La città degli Dei 3- la linea di sangue

di SagaFrirry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I- il figlio dei morti ***
Capitolo 2: *** II- senza vita ***
Capitolo 3: *** III- follia ***
Capitolo 4: *** IV- incontro ***
Capitolo 5: *** V- scacchi ***
Capitolo 6: *** VI- nuova famiglia ***
Capitolo 7: *** VII- colpe ***
Capitolo 8: *** VIII- maestri ed allievi ***
Capitolo 9: *** IX- Nesidey ***
Capitolo 10: *** X- ruoli perduti ***
Capitolo 11: *** XI- maturità ***
Capitolo 12: *** XII- sigillo d'amore ***
Capitolo 13: *** XIII- verde e nero ***
Capitolo 14: *** XIV- falci ed alleanze ***
Capitolo 15: *** XV- intrusione ***
Capitolo 16: *** XVI- la forza delle parole ***
Capitolo 17: *** XVII- evocazione ***
Capitolo 18: *** XVIII- l'ultimo petalo ***
Capitolo 19: *** XIX- Crocus ***
Capitolo 20: *** XX-legami d'acciaio ***
Capitolo 21: *** XXI- giudici e giudizi ***
Capitolo 22: *** XXII- pause, proposte e prediche ***
Capitolo 23: *** XXIII- testimone ***
Capitolo 24: *** XXIV- prigionia ***
Capitolo 25: *** XXV- alleanza d'elementi ***
Capitolo 26: *** XXVI- verità ***
Capitolo 27: *** XXVII- cambio di forma ***
Capitolo 28: *** XXVIII- lacrime d'inchiostro ***
Capitolo 29: *** XXIX- Ragnarok ***
Capitolo 30: *** XXX- psicostasia ***
Capitolo 31: *** XXXI- crepuscolo ***
Capitolo 32: *** XXXII- Ouroboros ***



Capitolo 1
*** I- il figlio dei morti ***


DOVE ERAVAMO RIMASTI?

 

Kasday, dopo essere divenuto una delle divinità Alte, cade in uno stato di follia e depressione da cui pare non possa e non voglia uscire. Momoia, madre degli Alti, lo considera una sua proprietà e, di conseguenza, lo maltratta e lo deride, soprattutto in seguito alla relazione fra Kasday e la sua unica figlia nata per amore, poi portata al suicidio. La madre, resosi conto che il numero degli Alti sta calando, vorrebbe combinare l’unione fra Kasday e Raido, Signore del Cielo, ma Kasday, turbato dall’abbandono per paura di Vereheveil e disperato per la separazione da tutto ciò che amava, rifiuta di unirsi a Raido, provocando l’ira sempre più viva di Momoia. Nel frattempo gli Alti incominciano una guerra con i Celesti, creature viventi in un universo parallelo ed a loro corrispondenti. Entrambe le fazioni, rendendosi conto di non potersi sconfiggere a vicenda, decidono di chiedere aiuto ai loro sottoposti, Dèi ed esseri magici. Questi, però, spaventati da un conflitto catastrofico, date le forze degli opponenti, si mostrano titubanti e poco propensi a collaborare. Momoia perciò decide di unire ai suoi eserciti Luciherus, facendolo divenire Dio della Forza e del Coraggio. Lo incontrerà in una spiaggia su cui il Principe tentava invano di scacciare i pensieri che lo rendevano infelice. Si era, infatti, reso conto solo ora, con la sua lontananza, di quanto fosse legato a Kasday. Con la promessa che, divenuto un Dio, lo avrebbe rincontrato di nuovo, e con la prospettiva di nuovo potere, Luciherus accetta di divenire un Dio con grande sconcerto delle altre divinità, specie Vereheveil, che lo ritengono troppo impulsivo ed irascibile. I due, Vereheveil Dio delle Letterature e Luciherus, si odiano profondamente e si scontreranno spesso nel corso della storia, incolpandosi a vicenda per l’accaduto passato e per il destino di Kasday. La guerra con i Celesti non si svolge come Momoia aveva previsto. Si rende subito conto, infatti, che entrambe le parti stanno perdendo membri senza rinascere, come invece accadeva solitamente. Confusa da questa nuova situazione, sfoga la sua rabbia su Kasday, che si rifiuta di combattere, e sulle divinità minori, che costringe ad andare ad una guerra da cui sa che non potrebbero far ritorno. La Dea della Guerra, consapevole del fatto che il patto fra il figlio Kasday e gli Alti non è più valido perché i nuovi Kaos e Destino sono cresciuti, esprime il desiderio di rivederlo e chiede aiuto a Luciherus, che è ora una divinità potente. Vereheveil sconsiglia alla Dea di farsi accompagnare da un individuo simile perché pericoloso ma poi, vista la determinazione della Dea, decide di aiutarla ed affrontano tutti e tre le guardie che sorvegliano il palazzo di Kasday, blindato e proibito. Riescono nel loro intento solo grazie all’aiuto di spiriti non più in vita: l’antico Kaos, sposo della Guerra; Kadmon, padre di Luciherus, e la bellissima madre di Vereheveil. Kasday non vuole incontrarli ma, grazie all’aiuto del suo angelo vigilante Nosmagiés, hanno modo di vedersi. Vereheveil, ancora spaventato dal nuovo aspetto inquietante di Kasday, non nasconde i suoi timori, ma Luciherus, sempre più attratto dall’impossibilità di averlo, gli fa capire che non potrebbe mai spaventarlo o odiarlo e capisce di amarlo, non solo nel suo aspetto femminile. All’inizio della guerra globale in cui tutti si incontrano, Dèi ed altre creature, ecco che si scopre che in realtà la causa della morte di Alti e Celesti è proprio Kasday, che li uccide e li assimila a sé. Luciherus, a conoscenza della cosa dopo il loro momento di passione, non interviene e rispetta il suo desiderio di morire, pur non comprendendolo. Kasday uccide Momoia, unica creatura in grado di farlo rinascere, ma viene attaccato dal figlio Kavahel, che teme che gli universi possano finire una volta morti tutti gli Alti ed i Celesti. Sotto un albero al tramonto, Kasday muore abbracciando Luciherus, che piange perché non vuole perderlo. L’albero fiorisce, mentre il corpo del creatore di quel mondo si dissolve. Kavahel diviene una divinità molto più potente, mentre Luciherus si ritira su un’isola, lasciando la guida del pianeta dei Demoni a Mihael, nel frattempo caduto. Il Principe dei demoni, in isolamento, si ritrova a guardare l’orizzonte oltre il mare, udendo in lontananza la voce dei suoi nipotini e comprendendo il desiderio di morte di Kasday. Sentendone la mancanza, è convinto di avvertirne la presenza ovunque e, quando la vede, in forma femminile, fra le onde del mare, la segue. Solo in seguito si accorge che solamente la sua anima l’ha seguita, mentre il suo corpo è rimasto in terra, senza vita, ignorando le visioni avute in precedenza in cui lui e Kasday dovranno avere un figlio che porterà alla fine del Mondo.

Ricordate?


 

I
IL FIGLIO DEI MORTI

 

Kevihang aprì gli occhi, aranciati e luminosi, con le pupille sottili come fogli di carta, e guardò fuori. Era buio, ma fuori era sempre buio. Si rigirò nell’alto letto in cui stava sprofondando, a causa dell’eccessivo numero di coperte e cuscini, e sbadigliò, agitando lievemente le piccole orecchie a punta. Una risata fanciullesca gli comunicò che i suoi compagni di stanza erano già svegli.

Sbirciò distrattamente l’orologio e sospirò. Era prestissimo ma, del resto, gli altri due bambini con cui divideva la stanza avevano ottime ragioni per essere felici, svegli e pimpanti. Era un giorno importantissimo: giorno d’adozioni. L’orfanotrofio, in cui Kevihang viveva fin dalla nascita, apriva le sue porte al pubblico una volta al mese per dare la possibilità ai suoi piccoli ospiti di trovare una casa ed una famiglia. Ma per quel bambino dagli occhi aranciati quello era un giorno come tanti. Erano ormai diversi mesi che aveva abbandonato la speranza di lasciare quel luogo in compagnia di un papà e di una mamma. Per anni era stato trascinato fuori dalla sua cameretta dall’istitutrice per essere messo in fila, mano nella mano con altri bambini, ad essere ispezionato dalle coppie che desideravano avere un figlio. Mano nella mano, in quel rito così simile alla scelta dell’animale da uccidere per la festa di famiglia, con tutti quei commenti su quanto un bambino fosse alto o basso, magro o grasso, da fare disgusto all’abbandonato Kevihang. Animali pronti al macello, l’uno accanto all’altro, di fronte all’occhio critico di coppie esaminatrici.

Kevihang non aveva mai ricevuto un solo sguardo d’approvazione da parte di qualcuno, salvo dai due adulti che gestivano la struttura che lo ospitava. Lui era strano. Lui era diverso.

Sospirò di nuovo, raccogliendo i capelli blu scuro in una coda. Non erano lunghissimi, gli arrivavano fino alle spalle, ma tendevano a gonfiarsi ed a coprirgli gli occhi. Coloro che gli facevano da insegnanti e tutori, insistevano perché tenesse almeno un ciuffo sul viso per coprire quel disegno. Era quel disegno la causa principale della sua mancata adozione. Il lato sinistro del suo volto era coperto dall’immagine di un teschio, di un mezzo teschio, la cui orbita corrispondeva quasi perfettamente con la cavità oculare del bambino. Il tutto era fissato, ricamato, con un sottile filo spinato o gambo di rosa che si arricciava sul suo mento e sulla fronte. Quella specie di tatuaggio, che sapeva di avere fin da quando aveva memoria, lo rendeva inquietante. Nessun genitore lo voleva e nessuna coppia lo avrebbe mai voluto. Lui era il “figlio dei morti”, colui che portava sul viso l’eterno respiro della fine della vita. Ma non era solo quel teschio a renderlo diverso. I suoi capelli, ad esempio, non erano di un colore unico, o con lievi riflessi, ma venivano bruscamente disturbati da due enormi ciuffi rossi, simili ad antenne, che non ne volevano sapere di stare in ordine. Stavano sempre in piedi, dritti, oppure ripiegati in avanti creando un semicerchio piuttosto ampio e, a detta di Kevihang, fastidioso. Quella massa blu scuro che portava in testa, spesso celava le sue due piccole corna scure, quasi nere ma con lievi riflessi magenta, che apparentemente lo facevano rientrare nella cerchia delle creature demoniache. Ma quelle due corna erano l’unica cosa “demoniaca” che il piccolo possedeva. Non aveva ali, cosa che suscitava parecchia ironia ed ilarità fra i suoi “colleghi” d’orfanotrofio. Di certo, però, non erano tanto le sue ali mancate a far nascere le più crudeli derisioni quanto la sua coda. A Kevihang, dopotutto, piaceva, ma quella coda era morbida, affusolata, lunga e ricoperta da un soffice pelo rossiccio. Era la coda di un gatto, o di una scimmia, ma non quella di un demone!

Lui era “Kevihang: il figlio dei morti”, “Kevihang: il coda morbida” e “Kevihang: il senz’ali”. Il bambino si vedeva semplicemente come “Kevihang: il senza famiglia”.

La cosa lo rattristava e lo irritava, ogni giorno di più. Era convinto che perfino sua madre si fosse spaventata al momento della sua nascita, e che per questo fosse stato abbandonato. Frustrato, solo ed abbattuto, faceva sempre più fatica a nascondere la sua rabbia ed il suo rancore, ma anche quella mattina scese dal letto con un mezzo sorriso, cercando di essere gioviale con i suoi compagni di stanza, che avrebbe potuto non rivedere più. Se, la fuori, fossero stati scelti da qualcuno, non sarebbero più tornati. Nessuno mai tornava in quel luogo, una volta che aveva la possibilità di lasciarlo. Non perché si stesse male, ma perché era carico di solitudine e ricordi che si cercava di cancellare per sempre.

E così Kevihang, bambino infelice, sperava un giorno di trovare comunque la sua via e di poter sostituire tutte quelle ore di mancati abbracci con tanti sorrisi ed amore. Se non l’amore di qualcun altro, almeno l’amore per se stesso. Lui si odiava. Odiava il suo viso, quel disegno raccapricciante, quella coda, quei piedi a punta ed esageratamente grandi, quelle due antenne rosse fatte di capelli ribelli e quelle due ali mancate. Odiava tutto di se stesso. E non capiva a che razza potesse appartenere.

L’orfanotrofio si trovava in uno dei pianeti ribattezzati “neutri”, cioè quelli in cui risiedevano Angeli, Demoni e Dèi, assieme ad altre creature, senza particolari gerarchie o problemi. Ormai quasi tutti i pianeti, nei vari Universi e Multiversi, erano neutri o misti, tranne qualche eccezione. Questo perché, a seguito della grande guerra fra Alti e Celesti, non c’erano stati altri conflitti e non era più necessario che ogni creatura avesse il suo spazio e la sua posizione gerarchica. Kevihang non sapeva in che categoria inserirsi, a differenza di tutti gli altri bambini che conosceva e che collocava benissimo chiunque in una di queste. Lui cos’era? Non era un angelo, aveva le corna! Non era un demone, aveva la coda morbida! E di sicuro non era un Dio. Sanguemisto? E fra che specie? Non lo capiva. Ma una cosa la sapeva: lui possedeva la magia. E non una magia debole ed a malapena percepibile bensì una forza che a volte faticava a controllare e che escludeva la sua appartenenza alle creature senza forza magica che popolavano molti pianeti.

Lui non era niente ed allo stesso tempo era tutto.

La cosa lo faceva a volte sorridere ed a volte piangere, altra caratteristica che lo separava dai demoni, ma era più che consapevole di essere tremendamente testardo e che nulla gli avrebbe impedito di raggiungere il suo scopo: scoprire chi fossero i suoi veri genitori. Non sapeva nulla di loro, non era sicuro che fossero ancora in vita e da dove venissero, se lo avevano abbandonato di proposito oppure per scelta, se lo amavano anche solo un poco o se erano fuggiti da lui. Non sapeva nulla. Ciò che sapeva era che era stato trovato sotto l’albero delle lacrime, uno dei pochi che ancora mostrava i suoi fiori al cielo, avvolto proprio da uno di quegli enormi fiori rosso sangue a riflessi azzurri. Non aveva indizi su cui lavorare, ma aveva un piano. In quell’orfanotrofio si studiava ed in una delle lezioni si era parlato della biblioteca del Principe Mihael, in cui erano riposti, si diceva, tutti i libri dei Mondi. Era la biblioteca del Dio delle Letterature e delle Lingue, Vereheveil, e si diceva che in quel luogo si potessero trovare tutte le risposte. Kevihang, piuttosto ottimista oltre che testardo, aveva congeniato un complesso piano di “fuga” che poteva permettergli di raggiungere il palazzo del Principe e trovare la sua risposta.

In ogni caso, anche se tutto ciò che aveva in mente si fosse rivelato un fallimento totale, era più che intenzionato a non tornare all’orfanotrofio. I maestri erano gentili ed il posto era carino, ma era stanco di essere preso in giro e voleva guardare oltre, oltre quel piccolo cancelletto, che dava su quello che una volta era un rigoglioso giardino a detta degli adulti, oltre quella sconfinata distesa di ghiaccio e neve che riusciva a scorgere dalla finestra e che era l’unica cosa che aveva visto da anni, oltre la sua condizione d’orfano e di figlio di nessuno.

Convinto come non mai, si coprì per bene con un pesante mantello, approfittando del fatto che i suoi compagni di stanza ed i tutori erano tutti impegnati con le coppie in visita alla struttura, ed uscì dalla finestra, con in spalla un piccolo zaino. Un profondo respiro, caldo e sicuro, e poi si lanciò in quel mondo freddo, inospitale e sconosciuto. Sfidando il buio ed il pericolo, si allontanò a passi svelti mentre la neve già ricopriva le sue orme. Si avviò verso la piazza del paese, sicuro di sapere dove trovare un passaggio per il Mondo dei Demoni, il mondo del Principe, dove stava la biblioteca che conteneva le sue tanto desiderate risposte. Alzando il cappuccio, per nascondere il teschio sul suo volto, si fece guidare dall’istinto e, senza paura, chiese ad un grosso demone se sapeva come poter raggiungere il regno del suo popolo. Il demone gli sorrise e, porgendogli la mano, gli offrì un passaggio. Kevihang, di risposta, sfoggiò un sottile ghigno, mostrando un piccolo dentino a punta, e allungò la manina verso quella dello sconosciuto, pronto a partire.


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Capitolo 2
*** II- senza vita ***


 

II

SENZA VITA

 

“Volo d’avvoltoi, in cerchio, attorno al corpo senza vita

mentre cade l’ultima lacrima, segno di una speranza ormai svanita.

Volo d’avvoltoi, in cerchio, attorno all’anima senza pace

mentre il resto del Mondo guarda, passa e…tace”.

 

“Che allegria, Kavahel…”.

Kavahel sorrise leggermente, sentendosi dire questo: “Non ti piace la mia canzone, mio caro Apollo, Aton, Hammon, Helios, Horus, Inti, Mihr, Saule, Suria, Tezcatlipoca, Tiwaz, Vivasvat, Wi, Yarhibol, Rik o qualsiasi altro nome che i nostri sottoposti ed adoratori ti hanno dato?” commentò, a mezza voce.

“Ma…chiamarmi "Sole" come fanno tutti ti è troppo difficile, Kavahel? Ad ogni modo, no. Non mi piace la tua canzone. È deprimente, come il Mondo là fuori”.

Kavahel guardava fuori dalla finestra, tenendo la fronte ed il suo piccolo corno rosso contro il vetro. Il cielo era nero, nero come i capelli del suo genitore scomparso che portava il nome di Kasday. Le stelle invece, molto numerose ma non sufficienti a smorzare il nero della notte, brillavano di un intenso color rosso a riflessi aranciati, com’erano gli occhi di Luciherus. Il vento soffiava senza sosta e Kavahel non sapeva come fermarlo. Doveva avere lui il controllo sui Mondi, ma non era così. Gli alberi, pietrificati e gelati come tanti delicati cristalli, protendevano i loro rami spogli verso quel cielo sempre coperto ed ogni essere vivente non divino doveva la sua esistenza esclusivamente alla protezione degli Dèi.

“Guarda che io sono stufo di lavorare per venire sempre coperto da nuvole, nebbia e neve!” borbottò il Dio del Sole, avvolto nel lungo mantello rosso per proteggersi dal freddo.

“Non è colpa mia…” sussurrò Kavahel “…è come se i Pianeti ed i Mondi fossero morti e non mi volessero più ascoltare. Io provo a governarne l’equilibrio, ma è difficile…”.

“Hei! Tranquillo! Scherzavo!” ridacchiò il Sole “Siamo tutti nella stessa barca, amico. Nessuno ti incolpa, ragazzino dalle mille responsabilità!”.

“Io incolpo me stesso…” sospirò, rassegnato, Kavahel, osservando il suo riflesso alla finestra con quegli enormi occhi dorati e quei capelli sparati in aria.

“Non dovresti” si intromise Vereheveil, che fin ora era rimasto in disparte.

Nel salone, erano riunite diverse divinità con i rispettivi Messaggeri. Il fuoco del camino non bastava a scaldarli e, respirando, formavano piccole nuvolette bianche.

“Non dovresti, figlio mio, sentirti in colpa. Non sei responsabile di ciò che sta accadendo”.

“E allora di chi sarebbe la colpa?” sibilò Kavahel, senza guardare Vereheveil.

Il Dio delle Letterature era cambiato molto nell’ultimo periodo. Era invecchiato. Gli occhi d’oro, una volta così grandi e luminosi, ora erano infossati e stanchi. I suoi capelli verde acqua ora erano quasi bianco latte e tutto il suo corpo mostrava i segni del tempo passato, era ricurvo ed acciaccato. Solo le mani non erano cambiate, mantenevano la bellezza che avevano sempre avuto.

“Non devi dare la colpa a te stesso” riprese Vereheveil “Stai facendo un buon lavoro, in fondo. La pace regna fra tutti i Mondi, la gente crede in te e, bene o male, si và avanti, no?”.

“Quanto sei ottimista…” si sentì dire, alle spalle, da una voce melodica.

“Ma guarda un po’…l’Alto Krì si è svegliato…” sogghignò il Sole, con uno strano tono di fastidio.

“Problemi, accendino rotondo?” ringhiò Krì, di risposta, alzandosi in piedi e sfiorando il soffitto.

“No, nessun problema…” rispose il Sole, alzando lo sguardo “…dico solo che, dato che Lei è un Alto, dovrebbe fare qualcosa per questo…come dire…tempo di merda…”.

“Le nuvole ti rendono nervoso, papà” cercò di calmarlo una giovane al suo fianco, la Dea della Luna e dei satelliti, succeduta a sua madre una volta che questa si era spenta.

Krì non rispose alla provocazione della divinità solare e si avvicinò a Kavahel.

“Figlio delle Letterature e degli Equilibri…” iniziò a parlargli “…tutti noi facciamo il possibile per far sì che gli Universi vivano ma, forse, è cambiato per loro il modo di vivere”.

Kavahel lo guardò in modo interrogativo e poi rivolse il suo sguardo alla Messaggera di Krì, Kiaritanya, che alzò le spalle e gli fece segno, con la mano, che il suo padrone era un po’ fuori di testa e che, probabilmente, stava vaneggiando come sempre. Krì, ignorando lo scambio di gesti dei due, riprese a parlare, incrociando leggermente le gambe.

“Ciò che intendo dire, e che voi non capite, è che siamo troppo impegnati a pensare alla vita come l’abbiamo sempre concepita: con il caldo, le stagioni, il verde e tutto il resto. Ma chi ci dice che, ora, non sia il tempo di cambiare concezione? Magari questo gelo, questo inverno perenne, questa apparente fine, non è altro che l’inizio di un nuovo tipo di vita?”.

“Tu sei pazzo” rimbeccò Kavahel.

“Non ti uccido solo perché sei l’ultimo Equilibrio rimasto” sbottò Krì.

“Sei in una botte di ferro, amico” rise il Sole.

“Vale lo stesso per te, astro smorto!” rimbeccò l’Alto e il Sole, di risposta, gli mostrò la lingua.

Vereheveil sorrise. Quelle discussioni gli ricordavano le sue liti con Luciherus. Nessuno nella sala capì il perché della sua risatina sommessa ma, dato che era da tanto che non mostrava segni di gioia, si rallegrarono a loro volta.

“Suvvia, Krì, non litighiamo! Dopotutto, io sono il Dio del Sole! Dovrei essere amichevole, caloroso e tenero, non certo una gran lagna come invece mi fa diventare questo tempaccio! E poi, cosa importante, se restiamo uniti sono sicuro che una soluzione si trova. Non dire minchiate del tipo che la vita deve stare nel ghiaccio e simili. IO sono il SOLE! E la vita nasce da ME! Dal calore che emetto e dalla mia forza, non dalla neve!”.

Krì sorrise, non molto convinto, e si rilassò, tornando a sedersi: “Il tuo lavoro lo fai, in fondo, Sole. Alimenti le piante di Heket, la Vita, che fan sì che le creature viventi crescano e sopravvivano”.

Le piante di Heket erano degli alberi nuovi, nutriti dai poteri di tutti gli Dèi e dal nucleo del Pianeta stesso, ricco di linfa magica. In quell’epoca buia, il Tempo si era intorpidito, forse sopraffatto dal gelo, e non andava più avanti. Lui, divinità antica, assieme alla moglie Memoria ed i loro figli, restava immobile, ad occhi chiusi, nel suo grande palazzo. Ad ogni suo lieve respiro, l’eternità avanzava di qualche secondo. I Pianeti, le stagioni e la vita stessa, con la mancanza dello scorrere del Tempo, erano immutabili. E questo non a causa del Dio del Tempo ma per volontà del pianeta stesso. Il Pianeta degli Dèi, centro dei Multiversi e dispensatore dell’energia divina, non voleva più eseguire gli ordini del suo attuale governante. Ignorava gli sforzi di Kavahel di riportarlo all’Equilibrio, e trasmetteva la sua volontà a tutti gli altri Pianeti. Per questo le divinità avevano creato gli alberi di Heket, in grado di fornire la capacità, a chi ne mangiava i frutti, di crescere. Questi frutti venivano dispensati ai mortali ed a tutte le creature incapaci di avere magia propria, o con magia insufficiente per crescere autonomamente, fino alla maturità. Dopodiché dovevano cavarsela da soli e la cosa generava non pochi problemi, perché i Pianeti non fornivano grandi quantità di cibo e possibilità di sopravvivenza. Questo creava un numero sempre più alto di orfani e decessi. Il Sole protestava per questo ma era perfettamente consapevole che anche le divinità avevano i loro problemi. Erano sempre più deboli, a causa della sempre minore fede in loro, e sempre di meno. Molte divinità, sopraffatte, si spegnevano. A che serviva la Dea della Primavera fra dei mondi di infinito ghiaccio? Non nascevano piccoli Dèi da un bel po’, dato che le loro energie erano tutte concentrate sul mantenimento della vita negli Universi. Il Sole stesso era preoccupato per questo. Sua moglie era morta e lui aveva solo una figlia femmina che, sì, aveva preso il posto della madre ma restava il dubbio su chi avrebbe preso il posto suo. Il ruolo di Dio del Sole passava di padre in figlio, fin dall’inizio dei tempi, ed ora non sapeva bene a chi sarebbe passato. Sapeva solo che iniziava a sentirsi stanco, specie perché lavorava invano, dato il forte gelo!

“Forse siamo giunti alla fine…” azzardò Kavahel.

A risposta di questo, Krì, inaspettatamente, gli tirò un ceffone dietro la nuca.

“Smettila di piagnucolare! Sei peggio di Kasday! La mia compagna non c’è più e l’unico figlio che mi è rimasto mi detesta, ma non per questo mi piango addosso!”.

“Ma io ho ucciso Kasday! Se non lo avessi fatto…a quest’ora sarebbe stato tutto diverso!”.

“Kasday voleva morire! Se non lo avessi ucciso tu, ci avrebbe pensato qualcun altro, scemo!”.

“Se solo rinascesse…” azzardò Vereheveil.

“No!” tuonò Krì, in uno strano eccesso d’ira “Non dobbiamo sempre e solo pensare al passato, a ciò che sarebbe potuto essere ed a ciò che mai sarà! Kasday è morto e noi dobbiamo imparare a vivere e a sopravvivere senza di lui, lei o quel che era! Tutti noi volevamo bene a Kasday, chi più, chi meno, ma tutti noi siamo anche consapevoli di ciò che è successo quel giorno…tranne te, mia cara” concluse, indicando la Dea della Luna e dei Satelliti che a quel tempo non aveva quel ruolo.

“Giusto” annuì il Dio del Sole, guardando fisso il fuoco nel camino, come ipnotizzato.

“Tu non sei un cattivo Dio, Kavahel…” iniziò a parlare Vereheveil, ma il figlio lo zittì.

“Non voglio sentire simili discorsi d’incoraggiamento, papà. Sono cresciuto ormai e non serve indorarmi la pillola. Guarda come ti sei ridotto tu in pochi anni! Ti sei consumato!”.

“Questo non è certo per colpa tua. Ormai nessuno ha tempo per leggere, scrivere e ricordare. Solo i bambini, che ormai sono sempre meno, stanno sui libri. Gli altri sono tutti impegnati a sopravvivere. Inoltre, il numero di parlanti è sempre più esiguo e molte lingue stanno scomparendo. Infine…hai sentito come parlano i giovani d’oggi? Sembrano dei poveri ritardati…è questo che mi indebolisce e mi invecchia. È questo che mi consuma e mi uccide, figlio mio. E tu, di questo, non hai colpa. Sinceramente…non ho nemmeno voglia che la cosa sia diversa. Il mio tempo è giunto. Sono nato fra gli angeli, e dovrei essermene andato già diverse Ere fa, ed invece sono ancora qui”.

“Certo che sei ancora qui! Sei un Dio, papà! E gli Dèi non muoiono perché si svegliano la mattina e decidono di farlo, come ha fatto il signor Kasday!”.

“Signor?!” esclamò il Sole, inclinando la testa.

Non aveva mai considerato Kasday come un “Signore” anche se era stato alle sue dipendenze.

“E se la pensi così, allora perché vuoi che sia la fine del Mondo?” domandò Krì, con il suo solito fare enigmatico e con lo sguardo perso nella bufera di neve che vedeva fuori.

“Non voglio che lo sia! Solo che…non so cosa fare” ammise Kavahel, chinando il capo.

“Non mollare. Ecco cosa devi fare. Tutti i presenti in questa stanza devono promettere che non si arrenderanno, che non si spegneranno, che non moriranno, e che insieme daremo nuova vita a questo Pianeta depresso. Promettetelo!” ordinò Krì, rialzandosi per l’ennesima volta.

“Prometto!” esclamò il Sole, alzandosi a sua volta.

“Prometto!” rispose sua figlia Selene, andandogli accanto.

“Prometto!” sussurrò Heket, la Dea della Vita, che fino a quel momento era rimasta in silenzio.

“Prometto!” ringhiò Luciheday, la Dea della Morte, sempre presente anche se senza più il marito.

“Prometto…” mormorò Vereheveil, guardando suo figlio.

“Prometto” dissero altre divinità che fin ora non erano intervenute.

“Prometto” disse, infine, Kavahel dopo un profondo sospiro. Lo disse poco convinto.

Krì, soddisfatto, annuì. Poi lasciò la stanza, seguito a ruota dalla sua Messaggera Kiaritanya.

“Hai idea di dove sia mio figlio?” le domandò.

“Di solito sta da Mihael o dalle parti della Dea del Kaos”.

“Potresti andare da Mihael e vedere se è là?”.

Kiaritanya sbuffò: “Io…veramente…” iniziò, con lo sguardo accigliato “…ne avrei abbastanza di angeli, demoni e via discorrendo”.

“Ma tu sei un angelo!” le fece notare Krì, con un sorriso.

“Sì…ma preferirei che non me lo faceste notare”.

Detto questo, aprì le ali e scrisse in aria il sigillo per passare nel regno di Mihael.

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Capitolo 3
*** III- follia ***


 III

FOLLIA

                                                                          

Mihael fissava il soffitto, senza un motivo particolare. Era fermo in quella posizione da ore, con un’aria nostalgica ed assente. Accarezzava la sua spada, con evidente orgoglio, e borbottava parole sconnesse fra loro che, però, nessuno poteva udire. Era solo. Sedeva sul suo trono, imbottito di recente con cuscini arancione acceso, e ripensava al passato. Chiuse gli occhi, assumendo un’espressione sognante, e ridacchiò. Si rivedeva da piccolo, assieme al suo gemello Luciherus. Scacciò subito quel pensiero, anche se lo rendeva felice. Si alzò di scatto e, brandendo la spada, iniziò a parlare da solo, ad urlare a se stesso con convinzione, in piedi sul seggio.

“Io sono il Signore dei Demoni, il più grande, il più figo, il migliore di tutti! Nessuno è come me e nessuno potrà mai esserlo! Nemmeno quell’impiastro del mio fratello gemello! Quest è sicuro!”.

Per auto-convincersi ulteriormente, iniziò ad agitare la spada ed a farla ruotare, accompagnandola con il movimento della coda e con strani versi. Poi tornò a sedersi.

“Mi annoio” mugolò “Mi annoio, non c’è niente da fare qui. Niente guerre, niente nemici, niente angeli da spiumare, niente avversari da decapitare…niente di niente! A cosa serve un Principe, se poi non sa che ordinare ai suoi sottoposti? Tanto vale andare tutti al mare a crogiolarsi al sole!”.

Si rigirò un paio di volte sul trono, tentando di trovare una posizione comoda. Non trovandola, si rassegnò ed iniziò a fissare la sua spada con un largo sorriso.

“Sei bella. Sei bellissima! Sei splendida quasi quanto me, altro che quello sbruffone di Luciherus che si definisce l’angelo più bello! Tutte balle! Che splendore…” l’ultima frase la disse, probabilmente, riferendosi più al suo riflesso che alla sua spada.

La fissava orgoglioso e poi, ad un tratto, l’abbracciò, noncurante del fatto che fosse un’arma tagliente ed affilata.

“Solo tu mi capisci…” le sussurrò “…sono tutti contro di me in questo posto, lo sai? Ci spiano, complottano, tramano alle mie ed alle tue spalle. In questo momento ci stanno spiando. Vedo mille occhi su di noi, amica mia, e nulla possiamo fare per nasconderci!”.

La spada, ovviamente, non rispose e Mihael non ne capì bene il motivo.

“Forse anche tu stai dalla loro parte. Forse anche tu, un giorno, mi farai del male e mi tradirai. Tu, piccola ingrata, che ti ho vista nascere ed imparare! Ti sono sempre stato vicino, io! Ma tu sei un’ingrata, come tutti là fuori, e presto mi tradirai”.

Seguì un breve periodo di silenzio, in cui Mihael si era voltato, con aria offesa, nel senso opposto alla spada. Cambiò subito idea e tornò a stringerla fra le braccia.

“Ma che dico?! Tu, tradirmi?! No, mai! Tu sei stata la mia compagna fedele in questi lunghi secoli e la mia migliore amica. Ed io voglio bene a te, soltanto a te!”.

Il Principe dei Demoni aveva chiuso gli occhi, cullando la sua arma fra le braccia come una bambina, quando sentì un lieve colpo di tosse. Il piccolo demone Azazel lo stava fissando, con grandi occhi sgranati e sguardo interrogativo, dalla porta d’ingresso della sala.

“Non si bussa, nano?!” lo apostrofò, malamente, Mihael.

“Ho bussato!” protestò Azazel, agitando la coda per il fastidio di essere stato definito “nano”.

“Bussa più forte, la prossima volta!” ordinò Mihael.

“Sarà fatto” rispose l’altro, aggiungendo un “malato di mente” a bassa voce.

“Che cosa vuoi, Azazel? E dov’è il mio cappuccino?”.

“Ne avete bevuto già uno di cappuccino!”.

“Ma io ne bevo almeno tre per potermi svegliare per bene! E quello che mi avete portato era troppo poco zuccherato! Portamene un altro!”.

“L’ho zuccherato io stesso! Come piace a Voi!”.

“Sei un incompetente! Siete tutti incompetenti! Ora capisco perché mio fratello era sempre isterico! Non siete nemmeno in grado di preparare la colazione!”.

“Il mio compito non è, veramente, portare la colazione ma…”.

“E allora qual è?” lo interruppe Mihael “Non c’è niente di più importante della colazione!”.

“Io porto messaggi. Me ne frego del fatto che siate in calo di zuccheri…devo solo riferirvi che il figlio dell’Alto Krì, Kuetzalikay, è nella vostra biblioteca”.

“Oh! Kuetzy! Bene…finalmente qualcuno con cui fare una conversazione al mio stesso livello intellettivo! Sparisci adesso, moscerino…”.

Azazel uscì dalla stanza, senza arrabbiarsi. Il Principe ultimamente mostrava chiari segnali di squilibrio mentale, con diversi cambi d’umore repentini e quindi, su consiglio, aveva deciso di assecondarlo sempre, come si fa con i matti.

Mihael, riponendo la spada nel fodero, uscì da una piccola porticina che lo portava direttamente in biblioteca. Imprecò contro le ali, che tendevano ad impigliarsi dappertutto, ed entrò canticchiando nella stanza illuminata solo dalle candele.

“Kuetzy? Dove sei?”.

Il figlio di Krì agitò leggermente la coda, terminante a spatola. Odiava, sopra ogni altra cosa, essere chiamato “Kuetzy”. Non rispose al Principe, rimanendo concentrato sulla lettura del libro che aveva fra le mani. Era alto quasi fino al soffitto, cosa piuttosto normale essendo uno degli “Alti”. La sua pelle era verde, squamosa e luminosa, piena di disegni giallo-dorati. Aveva un naso a malapena accennato, che non si notava data l’enormità di dimensioni dei suoi occhi, gialli e con sottilissime pupille. Anche la sua bocca era molto larga, con due dentini che ne uscivano. Le orecchie, a punta, erano nascoste dall’aspetto che l’Alto preferiva di se stesso: i capelli. Non erano capelli normali, erano piume rosse lunghe fino ad oltre metà della sua schiena. Aveva mani piccole e braccia sottili. Tutto il suo corpo era sottile ed affusolato e si muoveva in modo sinuoso. Coperto solamente da una lunga, strana, gonna del colore dei capelli, alzò appena lo sguardo quando Mihael lo chiamò di nuovo.

“Come stai, serpente piumato?” ridacchiò il Demone.

Kuetzalikay gli mostrò la lingua, biforcuta, e tornò a leggere.

“Cosa stai leggendo di così interessante?”.

L’Alto non rispose.

“Dai…Kuetzy…rispondimi!” insistette Mihael.

“Oh, Mikino! Certo che sei testardo…” sbuffò Kuetzalikay, con voce calma e suadente.

“Non mi piace essere chiamato Mikino!”.

“E a me non piace essere chiamato Kuetzy!”.

“Ah…bene…allora siamo pari!” sorrise Mihael.

L’Alto alzò gli occhi al cielo e ripose il libro, sicuro di non riuscire a leggerlo con il Principe accanto ,e lo fissò, con un larghissimo sorriso.

“Mihael…” iniziò “…sto cercando un libro in particolare. Puoi aiutarmi?”.

“Non so, amico. Questa è la libreria di Vereheveil, appartiene a mio fratello e…”.

“Apparteneva” venne corretto.

“Come?”.

“La libreria apparteneva a tuo fratello, mio caro Demone. Luciherus non c’è più da tempo…”.

“Sì, certo. Ora non c’è. Non so cosa stia combinando, ma tornerà, prima o poi”.

L’Alto non volle indagare e tornò al suo discorso: “Dicevo…mi serve un libro in particolare e…”.

“Ed io ti stavo dicendo che non conosco tutti i volumi di questa biblioteca perché mi ci vorrà ancora un’eternità per leggerli tutti. Dovresti parlare con Vereheveil”.

“Non posso parlare con Vereheveil” sbottò Kuetzalikay.

“Perché?” domandò Mihael, inclinando la testa.

“Perché Vereheveil è uno spione e quello che cerco riguarda una faccenda personale che non voglio si sappia troppo in giro”.

“E tuo padre?”.

“Cosa?”.

“Lui sa tutto…è un Alto anziano…possibile che riesca a dirti dov’è il libro che cerchi…”.

“Io non parlo con mio padre. Mai!” esclamò il giovane Alto e chinò il capo.

Si era appoggiato alla scrivania dove, un tempo, sedeva per ore Luciherus. Aveva incrociato gambe e braccia, agitando la coda. I capelli, per il fastidio, si erano gonfiati leggermente. Questo faceva sempre ridere Mihael.

“Anche tu hai problemi in famiglia, Kuetzy?”.

“Piantala di chiamarmi Kuetzy!! Non lo sopporto proprio!!”.

“Ok, ok! Scusa…” sghignazzò il demone e, senza motivo, sfoderò la spada “Ti va di combattere?” domandò, inaspettatamente, rivolto a Kuetzalikay.

L’Alto ghignò e scosse il capo, sconcertato da quella richiesta.

“Quanto sei stupido, Mihael? Ricordi che sono uno degli Alti? Come speri di battermi?”.

“Io sono il Principe dei Demoni, ex Arcangelo guerriero. Non mi fai paura, serpentello piumoso!”.

Kuetzalikay rizzò tutte le sue piume, quasi con rabbia, e guardò il Demone con occhi spalancati. Mihael, con totale incoscienza, cominciò ad attaccare l’Alto. Questi si difese con facilità, pur rimanendo del tutto allibito dalla follia di quell’essere. Il Principe, ridendo, continuava ad attaccare senza nemmeno pensare a chi aveva di fronte. Provava il disperato bisogno di trovare un avversario. Kuetzalikay lo assecondò, per un po’. Si faceva anche colpire, a volte, sicuro che tutte le sue ferite si rimarginassero all’istante. Infatti era quello che accadeva e Mihael lo notò.

“Come si fa a sconfiggere una strana cosa come te?” protestò.

“Credi che sia semplice, demonietto? Noi Alti moriamo solo se il nostro oblò viene infranto”.

Il Principe, allora, provò ad attaccare il cerchio di vetro che l’Alto aveva all’altezza del cuore, ma nulla accadde. Kuetzalikay lo lasciò colpire e gli mostrò che nessuna arma mortale avrebbe potuto pensare di scalfirlo. Mihael ci rimase male e fece una smorfia.

“E se qualcuno ti taglia la testa?” azzardò, dopo un po’ di riflessione.

“In effetti, in quel caso, avresti qualche possibilità. Ma dovresti subito rompere l’oblò, altrimenti mi rigenererei. Ad ogni modo…se tu fossi mio nemico, avrei già alzato una barriera contro di te in modo da impedirti ogni mossa, mio caro. Ma…mi auguro che tu non sia così incredibilmente stupido da volermi come nemico, vero?”.

“Certo che no! Era solo per sapere…metti che un Alto mi attacca un giorno…”.

“Di questo puoi stare tranquillo. Mio padre è un rammollito e non ce ne sono altri, oltre me e lui, della nostra specie. Ovviamente io non vedo perché dovrei attaccarti, Miky”.

“Non avete femmine?” si stupì il Principe.

“In effetti…no. Ma tranquillo, io trovo come divertirmi altrove”.

“Ma così non nascono figli bastardi?”.

“Sai quanti figli bastardi ci sono in giro? Le divinità sono sempre di meno e gli Dèi si divertono come possono, con mortali e simili. Ti stupiresti di quanti Semidèi vagano per i Pianeti…”.

“Potrei assoldarne qualcuno per le mie truppe…”.

“A che ti servono le truppe, scusa? C’è un trattato di pace fra Angeli e Demoni…”.

“Pft…quei pallini piumosi ed irritanti! Vedrai che prima o poi troverò una scusa per tornare a spaccargli la faccia! E anche qualcos’altro…che in effetti non hanno…ma pazienza…”.

L’Alto alzò un sopracciglio con aria interrogativa ma non chiese niente.

