“È questo tuo
atteggiamento ad essere sbagliato. Se credi
che ogni minimo sbalzo d’umore dipenda da te, ti sbagli! Ho
vissuto secoli
senza di te e sono benissimo in grado di badare a me stessa. Se ho
voglia di
parlarti di qualcosa in me che non và, lo faccio. Altrimenti
significa che non
sono affari tuoi. Mi hai capito bene, serpente piumato?”.
“Non so dove tu voglia
andare a parare ma…ti ho capito. Se
vuoi che me ne vada, basta dirlo”.
“Non voglio che tu te ne
vada, stupido. Voglio che tu la smetta
di farmi da protettore e di preoccuparti come se fossi una bambina
piccola. Me
la cavo da sola. Se non ti chiedo aiuto o conforto, è
inutile che vieni qui a
fare il santo che può riparare ad ogni mio guaio ed a
dispensare vagonate di
consigli non richiesti”.
“Sei libera di non
ascoltarli”.
“Sei libero di non
darmene”.
“Come vuoi. Io ti volevo
solo aiutare”.
Aiutare? La Dea non parlò
e lo guardò, di sfuggita. In un
attimo dimenticò il perché fosse così
nervosa ed arrabbiata, confortata
dall’espressione da bimbo sgridato ingiustamente che stava
facendo Kuetzalikay.
Sorrise sinceramente, cosa strana, e rilassò le braccia.
“Se fai così mi
fai sentire una mamma cattiva…”
ridacchiò.
“Mettimi in
punizione…mamma…” la prese in giro
l’Alto,
tornando ad abbracciarla.
La Dea si scansò
facilmente e lo guardò, con un ghigno di
sfida.
“Giochiamo,
piccolino!” lo incitò, mettendosi a correre per
il corridoio del suo palazzo, con l’Alto che la seguiva a
ruota, lasciandole un
certo margine data la scarsissima lunghezza delle gambe di lei rispetto
alla
notevole altezza di Kuetzalikay.
Lei correva e lui la inseguiva
ridendo, attento a non
perdersi per le assurde stanze di quell’edifico totalmente
privo di senso.
Giunti entrambi alla fine di una scalinata, la afferrò
saldamente per un
braccio, stanco di inseguirla, e la baciò ad occhi chiusi.
“Non sei stanca di giocare,
mammina?”.
“E che cos’altro
dovrei fare? Tu sei un Alto…non posso fare
altro che giocare con te”.
Kuetzalikay non sapeva cosa
rispondere. In fondo era vero.
Lui era una creatura molto diversa da lei, sia dal punto di vista
magico che
fisico. L’oblò, che portava all’altezza
del cuore, pulsava, veloce e luminoso,
come a ricordargli le loro differenze.
“Hai ragione, mia cara. I
nostri corpi sono diversi ed amano
in modo diverso. Ma non credo che tu debba pensare a come fisicamente
amiamo…concentrati, piuttosto, sul fatto che ciò
che proviamo dentro di noi è
lo stesso per entrambi. Non ti basta?”.
“A te basta?”
mormorò la Dea del Kaos, appoggiandosi con la
schiena al balcone di una grande finestra ad arco che dava sul suo
cortile.
“No. Ma non posso rendermi
fisicamente simile a te, come tu
non puoi divenire come me. Mi spiace…non dovresti cercare
sempre di avere più
di ciò che hai”.
“Io sono fatta
così. Sono il Kaos, in continuo mutamento e
mai soddisfatta”.
“Che cosa desideri, per
placare la tua natura?”.
“Niente. Io sono una Dea
nata per essere così e così
rimarrò”.
“Fra quanto mi considererai
un peso e non mi vorrai più
vedere, dato che io non muterò?”.
“Sarebbe una cosa buona per
te, se non mi vedessi più”.
“Che dici?”
sorrise l’Alto, prendendola per entrambe le mani
e guardandola negli occhi.
“Dico che io sono il Kaos.
Io…non provo le stesse cose che
provi tu”.
Kuetzalikay si
inginocchiò, così da permettere alla Dea di
mettergli le braccia attorno al collo.
“Spiegati, piccola, nera,
creaturina mia”.
“Io…finirei con
il farti del male…” sussurrò dolcemente
lei,
passandogli una mano sul viso “…di sicuro la mia
natura non è adatta ad un
sentimento come l’amore”.
“Tuo nonno amava, e molto,
la Dea della Guerra”.
“Io non sono come mio
nonno. Sono più debole e tendo…ad
aggrapparmi alle cose ed alle persone che mi circondando, in un
complicato
rapporto di dipendenza reciproca”.
“Non ti capisco. Sei
proprio una divinità complicata”
sghignazzò l’Alto.
“Ma non lo vedi?! A me non
basti mai. Se potessi ti
incatenerei in una delle mie stanze, in modo da poterti sempre avere a
disposizione, per poi stancarmi, come mi stanco di tutto, ed ignorarti,
facendoti soffrire”.
“Sicura che la tua non sia
solo paura che io ti faccia del
male?”.
“Dovresti avere tu paura di
me. Io so come mi comporto con
le persone. Le sfrutto, seguendo la mia natura, e poi le abbandono.
Oppure mi
appoggio a loro, avvolgendole nella nube della mia confusione che mi
contraddistingue, per poi farle smarrire per sempre. E la stessa cosa
farò con
te. Uno di noi due finirà per uscire, da tutto questo,
consumato e confuso.
Vuoi essere tu? Oppure lascerai che io stessa mi consumi?”.
“Il tuo discorso non ha
senso”.
“Il tuo amore non ha senso!
Tu non sai nemmeno cosa
significa quella parola! Quando sei con me pensi sempre ad altro,
ammettilo!”.
“Lo ammetto”.
“E te ne vai sempre
via…”.
“Ammetto anche
questo”.
“Perché?”.
“Perché non sono
molto sicuro dei miei sentimenti nei tuoi
confronti, se questo può consolarti. Io sono un Alto, non so
in che modo si
leghino sentimentalmente quelli della tua razza, perciò non
sono certo di
provare le stesse cose che tu provi. Sicuramente il mio corpo reagisce
in modo
diverso dal tuo ma a questo non so come porre rimedio. Può
darsi che anche la
mia essenza reagisca in modo differente. E, come hai fatto notare
prima, anche
se è molto che ci vediamo, tu hai millenni alle spalle senza
di me, perciò
immagino che tu ti ci sia abituata oramai, a startene da
sola”.
“Abituata a stare da
sola?”.
“Tu hai solo paura di
abituarti alla mia presenza e di
soffrire quando, e se, me ne andrò. Hai vissuto per secoli
da sola, in questo
nero palazzo, imparando ad essere totalmente indipendente. Litighi con
i tuoi
fratelli, hai perso uno dei tuoi genitori e l’altro non lo
vedi da tempo, sei
stata ferita ed umiliata perché sei una piccola Dea che
controlla la confusione
e l’incoerenza, che non vuole essere aiutata
perché vuole dimostrare a se
stessa di essere in grado di fare tutto da sola…non vuoi
essere amata perché
hai paura di dimostrarti debole amando. Sei complicata, ma non
impossibile da
capire ed in quanto a me…io sono diverso da te in tutto e
non so se il nostro
legame può essere definito amore ma…”.
“Ma tu mi stai
mentendo”.
Kuetzalikay rimase in silenzio, per
qualche istante, girando
la testa altrove come richiamato da una voce lontana.
“Devo andare”
disse infine, mentre lei lo guardò male,
sospirando.
“Fai sempre
così…devi sempre andar via…”.
“Sarà il
destino, mia cara”.
“Il Destino?!”
sibilò lei, pensando subito a suo fratello.
“È quello che ho
detto”.
“E cosa posso
farci?”.
“Non lo
so…regalagli un fiore”.
“Un fiore?!”.
Kuetzalikay si era allontanato,
lasciando la Dea da sola,
infuriata a frustrata come sempre. Sedette sul suo trono nero,
rigandone la
superficie liscia con le lunghe unghie dipinte. Se tutto questo era
colpa del
Destino…era davvero così?
L’Alto ne era sicuro. Non
era amore ciò che lo legava a lei.
Non sapeva cosa fosse, ma non era amore. Risalì sulla
creatura che lo aveva
condotto fino a lì, uno dei draghi di Mihael, e prese il
volo, in fretta e
senza far rumore. Amore o non amore che cosa cambiava? Nulla,
assolutamente
nulla. Almeno secondo il suo punto di vista.
“Dormi
bene, mia pantera nera, perché presto saprò come
potrai aiutarmi
nel compimento del mio e del tuo destino, mia cara, e senza
l’intercessione del
tuo caro fratellino!”
|
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Capitolo 14 *** XIV- falci ed alleanze ***
XIV
FALCI
ED ALLEANZE
Passo dopo passo, Kevihang stava
attraversando
un’interminabile distesa di massi, pietre e rocce acuminate e
gelide al tatto.
Teneva le ali chiuse, non volendole sforzare. Erano ancora troppo
giovani e
deboli per sostenerlo per lunghi tratti e lui sapeva che, rischiando di
precipitare, avrebbe potuto ferirsi e questo avrebbe comportato pessime
conseguenze in quel mondo inospitale.
Aveva, davanti a sé, ben
chiara la sua meta. Voleva giungere
nei pressi della capitale, dove si svolgeva il mercato, ed ottenere un
rapido
passaggio per il regno di Mihael. Da solo non era in grado di andarci
e,
pensava, se ci era riuscito ad andare con quel metodo quando era
piccolo,
allora lo avrebbe rifatto adesso. Nascondere le ali sotto il mantello
non era
un problema e qualunque demone lo avrebbe scambiato per uno della sua
specie,
imbacuccato com’era, dato quanto bene si facevano notare le
sue corna nere.
Agitò la coda rossa al vento e continuò ad
avanzare.
Era sceso il buio, la notte, ed una
falce di luna argentea
si stagliava, timidamente, nel cielo. Era pallida ed in parte coperta
da nubi e
foschia. Faceva sempre più freddo ed il giovane
rabbrividiva.
“Non avrei mai immagino di
dirlo ma…caspita se mi manchi,
Rik!”.
Con tutto quel freddo desiderava
davvero tanto avere il
fratello maggiore e maestro accanto, con il suo fuoco ed il suo calore.
Bastava
solo tornare indietro, a quel villaggio dove era cresciuto, per riavere
tutto
ciò che gli mancava… Tolse quei pensieri dalla
testa. Non doveva guardarsi alle
spalle, non doveva girare lo sguardo. Sarebbe arrivato alla sua meta,
passo
dopo passo, senza arrendersi, guardando sempre avanti. Nessun
rimpianto, nessun
ripensamento. Dopotutto erano stati loro a rifiutarlo…ed era
suo compito
trovare il luogo in cui sarebbe stato accettato.
Con l’aiuto della spada di
ghiaccio, dalla quale non si era
separato, si procurò qualcosa da mangiare e sedette in
un’insenatura nella
quale non percepiva tanto il forte vento. Di accendere il fuoco, con
quell’umido e la pioggia che andava e veniva, non se ne
parlava, perciò si
scaldava come meglio poteva, accoccolandosi in un angolo, avvolto dal
lungo
mantello rosso. Si guardò il palmo della mano, sulla quale
brillava ancora,
anche se con sempre meno intensità, la luce che lo aveva
guidato per la prova
dei cristalli. Si chiese come sarebbe stata la sua vita ora, da solo,
senza
aiuto e con una missione da seguire. Ne valeva la pena? Si scosse. Non
doveva
addormentarsi con quel freddo. Doveva proseguire fino al primo
villaggio, se non
voleva restare addormentato per sempre. Aveva ricominciato a piovere
forte ed a
tirar vento. Sbuffò e tornò a raggomitolarsi in
un angolo di pietra. Gli si
chiudevano gli occhi. Ma non doveva…non
voleva…sempre più
confuso…lottò finché
poté e poi, senza nemmeno accorgersene, si
addormentò profondamente.
“Svegliati,
Kevihang”.
Kevihang non si mosse.
“Svegliati!”.
Il ragazzo socchiuse gli occhi,
sentendo tutte le membra
indurite dal freddo. Ogni suo, raro, respiro si trasformava in una
nuvoletta di
vapore bianco. Ripeteva a sé stesso che non si doveva
addormentare ma non
riusciva a tenere gli occhi aperti.
“Svegliati!”.
Di nuovo quella voce femminile da non
sapeva dove. Da dove
veniva? Chi era? Non importava…voleva solo dormire. Ma
quella voce…
Aprì gli occhi con
convinzione e vide una luce rossastra.
Mise a fuoco, sbattendo velocemente le palpebre, e vide che quella luce
era
emessa da una donna.
“Chi sei?”
domandò, sicuro di non conoscerla.
“Non lo capisci,
Kevihang?”.
“Come sai il mio
nome?”.
“Io so questo e molto altro
su di te…”.
Lui la guardò con
più attenzione. Era davvero una bella
donna, vestita di scuro, con i capelli vaporosi, dai contorni
indefiniti, e la
pelle scura, lucida, perfetta. Ma la cosa che più
colpì Kevihang furono gli
occhi, azzurri e meravigliosi. Ed in mano cosa stringeva? In quelle
mani
affusolate ed eleganti, decorate con grossi anelli argento, era stretta
una
lunga asta argento e nera. Una falce! Kevihang sobbalzò
quando realizzò chi
aveva davanti. Lei aveva una falce fra le mani!
E la sua cintura era una catena di
teschi, come teschi erano
i suoi anelli ed i motivi sul suo bustino nero e rosso, che si
allacciava sulle
spalle con due ali di pipistrello. Attorno al collo aveva uno stretto
collare
pieno di spuntoni metallici ed un piccolo pendente color del sangue. Un
motivo
a ragnatele le decorava gli stivali, che si vedevano attraverso lo
spacco della
gonna, così come lo stesso motivo si ripresentava sui guanti
e sulle braccia
come tatuaggi ricamati. Sul capo si
vedeva una specie di corona, anch’essa nera e lucida.
Agitò la coda da demone,
senza espressione sul volto, puntando la falce verso Kevihang.
“Tu sei…la
Morte?” domandò lui.
“Sono io”.
“Piacere di
conoscerti” rispose lui, messosi a sedere.
“Non hai paura di
me?”si stupì lei, rilassando il braccio
armato.
“Perché dovrei?
Non sei venuta qui per uccidermi”.
“E perché sarei
qui?”.
“Non lo so. Ma se avessi
voluto uccidermi lo avresti fatto
prima, senza svegliarmi”.
La Dea della Morte non rispose e fece
una smorfia divertita.:
“Sei un ragazzo coraggioso come non ne esistono
più, ormai. Non so perché ti ho
svegliato. Forse perché…hai un’aria
familiare. Quei capelli, quel viso e, ora
che guardo, quegli occhi…”.
“Come ti chiami?”.
“Ha importanza? Sono la
Morte, l’ultima cosa che vedrai”.
“Io non credo che tu sarai
l’ultima cosa che vedrò anche se,
se fosse, non mi dispiacerebbe, bella come sei”.
La Dea rimase sconcertata da quella
frase e fissò il ragazzo
con stupore. Non ricordava di essersi sentita rivolgere parole simili
da
nessuno, se non dal suo compagno scomparso da tempo.
“Mi han sempre detto che io
sono il figlio della morte, o
dei morti…”.
“Per via di quel tatuaggio
che hai sul viso?”.
“Anche. Guardandoti, dubito
che tu sia mia madre”.
“Assolutamente no! Io ho
una figlia, Dea della Vita, e non
ho mai avuto un figlio come te!”.
“Non sai quanto la cosa mi
renda felice…”.
“Ci stai provando con
me?”.
“Come non potrei, con quei
meravigliosi occhi azzurri?”.
Lei sorrise. Nessuno notava mai quel
dettaglio, spaventato
com’era dalla prospettiva di smettere di vivere. Si sentiva
in imbarazzo, pur
avendo davanti a sé solo un ragazzino.
“Tu dovresti essere
spaventato, Kevihang, non star lì a
guardarmi gli occhi”.
“Azzurri come il cielo
sereno…la cosa più preziosa in un
Mondo come questo!”.
“Cosa ci fai qui da solo,
ragazzo?”.
“Voglio scoprire chi sono i
miei genitori”.
“Sei orfano?”.
“Sì. E vorrei
sapere se sono ancora vivi o se non sono più
fra questi universi”.
“Anch’io sono
orfana. I miei genitori sono morti entrambi”.
“Mi
dispiace…come si chiamavano?”.
“Conosci Luciherus, Kasday
e l’antico Kaos?”.
“Di fama. Sono morti molto
prima della mia nascita. Erano
loro i tuoi genitori? Affascinante…ne avevi addirittura
tre…dicevano che
fossero le creature più belle del
creato…”.
“Non esageriamo
ma…”.
“Ti mancano?”.
“A volte. Mio padre,
Luciherus, di più perché praticamente
mi ha cresciuto lui. E mi manca Kasday, che mi ha messo al mondo. Il
Kaos
era…una sorta di terza parte che ha permesso a mio padre di
trasmettere i suoi
geni, mettendoci del suo. Ho preso da lui questi capelli privi di
contorni. Da
Luciherus la luce e da Kasday gli occhi. Mi mancano, bene o male, tutti
e tre,
come mi mancano il mio compagno ed i figli che ho perso”.
“Ecco perché i
tuoi occhi, pur se magnifici, riflettono
tanta tristezza...”.
“Non sono affari che ti
riguardano!”.
“Posso, in qualche modo,
alleviare il peso sul tuo cuore
addolorato?”.
Lei non rispose. Lui la guardava,
sorridendo.
“Hai freddo,
Kevihang?”.
“Un
po’…”.
“Posso aiutarti?”.
La Dea depose la falce e si
avvicinò al ragazzo, rimasto
seduto, in un modo non molto composto, contro una roccia. In ginocchio,
togliendo i guanti, aprì il mantello che il giovane teneva
stretto per
proteggersi dal freddo. Il contatto con le mani della Dea fece
rabbrividire
Kevihang. Non erano calde, come di aspettava, ma incredibilmente lisce
e
fredde, come l’acciaio. Era una strana sensazione ma lui la
trovò bellissima e
non oppose resistenza.
“Luciheday”
sussurrò lei.
“Come?!” si
stupì Kevihang, distratto e concentrato su
altro.
“Luciheday. È
questo il mio nome”.
“Piacere di
conoscerti” rispose il ragazzo, mormorando piano
e non facendola parlare più, con un lunghissimo bacio che
fece espandere la
luce di lei ed aprire le ali di lui.
Con le mani ci cercavano e si
abbracciavano, sempre più
stretti, ignorando la pioggia ed il freddo. La Dea si sentiva strana,
come
avvolta da una sensazione che non provava da tempo, mentre Kevihang le
faceva
scivolare via, lentamente, la lunga gonna ed il bustino a teschi. Senza
pensare,
era rimasta scalza, quasi scalciando come una bambina, per liberarsi di
quell’ingombrante copertura sul suo corpo. Lui si era fatto
slacciare il
mantello ed aveva fatto scivolare via la tunica, mezza stracciata da
quando
aveva aperto le ali, e lasciava che la Dea seguisse con le dita i
disegni del
filo spinato della sua pelle. Lei lo avvolgeva con la lunga coda da
demone,
mentre la rossa di lui le si attorcigliava attorno alle gambe.
Mormorandosi
strane parole e piccoli ordini, si fusero in un altro bacio ed in un
abbraccio,
pelle contro pelle. La Dea gemette, riprovando la sensazione che dava
l’atto
d’amore dopo tanto tempo, mentre chiudeva gli occhi per
poterne vedere i mille
colori.
Lui, con le ali spalancate ed il
respiro affannoso, la
strinse forte a sé e le sussurrò
nell’orecchio: “Sei mia. Questo è
l’unico modo
per sconfiggere la Morte”.
Lei urlò, trovando quella
“sconfitta” piuttosto piacevole, e
lasciò che quel ragazzo facesse di lei ciò che
preferiva, stanca di dover
sempre fare la vincitrice e la forte. Era stata battuta, forse
ingannata, da un
semplice mortale ma, in quel momento, era felicissima di essere stata
sopraffatta.
Si svegliarono con le prime luci del
giorno, avvolti nelle
grandi ali blu di Kevihang. Si guardarono, senza parlare, non trovando
le
parole per congedarsi o per riunirsi. La Morte fu la prima a
riprendersi,
liberandosi dalla stretta delle ali ed andando a cercare i propri abiti
nelle
vicinanze.
“Raggiungerai la tua meta,
Kevihang. O, perlomeno, non
morirai nel tentativo” mormorò, infilandosi gli
stivali con inaspettata grazia.
“Grazie. La cosa mi
rincuora, bella creatura”.
La Dea, ora rivestita, era in piedi
ed osservava lui, seduto
ed ancora avvolto dalle ali blu.
“Non parlare di questo,
ragazzo. È proibito”.
“Tranquilla. Non
andrò a vantarmi con gli amici delle mie
conquiste” ridacchiò lui, passandosi una mano fra
i capelli spettinati ed
agitando la coda “Piuttosto…quella alle tue spalle
è una tua amica?”.
La Dea si girò e vide che,
dietro di lei, nascosta fra le
rocce, c’era una ragazza vestita di bianco.
“Madre!” la
apostrofò lei, con un’aria di rimprovero sul
viso piuttosto evidente.
“Non è una mia
amica, Kevihang. Lei è mia figlia, la Dea
della Vita. Heket”.
“Piacere. Ho mangiato i
frutti dei tuoi alberi da piccolo”.
“Lo fanno tutti. Quello che
non fanno tutti è uccidere uno
dei miei alberi, come invece hai fatto tu quando eri solo un
moccioso” ribatté,
acida, lei.
Era di poco più bassa
della madre, di cui aveva ereditato il
colore degli occhi, e la lunga tunica bianca ed oro, allacciata in
vita, era
estremamente semplice e luminosa, quasi angelica. Aveva le ali di
Eleian,
antico Dio della Vita, suo padre, bianche e piumate. Portava i sandali,
bassi e
di colore chiaro, allacciati alla caviglia con un fiocco. Sulla veste
non aveva
decori ma i lunghi capelli biondi erano raccolti in una coroncina
dorata che
brillava assieme a piccole pietre preziose incastonate fra i glifi
incisi su di
essa.
“Non serve rispondere
così! Sei invidiosa? Se vuoi sconfiggo
anche te!” azzardò Kevihang.
La Vita, sconvolta da quella domanda,
non poté reagire in
modo diverso: tirò uno schiaffo al ragazzo, con rabbia e
forza. Il giovane
sorrise, portandosi una mano alla guancia colpita ed alzandosi in
piedi,
vagamente coperto dalle ali.
“Ma che fai?!”
urlò la Dea della Vita, coprendosi il volto
“Svergognato!”.
La Morte, nel frattempo, rideva
divertita.
“Cos’hai da
ridere, mamma?! Questo maniaco senza vestiti
è…”.
“È semplicemente
come hai detto tu: senza vestiti! È la cosa
più naturale degli Universi!”.
“Ma sarà normale
per te!!!!! Copriti, pervertito!”.
Kevihang le sorrise, unendosi alla
risata della Morte.
“Povera madama, mi spiace
di averla sconvolta!” disse lui,
facendo un inchino.
La Vita tentava di guardarlo in
faccia, coprendosi in parte
gli occhi, arrossendo ed indietreggiando.
“Ha gli occhi di
Luciherus” commentò, nascondendosi dietro
la madre che continuava a ridere.
“Davvero? Nessuno me lo
aveva mai fatto notare”.
“Se vai in giro sempre
così…ovvio che nessuno sta a
guardarti gli occhi!” sbottò la Vita.
“Suvvia, figlia
mia!” rise la Morte “Non esagerare! Andiamo,
dai. Quello che andava fatto qui, ormai è stato fatto e
quindi possiamo tornare
per la nostra strada”.
“La tua frase è
molto equivoca, madre!”.
Ridendo, la madre prese sottobraccio
la figlia e si allontanò,
guidandola perché si era tappata gli occhi mentre Kevihang
agitava le braccia
per salutarle.
Il ragazzo riprese il suo cammino,
dopo essersi rivestito,
più convinto e tranquillo. Con la spada sempre al suo
fianco, pronto a
sfoderarla in caso di pericolo, quando non pioveva avanzava volando,
ormai
pratico e sicuro su quelle piume blu. Quando scendeva la notte
però, preferiva
camminare per non attirare l’attenzione dei predatori
notturni e dei draghi.
Sicuro di non poter morire, proseguiva canticchiando, rilassandosi
sempre di
più.
“Sei la creatura
più incosciente e sconsiderata che
conosca!” tuonò qualcuno, alle sue spalle.
Subito, lui strinse la sua spada fra
le mani e si preparò ad
attaccare. Ma il suo avversario non poteva essere sconfitto da un
semplice
mortale.
“Levami quello
stuzzicadenti di dosso!” protestò
Kuetzalikay, facendo abbassare l’arma da Kevihang, anche se
con riluttanza.
“Scusa. Pensavo fossi un
mio nemico…”.
“Avrei potuto esserlo.
E…come diamine sei vestito? Sei
passato in un tritacarne?”.
“Ho avuto un imprevisto
alla cerimonia dei cristalli”.
“L’ho sentito
dire. Sei sempre convinto di voler sapere chi
sono i tuoi genitori?”.
“Certo! Voglio guardare in
faccia chi mi ha abbandonato!”.
“Bene. Posso accompagnarti
io alla biblioteca di Vereheveil,
nel regno di Mihael. Il libro che avevi fra le mani quella volta,
quand’eri
piccolo, ora dovresti essere in grado di gestirlo”.
Kevihang sorrise, mostrando delle
piccole scintille di magia
fra le mani. Il suo potere era strano, inusuale. Non era legato a
nessun
elemento, non guariva, non curava ma, al contrario, toglieva energia se
il
ragazzo riusciva ad entrare in contatto diretto con le vibrazioni
emesse dal
soggetto che aveva di fronte. Come con gli alberi di Heket, riusciva a
risucchiare la vita e la forza. Annullava la magia altrui, se riusciva
a
capirla, e scioglieva incantesimi.
“Te ne sarei davvero grato.
Tu sei l’unico che ha rispettato
i miei desideri e le promesse che mi aveva fatto. Ho sentito da
più di qualcuno
le parole "ti aiuterò a trovare i tuoi genitori" ma fin ora
solo tu
mi ha dato prova di volermi davvero aiutare!”.
“Te l’ho promesso
quando eri piccolo e quindi…farò tutto il
possibile! Ma prima cerchiamo di trovarti un vestito più
congeniale per
andarsene a spasso. Se qualcuno ti vede così…ti
noterà di sicuro! E tu sai che
non puoi entrare nella biblioteca…dovrai passare
inosservato!”.
“Hai
ragione…”.
Kuetzalikay risalì sul suo
drago e guardò Kevihang.
“Voli o sali in
groppa?” gli chiese, notando le ali blu.
“Volo. Almeno per un
po’. Devo rinforzarle ed imparare per
bene ad usarle”.
“Sono molto
carine”.
“Grazie”.
Presero il volo assieme, anche se il
ragazzo faceva un po’
di fatica a seguire la velocità dell’animale, e si
avviarono verso il vicino
villaggio per acquistare vesti e nuovi indumenti per Kevihang.
Kuetzalikay,
suggerendogli quale scegliere, pagò con delle piccole
sferette d’argento che il
ragazzo non aveva mai visto. Di un colore simile al rame, a Kevihang
stava
molto bene quel nuovo abito dato che si intonava con i suoi occhi
aranciati.
“Ora che sembri un piccolo
principe, puoi venire con me a
palazzo” ridacchiò l’Alto, osservando
con ilarità il modo in cui il ragazzo si
pavoneggiava con la sua tunica nuova.
Conservò, e
continuò ad indossare, il mantello rosso della prova
dei cristalli. Strinse fra le mani il suo cristallo nero, ora
incastonato in
un’elegante catena d’argento, ed
assicurò la spada ed il fodero alla nuova
cintura in pelle.
“Alza il cappuccio,
ragazzo. Copri le ali e cela il tuo
aspetto. Devi passare inosservato” gli ordinò
Kuetzalikay, protetto da una
barriera che ne cambiava i tratti somatici in modo da renderlo
invisibile fra
al folla.
L’Alto risalì
sul drago rosso, aspettando Kevihang.
“Vieni con me. Non sei in
grado di passare da un Pianeta ad
un altro con quelle alette, non ancora. Forse in
futuro…”.
“Arrivo” gli
rispose il giovane, salendo in groppa e
facendosi trasportare verso la biblioteca di Vereheveil, nel Mondo dei
Demoni,
nel palazzo di Mihael.
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Capitolo 15 *** XV- intrusione ***
XV
INTRUSIONE
Nel palazzo di Mihael, stranamente
illuminato dal Sole,
regnava un insolito silenzio.
Kevihang e Kuetzalikay passarono tra
le due guardie
all’ingresso senza farsi fermare né destare
sospetti. Probabilmente perché le
guardie in questione erano troppo impegnate l’una a bere e
l’altra a dormire,
dopo aver bevuto. Incrociarono altri demoni, che però non
chiesero nulla.
Kevihang si domandò se la cosa fosse dovuta a qualche
incantesimo di
Kuetzalikay oppure se erano troppo distratti da altro, come giocare a
palla o a
nascondino.
“Non ci sono più
i demoni di una volta” gli sussurrò
l’Alto,
ghignando divertito.
“Nemmeno gli
angeli!” rispose, vedendone arrivare uno
vestito tutto in nero, ubriaco fradicio.
Percorsero il lungo corridoio a
piccoli passi, senza far
rumore, mentre in lontananza si sentivano grida e risate divertite. Nel
cortile
interno si stava disputando un’avvincente partita di calcio
fra demoni con le
ali e demoni che ne erano privi.
“Quella è la
porta della biblioteca, Kevihang. Vai pure
dentro. Io resterò qui a controllare che nessuno ti
disturbi. Prendi il libro
ed esci. Lo consulterai fuori”.
Il giovane annuì e, dopo
aver un po’ trafficato con la
serratura, entrò nella grande stanza che custodiva i libri
di Vereheveil. Era
molto buia ma il ragazzo era in grado di vedere benissimo, anche senza
scostare
le pesanti tende che ne coprivano le finestre.
Purtroppo il libro era stato spostato
rispetto a quando lo
aveva trovato anni prima e dovette cercarlo fra gli scaffali.
Borbottando, per
via del loro ordine sparso e privo di logica, chiedendosi chi era lo
stupido
che li aveva messi così, iniziò la sua ricerca
partendo dal presupposto che ciò
che cercava aveva la copertina rossa. Ma quella stanza era grande come
una
casa, se non di più! Sarebbe stata un’impresa non
da poco! Sospirò, pensando al
tempo che avrebbe perso. Leggeva tutti i titoli sui volumi rossi ed
avanzava.
Sul muro, fra le due grandi finestre
decorate, era appeso un
enorme ritratto di Luciherus. Era appoggiato contro una scalinata e
teneva
spalancate le ali da demone. A fianco, su un quadro leggermente
più grande, era
rappresentato sempre Luciherus ma da angelo, con la spada e le sue ali
dorate
che lo circondavano. Infine, su una tela ancora più grande,
c’era Mihael che
“minacciava” entrambi gli altri dipinti con la sua
lama nera e lucida.
“Il solito
megalomane” commentò Kevihang, non potendo fare a
meno di notare che Luciherus, se assomigliava davvero a quei ritratti,
era
davvero bello come dicevano.
Ricominciò a cercare,
sollevando polvere ed insetti, mosso
da un’indomabile curiosità e determinazione. Dopo
diverse ore, però, quella
curiosità e quella determinazione lo stavano abbandonando.
Cominciava a
confondere le lettere ed a divenire frettoloso, dimenticando dei
volumi, assecondando
i suoi occhi stanchi ed il suo cervello sempre più
addormentato.
“Mi servirebbe una
mano…” ammise.
A queste parole, la luce che ancora
brillava sulla sua mano
si intensificò, facendogli il solletico. Kevihang la
guardò. Pulsava e restava
sospesa a mezz’aria.
“Che stai
combinando?” parlò una voce, nella sua
testa.
“Rik?!”
esclamò il ragazzo.
“Fai silenzio! Non
farti scoprire, piccolo stupido! Pensa
alle risposte nella tua mente ed io le percepirò. Dove ti
sei cacciato? E che
cosa credi di fare?”.
“Come fai a
parlarmi? Non rientra fra i tuoi poteri…”.
“Finché
brilla quella luce nella tua mano, io saprò
contattarti”.
“E
perché non lo hai fatto prima?!”.
“Perché
solo ora hai richiesto il mio aiuto!”.
“Ah…bene…allora…io
cerco un libro rosso che…”.
“Che un bel
niente! Esci subito da lì! È proibito per te
stare in quel luogo e, qualsiasi cosa tu abbia in mente, finirai nei
guai!”.
“Cerco quel libro
perché saprà dirmi chi sono i miei
genitori”.
“Non hai qualche
altra idea per trovarli?”.
“Tu ne
hai?”.
La voce non rispose subito, come se,
dall’altro lato, il
figlio del Sole stesse cercando una risposta sensata da pronunciare.
“Deve esserci
un’altra via, Kevy” disse alla fine,
dopo un po’.
“Aiutami. Troviamo
assieme quel libro. Lo userò e lo
restituirò, senza che nessuno se ne accorga. Te lo prometto.
Fidati di me”.
“Chi ti ha
coinvolto in questa storia?”.
“Kuetzalikay!”.
“Spero che lui ti
dia una mano. Ad ogni modo…cerchiamo
assieme questo libro. Ti avevo promesso di aiutarti a trovare i tuoi
genitori.
Se per te non c’è altro modo... Ogni promessa
è debito”.
“Grazie”.
La voce non parlò
più, mostrando così il suo disappunto.
“Quanta energia
consumi per fare questo, fratellone?”.
“Troppa. Ti
starò accanto finché potrò poi, quando
la
luce si spegnerà, non potrò più fare
niente per te. Perciò…”.
“Mettiamoci subito
all’opera!”concluse Kevihang.
La luce acquistò dei
contorni definiti. Rikarathör apparve,
sotto forma di ombra disegnata con la luce, ed iniziò a
svolazzare fra gli
scaffali. Aveva lanciato un’occhiataccia di rimprovero al
giovane allievo e poi
si era messo a cercare. Il giovane sorrise, ammirato dal potere che
doveva
avere il suo maestro per comandare una sua immagine stando sul suo
Pianeta.
Passarono diverse ore prima che
riuscissero a raggiungere il
loro obbiettivo, e per fortuna era contenuto nella prima
metà della biblioteca.
Il figlio del Sole, con una luce sempre più spenta,
l’aveva visto e Kevihang,
con un singolo battito d’ali, lo aveva raggiunto ed afferrato.
“Grandi! Siamo dei
grandi!” esultò l’allievo.
“Abbassa la
voce!” lo rimproverò il maestro, facendo
traballare la sua immagine olografica e toccandosi il sigillo con una
smorfia:
stava sforzando troppo il suo potere.
“Ma chi vuoi che mi senta?!
Sono tutti ubriachi là fuori!”.
Il giovane si avviò,
convinto, verso l’uscita, quando
qualcosa lo trattenne ed una fortissima luce lo abbagliò.
Mihael, destato dal
suo sogno ad occhi aperti provocato dal libro che stava leggendo, si
era
scagliato contro l’intruso, che però era stato
prontamente difeso dalla luce
del suo maestro. Probabilmente, se così non fosse stato,
Kevihang sarebbe stato
trafitto dalla spada del Principe dei Demoni, che invece era stata
deviata da
Rikarathör. La lama deviò, con qualche piccola
scintilla, e il demone rimase
alquanto perplesso. Non era affondata in nulla di solido, eppure il suo
colpo
era stato parato. Avvicinò l’arma al volto e la
osservò, chiedendosi se si
fosse trattato di uno scherzo dettato dai suoi occhi ancora persi nel
regno
della fantasia.
“Spostati,
lampadina!” protestò Mihael, riferendosi alla
luce emessa dall’emanazione di Rikarathör
“Non so cosa tu sia, ma non era
rivolto a te il mio colpo di spada! Levati dai piedi!”.
Poi ci fu silenzio. Nessuno
parlò e il demone scosse la
coda, innervosito.
“Mi ascolti?
Comunque…sei un intruso pure te e quindi…in
guardia!”.
Rikarathör lo
fissò stupito e non si mosse ma Mihael
insisteva, brandendo la spada ed agitandola a vanvera a destra ed a
sinistra.
“Guarda che io sono solo
un’immagine, idiota! Non sono
reale, non sono un corpo fisico! Non puoi colpirmi, né
ferirmi! Perciò
calmati…e scusa per l’intrusione nella tua
bibliote…”.
“Balle!”
interruppe il padrone di casa e tentò di trapassare
il suo avversario luminoso, ottenendo solo scintille e magia sparsa.
“Perché non mi
credi, stupido demone?! Hai ragione, ok, non
dovremmo essere qui, ma non serve reagire così! Anche
perché, come ormai
avresti dovuto aver capito, non serve ad un cazzo!”.
“Guardie!”
sbraitò il Principe, esasperato per
l’impossibilità di colpire chi aveva di fronte.
“Hem…Kevihang?”
suggerì Rikarathör “Non per darti degli
ordini ma…non sarebbe il caso, per te, di scappare?
Così…tanto per dire…”.
Il ragazzo, con il libro fra le mani,
rimase titubante sul
posto.
“Rimetti a posto quel
libro, immediatamente!!” esclamò
Mihael.
“Scordatelo!” gli
ringhiò contro Kevihang.
Nel frattempo Rikarathör,
che tentava di frapporsi fra il
Principe ed il giovane fratello minore, diveniva sempre più
pallido. La sua
magia si stava indebolendo e la sua immagine, a volte, traballava.
Parava i
colpi, che il demone indirizzava verso il ladro, con la sua immagine
olografica,
non avendo armi, e questo comportava l’uso di un notevole
sforzo mentale.
Kevihang tentava di raggiungere
l’uscita, estremamente
distante dal punto dal quale aveva trovato il libro, saltellando e
girandosi
per assicurarsi che il suo protettore ci fosse ancora.
“Rikarathör! Per
quanto mi potrai coprire ancora?” chiese,
preoccupato.
“Non molto, fratellino.
Posa a terra quel libro e spera che
nessun’altro ti attacchi!”.
L’immagine luminosa del
maestro si stringeva il collo,
all’altezza del sigillo, segno che stava raggiungendo il
limite. Mihael, a
prova della sua cocciutaggine, continuava ad attaccare la sagoma con i
contorni
di luce, senza sosta, urlando frasi di difficile comprensione. Sempre
più colpi
non venivano parati da Rikarathör, ormai quasi del tutto
trasparente, e
sfioravano Kevihang.
“Quel moccioso ha uno dei
miei libri, spostati lucciola! È
lui che devo colpire!” protestò il demone.
“Se tu stessi fermo, potrei
spiegarti la situazione. Se
abbassassi quella cavolo di arma potremmo trovare una soluzione comune
che…”.
Il Principe si mise ad urlare,
interrompendo di nuovo gli
interminabili discorsi di Rikarathör.
Il figlio del Sole, visibilmente
provato, si fermò e guardò
Kevihang, preoccupato. Non riusciva più a deviare la spada
del demone e presto
sarebbe svanito.
“Kevihang!”
urlò, con l’ultimo briciolo di energia magica,
mentre questi era riuscito a distanziarsi da Mihael e la sua furia
“Kevihang!
Rifletti su ciò che stai facendo! Ti prego! Io non posso
più aiutarti e mi
dispiace. Non fare in modo che alle orecchie mi giungano notizie
spiacevoli sul
tuo conto. Rifletti! Kevihang!!!!”.
L’ologramma
svanì, in una manciata di stelline
fosforescenti, e Kevihang rimase da solo, con un demone infuriato alle
spalle.
Si girò, affrontando il suo nemico, pur consapevole di non
essere alla pari di
quella creatura. Usò la spada di ghiaccio di Enrikiran e
parò il primo colpo
che però, data la sua potenza, lo scagliò a
terra. Mihael, ringhiando e con uno
sguardo folle, spingeva la lama sorridendo sadicamente.
“Morirai, ragazzino! Hai
osato sfidare il grande Mihael!
Qualche ultimo desiderio?”.
Il ragazzo, che aveva chiuso gli
occhi per coprirsi dalle
scintille provocate dallo scontro delle due spade, tentò di
liberarsi. Deglutì
e fissò il demone, senza paura. Era forse la Dea della Morte
quella figura che
si intravedeva all’ingresso dell’immensa sala? Si
autoconvinse che non fosse
così, anche perché aveva notato che il Principe
si era fermato e lo fissava
negli occhi.
“Luciherus…”
mormorò il padrone di casa.
“Io…veramente…”
cercò di parlare il figlio dei morti, senza
capire.
“Chi sei,
ragazzo?” negli occhi del demone pareva essere
tornato il lume della ragione.
Si era fermato, con la sua fedele
arma puntata al collo
dell’intruso, e si stava calmando.
“Io…mi
piacerebbe saperlo, Signor Mihael. Mi piacerebbe
davvero capire chi sono…”.
La figura all’ingresso si
avvicinava. Si avvicinavano. Erano
le guardie del palazzo.
“Signore!”
esclamarono, in coro, i demoni guardiani, armati
e minacciosi.
Il Principe, colto allo sprovvista,
sobbalzò. Non si era
accorto del loro ingresso. Approfittando della distrazione momentanea
del
padrone di casa, Kevihang si divincolò e corse verso la
finestra.
“Kevihang!” si
sentì chiamare.
Riconobbe la voce di Kuetzalikay.
“Aiutami!”
supplicò e l’Alto alzò la mano destra.
Le guardie ed il Principe rimasero
immobili, bloccati dalla
magia della creatura dalla pelle verde.
“Dammi il libro,
Kevihang!”.
Il ragazzo, ancora scombussolato,
continuò la sua corsa
verso la finestra.
“Kevihang!
Che
fai?! Vieni qui!”.
Ma lui non ascoltò e
sfondò la grande vetrata che dava sul
giardino interno. Con il libro fra le braccia, graffiandosi con i
vetri,
spalancò le ali e si alzò in volo.
Poco prima dell’impatto con
la finestra, però, aveva
lanciato un’occhiata alla parete a fianco.
C’era
quell’angelo con le ali dorate su quel quadro…e
quella
piuma dello stesso colore in un calamaio sulla scrivania…lo
guardò, forse
inconsciamente.
Librandosi in aria ebbe la certezza
che quel quadro, con
quegli occhi aranciati e quelle ali dorate, lo stesse osservando. Non
aveva
forse girato gli occhi prima del suo salto verso il vetro decorato ad
angeli e
demoni? E quanti occhi si erano voltato verso di lui, creatura priva di
razza,
fra affreschi e quadri, in quella stanza?
Due in particolare lo stavano
osservando. Erano occhi
d’angelo, d’Angelo Messaggero che, allarmato, si
era allontanato in fretta da
quella biblioteca e da quel palazzo, obbedendo ad un ordine esplicito.
Si allontanò in fretta,
sbattendo le ali, senza guardarsi
indietro. Alcune frecce lo sfioravano, lanciate dalle guardie dalle
torri. Le
schivò, zigzagando, e vacillò. Il vento era
fortissimo e non riusciva a restare
in cielo. Inoltre iniziò a grandinare.
Per evitare di precipitare, Kevihang
fu costretto ad
atterrare e correre, perché dietro di lui si stavano
avvicinando le guardie di
Mihael.
Si guardò il palmo della
mano e rimase molto deluso nel non
vederci più nessuna luce.
Il terreno era impervio e fastidioso
da affrontare ma il
ragazzo non si arrese. Corse lontano dalla capitale, mentre il Sole
tingeva il
cielo di rosso ed arancio tramontando. Il giovane lo vide ma
già notò che
grosse nuvole nere iniziavano a condensarsi sopra la sua testa. Ed il
buio
calò, di colpo, in un modo che inquietò il
ragazzo. Non vide più nulla, per
qualche istante, come se fossero state spente tutte le luci. Sotto i
piedi
percepiva la durezza della pietra ed il gelo della neve, che penetrava
nei suoi
stivali rovinati dal lungo viaggio che aveva intrapreso fra la prova
dei
cristalli ed il resto. Che giornate pesanti e difficili erano state!
“Ne è valsa la
pena…spero!” si disse, stringendo a sé
il
libro e correndo più in fretta, avvolto dal buio totale di
una notte in cui
Luna e stelle erano coperte dalle nubi.
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Capitolo 16 *** XVI- la forza delle parole ***
XVI
LA
FORZA DELLE PAROLE
Kiaritanya, volando veloce per
adempiere al suo dovere, si
stava allontanando dalla biblioteca di Mihael. Aveva ricevuto ordine di
controllare Kuetzalikay e ciò che aveva visto non le piaceva
per niente.
D’istinto voleva recarsi dal suo padrone, Krì, ma
poi aveva frenato questo
proposito. Sapeva che, riferendo del furto del libro da parte di un
mortale con
Kuetzalikay come complice, avrebbe fatto infuriare l’Alto
genitore e questo la
Messaggera voleva evitarlo. Voleva evitarlo, ma qualcuno avrebbe dovuto
essere
avvertito di un avvenimento così grave. Di sicuro Mihael non
avrebbe proferito
parola sull’accaduto, mosso dall’orgoglio e
desideroso di mantenere per il suo
palazzo il titolo di “inespugnabile”. A chi avrebbe
potuto rivolgersi? Si fermò
un attimo a riflettere, schivando qualche demone con una piccola
imprecazione,
e poi prese la sua decisione. Aprì il portale sopra la sua
testa, con un rapido
gesto della mano, e passò in un altro Pianeta, quello degli
Dèi.
Sorrise. Quel Pianeta era quello con
meno Angeli e Demoni,
creature che, pur facendone parte, non sopportava più.
Canticchiando,
s’incamminò lungo la via, con i capelli tagliati
che si muovevano leggermente
mossi dal lieve vento. Lei, l’unica creatura angelica ad
indossare i pantaloni,
tentava di ignorare più sguardi possibili. Non voleva
distrazioni o commenti
stupidi. Bussò alla porta della sua meta ed attese,
dondolando al ritmo di una
canzoncina che stava borbottando.
“Chi
è?” si sentì chiedere da dentro.
“Kiaritanya, Messaggera
dell’Alto Signore di questi Mondi.
Devo conferire con il padrone di casa, se è possibile.
È molto urgente”.
La porta scricchiolò, con
uno scatto di serrature e ganci, e
si aprì.
“Ciao, Kiary” la
salutò Kavahel.
“Salve, mio caro.
Papà è in casa?”.
“Di là, in
biblioteca come sempre”.
“Grazie…”.
“Vieni, ti
accompagno”.
Kavahel, avvolto in un elegante
mantello blu scuro, fece
strada lungo il corridoio, illuminandolo con un candelabro. Le sue ali
scure
erano coperte dal vestito, così come i suoi capelli verde
acqua gli coprivano
il piccolo corno rosso in mezzo alla fronte. Gli occhi dorati erano
grandi e
profondi ma non più ricchi della felicità e della
vivacità che li contraddistinguevano.
Assieme alla Messaggera biondo scuro, entrò nella
biblioteca. Non attese che il
padre gli desse il permesso di entrare.
“Qui
c’è Kiaritanya, messaggera
di…”.
“So chi è lei,
figlio mio” interrupe Vereheveil.
Il Dio delle Lingue e delle
Letterature, stranamente, non
stava leggendo. Guardava fuori dalla finestra l’ennesima
nevicata con sguardo
malinconico.
“Puoi lasciarci soli,
Kavahel? Se è giunta fino a qui…non
devono essere buone notizie e di certo non voglio peggiorare la tua
situazione
mentale”.
“Non so a cosa tu ti
riferisca ma, ad ogni modo, vi lascio
soli”.
“Non è
necessario! Io…” si affrettò a dire
Kiaritanya, ma
Kavahel era già uscito.
“Dunque…Messaggera…cosa
ti porta fino a qui? Che ordini hai
da parte del tuo padrone?” parlò Vereheveil,
continuando a dare le spalle
all’ospite angelica.
“Non sono qui per eseguire
un ordine impartitami dal mio
padrone. Sono qui di mia iniziativa”.
“Che coraggio. Un
Messaggero non dovrebbe fare così”.
“Io faccio quello che mi
pare, scusi la franchezza”.
Vereheveil sorrise.
Spalancò le ali nere e si girò,
lentamente.
“Perché
disprezzi la tua razza, Kiaritanya?” domandò,
incrociando le braccia ma mantenendo un viso sereno e rassicurante.
“Non sono qui per parlare
di questo”.
“Lo so. Ma vorrei che tu mi
rispondessi. Sei un Angelo ed
odi gli Angeli…”.
“Io non sono un semplice
Angelo. Sono qualcosa di più. Ho
sempre desiderato esserlo e mi piacerebbe, un giorno, perdere queste
ali
piumate e divenire qualcosa di più”.
“Una
divinità?”.
“Non lo so. Ma qualcosa che
mi distingua dai servi, come
amate considerarci voi Dèi”.
“Voi Messaggeri,
tecnicamente, siete servi. Ma io non ho mai
trattato la mia Messaggera come tale, in nessuna circostanza”.
“Questo perché
l’avevate adottata come figlia vostra”.
“Strano desiderio, per un
Angelo, quello di perdere le ali!
Che cosa vorresti fare? Startene tutto il giorno a casa ad
oziare?”.
“No. Vorrei fare tutto
ciò che mi pare, come andare al
cinema a guardare un film. Un bel film. Con magari qualche
bell’attore. Altro
che svolazzamenti per i pianeti!”.
“Non è
un’attività chissà che
utile…”
“Io sono qui per parlarvi
di una cosa piuttosto grave,
ignoriamo le altre questioni! Dalla vostra biblioteca, quella nel regno
del
Principe Mihael, è stato rubato un libro”.
“Quale e da chi?”
rispose Vereheveil, chiudendo le ali e
sedendosi su una poltrona decorata, facendo segno a Kiaritanya di fare
lo
stesso.
“Non sono riuscita a vedere
il titolo ma era rosso, ne sono
sicura”.
“Rosso? Non sai dirmi
altro?”.
“Sembrava molto vecchio ed
aveva un disegno sulla copertina,
piuttosto complesso”.
“Un disegno fatto come?
Un’illustrazione o che cosa?”.
“Sembrava un simbolo,
più che altro. Un cerchio, nero, con
vari altri glifi all’interno”.
Vereheveil rifletté un
attimo e si alzò, lentamente. Prese
un libro fra gli scaffali e lo aprì.
“Era come
questo?” chiese a Kiaritanya, dopo averle indicato
una pagina illustrata.
“Sì. Era come
quello!”.
“È un sigillo
magico. Un cerchio di protezione di sesto
grado, il più forte che sia in grado di creare. Chi
è stato in grado di
prendere fra le mano un libro con una tale barriera?”.
“A prima
vista…mi è parso un semplice mortale”.
“Impossibile!”.
“Non era un Dio, non aveva
simboli sulla fronte”.
“Di nessun tipo?”.
“Nessun simbolo. E, dato
che conosco perfettamente gli unici
due Alti rimasti in vita, so per certo che non è uno di
loro, anche se uno di
loro credo sia coinvolto nella cosa”.
“Spiegati”.
“Kuetzalikay voleva che
quel mortale prendesse quel libro”.
“E come mai sei venuta qui
a riferire a me e non al tuo
padrone?”.
“Perché padre e
figlio litigano già a sufficienza”.
Il Dio delle Letterature
sospirò. Sembrava preoccupato.
“Hai detto che aveva la
copertina rossa?”.
“Sissignore. Rosso
cupo”.
“Solo un libro con una
copertina di quel colore è stato da
me sigillato in quel modo…”.
“Quindi sapete di che libro
si tratta?”.
“Sì. E non
è una buona cosa, credimi”.
Pensieroso, si alzò e
ripose il volume che aveva preso
precedentemente.
“Và riportato
subito dove stava, Messaggera”.
“In che modo?”.
“Non lo so, ma quel libro
è pericoloso. È di estrema
importanza che non cada in mani sbagliate. Contiene delle formule e
delle magie
potenti, che potrebbero portare a terribili conseguenze. Và
rimesso al sicuro,
lontano da eventi non controllabili”.
“E come facciamo? Io non
conosco il colpevole…”.
“Informa il tuo padrone. Se
è vero che Kuetzalikay è
coinvolto, allora dovremmo trovare una soluzione comune. Magari fa
parte di
qualche loro oscuro progetto malsano…cerca di essere
cauta”.
“Ma…”
“So che non vuoi farli
litigare ma è necessario. Quel libro
può portare a conseguenze spaventose”.
“Ho
capito…”.
“Bene. Vai. E nel frattempo
farò una ricerca per scoprire
che razza di creatura può essere in grado di spezzare un mio
sigillo”.
“Come mai è
tanto pericoloso? Che cosa fa?”.
“La potenza delle parole
contenute in quel volume è
spaventosa. Ti basti sapere questo. Mi auguro che ci sia gente
qualificata
sulle tracce del ladro perché è fondamentale che
torni al sicuro!!”.
“Le guardie di Mihael lo
stanno inseguendo”.
“Con quelle non risolveremo
mai niente. Non basta. Invierò
altri, Angeli o quel che sarà”.
Kiaritanya, un po’
titubante, fece un piccolo inchino prima
di aprire l’ennesimo portale rossastro per poter raggiungere
il suo padrone ed
informarlo della situazione.
Kavahel, nel frattempo, era rimasto
da solo nel salottino di
casa, accanto al corridoio d’ingresso. Restava seduto, a
gambe incrociate,
leggendo un piccolo libro verde. Alla porta qualcuno bussò
educatamente e
delicatamente. Andò ad aprire, appoggiando gli occhiali sul
tavolino che aveva
di fronte, con calma. I suoi piedi scalzi non facevano rumore sul
pavimento in
legno. Sulla soglia apparve Selene, la Dea della Luna.
“Buonasera, divina. Cosa ti
porta qui?” domandò Kavahel,
stupito di quella visita.
“Posso entrare?”
rispose lei, con gli occhi bassi e lo
sguardo triste.
“Certo. Prego!”.
Assieme si accomodarono nel
salottino, su due poltroncine
rosso cupo.
“Posso offrirti qualcosa,
Selene?”.
“No, grazie. Sono qui a
chiedere il tuo aiuto”.
“Che cosa posso fare per
te?”.
La Dea sospirò. Si
stringeva le mani e le torceva
nervosamente.
“Devi promettermi,
però, che ciò che ti dirò
resterà
strettamente confidenziale”.
“Non uscirà da
questa stanza. Però
calmati…cos’è successo?
Qualcosa di grave?”.
“Tu sai, vero, che io sono
la figlia del Sole? E so per
certo che sei a conoscenza che un nuovo Dio del Sole nasce solo da un
Dio del
Sole”.
“Lo so, ovvio. E so anche
che tuo padre non ha avuto un
figlio maschio in grado di sostituirlo”.
“Non è
esattamente così…è per questo che sono
qui”.
Kavahel, ignorando il rifiuto di lei,
le offri da bere e le
sorrise. La vedeva tesa ed a disagio. Tentò di sfiorarle le
mani ma lei si
mosse di scatto per ritrarsi.
“Spiegati, Luna
luna” le sussurrò, citando una vecchia
poesia che una volta aveva letto.
“Solo il Dio del Sole
può generare un altro Dio del Sole. E
così l’Alto che viene chiamato Krì
è venuto a casa nostra e ci ha fatto
riflettere sulla cosa. Solo mio padre può dar vita ad un
piccolo Sole che lo
possa sostituire, un giorno. Ma il Sole ha bisogno della compagna
adatta per
farlo e…”.