In quel momento entrò Azazel, timidamente, impaurito di certo più dalla presenza dell’Alto che dal suo capo e padrone con i suoi attacchi di follia. Si inchinò leggermente ed informò il Principe che aveva fatto preparare un cappuccino come desiderava. Mihael sorrise, raggiante: era la notizia migliore che potessero dargli in quel momento. Prese commiato da Kuetzalikay ed uscì dalla biblioteca, fischiettando felice.

L’Alto, rimasto solo, riprese a leggere scuotendo il capo: “Se questi sono i nostri sottoposti…” si chiese “…perché mio padre ci tiene tanto a mantenerli in vita?”.

Era assorto nella lettura, quando un rumore attirò la sua attenzione, ma non vide nulla. Rizzò le orecchie. Erano rumori di passi, piccoli passi. Troppo piccoli perché fossero di qualche guardia. Pensò ad un’allucinazione e riprese a leggere. Sentì un altro rumore e tornò a distogliere lo sguardo dal grande libro dorato che stringeva fra le mani. La sua coda si attorciglio con fare interrogativo. Davanti a lui, ritto sulla porta, stava un bambino, con spettinati capelli blu scuro, che lo fissava.

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Capitolo 4
*** IV- incontro ***


 IV

INCONTRO

 

Kevihang, giunto fino al palazzo di Mihael, se ne restava sulla porta della biblioteca, fissando quello strano individuo altissimo e dalla pelle verde che la occupava. Nessuno dei due parlava ma si scrutavano di soppiatto, con fare sospettoso.

“E tu da dove sei entrato?” domandò, infine, Kuetzalikay.

“Dalla porta” rispose, semplicemente, il bambino.

L’Alto si stupì. Si trovavano nel palazzo di Mihael, il Principe dei Demoni! Sarebbe dovuto essere sorvegliato e protetto per bene, invece quel bambino era entrato come se niente fosse.

“Come sarebbe a dire?! Non puoi essere entrato dalla porta!”.

“A te che importa, lucertolone anoressico? Non c’era nessuno all’ingresso e sono entrato!”.

Kuetzalikay dedusse che, evidentemente, le guardie eran tutte a fare altro.

“Come ti chiami, ragazzino impertinente?” sbottò.

“Io sono Kevihang. E mi serve un libro”.

“Quanta fretta…immagino che tu sappia chi sono io…”.

“Sicuramente un pezzo grosso, data la tua spocchia e la tua superbia. Ma per il resto non saprei collocarti se non sotto l’insieme degli esseri strani…ma di quelli ne conosco tanti…”.

“Non hai paura di me?”.

“No. Dovrei?”.

“E non hai paura di trovarti qui, da solo, in mezzo a sconosciuti potenzialmente pericolosi?”.

“No…”.

“Sei molto coraggioso” ammise l’Alto, riponendo il libro che teneva fra le mani ed avvicinandosi al piccolo “O estremamente stupido!”.

Si inginocchiò per osservarlo meglio e gli sorrise: “Da dove vieni, piccolo esserino con uno splendido disegno sul viso?” domandò.

“Vengo dall’orfanotrofio di Baumtien e sono qui per poter trovare delle risposte”.

“La famosa storia che tutte le risposte degli Universi sono racchiuse in questa biblioteca? Vorrei aiutarti, ma sono nella tua stessa situazione. Cerco un libro da tempo ma, senza aiuto, non so se mai sarò in grado di trovarlo”.

“Possiamo darci una mano a vicenda. Io sono piccolo e tu sei alto, possiamo dividerci gli scaffali. Io controllo tutti quelli in basso…”.

“Ma che carino che sei…ma, dimmi…che cosa vai cercando? Che risposte ti servono?”.

“Voglio sapere chi sono i miei genitori”.

“E perché?” borbottò l’Alto, con una smorfia.

“Tu sei il figlio di Krì?” volle sapere Kevihang, ricordando una delle lezioni dell’orfanotrofio.

“Sì, esatto…” ammise Kuetzalikay, con fastidio “…anche se preferirei non esserlo!”.

“Sei fortunato, invece. Io darei qualunque cosa per avere anche solo uno dei miei genitori”.

“Avere una famiglia non è poi così bello come dicono, sai piccolo?”.

“Ma non averla per niente ti assicuro che è molto brutto”.

Rassegnato, e ancora stupito, l’Alto si accordò col piccolo per un aiuto reciproco. Iniziarono a cercare fra gli scaffali con cura, consapevoli dell’immensità della biblioteca.

“Com’è essere un Alto?” chiese, ad un tratto, Kevihang.

“Com’è essere un semplice mortale?”.

“Io non sono un semplice mortale!”.

“Non sei un Dio! Perciò, per me, sei un semplice mortale”.

“Ah…capisco…”.

“Ad ogni modo è divertente. Essere un Alto, intendo! Anche se spesso la gente si aspetta chissà che cosa da te e tu non puoi aiutarla”.

“Ma non è il vostro compito aiutare la gente?”.

“Sì, certo, ma il nostro potere è proporzionale a ciò che la gente crede. Se i mortalucci sono scarsi in numero e fede…anche noi siamo più scarsi in forza magica. Ed è ovvio che per noi è più importante pensare in grande, guardare oltre, verso l’equilibrio e la continuità degli Universi, piuttosto che ai capricci di un gruppetto di insignificanti esserucoli”.

“Però la continuità degli Universi non sarebbe più semplice se il Tempo ricominciasse a scorrere normalmente e se il gelo se ne andasse almeno per un po’?”.

“Fai il saputello, eh?” sghignazzò l’Alto, aprendo l’ennesimo libro per lui inutile.

“No. Non è vero!”.

“Sì che è vero ma sta tranquillo…è normale! Tutti i nostri sottoposti parlano come te! Questo perché tutti quanti voi, Dèi minori e mortali, considerate il mestiere di chi vi comanda più semplice. In realtà non siete in grado di guardare oltre al vostro naso e perciò è ovvio che non sapete comprendere le nostre azioni, compiute pensando alle Ere a venire”.

“Per me, in realtà, state tutto il giorno a girarvi i pollici e perciò va tutto in malora…”.

“Senti un po’…microbo…” iniziò Kuetzalikay, agitando la coda, quando vide che il piccolo Kevihang teneva fra le mani un libro molto interessante.

Aveva la copertina rossa, brillante, con i bordi consumati e scoloriti. Le pagine, ingiallite e incurvate dall’umidità, presentavano numerose pieghe, strappi ed orecchie. Non aveva titolo e profumava d’antico. Il bambino lo aprì, senza pensarci, e ne osservò i caratteri blu scuro. Interamente scritto a mano, completo di illustrazioni e miniature, non veniva aperto da secoli.

“Questo libro risulterà utile ad entrambi, mio giovane amico” affermò l’Alto, abbassandosi e sfiorando le spalle del bambino con le mani sottili.

“Questo volume…” spiegò “…apparteneva a Luciherus. Era un dono di Madama Lilim e del suo compagno, divenuto poi Dio dell’Equilibrio e Alto”.

“Questo libro è stato scritto da Kasday?”.

“Da Kasday in persona! Ti parlo di Ere ed Ere fa. Fammi dare un’occhiata…”.

Detto questo l’Alto allungò la mano verso il libro ma questi si richiuse, da solo, e lo respinse con una potente barriera dorata. Kuetzalikay ritrasse la mano, gonfiando i capelli.

“Che storia è mai questa?! Perché tu lo puoi aprire ed io no?”.

“Forse Kasday ci ha fatto un incantesimo per far sì che gli Alti non lo tocchino…”.

“Quando Kasday ha scritto questo libro, sono sicuro che non avesse nemmeno idea di cosa fosse un Alto. Al tempo era una specie di demone mingherlino e deboluccio che si manteneva facendo lo scriba. Dubito perfino che sapesse usare la magia…”.

Kuetzalikay provò ad afferrare altri due libri, uno nero ed uno blu, posti accanto a dove aveva riposato per Ere il libro rosso. Anche questi lo respinsero. Avvicinandosi notò che, sul dorso di ognuno di essi, era stato inciso un piccolo simbolo.

“Devono essere libri speciali” commentò Kevihang, riuscendo ad afferrare quello blu e leggendone il titolo ad alta voce, rigirandolo fra le mani.

“La città degli Dèi…La luce dei Celesti…ed infine questo libro rosso senza nome. Perché solo loro tre hanno un sigillo disegnato sopra?” pensò ad alta voce.

“Non te lo so dire…” gli rispose l’Alto “…ma quel sigillo è stato fatto da Vereheveil e, interpretandolo, prevede che solo lui, Luciherus e Kasday possano aprirli e sfogliarli”.

“Cioè nessuno, oggigiorno, tranne Vereheveil. Luciherus e Kasday non sono quei due Dèi morti secoli fa? O mi sbaglio?”.

“Non sbagli, piccoletto. Luciherus e Kasday sono morti prima della mia nascita e questo significa che è passato un bel po’ di tempo…forse il sigillo va letto in un altro modo o forse la barriera non si alza se a sfogliarlo è una creatura insignificante come te”.

Kevihang si accigliò leggermente per essere stato definito insignificante, per poi riaprire il libro rosso. Kuetzalikay si accorse che non solo non poteva afferrare fra le mani il volume, ma nemmeno avvicinarsi in modo da leggerlo. Esso, infatti, si richiudeva all’istante. Infastidito, giunse alla conclusione che, se voleva utilizzare le parole scritte su quel prezioso tomo, doveva farlo grazie al ragazzino che aveva accanto. La cosa non gli piaceva, anche perché vide che il bambino aveva un certo potenziale magico ma insufficiente a pronunciare gli incantesimi contenuti sul manuale color del sangue. Lo fece notare al piccolo, che si avvilì.

“Qui c’è la formula che mi permetterebbe di scoprire chi sono i miei veri genitori ma, visto che io sono un essere inutile, non sono abbastanza forte per pronunciarla” singhiozzò.

L’Alto, spiazzato dalla reazione del bambino, tentò di calmarlo come poteva pur non avendo la minima esperienza con creaturine simili: “Non piangere, Kevihang! In realtà sei molto bravo per l’età che hai! E poi…io posso aiutarti!”.

“Davvero?” mormorò il piccolo, tirando su la testa.

“Certo! Non piangere più! Asciugati le lacrime e stringi i denti, giovanotto!”.

Kevihang annuì, stringendo i pugni, e si avvicinò all’Alto.

“Come?” domandò il bambino.

“Come cosa?”.

“Come puoi aiutarmi, lucertolone?”.

“Posso portarti in un posto speciale, dove imparerai a fare ciò che necessario. Fidati!”.

“Bene! Andiamo!”.

“Adesso?”.

“Ovvio!! Prima andiamo e meglio è! Forza!”.

Kevihang prese per mano l’Alto, stringendola forte e non lasciandolo rialzare se non con il bambino aggrappato e sollevato da terra.

“Ok, ok! Però lasciami!”.

L’Alto, una volta libero, prese in prestito l’enorme drago rosso di Mihael e fece salire il piccolo dietro di sé, raccomandandogli di tenersi forte. Kevihang lo strinse, sentendo come avesse la pelle viscida ed inquietante. Non fece commenti e guardò giù, sospeso nell’aria sul dorso dell’animale del Principe dei Demoni. L’Alto sussurrò qualcosa nell’orecchio della creatura rossa e questa si librò nel cielo, nascosta fra le nuvole. Oltre quella coltre grigia e bianca, il Sole splendeva ed il bambino sorrise. Non aveva vissuto un solo giorno sereno in tutta la sua vita!

“Dove andiamo?” domandò, gridando per farsi udire nel vento.

“In un piccolo villaggio oltre il palazzo della Principessa Nera. Lì troverai delle persone in grado di aiutarti e dove sarai al sicuro”.

“Al sicuro da cosa?”.

“Da quello che sei”.

“Io non sono niente…”.

“Appunto”.

Kuetzalikay fece scendere di quota il destriero, permettendo al bambino di vedere il palazzo della Principessa che si stagliava nel cielo, immenso e tetro. Poco oltre il perimetro nero di quell’edificio, Kevihang vide mille e più luci colorate.

“Cosa c’è laggiù?” volle sapere.

“Quella è la foresta dei cristalli. Un tempo era una vera foresta, piena d’alberi e rigogliosa. Ora le piante si sono cristallizzate. Quel luogo è dove è stata concepita Luciheday, la Dea della Morte, ed è proprietà della Principessa. Chi vi si addentra lo fa a suo rischio e pericolo”.

“Capito…” annunciò Kevihang, continuando ad osservarne i colori con un sorriso.

Proseguirono ancora oltre, per parecchio tempo, sorvolando distese di roccia, neve, luoghi inospitali e deserti. Solo dopo parecchie ore, e diversi problemi con le situazioni atmosferiche che il drago odiava, come il gelo e la tempesta, i due videro in lontananza un piccolo villaggio. Accuratamente nascosto fra le rocce, in un’insenatura della montagna, pareva disabitato, ma l’Alto fece un larghissimo sorriso per rassicurare Kevihang.

“Non è deserto, piccolino! Adesso atterriamo e vedrai…conoscerai un sacco di gente interessante!”.

Sussurrando un’altra volta degli ordini al drago, Kuetzalikay cominciò a fargli perdere quota mentre il bambino, aggrappandosi più forte, si preparò all’atterraggio.

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Capitolo 5
*** V- scacchi ***


V

 

SCACCHI

 

Lei era una Dea, una fra le più belle fra le Dee, ma anche una fra le più cattive. Sedeva sul trono irregolare, nero lucido, e guardava l’orizzonte dall’alto della torre più alta del suo palazzo. Sorrideva, gelida, davanti allo spettacolo di morte e devastazione che poteva scorgere. Ovunque girasse lo sguardo, non vedeva altro che ghiaccio, terra senza vita e caos. Tanto caos. Ed a lei questo piaceva. Lei era la Principessa del Caos, lei era la Dea del Kaos.

Rise, beffarda e soddisfatta, sicura di poter sopraffare in qualsiasi momento il suo fratello gemello Destino, e si alzò. Alzò il viso verso la cima della torre, mentre una sottilissima linea di luce di non si sa quale provenienza la illuminava e le faceva splendere gli occhi dorati e la pelle nera. Il suo sorriso, bianchissimo e quasi innaturale, la rendeva ancora più affascinante. Il suo bel volto, sottile e proporzionato, era solo in parte incorniciato dai capelli neri, che portava cortissimi, drittissimi. Sistemò un ciuffo di questi, sempre in piedi, e si incamminò lungo gli scalini irregolari che la facevano scendere dalla torre. Era una divinità piccina di statura e compensava questo con l’uso di stivali altissimi, in pelle nera, con una zeppa vertiginosa che tentava di celare sotto il lungo vestito dello stesso colore che, però, aveva un ampio spacco. Questo rendeva vano il suo intento. L’abito, in pelle anch’esso, era una regalo di sua zia, la Dea delle Armi, e lo apprezzava molto.

Sbirciando fuori da una piccola finestra lungo il corridoio, a sette angoli, la Dea vide sfrecciare il drago rosso di Mihael. Non riuscì a capire chi lo cavalcasse ma sorrise con più convinzione. Ammirava le capacità guerriere del Principe dei Demoni, anche se non ne comprendeva gli intenti. Sapeva bene che ultimamente era fuori di testa ma lei era abituata a stare fra i matti. Del resto era stata generata da un uovo magico di Vereheveil e Kasday, famosi per la loro mancanza di sanità mentale in diverse occasioni. Strizzò leggermente le palpebre e riuscì a capire che c’era un essere verde sopra al drago e sobbalzò.

“Kuetzalikay” sussurrò.

Con un breve fischio, la Dea chiamò a sé uno dei suoi corvi blu scuro. Lo accarezzò sulla testa con le sue lunghe unghie laccate di rosso e gli diede un piccolo bacio. Gli parlò con dolcezza e poi lo fece uscire dalla finestra. L’uccello iniziò a seguire il drago rosso, gracchiando.

La Dea, fatto questo, si sistemò gli abiti distrattamente e diede un’occhiata alla grossa sfera sospesa nell’aria che brillava portando il suo simbolo: la spirale nera. Era soddisfatta. Brillava forte e questo, per lei, era un gran bel segno. Però era anche preoccupata. Non era normale che i mortali si affidassero tanto al Kaos, eppure ultimamente la gente non credeva in molto altro. Non sapeva di certo come dargli torto. Stringendo i pugni, con un ghigno, decise che si stava annoiando e che sapeva come rimediare. Disegnò un piccolo portale rosso fuoco e ci passò attraverso, diretta al palazzo del Principe Bianco, suo fratello e Dio del Destino.

 

Il Principe Bianco camminava, a mani giunte, per il suo castello eburneo. Era seguito a ruota dal suo angelo Messaggero, Erezehimsay, che fischiettava un allegro motivetto. Quell’angelo, con i suoi capelli arancio, era l’unica nota colorata in tutta quella casa completamente bianca. Il suo padrone teneva i lunghi capelli verde acqua in un ampio cappuccio candido e quindi non si vedevano. E camminava ad occhi chiusi, celandone il dorato. Assomigliava molto a suo padre, Vereheveil, ed al fratello maggiore Kavahel. Si rifletteva lungo gli specchi del palazzo, con la sua lunga tunica bianchissima ed i piedi scalzi. Dio e Messaggero uscirono nel giardino interno, coperto da una cupola trasparente che lo rendeva simile ad un’immensa serra. Era interamente ricoperto da rose bianche, profumatissime, che si perdevano a vista d’occhio.

“Ogni rosa è un’anima” affermò il Destino, come recitando una poesia.

La sua voce era profonda, inquietante, in forte risalto con il suo viso dolce e con i suoi occhi enormi. Con le mani guidò alcune farfalle da un fiore all’altro, mentre queste ci scrivevano sopra con le loro antenne dorate. Ogni rosa un’anima, ogni fiore una persona. Sui loro petali, con inchiostro d’oro, era riportata la storia di ogni singolo individuo che, quando questa era esaurita, cadeva. Quando l’ultimo petalo era caduto, l’anima era giunta alla fine della sua vita ed il suo proprietario moriva.

Il Dio passò accanto ad un’aiuola con delle rose particolari, di cristallo. Quelle erano le rose che contenevano l’anima degli Dèi, immortali. I loro petali non cadevano e, se la divinità doveva passare ad un altro stadio di esistenza, era compito del Destino cogliere il fiore del Dio designato ed infrangerlo. Questo si spezzava in milioni di pezzi e la sua vita finiva. Compiere quel gesto al Destino dispiaceva. Non voleva uccidere le divinità ma lui riceveva ordini precisi e doveva solo obbedire. Molte volte aveva pianto, nel recidere le rose senza più petali o nel rompere i fiori degli Dèi. Soprattutto se conosceva le divinità o i mortali a cui erano collegati. Vide, con rammarico, che alcune delle rose di cristallo stavano perdendo la loro luce e questo non era mai un buon segno. Passò oltre, lasciandosi pungere dalle numerose spine del suo giardino, e recise alcuni gambi spogli. Si assicurò che le nuove rose, piccole e neonate, avessero sufficiente calore e nutrimento, però era difficile. Il freddo era pungente nonostante la cupola, il giardino era sempre meno fertile e faceva sempre più fatica a fiorire. Il Dio sospirò. Poi si immobilizzò, rizzando le orecchie.

Tolse il cappuccio per poter udire al meglio ed alzò gli occhi: sua sorella, la Dea del Kaos, stava scendendo dal cielo.

La Principessa Nera sfondò la cupola in vetro ed atterrò nel giardino, calpestando molti fiori.

Il fratello, inorridito, la fissò con profondo fastidio e rimase senza parole. Spalancò le braccia e riuscì solo a balbettare dei “ma” senza nient’altro vicino. Le sorella rideva, sprezzante, e non si preoccupò del fatto di aver provato non pochi danni.

“Buongiorno, fratellino! Ti sono mancata?” disse lei, spalancando le braccia.

“Neanche un po’. Leva i piedi dai miei fiori!” rispose lui.

“Quanta scortesia…”.

“Scortesia ‘sti cazzi! Hai rotto, per l’ennesima volta, la mia cupola!”.

“Ti manderò dei controllori di fuoco e terra per farti rifare il vetro, suvvia! Non farne una tragedia! E per quanto riguarda le rose…dai su, sono mortalucci insignificanti!”.

“Quei mortalucci insignificanti si fidano e credono in me!”.

“Quanta insolenza! Non credono mica in te, piccolo mostriciattolo bianco! Ma credono in me, il Kaos, forza primigenia dei Multiversi!”.

“Con che coraggio tu dici a me di essere un mostriciattolo? Tu, che sei poco più alta di un fungo!”.

“Hei! Ma come ti permetti?! Razza di mezza checca bianchiccia con il vocione da drago panciuto? Sarò anche più bassa di te, ma sicuramente sono anche molto più forte! Posso batterti in qualunque momento, stanne certo!”.

“Questo lo so. Di fatti non ci tengo a sfidarti, sorellina”.

“Allora non irritarmi!”.

“Sei tu che mi irriti, sfracassandomi la cupola, i fiori e anche qualcos’altro che, dato che sono un signore, non includerò esplicitamente nell’elenco!”.

“Pft…mezza sega!”.

“Nana da giardino!”

“Asparago!”.

“Formica!”.

“Bastardo!”.

“Sono il tuo gemello, piccola stupida! Ti offendi da sola dicendo così!”.

La Dea del Kaos rimase in silenzio, per qualche istante, per poi digrignare i denti con rabbia.

“Vuoi la guerra!” sibilò.

I due fratelli iniziarono uno scontro piuttosto singolare, con il Destino che prendeva numerosi colpi senza reagire più di tanto. Il Kaos saltellava sulle zeppe, protestando vivacemente, mentre il Destino tentava di rimanere calmo. Questo fino a quando la sorella non lo iniziò a colpire in modo serio.

La Dea si inginocchiò repentinamente, afferrando uno dei grossi frammenti di vetro della cupola, e lo usò come arma. Trafisse la gamba del fratello che fece una smorfia, per il dolore e per la macchia sul vestito. Lui tentò di difendersi, schivando i colpi a casaccio che dava lei, ma sapeva di essere in svantaggio: sua sorella lo aveva sempre battuto, fin da quando erano bambini. Tentò di spostare il campo di battaglia, in modo da rovinare meno fiori possibile, e ci riuscì grazie all’aiuto del suo Angelo Messaggero. Erezehimsay, infatti, sapendo di non poter interferire in uno scontro fra Dèi, era intervenuto colpendo violentemente uno degli specchi sulle colonne d’ingresso del giardino. Quel suono e quel gesto avevano distratto, per qualche istante, la Dea del Kaos che reagì volgendo lo sguardo verso il rumore. Il Destino ne approfittò per allontanarsi di qualche metro, giusto il necessario per far uscire entrambi dal giardino di rose. Così facendo, si ritrovarono ad inseguirsi sotto un lungo colonnato fatto di specchi e sfere di cristallo, che la Dea infrangeva con immenso piacere. Lui correva, lei saltellava come se fosse un gioco.

“Ti prenderò, razza di sproporzionato albino dai capelli a spazzola!” urlò il Kaos.

“Non sono un albino e non ho i capelli a spazzola!” protestò il Destino.

“Sicuramente sei un codardo, dato che scappi!”.

Detto questo, la Dea lanciò il pezzo di vetro che stringeva fra le mani che andò a colpire in pieno la schiena del fratello. Questi urlò e si fermò, tentando di togliere il frammento. Non riuscendoci, continuò a dimenarsi e lamentarsi per il dolore. La sorella, invece, rideva felice.

“Ti ho battuto anche questa volta!” gongolò, prima di fiondarsi contro il fratello.

Il Destino, con le braccia incrociate dietro la schiena nel vano tentativo di liberarsi del grosso frammento di vetro, non riuscì a respingere quella piccola pazza della parente e lei lo afferrò per le gambe. Perse l’equilibrio e cadde di schiena, conficcando ancora di più il pezzo di cupola.

“Skrich!” urlò una voce, mista fra maschile e femminile.

La Dea del Kaos smise di ridere e rizzò le orecchie, sempre rimanendo sulla pancia del fratello.

“Skrich, che combini?” si sentì ancora.

“Kavahel? Fratellone? Sei tu?” azzardò il Dio del Destino, lottando con tutte le sue forze per non urlare per la sofferenza.

“Certo che sono io, bambinetti!” li rimproverò Kavahel, scendendo a terra con un ultimo battito d’ali blu acceso.

Atterrò con grazia e fissò con rabbia i suoi fratelli: tre paia d’occhi dorati che si fissavano. Il Dio dell’Equilibrio afferrò la sorella minore per un braccio e la costrinse ad alzarsi. Poi porse la mano al fratello e lo mise seduto, sui tre scalini che introducevano al giardino alla fine del colonnato.

Con un cenno, fece avvicinare Erezehimsay che, nel frattempo, si era organizzato per poter curare il suo padrone. Uno dei suoi padroni…lui, di fatto, era l’Angelo Messaggero di tutti e tre i fratelli presenti. Un lavoraccio, ma ormai era abituato e non gli pesava.

L’angelo dai capelli arancio estrasse, con delicatezza, il frammento di vetro dalla schiena del Destino e poi, in fretta, compresse la ferita con un fazzoletto pulito. Era un brutto taglio ma, fortunatamente, non aveva provocato danni irreparabili. Kavahel, con apprensione, osservo tutti i movimenti dell’angelo e guardò con rimprovero la Dea del Kaos.

“Non ti vergogni?” la rimproverò “Pochi centimetri più in profondità e avresti potuto provocare gravi danni a tuo fratello. Possibile che non pensi mai alle conseguenze?”.

“Che vuoi che mi importi delle conseguenze? Io sono il Kaos!”.

“Tu sei una stupida! Tutti e due siete degli stupidi! Non sapete far altro che litigare e dar fastidio!”.

“E tu non sai far altro che dare ordini” mormorò il Destino, mentre Erezehimsay lo fasciava.

“Ben detto!” lo acclamò la sorella, subito zittita da un’occhiataccia di Kavahel.

“Io non ci sarò sempre a dividervi. Non potrò sempre, e per tutta l’eternità, farvi da balia! Un giorno vi ritroverete soli, l’uno contro l’altro, e se io non sarò presente per dividervi che cosa pensate di fare? Volete uccidervi a vicenda? Non può esistere niente, senza il Kaos, l’Equilibrio ed il Destino! Come avrò mai la certezza che, se non sarò in grado di fermarvi in tempo, non vi ucciderete a vicenda combinando un casino?”.

“A me piace il casino…” affermò la Dea.

“Non è questo il punto, piccola scema! Se tu uccidi lui, non c’è più equilibrio e quindi muoio anch’io. E senza l’Equilibrio…indovina un po’?! Non c’è nemmeno il Kaos!”.

Lei non sembrava convinta. Storse il viso, senza ribattere, ed optò per la strategia dell’assenso. Quella che ti diceva di annuire e dare ragione al proprio interlocutore per non menare il discorso tanto per le lunghe.

“Hai capito?” sbottò Kavahel.

La Dea del Kaos annuì.

“Sei sicura?” incalzò l’Equilibrio.

“Sì! Non sono stupida!”.

“E tu, fratellino?” domandò di nuovo Kavahel, girandovi verso il Destino.

“Ha iniziato lei!” protestò questi, rivestendosi una volta medicato.

“Non mi interessa chi ha iniziato! Non è questo il punto! Ma non lo capite?” si lamentò il fratello maggiore, con aria afflitta “Fratellini…” ricominciò “…io mi preoccupo per voi. Io ho molte cose a coi badare e, devo ammetterlo, nessuna di queste mi riesce particolarmente bene. Dovrei preservare la vita fra gli universi ma è sempre più difficile e, soprattutto, non sono nemmeno in grado di salvaguardare alla vita delle persone che amo, figuriamoci del resto del creato! Sto facendo del mio meglio ma non è semplice, e voi non fate altro che complicarmi le cose! Litigate continuamente, mettendo a rischio tutto il precario esistere che ci circonda, e fate sempre una gran confusione! Sono finite le guerre fra Dei! Non ci saranno scontri epocali fra mortali e divinità per voi schierati! Non contiamo più come a quei tempi. Perciò…piantatela! Vi chiedo solo una cosa: silenzio! Desidero tanto, e solamente, il silenzio. Non è molto…”.

“Capito…” annuì la Dea del Kaos, guardando il fratellino Destino con una faccia stupita quanto divertita dal monologo di Kavahel.

“Staremo più attenti la prossima volta. Faremo meno rumore” promise il Destino.

“Gradirei che non litigaste proprio, veramente…” ribatté l’Equilibrio.

“Ma questo è impossibile! È intrinseco alla nostra natura!” affermò il Kaos.

“Allora va bene…fatelo ma senza uccidere mortali” si arrese il fratello maggiore, indicando le rose calpestate, spezzate e morte fra i frammenti di vetro ed i piedi dei due litiganti.

I gemelli, imbarazzati, promisero che una cosa del genere non sarebbe più successa. Si scusarono profondamente, con un piccolo inchino, non avendo idea di come rimediare.

“Manderò il Dio dell’Estate. Lui ha in sé il potere della fertilità. So bene che dovrebbe, come da contratto, visitare il giardino solo un paio di volte l’anno ma, per questa volta, farò un’eccezione perché vedo che le tue rose hanno dei problemi”.

“Grazie, Kavahel…” sorrise il Destino.

L’Equilibrio riprese il volo, senza dire altro, e si allontanò in fretta nel cielo plumbeo.

“Perché le divinità dell’Equilibrio sono tutte pazze e depresse?” ridacchiò la Dea del Kaos, prima di andarsene a sua volta con l’uso del portale magico.

Il Destino alzò le spalle, ignorando la cosa, e ricominciò a girare per il giardino chiacchierando alle sue migliaia e migliaia di rose, mentre dal cielo riprendeva a scendere la pioggia, mista a ghiaccio e neve.

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Capitolo 6
*** VI- nuova famiglia ***


VI

 

NUOVA FAMIGLIA

 

L’atterraggio di Kuetzalikay e Kevihang non fu affatto facile. Si era alzato un vento impetuoso e gelido, che aveva ridotto notevolmente la visuale del drago che, preso dal panico, aveva aumentato la velocità ed era sfuggito al controllo dell’Alto. Nonostante questo, Kuetzalikay era riuscito a portare a terra la bestia. Con le lunghe gambe verdi scese, sistemandosi le piume. Poi si voltò verso Kevihang che sorrideva, per nulla spaventato dall’atterraggio di fortuna. Il piccolo villaggio in cui erano giunti era molto silenzioso, quasi tetro. Non si vedeva nessuno. Poi una luce apparve da dietro l’ingresso dell’abitazione più grande ed una donna si avvicinò ai due.

“Kuetzalikay?” domandò lei, sospettosa.

Indossava un abito semplice, chiaro, che lasciava trasparire la luce emessa dalla pelle di lei. Aveva occhi luminosi e grandi, i capelli corti e dritti, ed un bel sorriso. Kuetzalikay le sorrise a sua volta e spalancò le braccia, in segno di saluto.

“Mama!” le disse, andandole appresso.

Si abbracciarono, nonostante la notevole differenza d’altezza. L’Alto la sollevò da terra e la fece girare un paio di volte. Erano felici di rivedersi.

“Quanti anni sono passati, ‘likay? E tu non sei cambiato…”.

“L’ultima volta che son giunto qui, i tuoi figli erano piccoli. Non è molto…”.

“Considerato che presto il mio secondo figlio maschio affronterà la prova dei cristalli…direi che ne è passato di tempo!”.

“Già la cerimonia dei cristalli?! Ha già l’età per affrontare la prova di maturità?”.

“Certo. Ma comprendo che per voi Alti sia poco tempo…”.

“Quindi il maggiore l’ha già affrontata?”.

“Ovvio…”.

“E come è andata?”.

“Benissimo. Anche se…non importa, te lo dirà lui se ne avrà voglia…”.

In quel momento una voce infantile chiamò sua mamma ed una bella bambina mora andò accanto alla donna di luce. La madre la prese in braccio e la presentò all’Alto.

“Lei è la mia bambina, Marinditi-ya, nata sei anni fa…”.

“Oh! Come te, Kevihang!” ridacchiò l’Alto, rendendo partecipe della conversazione anche il bambino, che nel frattempo non aveva fiatato.

“Più o meno sì” ammise Kevihang, guardando la bambina con un pizzico d’invidia.

“Chi è questo giovanotto?” domandò la donna di luce.

“Si chiama Kevihang, è un bambino…speciale. Come tutti voi”.

“Lo vedo. Io sono Valek-hiteia, piacere! Da dove vieni?”.

“Da un brutto posto, con brutta gente” sbottò il bambino.

“Va bene. Non ne parliamo allora” gli sorrise la donna.

“L’ho portato qui per un motivo” parlò l’Alto “L’ho trovato nella biblioteca del Principe dei Demoni Mihael. Ha aperto uno dei libri sigillati da Vereheveil senza essere respinto dalla sua barriera. Ha un grande potenziale…e vorrei che tu lo aiutassi a svilupparlo”.

“Sarà per me un piacere…”.

Kevihang non ascoltava. Guardava una casetta arancio da cui riusciva a scorgere una figura china sui libri. Incuriosito, si incamminò verso essa.

“Kevihang! Torna qui!” lo richiamò Kuetzalikay ma la donna di luce gli fece un segno con la mano.

“Non lo fermare. Lascia che vada. Credo che possa trovare da solo il suo maestro”.

L’Alto annuì e lo lasciò andare. Kevihang entrò nella casa arancione, attraverso una piccola porticina verde chiaro che brillava leggermente.

“Di chi è figlio?” sussurrò la donna a Kuetzalikay.

“Non lo so. È orfano. I libri che ha cercato erano per scoprire da chi è stato generato”.

“Capisco…lo aiuteremo anche in questo. Stai pure tranquillo. Puoi tornare ai tuoi affari”.

L’Alto, con un sorriso, risalì sul drago.

“Ti saluto, mia cara. Congratulazioni, anche se in ritardo, per la bambina!”.

“Ci sono rimasta male. Per i miei tre maschi eri venuto a trovarmi ed a vederli, ma per la bambina non sei venuto…ma ti perdono perché mi hai portato quel bel bambino sperduto”.

“Ho avuto problemi a casa, scusami”.

“Problemi per quasi 18 anni?”.

“Per noi Alti non è nulla. Buon proseguimento. Tornerò, promesso!”.

“Fra quanti anni? Guarda che io non sono una degli Alti!”.

“Tornerò, cara, luminosa, Semidea. E sarai sempre giovane e bella, come sei ora! A presto!”.

La donna di luce lo vide andar via, avvolta da un vento altalenante, e sospirò sorridendo.

“Dèi, Alti, Semidèi o mortali…le frasi fatte sono sempre le stesse!” ridacchiò felice e tornò verso casa, vedendo le condizioni atmosferiche peggiorare.

 

Kevihang entrò nella casa arancio, senza bussare, ovviamente.

“Salve…” salutò, educatamente, ma non ricevette risposta.

Vide che la stanza in cui era entrato era occupata e quindi si stupì di non sentirsi rispondere. L’occupante della sala guardava fuori dalla finestra, giocherellando con una piccola trottola di legno, stando seduto a gambe incrociate di fronte alla scrivania, con una risma di fogli accuratamente impilati che lo circondavano. Tutta la stanza era ordinata, perfettamente ordinata.

Le pareti erano aranciate, illuminate da un caminetto acceso e da delle candele sparse su uno strano lampadario e sui mobili. Niente luce elettrica. Il mobilio era di legno lucido, come il pavimento, ed in terra c’erano dei piccoli tappeti in tinta con le pareti.

“Scusami? È permesso?” domandò Kevihang, rivolto alla persona seduta davanti al tavolino.

Non ricevette nessuna risposta. Sbatté la porta, per farsi notare, ma nulla accadde. Si avvicinò al tavolo, con discrezione, e sorrise.

“Ciao. Io sono Kevihang. Tu come ti chiami?”.

Una risata alle sue spalle lo fece girare.

“Ciao, piccolo! È inutile che provi a parlargli, adesso. Guardalo in faccia…sta facendo i suoi soliti voli pindarici nel mondo della fantasia. Non ti risponderà. Io sono Loreatehenzi, il suo fratello minore. Cosa ti porta qui? Sei nuovo?”.

A parlare era stato un giovane, seduto su un piccolo mobiletto rossastro, a braccia incrociate. Sorrideva, ed il bambino notò che era come avvolto da una piccola patina d’aria in continuo movimento che gli alzava e gli abbassava i lunghi capelli mori.

“Io sono Kevihang e sono appena arrivato. Una signora luminosa mi ha detto che posso restare qui e che devo cercarmi un maestro…”.

“Una signora luminosa? Quella è mia madre, Valek-hiteia. È a capo di questo villaggio. Se cerchi un maestro non posso essere io, che devo ancora affrontare la prova dei cristalli. Ma il mio fratellone potrebbe…immagino…”.

“Lascia perdere…” si aggiunse una terza voce.

Questa volta a parlare era stato un altro ragazzo, di poco più grande del primo, che se ne stava in un angolo, silenzioso, il più lontano possibile dal fuoco. I suoi occhi erano come ghiaccio e Kevihang sentì che era circondato da un’aura o da una barriera freddissima.

“Lascia perdere, Lore! Non vedi che se ne sta lì a disegnare lune? Ha la testa altrove…”.

“Io so come svegliarlo!” affermò il più giovane, soffiando lievemente sul caminetto.

Questo fece sì che il fuoco si spegnesse all’istante.

“Come hai fatto?” si stupì Kevihang.

“Io sono il figlio del Dio dell’Aria, posso controllare il vento. Quello che vedi seduto nell’angolo distante dal fuoco si chiama Enrikiran ed è il figlio dell’Inverno, può controllare l’acqua ed il gelo. Quello alla scrivania, invece, è il nostro fratello maggiore. È Rikarathör, figlio del Dio del Sole”.

“Forte! Siete tutti Semidèi! Siete tre fratelli?”.

“Madre uguale, padre diverso. Siamo tutti Semidèi qui, anche tu! Non sai di chi sei figlio?”.

“Io non sono un Semidio!”.

“Va bene, come vuoi…” sorrise al bambino, storcendo un po’ il naso quando vide che il fratello maggiore non si era scomposto al fatto che aveva spento il fuoco del camino.

“Hei! Apelle, figlio d’Apollo! Qui c’è qualcuno, con dei bei tatuaggi, che ti cerca!” lo chiamò il fratello minore.

“Te la sei voluta…” mormorò poi, non ricevendo risposta.

Si alzò, sempre con i lunghi capelli un po’ levitanti, ed andò vicino alla scrivania del maggiore. Con le mani in tasca, e fischiettando un allegro motivetto, buttò per aria tutte le carte che il fratello aveva riordinato con tanta cura e si limitò a mormorare uno “scusa” poco convinto, quando Rikarathör lo guardò fisso negli occhi. I due fratelli avevano le iridi dello stesso colore ma, in quell’occasione, il maggiore le aveva color del fuoco per via del nervosismo del loro proprietario.

“Bentornato coi piedi per terra, fratellone” lo salutò il fratello di mezzo, provando qualche accordo con uno strano strumento a corda.

Rikarathör respirò a fondo un paio di volte, trattenendo a stento un movimento involontario del lato della bocca che lo colpiva se innervosito. Con un gesto della mano, senza girare il viso, riaccese il fuoco del camino. I due fratelli si guardarono ancora un po’, senza dire niente, fino a quando Kevihang non intervenne: si sentiva a disagio in mezzo a quei tre che si lanciavano occhiatacce!

“Io sono Kevihang. Sono nuovo di qui e mi hanno detto che mi serve un maestro”.

“Hai davvero dei bei tatuaggi, ha ragione mio fratello. Farai colpo…” mormorò Rikarathör, guardando ancora un po’ male il fratello minore.

“A me non interessa far colpo!” protestò Kevihang.

“Adesso no, perché sei piccolo. Neanche a me importava quando avevo la tua età. Ma poi le cose cambiano…credimi!”.

“Non sono qui per parlare di questo. Mi serve un maestro. Puoi farlo tu?”.

“Come sei diretto, ragazzino! Certo che posso, che domande! Dimmi, però, cosa sai fare…”.

Apparentemente era tornato calmo, anche se muoveva le gambe in modo strano. Il bambino iniziò a descrivergli le sue capacità, mentre Rikarathör riordinava la propria scrivania. I due fratelli più giovani, Enrikiran e Loreatehenzi, nel frattempo si divertivano ad unire i propri poteri, per creare piccoli tornado d’aria e ghiaccio, e singolari nuvolette. Questo piaceva e divertiva molto Kevihang, che interrompeva spesso il suo discorso per seguire le evoluzioni delle magie dei due ragazzi.

Dopo che il terzo o il quarto soprammobile fu ribaltato da dove stava, a causa del loro simpatico gioco, il maggiore perse la pazienza. Interruppe il loro passatempo alzando le fiamme delle candele.

“Cosa credi di fare, aptero che non sei altro?” ridacchiò Loreatehenzi “Non mi fai paura!”.

“Anche tu sei un aptero!” commentò Rikarathör.

“Certo. Però io volo grazie al controllo dell’aria, tu no!”.

“Tu ancora non sai controllare per bene quel potere e rischi di schiantarti due volte su tre, capirai! In quanto a me…posso fare ben altro!”.

Detto questo, prese fra le mani la fiamma di una delle candele e la ingrandì fino a farla divenire grande più di un pugno. Fatto questo la lanciò verso il fratello che riuscì a deviarla solo in parte. La parte che non deviò lo scottò leggermente.

“E mi sono trattenuto!” ridacchiò il fratello maggiore, prima di accorgersi che la fiamma deviata da Loreatehenzi stava dando fuoco ad una tenda e ad un tappeto.

Spense le fiamme immediatamente ma la stanza si riempì di un denso fumo nerastro.

“Che combinate qui?!” urlò una voce di donna.

Subito i tre fratelli tentarono di riordinare, alla bene e meglio, i disastri che avevano combinato. Valek-hiteia era entrata nella casa ed aveva capito immediatamente che cosa era successo.

“Rik!” gridò, guardando il figlio maggiore “Tu dovresti dare l’esempio!”.

“Ma mamma! Guarda che casino han combinato!”.

“Non importa! Enri, fila subito di sopra ad esercitarti per l’imminente prova dei cristalli. Lore, vieni qui che ti curo quelle bruciatore e poi, per favore, lascia da solo tuo fratello con il suo nuovo allievo e va a farti un giro”.

Loreatehenzi obbedì, dopo essere stato curato dal tocco di sua madre, e si allontanò.

“In quanto a te, Rik…” iniziò la madre, ma il giovane la fermò.

“Mi sono controllato, mamma!”.

“Voglio crederti. Ma ricorda perché porti quel sigillo” concluse la madre “E ora pensa al bambino”.

Rikarathör si toccò il collo, attorno al quale era fissato il suo sigillo. Era una sorta di collare dorato con su incastonato, in rilievo, l’occhio di un’antica divinità solare che i mortali chiamavano “Ra”. Aveva l’iride che si muoveva davvero, indipendentemente, come un occhio vero, e non veniva mai tolto per evitare pessime conseguenze.

Rimasti soli, maestro ed allievo si sedettero uno accanto all’altro, di fronte al caminetto. Era tanto che Kevihang non avvertiva un calore così intenso e rassicurante.

“Allora…fratellino…che mi racconti?” parlò Rikarathör.

“Fratellino?” si stupì il bambino.

“Sì. Sei stato accolto nella nostra famiglia. Sei uno di noi adesso. Sarai il terzo mio fratellino, quasi gemello della mia sorellina, direi”.

“Mi avete adottato?”.

“Te ne stupisci tanto?”.

“Sì…nessuno mi ha mai voluto per via del mio tatuaggio”.

“Non è un problema quello. Tutti noi abbiamo tatuaggi dalla nascita. Io ho delle fiamme, mia sorella delle foglie, i miei fratelli dei disegni blu e azzurri…ad ognuno il suo. Ci collegano al nostro genitore divino”.

“Io non sono sicuro di avere un genitore divino…”.

“Devi averlo. Almeno uno dei tuoi genitori deve essere un Dio altrimenti non avresti avuto la forza necessaria per oltrepassare e sopravvivere alla barriera che c’è attorno a questo villaggio”.

Il piccolo sorrise, per nulla preoccupato o spaventato all’idea che sarebbe potuto morire poco tempo prima. Si avvicinò di più a Rikarathör, fissandolo negli occhi scuri.

“Quindi, ora, tu sei il mio fratellone?”.

“Tecnicamente sì…”.

“Posso abbracciarti?”.

“Certo. Adoro gli abbracci”.

Kevihang abbracciò il figlio del Sole, socchiudendo gli occhi. Era una sensazione di pace ed affetto che non aveva mai provato prima e gli piacque un sacco. Tanto da non volersi staccare se non dopo un bel po’.

“Mi piace la tua tunica…è molto morbida!” commentò.

“Te ne farò fare una solo per te, allora. Con lo stesso materiale”.

“Grazie, fratellone! Scusa se non ti chiamo per nome ma…è complicato!”.

“Eh, eh, lo so! A mamma piace complicarsi la vita! Puoi chiamarmi Rik se vuoi, ma fratellone va benissimo. Io posso chiamarti Kevy?”.

Kevihang rise ed annuì, con convinzione. Era la prima volta che non si sentiva giudicato “strano” da chi aveva di fronte.

“Però dovrò imparare il tuo nome intero, Rik. E anche il nome della signora luminosa e dei tuoi due fratelli più piccoli. Senza dimenticarmi della sorellina!”.

“La signora luminosa la puoi chiamare mamma, se vuoi. Abbiamo tutti dei soprannomi, comunque. Puoi usare quelli, se ti và. E puoi chiedermi quello che vuoi su di loro. Sono il figlio più grande, anche se di poco, e conosco molto bene questo villaggio e tutti i suoi abitanti”.

“Tu sei il figlio del Dio del Sole?”.

“Figliastro, tecnicamente…ad ogni modo, sì, in persona!”.

“Sei fortunato. Io ho le corna, questi strani occhi, questo strano teschio sulla faccia…tu invece sembri una persona normale!”.

“Esteriormente sì, lo sembro. Non ho corna, non ho ali, non ho la pelle di strani colori salvo per i tatuaggi ed assomiglio in tutto e per tutto ad un comune mortale. Ho perfino i capelli mori del lato mortale di mia madre. Ma, interiormente, sono molto più complicato di quanto tu possa credere. Lascia pure che la gente stia a giudicare, per il tuo aspetto e per la tua follia, la verità è che noi siamo migliori di loro. In tutto. E questo non te lo devi mai scordare, chiaro?”.

Stavano seduti in terra a gambe incrociate, perdendosi in mondi immaginari creati dalle fiamme in continuo movimento, incuranti del brutto tempo esterno.

“Perdona il mio fratellino del vento. È stata colpa sua se siete atterrati male prima, col drago. Si stava esercitando ma non è ancora in grado di controllare del tutto il suo elemento e quindi, ogni tanto, fa danni”.

“Sembra simpatico. E anch’io voglio i capelli volanti! E lunghi come i suoi!”.

“Non dovrai attendere molto, mi pare. Per la lunghezza, intendo! Li hai gia molto lunghi, piccoletto. Per quanto riguarda il fatto che volino…magari un giorno imparerai!”.

“E sarai tu ad insegnarmi?”.

“Farò il possibile…”.

“Cos’è le prova dei cristalli?”.

“Quanto sei curioso! È la prova finale. Quando il tuo maestro stabilisce che sei in grado di controllare il tuo potere, allora dovrai affrontare questa prova che consiste nel raccogliere un cristallo nella foresta della principessa nera e portarlo qui”.

“Non sembra difficile”.

“Lo è, invece. Rischi di smarrirti lungo il cammino, di non compiere il rito di raccolta nel modo corretto, di dover affrontare la principessa adirata o uno dei suoi amichetti feroci e via dicendo. Non è per niente facile”.

“Il cristallo che porti al collo è quello che hai raccolto in quella prova?”.

“Sì”.

Rikarathör portava al collo uno splendido cristallo rosso, che gli faceva da fibula per il lungo mantello dello stesso colore. Era molto luminoso e riempiva di sfumature la sua tunica scarlatta.

“E il sigillo a che cosa serve?”.

“Storia lunga. Non ho voglia di raccontartela ora” rispose, amareggiato, il maestro.

Si passò una mano fra i capelli, corti e spettinati, prima di alzarsi. Il bambino lo seguì.

“Com’è il tuo papà?” chiese Kevihang.

“In che senso?”.

“Com’è. Gentile, cattivo, simpatico…”.

“Direi menefreghista. Ma non l’ho visto abbastanza per giudicare. Non ha mai avuto tempo per me. Dopotutto, in fondo, lui è il Dio del Sole! Avrà una marea di cose da fare, immagino. Controlla tutti gli Astri degli Universi, le Stelle, i Soli, il fuoco che abita nelle profondità di ognuno di essi eccetera, eccetera…non può certo perdere tempo con un Semidio come me”.

“Beh…io non so nemmeno chi sia mio padre, perciò…”.

“Perciò ora sorridi perché hai una mamma, una sorellina e ben tre fratelli maggiori!”.

Kevihang di questo era immensamente felice. Mai si sarebbe sognato di avere, un giorno, la famiglia che aveva tanto sognato.

“Vieni, Kevy. Ti mostro il villaggio e ti faccio conoscere un po’ di gente”.

“Arrivo!”.

Maestro ed allievo si imbacuccarono in lunghi mantelli, prima di uscire. Dal piano di sopra provenivano strani rumori, di passi, e musica ad un volume sempre più elevato. Il maggiore sapeva che il fratello non si stava esercitando un granché per la prova dei cristalli, ma ricordava perfettamente di aver avuto anche lui un sacco di distrazioni nel periodo precedente quell’esame. Solo ricordando questo, decise di non dire nulla e di uscire, lasciando la casa arancio alla mercé dei suoi fratelli minori, con la loro musica ed i loro amici.

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Capitolo 7
*** VII- colpe ***


VII 

COLPE

 

Kuetzalikay era tornato a casa. Il drago di Mihael conosceva bene la strada ed era atterrato, con relativa dolcezza, sul palazzo in cui un tempo viveva Kasday. Quello era il luogo in cui risiedeva ora il giovane Alto, assieme al padre ed all’angiolessa vigilante Kiaritanya.

Amava chiamarlo “il palazzo dei K”.

Entrò dal cortile interno, senza far rumore e permettendo al drago rosso di tornare dal suo padrone demone. Scostò ed aprì, con due dita, la porta a vetri, ed entrò nel grande salone principale. Lì un allegro fuocherello scoppiettava, incurante della sofferenza che aveva procurato in passato all’antico occupante di quell’edificio. Kuetzalikay rimase in silenzio, per ascoltare e notare l’eventuale presenza di qualcuno, ma sentì solo il solito vociare di Urihel. Il Dio del Cielo e dell’Aria abitava ancora sulla cupola dell’antico palazzo dell’Equilibrio. Probabilmente era andato a fargli visita il Sole, come era consueto fare, e stavano discutendo in ricordo dei bei tempi andati.

“Nosmagiés!” chiamò l’Alto, sapendo che l’Angelo Messaggero era sempre nei pressi di quel luogo in cui serbava la maggior parte dei suoi ricordi.

L’angelo rispose, dal piano di sopra.

“Nosmagiés…hai visto Ansuz?”.

“Intendete vostro padre Krì? Non di recente…”.

“Bene. Benissimo!” esclamò Kuetzalikay, sedendosi accanto al fuoco e sibilando leggermente.

Nosmagiés, con i lunghi capelli magenta raccolti in una crocchia, scese dalle scale con prudenza. Non amava avere a che fare con gli Alti, ma quello era il palazzo del suo antico padrone e lo avrebbe mantenuto per sempre in ordine, come aveva sempre fatto. Per questo passava e ripassava per le stanze buie e vuote, spolverando e sospirando, mantenendo tutto il più inalterato possibile.

Povero angelo si ritrovò a pensare Kuetzalikay, guardandolo con tenerezza e compassione povero angelo, creatura fedele e sognatrice, che speri che il tuo padrone un giorno torni. E anche se non speri questo, resti in attesa serbandone il ricordo come la cosa più preziosa in tuo possesso. Quante Ere lascerai passare ancora, prima di spalancare le tue ali e volare lontano da qui?

Molte volte aveva visto questa scena: divinità che morivano ed angeli vigilanti che non volevano accettarne la scomparsa. Il più delle volte morivano poco tempo dopo per il dolore. Nosmagiés era diverso. Nosmagiés era speranzoso. Guardava il cielo nero, nelle notti quando era libero da nubi, e ricordava i capelli del suo padrone. Guardava gli alberi spogli del giardino interno e ritornava con la mente a quando erano verdi e vivi, pieno di voglia che fioriscano di nuovo. Kuetzalikay, da quando aveva memoria, non aveva mai visto un solo fiore se non quelli dell’albero della Vita, gli alberi di Heket. Erano fiori magnifici di certo, ma non potevano essere paragonati alla bellezza che si diceva raggiungesse il pianeta nel pieno della sua primavera. Negli occhi di quell’angelo si poteva scorgere la bellezza di quella dimenticata stagione ed il calore dell’amore, ma anche la tristezza del tempo passato ed il gelo della morte. Quell’angelo, il cui viso sembrava giovane e fresco, portava nello sguardo color smeraldo il peso dei millenni trascorsi. Nosmagiés..che al momento della morte del suo padrone aveva pianto, guardando la sua essenza dissolversi in mille farfalle, senza ricevere consolazione. Kuetzalikay in parte capiva il dolore di quella creatura. Lui aveva perso la madre, Berkana, ed era rimasto solo, l’unico di tanti fratelli che era riuscito a sopravvivere al gelo ed al calo di fede dei mortali che era avvenuto in passato e che ora stava peggiorando sempre più.

“Credo stia arrivando suo padre, signor Kuetzalikay” mormorò il Messaggero, con un piccolo vaso di ceramica fra le mani, che pulì con cura prima di riporre.

Il quadro affisso sopra il caminetto brillò, simbolo che qualcuno stava oltrepassando il passaggio che apriva. In pochi secondi, Ansuz, Krì, entrò nella stanza. Noncurante del figlio, guardò l’angelo Messaggero chiedendogli dove stava Kiaritanya. Nosmagiés indicò il piano di sopra e l’Alto sorrise. Probabilmente era a divertirsi con Urihel ed il Sole. Poi Krì si girò, distrattamente, e notò il figlio, spaparanzato su una poltroncina color cenere.

“Oh…sei qui. Come mai?” domandò, con voce calma.

“Ci abito. Altrimenti non ci verrei in un posto come questo” commentò, acido, Kuetzalikay.

Il giovane Alto non amava quella casa, in cui aveva trascorso la sua infanzia e che era piena di voci e fantasmi del passato, per niente piacevoli da sentire.

“Dove, o da chi, sei andato ad auto commiserarti oggi, Kuetzy?”.

“E tu dove, o da chi, sei andato a rompere le palle oggi, vecchio?”.

Nosmagiés capì che era meglio alzare i tacchi e se ne andò, verso la cupola. Là almeno ci stava gente simpatica e poco incline alle litigate…

Krì non amava il tono di sfida del figlio ed incrociò le sue quattro braccia, accigliandosi. Kuetzalikay, di risposta, si alzò ed iniziò ad agitare la coda, a scuoterla, in modo da farla suonare come se ci avesse appeso dei piccoli sonagli. Nel frattempo sibilava, mostrando la coda biforcuta.

Padre e figlio si guardarono, con sfida, poi Krì parlò con un tono di voce solo leggermente alterato: “Figlio…io non intendo farti del male. Perciò calmati e torna seduto”.

“Non vuoi sfidarmi perché sai di perdere…”.

“Scemenze! Piuttosto…sono stato informato del fatto che sei tornato in quel villaggio”.

“Quello dei Semidèi? Sì, certo! Perché?”.

“Non ti avevo vietato di farlo?”.

“E con questo? Guarda che io faccio quello che mi pare…”.

“Quel villaggio ospita gente di sanguemisto che non dovrebbe esistere”.

“Ma che tu hai contribuito a creare”.

“In che senso? Figlio mio, le scempiaggini che spari a volte sono…”.

“Fai silenzio. Gli Dèi stanno morendo, non nascono più Dèi bambini e tu sai quanto è raro che una mortale possa concepire una creatura con una simile forza magica da essere considerata una Semidivinità. Il mio compito è stato quello di proteggere le preziose creature in grado di dar vita a simili esseri. Se più nessun Dio nascerà, Ansuz, chi credi che prenderà il posto delle divinità attuali che si spengono? Non certo io!”.

“Non sono affari che ti riguardano. Io e te siamo gli ultimi Alti rimasti, credi che per questo ci toccherà far figli con delle Dee o delle mortali?”.

“Perché no? Un tempo lo facevi…”.

“Quando ero un Dio! Non certo adesso che sono un Alto!”.

“Ma loro sono Dèi!”.

“Loro chi?”.

E Kuetzalikay indicò le scale, dove Urihel ed il Dio del Sole si erano messi ad origliare.

“Voi due avete dei figli in quel villaggio?” si stupì Krì.

“Sì, in effetti” ammise Urihel, non nascondendo una punta d’orgoglio.

“Ma…è contro le regole!” li rimproverò l’Alto.

“Andiamo, papà! Se non ti fossi sottostato sempre alle regole, a quest’ora mamma sarebbe ancora viva e tu lo sai bene. Ma non le hai permesso di staccarsi dalla sua dipendenza dalla fede dei mortali che, scemando, l’hanno portata alla debolezza ed alla morte. Si è ammalata perché non le hai permesso di infrangere le regole!” sibilo Kuetzalikay.

“Io devo sottostare alle leggi degli Universi!”.

“Con la morte di mamma, è morto l’ultimo Celeste! E tu sei il capo degli Alti! Sono le leggi degli Universi che devono sottostare a quello che dici tu, coglione!”.

Krì non sapeva che rispondere. Guardò suo figlio e poi guardo le due divinità sulle scale che nel frattempo stavano parlottando fra loro dei propri figlioli.

“Urihel!” sbottò Krì, dopo un attimo di sconcerto “Urihel…tu sei sempre qui nella cupola, come sei riuscito ad avere un figlio?”.

“Vuoi un disegnino? Esco anch’io, ogni tanto, sai! Hai visto il mio ragazzo, Kuetzalikay?”.

“Loreatehenzi? Sì, di sfuggita. Sta diventando grande! E sta imparando sempre più in fretta a controllare l’aria, il vento e simili. Presto credo sarà in grado di volare con agilità”.

“E Rikarathör, mio figlio?” si informò il Dio del Sole.

“Ha ancora il sigillo ma, del resto, dopo quello che ha combinato…ad ogni modo sta bene ed ora è maestro della sua sorellina e di un altro piccolo bambino appena arrivato”.

I due padri sorrisero, con orgoglio, ignorando le occhiatacce di disapprovazione di Krì. Il Sole stava osservando il caminetto acceso, alimentandone le fiamme con il solo sguardo. Urihel invece aveva le ali grigio scuro, come il cielo, e la cosa non gli piaceva molto.

“Sapete che potreste essere puniti per aver stretto rapporti con i mortali, generando dei figli…” iniziò a parlare Krì ma venne subito interrotto con un: “Fai pure. Poi vediamo a chi dai il mio ruolo” da parte del Sole, che aggiunse uno “Stronzo” a bassa voce.

Urihel ridacchiò, sentendo il sottovoce, ed iniziò a risalire lungo la cupola. Krì fece per avanzare e ribattere ma Kuetzalikay lo bloccò. I due si fissarono, con odio.

“Pensa ai tuoi errori, Ansuz! E lascia stare coloro che cercano di riparare ai tuoi sbagli”.

“Nessun errore, Kuetzalikay, e nessuno sbaglio. Un giorno lo capirai”.

“Un giorno verrai giudicato, ricordatelo”.

“Stai parlando di tua madre?”.

“Anche. Sei un Alto, siamo rimasti in due, io e te, eppure ancora tenti di dare le colpe di ogni cosa ad altri. A chi? So che non è bello essere additato ed accusato ma è la verità. Se qualcosa accade…è per colpa tua!”.

“E colpa tua non può essere mai, ragazzo mio? Sei un Alto anche tu”.

“Non posso essere la causa degli errori da te commessi quando ero bambino. Di ciò che è stato dopo ho piena consapevolezza. Sta tranquillo”.

“Io non ho ucciso Berkana. La amavo”.

“Non l’hai uccisa di persona. Ma il tuo egoismo e fissazione per le regole l’ha fatta appassire”.

“So che mi odi tanto per questo, figlio mio. Ammetto i miei errori ma non sarebbe accaduto nulla di diverso. Guardati attorno…non c’è rimedio a tutto questo”.

“Credi che sia la fine?”.

“Non lo so, ma in troppi sono morti”.

“Forse dovresti morire anche tu…”.

“Uccidimi allora. Raggiungerò tua madre che mi manca tanto. E lascerò a te tutto questo, se ti piace tanto e se ti ritieni all’altezza. Ma per uccidermi dovrai indebolirmi ancora parecchio”.

“Smettila di darmi idee, cosetto azzurro!”.

“Senti…serpentello…mi rendo conto che Berkana sia morta perché ho cercato e cerco tutt’ora, con tutte le mie forze, di seguire le regole. Non l’ho aiutata e lei si è indebolita, perché i mortali non credono più e stanno scomparendo. Lo ammetto questo. Non l’ho aiutata. Ma non è stata colpa mia, di questo sono più che sicuro”.

“Un giorno verrai giudicato, te lo ripeto e lo ribadisco” sbottò Kuetzalikay, dando le spalle al padre e salendo ai piani superiori. Nosmagiés, sentendo tutto il discorso di sfuggita, sospirò. Questi Dèi sono solo in grado di litigare tutto il tempo!

 

Urihel era tornato sulla cupola, seguito dal Dio del Sole e, poco dopo, da Nosmagiés. Il Dio del Cielo controllò, preoccupato, la traiettoria di un paio di pianeti che, senza vita e senza più rotazione, vagavano sconnessi per la stanza. Guardò, altrettanto preoccupato, il Dio del Sole.

“Perdonami” gli disse il Dio Solare.

“Per cosa?” si stupì Urihel.

“Un'altra stella si è spenta. Quella lassù in alto, la vedi? Credimi se ti dico che faccio del mio meglio, ma coloro che devo controllare non sempre reagiscono e rispondono ai miei comandi”.

“Non è certo colpa tua!”.

“I mortali pensano di sì”.

“I mortali sono liberi di pensare quello che vogliono. Io so che non è colpa tua”.

“Io, che controllo il fuoco ed il cuore pulsante del pianeta, ricco di magma e calore, sento che sempre più si raffredda e rallenta. Anche questo pianeta morirà”.

“Beh, che è sta storia??!!! Non eri tu l’ottimista? Un po’ di allegria!”.

“Guarda che non sono depresso o triste. Se muore questo pianeta ne nascerà un altro. E via discorrendo…mi spiace solo un po’ per gli abitanti. Ma in sostanza la cosa non mi deprime”.

“Mi sarei preoccupato del contrario” sorrise Urihel, dando un piccolo colpetto ad un pianeta per farlo restare in traiettoria.

La pallina del mondo colpito vibrò leggermente e ripartì la sua corsa. Il Sole si avvicinò ad un’altra pallina e la prese fra le mani. Chiuse gli occhi per un attimo e questa brillò più intensamente.

“Una volta non dovevo farle splendere una per una, che smeno!”.

“Che linguaggio!” ridacchiò il Dio del Cielo, fissando scocciato le nuvole grigie che coprivano sia l’azzurro, che lui amava tanto, che la luce del Sole.

Le due divinità avevano unito più volte le loro forze per far venire bel tempo ma non erano riuscite a contrastare l’inspiegabile voglia dei pianeti di congelare.

“Ricomincia a nevicare” mormorò l’ex Arcangelo.

Il Sole sbuffò, avvolgendosi di nuovo nel lungo mantello ricoperto di morbido pelo rosso, proveniente da qualche sconosciuto animale ormai estinto. Urihel strinse un po’ a sé le ali piumate, coprendo in parte la tunica blu scuro.

Nosmagiés, rimasto fino a quel momento in silenzio, si intromise nella conversazione.

“Avete mai pensato di chiamare in vostro aiuto i vostri figli? Potrebbero unire le forze e…”.

“Fuori discussione!” sbottò il Sole, mentre invece Urihel ammise di averci pensato.

“Ma devo aspettare che Loreatehenzi svolga il rito di maturità” specificò il Dio del Cielo “Così sarà in grado di controllare pienamente il suo elemento e dimostrerà di potermi davvero aiutare. Tu, piuttosto, Sole caro, perché non vuoi che Rikarathör ti aiuti?”.

“Affari di famiglia. E, comunque, alla sua prova di maturità ha dimostrato di non essere in grado di controllarsi e quindi è meglio non contare molto in un suo eventuale soccorso”.

“Considera, però, che non hai figli maschi in grado di prendere il tuo posto e perciò dovresti prendere in considerazione il fatto che quel ragazzo dovrà aiutarti, prima o poi, che tu lo voglia o no. Cosa credi che possa fare?”.

“Non ti riguardano certe faccende. Ad ogni modo…mi annoio e mi sto addormentando. Mettiamo un po’ di musica?”.

Urihel, stupito dall’improvviso cambio d’argomento, scosse il capo ridendo.

“Che matto che sei!”.

“Se non sono matti non li vogliamo, troppo Sole fa male al cervello e si vede”.

“Sei fuori come un balcone”.

“Da che pulpito…ha parlato quello che passa la sua vita contando le palle di una cupola!”.

“Detto così suona un po’ male, ma te lo perdono. Piuttosto…non credi che dovremmo…” parlò il Dio del Cielo ma si interruppe perché il Sole non lo ascoltava più, rapito da una strana musica che ascoltava attraverso un piccolo aggeggio elettronico con le cuffie, rubato ai mortali.

Urihel scosse di nuovo il capo. L’ex Arcangelo manteneva inalterato il suo aspetto nonostante le numerose Ere passate. Era più vecchio del Sole, che a sua volta non dimostrava di certo tutti i sui miliardi di anni di vita, e si sforzava di fare il coscienzioso ed il responsabile, ma si accorse subito che in un’Era come quella non ne valeva la pena. Domandò cortesemente a Nosmagiés se poteva portargli una tazza di tè e tornò a concentrarsi sulle sfere rappresentanti i pianeti e le stelle. Ricordava con nostalgia i giorni in cui c’era solo da pensare al fatto che i pianeti governati dal Kaos non se ne andassero troppo al di fuori dai propri confini. Adesso invece era tutto un macello incontrollato di pianeti ribelli, morenti, e menefreghisti, per quanto menefreghista possa essere un pianeta. Sorseggiando il suo tè, con la compagnia di Nosmagiés e lo sguardo distante del Sole, Urihel si chiese dentro di sé chi Krì credesse di essere. Ma si rispose da solo: un Alto, deficiente!

Si morse la lingua per non parlarne male. Dopotutto Krì era il capo ed il Dio del Cielo aveva già abbastanza problemi senza stare a pensare anche ad un Alto con cambi d’umore improvvisi che voleva ucciderlo. Sbatté le ali, lasciandone cadere qualche piuma. Nosmagiés lo imitò, finendo l’ultimo sorso di tè impregnato di zucchero, ed insieme, dopo una rapida occhiata d’intesa, fecero sobbalzare il Dio del Sole con un “Buh!” corale.

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Capitolo 8
*** VIII- maestri ed allievi ***


VIII

 

MAESTRI ED ALLIEVI

 

“Buongiorno papà” mormorò Rikarathör, svegliato da un rarissimo raggio di luce che entrava dalla sua finestra.

Era piacevolmente caldo e lasciò che gli illuminasse il viso. Sapeva che presto la grande stella si sarebbe nascosta fra le nubi nere e che doveva godersi quel rapido momento d’alba. Socchiuse gli occhi scuri, brillanti per l’illuminare del Sole, e sorrise. Quella notte sarebbe stata Luna piena ed era la notte del mese che attendeva con più impazienza. Si rilassò, assaporando il silenzio del primo mattino, che però venne subito interrotto da un forte rumore di vetri rotti proveniente dal piano superiore.

“Ma Thiudangardi Gudis! Che combinate?!”.

Si era alzato di colpo a sedere sul letto, ma una fitta al collo lo tornò a far stendere. Il sigillo gli aveva rilasciato la sua solita scarica magica per tenere sotto controllo l’irruenza del fuoco. Stringendosi il suo torturatissimo pomo d’Adamo, si rialzò lentamente. Uscendo dal letto, si soffermò solo un attimo ad osservare i tatuaggi di fuoco e fiamme che si facevano sempre più evidenti su tutto il suo corpo. Un altro forte rumore gli fece alzare gli occhi verso il piano superiore. Si vestì in fretta e risalì le scale, lungo le quali vide un sacco di oggetti fuori posto.

Ma perché tocca sempre a me riordinare il casino che lasciano gli altri in 'sta casa? si chiese, cercando in ogni modo di restare calmo. La scalinata era ripida e rumorosa. Aprì la botola in legno che, sopra la sua testa, gli permetteva di entrare nella mansarda. Questa era stata modificata, tempo fa, per permettere ai fratelli di esercitarsi con il loro elemento e la magia. Di forma triangolare, seguendo la forma del tetto, era stata aperta nella metà di destra. Così facendo, la casa aveva preso un’insolita forma e la mansarda, tronca, era divenuta una specie di piano aggiunto con una grande terrazza che la piccola sorellina che controllava la terra aveva ricoperto di verdi rampicanti. Rikarathör entrò nella parte coperta del sottotetto e storse il naso, vedendo i letti dei fratelli disfatti e tutta la stanza in disordine, poi uscì all’esterno attraversando una porticina rossa e scricchiolante. Sulla terrazza, sotto la neve, i suoi due fratelli creavano piccoli tornado e spirali di ghiaccio. Non si accorsero della presenza del fratello maggiore fino a quando non apparve qualche fulmine nelle loro creazioni, effetto collaterale del nervosismo di Rikarathör, e l’acqua mista a neve che stava in terra non iniziò ad evaporare.

Il fratello più piccolo, Loreatehenzi, si fermò subito. Non amava “scaldare” il suo fratellone. Ma Enrikiran continuò ancora per un po’, usando la scusa che si doveva esercitare per l’imminente prova dei cristalli. Comandò la neve e il ghiacciò in movimenti innaturali, per vedere fino a che punto poteva ed era in grado di spingersi.

Rikarathör notò una delle finestre che dava sulla terrazza: era infranta e sparsa in terra. Ora aveva capito cos’era quel rumore di vetri rotti che aveva sentito prima. Incrociò le braccia, attendendo spiegazioni ma, dato che non arrivavano, iniziò a protestare. E rincarò la dose quando vide che il suo nuovo allievo, Kevihang, si trovava assieme a loro e si stava divertendo da morire osservando i danni che riuscivano a creare i due fratelli quando si sentivano “ispirati”.

“Cosa state facendo?” iniziò, scandendo bene parola per parola, il Semidio del fuoco “Vi rendete conto che è l’alba? Cosa credete di poter fare, qui sopra, così presto, senza maestri o supervisori a controllarvi? Mi avete svegliato e…”.

“Fermo, bello!” lo interruppe Loreatehenzi “Guarda che tu sei solo il figlio del Sole. Vale solo per lui la teoria eliocentrica. Tu non sei il centro degli Universi! Non tutto ruota attorno a te. Volevamo esercitarci e lo abbiamo fatto. Che ci possiamo fare se tu, prima dell’alba, hai il cervello in stand-by e non riesci a svegliarti?!”.

Rikarathör, sconcertato da quella risposta, rimase insolitamente in silenzio. Ricordò i bei tempi in cui, ancora bambini, loro tre fratelli camminavano e giocavano per il villaggio. Si tenevano per mano e non si separavano mai. Lui era il maggiore, anche se per poco, ed i suoi due fratellini lo seguivano e gli obbedivano. Lui era “il grande”, colui che doveva dare l’esempio e che i “i piccoli” osservavano continuamente, ma non era più così già da anni. I motivi erano molteplici: l’adolescenza, la nascita della loro sorellina Marinditi-ya, la sua distrazione nei confronti di una certa persona a cui stava cercando di non pensare…insomma tutta una serie di cose che avevano cambiato la situazione. Erano così carini da piccoli, con le manine strette l’una all’altra ed i giochi costanti, senza troppi pensieri. Ora invece erano cresciuti e, soprattutto dopo la sua prova dei cristalli, non vivevano più negli stessi rapporti.

“Il problema principale non è che mi avete svegliato. Avete rotto un vetro e state insegnando al mio allievo, Kevihang, ad usare la magia in modo sconsiderato. Ricordate che siamo Semidèi, non divinità complete, ed è per questo che portiamo i sigilli. Capita spesso che quelli come noi non siano in grado di controllare pienamente il proprio potere. Solo la prova dei cristalli potrà stabilire in che modo poter usare la magia. Voi due, fratellini, non avete ancora la possibilità di togliere il sigillo e Kevihang ha ancora anni ed anni di lavoro da fare, perciò risparmiate energia per i giorni in cui sarete liberi di farlo e lasciate che questo bambino impari le tecniche nel modo giusto!”.

Detto questo, afferrò Kevihang per un braccio e lo tirò verso di sé, fra le proteste del piccolo.

“Smettila di agitarti!” lo rimproverò il suo maestro, prendendolo in braccio e portandolo al piano di sotto “Lo faccio per il tuo bene. Non capisci che è pericoloso? L’incapacità di dominio completo sui propri poteri comporta l’alto rischio che accada qualcosa che non si è in grado di controllare. Potresti rimanere ferito o peggio, perché non sei in grado di creare una barriera o una forza contraria per contrattaccare”.

Kevihang si fermò. Aveva compreso il rischio e si era rassegnato, lasciandosi trasportare.

“Scusami, Kevy. Non voglio essere il maestro severo e lagnoso ma mi preoccupo per te, capisci? Loro due, Loreatehenzi ed Enrikiran, sono forti abbastanza da potersi affrontare fra loro ma tu, che sei il mio fratellino, rischi di farti male seriamente. Faresti meglio a non avvicinarti così tanto mentre loro si esercitano. Fai come Marinditi-ya…”.

Il bambino non disse altro. Si accoccolò fra le braccia del maestro, non sapendo come sfuggirgli, e si fece condurre fino al piano terra.

“Kevy…” parlò ancora Rikarathör, tentando di far sorridere ancora il suo allievo “Vieni con me alla serra con i frutti dell’albero della Dea della Vita? Gli alberi di Heket?”.

“Posso davvero?” si stupì il piccolo, al quale era sempre stato proibito di andarci.

“Copriti per bene, che fuori fa freddo, e ci andiamo assieme”.

“Se mi prendi in braccio e mi scaldi…non avrò bisogno di coprirmi”.

“Sfruttatore!” rise il maestro, facendosi circondare dai braccini del bambino ed uscendo.

Le impronte sulla neve, che lasciavano gli stivali ed il bordo del mantello, venivano subito ricoperte da altra neve fresca che cadeva, accompagnata dal solito vento gelido. Passarono accanto all’edificio principale del paese, con la sua torre di guardia costruita per sventare ogni possibile attacco nemico, coperta da una momentanea nebbiolina bianca, e proseguirono con decisione. Kevihang rabbrividì e si dimenò per cercare di ottenere più caldo possibile dall’abbraccio del fratello maggiore che sghignazzava.

“Te lo avevo detto io di coprirti, Kevy. Ma tu hai poca voglia di starmi ad ascoltare!”.

Non incrociarono nessuno per strada ed arrivarono in fretta alla meta. La serra, una specie di cupolone d’argento e bianco, dall’esterno non lasciava intravedere le meraviglie che conteneva all’interno. Era un ambiente delicato e sensibile, nel quale a pochi era concesso l’ingresso. Questo per evitare di alterarne l’equilibrio naturale già precario. Rikarathör aveva libero accesso ma fin ora non ci aveva mai portato Kevihang, che moriva di curiosità.

Il maestro afferrò il mazzo di chiavi che pendeva sempre dal suo fianco, tintinnando, e cercò quella giusta. Aprì una piccola porta che, ad occhio inconsapevole, era impossibile notare. Il bambino lo precedette, divincolandosi dal suo abbraccio scendendo a terra, e non poté trattenere un gridolino di meraviglia e stupore. Nella serra vi era una piccola foresta di alberi di Heket, gli alberi che fornivano i frutti che permettevano ai nuovi nati di crescere. Erano delle piante molto belle, con dei fiori enormi e coloratissimi, riscaldati grazie ad un sofisticato sistema che permetteva di ampliare e conservare ogni raro raggio di Sole. Kevihang non aveva mai visto un prato verde prima d’ora e ne restò affascinato. Lo accarezzò con le mani e ridacchiò per il solletico.

“Questo posto è bellissimo!” affermò.

Rikarathör gli sorrise. E poi si sentì chiamare per nome. Marinditi-ya, la sua sorellina, stava correndo verso i due fratelli a braccia spalancate. Era una bambina bellissima, con due codini fatti di ricci capelli biondi e quegli occhi dolci, ed era estremamente legata al suo fratello maggiore.

“Fratellone!” gridò, facendosi abbracciare in cerca di calore.

“Ciao, pulcina!” rispose lui, sollevandola da terra e facendole fare qualche giro in aria fra le sue braccia, fra le risate di lei.

“Ciao, Kevy!” salutò, poi, la bambina e Kevihang rispose scuotendo la mano.

“Vieni, ti mostro tutte le cose belle della serra” lo invitò Marinditi-ya, porgendogli la mano.

Il piccolo esitò per un attimo ma poi si lasciò condurre, mano nella mano.

“Come sono carini” mormorò una voce, alle spalle di Rikarathör.

“Già. Adorabili” concordò lui.

Era il Dio dell’Estate, il padre di Marinditi-ya, colui che aveva parlato. Era un uomo massiccio, imponente, muscoloso, con una lunga barba scura ed i capelli legati da un nastro rosso.

“Come stai, ragazzo?” domandò il Dio, avvolto in pesanti vesti verde scuro.

“Non mi lamento”.

“Bravo. Mai lamentarsi. Perché se ci si inizia a lamentare in questo freddo mondo, si finisce per appassire come una rosa al gelo”.

“Non credo possa essere il mio caso” ridacchiò il figlio del Sole.

“Di chi credi che sia figlio il piccolo Kevihang?”.

“Domanda interessante. Non ne ho idea. Tu non hai qualcuno da suggerirmi?”.

“Quando sono così piccoli è difficile da capire. Anche tu, appena nato, eri un’incognita”.

“Ma poi si è capito subito…”.

“Certo. Verso i dieci anni, quando apparve il primo tatuaggio a fiamme che dovevi aver ereditato per forza da tuo padre…”.

“Avevo nove anni, a dir la verità. Ma questo non conta. Dici che, crescendo, si capirà?”.

“Solo il tempo potrà dirlo. Tanto…voi mortali e Semidèi crescete ed invecchiate così in fretta che non ci vorrà molto. Mi sembra ieri il giorno in cui eri tu quello piccolino e meravigliato da ogni cosa presente in questa serra. E ricordo che, al tempo, mi sono chiesto di chi fossi figlio”.

“Ora non hai più dubbi, spero…”.

“Certo che no, stellina! Ma, dimmi, quello scricciolo dai capelli blu è davvero tuo allievo? È praticamente da due giorni che hai imparato a camminare e già insegni?”.

“Beh…io veramente ho quasi 21 anni…”.

“Sei nato l’altro ieri insomma…”.

“Per un Dio certo, ma…”.

“È proprio vero che crescete così in fretta…”.

“Mia madre è qui?”.

“Sì. Come sempre mi sta dando una mano con le piante”.

I due si avviarono assieme lungo il prato verde, mentre Kevihang e Marinditi-ya si rincorrevano fra gli alberi giocando a nascondino.

“Attento a non rovinare gli alberi, Kevy!” lo ammonì Rikarathör.

“Attento tu a non rovinare gli alberi, fiammifero ambulante!” gli rispose il bambino, ridendo.

“Ha sempre la risposta pronta” sorrise Valek-hiteia.

“Ciao, mamma” la salutò Rikarathör.

Lei stava piantando nuovi alberelli, dopo aver messo dei bastoni accanto ad un paio di loro che stavano crescendo storti. Aiutava, con la sua luce, i germogli a crescere più in fretta.

“Rik, avanti, non stare lì fermo. Vai a fare il solito giro per la serra. Sai che solo così i frutti di Heket possono maturare!”.

Il figlio del Sole annuì. Lui e sua madre emettevano entrambi luce ma erano di due tonalità differenti. Quella di lei era quasi bianca, più forte, una guida per i germogli che cercavano la via dalla culla di madre terra. Quella di Rikarathör invece era più scura, tendente al rosso, più calda e pulsante, come un cuore vivo. Era quella che faceva maturare i frutti di Heket e gli donava quel sapore dolce ed inconfondibile che solo la sua luce poteva donargli. Senza di lei, i frutti sarebbero maturati più lentamente e avrebbero avuto un sapore più aspro ed acidulo.

Kevihang e Marinditi-ya lo seguirono nella sua passeggiata fra gli alberi, con ammirazione.

“Un giorno avrò anch’io uno scopo importante?” domandò il bambino.

“Non ho dubbi a proposito. Certo!”.

“Io oggi ho fatto aprire le gemme ed i fiori ad un albero! Non ci ero mai riuscita, prima d’ora!” esclamò la bambina, sorridendo con orgoglio.

“Bravissima!” si complimentò il fratello maggiore “Tuo padre sarà davvero fiero di te!”.

“Lo sono!” confermò il Dio dell’Estate, che si era unito al gruppetto per controllare come proseguiva la crescita degli alberi.

“E anche tuo padre è orgoglioso di te” parlò Valek-hiteia.

Ora erano tutti l’uno accanto l’altro, come una piccola processione carica di doni fra le piante della serra. Sotto i piedi del Dio dell’Estate venivano sparsi semi che venivano fatti germogliare con l’aiuto della luce della semidea luminosa. Marinditi-ya, sollevata fra le braccia del padre, sfiorava con le mani tutti i fiori e li faceva sbocciare, riempiendo la serra di profumo. Rikarathör, invece, aveva espanso la sua luce ed il suo calore, allacciando la camicia intorno alla vita e sorridendo. Non credeva molto alle parole di sua madre ma voleva che lui sapesse, che suo padre sapesse, che era in grado di svolgere il suo compito, nonostante portasse il sigillo attorno al collo che frenava in parte le sue capacità. Kevihang sorrideva, ammirato, agitando la coda rossa con felicità, desideroso di possedere anche lui un potere che gli permettesse di avere un ruolo importante nel villaggio. Continuarono i loro giri per la serra per diverso tempo, raccogliendo i frutti maturi e riponendoli in una cesta di vimini. Il maestro, nel frattempo, spiegava al suo allievo che questi frutti erano molto importanti e che il loro succo veniva fatto bere ai bambini appena nati ed a quelli malati per farli vivere e crescere. Erano un prezioso dono della Dea della Vita.

Fuori si stava facendo buio. I fiori, come assonnati, si stavano richiudendo avvolgendosi nei loro petali variopinti. Il bambino li osservava, sentendo a sua volta un po’ di stanchezza.

“Posso toccarli, fratellone? Posso toccare uno di quei fiori? O posso raccogliere uno dei frutti?”.

“Non ci sono problemi. Aspetta che ti alzo…”.

Prese in braccio il fratellino, sollevandolo da terra, e lo avvicinò ad un fiorellino ancora aperto, tendendo le braccia. Il bambino sorrise ed allungò le mani. Ed avvenne una cosa strana. La corolla, prima delicata e morbida, si irrigidì e divenne acuminata, piena di denti. Si mosse di scatto, come una bocca piena di denti affilati, e morse il bambino, che urlò. La pianta reagì, mutando tutti i suoi fiori in armi piene di denti, ed emise un suono simile ad un ringhio o ad un sibilo.