“E…?
Và avanti”.
“E l’Alto
Krì ci ha detto che, con la mancanza di Dèi
bambini e sempre meno divinità, sarebbe appropriato almeno
tentare di generare
questo piccolo Sole e, non trovando un’altra compagna ideale,
la madre
generatrice…dovrei essere io”.
Kavahel la guardò, in
silenzio, mentre lei si riempiva di
nuovo il bicchiere.
“E ovviamente, Dea Lunare,
tu non vuoi giacere con tuo
padre…”.
“Certo che no!”.
“Ma tu sai che, se
è l’unica cosa possibile per creare un
nuovo Sole, è inevitabile che…”.
“Ma
c’è un’altra
possibilità!”.
“Solo un Sole
può generare un altro Sole. Hai forse in mente
un’altra compagna per tuo padre? Scusa tanto se questi
discorsi sembrano
irrispettosi, ma io devo salvaguardare la già scarsa salute
di questo pianeta
che sta smettendo di pulsare…permettimi di dirti che senza
il Sole non mi resta
molto da fare…”.
“Non si tratta di
un’altra compagna. Ma di un altro Sole!”.
“Tuo padre ha anche un
figlio maschio?”.
“Sì”.
“Ma allora il problema
è risolto…dì a Krì che
esiste questo
piccolo Sole e basta”.
“Non è
così semplice…”.
“Ed immagino che sia per
questo che sei qui…”.
“Il giovane
Sole…” iniziò la Dea, guardando il
liquido nel
suo bicchiere
“…mio…fratello…”
che fatica che faceva a definirlo tale
“…è un
semidio”.
“Un sanguemisto? In
effetti, è un problema. Non credo
sarebbe in grado di prendere il posto del padre, quando questo
deciderà di
ritirarsi”.
“Ma forse sarebbe in grado
di generare un bambino in grado
di svolgere quel ruolo”.
Kavahel bevve a sua volta, con aria
pensierosa, e si
appoggiò allo schienale della poltrona.
“Intendi congiungerti con
un semidio? Sai che è proibito?”.
“Non mi
interessa”.
“Perché sei qui
da me, divinità argentata?”.
“Io non posso congiungermi
con lui a causa di un sigillo
posto da mio padre”.
“Ha sigillato il suo stesso
figlio?”.
“Sì ma tu
capisci, vero, il mio desiderio? Non potrei mai
generare un figlio con mio padre, con la quale sono cresciuta. Fra
l’altro
nemmeno lui lo farebbe mai. Ma forse con questo ragazzo risolverei il
problema,
perché so che è un problema il fatto che non ci
sia un piccolo Sole e nessuna
compagna in grado di generarne uno con il Sole, se non io!”.
“Quindi tu lo fai per il
bene dei Mondi…non per puro
rendiconto personale…” azzardò Kavahel,
congiungendo le sue mani davanti al
viso con uno strano sorriso.
“Ha importanza?”.
“No. Ma che posso fare io
per te?”.
“So che tu sei in contatto
di Kuetzalikay. E poi sai come
distrarre il Destino, tuo fratello minore”.
“Ajedrez, il mio fratellino
e Dio del Destino, non è
semplice da distrarre. Dimmi che hai in mente, spiegami il tuo piano,
iridi di
stelle”.
“Vorrei parlare con
Kuetzalikay, prima di tutto. Solo un
Alto o mio padre può togliere il sigillo dal collo
di…mio fratello”.
“E cosa comporta che lui
abbia questo sigillo?”.
“Comporta il fatto che non
può toccarmi”.
“Ok. E quindi vuoi farlo
togliere da Kuetzalikay?”.
“Sì. So che
Krì non vuole saperne dei sanguemisto e quindi,
di conseguenza, non accetterà mai che abbia contatti con
quel genere di
creature. Forse suo figlio è più comprensivo. Poi
sono sicura che nessuno avrà nulla
da ridire se riuscirò nel mio intento”.
“Parli come se si trattasse
di una cosa da niente! Si tratta
di fare un figlio, non comprare un paio di scarpe! E se non ci
riuscissi?
Intendo dire…se non nascesse un Dio del Sole ma qualcosa di
ancora più proibito
del suo eventuale padre semidio?”.
“Sono pronta a correre il
rischio!”.
“Bene. Se lo desideri, ti
accompagnerò da lui. E il
Destino?”.
“Lui potrebbe scoprire
ciò che ho in mente ed avvertire Krì
o mio padre, che mi bloccherebbero e mi complicherebbero solo le
cose”.
“Capito. Farò in
modo che non ti dia problemi”.
“Puoi portarmi da
Kuetzalikay adesso?”.
“Subito? Sì.
Vieni con me, ti ci porto immediatamente” le
porse la mano, che lei strinse un po’ spaventata
perché sapeva che non sarebbe
potuta più tornare indietro.
“Rischi molto, Luna luna.
Sei sicura di quello che fai?”
parlò lui, aprendo il portale.
“Assolutamente”
mentì lei “portami da lui!” ed assieme,
quasi abbracciati, sparirono.
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Capitolo 17 *** XVII- evocazione ***
XVII
EVOCAZIONE
Correre fra le rocce era faticoso e
doloroso ma non poteva
fermarsi. Non ancora. Sentiva i suoi nemici alle spalle, sempre
più lontani
fortunatamente. Non era al sicuro. Doveva trovare un nascondiglio o una
strada
riparata perché era stremato e stufo. Ma dove trovare un
nascondiglio o una
strada nel bel mezzo del nulla, dove si trovava adesso?
Kevihang tentò di
riprendere fiato, appoggiando la schiena
contro una pietra grigia e fredda. Tese le orecchie, chiudendo gli
occhi. Non
sentiva nessun rumore. Forse li aveva seminati…
Prese fra le mani il libro rosso che
aveva momentaneamente
sottratto dalla biblioteca e lo guardò. Aveva una copertina
molto interessante,
anche se ora non si vedeva più il sigillo: era bastato il
tocco del ragazzo per
farlo sparire.
Continuò a rimanere
concentrato su eventuali rumori, non
riuscendo a vedere quasi nulla dato il buio totale ed il cielo coperto,
annusando l’aria e cercando di sfruttare l’istinto
che credeva di avere. Nessun
rumore, nessun odore nemico, nessuna sensazione spiacevole. Forse era
al sicuro
per davvero! Decise di rilassarsi un po’ e si sedette a
terra. Tirò indietro i
capelli, che per la corsa si erano scompigliati ed ora si erano tutti
appiccicati al suo viso sudato. Faceva un gran freddo ma non riusciva a
sentirlo. Da ore ormai stava correndo e volando, di conseguenza le sue
gambe si
distesero poco prima di cedere. Tolse le scarpe, ormai del tutto
consumate, e
tentò di regolarizzare il suo respiro affannoso ed
affaticato. Chiuse gli occhi
qualche istante e, quando li riaprì, vide di essere
appoggiato ad una possente
pietra che faceva parte di un complicato sistema a cerchio, come una
sorta di
labirinto, e decise che, forse, era il luogo adatto per usare il libro.
Pensò
che avrebbe potuto usarlo e poi restituirlo, sistemando tutto. Lo
aprì,
spezzando definitivamente il sigillo, e dovette serrare le palpebre.
Una luce
fortissima era stata emessa dalle pagine di quel volume,
restringendogli le
pupille fino a fili d’erba sottilissimi.
“Sei uno dei libri
proibiti, piccolo bastardo!” sibilò,
richiudendolo.
Si strofinò gli occhi, che
lacrimavano. Si chiese se era
davvero il caso di usare quel volume. I libri proibiti erano proibiti
per una
precisa ragione, che lui ignorava, ma che sapeva per certo che avrebbe
portato
a pessime conseguenze il loro uso sconsiderato.
Seduto, con il volume sulle ginocchia
e la testa bassa, si
stava riempiendo la testa di dubbi.
“Se devo
usarlo…che qualcuno mi dia un segno!”
sussurrò, non
sicuro di sapere a quale entità stava cercando di
rivolgersi, non essendo mai
stato particolarmente religioso.
Sorrise. Non si era aspettato nulla e
nulla accadde. Reclinò
il capo all’indietro, appoggiandolo sulle rocce, e
notò che, proprio sopra di
lui, era spuntata una stella bellissima, rossa e luminosa.
Le nuvole si stavano diradando ed il
cielo iniziava a
mostrarsi.
“Buonasera, stella fra le
stelle. Che dici? Lo apro sto coso
con la copertina del tuo stesso colore?”.
La stella, ovviamente, non rispose ma
la Luna spuntò fra le
nubi ed illuminò il libro, facendolo brillare in un modo
splendido. Kevihang
rimase incantato ad osservare i disegni e le forme che mutavano,
scintillanti,
sullo sfondo rosso cupo.
“Che
meraviglia…” mormorò “Oh,
Luna…tu vuoi che lo apra e lo
usi? Come sei bella stasera…grande e luminosa, anche se non
Piena, circondata
di stelle”.
La luce sul volume si fece
più forte e pulsante.
“Allora lo
userò. Mi è stato insegnato di seguire sempre i
propri sogni, qualunque questi siano! Non ho paura delle conseguenze,
Luna!”.
Tornò a guardare il
satellite, riflettente la luce azzurrina
della tramontata Nesidey, e girò leggermente le orecchie a
punta.
“Sei triste, stasera.
Bella, ma triste” le disse “Spero non
sia per colpa del mio fratellone!” aggiunse poi, con un
sorrisetto leggermente
malefico.
Incoraggiato dalla luce della Luna,
riaprì il libro e si
sforzò di abituarsi al bagliore di quelle pagine.
Leggermente scocciato per il
fatto che non ci fosse un indice, iniziò a girare le pagine
una per una, alla
ricerca della formula o dell’incantesimo in grado di
aiutarlo.
Non era semplice. Alcuni fogli erano
rovinati, dal tempo e
dall’umidità, ed in parte illeggibili. Altri erano
scritti con una lingua
sconosciuta al ragazzo, che rimpianse di non avere accanto a
sé qualcuno in
grado di aiutarlo. Ciò che lo infastidiva di più
erano le pagine bianche,
interamente bianche, che spuntavano in modo disordinato lungo tutto il
volume.
C’erano illustrazioni,
schemi, storie…ma dov’era quello che
lui voleva? Dov’erano le risposte che tanto cercava fin da
bambino?
“E queste stupide pagine
bianche!” ringhiò, senza capirne
l’utilità.
Solo quando furono illuminate dai
raggi della Luna capì, o
perlomeno iniziò a capire. Colpite da quella tenue luce
d’argento, queste si
riempivano di parole, simboli e miniature. Kevihang sorrise.
Evidentemente
quelle pagine bianche erano le più preziose ed erano state
protette da un
qualche tipo di incantesimo che ne impediva la consultazione.
Ricominciò a sfogliare il
volume finché una di queste pagine
dipinte dalla Luna non attirò la sua attenzione. Il titolo
che portava, che
appariva in oro con caratteri miniati, era “legami di
sangue” e subito il
giovane capì che doveva avere qualche cosa a che fare con
ciò che voleva.
Tradusse a fatica le scritte sotto di
esso e gioì. Era
proprio quello che cercava! E non sembrava nemmeno tanto difficile!
Controllò
l’eventuale bisogno di materiali particolari o strane
conoscenze e non gli
parve, almeno non a prima vista. Andò alla ricerca di un
sasso che lasciasse
dei segni in terra ed iniziò a disegnare i simboli che erano
indicati per
iniziare l’evocazione. Non era mai stato particolarmente
bravo a disegnare ma
cercava di impegnarsi il più possibile per realizzare segni
precisi e corretti.
Sfruttò il grande cerchio di pietre che lo circondava e si
ingegnò in ogni modo
per creare delle linee vagamente dritte. Impresa non facile.
Si alzò, soddisfatto, e
controllò che tutto fosse come
riportato sul libro. Non mancava niente.
Passò alla fase
successiva. Richiedeva di porre, al centro
del cerchio con tutti i simboli disegnati, delle parti di
sé, come una ciocca
di capelli o una goccia di sangue, per poterne rintracciare le due
tracce
donatrici. Kevihang scelse di deporvi una delle sue piume blu, assieme
ad una
ciocca di capelli per sicurezza. Mentre faceva questo, mormorava la
formula
riportata sul volume ed i glifi da lui tracciati stavano iniziando ad
illuminarsi, uno dopo l’altro.
L’ultima fase
dell’evocazione lo lasciò un po’
perplesso.
Diceva: “realizzare la linea di sangue”.
“Scusa, caro libretto
ma…che cazzarola vuol dire?!” borbottò
il giovane, inclinando il capo.
Cominciò a fare delle
supposizioni azzardate ed incominciò
ad andare alla ricerca della risposta in giro per il volume. Poi, colto
da
un’improvvisa voglia di non usare più il cervello,
si disse che, forse, la
linea di sangue era semplicemente ciò che era: una linea di
sangue! Si
mordicchiò il polso destro con i suoi dentini appuntiti e
lasciò che ne
sgorgasse il sangue. Con la mano sinistra lo usò per
ripassare i simboli vicino
alla sua piuma ed i capelli e questi brillarono ancora più
forte.
“Era questo che
volevi?” si chiese e si rialzò.
Non era sicuro di aver fatto la cosa
giusta. L’odore del
sangue avrebbe sicuramente attratto qualche bestia feroce, per non
parlare
della sua attuale stanchezza e debolezza, dovuta alla fuga di prima ed
al
sangue versato successivamente. Ghignò. Non era tipo da
porsi troppi problemi.
Con il libro stretto fra le mani
sporche di sangue,
ricominciò a recitare quelle formule complesse, in una
lingua che non era la
sua ma che, inspiegabilmente, riusciva a capire. Era quasi una canzone,
una
lunga nenia leggermente ritmata, che diventava sempre più
veloce e faceva
brillare tutti i glifi sempre più forte. Stava funzionando?
Forse sì. Sperava di
sì!
Aveva fatto dei disegni che formavano
un cerchio attorno a
sé. Vide che, per ogni strofa, poteva individuare un
simbolo. Forse doveva
seguirli e girare con loro…
Aveva pronunciato tutta la formula ed
i simboli si erano
solo illuminati alternativamente fino a compiere un giro completo.
Decise che
non aveva niente da perdere nel tentare di seguirli. Tossì,
pulendo con la
manica il sangue che stava per cancellare alcune parole importanti.
Cercò con
lo sguardo quello che doveva essere il primo simbolo, corrispondente
alla prima
strofa della formula, e ci mise i piedi sopra. Si schiarì la
voce e ricominciò,
a gran voce.
Nesh ka, nesh ka, né ah a Tihen en ah
Hià
Luce, luce, che è del
Sole e della Luna
Con queste parole si era messo su un
glifo rappresentante
una grande stella e la Luna.
Nesh ka, nesh ka, né
ah en Thuru en ah
Thà
Luce, luce, che è del
Giorno e della Notte
Ora si trovava sopra due figure,
l’una opposta dall’altra,
di cui una era capovolta.
Nesh ka ah
rì, naighlikà, lyera leary manish ka!
Luce che brilli,
magica, illumina me, anima perduta!
Il terzo simbolo era un occhio
spalancato, che cercava una
guida.
La cantilena andò avanti
ancora per un bel po’ ma, ad ogni
simbolo, la magia all’interno del cerchio si faceva sempre
più forte. I glifi
erano dodici, ciascuno con un significato ed una strofa differente.
Arrivato
sul dodicesimo, Kevihang fece una mezza piroetta e poi si
fermò. Avvertiva una
forza straordinaria attorno a sé. Si concentrò
per indirizzarla nella direzione
giusta. Era un po’ teso e stanco, non sarebbe stato in grado
di ricominciare
per una terza volta, e si aspettava davvero che funzionasse. Strinse i
denti ed
insistette, incitando la magia a fare il suo lavoro. I simboli
brillarono,
tutti assieme, vibrarono ed emisero uno strano suono, fastidioso per le
orecchie sensibili del ragazzo, indirizzando la loro luce verso il
cielo. Lui
alzò gli occhi e vide che tutta quella luce si stava
incanalando, piuttosto
velocemente, verso quella stella luminosa e bella che lo aveva
salutato, prima,
al diradarsi delle nubi.
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Capitolo 18 *** XVIII- l'ultimo petalo ***
XVIII
L’ULTIMO PETALO
Non aveva nostalgia del passato.
Nemmeno un po’. Era felice,
sereno e tranquillo. Tutte sensazioni che raramente aveva vissuto.
Guardava con
ammirazione la donna che amava, addormentata fra le sue braccia,
attento a non
svegliarla o disturbarla. Le accarezzava i lunghissimi capelli neri e
non
staccava gli occhi da lei. Era felice, davvero felice, non desiderava
altro se
non restare lì, accoccolato accanto a lei, facendole capire
quanto la amava. Le
diede un bacio sulla fronte e lei mosse solo leggermente gli occhi,
senza
aprire le palpebre. Le sussurrava una canzoncina.
Amami, prima che
l’ultimo petalo cada
Amami, prima che
l’ultimo mio sogno si cancelli
Amami, prima che
l’ultimo giorno finisca
Amami, prima che
l’ultimo respiro mi lasci.
Prima che l’ultima
scintilla della mia essenza si spenga
Prima che l’ultima
mia lacrima si versi
Prima che le ultime
mie parole vengano pronunciate
Prima che il mondo
s’arresti
Amami!
“Cosa stai borbottando,
Luciherus?” mormorò lei, sorridendo,
ripiegandosi leggermente per farsi abbracciare più stretta.
“Non sto borbottando! Stavo
solo cantando il mio amore per
te”.
“Sicuro di stare pensando a
me e soltanto a me, pronunciando
quelle parole?”.
“Certo…”.
Stupito da quella domanda, lui
ripensò a quella canzone e
vide, nella sua mente, il viso ed il corpo di lei, solo
lei…ma per un attimo
apparve una donna dai capelli rossicci.
Shekinah, Kasday, lo colpì
con un piccolo schiaffo.
“Guarda che lo vedo a cosa
pensi!” sibilò.
“Oh, sì.
Anch’io ti amo” gli rispose lui, abbracciandola
più
forte.
Lei non rispose, era una frase che
non si aspettava. Si
lasciò abbracciare, socchiudendo gli occhi.
“Sei stanca?” le
sussurrò lui.
“Mi stanco molto a
sopportarti, sai?” lo prese in giro lei
“Oh, suvvia! Mi hai
sopportato così bene in vita…”.
“Lo so, lo so! Mica mi
lamento!”.
Senza nemmeno accorgersene, lei
girò gli occhi verso il
basso e lui le prese il viso fra le mani e lo risollevò, in
modo che lo
guardasse in faccia.
“Non guardare
giù! Ricordati che, così facendo, rinasceresti.
Ed io non sopporterei di perderti!”.
“Sta tranquillo. Io voglio
restare qui con te, solo con te”.
“Sicura?
Nessun’altro?”.
“E tu? Quella
donna…so che la pensi…”.
Lui non rispose. Aveva ragione.
C’era un’altra donna nella
sua testa. Lei era stata il suo primo amore, l’amore che lo
aveva portato alla
dannazione ed alla consapevolezza. Sophia. La bellissima Sophia. La
Sapienza.
La meravigliosa creatura con le ali da angelo che lo aveva messo al
mondo.
“Smettila!” lo
sgridò lei “Altrimenti guardò
giù e ti lascio
qui da solo!”.
“Lo faresti
davvero?”.
“Credo di
no…”.
“Oh! Preferisci restare qui
con me!”.
“Non esaltarti troppo!
È che non amo l’idea di tornare in
vita…”.
“Ma ami me!”.
“Mmm…può
darsi!” ridacchiò lei, dandogli un buffetto sul
naso.
“Chi altro dovresti amare,
scusa? Meglio di me…non c’è
nessuno!”.
“Come siamo
modesti…”.
“Pazzamente!”
ghignò lui, stringendola più forte e
baciandola “Ogni bacio è come il primo con
te” le disse.
“In che senso?”
si stupì lei, fissandolo in modo strano con
i suoi occhi azzurri.
“Che è bello e
magico come il primo!”.
“Credo di non
ricordarmelo…”.
“Allora non ci pensare.
Dimentica il passato ed ignora il
futuro. Pensa solo al presente. Al qui ed ora. Il passato ti ha fatto
soffrire
ed il futuro non ti riguarda, perciò pensa solo al fatto che
ora sei qui, sei
qui ed io sono con te”.
“Ma nel mio passato ci sono
anche tutti i bei momenti che ho
passato con te!”.
“A quelli puoi pensare! Ma
a nient’altro!!”.
“Oh, andiamo Lucy! Lo sai
che è impossibile!”.
“Sicura? Perché
io, da quando ti ho accanto, non riesco a
pensare ad altro se non a te”.
“Questo perché
hai un cervello piccolo, piccolo!” lo derise
lei, alzandosi ed incitandolo a seguirla.
Erano avvolti da uno strano fumo
bianco, simile a nebbia,
che dava loro l’illusione di camminare fra le nuvole. Forse
erano nuvole perché
vagavano per il cielo, nero e lucido, zigzagando fra le stelle. Loro,
anime in
attesa di un’eventuale rinascita, non erano mai entrate nel
regno dei morti ma
avevano attraversato gli universi, andando oltre le stelle, senza mai
desiderare di tornare in vita.
“Vai piano, anima
inquieta!” le gridò Luciherus,
inseguendola.
Lei, girando su se stessa, piroettava
in modo da non farsi
prendere.
“Mi ami davvero,
Luciherus?”.
“Non posso risponderti che
ti amo più della mia vita, perché
sono morto…ma se potessi userei proprio quel termine di
paragone! Del resto,
pensaci…ti ho seguita lasciando il mio corpo su quella
spiaggia, tanto e tanto
tempo fa”.
“Povero vecchietto. Mi
facevi pena, tutto solo soletto in
riva al mare!”.
“Non sono un
vecchietto!”.
“Scherzo, piccolo
stupido!”.
Lui, con una battito delle sue ali
dorate, la raggiunse e la
prese per mano. Tenendola stretta, ignorando il fatto che lei si
dimenasse per
scappare di nuovo, la tirò verso di sé.
“Dov’è
che vuoi andare, mia piccola cosetta dai mille
nomi?”.
“Voglio farti correre un
po’. Se no ti viene la pancia!”.
“Questo è
proprio impossibile!”.
“Pantofolaio!”.
“Te lo do io il
pantofolaio!”.
Continuando a ridere, la
immobilizzò con le braccia e tuffò
il viso fra i suoi capelli.
“Ti ho preso,
birbantella!”.
“Smettila di fare lo
stupido, lasciami!”.
“Eh, no! Ora non mi scappi
più!”.
“E adesso…cosa
mi fai?”.
“Cosa vuoi che ti
faccia?”.
“Io una mezza idea
l’avrei…”.
Luciherus sorrise, iniziando a
baciarla sul collo. Con la
lunga coda da demone, la teneva ferma e la stuzzicava. Come in un
gioco, a cui
lei fingeva di volersi sottrarre, le loro mani si incrociavano e si
scioglievano, per poi cercarsi di nuovo mentre i loro proprietari
tenevano gli
occhi chiusi, uniti in un interminabile bacio. Erano soli in mezzo
all’universo
nero, con l’eternità alle spalle ed Ere da
percorrere, eppure non sentivano di
aver bisogno d’altro se non di loro stessi. Coperti di sola e
pura luce, si
fondevano e tornavano a dividersi, per poi cercarsi di nuovo, legati da
qualcosa di indissolubile ed incancellabile. Stretti in un unico corpo,
con le
essenze intrecciate a formare un’unica entità
luminosa, si amavano
incondizionatamente da un tempo ormai considerato quasi eterno per i
semplici
mortali, che ancora li veneravano e li pregavano.
“Ti ho mai detto che ti
amo?” gemette Luciherus, mentre
l’estasi dell’unione con lei saliva.
“Un numero di volte
incalcolabile” rispose lei, reclinando
la testa all’indietro.
“E tu? Me lo hai mai
detto?” insistette lui, mordendola sul
collo.
“Non parlare! Non
è necessario!” ansimò lei, spingendolo
verso il suo petto ed il suo seno.
Luciherus allora tacque e la avvolse
fra le sue braccia
luminose, che riuscivano perfettamente a circondare l’esile
corpo della
versione femminile di Kasday.
Nonostante il monito a non parlare,
lui insisteva nel
chiamarla per nome e sussurrarle quanto la amasse. Lei restava in
silenzio,
regolando il suo respiro con quello di lui, gemendo per
l’eccitazione e per la
felicità. Inarcò la punta dei piedi, mentre tutto
il suo corpo si tendeva e
vibrava di piacere, illuminandosi.
Lo abbracciò forte e gli
rispose, a bassa voce ed ansimando,
raggiungendo il culmine del piacere: “Ah, amore mio! Mia
stella del mattino!
Resterai sempre qui con me, vero? Non te ne andrai? Non lasciarmi mai!
Non
andare mai via, amore mio!”.
Soddisfatto da quelle parole, lui le
sorrise e si fermò,
cercando di placare il suo affanno: “È
meraviglioso quando mi chiami amore mio,
lo sai? È bellissimo…ma lo fai così
raramente…”.
Lei continua a stringerlo a
sé, affondando la testa nella
sua spalla: “Perché certe parole non vanno mai
usate troppo, altrimenti
diventano come una qualsiasi altra frase, banale e vuota del suo vero
significato” si giustificò.
“E
poi…perché ogni volta hai paura che me ne vada?
Certo che
resto qui con te! Certo che non me ne vado! E ormai dovresti averlo
capito,
dopo tanto tempo…”.
“Il tempo non conta.
È una sensazione…qualcosa che mi fa
temere di perdere un’altra persona che amo. Ne ho viste tante
che, dopo avermi
giurato amore, hanno chiuso gli occhi per sempre o si sono allontanate,
lasciandomi solo…sola…”.
“Io ho già
chiuso gli occhi per sempre da un sacco di tempo!
E non mi allontanerò da te. Come potrei? Sei la cosa
più bella che mi sia mai
capitata!”.
“Davvero?”.
“Davvero!”.
“Più bella del
tuo primo amore? Più bella di Sophia?”.
“Lei è mia
madre!”.
“Non ti allontaneresti da
me per andare da lei?”.
Lui rimase in silenzio per un
po’, attento a non pronunciare
qualche frase inappropriata e rovinare quel momento che tanto adorava.
“No, non andrei da lei. Non
posso mentirti dicendo che non è
più nei miei pensieri, ma non ti lascerei, non mi
allontanerei da te, per
andare da lei. Tu mi ami, mi ami sinceramente, anche se non me lo dici
quasi
mai. Lei, invece, mi si era avvicinata in quel modo solo
perché sentiva la
mancanza di mio padre. Ora è tornata da lui, si sono
ricongiunti nel regno
delle anime, e perciò di sicuro non avrà pensieri
di alcun tipo nei miei
confronti…”.
“Sei sicuro? Come puoi
dirlo che lei non ti pensi?”.
“Perché
è con mio padre. Il suo amore và a
lui…”.
“Ma non
c’è amore più grande di quello che lega
una madre al
proprio figlio…”.
“Ma l’amore di
una madre è diverso da quello fra due
innamorati…”.
“Ma altrettanto forte! E
basta ora con tutti questi MA…”.
“Io amo te e
lei…certo, siamo legati e resta sempre mia
madre ma…quello che provo per te è di sicuro
più forte. Sei più rassicurata
adesso?”.
“Non lo so. Nei tuoi
pensieri c’è sempre quel guizzo di
ricordi che la riguardano…”.
“Mi spiace. È
del tutto involontario…”.
“Tenterò di
ricordamelo…”.
Si diedero un altro piccolo bacio e
si abbracciarono.
“Tu…piuttosto!”
borbottò Luciherus, senza far capire
dall’espressione e dal tono della voce se era serio oppure
no, accarezzandole
le braccia “Tu, piuttosto…non pensi mai
a…che so io…Vereheveil? O a Lilim,
quella strana Celeste di cui non ricordo il nome, al tuo Angelo
Messaggero…”.
“Ovvio! E tu non pensi mai
a Lilith?”.
“A volte
capita…”.
“Lucy, Lucy! È
normale pensare a persone che sono state
importanti nel nostro passato. L’importante è che
tu non stia troppo a pensarci,
oppure che non ti vengano in mente cose del tipo che potresti stare
meglio con
una di loro o potresti essere più felice”.
“Non potrei mai essere
più felice di così, credimi!”.
“Allora và
bene”.
“E tu?”.
“Io cosa?”.
“Tu potresti essere felice
di così?”.
“Io non sono mai stata
più felice di così e solo tu puoi
farmi sentire in questo modo!”.
Luciherus le fece un enorme sorriso e
la baciò, d’istinto,
più volte.
“Sei la cosa più
bella che mi sia capitata, peccato che lo
abbia capito solo una volta che te ne sei andata. E se non fossi
più tornata?
Mi sarei lasciato morire…”.
“È quello che
hai fatto…”.
“Lo so…e lo
rifarei!”.
“Povera creatura dal
cervello posseduto…”.
“Posseduto da
te!”.
“Mai detto il
contrario!”.
La tirò di nuovo verso di
sé e tornò a riempirla di baci
sibilanti.
“Oh, Lucy! Voglio che tutto
resti così, per sempre!”.
“Per sempre?”.
“Per
l’eternità! Così, io e te, senza che
nulla mai cambi!”.
“Anch’io, mia
sposa”.
Ancora sorridevano ed annuivano per
quelle frasi di fiducia
e promesse d’infinito, quando il buio attorno a loro
mutò. Non era più nero e
limpido. Una luce bianca si avvicinava e si espandeva.
“Che roba
è?” protestò lui, coprendosi gli occhi
e cercando
di allontanarsi.
Ma qualcosa lo tratteneva. Il suo
polso destro era teso e
stretto, come legato, e lo tirava verso il basso. Si dibatté
con tutte le sue
forze ma non riuscì a liberarsi. Iniziò a
precipitare, urlando.
“Luciherus!” lo
chiamò lei, allungando la mano verso l’uomo
che amava.
“Và via!
Allontanati! Non far sì che prenda anche te!”.
Ma un’altra forza stava ora
catturando anche lei, per il
polso sinistro. D’istinto tentò di liberarsi ma
non poté fare nulla. Assieme
precipitarono verso l’ignoto, tenendosi per mano, in un
vortice di stelle,
pianeti e pezzi d’Universo.
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Capitolo 19 *** XIX- Crocus ***
XIX
CROCUS
La forza di gravità sotto
i piedi era una sensazione che aveva
dimenticato. Dov’era finito?Ricordava solo di essere stato
risucchiato da una
specie di colonna di luce. Lei ancora lo teneva per mano,
d’istinto, e lui ne
fu confortato. Erano ancora assieme, accovacciati l’uno
accanto all’altra. Non
erano più ricoperti di luce ma quasi trasparenti,
azzurrognoli e simili a
nebbiolina. In questo modo lui poteva rivedere tutte le sue cicatrici,
dimenticate e lasciate sul suo corpo di carne, e percepiva qualche
sensazione,
come il freddo sotto i piedi ed il tagliare del vento.
“Luciherus…dove
siamo?” domandò lei, guardando in aria.
“Non ne ho idea!”
ammise lui.
Solo in quel momento vide quello
strano ragazzo dai capelli
blu scuro che li fissava, con allucinati occhi arancio, a pochi
centimetri dal
suo naso.
“E tu chi sei?”
sbottò Luciherus, sistemandosi la coda.
“Non fare così,
Lucy! Non vedi che è spaventato?!” lo
rimproverò Kasday.
“Perché, io no?
Che posto è questo?! E questo qui chi
è?”.
“Io sono
Kevihang” rispose il ragazzo “E voi, chi
siete?”.
“Kevihang? Che bel
nome…” si complimentò lei.
“Grazie. Anche se tutti mi
chiamano il figlio dei morti”.
“A me, più che
il nome,
piacciono i suoi tatuaggi. Specie quello a forma di
teschio” commentò
Luciherus.
“Sono stati la mia condanna
quando ero piccolo”.
“Sei una strana creatura,
ora che ti guardo…” si incuriosì
l’antico Demone e si avvicinò al ragazzo.
Appena si mosse, sentì un
suono piuttosto sinistro: catene!
Ai polsi di lui e di lei c’erano delle catene azzurre che li
legavano ai polsi
di Kevihang.
“Che storia è
mai questa, ragazzino?” si innervosì, dato che
odiava più di ogni altra cosa l’idea di essere
imprigionato o trattenuto.
“Chiedo scusa. Ho
pronunciato un’evocazione per scoprire chi
sono i miei genitori e queste catene, spuntate dove sgorgava il mio
sangue,
devono esserne una conseguenza”.
“Noi non possiamo essere i
tuoi genitori” commentò Luciherus
“Sei troppo piccolo. Noi siamo morti da secoli e
secoli…per non dire altro!”.
“Purtroppo ha ragione,
Kevihang. Fammi vedere il libro.
Magari è solo sbagliato un passaggio”.
Il giovane porse alla figura
femminile il libro rosso e
Luciherus trasalì.
“Quel libro! Porta solo
guai!” sibilò, riconoscendolo come
il libro proibito che gli aveva mostrato ciò che realmente
era successo a suo
padre, quando era ancora un piccolo angelo.
“È solo un
libro! Non morde mica!” lo rimproverò
delicatamente Kasday, accarezzandogli il viso con la mano libera dalle
catene e
sfogliando le pagine del volume con interesse.
Le mani delicate di lei, affusolate e
con le unghie curate,
scivolavano lungo la carta mentre lei, con gli occhi che guizzavano a
destra ed
a sinistra, leggeva e rileggeva ogni passaggio della formula e
controllava i
disegni realizzati.
“Hai seguito i disegni
camminando su di essi mentre ne
leggevi le parole?” si informò.
“Sì. Ho lasciato
una mia piuma ed un ciuffo di capelli,
tracciando i glifi con il sangue”.
“Il procedimento
è corretto…aspetta un
momento…Luciherus…guardagli gli occhi. E i
capelli. Non ha un’aria familiare?
Cioè, intendo…potrebbe
essere…”.
“No che non può
essere, tesoro mio! Questo ragazzino ha sì e
no vent’anni e noi…da quanto siamo solo spiriti
erranti? Le semplici essenze
non fanno figli!”.
“Non lo so. Però
ha i tuoi occhi, belli aranciati, ed i tuoi
capelli. E guarda le sue ali blu! Sono le mie! Ed il suo
sguardo…forse c’è un
sistema…”.
Erano seduti, uno vicino
all’altro, quasi a cerchio.
“Lei dice di poter essere
mia madre?” chiese Kevihang,
inclinando la testa.
“Non lo so. Parlami di te,
piccolo. Sei orfano, ma dove sei
cresciuto e dove sei stato trovato?”.
“Sono cresciuto in un
orfanotrofio. E sono stato trovato
sotto l’albero delle lacrime”.
“Cos’è
l’albero delle lacrime?” domandò
Luciherus,
arricciando la coda.
“Non lo sapete?”.
“Mai sentito!”.
“Caspita…allora
siete morti prima dell’ultimo giorno di vita
del Pianeta”.
“Quale pianeta? Quale
ultimo giorno?”.
“Alla morte di Kasday,
è iniziato lentamente a morire ogni
pianeta”.
“Io sono morto dopo
Kasday…e non ricordo pianeti morti”.
“Dipende da quanto tempo
dopo. È stato un procedimento
progressivo…”.
“E che conseguenze ha
portato?” si intromise lei.
“Guardatevi
attorno…”.
Kasday vide solo rocce, neve e morte.
Niente alberi, niente
vita…
“Tutto il Pianeta
è così?” mormorò.
“Tutti i Pianeti sono
così. Il grande Kavahel non riesce a
convincere i Mondi ad obbedire e poi i Soli si spengono, le Lune
sbandano, i
Pianeti si fermano…la chiamano l’Era Morta ma
tutti confidano che un giorno
cambierà”.
Il giovane non andò oltre,
notando lo sguardo triste di lei.
Luciherus le era accanto e la stringeva a sé, tentando di
rincuorarla.
“Mi dispiace”
parlò di nuovo Kevihang “Non volevo
rattristarvi…”.
“Non è colpa
tua” disse lei, mentre una lacrima scendeva
lungo la sua guancia.
Luciherus non fece in tempo a
raccoglierla e questa cadde in
terra. La neve, in quel punto, si sciolse di colpo e sotto
spuntò l’erba.
Kevihang fissò la cosa con vivo stupore e poi
spalancò gli occhi: in quel punto
stava crescendo qualcosa. Spuntò un germoglio che crebbe e
si dipinse. Un
crocus, il primo fiore che annuncia la fine dell’inverno, era
nato dove lei
aveva versato quell’unica lacrima.
“È
incredibile…” riuscì a dire
“…non avevo mai visto niente
di così bello. Mai! Solo eterno gelo!”.
Lei gli prese il viso fra le mani e
gli sorrise.
“Chiudi gli occhi,
Kevihang, e mostrami l’albero delle
lacrime!” gli disse.
Il giovane obbedì e
trasportò con la mente quella donna su
quella collina, sotto l’immenso albero che lo aveva protetto
con uno dei suoi
enormi fiori. Kasday guardò quella pianta e la riconobbe.
Era l’albero sotto il
quale aveva pronunciato le ultime parole in vita, con Luciherus
accanto.
L’albero delle lacrime…sì
perché da quel giorno moltissime persone erano giunte
fin lì a piangere il loro creatore Kasday ed a ricordare i
vecchi tempi. Molti
avevano pianto, ricordando le persone morte quel giorno,
nell’ultima guerra.
Albero delle Lacrime perché lì si erano fuse le
sue con quelle dell’uomo che
amava, insieme al sangue ed alla magia. Era forse questo?
“Sei stato trovato avvolto
in uno di questi fiori?” domandò.
Kevihang annuì e Kasday
sorrise.
“Sei davvero il figlio dei
morti, ragazzo!”.
“Che cosa
intendete?”.
Aveva riaperto gli occhi ed ora i tre
si fissavano.
“Credi sia
possibile?” si stupì Luciherus.
“Perché
no?” ridacchiò lei, prima di rivolgersi al giovane.
“Ora ti spiego, Kevihang.
Io sono Kasday e lui è Luciherus.
Nell’ultima guerra ci siamo trovati sotto
quell’albero, assieme, l’uno accanto
all’altro. Lì sotto io, l’Alto, ho
cessato di vivere riversando la magia contenuta
nel mio corpo sul terreno. Nello stesso momento Luciherus, Dio della
Forza e
del Coraggio, ha versato le sue lacrime che sono andate
anch’esse ad alimentare
il terreno. L’albero che ora viene chiamato "delle lacrime"
deve aver
assorbito entrambi e deve essere mutato. Hai mai visto frutti su di
esso o
altri fiori come quello in cui sei stato trovato tu?”.
“Ora che ci
penso…no! Mai!”.
“Se guardi bene, quei fiori
hanno il colore dei miei occhi e
del mio antico sangue Alto, screziati dal rosso che contraddistingue
Luciherus.
Quella pianta è mutata ed ha concepito un frutto, il frutto
nato dalla mia
magia e dal mio sangue uniti assieme alle lacrime ed alla forza di
Luciherus.
Tu sei un frutto. Il frutto meraviglioso di
quell’albero”.
“È davvero
possibile?” ripeté Luciherus.
“Sì, tesoro.
Costui è davvero nostro figlio!”.
“Wow…certo che
noi Dèi facciamo sempre i figli in modo
strano!”.
“Decisamente!”
confermò lei, abbracciando l’uomo che amava e
che aveva accanto.
“Fatemi capire
bene…” iniziò Kevihang
“…io sono il figlio di
Kasday e Luciherus?”.
“A quanto
pare…” lo stuzzicò il padre
“Sei Kevihang
Kadmon…”.
“Sei mio padre?”
esclamò il ragazzo.
“Vuoi un
abbraccio?” rispose lui, osservandolo con malcelato
orgoglio.
“Fatti guardare”
mormorò lei, invece, alzandosi e guardandone
i tratti.
Kevihang si alzò, girando
su se stesso. Era raggiante di
gioia. Finalmente aveva ritrovato i suoi genitori! Aveva realizzato il
suo
unico e grande sogno! Abbracciò entrambi.
“Queste
catene…” iniziò a preoccuparsi
Luciherus, volendo la
libertà.
“Noi siamo solo essenze,
non possiamo stare al Mondo. È per
questo che siamo legati a lui. Se ci staccassimo, ci perderemmo e
rischieremmo
di non rivederci né rinascere, come fantasmi smarriti. Deve
fare l’incantesimo
di liberazione, il contrario di quello di evocazione, per riportarci
dove
eravamo prima che ci chiamasse qui” spiegò Kasday.
“Spero che tu sappia come
si fa, ragazzo…perché stavo troppo
bene dove ero prima per restare imprigionato al tuo braccio
destro!”.
“Basta trovare la formula
sul libro. Per il resto non è
difficile. Ho magia a sufficienza” lo rassicurò
Kevihang, riprendendo il volume
fra le mani.
“Sbrigati a trovarla
allora!” sbottò di risposta Luciherus.
“Avete fretta?”
domandò il ragazzo, sfogliando pagine e
capitoli.
“Assolutamente! Non voglio
correre il rischio di rinascere e
perdere il mio posticino comodo oltre le stelle! Perciò
riportaci in fretta
indietro!”.
“Quanto sei
scorbutico!” lo rimproverò di nuovo Kasday
“Questo giovane ha pur sempre metà del tuo
patrimonio genetico!”.
“Scusate se magari vi
sembra inappropriato ma…ci sono dei
tratti fisici che mi sfuggono. La coda, ad esempio, così
rossiccia e pelosetta,
da chi l’ho presa?”.
Kasday sorrise mentre Luciherus la
guardava, scuotendo il
capo. Lei allargò le braccia e mutò. Cambio il
suo aspetto femminile di
Shekinah con quello dell’Alto che aveva un tempo.
“Questo è
l’aspetto che avevo al momento della morte” disse,
con voce dolce ed altalenante. Afferrò fra le mani una delle
sue code, quella
rossa e morbida, in modo da far capire al figlio da chi
l’avesse ereditata.
Inoltre lui poté notare che i tatuaggi dell’Alto
erano molto simili al filo
spinato che gli attraversava il corpo. E le antenne rosse erano quasi
uguali ai
ciuffi sulla sua testa. Osservò ancora quella creatura, con
le sette braccia di
colore diverso, i grandi occhi da falena, le tre code, le strane gambe
ed i
capelli che si agitavano come se fossero vivi.
“E le ali
azzurre?” domandò, dopo un po’.
Kasday spalancò le
braccia, quelle blu, che si riempirono di
piume dello stesso colore. Il giovane sorrise, spalancando le ali a sua
volta.
“Questo sarà il
nostro marchio, figlio mio. Sei unico ed
irripetibile e devi essere orgoglioso di ogni tuo aspetto e
particolarità”.
“Lo sarò da ora.
Adesso che so da chi mi sono state
trasmesse queste caratteristiche, ne sarò più che
orgoglioso! Caspita…sono
figlio non di una ma ben di due divinità!”.
“Questo potrebbe fare di te
un Dio ma…fortunatamente per te
non lo sei!” commentò Luciherus.
“Perché
fortunatamente per me? A me sarebbe piaciuto essere
un Dio!”.
“Non sai quanto seccante
sia! Anch’io, quando Momoia mi ha
offerto di diventare un Dio, ero in visibilio, ma poi sai che palle!
Mortali
che piagnucolano, Dèi che ti danno ordini o consigli non
richiesti, seccature
di vario tipo…meglio non esserlo, credimi!”.
“E Voi cosa ne pensate,
Kasday?”.
“So che ci vedi come
entità superiori o cose simili ma, per
favore, non darmi del Voi! E nemmeno del Lei! Sono tua
madre!”.
Aveva ripreso il suo aspetto
femminile, che di certo era più
rassicurante e metteva più a suo agio il giovane e mortale
Kevihang.
“Io credo che essere un Dio
sia una cosa da accettare, se
nasci tale, da evitare se non lo sei! Perciò resta felice
per quello che sei e
cerca di esserne fiero. Vedo che la tua magia è molto
potente…”.
“Sono e sarò
sempre fiero di me stesso. Vi renderò
orgogliosi di me, anche se non sono un Dio e, probabilmente, non
avrò un ruolo
fondamentale per gli Universi come, invece, avete avuto voi!”.
“Chi l’ha mai
voluto un ruolo fondamentale negli Universi?!
Spassatela, ragazzo!” commentò Luciherus, con un
mezzo sorriso poco convinto
per via delle pessime condizioni in cui versava il Pianeta quasi senza
vita.
“Farò il
possibile…sto già facendo esperienza!”
ghignò,
ripensando al momento con la Dea della Morte, prima di realizzare la
verità,
non molto piacevole.
“Luciheday, la Dea della
Morte, è vostra figlia?”.
“Sì! La mia
piccola! Come sta?” esclamò Luciherus, pieno di
gioia.
“Credo stia
bene…più o meno…almeno con me stava
bene…”.
“In che senso?”.
“Beh…ecco…io
e lei…abbiamo avuto un incontro non molto
fraterno…”.
“Fammi capire
bene…fino a che punto si è spinto il vostro
incontro?”.
“Fino in
fondo…”.
Kasday e Luciherus lo fissarono con
uno sguardo decisamente
stupito e poi sorrisero.
“Bravo. Non
c’è niente di male!” commentò
Luciherus “Lei è
davvero una bella donna. Credo che chiunque ci abbia pensato almeno una
volta!”.
“Ora che sai che
è tua sorella…” iniziò
Kasday.
“Hai voglia di ripetere
l’esperienza?” interruppe Luciherus.
“Se devo essere
sincero…sì. Scusate…”.
“Sei proprio mio
figlio!” si complimentò il padre,
stringendolo a sé con puro orgoglio.
“G…grazie! Ma
credo che più di qualcuno abbia qualcosa da
ridire su questo mio…desiderio!”.
“E allora?! Io ho fatto ben
altro!”.
“Lui ha baciato sua
madre…e voleva fare il ben altro di cui
ti parla!” spiegò Kasday.
Kevihang fissò entrambi
annuendo poco convinto. Non era
molto a suo agio a sentirsi dire certe cosa ma era felice che non lo
rimproverassero.
“Immagino che
ora…vogliate andare” disse, con una punta
d’amarezza, il giovane evocatore.
“Credo che sia il momento,
sì” confermò Kasday, guardandolo
con tenerezza.
“Ok. Fatemi trovare la
formula. È stato bello conoscervi,
davvero. Era il mio più grande sogno”.
“Ci fa sempre piacere
avverare qualche sogno, piccolo!”.
A parlare era stato Luciherus, che
stava dando piccoli baci
lungo il braccio di lei, che lo teneva per mano e gli sorrideva.
“Siete una bella
coppia…” commentò il giovane,
spalancando
il libro sulla pagina che cercava.
“Grazie! Anche questa
è una cosa su cui più di qualcuno
trova qualche cosa da ridire!” ridacchiò Kasday,
ricordando le molte persone
che li avevano guardati con fastidio.
“Bene. Possiamo iniziare.
Mi proteggerete dall’alto, ora che
sapete che sono qui?”.
“Faremo il possibile,
Kevihang” sussurrò lei, non essendo
certa di poterlo fare.
Kevihang prese un bel respiro. Aveva
i due genitori davanti
a sé. Spalancò le braccia e chiuse gli occhi,
memorizzando le parole da
pronunciare. Ma li riaprì subito dopo. Rizzò le
orecchie e serrò il libro, di
scatto, con un ringhio sommesso.
“Nascondetevi!”
sibilò.
“Perché? Che hai
combinato?”.
“Questo libro è
rubato e mi stanno cercando. Devo
scappare!”.
“Questo libro è
cosa?!” esclamò Kasday, mentre veniva
trascinata assieme a Luciherus ed il figlio in fuga, legati tutti e tre
da
catene che sapeva di non poter spezzare.
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Capitolo 20 *** XX-legami d'acciaio ***
XX
LEGAMI D’ACCIAIO
I tre correvano, Kevihang in testa
che trascinava gli altri
due, lungo le fredde rocce del Pianeta morente. Alle loro spalle
potevano udire
chiaramente i loro nemici avvicinarsi.
“Fammi capire
bene…” iniziò Kasday, non provando
affanno nel
correre “…dove, esattamente, hai preso questo
libro?”.
“Dalla biblioteca di
Vereheveil, nel palazzo di Mihael”
rispose il ragazzo, ansimando.
“Mihael?!”
esclamò Luciherus, senza che gli altri due
capissero il perché di questo suo intervento.
“Non dovete preoccuparvi!
È solo un prestito. L’ho sottratto
per evocarvi, per poter conoscere i miei veri genitori, ed ora che ci
sono
riuscito posso anche ritornarlo, dopo avervi liberato, ovviamente! Ma
eviterei
incontrare le guardie del palazzo…”.
“Se quello che vogliono
è il libro, allora gettalo!” suggerì
Luciherus “Troverai un altro modo per liberarci da queste
catene. Se ti
prendono con questo affare in mano…dubito che potranno e
sapranno darti molta
clemenza!”.
“Non posso costringervi a
rimanere legati a me! Prima devo
sciogliere queste catene e poi restituirò il
libro”.
“Non hai paura delle
conseguenze?” si preoccupò Kasday.
“No. Ora che ci
penso…non credo di aver più di tanto provato
quel sentimento…se sentimento lo si può
definire…”.
“Proprio un mio degno
erede!” si deliziò Luciherus.
“Proprio un
pazzo!” lo corresse lei.
Il paesaggio stava mutando. Le rocce
si facevano sempre più
spesse e scure, nere, alte e ramificate, come immensi alberi alti fino
a dove
ad un mortale non era dato di vedere.
“Potrei nascondere il
volume. Magari mi rintracciano a causa
di un qualche suo segnale o roba simile…era chiuso con un
sigillo…”.
“Basta che corri, ragazzo,
se non vuoi farti prendere!”
sbottò Luciherus, guardandosi alle spalle.
Il ragazzo rallentò e
virò, di colpo, facendo protestare i
due genitori incatenati alle sue braccia. Si avvicinò ad una
delle rocce nere e
ne cercò un’insenatura. Nascose il libro
accuratamente e contrassegnò il luogo,
uguale al resto del paesaggio per chilometri, legandoci il nastro con
cui si
era fasciato il braccio, ricavato dalla sua veste strappata.
“Tornerò
più tardi. Ora nascondiamoci. Ho corso e sono
stanco, inoltre questo buio non mi rende tranquillo. Meglio non
attirare bestie
feroci”.
“Più di morti
noi non possiamo essere perciò…”
iniziò
Luciherus ma Kasday gli tappò la bocca e gli
impedì di aggiungere altro a
quella frase.
Il sentiero si faceva impervio e
sempre più stretto, in
salita ed avvolto dalle tenebre. Kevihang però
notò che non nevicava più e non
faceva tanto freddo, anche se non riusciva a scorgere il cielo fra quei
rami
rocciosi e scuri. Forse, lassù, c’era una
luce…ma non ne era sicuro.
“Non sento più
il rumore assordante dei nostri, dei tuoi,
inseguitori” commentò Luciherus.
“Forse hanno trovato il
libro e non mi cercano più. Scusate.
Se così fosse, per voi sarebbe un bel problema, immagino. Ma
conosco un sacco
di persone che praticano la magia. Sicuramente almeno una di loro
saprà come
aiutarci…”.
“Non è meglio
fermarci? Non è prudente procedere al
buio…”
suggerì Kasday.
“Ma guarda che in questo
Pianeta è quasi sempre buio. Oppure
piove, o nevica, o grandina…o altre schifose emanazioni
atmosferiche. Le rare
volte in cui c’è il Sole, non lavora un
granché e quindi fa un freddo cane e
fastidioso”.
Lei non disse più nulla.
Si vedeva che non era affatto
felice di sentirsi raccontare certe cose.
Luciherus la teneva per mano ed
insieme salivano dietro al
figlio, che era scalzo ma pareva muoversi senza troppi problemi su
quella via
impervia e sconosciuta.
“Sei sempre stato in un
orfanotrofio?” domandò Kasday, dopo
un po’.
“No. Sono stato adottato.
Mi ha aiutato Kuetzalikay”.
“E chi è
Kuetzalikay?” grugnì Luciherus.
“L’ultimo Alto
rimasto, assieme al padre che molti chiamano
Krì”.
“L’ultimo?
Ma…c’era Berkana, i suoi piccoli
e…” iniziò lei.
“Non so da quanto tempo non
getta un occhio da queste parti,
Signora, ma moltissime divinità sono morte ed altrettanti
Alti. Per non parlare
dei mortali…”.
“Quanti,
esattamente?”.
“Non credo ci sia nemmeno
più un bambino fra le creature
divine e superiori…”.
“Nemmeno un bambino?! Ma
è terribile…”.
Luciherus la afferrò
più stretta e si fermò, guardandola
negli occhi.
“Non devi
pensarci” la ammonì “Non è
più affar tuo. Non
permettere alla tua essenza di preoccuparsi per i Mondi e gli Universi,
o ti
perderò di nuovo”.
“Ma…Lucy…”.
Lui la interruppe baciandola e
stringendola a sé, cercando
di consolarla e calmarla.
“Scusate se
interrompo…” si intromise Kevihang
“…ma noi, o
perlomeno io, dovremmo scappare. Non so quanto la cosa vi interessi, ma
gradirei essere certo al cento per cento di essere salvo, prima di
concedermi
risvolti romantici e sdolcinati”.
“Ragazzino…ho
tanta voglia di tirarti una sberla…”
sibilò
Luciherus.
“Provaci, Dio in cassa
integrazione!”.
“Dici sul serio?! Ma allora
sei pazzo per davvero!”.
“Dai, fatti sotto! Ti tiro
un ceffone che nemmeno ti
immagini!”.
“Tiri su rissa con te
stesso?” lo apostrofò una voce alle
sue spalle.
Subito, Kevihang estrasse la spada di
ghiaccio donatagli dal
fratello e si voltò, per colpire l’intruso. Non
riuscì nell’impresa perché
l’arma rimbalzò sulla barriera generata dal suo
obiettivo e perse l’equilibrio.
Inaspettatamente non cadde. Una mano lo teneva, saldamente. Era calda
e…familiare.
“Rik?” si
stupì “Cosa ci fai qui? Cosa vuoi?”.
“È questo il
modo di accogliermi? Ho fatto un sacco di
strada prima di trovarti, lo sai? Razza di ragazzino impudente e
maleducato”.
“Scusa”
mugugnò il giovane, non molto convinto.
Rifoderò la spada, con un
pizzico di riluttanza, e si rimise
in piedi da solo.
“Devi stare attento con
quella spada. Avresti potuto
ferirmi”.
“Era quello lo
scopo…”.
“Volevi
ferirmi?!”.
“Non te nello specifico, ma
un eventuale nemico”.
“Ah
beh…finché vai in giro parlando da solo e
cercando di
attaccar briga con un sasso…”.
“Non stavo parlando da
solo! Ma con loro!” esclamò Kevihang,
alzando le braccia e facendo tintinnare le catene alle quali erano
legati i
suoi genitori.
“Capisco…parlavi
con le tue mani. E la cosa per te è
normale?”.
“Ma sei orbo?! Dietro di me
ci sono due persone, legate a me
da due catene d’acciaio azzurro!”.
Rikarathör guardò
dietro il ragazzo, mentre Kasday e
Luciherus gli facevano “ciao” con le mani.