Rikarathör, allarmato, indietreggiò in fretta. Spaventato, guardò Kevihang ed il punto in cui era stato morso. Non aveva mai assistito ad una reazione simile e, a quanto pare, nemmeno nessun’altro dei presenti, che osservavano la scena piuttosto scioccati.

“Ti sei fatto male?” domandò il figlio del Sole, cercando di celare la sua agitazione.

Kevihang mostrò il punto in cui era stato morso e scosse il capo. Era solo un piccolo morso da cui era scesa solo qualche goccia di sangue.

“Meno male…sta bene, tranquillizzatevi” disse Rikarathör, rivolto agli altri che, però, continuavano a guardare l’albero dai fiori dentati.

“Io non credo che ti debba preoccupare del bambino…” mormorò il Dio dell’Estate.

Il figlio del Sole si girò verso l’albero e strinse a sé Kevihang, non sapendo che altro fare. La pianta era morta. Il tronco, le foglie, i fiori ed i frutti, avevano perso il loro colore divenendo del tutto di colore nero. I fiori versarono qualche lacrima dello stesso colore, come veleno, e poi persero i loro petali. Caddero assieme alle foglie, riempiendo il prato attorno con un tappeto di nero senza vita. Kevihang non capiva. Non riusciva a vedere, circondato dalle braccia del fratello, ma percepiva che c’era qualcosa che non andava dal modo in cui questo lo stringeva e dal battito accelerato del suo cuore. Che cosa era successo? Che cosa aveva fatto?

“Cosa c’è?” domandò, dimenandosi “Cosa avete? Lasciami!”.

Riuscì a liberarsi e vide l’albero. Rimase in silenzio, qualche istante, prima di girarsi verso il suo maestro. Nessuno parlava. Nessuno sapeva spiegarsi quel fenomeno.

“L’ho fatto io?” chiese il piccolo, notando che la pianta era morta “Sono stato io?”.

Rikarathör annuì, sforzandosi di sorridere in modo rassicurante, ma non gli riusciva facile. Kevihang, notando gli sguardi spaventati, abbassò le orecchie a punta ed arrotolò la coda attorno alla gamba destra. Scese una lacrima dai suoi occhi aranciati, mentre chinava il capo: “Avevano ragione” mormorò.

“Chi aveva ragione, Kevy?” gli domandò il fratello maggiore, piegandosi sulle ginocchia.

“Loro. Tutti loro. Quelli da cui stavo prima di venire qui. Mi hanno sempre detto che sono un mostro. Il figlio dei morti. Avevano ragione. Visto? Ho ucciso uno degli alberi di Heket!”.

“Non è detto che sia stata colpa tua…”.

“Non mentirmi! Non anche tu…ti prego!”.

“Io non ti mentirò. Te lo prometto…” mormorò Rikarathör, abbracciando il fratellino che si era messo a piangere “…e ti dico che non devi piangere. Non sei un mostro. Ciascuno di noi si spaventa al manifestarsi del proprio potere. Vedrai che, assieme, riusciremo a scoprire e controllare ogni tua capacità. Non sei un mostro, Kevihang, nessuno di noi lo è!”.

“Forse è imparentato con la Dea della Morte…” azzardò il Dio dell’Estate “In questo caso sarebbe del tutto normale che l’albero della Vita reagisca in questo modo!”.

“Potrebbe essere. Magari non ne sei proprio il figlio, ma potresti avere parte del suo sangue” confermò Valek-hiteia, accarezzandogli i capelli.

“E questo è un bene o un male?” mormorò il piccolo, dubbioso.

“Non è mai un male. Magari il tuo compito sarà difenderci dai nemici futuri con le tue capacità!” lo rassicurò il fratello, alzandosi e sorridendo, sinceramente.

Kevihang non sembrava molto convinto ma si asciugò le lacrime con la manica della tunica ed annuì. Sospirò poi e confessò ai presenti che aveva sonno.

“Adesso ce ne andiamo. Fammi finire il giro. Tu intanto siediti qui ed aspettami” gli disse Rikarathör, allontanandosi assieme alla madre ed al Dio dell’Estate fra gli alberi, lasciando il piccolo assieme alla sorellina che si stava appisolando.

“Non è figlio della Dea della Morte, lo so per certo perché la conosco molto bene. Queste piante non avevano mai reagito così. Ti sconsiglio di portarlo qui di nuovo…” parlò il Dio dell’Estate.

“Tienilo sottocontrollo. Potrebbe risultare pericoloso” suggerì Valek-hiteia.

“Non è pericoloso. E non ha niente di sbagliato, povero piccolo, e troverò il modo di dimostrarlo. Fidatevi di me. Crescerà ed io gli insegnerò ad usare i suoi poteri!” protestò Rikarathör.

“Che poteri ha mostrato fin ora?” si informò la madre, preoccupata dal fatto che, forse, il figlio maggiore era ancora troppo giovane per prendersi cura di un allievo così particolare.

“Superiori di quanto mi aspettassi. Ma non saprei in che categoria inserirli. Non seguono un singolo elemento ma ne sono al di sopra, come se riuscisse a prevedere cosa è giusto fargli fare. Credo, inoltre, che legga nei miei pensieri ed in quelli degli altri, a volte. Penso che, opportunamente addestrato, possa diventare più forte di tutti noi perché ha qualcosa, qualcosa che non riesco a comprendere, che me lo fa credere”.

“Per ora non sognarti di togliergli il sigillo, sai!” lo ammonì Valek-hiteia.

“Certo che no! Non sono stupido! Quello non accadrà fino alla prova dei cristalli, come a tutti!” esclamò Rikarathör, scocciato perché lo sapeva perfettamente che non era concesso togliere il sigillo prima della prova di maturità finale “O come quasi a tutti…” aggiunse poi, stringendosi il collo, rinchiuso il quel collare d’oro che ogni tanto lo faceva sobbalzare con le sue piccole scosse.

“Figlio mio…con te è meglio prevenire che curare!”.

Madre e figlio si guardarono. Entrambi erano perfettamente consapevoli di quanto difficile fosse gestire ogni nuovo allievo con il suo nuovo potere.

“Non lo porterò qui, allora. Tranquilli. Scoprirò di chi è figlio ed affronterà la prova dei cristalli in modo perfetto, vedrete. Sarà un ottimo allievo. Ora, se volete scusarmi, riporto i piccoli a casa che si sta facendo tardi”.

“Corri, che la Luna piena è gia sorta!” affermò il Dio dell’Estate, incrociando le braccia e sorridendo in modo stupido e volutamente ambiguo.

Rikarathör ignorò la cosa e tornò sui suoi passi, rimettendosi la camicia, camminando con decisione e fastidio. Era convinto delle sue capacità e non si sarebbe di certo arreso davanti a dei fiori dentati! Sempre e solo fiori erano, niente di che! Le scosse che avvertiva sul collo lo informarono che si stava arrabbiando e che non doveva. Sospirò, per calmarsi, e sorrise con tenerezza quando vide i due bambini che dormivano, l’uno abbracciato all’altro. Senza svegliarli, li prese fra le braccia e li portò fuori dalla cupola, attento che non prendessero freddo. Nessuno dei due si svegliò, solo Kevihang protestò per un po’ ma poi si calmò subito, sentendo il calore del fratello.

Fuori non nevicava più. Il cielo era limpido, tranne qualche nuvola, e si vedevano le stelle rosse nel cielo nero. Ma le cose che più si notavano erano i due satelliti del Pianeta, entrambi tondi e luminosi. Erano appena sorti ed ancora eran tinti del rosso del tramonto.

“Rikarathör!” si sentì chiamare alle spalle il figlio del Sole.

Si voltò e vide lei, la Dea della Luna e di tutti i satelliti dei vari pianeti, che lo guardava.

“Sarò subito da te” sussurrò, girandosi per mostrarle i suoi fratellini addormentati.

Lei sorrise ed i due satelliti, in cielo, si illuminarono oscurando le stelle che avevano accanto.

Lui giunse in casa, mettendo a letto i due piccoli, coprendoli per bene e dandogli un tenero bacio della buonanotte. Guardò fuori. Dalla finestra poteva vedere lei che lo aspettava. Sospirò.

“È una Dea, ricordatelo” ripeté a se stesso “E tu non sei altro che un…beh…tu sei quello che sei!”.

Scese le scale, senza fretta e quasi con riluttanza. Mise subito a tacere quella vocina che gli suggeriva di non fare cretinate ed uscì nella notte. Lei era lì, bellissima come sempre, con gli occhi rilucenti di stelle e l’abito argento da cui si scoprivano le caviglie sottili grazie ad un generoso spacco del vestito. Con le ampie spalline avvolte attorno alle sue braccia, lasciava il collo libero di mostrare la bella collana, regalo del padre. Sorrideva e brillava, di una luce argentea ed impalpabile come la nebbia, avvolta dai capelli perlacei e che si aprivano a ventaglio, formando un semicerchio, a metà della sua schiena.

“Selene” la salutò lui, sfiorandole la mano dello stesso colore della luce che emetteva.

“Rikarathör…come ogni notte in cui i satelliti del tuo mondo splendono nel pieno della loro forma, io sono qui. Lieto di vedermi?”.

“Come ogni volta, non avere dubbi”.

Volevano avvicinarsi l’uno all’altro, di più, ma il sigillo bruciava come acido ogni volta.

“Vergine Luna…io un giorno avrò il tuo bacio. Dovesse costarmi la vita. Dovesse il mio sigillo bruciarmi e consumarmi la gola fino a restare senza respiro” aveva detto una di quelle notti.

“Non potrei mai permettertelo” aveva risposto lei, ma sapeva bene che lui di sicuro non si sarebbe arreso semplicemente perché qualcuno glielo aveva suggerito.

“E tu? Non sei stanca di vedermi, Dea argentata?”.

“Brillo per te, solo per te e per nessun’altro. La mia luce si attenua quando ti sono lontana e si rafforza quando sto per incontrarti. Ora è al suo culmine, perché ti sono accanto”.

“Papà lo sa che tu brilli per me e non più per il suo riflesso?”.

“Papà poteva fare a meno di generare un figlio come te” rispose lei, andandogli vicino.

Quasi si sfiorarono, con le mani e con le labbra, ma lei sapeva di non potersi avvicinare di più e si fermò, guardandolo negli occhi con una vena di tristezza.

“Andiamo, fratello”.

“Ti seguo, sorella mia…”.

I due si allontanarono dal villaggio, avvolti dal freddo e dal buio della notte, mentre in cielo le Lune splendevano sempre più forte.

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Capitolo 9
*** IX- Nesidey ***


 IX

NESIDEY

 

Camahel, Arcangelo dalle ali dorate, camminava lentamente lungo il corridoio del tempio della Città degli Angeli. Era da tempo l’assistente del Dio dell’Amore ma, quel giorno, era libero da ogni impegno e ne aveva approfittato per tornare momentaneamente al suo pianeta d’origine. Respirò, ad occhi chiusi, il profumo di casa. Quanta nostalgia si poteva scorgere nei suoi occhi scuri!

Ricordava quando era bambino ed andava a scuola con gli altri Arcangeli della sua età.

Ricordava Urihel, ora grande Dio del Cielo che pregava spesso.

Ricordava Remihel, Arcangelo della Speranza, di cui non aveva più notizie.

Ricordava Eleniel, sua giovane allieva, ora non più in vita.

Ricordava con un sorriso Luciherus ed il suo caratteraccio.

Ricordava l’ultima battaglia in cui aveva visto cadere Mihael e Gibrihel, divenuti poi dei demoni.

Ricordava Metatron ed i loro giochi assieme sulla spiaggia.

Ricordava il piccolo Vereheveil, Kasday, Samhian…tutti divenuti Dèi o creature distanti da quel piccolo mondo in cui ora lui, amore puro, se ne stava.

Ricordava…ma colui di cui sentiva di più la mancanza era Rahahel. Povera creatura sfortunata era stata Rahahel. Sarah, la donna che l’Arcangelo guaritore amava, era morta come era lecito fra i mortali ed ora era divenuta una creatura angelica. Era stata una sorta di premio ad Asmodai per la fedeltà ed il coraggio con il quale aveva combattuto per il regno. Sarah era un bell’angelo, con i capelli ramati e la pelle olivastra, e danzava per il suo Arcangelo guerriero Asmodai.

Camahel non amava particolarmente Asmodai, probabilmente perché, una volta tornato ad essere un angelo, aveva preso il posto di Mihael come capo degli eserciti del Pianeta Angelico. Se doveva essere sincero…Asmodai gli stava proprio antipatico! Con quei ridondanti riccioli biondi che stavano così male sul suo fisico da guerriero e quell’espressione poco rassicurante, da cui ti potevi aspettare di vedere da un momento all’altro qualche guizzo demoniaco. Eppure quella Sarah l’aveva preferito al marito ed a Rahahel, divenuto mortale per lei.

Non poteva nemmeno immaginare la sofferenza di Rahahel, Arcangelo dolce, ingenuo e sognatore, davanti alla crudeltà che la realtà poteva riservare. E lui, Camahel, non era riuscito ad aiutarlo. L’Arcangelo con cui era cresciuto aveva espresso il desiderio di perdere le ali per lei, per starle sempre accanto, ignorando la voce che voleva che restasse. Quante volte l’Arcangelo dell’amore puro aveva tentato di farlo desistere, ma non c’era stato niente da fare ed aveva dovuto lasciarlo andare, pur non capendone i desideri. Non sentiva il bisogno di provare un amore diverso da ciò che rappresentava, immacolato, ma a Rahahel questo non bastava più. Non gli bastava più l’amore che nasceva dal cuore degli angeli ma voleva amare con il corpo, bruciando come faceva un demone.

Non potendo cadere, era troppo dolcemente delicato per divenire un demone, aveva perso le ali dorate ed era divenuto un misero mortale. Senza più magia, né immortalità. E senza più speranza non appena vide che Sarah non amava altri che Asmodai e che non desiderava essere “liberata” dalla sua presenza demoniaca e pericolosa.

Non era sopravvissuto a lungo. Era appassito in fretta, come i primi fiori di primavera, ed ora la sua anima nessuno sapeva dove risiedesse. Camahel ne era molto rattristato. Aveva davvero sperato in un lieto fine per l’amico.

Guardò la statua del Dio dell’Equilibrio, Kavahel, posta sull’altare del tempio, e ne controllò i vari simboli. Molte delle mani del Dio erano vuote, senza più luce né sigilli divini. Molte divinità erano morte. Tutte erano estremamente deboli e con i glifi pallidi da far spavento. Cosa stava succedendo? Perché gli Dèi si stavano spegnendo? Perché li stavano abbandonando?

Raguhel, l’Arcangelo dell’armonia, interruppe i suoi pensieri: “Dove hai la testa, Camahel? Mio caro Arcangelo dell’amore puro…non rendere il tuo sguardo così triste e malinconico. Cerca di vedere il lato positivo delle cose!”.

“Senza la Speranza è piuttosto difficile…”.

Camahel scostò dagli occhi un ciuffo di capelli rosso scuro, che formava un piccolo boccolo verso la fine, e guardò il suo collega. Raguhel era magrolino ed aggraziato, con grandi occhi color del miele ed i capelli lunghi e ricci, con mille riflessi dorati. A lui era stato affidato il compito di controllare il tempio. L’unica statua rimasta dell’Equilibrio, con i simboli delle divinità, era riposta in quel luogo ed era estremamente preziosa.

“Stai pensando al passato, Camahel?” domandò l’Arcangelo dell’armonia con voce dolce e delicata.

“Meglio non pensare al futuro, non trovi?” rispose l’amore puro, con la sua voce profonda e melodica, la più bella del regno.

Guardava i simboli, con insistenza. Non c’erano più sogni, paure, guerre, pace, coraggio, feste, la primavera…quanto gli mancava la primavera! Sembrava che la rassegnazione regnasse sovrana nei cuori dei viventi. Rassegnazione a cosa? Alla fine? E perché, nonostante tutti rivivessero sempre il passato, la Dea della Memoria aveva un simbolo quasi impercettibile? Forse perché nessuno aveva voglia di crearsi più nuove reminescenze, ma solo di rifugiarsi in antiche storie senza più donare nuove immagini ai propri ricordi?

“Che freddo che fa anche oggi…” protestò Raguhel.

“Dovremmo ringraziare Nesidey. La meravigliosa stella del Pianeta dell’Equilibrio che ci è stata donata per permetterci di sopravvivere in questo eterno inverno. La sua luce azzurra è stata l’ultimo dono di Kasday. Dal giorno in cui è morto, lei è comparsa nel nostro cielo. Come se sapesse che sarebbe arrivato questo gelo. Ha espanso la sua superficie ed aumentato il suo calore, in modo da scaldare noi, angeli, e gli abitanti del mondo dell’Equilibrio”.

“I pochi pianeti rimasti in vita fanno parte tutti del sistema di Nesidey. Perfino i Mondi del Kaos si sono messi a ruotare, in modo più o meno ordinato, attorno ad essa. I Pianeti che non riescono ad allinearsi, lentamente, muoiono. O almeno…questo è quello che dicono”.

“Grazie Nesidey, allora” interruppe Camahel.

“Grazie, Nesidey” mormorò Raguhel.

Ora entrambi guardavano la statua. Poi si concentrarono sull’immensa vetrata posta dietro all’altare. Era stata realizzata ed istallata dopo l’ultima guerra a causa del crollo della cupola. I libri in essa custoditi erano stati spostati nell’immensa biblioteca di Vereheveil mentre la parete di fondo era stata sostituita da questa vetrata coloratissima. Rappresentava Kasday, nella sua forma di Alto, con le ali d’angelo spalancate e lo sguardo rivolto verso la navata centrale. Con le mani faceva dei segni tranquillizzanti nei confronti della creatura che lo osservava. “Non avere paura. Anche se ho questo aspetto che ti spaventa e che non puoi capire, non ti farò del male” sembrava dire.

Il gelo ed il freddo improvviso che era calato fra tutti i Pianeti era stato interpretato, da molti, come il simbolo dell’ira di Kasday per il loro pessimo comportamento. L’Alto era stato accusato di essere la causa di qualsiasi cosa e quindi era morto con la collera nei confronti delle proprie creature, che aveva punito togliendogli il proprio calore e con la costante presenza di freddo, pioggia, neve, vento e ghiaccio. E quella stella azzurra…dello stesso colore dei suoi occhi divini. Come un suo grande occhio nel cielo che costantemente li rimproverava.

Camahel non pensava che Kasday li avesse puniti. Non lo vedeva come una divinità vendicativa o iraconda ma piuttosto come una creatura sola ed incompresa, che aveva dato tutto per chi amava senza ricevere in cambio ciò che desiderava se non in Luciherus, che aveva portato via con sé.

Voleva tornare bambino. Voleva tornare a quando Kasday era un piccolo Serafino e tutto andava bene, salvo gli screzi fra Kaos e Destino che erano all’ordine del giorno, ma che non riguardavano più di tanto il Mondo degli Angeli. Ma ormai nulla di quel tempo passato sarebbe tornato…oppure sì? Come poteva essere così pessimista?

“Cantiamo!” mormorò l’Arcangelo dell’amore puro.

“Come?” si stupì Raguhel.

“Cantiamo. Come facevamo un tempo. Non ti va?”.

“E cosa vorresti cantare? Siamo rimasti così in pochi!”.

“Non importa quanti siamo! Ma quello che trasmettiamo! Prova a chiudere gli occhi…a sentire di nuovo dentro di te la fede e la potenza del pianeta come la sentivi un tempo! Ricordi? Come quando eravamo giovani e intonavamo melodie per le divinità che amavamo e celebravamo la bellezza della vita e le meraviglie del creato! Sono sicuro che possiamo ancora riuscirci!”.

Raguhel lo guardò, con tenerezza ed ammirazione.

“Io credo che la Speranza ci sia ancora nel Mondo” disse “Tu ne sei la prova vivente! E se tu ci credi allora…voglio crederci anch’io!”.

“Allora aiutami, Raguhel, a fare in modo che il mio canto ed i miei sentimenti raggiungano ogni angolo di questo Pianeta addormentato ed anche oltre! Verso Nesidey e gli altri Universi! Non lasciamo che i popoli si chiudano nel silenzio e nella rassegnazione! Alziamo la nostra voce!”.

Detto questo, l’Arcangelo dell’amore puro spalancò le ali ed emise una nota, tenendola sospesa nell’aria azzurrina del mattino più a lungo di quanto non avesse mai fatto. Aveva ancora la voce più bella del Regno degli Angeli ed aveva piena intenzione di farsi sentire! Nell’udire la sua inconfondibile nota, molte creature alate si destarono e rivolsero il capo verso il tempio, silenzioso e quasi del tutto vuoto da tempo.

“Camahel!” sussurrò qualcuno, assaporandone la canzone.

E Camahel iniziò a cantare, forte ed in modo impeccabile. Raguhel, Arcangelo dell’armonia, si aggiunse al suo canto rivolto al cielo. Gli Angeli giunsero al tempio tenendosi per mano, con gli occhi che brillavano di vita dopo tanto tempo, come se qualcuno gli avesse donato qualcosa che desideravano da tempo. In tutti i loro sguardi guizzava una scintilla di Nesidey. Le loro voci erano unite in un unico coro. Chi non cantava, invece, si dedicava al ballo ed anche in questo erano tutti uniti, come se una mano esterna li guidasse e li muovesse.

“Come puoi pensare che l’Equilibrio e la Speranza ci abbiano abbandonati? Guarda!” esclamò Raguhel, piacevolmente stupito dall’improvvisa vitalità di tutti coloro che aveva attorno.

Gli anziani, i pochi rimasti, guardavano la scena dall’alto con disappunto e Camahel li guardò male a sua volta. Lui era molto più vecchio di loro! Fece un piccolo giro su se stesso, si inchinò agli spettatori accigliati e tornò al suo canto. Dopotutto lui era l’aiutante del Dio dell’Amore e dell’Amicizia! Doveva fare in modo che questi sentimenti non si spegnessero nel cuore della gente che lo circondava e che aveva bisogno di riaprire gli occhi alla positività, come era tipico fare per gli Angeli. Danzavano in un modo davvero buffo e questo li faceva sorridere.

“Che state facendo?” domandò un Serafino anziano, piuttosto spelacchiato.

“Balliamo. E cantiamo agli Dèi!” rispose Camahel.

“Gli Dèi ci hanno abbandonato da millenni…” rimbeccò l’anziano.

“Mi permetta di dissentire…finché noi ci crediamo, anche gli Dèi crederanno in noi e non ci abbandoneranno! Ma in questo momento hanno bisogno di forza tanto quanto ne abbiamo bisogno noi! Non possiamo ignorare il fatto che c’è qualcosa che non và…ma noi angeli abbiamo sempre guardato avanti e lo faremo ancora!”.

Questa affermazione dell’Arcangelo fu accolta con un’ovazione inaspettata, che lo fece sobbalzare per lo spavento. Si riprese subito e diede inizio ad un’altra canzone.

“Poveri illusi…” mormorò il Serafino, al sicuro sopra l’alta scalinata che portava alla terrazza rialzata che sovrastava l’ingresso del luogo sacro.

Dietro di lui, nascosto da un drappo turchese, si potevano intravedere le canne di un organo rimasto in silenzio per troppo tempo.

“Una volta uno di voi anziani mi ha raccontato una storia…” parlò Camahel, sovrastando con la sua voce le note della canzone “..parlava di un libro in cui era contenuto il destino dei Mondi. Dentro ad esso era scritto tutto ciò che era stato, tutto ciò che è, e tutto ciò che sarà. E mi è stato raccontato che c’è una divinità che, con la sua penna, scrive su di esso. Sono sicuro che ora questa divinità sta rileggendo e sta correggendo gli errori del passato per poter scrivere un futuro migliore. Sono convinto che è già all’opera…”.

“Certo. Per metterci un punto alla sua Opera Omnia e chiudere per sempre quel libro”.

“Come potete dire questo?” mormorò Camahel, abbassando le ali per lo sconforto.

Ora in tutta la sala era sceso il silenzio. Raguhel osservò tutti con preoccupazione malcelata. Non c’era paura nei loro volti, né forza, né speranza. Solo sconforto e rassegnazione. Osservavano l’anziano che, dopo aver spalancato le ali in un gesto piuttosto teatrale, puntò il dito verso la grande statua dell’Equilibrio sull’altare e parlò, con voce impostata ed apocalittica: “Guardate quei simboli, piccole creature saltellanti! Guardate il simbolo che il sommo Kavahel porta sulla fronte! Si stan spegnendo tutti! Stando alle profezie, Kavahel dovrebbe restare alla fine di ogni cosa, permettendo alle nostre essenze di rinascere di nuovo dopo la fine degli Universi. Ma guardate il suo glifo! È pallido e tremolante esattamente come quello di tutti gli altri! Come potrà restare alla fine di ogni cosa? Ve lo dico io cosa accadrà: lui morirà, assieme a tutti quanti noi. La catastrofe è iniziata con le scelte errate dell’Equilibrio Kasday e dei suoi figli deboli. Suo padre, il Kaos, e la sua eterna rivale, il Destino, che ci governava, avevano già corroso il ruolo di quel ragazzo dalle fondamenta. Più volte la fine è stata vicina, e più volte la sua venuta è stata allontanata, ma stavolta non sarà così. Tutto finirà. Mondi, Pianeti, Universi, Stelle, Divinità…e noi con loro”.

“Smettila di ammorbarci con il tuo Memento Mori, vecchio!” lo interruppe un Cherubino accigliato che, sostenuto in parte dalla folla, continuò “Io credo in quello che dice Camahel. Lui è in contatto diretto con le divinità e perciò, se lui crede che si possa ricominciare, allora io ci credo. L’avete detto voi stesso che più volte il giorno della fine è stato allontanato. Allora perché non dovrebbe accadere di nuovo? La mia specie è stata generata per credere e vivere, non per odiare i propri creatori!”.

“Fate come volete…” borbottò l’anziano, allontanandoci con un gran sbattere d’ali.

Camahel rimase in silenzio. Aveva anche lui un filo di pessimismo nelle vene. Era piuttosto preoccupato ma una voce dentro di sé gli diceva che non doveva smettere di sperare. Guardò fuori ed un immenso sorriso gli si aprì sul viso. Le nuvole si erano momentaneamente diradate, lasciando a Nesidey ed a Iùno Caeléstis, la Luna del pianeta degli Angeli, il cielo libero e scoperto.

“Gli Dèi non ci hanno abbandonato” disse, convinto, e ricominciò a parlare.

Presi per mano e con un movimento sincronizzato, gli angeli cantavano ad occhi chiusi e sorridendo. La loro voce era bellissima ed i loro passi leggeri e coordinati.

Dopotutto perché no…si ritrovò a pensare Camahel…dopotutto perché non dovrebbe ricominciare tutto da capo? Perché non dovrebbe andare tutto bene, un giorno? Perché le divinità avrebbero dovuto abbandonarci? Che mai abbiamo fatto? Niente! Siamo Angeli, servitori fedeli del loro volere! Ed un giorno so che qui, accanto a noi, ci saranno di nuovo tanti piccoli Angeli bambini sotto un caldo Sole d’estate. Perché no?

Perché le divinità stanno morendo e, volenti o nolenti, prima o poi dovranno abbandonarci rispose una voce all’interno della sua testa. Una voce indesiderata che mise subito a tacere.

Nessuno ci abbandonerà! Kavahel, Vereheveil, il Sole, la Luna, Urihel, il Kaos, il Destino, l’Amore, la Vita, la Morte…nessuno di loro ci abbandonerà! Forse non è ancora tempo. Forse non è ancora giunto il momento che qualcosa cambi.

 

Ricordati che fui io a concederti la tua esistenza, mortale!

Ricorda che fummo noi, Déi, a darti la vita!

 

Ricordati che sono io a mantenerti immortale!

Ricorda che siamo noi mortali a darti vita!

 

Esiste un popolo disposto a difendere il suo Dio?

Esiste un Dio disposto a sacrificarsi per il suo popolo?

 

Cantavano. Come cantava Kasday alla vigilia della grande battaglia contro Kaos e destino. Stesse parole, stretti in un abbraccio collettivo.

Non è ancora giunta l’ora si ripeté Camahel ma un giorno verrà. Alzò gli occhi al cielo.

Un giorno le cose cambieranno. Io ci credo. Spero solo che non passi troppo tempo…

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Capitolo 10
*** X- ruoli perduti ***


X

 

RUOLI PERDUTI

 

Rahahel guardava fuori dalla finestra. Si trovava nella torre del palazzo di Mihael. Sorrideva, con i suoi inquietanti denti a punta, e ruotava gli occhi, rossi, a destra ed a sinistra. Tutti lo credevano morto e, in effetti, non era propriamente vivo. Il suo cuore non batteva, ma il suo corpo e la sua essenza non si separavano. Era la prova vivente che qualcosa, ai piani alti, non funzionava come dovrebbe. Aveva passato un periodo di questa sua condizione guardandosi sempre alle spalle, in attesa della falce di Luciheday, Dea della Morte, ma non era mai giunta fin ora.

Si appoggiò con la mano scheletrica al balcone e si sporse, leggermente. Guardò con profonda invidia tutte le creature che, aprendo le ali, si libravano in aria sopra di lui e la torre. Lui aveva perso le ali..ci aveva rinunciato. E ancora bruciava il punto in cui crescevano. Eppure, nonostante lo avesse fatto per una donna che poi lo aveva rifiutato, non poteva fare a meno di amarla. La amava ancora. Ma che poteva farci? Ora non era nulla, neppure in vita. Come poteva pretendere di attirare l’attenzione di una creatura che aveva rifiutato il suo essere angelo?

Grattò le unghie sul marmo, abbandonando la finestra. Camminava lungo il corridoio, senza emettere alcun suono. Da sotto la sua lunga veste scura non si capiva se toccasse o meno terra con i piedi. Si udiva solo un vociare di guardie e demoni annoiati fra gli archi neri di quel piano della torre. Si sentivano le frasi di scherno che si rivolgevano fra loro e le risate di chi stava giocando a nascondino invece che svolgere il proprio lavoro. Le porte si susseguivano, in legno arancio con lo stemma del principato, una “M” fra le fiamme con due spade incrociate, incisa su ogni entrata. Fra una soglia ed un’altra stava qualche arma, appesa o semplicemente appoggiata per permettere a Mihael di divertirsi durante il cammino fra la sua camera e le cucine. Rahahel appoggiò la mano pallida su un’armatura rossa e nera, appartenuta a Luciherus. Era il pezzo più pregiato della “collezione” di Mihael, composta da numerose altre armature ed armi di amici ed avversari, oltre che proprie. Lucida e brillante, era liscia e fredda al tatto, quella corazza di due colori, ma Rahahel non lo sentiva. Non aveva più il senso del tatto, del gusto, dell’olfatto…

Si voltò, abbagliato da un raggio di luce che si era riflesso sul pettorale metallico, e sorrise.

Mihael aveva tappezzato la parete, fra una finestra e l’altra, di sue immagini e dipinti in pose da guerriero ed eroe. Una sorta di auto-celebrazione continua, tipica del Principe dei Demoni. Guardando quelle immagini, Rahahel ricordò molte cose e si perse nei suoi pensieri fino a quando una mano, bianca ed affusolata, gli si appoggiò sulla spalla. Lilith.

“Madama Lilith” la salutò, baciandole la mano.

“Sai che non è questo che voglio da te!” rispose lei, coperta solo da un minuscolo tubino nero lucido che non lasciava spazio in alcun modo all’immaginazione.

Rahahel, con un sorriso, le morse leggermente la mano, facendone uscire qualche goccia di sangue. La demoniessa ribaltò la testa all’indietro e si passò la lingua sulle labbra. Adorava quel modo di salutare di Rahahel e lo faceva sempre capire.

“Mio piccolo non morto…” parlò lei, scuotendo i capelli vermigli e sbattendo gli occhi grigi “…cosa fai solo soletto per queste strane torri?”.

“E Voi, madama, che fate senza compagnia?”.

“Strano, vero?” sospirò lei, ammiccando.

“In effetti sì…” ridacchiò Rahahel.

“Ad ogni modo…Mihael ti sta aspettando. Mi ha mandato a chiamarti”.

“Non posso intrattenermi qui ancora un po’ con Voi, Lilith?”.

“Qui?”.

“Se preferite…nelle Vostre stanze…”.

“Mihael ti aspetta…” mormorò lei di nuovo, stringendolo a sé per poi allontanarlo “…forse più tardi, mio piccolo vampiro!”.

La demoniessa si allontanò, a piccoli e lievi passi, canticchiando, mentre Rahahel le mandò un bacio con la mano. Non era da lui comportarsi così ma ormai…non aveva niente da perdere! Cancellò temporaneamente dalla sua mente la presenza di Lilith e si avviò di nuovo verso il corridoio. Contò le porte, sapendo quale fosse quella del Principe. Una volta che l’ebbe raggiunta, bussò, con insistenza, finché non sentì un gemito dall’interno.

Entrò, con convinzione: “Mandi [saluto friulano], Miky!” salutò, ghignando.

“Sì, sì…ciao anche a te!” rispose Mihael, spaparanzato sul letto e giocherellando con una spada.

“Perché mi hai fatto chiamare?”.

Mihael fermò ogni sua attività e storse il naso, con un’espressione che voleva dire che, al momento, non gli veniva in mente. Si alzò di scattò, stringendo la lunga spada con due mani, e guardò Rahahel con uno strano sorriso.

“Combattiamo!” esclamò.

“Mi hai fatto chiamare per questo?!” si stupì Rahahel, accigliandosi, ed i suoi occhi rossi brillarono.

“No. Ma perché non combatti con me? Dai…ci divertiamo!”.

“Torna a dormire. Ho altro da fare!” sbottò l’ex Arcangelo e fece per andarsene.

“Hai visto Asmodai, ultimamente?” domandò il Principe, affilando la spada.

Rahahel si bloccò, con uno strano tic al sopracciglio destro ed una smorfia. Non rispose, ma Mihael insistette ripetendo la domanda altre volte.

“Perché?” sibilò Rahahel.

“Perché cosa?” si stupì Mihael.

“Perché mi chiedi questo? Sai bene quanto io detesti quella creatura…”.

“Ah…sì…giusto…” fu la reazione, con l’espressione di chi non ha idea di che cosa si sta parlando. Infatti, dopo un po’ di riflessione, il demone inclinò il capo e chiese perché lo detestasse.

“Mi ha portato via la donna, brutto scemo!” ringhiò Rahahel.

“Non è corretto. Lei era sposata. E tu ti sei messo in mezzo. Hai tu iniziato il gioco! E chi la fa, l’aspetti. Si vede che la tua bella preferisce quelli muscolosi e cattivi. Belli e dannati…”.

“Ma vai al diavolo!!”.

“Eh?!”.

“Lascia stare…”.

“Antipatico”.

“Scemo!”.

“Cambiamo argomento!” parlò Mihael, sorridendo e puntando la spada verso Rahahel.

“Tirami via quel coltellino dalla faccia” protestò l’altro, spostandosi la spada da davanti al viso.

“Non offendere la mia piccolina! Lei è la mia alleata più fedele”.

“Pensavo fosse il tuo campione, il guerriero più forte dell’esercito”.

“Baggianate. Sarà sempre e comunque secondo a me come potenza, e perciò non sarà mai all’altezza della mia piccola!”.

Più la guardava e meno Rahahel ci vedeva qualcosa di piccolo in quella spada enorme, ma non parlò per non peggiorare la situazione.

“Cosa vuoi da me, Mihael? Non sono dell’umore più adatto per seguire i tuoi inutili giochetti…”.

“Piano con le parole! Sei tu il più inutile qua dentro! Eri un Arcangelo guaritore, ma ora cosa sei? Qual è il tuo scopo? Non sei in grado di curare nessuno…” ridacchiò il demone, sedendosi di nuovo sul letto, abbracciato alla sua spada.

“Tu, piuttosto, che scopo hai? Arcangelo guerriero?! Che cosa devi combattere?”.

“Sono le stesse parole che mi ha rivolto Luciherus un giorno, in classe…”.

“Lo so. Ma è una domanda lecita anche ora, sorvolando sulla sensazione di déjà-vu che può suscitarti. Sei un guerriero, ma chi devi combattere? In quest’epoca di pace e mancanza di problemi con gli angeli…tu sei proprio inutile!”.

“Sai chi è inutile? Il Sole! Da quanto tempo non fa altro che nevicare e far freddo?!”.

“Non cambiare discorso…”

“E tu non farmi piangere!”.

“Sei un demone! Non puoi piangere!”.

“Beh, io sì! Scommetti?!”.

“Non fare il bambino…ad ogni modo, è normale che tu pianga. Era pur sempre tuo fratello”.

“E questo cosa ci azzecca con ciò di cui stavamo discutendo prima?”.

“Sei triste perché ti manca, oltre al fatto di non poter combattere. Ed è normale, perché era il tuo gemello. Eravate uniti, nonostante tutto”:

“Siamo sempre stati molto diversi…”.

“Certo. Ma siete nati assieme”.

“Lu è nato qualche minuto prima…”.

“Non ha importanza. Condividevate lo stesso spazio prima di nascere e siete cresciuti assieme…”.

“Ci sono delle cose che non sai di lui”.

“Non importa quanto siete stati diversi…eravate comunque legati!”.

“Cosa ne sai tu di legami? Sei morto per star dietro ad una mortale che non ti ha mai ricambiato!”.

“E tu non hai mai fatto altro che combattere per tutta la vita. Io almeno ho provato una strada diversa. Ora che non hai nessuno a cui far la guerra, che ti ritrovi a fare?”.

“Vuoi proprio farmi piangere”.

“Non sei adatto a fare il Principe dei Demoni”.

“Io non sono il Principe dei Demoni. Lucy lo è. Devo aspettare il suo ritorno”:

“Luciherus non tornerà”.

“Anche tu con questa storia??!!”. Il demone si alzò di scatto, con fare minaccioso.

“Luciherus è morto, Mihael!” fu la risposta, calma.

“Non è vero! Il suo corpo non è mai stato trovato! Non ci sono prove!” affermò, con la voce che tradiva la sua apparente tranquillità.

“È morto. Non tornerà” ribatté di nuovo Rahahel, rimanendo impassibile e per nulla spaventato dall’espressione minacciosa del Principe.

“Bugiardo!” urlò Mihael, brandendo la spada e decapitando di netto l’ex Arcangelo guaritore. Questi cadde in terra, diviso in due, senza far rumore e senza un solo lamento.

Il Guerriero rimase così, con la lama a mezz’aria e l’espressione folle, ansimando, mentre cercava di capire che cosa esattamente avesse fatto. E Rahahel si rialzò. Con incredibile noncuranza dell’evento, come se fosse una cosa da nulla, si riattaccò la testa e brontolò.

“Per quante volte avrai intenzione di ripetere sta cosa, Miky?”.

Mettendosi le mani attorno al collo, riuscì a guarirsi e, dopo aver scosso leggermente il suo mantello, si avvicinò al suo aggressore, mettendogli una mano sulla spalla.

“Io ormai sono solo in grado di curare le ferite infertami da te, e tu…” mormorò “…sei solo in grado di combattere contro te stesso”.

“Smettila di fare il saggio. Mi irriti” protestò il demone, scansando la mano con la punta della spada ed andando verso la finestra.

Storse il naso. Per quanto amasse la neve, era decisamente stanco di vederla cadere.

“Sai perché Luciherus è caduto?” chiese a Rahahel.

“Ovvio. Perché ha sfidato gli anziani e questi lo hanno maledetto”.

“Questo è quello che ha fatto. Ma non ti sei mai chiesto perché si sia comportato in quel modo?”.

“Diciamo che tuo fratello è sempre stato un po’ strano…”.

Ora i due si stavano guardando, il demone appoggiato con i gomiti al balcone ed il non-morto contro il muro, a braccia incrociate.

“Ti sbagli. Il mio fratellino da piccolo era come tutti gli altri Arcangeli. Era carino, dagli occhi grandi e miti, col viso dolce e angelico eccetera eccetera…”.

Rahahel chiuse gli occhi. Tornò con la mente a quando era bambino, ma non riusciva proprio a ricordare Luciherus da piccolo. Lo ricordava da adolescente, da giovane, da demone ed infine da Dio, ma da bambino proprio non ci riusciva. Poi, ad un tratto, gli apparve come una luce nella mente. Un Arcangelo, bellissimo, con enormi occhi tondi ed i capelli blu, tenuto per mano da Adam Kadmon, la leggendaria prima creatura del regno angelico, dalla bellezza e dalla potenza ineguagliabili. Era proprio un bellissimo bimbo quello che Rahahel ricordava.

“Luciherus…” sussurrò.

Non poteva credere che quel piccolo fosse Luciherus. Ora quell’immagine si era fatta molto precisa, con un minuscolo Luciherus che muoveva i suoi primi passi da solo, ancora incerto, a fianco del padre che gli sorrideva, orgoglioso. Dietro i due veniva una donna, Ignis Sophia, che teneva per mano Mihael, che ridacchiava osservando le nuvole del cielo.

“Se quello era Luciherus…cosa è successo? Non lo ricordo!” ammise Rahahel.

“Non lo sai. Non è che non te lo ricordi. Non lo sa nessuno, tranne me credo, giunti a questo punto”.

“Puoi parlarmene?”.

“Ne avevo il divieto. Ma ora nessuno può venire a punirmi, immagino, perciò…”.