“Mmm…cosa ti sei
fumato?” domandò, alla fine, con le mani
dietro la schiena.
“Ma come?! Non li
vedi?”.
“Vedere chi, Kevihang? Se
è uno scherzo, è durato
abbastanza. Non c’è nessuno dietro di te,
né tantomeno legato ai tuoi polsi con
delle catene. Io ai tuoi polsi vedo solo dei brutti tagli. Hai tentato
il
suicidio, per caso? Ti sei dato alla droga?”.
“Tu non li vedi? Ho fatto
un’evocazione e…”.
“Hai fatto cosa?”.
“…e ho
richiamato i miei veri genitori, però…”.
“Hai fatto
cosa??!!”.
“…però
ora devo fare in modo che ritornino dov’erano prima
perché sono anime morte ed io ho lasciato il libro che ho
rubato fra…”.
“TU HAI FATTO
COSA??!!”.
“La smetti di ripetere
sempre la stessa frase?”.
“E tu la smetti di farmela
pronunciare?”.
I due fratelli si erano fermati a
guardarsi. Kevihang era
teso e rosso in viso, con i capelli scomposti e la veste stracciata ed
in
disordine. Rikarathör, al contrario, era impassibile
nonostante l’agitazione
che doveva provare. I capelli, legati in una coda, si muovevano
leggermente,
mossi dal vento. I loro sguardi si incrociarono ed entrambi sorrisero,
all’unisono.
“Mi sono mancate le tue
piccole pazzie, Kevy” ammise il
maggiore, mentre il minore lo abbracciava ridendo.
“E a me è
mancato il tuo modo di fare. Quello sguardo ed
atteggiamento di chi si sente adulto ma in
realtà…non lo è!”.
“Hei! Ma lo sai quanti anni
ho, ragazzino?”.
“Sì. Ma,
evidentemente, l’età non conta per il tuo
cervello!”.
“Spiritoso! Adesso spiegami
un po’ sta storia
dell’evocazione e dei tizi che dovrei
vedere…”.
“Tu prima spiegami come mai
sei qui. È molto lontano da casa
nostra questo luogo…”.
“Ti ho raggiunto appena
possibile. Subito dopo essermi
ripreso dallo sforzo magico della biblioteca. Non potevo permettere che
ti
succedesse qualcosa di male e speravo che non avessi commesso
un’enorme cazzata
come quella di rubare un libro a Vereheveil, nel palazzo di Mihael per
giunta!”.
“E come hai fatto a
trovarmi? La luce, sulla mia mano, era
spenta”.
“Devo forse essere io a
ricordarti che mio e nostro fratello
è il figlio di Urihel, Dio del cielo e dell’Aria?
E devo forse essere io a
dirti che l’aria è ovunque? È stato
proprio lui a darmi un passaggio fino a
questo Mondo per poi indicarmi dove ti trovavi”.
“Il figlio di Urihel?
Bello! Anche lui è figlio di Urihel?”
commentò Kasday, entusiasta.
“No”
spiegò Kevihang “Lui è il figlio del
Dio del Sole”.
“Che tanti bastardi che
sono nati in nostra assenza!”
ridacchiò Luciherus.
“Hei! Stai parlando al mio
fratellone adottivo!” protestò il
ragazzo, mentre Rikarathör lo fissava con
un’espressione un po’ smarrita.
“Ok…hem…fratellino…sediamoci
e parliamone. Mi pare che qui
ci siano delle cose di cui discutere. Ma non qui. Lasciamo il
sentiero”.
Assieme si spostarono verso destra,
nascondendosi in una
piccola insenatura. Un’insolita radura di rocce invisibile
dal sentiero
principale. Il mantello del figlio del Dio del Fuoco strusciava sulle
pareti
nere, emettendo uno strano e simpatico verso
d’elettricità statica. Si
sedettero l’uno di fronte all’altro, mentre
Kevihang tentava di far star comodi
anche i suoi genitori.
“La tua luce è
più pallida del solito…” gli fece
notare il
giovane.
“Te l’ho detto:
sono venuto a cercarti appena mi sono
ripreso, ma sono ancora debole”.
“Ed il tuo
sigillo…”.
Rikarathör lo
toccò. Da lì si stavano diramando segnacci
rossi e profondi, come ferite.
“L’ho sforzato
troppo”.
“Per me?”.
“E per chi altro, piccolo
stupido?”.
“Grazie”.
“Non mi devi ringraziare.
È il mio compito da fratello
maggiore e maestro”.
Kevihang abbassò lo
sguardo, non sapendo che cosa dire.
“Parlami di questa tua
evocazione” parlò, allora, il figlio
del Sole.
“Ho evocato i miei
genitori. Che ora sono qui con me, solo
che tu non puoi vederli perché sono semplici essenze,
credo”.
“Come si chiamano? E loro
possono vedere me?”.
“Loro ti vedono benissimo.
E sono Luciherus e Kasday”.
“Occhio alle cacchiate che
spari, fratellino. La mia
pazienza ha un limite!”.
“Ma è vero! Vuoi
una prova? Madre…sarebbe in grado di far
apparire lo splendido fiore di prima? Era bellissimo e non ne avevo mai
visto
uno così prima…”.
“Posso fare di
meglio!” gli sorrise lei e si alzò con grazia
ed eleganza.
La catena era sufficientemente lunga
per permetterle una
certa libertà di movimento. Si mosse sulle punte ed
iniziò a danzare. Non
poteva compiere molti passi ma ciò che faceva era
più che sufficiente per
creare evidenti cambiamenti. Le rocce nere sotto i suoi piedi si
aprirono,
spaccandosi, ed iniziarono a spuntare splendidi fiori ed erba verde. La
parete
che le stava accanto, con il suo solo tocco, si animò e
mutò, divenendo un
albero rigoglioso ed altissimo. Rikarathör osservava il tutto
con vivo stupore
ed ammirazione. Poteva sentire il cuore pulsante del Pianeta sotto di
sé,
scorreva nella terra come una nuova sorgente.
“Oh…Kasday!”
sussurrò, con gli occhi rivolti verso il
bellissimo albero.
Luciherus, sentendosi in disparte,
fissò con un pizzico di
gelosia le movenze della sua donna. Non gli piaceva che danzasse per
qualcun
altro. Fece scricchiolare le sue nocche, scuotendo le mani. Era pronto
per
mostrare anche lui il suo potere. Allungò la mano verso il
figlio del Sole e lo
sfiorò appena, con la punta delle dita. Chiuse gli occhi e
Rikarathör avvertì
una specie di scossa nel punto sfiorato dall’antico Dio della
Forza. Dal dorso
della mano, dove era stato toccato, iniziò a sentire un
insolito calore ed
un’energia mai provata. Le ferite provocate dal suo sigillo
guarirono in un
istante e la sua luce si fece sempre più forte ed intensa.
L’essenza di
Luciherus gli aveva restituito tutta la sua forza ed anche di
più, perché era
la prima volta che brillava così energicamente.
“Fantastico…”
commentò Rikarathör, sentendo le fiamme
tatuate sul suo corpo alimentarsi di nuovo e le energie farlo
illuminare.
“Ti senti meglio,
fratellone?”.
“Altroché!
Incredibile…sei il figlio delle divinità
più
venerate di tutti i tempi! Mi dovrò inchinare”
rise, giocherellando con una
sferetta di fuoco che aveva appena creato.
“Ora mi credi?
Bene…”.
“Come puoi essere nato da
loro, in effetti? E poi…dov’è quel
fottuto libro che tutti cercano e che tu hai rubato? Perché
è per questo che
scappi, se non ricordo male…”.
“Lunga storia. Comunque il
libro l’ho messo al sicuro”.
“Faresti meglio a
restituirlo”.
“Ma devo riportare indietro
i miei genitori nel luogo in cui
stavano prima!”.
“A quello penseremo dopo.
Sono sicura che la Dea della Morte
saprà aiutarti…se troveremo il modo di
contattarla…”.
“Non è un
problema”.
“Giusto…è
tua sorella se non sbaglio. Wow! Il fratello
minore della Morte!”.
“Beh,
sì…ma non solo per questo…”.
“Che intendi
dire?”.
“Il nostro ultimo incontro
non è stato molto fraterno…”.
Socchiuse gli occhi, aspettandosi una
reazione da parte del
fratello maggiore che, invece, lo guardò con tenerezza e
tristezza.
“Il Destino è
proprio stronzo quando vuole, eh? Innamorarsi
della propria sorella…”.
“Già. Non mi
sgridi?”.
“Come potrei? Cerca solo di
non farti notare da altre
divinità, perché sai che è proibito
per un Semidio, o quello che sei, avere un
certo tipo di contatti con le vere
divinità…”.
“Farò il
possibile…” sorrise Kevihang.
“Non è uno
scherzo, ragazzino!” lo rimproverò
Rikarathör.
“Ok…non te la
prendere! Non ci faremo notare”.
“I tuoi
genitori…sono dietro di te…cosa ne pensano di
tutto
questo?”.
Luciherus agitò la coda
mostrando il suo entusiasmo. Kasday
non fece commenti ma nemmeno guardò con rimprovero il
ragazzo, anzi lo fissò
con affetto.
“Loro non hanno niente al
contrario. Fra divinità succede…”.
Rikarathör parve stupito da
quella risposta. Inclinò il
capo, appoggiato sulle ginocchia che aveva stretto a sé
sedendosi, e gli
sorrise.
“È una buona
cosa”.
“Perché non
avrebbero dovuto approvare? Siamo Dèi, in
fondo”.
“Lei è una Dea.
Tu sei un meticcio strano, come me. E pochi
genitori approvano che la propria figlia venga toccata da un
sanguemisto, anche
se si tratta del loro stesso figlio”.
“Ah…ok…”
si limitò a dire Kevihang, notando lo sguardo
triste del fratello.
La Luna illuminava ora i fiori di
Kasday, che brillavano
come avvolti dalle stelle. Rikarathör guardava il satellite
sorridendo
malinconico.
“Mi chiedo
perché abbia una luce così
triste…” disse e il
fratellino annuì, dato che anche lui aveva notato quanto
sembrasse più pallida
del solito.
“Perché non
riesco a vederti…” rispose la Luna, da un punto
imprecisato del cielo.
“Dove sei?” la
chiamò il figlio del Sole.
Lei rise e tutti i presenti la
videro. La sua cavalcatura,
alata, era sopra di loro.
“Come ci hai
trovati?” chiese Kevihang.
“La vostra luce
è piuttosto visibile
dall’alto…” sorrise lei
e Kevihang notò di risplendere leggermente di rosso.
“Hai combinato un bel
casino, Kevy! Ti stanno cercando
tutti!” parlò ancora la Dea, atterrando dolcemente
e scendendo dal destriero
d’argento.
“Lo so.
Aspetterò che si calmino un po’ le acque e poi
restituirò il libro, così saranno tutti
contenti”.
“Quanto
ottimismo…l’hai contagiato, Rik?”
azzardò lei,
guardando il figlio del Sole.
“Non può tornare
subito il libro, come anch’io gli ho
suggerito, perché deve riportare indietro i suoi genitori,
che ha evocato”
spiegò Rikarathör.
“Quali genitori? Io non
vedo nessuno!”.
“Questi fiori sono stati
creati dalla madre che ha accanto,
che però è un’essenza e
perciò non la puoi vedere. Fidati…”.
Lei guardò le piante,
incantata. Le sfiorò e queste
brillarono con ancora più forza.
“Sono bellissimi. Ma
che creatura può far tornare i fiori in questo Pianeta
annaspante?”.
“Kasday”.
“Tu mi prendi in
giro”.
“Non potrei mai!”.
“Ti posso giurare che
è la verità!” confermò
Kevihang.
“Voi due siete
pazzi!”.
“Dì al tuo
fratellone di fare quello che gli suggerisco…”
mormorò Luciherus, alle orecchie del figlio che non sapeva
come convincere la
Dea.
“Va bene…che
cosa gli devo dire?”.
“Come?!”
domandò la Dea, senza capire con chi stesse parlando.
“Noi non possiamo togliere
il sigillo perché non siamo più
in vita ma, unendo le forze, io e Kasday potemmo fare in modo che, per
qualche
istante, non abbia più effetto”
continuò Luciherus.
“Interessante….e
lui che dovrebbe fare?”.
“Baciarla”.
“Cosa? Ma è sua
sorella!” sibilò Kevihang, ma subito si
zittì. Si stavano guadando in un modo inequivocabile.
“Tu la ami”
esclamò al fratello maggiore, che lo guardò in
uno strano modo.
“Hai seguito proprio un
brutto esempio” sospirò.
“Baciala!” lo
incitò Kevihang.
“Non posso. Mio padre mi ha
messo questo sigillo per non
farmela toccare”.
“Ho sempre pensato che
fosse perché al tuo rito dei
cristalli sei impazzito. Non credevo l’amassi
davvero…ora, però, mi sono chiare
molte cose”.
“Voi uomini capite sempre
le cose in ritardo” sbottò la
Luna.
“Ignora il sigillo,
fratello. Baciala. I miei genitori
intendono dare la prova della loro presenza disattivando,
temporaneamente,
l’effetto di quell’oggetto. Chi, se non Kasday e
Luciherus assieme, potrebbero
fare una cosa simile?”.
“Kasday e Luciherus? Salvo
un Alto e chi ha realizzato quel
sigillo…immagino che solo loro, in effetti, possano fare una
cosa del genere”
commentò la Dea, guardando Rikarathör negli occhi,
con un po’ di paura ed
incertezza.
“Cosa
c’è?” le domandò lui.
“Ho paura
che…possa farti del male!”.
“Io mi fido di quello che
dice il mio fratellino, gli credo,
e quindi mi fido di ciò che mi suggerisce. Sta tranquilla.
Andrà tutto bene…”.
“Baciala!”
sbottò Luciherus, non abituato ai miscredenti.
Il figlio del Sole si
avvicinò, sentendo che il sigillo non
gli dava la solita scossa. Al contrario, pareva attirarlo verso la Dea
dagli
occhi argentati. Lei smise di essere preoccupata vedendo questo e
sorrise. Gli
prese le mani e, stringendole forte, lo baciò. La luce di
entrambi si fece più
forte e si fuse, per qualche istante. Poi furono costretti a lasciarsi,
perché
il sigillo ricominciava ad infastidire il suo proprietario. Lui non
voleva
farlo capire ma la Luna ormai lo conosceva bene ed era in grado di
percepire subito
se qualcosa non andava.
“Mi ami ancora”
gli sussurrò.
“Certo! Avevi qualche
dubbio?”.
“A volte sì. Ma
il tuo bacio ancora trasmette inalterato il
sentimento che ci ha legato anni fa”.
Lui le sorrise e girò la
testa. Stava albeggiando. Vide il
Sole sorgere da dietro il tronco dell’albero appena creato da
Kasday. Era da
tantissimo tempo che non vedeva un’alba così. Era
rossa e forte, luminosa,
senza nuvole e calda, piacevolmente calda.
“Ho quasi voglia di
alzargli il dito medio…” brontolò
Rikarathör, mentre assorbiva i raggi della stella avidamente
ed inconsciamente.
“Lascia perdere. Io devo
andare, ragazzi. Grazie Kevy, e
grazie ai tuoi genitori. Devo andare, Rik. Sai che papà si
arrabbia se mi vede
qui con te…”.
“Vai pure. Non mi manca
vederlo arrabbiato”.
“Buona fortuna,
Kevy”.
“È la frase che
mi rivolgono tutti fin da quando son
piccolo…”.
La Dea sorrise e risalì
sul suo destriero.
In cielo apparve, improvvisamente, un
grosso drago verde
cavalcato da Marinditi-ya, la sorellina di Rikarathör e
Kevihang, che chiese
informazioni sul figlio del Sole. Sembrava molto preoccupata. La Dea e
la
Semidea si fissarono, non in modo molto amichevole, poi la Luna
scomparve
all’orizzonte e Marinditi-ya atterrò. Di volata,
letteralmente, atterrò anche
Loreatehenzi, che ormai si librava in aria senza problemi.Il fratello
minore
Kevihang guardò il maggiore Rikarathör con un
ghigno accattivante, al quale
l’interessato non rispose.
“Non dire una parola su
ciò che hai visto. Muto!” lo ammonì.
“Ma certo!”.
“Avanti. Andiamo a
riprendere quel libro così potrai
restituirlo e, forse, non ti succederà niente di male. Ci
penserà la Dea della
Morte a liberare i tuoi genitori”.
“Hai bisogno di una
copertura perché papà non ti faccia il
cazziatone?” sghignazzò Kevihang.
“Subito te lo do io il
cazziatone! Muoviti!”.
“Ok! Non ti
arrabbiare!”.
“Cos’è
successo?” chiese Loreatehenzi, sentendosi escluso e
non accolto.
“Cosa ci fate qui?
È pericoloso!” fu la risposta di
Rikarathör “Soprattutto per te,
Marinditi-ya!”.
“Eravamo preoccupati per
te, brutto stupido!” lo rimproverò
la Semidea, scendendo dal drago e sistemandosi la veste scollata
“E anche per
te, ovviamente, Kevihang! Che bello rivederti!”.
“Che sollievo,
più che altro. Mamma è molto preoccupata per
entrambi”.
“Dite alla mamma che sono
un po’ grandino perché si stia a
preoccupare per me” sbottò Rikarathör,
incrociando le braccia e guardando con
disapprovazione, o forse interesse, la scollatura eccessiva della
sorella
minore.
“Mamma sa che non crescerai
mai e che nel cervello resterai sempre
un eterno bambino!” rispose Loreatehenzi, ghignando da folle
ma consapevole di
aver ragione.
“Chi sono
questi?” domandò Luciherus, scocciato come non mai
di essere invisibile.
“Sono i miei fratelli
adottivi” spiegò il ragazzo evocatore.
“Con chi parli,
pazzoide?” volle sapere Loreatehenzi.
“Storia lunga”
interruppe Rikarathör, prima che Kevihang
iniziasse a spiegare “Adesso andiamo alla ricerca di quel
caspio di libro che
tutti vogliono”.
“Non serve cercarlo. So
dov’è!” si offese il ragazzo.
“Bene! Allora andiamo. Voi
due potete anche tornare a casa,
qui ci penso io” ordinò il fratello maggiore,
rivolto al figlio di Urihel ed
alla figlia dell’Estate.
Come avrebbe dovuto immaginare,
nessuno dei due gli obbedì.
Marinditi-ya legò il drago ad una roccia, consapevole di non
poterlo far
planare data la vicinanza delle due pareti nere lungo il sentiero, e si
incamminò dietro ai fratelli. Percorsero a ritroso il
sentiero principale,
illuminato stavolta dal Sole.
“Qualcuno può
spiegarmi che cosa sta succedendo?” chiese
Loreatehenzi, svolazzando.
Librandosi in aria, i lunghi capelli
gli restavano sospesi
in onde e ricci provocati dai piccoli vortici che lo tenevano sospeso.
Inspiegabilmente, la barba restava immobile. La tunica nera ed il
mantello
dello stesso colore sventolavano a destra ed a sinistra, senza una
logica.
“Sembri il figlio della
Morte” commentò Rikarathör, notando
gli anfibi che portava ai piedi ed i teschi sulla collana che portava
il
cristallo azzurrino chiaro della sua prova di maturità.
“Sai che io sono il
fratello minore della Morte?” si esaltò
Kevihang.
“Sì?! Che
figo!!” esclamò Loreatehenzi, senza chiedersi
minimamente come questo fosse possibile.
“Che linguaggio
è?! Hai trent’anni, quand’è
che ti metterai
a parlare come un uomo?” lo rimproverò il fratello
maggiore, spingendo Kevihang
a concentrarsi sul luogo in cui aveva riposto il libro e non distrarsi
con i
soliti discorsi stupidi che faceva.
“Da che pulpito,
Rik!” rispose Loreatehenzi, mentre
Marinditi-ya alzava gli occhi al cielo con rassegnazione: si sentiva
all’asilo
quando iniziavano certi battibecchi.
“Ecco! È quello
il punto!” esclamò Kevihang e corse verso
una roccia, su cui si poteva vedere chiaramente il pezzo di stoffa che
ci aveva
legato.
Si accorse subito, però,
che il libro non c’era più.
“Non
c’è!” gemette.
“Come non
c’è? Controlla meglio! Come può non
esserci?” si
allarmò Rikarathör, aiutandolo a cercare nei
paraggi “Forse è il luogo
sbagliato!”.
“No, sono sicuro che il
luogo è questo! Deve averlo preso
qualcun altro!”.
“E chi?”.
“E che ne so io! Qui non
c’è!!”.
“Il
problema…sarebbe…?” si intromise
Loreatehenzi, cercando
di rendersi utile.
“Sarebbe che siamo nella
merda” rispose il fratello
maggiore, girandosi e restando immobile.
Erano circondati dalle guardie di
Mihael e da altre creature
armate e minacciose.
“È
lui” parlò uno dei demoni, con voce profonda,
indicando
Kevihang.
“Arrestateli
tutti” ordinò un altro, con una lunga picca
lucente fra le mani.
“La lancia delle creature
sotto il diretto comando della Dea
del Kaos” sussurrò Rikarathör al suo
allievo, mentre veniva immobilizzato “Vedi
di non fare cazzate con loro. Sono estremamente pericolose ed
irascibili…”.
Le guardie avanzarono verso il
gruppetto di fratelli, dopo
aver bloccato Kevihang, ma Rikarathör li bloccò,
nonostante avesse già le mani
legate.
“E dopo dice a me di non
fare cazzate…” sibilò il figlio dei
morti.
“Lasciate stare questi
due” ordinò il figlio del Sole “Loro
non hanno niente a che fare con questa storia. La colpa è
mia e di Kevihang,
non posso negare il nostro coinvolgimento, ma questi due sono solo
curiosi ed
impiccioni. Non han fatto niente”.
Le guardie si guardarono, perplesse
ed annuirono. Nessun
testimone aveva comunicato di aver visto il colpevole in compagnia di
altri se
non di se stesso e, ogni tanto, di uno strano uomo dai capelli che
sfumavano
dal nero al rosso, cioè colui che avevano davanti.
“Siete liberi di andare.
Sparite dalla mia vista” sibilò il
capo delle guardie, rivolto a Loreatehenzi e Marinditi-ya, che
protestarono
ferocemente.
“Chi credi di avere
davanti, bello?” gli ringhiò contro
Loreatehenzi “Io sono il figlio di Urihel!”.
“Puoi essere chi ti pare,
basta che ti levi dai coglioni!”
rispose l’enorme creatura, con almeno una ventina di occhi
sparsi lungo tutto
il viso che sbattevano in momenti differenti.
“Fate come dice, per
l’amore degli Dèi!” urlò
Rikarathör,
con uno sguardo più minaccioso di quello dei demoni armati
che li circondavano.
Il figlio del Sole rimpiangeva i
giorni in cui bastava
prenderli per la coda, nel caso di Kevihang, o per i capelli, nel caso
di
Loreatehenzi, per farli ragionare. Ma quei tempi erano passati e
Kevihang era
cresciuto, sfuggendogli dalle mani.
“Consegnaci subito il
libro!” ordinò qualcuno al giovane,
mentre Marinditi-ya ed il figlio di Urihel si allontanavano lungo il
sentiero
sotto la minaccia delle lance e delle spade.
“Non so dove si trovi.
L’avevo lasciato lì” affermò
Kevihang.
“Forse lo sai
tu?” sibilò la creatura dai molti occhi,
afferrando il braccio di Rikarathör.
Questi non rispose, ma
scaldò il tatuaggio che aveva nel
punto che il mostro stava stringendo e lo fece gridare per la
scottatura.
“Portateli via, tutti e
due!” ordinò, irato “Ci
penserà la
corte suprema a farli parlare!”.
“Sissignore!”
risposero tutte le creature, all’unisono e mettendosi
sull’attenti.
Erano davvero pittoresche alcune di
loro, evidenti abitanti
dei territori del Kaos. Alcune avevano molte braccia, altre molti
occhi, più
bocche o strane orecchie, pelle squamata o ricoperta di pelo. Vere
assurdità
che spuntavano fra i demoni del regno di Mihael.
“Fermi”
parlò qualcuno, con calma.
Una luce fortissima avvolgeva chi
aveva parlato, che era
giunto mimetizzandosi fra le luci dell’astro che sorgeva
all’orizzonte.
“Papà?!”
si stupì Rikarathör, mentre si dimenava per
liberarsi
dalla morsa di due giganti che lo tiravano per le braccia.
“Lasciate andare quel
mezzosangue” ordinò il Dio del Sole,
con tono solenne ed indicando suo figlio “Slegatelo subito.
So per certo che
stava facendo ben altro fino ad un attimo fa. Non ha nessun
coinvolgimento nel
furto del libro”.
“Ma tu che ne sai? Non
è vero!” protestò Rikarathör,
mentre
veniva slegato.
“Se la vostra
padrona…” parlò il Dio, rivolto alle
creature
del Kaos “…ha qualcosa da dirmi, sa dove trovarmi.
Per ora prendo io in consegna
questo qui!” ed afferrò il figlio toccandogli il
sigillo attorno al collo,
questo gli impediva di opporre resistenza alla magia del genitore.
“Kevihang…”
riuscì a dire il figlio del Sole “…sta
tranquillo! I tuoi genitori ti proteggeranno ed io ti
aiuterò. Vedrai che andrà
tutto bene”.
“Non ho paura. Non
preoccuparti troppo per me” lo rassicurò
Kevihang, mentre veniva portato via velocemente dalle guardie e dalle
creature
del Kaos.
“Non ti abbandono, Kevy! Te
lo prometto!” gli urlò il
fratello maggiore, prima che sparisse in groppa ad un enorme drago a
due teste
che lo portò via.
Rimasto solo con il padre,
Rikarathör lo guardò mentre il
Sole lo lasciava andare.
“Perché lo hai
fatto?” protestò.
“Cosa? Perché ti
ho impedito di essere giustiziato?”.
“Giustiziato?”.
“Tu sei un mezzosangue. Non
avresti avuto scampo davanti al
giudizio dell’Alto Krì e della sua truppa di
amichetti puritani. Quel ragazzo
non è così evidentemente figlio di uno degli
Dèi, avrà la possibilità di
difendersi ed esporre le sue ragioni, ma tu no. Tu verresti giudicato
colpevole
e giustiziato prima ancora di proferire una sola parola”.
“Ma il mio compito era
proteggere il mio fratellino ed
allievo. Invece così non so come aiutarlo”.
“Io sarò
presente al suo processo. Vedrò che posso fare”.
“Davvero?”.
“Sì.
Cercherò di aiutarlo come posso. Non ho la
facoltà di
prometterti niente perché non sono di certo la massima
autorità fra le
divinità”.
“Perché lo
fai?”.
“Perché vedo che
ci tieni a quel ragazzo”.
“E con
ciò?”.
“Sei mio figlio,
Rikarathör! Il minimo che possa fare è
aiutarti quando posso!”.
“Questo mi
stupisce…”.
“Ti avverto,
però, che se verrà giudicato colpevole e mi
affideranno una qualche condanna da
infliggergli…dovrò farlo. Non è il
caso che
il Dio del Sole ci rimetta le penne per un mortale, spero che tu
capisca”.
“Potrò assistere
al processo?”.
“Come tutore e maestro del
ragazzo, sì. Ma non avrai il
permesso di parlare, dato che sei un semidio, e gradirei che non
mostrassi
tanto la tua identità”.
“Saprò
celarmi…”.
“Ti informerò
appena inizierà…”.
“Allora…grazie…”.
“Figurati. Stai lontano da
Selene, però”.
“Questa è una
cosa che non posso prometterti” ridacchiò
Rikarathör e corse via, senza dare il tempo al padre di
replicare in alcun
modo.
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Capitolo 21 *** XXI- giudici e giudizi ***
XXI
GIUDICI
E GIUDIZI
“Incredibile…”
protestò
Luciherus, seduto nell’angolo della fredda stanza in cui
avevano rinchiuso
Kevihang in attesa del processo “…incredibile
davvero! Non solo sono incatenato
ad un figlio di cui non sapevo l’esistenza prima di poche ore
fa, ma ora sono
pure in galera! Io! Il più grande dei grandi nelle ultime
Ere!”.
“Esaltato…”
ridacchiò Kasday, appoggiata al muro a guardare
il soffitto.
“L’importante
è che io e te siamo ancora vicini…”
aggiunse,
allora, l’antico Demone.
“Appunto! Non
protestare!” lo sgridò lei, afferrandolo per
la coda.
“E chi
protesta?!” mugugnò Luciherus, andandole vicino ed
abbracciandola, riempiendola di baci.
“Scusate? Potreste non
accoppiarvi mentre io mi trovo in
questa situazione?” brontolò Kevihang, che
camminava nervosamente per il
perimetro che gli lasciavano a disposizione le catene a cui era legato
ai
genitori.
Come se queste non bastassero, era
stato legato alle
caviglie con dei pesanti ganci per impedirgli di scappare o aggredire
le
guardie che lo controllavano.
“Chiedi
l’infermità mentale!” gli
suggerì Luciherus.
“Spiritoso!”
sibilò il ragazzo.
“Non scherzo!
Tranquillo…andrà tutto bene! Non hai fatto
niente di male”.
“Tranne rubare un libro
proibito”.
“Quello l’ho
fatto un sacco di volte!”.
“Quella era una cosa
diversa…”.
La stanza era buia, con una
piccolissima finestra, ed era
bianca, priva di mobili, completamente spoglia. Inquietante e fredda,
ma
abbastanza ampia da far fare al ragazzo un sacco di giri, sbattendo le
ali e la
coda per il nervosismo. La porta si aprì, lentamente, ed
entrò una piccola
figura. Era Kiaritanya, la messaggera dell’Alto
Krì e del figlio, stranamente
vestita da creatura angelica, con lunga tunica e piedi scalzi.
“Sei pronto per essere
giudicato?” domandò, rivolta a
Kevihang.
“Certo. Facciamo in
fretta!” replicò il giovane, con tono di
sfida.
“Non esaltarti, giovanotto.
Te lo consiglio”.
“Ma che vuoi da me,
angioletto?”.
Kiaritanya gli mollò una
sonora sberla e lo guardò con
fastidio: “Sai chi attende qua fuori, cretino? Ti sconsiglio
di fare tanto il
gradasso e lo spocchioso, sai?!”.
“Ha ragione” si
aggiunse Kasday e Luciherus annuì.
“Ok. Mi
arrendo…cosa dovrei fare secondo te, angioletto
bello?”.
“Chiamami Kiaritanya. Sono
la Messaggera di Krì, l’Alto che
farà da giudice supremo al tuo processo. Lui non
è cattivo, te lo posso
assicurare, ma è maniaco delle regole. È proprio
fissato e quindi ti suggerisco
di tentare in ogni modo di convincerlo di non volerle infrangere e
dimostragli
che non hai fatto niente di male. Così facendo non dovresti
avere problemi, se
consegni il libro”.
“Io non ho il libro!
L’ho già detto e ripetuto più
volte!”.
“Altra cosa: non dire che
Kuetzalikay era con te al momento
del furto. Ti crederà un bugiardo e non vorrà
sentire altro da te”.
“Ma è vero!
Kuetzalikay era con me!”.
“Lo so. C’ero
anch’io! Ma segui il mio consiglio, se non
vuoi essere giustiziato!”.
“Chi ci sarà
là fuori?”.
“Ora lo vedrai.
È ora di andare. Seguimi. E ricorda che,
anche se avrai diversi giudici davanti a te, l’importante
è che convinca Krì, è
lui che ha l’ultima parola definitiva”.
Kevihang, con le mani legate, venne
scortato lungo uno
stretto corridoio grigio perla. Al suo fianco marciavano diverse
guardie armate
di tutto punto, con Kiaritanya che apriva la strada. I genitori del
ragazzo si
libravano in aria, tenendosi per mano, senza staccare gli occhi dal
figlio. Il
corridoio terminava con un enorme portone di legno massiccio, decorato
e
sorvegliato.
“Che
esagerazione…” mormorò Kevihang e
Kiaritanya gli lanciò
un’altra occhiataccia.
“Riavvolgi la lingua,
ragazzo, e vedi di parlare solo se
necessario, adesso. Non è un gioco!”.
Il giovane non sembrava convinto e
guardò la messaggera con
scetticismo ma poi lei aprì il portone ed il ragazzo
abbassò le orecchie,
deglutendo. L’ampia sala era gremita e vi si respirava
un’aria pesante e
minacciosa. Tutti fecero silenzio mentre lui avanzava verso la sua
postazione,
davanti ad una fila di giudici e giurati di varie specie e grado.
“Wow…quanti
pezzi grossi…” esclamò Luciherus, dopo
un fischio
prolungato d’ammirazione.
“Quel libro
dev’essere davvero importante…”
borbottò Kasday,
preoccupata.
Giudici e giuria avevano la luce alle
spalle, rendendone
difficoltosa l’identificazione, e nel resto del salone,
divisi in più piani, si
affacciavano diverse creature.
“Perché tanta
gente?” sussurrò Kevihang.
“Credo non sappiano con che
categoria di creature inserirti.
E perciò ne hanno un po’ per tipo presenti, come
rappresentanza del genere, ad
assistere. Questi processi sono sempre stati piuttosto coreografici e
plateali,
fin troppo!” rispose Kasday, cercando facce familiari fra la
folla.
“Il giudice supremo,
l’Alto Ansuz, prende posto in aula”
affermò Kiaritanya, in tono solenne, mentre il resto dei
presenti si alzava, in
segno di rispetto.
Krì entrò da un
portone dorato. Anche lui, come gli altri
giudicanti, era controluce e Kevihang ne poteva scorgere solo la sagoma
scura.
Prese posto più in alto rispetto a giudici e giuria e fece
segno di sedersi a
tutti gli altri. Kevihang vedeva altre nove sagome attorno
all’Alto, di cui
però non poteva cogliere i volti e la cosa lo infastidiva
parecchio. Vedeva
ali, corna, cappucci, forse…
Dopo alcuni minuti di interminabile
silenzio, in cui tutti
prendevano posto e si sistemavano, l’Alto diede ordine di
abbassare le luci,
notando quando l’imputato ne fosse infastidito. Alcuni
specchi girarono e delle
tende vennero calate. Il giovane credeva che la mancanza di tutta
quella luce
lo avrebbe rassicurato, in realtà quella sala, buia, era
ancora più
inquietante. Illuminata da candele e piccoli lumini, allungava le ombre
di
tutte le creature nella sala, che convergevano sul povero Kevihang, che
si
sentì tutti gli occhi addosso. La sua pelle emetteva una
lievissima luce rossa.
Inoltre, senza più il controluce, poteva vedere i suoi
giurati. A partire dalla
destra del lungo bancone, vide Heket, la Dea della Vita che lo guardava
in modo
piuttosto strano. Era vestita di bianco e verde, con i capelli raccolti
e la
piccola corona sempre presente sulla testa, simbolo della sua
discendenza con
il Principe Luciherus.Al suo fianco stava il Destino, Ajedrez, con una
lunga
tunica a scacchi con il colletto alto ed i capelli verde acqua sciolti.
I suoi
occhi dorati brillavano nel buio della stanza e sorrideva. Fra le mani
stringeva una rosa con i petali pieni di scritte minuscole e lucenti.
Il Dio
del Sole, troppo antico perché qualcuno si ricordasse il suo
vero nome, era il
terzo e guardava fra il pubblico, con un’espressione mista
fra apprensione ed
il rimprovero. Kevihang lo guardò e sorrise. Notava tutti i
tratti in comune
con il suo maestro e fratello maggiore. Il Dio distolse lo sguardo dal
punto
imprecisato in cui guardava, e fissò il ragazzo facendogli
un cenno del capo.
Il quarto giurato e giudice era Vereheveil, con le ali nere che lo
incorniciavano e la lunga tunica aranciata. I suoi occhi, una volta
luminosi e
brillanti, erano spenti e distanti. Al centro, subito sotto la
postazione
dell’Alto giudice, Kavahel guardava negli occhi il giudicato,
senza avere un’espressione
particolare. Lui era l’Equilibrio ed essere neutrale gli
riusciva facile. I
due, giudice e giudicato, avevano le stesse ali e questo fece sorridere
il Dio,
solo leggermente. Alla sinistra di Kavahel, alla destra dal punto di
vista di
Kevihang, stava Mihael che però non mostrava un grande
interesse nell’essere
lì. Leggeva un libro, con i piedi in diagonale sul tavolo.
Urihel, il giurato
successivo, cercava di fargli capire che doveva stare attento ma il
Demone lo
zittiva borbottando. Il Dio del Cielo, con la solita veste blu scuro,
aveva le
ali di un bel celeste acceso, segno che fuori c’era bel tempo
e forse faceva
anche un po’ caldo. La Dea del Kaos, Niebla o Skrich, era
l’ottava giurata ed
era troppo impegnata a guardare male il fratello Destino per
preoccuparsi del
ragazzino ladro che aveva davanti agli occhi. La sua pelle nera ed il
suo abito
lucente brillavano nonostante la poca luce. I capelli, corti, corvini e
dai
contorni indefiniti, si agitavano senza sosta, segno che la Dea era
nervosa
come sempre. Per ultima veniva la Dea della Morte, con la stessa pelle
ed i
capelli della sorellina minore Kaos, sorrideva. Le due Dee erano
davvero molto
simili, salvo per la differenza d’altezza e gli occhi: la
Morte li aveva
azzurri, il Kaos dorati. Era vestita nello stesso modo in cui Kevihang
l’aveva
vista la prima volta, con tanto di falce al suo fianco, e lo guardava
con
tenerezza.
“Possiamo
cominciare” parlò Kavahel, mentre
l’imputato
sorrideva pensando al fatto che buona parte della giuria era
imparentata con
lui, compreso colui che aveva appena parlato.
“Non ti crederà
nessuno, se lo dirai” parlò Kasday “Se
dirai
che sei figlio nostro, non ti crederanno e per te saranno guai.
Capisci,
vero?”.
Kevihang annuì e Kavahel
sorrise, convinto che annuisse alla
sua domanda precedente.
“Come ti chiami,
ragazzo?” gli chiese, avvolto in quel
mantello blu scuro che gli ingrandiva le spalle in un modo quasi
comico,
spiccando sul porpora della veste sottostante, tipici colori
dell’Equilibrio
che però stonavano con il blu delle ali, l’oro
degli occhi ed il verde acqua
dei capelli del proprietario.
“Mi chiamo
Kevihang”.
“E basta?”.
“Sono un orfano. Non ho un
cognome. Sono figlio di ignoti”.
“Immagino tu sappia chi
sono io, perciò iniziamo. Giuri di
dire, davanti a questa corte suprema, sempre e solo la
verità? Ti ricordo che
davanti a te ci sono parecchie divinità in grado di capire
subito se menti e
che ti condannerebbero immediatamente se lo facessi”.
“Lo giuro”.
“Bene, Kevihang, siediti
pure. Sei qui per il furto del
libro proibito che per millenni è stato posto al sicuro,
lontano da mani
inadatte, nella biblioteca custodita dal Principe Mihael, sotto la
protezione
del Dio delle Lingue e delle Letterature, Vereheveil. Sicuro di non
volerci
dire dove si trova? Perché se ora lo facessi…il
tuo reato risulterebbe
decisamente minore”.
“Io non ho il libro con me.
E non so dove sia. L’avevo
riposto al sicuro sotto una delle pietre nere che delimitavano il
sentiero ma,
al mio ritorno, non c’era più”.
“Quel libro era chiuso da
un sigillo. Pochissime creature
sono in grado di toccarlo” affermò Vereheveil,
senza guardare negli occhi il
giovane.
“Allora chiedete a quelle
altre pochissime creature, perché
io non l’ho con me. Poi credo che sia strano che pochissimi
lo possano toccare.
Credo, invece, che chi ha posto il sigillo non sappia fare il suo
lavoro o lo
abbia lasciato indebolire con il tempo”.
“Colui che ha fatto il
sigillo è qui accanto a te e,
credimi, sa fare il suo lavoro!” sbottò Kavahel,
indicando il padre che
sorrise, facendo segno al figlio di stare calmo.
“Scusate
ma…” si giustificò Kevihang
“…se una creatura come
me, un mortale, è riuscito ad infrangerlo, vuol dire che non
era poi così
potente”.
“Nemmeno un Alto
può infrangerlo, salvo con l’uso della
forza, che distruggerebbe il libro. E questo è stato
verificato spesso. Tengo
sempre sotto controllo i miei libri. Perciò significa che tu
sei una creatura
più unica che rara perché sei riuscito ad
aprirlo. Tutto da solo?” parlò
Vereheveil.
“Il sigillo? Sì,
l’ho infranto da solo”.
“E come hai fatto? Chi te
lo ha insegnato?”.
“Ho aperto il libro e
basta. Non ho fatto niente. L’ho
toccato e si è spezzato il clip di metallo che lo teneva
chiuso. Non me lo ha
insegnato nessuno”.
“A che livello sei,
ragazzo?” chiese il Destino, guardandolo
incuriosito.
“In che senso?”.
“Suvvia…tutti i
bambini provvisti di magia fanno un test per
vedere a che livello sono e fino a che livello possono
arrivare…”.
“Non so di che parla,
Signore. Non ho mai fatto niente del
genere”.
“Forse perché,
essendo orfano, non ha studiato come gli
altri bambini” azzardò il Sole.
“Ma qualcuno deve averti
dato un’istruzione! Devi aver
imparato da qualcuno!” affermò il Kaos.
“Sì,
certo…” iniziò Kevihang.
“E, dimmi…hai
aperto il libro, ormai non puoi negarlo, che
ci hai trovato dentro?” si informò Vereheveil,
sempre più interessato a quello
strano ragazzo.
“All’inizio
niente. Pagine bianche, lingue e scritte
incomprensibili, ma poi, non so come, mi è stato tutto
chiaro e sono riuscito a
leggere ciò che mi interessava”.
“Chi ti ha insegnato a
leggere una lingua così antica?”.
“Beh…il mio
maestro mi ha insegnato il linguaggio della
magia perché diceva che era il più grande dei
doni che la natura poteva darmi e
quindi un po’ l’ho imparato così e un
po’ sono andato ad istinto, senza pensarci
troppo”.
“E cosa ti interessava di
quel libro, se mi è lecito
saperlo?” domandò Urihel, fremendo con le ali.
“Volevo sapere di chi ero
figlio”.
“Un’evocazione?
Richiede un’enorme quantità di magia!”
esclamò il Kaos.
Kevihang non rispose. Non voleva
mentire e preferiva, se
poteva, girar attorno alla verità.
“Solo quello volevi da quel
libro, giovane orfano?” parlò
Vereheveil, in tono comprensivo.
“Sì, lo giuro.
Non ho idea di che altro contenga quel libro.
Io volevo solo mettere in atto l’evocazione riportata sotto
il nome di
"linea di sangue". Poi ero pronto a restituirlo ed affrontare le
conseguenze, qualunque queste fossero state”.
“Sei un ragazzo coraggioso
e le tue intenzioni erano buone,
voglio crederti. Non ho intenzione di chiedere una tua condanna,
essendo io il
soggetto più danneggiato da questa storia, ma pretendo di
riavere il mio libro,
adesso!”.
“Io non l’ho
più, Signore. Vorrei tanto restituirlo, ma
qualcuno me lo ha sottratto. Perché dovrei mentirvi? Non ho
interesse a tenerlo
con me…”.
Vereheveil non era convinto. Si
vedeva quanto tenesse a quel
libro.
“Come sei venuto a
conoscenza dell’esistenza di quel libro?”
si informò il Sole.
“Fin da bambino, mi
è sempre stato detto che nella
biblioteca di Vereheveil, nel palazzo del Principe Mihael,
c’era la risposta ad
ogni domanda. Non avevo in mente un libro in particolare ma sapevo che
avrei
trovato il modo di scoprire di chi ero figlio, l’unico grande
desiderio che ho
sempre avuto e che volevo realizzare”.
“Capisco…e come
sei entrato nel palazzo del Principe?”.
“Come tutti. Camminando. Ho
aperto la porta e ci sono
entrato”.
“Da solo?” si
stupì il Kaos.
“Sì, nella
biblioteca sono entrato da solo”.
“Nessuno ha provato a
fermarti?” continuò la Dea del Kaos,
sempre più stupita.
“Nessuno. Erano tutti
troppo impegnati a giocare, dormire,
bere o a far altro di cui preferirei non scendere nel dettaglio. Io
sono
entrato…non è colpa mia se le guardie di Mihael
non valgono un cazzo! Può
mettere due spaventapasseri all’ingresso che fa lo stesso
effetto!”.
Mihael, ancora immerso nella lettura,
non fece obbiezioni ma
Kavahel lo scosse, riportandolo alla realtà bruscamente.
“Puoi
confermarlo?” gli disse.
Il Principe non rispose, ancora non
del tutto concentrato
sulla realtà.
“Allora?! Mi
rispondi?”.
Ancora nessuna reazione se non il
movimento involontario di
un piede per una mosca fastidiosa.
“Vuoi anche solo vagamente
calcolarmi, coglione?!” sbottò
Kavahel, che non sopportava la mancanza di serietà, specie
in occasioni così
solenni ed importanti.
“Eh?!” si scosse
Mihael.
“Puoi
confermarlo?”.
“Cosa?”
domandò il Demone, appena tornato dal mondo
immaginario del libro.
“Che lui è
entrato nel tuo palazzo da solo”.
“Lui chi?”.
“L’imputato,
demente!”.
“Aah! E usa un soggetto,
no? Lui può essere chiunque! Ad
ogni modo…come sia entrato non lo so ma poi, assieme a lui,
c’era uno strano
uomo lucetta”.
“Cosa diamine è
un uomo lucetta?” chiese la Vita, storcendo
il naso confusa.
“Un uomo lucetta
è un uomo lucetta! Era un uomo ma senza un
corpo fisico, solo i contorni luccicosi e volava a mezz’aria
senza che io
potessi colpirlo con la spada”.
“Cosa ti eri
fumato?” sibilò Kavahel, mentre il Sole
lanciava un’occhiataccia in mezzo agli spettatori con un
profondo sospiro.
“Cosa si era fumato il tuo
stilista prima di conciarti così!”
ribatté Mihael, convinto, e Kavahel lo guardò
male, accusandolo di essere solo
un misero Demone impudente fra gli Dèi.
Il Principe non rispose alla
provocazione. Era immobile e
guardava verso Kevihang, che girava le orecchie preoccupato senza
capire quello
sguardo folle e un po’ maniaco.
“Fratello!” disse
il Demone.
“Io?!” si
allarmò Kevihang, ma il Demone guardava altrove,
alla sua sinistra.
“Miky…”
sorrise Luciherus “Forse vede in te le somiglianze
che hai con me, ragazzo mio”.
“No! Io vedo te!”
sbottò, inaspettatamente, Mihael.
“Me? Ma tu…mi
vedi?” domandò l’antico Dio della Forza
e del
Coraggio.
“Certo! Perché
non dovrei vederti? Fratello mio!”.
Nel frattempo, gli altri presenti,
non potendo vedere altro
che Mihael che parlava da solo, si lanciavano sguardi interrogativi ed
alzate
di spalle.
“Lo sapevo che non eri
morto! Ah! Sei tornato! Mio antico
rivale! Adesso sì che tornerò a
divertirmi!” parlò il Principe, con entusiasmo,
sfoderando la spada.
L’Alto fece segno alle
guardie di fermarlo. Mihael era saltato
sul tavolo rialzato dietro al quale era stato seduto fino a quel
momento e
rideva isterico.
“Avete visto?! Avevo
ragione!!!! Luciherus è tornato!!!”.
Sempre più sguardi
interrogativi e gesti con le mani che
stavano ad indicare:“Ormai è andato. È
completamente pazzo, poverino”.
Il Demone saltò, agitando
la coda, ad un palmo da Kevihang,
che alzò le mani d’istinto ritrovandosi la spada
praticamente sul collo. Il
Demone pareva che nemmeno facesse caso alla sua presenza, impegnato
com’era a
fissare Luciherus con un sorriso colmo di soddisfazione e pura follia.
“Allora, fratellino, come
butta?” domandò il Dio passato.
“Non mi lamento.
Però mi annoio da morire. Per fortuna ci
sei tu, adesso!”.
“Come và il
regno?”.
“Bene. Più o
meno. Ma non c’è mai niente da fare…che
barba!
Non sai quanto sia felice di rivederti, fratellino
trasgressore”.
“Non più di
me…”.
“Ti sono
mancato?”.
“Da morire”
sghignazzò Luciherus, pensando che, in fondo,
non mentiva nel dire questo.
“Ma con chi
parla?” si chiese la Dea del Kaos.
La Dea della Morte non
parlò. Poteva vedere i suoi genitori
e, sapendoli morti, aveva capito che il ragazzo aveva portato a termine
l’evocazione. In quel caso aveva davanti a sé suo
fratello, amante per una
notte, e non voleva farlo condannare dicendo la verità.
Preferì rimanere in
silenzio.
“Combatti!”
sibilò Mihael, rivolto a Luciherus che gli
sorrise.
“Mi piacerebbe, Mikino
bello, ma sono un po’…come
dire…incatenato”.
Gli mostrò la catena
azzurra che lo teneva legato al figlio
ed il Demone storse il naso.
“Per così poco?
Basterà tagliare la fonte
dell’incatenamento”.
Dopo aver detto questo, si era
già messo nella posizione per
sferrare un colpo di lama alla mano di Kevihang che, capendo le
intenzioni
dello zio, protestò e tentò di spostare la mano,
che però era legata dalle
manette che lo immobilizzavano davanti ai giudici. Chiuse gli occhi,
pronto a
vedere il suo arto sul pavimento, quando sentì Mihael
ringhiare. La sua spada
era stata bloccata da un individuo incappucciato, che la teneva ferma
con
entrambe le mani. Il Principe, infuriato per essere stato interrotto,
lanciò un
grido e mosse in avanti la spada, scaraventando
l’incappucciato sul pavimento
dopo mezzo giro in aria.
“Dovrei ucciderti subito
per aver interrotto il grande,
meraviglioso, invincibile e perfetto
Mihael…anzi…credo che sarà quello che
farò
adesso! Saluta la mammina…”.
Fece per infilzarlo come uno spiedino
ma la figura riuscì,
per un pelo, a schivare il colpo ed a rimettersi in piedi. Il Demone
spalancò
le ali per incutere più timore.
“Chi sei? E come osi
bloccare la mano del più grande dei
guerrieri?”.
“Usa la tua
immaginazione…” fu la risposta.
Kevihang sorrise. Aveva riconosciuto
quella voce ed era
felice di sentirla. Mihael si accigliò ulteriormente ed
iniziò e menar fendenti
un po’ a casaccio. L’attaccato schivava come poteva
ma non era affatto facile
evitare la tecnica di Mihael, specie se non aveva una tattica ma una
furia
omicida momentanea che lo faceva ridere come un pazzo e colpire a caso.
“Miky! Calmati!”
ridacchiò Luciherus.
Ma il Principe non lo ascoltava. Era
troppo occupato a
tentare di affettare l’intruso incappucciato. Svolazzava di
qua e di là,
appendendosi perfino al lampadario per fare più scena,
mentre l’incappucciato
non sapeva bene dove andare per schivare quel pazzo furioso.
“Io sono
Mihael!!” urlava il Demone, appeso per la coda ad
un lampadario e non badando alle fiamme delle candele che gli
bruciacchiavano i
vestiti.
L’importante, per lui, era
che i capelli non venissero
sfiorati dal fuoco. Oscillava a destra ed a sinistra e poi
saltò, finendo sul
tavolo di fronte a Urihel, che sobbalzò, e puntò
di nuovo la spada verso
l’incappucciato. Sempre con un sorriso maligno e folle,
leccandosi le labbra
per la felicità di poterlo uccidere, sghignazzò e
lo minacciò, agitando la coda
soddisfatto. Urihel, ripresosi, si alzò e lo
afferrò per le gambe, tentando di
immobilizzarlo. Mihael, d’istinto, tentò di
prendere il volo ma il Dio del
Cielo resistette ed iniziò a sbattere le ali per fermarlo,
con un intenso
svolazzare di piume azzurre ed il rumore sordo delle ali da pipistrello
del
Demone.
“Fermati, piccolo
pazzo!” gli urlò il Dio, mentre Mihael si
dibatteva come un pesce all’amo.
“Sembra un bruco con i
piedi infilati nella crisalide…”
ridacchiò Luciherus.
“Io sono il grande Mihael!!
Non osare definirmi piccolo!”.
Finalmente, le guardie
dell’Alto Krì fecero il loro ingresso
e riuscirono, se pur a fatica, ad immobilizzare il Principe, che
continuava a
dimenarsi ed ad affermare la sua supremazia e grandezza con parole e
frasi di
lode.
“Portatelo fuori”
ordinò Krì “Credo sia evidente che
è
matto. Sedatelo o picchiatelo, se necessario, e fatelo stare calmo!
Facciamo
una pausa. Riprendiamo fra mezz’ora”.
“NO!”
urlò il Demone “LASCIATEMI! Io sono il grande
Mihael!
Toglietemi le mani di dosso!”.
Mentre veniva trascinato fuori, fra
calci e bestemmie del
catturato, il Principe passò accanto
all’incappucciato e ne vide il viso. Si
dibatté con ancora più convinzione.
“È lui!
È l’uomo lucetta! Prendetelo! Maledetto! Un giorno
ti avrò davanti ed allora saranno guai! Hai osato sfidare il
grande ed
invincibile Mihael, dannato uomo lucetta!”.
E con queste parole, che la maggior
parte dei presenti
percepì solo come un evidente caso di schizofrenia avanzata,
tutti si presero
una breve pausa e Kevihang venne ricondotto nella stanza bianca dalla
quale era
partito.
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Capitolo 22 *** XXII- pause, proposte e prediche ***
XXII
PAUSE,
PROPOSTE E PREDICHE
I presenti nella sala del processo si
sparpagliarono. La
maggior parte di loro si recò nella saletta adiacente dove
era stato allestito
un piccolo rinfresco. Lì avevano modo di scambiarsi le prime
opinioni fra uno
spuntino ed un bicchiere di una qualsiasi cosa alcolica. Alcuni di loro
preferirono, invece, trascorrere la pausa nel cortile interno. Quel
palazzo,
una volta l’antico palazzo di Madre Momoia, era sempre stato
utilizzato come
una sorta di tribunale supremo, in cui ci si riuniva in casi
considerati di
massima importanza o particolarmente gravi che andavano discussi. Una
volta,
tanto e tanto tempo prima, in una di quelle stanze si era deciso di
dare ad un
giovanissimo Kasday il ruolo di Dio dell’Equilibrio, dopo la
sua esistenza
mortale. Certo, a quel tempo c’erano solo gli Alti a prendere
le decisioni,
ricordò con nostalgia Krì. L’Alto non
era interessato al cibo o all’alcol.
Camminava avvolto in un’ampia veste, che ne ingrandiva le
dimensioni, lungo il
corridoio. Ricordava
con nostalgia i
giorni in cui non era da solo. Non sentiva di certo la mancanza di
Momoia ma
del periodo a lei successivo, quando aveva la sua amata Berkana accanto
a sé ed
era circondato dai suoi piccoli, di cui era rimasto solo Kuetzalikay.
Guardò
verso il cielo, attraverso una finestra con una grata piena di riccioli
e
decori. Si chiedeva se ci fosse davvero qualcuno al di sopra di lui,
come gli
aveva sempre detto Kasday quando era in vita. Ci sarà sempre
qualcuno sopra di
te.