Il Principe chinò il capo e, dopo un attimo di silenzio, ricominciò a raccontare. E Rahahel vedeva. Riusciva e vedere le immagini davanti a sé. Vedeva un piccolo Luciherus di fronte al padre, con il nasino all’insù, che sorrideva e voleva essere come il genitore. Lo imitava e lo seguiva, voleva essere come lui e crescere, divenire un grande Arcangelo, il migliore di tutti. Cresceva ed imparava, seguendo le orme del leggendario Kadmon. Aveva un sogno, lo si leggeva negli occhi, e per realizzarlo era disposto a fare tutto. Gli anziani, i maestri, gli adulti…tutti osservavano questi due gemelli, Mihael e Luciherus, crescere ed andare verso l’età adulta. Ma qualcosa, di difficile da comprendere, stava crescendo nel cuore di Luciherus. Lui guardava sua madre ed ecco, si rendeva conto che c’era qualcosa di strano e diverso in lei. “La mamma è sempre la mamma” si era detto per anni, ma una sera, inaspettatamente, aveva capito. Suo padre, Adam, era partito per l’ennesima guerra contro i demoni e non era più tornato. Prima della sua partenza aveva affidato la moglie alle cure dei suoi due figli. Mihael, una volta saputo che il padre non avrebbe più fatto ritorno, era entrato nell’esercito e quella sera si trovava assieme agli altri guerrieri in una sorta di esercitazione notturna.

“Luciherus…” parlò Sophia quella sera, rivolta al figlio che le stava accanto.

“Sì, madre?” rispose lui, senza nessuna “S” sibilante.

Era giovane, nemmeno un adolescente, ed era ancora confuso dopo la scomparsa del padre.

“Chiamami Sophia. O mamma. Madre è troppo formale”.

“Come volete…”.

“Sai ballare, figlio mio?”:

“Sì. Almeno credo…”.

La madre gli porse la mano e lo fece alzare. Lo strinse a sé e lo guidò, in alcuni eleganti passi di danza. Luciherus trattenne il respiro. Che stava succedendo?

“Assomigli tanto a tuo padre, bambino mio. Assomigli tanto ad Adam…”.

Luciherus non rispondeva. Non sapeva cosa dire.

“Sei bellissimo, Luciherus” mormorò di nuovo lei, prima di mettersi a piangere “Mi manca, piccolo mio. Kadmon mi manca tanto”.

“Anche a me manca…Sophia” ammise l’Arcangelo, abbracciandola.

Chiuse gli occhi, avvolto dal profumo della madre, promettendo a se stesso che non avrebbe mai più permesso che qualcuno la facesse piangere. Quegli occhi così belli non dovevano più versare lacrime! Mai più! E si accigliò, per la prima volta nella sua vita.

Da quella sera lui aveva iniziato a cambiare. Voleva sapere la verità, qualunque fosse. Dov’era suo padre? Se era caduto nel Mondo dei Demoni, perché non era mai stato trovato il suo corpo?

Trovò un modo per entrare nella cupola dei libri proibiti, trasgredendo ad uno dei suoi primi tabù, coprendo un occhio con i capelli per fare in modo che nessuno notasse che li aveva letti. La verità la voleva avere nero su bianco, non a sfumature come invece erano abituati a fornirgli gli angeli. Dopo anni, il povero Arcangelo non aveva ancora mantenuto la promessa fatta a sua madre: ti dirò la verità, le aveva detto, ti dirò cos’è successo. Ora gli adulti, gli anziani e gli insegnanti lo giudicavano in modo negativo. Perfino io, ammise Mihael, pensai che fosse un pazzo ed un idiota a fissarsi tanto. Kadmon era morto in guerra. Punto. Niente da aggiungere.

Una notte di pioggia, Luciherus era come sempre nella cupola, aveva trovato un libro interessante. Era ricco di formule magiche ed aveva una copertina rossa. Seguì le sue istruzioni, che promettevano di poter vedere ciò che si desiderava. Lo portò con sé a casa, non sicuro delle conseguenze che avrebbe potuto portare. Io lo notai, confessò Mihael, ma non feci nulla per fermarlo perché tanto sapevo che non mi avrebbe ascoltato. Chiuso in camera da letto, l’Arcangelo più bello pronunciò la formula indicata ed attese. Dopo alcuni minuti, dato che non accadeva nulla, chiuse il libro, deluso, ed uscì. Camminava lungo il giardino, dandosi dello stupido per aver creduto ad una cosa come un libro in grado di mostrargli la verità, quando avvertì un dolore atroce al volto. Se lo prese fra le mani ed urlò, mentre il fratello corse a soccorrerlo. Rimase svenuto per parecchie ore e non fu più lo stesso. Il suo volto si era come scavato, divenendo affusolato ed a punta, gli occhi non erano più grandi e tondi ma sottili e sfuggenti. Ed era apparsa la “S”. La sua solita Esse sibilante.

“Sono stati loro” disse, appena sveglio.

Da quel giorno cercò di convincere la madre che Adam Kadmon era stato giustiziato, non in guerra e non dai demoni! Giustiziato dagli Anziani perché era stanco di fare guerra continuamente e perché si era affezionato ed aveva aiutato il Dio del Kaos, spingendolo a creare Lilith e Lilim. Questo era un vero sacrilegio per i capi del Regno e per la Dea del Destino, che governava il Pianeta degli Angeli. E per questo era stato giustiziato, come tutti coloro che commettevano eresie simili.

Sophia non credeva alle parole del figlio, non aveva mai voluto crederci. E questo aveva fatto allontanare sempre più Luciherus dalla mentalità del Regno degli Angeli. Non vedeva altro che menzogne e false storielle. Era stanco di tutto questo e voleva che tutto cambiasse. Ma l’unica cosa che cambiò da quando iniziò a raccontare ciò che lui riteneva la verità, fu che Ignis si ammalò. Mihael la ricordava, pallida e febbricitante, distesa sul letto, circondata dai suoi capelli ramati e luminosi. La ricordava, bella nonostante il deperimento dovuto dalla malattia, mentre lo guardava con orgoglio nel vederlo vestito come un Guerriero Angelico. E ricordava lo sguardo preoccupato rivolto a Luciherus, che brillava di luce rossa in un angolo della stanza, per non aver ancora trovato la sua strada. Era preoccupata per il continuo arrampicarsi del figlio sugli specchi.

“Scusami” le disse lui, quando erano rimasti da soli.

“Non devi chiedermi scusa, piccolo mio, ma cerca di andare avanti. Non potrai mai essere accettato in questo mondo, se ti comporti come uno dei nostri nemici”.

Luciherus aveva atteso che si addormentasse, tenendole la mano, senza pensare al fatto che la madre gli aveva appena detto che assomigliava ad un demone. Attese che chiudesse gli occhi e le osservò le labbra, rosse e meravigliose, che si muovevano tremando a causa del respiro irregolare della proprietaria. Le guardava ed aveva capito. Ricordò il ballo, gli abbracci, le parole che fin ora le aveva rivolto…ogni cosa…ormai sapeva cosa significava.

“Scusami” sussurrò di nuovo.

E si chinò.

“Perdonami…” disse lentamente.

E la baciò.

Mihael, in piedi sulla porta, aveva visto ogni cosa: aveva capito chi avrebbe dovuto combattere.

 

Rahahel guardò il Principe con aria interrogativa.

“Luciherus?”.

“Mia madre, Sophia, è morta non molto tempo dopo. Noi siamo finiti in classe assieme ed il resto lo conosci, caro compagno di classe”.

“Luciherus…in realtà…”.

“Sì. Esatto. Luciherus ha iniziato a cadere molto tempo prima della notte del tempio e della maledizione. È caduto perché amava. Come te. Solo che lui…amava Sophia, sua madre”.

Rahahel non disse nulla. Guardò, con un sospiro, fuori dalla finestra. Il passato era passato, il presente era gelido e schifoso…magari il futuro…magari il futuro riservava qualcosa di meglio che avrebbe fatto cambiare del tutto la situazione attuale.

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Capitolo 11
*** XI- maturità ***


 XI

MATURITÁ

 

Kevihang era piuttosto teso. In piedi, circondato dalla popolazione del villaggio in cui era cresciuto, aspettava con ansia la conclusione della sua cerimonia dei cristalli, agitando la coda rossa a destra ed a sinistra. Non poteva credere che quel giorno fosse già arrivato. Al suo fianco stava sua sorella, Marinditi-ya, anche lei in attesa del verdetto e della conclusione della prova. Stava ricominciando a piovere. I due si guardarono e sorrisero. Cercavano di darsi coraggio a vicenda.

E Kevihang chiuse gli occhi, rivivendo gli accadimenti fino a quel momento.

 

Era stato svegliato da un violento scossone e da una luce improvvisa.

“Sveglia, pigrone!” si era sentito urlare, mentre una “forza misteriosa” gli toglieva la coperta. Inarcò la schiena, nascondendo la testa sotto il cuscino, mugugnando qualcosa di protesta. Ma la stessa forza misteriosa gli strappò il cuscino dalla faccia.

“Svegliati!! Non vorrai mica fare tardi proprio oggi?!”.

“Rikarathör? Sei tu?”.

“No…sono la tua fata madrina!”.

“Davvero?” ridacchiò Kevihang, sbadigliando “Come sei sexy!”.

“Quanto sei stupido!” protestò Rikarathör “Cerca di fare il serio, almeno per oggi!”.

“Rilassati! Sono io quello che dovrebbe essere nervoso, non il contrario!”.

“Quella che affronterai oggi è una prova importante, Kevy. E non voglio che tu la prenda alla leggera. Possono esserci delle conseguenze”.

“Cosa vuoi che succeda? Io non sono come te…” commentò il ragazzo, sorridendo e guardando il sigillo al collo di Rikarathör.

Questi non rispose. Incrociò le braccia e fece per andarsene.

“Hei!” lo fermò Kevihang “Scherzavo!”.

“Alzati!” si limitò a rispondergli il fratello maggiore.

Poi uscì dalla camera, lasciando il giovane allievo da solo.

14 anni, pensava Kevihang. Non poteva credere che fossero già passati 14 anni! Era arrivato in quel luogo che era solo un bambino che nemmeno sapeva scrivere ed ora era pronto ad affrontare la prova finale, quella che gli avrebbe permesso di avere un ruolo ed un potere indipendente, perché avrebbe dimostrato di essere in grado di controllare la sua magia e gestirla senza supervisione esterna. Si alzò, pigramente, stiracchiandosi. Era felice all’idea di poter non mettere più il sigillo che portava attorno al collo. Finalmente avrebbe avuto il suo cristallo e avrebbe tolto quel collare per cani che bloccava parte del suo potere!

Gli abiti per quella cerimonia gli sembravano troppo pomposi. Non gli parevano adatti per il lungo cammino che avrebbe dovuto affrontare. Ma li indossò comunque, sapendo di non avere alternative. La tunica, blu scuro, terminava con un ricamo a quadretti e spirali in oro e rosso. Sotto di essa si potevano vedere solo di sfuggita i pantaloni rosso cupo, rivestiti all’interno dal morbido pelo di qualche animale a cui Kevihang fu grato. Anche gli stivali erano imbottiti allo stesso modo. Sopra a tutto indossò un mantello, dello stesso colore dei pantaloni, che terminava, lungo tutto il bordo, con piccole piume verde scuro. Si agganciava al petto con una piccola spilla quadrata, oro e verde acqua. Anche questo era decorato con motivi geometrici dorati e si stringeva attorno al suo collo con un piccolo ricciolo arancio.

Uscì dalla sua camera, tutta nera e rossa, parecchio disordinata, e vide che sua sorella Marinditi-ya era già pronta e lo aspettava. Era divenuta davvero una bellissima donna. I capelli, color del grano maturo e ricci come i vitigni dell’uva, li aveva raccolti ma molti di loro continuavano comunque ad agitarsi indipendenti, mossi dal vento. Gli occhi, della tonalità del miele più dolce, erano grandi come un tempo ma molto più sensuali ed attraenti. Il lungo abito verde ed il mantello come la sabbia, per quanto la avvolgessero, non riuscivano a celare le sue forme, prosperose e ricche della fertilità della terra.

“Avanti, Kevihang! Non vorrai fare tardi!” parlò lei, con un grande sorriso sulle sue labbra carnose.

“Certo che no!” esclamò lui, risvegliandosi dal momentaneo torpore celebrale che gli aveva provocato la visione della sorella.

Assieme si avviarono verso la piazza, dove tutto il villaggio si era riunito. Kevihang capì subito che i due draghi, legati al centro di essa, stavano aspettando loro. La folla si allargò, lasciandoli passare. Ora era sceso il silenzio. Valek-hiteia, madre di entrambi, li guardò con tenerezza.

“Ecco…è giunto anche il vostro momento” disse, seduta su una sorta di trono decorato poggiato su un piano rialzato, l’ultimo spiazzo in cima ad una lunga scalinata in pietra.

Dietro di lei si poteva scorgere l’ingresso del palazzo principale del villaggio, con la sua alta torre di sorveglianza. Alla sua sinistra Rikarathör, suo figlio maggiore, guardava i due esaminandi con uno strano sguardo, misto di preoccupazione ed orgoglio. Kevihang gli sorrise, ricordando la prima volta in cui si erano visti. Erano cambiate molte cose, erano entrambi cresciuti, ed ora si sentiva un po’ in suggestione a vederlo lassù, che lo guardava, con quello sguardo da padre che vuole dare una piccola spinta al figlio perché lasci il nido ma non è sicuro che sia la cosa migliore da fare. Si fecero un cenno col capo, l’uno con l’altro. Nessuno parlava e tutti guardavano Valek-hiteia, che in tutti quegli anni non era cambiata minimamente. Era solo stanca, un po’ più stanca di un tempo.

Inaspettatamente, fu Enrikiran, con i capelli corti ritti sulla testa come punte di ghiaccio e gli occhi altrettanto gelidi, ad avanzare per primo verso i due ragazzi e parlare. Si era confuso fra la folla, pur spiccando leggermente per via della sua altezza. Stringeva fra le mani due fagotti, legati da un nastro arancio che sciolse. Poi ne diede uno ciascuno a Kevihang ed a Marinditi-ya. La stoffa scura avvolgeva due spade trasparenti.

“Queste vi serviranno” affermò, con orgoglio.

Le due armi erano, evidentemente, state create e forgiate da lui, controllore dell’acqua e del ghiaccio, e brillavano nonostante la scarsa luce dovuta al cattivo tempo.

“Non curatevi del fatto che sono fatte di ghiaccio…” rassicurò i due “…sono infrangibili ed impossibili da sciogliere. Ci ho lavorato a lungo. Sono il mio regalo per voi, fratellino e sorellina, per permettervi di affrontare al meglio questa prova e…guardate!” esclamò, agitandole in aria “Se vengono mosse in un particolare modo, emettono un suono, una musica, che vi aiuterà con le sue vibrazioni ad affrontare ogni ostacolo!”.

“Grazie…” mormorò Marinditi-ya, mentre Kevihang prendeva la propria spada fra le mani e la provava, visibilmente soddisfatto.

“Buona fortuna” rispose Enrikiran, e guardò sua madre.

Lei annuì ed il suo viso si illuminò.

“Siete pronti a partire? Vi ricordo che ognuno di voi due dovrà affrontare la prova in modo indipendente, non è previsto che vi aiutiate in nessun modo. Raggiungete la foresta dei cristalli, nella valle del Kaos, prendete quello che più vi sembra adatto a voi e portatelo qui, senza toccarlo. Avvolgetelo in un telo, che troverete nella borsa che porta al fianco il vostro drago, e portatelo da me. Solo in presenza di tutti quanti noi potrete stringerlo fra le mani e dimostrare che la vostra prova è superata. Ci sono domande?”.

“Come raggiungeremo la foresta? Non sappiamo la strada…”.

“A questo non devi pensare…” la madre guardò il figlio maggiore, che scese dalla scalinata di pietra in silenzio e fra lo stupore generale.

Di solito era Valek-hiteia che svolgeva quel compito. Ma, del resto, era già strano che fosse in cima alla scalinata accanto a lei…

“Pronta, figlia dell’Estate?” parlò il fratello maggiore, rivolto a Marinditi-ya.

Lei annuì, non sapendo che altro fare.

“Prendi la mia mano allora”.

Fratello e sorella si presero per mano e lei ebbe un tremito. Un calore inaspettato l’aveva travolta ed ora lo sentiva pulsare, come il suo cuore, sul palmo. Da esso vide sprigionarsi una fiamma, una piccola sferetta di luce, che rimase sospesa a mezz’aria.

“Questa sarà la tua guida ed il tuo calore là fuori. Seguila e torna da noi, una volta completato il tuo compito. Seguila e torna da me, sorellina. Buona fortuna”.

Lei lo abbracciò, mentre la sferetta le ruotava attorno. Rikarathör si rivolse poi a Kevihang, stringendogli la mano e tirandolo verso di sé, in modo che altri non sentissero le sue parole.

“Ricordati quello che ti ho detto: Marinditi-ya non si tocca! Non mi interessa se, di sangue, non avete legami. Tocca la mia sorellina e sei morto!”.

“Ho capito, capellone!” rispose Kevihang, ridacchiando e prendendo in giro il fatto che, da quando era arrivato al villaggio, Rikarathör si era fatto crescere i capelli, che avevano acquisito una strana colorazione rossastra verso la fine.

“Buona fortuna anche a te, figlio dei morti, e torna presto” salutò, infine, il maggiore.

Kevihang e Marinditi-ya salirono sul proprio drago, tesi ma determinati. Alzarono entrambi il cappuccio e coprirono il viso dal freddo, pronti a partire. Individuarono fra la folla dei volti familiari che non rivedevano da tempo. La ragazza vide suo padre, Dio dell’Estate, presente nonostante la debolezza ed il gelo, ed il ragazzo vide Kuetzalikay, sorridente come non lo aveva mai visto prima, salutare con la mano verdastra. Poi c’era il Dio dell’Inverno, che si congratulava con il figlio per la splendida fattura delle spade che aveva donato ai due giovani. Anche Urihel, Dio del Cielo, era venuto ad assistere alla prova e sembrava di buon umore.

“Loreatehenzi!” urlò Rikarathör, alzando lo sguardo e toccando il suo sigillo, cercando di non pensare alla sua prova dei cristalli, l’ultima volta in cui aveva visto suo padre.

Il figlio del Dio del Cielo era là, sulla cima della torre, avvolto da un turbine di vento che lo faceva librare a mezz’aria senza sforzo, ed osservava la scena. I due fratelli si guardarono e, contemporaneamente, si mossero. Loreatehenzi spalancò le braccia ed incanalò l’aria attorno ai due draghi, mentre i suoi capelli, che mutavano colore seguendo le tonalità del cielo, si attorcigliarono come un tornado. Rikarathör mise le mani a coppa e chiuse gli occhi. Su di esse si formò una piccola stella molto luminosa. La prese delicatamente con la mano destra e soffio su di lei, dirigendola verso i due draghi. In un vorticare di luci e vento, i due animali si alzarono in volo.

“Il vento vi guiderà e vi darà tregua, la mia piccola stella illuminerà il vostro cammino fino a quando ci sarà concesso, fino ai confini con il regno del Kaos. Oltre quel confine non sarà possibile per noi aiutarvi e dovrete cavarvela da soli. Non avrete più il vento mitigato e la stella che vi scalda, ma con voi ci sarà la vostra spada e la luce che nasce dalla vostra mano e che vi riporterà qui. Buona fortuna, di nuovo, e…non fate cretinate!” parlò Rikarathör, sorridendo con l’ultima frase.

Loreatehenzi alzò la mano ed i draghi si sollevarono da terra, preceduti dalla stella, e sparirono velocemente fra le nubi che tornarono ad addensarsi.

Kevihang aveva passato anni ad addestrarsi per imparare a guidare quei draghi lungo le nubi e fra i venti gelidi del pianeta, ma fin ora non si era mai allontanato dai pressi del villaggio. L’animale volava veloce e lui si guardò indietro, cercando con gli occhi la sorella. Sapeva che non si potevano aiutare, ma nulla gli vietava di fare il percorso fino alla foresta dei cristalli con lei. Insieme sorvolarono pianure deserte e aride, coperte di ghiaccio, tempeste di neve e vento che respingevano le creature che li stavano trasportando. Diverse volte rischiarono di cadere, con il gelo che tagliava ogni lembo di pelle che veniva scoperto con il freddo. Impiegarono diversi giorni per giungere in prossimità della foresta dei cristalli. Nel momento stesso in cui entrarono nel territorio del Kaos, come predetto da Rikarathör, il vento cominciò a soffiare più forte e la luce che li guidava scomparve. Fortunatamente i cristalli brillavano molto intensamente e permettevano la loro individuazione da molto lontano. Però il freddo si faceva sempre più pungente e fastidioso man mano che si avvicinavano.

“Sbrighiamoci a trovare il cristallo e torniamo a casa!” gridò alla sorella, cercando di sovrastare il sibilo del vento ed il ringhio del drago che non vedeva l’ora di rientrare.

Marinditi-ya annuì, spronando la sua cavalcatura a scendere di quota per atterrare. Scesero assieme, l’uno accanto all’altro, assicurando i draghi a due rocce acuminate in modo da poterli ritrovare con relativa facilità.

“Buona fortuna” le disse Kevihang, prendendo fra le mani lo straccio con cui doveva avvolgere il suo cristallo, allontanandosi da lei.

Non voleva di certo interferire con la ricerca di Marinditi-ya per poi sentirsi dire che l’aveva aiutata! I due si separarono ed iniziarono a camminare, circondati da altissimi cristalli colorati e lucenti. Li superavano in altezza di diversi metri poiché, del resto, quei cristalli un tempo erano gli alberi di un’antica foresta. Kevihang camminò su un pavimento di cristalli appuntiti, attento a non ferirsi. Sarebbe stato un problema rientrare sanguinando, data la difficoltà del viaggio. Passò parecchie ore fra quei cristalli, alla ricerca di quello che avrebbe portato con sé, ma nessuno gli sembrava adatto. Ormai il sole stava per tramontare e le tenebre iniziavano a calare, ma il ragazzo non voleva demordere. La luce del primo satellite, uno spicchio nel cielo, lo aiutò a compiere la sua scelta. Un cristallo, infatti, gli sembrò risplendere più degli altri e gli piacque subito. Senza più esitare, si avvicinò e lo avvolse nello straccio di velluto, con delicatezza. Soddisfatto, iniziò a ritornare verso il drago, ansioso di tornare a casa. Però un ringhio violento lo fece voltare. Non proveniva da una delle due bestie che avevano condotto i fratelli fino a quel luogo. Una creatura enorme, proprietà del Kaos, era stata mandata fino a lì dalla sua padrona per scacciare gli intrusi senza che questi portassero via preziosi cristalli.

Kevihang, senza pensarci, sguainò la spada di ghiaccio, che emise una lunga nota vibrante. La creatura nemica rimase sconcertata, per un attimo, in seguito a quel suono, ma poi attaccò convinta, spalancando le fauci irte di denti e punte. Con le sue sei zampe, che si muovevano ognuna in modo sconnesso dalle altre, caricò il ragazzo che la attese, senza paura, con la spada fra le mani.

 Non ci mise molto a sconfiggere la bestia, conficcandole la spada nel petto, ma sapeva che la Dea del Kaos non poteva aver inviato solo quella creatura ad attaccarli e quindi decise che era meglio risalire sul drago ed allontanarsi. Corse verso la sua cavalcatura, inseguito, come temeva, da diverse bestie ostili molto più grosse di quella che aveva appena sconfitto. Fece un balzo, fra un alto cristallo ed un altro, aiutandosi con la coda, e per poco non cadde a causa dello spostamento d’aria provocato dalle ali dei suoi nemici.

“Marinditi-ya!! Dove sei?” urlò, chiamando la sorella, allarmato perché non la vedeva e temeva che si potesse fare del male.

La creatura più grossa alle sue spalle spalancò l’enorme bocca e soffiò un misto di fiamme, schegge di pietra e ghiaccio, che investì in parte Kevihang, il quale prontamente si era accovacciato dietro un cristallo incastrato di piatto, che lo coprì. Affrontò con coraggio anche quella belva, decapitandola, e riuscì ad intravedere il suo drago. Con un altro balzo gli giunse vicino e, dopo un ultimo fendente al nemico per farlo allontanare il necessario, si alzò in volo in groppa alla sua cavalcatura. Con sollievo, vide la sorella seguirlo poco dopo.

“Andiamo via, sorellina!”.

“Veloci come il vento, fratellino!”.

Volarono, velocissimi, fianco a fianco per un tratto, con sempre le bestie nemiche alle spalle. Davanti a loro non riuscivano a vedere nulla, dato che il Kaos aveva fatto alzare una fitta nebbia nera. Seguivano la luce che avevano sul palmo della mano per sapere che direzione prendere. Il vento li respingeva ed i due ragazzi speravano di lasciare presto il territorio della Dea ostile.

“Sorellina, attenta!” gridò Kevihang, vedendo alle spalle di Marinditi-ya l’ombra di un animale nemico pronto ad attaccare.

Lei virò, prontamente, ma l’artiglio della bestia la fece sbandare, ferendo il drago. Kevihang, disobbedendo all’ordine di non doverla aiutare, fece invertire la corsa alla sua cavalcatura e si diresse verso la sorellina, porgendole la mano. Il drago di lei stava precipitando, ferito al fianco, e non c’era modo di farlo volare di nuovo. Fratello e sorella si presero per mano e Marinditi-ya si aggrappò al fratello. Al solo contatto dei loro palmi, le luci che ci stavano sopra scintillarono e bruciarono, facendo fare una smorfia ai due giovani.

“Kevihang! Davanti a noi!” gridò lei, dato che una creatura enorme bloccava loro la strada.

“Non mi fai paura, bestione! Non farai del male alla mia sorellina!”.

Il ragazzo affrontò l’animale con rabbia, roteando la spada. Anche la ragazza sguainò la sua arma, colpendo altre bestie che li stavano circondando. Kevihang, resosi conto della situazione, tentò di prendere quota, ma non avevano via d’uscita. Si fece strada a colpi di fendenti, con sempre più forza, lasciando alle sue spalle numerosi cadaveri. Si accorse, però, che più ne uccideva e più ne giungevano.

“Guarda, Kevy! Seguono tutti la bestia più grossa” gli fece notare la sorella “Se uccidiamo quella, probabilmente si disperderanno!”.

Senza farselo ripetere, il ragazzo si scagliò contro la creatura di dimensioni maggiori.

“Tieniti forte, sorellina. La farò a pezzi!” ringhiò Kevihang, con gli occhi aranciati che emettevano piccole scintille, che spaventarono un poco la giovane semidea della terra, che però lo strinse a sé più forte per farsi trasmettere il suo coraggio.

Il ragazzo gridò, puntando la spada verso il nemico, ed il suo potere si aggiunse alla già efficiente arma di ghiaccio. Senza averne la consapevolezza, Kevihang trasmise la sua magia alla lama che si tinse di nero. Dopodiché, il giovane la mosse rapidamente e dall’arma si separò un’onda oscura carica di magia ed elettricità. Il nemico, colpito in pieno, gemette e precipitò al suolo.

“Allontaniamoci velocemente adesso, sorella, prima che si riprenda”.

“Va bene ma…cosa hai fatto?”.

“L’ho sconfitta, quella brutta bestia…”.

“Sì, ma come?”.

“Non importa! L’ho sconfitta, non ti basta?”.

Con sollievo, videro ricomparire davanti a loro la stella di luce assieme al vento mitigato e si resero conto di essere salvi, fuori dal territorio del Kaos.

“Spero non ci siano conseguenze. Insomma…ti ho aiutato…” si preoccupò lui.

“Vedrai che andrà tutto bene” rispose lei ed insieme rientrarono di nuovo al villaggio.

 

Ed ora erano lì, fianco a fianco, al centro della piazza, in attesa del verdetto. Molti li avevano sgridati dato che si erano aiutati a vicenda ma i due ragazzi ignorarono la cosa, troppo nervosi per pensare ad altro se non al fatto che presto avrebbero avuto il loro cristallo.

Per prima toccò a Marinditi-ya, che fu chiamata dalla madre ad andarle vicino. La ragazza esitò, un attimo, ma poi avanzò ed allungò le mani, mentre la madre le porgeva il cristallo.

“Ne hai scelto uno molto bello, figlia dell’Estate, ora vediamo quanto bello diverrà grazie alla tua magia ed a ciò che saprà trasmettergli il tuo cuore”.

Marinditi-ya osservò il suo cristallo e lo sciolse dal suo involucro di stoffa. Lo prese delicatamente fra le mani e chiuse gli occhi. Una dolce sensazione di calore si trasferì lungo tutto il suo corpo e lei sorrise, mentre la pietra assumeva un nuovo colore. Passò dal trasparente originale ad un bel color cioccolato, pieno di sfumature ramate. Il suo sigillo reagì con il cristallo e si staccò, liberandole il collo e lasciando che il suo potere si manifestasse pienamente. I capelli si sciolsero e si riempirono di profumi di fiori e di frutti, la sua pelle si scurì leggermente come la terra, mostrando i disegni di foglie e piante verdi, e sotto di lei crebbe un piccolo cerchio d’erbetta fresca: la prova era superata. Ora quel cristallo sarebbe stato trasformato in un gioiello e lo avrebbe portato sempre con sé, come prova della sua maturità e della sua forza.

“Ora tocca a te, Kevihang” parlò Valek-hiteia, porgendo il fagottino con il cristallo al ragazzo.

A fianco della donna stava Rikarathör, che non nascondeva la sua preoccupazione. Ricordava quel giorno nella serra, quando l’albero della vita era morto.

Il giovane esaminato prese fra le mani la pietra, anch’essa giudicata valida e senza imperfezioni, e prese un profondo respiro. Poi chiuse gli occhi e lasciò che questa prendesse il suo colore. Non avvertì sensazioni piacevoli ma di fastidio e tristezza, come di qualcosa di imprigionato dentro di sé che voleva uscire e che non aveva mai avuto la possibilità di farlo. Si rivide da piccolo ed era solo, abbandonato, avvolto dal buio. Il sigillo si spezzò, rompendosi di netto in due. La sua pelle bruciava, mentre su di essa apparivano, netti e marcati, i disegni a filo spinato o a gambo di rosa che lo avevano sempre accompagnato. Ma ora non erano solo accennati, erano neri come il cielo di notte e ne ricoprivano le braccia ed il petto, parti del suo corpo scoperte perché le sue vesti erano state dilaniate. Dilaniate da cosa? Si chiese il ragazzo, ed alzò gli occhi. Ali! Due immense ali blu si erano aperte sulla sua schiena, squarciando i vestiti e coprendo i pochi raggi di Sole che gli giungevano sulla pelle. Respirò a fatica, lentamente, non riuscendo a capacitarsi del fatto che fossero sue. Poi abbassò lo sguardo, e guardò la sua pietra: era nera, come il buio che lo avvolgeva nelle immagini che aveva appena visto. D’istinto, la gettò in terra avvertendo che aveva qualcosa che non andava. Ora anche la sua pelle era avvolta da una nube nera e non sapeva come liberarsene. Si scosse ed agitò le ali, disseminando piume blu fra i presenti, non abituato a tutta quella magia ed a quel potere nelle vene. Era libero! Libero da sigilli ed impedimenti. E questo, nonostante lo stupore iniziale, lo fece sorridere. Ma il suo non era un sorriso, era un ghigno malvagio, con i denti a punta che si erano ingranditi così come le corna scure. Solo in quell’istante si accorse che tutti, attorno a lui, lo guardavano allarmati.

“Stai fermo, Kevihang!” stava tentando di ordinargli Rikarathör, avvicinandosi lentamente “Stai fermo! La vedi quella luce nera attorno a te? Non è normale, è meglio che ti rimetta il sigillo”.

“No! Non lo rivoglio il mio sigillo!”.

“È per il tuo bene, Kevy! Non ti fidi di me?”.

“Non è che ti sei accorto che sono molto più forte di te e non vuoi che lo sia?” azzardò il ragazzo, e, in effetti, la sua energia superava di molto quella della maggior parte dei presenti.

“Kevihang…non costringermi ad usare le maniere forti! Torna a farti mettere il sigillo”.

“Mai. Ora ho capito. La mia natura non è adatta nemmeno a questo posto e voi stessi lo vedete e non mi accettate. Avete sempre avuto paura di me, fin dal giorno in cui ho ucciso uno degli alberi di Heket, e mi volete sottomettere! Ma non ci riuscirete! Il mio posto non è qui!”.

“Fratellino, mio allievo, ti prego di non essere avventato. Io sto cercando di aiutarti!”.

“Forse tu, Rikarathör, ma non di certo questi qui” rispose, indicando un gruppetto di abitanti del villaggio che lo guardavano spaventati e desiderosi di vederlo andar via.

“Non ti curar di loro e vieni qui. Io posso aiutarti”.

“A fare cosa?”.

“A controllare il tuo potere ed a scoprire chi sei”.

“Non mi serve il tuo aiuto per questo, anche perché, per cercare di aiutarmi, tenteresti di cambiarmi in ogni modo per renderti più semplice l’insegnamento e la sopportazione della mia persona, come hai fatto fin ora. Mi spiace. Rikarathör, Valek-hiteia, Enrikiran, Loreatehenzi, Marinditi-ya…tutti voi siete stati una famiglia magnifica ma…non siete la mia vera famiglia. È ora che lasci questo nido, che mi ha cresciuto ed aiutato fino ad adesso, e trovi le risposte che cerco da una vita. Vi ringrazio, di cuore, e spero di rivedervi ma…ora è tempo che vada!”.

Aprì le ali e si sollevò da terra, fra lo stupore e lo sconcerto iniziale.

“No, aspetta! Kevihang! Torna qui!” urlò Rikarathör, ma non riuscì a fermarlo.

Il giovane, riprendendo fra le mani la sua pietra nera, scomparve fra le nuvole senza guardarsi indietro ed al suo maestro rimase soltanto qualche piuma blu fra le mani. Era successo tutto troppo in fretta e non poteva crederci. Prese quella piuma fra le dita e, chiudendo gli occhi, sperò che il suo piccolo protetto potesse trovare le risposte che cercava, senza farsi sconfiggere dal crudele e spietato mondo esterno.

“Spero di averti preparato per questo, Kevihang” mormorò, e tornò nella serra dove aveva modo di riflettere da solo.

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Capitolo 12
*** XII- sigillo d'amore ***


 XII

SIGILLO D’AMORE

 

“E così…lo hai lasciato andare”.

“Esatto. Non ho potuto fare niente. Non sono riuscito a fermarlo”.

“E questo ti fa sentire in colpa?”.

Rikarathör non rispose subito. Guardava il cielo, pieno di stelle, seduto a gambe incrociate su un grosso sasso piatto, mentre lei, la Luna, lo guardava stesa a terra.

“Peccato che sia andato via” ricominciò a parlare la Dea dei Satelliti “Mi stava simpatico quel ragazzino. E sono sicura che non ha mai mostrato a nessuno le sue reali capacità”.

“Vuoi farmi ingelosire?”.

“Senti, senti…quello che è sempre abbracciato alla sua sorellina!”.

“Beh…dai…non puoi essere gelosa di lei! È la mia sorellina!”.

“Anche tu sei il mio fratellino. Che problema c’è?”.

“Ma abbiamo 15 anni di differenza!”.

“Io sono nata prima di Destino e Kaos. Fai i conti di quanti anni ho…”

“E va bene! Mi arrendo! Hai ragione tu! Comunque sta tranquilla. Io non ho occhi che per te! Ci tengo molto alla mia sorellina, ma da fratello maggiore! Non potrei mai vederla in un altro modo”.

La Dea non sembrava convinta. Ma alla fine sorrise, assumendo un’espressione estremamente dolce grazie ai suoi grandi occhi luminosi.

“Povero il mio Rik…che ha buttato la gioventù per star dietro ad una chimera che porta il mio nome” disse, incrociando le braccia dietro la nuca.

“In che senso?” chiese lui, inclinando la testa.

“Guardati! Non sei più un ragazzino! Sei cresciuto, a differenza di me. Sei…invecchiato!”.

“Non sono vecchio!”.

“No. Ma avresti potuto vivere la tua vita in modo diverso, ed è da anni che te lo dico”.

“Non vuoi che stia con te?”.

“Certo che lo voglio, però…io sono una Dea e resterò così, giovane ed immutata, ancora a lungo. Tu no. E cosa penserai quando, una volta vecchio, ti vedrai circondato dai figli e dai nipoti dei tuoi fratelli e tu sarai solo?”.

“Non sarò solo. Avrò te”.

“E questo ti basterà?”.

“Per l’eternità” sussurrò lui, provando ad andarle vicino.

Sapeva bene che il suo sigillo lo avrebbe bloccato, trasmettendogli quella fastidiosissima scossa, ma ogni volta non riusciva a resistere al desiderio di starle accanto.

“Un giorno, vergine Luna, avrò il tuo bacio!” mormorò, guardandola negli occhi.

Aveva una gran voglia di lasciarsi andare, di rilassare le braccia che lo sostenevano ed appoggiarsi su di lei, facendosi avvolgere da un abbraccio e da un bacio a lungo desiderato. Sospirò, sedendosi, questa volta, con la schiena contro la pietra sopra la quale prima stava seduto.

“Non è destino, Rik. Forse…nella prossima vita…”.

“Macché destino!! Sai bene chi mi ha messo questo sigillo!”.

“Certo. Ricordo ogni istante. Ricordo la prima volta in cui ci siamo visti e…non voglio dimenticarlo mai! E tu…lo ricordi?”.

Anche lei era seduta ora ed i due si guardavano, sorridendo. Le loro mani erano molto vicine e le loro aure si mescolavano con piccole scintille di magia.

“E come potrei dimenticarlo?” rispose Rikarathör, mentre con la mente tornava a quel giorno.

 

Aveva nove anni. Ricordava i sogni agitati di quella notte. Lui bruciava e nessuno lo aiutava. Faceva caldo, tanto caldo, e le fiamme erano sempre più alte. Una mano. Una mano lo aveva afferrato saldamente per il braccio destro, alimentando il calore.

“Mamma!”.

Si era svegliato sudato e spaventato, con quella sensazione di bruciore al braccio destro. Toccandolo lo sentì caldo al tatto e lo guardò. Una lingua di fuoco vi era ora disegnata sopra, come un tatuaggio, ed emetteva calore. Rikarathör, stupito quanto allarmato, era corso dalla madre che lo aveva guardato con tenerezza e lo aveva riassicurato.

C’era un uomo quella mattina seduto al tavolo con la famiglia. Ed una ragazza. L’uomo, avvolto in un pesante mantello rosso, guardò il piccolo Rikarathör con un grande sorriso. Ed il bambino, guardandolo negli occhi, capì chi fosse e rispose al sorriso.

“Papà!” disse, mentre il Dio del Sole si alzava e gli andava vicino.

Rikarathör ricordava l’abbraccio che gli aveva dato subito dopo suo padre ed il calore che aveva provato. Poi aveva alzato lo sguardo ed aveva visto la ragazza. Era bellissima. Lo colpì con quegli occhi e quel viso, quel sorriso e quella pelle chiara, e lui, subito, non riuscì a capire ed elaborare quella sensazione che provò dentro appena incrociò il suo sguardo.

“Quella ragazza…era la sua fidanzata?” aveva chiesto poi a sua madre, una volta che i due se ne furono andati, e lei si era messa a ridere.

“Ma no, sciocchino! Non hai visto quanto è più giovane di lui?!” gli aveva risposto.

Ricordava che da quel giorno si era impegnato a fondo per essere degno del nome di suo padre. Lui gli aveva fatto una promessa. Gli aveva detto che, una volta cresciuto e superato la prova dei cristalli, sarebbe stato un valido aiuto e che perciò sarebbe dovuto essere pronto per il giorno in cui il padre non avrebbe più voluto splendere nel cielo. Rikarathör ci credeva. Aveva visto, con gli anni, i genitori dei suoi fratelli che facevano la stessa promessa ai loro figli e li aiutavano a gestire i loro elementi. Non sapeva se sarebbe mai stato in grado di prendere il posto del padre, ma sperava di poter risultare utile, un giorno, con il proprio potere. E poi c’era quella ragazza…

L’aveva rivista tre anni dopo. Lui era sul lago assieme ai suoi due fratelli. Giocavano, tirandosi palle di neve, sicuri che lo spesso strato di ghiaccio che ricopriva l’acqua li avrebbe retti. Ed era così, perché saltavano e si divertivano senza nemmeno incrinarne la superficie. Rikarathör rideva, dopo aver colpito in piena faccia uno dei bambini che giocava con il trio dei fratelli, quando vide lei sul bordo del lago. Lo guardava e sorrideva. Lui, mosso da sbalzi ormonali adolescenziali e da manie di grandezza, gonfiò il petto per sembrare più grosso e grande. Non si accorse che, sotto i suoi piedi, il suo elemento stava avendo il sopravvento e stava sciogliendo il ghiaccio. In pochi secondi si ritrovò a mollo nel lago, con uno “splash” ed un gridolino di sorpresa. Quando riemerse, sputacchiando acqua gelida, trovò sua madre ad attenderlo, con un’aria di rimprovero. Era stato messo in punizione e lei era sparita, inutile dire quanto si sentisse frustrato. Quella notte pioveva ed era molto buio ma lui uscì dalla finestra, illuminando la strada con la, al tempo, tenue luce aranciata che emetteva la sua pelle. Camminava con le mani in tasca, calciando i sassi, quando sentì una voce provenire da un punto imprecisato del buio.

“Così ti prenderai un malanno!” si sentì dire.

“Chiunque tu sia…ho già una madre che me ne dice fin troppe di queste cose, perciò fatti gli affari tuoi e lasciami in pace, non sono in vena!”.

“Oh…ok…come vuoi…” e solo allora vide lei, la ragazza, sorridente, che si copriva con un piccolo ombrellino argento, come d’argento erano i suoi capelli e le sue vesti.

Lui rimase in silenzio, non sapendo che cosa dire né in che modo scusarsi.

“Ti ho visto al lago” parlò lei, e lui ruotò gli occhi.

“Vuoi prendermi anche tu in giro? Fai pure…l’han fatto tutti oggi…”.

Rikarathör si aspettava di sentirla ridere, ma lei non lo fece. Inaspettatamente si avvicinò e gli porse la mano, bianca ed affusolata.

“Io sono Selene” si presentò.

“Rikarathör” rispose lui, balbettando leggermente.

“Emetti calore, come il Dio del Fuoco” gli disse, appoggiando le mani sulle spalle di lui.

“L’ho…l’ho…l’ho sempre fatto!” riuscì a dire il ragazzino, a fatica.

Quanti anni può avere? Si chiedeva Rikarathör. Era una Dea…poteva averne anche qualche migliaio, ma ai suoi occhi non ne aveva più di venti.

“Mi piace il potere che hai, Rik, ma adesso è davvero meglio che rientri. Non vorrei saperti ammalato”.

“Io non mi ammalo tanto facilmente. Sono forte!”.

“Non ne dubito…”.

“Ora te ne andrai. Quando tornerai?” chiese lui.

“Non dipende da me. Ma tornerò. E sono sicuro che sarai divenuto ancora più grande e forte!”.

E con quelle parole si erano separati, per quella notte. E quella notte aveva aumentato notevolmente l’impegno con cui Rikarathör svolgeva i suoi esercizi. Voleva essere in grado di dimostrarle che, anche se era un Semidio, era all’altezza di portare i geni del Dio del Sole.

Per gli Dèi gli anni passano in fretta, e perciò lei si stupì molto quando, quattro anni dopo, tornò al villaggio e si ritrovò davanti un ragazzo e non il bambino dodicenne che aveva salutato sotto la pioggia. Era giunta con il sorgere della prima Luna ed aveva chiesto ad una delle abitanti, incrociata per strada, se poteva dirle dove stava il figlio del Sole. Le era stata indicata la serra e lei ci era andata, con il sorriso sulle labbra, convinta di trovarci un bambino, o poco più, che giocava.

Appena entrò avvertì subito un gran calore e ne rimase deliziata. Da tanto non provava una sensazione simile. E rimase meravigliata quando vide che, al centro della serra, c’era Rikarathör con accanto il Dio dell’Estate che gli dava istruzioni ed ordini.

“Devi concentrarti. Il tuo calore e la tua luce devono essere uniformi ed equilibrati o finirai per dare fuoco a qualche albero!” gli diceva “Sei troppo irruento! Calmati!”.

Rikarathör, ad occhi chiusi, tentava di controllare i suoi poteri, respirando a fondo. Quando li riaprì vide lei. Rimase immobile, guardandola.

“Bravo! Così si fa! Era difficile?” si complimentò il Dio, suo maestro.

Guardandola era in grado di trasmettere il calore ed il potere necessario.

“Benvenuta fra di noi, Dea della Luna” la salutò il Dio dell’Estate che poi, guardando l’espressione del suo allievo, aggiunse: “Vi lascio soli. Continua così, Rikarathör. Sei sulla strada giusta”.

Il Dio uscì ed i due rimasero da soli. Lui si rimise la camicia, pur sentendo un gran caldo, e lei si mise a guardare, ammirata, i bellissimi fiori dell’albero di Heket.

“Ne vuoi uno?” azzardò il ragazzo, con la sua voce altalenante a causa dello sviluppo che gliela stava cambiando, arrampicandosi per coglierne il più grande e colorato.

“Grazie” disse lei, infilandoselo fra i capelli.

Per ringraziarlo gli diede un piccolo bacio, sulla guancia, che Rikarathör non si aspettava minimamente e che lo fece arrossire. Lì, sulla pelle sfiorata dalle labbra della Luna, apparve una piccola fiamma simile a quelle che aveva sulle braccia e sulle spalle.

“Sei cresciuto, Rikarathör…” commentò lei, mentre lui continuava a fissarla ad occhi spalancati.

La Dea allora scoppiò a ridere per la strana espressione di lui e lo invitò a sedersi accanto a lei, sotto uno di quei bellissimi alberi. Lui, titubante, obbedì ma, appena si calmò un po’, sentì una voce familiare chiamarlo per nome da un punto imprecisato.

“Devo andare” disse, con riluttanza “Mia madre mi chiama e, adesso che la mia sorellina inizia a mettere i denti, devo andare ad aiutarla prima che si innervosisca. Scusami…”.

“Anch’io andrei da mamma, se potessi. Ma io non ho una mamma perciò…vai!”.

“Ci rivedremo presto, vero?”.

“Non te lo posso promettere. Ma ci terrei a rivederti perciò…prima o poi accadrà!”.

Si separarono, ognuno con qualcosa in più, chi un fiore e chi una fiamma sul viso, desiderosi più che mai di rivedersi, ma per la Dea il tempo aveva una valenza così diversa rispetto alla vita del mortale che non si accorse di quanto in fretta scorressero gli anni.

Si ritrovarono il giorno della prova dei cristalli di Rikarathör. Lei rimase sconcertata, vedendolo. Quanto rapidamente scorreva la vita per quelle creature, anche se in parte divine! Lui era vicino al lago, che aveva sghiacciato con i suoi poteri, e si stava esercitando per concentrare la mente in qualcosa che non fosse per forza la prova finale. La sua sorellina, Marinditi-ya, che al tempo aveva quasi quattro anni, sedeva sotto quel che rimaneva di un albero rinsecchito e lo guardava, muovendo le manine con stupore ed ammirazione quando il suo fratellone “giocava” con le fiamme. Lui rispondeva ai suoi sorrisi, a volte, e continuava con i suoi esercizi. Prese un profondo respiro, congiunse le mani, e concentrò le sue energie contro il tronco morto di un altro albero. Questi, dai secoli e dal gelo, era divenuto duro come la pietra e l’impatto non fu quello che Rikarathör si aspettava. L’albero si disintegrò in pezzi, andandogli a colpire, con qualche frammento, le mani.

“Attento, fratellone! Non farti male proprio oggi. Le mani ti servono ed io non posso prestarti le mie, questo è sicuro!”.

A parlare era stato Loreatehenzi, arrampicato sullo stesso albero sotto cui sedeva la sorellina. Interamente vestito di nero, con una lunga catena pendente dalla cintura, rideva ed interferiva con gli esercizi del fratello maggiore spostando il vento a suo comando. Lo aveva sempre fatto e per Rikarathör era sempre stato un ottimo esercizio.

“Lo ammetto. Ho voluto strafare” riconobbe il figlio del Sole.

“Come sempre! O troppo o niente!” ridacchiò Loreatehenzi.

“Vedi di non esagerare!” ribatté l’altro, lanciandogli una piccola fiammata che, però, volutamente non lo toccò “Era solo un avvertimento” rise.

“Ma guarda questo…e tu saresti il fratello grande e pronto ad affrontare la prova di maturità?! Ma va là! Tu non crescerai mai !”.

“Scendi dal trespolo, implume, e vieni qui che ti mostro quanto sono maturo!”.

I due, ovviamente, si divertivano e non prendevano le cose molto sul serio. Loreatehenzi scese dal ramo che lo sosteneva e rimase sospeso, a mezz’aria, di fronte al fratello che stava attento a non colpirlo in modo pesante. Non per evitare di ferirlo, sapeva che la madre lo avrebbe curato subito, ma per non percepire la scossa del suo sigillo che gli impediva di usare a pieno le sue capacità.

L’uno volando e l’altro lanciando piccole fiamme, si affrontavano in un gioco che avevano sempre fatto, fin da bambini. Consapevoli del fatto che Valek-hiteia li avrebbe presi a scappellotti entrambi se scoperti a cercare di colpirsi a vicenda.

La Luna rise nel vederli e si fece scoprire. Subito si fermarono.

“Selene…” le disse Rikarathör, dopo che lei lo ebbe salutato con la mano, stupito nel vederla.

Ma ancora più stupito di lui era suo fratello. Guardava prima lei e poi lui ad occhi spalancati: “Wow. Rik…conosci una bella donna che non sia la mamma e che ti saluta pure. Sono decisamente spiazzato dalla cosa. Non lo avrei mai immaginato possibile!”.

Rikarathör, di risposta, gli mise una mano sulla testa e spinse, trasmettendo il calore del fuoco e chinandogli il capo.

“Ok, va bene! Così mi fai male, lasciami!” sghignazzò Loreatehenzi, dimenandosi.

Il maggiore lo lasciò andare, con uno strattone, e gli fece segno di sparire. Il minore sorrise, sempre più convinto, dalla reazione del fratello, che lì gatta ci covava. E che nidiata poteva uscirne!

Prese fra le braccia la piccola Marinditi-ya e si allontanò, scuotendo i lunghi capelli mossi come una rock star e lanciando occhiate d’intesa.

“Torna a giocare con le macchinine!” sbottò Rikarathör, in un impeto di spocchia dettato dal desiderio di mettersi in mostra davanti alla Dea per sembrare più grande.

“Ma vaffanculo!” rispose Loreatehenzi, mostrandogli la lingua ed il dito medio, con un ghigno malefico, prima di allontanarsi tornando verso casa.

Ricominciava a nevicare. Rikarathör tornò ad arrotolarsi nel mantello rosso e guardò Selene, che si avvicinò lentamente, avvolta dalla sua solita grazia e luce argentea.

“Scusa se non sono tornata prima” sussurrò lei, a mani giunte e con aria affranta.

“Ora sei qui, è questo che conta” rispose lui, stupendosi da solo di quella frase.

“Ho saputo che oggi affronterai la prova dei cristalli. Diventerai uomo…”.

“Non sarà certo un sassolino colorato a stabilire se sono un uomo o meno!” affermò, di risposta, Rikarathör, mentre nella sua testa si chiedeva da dove gli venissero simili frasi mal interpretabili sotto certi punti di vista.

“Mi sei mancato” parlò lei, inaspettatamente, dopo attimi di silenzio.

Lui deglutì, sentendo bruciare la guancia dove lei lo aveva baciato, non sapendo bene che fare o rispondere. Si guardò attorno, confuso. Poi, stringendo i pugni, la guardò in volto, tranquillizzandosi improvvisamente alla vista degli occhi divini che, evidentemente, trasmettevano un qualche potere calmante.

“Anche tu. Ti ho pensato…in questi anni…” confessò Rikarathör, arrossendo solo leggermente.

Ora, lo vedeva, non dimostrava tanti più anni di lui nonostante li avesse. Quel silenzio era fastidioso. Voleva riempirlo con qualche parola, ma aveva paura di pronunciare frasi inappropriate e prive di senso. Invidiò, in quell’istante, i suoi fratelli e la loro “esperienza” con il sesso opposto.

La Luna, senza emettere un suono, si avvicinò fluttuante ed eterea e lo abbracciò. Il ragazzo, preso totalmente alla sprovvista, rimase immobile, senza avere il coraggio di toccarla.

“Hai paura di me?” mormorò lei.

“Eh?” squittì lui, ancora avvolto dall’abbraccio ed incapace di formulare altre parole sensate.

“Non devi averne” lo rassicurò lei, sfiorandogli il petto dove si formò una fiamma, sulla sinistra, di una forma molto simile a quella di un cuore.

“Non ne ho” mentì lui.

Lei sorrise ed inclinò il volto. Lui, d’istinto, indietreggio leggermente ma non riuscì a sfuggire a quel bacio che lo travolse, annullando qualsiasi altro suo pensiero, mentre una meravigliosa alba colorava il cielo assieme a qualche fiocco di neve che riluceva con la luce. I capelli dritti ed argento di lei, mossi dal vento, andavano ad incrociarsi con i disegni di fiamma sulla pelle di lui, con migliaia di scintille di magia luminosa.

“Rikarathör!” sbottò una voce, in lontananza.

Il lago era tornato a ghiacciarsi. Enrikiran, da una delle sponde, stava avvertendo il fratello che la prova dei cristalli stava per avere inizio e che doveva affrettarsi.

“Aspetterò il tuo ritorno. Buona fortuna” aveva detto la Luna, mentre lui si allontanava.

Era andato tutto molto peggio di quanto si aspettasse. Era stato aggredito più volte dalle creature del Kaos, aveva rischiato di perdere il cristallo a causa dello spostamento d’aria ed infine si era fatto un bel pezzo a piedi, a causa di una ferita del suo drago provocata da un predatore naturale della bestia che non aveva trovato niente di meglio da fare, in quel momento, se non attaccarli. La cavalcatura, con l’ala squarciata, non poteva più volare, ma Rikarathör, ferito a sua volta, l’aveva difesa e l’aveva riportata al villaggio, passo dopo passo, tra la neve ed il vento. Solo il pensiero che lei lo attendeva lo aveva fatto proseguire. Non era tipo da arrendersi facilmente. Ed aveva piena intenzione di dimostrarlo a tutto il villaggio ed a suo padre, soprattutto.

Il primo a vederlo, dall’alto della torre di guardia, fu Loreatehenzi che chiamò tutti a raccolta. Finalmente l’unico che doveva affrontare la prova quell’anno era tornato! Circondato, consegnò il fagottino di stoffa con il cristallo a sua madre, Valek-hiteia, che come sempre lo esaminò assieme ad i massimi esponenti della magia del luogo per decidere se era adatto e senza imperfezioni. Una volta appurata la bontà della pietra, fu restituita al ragazzo avvolta nel panno. Rikarathör, nel frattempo, era rimasto in piedi in silenzio, guardandosi attorno. Aveva visto suo padre, Selene, i suoi fratelli e molte altre persone a lui care, al quale sorrise.

Lei era molto vicina. Anche senza guardare verso la sua direzione, lo percepiva. Sentiva il suo profumo e la sua aura. La folla aveva formato un cerchio attorno a lui ed aspettava di vedere il colore della pietra, ma lui esitava. Si sentiva stanco e gli faceva male la ferita alla spalla.

“Coraggio” parlò la Luna, avvicinandosi.

Ma il Dio del Sole la fermò, convinto, con un braccio. Rikarathör non capì il perché di quel gesto e guardò il padre con aria interrogativa.

“Lascia che tuo fratello si concentri sulla sua prova” affermò, ed il suo giovane figlio, colpito da quelle parole che gli suonarono così terribili, si bloccò, lasciando cadere per inerzia il cristallo che stringeva fra le mani, fra lo sgomento della gente.

Solo per miracolo non si ruppe, ma al ragazzo non importava più di quella prova.

“Fratello?” mormorò, guardando Selene.

“Come sarebbe a dire "fratello"?” esclamò Loreatehenzi, fra gli sguardi interrogativi della folla attorno a lui, che non capiva il perché di quell’esclamazione.

“Sì. Lei è mia figlia. E tua sorella maggiore. So che la cosa ti sconvolgerà, sangue misto, e non credere che non vi abbia visto, voi due assieme, prima”.

“Papà, avanti! Non è successo niente! Stai tranquillo!” gli parlò, dolcemente, la figlia.

“Supera la tua prova ragazzo…e cambiamo argomento!” sbottò il padre.

Rikarathör scosse la testa, tentando di tornare lucido a sufficienza per colorare il suo cristallo.

“Come ti sei fatto quelle cicatrici sulle mani?” domandò il Sole, dopo avergliele notate.

“Sono vecchie queste. Quando ero bambino e provavo a controllare il mio elemento. Ma ero troppo inesperto e, a volte, mi bruciavo scottandomi”.

“Non riesci a controllare il tuo elemento?”.

“Non ci riuscivo, un tempo. Ero piccolo. Ma ora non ho problemi”.

“Ne sei certo?”.

“Lo so! Sono in grado di gestire i miei poteri pienamente, senza ombra di dubbio”.

“Sei sempre e comunque un semidio. Non mi stupisco se hai dei problemi. Devi avere il coraggio di ammetterlo, senza perderti in pensieri inutili o sentirti a disagio”.

“Io gestisco i miei poteri ed il mio elemento. Mi impegno e lavoro sodo da anni, che per te forse non sono nulla ma per me è tutta una vita, e cerco sempre di fare tutto ciò che posso. I frutti dell’albero di Heket qui maturano grazie a me, non certo grazie alla tua luce, ormai quasi sempre impercettibile nel cielo!”.

“Non puoi permetterti di parlarmi in questo modo, ragazzo. Sei solo un mortale, dopotutto. Mi dispiace dirtelo, ma è la verità. Non puoi pretendere di giudicarti mio pari o addirittura superiore. Per far maturare i frutti di Heket non ci vuole di certo la forza di un Dio!”.

Rikarathör non rispose. Restò in silenzio, con la pietra, avvolta nella stoffa, stretta fra le sue mani. Selene, la donna che qualche giorno prima gli aveva donato quell’unico bacio, era l’unico pensiero che aveva nel cuore ed era…sua sorella. Non poté fare a meno di guardare Marinditi-ya ed immaginarsela da grande, se avesse avuto gli stessi pensieri nei suoi confronti non lo avrebbe mai potuto accettare. Arrossì, abbassando gli occhi. Come aveva potuto non capirlo? Sua sorella…

E poi c’era suo padre ,che ora gli diceva che sarebbe rimasto sempre e comunque un semidio, senza il potere necessario per fare qualcosa per quel mondo freddo e morente come sperava. Per anni si era esercitato, quante scottature e quante ferite aveva dovuto farsi curare, per arrivare a guardare suo padre negli occhi e sentirsi degno di essere considerato suo figlio. Ma dopo quelle sue parole…vedeva solo l’inutilità degli anni persi.

“Fratello…” sussurrò Loreatehenzi, cogliendo l’insicurezza negli occhi di Rikarathör.

Lui non lo sentì. Scostò la stoffa dalla pietra e, chiudendo gli occhi, la strinse fra le mani. Avrebbe dimostrato a tutti di essere in grado di superare quella prova e vincere ogni difficoltà. Però…le parole di suo padre e l’amore per Selene…sua sorella…

Confuso, arrabbiato e deluso, non riusciva a concentrarsi a sufficienza. Si sentiva stanco ed aveva freddo, tanto freddo, mentre il cristallo assorbiva tutto il suo calore. Una voce…una voce fra le fiamme, che sentiva uscire dal suo corpo come gocce di sangue, gli ripeteva che era tutto inutile, che non era in grado di controllare la sua forza ed il fuoco.

“Non è così!” ringhiò, mentre la sua pietra si tingeva di rosso “Ti sbagli! Io sono in grado di controllare il fuoco! Io…IO SONO IL FUOCO!!” gridò, ed il suo corpo si riempì di fiamme vive, avvolgendolo interamente.

Il cristallo rosso rimase sospeso a mezz’aria, con Rikarathör che spalancava le braccia per alimentare ancora di più il suo elemento. Gridava, sempre più forte, con il suo sigillo che si infrangeva, allarmando la folla attorno a lui che si allontanava spaventata.

“Fate attenzione! È fuori controllo!” urlò qualcuno, fra lo scompiglio generale.

Poche persone rimasero ferme dove stavano. Loreatehenzi, ad esempio, non si mosse, fiducioso del fatto che suo fratello sapesse perfettamente come gestire la situazione.

“Rikarathör! Ti prego, calmati!” supplicò la Luna.

“Selene…” le rispose lui, senza smettere di essere avvolto dalle fiamme “Selene sta tranquilla. Và tutto bene. E…non mi importa se…sei mia sorella. Io…” prese fiato, per gridare a perdifiato la frase successiva “Io ti amo, sorella mia. E non mi importa se è sbagliato o strano. Io capisco il fuoco e so che buona parte del calore che sento scorrere dentro di me proviene da ciò che ho sempre provato per te, fin dal primo giorno in cui ti ho vista, quasi dieci anni fa. Parte del mio fuoco è dovuto all’amore che provo per te. Lo so, lo so bene e nessuno può farci niente…Selene”.

La Luna rimase a guardarlo, ora certa che sapesse gestire le sue fiamme pienamente, e gli sorrise, dandogli conferma del fatto che ricambiasse i suoi sentimenti.

Fu il Dio del Sole a fermare il ragazzo, che nel frattempo non smetteva di bruciare. Lo afferrò saldamente per il collo, solo il Dio era in grado di avvicinarsi a suo figlio data la situazione, e lo bloccò. I due si guardarono negli occhi, fiammeggianti e rossi.

“Basta, fiamma viva, smettila. Così facendo finirai col consumare la tua parte mortale e morirai. Ti spegnerai come una candela quando giunge alla fine della sua cera. Smettila!”.

“Lasciami!”.

“Basta!” il padre aveva una voce più profonda, ferma e decisa.

Lo teneva stretto, ora con entrambe le mani, ed intanto gli parlava nella lingua degli Dèi. Attorno al collo di Rikarathör, laddove si era appena infranto il suo sigillo, tornò a formarsi una sottile catena di luce dorata che nasceva dalle mani del Sole. Il ragazzo gemette. Non era una sensazione piacevole. Il padre stava ricreando il sigillo del figlio, sovrastandolo con il suo potere. Rikarathör, tentando in ogni modo di resistere alla forza del padre, alla fine si arrese ed iniziò a spegnersi, lentamente, facendosi sopraffare dalla stanchezza.

“Calmati ora, figlio mio. Andrà tutto bene” gli sussurrò il Dio del Sole, lasciandogli andare il collo e sostenendolo, ora che stava per perdere i sensi.

Rikarathör cadde in ginocchio. Era spento ed infreddolito, coperto solo da ciò che rimaneva delle sue vesti bruciacchiate. Aveva freddo. Freddo e si stava facendo buio. Non sentiva le grida, i parenti che lo chiamavano, il suo maestro, Selene…si stava facendo buio…ma solo nella sua testa.

Venne sopraffatto dalle tenebre e svenne.

 

Quando si svegliò, accanto al letto vide sua madre, con in braccio Marinditi-ya, ed i suoi fratelli.

“Rikarathör!” si sentiva chiamare.

“Meno male…si è svegliato!” si rassicurò la madre.

“Rikarathör! Dimmi qualcosa!” quella voce…

“Selene!” gemette il figlio del Sole, ancora confuso.

“Sì, sono qui!” rispose lei e lui sorrise, girandosi per guardarla.

Allungò la mano per sfiorarla ma lei si ritrasse.

“Cosa c’è, Selene?” chiese lui, deluso dalla reazione della Dea.

“Non posso”.

“Perché?”.

Lei gli toccò la mano ed il nuovo sigillo lanciò una forte scossa lungo la spina dorsale del giovane, che urlò, colto alla sprovvista. Si portò una mano al collo e sentì che, oltre alla pietra della sua prova dei cristalli, aveva un nuovo marchingegno che lo bloccava, più potente del precedente che indossava fin da bambino. Parve confuso dalla cosa e si guardò attorno, in cerca di spiegazioni.

“Quel sigillo l’ha creato il Dio del Sole e del Fuoco, mio e tuo padre, fratello mio. Solo lui potrà scioglierlo, ma non credo che abbia intenzione di farlo tanto presto” lei, dicendo questo, aveva davvero un’aria triste ed abbattuta.

“Figlio mio…” il Dio del Sole era rimasto sulla porta e guardava i suoi figli da lontano, ma decise di avvicinarsi “Figlio mio…non credere che lo abbia fatto per cattiveria o per puro divertimento. Mi piange il cuore ad intrappolarti con questo ma…” ora era seduto sul letto e sosteneva il mento di Rikarathör in modo che questi, pur non volendo, lo guardasse negli occhi “…esistono leggi precise fra noi divinità, ragazzo. Una fra queste è che un mortale ed un Dio non possono e non devono avere dei figli. Io sono forte, vecchio ed esperto nonostante ciò che tu credi, e quindi sono in grado di gestire le conseguenze e le punizioni che gli Alti possono riservarmi in seguito ad un atto come quello di generare una creatura, come te, con una mortale. Ma mia figlia, Selene, non è capace di fare altrettanto e che cosa succederebbe se…”.

“Hei, ferma vecchio!” lo interruppe Rikarathör, liberandosi dalla sua presa “Io e lei ci siamo dati solo un bacio, nulla di più! È inutile che mi fai le ramanzine sui figli e su cose simili!”.

“Questo lo so. Ma ho visto il fuoco che c’è dentro di te e so per certo che non può estinguersi con un semplice bacio”.

Il giovane non disse più niente e chinò il capo.

“Inoltre…” riprese il Dio del Sole “…non sai fino a che limite puoi reggere le tue fiamme. Guardati! Ti sei spinto troppo oltre, in un eccesso di ira ed orgoglio, e ti sei consumato!”.

Il figlio si guardò le braccia e le mani. Si accorse che era vero. Le fiamme nate da esse lo avevano ferito in più punti, lungo tutto il corpo.

“Tu sei prezioso, Rikarathör. Sei il mio unico figlio maschio e potresti, un giorno, dover avere il pesante e gravoso compito di sostituirmi. Non so quanto questo possa avere importanza, data la brevità della tua esistenza ma, se ora mi dovesse capitare qualcosa, allora spetterà a te governare al mio posto tutte le stelle degli Universi. Anche se…se ora mi dovesse capitare qualche cosa, tu non saresti in grado di prendere il mio posto. Hai rischiato di morire, poco fa. Il sigillo che ti ho imposto non è una punizione ma un aiuto. Oltre ad impedirti di toccare mia figlia, quell’affare ti fermerà quando rischierai di perdere il controllo ed andare oltre, così imparerai a gestire l’enorme potere che erediterai quando, e se, verrà il momento. Quando io non potrò più fare il mio lavoro. Capisci?”.

“Capisco solo che sono in gabbia e che non posso…esprimermi”.

“Un giorno lo comprenderai. Andiamo, Selene”.

La Dea si era alzata e se ne era andata, assieme a suo padre, lasciando però al suo amato una promessa: sarebbe tornata ad ogni Luna piena di quel Mondo e lo avrebbe aiutato a poter fare a meno del sigillo.

 

“Scusa se, da allora, non sono riuscita a far sì che il tuo sigillo venisse tolto” sussurrò lei, una volta che il loro racconto ed i loro ricordi furono interamente svelati.

“Non è colpa tua. Sono io quello che è impazzito nella prova finale, non tu!” la rassicurò lui, guardando il cielo che iniziava a tingersi di rosso.

“Devo andare. È l’alba…” mugugnò lei, scocciata.

“Tornerai?”.

“Me lo chiedi ogni volta! Certo che tornerò. E tu? Mi penserai?”.

“Ti sognerò ogni notte, nell’attesa che il mio sigillo sia rotto”.

“Aspetterò quel giorno allora. Ciao!”.

Si salutarono, l’uno andando verso casa e l’altra camminando verso il Sole, con un sospiro.

Attesa…lui era un inguaribile ottimista ma…per quanto tempo ancora avrebbe potuto aspettare? Restava sempre e comunque un mortale, il cui corpo, prima o poi, avrebbe ceduto il passo al tempo. Cosa avrebbe provato la sua Dea nel vederlo invecchiare? Per lei la giovinezza non passava mai mentre per lui…iniziava a divenire solo un ricordo e lo spaventava l’idea di arrivare al giorno in cui sarebbe divenuta solo un ricordo e non più una realtà. L’importante è sentirsi giovani dentro, si ripeteva sempre, ma in che modo avrebbe potuto aiutare il padre da vecchio? E come sarebbe stato baciare le labbra di lei…che avrebbe avuto l’aspetto di una delicata bambina mentre il suo sarebbe stato quello di un nonno prossimo alla fine dei giorni?

Scacciò dalla mente quei pensieri negativi e sorrise.

“Io vincerò il Destino stesso. Non mi importa che cosa c’è scritto sul fiore che rappresenta la mia vita! Io non mi arrenderò e riuscirò ad essere il degno successore del Sole e…come promesso, riuscirò ad avere il tuo bacio, mia Dea. Riavrò la sensazione d’amore che mi trasmettono le tue labbra, mia Luna dai capelli argentei!”.

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Capitolo 13
*** XIII- verde e nero ***


XIII

 

VERDE E NERO

 

Lei voleva dar vita ai suoi sogni. Lei voleva seguire ciò che desiderava e voleva vederlo realizzato. Ma, purtroppo, lei non era una creatrice e non poteva far altro che combattere per ciò che credeva giusto e sforzarsi di guardare avanti, ripetendosi quale fosse il suo ruolo fra gli Universi. Invidiava il suo predecessore, suo nonno, che con una parola poteva creare, distruggere ed avere tutte le risposte che cercava. Lui sì che era potente! Aveva l’appoggio di Guerra, Paura, Armi… Lei, al contrario, era sola e molto meno potente, con mille dubbi per la testa. Lei era la Dea del Kaos e, doveva ammetterlo, amava il suo ruolo ma non la sua vita. Aprì la finestra, respirando l’aria pungente dell’atmosfera la cui temperatura era ben sotto lo zero. Voleva dei cambiamenti, perché sentiva che così le cose non potevano continuare e la rendevano infelice ma, allo stesso tempo, aveva paura delle conseguenze che potevano creare i cambiamenti. Era sicura che suo nonno non avrebbe avuto tutti quei ripensamenti. O forse sì? Dopotutto aveva trasmesso tutti i suoi sensi di colpa a quel Luciherus durante la sua ultima guerra.

“A cosa stai pensando?” si sentì dire, alle spalle.

Kuetzalikay era lì, con la sua pelle verde ed i capelli a piume. Sorseggiava un liquido rosso cupo, a gambe incrociate, e fissava con interesse la piccola Dea che gli dava le spalle. In equilibrio precario, su una delle sedie assurde del palazzo, si era ormai abituato al fatto che in quel luogo non c’era nemmeno una linea dritta o un angolo retto.

“Pensavo a varie cose…” rispose lei, senza voltarsi.

“E non preferisci farmi compagnia? Vieni qui, siediti accanto a me” le indicò una poltroncina messa accanto alla sua, nera e lucida come la pelle della Dea.

“Tuo padre sa che sei qui?”.

“Krì? Perché dovrebbe saperlo?”.

“Perché lui lo giudica sbagliato e pensavo avessi avuto il coraggio di dirglielo”.

“Non deve riguardargli ciò che io faccio”.

Kuetzalikay si alzò e camminò verso la Dea, che teneva le braccia strette attorno al corpo mentre guardava ancora fuori dalla finestra, e la strinse a sé.

“Smettila di avere quell’aria triste, Skritch. Non ti si addice” mormorò l’Alto.

“Invece io credo che sia l’espressione che mi si addice di più!” protestò lei, storcendo il naso.

“Solo perché sei la Dea del Kaos?”.

“Non cercare di fare il saccente con me solo perché sei uno degli Alti. Sono nata parecchio prima di te e so come sto meglio. Se non ti sta bene…sei libero di andartene. Sai dov’è l’uscita”.

“Adoro questo tuo carattere scontroso. Ed adoro ancora di più quando ti schiudi e mi mostri il tuo lato più dolce…” tentava di prenderle le mani ma lei rimaneva serrata, guardando altrove e senza mostrare, all’esterno, segni di cedimento.

“Smettila” sibilò, mentre scuoteva la testa per liberarla dalla cascata di piume rosse che la stavano avvolgendo.

“Cos’hai oggi, amore?” volle sapere Kuetzalikay, lasciandola andare e fissandola con apprensione.

Non capiva mai cosa passasse per la testa a quella femmina con quei capelli corti da maschiaccio e gli occhi dorati come un prezioso gioiello “Mia piccola pantera…” la chiamava sempre così per via della pelle nera di lei “…se ho fatto qualcosa che ti ha infastidito o irritato…dimmelo! Vale lo stesso se, per te, ho fatto qualcosa di sbagliato o scorretto nei tuoi confronti…”.

“È questo tuo atteggiamento ad essere sbagliato. Se credi che ogni minimo sbalzo d’umore dipenda da te, ti sbagli! Ho vissuto secoli senza di te e sono benissimo in grado di badare a me stessa. Se ho voglia di parlarti di qualcosa in me che non và, lo faccio. Altrimenti significa che non sono affari tuoi. Mi hai capito bene, serpente piumato?”.

“Non so dove tu voglia andare a parare ma…ti ho capito. Se vuoi che me ne vada, basta dirlo”.

“Non voglio che tu te ne vada, stupido. Voglio che tu la smetta di farmi da protettore e di preoccuparti come se fossi una bambina piccola. Me la cavo da sola. Se non ti chiedo aiuto o conforto, è inutile che vieni qui a fare il santo che può riparare ad ogni mio guaio ed a dispensare vagonate di consigli non richiesti”.

“Sei libera di non ascoltarli”.

“Sei libero di non darmene”.

“Come vuoi. Io ti volevo solo aiutare”.

Aiutare? La Dea non parlò e lo guardò, di sfuggita. In un attimo dimenticò il perché fosse così nervosa ed arrabbiata, confortata dall’espressione da bimbo sgridato ingiustamente che stava facendo Kuetzalikay. Sorrise sinceramente, cosa strana, e rilassò le braccia.

“Se fai così mi fai sentire una mamma cattiva…” ridacchiò.

“Mettimi in punizione…mamma…” la prese in giro l’Alto, tornando ad abbracciarla.

La Dea si scansò facilmente e lo guardò, con un ghigno di sfida.

“Giochiamo, piccolino!” lo incitò, mettendosi a correre per il corridoio del suo palazzo, con l’Alto che la seguiva a ruota, lasciandole un certo margine data la scarsissima lunghezza delle gambe di lei rispetto alla notevole altezza di Kuetzalikay.

Lei correva e lui la inseguiva ridendo, attento a non perdersi per le assurde stanze di quell’edifico totalmente privo di senso. Giunti entrambi alla fine di una scalinata, la afferrò saldamente per un braccio, stanco di inseguirla, e la baciò ad occhi chiusi.

“Non sei stanca di giocare, mammina?”.

“E che cos’altro dovrei fare? Tu sei un Alto…non posso fare altro che giocare con te”.

Kuetzalikay non sapeva cosa rispondere. In fondo era vero. Lui era una creatura molto diversa da lei, sia dal punto di vista magico che fisico. L’oblò, che portava all’altezza del cuore, pulsava, veloce e luminoso, come a ricordargli le loro differenze.

“Hai ragione, mia cara. I nostri corpi sono diversi ed amano in modo diverso. Ma non credo che tu debba pensare a come fisicamente amiamo…concentrati, piuttosto, sul fatto che ciò che proviamo dentro di noi è lo stesso per entrambi. Non ti basta?”.

“A te basta?” mormorò la Dea del Kaos, appoggiandosi con la schiena al balcone di una grande finestra ad arco che dava sul suo cortile.

“No. Ma non posso rendermi fisicamente simile a te, come tu non puoi divenire come me. Mi spiace…non dovresti cercare sempre di avere più di ciò che hai”.

“Io sono fatta così. Sono il Kaos, in continuo mutamento e mai soddisfatta”.

“Che cosa desideri, per placare la tua natura?”.

“Niente. Io sono una Dea nata per essere così e così rimarrò”.

“Fra quanto mi considererai un peso e non mi vorrai più vedere, dato che io non muterò?”.

“Sarebbe una cosa buona per te, se non mi vedessi più”.

“Che dici?” sorrise l’Alto, prendendola per entrambe le mani e guardandola negli occhi.

“Dico che io sono il Kaos. Io…non provo le stesse cose che provi tu”.

Kuetzalikay si inginocchiò, così da permettere alla Dea di mettergli le braccia attorno al collo.

“Spiegati, piccola, nera, creaturina mia”.

“Io…finirei con il farti del male…” sussurrò dolcemente lei, passandogli una mano sul viso “…di sicuro la mia natura non è adatta ad un sentimento come l’amore”.

“Tuo nonno amava, e molto, la Dea della Guerra”.

“Io non sono come mio nonno. Sono più debole e tendo…ad aggrapparmi alle cose ed alle persone che mi circondando, in un complicato rapporto di dipendenza reciproca”.

“Non ti capisco. Sei proprio una divinità complicata” sghignazzò l’Alto.

“Ma non lo vedi?! A me non basti mai. Se potessi ti incatenerei in una delle mie stanze, in modo da poterti sempre avere a disposizione, per poi stancarmi, come mi stanco di tutto, ed ignorarti, facendoti soffrire”.

“Sicura che la tua non sia solo paura che io ti faccia del male?”.

“Dovresti avere tu paura di me. Io so come mi comporto con le persone. Le sfrutto, seguendo la mia natura, e poi le abbandono. Oppure mi appoggio a loro, avvolgendole nella nube della mia confusione che mi contraddistingue, per poi farle smarrire per sempre. E la stessa cosa farò con te. Uno di noi due finirà per uscire, da tutto questo, consumato e confuso. Vuoi essere tu? Oppure lascerai che io stessa mi consumi?”.

“Il tuo discorso non ha senso”.

“Il tuo amore non ha senso! Tu non sai nemmeno cosa significa quella parola! Quando sei con me pensi sempre ad altro, ammettilo!”.

“Lo ammetto”.

“E te ne vai sempre via…”.

“Ammetto anche questo”.

“Perché?”.

“Perché non sono molto sicuro dei miei sentimenti nei tuoi confronti, se questo può consolarti. Io sono un Alto, non so in che modo si leghino sentimentalmente quelli della tua razza, perciò non sono certo di provare le stesse cose che tu provi. Sicuramente il mio corpo reagisce in modo diverso dal tuo ma a questo non so come porre rimedio. Può darsi che anche la mia essenza reagisca in modo differente. E, come hai fatto notare prima, anche se è molto che ci vediamo, tu hai millenni alle spalle senza di me, perciò immagino che tu ti ci sia abituata oramai, a startene da sola”.

“Abituata a stare da sola?”.

“Tu hai solo paura di abituarti alla mia presenza e di soffrire quando, e se, me ne andrò. Hai vissuto per secoli da sola, in questo nero palazzo, imparando ad essere totalmente indipendente. Litighi con i tuoi fratelli, hai perso uno dei tuoi genitori e l’altro non lo vedi da tempo, sei stata ferita ed umiliata perché sei una piccola Dea che controlla la confusione e l’incoerenza, che non vuole essere aiutata perché vuole dimostrare a se stessa di essere in grado di fare tutto da sola…non vuoi essere amata perché hai paura di dimostrarti debole amando. Sei complicata, ma non impossibile da capire ed in quanto a me…io sono diverso da te in tutto e non so se il nostro legame può essere definito amore ma…”.

“Ma tu mi stai mentendo”.

Kuetzalikay rimase in silenzio, per qualche istante, girando la testa altrove come richiamato da una voce lontana.

“Devo andare” disse infine, mentre lei lo guardò male, sospirando.

“Fai sempre così…devi sempre andar via…”.

“Sarà il destino, mia cara”.

“Il Destino?!” sibilò lei, pensando subito a suo fratello.

“È quello che ho detto”.

“E cosa posso farci?”.

“Non lo so…regalagli un fiore”.

“Un fiore?!”.

Kuetzalikay si era allontanato, lasciando la Dea da sola, infuriata a frustrata come sempre. Sedette sul suo trono nero, rigandone la superficie liscia con le lunghe unghie dipinte. Se tutto questo era colpa del Destino…era davvero così?

 

L’Alto ne era sicuro. Non era amore ciò che lo legava a lei. Non sapeva cosa fosse, ma non era amore. Risalì sulla creatura che lo aveva condotto fino a lì, uno dei draghi di Mihael, e prese il volo, in fretta e senza far rumore. Amore o non amore che cosa cambiava? Nulla, assolutamente nulla. Almeno secondo il suo punto di vista.

“Dormi bene, mia pantera nera, perché presto saprò come potrai aiutarmi nel compimento del mio e del tuo destino, mia cara, e senza l’intercessione del tuo caro fratellino!”

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Capitolo 14
*** XIV- falci ed alleanze ***


XIV

 

FALCI ED ALLEANZE

 

Passo dopo passo, Kevihang stava attraversando un’interminabile distesa di massi, pietre e rocce acuminate e gelide al tatto. Teneva le ali chiuse, non volendole sforzare. Erano ancora troppo giovani e deboli per sostenerlo per lunghi tratti e lui sapeva che, rischiando di precipitare, avrebbe potuto ferirsi e questo avrebbe comportato pessime conseguenze in quel mondo inospitale.

Aveva, davanti a sé, ben chiara la sua meta. Voleva giungere nei pressi della capitale, dove si svolgeva il mercato, ed ottenere un rapido passaggio per il regno di Mihael. Da solo non era in grado di andarci e, pensava, se ci era riuscito ad andare con quel metodo quando era piccolo, allora lo avrebbe rifatto adesso. Nascondere le ali sotto il mantello non era un problema e qualunque demone lo avrebbe scambiato per uno della sua specie, imbacuccato com’era, dato quanto bene si facevano notare le sue corna nere. Agitò la coda rossa al vento e continuò ad avanzare.

Era sceso il buio, la notte, ed una falce di luna argentea si stagliava, timidamente, nel cielo. Era pallida ed in parte coperta da nubi e foschia. Faceva sempre più freddo ed il giovane rabbrividiva.

“Non avrei mai immagino di dirlo ma…caspita se mi manchi, Rik!”.

Con tutto quel freddo desiderava davvero tanto avere il fratello maggiore e maestro accanto, con il suo fuoco ed il suo calore. Bastava solo tornare indietro, a quel villaggio dove era cresciuto, per riavere tutto ciò che gli mancava… Tolse quei pensieri dalla testa. Non doveva guardarsi alle spalle, non doveva girare lo sguardo. Sarebbe arrivato alla sua meta, passo dopo passo, senza arrendersi, guardando sempre avanti. Nessun rimpianto, nessun ripensamento. Dopotutto erano stati loro a rifiutarlo…ed era suo compito trovare il luogo in cui sarebbe stato accettato.

Con l’aiuto della spada di ghiaccio, dalla quale non si era separato, si procurò qualcosa da mangiare e sedette in un’insenatura nella quale non percepiva tanto il forte vento. Di accendere il fuoco, con quell’umido e la pioggia che andava e veniva, non se ne parlava, perciò si scaldava come meglio poteva, accoccolandosi in un angolo, avvolto dal lungo mantello rosso. Si guardò il palmo della mano, sulla quale brillava ancora, anche se con sempre meno intensità, la luce che lo aveva guidato per la prova dei cristalli. Si chiese come sarebbe stata la sua vita ora, da solo, senza aiuto e con una missione da seguire. Ne valeva la pena? Si scosse. Non doveva addormentarsi con quel freddo. Doveva proseguire fino al primo villaggio, se non voleva restare addormentato per sempre. Aveva ricominciato a piovere forte ed a tirar vento. Sbuffò e tornò a raggomitolarsi in un angolo di pietra. Gli si chiudevano gli occhi. Ma non doveva…non voleva…sempre più confuso…lottò finché poté e poi, senza nemmeno accorgersene, si addormentò profondamente.