La sua autorità ed il suo
potere andavano scemando e lui lo
sapeva bene. Fortunatamente non aveva grossi problemi con gli
Dèi suoi
sottoposti e questo faceva sì che la sua autorità
non venisse messa in
discussione, se non da qualche testa calda ogni tanto. Fra
l’elenco di queste
teste calde, sapeva che rientrava anche il suo unico figlio che proprio
in quel
momento stava venendo verso di lui. Lo guardò con
rimprovero. Non voleva che
fosse presente a quella riunione, ma il suo erede aveva disobbedito
come sempre
ed ora era lì, di fronte a lui, che gli sorrideva.
Krì sorrise a sua volta ed
assieme si incamminarono lungo il corridoio buio ed antico, illuminato
solo
dalle candele, seguiti da Kiaritanya.
“Non so se definirti un
pazzo o uno stupido” disse la Luna,
con le mani dietro la schiena e lo sguardo di chi, ormai, si
è rassegnato a non
tentare di cambiare le cose.
“Fai un po’ ed un
po’, così sei contenta” gli rispose
l’incappucciato, bevendo un sorso d’acqua dalla
piccola sorgente che zampillava
da una roccia dell’immenso cortile interno.
“Non è
divertente!”.
“Sì che lo
è!”.
“Rik!”.
“Dimmi, Selene?”.
“Cosa sarebbe successo se
Krì avesse capito chi sei?”.
“Solo un idiota non era in
grado di capire chi sono…non è
colpa mia!”.
“Colpa tua, di sicuro, lo
è, invece!”.
“Oh, avanti! Smettila di
sgridarmi…”.
La Luna respirò a fondo,
sospirando, e lo guardò con
apprensione e preoccupazione.
“Non sei ferito,
vero?” domandò dolcemente.
“Solo qualche graffio.
Niente di grave” rispose il figlio
del Sole, stiracchiandosi come se niente fosse successo.
“Devo parlarti”
gli disse la Luna.
“Ah, sì?
Anch’io…”.
“Bene ma…non
qui! Vieni con me”.
La Dea si era accorta di quanti
sguardi erano rivolti verso
di loro e voleva evitare conseguenze per sé e per suo
fratello, che non poteva
essere lì. Lui si calcò più forte il
cappuccio sulla testa, in modo da coprire
meglio il suo volto, e seguì la Dea lungo una piccola scala
in pietra che si
nascondeva fra le erbe alte ed aromatiche del giardino. Il terreno era
leggermente in salita e lo spazio verde era davvero vasto. Quasi
sicuramente
quello era uno dei pochissimi luoghi ancora verdi e rigogliosi degli
Universi,
probabilmente perché ancora alimentato dalle energie latenti
che sprigionava la
magia versata in quel luogo, dapprincipio campo
d’addestramento per i giovani
Alti.
Rikarathör non resistette
alla tentazione di toccare un
grande fiore dai mille colori, che si chiuse di scatto, inglobandogli
la mano.
Si liberò a fatica.
“È bellissimo
questo posto…” commentò, continuando a
seguire
la Dea che avanzava veloce, facendo finta di niente, scostando qualche
ramo,
lungo quelle ripide scale rovinate dal tempo.
Ad un tratto lasciò il
sentiero ed andò a cercare rifugio
sotto un enorme albero sempreverde che riusciva a celarla da tutti i
presenti
del giardino, che erano rimasti vicino alla porta della sala, e la
faceva
sentire al sicuro.
“Come conosci questo
giardino così bene?” chiese lui.
“Ci sono stata non molto
tempo fa”.
“Per?”.
“Ha importanza?”.
“Se non vuoi
dirmelo…va bene. Ma sarebbe bello se non ci
fossero segreti fra noi”.
“Tutti hanno i proprio
segreti. Noi non facciamo eccezione.
Allora…cosa dovevi dirmi?”.
“Prima le
signore”.
La Dea della Luna si sedette, su una
piccola protuberanza
sulla corteccia dell’albero, e strinse le mani fra loro, in
un gesto di nervosismo
e tensione.
“È vero quello
che mi ha detto papà?” chiese, senza guardare
Rikarathör negli occhi “Lui mi ha detto che tu, al
momento dell’arresto di
Kevihang, volevi prenderti la colpa”.
“Non è
esattamente così ma sì, se avessi potuto, mi
sarei preso
io la responsabilità delle azioni di quello scapestrato di
Kevihang”.
“Perché?”.
“Come perché?!
È il mio allievo, è mio compito”.
“Proprio perché
è tuo allievo non dovresti!”.
“Cosa intendi?”.
La Dea alzò lo sguardo ed
incrociò quello del figlio del Sole
che inclinò leggermente la testa.
“Intendo dire che il tuo
compito da maestro è educare, non
proteggere. Un maestro deve essere anche in grado di punire!”.
“Io sono in grado di
punire! Ma Kevihang è ancora un
ragazzo, un ragazzino!”.
“No che non lo
è! Per quanto ancora vorrai trattarlo come un
bambino di quattro o cinque anni? È ora che cresca, che si
prenda la
responsabilità delle sue azioni. Ha commesso uno sbaglio e
deve affrontarne le
conseguenze. Non puoi e non devi farlo per lui”.
“È il mio
fratellino minore. Il mio dovere è proteggerlo”.
“Il tuo compito
è volergli bene ed aiutarlo, ma non puoi
mettere a rischio la tua vita per prenderti colpe che non hai. E non
puoi
nemmeno avvolgerlo per sempre in una bolla dove farlo sentire sempre
protetto.
Ha deciso di lasciare il villaggio, intraprendendo un percorso che gli
avevi
sconsigliato, e deve capire i suoi errori, sulla propria
pelle”.
“Lo so e vedo che
è pentito”.
“No, non lo è.
È ancora spocchioso e sicuro di sé come
sempre, convinto che anche stavolta qualcuno lo aiuterà.
È lodevole che tu
faccia questo per lui ma è ora che cresca e che capisca che
il mondo è pieno di
pericoli dai quali non potrai proteggerlo”.
Rikarathör guardò
altrove, serio ed infastidito da quella
predica non richiesta.
“Per quanto tempo lo
giustificherai ancora, dicendo che è
solo un ragazzino, Rik?”.
“Lui ha chiesto il mio
aiuto”.
“E glielo darai fin dove ti
sarà possibile, ma prenderti tu
la colpa o rischiare di morire per lui non è una soluzione!
So che non lo vuoi
deludere, non vuoi deludere mai nessuno, ma questa è una
situazione a cui tu
non puoi rimediare”.
“Ho cercato di fermarlo
nella biblioteca di Mihael…”.
“Lo so, uomo
lucetta…ma, forse, non con la severità che
meritava. Perché davanti a te è ancora un bambino
il cui reato è mangiare una
fetta di dolce in più! E non è
così…”.
“Sono un pessimo maestro,
è questo che mi stai dicendo?”.
“Certo che no! Come puoi
pensare questo?”.
“Me lo fai
intendere…”.
“Tu sei un ottimo maestro
ed un buon fratello, con alti e
bassi come tutte le creature degli Universi. E sono sicura che sarai
anche un
meraviglioso padre”.
“Padre?! Come ti vengono
certi discorsi?”.
La Luna sorrise, incrociando le gambe
e sorreggendosi la
testa con la mano.
“Non ci pensi mai? Non ti
piacerebbe?” chiese, guardandolo
con occhi sognanti.
Lui non rispose, con uno sguardo che
indicava ben altri
pensieri, molto distanti dall’argomento.
“Io ti ho detto
ciò che dovevo dirti…cioè che devi
crescere
e lasciar crescere quel ragazzo, senza trattarlo come un bimbo per
sempre!”.
“Io mi fido di lui. So che
per te la fiducia è una cosa
difficile a cui credere, anche se non so perché”.
“Ho dato troppo affidamento
e fiducia alle persone, anche se
non meritavano né l’una né
l’altra cosa. Mi aspetto sempre di più rispetto a
ciò che alla fine posso ottenere. Sono difficile da
accontentare”.
“Ma io ti vado
bene?”.
“Certo. Ovviamente a volte
mi fai arrabbiare, ma io sono
lunatica e perciò è
normale…”.
“Allora…mi
sposeresti?”.
La Dea rimase immobile, sconcertata
da quella frase decisamente
inaspettata.
“Era questo ciò
che io dovevo dirti…ma se ritieni di essere
delusa da uno come me, che sono solo un semplice Semidio mentre tu una
grande
Dea, meravigliosa e con millenni alle spalle…”.
“Ma tu…ragioni
prima di parlare? Che razza di proposta è?”.
“Una proposta come
un’altra…”.
“No. Mi stai chiedendo di
restare legata per sempre a te,
per l’eternità…”.
“No! Non per
l’eternità. Solo finché la mia misera
ed
inutile vita mortale giungerà al termine. Immagino che per
te non sia così
gravoso dovermi sopportare per gli anni che mi restano. Ma se per te
è così
impegnativo ed hai già altri progetti per
l’immediato futuro…”.
“Non è questo il
problema…Il problema è, e resta, il tuo
sigillo. Cosa pensi di risolvere, anche se ti dicessi di sì?
E poi…pensi sul
serio quello che mi hai chiesto?”.
“Assolutamente. E
risolverebbe la cosa il fatto che papà
Sole non potrebbe di certo impedirmi di toccare mia
moglie…”.
“Ma chi vuoi che celebri
un’unione come la nostra?”.
“Urihel. Sai che mio
fratello, Loreatehenzi, è suo figlio…e
lui è dalla nostra parte. Gli ho già parlato e,
se dici di sì, lui sarà lieto
di…”.
“Dici davvero?”.
“Sì…”.
“Non mi prendi in
giro?”.
“Non potrei mai! Certo
che…se a te proprio non và…”.
“Non ho mai detto questo!
Ma…non so cosa fare…”.
“Ti prego…dimmi
di sì…”.
La Dea lo guardò, con un
grande sorriso e gli si avvicinò
quando si sentì afferrare il braccio in malo modo e
trascinare indietro.
“Eccoti dov’eri,
Selene!”.
Era il Dio del Sole, insospettito nel
non vedere più né la
figlia né il figlio, che evidentemente aveva sentito ogni
cosa ed era furioso.
Le fiamme sulla sua pelle guizzavano ed aveva le pupille rosse ed
infuocate,
decisamente minacciose.
“È tua sorella!
E ti avevo già avvertito di stare lontano da
lei!”.
“Cosa vuoi che mi interessi
di ciò che mi hai detto…”.
“Zitto, Rik. Non peggiorare
le cose…” sibilò la Luna,
chinando la testa davanti al genitore.
“Avanti, signorinella,
è ora di andare” la trascinò il
padre, noncurante delle proteste dei due figli.
“Ma
papà…non voglio finire a fare figli con
te!” gemette
lei.
“Non sono io che
l’ho deciso” disse il Sole, con aria seria
e sguardo distante.
Portò la figlia lungo la
scalinata, verso l’ingresso della
sala del processo, lanciando un’ultima occhiataccia a
Rikarathör, rimasto
immobile sotto quell’albero.
“L’ho
già spiegato ad entrambi…”
spiegò il padre “…del
perché non possiate frequentarvi. Ed adesso rientriamo. Il
processo sta per
ricominciare. E tu, ragazzo mio, credo faresti meglio a rimanere qui.
Hai già
attirato troppo l’attenzione su di te”.
Padre e figlia scesero rapidamente e
quasi sparirono nel
verde quando la Luna si girò, di scatto, verso il fratello e
gli fece davvero
un meraviglioso sorriso.
“Quando?” gli
urlò, ignorando tutte le raccomandazioni ed i
rimproveri del padre.
Rikarathör sorrise a sua
volta: “Il più presto possibile!”
le urlò di risposta.
Lei gli mandò un bacio e
soffiò, in modo che arrivasse al
volo al figlio del Sole, che mimò di afferrarlo fra le mani
e tenerlo con sé.
Il tutto mentre nell’aria
si poteva sentire un piccolo suono
intermittente, a segnalare che il processo stava per ripartire e che
dovevano
rientrare tutti.
Kevihang sentì la sirena e
rizzò le orecchie, pur rimanendo
accoccolato con la testa sulle ginocchia. Non si sentiva tanto sicuro
come
avrebbe voluto e come si era sentito all’inizio di tutta
questa storia. Voleva
risolvere tutto e restituire quello stupido libro, ma non aveva idea di
dove
fosse. Nonostante tutto non era pentito di ciò che aveva
fatto. Se avesse
potuto tornare indietro avrebbe rifatto esattamente le stesse cose,
tranne
forse riporre il libro in quel luogo poco sicuro. Guardò i
suoi genitori, che
si tenevano abbracciati senza parlare, quasi assopiti e con la testa
persa in
pensieri lontani. Il ragazzo capì che avrebbe dovuto
difendersi da solo e
dimostrare che non aveva commesso errori. Così facendo
avrebbe risolto tutto e
magari avrebbe trovato il modo di riportare i suoi genitori indietro.
Vedeva la
loro luce affievolirsi ma non voleva farglielo notare. Se avessero
saputo di essere
in pericolo, aveva sentito dire da qualche parte che le essenze hanno
un tempo
prestabilito d’autonomia nel mondo reale, avrebbero reagito
in chissà che modo…
La porta si aprì ed
apparve di nuovo Kiaritanya, che gli
sorrise.
“Sei pronto? Si
riparte…” gli disse.
Kevihang annuì e scosse
leggermente le catene che lo
legavano ai genitori.
“È ora di
andare” annunciò, alzandosi e Luciherus si
stiracchiò pigramente.
“Finalmente! Mi stavo
annoiando! E speriamo che ci sia Miky
là fuori così mi faccio quattro risate in
allegria e passo il tempo. Che barba
se no!”.
“Scusami
tanto…” sibilò Kevihang.
“Per cosa?”
rispose Kiaritanya.
“Niente…ho altri
pensieri in testa…”.
“Ah…beato
te…” gli sorrise Kiaritanya e gli fece segno di
avviarsi lungo il corridoio.
Il ragazzo sospirò e
seguì la Messaggera, scortato come
sempre dalle guardie armate, con le catene che tintinnavano e
grattavano il
pavimento facendolo rabbrividire. Alla vista del portone
d’ingresso strinse i
pugni, mentre Kasday e Luciherus gli sfioravano le spalle, come a
volergli
trasmettere che loro c’erano e non se ne sarebbero andati.
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Capitolo 23 *** XXIII- testimone ***
XXIII
TESTIMONE
Krì diede ordine di fare
silenzio e di mettersi a sedere.
Kevihang era già stato messo al proprio posto, legato e
circondato dalle
guardie, ed i giurati erano rientrati. Mihael si udiva soltanto,
“da dietro le
quinte” sussurrò qualcuno, mentre minacciava tutto
il mondo sbraitando frasi di
auto-celebrazione. Luciherus sorrise sentendo la sua voce da folle.
Qualcuno
ridacchiò o commentò.
“Silenzio!”
ordinò Kavahel, battendo le ali in modo tale da
emettere un suono simile a quello di un tuono, profondo e ridondante.
Tutti si ammutolirono e
più di qualcuno si sforzò per non
starnutire o farsi scappare un colpo di tosse involontario.
“Bene. Siamo pronti a
procedere, dopo questa piccola pausa.
Dopo aver appurato che sei stato aiutato da un fantomatico uomo
lucetta, la cui
esistenza credo dubbia, vorremmo approfondire ciò che
è successo esattamente. A
questo proposito, vorrei che Heket, la Dea della Vita, e Luciheday, la
Dea
della Morte, portassero alle orecchie di tutti i presenti le loro
testimonianze”.
Il Dio dell’Equilibrio
sapeva che, pronunciandone i veri
nomi, le costringeva a sottostare ai suoi comandi, ed infatti, le due
Dee si
alzarono e fecero un piccolo cenno con la testa.
“Credo che, per
anzianità e rapporti parentali, tocchi a
Morte partire, per poi lasciare la parola alla figlia Vita, salvo
interruzioni
che l’un l’altra vi vorrete fare. Luciheday, mia
cara, vuoi esporre e
raccontare l’incontro che hai avuto con questo giovanotto?
Ricorda che non puoi
mentire”.
Luciheday, in evidente imbarazzo,
rifletté un attimo su cosa
dire e poi iniziò a raccontare. Narrò di come lo
aveva trovato fra le rocce,
solo, senza però scendere nei dettagli.
“Perché eri
lì?” domandò la Dea del Kaos.
“Credevo fosse venuta la
sua ora, ma mi ero sbagliata”.
“Non doveva
morire?” chiese Kavahel al Destino, che confermò
l’informazione.
“Era da solo quando lo hai
incontrato?” continuò
l’Equilibrio rivolgendosi di nuovo a Luciheday.
“Sì.
Confermo!”.
“E come avrebbe potuto
sopravvivere da solo? In quel luogo,
pieno di predatori e bestie feroci, freddo ed inospitale, estremamente
pericoloso ed ostile, è molto difficile riuscire a
trascorrere incolumi anche
solo una notte!” sentenziò Kavahel, mentre
Kevihang lo trovava sempre più
irritante.
“Questo non lo posso
sapere” rispose la Morte “Quando l’ho
trovato era solo”.
“Aveva il libro con
sé?”.
“No. Nessun libro. Ne sono
sicura”.
“Quindi il furto
è avvenuto dopo. Ti aveva esposto la sua
idea, per caso?”.
“Mi aveva detto di voler
ritrovare i suoi genitori”.
“Quindi tu
sapevi…”.
“Un momento, fratellino!
Sei qui per giudicare me o quel
ragazzetto? Perché, se cerchi rogne, hai proprio scelto la
persona giusta da
stuzzicare!”.
Kavahel non le rispose e la
fissò, con lo sguardo di chi non
voleva essere messo in discussione.
“Per quanto tempo siete
rimasta accanto all’imputato, Madama
Morte?” domandò poi, con calma.
“Un po’. Non
ricordo quanto esattamente”.
“E perché? Una
volta appurato che non era giunto il momento
per il ragazzo di morire, avresti dovuto andartene e lasciarlo
lì. Che hai
fatto?”.
La Dea girò gli occhi
verso l’alto ed incrociò le braccia,
sospirando. Non voleva di certo parlare di ciò che aveva
fatto!
“Non sono affari che alla
corte interessano” affermò,
infatti, sibilando.
“Avete forse cospirato con
lui? Siete una complice?” chiese
Urihel.
“No! Certo che
no!”.
“E allora che avete fatto
assieme?” domandò ancora Kavahel.
“Quello che tu non fai mai,
androgino!” sbottò la Morte.
Kavahel rimase per qualche istante in
silenzio, non
aspettandosi evidentemente quella risposta.
“Con un mortale? Lo sapete
tutti che è proibito!” tuonò
Krì,
facendo sobbalzare i presenti.
“Sì, lo
so” rispose Luciheday, girando la testa “Ma
è
l’unico reato che ho commesso. Ed è di certo un
reato minore rispetto alla
cospirazione ed al furto di libri sacri”.
“Qualcuno può
confermare che lei effettivamente
stava…hem…svolgendo
quell’attività e non divenendo complice del
ladro?” domandò
l’Equilibrio, iniziando all’improvviso a darle del
Lei.
“Mia figlia
Heket”.
Tutti si girarono verso la Dea della
Vita, che arrossì.
“Parli, Dea della
Vita” la incitò Kavahel.
“Beh…non volevo
parlare di questo ma…sì, è vero. Posso
confermarlo. Diciamo che…ecco…li ho colti
praticamente sul fatto. E lui è un
vero svergognato!”.
Luciherus ridacchiò a
quelle parole ed anche Kevihang,
ricordando quel giorno.
“Si spieghi”
continuò l’Equilibrio mentre la Morte
sentenziava che non era necessario scendere nei dettagli e che non
erano affari
suoi né di nessun’altro.
“Quell’essere…”
mormorò la Vita, indicando l’imputato
“…non
ha senso della decenza! Si copriva a malapena con quelle ali inutili e
si
avvicinava. Ho avuto paura che volesse…”.
La Dea si fermò e
chinò il capo.
“Non è
vero!” disse Kevihang e subito fu zittito da Krì.
“Non è questo il
momento per te di parlare, mortale. Proseguite,
Heket” ordinò l’Alto.
“Lui aveva sconfitto mia
madre, in modo da restare in vita
lungo il suo tragitto. Io ho tentato di rimproverarla per il suo gesto
e
lui…lui mi ha chiesto se ero gelosa e se volevo essere
sconfitta anch’io. Ha
detto che sarebbe stato più che lieto di farlo”.
“Neghi di averlo
detto?” parlò Kavahel, rivolto a Kevihang.
“No, non posso negarlo.
Ma…”.
“Che sia messo a verbale e
che anche questo rientri fra i
capi d’accusa”.
“Ma non è
giusto!” si intromise la Morte “Non voleva fare
niente di male! Scherzava!”.
“Non mi sembra proprio che
stesse scherzando! E poi ha
ucciso uno dei miei alberi quando era piccolo!” rispose la
Vita e Krì alzò un
braccio, facendo segno a tutti di abbassare il tono della voce, che si
stava
alzando gradatamente.
“Lei, Dea della Vita,
conferma che l’imputato al momento del
vostro allontanamento era solo e senza libro?”
parlò l’Alto e la Vita annuì.
“Quindi il tuo complice
è arrivato in un secondo momento…”
continuò Krì.
“Quale complice? Non era
stato stabilito che Mihael è pazzo
e che quindi il suo fantomatico uomo lucetta non esiste? Non ha
complici!” fece
notare il Dio del Sole.
“Lo dici per tuo interesse,
caro mio subordinato” lo zittì
l’Alto “Da fonti certe mi è stato
riferito che una persona a te vicina potrebbe
sapere come in realtà sono andate le cose. E vorrei
chiamarla qui”.
Il Sole lanciò
un’occhiata bruciante alle guardie che,
evidentemente, avevano spifferato.
“Non guardate in questo
modo le guardie, fanno solo il loro
lavoro e, ad ogni modo, non sono loro la mia fonte di informazione.
Vorrei che
venisse a testimoniare qui, davanti a questa corte, Selene, la Dea della Luna. Dea dei
Satelliti, alzati e
vieni al mio ed al nostro cospetto”.
Il Sole ebbe un sussulto nel sentire
il nome della figlia,
come molti altri nella sala. Non potevano credere che anche la Luna
fosse
coinvolta. La Dea esitò, guardò verso il padre e
verso il fratello, alzandosi,
e poi iniziò a portarsi verso il punto indicato
dall’Alto, con Kevihang alle
spalle ed il viso rivolto verso giudici e giurati. Guardò
negli occhi Krì, cosa
che facevano in pochi, e poi si inchinò leggermente, senza
sorridere.
“Selene, Dea della Luna,
sei stata chiamata a testimoniare.
Ti ricordo che non puoi mentire e che è tuo preciso compito
esporre a noi tutti
la verità” disse Kavahel e la Dea fece un piccolo
cenno con il capo, in attesa
di sentirsi fare delle domande.
“Tu hai già
visto questo ragazzo, vero?” iniziò Krì.
“Sì, Signore.
L’ho già visto” ammise lei.
“Ovviamente fuori da questa
sede. Puoi raccontare a noi
tutti il vostro incontro?”.
“Lui brilla ed io
l’ho visto dall’alto. Mi sono incuriosita
e mi sono avvicinata. Dopo un po’ me ne sono andata. Non mi
sembrava avesse
cattive intenzioni”.
“Era da solo?”.
La Luna non parlò,
guardò suo padre con aria di supplica.
“Era da solo?”
ripeté Kavahel.
“Rispondi!”
sbottò l’Alto.
“No, non era da
solo”.
“Chi c’era con
lui?”.
“Una creatura
insignificante, Signore” sussurrò lei.
“Insignificante per chi?
Non per te, Luna, dato cosa mi
trasmette il tuo sguardo”.
“Un amico
d’infanzia del ragazzo. Stava cercando di
convincerlo a riportare il libro al giusto posto. E lo stava
rimproverando per
l’errore commesso”.
“Poteva essere suo
complice?”.
“Dipende da cosa intende
Lei per complice…”.
“A conoscenza dei fatti e
suo aiutante”.
“A conoscenza dei fatti
immagino di sì…ma non era di certo
in grado di aiutarlo con il libro, i sigilli e tutto il resto. Non
è un Dio”.
“Puoi dirmi se è
ora in questa sala?”.
La Dea alzò lo sguardo di
scatto, spaventata. Guardò di
nuovo suo padre, che scosse il capo.
“Non mentire, figlia
mia” le mormorò, mentre la Dea annuiva
all’Alto.
“Indicalo. Che venga
qui”.
“Non voglio”.
“Perché?”.
“Perché lo
fareste giustiziare”.
“Questo è tutto
da stabilire. Dimmi chi è”.
“NO!”.
“Dimmelo o sarai tu quella
che verrà giustiziata!!”.
Il Dio del Sole si alzò in
piedi, in apprensione per la
figlia.
“Non può farla
giustiziare! È la mia bambina!”
supplicò.
“Posso e lo farò
se non saprò la verità! Sono stufo di
storie lasciate a metà e divinità che si coprono
a vicenda nei loro errori! È
ora di finirla! Parla, Dea, o ti metterò a tacere per
sempre!”.
“Non ti dirò mai
chi è! Fammi pure ciò che vuoi, Alto!”.
“Bene! Guardie! Fatela
parlare!” sbraitò Krì, che si sentiva
punto nell’orgoglio e nell’autorità
dalla testardaggine di quella donna.
“Non la toccate!”
urlò il Sole, e tutti si girarono verso di
lui e verso un’altra persona.
Non era stato solo lui a pronunciare
quelle parole.
Rikarathör si era alzato in piedi. Con il cappuccio calcato
sulla testa per
celare il proprio viso, era fermo immobile mentre tutti i presenti lo
guardavano con curiosità e sospetto.
“Bene,
bene…l’uomo lucetta, come ti ha chiamato Mihael.
L’eroica creatura misteriosa che ha bloccato il colpo che
avrebbe tranciato di
netto le mani dell’imputato! Tanta lealtà mi
avrebbe dovuto subito
insospettire! Vieni qui, ora!”.
Il figlio del Sole obbedì.
Avanzò a passi sicuri verso
l’Alto, mentre la Luna era corsa appresso il padre cercando
sostegno. Kevihang
lo guardò preoccupato ma non parlò, come gli
aveva ordinato l’Alto, sperando
nell’aiuto di qualcuno.
“Togliti quel
cappuccio” ordinò l’Alto, non appena
Rikarathör
fu giunto nel punto prestabilito, dove prima stava la Luna “E
parla. Chi sei?
Da dove vieni?”.
L’incappucciato
esitò. Era a conoscenza dell’odio che
Krì
provava per i sanguemisto come lui e sapeva anche che non doveva essere
presente in quella sala. Ma non poteva permettere che alla Luna
capitasse
qualcosa di male per colpa sua, anche se farsi riconoscere
dall’Alto
significava una condanna praticamente certa! Sospirò e tolse
il cappuccio,
lanciando una chiara occhiata di sfida a Krì. I presenti
ammutolirono, prima di
iniziare un gran vociare di fondo, pieno di commenti e domande,
riconoscendolo
come sanguemisto. La piccola fiamma che aveva sulla guancia, infatti,
non lasciava spazio
ai dubbi. Si capiva subito di
chi era figlio. Per non parlare della sua pelle che brillava e quello
sguardo,
così luminoso, deciso ed ottimista, da poter essere
collegato solo al Sole.
“Mi chiamo
Rikarathör e vengo da un luogo che so che Voi
poco apprezzate, vostra Altezza”.
“Altezza non è
il termine più appropriato…”
iniziò Krì.
“Va bene, Vostra
Altitudine!”.
L’Alto rimase sconcertato
da quelle parole: “Sai a chi ti
stai rivolgendo, meticcio?”.
“Lo so bene.
All’Alto Ansuz, detto Krì, che odia le creature
come me e che ha già stabilito la mia sorte non appena mi ha
visto ed ha capito
chi sono”.
“Su questo hai ragione. Ma
prima di pronunciare la tua
condanna, vorrei sentire la tua testimonianza. Parla: è vero
che hai aiutato questo
giovane?”.
“Sì, certo. Non
posso certo negarlo”.
“E come mai Mihael ti ha
dato il nome di uomo lucetta?”.
“Cosa passa per la testa a
quel pipistrello malriuscito poco
mi importa”.
Luciherus ridacchiò. Era
sempre felice di sentir insultare
il fratello.
“Dunque ammetti di averlo
aiutato. Come mai?” domandò
Kavahel.
“Avete dei fratelli,
Equilibrio? So per certo che ne avete.
Il Kaos ed il Destino, per iniziare. Quindi conoscete il legame che si
stabilisce, o che si può stabilire, non ne sono certo. Io
farei qualunque cosa
per il mio fratellino, che è adottato e che quindi non ha
rapporti di sangue
con me, ma che ho accettato di accogliere in famiglia ed istruire. Voi
non
fareste lo stesso con i Vostri fratelli?”.
Krì ricordò il
suo gemello e non disse nulla, mentre i
fratelli presenti si guardavano capendo le parole del figlio del Sole.
“Era tuo
allievo…” iniziò l’Alto.
“Era ed è mio
allievo, anche se non so chi glielo abbia
detto. Ero un maestro molto giovane quando è arrivato, e
forse questa è la
causa di molti dei suoi comportamenti, ma l’ho sempre seguito
come avrei dovuto
o, perlomeno, così credo”.
“Non gli avete fatto fare
la prova per stabilire di che
grado fosse…” affermò il Destino.
“Noi non facciamo test del
genere. Perché dividere i bambini
in gruppi e categorie? Perché stabilire chi è il
più forte? Per quale motivo?”.
“Per stabilire il modo
più corretto di insegnargli le arti
magiche”.
“Credo che non ci siano
obbiezioni da fare sul mio metodo
d’insegnamento, essendo le sue capacità aumentate
al punto da fare invidia a
molti dei presenti”.
“In
effetti…è stato in grado di infrangere il mio
sigillo…”
borbottò Vereheveil.
“Ammetti di averlo aiutato.
Per puro e semplice legame
fraterno?” volle sapere Kavahel.
“Gli avevo promesso che lo
avrei aiutato a ritrovare i suoi
genitori o, perlomeno, a capire chi fossero. Mi spiace che lui abbia
considerato un metodo così…come
dire…poco consono”.
L’Alto continuava a
guardare la Luna, preoccupata e con
occhi solo per il fratello.
“Anche il vostro legame
fraterno deve essere molto forte,
Selene…” affermò, non nascondendo una
certa malizia nel tono della voce.
“Sì”
ammise la Luna, girando il viso verso il padre che le
era andato accanto.
“Gli vuoi bene?”.
“Sì,
Signore”.
“Fino a che
punto?”.
“Questa domanda non
è pertinente con il processo!” affermò
il Dio del Sole, stringendo a sé la figlia con convinzione
ed affetto.
“Prenditela con me, gigante
blu!” parlò Rikarathör.
“Tu tendi sempre a dire
cose sbagliate nel momento meno
opportuno” lo sgridò il padre.
“Quel cristallo! Lo hai
rubato!” tuonò la Dea del Kaos,
notando la pietra che il figlio del Sole aveva, involontariamente,
preso fra le
mani.
“Se lo rivolete indietro,
sono pronto a renderglielo,
Signora” propose Rikarathör.
“Non lo voglio, se toccata
da un incrocio come te!”.
“Hei, bella! Tu sei nata da
un uovo e da un Dio
dall’identità sessuale incerta con un androgino!
Non dare a me dell’incrocio!”.
La Dea del Kaos lo guardò
con odio e la Morte ridacchiò.
Luciherus, invece, si stava sbellicando dalle risate sotto lo sguardo
accusatore di Kasday, che tentava di fargli tornare un certo contegno.
“Che futuro vedi per questo
giovanotto sfrontato?” sibilò il
Kaos, rivolta al fratello Destino.
“Lo sai che io non posso
vedere il futuro delle persone, se
non in rari casi. Sono solo un archivista, a cui non è
lecito sapere troppo. E
poi dovrei avere il suo fiore fra le mani, cosa che non ho”.
“Dimmi qual è
che lo estirpo dalla radice! Ladro e
strafottente. Creatura immonda!”.
Rikarathör non rispose alla
Dea. Sapeva bene che l’Alto
aveva già stabilito una sentenza di morte per lui, dato che
non doveva essere
presente in quel luogo e dato che aveva sempre tentato in ogni modo di
porre
fine all’esistenza di esseri semidivini.
“Sei colpevole di aver
aiutato questo individuo, di aver
rubato i cristalli della Dea del Kaos, di aver parlato a sproposito e
di essere
presente in questa riunione strettamente riservata a creature di cui tu
di
certo non fai parte e…”.
“Signore! Siate clemente
con lui. È solo un Semidio…male non
può farvi…” supplicò il Sole.
“Fai silenzio tu! La tua
situazione è già abbastanza
complicata!” gli ordinò l’Alto.
Il Dio del Sole guardò il
figlio, mettendo un braccio sulle
spalle della figlia.
“Io pertanto ordino che la
tua vita non vada oltre
all’ultimo errore che hai commesso. Non uscirai da questo
tribunale. Non vedrai
il magnifico tramonto che tuo padre organizzerà stasera sul
tuo Pianeta, né su
nessun’altro. Guardie!”.
“Posso avere
l’onore di avere un ultimo desiderio?”
domandò
Rikarathör.
“Un ultimo desiderio? Hai
infranto tutte le regole possibili
ed immaginabili, sei il frutto stesso di una regola infranta, ma non
posso
impedirtelo perciò parla. Qual è il tuo ultimo
desiderio?”.
“Vorrei potermi esprimere
liberamente davanti a questa
corte, senza impedimenti”.
“Dicci pure ciò
che vuoi. Ti do dieci minuti”.
Il figlio del Sole guardò
per primo il suo allievo e gli
sorrise: “Sei stato davvero un allievo impossibile, ma hai
imparato molto bene
e mi hai reso orgoglioso. Spero solo che il tuo cammino non termini qui
come il
mio, ma possa andare avanti ancora per molto, perché te lo
meriti”.
Kevihang non rispose. Non sapeva cosa
dire.
“Tu…”
ripartì Rikarathör, puntando la Dea del Kaos con il
dito “Ho dovuto schivare e difendermi per tutta la vita dalle
orribili bestiacce
che tu hai creato e che girano per i Pianeti! Non puoi pretendere che
ti chieda
scusa per averti sottratto uno stupido sasso! Per quel che mi riguarda,
puoi
anche mangiartelo se ci tieni tanto!”.
La Dea rimase a bocca aperta e non
contrattaccò, bloccata
dall’Alto.
“Per
giustizia…continuo con te!” parlò il
semidio, indicando
il Destino, che lo guardò con preoccupazione “Tu,
sei il Destino! Non ti
dovresti farti mettere i piedi in testa da individui come questi!
Volendo,
potresti infrangere i loro fiori come se fossero vetro e riscrivere il
loro
futuro, ma ti piace troppo sottostare agli ordini. So che tutto questo
fa parte
del normale Equilibrio del Mondo…” parlando si era
girato verso Kavahel “…ma
questa non è una scusa per sottostare a degli ordini idioti
semplicemente
pensando alla totalità degli Universi. Vi state rovinando la
vita e per cosa?
Per preservare delle vite che non stanno venendo preservate,
perché gli
Universi ed i loro abitanti stanno morendo! Prima di giudicare gli
altri,
forse, dovreste giudicare voi stessi ed il vostro operato. Siete pronti
a dare
la colpa a noi mortali perché non crediamo in voi e vi
indebolite, ma datemi
anche solo una ragione per venerarvi! Tu in particolare, Equilibrio,
fai tanto
il duro e l’autoritario davanti a me, ma io vedo il tuo lato
femminile. So cosa
sei! Sei debole perché reprimi te stesso e ciò
che hai dentro di te. Sei nato
per essere come il tuo genitore Kasday, che esprimeva la sua natura per
metà
femminile creando, danzando. Tu sei nato per essere una creatura
perfetta, né
maschio né femmina ed entrambi allo stesso momento ma,
forse, hai paura di
questo e ti nascondi dietro ad una maschera da severo ed autoritario.
In realtà
sei debole e sperduto”.
Kavahel spalancò gli
occhi, così dorati e tondi da far solo
tenerezza. L’occhio sul sigillo di Rikarathör girava
la sua pupilla da tutte le
parti, inquietando parecchio chi lo guardava.
“Io non ho niente da
dirti” parlò di nuovo, rivolto alla Dea
della Vita “Se non che, essendo Dea della Vita, dovresti
amare ed apprezzare
ogni forma vivente ed ogni manifestazione della sua potenza. Ma,
probabilmente,
più che provare disgusto per un corpo nudo, provi repulsione
per il tuo stesso
ruolo che senti di non svolgere come dovresti”.
Luciherus si leccava le labbra
aspettando il momento in cui
avrebbe insultato Vereheveil, ma il ragazzo si soffermò
prima sul padre Sole.
“Io ti giudicavo in modo
sbagliato fino a poco tempo fa.
Credevo che fossi un’autoritaria testa di cazzo, ma mi sono
dovuto ricredere
perché ho capito cosa significa preoccuparsi davvero per una
persona che si è
cercato per tutta la vita di incanalare sulla retta via mentre, invece,
questa
continua a sbagliare. So di averti deluso e di averti provocato dei
guai e mi
dispiace”.
Avanzò di qualche passo,
andando a pararsi davanti al Dio
delle Lingue e delle Letterature.
“E tutto questo non
può che essere, in parte, anche colpa
tua!” sibilò, mentre Vereheveil lo fissava in modo
decisamente stupito “Sei un
idiota! Come puoi mettere un libro tanto importante in un buco di posto
come il
palazzo di Mihael, dove c’è una sorveglianza del
tutto inutile?! Dei bambini
dell’asilo sarebbero delle guardie più appropriate
rispetto a quelle che ci
sono in quel luogo! Un libro proibito e così sacro,
importante eccetera…dovevi
tenerlo con te o comunque in un luogo inespugnabile! Il mio comodino
accanto al
letto era più adatto rispetto alla biblioteca di
Mihael!”.
“Non è
vero!” protestò il demone, rinchiuso
chissà dove e
percepibile come una voce in lontananza. “Te ne stai
lì a fare il sapientone,
ma in realtà non sai nemmeno da che parte iniziare per
rimediare al primo dei
tuoi errori: l’aver lasciato quel libro da Mihael! E non
importa se ti
giustifichi dicendo che una volta era diverso e simili…la
verità è che, come
con noi mortali, voi Dèi calcolate le cose solo quando vi
danno problemi o
quando ne avete bisogno! Inutile che vi faccia notare che non
è così che
funziona…” terminò il figlio del Sole.
Luciherus applaudì, anche
se si aspettava insulti più
cattivi.
“A me non dici
niente?” domandò Urihel.
“Come potrei? Sei il padre
del mio fratellino Loreatehenzi,
che hai sempre aiutato e sostenuto in tutti i modi. Non potrei mai
trovare il
modo di insultarti, ma potrei ringraziarti. Prenditi cura del mio
fratellino,
ora che non potrò essere io a farlo. E anche tu,
Luna…” aggiunse, girandosi
verso la Dea dei Satelliti “…prenditi cura di
papà e di te stessa”.
“Non mi
rimproveri?” disse lei, sorridendo in modo
decisamente sforzato.
“Io la mia predica
l’ho già ricevuta quest’oggi e volevo
condividerla
ma non potrei mai…”.
“I dieci minuti sono
finiti” esclamò l’Alto.
“Solo una cosa ancora.
Vostra Altitudine, o come diamine
dovrei chiamarVi, Voi siete troppo pomposo e preoccupato di fare una
buona
impressione sugli altri. So che non siete così per davvero.
So che un tempo
eravate molto diverso, l’ho studiato e me lo sento. Forse
dovreste ripensare a
come eravate nel passato e come siete ora. Probabilmente potreste
essere
un’Alta Divinità migliore. Ed ecco,
infine…Madama Morte…mi rimetto al Vostro
giudizio. Colei che lavora sempre com’è giusto ed
ha aiutato il mio fratellino.
Di questo ve ne sono grato. Faccia di me ciò che
deve” affermò Rikarathör,
facendo un piccolo inchino alla Dea della Morte.
L’Alto fece segno alle sue
guardie di portarlo via, mentre
la Dea della Luna si dibatteva fra le braccia del padre per poterlo
salvare.
Nell’aria borbottii che contenevano le parole “Chi
si crede di essere?” ed
altre domande simili. Rikarathör sorrise. Amava le uscite in
grande stile. Le
guardie si avvicinavano a grandi passi e già lo avevano
afferrato per entrambe
le braccia quando sentì uno strano formicolio lungo il corpo
e rabbrividì.
“Chiudi la bocca se vuoi
salvarti” si sentì dire, ma non
capì da dove.
“Resta immobile e fidati di
me. Sono Luciherus, il padre di
Kevihang. Se vuoi rispondermi basta che formuli pensieri ed io li
percepirò, ma
ora sta zitto ed ascoltami. So come salvarti”.
E me lo dici adesso?!
Pensò Rikarathör in modo che
Luciherus potesse capire. Potevi interrompermi prima che
dicessi tutte
quelle cose!
“E perché avrei
dovuto? Mi sono divertito da matti, anche se
saresti potuto essere più cattivo! Inoltre hai aiutato mio
figlio ed il minimo
che possa fare è salvarti, vero Kasday?”.
“Assolutamente!”
rispose un’altra voce nella sua testa.
Ora siete tutti e due qui?
Bene…non per farvi fretta, ma
se volete aiutarmi è meglio che lo facciate adesso,
perché non credo di avere
molto tempo…
“Ho già un
piano” affermò Luciherus, mentre altre due
guardie tenevano fermo il figlio del Sole ed iniziavano a trascinarlo
lungo il
corridoio per portarlo verso la sua ultima meta.
Parla allora.
“Le vedi quelle
finestre?” disse Kasday, e Rikarathör
guardò
in su, sopra la testa dell’Alto.
Sì, le vedo.
“Quelle sono
l’unica uscita diretta. In fondo al corridoio si
và verso la stanza in cui era rinchiuso Kevihang ed il
cortile interno,
attraverso il quale non potesti fuggire tanto facilmente
perché saresti
circondato da mura e guardie. Dalla porta dietro all’Alto si
và verso il salone
in cui giudici e giurati si radunano per decidere la sentenza ed il
verdetto,
collegato ad altri corridoi e stanze, con annesse, ovviamente, guardie
e
servitori. Ma quelle finestre lassù in alto sono rivolte
verso l’esterno e da
lì puoi fuggire. O, perlomeno, provarci!”.
Rikarathör guardò
il punto descritto. Sopra la testa
dell’Alto, le pareti si piegavano leggermente e, dietro alle
tende, si poteva
intravedere la luce entrare dalle ampie finestre. Ma erano davvero in
alto,
molto più in alto delle finestre di una normale stanza.
Come credete che possa
arrivarci lassù?
“Tranquillo! Ti
basterà saltare prima dove sta Kevihang, poi
dov’è Kavahel ed infine prendere una bella spinta
e lanciarti dalla postazione
di Krì” parlò Luciherus, come se fosse
la cosa più normale del mondo.
“Cosa?!”
esclamò il figlio del Sole, dibattendosi per non
essere portato via.
“Tranquillo ti ho detto. Ti
aiuteremo noi. Tu fidati!”.
Rikarathör guardò
di nuovo in su e fece un profondo respiro.
Mi
fido. Non ho niente da perdere dopotutto…
Luciherus e Kasday si presero per
mano e le loro essenze si
fusero con quella del figlio del Sole che sussultò,
avvertendone la forza.
“Ora noi ti aiuteremo, ma
una volta fuori di qui te la
dovrai cavare da solo. Noi non possiamo allontanarci da colui che ci ha
evocato”.
Urihel, vedendo dove puntava lo
sguardo del ragazzo, mosse
leggermente la mano e le tende si scostarono, aiutate
dall’aria che il Dio
aveva spostato.
“Questo fa sì
che tu non possa rischiare di schiantarti
contro il muro…gentile da parte sua!”
commentò Luciherus, mentre l’occhio
sinistro di Rikarathör diveniva aranciato come quello
dell’antico Dio della
Forza e del Coraggio.
Rikarathör, dopo un cenno
dato da Kasday nella sua mente,
chiuse gli occhi e lasciò che le fiamme che aveva sulle sue
braccia si
scaldassero. Così facendo le guardie lo lasciarono subito,
scottandosi, e lui
ne approfittò per saltare sulla piccola balaustra a cui era
legato Kevihang.
Altre guardie entrarono dalla porta, con le armi sguainate. Padre Sole,
notato
il gesto di Urihel, guardò le candele che circondavano la
porta e ne alimentò
le fiamme, in modo da impedire ad altri di entrare. Rikarathör
saltò e si
ritrovò davanti a Kavahel che non si mosse, come a volerlo
lasciar fuggire.
“Fermatelo!”
urlò l’Alto, ma nessuno obbedì, chi
perché
sconvolto e chi perché non voleva intervenire.
Rikarathör saltò
sul bancone di Krì, aiutato dalla forza di
Luciherus. L’ultimo salto, da lì alla finestra,
sapeva che era il più
impegnativo, ma non ci pensò troppo. Sapeva che non doveva
farsi prendere
dall’Alto. Lanciò un grido e saltò
verso la finestra. I secondi più lunghi
della sua vita, in cui gli parve di rimanere sospeso nel vuoto.
Qualcosa lo
colpì alla gamba, forse una freccia, e sentì le
forze mancargli. Le essenze di
Luciherus e Kasday si erano allontanate troppo da Kevihang.
“Non
cadrò!” disse a sé stesso, anche se
già iniziava a
precipitare.
Il Sole ed Urihel si guardarono ed il
Dio del Cielo annuì.
Il Sole sorrise mentre l’Angelo divino guardava verso
Rikarathör e pronunciava
parole magiche con un impercettibile movimento della bocca. Il figlio
del Sole
si sentì sollevare ed ebbe una nuova spinta. Il suo volo
terminò contro la
finestra, che si infranse mentre lui si copriva il viso, e
ritrovò la libertà.
Cadde per qualche metro prima di sentire sotto i piedi le tegole del
tetto che
copriva il corridoio. Saltò di nuovo, aggrappandosi al ramo
di un grosso albero
che cresceva subito a ridosso delle mura del palazzo. Lì
riprese fiato. Era
ferito e ricercato ma era vivo. Avvertì di non essere ancora
al sicuro. Le
guardie si avvicinavano in fretta e se lo avessero preso non sarebbe
servito a
niente l’aiuto ricevuto da Luciherus, Kasday, Urihel, suo
padre e tutti gli
altri.
“Prendetelo!”
urlò l’Alto da dentro il salone.
“Torniamo a noi”
sbottò Krì, rivolto ai presenti “Mio
caro
ragazzo, Kevihang mi pare che ti chiami, io ho già preso la
mia decisione per
quel che mi riguarda. Ed anche per quanto riguarda alcuni individui qui
presenti…” affermò, guardando male il
Sole ed Urihel “Prima di tutto, è ovvio
che devi essere punito. Hai ucciso uno degli alberi di Heket, hai
rubato uno
dei cristalli del Kaos, ti sei intrattenuto con una Dea, ne hai
traumatizzato
un’altra ed, ovviamente, hai rubato il libro proibito. Tutto
questo dovrebbe
essere punito con la morte certa…”.
Mormorii di disapprovazione si
alzarono fra alcuni mentre
fra altri si sentirono apprezzamenti.
“…tuttavia,
piccolo essere, noi tutti rivogliamo quel libro
e tu sai dov’è…”.
“Non è
vero” protestò Kevihang.
“Fai silenzio!
Dicevo…tu sai dov’è e perciò
non posso e non
voglio ucciderti. Per farti confessare, dato che questa è
una cosa di primaria
importanza, ti condanno alla reclusione nelle prigioni del Kaos fino a
quando
la situazione non sarà risolta. Siete
d’accordo?”.
La Dea del Kaos annuì,
entusiasta. Da qualche parte, non si
sa da dove, si sentì Mihael sbraitare che lui non era per
niente della stessa
idea della Dea. Kasday gemette, come chiunque sapesse di cosa si
intendesse per
“prigioni del Kaos”. Kavahel non si espresse.
Vereheveil guardò il ragazzo supplicandolo
di riferire dove il libro si trovasse per evitare inutili conseguenze.
“Mi spiace ma non vedo
alternative, piccolo mortale. Sono
pronto ad ascoltarti in qualunque momento tu voglia porre fine alla tua
prigionia”.
L’Alto poi
guardò il Sole ed Urihel e parlò loro in una
lingua che solo Kasday, e gli Dèi a cui erano rivolte le
parole, era in grado
di capire.
“Tu, Urihel, non avrai
più il permesso di uscire dalla
cupola del mio palazzo. Nessun contatto esterno e nessuna uscita. Mi
spiace, ma
hai disobbedito alle regole ed è così che
reagisco quando succede, e tu lo
sapevi. Per quanto riguarda te, Sole, sarò magnanimo e non
farò nulla a tua
figlia. Tu però dovrai darmi una tangibile prova della tua
fedeltà in cambio,
occupandoti di questo ragazzo. Se non lo farai, mi occuperò
io della tua
bambina”.
Il Sole chinò il capo e
Urihel ringhiò.
“Stupide regole, stupido
Alto, stupido verdetto…” brontolò
Luciherus.
Kevihang venne portato via, con la
Dea del Kaos ed il Sole
alle spalle. Kiaritanya lo guardò e non disse nulla,
attendendo il suo padrone.
“E chi mi porta la testa
del mezzosangue appena fuggito avrà
una notevole ricompensa a suo piacimento. So essere molto
generoso” concluse
Krì, allontanandosi usando la porta alle sue spalle.
E la Luna, rimasta sola, pianse.
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Capitolo 24 *** XXIV- prigionia ***
XXIV
PRIGIONIA
Completamente al buio, senza nessuna
apertura verso
l’esterno, la cella di Kevihang era un luogo stretto ed
umido, decisamente
inospitale e malsano. Incatenato per la caviglia destra e con i polsi
legati,
aveva misere capacità di movimento e restava seduto. Non
poteva spalancare le
ali perché avrebbero occupato tutto lo spazio disponibile e
per fortuna i suoi
genitori, ancora legati a lui, non erano dei corpi fisici ma erano
semplici
essenze e non toglievano prezioso ossigeno. Non aveva un posto dove
poter
dormire se non la nuda pietra. Dopo un’intera giornata
passata in quel luogo,
senza né cibo né acqua e senza vedere nessuno,
avvertì il rumore di passi
svelti e decisi. La porta si aprì, lasciando entrare una
luce accecante, ed
entrò il Dio del Sole, chiudendo la porta dietro di
sé.
“Dunque,
ragazzo…” parlò, con
autorità “…hai qualcosa da
dirmi?”.
“Riguardo al libro? Proprio
niente. Non so dov’è” rispose
Kevihang.
Il Sole sospirò,
passandosi una mano sui capelli voluminosi
ed a forma di fiamma, piegandosi sulle ginocchia per poter guardare
negli occhi
il prigioniero, che non si era alzato.
“Lascia che ti illustri la
situazione, mortale. Non uscirai
da qui fino a quando Ansuz non avrà ricevuto
l’informazione che necessita, e
cioè dov’è quello stupido
libro”.
“Ma non ce l’ho
io!”.
“Sappiamo bene entrambi che
esistono pochissime creature in
grado di prendere fra le mani un volume del genere perciò
non prendermi in
giro. Chi altro, secondo te, avrebbe potuto portartelo via?
Dai…fai delle
ipotesi…”.
“Io…non lo
so…”.
“Bene. Allora lascia che ti
spieghi che cosa succede qui. Ci
resterai fino a quando non dirai ciò che vogliamo sentirti
dire e la prigionia
non sarà sempre così piacevole perché,
sì, ciò che hai vissuto fino ad adesso
è
piacevole rispetto a ciò che ti capiterà. La cosa
sarà graduale. In poche
parole, giovanotto, il mio compito e quello dei miei collaboratori qua
fuori
sarà torturarti in nome di Ansuz e della corte suprema. Non
dovrei dirtelo, ma
così facendo spero di darti una mano: ti preparo
psicologicamente e ti do la
possibilità di confessare ora, evitando tutto ciò
che posso farti e posso farti
fare. Mi hai capito?”.
“Ho capito, ma non ho
niente da dirti. Perché proprio tu,
Dio del Sole, diventi un torturatore? Non dovresti essere un portatore
di luce,
vita e speranza?”.
“Certo, ma solo
l’assoluta luce conosce ogni angolo delle
tenebre. Io sono un Dio in vita da Ere intere, miliardi e miliardi dei
tuoi
insulsi anni, ed ho visto ogni tipo di atrocità negli
Universi, perpetrate da
mortali e Dèi, in alcuni casi anche in mio onore. Non ho
nulla contro di te,
rispetto degli ordini, e quindi non avrò pietà,
anche se sei giovane e non
divino”.
“Io pensavo che tu fossi
diverso, ed invece ti fai comandare
da quell’Alto. Non potresti ribellarti ed andare contro le
regole, come ho
sempre fatto io?”.
“Senti un
po’…” si spazientì il Sole,
facendosi guizzare una
fiamma fra le iridi “…ma tu rifletti prima di
parlare?! Hai condannato entrambi
i miei figli e mi vieni a dire che devo infrangere le regole, come hai
fatto
tu?!”.
“Che colpa ne ho io di
ciò che è successo ai tuoi figli?!
Alla Luna, poi, non ho fatto proprio niente! Non accusarmi di cose che
non ho
fatto!”.
“Dal processo non ho
più notizie di mio figlio. Non so se è
riuscito a salvarsi, ma non ha importanza perché
c’è una taglia sulla sua
testa. Dovrebbe nascondersi per salvarsi ma so che non
riuscirà a stare lontano
dalla donna che ama, mia figlia, perché è
testardo e se vuole una cosa non
demorde mai. Krì ha capito il sentimento che li lega e tiene
sotto stretta
sorveglianza la mia bambina e, non appena Rikarathör la
incontrerà, sarà pronto
ad intervenire, se non lui di persona qualcuno dei suoi sicari.
Morirà per
colpa tua. E la mia Selene quanto tempo vuoi che viva, una volta persa
la luce che
la fa splendere? Perderò entrambi i miei figli per un tuo
atto sconsiderato”.
“Hei! Aspetta un momento!
Io non ho costretto nessuno a fare
ciò che ha fatto! Il mio fratellone era libero di non
aiutarmi ed invece lo ha
fatto, ma non l’ho obbligato io!”.
“Non capisci. Non capisci
proprio…” sospirò il Dio del Sole
e si alzò.
“Sei tu che non capisci! Se
quello stupido Alto non rompesse
tanto con le sue regole, a quest’ora staremmo tutti meglio,
di sicuro!”.
Il Dio lo guardò con
ancora più odio e rimprovero.
“Se tutti avessero
rispettato le regole…” sibilò
“…a
quest’ora staremmo tutti meglio, mostriciattolo! Ma voi
giovani non sapete far
altro che agire senza mai pensare a ciò che potrebbero
comportare le vostre
azioni sconsiderate! Sai una cosa? Non mi interessa se hai o meno quel
fottuto
libro! Hai condannato i miei figli e quindi per me sarà un
piacere
torturarti!”.
La divinità
bussò sul portone blindato ed uscì dalla cella,
sbattendola.
“Un momento!”
sbraitò Kevihang “Ho fame, ho sete, devo
andare in bagno!”.
“Non è un
problema mio se sei un mortale” rispose una delle
guardie a lato della porta ed attorno al ragazzo fu di nuovo tutto buio.
“Perché
la mia pelle
non risplende?” protestò.
“Per via di quei bracciali
che ti hanno messo alle caviglie,
uno dei quali è legato alla catena che ti imprigiona al
muro” spiegò Kasday
“Assorbono tutta la tua magia e ti impediscono di averne a
sufficienza per
tentare di fuggire”.
“Grandioso…”.
“Conosci bene questo
luogo?” domandò Luciherus alla sua
compagna, che annuì.
“Ci sono stata rinchiusa a
lungo, subito dopo la nascita
della nostra bambina”.
“Ah…era questo
il posto…”.
“Ok. Perfetto. Quindi sai
come farmi uscire!” esclamò
Kevihang.
“Sì, ma non so
se per te sarà possibile…”.
“Spiegami!”.
“Quei bracciali reagiscono
alla tua magia, al tuo genoma. Se
imparassi a modificarlo, ad essere qualcosa di diverso da te stesso,
allora
potresti fuggire”.
“È una cosa
fattibile?” domandò Luciherus.
“Fattibile sì,
dati i suoi livelli magici, ma non so se sarà
possibile fartelo imparare una volta iniziate le torture. Sarai sempre
più
debole e …”.
“Imparerò. Voi
insegnatemi!”.
Kasday gli sorrise, sfiorandogli il
viso, assicurandogli che
avrebbe fatto il possibile.
Nel frattempo la porta si
riaprì ed entrò una creatura
massiccia, con un cappuccio a coprirgli il viso. Aveva braccia possenti
e
ricoperte da un’inquietante peluria violacea.
Un’altra creatura del Kaos,
evidentemente, che aveva in sé i geni da creatrice ma non a
sufficienza per
generare qualcosa oltre ad esperimenti e servi dalla scarsa forza di
volontà.
“Ora vedremo a che livello
puoi arrivare, microbo” sibilò la
bestia, con voce profonda.
Afferrò saldamente
Kevihang, mentre una delle guardie lo
liberava dalla catena alla caviglia, e lo trascinò lungo il
corridoio. Il
ragazzo si dibatté e protestò ma non aveva via di
scampo. Fu portato in
un’ampia sala con diverse piscine di colore verdastro. Il
Sole era davanti alla
prima.
“Queste sono vasche ripiene
di energia di vario livello
magico” spiegò, serio e severo “Ce ne
sono dieci, come puoi vedere. Ti spiego
quali saranno i loro effetti. Quelle di magia inferiore alla tua
saranno come
acqua fresca ma noi, ovviamente, cercheremo quelle di livello
più alto del tuo
che ti bruceranno la pelle e ti ustioneranno”.
“Allora mettetemi
direttamente nella decima, no? Perder
tempo a provarle tutte…”.
“Nella decima probabilmente
moriresti perché è troppo
potente e ti fonderebbe il cervello. Non vogliamo la tua morte, per
ora, perciò
inizieremo con un livello intermedio, per poi proseguire”.
Kevihang fu trascinato davanti alla
vasca numero quattro e,
dopo essere stato messo in ginocchio, fu immerso nel liquido. Le
particelle
verdi disciolte nell’acqua si accalcarono sul suo viso e non
gli fecero nulla,
se non un leggero solletico. Ne approfittò per bere un sorso
di quell’acqua
ristoratrice e poi venne tirato fuori per i capelli.
“Notevole. Per un mortale
è già impegnativo un livello
quattro” commentò il Sole.
“Tu a che livello sei,
esaltato?”.
“Non sono affari che ti
riguardano…”.
Con un cenno del Dio, il prigioniero
fu portato due vasche
in avanti. Davanti alla numero sei Luciherus e Kasday mostrarono la
loro
preoccupazione. Immerso, Kevihang rabbrividì. Il liquido era
gelido e dava
leggermente fastidio. Scosse la testa, mentre il suo aguzzino
continuava a
tenerlo sott’acqua. Dopo quasi un minuto fu risollevato,
sempre per i capelli,
ed il Dio del Sole ne guardò il volto, rigirandolo con due
dita.
“Qualche danno ma niente di
serio…davvero notevole…”.
“Non è che sei
geloso perché sono ad un livello superiore
del tuo?” ridacchiò il giovane, ansimando per la
lunga apnea.
“Sei un vero idiota a
stuzzicare colui che decide la tua
sorte” sibilò il Dio e lo trascinò lui
stesso, per i capelli, davanti ad
un’altra vasca.
Vi immerse la mano e
guardò il prigioniero con un sorriso,
un ghigno.
“Come vedi a me non fa
niente…adesso vediamo come te la cavi
tu con un livello otto, carino!”.
Kevihang fu assalito da
un’immensa magia che lo bruciò e lo
ustionò sul viso. Si dibatté per liberarsi e solo
dopo diversi secondi, che al
torturato sembrarono un’eternità, fu liberato.
Riemerse con uno scatto e
riprese fiato.
“Sei stato bravo. Non hai
urlato. Di solito lo fanno e si
ustionano la gola…” commentò il Sole,
asciugandosi la mano con un asciugamano.
“E così abbiamo
un livello sei…molto bene. Ne terrò
conto”
affermò poi, facendo segno alla bestia pelosa di riportare
Kevihang nella sua
cella.
“Mettete dei sigilli a
livello sei sulla porta ed alla
parete esterna. Non vorrei che gli venisse in mente di sfondare o
abbattere
muri” ordinò ad una piccola creatura
incappucciata, che annuì.
“Livello sei.
Interessante…” commentò Luciherus, una
volta
che furono di nuovo soli nella cella.
“Capirai…”
brontolò Kevihang, mentre Kasday tentava di
alleviare le bruciature che aveva sul viso.
Con i nuovi sigilli non poteva
più appoggiarsi alla parete
di fondo o alla porta, altrimenti veniva colpito da una forte scossa.
“Tu a che livello eri,
papi? Posso chiamarti così?”.
“Bello, papi! Suona bene!
Comunque non ne ho idea…ai miei
tempi non si facevano test simili”.
“Più o meno
credo potresti rientrare nella stessa fascia del
Sole” commentò Kasday “Cioè
un livello otto circa. Immagino che il dieci sia
quello di Krì o forse non rientra in quella
scala…se avessi un corpo fisico lo
proverei personalmente”.
Kevihang scosse la testa. I capelli
davano fastidio
strusciando sulla pelle rovinata e gli occhi gli bruciavano. Anche le
labbra le
sentiva pulsare e sanguinavano.
“Non male come primo
giorno” mormorò, avvilito.
Non aveva niente da confessare e si
sentiva tremendamente
stanco, troppo stanco per poter seguire gli insegnamenti dei suoi
genitori sul
suo cambio di stato. Si addormentò senza nemmeno
accorgersene e cadde in un
sonno profondo senza sogni.
I giorni successivi non trascorsero
in modo diverso. Venne
svegliato di colpo, aveva il dubbio che in realtà qualcuno
attendesse di
vederlo addormentato per mandarlo a svegliare, trascinato in altre
stanze dove
subiva diversi trattamenti. Le catene che lo bloccavano erano sempre
più
strette e le torture sempre più pesanti. Veniva appeso,
legato, ferito,
bruciato, quasi ibernato, immerso in acqua gelida o
bollente…e molto di tutto
questo avveniva mentre una luce fortissima gli veniva puntata in
faccia. Questo
gli stava lentamente rovinando la vista, dato che per la maggior parte
del
tempo era avvolto dalle tenebre.
“Per quanto vuoi ancora
continuare?” gli domandò il Dio del
Sole, mentre lui era appeso per i polsi e sospeso in aria.
“Io non ho niente da
dire” rispose Kevihang, con gli occhi e
la bocca sanguinanti.
“Non costringermi a passare
allo stadio successivo” disse il
Dio, mostrando compassione nel suo sguardo ed apprensione.
“Nessuno è mai
uscito vivo da qui, tranne Kasday, perciò
anche se ora ti dicessi dov’è il libro, se lo
sapessi…verrei ucciso. Perciò
perché dovrei parlare?”.
Il Sole lo guardò
un’ultima volta, così, quasi messo in
croce, ed abbassò gli occhi.
Luciherus ricordò quando
veniva messo nella stessa posizione
dal Kaos e tentò di donargli un po’ di forza, ma
ormai, come il suo evocatore,
anche le evocazioni erano deboli.
“Mi costringi a fare una
cosa che…proprio non vorrei!
Procediamo…” disse, rivolto ad un paio di
creaturine incappucciate che
sganciarono i polsi di Kevihang mentre due altri mostri del Kaos lo
trascinavano altrove. Il prigioniero non oppose resistenza, sapeva che
era
inutile, e si fece portare fino ad una stanzetta bianca, pulita e
moderatamente
luminosa.
Qui venne incatenato, con le braccia
spalancate, dando la
schiena ai suoi torturatori. Anche le gambe furono bloccate e gli
vennero tolte
le poche vesti che gli coprivano la schiena.
“Sai
cos’è questo?” domandò il
Sole, tenendo fra le mani uno
strumento simile ad un paio di cesoie.
“Non mi
interessa” rispose il prigioniero.
“Procedete” diede
ordine il Sole.
Le luci della stanza furono alzate e
Kevihang venne
imbavagliato con un fazzoletto impregnato da una strana sostanza magica
che
bruciava leggermente. Il giovane sorrise. Gli bastava non urlare o
stringere i
denti così non ne avrebbe ingoiato il liquido. Non vedeva
niente per colpa
della luce e sentiva solo strani rumori che non voleva interpretare.
Serrò gli
occhi mentre qualcuno gli tirò le ali. Si agitò,
dato che la cosa gli dava
parecchio fastidio, ma non aveva modo di evitare quel momento. Le
sentì
bruciare ed aveva anche una strana sensazione al naso. Odore di
bruciato.
Stavano dando fuoco alle sue piume! Non avvertiva dolore. Questo era
strano…che
razza di tortura era se non provava alcun male? Ma poi
arrivò una scossa
spaventosa di dolore lancinante. Non le stavano solo
bruciando…gliele stavano
strappando dalla schiena! Strinse i denti ed il liquido magico del
fazzoletto
gli scivolò in gola, incrementando la sua pena. Gli occhi
lacrimavano e tentava
di urlare ma aveva la bocca serrata da quel bavaglio. Resistette
finché poté…dopodiché
svenne.
Si risveglio parecchie ore dopo.
Incatenato, in modo da far
fatica a percepire la punta dei piedi da quanto era stretto il gancio,
gemette.
Non aveva più le ali e la ferita era stata lasciata aperta,
senza bendaggio. La
gola la sentiva calda ed insensibile. La sua voce era storpiata e
provava
dolore anche solo nel respirare. Chiuse gli occhi, per dare sollievo
alla sua
vista già provata, e tentò di addormentarsi. Non
appena chiuse le palpebre,
sentì la porta aprirsi ma non ci fece caso. Rimase immobile,
disteso sul
pavimento.
“Devi alzarti, figlio
mio!” gli diceva Kasday.
“Devi farti
forza” lo incitava Luciherus.
La persona entrata nella stanza,
senza parlare, lo prese
delicatamente fra le braccia e lo fasciò con cura.
L’operazione fece soffrire
ulteriormente il ragazzo che però non aveva le energie
necessarie per liberarsi
da quelle mani.
“Non voglio che tu muoia.
Non posso permetterlo” parlò.
Una donna? Kevihang si
sforzò di aprire gli occhi e vide due
donne: Selene e Luciheday. La Luna e la Morte, l’una accanto
all’altra.
“Solo a noi è
concesso venire qui. Tieni un po’
d’acqua”
mormorò la Luna.
“Non dire a nessuno che ti
abbiamo bendato noi.
Ufficialmente siamo qui solo per controllare la tua salute, nemmeno
là fuori
vogliono la tua morte, hai delle informazioni troppo preziose nel tuo
cervello”
aggiunse la Dea della Morte.
“Io non so
niente…voi mi credete?” mormorò
Kevihang.
“Io non so se crederti o
meno, ma il mio fratellino ha
creduto in te e quindi…” disse la Luna, con
sguardo triste.
Il prigioniero bevve un sorso
d’acqua, aiutato dalla Dea dei
Satelliti che sorreggeva la sua coppa, e tentò di
riprendersi. La testa gli
girava fortissimo ed era tutto indolenzito.
“Se sai come uscire da
qui…” disse la Morte “…se hai
chi ti
aiuta…” aggiunse, guardando i suoi genitori
“…allora ti conviene agire il più
presto possibile perché dopo le ali temo che passeranno alle
corna, alla coda…o
forse alle braccia ed alle gambe. Vattene, se puoi, o morirai qui.
Questo tipo
di torture è stato concepito per far parlare le
divinità, non i mortali!”.
“Se pur di livello
elevato…” terminò la Luna, vedendo il
sigillo alla porta.
“Grazie” gemette
Kevihang, respirando a fatica “Avete
notizie del mio fratellone Rikarathör?”
domandò, dopo qualche attimo.
“Non parlare di questo.
Pensa ad uscire da qui, se ci tieni
alla vita” sbottò la Morte e prese la Luna con
sé, sottobraccio.
Assieme, le due Dee uscirono da
quell’antro buio, serrando
la porta dietro di loro.
Il prigioniero si ributtò
in terra, cercando sollievo sul gelo
della pietra del pavimento.
“Hanno ragione
loro” intervenne Luciherus “Devi uscire di
qua ed alla svelta, o ci lascerai le penne, mio caro
ragazzo!”.
“Le ho gia lasciate tutte
le penne. Non le riavrò mai più”
mugugnò Kevihang.
“Non
pensarci…” suggerì Kasday.
“Come posso non pensarci?
Fa male, malissimo, ed era il
nostro legame, ricordi? Mi hai detto che queste ali erano il legame che
ci
univa…”.
“Tesoro, il fatto che io
sia tua madre è il legame che ci
unisce. Devi sforzarti ed usare le tue energie per scappare ed andare
lontano”.
“E dove? Anche se fuggissi,
sarei braccato da tutti e non
saprei dove nascondermi. Morirò qui…e nessuno
piangerà per me!”.
“Non è vero! Io
piangerei per te, ad esempio, e sono sicura
che anche tutta la tua famiglia adottiva sente la tua mancanza e ti
rivuole a
casa. Adesso te lo mostro…”.
Kasday si concentrò e, con
la poca energia che aveva a sua
disposizione, creò una bolla davanti a sé dentro
la quale si intravedevano
delle figure.
“Quella è la mia
madre adottiva…” disse Kevihang ed, in
effetti, era proprio lei.
Camminava assieme a Loreatehenzi ed
Enrikiran, assieme ad
altri mezzosangue, e lei piangeva.
“Perché piange?
Che succede?” domandò il ragazzo,
preoccupato.
Sullo sfondo della bolla apparve la
torre di sorveglianza del
villaggio, in fiamme.
“Stanno scappando. Qualcuno
sta attaccando il villaggio…ma
Urihel? Solitamente era Urihel, assieme a mio fratello, a dare
l’allarme ed a
controllare che ciò non accadesse!”.
“Urihel è stato
condannato a restare per sempre nella cupola
dell’attuale palazzo dell’Alto Krì. Lo
han detto al processo, ma in una lingua
che non sei in grado di capire”.
“Quindi, senza Urihel, il
villaggio è rimasto senza
preavviso e non ha potuto crearsi una barriera protettiva per celarsi a
chi ci
vuole distruggere! Ma è terribile…”.
“Non so se potrai salvarli
ma…io credo che, per loro, non
dovresti arrenderti”.
Kevihang strinse i pugni e si
alzò, anche se a fatica, e
ringhiò: “Insegnatemi tutto ciò che
devo sapere. Sono pronto” affermò ed i suoi
genitori, dopo un cenno d’assenso, iniziarono a mostrargli
come uscire da lì.
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Capitolo 25 *** XXV- alleanza d'elementi ***
XXV
ALLEANZA
D’ELEMENTI
Si risvegliò pigramente il
figlio del Sole, cullato e
stimolato da una dolcissima fragranza di fiori appena sbocciati. Un
profumo più
unico che raro in quei Mondi morenti. Al principio pensò che
fosse un sogno,
un’allucinazione. Non ricordava esattamente cosa fosse
successo. Tentò di
concentrarsi ma non ci riusciva, la mente era annebbiata e confusa
così come
tutti i suoni che udiva risultavano ovattati e filtrati.
Forse sono morto pensò,
dopo che in un rapido flash
gli si parò davanti la scena del processo, con lui che
stupidamente insultava
tutte le divinità presenti. Non era male la vita dopo la
morte allora…perché,
assieme al profumo dei fiori, sentiva anche dolci aromi di cibo e
prelibatezze
che aveva ormai dimenticato. Annusò l’aria e
sorrise, tenendo gli occhi chiusi.
Aveva provato ad aprirli ma aveva scorto solo ombre e luci, niente di
particolarmente rilevante.
Quando ormai si era convinto della
sua dipartita, avvertì un
lieve formicolio alla gamba che divenne, gradatamente, dolore. Subito
realizzò
che, nella vita dopo la morte, non dovevano esserci sensazioni
spiacevoli come
quella che provava in quel momento e perciò era ancora in
vita. Ma
allora…dov’era e cosa era successo?
Aprì gli occhi di nuovo e si sforzò di
mettere a fuoco attorno a sé. Una voce, o un’altra
allucinazione, lo chiamava e
forse qualcuno lo stava scuotendo. Rosa…vedeva del rosa.
Color carne o forse
una tonalità più scura ma non di molto…
“Marinditi-ya!”
realizzò, spalancando gli occhi e girando la
testa.
“Mi hai riconosciuto dalle
tette?” ridacchio lei.
Si era chinata sul fratello maggiore,
forse per rianimarlo,
e tutto il rosa che Rikarathör aveva visto era, evidentemente,
quello della
scollatura vertiginosa della sorella minore.
“Io…”
balbettò lui, non sapendo dove rivolgere lo sguardo.
“Stai tranquillo. Guarda
che lo fanno tutti…” sghignazzò
lei, dando una mano al fratello a mettersi seduto, lentamente.
“Cosa è
successo?”.
“Al processo non ne ho
idea. Dimmelo tu…”.
“Non ricordo esattamente
ma…” gemette e si sfiorò la gamba.
La sorella gli bloccò il
braccio e lo rimproverò: “Non la
toccare! Era stata trapassata da una delle frecce delle guardie di
Ansuz. Sei
fortunato che ti abbia solo colpito la gamba e non qualche altro punto
vitale.
Così facendo sono stata in grado di aiutarti. Devi
ringraziare la tua buona
stella lassù. Saresti morto, sai!”.
“Ma non lo sono. E non ho
chissà che stelle da
ringraziare…”.
“Sei uno
scapestrato”.
“Non farmi la predica anche
tu!”.
“Temevo di
perderti…” confessò lei, con quegli
occhi color
del miele ed il viso truccato, abbracciando il figlio del Sole con
forza e
dolcezza.
“Mi hai salvato? Grazie,
sorellina…”.
“Ti ha salvato la fortuna,
non io. Forse il Destino è dalla
tua parte”.
“Dubito, dopo quello che
gli ho detto. Forse la Morte, se
Kevihang ci ha messo una buona parola”.
La Semidea della Terra gli
appoggiò una mano sulla gamba
ferita, subito sopra il ginocchio, dove aveva realizzato
un’accurata fasciatura
con un bel fiocco, e sorrise.
“Ti ho preparato qualcosa
da mangiare” disse, allontanandosi
per un attimo.
Porse un piccolo fagotto al fratello,
che lo scoprì e si
sentì subito meglio. Marinditi-ya gli aveva preparato del
buon pane caldo.
“Oh,
sorellina…ma è difficilissimo trovare gli
ingredienti
per una cosa del genere!”.
“Difficilissimo, ma non
impossibile per la Semidea della
Terra!” esclamò lei, raggiante, ed
invitò il fratello a mangiarlo per dirle se
era buono.
“Buonissimo”
confermò lui e lei ne fu davvero felice.
“Raccontami cosa
è successo. Perché io ricordo solo il
processo, vagamente…”.
“Premessa: io ero qui
perché al villaggio è successo un vero
macello”.
“Spiegati”.
“È stato
distrutto”.
“Come distrutto? Mamma e
gli altri stanno bene, vero?”.
“Sì, stanno bene
ma ci siamo dovuti spostare. Sapevo che sia
tuo padre che Urihel erano a quel processo ed avevamo deciso di
farglielo
sapere. Loro sono sempre stati dalla nostra parte…e quindi
mi sono avviata.
Loreatehenzi ed Enrikiran sono rimasti con mamma e le loro famiglie ed
io ho
deciso di partire da sola. Un gesto avventato, è vero, ma
grazie a quello ho
potuto salvarti. Anche se speravo di incontrare faccia a faccia
quell’Alto e
dirgliene quattro!”.
“Lui fa solo rispettare le
regole. Noi siamo qualcosa di non
previsto e non prevedibile, di sbagliato e sconvolgente per quanto
riguarda
l’equilibrio degli Universi”.
“Da quando cerchi di fare
il saggio? Guarda che con me non
attacca, sai! Lo so bene che non lo sei!”
ridacchiò Marinditi-ya.
“Ho 35
anni…sarebbe anche ora che iniziassi a fare
l’adulto,
no?”.
“No! A me piace il mio
fratellino stupidino ed eterno
bambino!”.
“Sei stata una vera
incosciente a venire qua da sola. Mamma
sarà in pensiero!”.
“Credo di sì ma
adesso andiamo da lei, entrambi, e sarà
tutto risolto”.
“Potevi chiedere a qualcuno
del villaggio di accompagnarti!”.
“Non farmi la predica! Tu,
poi, che usi il cervello una
volta ogni tanto!”.
Lei si era accigliata, prendendo il
tipico comportamento
delle adolescenti capricciose.
“Non fare così.
Non volevo farti arrabbiare” commentò
Rikarathör.
“Ed invece mi hai fatto
molto arrabbiare! Te ne sei andato
così, senza dire niente! Sono sicura che eri con
lei…con quella”.
“Quella? Intendi
Selene?”.
“Proprio lei. Con quel suo
pessimo carattere ed il suo
atteggiamento superiore”.
“È una Dea.
Anch’io, se lo fossi, avrei un atteggiamento del
genere!”.
“Lei è gelosa di
me”.
“E tu di lei. Ma ti
consiglio di abituarti alla sua presenza
perché le ho chiesto di sposarla”.
“Sposare quella?! Non
accetterà mai! Si sente troppo
superiore per sposare uno come te!”.
“Sei tu quella che fa
sempre la superiore! E comunque ha già
accettato. È una semplice questione di organizzazione prima
che tutto venga
stabilito ufficialmente”.
“Voi due siete troppo
diversi per stare assieme. Ti serve un
tipo di donna differente. Lei è una Dea, una creatura
lontana da te, che ama e
fa cose opposte da quelle che ti piacciono ed ami fare tu. È
fredda, distaccata
e cambia continuamente umore. Inoltre…è
vecchia!”.
Rikarathör non disse nulla e
si limitò a guardarla, come a
voler dire che non capiva dove voleva andare a parare con quelle parole.
“A te, Rik, serve una donna
diversa. Una stabile, che sa
godersi la vita in ogni attimo, con cui giocare e fare il ragazzino
tutto il
giorno. Lei ti vuole uomo, probabilmente, ed in un attimo ti
ritroveresti
circondato dalle responsabilità essendo sposato ad una Dea.
Poi siete così
dissimili anche di carattere…tu sei solare ed ottimista, non
farti spegnere da
una come lei!”.
“Finiscila adesso! Io
splendo per lei e lei sorride e brilla
grazie a me. Ma sono cose che non mi aspetto capisca una
ragazzina”.
“Sono più donna
di lei. Io so amare, con il corpo e con la
mente…lei può dire lo stesso?”.
“Che tu possa amare con il
corpo non ho dubbi…credi che non
mi venga riferito quello che combini quando io sono lontano dal
villaggio?”.
“Non è la donna
per te! Io e te abbiamo molte più cose in
comune! Più della Terra e del Sole che la
alimenta…non c’è unione migliore!
Siamo nati per stare assieme”.
“Seguendo questo
ragionamento, allora perché non Enrikiran?
Lui è l’acqua…”.
“Ed il gelo. La Terra ha
bisogno di calore…ed io posso
crescere rigogliosa solo grazie alla tua luce ed al tuo calore,
fratello.
Perché guardi altrove quando la donna per te l’hai
sempre avuta davanti agli
occhi? Lei ha mai detto di amarti? Io posso dirlo…posso dire
che ti amo”.
“Lei non l’ha mai
detto. Ma, come non l’ha detto a me, non
l’ha detto a nessun’altro. Tu
invece…quante volte hai pronunciato quelle parole
davanti ad un uomo? Tu non sai ancora cos’è
l’amore, sei troppo piccola e
giovane per comprendere ciò che lega me e la Luna, e forse
non sarai mai in
grado di comprenderlo”.
“E tu lo
comprendi?”.
Rikarathör rimase in
silenzio e non rispose. Era stufo di
farsi fare la predica…ed era già la seconda nel
giro di pochi giorni.
“È questo il
modo di ringraziarmi per averti salvato?”
piagnucolò la Semidea, non trovando altre armi se non quella
di mettersi a
piangere.
Il figlio del Sole detestava vedere
le donne piangere e
cambiò immediatamente atteggiamento. Lasciò che
la sorellina lo abbracciasse e
tentò di consolarla, meglio che poteva.
“Raccontami
cos’è successo e non piangere
più” le sussurrò,
accarezzandole la testa piena di capelli color del grano ed
attraversati da
striature più chiare provocate dal Sole.
“Ti ho visto da lontano. La
tua luce brillava da dietro uno
spuntone di roccia. Ho capito subito che qualcosa non andava. Non era
la tua
solita luce. Era più fiacca ed andava spegnendosi. In quel
momento ho notato
che delle guardie ti stavano inseguendo e mi sono spaventata. Son
dovuta
intervenire ed ho evocato i poteri della terra che scorrono in me.
Stringendo
fra le mani il mio cristallo, ho fatto in modo che il paesaggio si
modificasse,
così da coprirti e da metterti al sicuro”.
“Hai corso un grande
rischio. Avrebbero potuto ucciderti, se
ti avessero visto. Senza contare che avranno capito che è
stata opera tua e ti
daranno la caccia”.
“Non importa! Ho creato una
conca fra le rocce, spostandole,
e tu ne eri il centro, accoccolato e silenzioso. Quando le guardie si
sono
allontanate, mi sono avvicinata attraverso una piccola apertura e mi
sono
calata giù, accanto a te. E lì mi sono spaventata
di nuovo. Eri freddo. Tu non
sei mai freddo. Tenevi gli occhi chiusi ed eri immobile, gelido al
tatto. Ho
visto quella freccia sulla tua gamba ed ho temuto che fosse avvelenata
e che
fossi morto, ma poi hai avuto un movimento impercettibile delle labbra
ed ho
capito che eri ancora in vita. Ho tolto la freccia ed ho curato le
ferite con
le erbe che porto sempre con me, anche se sapevo che avrei dovuto
cercarne
delle altre, e ti ho fasciato con il mio nastro per i capelli. Ma eri
sempre
così freddo…così ti ho abbracciato ed
ho sentito il battito del tuo cuore, così
regolare nonostante tutto, e ti ho chiamato per nome. Sapevo che, per
farti
stare bene, dovevo farti scaldare e
così…”.
Lei si fermò
guardò il figlio del Sole negli occhi.
“Così? Che cosa
hai fatto?” sorrise lui, senza capire.
“Ho
fatto…così…”
mormorò lei e lo baciò, dolcemente.
Lui reclinò leggermente la
testa all’indietro, come ad
opporre resistenza, ma poi lasciò che la baciasse, come se
dentro di lui
sapesse che era una cosa che aveva sempre desiderato. La luce della sua
pelle
ora era di nuovo forte e vigorosa, emettendo il suo solito calore.
“Anche quel giorno hai
reagito così” sussurrò lei
“Ti sei
illuminato ed hai ripreso ad essere il mio adorato Rikarathör
che mi
trasmetteva sempre tanto calore quando ne avevo bisogno. Forse
arriverà il
giorno in cui ti accorgerai di amare me e non lei. Di aver sempre amato
me…”.
“Come siamo arrivati
qui?” domandò lui, tentando di cambiare
argomento.
“Ho semplicemente spostato
di nuovo le pietre in modo da
aprire la grotta che avevo creato. Così hai potuto riposare
all’aria aperta,
prendendo la luce di tuo padre, finché non ti sei
svegliato”.
“Ci ho messo tanto a
svegliarmi?”.
“Qualche giorno, ma
è normale. Quelle frecce sono state
intinte di uno speciale liquido che blocca il sistema nervoso in modo
da
rendere più semplice la tua cattura. Per fortuna sono
intervenuta in tempo.
Poco tempo più tardi e saresti rimasto immobile davanti a
loro e sarebbe stata
la fine”.
“Grazie
allora…”.
“Figurati”.
Si guardavano negli occhi e si
sorridevano, dimenticando
ogni altra cosa. Poi Rikarathör si scosse e sciolse
l’abbraccio in cui era
avvolto. Si distese, sospirando.
“Devo aiutare
Kevihang” esclamò “Anche se la Luna mi
ha
detto di non farlo. Devo fare in modo che possa stare
bene…”.
“Ho sentito che
è stato rinchiuso nelle prigioni del Kaos”
disse lei.
“Nelle prigioni del Kaos?
Devo farlo uscire da lì…ma non so
come…”.
Chiuse gli occhi, ancora stanco ed un
po’ provato, e cercò
di trovare una soluzione, ma non ne vedeva. Come poteva fare in modo
che il suo
adorato fratellino ed allievo tornasse a casa?
“Tutto per colpa di quello
stupido libro!” borbottò, prima
di spalancare gli occhi e sorridere “Ma certo! Libro! Se
riesco a convincere
Vereheveil…forse è una persona ragionevole!
Potrei parlargli e, magari,
spingerlo a parlare all’Alto, convincendolo che quel libro
non è poi così
importante. Dopotutto, se Vereheveil fa cadere le sue accuse, non ha
senso che
Kevihang venga condannato!”.
“Sempre se riesci a
convincere Vereheveil…”.
“Certo! L’ho un
po’ preso per il culo al processo ma…sono
sicuro che riuscirò a parlargli ed a convincerlo. E Kevihang
tornerà a casa!”.
Marinditi-ya sorrise, raggiante.
Adorava il suo fratellino
Kevihang e desiderava anche lei saperlo di nuovo al sicuro. Certo
però che,
come Rikarathör, non amava considerare i lati pericolosi o
negativi delle cose
e quindi non gli passò nemmeno per la testa che Vereheveil
potesse reagire in
modo diverso da quanto sperassero i due fratelli. Si distese accanto al
Semidio
suo parente ed assieme guardarono il cielo, sfiorandosi le mani.
“Sei un
ricercato…” ridacchiò lei.
“Sono un
fuorilegge…stai attenta, sai!” rispose, con lo
stesso tono, lui.
“Per aiutare Kevihang,
però, dovrai aspettare ancora un po’
perché la tua gamba non è ancora guarita e non
sei ancora sicuro…”.
“Sicuro sulle zampe?
Tranquilla…”.
Tentò di alzarsi ma, come
aveva detto la sorella, non ci
riuscì. Gli girò la testa e la gamba non lo
resse, facendolo cadere disteso di
nuovo.
“Ti posso dare delle erbe
particolari per aiutarti a guarire
prima, ma dovrai aspettare ancora almeno una settimana, temo”
disse lei,
controllando la ferita del fratello con apprensione.
“Vorrei volare come fanno
tutte le creature alate oppure
possedere una creatura magica, come mio padre o Selene, che mi porti in
giro
per il cielo”.
“Anche se
l’avessi non potresti comunque cavalcarla, debole
come sei! Cerca di stare calmo, di solito ti riprendi in fretta, specie
alla
luce del Sole. Devi solo avere pazienza”.
“Io non ho
pazienza…”.
“Io ne ho per entrambi,
perciò adesso, da bravo, ti rimetti
disteso e riposi. Chiudi gli occhietti e dormi, bel bambino!”.
“Smettila! Io non sono
più un bambino!”.
“Ma sei adorabile nello
stesso modo” ridacchiò la Semidea.
Rikarathör
si arrese all’evidenza. Era troppo stanco per poter fare
qualcosa di utile e quindi rimase disteso guardando in alto, osservando
il
cielo sereno, con il Sole che brillava e pochissime nubi. Faceva sempre
freddo,
ma vedere suo padre così luminoso e bello sopra di lui lo
faceva stare meglio
anche se era molto perplesso. Si sentiva così bene, sapendo
che il figlio
poteva essere morto o gravemente ferito da qualche parte?
Vabbè…non ci pensò e
si addormentò, pieno di voglia di sentirsi subito meglio per
poter aiutare il
fratello, e confortato dalla presenza della sorella che gli si era
accoccolata
accanto, appoggiandogli la testa sulla spalla
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Capitolo 26 *** XXVI- verità ***
XXVI
VERITÀ
“Dunque è
così che si fa…” borbottava
Kuetzalikay,
camminando avanti ed indietro per la stanza degli specchi dove, un
tempo,
Kasday guardava i Mondi.
Era da solo a casa,
Nosmagiés era stato mandato a fare spese
ed il giovane Alto aveva chiesto espressamente di non venire disturbato
da
nessuno. Aveva bisogno di riflettere e per farlo non poteva avere
rumori di
fondo od inutili interruzioni. Con un piano in mente, che voleva
sviluppare per
bene, camminava con la sua solita andatura ondeggiante per quella
stanza che
faceva parte dell’attuale dimora sua e del padre. Suo
padre…si augurava proprio
che non venisse quel vecchio ad interferire!
Si era seduto, leggendo, e sibilando
leggermente in modo
involontario con la lingua biforcuta, agitando la lunga coda, quando
qualcosa
fece rizzare tutte le sue piume rosse. Una sensazione, un
presentimento…qualcosa stava per accadere, qualcosa di
importante. Non riuscì a
capire cosa fosse ma, per il momento, si limitò ad appurare
che c’era una
presenza in casa e non era né suo padre né
l’Angelo Messaggero Nosmagiés. Si
alzò e, silenziosamente, si accostò alla porta.
Era nelle sue dimensioni
normali e quindi non notò la figuretta che ci stava subito
dietro. Anche lei
stava sbirciando dalla porta, desiderosa di scoprire se ci fosse
qualcuno
all’interno. Sobbalzò quando vide Kuetzalikay e
l’Alto sobbalzò nel vedere lei.
“E tu cosa ci fai
qui?” sbottò il serpente piumato,
facendola accomodare nella stanza con fastidio.
“Volevo
parlarVi…” mormorò lei, a testa bassa.
“E non potevi dare un segno
della tua presenza?”.
“Temevo ci fosse Vostro
padre. O mio padre…”.
“Giusto…il Sole
a volte bazzica da queste parti…”.
La Dea della Luna si
sforzò di sorridere al suo
interlocutore, ma non era troppo in vena.
“Rilassati, Selene. Tuo
padre non c’è e nemmeno il mio.
Nosmagiés, quello spione, è fuori e
l’unica altra anima in tutta la casa è
Urihel, che però è segregato nella cupola e non
può darci fastidio. Volevi
parlarmi…immagino della faccenda del
sigillo…”.
“L’ultima volta
che ci siamo visti era nel palazzo del
tribunale, fra i suoi giardini, e mi avevate rassicurato che avreste
risolto al
più presto il problema…”.
“Ti prego, cosa rara che lo
faccia, dammi del Tu!”.
“Va
bene…”.
“Ad ogni modo mi
è un po’ difficile accelerare i tempi
perché ho bisogno di vedere lui da solo, senza che ci sia
suo padre…o mio
padre! Quel rompicoglioni è sempre fra i piedi!”.
“A quale padre ti
riferisci?” sorrise la Luna.
“Ad entrambi!”.
“Non è per
metterti fretta, credo nella tua buona volontà
ma…Ansuz era a casa mia ieri sera e stava discutendo con il
Sole di matrimoni e
cose simili”.
“Immagino che per te non
sia piacevole l’idea di sposare tuo
padre…”.
“Per niente!”.
“Coraggio…pensa
e me. Sono l’unico rimasto della mia specie,
oltre al mio genitore…”.
“Deve essere
terribile…”.
“Non così tanto.
Per noi Alti non è così importante
l’amore
e la famiglia. È per una questione d’istinto che
cerchiamo una compagna ma, non
essendoci femmine, il mio istinto è bello latente e non mi
stressa. Va bene
così”.
“Davvero non desideri mai
avere una moglie e dei figli?”.
“Non riesco a comprendere
il desiderio di averne. Io sono un
Alto, un solitario, un mostro secondo alcuni punti di vista, ed ho
imparato a
stare per conto mio. In questo modo non devo rendere conto a nessuno di
quello
che faccio e nessuno può venirmi a dire che ciò
che penso, dico o metto in
pratica, è sbagliato. Cosa che invece a mio padre succede
piuttosto spesso”.
“Credi che, maturando,
questo possa cambiare?”.
“Maturando? Al contrario,
mia cara. Quando ero piccolo,
giovincello, cercavo sempre compagnia e non ne trovavo. Ero triste, e
mi
chiedevo sempre se ero io quello fatto e messo nel modo e nel posto
sbagliato,
oppure se erano gli altri ad avere la colpa. Cercavo di cambiare me
stesso in
base alle situazioni ed alle persone che avevo accanto, ma ora ho
capito che è
sbagliato. Crescendo, ho capito che io sono fatto così ed
è così che mi si deve
accettare. Se non siete in grado, voi Dèi e mortali, di
comprendere la mia
natura ed il mio modo di pensare ed agire, allora non devo essere io ad
adattarmi per poi farmi sempre e comunque criticare. Io la penso
così”.
“Beato te che riesci a fare
questi ragionamenti. Vorrei
anch’io avere la forza di pensare una cosa del
genere…ma non sono così
coraggiosa”.
“Oh ma tu sei coraggiosa,
Luna. Nessuno ha avuto l’ardire di
venire fino qui se non gli abitudinari come tuo padre ed i residenti
come
Urihel. È solo un coraggio diverso. Tu sei qui, rischiando
la vita! Se mio
padre dovesse scoprire cosa hai in mente, per il tuo uomo..”.
Selene chinò lo sguardo ed
arrossì leggermente. Kuetzalikay
si era rimpicciolito, fermandosi sui due metri e mezzo, e si era seduto
accanto
alla Dea.
“A proposito…ho
sentito dire che il tuo fidanzato ha
combinato un bel casino al processo”.
“Già…proprio
un bel casino. Non ascolta mai i consigli”.
“Dov’è
adesso? È ricercato, se non sbaglio…”.
“Non ne ho idea. So solo
che, quasi sicuramente, è con lei”.
“Lei?
Hullalà…un bel triangolo…”.
“No, macché
triangolo! Lei è sua sorella…”.
“Anche tu lo sei”.
La Luna rimase immobile, guardando la
sua immagine allo
specchio con rabbia.
“Lei…Marinditi-ya…quella
piccola ragazzina! Quella troietta
figlia dell’Estate! Ha tutto lei…è
bellissima, è sempre felice ed osa guardarmi
dall’alto in basso. Osa farlo, nonostante io sia una Dea e
lei una misera
mezzosangue!”.
“Anche tuo fratello
è un misero mezzosangue…eppure lo ami. O
no? E lui…ti ama?”.
“In che senso? Certo che mi
ama! Mi ha chiesto di sposarlo”.
Lo sguardo della Luna era misto fra
tristezza e rabbia,
confusione e stanchezza.
“Per far quello non ci
vuole niente. Posso farlo anch’io!
Ascolta: Selene, vuoi sposarmi? Ecco…visto? Te
l’ho chiesto!”.
“Ma non lo pensavi
veramente”.
“E lui lo pensava davvero?
O era solo un capriccio della sua
mente bombardata dalle reazioni chimiche che ha mal
interpretato?”.
“Io mi fido di
lui…se mi ha detto una cosa avrà avuto una
ragione…”.
“Una ragione? I mortali
raramente fanno qualcosa per una
ragione!”.
“Questo è vero,
ma…”.
“Dovresti capire se ti ama
davvero, prima di rischiare la
vita per lui. Non trovi?”.
“Non so nemmeno dove
sia…come posso capirlo?”.
“Se vuoi posso darti una
mano…li vedi questi specchi?
Possono mostrarti le persone che vuoi, basta concentrarsi e le
visualizzi. Per
fortuna mio padre non ne è conoscenza o il tuo caro mezzo
Sole sarebbe già
morto…se non lo è
già…”.
“No. Lui è vivo.
Me lo sento. Insegnami come visualizzarlo”.
Kuetzalikay le indirizzò
il viso verso lo specchio e le
toccò la spalla, incanalandovi energia.
“Chiudi gli occhi, Luna, e
concentrati. Immagina davanti a
te la persona che vuoi vedere e, quando senti di essere pronta, riapri
gli
occhi e guarda nello specchio. Non distrarti e lo vedrai
apparire”.
Selene obbedì. Chiuse gli
occhi e poi li riaprì. Nello
specchio, prima tutto nero, iniziarono a formarsi delle ombre colorate
ed a
sentirsi dei suoni, confusi. L’Alto le stava dando la forza
necessaria per
portare a termine la visualizzazione e sorrise quando vide apparire il
figlio
del Sole. Era in piedi, con la gamba fasciata, che saltellava sul
posto.
“Ora la mia gamba va molto
meglio” lo sentì dire.
La Luna sorrise. Si sentiva
decisamente rassicurata ora che
lo vedeva lì, davanti a sé, sano e salvo.
“Sono pronto. Posso
andare” disse ancora Rikarathör.
“Dammi un ultimo bacio
prima di partire. Ti porterà fortuna”
sentì un’altra voce rispondere.
La Luna smise di colpo di sorridere.
Marinditi-ya, la
semidea della terra, ora teneva suo fratello per mano e lo guardava,
con occhi
ammalianti e dolci, mentre lui le sorrideva.
La Dea distolse lo sguardo, facendo
scomparire l’immagine
allo specchio. Non volle vedere altro.
“Dammi un ultimo
bacio…significa che…quanti ne hai dati a
quella…?” mormorò, piegandosi in avanti
e stringendo le mani fra loro.
Kuetzalikay non sapeva che dire. Non
aveva previsto una cosa
del genere.
“Ho fatto male a fidarmi di
lui. Ho fatto male. Mi ero
ripromessa di non fidarmi più di nessuno e
lui…lui osa prendermi in giro in
quel modo! Mi ero fidata…”.
Ora Selene singhiozzava, tentando di
nasconderlo all’Alto
che però, in modo decisamente inatteso, le si
inginocchiò davanti,
rimpicciolendo ancora un po’ la sua statura.
“Luna, suvvia! Non
piangete! Non ne vale la pena! È solo un
mortale, colto in un momento di debolezza. Cercate
di…”.
“Momento di
debolezza?!”.
“Non posso dire di capire
ciò che provate, perché non sono
mai stato innamorato e, di conseguenza, non sono mai stato tradito o
abbandonato ma…riesco a sentire quanto siete
triste…”.
“Sì…ma…ora…cosa
ci sono venuta a fare qui? Alla fine sarò io
quella che ci rimetterà. Lui sarà felice con la
sua sorellina ed io qui da
sola, sposata a mio padre!”.
“L’unico modo per
evitare questo Hieros gamos è avere un
figlio con questo Rikarathör oppure uccidere tuo
padre…in alternativa dovrai
accettare il tuo destino, temo, mia cara”.
“Non potrei mai uccidere
mio padre! Ed avere un figlio con
lui…dopo che ho visto che si trova decisamente
più a suo agio con lei…”.
“Sono umani, mia bella
Luna! Per loro è molto importante il
semplice contatto fisico. Noi, che siamo divinità, non diamo
molta importanza a
queste cose perché abbiamo l’eternità
davanti e per noi l’amore è diverso dal
loro, che usano la scusa che la loro vita è breve per
compiere una quantità
esorbitante di cazzate!”.
La Luna non poté fare a
meno di sorridere, anche se solo
leggermente.
“Sorridi Selene, ad asciuga
le tue lacrime. Non sopporto
vedere un così bel viso sfigurato dalla tristezza. Sono
sicuro che c’è una
soluzione”.
“Tu sei buono,
Kuetzalikay…qualunque cosa gli altri dicano”
mormorò la Dea, affondando la testa nelle piume rosse
dell’Alto ed
abbracciandolo.
Non poteva credere a ciò
che aveva visto ed era, oltre che
triste, furiosa. Come si era permesso di fare una cosa del genere? Come
aveva
osato? E tutte le sue belle parole? Poteva mangiarsele! Delusa, da se
stessa
per aver ceduto così stupidamente ad un’illusione
e da suo fratello per averle
mentito così a lungo, si asciugò le lacrime e
lasciò Kuetzalikay, che le
sorrise.
“Avete
l’eternità davanti, no?” le disse
dolcemente, e la
Dea annuì, anche se poco convinta.
“Cosa vuoi che faccia,
dunque, ora, Luna?”.
“Non lo so. Non credo che
tu debba rischiare guai con tuo
padre per aver infranto un sigillo il cui portatore vuole che resti
lì. Non lo
so…”.
“Prova a parlarci. Forse si
sono scambiati solo qualche
bacio sulla guancia…”.
“Ho visto il loro sguardo.
Era quello di due persone
innamorate. Non mi stupirei se fossero andati ben oltre i baci. Ed io
qui ad
aspettare e ad illudermi…”.
“Siete sempre in tempo per
rimediare…siete una Dea dopotutto
e sono sicuro che avete un sacco di divinità ronzanti
attorno al vostro
essere…”.
“Non credere. Molti
Dèi sono morti e la maggior parte di
quelli rimasti ha ben altro per la testa”.
“Sì, la
segatura! Come mio padre!”.
La Luna rise, presa alla sprovvista
da quella frase così
strana e così diretta.
“Perché non
riescono a capire la tua importanza?” domandò
Kuetzalikay.
“Io non ho una grande
importanza. Sono solo la Dea dei
Satelliti, non sono il Sole, il Tempo o altre cose fondamentali per la
vita
negli Universi”.
“Un cielo notturno senza
nemmeno una Luna per me è triste ed
inutile. Le maree, che tu provochi, non sono inutili e sotto la tua
luce han
preso vita le migliori poesie degli Universi. Forse i Mondi non
finirebbero se
tu non ci fossi più, ma sentiremmo tutti la tua mancanza.
Chiunque percepirebbe
che manchi e sarebbe un vero peccato”.
“Sei molto gentile. Molto
dolce”.
“Questa è una
cosa che non mi ha mai detto nessuno…”.
“Lieta di essere la
prima”.
“È
così importante?” domandò
l’Alto, accucciato sul
pavimento.
“Cosa?”.
“Un bacio. È un
semplice bacio, un contatto fra le labbra.
Non è niente di più…è
così importante?”.
“Con un bacio puoi capire
se la persona davanti a te ti ama.
Puoi farla stare bene, rilassandola e trasmettendole buone sensazioni.
Puoi
farla sentire al sicuro, protetta e desiderata. Sì, per me,
è molto
importante”.
“Davvero si può
trasmettere tanto con un semplice contatto
del genere?”.
“Sì, se lo si fa
volendo trasmettere certe cose per davvero.
Se si pensa ad altro…non ci sarà nessuna magia e
sarà un semplice contatto
senza alcuna sensazione”.
“Davvero
curioso…voi Dèi siete davvero
strani…”.
“Davvero? Non è
che siete voi Alti ad esserlo?”.
“Può essere, non
lo escludo…ma cerca di capire…noi siamo
l’unione fra tutte le creature viventi”.
“Lo
capisco…”.
La Dea scese dalla sedia, una specie
di trono, su cui stava,
e si accovacciò anche lei sul pavimento.
“Non ti spavento? Sono
così diverso da te…” si
stupì l’Alto.
“Sei diverso, è
vero, ma non posso e non voglio cambiarti.
Non mi spaventi, no! Se mi volessi far del male lo avresti
già fatto, invece di
stare qui a perdere tempo parlandomi”.
“Perdere tempo? A me
piace…parlare con te”.
“Con me in particolare o
con qualcuno?”.
“Con te. Tu mi ascolti
perché vuoi farlo e non perché sono
un Alto”.
Lei gli sorrise di nuovo e lui le
asciugò l’ultima lacrima
che le scendeva sulla guancia. Lei, senza più aver voglia di
pensare, si
avvicinò e lo strinse a sé, baciandolo.
L’Alto spalancò gli occhi, non
aspettandosi una cosa del genere. Poi li chiuse, cercando di percepire
tutte le
sensazioni che gli aveva descritto la Dea ed alcune riuscì a
sentirle. Davvero.
“Scusa…non avrei
dovuto…” disse la Luna, scostandosi
dall’Alto “Ma ne avevo davvero bisogno. Spero di
non darti problemi con
questo…”.
“No…non
credo…” mormorò Kuetzalikay, senza
notare uno dei
corvi del Kaos appollaiato alla finestra che lo guardò
decisamente male, prima
di prendere il volo.
“Ma…quel
libro…” esclamò la Dea, notando un
volume rosso
deposto sul pavimento.
Era apparentemente nascosto sotto le
due sedie della sala,
invisibile se non dal punto di vista delle due divinità, ma
ora lei lo aveva
visto e credeva di riconoscerlo.
“Quel libro
cosa?” disse lui.
“Non è
quello…”.
“No, non lo è.
Neanche un po’!”.
Lei lo guardò con sospetto
e si alzò.
“Devo andare
adesso…” disse.
“Tanta fretta,
perché?”.
“Non voglio sapere se stai
imbrogliando l’intero Universo
con i tuoi giochetti. Giuro di non dire a nessuno che, forse, sei tu
quello che
ha fra le mani il libro che tutti cercano. Ma forse dovresti far
liberare
Kevihang, che è rinchiuso in galera per colpa tua”.
“Era nell’elenco
delle cose da fare”.
L’Alto non mentì
e non tentò di nascondere il libro
ulteriormente. Al contrario, lo prese fra le mani e lo
mostrò alla Dea.
“Ecco quello che tutti
cercano. Puoi riprenderlo se vuoi”.
“Non è bloccato
dal sigillo?”.
“Lo è. Ma a me
non serve più. Se hai desiderio di dire a
qualcuno che io l’ho fra le mani puoi farlo. Fra
l’elenco delle cose da fare
avevo messo anche quello di restituirlo”.
“Fallo allora.
Restituiscilo e libera Kevihang”.
“Vuoi che ti
aiuti?”.
“In che modo?”.
“Non te lo posso dire. Ma,
se giuri di non svelare a nessuno
che ho questo libro, io ti aiuterò e farò in modo
che il tuo destino sia
diverso”.
“Sai bene che non mi fido
di nessuno. Perché dovrei
crederti?”.
“Perché non hai
alternative. Sbaglio o, fra noi, sono io
quello con potere magico maggiore? L’alternativa per te
è obbedirmi o venire
punita”.
“Bella
alternativa…”.
“Oh, no Luna! Non
arrabbiarti con me. Non voglio che tu…”.
“Che io? Che io possa
odiarti?”.
“Non voglio che questo
accada. Ma questo è un periodo
difficile per me e per tutti. Ti prego di avere solo un po’
di pazienza,
dopodiché vedrai che andrà tutto bene”.
Selene indietreggiò
leggermente. Non aveva alternative.
Guardò l’Alto negli occhi da serpente e
sospirò, giurando di non parlare.
Stava per lasciare la stanza quando
la terra iniziò a
tremare. Un violento terremoto scosse l’edifico e la Dea,
perdendo
l’equilibrio, fu afferrata saldamente dall’Alto.
Durò a lungo, più di due
minuti, un’eternità per chi non aveva mai provato
un evento simile. La Luna
rimase abbracciata stretta a Kuetzalikay, che tentò di
tenerla al sicuro come
poteva con il suo corpo mingherlino, finché tutto ebbe fine.
L’Alto rizzò tutte
le penne. Era forse quella la sensazione che aveva provato prima? Aveva
previsto
quel terremoto? E cos’era tutta quella magia ed energia
sprigionata? Quando
tutto si fermò, alcuni specchi erano caduti ed il pavimento
era pieno di vetri
rotti. Prese in braccio la Dea e la portò fuori. Il palazzo
era in disordine ma
apparentemente senza gravi danni strutturali.
Chiamò Urihel, che rispose
e rassicurò che la cupola era
ancora in piedi, con solo qualche crepa trascurabile, e che stava bene.
“Siete libera di andare,
Madama Luna. Se non le
dispiace…credo che ci sia qualcuno che mi attende non molto
lontano da qui”.
Selene annuì. Voleva
cercare suo padre ed assicurarsi che
tutto fosse a posto. Si sistemò il vestito, che aveva
addosso polvere e
calcinacci caduti, e si passò una mano fra i capelli. Vi
trovò una grande piuma
rossa e la indicò all’Alto.
“Puoi tenerla, Selene.
Dicono che porti fortuna” concesse
Kuetzalikay, richiamando a sé una delle creature del Kaos
per giungere più in
fretta alla sua meta.
Era una specie di grosso cavallo
verde, a pelo lungo e con
quattro occhi rossi. Davvero inquietante.
S’impennò e partì, lasciando la Luna
ai suoi pensieri. Anche lei si allontanò, in cerca del padre
e del resto delle
divinità, preoccupata da cosa potesse essere capitato. Un
terremoto non era una
cosa tanto normale e naturale, su quel pianeta, e doveva scoprire cosa
era
accaduto.
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Capitolo 27 *** XXVII- cambio di forma ***
XXVII
CAMBIO
DI FORMA
Stremato, atterrito ed infreddolito,
Kevihang fu riportato
nella sua cella dopo l’ennesima giornata di tortura. Fuori
pioveva forte e di
conseguenza sulla parete che dava sull’esterno scorreva
l’acqua. Il ragazzo,
già debole e maltrattato ogni giorno di più,
inevitabilmente si era ammalato e
questo rendeva ancora più difficile
l’addestramento che voleva seguire con i
suoi genitori. Il suo corpo stava iniziando a cedere internamente ma
non era
disposto ad arrendersi, anche perché non aveva niente da
dire a nessuno. Non
sapeva dov’era quel fottuto libro. Tossendo ed arrancando, si
sedette nel suo
solito angolo e si sforzò di restare sveglio.
“Dovresti
riposare” suggerì Kasday.
“No, deve fare esercizio
con noi!” protestò Luciherus.
“Ha ragione
papà. Se muoio prima di avervi riportato a casa,
vi dissolverete e non potrete più rivedervi. Non potrei mai
permetterlo!”.
“E se muori per fare
esercizio con noi?” rimbeccò Kasday.
“Allora sarò
morto per una ragione, nel tentativo di portate
a termine, per una volta, qualcosa che mi ero ripromesso di
fare” gemette
Kevihang, con gli occhi chiusi perché ancora gli bruciavano
per la forte luce
che aveva sempre contro il viso durante le torture.
“Ne vale la
pena?”.
“Ho qualcosa da
perdere?”.
“Non hai paura?”.
“Il Dio della Paura e dei
Sogni è morto da tempo e la sua
sostituta, la sua unica figlia, è ancora troppo piccola per
potermi in qualche
modo alterare”.
Kasday lo guardò con
tristezza e poi chinò la testa.
“Aerimanios, fratello mio,
Dio della Paura dei Sogni…sei
morto per davvero! E cosa ne è stato di mia madre, Dea della
Guerra?”.
“Non è
più in vita neppure lei, mi spiace”.
“Nemmeno
Meneriva…madre mia…chi è rimasto fra
le persone a
me legate, salvo i pochi che ho visto quel giorno al processo? Cosa ne
è stato
dei bei Mondi che ho creato e che ho salvato?”.