 

“Svegliati, Kevihang”.

Kevihang non si mosse.

“Svegliati!”.

Il ragazzo socchiuse gli occhi, sentendo tutte le membra indurite dal freddo. Ogni suo, raro, respiro si trasformava in una nuvoletta di vapore bianco. Ripeteva a sé stesso che non si doveva addormentare ma non riusciva a tenere gli occhi aperti.

“Svegliati!”.

Di nuovo quella voce femminile da non sapeva dove. Da dove veniva? Chi era? Non importava…voleva solo dormire. Ma quella voce…

Aprì gli occhi con convinzione e vide una luce rossastra. Mise a fuoco, sbattendo velocemente le palpebre, e vide che quella luce era emessa da una donna.

“Chi sei?” domandò, sicuro di non conoscerla.

“Non lo capisci, Kevihang?”.

“Come sai il mio nome?”.

“Io so questo e molto altro su di te…”.

Lui la guardò con più attenzione. Era davvero una bella donna, vestita di scuro, con i capelli vaporosi, dai contorni indefiniti, e la pelle scura, lucida, perfetta. Ma la cosa che più colpì Kevihang furono gli occhi, azzurri e meravigliosi. Ed in mano cosa stringeva? In quelle mani affusolate ed eleganti, decorate con grossi anelli argento, era stretta una lunga asta argento e nera. Una falce! Kevihang sobbalzò quando realizzò chi aveva davanti. Lei aveva una falce fra le mani!

E la sua cintura era una catena di teschi, come teschi erano i suoi anelli ed i motivi sul suo bustino nero e rosso, che si allacciava sulle spalle con due ali di pipistrello. Attorno al collo aveva uno stretto collare pieno di spuntoni metallici ed un piccolo pendente color del sangue. Un motivo a ragnatele le decorava gli stivali, che si vedevano attraverso lo spacco della gonna, così come lo stesso motivo si ripresentava sui guanti e sulle  braccia come tatuaggi ricamati. Sul capo si vedeva una specie di corona, anch’essa nera e lucida. Agitò la coda da demone, senza espressione sul volto, puntando la falce verso Kevihang.

“Tu sei…la Morte?” domandò lui.

“Sono io”.

“Piacere di conoscerti” rispose lui, messosi a sedere.

“Non hai paura di me?”si stupì lei, rilassando il braccio armato.

“Perché dovrei? Non sei venuta qui per uccidermi”.

“E perché sarei qui?”.

“Non lo so. Ma se avessi voluto uccidermi lo avresti fatto prima, senza svegliarmi”.

La Dea della Morte non rispose e fece una smorfia divertita.: “Sei un ragazzo coraggioso come non ne esistono più, ormai. Non so perché ti ho svegliato. Forse perché…hai un’aria familiare. Quei capelli, quel viso e, ora che guardo, quegli occhi…”.

“Come ti chiami?”.

“Ha importanza? Sono la Morte, l’ultima cosa che vedrai”.

“Io non credo che tu sarai l’ultima cosa che vedrò anche se, se fosse, non mi dispiacerebbe, bella come sei”.

La Dea rimase sconcertata da quella frase e fissò il ragazzo con stupore. Non ricordava di essersi sentita rivolgere parole simili da nessuno, se non dal suo compagno scomparso da tempo.

“Mi han sempre detto che io sono il figlio della morte, o dei morti…”.

“Per via di quel tatuaggio che hai sul viso?”.

“Anche. Guardandoti, dubito che tu sia mia madre”.

“Assolutamente no! Io ho una figlia, Dea della Vita, e non ho mai avuto un figlio come te!”.

“Non sai quanto la cosa mi renda felice…”.

“Ci stai provando con me?”.

“Come non potrei, con quei meravigliosi occhi azzurri?”.

Lei sorrise. Nessuno notava mai quel dettaglio, spaventato com’era dalla prospettiva di smettere di vivere. Si sentiva in imbarazzo, pur avendo davanti a sé solo un ragazzino.

“Tu dovresti essere spaventato, Kevihang, non star lì a guardarmi gli occhi”.

“Azzurri come il cielo sereno…la cosa più preziosa in un Mondo come questo!”.

“Cosa ci fai qui da solo, ragazzo?”.

“Voglio scoprire chi sono i miei genitori”.

“Sei orfano?”.

“Sì. E vorrei sapere se sono ancora vivi o se non sono più fra questi universi”.

“Anch’io sono orfana. I miei genitori sono morti entrambi”.

“Mi dispiace…come si chiamavano?”.

“Conosci Luciherus, Kasday e l’antico Kaos?”.

“Di fama. Sono morti molto prima della mia nascita. Erano loro i tuoi genitori? Affascinante…ne avevi addirittura tre…dicevano che fossero le creature più belle del creato…”.

“Non esageriamo ma…”.

“Ti mancano?”.

“A volte. Mio padre, Luciherus, di più perché praticamente mi ha cresciuto lui. E mi manca Kasday, che mi ha messo al mondo. Il Kaos era…una sorta di terza parte che ha permesso a mio padre di trasmettere i suoi geni, mettendoci del suo. Ho preso da lui questi capelli privi di contorni. Da Luciherus la luce e da Kasday gli occhi. Mi mancano, bene o male, tutti e tre, come mi mancano il mio compagno ed i figli che ho perso”.

“Ecco perché i tuoi occhi, pur se magnifici, riflettono tanta tristezza...”.

“Non sono affari che ti riguardano!”.

“Posso, in qualche modo, alleviare il peso sul tuo cuore addolorato?”.

Lei non rispose. Lui la guardava, sorridendo.

“Hai freddo, Kevihang?”.

“Un po’…”.

“Posso aiutarti?”.

La Dea depose la falce e si avvicinò al ragazzo, rimasto seduto, in un modo non molto composto, contro una roccia. In ginocchio, togliendo i guanti, aprì il mantello che il giovane teneva stretto per proteggersi dal freddo. Il contatto con le mani della Dea fece rabbrividire Kevihang. Non erano calde, come di aspettava, ma incredibilmente lisce e fredde, come l’acciaio. Era una strana sensazione ma lui la trovò bellissima e non oppose resistenza.

“Luciheday” sussurrò lei.

“Come?!” si stupì Kevihang, distratto e concentrato su altro.

“Luciheday. È questo il mio nome”.

“Piacere di conoscerti” rispose il ragazzo, mormorando piano e non facendola parlare più, con un lunghissimo bacio che fece espandere la luce di lei ed aprire le ali di lui.

Con le mani ci cercavano e si abbracciavano, sempre più stretti, ignorando la pioggia ed il freddo. La Dea si sentiva strana, come avvolta da una sensazione che non provava da tempo, mentre Kevihang le faceva scivolare via, lentamente, la lunga gonna ed il bustino a teschi. Senza pensare, era rimasta scalza, quasi scalciando come una bambina, per liberarsi di quell’ingombrante copertura sul suo corpo. Lui si era fatto slacciare il mantello ed aveva fatto scivolare via la tunica, mezza stracciata da quando aveva aperto le ali, e lasciava che la Dea seguisse con le dita i disegni del filo spinato della sua pelle. Lei lo avvolgeva con la lunga coda da demone, mentre la rossa di lui le si attorcigliava attorno alle gambe. Mormorandosi strane parole e piccoli ordini, si fusero in un altro bacio ed in un abbraccio, pelle contro pelle. La Dea gemette, riprovando la sensazione che dava l’atto d’amore dopo tanto tempo, mentre chiudeva gli occhi per poterne vedere i mille colori.

Lui, con le ali spalancate ed il respiro affannoso, la strinse forte a sé e le sussurrò nell’orecchio: “Sei mia. Questo è l’unico modo per sconfiggere la Morte”.

Lei urlò, trovando quella “sconfitta” piuttosto piacevole, e lasciò che quel ragazzo facesse di lei ciò che preferiva, stanca di dover sempre fare la vincitrice e la forte. Era stata battuta, forse ingannata, da un semplice mortale ma, in quel momento, era felicissima di essere stata sopraffatta.

 

Si svegliarono con le prime luci del giorno, avvolti nelle grandi ali blu di Kevihang. Si guardarono, senza parlare, non trovando le parole per congedarsi o per riunirsi. La Morte fu la prima a riprendersi, liberandosi dalla stretta delle ali ed andando a cercare i propri abiti nelle vicinanze.

“Raggiungerai la tua meta, Kevihang. O, perlomeno, non morirai nel tentativo” mormorò, infilandosi gli stivali con inaspettata grazia.

“Grazie. La cosa mi rincuora, bella creatura”.

La Dea, ora rivestita, era in piedi ed osservava lui, seduto ed ancora avvolto dalle ali blu.

“Non parlare di questo, ragazzo. È proibito”.

“Tranquilla. Non andrò a vantarmi con gli amici delle mie conquiste” ridacchiò lui, passandosi una mano fra i capelli spettinati ed agitando la coda “Piuttosto…quella alle tue spalle è una tua amica?”.

La Dea si girò e vide che, dietro di lei, nascosta fra le rocce, c’era una ragazza vestita di bianco.

“Madre!” la apostrofò lei, con un’aria di rimprovero sul viso piuttosto evidente.

“Non è una mia amica, Kevihang. Lei è mia figlia, la Dea della Vita. Heket”.

“Piacere. Ho mangiato i frutti dei tuoi alberi da piccolo”.

“Lo fanno tutti. Quello che non fanno tutti è uccidere uno dei miei alberi, come invece hai fatto tu quando eri solo un moccioso” ribatté, acida, lei.

Era di poco più bassa della madre, di cui aveva ereditato il colore degli occhi, e la lunga tunica bianca ed oro, allacciata in vita, era estremamente semplice e luminosa, quasi angelica. Aveva le ali di Eleian, antico Dio della Vita, suo padre, bianche e piumate. Portava i sandali, bassi e di colore chiaro, allacciati alla caviglia con un fiocco. Sulla veste non aveva decori ma i lunghi capelli biondi erano raccolti in una coroncina dorata che brillava assieme a piccole pietre preziose incastonate fra i glifi incisi su di essa.

“Non serve rispondere così! Sei invidiosa? Se vuoi sconfiggo anche te!” azzardò Kevihang.

La Vita, sconvolta da quella domanda, non poté reagire in modo diverso: tirò uno schiaffo al ragazzo, con rabbia e forza. Il giovane sorrise, portandosi una mano alla guancia colpita ed alzandosi in piedi, vagamente coperto dalle ali.

“Ma che fai?!” urlò la Dea della Vita, coprendosi il volto “Svergognato!”.

La Morte, nel frattempo, rideva divertita.

“Cos’hai da ridere, mamma?! Questo maniaco senza vestiti è…”.

“È semplicemente come hai detto tu: senza vestiti! È la cosa più naturale degli Universi!”.

“Ma sarà normale per te!!!!! Copriti, pervertito!”.

Kevihang le sorrise, unendosi alla risata della Morte.

“Povera madama, mi spiace di averla sconvolta!” disse lui, facendo un inchino.

La Vita tentava di guardarlo in faccia, coprendosi in parte gli occhi, arrossendo ed indietreggiando.

“Ha gli occhi di Luciherus” commentò, nascondendosi dietro la madre che continuava a ridere.

“Davvero? Nessuno me lo aveva mai fatto notare”.

“Se vai in giro sempre così…ovvio che nessuno sta a guardarti gli occhi!” sbottò la Vita.

“Suvvia, figlia mia!” rise la Morte “Non esagerare! Andiamo, dai. Quello che andava fatto qui, ormai è stato fatto e quindi possiamo tornare per la nostra strada”.

“La tua frase è molto equivoca, madre!”.

Ridendo, la madre prese sottobraccio la figlia e si allontanò, guidandola perché si era tappata gli occhi mentre Kevihang agitava le braccia per salutarle.

 

Il ragazzo riprese il suo cammino, dopo essersi rivestito, più convinto e tranquillo. Con la spada sempre al suo fianco, pronto a sfoderarla in caso di pericolo, quando non pioveva avanzava volando, ormai pratico e sicuro su quelle piume blu. Quando scendeva la notte però, preferiva camminare per non attirare l’attenzione dei predatori notturni e dei draghi. Sicuro di non poter morire, proseguiva canticchiando, rilassandosi sempre di più.

“Sei la creatura più incosciente e sconsiderata che conosca!” tuonò qualcuno, alle sue spalle.

Subito, lui strinse la sua spada fra le mani e si preparò ad attaccare. Ma il suo avversario non poteva essere sconfitto da un semplice mortale.

“Levami quello stuzzicadenti di dosso!” protestò Kuetzalikay, facendo abbassare l’arma da Kevihang, anche se con riluttanza.

“Scusa. Pensavo fossi un mio nemico…”.

“Avrei potuto esserlo. E…come diamine sei vestito? Sei passato in un tritacarne?”.

“Ho avuto un imprevisto alla cerimonia dei cristalli”.

“L’ho sentito dire. Sei sempre convinto di voler sapere chi sono i tuoi genitori?”.

“Certo! Voglio guardare in faccia chi mi ha abbandonato!”.

“Bene. Posso accompagnarti io alla biblioteca di Vereheveil, nel regno di Mihael. Il libro che avevi fra le mani quella volta, quand’eri piccolo, ora dovresti essere in grado di gestirlo”.

Kevihang sorrise, mostrando delle piccole scintille di magia fra le mani. Il suo potere era strano, inusuale. Non era legato a nessun elemento, non guariva, non curava ma, al contrario, toglieva energia se il ragazzo riusciva ad entrare in contatto diretto con le vibrazioni emesse dal soggetto che aveva di fronte. Come con gli alberi di Heket, riusciva a risucchiare la vita e la forza. Annullava la magia altrui, se riusciva a capirla, e scioglieva incantesimi.

“Te ne sarei davvero grato. Tu sei l’unico che ha rispettato i miei desideri e le promesse che mi aveva fatto. Ho sentito da più di qualcuno le parole "ti aiuterò a trovare i tuoi genitori" ma fin ora solo tu mi ha dato prova di volermi davvero aiutare!”.

“Te l’ho promesso quando eri piccolo e quindi…farò tutto il possibile! Ma prima cerchiamo di trovarti un vestito più congeniale per andarsene a spasso. Se qualcuno ti vede così…ti noterà di sicuro! E tu sai che non puoi entrare nella biblioteca…dovrai passare inosservato!”.

“Hai ragione…”.

Kuetzalikay risalì sul suo drago e guardò Kevihang.

“Voli o sali in groppa?” gli chiese, notando le ali blu.

“Volo. Almeno per un po’. Devo rinforzarle ed imparare per bene ad usarle”.

“Sono molto carine”.

“Grazie”.

Presero il volo assieme, anche se il ragazzo faceva un po’ di fatica a seguire la velocità dell’animale, e si avviarono verso il vicino villaggio per acquistare vesti e nuovi indumenti per Kevihang. Kuetzalikay, suggerendogli quale scegliere, pagò con delle piccole sferette d’argento che il ragazzo non aveva mai visto. Di un colore simile al rame, a Kevihang stava molto bene quel nuovo abito dato che si intonava con i suoi occhi aranciati.

“Ora che sembri un piccolo principe, puoi venire con me a palazzo” ridacchiò l’Alto, osservando con ilarità il modo in cui il ragazzo si pavoneggiava con la sua tunica nuova.

Conservò, e continuò ad indossare, il mantello rosso della prova dei cristalli. Strinse fra le mani il suo cristallo nero, ora incastonato in un’elegante catena d’argento, ed assicurò la spada ed il fodero alla nuova cintura in pelle.

“Alza il cappuccio, ragazzo. Copri le ali e cela il tuo aspetto. Devi passare inosservato” gli ordinò Kuetzalikay, protetto da una barriera che ne cambiava i tratti somatici in modo da renderlo invisibile fra al folla.

L’Alto risalì sul drago rosso, aspettando Kevihang.

“Vieni con me. Non sei in grado di passare da un Pianeta ad un altro con quelle alette, non ancora. Forse in futuro…”.

“Arrivo” gli rispose il giovane, salendo in groppa e facendosi trasportare verso la biblioteca di Vereheveil, nel Mondo dei Demoni, nel palazzo di Mihael.

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Capitolo 15
*** XV- intrusione ***


XV

 

INTRUSIONE

 

Nel palazzo di Mihael, stranamente illuminato dal Sole, regnava un insolito silenzio.

Kevihang e Kuetzalikay passarono tra le due guardie all’ingresso senza farsi fermare né destare sospetti. Probabilmente perché le guardie in questione erano troppo impegnate l’una a bere e l’altra a dormire, dopo aver bevuto. Incrociarono altri demoni, che però non chiesero nulla. Kevihang si domandò se la cosa fosse dovuta a qualche incantesimo di Kuetzalikay oppure se erano troppo distratti da altro, come giocare a palla o a nascondino.

“Non ci sono più i demoni di una volta” gli sussurrò l’Alto, ghignando divertito.

“Nemmeno gli angeli!” rispose, vedendone arrivare uno vestito tutto in nero, ubriaco fradicio.

Percorsero il lungo corridoio a piccoli passi, senza far rumore, mentre in lontananza si sentivano grida e risate divertite. Nel cortile interno si stava disputando un’avvincente partita di calcio fra demoni con le ali e demoni che ne erano privi.

“Quella è la porta della biblioteca, Kevihang. Vai pure dentro. Io resterò qui a controllare che nessuno ti disturbi. Prendi il libro ed esci. Lo consulterai fuori”.

Il giovane annuì e, dopo aver un po’ trafficato con la serratura, entrò nella grande stanza che custodiva i libri di Vereheveil. Era molto buia ma il ragazzo era in grado di vedere benissimo, anche senza scostare le pesanti tende che ne coprivano le finestre.

Purtroppo il libro era stato spostato rispetto a quando lo aveva trovato anni prima e dovette cercarlo fra gli scaffali. Borbottando, per via del loro ordine sparso e privo di logica, chiedendosi chi era lo stupido che li aveva messi così, iniziò la sua ricerca partendo dal presupposto che ciò che cercava aveva la copertina rossa. Ma quella stanza era grande come una casa, se non di più! Sarebbe stata un’impresa non da poco! Sospirò, pensando al tempo che avrebbe perso. Leggeva tutti i titoli sui volumi rossi ed avanzava.

Sul muro, fra le due grandi finestre decorate, era appeso un enorme ritratto di Luciherus. Era appoggiato contro una scalinata e teneva spalancate le ali da demone. A fianco, su un quadro leggermente più grande, era rappresentato sempre Luciherus ma da angelo, con la spada e le sue ali dorate che lo circondavano. Infine, su una tela ancora più grande, c’era Mihael che “minacciava” entrambi gli altri dipinti con la sua lama nera e lucida.

“Il solito megalomane” commentò Kevihang, non potendo fare a meno di notare che Luciherus, se assomigliava davvero a quei ritratti, era davvero bello come dicevano.

Ricominciò a cercare, sollevando polvere ed insetti, mosso da un’indomabile curiosità e determinazione. Dopo diverse ore, però, quella curiosità e quella determinazione lo stavano abbandonando. Cominciava a confondere le lettere ed a divenire frettoloso, dimenticando dei volumi, assecondando i suoi occhi stanchi ed il suo cervello sempre più addormentato.

“Mi servirebbe una mano…” ammise.

A queste parole, la luce che ancora brillava sulla sua mano si intensificò, facendogli il solletico. Kevihang la guardò. Pulsava e restava sospesa a mezz’aria.

Che stai combinando?” parlò una voce, nella sua testa.

“Rik?!” esclamò il ragazzo.

Fai silenzio! Non farti scoprire, piccolo stupido! Pensa alle risposte nella tua mente ed io le percepirò. Dove ti sei cacciato? E che cosa credi di fare?”.

Come fai a parlarmi? Non rientra fra i tuoi poteri…”.

“Finché brilla quella luce nella tua mano, io saprò contattarti”.

“E perché non lo hai fatto prima?!”.

“Perché solo ora hai richiesto il mio aiuto!”.

“Ah…bene…allora…io cerco un libro rosso che…”.

“Che un bel niente! Esci subito da lì! È proibito per te stare in quel luogo e, qualsiasi cosa tu abbia in mente, finirai nei guai!”.

“Cerco quel libro perché saprà dirmi chi sono i miei genitori”.

“Non hai qualche altra idea per trovarli?”.

“Tu ne hai?”.

La voce non rispose subito, come se, dall’altro lato, il figlio del Sole stesse cercando una risposta sensata da pronunciare.

“Deve esserci un’altra via, Kevy” disse alla fine, dopo un po’.

Aiutami. Troviamo assieme quel libro. Lo userò e lo restituirò, senza che nessuno se ne accorga. Te lo prometto. Fidati di me”.

“Chi ti ha coinvolto in questa storia?”.

“Kuetzalikay!”.

“Spero che lui ti dia una mano. Ad ogni modo…cerchiamo assieme questo libro. Ti avevo promesso di aiutarti a trovare i tuoi genitori. Se per te non c’è altro modo... Ogni promessa è debito”.

“Grazie”.

La voce non parlò più, mostrando così il suo disappunto.

Quanta energia consumi per fare questo, fratellone?”.

“Troppa. Ti starò accanto finché potrò poi, quando la luce si spegnerà, non potrò più fare niente per te. Perciò…”.

“Mettiamoci subito all’opera!”concluse Kevihang.

La luce acquistò dei contorni definiti. Rikarathör apparve, sotto forma di ombra disegnata con la luce, ed iniziò a svolazzare fra gli scaffali. Aveva lanciato un’occhiataccia di rimprovero al giovane allievo e poi si era messo a cercare. Il giovane sorrise, ammirato dal potere che doveva avere il suo maestro per comandare una sua immagine stando sul suo Pianeta.

Passarono diverse ore prima che riuscissero a raggiungere il loro obbiettivo, e per fortuna era contenuto nella prima metà della biblioteca. Il figlio del Sole, con una luce sempre più spenta, l’aveva visto e Kevihang, con un singolo battito d’ali, lo aveva raggiunto ed afferrato.

“Grandi! Siamo dei grandi!” esultò l’allievo.

“Abbassa la voce!” lo rimproverò il maestro, facendo traballare la sua immagine olografica e toccandosi il sigillo con una smorfia: stava sforzando troppo il suo potere.

“Ma chi vuoi che mi senta?! Sono tutti ubriachi là fuori!”.

Il giovane si avviò, convinto, verso l’uscita, quando qualcosa lo trattenne ed una fortissima luce lo abbagliò. Mihael, destato dal suo sogno ad occhi aperti provocato dal libro che stava leggendo, si era scagliato contro l’intruso, che però era stato prontamente difeso dalla luce del suo maestro. Probabilmente, se così non fosse stato, Kevihang sarebbe stato trafitto dalla spada del Principe dei Demoni, che invece era stata deviata da Rikarathör. La lama deviò, con qualche piccola scintilla, e il demone rimase alquanto perplesso. Non era affondata in nulla di solido, eppure il suo colpo era stato parato. Avvicinò l’arma al volto e la osservò, chiedendosi se si fosse trattato di uno scherzo dettato dai suoi occhi ancora persi nel regno della fantasia.

“Spostati, lampadina!” protestò Mihael, riferendosi alla luce emessa dall’emanazione di Rikarathör “Non so cosa tu sia, ma non era rivolto a te il mio colpo di spada! Levati dai piedi!”.

Poi ci fu silenzio. Nessuno parlò e il demone scosse la coda, innervosito.

“Mi ascolti? Comunque…sei un intruso pure te e quindi…in guardia!”.

Rikarathör lo fissò stupito e non si mosse ma Mihael insisteva, brandendo la spada ed agitandola a vanvera a destra ed a sinistra.

“Guarda che io sono solo un’immagine, idiota! Non sono reale, non sono un corpo fisico! Non puoi colpirmi, né ferirmi! Perciò calmati…e scusa per l’intrusione nella tua bibliote…”.

“Balle!” interruppe il padrone di casa e tentò di trapassare il suo avversario luminoso, ottenendo solo scintille e magia sparsa.

“Perché non mi credi, stupido demone?! Hai ragione, ok, non dovremmo essere qui, ma non serve reagire così! Anche perché, come ormai avresti dovuto aver capito, non serve ad un cazzo!”.

“Guardie!” sbraitò il Principe, esasperato per l’impossibilità di colpire chi aveva di fronte.

“Hem…Kevihang?” suggerì Rikarathör “Non per darti degli ordini ma…non sarebbe il caso, per te, di scappare? Così…tanto per dire…”.

Il ragazzo, con il libro fra le mani, rimase titubante sul posto.

“Rimetti a posto quel libro, immediatamente!!” esclamò Mihael.

“Scordatelo!” gli ringhiò contro Kevihang.

Nel frattempo Rikarathör, che tentava di frapporsi fra il Principe ed il giovane fratello minore, diveniva sempre più pallido. La sua magia si stava indebolendo e la sua immagine, a volte, traballava. Parava i colpi, che il demone indirizzava verso il ladro, con la sua immagine olografica, non avendo armi, e questo comportava l’uso di un notevole sforzo mentale.

Kevihang tentava di raggiungere l’uscita, estremamente distante dal punto dal quale aveva trovato il libro, saltellando e girandosi per assicurarsi che il suo protettore ci fosse ancora.

“Rikarathör! Per quanto mi potrai coprire ancora?” chiese, preoccupato.

“Non molto, fratellino. Posa a terra quel libro e spera che nessun’altro ti attacchi!”.

L’immagine luminosa del maestro si stringeva il collo, all’altezza del sigillo, segno che stava raggiungendo il limite. Mihael, a prova della sua cocciutaggine, continuava ad attaccare la sagoma con i contorni di luce, senza sosta, urlando frasi di difficile comprensione. Sempre più colpi non venivano parati da Rikarathör, ormai quasi del tutto trasparente, e sfioravano Kevihang.

“Quel moccioso ha uno dei miei libri, spostati lucciola! È lui che devo colpire!” protestò il demone.

“Se tu stessi fermo, potrei spiegarti la situazione. Se abbassassi quella cavolo di arma potremmo trovare una soluzione comune che…”.

Il Principe si mise ad urlare, interrompendo di nuovo gli interminabili discorsi di Rikarathör.

Il figlio del Sole, visibilmente provato, si fermò e guardò Kevihang, preoccupato. Non riusciva più a deviare la spada del demone e presto sarebbe svanito.

“Kevihang!” urlò, con l’ultimo briciolo di energia magica, mentre questi era riuscito a distanziarsi da Mihael e la sua furia “Kevihang! Rifletti su ciò che stai facendo! Ti prego! Io non posso più aiutarti e mi dispiace. Non fare in modo che alle orecchie mi giungano notizie spiacevoli sul tuo conto. Rifletti! Kevihang!!!!”.

L’ologramma svanì, in una manciata di stelline fosforescenti, e Kevihang rimase da solo, con un demone infuriato alle spalle. Si girò, affrontando il suo nemico, pur consapevole di non essere alla pari di quella creatura. Usò la spada di ghiaccio di Enrikiran e parò il primo colpo che però, data la sua potenza, lo scagliò a terra. Mihael, ringhiando e con uno sguardo folle, spingeva la lama sorridendo sadicamente.

“Morirai, ragazzino! Hai osato sfidare il grande Mihael! Qualche ultimo desiderio?”.

Il ragazzo, che aveva chiuso gli occhi per coprirsi dalle scintille provocate dallo scontro delle due spade, tentò di liberarsi. Deglutì e fissò il demone, senza paura. Era forse la Dea della Morte quella figura che si intravedeva all’ingresso dell’immensa sala? Si autoconvinse che non fosse così, anche perché aveva notato che il Principe si era fermato e lo fissava negli occhi.

“Luciherus…” mormorò il padrone di casa.

“Io…veramente…” cercò di parlare il figlio dei morti, senza capire.

“Chi sei, ragazzo?” negli occhi del demone pareva essere tornato il lume della ragione.

Si era fermato, con la sua fedele arma puntata al collo dell’intruso, e si stava calmando.

“Io…mi piacerebbe saperlo, Signor Mihael. Mi piacerebbe davvero capire chi sono…”.

La figura all’ingresso si avvicinava. Si avvicinavano. Erano le guardie del palazzo.

“Signore!” esclamarono, in coro, i demoni guardiani, armati e minacciosi.

Il Principe, colto allo sprovvista, sobbalzò. Non si era accorto del loro ingresso. Approfittando della distrazione momentanea del padrone di casa, Kevihang si divincolò e corse verso la finestra.

“Kevihang!” si sentì chiamare.

Riconobbe la voce di Kuetzalikay.

“Aiutami!” supplicò e l’Alto alzò la mano destra.

Le guardie ed il Principe rimasero immobili, bloccati dalla magia della creatura dalla pelle verde.

“Dammi il libro, Kevihang!”.

Il ragazzo, ancora scombussolato, continuò la sua corsa verso la finestra.

“Kevihang! Che fai?! Vieni qui!”.

Ma lui non ascoltò e sfondò la grande vetrata che dava sul giardino interno. Con il libro fra le braccia, graffiandosi con i vetri, spalancò le ali e si alzò in volo.

Poco prima dell’impatto con la finestra, però, aveva lanciato un’occhiata alla parete a fianco.

C’era quell’angelo con le ali dorate su quel quadro…e quella piuma dello stesso colore in un calamaio sulla scrivania…lo guardò, forse inconsciamente.

Librandosi in aria ebbe la certezza che quel quadro, con quegli occhi aranciati e quelle ali dorate, lo stesse osservando. Non aveva forse girato gli occhi prima del suo salto verso il vetro decorato ad angeli e demoni? E quanti occhi si erano voltato verso di lui, creatura priva di razza, fra affreschi e quadri, in quella stanza?

Due in particolare lo stavano osservando. Erano occhi d’angelo, d’Angelo Messaggero che, allarmato, si era allontanato in fretta da quella biblioteca e da quel palazzo, obbedendo ad un ordine esplicito.

 

Si allontanò in fretta, sbattendo le ali, senza guardarsi indietro. Alcune frecce lo sfioravano, lanciate dalle guardie dalle torri. Le schivò, zigzagando, e vacillò. Il vento era fortissimo e non riusciva a restare in cielo. Inoltre iniziò a grandinare.

Per evitare di precipitare, Kevihang fu costretto ad atterrare e correre, perché dietro di lui si stavano avvicinando le guardie di Mihael.

Si guardò il palmo della mano e rimase molto deluso nel non vederci più nessuna luce.

Il terreno era impervio e fastidioso da affrontare ma il ragazzo non si arrese. Corse lontano dalla capitale, mentre il Sole tingeva il cielo di rosso ed arancio tramontando. Il giovane lo vide ma già notò che grosse nuvole nere iniziavano a condensarsi sopra la sua testa. Ed il buio calò, di colpo, in un modo che inquietò il ragazzo. Non vide più nulla, per qualche istante, come se fossero state spente tutte le luci. Sotto i piedi percepiva la durezza della pietra ed il gelo della neve, che penetrava nei suoi stivali rovinati dal lungo viaggio che aveva intrapreso fra la prova dei cristalli ed il resto. Che giornate pesanti e difficili erano state!

“Ne è valsa la pena…spero!” si disse, stringendo a sé il libro e correndo più in fretta, avvolto dal buio totale di una notte in cui Luna e stelle erano coperte dalle nubi.

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Capitolo 16
*** XVI- la forza delle parole ***


XVI

 

LA FORZA DELLE PAROLE

 

Kiaritanya, volando veloce per adempiere al suo dovere, si stava allontanando dalla biblioteca di Mihael. Aveva ricevuto ordine di controllare Kuetzalikay e ciò che aveva visto non le piaceva per niente. D’istinto voleva recarsi dal suo padrone, Krì, ma poi aveva frenato questo proposito. Sapeva che, riferendo del furto del libro da parte di un mortale con Kuetzalikay come complice, avrebbe fatto infuriare l’Alto genitore e questo la Messaggera voleva evitarlo. Voleva evitarlo, ma qualcuno avrebbe dovuto essere avvertito di un avvenimento così grave. Di sicuro Mihael non avrebbe proferito parola sull’accaduto, mosso dall’orgoglio e desideroso di mantenere per il suo palazzo il titolo di “inespugnabile”. A chi avrebbe potuto rivolgersi? Si fermò un attimo a riflettere, schivando qualche demone con una piccola imprecazione, e poi prese la sua decisione. Aprì il portale sopra la sua testa, con un rapido gesto della mano, e passò in un altro Pianeta, quello degli Dèi.

Sorrise. Quel Pianeta era quello con meno Angeli e Demoni, creature che, pur facendone parte, non sopportava più. Canticchiando, s’incamminò lungo la via, con i capelli tagliati che si muovevano leggermente mossi dal lieve vento. Lei, l’unica creatura angelica ad indossare i pantaloni, tentava di ignorare più sguardi possibili. Non voleva distrazioni o commenti stupidi. Bussò alla porta della sua meta ed attese, dondolando al ritmo di una canzoncina che stava borbottando.

“Chi è?” si sentì chiedere da dentro.

“Kiaritanya, Messaggera dell’Alto Signore di questi Mondi. Devo conferire con il padrone di casa, se è possibile. È molto urgente”.

La porta scricchiolò, con uno scatto di serrature e ganci, e si aprì.

“Ciao, Kiary” la salutò Kavahel.

“Salve, mio caro. Papà è in casa?”.

“Di là, in biblioteca come sempre”.

“Grazie…”.

“Vieni, ti accompagno”.

Kavahel, avvolto in un elegante mantello blu scuro, fece strada lungo il corridoio, illuminandolo con un candelabro. Le sue ali scure erano coperte dal vestito, così come i suoi capelli verde acqua gli coprivano il piccolo corno rosso in mezzo alla fronte. Gli occhi dorati erano grandi e profondi ma non più ricchi della felicità e della vivacità che li contraddistinguevano. Assieme alla Messaggera biondo scuro, entrò nella biblioteca. Non attese che il padre gli desse il permesso di entrare.

“Qui c’è Kiaritanya, messaggera di…”.

“So chi è lei, figlio mio” interrupe Vereheveil.

Il Dio delle Lingue e delle Letterature, stranamente, non stava leggendo. Guardava fuori dalla finestra l’ennesima nevicata con sguardo malinconico.

“Puoi lasciarci soli, Kavahel? Se è giunta fino a qui…non devono essere buone notizie e di certo non voglio peggiorare la tua situazione mentale”.

“Non so a cosa tu ti riferisca ma, ad ogni modo, vi lascio soli”.

“Non è necessario! Io…” si affrettò a dire Kiaritanya, ma Kavahel era già uscito.

“Dunque…Messaggera…cosa ti porta fino a qui? Che ordini hai da parte del tuo padrone?” parlò Vereheveil, continuando a dare le spalle all’ospite angelica.

“Non sono qui per eseguire un ordine impartitami dal mio padrone. Sono qui di mia iniziativa”.

“Che coraggio. Un Messaggero non dovrebbe fare così”.

“Io faccio quello che mi pare, scusi la franchezza”.

Vereheveil sorrise. Spalancò le ali nere e si girò, lentamente.

“Perché disprezzi la tua razza, Kiaritanya?” domandò, incrociando le braccia ma mantenendo un viso sereno e rassicurante.

“Non sono qui per parlare di questo”.

“Lo so. Ma vorrei che tu mi rispondessi. Sei un Angelo ed odi gli Angeli…”.

“Io non sono un semplice Angelo. Sono qualcosa di più. Ho sempre desiderato esserlo e mi piacerebbe, un giorno, perdere queste ali piumate e divenire qualcosa di più”.

“Una divinità?”.

“Non lo so. Ma qualcosa che mi distingua dai servi, come amate considerarci voi Dèi”.

“Voi Messaggeri, tecnicamente, siete servi. Ma io non ho mai trattato la mia Messaggera come tale, in nessuna circostanza”.

“Questo perché l’avevate adottata come figlia vostra”.

“Strano desiderio, per un Angelo, quello di perdere le ali! Che cosa vorresti fare? Startene tutto il giorno a casa ad oziare?”.

“No. Vorrei fare tutto ciò che mi pare, come andare al cinema a guardare un film. Un bel film. Con magari qualche bell’attore. Altro che svolazzamenti per i pianeti!”.

“Non è un’attività chissà che utile…”

“Io sono qui per parlarvi di una cosa piuttosto grave, ignoriamo le altre questioni! Dalla vostra biblioteca, quella nel regno del Principe Mihael, è stato rubato un libro”.

“Quale e da chi?” rispose Vereheveil, chiudendo le ali e sedendosi su una poltrona decorata, facendo segno a Kiaritanya di fare lo stesso.

“Non sono riuscita a vedere il titolo ma era rosso, ne sono sicura”.

“Rosso? Non sai dirmi altro?”.

“Sembrava molto vecchio ed aveva un disegno sulla copertina, piuttosto complesso”.

“Un disegno fatto come? Un’illustrazione o che cosa?”.

“Sembrava un simbolo, più che altro. Un cerchio, nero, con vari altri glifi all’interno”.

Vereheveil rifletté un attimo e si alzò, lentamente. Prese un libro fra gli scaffali e lo aprì.

“Era come questo?” chiese a Kiaritanya, dopo averle indicato una pagina illustrata.

“Sì. Era come quello!”.

“È un sigillo magico. Un cerchio di protezione di sesto grado, il più forte che sia in grado di creare. Chi è stato in grado di prendere fra le mano un libro con una tale barriera?”.

“A prima vista…mi è parso un semplice mortale”.

“Impossibile!”.

“Non era un Dio, non aveva simboli sulla fronte”.

“Di nessun tipo?”.

“Nessun simbolo. E, dato che conosco perfettamente gli unici due Alti rimasti in vita, so per certo che non è uno di loro, anche se uno di loro credo sia coinvolto nella cosa”.

“Spiegati”.

“Kuetzalikay voleva che quel mortale prendesse quel libro”.

“E come mai sei venuta qui a riferire a me e non al tuo padrone?”.

“Perché padre e figlio litigano già a sufficienza”.

Il Dio delle Letterature sospirò. Sembrava preoccupato.

“Hai detto che aveva la copertina rossa?”.

“Sissignore. Rosso cupo”.

“Solo un libro con una copertina di quel colore è stato da me sigillato in quel modo…”.

“Quindi sapete di che libro si tratta?”.

“Sì. E non è una buona cosa, credimi”.

Pensieroso, si alzò e ripose il volume che aveva preso precedentemente.

“Và riportato subito dove stava, Messaggera”.

“In che modo?”.

“Non lo so, ma quel libro è pericoloso. È di estrema importanza che non cada in mani sbagliate. Contiene delle formule e delle magie potenti, che potrebbero portare a terribili conseguenze. Và rimesso al sicuro, lontano da eventi non controllabili”.

“E come facciamo? Io non conosco il colpevole…”.

“Informa il tuo padrone. Se è vero che Kuetzalikay è coinvolto, allora dovremmo trovare una soluzione comune. Magari fa parte di qualche loro oscuro progetto malsano…cerca di essere cauta”.

“Ma…”

“So che non vuoi farli litigare ma è necessario. Quel libro può portare a conseguenze spaventose”.

“Ho capito…”.

“Bene. Vai. E nel frattempo farò una ricerca per scoprire che razza di creatura può essere in grado di spezzare un mio sigillo”.

“Come mai è tanto pericoloso? Che cosa fa?”.

“La potenza delle parole contenute in quel volume è spaventosa. Ti basti sapere questo. Mi auguro che ci sia gente qualificata sulle tracce del ladro perché è fondamentale che torni al sicuro!!”.

“Le guardie di Mihael lo stanno inseguendo”.

“Con quelle non risolveremo mai niente. Non basta. Invierò altri, Angeli o quel che sarà”.

Kiaritanya, un po’ titubante, fece un piccolo inchino prima di aprire l’ennesimo portale rossastro per poter raggiungere il suo padrone ed informarlo della situazione.

 

Kavahel, nel frattempo, era rimasto da solo nel salottino di casa, accanto al corridoio d’ingresso. Restava seduto, a gambe incrociate, leggendo un piccolo libro verde. Alla porta qualcuno bussò educatamente e delicatamente. Andò ad aprire, appoggiando gli occhiali sul tavolino che aveva di fronte, con calma. I suoi piedi scalzi non facevano rumore sul pavimento in legno. Sulla soglia apparve Selene, la Dea della Luna.

“Buonasera, divina. Cosa ti porta qui?” domandò Kavahel, stupito di quella visita.

“Posso entrare?” rispose lei, con gli occhi bassi e lo sguardo triste.

“Certo. Prego!”.

Assieme si accomodarono nel salottino, su due poltroncine rosso cupo.

“Posso offrirti qualcosa, Selene?”.

“No, grazie. Sono qui a chiedere il tuo aiuto”.

“Che cosa posso fare per te?”.

La Dea sospirò. Si stringeva le mani e le torceva nervosamente.

“Devi promettermi, però, che ciò che ti dirò resterà strettamente confidenziale”.

“Non uscirà da questa stanza. Però calmati…cos’è successo? Qualcosa di grave?”.

“Tu sai, vero, che io sono la figlia del Sole? E so per certo che sei a conoscenza che un nuovo Dio del Sole nasce solo da un Dio del Sole”.

“Lo so, ovvio. E so anche che tuo padre non ha avuto un figlio maschio in grado di sostituirlo”.

“Non è esattamente così…è per questo che sono qui”.

Kavahel, ignorando il rifiuto di lei, le offri da bere e le sorrise. La vedeva tesa ed a disagio. Tentò di sfiorarle le mani ma lei si mosse di scatto per ritrarsi.

“Spiegati, Luna luna” le sussurrò, citando una vecchia poesia che una volta aveva letto.

“Solo il Dio del Sole può generare un altro Dio del Sole. E così l’Alto che viene chiamato Krì è venuto a casa nostra e ci ha fatto riflettere sulla cosa. Solo mio padre può dar vita ad un piccolo Sole che lo possa sostituire, un giorno. Ma il Sole ha bisogno della compagna adatta per farlo e…”.