“Credo ben poco. Sono tempi
difficili. La Dea delle Armi
dovrebbe essere ancora in vita. Molte divinità sono morte e
quelle che restano
sono molto più deboli di quanto fossero un tempo”.
“Nostra figlia, Luciheday,
però è ancora forte e bellissima”
sorrise Luciherus, prendendo per mano Kasday e baciandogliela.
“Oh, questo posso
confermarvelo di persona” ridacchiò
Kevihang.
Le guardie fuori non facevano
più caso al fatto che parlasse
da solo, per loro era semplicemente un chiaro segnale di follia
derivante
dall’isolamento e dalle torture.
“Non senti crescere un
po’ di fastidio, rabbia, dentro di
te, figlio mio?” azzardò Luciherus “Ti
stanno torturando da giorni, o
settimane, non te lo so dire, perché qui dentro il tempo
è difficile da
calcolare…non provi il desiderio di uccidere
qualcuno?”.
“Quello l’ho
sempre avuto. Ma immagino derivi dal fatto che
mio nonno era il Kaos!”.
“Il Kaos non era
cattivo” lo corresse Kasday “Era inquieto,
com’è giusto data la sua natura, ma non era
cattivo. L’ho avuto nella mia testa
per un sacco di tempo e, credimi, non era come tutti credono. Era un
Dio
connesso con la confusione ed i cambi di stato, ha dovuto seguire lo
scopo per
cui era nato come ora lo sta seguendo mia figlia che ricopre il suo
ruolo”.
“Credimi se ti dico che era
cattivo…” sibilò Luciherus.
“Non più di te o
di me. Ricordati quello che abbiamo
fatto…”.
“Non mi sembra che possa
essere messo sullo stesso piano di
ciò che ha fatto e mi ha fatto lui…”.
“Io, avendolo avuto nella
testa, ho i suoi ricordi passati.
Di quando, ad esempio, giocava con i miei fratelli e mostrava il suo
lato
migliore, l’amore per mia madre…lo sai meglio di
me che trasmetteva i suoi
sensi di colpa su di te, suo sottoposto”.
“Me lo ricordo
bene…”.
“Doveva sottostare al suo
ruolo. Non immagini quanto, in
realtà, abbia sofferto per alcune azioni da lui compiute. Ma
era quello per cui
era stato creato. Anch’io sono stata costretta a compiere
gesti che non avrei
mai desiderato compiere per mantenere fede al mio
scopo…”.
“Tutto questo non ha
senso!”.
“Voglio farvi uscire da
qui. Avanti…procediamo con gli
esercizi” interruppe Kevihang, avendo il sospetto che la
discussione sarebbe
potuta durare ancora a lungo.
Padre e madre si guardarono, con aria
decisamente
contrariata, ad iniziarono a far fare esercizi al loro figlio, che si
sforzò di
incanalare la sua energia ed imparare, inaspettatamente faceva
progressi, fino
a quando non poté far altro che addormentarsi, sfinito,
appoggiato alla parete
di destra. Dopo poche ore la porta si aprì e fu di nuovo
trascinato fuori.
“Dov’è
il Sole?” ebbe la forza di chiedere, fra una percossa
e l’altra, non notando il Dio fra le file dei torturatori.
“Non ti deve importare,
sgorbio!” lo apostrofò qualcuno.
Era nella sala delle vasche per i
livelli magici e si
stavano divertendo ad immergerlo a livelli diversi per vederlo
rabbrividire,
guarire e bruciare.
“Perché non
collabori? Ormai sei pelle e ossa, malaticcio e
debole…” lo consigliò una delle
guardie, tenendolo per i capelli sul bordo di
una delle vasche “…ti converrebbe parlare e porre
fine a tutto questo. Morirai
qua dentro altrimenti, lo sai?”.
“Fottiti”
sibilò Kevihang, sputandogli in faccia.
La guardia gli rimise la testa a
mollo, sconcertato
dall’incapacità di quel ragazzo di smetterla di
essere sfrontato e sbruffone di
continuo.
“Il mio era un consiglio,
testa di cazzo! Se ci tieni tanto
a morire qui, basta dirlo!”.
“Che ti importa? Tu ti
diverti!”.
“Io faccio il mio lavoro. E
tutti noi obbediamo a degli ordini
precisi”.
“L’unico che si
diverte, allora, è il Sole? Assieme alla sua
amichetta dalla pelle blu che fa finta di avere i coglioni quando
sappiamo
tutti che gli Alti sono privi di attributi
sessuali…”.
“Non sai proprio tenere a
freno la lingua, eh? Nessuno di
loro due si diverte a farti questo”.
“Balle!”.
“Sei libero di non
credermi. Noi cerchiamo solo…”.
“Di aiutarmi? Bella
battuta…”.
“Il tuo potenziale
è ampio. Non dovresti buttare la tua vita
per colpa di un pessimo carattere!”.
“Succhiamelo!”
ringhiò il prigioniero, dopo l’ennesima
immersione.
Kasday guardò male
Luciherus, con l’espressione di chi
voleva dire: gli hai insegnato tu queste cose? E l’antico
Principe dei Demoni
si limitò ad agitare la coda, attorcigliandola.
Arrivò un’altra
guardia, più grossa della precedente, che lo
sollevò, tirandogli indietro la testa per i capelli, e
rispose al suo ringhio
con rabbia.
“Sai cosa
accadrà, ragazzino?” sibilò, a pochi
centimetri
dalle orecchie del prigioniero “Accadrà che
l’Alto Ansuz, stufo dei tuoi capricci
e del tuo essere così spocchioso, darà ordine di
agire in modo esterno,
attaccando le persone a cui vuoi bene per srotolarti quella lingua
lunga per
uno scopo valido e non solo per prendere per il culo chi non
è il caso che
offendi”.
“Che intendi?”
gemette Kevihang, cercando di sopportare il
dolore che gli provocava la stretta di quella creatura.
“Il tuo villaggio
è già stato attaccato. Vuoi che dia
l’ordine successivo, cioè di stanare tutti i
superstiti e di metterli a morte?
Magari davanti a te che, per qualche istante, riuscirai e non essere
così
tremendamente irritante ed esaltato?”.
“Voi non sapete dove sono
nascosti…”.
“Ma Urihel è
sempre a portata di mano. Ed anche il caro buon
vecchio Sole. A quello basta minacciare la figlia per fargli spifferare
tutto
lo spifferabile!”.
Il ragazzo non rispose. Sapeva che
quelle due divinità erano
a conoscenza di ogni possibile posto di ritrovo degli abitanti di quel
villaggio che lo aveva accolto. Rimase, per poco, terrorizzato
all’idea ma poi
si riprese e sorrise, con cattiveria.
“Non mi importa di quel
villaggio. Mi hanno sempre odiato.
Hanno avuto paura di me”.
“Anche
Valek-hiteia?”.
“Mamma…”.
“Sì, la tua
mammina adottiva. Vuoi che muoia davanti ai tuoi
occhi? E la tua sorellina? I tuoi fratelli? Il tuo maestro? Tutti
loro…vuoi
vederli morire?”.
“No…”.
“Allora parla! Oppure
darò quell’ordine!”.
“Non ho niente da
dire!”.
Fu immerso ancora alcune volte, sotto
minaccia. Ora era
sospeso a pochi centimetri dalla vasca numero dieci, che ribolliva di
magia
pura.
“Vuoi finire qua dentro?
Moriresti, ed a noi non resterebbe
altro da fare se non catturare tutta la tua famiglia adottiva come
complice del
tuo delitto e sottoporla ai tuoi stessi trattamenti. Non farmi dare
quell’ordine! Parla, oppure indicami chi può farlo
per te!”.
Kevihang non parlava. Rimaneva
immobile, con il calore
emesso da quella vasca che gli faceva chiudere gli occhi ed irritare la
pelle.
Poi la guardia, notando la sua riluttanza, fece un cenno ai suoi
colleghi con
convinzione.
“Informate il grande Ansuz
che è necessario attuare la
manovra da lui proposta” ordinò.
“NO!”
urlò il figlio di Luciherus e Kasday, ed iniziò
ad
agitarsi.
“Non dimenarti, girino!
Ormai è tardi!”.
Kevihang, ignorando anche le parole
dei genitori che gli
suggerivano di calmarsi, continuò a dibattersi fino a
quando, in un attimo,
senza volerlo, si ribaltò e cadde nella vasca, assieme alla
guardia. Si alzò un
denso fumo verdastro e tutti ammutolirono. Le altre guardie si
fissavano con
aria interrogativa e spaventata. Non era così che doveva
andare! Il prigioniero
morto in un modo del genere non era di certo previsto e qualcuno
sarebbe stato
punito.
“È
morto?” domandò qualcuno.
“Ovvio. A quel livello
dubito possa sopravvivere qualcuno…o
qualcosa…” rispose un altro.
“Non può essere
morto...” constatò Luciherus
“…altrimenti io
non sarei ancora qui!”.
Il fumo iniziò a
dissolversi e la terra a tremare.
“Che succede?” si
stupì Kasday, sentendo la terra muoversi
sotto i suoi piedi.
“Il terremoto!”
urlarono le guardie e corsero verso le uscite,
che però si serrarono di colpo.
“Ma
cosa…” sbottò qualcuno, prima di
sentire una risata
agghiacciante alle spalle.
Qualcuno, o qualcosa, stava
riemergendo dalla vasca,
lentamente.
“Io sono il figlio di
Kasday e Luciherus” tuonò una voce
profonda e spaventosa “E voi, miseri omuncoli, avete osato
sfidarmi! Moriranno
tutti coloro che hanno osato intralciarmi! Moriranno tutti coloro che
oseranno
farlo in futuro”.
Kevihang era riemerso, sorretto dalla
magia che lo
avvolgeva. In spirali e rivoli, il liquido verde stava guarendo ogni
sua ferita
e ristabilendo ogni sua funzione vitale. Si stava riempiendo di forza
magica,
modificando il suo corpo. Ogni singola parte del suo fisico stava
assorbendo
magia. Il ragazzo urlò, sentendo tutta
quell’energia divenire parte integrante
di se stesso, ed il terremoto incrementò la sua potenza,
aprendo diversi
crepacci lungo le pareti. Il liquido delle vasche iniziò a
scorrere per la
stanza e Kevihang, divenuto molto più grosso e muscoloso, si
avviò verso il
gruppo delle guardie con un ghigno malefico. Stava ancora mutando. Il
suo corpo
si ingrossava e si modificava. Rideva e la sua risata era
agghiacciante.
Luciherus e Kasday non sapevano come comportarsi e si guardavano,
stupiti ed un
pochino spaventati.
“Non sarò io
personalmente ad uccidervi…” tuonò il
ragazzo,
rivolto ai suoi torturatori “…perché
non spreco le mie energie per delle
nullità come voi. Il mio obiettivo è un altro.
Ma…dubito possiate uscire vivi
da qui!”.
L’edificio stava crollando
e tutte le uscite erano state
bloccate.
“Abbi pietà di
noi…” supplicò una delle guardie.
“Mmm…no!”
rispose Kevihang e diede loro le spalle.
Si stava ingrossando ancora. Le sue
spalle si inarcarono e
la sua coda si allungò, riempiendosi di una peluria
decisamente più lunga di
prima. Le gambe si ispessirono e si piegarono, il viso si
allungò divenendo un
muso e tutto il suo corpo, mentre si piegava sulle braccia, si stava
ricoprendo
di una strana peluria, dello stesso colore dei capelli. Urlò
di nuovo, ora che
il terremoto si era placato, ma il suo non era più un grido
umano ma un verso
animale, un ululato o qualcosa di simile. Kasday e Luciherus si
ritrovarono a
cavallo del dorso del loro secondogenito, ora divenuto un enorme lupo
blu con
fauci e denti acuminati e gli occhi carichi d’odio.
Kevihang iniziò a correre,
puntando verso il muro. Kasday
chiuse gli occhi mentre il figlio lo sfondava senza problemi.
L’edificio, che
lo aveva tenuto rinchiuso per tanto tempo, crollò alle sue
spalle senza dare
possibilità di scampo a chi lo occupava.
Libero, sentendo di nuovo la brezza
dell’aria del mattino,
corse felice mentre Kasday e Luciherus si sforzavano di rimanere in
groppa. Il
tatuaggio sul viso del ragazzo era rimasto inalterato, così
come tutti i segni
simili a filo spinato o gambo di rosa, adattandosi alla nuova
conformazione
anatomica del loro padrone.
“Attento, Kevihang! Tanta
magia ti distruggerà!” gli urlò
Kasday, sicura che non l’avrebbe ascoltata, continuando a
fare di testa sua.
“Mi sto divertendo un
sacco!” rise Luciherus, incitando il
figlio ad andare più veloce.
“Sei impazzito? Hai per
caso segatura nel cervello?” lo
rimproverò Kasday.
“No, perché?
Lascia che si diverta e che si sfoghi!”.
“È un
concentrato puro di rabbia e follia! Hai idea di cosa
abbia in mente di fare?”.
“Qualunque cosa
sia…deve essere fighissima!” rise
l’antico
Dio della Forza e del Coraggio.
“Cerca di fare il serio!
Dammi una mano a fermarlo!”.
“Non ci penso proprio! Vai,
figliolo! Facciamo vedere agli
Universi cosa succede a mettersi contro colui che porta dentro di
sé i geni del
grande Luciherus!”.
Kevihang accelerò il passo
e ghignò alle parole del padre.
“Sai
dov’è il tuo obbiettivo, mio erede?” si
informò
l’antico demone.
“Certo” rispose
il figlio, con un vocione inquietante
“Riconoscerei il suo odore fra mille!”.
“E che odore avrebbe
esattamente?” borbottò Kasday, facendo
sempre più fatica a non cadere.
“Di bruciato”.
“Bruciato?! Non
sarà mica…”.
Kevihang ringhiò ed
accelerò ulteriormente, non lasciando a
Kasday altra possibilità se non quella di sforzarsi di
rimanere in groppa ed
aspettare.
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Capitolo 28 *** XXVIII- lacrime d'inchiostro ***
XXVIII
LACRIME
D’INCHIOSTRO
“Vereheveil?”.
Rikarathör camminava incerto
per la casa del Dio delle
Letterature e delle Lingue. Era ancora insicuro sulla gamba ferita e si
appoggiava, ogni tanto, al muro o a qualche mobile. Era giunto fin
lì grazie ad
una delle creature che sua sorella Marinditi-ya aveva ricevuto in dono
dal
padre, Dio dell’Estate. Su suggerimento di quel Dio, aveva
raggiunto quella
dimora. La porta era aperta e nessuno lo aveva fermato mentre aveva
varcato
l’ingresso. Aveva fatto un giretto per le varie stanze, senza
incontrare anima
viva. Dov’era quell’essere? Non aveva tempo da
perdere giocando a nascondino!
“Vereheveil!”
chiamò ancora, ma non ricevette risposta.
Forse non è in
casa, si disse, ma allora
dov’è?
Uffa…
Starnutì. Quella casa era
una specie di museo abitabile, con
oggetti risalenti ad ogni sorta di Era passata che nessuno aveva il
coraggio di
buttare. Foto di bambini incorniciate con cura ma ricoperte di polvere
e
lacrime, libri non aperti da secoli, giocattoli,
disegni…tutto lasciato lì come
se si volesse mantenere intatto un giorno lontano, ormai troppo
distante per
essere ricordato per davvero.
Rikarathör guardò
fuori dalla finestra. Il giardino era
spoglio, triste, ricoperto da roseti neri e senza vita. C’era
un’altalena, arrugginita
e cigolante, dai colori scrostati, leggermente mossa dal vento.
Cos’erano
quelle pietre tutt’attorno all’unico albero, di cui
restava solo una misera
parte del tronco morto da tempo? Tombe. Alcune di loro troppo piccole
per
essere quelle di un adulto.
“Vereheveil…”.
Chiamò ancora il figlio
del Sole e prese un corridoio
stretto e buio, illuminandolo con la sua luce. Ignorando i rumori
inquietanti
che emetteva quella casa, scricchiolii e sospiri, aprì una
porta di legno verde
che cigolò, volendo mostrare la sua lotta contro i tarli.
“Non voglio essere
disturbato, Kavahel!” sbottò qualcuno
dall’interno.
“Non sono
Kavahel” rispose Rikarathör, entrando.
“E allora chi
sei?” domandò il Dio, senza girarsi.
Erano nella biblioteca, molto
più grande di quella di
Mihael, cosa che il figlio del Sole non credeva potesse esistere.
Vereheveil
non leggeva, come amava fare di solito, ma guardava malinconicamente
fuori
dalla finestra.
“Io…sono un
vecchio amico” parlò Rikarathör.
“Ah…sei
tu” borbottò il Dio delle Letterature, con un
lieve
fremito delle ali “Come osi giungere fino a qui? Dopo quello
che hai detto…e
dopo la condanna che pesa sulla tua testa…”.
“Sono qui per mio fratello.
Se vuoi, puoi pure chiamare chi
di dovere a portarmi via, ma almeno avrò provato ad aiutarlo
in qualche modo”.
“Nessuno ti ha fatto notare
l’insensatezza di insultarmi per
poi venire qui a chiedere il mio aiuto? Per non parlare del fatto che
sei
ricercato. Morto. Perciò…hai fatto davvero una
cosa stupida”.
“Sono il re delle cose
stupide. Ma di certo ho davanti a me
l’imperatore, colui che mette un libro di fondamentale
importanza fra le mani
di un demone rincoglionito”.
“Sempre meno rincoglionito
di te, che continui ad insultarmi
trovandoti a casa mia. Potrei farti uccidere in un istante”.
“Vorrei che prima
ascoltassi ciò che ho da dirti”.
“E perché
dovrei?”.
“Perché non hai
niente di meglio da fare”.
Vereheveil non ribatté e
ridacchiò: “Bene, uomo lucetta.
Accomodati e parla. Ma ti consiglio di sbrigarti perché
presto tornerà mio
figlio ed a lui non piacerà vederti qui”.
“Kavahel?”.
“Ovvio. Ajedrez ha altro da
fare che perder tempo in inutili
battibecchi con i mortali”.
“Io non sono un mortale.
Sono un sanguemisto”.
“Che morirà come
tutti i mortali. Sanguemisto o meno!”.
“Anche tu morirai,
angioletto!”.
“Certo. Ma decisamente
avrò vissuto molto più di te”.
Rikarathör gli fece una
smorfia. Gli dava sui nervi quel Dio
così altolocato ed eccessivamente raffinato. Si
guardò attorno. Le pareti
dovevano essere state affrescate riccamente un tempo, ora avevano preso
il
sopravvento l’umidità e la noncuranza e si erano
scolorite, scrostate e
rovinate. Tutto lì dentro mostrava segni di abbandono e
degrado. Alcune ante
dei mobili erano pendenti o rotte, la polvere e le ragnatele regnavano
sovrane
ed i vetri delle finestre erano ingialliti ed opachi. I lampadari, come
quello
spaventosamente grande che aveva sopra la testa, non erano
più tutti attaccati
al soffitto e si notavano i buchi lasciati da quelli caduti. Quelli
ancora al
loro posto erano pieni di ragnatele e senza candele, cigolanti come il
resto
della casa se mossi dal vento.
“Da quando non date una
bella pulita a questo posto?”
sbottò, starnutendo di nuovo.
“I miei figli venivano
sempre a giocare qui, esercitandosi
con le parole e le lettere. Io conosco a memoria il contenuto di tutti
questi
volumi quindi…questo luogo non ha più senso, ora
che i miei piccoli non ci sono
più, e perciò può anche andare in
malora”.
Il figlio del Sole si strinse nelle
spalle e guardò il Dio
negli occhi, inclinando la testa. Vereheveil scosse le ali nere con
fastidio.
Era da tempo che qualcuno non riceveva il contatto diretto del suo
sguardo
dorato e malinconico.
“Parla”
mormorò il Dio, tornando a guardare fuori dalla
finestra.
Era avvolto dalla sua solita tunica
aranciata, a piedi
scalzi, con le grandi ali nere semichiuse ed i capelli verde acqua
disordinati
e di varie lunghezze.
Rikarathör lo
guardò ed ebbe un sussulto, non poteva stare
tanto tempo in piedi. Il Dio delle Letterature e delle Lingue gli
indicò una sedia.
“Ho notato che sei un
po’ malandato. Siediti. Siamo persone
adulte, non ragazzini dispettosi”.
Il figlio del Sole si
stupì di quelle parole e si sedette,
mentre Vereheveil rimaneva appollaiato al balcone, socchiudendo gli
occhi per
la lieve brezza.
“Io sono qui per poter
ottenere il rilascio di mio fratello
Kevihang”.
“Io adoro la diplomazia
ma…con che basi vieni qui a chiedere
una cosa simile?”.
“Non hai dei
fratelli?”.
“Gradirei molto che usassi
un tono un pelino più rispettoso
con me, sono sempre e comunque un Dio, anche se tu non lo apprezzi
più di
tanto”.
“Devo fare la
riverenza?” sbottò Rikarathör.
“No, per carità!
Ma almeno non rivolgermi la parola come se
mi conoscessi da buon amico!”.
“Peccato…perché
avevo proprio bisogno di una bella chiacchierata
con un amico”.
“Tu sei il figlio del Sole,
vero? Quelle fiamme tatuate ti
rendono subito identificabile come tale”.
“Sì. Sono il
figlio del Sole, anche se lui mi considera come
voi tutti: una brutta e debole copia di se stesso”.
“Non è vero! Lui
ti vuole bene, come ogni buon padre. Ed io
non ti considero così. Non sono nato come Dio, so che
significa quando tutte le
divinità ti guardano dall’alto in basso. Ma ho
imparato ad alzare la testa, più
o meno. Mi ha aiutato molto l’amore di Kasday”.
“Ma poi lo avete
abbandonato…”.
“Io sono un debole. Mi sono
spaventato ed ho cercato la
normalità in una famiglia stabile e duratura. Sapevo che
Kasday avrebbe dovuto
affrontare molti altri passaggi ed io, è vero,
l’ho lasciato solo. Vedere
morire i miei bambini mi ha fatto capire molte cose e se potessi
tornare
indietro…ma non può succedere una cosa simile.
Sono rimasto solo, salvo per mio
figlio Kavahel, com’era giusto che accadesse. Dicono che sia
il Karma a fare
questo, o il Destino. Non credo che mio figlio mi possa fare una cosa
del
genere ma…”.
“Certo che parli davvero
tanto, te lo hanno mai detto?”.
“Oh, sì! Un
sacco di volte! Da che pulpito, ad ogni modo!”.
“E se fosse Kasday a
chiederti di aiutare Kevihang?”.
“Lo farei. Ma lui
è morto tanto tempo fa…”.
“Kevihang è il
figlio di Kasday. E Luciherus. Lo aiuti?”.
“Vacci piano con le
cazzate, non sono buono come posso
sembrare”.
“Non sono cazzate. Ho
sentito le loro voci nella testa. Sono
stati loro a dirmi come evadere il giorno del processo.
Anch’io ho avuto la
stessa reazione quando mio fratello mi ha detto di chi era figlio ma
poi mi
sono ricreduto. Perché dovrei raccontare una cosa
così incredibile, se non
fosse vera? Poi tu, come Dio delle Parole, dovresti capire se mento o
proferisco il vero”.
“Vero. Non mi sembra che tu
menta. Questo può, però, avere
una doppia valenza: è vero, non si sa in che modo, e
dobbiamo liberare Kevihang
prima che il suo potere latente si scateni, oppure sei completamente
pazzo e
sei convinto di dire la verità anche se non è
così”.
“Non sono
pazzo…cioè, sì, lo sono, ma non in
questo caso!”.
Vereheveil abbassò un
sopracciglio e storse la bocca,
sconcertato.
“Beh…tanto a
posto con le rotelle non devi essere!”.
“No di sicuro”.
“Però, del
resto, se quel ragazzo è il figlio di Kasday, spiegherebbe
perché è riuscito ad infrangere quel sigillo con
tanta semplicità. E perché non
abbia mai paura di niente…potrebbe derivare dal fatto che
è figlio della Forza
e del Coraggio”.
“Credo che quella sia solo
incoscienza”.
“Ad ogni
modo…perché non l’hai detto al
processo?”.
“Chi mi avrebbe
creduto?”.
Vereheveil annuì e si fece
pensieroso.
“Ritirerai le accuse su mio
fratello?” incalzò Rikarathör.
“Senti, bello,
può anche essere figlio del più alto degli
Alti ma è comunque un ladro! Ha sottratto un libro molto
importante e,
soprattutto, pericoloso! Non hai idea delle conseguenze che
può comportare il
suo uso”.
“Mi ha assicurato di non
averlo più con sé”.
“Allora mi dica chi lo
possiede adesso. Deve tornare al suo
posto, al sicuro!”.
“Ma se lui non lo
sa…”.
“Non è colpa
mia! Io non posso andare a dire ad Ansuz che
non mi importa più niente di quel libro e che può
fare a meno di tentare di
ritrovarlo, perché non è
così!”.
“Quello stupido e pomposo
affare blu…”.
“Un attimo, mortaluccio!
Chi ti credi di essere? Lui agisce
tentando di dare un senso ed una logica agli Universi e non ne ha colpa
se tuo
fratello non ha disciplina e buon senso! Ma del resto come
può averne, con un
maestro come te da seguire come modello?!”.
“Razza di checca esaltata,
vedi di non alzare il tono con
me!”.
“Tu vedi di non alzare il
tono! È la verità! Anche adesso lo
tratti come un bambino incapace di difendersi e di comprendere i suoi
errori,
probabilmente è così data
l’immaturità che mi pare di aver notato in lui, ma
non è più un problema tuo!”.
“È, e
resterà sempre, mio fratello e mio allievo! Sarà
sempre un mio problema!”.
“Potevi insegnargli
l’educazione e l’uso del cervello. O,
dato che non hai esperienza in nessuna di queste due cose, ti era
impossibile
fare una cosa del genere?”.
“Mi stai dando del
maleducato e dello stupido?”.
“No. Anche se nei miei
confronti e di quelli di altri Dèi lo
sei stato. È che non sei mai diventato adulto e sarebbe ora
che crescessi,
assieme al tuo allievo”.
Rikarathör ebbe una strana
sensazione. Assomigliavano troppo
alle parole della Luna.
“Io sono un adulto e mi
comporto da adulto!”.
“Essere adulto non
significa fare le cose che fanno gli
adulti, o esserlo fisicamente, ma ragionare come tale. Un uomo si
prende tutte
le responsabilità delle sue azioni, cerca di prevedere gli
eventuali problemi
che possono provocare le sue decisioni e tenta di limitare gli istinti
per
soddisfare i suoi capricci, senza prendere sempre tutto alla
leggera”.
“Come sai che sono
così?”.
“Lo sei per come ti sei
comportato e per come tratti quel
ragazzo. Tu e lui volete una cosa e non vi importa di quanto fastidio e
male
possiate fare a chi avete accanto. Pensate a ciò che
desiderate ed andate, come
un mulo contro un muro, e così insistete. Bisogna rendersi
conto dei propri
limiti”.
“Io non ho fatto male a
nessuno”.
“La Dea della Luna
è sempre sotto l’occhio vigile di Ansuz
adesso, perché non hai saputo tenere a freno quella lingua
lunga! Il tuo
villaggio è stato distrutto per quanto avete irritato, tu e
tuo fratello,
l’Alto. Ancora convinto di non aver fatto niente di
male?”.
“Un
momento…quello non è stata per colpa
mia!”.
“Non capirai mai,
vero?”.
“Crepa”.
“Vorrei, in
effetti”.
“Bene. Mi auguro che la tua
morte sia lenta e dolorosa”.
“Spero anche la tua,
meticcio”.
Si guardavano con odio e
Rikarathör si accese leggermente.
Le orecchie a punta del figlio del Sole fremevano, come fremevano le
piume del
Dio delle Letterature. Si alzarono contemporaneamente, assumendo un
atteggiamento di sfida.
“Facciamo così,
sanguemisto: sconfiggimi, ed io ritirerò
tutte le accuse”.
“Scherzi?! Tu non sai
combattere!”.
Vereheveil spalancò le ali
e richiamò a sé le energie,
sempre guardando con rabbia lo sfidante. Così facendo, aveva
aumentato le sue
dimensioni ed illuminato se stesso di magia verdastra.
“Mostrami ciò di
cui sei capace, figlio delle stelle”.
“Eccomi che arrivo, piumino
col pancino scarabocchiato!”
ringhiò Rikarathör, serrando i pugni.
Le fiamme tatuate sul suo corpo
guizzarono. Non poteva
aumentare di dimensioni ma non lo spaventava la prospettiva di sfidare
apertamente quella divinità.
“Sai…è
buffo! Con gli studi che faccio, dovrei adorarti”
ghignò il sanguemisto, prima di creare una piccola palla di
fuoco fra le mani.
Stava ignorando il suo sigillo, che
ruotava l’iride da tutte
le parti e tentava di tenere a freno il potere del suo portatore con
piccole
scosse.
“Proprio buffo. Pensa che
io dovrei proteggerti…” rispose
Vereheveil.
L’aspetto del Dio era
notevolmente cambiato. Aveva di nuovo
le fattezze di quando era molto più giovane, con grandi
occhi vispi e riflessi
pronti.
Il figlio del Sole, quando la pallina
di fuoco crebbe fino
alle dimensioni da lui desiderate, si concentrò e la
lanciò verso il suo
avversario, che si avvolse nelle grandi ali nere, senza riportare alcun
danno.
“Non male, per essere
quello che sei” commentò il Dio delle
Letterature.
Rikarathör
ghignò, infastidito, e creò una palla
più grossa.
Vereheveil la bloccò pronunciando poche parole, in una
lingua che pochi
conoscevano. Poi ne pronunciò altre e Rikarathör si
ritrovò assalito dalla
magia del Dio. Accentuò le sue fiamme e si liberò.
“Dovrai fare meglio di
così!”.
“Non stuzzicarmi! Conosco
tutte le formule magiche degli
Universi. Vuoi che le usi contro di te?”.
Il Dio delle Lingue e delle
Letterature prese il volo, seminando
qualche piuma nera nella stanza, e si preparò per attaccare
di nuovo. Borbottò
una strana formula e dalle sue penne nere si diramò una
fitta rete di energia
magica. Il figlio del Sole alzò entrambe le mani e
formò una barriera
aranciata, come una specie di uovo luminoso che lo avvolse. I colpi di
Vereheveil non lo centrarono, tranne alcuni guizzi magici che gli
lasciarono
dei segni simili a lettere sulla pelle.
“Feriscono più
le parole che le armi, lo sai, mezzosangue?”
affermò il Dio.
“Sparati!”
rispose il sanguemisto, preparandosi ad attaccare
di nuovo.
Creò altre sfere di fuoco
e le scagliò verso il suo
avversario, che le schivava in volo.
“Smettila di svolazzare,
pennuto schifoso! Atterra, e
combatti da uomo! Sempre che uno come te ne sia capace!”.
“Non diventare
offensivo!” tuonò Vereheveil, scendendo in
picchiata e fiondandosi sul figlio del Sole che, colto alla sprovvista
ed
essendo di dimensioni minori rispetto al Dio, cadde in terra.
Ma riuscì ad afferrare per
le braccia la divinità, che lo
stava trascinando lungo il pavimento, ed a concentrare il suo calore
fra le
mani. Vereheveil urlò, sentendo la pelle bruciare.
Lasciò andare
Rikarathör e si rialzò, barcollando e
guardandosi gli arti bruciati. Ringhiò, cosa che faceva
raramente, e spalancò
di nuovo le ali. Un’ondata di magia nera, come uno schizzo
d’inchiostro,
investì il figlio del Sole, che venne scaraventato contro
uno scaffale della
libreria. Si alzò una gran nube di polvere e molti libri
caddero. Rikarathör si
scosse, tossendo, e si rialzò.
“Hai la testa dura, come
tuo padre! Speravo che rimanessi
almeno un po’ a terra!” sibilò il Dio.
“Oh, sì! Ho
proprio la testa dura! Spera invano!
Avanti…fatti sotto!”.
Vereheveil riprese quota ed
iniziò a battere le ali in un
modo particolare, formando una corrente che, comandata dalle formule
magiche
che pronunciava, sollevò da terra il figlio del Sole e lo
lanciò nel lato
opposto della biblioteca. Di nuovo a terra, Rikarathör
gemette, indolenzito, e
vide il Dio avanzare velocemente verso di lui, pronto ad attaccarlo di
nuovo.
Non vedendo altre alternative, afferrò un grosso volume che
gli era caduto
accanto e lo lanciò contro Vereheveil. Lo colpì
in piena faccia. Si ribaltò e
si fermò, toccandosi il viso. Il mezzosangue, nel frattempo,
era riuscito a
rialzarsi ed era pronto per continuare lo scontro. Lanciò
quattro sferette di
fuoco, che sfiorarono il Dio.
“Hai mancato il tuo
obbiettivo…” ansimò Vereheveil, non
abituato alla lotta.
“Sei sicuro?”
rispose l’avversario, anche lui con il
fiatone.
Il Dio delle Letterature
urlò. I suoi preziosi libri erano
in fiamme e lui li sentiva bruciare. Sentiva se stesso bruciare da
dentro.
“Sei un vandalo!”
gridò, stringendosi il petto ed
inginocchiandosi a causa della sensazione fastidiosissima che provava e
che tentava
di sedare.
“Non amo bruciare i libri.
Ma questo è l’unico modo per
indebolirti”.
Vereheveil si alzò,
pronunciando parole rivolte alle fiamme
che, in parte, smisero di consumare le amate pagine che aveva custodito
per
Ere.
“La pagherai per
questo” sibilò, lanciando un’occhiata
perfida al suo avversario, che si preparò a ricreare la
barriera protettiva per
controbattere.
Erano pronti, l’uno contro
l’altro, quando la terra iniziò a
tremare.
“Che succede?! Il terremoto
su questo pianeta?!” si stupì
Vereheveil.
Le pareti si muovevano in modo poco
rassicurante. Entrambi
si fissarono e diedero priorità alla propria vita, tentando
di guadagnarsi
l’uscita. I libri cadevano a terra, si aprivano crepe sotto i
loro piedi e
tutto scricchiolava in modo inquietante. I quadri alle pareti caddero,
infrangendo la loro cornice e, dove c’era, il vetro che li
proteggeva. Uno dei
lampadari cedette, a poca distanza dai due fuggitivi, che lo schivarono
con un
salto laterale ed un sussulto. Vereheveil si guardò indietro
e vide un’ombra
sulla sua testa. Uno degli scaffali, quello già indebolito
dal fuoco di
Rikarathör, aveva ceduto e lo aveva travolto. Bloccato da
metà ventre in giù,
tentò di liberarsi ma non ci riusciva. Gridò. Nel
frattempo la terra aveva
smesso di tremare ed il figlio del Sole si era fermato. Guardava il suo
avversario, senza espressione nel volto.
“Ci provi gusto a vedermi
morire?” ansò Vereheveil, sentendo
le energie abbandonarlo.
“Non sono così
crudele” ammise Rikarathör e si avvicinò
al
Dio, cercando un modo per aiutarlo.
Ma quello scaffale era pesante e da
solo non era in grado di
sollevarlo.
“Vado a cercare
aiuto” esclamò, dopo aver esaminato la
situazione.
“No. Aspetta!” lo
chiamò il Dio delle Letterature.
Il mezzosangue si tornò a
girare verso il padrone di casa e
gli si inginocchiò accanto.
“Cosa
c’è? Dai…un paio di Dèi lo
sollevano questo coso, cosa
vuoi che sia? Vado a chiamarli!”.
“Tu non ti muovi di qui. Se
qualcuno di loro ti vede, sei
morto. Ti consegneranno ad Ansuz e verrai giustiziato. Non mi va che
accada
questo”.
“Suvvia, chissenefrega!
Fammi cercare aiuto!”.
“Smettila! Muoio in un gran
bel modo, meglio di quanto
avessi potuto immaginare. Tu sei l’erede del Sole, non puoi
morire. Io sì,
ormai. Ho fatto il mio tempo”.
“Ma chi prenderà
il tuo posto? Non dire fesserie! Ora vado a
cercare aiuto”.
“Resta qui con me. Non
voglio andarmene da solo”.
“AIUTO!”
gridò Rikarathör, sperando che qualcuno lo
sentisse.
“Forse ora
rivedrò le persone che ho amato e che ho perso”.
“Muori per colpa
mia…”.
“Non dire
stupidaggini…”.
“Ma…”.
“È giusto che
vada così”.
Vereheveil guardò
Rikarathör negli occhi e gli sorrise: “Mi
hai fatto capire e mi hai riportato alla mente molte cose. Non male per
un
semplice sanguemisto…ora và da tuo fratello,
perché è lui che ha bisogno di te.
Fra tutti i miei libri ce n’è uno con la copertina
verde. Quello là sopra, lo
vedi?” sussurrò il Dio, guardando un punto dello
scaffale di fronte con gli
occhi dorati.
Il figlio del Sole annuì e
Vereheveil continuò: “Leggilo
attentamente. Contiene degli incantesimi che ti aiuteranno a farlo
evadere ed a
proteggerlo da Krì”.
“G…grazie…”
borbottò il sanguemisto, senza trovare altre
parole.
Il Dio delle Letterature e delle
Lingue brillava sempre di
meno, finché non si spense. Le ali smisero di fremere e
rimasero immobili,
mosse solo dal vento. Chiuse gli occhi, divenuti di nuovo belli e
lucenti come
sempre, e versò solo una lacrima, nera come
l’inchiostro. Vereheveil morì,
ucciso dalla stessa linfa che aveva, e che lo aveva, alimentato per Ere
intere.
Rikarathör si
alzò, senza parlare, e si mise sulle punte per
afferrare il libro indicato dal Dio. Riuscì a prenderlo ma,
a causa
dell’instabilità in cui versava tutta la stanza,
quel piccolo spostamento di
peso provocò un crollo. Tutti gli scaffali franarono, in un
curioso effetto
domino, alzando una gran nuvola di polvere. Tossendo e senza vederci
molto,
tentò di guadagnarsi l’uscita. Solo che
all’ingresso dell’immensa stanza ora
c’era Kavahel, che lo guardava allarmato.
“Dov’è
mio padre?” urlò al figlio del Sole che, preso
alla
sprovvista, farfuglio una risposta sconnessa ed incomprensibile.
“Tu! Sei quello ricercato!
Dove credi di andare con quel
libro? Rendimelo subito. Sei un ladro come il tuo allievo
Kevihang!”.
Rikarathör, non sapendo come
giustificarsi e non trovando
scuse credibili, cambiò direzione e si mise a correre verso
una delle finestre.
Voleva uscire e quella non era la prima finestra che sfondava. Chiuse
gli
occhi, mentre Kavahel lo inseguiva ordinatogli di fermarsi e bloccandosi solo
quando vide suo padre riverso a terra. Il figlio del Sole
accelerò il passo,
alle sue spalle sentì un urlo agghiacciante di disperazione
e rabbia. Salì in
groppa alla creatura che lo aveva condotto fino a lì e si
allontanò
velocemente, libro sottobraccio, riuscendo solo ad intravedere, per un
attimo,
Kavahel. Piangeva ed urlava, come chiunque rimasto solo al Mondo. Non
aveva più
nessuno, oltre ai suoi due fratelli Destino e Kaos che non facevano
altro che
innervosirlo e stancarlo, e questo, ora, lo aveva messo in ginocchio.
Guardò
Rikarathör con uno sguardo che lo fece rabbrividire.
“La pagherai”
mormorò “LA PAGHERAI!” ripeté
più forte, in
modo che potesse sentirlo.
Il figlio del Sole fece accelerare la
sua cavalcatura color
cioccolato, inseguito da fulmini e tuoni, chiedendosi perché
tutti volessero
ucciderlo ultimamente.
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Capitolo 29 *** XXIX- Ragnarok ***
XXIX
RAGNARÖK
Kuetzalikay osservava
l’orizzonte in groppa alla sua strana
cavalcatura verde. Sorrideva, soddisfatto. Iniziava a vedere
chiaramente i fili
del suo destino tendersi ed intrecciarsi come aveva pronosticato e
sperato. Era
una giornata piacevole, il Sole splendeva e soffiava solo una lieve
brezza
fresca, anche se era evidente la nebbia provocata dalle polveri
sollevate dal
recente terremoto.
Il più giovane degli Alti
portava un lungo mantello, che
secondo lui dava un tocco di stile, agganciato sul petto da un ampio
collare
decorato. La sua pelle verde riluceva alla luce dell’astro
nel cielo, mettendo
in evidenza i motivi geometrici disegnati su di essa. Gonfiò
le grandi piume
rosse che fungevano da suoi capelli e sbatté gli occhi da
serpente. C’era
tensione nell’aria e lui riusciva ad avvertirla chiaramente.
Agitò la coda e
ghignò, passandosi la lingua biforcuta sulla bocca
larghissima.
“È un piacere
rivederti, Signore delle Stelle” salutò
l’Alto, educatamente.
Il Dio del Sole stava risalendo la
collina in groppa al suo
solito destriero alato, di colore rosso.
“Piacere mio. A cosa devo
la Vostra presenza qui?”.
“Passi sempre per di qua a
quest’ora, seguendo il corso del
Sole di questo Pianeta”.
“Esatto, ma questo non
risponde alla mia domanda”.
“Aspetto gente.
Perché non mi tieni un po’ di
compagnia?”.
“Io dovrei
lavorare…ma se insistete…chi state
aspettando?”.
“Lo vedrai…lo
conosci anche tu”.
Il Sole guardò il giovane
Alto con sospetto e non disse
nulla.
“Dov’è
tua figlia?”.
“Selene? Dovrebbe arrivare.
Di solito, quando è bel tempo,
ci incontriamo da queste parti per mezzogiorno. Mangiamo
assieme”.
“Sei fortunato.
È una bellissima bambina”.
“Credo sia stanca di
sentirsi definire una bambina, anche se
io la vedrò sempre così”.
“Per i genitori, i figli
non crescono mai. Basta vedere come
mi tratta mio padre. Ma presto le cose cambieranno, puoi starne
certo”.
“Cos’è
quello?” domandò il Sole, dopo aver sghignazzato a
Kuetzalikay.
Qualcosa si avvicinava velocemente,
dalle terre del Kaos.
“Niebla deve aver fatto
scappare un’altra delle sue bestie”
commentò l’Alto.
“Sta venendo qui”
constatò il Dio, facendo fatica a
trattenere la sua cavalcatura.
E Kevihang giunse velocemente, a
grandi balzi, e spalancò le
fauci da lupo. Il suo pelo blu scuro brillava, mosso dal vento, ed a
nulla
servivano le grida di Kasday che gli suggerivano di fermarsi. Arrivo
correndo,
risalendo la collina a balzi, e digrignò i denti. Affilati e
lucenti,
riflettevano la luce esterna, fecero sobbalzare il Dio del Sole.
“Dobbiamo
andarcene” disse, dando un colpetto alla groppa
del suo destriero.
“Dai…non avrai
paura di una creaturina del Kaos?” lo derise
l’Alto.
“Creaturina?! È
enorme! Almeno quattro volte me!”.
“Ma è solo una
creatura del Kaos. Di livello magico
decisamente misero”.
Il Dio del Sole guardò
l’Alto e si preparò difendersi. Non
sarebbe scappato, se quel ragazzino restava lì immobile. Ma
c’era qualcosa in
quell’enorme lupo che non lo convinceva. Non era una semplice
creatura del
Kaos…aveva qualcosa…quel disegno sul suo viso
dove lo aveva già visto? Aprì la
mano, dopo aver sollevato il braccio, pronto a difendersi da quella
bestia che
stava per balzargli addosso. Avvolse se stesso e la sua cavalcatura in
una
bolla di fuoco ma questo non bastò a fermare Kevihang che
riuscì ad andare
oltre, spegnendo le fiamme, disarcionando il Sole.
“Kevihang!”
esclamò il Dio “Sei quel ragazzo
che…”.
“Che hai torturato.
Bravo!” rispose il lupo, con voce
tonante, spalancando la bocca.
“Kuetzalikay! Ti prego! Fai
qualcosa! Aiutami!” supplicò il
Sole, vedendo che le sue fiamme non riuscivano a respingere quella
bestia né la
ferivano in qualche modo.
L’Alto non disse
né fece nulla. Rimase lì fermo e
salutò
Kevihang, che gli sorrise, prima di ricominciare a ferire mortalmente
la
divinità che governava tutte le stelle.
Rikarathör era riuscito a
raggiungere le grotte in cui si
erano rintanati tutti i superstiti del suo villaggio. Era stanco ed un
po’
malconcio ma, appena arrivato, si concentrò subito sul libro
verde che gli
aveva indicato Vereheveil. Voleva trovare il modo per aiutare il
fratellino
nonché allievo. Constatò con sollievo che nessuno
della sua famiglia aveva
subito delle conseguenze gravi dalla scossa di terremoto precedente.
Sua madre
lo guardò preoccupata, vedendolo tornare così
impolverato e ferito, ma non fece
domande perché sapeva che non le avrebbe risposto.
Loreatehenzi lo guardò
sghignazzando e scuotendo il capo.
“Sei il solito testa di
cazzo! Cos’hai combinato, stavolta?”
commentò.
“Non ti deve
importare”.
“Un altro libro? Non dirmi
che hai un nuovo Dio che ti vuole
uccidere…”.
“Beh…ecco…sì
e no. Ribadisco il concetto di prima: lasciatemi
in pace”.
Il figlio del Sole andò a
rintanarsi in una rientranza della
grotta dove poter stare tranquillo almeno per un po’. Si
accoccolò nel buio ed
iniziò a leggere, illuminando le pagine con la fioca luce
che ora emetteva.
Combatté contro la stanchezza, per non chiudere gli occhi, e
contro il dolore.
Pur essendo il Dio delle Letterature, Vereheveil gli aveva inferto
alcune
ferite piuttosto fastidiose. Ricominciò a leggere, dopo
essersi rinfrescato i
tagli ad una piccola sorgente interna alle grotte, ma venne interrotto
dall’abbaiare insistente della cagnolina di sua sorella o,
per meglio dire, di
quella strana creatura rassomigliante ad un cane che ora latrava come
una pazza
sotto la sua postazione rialzata. Rikarathör
sospirò, cercando di ignorarla, ma
la bestia non diede segno di volersi fermare.
“Piantala!” le
urlò, dopo un po’, ma lei continuò con
maggior convinzione.
“Brutta
stupida…” borbottò il figlio del Sole,
tentando di
concentrarsi.
“Rik, dovresti scendere da
lì” lo chiamò il fratello
Loreatehenzi.
“Le parole NON VOGLIO
ESSERE DISTURBATO per voi che
significano? Sparite!”.
“Ma
c’è un problema”.
“E sarebbe?”.
“Non so. Credo abbia a che
fare con tuo padre”.
“In che senso?”.
“Scendi e guarda”.
Rikarathör scese dalla sua
postazione, lentamente, e seguì
suo fratello, che avanzava a grandi passi verso l’uscita
delle grotte. Insieme
giunsero all’aperto, facendosi strada fra la folla di curiosi
che si era
radunata.
“Quella…non
è la cavalcatura di tuo padre?” domandò
Loreatehenzi, indicando il destriero del Dio del Sole, scappato dopo
l’assalto
al suo padrone.
“Sì…”
ammise Rikarathör “…ma è
davvero strano che sia qui da
sola”.
“Eppure non
c’è nemmeno l’ombra del Dio del Sole, ma
solo il
suo destriero. Che mi pare parecchio agitato, fra
l’altro…”.
L’animale, col dorso e gli
occhi infuocati, scalciava ed
agitava la coda rossa.
“State lontani”
suggerì il semidio del fuoco “Diventa molto
aggressivo se non è il suo padrone a toccarlo. Solo a lui
è concesso
avvicinarsi”.
“Ma che senso ha che sia
qui da solo?”.
“A me lo chiedi,
Lore?” sbottò il fratello maggiore
“Però mi
fa pena. Guardalo…sembra davvero molto spaventato”.
Si avvicinò alla bestia
lentamente, invitandola a stare
calma. Nessuno poteva avvicinarsi. Per la tensione che aveva in corpo,
l’animale lanciava piccole fiamme dal dorso.
“Cosa ci fai qui, tutto
solo? E dov’è mio padre, il tuo
padrone?”.
Il destriero guardò verso
Rikarathör e parve rilassarsi,
anche se per poco. Avanzò deciso nella direzione del figlio
del suo padrone ed
iniziò a scuotere la testa verso una precisa direzione.
“Vuoi che ti segua?
È successo qualcosa?”.
Il cielo mutò di colore,
improvvisamente. Era tutto rosso,
rosso sangue, come un immenso tramonto. Ma era mezzogiorno o poco
più, non
avevano senso quei colori. Inoltre mutavano, divenendo sempre
più tenui.
“Mi sento strano”
mormorò il figlio del Sole, stringendosi
il sigillo ed avvertendo un insolito malessere sconosciuto.
Il destriero mosse le zampe e
richiamò l’attenzione con dei
versi sempre più insistenti.
“Ho capito. Vuoi che ti
segua. Va bene, vengo con te. Fammi
strada”.
“Non dovresti
andare” gli consigliò Valek-hiteia “Hai
un
brutto aspetto. Cosa c’è che non va?”.
“Guarda in cielo, mamma.
Ecco cosa c’è che non và. Io
starò
meglio presto, vedrai. Fidati…”.
Si girò verso
l’animale impaziente, che chinò il collo come
a voler indicare che voleva un cavaliere.
“Solo il Dio del Sole
può cavalcarti. Non io”.
Ma la bestia insistette ed attese.
Rikarathör allungò una
mano ed, inaspettatamente, la creatura si fece toccare. Era
straordinariamente
calda e piacevole al tatto, le fiamme che guizzavano su di lei
solleticavano
leggermente sulla pelle e Rikarathör sorrise.
“Avete metà
codice genetico in comune. Forse a questo coso
va bene comunque…” commentò
Loreatehenzi, notando lo stupore e la perplessità
del fratello.
Il figlio del Sole salì in
groppa, sempre più sconcertato
nel constatare che più di qualcosa non andava. Si mise un
po’ ad abituarsi a
quella strana creatura, che lo avvolgeva fra le sue fiamme senza
bruciarlo o
portargli alcun tipo di conseguenza.
“Portami dove
devi…” disse, e partì ad altissima
velocità.
“Deve essere successo
qualcosa di grave” commentò
Valek-hiteia, guardando tutti i suoi figli.
“Forse è meglio
se andiamo con lui…” azzardò
Marinditi-ya.
“Non ancora. Se vedremo che
tarda, allora potrete
raggiungerlo. Quella bestia lascia delle chiare tracce dietro di
sé”.
Essendo fatto per buona parte di
fuoco, quella creatura
imprimeva nel terreno ogni tocco delle sue zampe. Non poteva volare,
probabilmente ferita da Kuetzalikay, ma correva velocissima, avvolta in
una
bellissima scia di fiamme. Il suo cavaliere si sentiva sempre
più strano.
Un’insolita sensazione di nausea e di debolezza, la testa gli
girava, lo stava
avvolgendo.
“Che mi succede?”
gemette, toccandosi il sigillo che sentiva
stringere attorno al suo collo.
Semplicemente lo sfiorò
con le dita e questi si staccò,
infrangendosi in migliaia di frammenti dorati, ed il suo portatore
avvertì una
fortissima scossa, come un brivido, simile a quello che si prova quando
si
prende il primo respiro dopo una lunga apnea. La sensazione di
malessere che
provava iniziò a placarsi, sostituita da un molto
più piacevole flusso
d’energia primordiale. Come se il fuoco stesso avesse preso
il posto del suo
sangue, la pelle del figlio del Sole brillò, più
forte che mai, ed i suoi
tatuaggi si accesero di fiamme vive. La pesante tunica rossa che
indossava
bruciò, nei punti in cui aveva quei disegni, e lui non
poté fare a meno di
urlare, avvertendo tutto quel potere dentro di sé. Le ferite
provocate dal Dio
delle Letterature erano guarite, la stanchezza scomparsa e quel fuoco
vivo
alimentava ogni sua cellula. Sorrise, per un attimo, prima di
constatare che,
se lui aveva tutto quel potere, probabilmente era successo qualcosa di
grave al
padre. Incitò l’animale che cavalcava ad andare
più in fretta, mentre il cielo
era sempre più buio.Di sfuggita, intravide una luce a lui
familiare e si bloccò.
“Selene”
chiamò.
Scese dal suo destriero e corse verso
quella luce argentea,
preoccupato che fosse successo qualcosa di grave anche a lei. La vide.
Era
seduta sulla riva di un piccolo fiume, poco più che una
sorgente, e si
sistemava i lunghi capelli color delle stelle.
“Selene” la
chiamò di nuovo.
“Papà”
mormorò lei, con un tono di voce piuttosto triste.
“Io…non sono
papà…”.
La Dea si girò e lo
fissò, stupita: “Rik? Sei tu?”
domandò.
“Sì.
Và tutto bene?”.
“Cosa ti è
successo?”.
“A te
cos’è successo! Piangi…”.
La Dea si girò, dando le
spalle al fratello, e tentò di
asciugarsi gli occhi come poteva: “Da quando non ti guardi
allo specchio,
fratello?”.
“Da un po’, in
effetti…”.
“Vieni qui”.
Il figlio del Sole si
specchiò nell’acqua fresca e trasalì.
Era la copia identica di suo padre, con la sola differenza del colore
degli
occhi e dell’aspetto leggermente più giovane. I
lunghi capelli gli guizzavano
sulla testa, ordinati in modo da formare dei singolari raggi rossi, e
tutta la
sua pelle aveva assunto una colorazione tendente all’arancio.
“Da quando sei
così?” domandò la Dea.
“Non molto. Mia madre lo
avrebbe notato…credo che sia
successo qualcosa a papà. Mi si è rotto il
sigillo e…”.
“A papà? Dove?
Quando?” si allarmò la Luna.
“Non lo so! Ma il suo
animale è venuto a prendermi…”.
“Andiamo, allora!
Presto!”.
“Non mi dici
perché piangi?”.
La Dea non lo degnò di uno
sguardo, o di una risposta, e
salì sulla sua creatura alata ed argentea, pronta a partire.
Partì di corsa,
anche se la bestia del Sole la sorpassò facilmente subito
dopo, per condurre
entrambi su quella collina in cui Kevihang stava lentamente uccidendo
il loro
genitore.
“Avanti, Selene! Dimmi
perché piangi…” domando
Rikarathör,
mentre entrambi correvano fra le rocce ed il gelo di quel pianeta
morente.
“Piangevo. Come vedi, ora
non lo faccio più” rispose lei,
senza voltarsi.
“Ok…allora
perché piangevi?”.
“Perché hai
fatto una grossa cazzata”.
“A quale ti riferisci? Ne
ho fatte tante di grosse
cazzate…”.
“Ti ho visto. Con tua
sorella…”.
“Sì…hem…e
allora?”.
“L’hai
baciata!”.
“Ah! Per quello!
Suvvia…era solo un bacio”.
“Come sarebbe a
dire?!”.
“Un semplice bacio. Non
abbiamo fatto nulla di più! Non è
importante, un bacio!”.
“Nemmeno io e te abbiamo
fatto nulla di più” sibilò la Luna,
guardandolo con rabbia.
“Sì,
è vero. Ma io amo te!”.
“E allora perché
hai baciato lei?”.
“Beh…quello non
te lo so dire…”.
Il destriero di Rikarathör
ebbe un sussulto, come a tentare
di far star zitto il suo cavaliere. Un monito che assomigliava ad un
“non
aprire la bocca, che peggiori solo le cose”.
“Che intendi con quel: non
te lo so dire?”.
“Quello che ho detto. Credo
dipenda dalla chimica…dopotutto
lei è la Terra ed io il Fuoco, il Sole.
C’è alchimia fra di noi, suppongo”.
“Te la do io
l’alchimia!” gridò la Luna, incitando la
sua
stupenda cavalcatura a virare leggermente, in direzione del fratello.
Aveva gli occhi guizzanti
d’ira, ancora umidi dalle lacrime.
La creatura del Dio del Sole virò, agilmente, ed
accelerò la sua corsa. Il
cielo si faceva sempre più scuro.
“Credo sia il caso di
concentrarsi sui problemi di papà,
adesso, e poi sui nostri” suggerì
Rikarathör, cercando una via di fuga da
quella situazione.
“Sì, certo.
Prima i problemi di papà. Poi preparati perché
ti aspetta qualcosa di veramente brutto, prima a te e poi a quella
stronza di
tua sorella!”.
Continuarono a correre, fino a
giungere in prossimità della
collina.
“Che bestia è
quella?” si allarmò il sanguemisto,
intravedendo il lupo blu scuro.
“Mai visto niente di
simile. Però c’è Kuetzalikay. Forse ha
aiutato lui papà…”.
“O è la fonte
dei suoi guai…”.
“Cosa intendi?”.
“Niente.
Avviciniamoci”.
Il Dio del Sole stava a terra e
continuava ad essere
attaccato, ripetutamente, da Kevihang, che evidentemente si stava
divertendo a
torturalo per ucciderlo lentamente. La Luna, vedendo quella scena, si
preparò a
difendere il suo genitore ma Rikarathör la fermò.
Aveva riconosciuto i disegni
sul muso di quella enorme creatura feroce e, anche se non poteva
crederci,
tentò di farla ragionare.
“Kevihang…sei
tu?
Che cosa...cosa stai facendo?!” urlò.
Il lupo blu si fermò e lo
guardò, con grandi occhi
aranciati, leccandosi le labbra.
“Sei impazzito?!”
continuò il suo maestro.
“Sta facendo la cosa
più giusta” rispose Kuetzalikay “Largo
alle nuove generazioni!” aggiunse, avvicinandosi in groppa al
suo destriero
verde e sfiorando, con le lunghe piume rosse, la pelle del figlio del
Sole, che
reagì scostandosi.
I destrieri dei due si osservarono,
ringhiando sommessamente
l’uno contro l’altro. Kevihang rise, nel solito
modo agghiacciante ereditato
dal padre Luciherus, e mutò leggermente. Prese la forma di
una specie di uomo
lupo dal pelo blu.
“Cosa ci trovi da ridere,
demente? Hai attaccato il Sole!”
lo rimproverò il maestro.
“Ho ucciso il
Sole” corresse l’allievo.
“Ucciso?”.
Il figlio girò la testa
verso il padre. Selene era scesa
dalla sua cavalcatura ed era andata accanto al genitore, chiamandolo.
Non era
ancora morto ma, dai suoi occhi e dalla scarsa luce che emetteva
l’astro nel
cielo, si capiva che non sarebbe rimasto ancora a lungo in vita.
Luciheday, Dea
della Morte, giunse sul dorso del suo destriero nero, falce alla mano,
guardandosi attorno per stabilire per quale motivo si trovasse in quel
luogo.
“Dharam!”
esclamò, vedendo il Sole a terra “Cosa ci fai
lì?
Non dirmi che sono venuta fin qua per te! Su, su, alzati! Il Sole non
muore. Si
stanca e si ritira in qualche luogo isolato dove si consuma lentamente
fino a
divenire semplice e pura luce. Alzati”.
“Temo che, per questa
volta, al Sole tocchi morire. E non
usare quel nome…con tanti che me ne han dati in tutte queste
Ere di vita…”
mormorò il Dio, sorridendo a fatica.
“Non dire fesserie! Alzati!
Cosa vuoi che sia…qualche
graffio, qualche squarcio…qualche ferita
incurabile…” e perfino la Dea della
Morte si rese conto che non c’era molto da poter fare per
aiutare il Dio di
tutte le stelle.
“Un momento! Non potete
portarlo via! Lui è il Sole!” sbottò
Rikarathör.
“E tu chi sei?”
rispose la Morte.
“Suo figlio”.
“Il Sole”.
“No..hem…tecnicamente
sono un mezzosangue. Sono mezzo
Sole…”.
“Tecnicamente davanti a me
vedo il nuovo Dio del Sole e sì,
tecnicamente, a me sta bene così. Se
c’è un nuovo Sole, pronto a sostituire
quello vecchio, allora posso fare tranquilla il mio lavoro.
Prendetevela con
qualcun altro!”.
“Io non sono il Dio del
Sole!” protestò Rikarathör.
“Ed io non sono la Dea
della Morte” ironizzò Luciheday.
“Ah, ah…che
ridere!”.
“Su, dai. Rilassati! Sei
pure carino con quel taglio di
capelli…”.
“G…”
partì a ringraziare d’istinto, per poi fermarsi e
ripartire di getto “Grazie. Ma non è questo il
punto!” aggiunse, dopo aver
cambiato espressione, passando dal lusingato allo scocciato.
Nel frattempo si era unito alla
“allegra comitiva” anche
Krì, l’Alto Ansuz, con la sua cavalcatura
giallognola, seguito da Kiaritanya.
“I cavalieri
dell’apocalisse…” ridacchiò
Luciherus,
collegandone uno per ogni colore.
“Che succede
qui?” sbottò l’Alto, guardandosi attorno
“E
cos’è successo al Sole?”.
“Storia
lunga…” iniziò a spiegare
Rikarathör ma venne
interrotto dall’Alto stesso, che lo fissò con
rabbia e fastidio.
“Tu!
Com’è che, se c’è qualche
guaio, tu ne sei in qualche
modo coinvolto?” sbottò.
“Io non ho fatto
niente!” protestò il figlio del Sole.
“Tu non fai mai niente, ma
sei sempre fra i piedi” sibilò
l’Alto “Ti ucciderò con le mie
mani!”.
“Non credo ti convenga
farlo, mio caro Krì” mormorò il Sole,
con le poche forze che gli erano rimaste “Colui che hai
davanti è il mio unico
figlio maschio e, come vedi, prenderà il mio posto.
È pronto, ormai, anche se
non so per quanto tempo potrà svolgere il suo lavoro, data
la situazione. Ti
sconsiglio di ucciderlo, se vuoi che ci siano ancora albe e
tramonti!”.
Krì non rispose.
Guardò entrambi e chinò il capo da un lato,
segno che si arrendeva all’evidenza.
“Chi ti ha fatto questo,
Dio solare?” volle sapere.
“Io!” si
vantò Kevihang “Ne vuoi un po’ anche
tu?”.
“Quella era la cosa
più stupida che mai potevi pronunciare,
piccolo pirla!” lo rimproverò Rikarathör,
cercando di separare i due, notando
quanto Krì si fosse inalberato a quelle parole.
Spalancò le braccia,
mentre Kevihang e l’Alto divenivano
sempre più grossi, Kuetzalikay rideva come un matto, la
Morte aveva capito che
era meglio non andarsene perché avrebbe avuto altro lavoro e
la Luna
abbracciava suo padre, che le diceva di essere orgoglioso di entrambi i
suoi
figli prima di morire. Rikarathör, tentando di non mostrare la
paura di
trovarsi fra due bestie simili, disarmato, rimaneva immobile e serio,
nel
tentativo assurdo di proteggere Kevihang.
Socchiuse gli occhi, ormai sicuro di
sentirsi colpire
dall’Alto o dal suo allievo, quando avvertì
qualcosa di gelato accanto a sé.
Guardò in basso e vide una splendida spada, a pochi
centimetri dalla sua gamba
sinistra.
“Credo che con quella
potrai fare qualcosa di più” si sentì
dire.
Alzò lo sguardo. Suo
fratello Enrikiran aveva creato quella
spada di ghiaccio e gliela aveva tirata, dall’alto del drago
che stava
cavalcando. Accanto a lui svolazzava Loreatehenzi e Marinditi-ya si
intravedeva
da dietro il mantello del figlio dell’Inverno.
“Cosa fate voi
qui?”.
“Soccorso fra
fratelli” spiegò il figlio di Urihel.
I tre maschi si sorrisero ma la
sorella guardava altrove,
verso Selene. Anche la Luna la guardava, con odio. Con un gesto delle
mani,
fece apparire un arco argento e lo impugnò saldamente.
“Ti stavo aspettando,
Semidea…” sibilò la Luna.
“Sono
qua…vecchiaccia!” sbottò Marinditi-ya.
“FATTI SOTTO!”
urlò la Dea della Luna e la Semidea della
Terra saltò giù, pronta allo scontro.
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Capitolo 30 *** XXX- psicostasia ***
XXX
PSICOSTASIA
Il cielo era buio, il Dio del Sole
era morto e, fra le
lacrime della Dea della Luna che si sentiva in colpa per questo,
Rikarathör
decise di intervenire. Era, ora, il Dio del Sole, dopotutto! Selene,
dopo aver
finito di ripetersi che se fosse stata sulla collina con suo padre,
come faceva
sempre, avrebbe potuto aiutarlo, si concentrò su
Marinditi-ya. Ignorò il fatto
che il suo fratellino di sangue stava tentando di fare il suo lavoro.
Aveva
riacceso la stella Nesidey, che ora di nuovo illuminava il cielo.
Constatò che
la cosa non era affatto semplice, ma doveva sforzarsi di mantenere
stabile solo
quella stella per ora, poi avrebbe pensato alle altre. Prima
c’erano ben altri
problemi da risolvere! Prima di tutto le sue due sorelle si stavano per
scontrare. E poi, ovviamente, Kevihang e Krì continuavano a
tentare di
affrontarsi. Per non parlare di Kuetzalikay, che lo guardava in un modo
decisamente strano ed inquietante. Padre e figlio, Krì e
Kuetzalikay,
sibilavano e si osservavano sottecchi. Luna e Terra, i due Alti,
Kevihang…tutti
per qualche a lui oscura ragione si stavano scontrando l’un
l’altro e tutti,
per una ragione a Rikarathör ancora più oscura,
parevano avere qualche problema
con lui! Marinditi-ya si concentrò e spostò le
rocce, quasi colpendo Selene.
“Vuoi davvero sfidarmi,
Semidea?” si stupì la Luna,
schivando facilmente la magia della ragazza.
“Certo! E chi
vince…” rispose la figlia dell’Estate,
indicando Rikarathör “…se lo
prende!”.
“Eh?!”
esclamò il figlio del Sole, sentendosi chiamare in
causa.
La Dea della Luna preparò
il suo arco. Marinditi-ya incanalò
più energie possibili ed urlò. Così
facendo, provocò un altro spaventoso
terremoto. Il terreno si spacco e, seguendo le indicazioni della
semidea, si
sollevò proprio sotto i piedi di Selene. Lei non si fece
prendere di sorpresa e
saltò, rimanendo per qualche istante sospesa in aria,
avvolta da una forte luce
argentea.
“Ti ucciderò,
Dea inutile!” gridò la mezzosangue.
“Non se prima lo faccio io,
ochetta viziata!” ribatté la
Luna.
“Non dovremmo fare qualcosa
per fermarle?” azzardò Kasday.
“Perché?
È divertente starle a guardare…”
ridacchiò
Luciherus, mentre la Luna scaraventava la sua avversaria per aria,
insultandola.
Ansuz aveva iniziato uno scontro
diretto con Kevihang che,
però, riusciva a difendersi adeguatamente, fra lo stupore
generale. Questo era
dovuto al fatto che Rikarathör, poco prima, era riuscito a
mettere in pratica
uno degli incantesimi contenuti nel libro verde di Vereheveil. Grazie a
questo,
quella specie di grosso lupo mannaro blu era quasi alla pari
dell’Alto e non
veniva ferito. Il figlio del Sole però non aveva modo di
proteggere sé stesso e
si ritrovò a combattere contro Kuetzalikay, che insisteva
nel guardarlo in modo
strano.
“Ma si può
sapere cosa vuoi da me?” sbottò, impugnando con
due mani la spada che gli aveva creato suo fratello.
“Voglio porre fine alla tua
vita”.
“E perché? Sei
l’unico qui a cui io non ho fatto o detto
niente!”.
“Perché voglio
uccidere mio padre”.
“Ed io che ci azzecco con i
problemi di famiglia tuoi o dei
tuoi simili?”.
“Secondo il libro che
Kevihang gentilmente ha sbloccato dal
sigillo, uccidere il Sole è il solo modo per distruggere mio
padre”.
Tutti si immobilizzarono, per un
attimo, tranne Selene e
Marinditi-ya, che continuarono a darsele di santa ragione, con pura
cattiveria.
Un grido, di gioia o di follia, si
levò sopra tutti loro.
Mihael, in groppa al suo enorme drago, arrivò tutto contento
sul gruppetto di
litiganti.
“Sento l’odore di
battaglia lontano chilometri! Che bello,
una rissa!!” esclamò, ridendo, sadico.
Fece virare la sua bestia, per
schivare Marinditi-ya che
veniva lanciata in aria per l’ennesima volta.
“Uomo lucetta!”
gridò, guardando giù “Anche se ti sei
travestito, ti riconosco comunque! Io ricordo sempre le facce dei miei
avversari!”.
“Non ho tempo da perdere
con te oggi, tu e la tua storia
dell’uomo lucetta!” affermò
Rikarathör.
“Troverai il tempo per me,
lucetta dalla pettinatura
fashion!”.
Gli Alti rimasero sconcertati per
quelle parole, Luciherus
scoppio a ridere e Mihael, esaltandosi, volò giù
dal suo drago, che iniziò a
litigare con il drago dei fratelli minori del figlio del Sole.
“Enrikiran…”
disse Loreatehenzi “…ci pensi tu al drago? Io
vedo di aiutare la palla di fuoco, perché temo che si sia
cacciato nell’ennesimo
grosso guaio”.
“Vai pure. Ci penso io al
lucertolone alato” rassicurò
Enrikiran, sorridendo gelido al drago di Mihael, che tentava di
disarcionarlo
senza motivo, sputando fiamme.
“A noi due, abbiamo un
conto in sospeso!” ringhiò il Demone,
agitando la coda per la soddisfazione.
Rikarathör schivò
uno dei colpi di Kuetzalikay e roteò la
sua spada, concentrandovi il suo potere. Era un’ottima arma,
che brillò con
forza, obbedendo agli ordini del suo padrone. Il ghiaccio di Enrikiran
ed il
fuoco di Rikarathör si fusero, creando un materiale tutto
nuovo, di pura
energia magica, che si attorcigliò al braccio del proprio
portatore, pulsando
come parte del suo corpo.
“Mihael! Che
combini?” lo richiamò Rahahel, giunto fino a
lì
dietro al drago del Principe.
“Ma guarda un po’
chi si rivede!”.
“Asmodai!”
sbottò lo spirito dell’Arcangelo.
“Proprio io. Ho visto il
principino muoversi ed ho dovuto
raggiungerlo. È il mio scopo come capo delle schiere
angeliche, mi sembra…”.
“Fatti gli affari tuoi,
piumino spelacchiato!” ringhiò
Mihael, sguainando l’enorme spada.
“A lui ci penso
io…” mormorò Rahahel, non nascondendo
un
sorriso soddisfatto “…io ed il piumino qui
presente abbiamo un certo conto in
sospeso…”.
“Dici bene”
confermò Asmodai, anche lui con un’elegante
spada fra le mani.
“Sarah”
ridacchiò Luciherus “Che strano affare in
sospeso…”.
Mihael scese in picchiata verso il
suo avversario, che
cercava di allontanarsi da Kuetzalikay. Non voleva ritrovarsi fra due
fuochi,
anche se ora era lui stesso un fuoco bello grande. L’Alto,
fortunatamente, fu
bloccato dal padre, che lo fissò con aria di sfida.
“Cos’è
tutto questo chiasso?” urlò Kavahel, giunto fino
lì
per verificare per quale motivo il Sole avesse dei colori
così altalenanti e
perché la terra continuasse a muoversi.
Dietro di lui si era trascinato la
Dea del Kaos, Niebla, ed
il fratello Ajedrez, Dio del Destino. Come sempre, i due stavano
litigando ed
il fratello maggiore non poteva lasciarli da soli.
“Tu!”
tuonò il Dio dell’Equilibrio, bloccando Mihael a
mezz’aria e riferendosi al figlio del Sole
“Com’è che ogni volta che
c’è
qualcosa che non và, ultimamente, vedo la tua
faccia?”.
Il mezzo Dio si strinse nelle spalle,
non sapendo che altro
dire.
“Io ti ammazzo, mezzosangue
profanatore di biblioteche!
Tutto questo è per colpa tua!”.
“Non ti permettere di
offendere il mio fratellone. La colpa
è mia. Prenditela con me” si intromise Kevihang,
parandosi davanti a Kavahel,
di parecchio più basso e gracilino di lui.
“Sarà un
piacere. Non mi spaventi, mezzosangue peloso!”.
“Che meraviglia! Una rissa
gigante!” gongolò Luciherus,
notando che tutti avevano trovato il loro avversario, e si sedette come
per
assistere ad uno spettacolo.
“Non ti preoccupa questa
cosa? Troppe magie sprigionate
così…” mormorò Kasday.
“Rilassati e goditi lo
show!” le consigliò l’antico Dio
della Forza e del Coraggio, baciandole delicatamente la mano ed
invitandola a
sedersi accanto a lui.
Kasday preferì restare in
piedi, circondata dagli scontri,
mentre ai suoi piedi sbocciavano piccoli fiori dal lungo gambo verde e
petali
aranciati.
La Dea della Morte, assieme ai
genitori, decise di rimanere
tranquilla ad osservare tutti gli accadimenti. Da brava giudice
imparziale,
restava ferma, con la lunga veste e la falce, ad attendere il momento
in cui
avrebbe dovuto svolgere il suo lavoro.
“Sono venuto a pesare la
tua anima!” urlò Mihael, vestito
con la sua solita armatura.
“Ma vai a pesare tua
sorella, minchione!” gli rispose
Rikarathör, ed il loro scontrò iniziò.
L’enorme spada del Demone
si abbatté sulla ben più piccola
arma del nuovo Sole, che però resistette e parò
il colpo, senza riportare
danni. La cosa stupì parecchio il Principe, abituato
com’era a vedere tutte le
spade dei suoi nemici infrangersi, dopo un tale colpo dato con Betzy,
il nome
che aveva dato alla sua fedele compagna di battaglia.
“Carina la tua
lama” borbottò Mihael “Come si
chiama?”.
“Non lo
so…diciamo che è appena
nata…”.
“Lei e Betzy. La tua come
si chiama?”.
“Betzy?! Come una mucca?
Beh…la mia…diciamo che si chiama:
ti ucciderò Mihael”.
“Mi sembra un nome
piuttosto lungo e complicato…ma il
padrone sei tu, perciò…”.
“La pianti di tergiversare?
Avrei altro da fare nella
vita…”.
Il Demone, punto
nell’orgoglio, ringhiò e ricominciò a
tentare di colpirlo.
Erano piuttosto instabili con i piedi
piantati in terra,
continuando la Semidea della Terra a provocare terremoti, crepacci e
sollevamenti di pietre. Il Principe optò per gli attacchi
aerei, rimanendo
sospeso accanto al suo avversario, che non aveva ancora ben capito come
gli Dèi
volassero. Rikarathör protestò per questo, prima
che una grossa roccia gli si
sollevasse sotto i piedi e lo lanciasse per aria, mossa da un
improvviso
spostamento d’aria. Mihael scoppiò a ridere ed il
nuovo Sole si concentrò per
non cadere, senza ottenere nulla. Ma qualcosa, nello specifico
qualcuno, non lo
fece schiantare. Loreatehenzi sorrise al fratello maggiore, protendendo
le mani
verso di lui.
“Tu combatti. A tenerti
sospeso ci penso io, finché posso”
assicurò il figlio del Dio del Cielo.
“Non vale!”
protestò il Demone.
“Ma stai zitto, pipistrello
gigante!”.
Luciherus alzò lo sguardo,
estasiato da quello scontro
aereo.
“Vuoi dei pop
corn?” ironizzò Kasday.
Rikarathör saltava da una
roccia sollevata dalla sorella ad
un’altra, sostenendo le grandi distanze con l’aiuto
del fratello minore, che
muoveva le mani come se avesse un burattino da controllare, con i fili
fra le
dita. Avvolto da una nube di fiamme sempre più forte, il
Sole e la stella
Nesidey brillavano e bruciavano sempre più forte, alimentati
dalla rabbia e
dalla battaglia. Il forte caldo infastidiva il Demone, abituato ormai
al gelo
costante.
“Vai, Betzy! Fatti
valere!” urlò, prendendo la rincorsa per
colpire in picchiata.
Rikarathör, saltando
all’indietro, lo schivò ed espanse
ulteriormente le sue fiamme, andando a colpire Mihael, che
cominciò a dimenarsi
convulsamente per spegnersi i capelli. Virò, usando la coda,
e ripartì
all’attacco. Le loro lame stridevano ed emettevano moltissime
scintille, che
non facevano altro che alimentare il fuoco del figlio del Sole.
Rikarathör stava
gradatamente imparando a gestire le sue
abilità in battaglia. Creò una sfera di fuoco,
molto più grande di quelle che
aveva creato fino a quel momento nella sua vita, e la lanciò
contro il Demone.
La schivò, andando a colpire la terra sottostante, sfiorando
le piume di
Kuetzalikay, che le arruffò per lo sdegno. Ma il figlio del
Sole non era di
certo soddisfatto e ne creò altre. Mihael le respingeva,
certe improvvisando a
racchetta da tennis la sua spada, ridendo come un folle. Si stava
divertendo.
Rikarathör lo fissò, con occhi infuocati,
chiedendosi che cosa ci fosse da
ridere. Scese momentaneamente a terra, dato che Loreatehenzi si era
preso una
piccola pausa.
“Scendi e vieni qui,
rettile!” sibilò il nuovo Sole.
“Perché?”
si stupì Mihael “E non sono un
rettile…credo…”.
“Perché stai
combattendo con me!”.
“Ah, già!
È vero!”.
Scese, velocissimo, e le loro armi si
scontrarono di nuovo
violentemente. Rikarathör mosse rapidamente gli occhi,
comandando il fuoco, ed
avvolse il Principe fra le fiamme. Mihael ringhiò, sbattendo
le ali per
spegnersi, e contrattaccò subito, ancora con piccoli guizzi
di fuoco accesi sul
suo corpo, colpendo il suo avversario con il braccio ungulato. Anche se
la sua
spada era enorme, il Demone la maneggiava agilmente anche con una mano
sola, a
differenza di chi aveva di fronte. Rikarathör si
sbilanciò e Mihael lo ferì con
la spada. Dove la pelle del nuovo Dio veniva scalfita, le fiamme si
spegnevano.
“A quanto pare non sei
ancora totalmente una divinità. Tuo
padre, a quest’ora, si sarebbe già rigenerato,
creando nuova energia
bruciante…” lo derise il Principe.
L’avversario non fece caso
a quelle parole e ricominciò ad
attaccare, pur percependo chiaramente che la sua ferita bruciava e non
guariva.
Il Demone riprese il volo ed il Dio lo seguì, sfruttando di
nuovo Loreatehenzi
e le sue capacità. Quasi si schiantarono contro Asmodai e
Rahahel, anche loro
guerreggianti in cielo. Volavano e si affrontavano, fra scintille di
magia e
fuoco. Mihael, canticchiando, afferrò la spada del suo
opponente con la mano
libera, ferendosi. Il Dio avversario si chiese come ci riuscisse, ma il
Principe pareva ignorare il dolore, anzi pareva andarselo a cercare.
Rikarathör, immobilizzato per le braccia, usò la
cosa per farsi da perno e tirare
un poderoso calcio al Demone, che ci rimase male perché non
se l’aspettava.
Dato che non voleva mollargli l’arma, il Dio del Sole e del
Fuoco ne afferrò
saldamente la coda e la annodò, ridendo.
“Ma quei
due…” borbottò Luciherus, non riuscendo
a trovare
parole adatte a descrivere il loro modo insolito di battersi.
“Perché mi hai
annodato la coda, maledetto uomo lucetta?!”.
“Rinfodera la tua vacca ed
arrenditi, cornuto!”.
“Non offendere la mia
Betzy! Non osare!”.
Nello stesso istante in cui il Sole
ed il Demone avevano
iniziato ad affrontarsi, anche i due Alti erano pronti a combattere.
“Come osi sfidare uno degli
Alti?” tuonò Ansuz, guardando il
figlio con odio.
“Sono anch’io un
Alto, vecchio” sibilò Kuetzalikay.
Il padre si era ingrandito ed aveva
modificato il suo
aspetto, illuminandosi di luce dorata. Grazie alla manipolazione della
sua
forza magica, si era creato un’armatura sospesa, che ne
copriva buona parte del
viso. Avanzò con aria solenne, ma il più giovane
non sembrava per niente
impressionato.
“Inutile che ti gonfi e ti
travesti. So benissimo che dentro
di te sei sempre il solito: un nanerottolo di colore blu! Non mi
spaventi!”.
“Insolente
ragazzino…”.
Kuetzalikay sibilò, con la
lunga lingua biforcuta, contro il
padre che ringhiò. Kiaritanya guardò entrambi con
un pizzico di inquietudine.
Fece per andarsene, allontanandosi da quello scontro, quando il
più giovane
degli Alti la afferrò per le ali.
“Non volevi perderle, mia
cara?” mormorò l’essere dalla
pelle verde.
“Sì…ma…”
balbettò la Messaggera, non sapendo cosa dire.
Kuetzalikay la sollevò da
terra e la rese incapace di
volare, strappandole le ali. Lei urlò, prima di essere
scaraventata in un
angolo.
“Questo non lo dovevi
fare!” urlò Ansuz, saltando addosso al
figlio.
L’enorme
quantità d’energia che si sprigionò,
con il solo
contatto fra i due, provocò uno spostamento d’aria
spaventoso, che sollevò
rocce, massi e persone. Il figlio gonfiò tutte le penne
rosse e scattò in
avanti, con un verso selvaggio. Sfoderò le unghie e
spalancò la bocca,
mostrando due enormi canini affilati, preparandosi
all’attacco. Morse il padre,
che lo colpì duramente. La sua pelle verde
brillò, assorbendo più magia
possibile, aumentando il contrasto con i disegni geometrici su di essa.
Avvolse
la coda attorno alla gamba del padre e la strinse, avvertendo uno
scricchiolio.
Krì tentò di far lo stesso, ma non ci
riuscì. Il figlio non aveva le ossa
rigide ed erano estremamente difficili da infrangere. Con la magia che
scorreva
potente nelle loro vene, si lanciavano incantesimi e scosse
d’energia di vario
colore. Tutt’attorno l’aria mutava, seguendo i
cambi di tonalità del cielo e di
Nesidey. Il fuoco passò a pochi centimetri da loro, con
disappunto di Kuetzalikay
che insultò chi lo stava provocando, intimandolo a fare
più attenzione.
Saltarono, per evitare la terra che si sollevava per colpa di
Marinditi-ya, e
rimasero sospesi in aria grazie all’alone di magia che li
circondava.
“Non sei ancora abbastanza
potente per potermi battere,
figliolo”.
“Non sei ancora abbastanza
debole per potermi permettere di
batterti”.
Eppure Krì, nonostante
fosse convinto di ciò che aveva
appena detto, si sentiva decisamente più debole del solito,
confuso, quasi
stanco, nonostante non avesse fatto molto.
“Sono i miei denti, caro
papà. Ho imparato a dosare il mio
veleno…” spiegò il figlio.
“Tu non puoi
uccidermi”.
“No, ancora no. Ma
è una cosa alla quale presto potrò
rimediare”.
Kuetzalikay si girò verso
il figlio del Sole, sapendo che,
finché era in vita, suo padre non sarebbe mai morto.
“Non ti
permetterò di ucciderlo” esclamò Ansuz.
“Eri tu stesso a volerlo
morto, fino a non molto tempo fa!”.
“Ora è diverso.
Ora è un Dio, l’unico Dio del Sole, e non
può morire! Ne va della continuazione
dell’Universo!”.
“Me ne frego altamente
della continuazione dell’Universo!”.
“Dovresti, brutto
idiota!”.
Un fulmine squarciò il
cielo, anche se era libero dalle
nuvole.
“Ti farò pentire
di essere nato, ammasso di peli blu!” urlò
Kavahel.
“Ed io ti farò
pentire di esserti permesso di intralciarmi”
rispose Kevihang.
L’equilibrio, come sapevano
i presenti, non poteva attaccare
e quindi doveva limitarsi a difendersi. Con un gesto delle mani,
creò uno scudo
e parò tutti i colpi della creatura simile al lupo mannaro
ma si stancò presto
ed iniziò a rispondere, sbattendo quell’oggetto
contro il muso del suo
avversario. Luciherus trovò la cosa esilarante, mentre
invece Kasday si
preoccupò nel vedere i suoi figli litigare in quel modo.
Kavahel era avvolto
dalla sua luce blu ed i suoi occhi dorati brillavano.
“Spostati! È
stato quell’idiota del tuo maestro ad uccidere
mio padre!”.
“Questo è
impossibile! Rikarathör non ucciderebbe mai
nessuno, lo conosco bene”.
Kavahel non disse altro. Era
sconvolto per quello che era
successo e per quello che aveva visto. Non poteva credere che
Vereheveil,
l’unica persona che gli era rimasta accanto da quando ero
piccolo, non c’era
più. Aveva visto morire la sua compagna, i suoi figli, i
suoi fratelli…era
stato lui ad uccidere Kasday e sapeva che molti ancora lo odiavano per
questo.
Solo il suo genitore lo aveva sostenuto, facendogli capire che poteva
andare
avanti. Ma ora come poteva? Si guardò attorno, ignorando il
suo avversario,
proteggendosi con una potente barriera magica. C’era fuoco,
distruzione, dolore
e la Morte, bellissima e sorridente, era lì ed aspettava
qualcuno di loro. Come
potevano tutte quelle divinità, e creature simili, provocare
tutto questo? Così
restavano coinvolti i mortali e gli animali! Notò lo sguardo
triste e
spaventato di quelle bestie che avevano portato fino a lì i
vari contendenti,
tranne i due draghi che si affrontavano alla pari dei loro padroni. Che
diritto
avevano loro di provocare simili disastri? E per quale motivo
coinvolgere anche
creature innocenti? Ed il suo avversario, che cos’era? Il
frutto distorto di quel
pianeta che lui stesso aveva contribuito ad uccidere lentamente.
Bestie,
mortali, divinità, Alti…erano tutti allo stesso
livello, dopotutto! Meritavano
tutti la vita e non era giusto che il più debole venisse
sconfitto e distrutto
dal più forte. Ma quella era una delle regole non scritte
degli Universi che
aveva visto fino a quel momento. Arrivò a considerare che,
molto probabilmente,
le bestie meritavano di gran lunga la vita più di lui,
misera divinità
colpevole, e della maggior parte delle creature che eran lì.
“Perché gli
Dèi dell’Equilibrio sono sempre
depressi?” si
chiese Luciherus.
“Forse perché
vedono quanto difficile sia, in realtà, il
Mondo e la vita, e quanto sia impegnativo mantenere gli Universi in
armonia,
dato chi ci abita” rispose Kasday.
“O forse è
genetico…” azzardò Luciheday, alzando
lo sguardo
verso la Semidea della Terra.
Rahahel sapeva essere tremendamente
feroce se voleva, e con
Asmodai ci riusciva benissimo.
“Cosa vuoi,
Rahahel?” sbottò l’Angelo “Sei
stato sconfitto.
Sarah ha scelto me. Devi capire quando è il momento di farsi
da parte. E
poi…sappiamo entrambi che non sai combattere. Cosa credi di
poter fare? Ero il
capo delle guardie di Luciherus, non ricordi? Finirei con
l’ucciderti”.
“Errore, mio caro. Non
potrai mai uccidermi perché, vedi…io
sono già morto!”.
Lo spirito si alzò in
volo, raggiungendo l’Angelo. Asmodai
si accorse subito di non poter fare molto contro quella creatura. Non
poteva
colpirlo e, anche se ci riusciva, non provava dolore e non aveva grosse
conseguenze. Con un gran sbattere di piume, l’antico generale
di Luciherus non
si diede per vinto e continuò ad attaccare Rahahel.
Arrivò perfino a staccargli
un braccio, che però questi si riattaccò subito,
come se nulla fosse. Rahahel,
al contrario, riusciva benissimo ad infierire e far danni. Con una
risata molto
poco angelica, l’ex Arcangelo colpì più
volte Asmodai, che non poteva far altro
che parare e schivare. Nonostante il fantasma dagli occhi rossi
mostrasse segni
di stanchezza, la sua luce si attenuava man mano, non si fermava.
Provava una
tale rabbia, sentimento che non aveva mai provato quand’era
in vita, da
ignorare qualsiasi altra cosa. Finalmente aveva modo di vendicarsi nei
confronti di Asmodai, che era stato prescelto dalla donna per la quale
aveva rinunciato
all’immortalità. Era morto per lei, dopo una
martoriata vita fra le creature
senza magia, e non aveva ottenuto altro che solitudine e derisione.
“Io avrei dato tutto per
lei!” gemette quella specie di
vampiro spettrale che portava il nome di Rahahel “Avrei fatto
qualunque cosa
pur di vederla felice”.
“Infatti hai rinunciato
all’immortalità” lo derise Asmodai.
“Ho rinunciato, certo! E lo
rifarei! Io la amo, la amo
davvero!”.
“L’amore
è un sentimento inventato dai mortali per
giustificare la loro incapacità a restare da soli”.
“Sei un verme! Una serpe!
Anche se sei un Angelo, io riesco
a vedere dentro di te e vedo che sei ancora un Demone! Un grosso Demone
spocchioso, incapace di amare davvero! Non riesco proprio a capire come
abbia
potuto preferire te a me!”.
“Quello, in
realtà, è un quesito di facile soluzione. Tu eri
bravo a parole, io a fatti! Tu la riempivi di frasi fatte e di
promesse, io le
dimostravo concretamente ciò che provavo. L’ho
riempita di regali, le ho fatto
vedere il suo piccolo Mondo ed il mio…”.
“Ma il sentimento che
provavo, e che provo io, è molto più
forte di quello che provi tu!”.
“Sveglia Rahahel! I mortali
non vivono di parole! Non
sopravvivono respirando solamente! Il loro animo non è in
pace con i meri
sentimenti”.
“Ti sbagli. Io credo,
invece, che i sentimenti siano la
linfa vitale che permette
agli uomini,
esseri mortali, di andare avanti in questo Mondo gelido ora, come un
tempo.
Anche quando gli Universi erano perfetti, era lo stesso, secondo
me”.
“Ecco il motivo per cui io
sono un potente guerriero fra gli
angeli e tu una specie di zombie ambulante pieno di rabbia, rancore e
tristezza…”.
Poco distante dai due litiganti,
sfrecciarono Mihael ed il
figlio del Sole, quasi investendoli. Dopo quella breve distrazione,
ricominciarono
a stuzzicarsi ed affrontarsi.
Anche il Kaos ed il Destino stavano
combattendo, anche se il
Destino sapeva di essere in netto svantaggio. La Dea lo aveva sempre
sconfitto,
fin da bambino, e solo l’intercessione di Kavahel lo aveva
salvato fino a quel
momento. Ma ora Kavahel era impegnato altrove ed il Dio non si sentiva
per
niente a suo agio, né tantomeno al sicuro. Sua sorella era
una pazza, lo aveva
sempre saputo. Tutta vestita in nero, rideva follemente e saltellava
verso il
gemello, che si allontanava con sempre maggior convinzione. I loro
occhi dorati
si incrociarono. Quelli di lei erano sottili e furiosi, quelli di lui
grandi e
spaventati. Era triste il Dio del Destino. Triste per la sorte di
Vereheveil e
per l’odio che la sorella provava nei suoi confronti. Lui,
dopotutto, non aveva
colpa. Ciò che era riportato sulle sue rose era
ciò che gli veniva dettato da
qualcosa, o qualcuno, di cui nemmeno lui capiva esattamente la
provenienza. A
volte era Ansuz a parlargli, a volte non parlava nessuno ma le parole
si
scrivevano comunque. Con lettere dorate e minuscole, poteva scrivere ed
aveva
scritto le vite di tutti gli esseri viventi. Ma non inventava quelle
parole,
non era colpa sua se gli eventi accadevano in una determinata maniera!
Allora
perché la sorella continuava ad insultarlo, dicendogli che
era solo colpa sua?
Con l’ampia veste bianca, saltellò
all’indietro, cercando l’aiuto ed il
conforto del fratello maggiore. Ma Kavahel non rispondeva alle sue
richieste e
rimaneva fermo, con sguardo triste e distante, in mezzo ad un vortice
di gente
che si massacrava.
Poi un urlo si levò,
più alto di tutti, ed i presenti si
immobilizzarono: Marinditi-ya, la Semidea della Terra, era stesa sulla
nuda
pietra con una freccia della Dea della Luna conficcata nel torace.
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Capitolo 31 *** XXXI- crepuscolo ***
XXXI
CREPUSCOLO
Il drago di Mihael
ringhiò, sputando fuoco, infrangendo il
silenzio che si era creato fra i presenti.
“E chiudi il
becco!” gli gridò contro Enrikiran
“Nessuno ti
ha interpellato!”.
Il figlio dell’Inverno
allungò il braccio verso la bestia,
lanciando un getto d’acqua quasi solida dal freddo.
Metà del suo viso era
coperto di ghiaccio, come gelidi erano i suoi occhi e la cresta che
aveva per
capelli. Colpì quel grosso animale in pieno muso e gli
serrò le fauci,
bloccandole in una morsa di acqua gelata. Enrikiran rise, contento del
risultato. Si scosse. Si sentiva strano. Qualcosa dentro di lui gli
dava
proprio una strana sensazione. Il suo potere, leggermente
più forte del solito,
era come fuori controllo e fremeva per essere espresso.
Guardò giù e vide sua
sorella Marinditi-ya a terra. Trasalì perché
sempre gli avevano ripetuto che,
nel caso di morte di uno di loro, gli altri avrebbero dovuto affrontare
pessime
conseguenze. Questo perché, senza il verde della Terra,
l’Aria non può essere
prodotta e, senza Aria, il Fuoco non brucia e l’Acqua non
può generarsi.
Probabilmente non era morta la Semidea della Terra perché
lui, figlio
dell’Inverno, era ancora in vita e, salvo un po’ di
debolezza e questa strana
sensazione di malessere, non si sentiva prossimo alla fine.
Cercò con lo
sguardo il suo fratello minore, che non volava più. Sembrava
anche lui
piuttosto debole e confuso, ma nel complesso stava bene.
“Oh,
Selene…perché lo hai fatto?” gemette
Rikarathör, senza
ricevere risposta.
La Morte aveva guardato quella
ragazza, che ora non si
sarebbe più rialzata.
“L’hai uccisa?
L’hai uccisa per davvero?” protestò il
figlio
del Sole.
Voleva continuare il suo discorso, ma
cominciò ad avvertire
uno strano formicolio lungo tutto il corpo. La magia, elettrica e
calda, lo
stava solleticando senza controllo e la cosa lo allarmò non
poco. Dietro di
lui, Nesidey, grande stella azzurra al centro del sistema dei Pianeti
rimasti
in vita, cominciò a pulsare ed ingrandirsi. Stessa cosa
stava succedendo al
nuovo Sole, il cui colore di pelle mutò divenendo rosso
acceso. Si ingrandì a
dismisura, un gigante rosso nel cielo, e fu avvolto da enormi fiamme di
color
rubino.
“Così non
vale!” protestò Mihael, sentendosi di colpo
piccino, piccino.
“Com’è
possibile?” esclamò Kavahel, alzando gli occhi
“Non
esiste nemmeno la Dea della Guerra, non capisco perché
stiamo qui a litigare!
Non dovrebbe essere possibile!”.
Poi si voltò verso il
Principe dei Demoni e vide che un
simbolo gli era apparso sulla fronte. Lo guardò con
più attenzione e spalancò
gli occhi: Mihael era divenuto Dio della Guerra! Ed ora questa
sensazione che
provava, che da tanto non percepiva, che cos’era? Paura!
Notò di non essere
l’unico ad avvertire un sentimento simile dentro di
sé…la Dea della Paura era
fra loro, ad occhi spalancati e braccia incrociate.
“Hei, tu! Torna a diventare
piccolo! Come posso sconfiggerti
se sei così grosso?” urlò Mihael.
“Non è colpa
mia!” rispose Rikarathör “Non ho proprio
idea
di come ridimensionarmi!”.
Approfittando della confusione
generale, la Dea del Kaos
scattò, afferrando fra le mani uno di quei fiori dal
lunghissimo gambo che
crescevano ai piedi dell’essenza di Kasday. Lo strinse fra le
mani, stando
attenta alle spine e, senza pensarci troppo, lo lanciò verso
il fratello. Ajedrez,
colpito al petto ed inaspettatamente trapassato, rimase immobile mentre
la sua
veste candida si tingeva di rosso.
“Ma che razza di fiori
sono?” sbottò Luciherus.
“Sono i fiori dei
morti” spiegò Kasday
“All’opposto degli
alberi della Vita, questi portano la morte di chi ne sfiora le spine o
ne viene
colpito”.
“E perché hai
creato fiori del genere?”.
“Non sono stata io.
È stato il Pianeta stesso a volermeli
donare. Il Pianeta stesso vuole che tutto questo accada e che tutto
questo
finisca”.
Il Dio del Destino tentò
di togliere quella pianta dal suo
corpo ma questa iniziò a creare radici, filamenti, che si
districarono lungo
tutto il suo petto e la sua pelle. Si inginocchiò, mentre i
suoi occhi d’oro
iniziavano a divenire vitrei e senza vita.
“Che hai fatto,
Niebla?!” urlò Kavahel, correndo verso il
fratello minore.
La Dea del Kaos rise, guardando
Kuetzalikay con
soddisfazione.
“È stato lui a
chiedermelo. È stato lui a provocarmi. Mi
impediva di vivere come desideravo con i suoi stupidi fiorellini
scarabocchiati”
si giustificò.
“Lui non ha mai avuto colpa
di ciò che stava scritto su
quelle rose. Semmai era colpa di uno di quei due…”
rispose Kavahel, indicando i
due Alti e chiudendo delicatamente le palpebre al fratellino.
L’Equilibrio restava in
ginocchio, sentendo un fortissimo
dolore al torace. Il Destino era morto, il Kaos aveva prevalso, lui era
venuto
meno al suo compito ed ora non sapeva cosa fare. Chiuse gli occhi,
abbracciando
Ajedrez in una sorta di ultimo saluto, mentre la Dea del Kaos si
soffermò sul
combattimento dei due Alti. Krì era appoggiato contro una
grossa roccia
sollevata da Marinditi-ya e si stringeva il braccio, gravemente ferito.
Avendo
legato la sua essenza a quella delle creature a lui sottoposte,
avvertiva ogni
loro morte e diveniva sempre più debole. Kuetzalikay non
aveva creato un legame
del genere e quindi combatteva con tutte le sue forze. Notando le
difficoltà
che provava Ansuz, Krì, Rikarathör si intromise fra
i due e tentò di fermare il
più giovane fra i due con tutte le energie che aveva ancora
in corpo. L’Alto
non gradì per niente quel tentativo di impiccio nei suoi
affari e sibilò al
Sole, mostrando la sua lunga lingua biforcuta.
“Credi di farmi paura solo
perché sei più grosso? Sei sempre
e solo un Dio, apprendista fra l’altro!”.
Detto questo aumentò le
sue dimensioni, fino a divenire pari
al nuovo Sole. Mihael si offese per quel gesto. Non trovava carino da
parte del
Sole abbandonare così un combattimento per dedicarsi ad un
altro avversario!
Fece per farglielo notare, quando una
voce alle sue spalle
lo fermò:“Non ti diverti se non rompi le palle,
vero Mikino?”.
“Lucy! Sei tu?”.
“Sono io, ma non chiamarmi
Lucy!”.
“Lo sapevo che eri
vivo!”.
“Non sono vivo, Mihael.
Sono solo una semplice essenza”.
Detto questo, Luciherus
allungò la mano verso il gemello e
lo trapassò, mostrandogli di non possedere un corpo solido.
Mihael rabbrividì a
quel tocco e scosse la testa.
“Non è
vero” mormorò “Tu non sei morto. Tu sei
il mio
fratellone Luciherus, colui che mi ha sempre fatto pesare quei pochi
minuti di
differenza che abbiamo nella nascita noi due, colui con cui ho
condiviso
l’infanzia, colui che è stato il mio unico e solo
grande avversario…non puoi
essere morto per davvero! Mi prendi in giro…”.
“Mihael…”
iniziò Luciherus ma si fermò subito, notando che
quel demone non era più in sé.
Il Principe e nuovo Dio della Guerra,
impugnò la sua enorme
spada e, dopo aver lanciato un grido agghiacciante, fece per colpire il
fratello. Ovviamente la lama passò attraverso
all’essenza di Luciherus. Mihael
ripeté quel gesto diverse volte, prima di arrendersi
all’evidenza. Sconvolto,
ed incapace di controllarsi, si scagliò contro tutti coloro
che gli capitarono
a tiro.
Kuetzalikay ed il nuovo Sole
combattevano, anche se era
evidente la loro differenza di potere. Kevihang, nel frattempo, tentava
di
portare a termine gli intenti del giovane Alto, attaccando
Krì. Rikarathör
bruciava molto intensamente ed era furioso, anche se non sapeva bene
verso chi
rivolgere la sua rabbia. Certo era, però, che non poteva
permettere a quel
serpente piumato di continuare a far danni. Ad ogni loro passo facevano
tremare
ed arroventare il terreno.
“Non puoi uccidermi. Sei
solo un Dio”.
“E tu sei solo un serpente.
Sai cosa succede ai serpenti
gettati fra le fiamme?”.
Kuetzalikay faceva attenzione a non
farsi colpire o toccare,
sicuro che il trucco fosse indebolire a tal punto il suo avversario da
farlo
desistere. Rikarathör, anche se non voleva mostrarlo, si
sentiva sempre più
stanco. Lanciando sfere infuocate, notò la punta delle sue
mani: stavano
diventando bianche, spente e fredde. Così come la punta dei
suoi piedi e parte
del viso. Il suo fuoco si faceva sempre meno intenso mentre le sue
dimensioni
stavano tornado lentamente a ridursi. Sicuro di essere ormai prossimo
alla fine,
fu aiutato dal provvidenziale intervento della Dea della Luna. Con il
suo arco
d’argento, scagliò una freccia
all’occhio dell’Alto, che urlò e si
distrasse.
Il nuovo Sole approfittò di quella distrazione per sferrare
l’attacco finale.
Avvolse il suo avversario fra le fiamme e lasciò che queste
lo consumassero,
fra le grida atroci dell’attaccato. Rikarathör, poi,
si concentrò su Mihael,
che stava attaccando Loreatehenzi, che tentava di difendere Enrikiran,
caduto a
terra ed ormai debolissimo a causa dell’enorme
quantità di calore emanato dal
fratello maggiore e da Nesidey. Il demone, felice del ritorno del suo
precedente avversario, ignorò i due Semidèi, che
ormai erano senza forze, per
dedicarsi di nuovo a Rikarathör. Non notò che
questi era divenuto tutto bianco
e continuava a stringersi. Anche Nesidey pareva stringersi ed il cielo
iniziò a
farsi sempre meno luminoso, l’aria più fredda.
Rikarathör sapeva di essere
debole, ma non si scansò quando il suo avversario
partì alla carica verso di
lui. Lo guardò negli occhi mentre, con furia omicida, Mihael
volava deciso,
puntando la propria spada verso il cuore del suo avversario. A pochi
centimetri
da lui, però, cambiò espressione. Rahahel, una
volta sconfitto Asmodeo, era
sceso in picchiata verso il demone ed ora lo aveva colpito, duramente,
alla
schiena.
Mihael virò e Rahahel lo
spinse con il viso contro una
roccia.
“Ora ho capito qual
è il mio ruolo” sussurrò Rahahel,
trapassando con la sua mano incorporea il petto del demone e
stringendone il
cuore “Ora ho capito…io sono ancora un guaritore.
Posso guarire…posso guarirti,
amico mio. Posso guarirti…da te stesso!”.
Strinse con forza il muscolo cardiaco
del demone e
boccheggiò qualche istante, prima di cadere in terra senza
più vita. Rikarathör
guardò quello strano vampiro dagli occhi rossi e gli
sorrise, ansimando per la
fatica.
“Niente di
personale” affermò Rahahel
“…non volevo che
uccidesse il Sole. A quanto pare, ne resta uno
solo…”.
“Non so ancora per
quanto…” sospirò Rikarathör,
guardandosi
le mani che iniziavano a tingersi di nero, come nero stava divenendo il
cielo e
Nesidey.
Mihael, prima di morire, aveva
lasciato dietro di sé una
lunga scia di sangue. Kavahel guardava incredulo il corpo della sorella
Kaos,
decapitata dal Principe. Aveva ucciso molte divinità
presenti, angeli, mortali
e demoni accorsi sul posto per vedere cosa stesse succedendo. Nessuno
era
riuscito a fermare la sua follia e molti erano caduti per sua mano.
“Che facciamo
adesso?” si chiese Rikarathör, rivolgendosi a
se stesso più che ad una persona specifica fra le poche
rimaste.
“Innanzitutto ti proibisco
di morire” gli ordinò Kevihang.
“Eh?!” si
stupì il nuovo Sole.
Kevihang, non avendo mai dato ascolto
ai consigli di
nessuno, né tanto meno aver mai avuto paura di superare i
suoi limiti, iniziava
a pentirsi delle sue scelte. A causa dell’eccessiva
quantità di magia che aveva
usato, e della potenza dei suoi avversari, il suo corpo stava cedendo.
Debole
sempre di più, avvertì la magia lasciarlo,
facendogli provare un fortissimo
dolore. Ogni colpo subito dagli altri non si curò
più grazie alla sua forza, e
tutte le torture subite nella prigione del Kaos influirono pesantemente
sulla
sua salute fisica e mentale. Si strinse la testa, cercando di resistere
a tutto
quel dolore improvviso che lo stava avvolgendo in ogni sua cellula.
Solo dopo
parecchi minuti il suo corpo cedette definitivamente. Cadde in terra,
senza far
rumore, e anche lui chiuse gli occhi per sempre. Kavahel
andò verso Krì,
piuttosto preoccupato.
“Signor
Ansuz…” lo chiamò.
L’Alto era steso anche lui
a terra e guardava il cielo,
sempre più nero.
“Signor
Ansuz…state bene? Che sta succedendo? Che dobbiamo
fare?”.
“Niente, ragazzo. Il tuo
momento è vicino…”.
“Quale momento?”.
“Quello per il quale sei
nato: far ripartire gli Universi,
una volta che questi si saranno distrutti”.
“Siamo giunti davvero alla
fine? Ma io non so cosa devo
fare…”.
“Devi imparare a
vedere”.
“Vedere cosa?”.
“Avvicinati…”.
Kavahel obbedì e
Krì gli prese il volto fra le mani.
“Fidati di me, figlio della
Letteratura e dell’Equilibrio.
Chiudi gli occhi, rilassati…”.
L’Equilibrio, non vedendo
alternative, chiuse gli occhi e li
tenne chiusi, anche quando una fitta dolorosissima
attraversò quello sinistro.
“Devi imparare a
vedere” ripeté Krì.
Kavahel riaprì le
palpebre. Ora solo il suo occhio destro
vedeva come era abituato a vedere ma, in cambio della vista
dell’occhio
sinistro, ora possedeva un’assoluta consapevolezza di quale
fosse il suo futuro
ed inoltre riusciva a scorgere chiaramente Kasday e Luciherus, rimasti
sospesi
nell’aria, liberi da catene e controllati dalla Morte.
L’Alto, soddisfatto nel
constatare che l’Equilibrio aveva dissipato ogni suo timore
nell’animo e nel
cuore, sorrise e si rilassò. Kavahel lo guardò e
rispose al suo sorriso,
alzandosi in piedi. Con un battito delle sue ali blu, aiutò
l’essenza di quella
creatura a staccarsi dal suo involucro a cui era rimasta legata per Ere
e
l’Alto Ansuz si spense.
Anche
Nesidey era
quasi del tutto spenta. Era nera e buia nell’immenso cielo
dello stesso colore.
La Luna tentava di riflettere quella scarsissima luce come poteva.
Selene e
Rikarathör erano stesi, l’uno accanto
all’altro, abbracciati. Il figlio del
Sole era quasi del tutto nero e respirava a fatica, con gli occhi
ancora rossi
come il fuoco, mentre la Dea della Luna non brillava più.
“Sapevi che sarebbe
successo?” le domandò lui.
“Sapevo che, se tu ti fossi
spento, io avrei fatto lo
stesso”.
“Allora
perché…”.
“Non volevo perderti. Non
volevo condividerti. Nessuno di
noi due voleva cambiare…”.
“E così moriremo
assieme. Era questo ciò che desideravi?”.
“È questo
ciò che desidero. Guardati attorno…ormai
è tutto
finito e non avrei desiderato nulla di più che vivere questo
momento con te, se
è proprio deciso che io lo viva”.
“Mi dispiace che tu abbia
sofferto nell’avermi visto con la
mia sorellina, mi dispiace davvero”.
“E a me dispiace aver
reagito in quel modo così sconsiderato
ed esagerato…”.
“Non pensiamo a
questo…quanto è vuoto il cielo senza di
te…”.
“Ma io sono qui, solo per
te, e non più per il cielo, amore
mio!”.
“È la prima
volta che mi chiami così…”.
“Lo so. Perché
io capisco quello che provo per qualcuno, o
qualcosa, solo quando sono vicino a perderlo per sempre.
Scusa…”.
Si abbracciarono e chiusero gli
occhi, dopo un ultimo bacio,
spegnendosi lentamente per sempre, mentre dai loro occhi scesero calde
lacrime
di fuoco ed argento.
Urihel, Dio del Cielo, appena avvenne
questo, cadde. Svenne
per non risvegliarsi più, mentre tutt’attorno a
lui cadevano le sferette
rappresentanti i Pianeti e le stelle. Il Dio del Tempo smise di
rimanere
avvolto nel suo torpore e cessò di respirare, sempre tenendo
per mano l’adorata
moglie.
Tutte le divinità, una
dopo l’altra, si stavano accasciando
al suolo. Solo Kavahel rimaneva immobile, in piedi in mezzo a loro,
guardando
Kasday.
Luciherus, ora che tutti gli spiriti
dei morti iniziavano a
comparire attorno a lui, cercava con insistenza la figura della madre
Sophia
per salutarla un’ultima volta. Rahahel, il Kaos, il Destino,
Kevihang, gli
Alti, la Morte stessa…stavano tutti sparendo in un
mucchietto di lucette e
niente più.
“Sogni mai realizzati o
confessati, che restano come schizzi
abbozzati fra le pagine della nostra anima”
mormorò Kavahel, rivolto a Kasday
che si stava avvicinando.
“Ti senti
pronto?”.
“Se sono in grado di
vedervi, voi tutti spiriti morti, vuol
dire che siamo giunti per davvero alla fine, madre mia e Signora
dell’Universo”.
“Non sono tua madre. Sono
colui, colei, che ti ha creato,
assieme a Vereheveil” rispose Kasday, prendendo
l’aspetto con cui era abituato
a vederlo Kavahel, con i lunghissimi capelli neri e gli occhi azzurri
nel suo
corpo androgino ed aggraziato.
“Sono felice che tu abbia
avuto Luciherus accanto per tutto
questo tempo…”.
“Lui ha imparato a vedere
al di là delle cose, figlio mio. Essendo
lui un dannato ed avendo un corpo molto diverso da quello degli altri,
ha
imparato a guardare altro, apprezzando anche il mio corpo da Alto,
così
inquietante e spaventoso”.
“Cosa che papà
Vereheveil non è mai riuscito a fare…lo
so…”.
“Non è colpa
sua, in fondo…”.
“Credi che io sia in grado
di fare ciò che è stato
predetto?”.
“Certamente. Come erano
state predette molte altre cose che
poi, volenti o nolenti, sono avvenute”.
“Ma se io vedo
te…vuol dire che parte di me è già nel
regno
dei morti?”.
“Certo. Perché
tu sei tutto e niente. Un po’ vivo, un po’
morto, un po’ reale ed un po’ no. Sei un poco di
tutto ed un insieme di
niente…sei Kavahel, il Signore del Nuovo Inizio”.
Mentre parlavano, Luciherus era
abbracciato a sua madre, che
amava ancora e che non era riuscito a dimenticare, mentre questa
cantava
un’antica canzone della sua ormai lontanissima infanzia.
“Mi ami almeno un
po’, Sophia?” le domandò Luciherus.
“Come una madre ama un
figlio, piccolo mio, e sai bene che
non c’è amore più grande. Ma
c’è una persona che prova un amore diverso, non so
se altrettanto grande, per te, ed è giusto che tu vada da
lei adesso perché non
manca molto tempo”.
Le essenze si stavano dissolvendo in
migliaia di scintille
di luce, spargendosi per il cielo. Luciherus si girò verso
Kasday ed allungò le
braccia verso di lei, chiamandola. La raggiunse, mentre tornava
all’aspetto
gradito all’antico Dio della Forza e del Coraggio, e la
abbracciò.
“Cosa accadrà
adesso, amore mio?” le disse, mentre lei si
scioglieva da quell’abbraccio ed iniziava a danzare,
invitando Kavahel a fare
lo stesso.
Era una danza complessa ma che i due
conoscevano molto bene.
Era un ballo di distruzione, con movimenti contrari a quello di
creazione. I
Pianeti e gli Universi iniziarono a mutare seguendo i loro movimenti,
mentre
Luciherus provava un’impareggiabile invidia e gelosia.
Afferrò saldamente
Kasday fra le sua braccia, impedendole di continuare a ballare. Lei non
oppose
resistenza, ormai ciò che doveva fare l’aveva
fatto, e si lasciò abbracciare.
“Cosa ne sarà di
noi, adesso?” mormorò di nuovo lui.
“Quel che sarà,
sarà…”.
“Promettimi che ci
rivedremo…”.
“Questo è certo.
Ci rivedremo ancora, nel nuovo Universo. Ed
io ti amerò, come ti amo ora”.
“Anch’io…non
potrò mai dimenticarti e appena ti rivedrò lo
saprò”.
Si baciarono, mentre entrambi
lentamente svanivano in mille
scintille di luce. Kasday si girò verso Kavahel, alcuni
attimi prima di
dissolversi del tutto, e lo sfiorò con le mani.
L’Equilibrio, piuttosto stanco
e confuso, avvertì un brivido attraversargli la schiena e
svenne, avvolto dal
buio e dal nulla.
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Capitolo 32 *** XXXII- Ouroboros ***
XXXII
OUROBOROS
Quando Kavahel riaprì gli
occhi, si ritrovò avvolto dal
buio. Galleggiava nel vuoto, nel nulla, senza nemmeno una luce attorno
a sé.
All’inizio pensò di aver perso anche
l’uso dell’altro occhio ma poi si
ricordò
ciò che era successo e capì che non vedeva nulla
perché non esisteva più nulla.
Provò a parlare ma, in assenza d’aria, i suoni non
si propagavano e non poté
sentirsi. Sorrise. Aveva chiesto silenzio per millenni ed ora ne aveva
quanto
ne voleva. Ripensò con nostalgia a tutte le persone a lui
care ma, con la nuova
consapevolezza che scorreva dentro la sua essenza, sapeva di non
doverne essere
rattristato perché sarebbero ritornati tutti, prima o poi.
Doveva iniziare e
ricreare tutto già da quel momento? Decise che non ne aveva
poi così tanta
voglia e si rivoltò un po’ su se stesso, sospeso
nel vuoto. Girò e rigirò, con
estrema lentezza e rilassatezza, prima di fermarsi. Mise le braccia e
le mani
dietro la testa, come fossero una sorta di cuscino, e chiuse gli occhi,
consapevole del fatto che la vista non sarebbe cambiata di certo. Nero
su nero.
Sbatteva le ali e gli pareva di nuotare in un mare leggero ed
incorporeo.
Davvero una sensazione bellissima! Sbadigliò e si accorse di
essere molto
stanco, stremato, e che finalmente aveva la possibilità di
poter riposare senza
correre il rischio che i suoi fratelli, Kaos e Destino, litigassero a
vanvera
come sempre. Dopo millenni, si rilassò completamente e si
addormentò,
lasciandosi cullare dal nulla eterno.
Si risvegliò parecchio
tempo dopo, ristorato e pieno di
energia come non si sentiva da Ere intere. Sbadigliò,
stiracchiandosi, e poi
sorrise. Si concentrò per qualche istante, prima di
spalancare gli occhi
dorati. Questo spezzò le immense tenebre, generando la luce.
In un solo
istante, Kavahel concepì Universi tutti nuovi, con regole
che lui stesso
stabilì. Rise, e quel suono fu il primo che si espanse nella
neonata aria degli
Universi. Avrebbe ricreato tutto, come aveva sempre desiderato, anche
se,
grazie alla sua capacità acquisita con l’aiuto di
Krì, sapeva di doversi
mettere dei limiti perché alcune cose non potevano
coesistere, come invece
aveva sempre sognato. Volava, con le grandi ali che splendevano della
luce
d’oro che emanavano le stelline che stava creando. Ed,
attorno a loro, pianeti,
satelliti, sistemi complessi in connessione l’un con
l’altro e corpi celesti
pieni voglia di vita.
Percepiva i loro cuori pulsanti e
vivi e questo lo riempiva
di orgoglio. Non era necessario che facesse altro. La forza
generatrice, che
aveva infuso in ogni Pianeta, stava creando da sé tutto
ciò che gli serviva.
Kavahel sapeva che ora tutto era iniziato e che quell’immensa
forza, che
ammetteva di aver sottovalutato a lungo, avrebbe dato vita ad ogni
cosa, dalle
piante fino agli Dèi. Come il suo fratellastro Kevihang, la
prima generazione
di Dèi sarebbero nati dall’elemento stesso che
avrebbero dovuto poi controllare
e proteggere. Ora poteva sentire la voce della Madre Terra, la potenza
generatrice che bisbigliava dentro ad ogni pianeta, stella, satellite e
corpo
celeste. La sentiva e ne rimase deliziato, stupito egli stesso di
essere
riuscito a donare una voce così bella e meravigliosamente
intonata. Una nota
sbagliata avrebbe voluto dire qualcosa di poco corretto
nell’evoluzione.
Perfettamente consapevole che qualche stonatura doveva esserci,
perché la
perfezione portava all’immutabilità ed
all’auto distruzione con la mancanza di
stimoli e cambiamenti, emise delle particolari vibrazioni con le ali e
lasciò
che queste, leggermente stonate, si espandessero per gli Universi.
Dopodiché,
soddisfatto di se stesso e del suo operato, si rilassò di
nuovo, facendosi
cullare dal buio e dalle vibrazioni emesse da tutto ciò che
si sviluppava
attorno al suo esile corpo fluttuante. Si stiracchiò e
tornò ad addormentarsi,
agitando leggermente le orecchie a punta ed accarezzandosi le piume con
il
dorso delle mani
Si svegliò
parecchio tempo dopo,
anche se a lui non sembrava di aver tenuto gli occhi chiusi
così a lungo. La
prima cosa che notò fu che i Pianeti e le stelle erano
stabili, non solo masse
ancora da plasmare e da definire. Seguivano la loro bella traiettoria e
brillavano di vita e meravigliosa luce. Kavahel, compiaciuto, si
accorse che,
accanto a sé, ora era aperto un grosso libro. Nonostante
fosse rimasto immobile,
avvolto dal torpore e dal silenzio che desiderava, la sua mano aveva
scritto
fra quelle pagine bianche tutto quello che era avvenuto fin ora. Lesse,
affascinato, soddisfatto anche dell’evidente esistenza di un
nuovo Dio delle
Letterature, essendo presente quel libro. Si chiese, per un istante,
chi avesse
mai potuto governare la sua mano per riportare quegli eventi e se il
suo
scritto aveva in qualche modo influenzato il presente e gli accadimenti
passati. Sorrise, comprendendo la frase che ripeteva sempre Kasday:
“Ci sarà
sempre qualcuno al di sopra di te”. Non sapeva chi fosse, e
non era sicuro che
qualcuno effettivamente esistesse al di sopra della sua
entità, ma lo faceva
sentire meno solo, meno responsabile, l’idea che lo
accompagnasse e guidasse
qualcun altro. Ora comprendeva anche perché i mortali
volevano gli Dèi e perché
le potenze creatrici dei Pianeti li creassero: erano presenze
rassicuranti, da
un lato, e perfetti capri espiatori dall’altro.
Guardò giù, verso uno dei Mondi
sottostanti, mentre la sua mano continuava a scrivere, e decise di dare
un’occhiata, cosa che non aveva mai fatto da particolarmente
vicino. Sbatté le
grandi ali blu, che si dischiusero come fece l’uovo che lo
racchiudeva alla
nascita, e puntò i suoi occhi verso un grande edificio nero,
che si stagliava
nel cielo con le sue torri irregolari. Aveva un’aria
decisamente familiare.
Kavahel guardò dentro una piccola finestra tutta storta e
sbirciò gli occupanti
della stanza. Era un’ampia sala molto singolare, con pareti
storte, pavimenti
diagonali, strane protuberanze ed una gran confusione.
“Ti vedo
più calmo del solito
questa sera. Anzi…ti vedo tranquillo come mai prima
d’ora!” sentì parlare da un
punto imprecisato di quello stanzone assurdo.
“Vaffanculo”
fu la risposta, e
Kavahel si sforzò di capire chi fosse stato a parlare.
Un giovane Dio del
Kaos sedeva,
sul suo trono a spuntoni e fronzoli eccessivi, reggendosi la testa con
la mano
destra. I suoi lunghi capelli, vaporosi e senza contorni definiti,
galleggiavano in aria come nebbia e solo i suoi occhi azzurri si
potevano
distinguere nei suoi tratti somatici. Tamburellava le dita della mano
libera
sui braccioli, dopo essersi sistemato l’alto colletto nero.
Kavahel constatò
che, data la giovinezza del Dio del Kaos, una delle prima
entità generate
solitamente, quell’Universo non poteva esistere da molto. Il
Dio del Tempo,
colui che aveva parlato per primo, era leggermente più
giovane del Kaos e
fluttuava in aria, avvolto da una veste grigio chiaro a sfumature ed i
capelli
arricciati con il simbolo dell’infinito. In mano reggeva il
suo pendolo color
rubino che muoveva, avanti ed indietro, ogni secondo. Il Kaos
ruotò gli occhi,
scocciato.
“Piantala
con quel pendolo, Tempo!
Mi fai veramente incazzare…” sibilò il
Kaos.
“Ti faccio
inKaosare? Mi fa
davvero piacere!” rispose il Tempo, ridacchiando.
“Non sei
divertente!” sbottò il
Disordine, prima di girarsi verso una bambina che lo fissava con grandi
occhi
sognanti.
“Stellina!”
sbottò, rivolto al Dio
del Sole “Potresti riprenderti tua figlia? Mi da sui
nervi!”.
Il Sole
richiamò a sé la sua
bambina e Kavahel sorrise. Lui sì che aveva
un’aria decisamente familiare! Ed
anche la sua consorte, la Dea della Luna. Ed i loro tre figli, un altro
Sole,
una piccola Luna e la Speranza, che fissava il Kaos, mostravano tutti i
loro
geni divini. Il Sole, con la sua veste rossa, i capelli a fiamme che si
agitavano in aria ed i tatuaggi infuocati dipinti sul corpo,
baciò
delicatamente la sua sposa sul dorso della mano, guardandola incantato
con i
suoi occhi rossi e guizzanti.
“Non
dovresti permettere ad una
bambina così piccola di starmi tanto
vicino…” lo rimproverò il Dio dai
contorni
indefiniti.
“Lei
è la Speranza, non posso
impedirle di sostenerti” rispose il Sole, con voce calma e
felice.
“Non ho
bisogno di sostegno!”.
“Strano…perché
a noi sembra di sì”
esclamò la Luna.
“Sto bene.
Come vedete, sono
calmissimo” ringhiò il Kaos.
“Dev essere
la tua natura” riprese
a parlare il Tempo “Il Kaos, quando tutto va bene,
è agitato e nervoso. Quando
invece ha motivo di preoccuparsi se ne sta tranquillo e
mogio”.
“Mi vien
voglia di mandarti di
nuovo in quel posto” fu la risposta del Dio dagli occhi
azzurri.
Si alzò e
si diresse verso il suo
primogenito, Dio delle Paure e dei Sogni, prendendolo in braccio.
“Tornatene
alle tue stelle, uomo
lucetta, io qui sto benissimo!” ordinò al Sole.
“Io non
comando solo le stelle, ma
anche i vulcani, il fuoco e tutto ciò che ad esso
è legato”.
“Conosco le
tue credenziali. Ero
piccolo quando sei nato ma c’ero, ricordi?”.
“Come
dimenticarlo? La tua brutta
faccia appena nati non la scorda nessuno!”
ridacchiò il Tempo.
Non avevano un nome,
erano
divinità antiche a cui gli uomini, i mortali, avevano dato
un nome ma, non
essendo generati da genitori ma dalla magia stessa, non potevano far
altro che
darsi il nome dell’entità che li avvolgeva alla
nascita. Solo le divinità nate
con i mortali, come il Dio delle Letterature e la Dea della Guerra,
avevano un
nome proprio perché nate dai pensieri degli umani. Li
chiamavano “quelli della
seconda generazione”, perché della prima facevano
parte entità come il Tempo,
la Luce, il Kaos, il Sole… La terza, ovviamente, era
composta da tutte le
creature figlie di questi due primi gruppi.
Kavahel, osservandone
i volti, ne
riconosceva i tratti. Non erano proprio identici a come li ricordava,
differivano di qualche particolare, ma capiva che la loro essenza era
la stessa
dell’Universo in cui lui era cresciuto. Sicuramente il Tempo
era lo stesso che,
quand’era bambino, veniva a trovare i suoi genitori e giocava
con lui ed i suoi
fratelli. Ed il Kaos, non poteva giurarlo perché era molto
piccolo l’ultima
volta che lo aveva visto, ma assomigliava molto a suo nonno, il padre
del suo
genitore Kasday. Sicuramente gli occhi erano gli stessi. Era certo che
la Luna
fosse Selene, come altrettanto sicuro era che il Sole forre
Rikarathör. E si
stupì di ciò che provava. Non era più
il Dio dell’Equilibrio pieno di rancore,
tristezza e paura che era un tempo. Era come se ora il cammino gli si
mostrasse
chiaro davanti a sé. Ogni cosa era accaduta per un preciso
scopo e non
importava più se, quella volta, aveva provato rabbia o
timore nei confronti di
creature che vedeva in quella stanza. Capiva che il Dio del Kaos
svolgeva il
suo ruolo ed era quello il suo compito, anche se era spaventoso e
raccapricciante a volte ciò che faceva. Capiva che il Sole,
nonostante tutte le
stupidaggini che aveva commesso nella sua vita precedente, aveva agito
come
avrebbe dovuto e che d’ora in avanti sarebbe stato un grande
Dio. Si chiese fra
quanto avrebbe visto Mihael nei panni di Dio della Guerra e
ridacchiò
ripensando a come sarebbe stata generata la propria essenza, da Dio
dell’Equilibrio, in quel nuovo Universo. Forse non era
destino che accadesse,
forse lui doveva restare come eterno supervisore. L’idea non
gli dispiaceva
affatto! Era stanco di fare la guardia a Kaos e Destino, ed il silenzio
era una
cosa che ormai apprezzava sopra ad ogni altra.
La Dea della Vita,
luminosa,
splendida e sorridente, entrò nella stanza stringendo un
fagottino avvolto in
una stoffa bianca. Kavahel chiuse il libro che aveva accanto a
sé e ne ripose
la penna blu, staccata dalle sue ali, con la quale aveva scritto per
tutto quel
tempo. Guardando quel fagotto, infatti, aveva capito che la storia,
d’ora in
poi, avrebbe proseguito il suo corso anche senza il suo aiuto. Si
avvolse nelle
ali e sorrise a quel minuscolo neonato, dagli inconfondibili occhi
azzurri.
Il Kaos lo
guardò con disgusto,
avendo già deciso come disfarsene, e Kavahel volò
via, dando le spalle a quella
creatura, sicuro che, da qualche parte, in qualche altro Pianeta, un
piccolo
Luciherus la stesse aspettando.
FINE
Grazie
a tutti per aver seguito la storia per intero! Mi fate sapere quale personaggio preferite? :) La trilogia
termina così. A seguito, per “semplificarvi la
vita”, ho inserito tutti i
personaggi di tutti e 3 i racconti.
INDICE DEI PERSONAGGI E DEI NOMI
Fra parentesi il numero
del volume in cui compaiono o vengono citati.
Ø
ABIGOR:
Demone soldato a servizio del
Principe dei Demoni. (1)
Ø
ABRAMIAN:
Nome da creatura senza magia del NUOVO EQUILIBRIO. Giovane, al primo
anno
dell’Università, ha capelli corvini ed occhi
azzurri. (1)
Ø
ADAHEL:
Nome da demone del NUOVO EQUILIBRIO. Ha capelli neri, a riflessi rossi,
ed è
l’unico della sua specie ad avere gli occhi azzurri. Ha
l’aspetto
sproporzionato, gracile e magrolino. Ha una cicatrice sul cuore,
conseguenza
della ferita della precedente reincarnazione da angelo KASDAY.
È il padre di
AGARES, compagno di LILIM, cognato di LUCIHERUS/SATANAHEL. Corna e
coda, rosse,
e ali, sono troppo grandi rispetto al resto del suo corpo. Adora
ballare ed ha
una bella voce. (1)
Ø
ADANAK:
Demone guardiano ai cancelli del
palazzo del Principe dei demoni. Massiccio, con occhi rossi e piuttosto
stupido, almeno così sembra. (1)
Ø
AERIMANIOS:
Nome del DIO della PAURA e
dei SOGNI. (3)
Ø
AGARES:
Demone figlio di ADAHEL e LILIM.
Ha gli occhi neri, i capelli blu scuro e la pelle bianca, come la
madre. Le sue
corna rosse si arricciano ad ariete nel demone adulto, che diventa
Messaggero
degli ALTI. (1,2,3)
Ø
AJEDREZ:
Nome del Dio del DESTINO,
gemello di NIEBLA, la DEA del KAOS, figlio di VEREHEVEIL e KASDAY.
È detto
PRINCIPE BIANCO. (3)
Ø
ALTI:
Divinità superiori, supreme. Si
mostrano, nel primo volume, come esseri avvolti da un’intensa
luce bianca,
indefinita, e dalla voce profonda. Non prestano molta attenzione alle
preghiere
di chi li invoca. Alcuni di loro sono antiche divinità
semplici divenute più
sagge e potenti. Oppure che hanno trascorso la loro esistenza e si sono
stancate di fare fatica! Dal numero due in poi si contraddistinguono
per
l’aspetto inquietante. Cambiano aspetto, cercando di
assomigliare il più
possibile alle creature che li venerano. Il loro punto debole
è il cuore: un
oblò azzurrò in cui si vede scorrere la loro
magia. Non presentano tratti di
distinzione sessuale. A capo di tutti loro nel due
c’è MOMOIA ed i loro nomi
noti sono FEHU, JERA, HAGALAZ, DAGAZ, ANSUZ, RAIDO e TANAZ. (1,2,3)
Ø
AMORE
(Dio del): Dio protettore delle
unioni e delle amicizie. (1,3)
Ø
ANSUZ:
Nome che è stato dato all’Alto
Krì. (2,3)
Ø
ARIA
(Déi del): Divinità che controllano
gli eventi atmosferici. (1)
Ø
ARMI
(Dea delle): Dea figlia del Dio del
KAOS e della Dea della GUERRA, sorella minore del NUOVO EQUILIBRIO e
del Dio
della PAURA E DEI SOGNI. Ha i capelli lunghi, neri, e gli occhi scuri,
sempre
accigliati. Veste con i colori del sangue, attorniata dagli armamenti.
Ha una
freccia per simbolo. (1,2,3)
Ø
ASMODAI:
Demone a capo delle guardie del
Principe LUCIHERUS/SATANAHEL. Ha l’aspetto massiccio e porta
sempre il
mantello. Diverrà di nuovo un angelo per amore di SARAH.
(1,2,3)
Ø
AZAZEL:
Angelo caduto, araldo di
LUCIHERUS/SATANAHEL. Veste in nero e rosso. Soffre il freddo ed impreca
contro
la bandiera del suo capo. Gli verrà affidato CERBERO, il
cane del suo signore.
È il fratello minore di RAVEN. Nel numero tre serve MIHAEL.
(1,2,3)
Ø
BALAM:
Demone soldato a servizio del
Principe dei Demoni. (1)
Ø
BELZEBU’:
Demone al seguito di LUCIHERUS,
di cui si augura la sconfitta e l’allontanamento. Ha gli
occhi da mosca ed è un
gran lecchino. (2)
Ø
BERKANA:
Piccola Celeste, figlia di
DEYAN, con i capelli bianco latte ed enormi occhi fuxia.
Romperà le scatole ad
HAGALAZ, nel secondo volume, fino a quanto questi non
acconsentirà ad aiutarla,
salvandone la madre. Crescendo diverrà la sposa di
KRI’ e la madre di
KUETZALIKAY. (2,3)
Ø
BETZY:
Nome della spada di MIHAEL. (3)
Ø
CAMAHEL:
Arcangelo dell’amore puro, con
le ali dorate. Ha una delle voci più belle e dolci del regno
degli angeli. Ha i
capelli rosso scuro. Fa da insegnante e tutore ad ELENIEL. (1,2,3)
Ø
CELEBRAZIONI
(Dio delle): Detto anche Dio
delle Feste, ricorda tutti i compleanni e le ricorrenze, anche se tutti
si
dimenticano di lui. Veste in modo assurdo ed è petulante. (2)
Ø
CELESTI:
Creature simili agli ALTI, loro
corrispondenti. Vivono in un universo parallelo. Fra loro ci sono
BERKANA e
DEYAN. (2)
Ø
CERBERO:
Il cane a tre teste di
LUCIHERUS. Enorme ed affidato ad AZAZEL. (2)
Ø
CIELO
(Dio del): Il ruolo che assumerà
URIHEL grazie a KASDAY. (2,3)
Ø
CREATORI:
Una delle categorie in cui sono
divisi gli Alti ed i CELESTI. Sono coloro che sono
in grado di generare
vita e far nascere altri ALTI e nuovi Mondi/Universi. (2)
Ø
DAGAZ:
ALTO dal volto d’uccello ed il
busto d’insetto, con piccole zampette. Il suo addome,
d’ape, ha occhi lucenti e
gambe sottili a sostenerlo. (2)
Ø
DAMHAR:
Demone guardiano ai cancelli del
palazzo del Principe dei demoni. Sembra stupido tanto quanto il suo
collega
ADANAK. (1)
Ø
DARAM:
Nome del DIO del SOLE, padre di
SELENE e RIKARATÖR (3)
Ø
DENIAN:
Gruppo di divinità al cui capo
sta la Dea del DESTINO. Il loro simbolo è una spada. Non si
sa esattamente
quante e quali divinità appartengano a quel gruppo. (1)
Ø
DESTINO
(Dea del): Dea a capo dei DENIAN
e una delle creatrici, padrona del regno degli angeli. Dona agli
Arcangeli
l’immortalità. Il suo simbolo è un
occhio diagonale. Porta i capelli raccolti
in una treccia verde scuro a riflessi dorati, tre occhi viola, di cui
uno al
centro della testa, e due sferette che le ruotano continuamente attorno
al suo
capo, mandandole immagini del futuro. Vive in un grande palazzo a
specchi,
riflettente. Non si separa mai dalla sua sfera di cristallo. Era amante
del
Tempo, prima di conoscere VEREHEVEIL. È la rivale del KAOS:
La sua creatura è
un pavone con molti occhi. Dopo la battaglia finale diviene
divinità triplice,
fondendosi con il KAOS e il NUOVO EQUILIBRIO. (1)
Ø
DESTINO
(Dio del): Ruolo di Ajedrez,
figlio di VEREHEVEIL e KASDAY, gemello di SKRICH, la DEA del KAOS.
Tenta invano
di sconfiggerla. Ha i capelli verde acqua, come quelli del suo fratello
maggiore KAVAHEL, dal quale cerca di imparare l’arte del
combattimento. Scrive
tutto ciò che accadrà su rose bianche. (1,2,3)
Ø
DEYAN:
Corrispondente Celeste di HAGALAZ
e madre di BERKANA. Ha il corpo di due colori e i capelli bianchi. I
suoi tre
occhi sono due fuxia e uno azzurro. (2)
Ø
DIRI-HIUVA:
Uno dei nomi di RAIDO. (2)
Ø
DISTRUTTORI:
Una delle categorie in cui
sono divisi ALTI e CELESTI. Sono coloro il cui compito e portare alla
fine le
vite ed i Mondi. (2)
Ø
ELEIAN:
Dio della Vita, figlio di ELENIEL
e SAMHIAN, e sposo di LUCIHEDAY, padre di HEKET. (2)
Ø
ELENIEL:
Cherubina dalle ali rosse, nasce
assieme a KASDAY, VEREHEVEIL E SAMHIAN, di quest’ultimo
diverrà la moglie. È
bionda, con gli occhi blu e gli abiti pastello. Viene istruita da
CAMAHEL e
diviene prima insegnante di canto e poi Dea della PACE. Avrà
un figlio, il Dio
della VITA. (1,2)
Ø
EMANAZIONI:
Creature generate da
HAGALAZ/KASDAY per compagnia personale o per controllare altre persone
da lui
conosciute. Ognuna di loro ha parte della sua essenza. Fra loro stanno
SARMORGHELL
e SHEKINAH. (2)
Ø
ENRIKIRAN:
Secondo figlio di
VALEK-HITEIA, dopo RIKARATÖR. Ha per padre il DIO
dell’INVERNO ed è il Semidio
dell’Acqua e del Gelo. Suona una specie di chitarra ed
è in grado di ricoprirsi
di ghiaccio. (3)
Ø
EQUILIBRIO
(Dio del) ANTICO: Divinità
precedente e maestro del NUOVO EQUILIBRIO. Ha occhi color grigio perla
e
capelli come il latte. Anche lui ha subito reincarnazioni nei vari
mondi,
acquisendo un paio di corna azzurre e le ali da angelo, che
però gli furono
strappate in uno scontro, lasciandogli solo due cicatrici. È
il fratello minore
del KAOS ed è un creatore. Muore ucciso dal fratello
maggiore ed in seguito
alla lunga malattia che ha dovuto subire a causa dei conflitti di KAOS
e
DESTINO. Ha una voce indefinita, a metà fra il maschile ed
il femminile, e
zoppica. Ha per creatura un gatto alato blu e porpora. EREZEHIMSAY
è il suo
Messaggero. (1)
Ø
EQUILIBRIO
(Dio del): Acquisisce il suo
potere dopo aver trascorso varie reincarnazioni nei diversi mondi. Come
angelo
porta il nome di KASDAY, come demone di ADAHEL e come creatura senza
magia
quella di ABRAMIAN. È figlio della Dea della GUERRA e del
Dio del KAOS,
fratello minore del Dio della PAURA e dei SOGNI e la sua sorella minore
è la
Dea delle ARMI. Ha i capelli neri, le corna rosse e le ali blu. Come il
padre e
la figlia LUCIHEDAY, ha gli occhi azzurri. Avrà un figlio
con VEREHEVEIL che
chiamerà KAVAHEL. Dopo la battaglia si unirà
nell’essenza con gli altri due
creatori, divenendo una divinità triplice. EREZEHIMSAY e
NOSMAGIES svolgono il
ruolo di suoi Messaggeri. Per simbolo ha un rombo. Cambia forma, da
maschio a
femmina, a suo piacimento. (1,2,3)
Ø
EQUILIBRIO
(Dio del) NUOVO: KAVAHEL avrà
principalmente questo ruolo, divisore fra i suoi due fratelli NIEBLA e
AJEDREZ.
(2,3)
Ø
EREZEHIMSAY:
Angelo Messaggero dalle ali
d’argento. Servirà entrambi gli Dèi
dell’EQUILIBRIO. È capace di suonare il
violino. Veste di porpora ed ha gli occhi color del rame, con capelli
arancio a
riflessi violetti. Il suo nome significa “sempre
sorridente”. È disposto a
morire per la divinità che serve. Impara a pregare grazie al
NUOVO EQUILIBRIO.
(1,2)
Ø
ESPERO:
Uno dei nomi di RAIDO. (2)
Ø
ESTATE
(Dio dell’): Veste, assieme alla
PRIMAVERA, tutte le divinità. È descritto come un
Dio massiccio e deciso. Padre
di MARINDITI-YA e maestro di RIKARATÖR. (2,3)
Ø
FAMIGLIA
E FIGLI (Dea della): Compare
solo alla riunione generale organizzata dalla nuova divinità
creatrice
EQUILIBRIO. (1)
Ø
FEHU:
ALTO privo di bocca, parla con il
pensiero, e con il corpo per metà equino. Ha otto braccia,
due con le chele e
sei tentacoli. La sua coda è quella di uno scorpione e ha le
antenne terminanti
con due fiori. I suoi occhi escono dal volto. (2)
Ø
FIGLIO
DEI MORTI: Nome dato a KEVIHANG a
causa del disegno di teschio che porta sul viso. (3)
Ø
FLEAVIA:
Figlia adottiva di VEREHEVEIL. È
un sangue misto, figlia di due angeli caduti. Sfuggita alla cattura,
viene
salvata dall’angelo e accudita. È bionda come una
creatura angelica ma presenta
anche tratti demoniaci. Diventerà, da grande, la Messaggera
del Dio delle
LETTERATURE e la sposa di AGARES. (1,2)
Ø
FORZA
E CORAGGIO (Dio di): Ruolo che
assumerà LUCIHERUS grazie a MOMOIA. (2,3)
Ø
GEHENNA:
Nome del tempio del mondo dei
demoni. (1,2)
Ø
GIBRIHEL:
Arcangelo, dalle ali dorate e
dai capelli biondi, delle annunciazioni e dei messaggi. È
allergico ai gigli,
nonostante sia uno dei simboli che lo contraddistinguono. Da giovane
stava in
classe con gli altri Arcangeli. Diverrà maestro di nuove
divinità, prima di
cadere assieme a MIHAEL per essersi rifiutato di uccidere innocenti.
(1,2)
Ø
GIUSTIZIA
(Dio della): Divinità che si
intrattiene con LILITH. (2)
Ø
GUARDIE:
EMANAZIONI di KASDAY che ne
sorvegliano il palazzo (2)
Ø
GUERRA
(Dea della): MENERIVA. Moglie
dell’ANTICO KAOS; madre delle divinità delle ARMI;
della PAURA e dei SOGNI e
dell’EQUILIBRIO (Kasday). Porta i capelli corti, che sono
neri come i suoi
occhi. Veste con i colori dell’acciaio e del sangue. Ha per
simbolo una linea
spezzata. (1,2,3)
Ø
HAINUET:
Gruppo di divinità con a capo il
KAOS. La loro arma è una lancia. (1)
Ø
HAGALAZ:
Il nome da ALTO di KASDAY. Ha le
antenne, sette braccia (uno rosso di fuoco che scalda, uno trasparente
di
ghiaccio/vetro che congela, uno grigia di roccia e metallo che
distrugge, uno
verde d’acqua che crea liquidi, uno rosa e delicato che crea,
due blu d’aria
che si ricoprono di piume per farlo volare). Su ognuna delle sue mani
si apre
un occhio di colore diverso. Come tutti gli ALTI, ha
l’oblò azzurro in
corrispondenza del cuore. Tutto il suo corpo è diviso a
metà fra il bianco e il
nero. Ha quattro gambe, due che aveva in precedenza di colore
l’una bianca e
l’altra nera, e due simili a tronchi d’albero. Tre
code, una da gatto, una da
uccello azzurro e una da coccodrillo. I suoi occhi, sul viso, sono tre:
due
enormi e azzurri, uno più piccolo e fuxia che si apre nel
centro della fronte.
Ha lunghe sopracciglia e orecchie a punta. Cambia il suo aspetto a suo
piacimento. Se arrabbiato fa spuntare le corna ed i capelli corvini gli
si
gonfiano, vivi. Presenta inoltre la lingua biforcuta ed i denti a
punta. Buona
parte del suo corpo è velenoso. Creerà EMANAZIONI
per accontentare le preghiere
delle persone che amava. Vuole morire e ci riesce, alla fine del due,
per
essere presente come semplice essenza nel numero tre in forma femminile
(2,3)
Ø
HEKET:
Dea della Vita, figlia di
LUCIHEDAY ed ELEIAN. (3)
Ø
INVERNO
(Dio del) Antico: Divinità che
cambia le stagioni assieme alla Dea dell’estate, con cui
litiga periodicamente.
(1)
Ø
INVERNO
(Dio del): Padre di ENRIKIRAN e
fratello del DIO DELL’ESTATE. (3)
Ø
IÙNO
CAELÉSTIS: Nome della Luna del
Pianeta degli Angeli. (3)
Ø
KADMON:
Il padre di LUCIHERUS e MIHAEL,
leggendaria prima creatura del regno degli Angeli, dalla bellezza e
dalla
potenza straordinarie. (2,3)
Ø
KAOS
(Dio del) ANTICO: E’ il Dio del
Disordine e della mancanza di logica. Uno dei creatori, fratello
maggiore
dell’ANTICO EQUILIBRIO e marito della Dea della GUERRA.
È padre della Dea delle
ARMI, del Dio della PAURA e dei SOGNI e del NUOVO EQUILIBRIO: terminata
la
battaglia finale si fonderà con il suo secondogenito,
l’EQUILIBRIO, e alla Dea
del DESTINO, formando una divinità triplice. Non ha tratti
somatici definiti ed
è sempre avvolto da una luce nera e nebbiosa. I suoi occhi
sono azzurri e le
mani sono affilate e taglienti. La sua creatura è un corvo
dagli occhi turchini
ed il suo simbolo è una spirale nera. Aiuta LUCIHERUS,
chiamandolo SATANAHEL,
dopo la caduta dell’Arcangelo. È il controllore
del Mondo dei Demoni. (1,2,3)
Ø
KAOS
(nuovo): NIEBLA. E’ la figlia di
VEREHEVEIL e KASDAY, detta anche SKRICH per via del suo corpo minuto.
È una
divinità piccina, dalla pelle nera e dagli occhi dorati.
Sconfigge sempre il
suo fratello gemello DESTINO. Innamorata, forse, di KUETZALIKAY,
farà di tutto
per poterlo avere. (2,3)
Ø
KASDAY:
Nome angelico dell’EQUILIBRIO e
dell’ALTO HAGALAZ. Serafino. Ha l’aureola di due
colori, blu e rosso cupo, sei
ali blu e gli occhi azzurri. Il suo nome significa “occhi del
Kaos”. Ha capelli
neri a riflessi blu, viene addestrato da LUCIHERUS. (1,2,3)
Ø
KAVAHEL:
Figlio del Dio delle LETTERATURE
e dell’EQUILIBRIO, di cui prenderà il ruolo.
È detto FIGLIO DEI MORTI. Ha gli
occhi dorati ed i capelli verde acqua. In mezzo alla fronte porta un
corno
rosso e ha le ali piumate blu. È la divinità che
rimarrà dopo la fine dei
Mondi. Nasce da un uovo, creato dalla magia dei genitori. (1,2,3)
Ø
KEVIHANG:
figlio di LUCIHERUS e KASDAY,
nato con le loro lacrime ed il loro sangue, cresce come orfano. Ha i
capelli
blu scuro, con due ciuffi rossi, gli occhi aranciati ed un complicato
disegno
di filo spinato/gambo di rosa con un teschio sul viso. Ha una lunga
coda rossa
e morbida, le corna scure ed apprende il modo di mutare forma grazie al
suo
immenso ed incontrollato potere. Verrà adottato dalla
famiglia di RIKARATÖR,
che gli farà anche da maestro. (3)
Ø
KIARITANYA:
Messaggera di KRI’. Porta la
bandana e parla in modo strano. Segue il suo Signore cavalcando uno
strano
animale giallo. Pur essendo una creatura angelica, odia Angeli e Demoni
e
vorrebbe perdere le ali. (2,3)
Ø
KRI’:
ALTO (ANSUZ) dalla pelle blu e con
quattro braccia. Ha tre occhi, serpenti sulle spalle e fiori di loto
fra i
capelli. Le sue piccole corna sono rivolte verso il basso. È
bravo ad usare
l’arco e le frecce. La sua messaggera è KIARITANYA
ed ha un fratello dalla
pelle aranciata. È il padre, assieme a BERKANA, di
KUETALIKAY con cui, però,
entra spesso in conflitto. Maniaco delle regole, finirà per
divenirne schiavo.
(2,3)
Ø
KUETZALIKAY:
Alto, figlio di KRI’/ANSUZ e
BERKANA. Ha la pelle verde, ricoperta di disegni geometrici regolari
color
dell’oro, le piume rosse al posto dei capelli, la lingua
biforcuta, gli occhi
gialli e la bocca grande. Ha la coda che termina a sonaglio, che agita
se
nervoso. In eterno conflitto con il padre, finiranno per scontrarsi. (3)
Ø
JERA:
ALTO con due teste, una da cane e
l’altra umana, la prima senza occhi e la seconda senza bocca.
Il suo busto è un
tronco in legno e le sue gambe tentacoli. (2)
Ø
LARIAN
o LAMIAN: Demoniessa degli occhi
verdi e i capelli rossi che si confonde fra le creature senza magia.
Porta una
maglia con la scritta: io non sono qui. Incontra ABRAMIAN
all’Università. (1)
Ø
LETTERATURE
E LINGUE (Dio delle): Il
ruolo che prenderà l’angelo VEREHEVEIL, in seguito
all’incontro con l’ANTICO
EQUILIBRIO. Sul petto ha tatuato vari sistemi di scrittura e sul viso
ha
disegnato raggi neri. Emette una luce verde. A parte questo, il suo
aspetto non
cambia rispetto a quando non era una divinità. (1,2,3)
Ø
LILIM:
Demoniessa, compagna di ADAHEL e
madre di AGARES, che diverrà la guardiana delle anime.
È sorella di LILITH e,
come lei, è stata creata dal KAOS per diletto e distrazione
del Dio. Ha la
pelle bianca, gli occhi neri ed i capelli blu scuro. È brava
a ballare ed a
realizzare miniature. (1,2)
Ø
LILITH:
Compagna di LUCIHERUS/SATANAHEL,
sorella di LILIM. Indossa solo un lungo serpente, regalo del Principe.
Ha la
pelle bianca, gli occhi grigi, i capelli vermigli e ricci. Anche lei,
come la
sorella, è stata creata per diletto dal KAOS. (1,2,3)
Ø
LOREATEHENZI:
Terzo figlio di
VALEK-HITEIA, dopo RIKARATÖR ed Enrikiran. Suo padre
è URIHEL, e diviene il Semidio
del Cielo e dell’Aria. È in grado di volare e
comandare l’aria. Ha i capelli
lunghi, che restano sospesi a mezz’aria quasi sempre, il
pizzetto e veste
sempre di nero. (3)
Ø
LUCIHEDAY:
Figlia della forma femminile
di KASDAY, del KAOS e di LUCIHERUS. Emette una forte luce rossa, ha gli
occhi
azzurri ed i capelli vaporosi ed indefiniti. Porta la falce.
Diverrà Dea della
Morte. Sposerà ELEIAN, DIO della VITA, con il quale
avrà HEKET, DEA della VITA.
(1,2,3)
Ø
LUCIHERUS:
Nasce come Arcangelo, il più
bello, cugino di KASDAY. Ha i capelli scuri e gli occhi arancio.
L’occhio
sinistro ha la pupilla sottile a causa dell’esposizione ai
libri proibiti del
regno degli angeli. Viene maledetto e cacciato nel mondo dei demoni
dove,
grazie al KAOS che lo chiamerà SATANAHEL e lo
renderà immortale, diverrà
Principe. È il compagno di LILITH e, in forma demoniaca, ha
la coda e le corna
nere. Di solito trangugia alcolici o fuma sigarette, sicuro della sua
immortalità. Si scontrerà
più volte con MIHAEL. Si irrita facilmente,
specie con gli angeli. Ha i piedi a punta, a cui spunteranno gli
artigli, e la
esse sibilante. Probabile padre di LUCIHEDAY. Verrà liberato
dal controllo del
KAOS da KASDAY. Diverrà DIO della FORZA e del CORAGGIO.
È padre di KEVIHANG.
(1,2,3)
Ø
MALAPHAR:
Demone guaritore. (1,2)
Ø
MARE
(Dea del): Compare solo alla
riunione generale organizzata dalla nuova divinità creatrice
EQUILIBRIO. (1)
Ø
MARINDITI-YA:
Semidea della Terra, figlia
di VALEK-HITEIA e del DIO dell’ESTATE, sorella minore di
RIKARATÖR, ENRIKIRAN e
LOREATEHENZI. È innamorata del fratello maggiore, figlio del
SOLE, che vorrebbe
tutto per sé, gelosa di SELENE. Ha i capelli color del grano
ed il suo corpo è
prosperoso ed attraente. (3)
Ø
MEMORIA:
Divinità che toglie i ricordi a
VEREHEVEIL, dopo la sua caduta. Appare come un ombra ed è al
servizio del KAOS.
Diviene sposa del DIO del TEMPO, con il quale avrà 24 figli
(le ORE). Nel terzo
volume riposa, assieme al marito, in un torpore eterno dal quale non
uscirà.
(1,2,3)
Ø
MENERIVA:
Nome della Dea della Guerra,
madre di KASDAY e sposa del KAOS. (1,2,3)
Ø
METATRON:
Angelo altissimo, diviene un
insegnante nel mondo delle creature senza magia. Lo incontra ABRAMIAN e
gioca
in spiaggia nel numero due. (1, 2)
Ø
MIHAEL:
Arcangelo guerriero, con la veste
più corta rispetto ai suoi colleghi. Porta sempre con
sé una spada con l’elsa
dorata, BETZY. Predilige i colori caldi. Cadrà assieme a
GIBRIHEL e diverrà il
Principe del regno dei Demoni, prendendo il posto del fratello gemello
LUCIHERUS. Verso la fine sarà anche Dio della Guerra. (1,2,3)
Ø
MOMOIA:
La Madre ed il capo supremo degli
ALTI. Ha ali da farfalla, vita sottile, tentacoli al posto delle
braccia, una
lunga cresta verde lungo tutto il corpo e orecchie da gatto.
È colei che
permette agli ALTI morti di rinascere. Assieme a TANAZ, è la
madre di SOWELO.
(2)
Ø
MORTE
(Dea della) ANTICA: Divinità
presente alla nascita dell’EQUILIBRIO KASDAY e che
lascerà il posto a
LUCIHEDAY, una volta stanca del suo ruolo. Nessuno ha mai visto il suo
volto né
sa a quale sesso appartenga. (1)
Ø
MORTE
(Dea della) NUOVA: Ruolo svolto da
LUCIHEDAY, con una lunga falce ed un abito aderente e nero. Ha la coda
da
demone. (1,2,3)
Ø
NATURA
(Dea della): Compare solo alla
riunione generale organizzata dalla nuova divinità creatrice
EQUILIBRIO. (1)
Ø
NESIDEY:
Stella del Pianeta
dell’EQUILIBRIO KASDAY che diviene perno centrale del sistema
di pianeti
rimasti in vita nel terzo volume. (1,3)
Ø
NIEBLA:
Nome della DEA del KAOS, figlia
di VEREHEVEIL e di KASDAY, gemella di AJEDREZ, il DIO del DESTINO,
sorella
minore di KAVAHEL. È detta PRINCIPESSA NERA. (3)
Ø
NOTTE
(Dea della): Divinità presente alla
nascita del NUOVO EQUILIBRIO. Diverrà sposa del Dio della
PAURA e dei SOGNI.
(1,2,3)
Ø
NOSMAGIE'S:
Messaggero dell’EQUILIBRIO
KASDAY. Ha i capelli magenta e gli occhi di giada. Nonostante la morte
del suo
padrone, nel terzo volume continuerà a svolgere il suo ruolo
con devozione e
malinconia. (1,2,3)
Ø
ORE:
I 24 figli del DIO del TEMPO e della
DEA della MEMORIA. Hanno i numeri fra i capelli e le pelle con i colori
del
cielo nelle varie fasi della giornata. Anche loro,
come i genitori,
rimarranno bloccati in un torpore eterno. (2)
Ø
PAROLE
E SUONI (Dea della): Sposa di
VEREHEVEIL, con il quale avrà numerosi figli. Non
sopravvivrà al gelo dell’Era
successiva alla morte di Kasday. (1,2)
Ø
PAURA
E SOGNI (Dio della): AERIMANIOS,
Figlio maggiore del Dio del KAOS e della Dea della GUERRA. Ha gli occhi
sempre
chiusi, completamente bianchi, ed è muto. Se emette un suono
è per lanciare un
urlo per terrorizzare la gente. Ha i capelli spettinati e corvini.
È il marito
della Dea della NOTTE ed il padre della NUOVA DEA della PAURA E DEI
SOGNI, che
prende il suo posto non essendo più in vita nel terzo libro.
(1,2,3)
Ø
PAURA
E SOGNI (Dea della): Figlia di
AERIMANIOS e la DEA della NOTTE. (3)
Ø
PACE
(Dea della): Ruolo intrapreso da ELENIEL, dopo la morte
della Dea
precedente. (1,2)
Ø
PRESERVATORI:
Una delle categorie in cui
sono divisi gli ALTI ed i CELESTI. Il loro compito è
controllare che non ci
siano squilibri fra vita/creazione e morte/distruzione. (2)
Ø
PRIMAVERA
(Dea della): Veste, assieme
all’ESTATE, tutte le divinità. (2)
Ø
PRINCIPE
BIANCO: AJEDREZ. (3)
Ø
PRINCIPESSA
NERA: NIEBLA. (3)
Ø
RAGUHEL:
Arcangelo dell’armonia. Ha i
capelli color miele ed i capelli biondi. Gli viene affidato il
controllo del
tempio degli Angeli. (1,2,3)
Ø
RAHAHEL:
Arcangelo dalle ali dorate e
dall’aria sognante. Svolge il ruolo di guaritore e ha i
capelli castano chiaro,
vaporosi. I suoi occhi grigi sono i più grandi, dopo quelli
dell’angelo e Dio
VEREHEVEIL. È il più piccolo della classe degli
Arcangeli, che definisce suoi
fratelli. Si allontana dalla protezione della Dea del DESTINO per poter
aiutare
il demone ferito LUCIHERUS. Rinuncerà
all’immortalità per amore di SARAH, che
però lo rifiuterà e lo porterà alla
morte. Vaga come anima, una specie di
vampiro dagli occhi rossi, per il palazzo di MIHAEL. (1, 2,3)
Ø
RAIDO:
Uno degli ALTI, detto anche
DIRI-HIUVA, SIGNORE DEL CIELO o ESPERO. Ha le stelle fra i capelli, la
coda da
pavone, il volto con i colori delle farfalle. È il promesso
sposo di HAGALAZ. (2)
Ø
RAVEN:
Sorella maggiore di AZAZEL,
vestita sempre in nero ed in modo gotico. È molto
più alta del fratello ed è
amica di LILITH. (2)
Ø
REMIHEL:
Arcangelo della speranza. (1,2)
Ø
RIKARATÖR:
Primo figlio di VALEK-HITEIA e
del DIO del SOLE. Fratello minore di SELENE, di cui è
innamorato fin da
bambino, anche se avrà dei momenti di allontanamento da lei
per MARINDITI-YA.
Diverrà il Sole dopo la sconfitta del padre da parte di
KEVIHANG, suo allievo e
fratello adottivo. (3)
Ø
SARAH:
Mortale della quale si innamoreranno
RAHAHEL, che rinuncerà all’immortalità
per starle accanto, e ASMODAI che, per
lei, ridiventerà un angelo. (2,3)
Ø
SARMORGHELL:
Angelo ed EMANAZIONE di
KASDAY, dai capelli neri e dritti e dai tratti orientali o egiziani. Ha
gli occhi
scuri e porta sempre con sé una collana con uno scarabeo
azzurro che pulsa al
ritmo del suo cuore. (2)
Ø
SATANAHEL:
Nome dato a LUCIHERUS dal
KAOS. (1,2,3)
Ø
SATELLITI
(Dea dei): Compare solo alla
riunione generale organizzata dalla nuova divinità creatrice
EQUILIBRIO. Avrà
una figlia con il Dio del SOLE (DARAM), SELENE, che prenderà
il suo posto. (1)
Ø
SATELLITI
(Dea dei) LUNA: Ruolo di
SELENE, figlia del SOLE. (3)
Ø
SAMHIAN:
Angelo Messaggero dai capelli
ramati e gli occhi verdi. Viene accudito da URIHEL e veste di scuro.
Sposa
ELENIEL ed avrà da lei il Dio della VITA. Scrive canzoni e
testi fin da
piccolo. (1,2)
Ø
SAMUAEL
o SAMAEL: Angelo biondo e dagli
abiti larghi che si aggira per il mondo delle creature senza magia.
Incontra
ABRAMIAN all’Università. (1)
Ø
SELENE:
DEA dei SATELLITI, della Luna, è
figlia del DIO del SOLE ed innamorata del fratello minore
RIKARATÖR, un
sanguemisto. Ha i capelli e la pelle d’argento. (1,3)
Ø
SERPENTE
PIUMATO: KUETZALIKAY. (3)
Ø
SHEKINAH:
EMANAZIONE di KASDAY. Appare
per la prima volta al cospetto di LUCIHERUS. Ha gli occhi viola, i
capelli
scuri e le pelle chiara. Anche lei, come il fratello SARMORGHELL, ha
per
collana un gioiello che pulsa seguendo il suo cuore. Sarà
l’aspetto con cui si
presenterà prevalentemente KASDAY nel terzo libro. (2,3)
Ø
SIGNORE
DEL CIELO: Uno dei nomi di RAIDO.
(2)
Ø
SKRICH:
Altro nome di NIEBLA, la DEA del
KAOS.
Ø
SOLE
(Dio del) ANTICO: Dio presente alla
nascita dell’EQUILIBRIO KASDAY, assieme al figlio, il SOLE
(DARAM). Ha deciso
di allontanarsi dalle divinità dopo millenni di servizio. Ha
la pelle tatuata
con motivi a fiamme ed i capelli alti e rossi. (1)
Ø
SOLE
(Dio del): Prende il posto del
padre, l’ANTICO SOLE, quando questi decide di allontanarsi.
Ha i capelli come
le fiamme, gli occhi rosso vivo ed i tatuaggi con motivi infuocati. Ama
stare
nel palazzo di URIHEL. Controlla il fuoco, le luci e le stelle. Ha una
figlia,
SELENE, avuta con la DEA dei SATELLITI, ed un figlio,
RIKARATÖR, avuto con
VALEK-HITEIA. (1,2,3)
Ø
SOPHIA:
La madre di LUCIHERUS, di cui lui
è innamorato. (2, 3).
Ø
SOWELO:
ALTO, creatura generata da MOMOIA
e dal marito. Cambiava aspetto seguendo i desideri dell’ALTO
a cui dava amore.
Ha dato vita, assieme ad HAGALAZ, ad un bambino che però
verrà ucciso. Dopo
questo episodio si toglierà la vita. (2)
Ø
SPERANZA
(Dea della): Appare nella notte
della nascita dell’EQUILIBRIO, grande ed a mani giunte, e
come bambina nel
numero tre, figlia di SELENE e RIKARATÖR. (1,3)
Ø
STAGIONI
(Dèi delle): Compaiono alla
riunione dell’EQUILIBRIO (1) e, nello specifico, in vari
altri accadimenti
riguardanti l’ESTATE; l’INVERNO e la PRIMAVERA.
(2,3)
Ø
TEIWAZ:
Padre di SOWELO e marito di
MOMOIA. Sarà il primo ALTO a scomparire. (2)
Ø
TEMPO
(Dio del): Divinità controllore
delle Ere, porta sempre con sé un pendolo rubino che oscilla
ogni secondo. Ha i
capelli arricciati come il simbolo dell’infinito
(∞), grigi, ed indossa vesti
che ricordano le colonne dei templi. Ha gli occhi del colore della
sabbia delle
clessidre, suo simbolo. Sposo della DEA della MEMORIA e padre delle
ORE, cadrà
in un sonno eterno assieme a loro. (1,2,3)
Ø
UOMO
LUCETTA: RIKARATÖR. (3)
Ø
URIHEL:
L’Arcangelo più anziano, studioso
delle luci dei Pianeti e delle loro orbite. Vive in un palazzo isolato,
non
accettando la sua immortalità. Seguiva SAMHIAN nel mondo
degli angeli. Ha i
capelli color del cielo e gli occhi d’argento. Diviene DIO
del CIELO, con le
ali che mutano di colore a seconda del tempo atmosferico, e padre di
ENRIKIRAN.
(1,2,3)
Ø
VALEK-HITEIA:
Semidea della Luce, madre
di RIKARATÖR, ENRIKIRAN, LOREATEHENZI e MARINDITI-YA. Ha
adottato KEVIHANG ed è
un’entità luminosa e bella, di buone
capacità magiche. (3)
Ø
VEREHEVEIL:
Angelo dalle ali nere, gli
occhi dorati ed i capelli verde acqua, corti davanti e lunghi dietro.
Impara le
lingue in fretta e per questo diviene Dio delle LETTERATURE e delle
LINGUE. Ama
KASDAY e tutte le sue rinascite. Avrà con lui un figlio:
KAVAHEL, altri due
gemelli successivamente, NIEBLA ed AJEDREZ. Sposa la DEA delle PAROLE.
(1,2,3)
Ø
VITA
(Dea della) ANTICA: Presente alla nascita
dell’EQUILIBRIO KASDAY. Descritta
come una Dea bellissima. (1)
Ø
VITA
(Dio della): figlio di SAMHIAN ed
ELENIEL, sposo di LUCIHEDAY. (1,2)
Ø
VITA
(Dea della): HEKET, figlia di
LUCIHEDAY ed ELENIEL. (3)
Ø
YELEA’N:
Messaggera di DEYAN. Ha gli
occhi color del rubino ed i capelli verdi, screzianti di riflessi blu.
(2)
Ø
ZAGAN:
Demone al servizio del Principe
LUCIHERUS/SATANAHEL. (1)
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