“E…? Và avanti”.

“E l’Alto Krì ci ha detto che, con la mancanza di Dèi bambini e sempre meno divinità, sarebbe appropriato almeno tentare di generare questo piccolo Sole e, non trovando un’altra compagna ideale, la madre generatrice…dovrei essere io”.

Kavahel la guardò, in silenzio, mentre lei si riempiva di nuovo il bicchiere.

“E ovviamente, Dea Lunare, tu non vuoi giacere con tuo padre…”.

“Certo che no!”.

“Ma tu sai che, se è l’unica cosa possibile per creare un nuovo Sole, è inevitabile che…”.

“Ma c’è un’altra possibilità!”.

“Solo un Sole può generare un altro Sole. Hai forse in mente un’altra compagna per tuo padre? Scusa tanto se questi discorsi sembrano irrispettosi, ma io devo salvaguardare la già scarsa salute di questo pianeta che sta smettendo di pulsare…permettimi di dirti che senza il Sole non mi resta molto da fare…”.

“Non si tratta di un’altra compagna. Ma di un altro Sole!”.

“Tuo padre ha anche un figlio maschio?”.

“Sì”.

“Ma allora il problema è risolto…dì a Krì che esiste questo piccolo Sole e basta”.

“Non è così semplice…”.

“Ed immagino che sia per questo che sei qui…”.

“Il giovane Sole…” iniziò la Dea, guardando il liquido nel suo bicchiere “…mio…fratello…” che fatica che faceva a definirlo tale “…è un semidio”.

“Un sanguemisto? In effetti, è un problema. Non credo sarebbe in grado di prendere il posto del padre, quando questo deciderà di ritirarsi”.

“Ma forse sarebbe in grado di generare un bambino in grado di svolgere quel ruolo”.

Kavahel bevve a sua volta, con aria pensierosa, e si appoggiò allo schienale della poltrona.

“Intendi congiungerti con un semidio? Sai che è proibito?”.

“Non mi interessa”.

“Perché sei qui da me, divinità argentata?”.

“Io non posso congiungermi con lui a causa di un sigillo posto da mio padre”.

“Ha sigillato il suo stesso figlio?”.

“Sì ma tu capisci, vero, il mio desiderio? Non potrei mai generare un figlio con mio padre, con la quale sono cresciuta. Fra l’altro nemmeno lui lo farebbe mai. Ma forse con questo ragazzo risolverei il problema, perché so che è un problema il fatto che non ci sia un piccolo Sole e nessuna compagna in grado di generarne uno con il Sole, se non io!”.

“Quindi tu lo fai per il bene dei Mondi…non per puro rendiconto personale…” azzardò Kavahel, congiungendo le sue mani davanti al viso con uno strano sorriso.

“Ha importanza?”.

“No. Ma che posso fare io per te?”.

“So che tu sei in contatto di Kuetzalikay. E poi sai come distrarre il Destino, tuo fratello minore”.

“Ajedrez, il mio fratellino e Dio del Destino, non è semplice da distrarre. Dimmi che hai in mente, spiegami il tuo piano, iridi di stelle”.

“Vorrei parlare con Kuetzalikay, prima di tutto. Solo un Alto o mio padre può togliere il sigillo dal collo di…mio fratello”.

“E cosa comporta che lui abbia questo sigillo?”.

“Comporta il fatto che non può toccarmi”.

“Ok. E quindi vuoi farlo togliere da Kuetzalikay?”.

“Sì. So che Krì non vuole saperne dei sanguemisto e quindi, di conseguenza, non accetterà mai che abbia contatti con quel genere di creature. Forse suo figlio è più comprensivo. Poi sono sicura che nessuno avrà nulla da ridire se riuscirò nel mio intento”.

“Parli come se si trattasse di una cosa da niente! Si tratta di fare un figlio, non comprare un paio di scarpe! E se non ci riuscissi? Intendo dire…se non nascesse un Dio del Sole ma qualcosa di ancora più proibito del suo eventuale padre semidio?”.

“Sono pronta a correre il rischio!”.

“Bene. Se lo desideri, ti accompagnerò da lui. E il Destino?”.

“Lui potrebbe scoprire ciò che ho in mente ed avvertire Krì o mio padre, che mi bloccherebbero e mi complicherebbero solo le cose”.

“Capito. Farò in modo che non ti dia problemi”.

“Puoi portarmi da Kuetzalikay adesso?”.

“Subito? Sì. Vieni con me, ti ci porto immediatamente” le porse la mano, che lei strinse un po’ spaventata perché sapeva che non sarebbe potuta più tornare indietro.

“Rischi molto, Luna luna. Sei sicura di quello che fai?” parlò lui, aprendo il portale.

“Assolutamente” mentì lei “portami da lui!” ed assieme, quasi abbracciati, sparirono.

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Capitolo 17
*** XVII- evocazione ***


 XVII

EVOCAZIONE

 

Correre fra le rocce era faticoso e doloroso ma non poteva fermarsi. Non ancora. Sentiva i suoi nemici alle spalle, sempre più lontani fortunatamente. Non era al sicuro. Doveva trovare un nascondiglio o una strada riparata perché era stremato e stufo. Ma dove trovare un nascondiglio o una strada nel bel mezzo del nulla, dove si trovava adesso?

Kevihang tentò di riprendere fiato, appoggiando la schiena contro una pietra grigia e fredda. Tese le orecchie, chiudendo gli occhi. Non sentiva nessun rumore. Forse li aveva seminati…

Prese fra le mani il libro rosso che aveva momentaneamente sottratto dalla biblioteca e lo guardò. Aveva una copertina molto interessante, anche se ora non si vedeva più il sigillo: era bastato il tocco del ragazzo per farlo sparire.

Continuò a rimanere concentrato su eventuali rumori, non riuscendo a vedere quasi nulla dato il buio totale ed il cielo coperto, annusando l’aria e cercando di sfruttare l’istinto che credeva di avere. Nessun rumore, nessun odore nemico, nessuna sensazione spiacevole. Forse era al sicuro per davvero! Decise di rilassarsi un po’ e si sedette a terra. Tirò indietro i capelli, che per la corsa si erano scompigliati ed ora si erano tutti appiccicati al suo viso sudato. Faceva un gran freddo ma non riusciva a sentirlo. Da ore ormai stava correndo e volando, di conseguenza le sue gambe si distesero poco prima di cedere. Tolse le scarpe, ormai del tutto consumate, e tentò di regolarizzare il suo respiro affannoso ed affaticato. Chiuse gli occhi qualche istante e, quando li riaprì, vide di essere appoggiato ad una possente pietra che faceva parte di un complicato sistema a cerchio, come una sorta di labirinto, e decise che, forse, era il luogo adatto per usare il libro. Pensò che avrebbe potuto usarlo e poi restituirlo, sistemando tutto. Lo aprì, spezzando definitivamente il sigillo, e dovette serrare le palpebre. Una luce fortissima era stata emessa dalle pagine di quel volume, restringendogli le pupille fino a fili d’erba sottilissimi.

“Sei uno dei libri proibiti, piccolo bastardo!” sibilò, richiudendolo.

Si strofinò gli occhi, che lacrimavano. Si chiese se era davvero il caso di usare quel volume. I libri proibiti erano proibiti per una precisa ragione, che lui ignorava, ma che sapeva per certo che avrebbe portato a pessime conseguenze il loro uso sconsiderato.

Seduto, con il volume sulle ginocchia e la testa bassa, si stava riempiendo la testa di dubbi.

“Se devo usarlo…che qualcuno mi dia un segno!” sussurrò, non sicuro di sapere a quale entità stava cercando di rivolgersi, non essendo mai stato particolarmente religioso.

Sorrise. Non si era aspettato nulla e nulla accadde. Reclinò il capo all’indietro, appoggiandolo sulle rocce, e notò che, proprio sopra di lui, era spuntata una stella bellissima, rossa e luminosa.

Le nuvole si stavano diradando ed il cielo iniziava a mostrarsi.

“Buonasera, stella fra le stelle. Che dici? Lo apro sto coso con la copertina del tuo stesso colore?”.

La stella, ovviamente, non rispose ma la Luna spuntò fra le nubi ed illuminò il libro, facendolo brillare in un modo splendido. Kevihang rimase incantato ad osservare i disegni e le forme che mutavano, scintillanti, sullo sfondo rosso cupo.

“Che meraviglia…” mormorò “Oh, Luna…tu vuoi che lo apra e lo usi? Come sei bella stasera…grande e luminosa, anche se non Piena, circondata di stelle”.

La luce sul volume si fece più forte e pulsante.

“Allora lo userò. Mi è stato insegnato di seguire sempre i propri sogni, qualunque questi siano! Non ho paura delle conseguenze, Luna!”.

Tornò a guardare il satellite, riflettente la luce azzurrina della tramontata Nesidey, e girò leggermente le orecchie a punta.

“Sei triste, stasera. Bella, ma triste” le disse “Spero non sia per colpa del mio fratellone!” aggiunse poi, con un sorrisetto leggermente malefico.

Incoraggiato dalla luce della Luna, riaprì il libro e si sforzò di abituarsi al bagliore di quelle pagine. Leggermente scocciato per il fatto che non ci fosse un indice, iniziò a girare le pagine una per una, alla ricerca della formula o dell’incantesimo in grado di aiutarlo.

Non era semplice. Alcuni fogli erano rovinati, dal tempo e dall’umidità, ed in parte illeggibili. Altri erano scritti con una lingua sconosciuta al ragazzo, che rimpianse di non avere accanto a sé qualcuno in grado di aiutarlo. Ciò che lo infastidiva di più erano le pagine bianche, interamente bianche, che spuntavano in modo disordinato lungo tutto il volume.

C’erano illustrazioni, schemi, storie…ma dov’era quello che lui voleva? Dov’erano le risposte che tanto cercava fin da bambino?

“E queste stupide pagine bianche!” ringhiò, senza capirne l’utilità.

Solo quando furono illuminate dai raggi della Luna capì, o perlomeno iniziò a capire. Colpite da quella tenue luce d’argento, queste si riempivano di parole, simboli e miniature. Kevihang sorrise. Evidentemente quelle pagine bianche erano le più preziose ed erano state protette da un qualche tipo di incantesimo che ne impediva la consultazione.

Ricominciò a sfogliare il volume finché una di queste pagine dipinte dalla Luna non attirò la sua attenzione. Il titolo che portava, che appariva in oro con caratteri miniati, era “legami di sangue” e subito il giovane capì che doveva avere qualche cosa a che fare con ciò che voleva.

Tradusse a fatica le scritte sotto di esso e gioì. Era proprio quello che cercava! E non sembrava nemmeno tanto difficile! Controllò l’eventuale bisogno di materiali particolari o strane conoscenze e non gli parve, almeno non a prima vista. Andò alla ricerca di un sasso che lasciasse dei segni in terra ed iniziò a disegnare i simboli che erano indicati per iniziare l’evocazione. Non era mai stato particolarmente bravo a disegnare ma cercava di impegnarsi il più possibile per realizzare segni precisi e corretti. Sfruttò il grande cerchio di pietre che lo circondava e si ingegnò in ogni modo per creare delle linee vagamente dritte. Impresa non facile.

Si alzò, soddisfatto, e controllò che tutto fosse come riportato sul libro. Non mancava niente.

Passò alla fase successiva. Richiedeva di porre, al centro del cerchio con tutti i simboli disegnati, delle parti di sé, come una ciocca di capelli o una goccia di sangue, per poterne rintracciare le due tracce donatrici. Kevihang scelse di deporvi una delle sue piume blu, assieme ad una ciocca di capelli per sicurezza. Mentre faceva questo, mormorava la formula riportata sul volume ed i glifi da lui tracciati stavano iniziando ad illuminarsi, uno dopo l’altro.

L’ultima fase dell’evocazione lo lasciò un po’ perplesso. Diceva: “realizzare la linea di sangue”.

“Scusa, caro libretto ma…che cazzarola vuol dire?!” borbottò il giovane, inclinando il capo.

Cominciò a fare delle supposizioni azzardate ed incominciò ad andare alla ricerca della risposta in giro per il volume. Poi, colto da un’improvvisa voglia di non usare più il cervello, si disse che, forse, la linea di sangue era semplicemente ciò che era: una linea di sangue! Si mordicchiò il polso destro con i suoi dentini appuntiti e lasciò che ne sgorgasse il sangue. Con la mano sinistra lo usò per ripassare i simboli vicino alla sua piuma ed i capelli e questi brillarono ancora più forte.

“Era questo che volevi?” si chiese e si rialzò.

Non era sicuro di aver fatto la cosa giusta. L’odore del sangue avrebbe sicuramente attratto qualche bestia feroce, per non parlare della sua attuale stanchezza e debolezza, dovuta alla fuga di prima ed al sangue versato successivamente. Ghignò. Non era tipo da porsi troppi problemi.

Con il libro stretto fra le mani sporche di sangue, ricominciò a recitare quelle formule complesse, in una lingua che non era la sua ma che, inspiegabilmente, riusciva a capire. Era quasi una canzone, una lunga nenia leggermente ritmata, che diventava sempre più veloce e faceva brillare tutti i glifi sempre più forte. Stava funzionando? Forse sì. Sperava di sì!

Aveva fatto dei disegni che formavano un cerchio attorno a sé. Vide che, per ogni strofa, poteva individuare un simbolo. Forse doveva seguirli e girare con loro…

Aveva pronunciato tutta la formula ed i simboli si erano solo illuminati alternativamente fino a compiere un giro completo. Decise che non aveva niente da perdere nel tentare di seguirli. Tossì, pulendo con la manica il sangue che stava per cancellare alcune parole importanti. Cercò con lo sguardo quello che doveva essere il primo simbolo, corrispondente alla prima strofa della formula, e ci mise i piedi sopra. Si schiarì la voce e ricominciò, a gran voce.

 

Nesh ka, nesh ka, né ah a Tihen en ah Hià

Luce, luce, che è del Sole e della Luna

 

Con queste parole si era messo su un glifo rappresentante una grande stella e la Luna.

 

Nesh ka, nesh ka, né ah en Thuru en ah Thà

Luce, luce, che è del Giorno e della Notte

 

Ora si trovava sopra due figure, l’una opposta dall’altra, di cui una era capovolta.

 

Nesh ka ah rì, naighlikà, lyera leary manish ka!

Luce che brilli, magica, illumina me, anima perduta!

 

Il terzo simbolo era un occhio spalancato, che cercava una guida.

 

La cantilena andò avanti ancora per un bel po’ ma, ad ogni simbolo, la magia all’interno del cerchio si faceva sempre più forte. I glifi erano dodici, ciascuno con un significato ed una strofa differente. Arrivato sul dodicesimo, Kevihang fece una mezza piroetta e poi si fermò. Avvertiva una forza straordinaria attorno a sé. Si concentrò per indirizzarla nella direzione giusta. Era un po’ teso e stanco, non sarebbe stato in grado di ricominciare per una terza volta, e si aspettava davvero che funzionasse. Strinse i denti ed insistette, incitando la magia a fare il suo lavoro. I simboli brillarono, tutti assieme, vibrarono ed emisero uno strano suono, fastidioso per le orecchie sensibili del ragazzo, indirizzando la loro luce verso il cielo. Lui alzò gli occhi e vide che tutta quella luce si stava incanalando, piuttosto velocemente, verso quella stella luminosa e bella che lo aveva salutato, prima, al diradarsi delle nubi.

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Capitolo 18
*** XVIII- l'ultimo petalo ***


XVIII

 

L’ULTIMO PETALO

 

Non aveva nostalgia del passato. Nemmeno un po’. Era felice, sereno e tranquillo. Tutte sensazioni che raramente aveva vissuto. Guardava con ammirazione la donna che amava, addormentata fra le sue braccia, attento a non svegliarla o disturbarla. Le accarezzava i lunghissimi capelli neri e non staccava gli occhi da lei. Era felice, davvero felice, non desiderava altro se non restare lì, accoccolato accanto a lei, facendole capire quanto la amava. Le diede un bacio sulla fronte e lei mosse solo leggermente gli occhi, senza aprire le palpebre. Le sussurrava una canzoncina.

 

Amami, prima che l’ultimo petalo cada

Amami, prima che l’ultimo mio sogno si cancelli

Amami, prima che l’ultimo giorno finisca

Amami, prima che l’ultimo respiro mi lasci.

 

Prima che l’ultima scintilla della mia essenza si spenga

Prima che l’ultima mia lacrima si versi

Prima che le ultime mie parole vengano pronunciate

Prima che il mondo s’arresti

Amami!

 

“Cosa stai borbottando, Luciherus?” mormorò lei, sorridendo, ripiegandosi leggermente per farsi abbracciare più stretta.

“Non sto borbottando! Stavo solo cantando il mio amore per te”.

“Sicuro di stare pensando a me e soltanto a me, pronunciando quelle parole?”.

“Certo…”.

Stupito da quella domanda, lui ripensò a quella canzone e vide, nella sua mente, il viso ed il corpo di lei, solo lei…ma per un attimo apparve una donna dai capelli rossicci.

Shekinah, Kasday, lo colpì con un piccolo schiaffo.

“Guarda che lo vedo a cosa pensi!” sibilò.

“Oh, sì. Anch’io ti amo” gli rispose lui, abbracciandola più forte.

Lei non rispose, era una frase che non si aspettava. Si lasciò abbracciare, socchiudendo gli occhi.

“Sei stanca?” le sussurrò lui.

“Mi stanco molto a sopportarti, sai?” lo prese in giro lei

“Oh, suvvia! Mi hai sopportato così bene in vita…”.

“Lo so, lo so! Mica mi lamento!”.

Senza nemmeno accorgersene, lei girò gli occhi verso il basso e lui le prese il viso fra le mani e lo risollevò, in modo che lo guardasse in faccia.

“Non guardare giù! Ricordati che, così facendo, rinasceresti. Ed io non sopporterei di perderti!”.

“Sta tranquillo. Io voglio restare qui con te, solo con te”.

“Sicura? Nessun’altro?”.

“E tu? Quella donna…so che la pensi…”.

Lui non rispose. Aveva ragione. C’era un’altra donna nella sua testa. Lei era stata il suo primo amore, l’amore che lo aveva portato alla dannazione ed alla consapevolezza. Sophia. La bellissima Sophia. La Sapienza. La meravigliosa creatura con le ali da angelo che lo aveva messo al mondo.

“Smettila!” lo sgridò lei “Altrimenti guardò giù e ti lascio qui da solo!”.

“Lo faresti davvero?”.

“Credo di no…”.

“Oh! Preferisci restare qui con me!”.

“Non esaltarti troppo! È che non amo l’idea di tornare in vita…”.

“Ma ami me!”.

“Mmm…può darsi!” ridacchiò lei, dandogli un buffetto sul naso.

“Chi altro dovresti amare, scusa? Meglio di me…non c’è nessuno!”.

“Come siamo modesti…”.

“Pazzamente!” ghignò lui, stringendola più forte e baciandola “Ogni bacio è come il primo con te” le disse.

“In che senso?” si stupì lei, fissandolo in modo strano con i suoi occhi azzurri.

“Che è bello e magico come il primo!”.

“Credo di non ricordarmelo…”.

“Allora non ci pensare. Dimentica il passato ed ignora il futuro. Pensa solo al presente. Al qui ed ora. Il passato ti ha fatto soffrire ed il futuro non ti riguarda, perciò pensa solo al fatto che ora sei qui, sei qui ed io sono con te”.

“Ma nel mio passato ci sono anche tutti i bei momenti che ho passato con te!”.

“A quelli puoi pensare! Ma a nient’altro!!”.

“Oh, andiamo Lucy! Lo sai che è impossibile!”.

“Sicura? Perché io, da quando ti ho accanto, non riesco a pensare ad altro se non a te”.

“Questo perché hai un cervello piccolo, piccolo!” lo derise lei, alzandosi ed incitandolo a seguirla.

Erano avvolti da uno strano fumo bianco, simile a nebbia, che dava loro l’illusione di camminare fra le nuvole. Forse erano nuvole perché vagavano per il cielo, nero e lucido, zigzagando fra le stelle. Loro, anime in attesa di un’eventuale rinascita, non erano mai entrate nel regno dei morti ma avevano attraversato gli universi, andando oltre le stelle, senza mai desiderare di tornare in vita.

“Vai piano, anima inquieta!” le gridò Luciherus, inseguendola.

Lei, girando su se stessa, piroettava in modo da non farsi prendere.

“Mi ami davvero, Luciherus?”.

“Non posso risponderti che ti amo più della mia vita, perché sono morto…ma se potessi userei proprio quel termine di paragone! Del resto, pensaci…ti ho seguita lasciando il mio corpo su quella spiaggia, tanto e tanto tempo fa”.

“Povero vecchietto. Mi facevi pena, tutto solo soletto in riva al mare!”.

“Non sono un vecchietto!”.

“Scherzo, piccolo stupido!”.

Lui, con una battito delle sue ali dorate, la raggiunse e la prese per mano. Tenendola stretta, ignorando il fatto che lei si dimenasse per scappare di nuovo, la tirò verso di sé.

“Dov’è che vuoi andare, mia piccola cosetta dai mille nomi?”.

“Voglio farti correre un po’. Se no ti viene la pancia!”.

“Questo è proprio impossibile!”.

“Pantofolaio!”.

“Te lo do io il pantofolaio!”.

Continuando a ridere, la immobilizzò con le braccia e tuffò il viso fra i suoi capelli.

“Ti ho preso, birbantella!”.

“Smettila di fare lo stupido, lasciami!”.

“Eh, no! Ora non mi scappi più!”.

“E adesso…cosa mi fai?”.

“Cosa vuoi che ti faccia?”.

“Io una mezza idea l’avrei…”.

Luciherus sorrise, iniziando a baciarla sul collo. Con la lunga coda da demone, la teneva ferma e la stuzzicava. Come in un gioco, a cui lei fingeva di volersi sottrarre, le loro mani si incrociavano e si scioglievano, per poi cercarsi di nuovo mentre i loro proprietari tenevano gli occhi chiusi, uniti in un interminabile bacio. Erano soli in mezzo all’universo nero, con l’eternità alle spalle ed Ere da percorrere, eppure non sentivano di aver bisogno d’altro se non di loro stessi. Coperti di sola e pura luce, si fondevano e tornavano a dividersi, per poi cercarsi di nuovo, legati da qualcosa di indissolubile ed incancellabile. Stretti in un unico corpo, con le essenze intrecciate a formare un’unica entità luminosa, si amavano incondizionatamente da un tempo ormai considerato quasi eterno per i semplici mortali, che ancora li veneravano e li pregavano.

“Ti ho mai detto che ti amo?” gemette Luciherus, mentre l’estasi dell’unione con lei saliva.

“Un numero di volte incalcolabile” rispose lei, reclinando la testa all’indietro.

“E tu? Me lo hai mai detto?” insistette lui, mordendola sul collo.

“Non parlare! Non è necessario!” ansimò lei, spingendolo verso il suo petto ed il suo seno.

Luciherus allora tacque e la avvolse fra le sue braccia luminose, che riuscivano perfettamente a circondare l’esile corpo della versione femminile di Kasday.

Nonostante il monito a non parlare, lui insisteva nel chiamarla per nome e sussurrarle quanto la amasse. Lei restava in silenzio, regolando il suo respiro con quello di lui, gemendo per l’eccitazione e per la felicità. Inarcò la punta dei piedi, mentre tutto il suo corpo si tendeva e vibrava di piacere, illuminandosi.

Lo abbracciò forte e gli rispose, a bassa voce ed ansimando, raggiungendo il culmine del piacere: “Ah, amore mio! Mia stella del mattino! Resterai sempre qui con me, vero? Non te ne andrai? Non lasciarmi mai! Non andare mai via, amore mio!”.

Soddisfatto da quelle parole, lui le sorrise e si fermò, cercando di placare il suo affanno: “È meraviglioso quando mi chiami amore mio, lo sai? È bellissimo…ma lo fai così raramente…”.

Lei continua a stringerlo a sé, affondando la testa nella sua spalla: “Perché certe parole non vanno mai usate troppo, altrimenti diventano come una qualsiasi altra frase, banale e vuota del suo vero significato” si giustificò.

“E poi…perché ogni volta hai paura che me ne vada? Certo che resto qui con te! Certo che non me ne vado! E ormai dovresti averlo capito, dopo tanto tempo…”.

“Il tempo non conta. È una sensazione…qualcosa che mi fa temere di perdere un’altra persona che amo. Ne ho viste tante che, dopo avermi giurato amore, hanno chiuso gli occhi per sempre o si sono allontanate, lasciandomi solo…sola…”.

“Io ho già chiuso gli occhi per sempre da un sacco di tempo! E non mi allontanerò da te. Come potrei? Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata!”.

“Davvero?”.

“Davvero!”.

“Più bella del tuo primo amore? Più bella di Sophia?”.

“Lei è mia madre!”.

“Non ti allontaneresti da me per andare da lei?”.

Lui rimase in silenzio per un po’, attento a non pronunciare qualche frase inappropriata e rovinare quel momento che tanto adorava.

“No, non andrei da lei. Non posso mentirti dicendo che non è più nei miei pensieri, ma non ti lascerei, non mi allontanerei da te, per andare da lei. Tu mi ami, mi ami sinceramente, anche se non me lo dici quasi mai. Lei, invece, mi si era avvicinata in quel modo solo perché sentiva la mancanza di mio padre. Ora è tornata da lui, si sono ricongiunti nel regno delle anime, e perciò di sicuro non avrà pensieri di alcun tipo nei miei confronti…”.

“Sei sicuro? Come puoi dirlo che lei non ti pensi?”.

“Perché è con mio padre. Il suo amore và a lui…”.

“Ma non c’è amore più grande di quello che lega una madre al proprio figlio…”.

“Ma l’amore di una madre è diverso da quello fra due innamorati…”.

“Ma altrettanto forte! E basta ora con tutti questi MA…”.

“Io amo te e lei…certo, siamo legati e resta sempre mia madre ma…quello che provo per te è di sicuro più forte. Sei più rassicurata adesso?”.

“Non lo so. Nei tuoi pensieri c’è sempre quel guizzo di ricordi che la riguardano…”.

“Mi spiace. È del tutto involontario…”.

“Tenterò di ricordamelo…”.

Si diedero un altro piccolo bacio e si abbracciarono.

“Tu…piuttosto!” borbottò Luciherus, senza far capire dall’espressione e dal tono della voce se era serio oppure no, accarezzandole le braccia “Tu, piuttosto…non pensi mai a…che so io…Vereheveil? O a Lilim, quella strana Celeste di cui non ricordo il nome, al tuo Angelo Messaggero…”.

“Ovvio! E tu non pensi mai a Lilith?”.

“A volte capita…”.

“Lucy, Lucy! È normale pensare a persone che sono state importanti nel nostro passato. L’importante è che tu non stia troppo a pensarci, oppure che non ti vengano in mente cose del tipo che potresti stare meglio con una di loro o potresti essere più felice”.

“Non potrei mai essere più felice di così, credimi!”.

“Allora và bene”.

“E tu?”.

“Io cosa?”.

“Tu potresti essere felice di così?”.

“Io non sono mai stata più felice di così e solo tu puoi farmi sentire in questo modo!”.

Luciherus le fece un enorme sorriso e la baciò, d’istinto, più volte.

“Sei la cosa più bella che mi sia capitata, peccato che lo abbia capito solo una volta che te ne sei andata. E se non fossi più tornata? Mi sarei lasciato morire…”.

“È quello che hai fatto…”.

“Lo so…e lo rifarei!”.

“Povera creatura dal cervello posseduto…”.

“Posseduto da te!”.

“Mai detto il contrario!”.

La tirò di nuovo verso di sé e tornò a riempirla di baci sibilanti.

“Oh, Lucy! Voglio che tutto resti così, per sempre!”.

“Per sempre?”.

“Per l’eternità! Così, io e te, senza che nulla mai cambi!”.

“Anch’io, mia sposa”.

Ancora sorridevano ed annuivano per quelle frasi di fiducia e promesse d’infinito, quando il buio attorno a loro mutò. Non era più nero e limpido. Una luce bianca si avvicinava e si espandeva.

“Che roba è?” protestò lui, coprendosi gli occhi e cercando di allontanarsi.

Ma qualcosa lo tratteneva. Il suo polso destro era teso e stretto, come legato, e lo tirava verso il basso. Si dibatté con tutte le sue forze ma non riuscì a liberarsi. Iniziò a precipitare, urlando.

“Luciherus!” lo chiamò lei, allungando la mano verso l’uomo che amava.

“Và via! Allontanati! Non far sì che prenda anche te!”.

Ma un’altra forza stava ora catturando anche lei, per il polso sinistro. D’istinto tentò di liberarsi ma non poté fare nulla. Assieme precipitarono verso l’ignoto, tenendosi per mano, in un vortice di stelle, pianeti e pezzi d’Universo.

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Capitolo 19
*** XIX- Crocus ***


XIX

 

CROCUS

 

La forza di gravità sotto i piedi era una sensazione che aveva dimenticato. Dov’era finito?Ricordava solo di essere stato risucchiato da una specie di colonna di luce. Lei ancora lo teneva per mano, d’istinto, e lui ne fu confortato. Erano ancora assieme, accovacciati l’uno accanto all’altra. Non erano più ricoperti di luce ma quasi trasparenti, azzurrognoli e simili a nebbiolina. In questo modo lui poteva rivedere tutte le sue cicatrici, dimenticate e lasciate sul suo corpo di carne, e percepiva qualche sensazione, come il freddo sotto i piedi ed il tagliare del vento.

“Luciherus…dove siamo?” domandò lei, guardando in aria.

“Non ne ho idea!” ammise lui.

Solo in quel momento vide quello strano ragazzo dai capelli blu scuro che li fissava, con allucinati occhi arancio, a pochi centimetri dal suo naso.

“E tu chi sei?” sbottò Luciherus, sistemandosi la coda.

“Non fare così, Lucy! Non vedi che è spaventato?!” lo rimproverò Kasday.

“Perché, io no? Che posto è questo?! E questo qui chi è?”.

“Io sono Kevihang” rispose il ragazzo “E voi, chi siete?”.

“Kevihang? Che bel nome…” si complimentò lei.

“Grazie. Anche se tutti mi chiamano il figlio dei morti”.

“A me, più che il nome,  piacciono i suoi tatuaggi. Specie quello a forma di teschio” commentò Luciherus.

“Sono stati la mia condanna quando ero piccolo”.

“Sei una strana creatura, ora che ti guardo…” si incuriosì l’antico Demone e si avvicinò al ragazzo.

Appena si mosse, sentì un suono piuttosto sinistro: catene! Ai polsi di lui e di lei c’erano delle catene azzurre che li legavano ai polsi di Kevihang.

“Che storia è mai questa, ragazzino?” si innervosì, dato che odiava più di ogni altra cosa l’idea di essere imprigionato o trattenuto.

“Chiedo scusa. Ho pronunciato un’evocazione per scoprire chi sono i miei genitori e queste catene, spuntate dove sgorgava il mio sangue, devono esserne una conseguenza”.

“Noi non possiamo essere i tuoi genitori” commentò Luciherus “Sei troppo piccolo. Noi siamo morti da secoli e secoli…per non dire altro!”.

“Purtroppo ha ragione, Kevihang. Fammi vedere il libro. Magari è solo sbagliato un passaggio”.

Il giovane porse alla figura femminile il libro rosso e Luciherus trasalì.

“Quel libro! Porta solo guai!” sibilò, riconoscendolo come il libro proibito che gli aveva mostrato ciò che realmente era successo a suo padre, quando era ancora un piccolo angelo.

“È solo un libro! Non morde mica!” lo rimproverò delicatamente Kasday, accarezzandogli il viso con la mano libera dalle catene e sfogliando le pagine del volume con interesse.

Le mani delicate di lei, affusolate e con le unghie curate, scivolavano lungo la carta mentre lei, con gli occhi che guizzavano a destra ed a sinistra, leggeva e rileggeva ogni passaggio della formula e controllava i disegni realizzati.

“Hai seguito i disegni camminando su di essi mentre ne leggevi le parole?” si informò.

“Sì. Ho lasciato una mia piuma ed un ciuffo di capelli, tracciando i glifi con il sangue”.

“Il procedimento è corretto…aspetta un momento…Luciherus…guardagli gli occhi. E i capelli. Non ha un’aria familiare? Cioè, intendo…potrebbe essere…”.

“No che non può essere, tesoro mio! Questo ragazzino ha sì e no vent’anni e noi…da quanto siamo solo spiriti erranti? Le semplici essenze non fanno figli!”.

“Non lo so. Però ha i tuoi occhi, belli aranciati, ed i tuoi capelli. E guarda le sue ali blu! Sono le mie! Ed il suo sguardo…forse c’è un sistema…”.

Erano seduti, uno vicino all’altro, quasi a cerchio.

“Lei dice di poter essere mia madre?” chiese Kevihang, inclinando la testa.

“Non lo so. Parlami di te, piccolo. Sei orfano, ma dove sei cresciuto e dove sei stato trovato?”.

“Sono cresciuto in un orfanotrofio. E sono stato trovato sotto l’albero delle lacrime”.

“Cos’è l’albero delle lacrime?” domandò Luciherus, arricciando la coda.

“Non lo sapete?”.

“Mai sentito!”.

“Caspita…allora siete morti prima dell’ultimo giorno di vita del Pianeta”.

“Quale pianeta? Quale ultimo giorno?”.

“Alla morte di Kasday, è iniziato lentamente a morire ogni pianeta”.

“Io sono morto dopo Kasday…e non ricordo pianeti morti”.

“Dipende da quanto tempo dopo. È stato un procedimento progressivo…”.

“E che conseguenze ha portato?” si intromise lei.

“Guardatevi attorno…”.

Kasday vide solo rocce, neve e morte. Niente alberi, niente vita…

“Tutto il Pianeta è così?” mormorò.

“Tutti i Pianeti sono così. Il grande Kavahel non riesce a convincere i Mondi ad obbedire e poi i Soli si spengono, le Lune sbandano, i Pianeti si fermano…la chiamano l’Era Morta ma tutti confidano che un giorno cambierà”.

Il giovane non andò oltre, notando lo sguardo triste di lei. Luciherus le era accanto e la stringeva a sé, tentando di rincuorarla.

“Mi dispiace” parlò di nuovo Kevihang “Non volevo rattristarvi…”.

“Non è colpa tua” disse lei, mentre una lacrima scendeva lungo la sua guancia.

Luciherus non fece in tempo a raccoglierla e questa cadde in terra. La neve, in quel punto, si sciolse di colpo e sotto spuntò l’erba. Kevihang fissò la cosa con vivo stupore e poi spalancò gli occhi: in quel punto stava crescendo qualcosa. Spuntò un germoglio che crebbe e si dipinse. Un crocus, il primo fiore che annuncia la fine dell’inverno, era nato dove lei aveva versato quell’unica lacrima.

“È incredibile…” riuscì a dire “…non avevo mai visto niente di così bello. Mai! Solo eterno gelo!”.

Lei gli prese il viso fra le mani e gli sorrise.

“Chiudi gli occhi, Kevihang, e mostrami l’albero delle lacrime!” gli disse.

Il giovane obbedì e trasportò con la mente quella donna su quella collina, sotto l’immenso albero che lo aveva protetto con uno dei suoi enormi fiori. Kasday guardò quella pianta e la riconobbe. Era l’albero sotto il quale aveva pronunciato le ultime parole in vita, con Luciherus accanto. L’albero delle lacrime…sì perché da quel giorno moltissime persone erano giunte fin lì a piangere il loro creatore Kasday ed a ricordare i vecchi tempi. Molti avevano pianto, ricordando le persone morte quel giorno, nell’ultima guerra. Albero delle Lacrime perché lì si erano fuse le sue con quelle dell’uomo che amava, insieme al sangue ed alla magia. Era forse questo?

“Sei stato trovato avvolto in uno di questi fiori?” domandò.

Kevihang annuì e Kasday sorrise.

“Sei davvero il figlio dei morti, ragazzo!”.

“Che cosa intendete?”.

Aveva riaperto gli occhi ed ora i tre si fissavano.

“Credi sia possibile?” si stupì Luciherus.

“Perché no?” ridacchiò lei, prima di rivolgersi al giovane.

“Ora ti spiego, Kevihang. Io sono Kasday e lui è Luciherus. Nell’ultima guerra ci siamo trovati sotto quell’albero, assieme, l’uno accanto all’altro. Lì sotto io, l’Alto, ho cessato di vivere riversando la magia contenuta nel mio corpo sul terreno. Nello stesso momento Luciherus, Dio della Forza e del Coraggio, ha versato le sue lacrime che sono andate anch’esse ad alimentare il terreno. L’albero che ora viene chiamato "delle lacrime" deve aver assorbito entrambi e deve essere mutato. Hai mai visto frutti su di esso o altri fiori come quello in cui sei stato trovato tu?”.

“Ora che ci penso…no! Mai!”.

“Se guardi bene, quei fiori hanno il colore dei miei occhi e del mio antico sangue Alto, screziati dal rosso che contraddistingue Luciherus. Quella pianta è mutata ed ha concepito un frutto, il frutto nato dalla mia magia e dal mio sangue uniti assieme alle lacrime ed alla forza di Luciherus. Tu sei un frutto. Il frutto meraviglioso di quell’albero”.

“È davvero possibile?” ripeté Luciherus.

“Sì, tesoro. Costui è davvero nostro figlio!”.

“Wow…certo che noi Dèi facciamo sempre i figli in modo strano!”.

“Decisamente!” confermò lei, abbracciando l’uomo che amava e che aveva accanto.

“Fatemi capire bene…” iniziò Kevihang “…io sono il figlio di Kasday e Luciherus?”.

“A quanto pare…” lo stuzzicò il padre “Sei Kevihang Kadmon…”.

“Sei mio padre?” esclamò il ragazzo.

“Vuoi un abbraccio?” rispose lui, osservandolo con malcelato orgoglio.

“Fatti guardare” mormorò lei, invece, alzandosi e guardandone i tratti.

Kevihang si alzò, girando su se stesso. Era raggiante di gioia. Finalmente aveva ritrovato i suoi genitori! Aveva realizzato il suo unico e grande sogno! Abbracciò entrambi.

“Queste catene…” iniziò a preoccuparsi Luciherus, volendo la libertà.

“Noi siamo solo essenze, non possiamo stare al Mondo. È per questo che siamo legati a lui. Se ci staccassimo, ci perderemmo e rischieremmo di non rivederci né rinascere, come fantasmi smarriti. Deve fare l’incantesimo di liberazione, il contrario di quello di evocazione, per riportarci dove eravamo prima che ci chiamasse qui” spiegò Kasday.

“Spero che tu sappia come si fa, ragazzo…perché stavo troppo bene dove ero prima per restare imprigionato al tuo braccio destro!”.

“Basta trovare la formula sul libro. Per il resto non è difficile. Ho magia a sufficienza” lo rassicurò Kevihang, riprendendo il volume fra le mani.

“Sbrigati a trovarla allora!” sbottò di risposta Luciherus.

“Avete fretta?” domandò il ragazzo, sfogliando pagine e capitoli.

“Assolutamente! Non voglio correre il rischio di rinascere e perdere il mio posticino comodo oltre le stelle! Perciò riportaci in fretta indietro!”.

“Quanto sei scorbutico!” lo rimproverò di nuovo Kasday “Questo giovane ha pur sempre metà del tuo patrimonio genetico!”.

“Scusate se magari vi sembra inappropriato ma…ci sono dei tratti fisici che mi sfuggono. La coda, ad esempio, così rossiccia e pelosetta, da chi l’ho presa?”.

Kasday sorrise mentre Luciherus la guardava, scuotendo il capo. Lei allargò le braccia e mutò. Cambio il suo aspetto femminile di Shekinah con quello dell’Alto che aveva un tempo.

“Questo è l’aspetto che avevo al momento della morte” disse, con voce dolce ed altalenante. Afferrò fra le mani una delle sue code, quella rossa e morbida, in modo da far capire al figlio da chi l’avesse ereditata. Inoltre lui poté notare che i tatuaggi dell’Alto erano molto simili al filo spinato che gli attraversava il corpo. E le antenne rosse erano quasi uguali ai ciuffi sulla sua testa. Osservò ancora quella creatura, con le sette braccia di colore diverso, i grandi occhi da falena, le tre code, le strane gambe ed i capelli che si agitavano come se fossero vivi.

“E le ali azzurre?” domandò, dopo un po’.

Kasday spalancò le braccia, quelle blu, che si riempirono di piume dello stesso colore. Il giovane sorrise, spalancando le ali a sua volta.

“Questo sarà il nostro marchio, figlio mio. Sei unico ed irripetibile e devi essere orgoglioso di ogni tuo aspetto e particolarità”.

“Lo sarò da ora. Adesso che so da chi mi sono state trasmesse queste caratteristiche, ne sarò più che orgoglioso! Caspita…sono figlio non di una ma ben di due divinità!”.

“Questo potrebbe fare di te un Dio ma…fortunatamente per te non lo sei!” commentò Luciherus.

“Perché fortunatamente per me? A me sarebbe piaciuto essere un Dio!”.

“Non sai quanto seccante sia! Anch’io, quando Momoia mi ha offerto di diventare un Dio, ero in visibilio, ma poi sai che palle! Mortali che piagnucolano, Dèi che ti danno ordini o consigli non richiesti, seccature di vario tipo…meglio non esserlo, credimi!”.

“E Voi cosa ne pensate, Kasday?”.

“So che ci vedi come entità superiori o cose simili ma, per favore, non darmi del Voi! E nemmeno del Lei! Sono tua madre!”.

Aveva ripreso il suo aspetto femminile, che di certo era più rassicurante e metteva più a suo agio il giovane e mortale Kevihang.

“Io credo che essere un Dio sia una cosa da accettare, se nasci tale, da evitare se non lo sei! Perciò resta felice per quello che sei e cerca di esserne fiero. Vedo che la tua magia è molto potente…”.

“Sono e sarò sempre fiero di me stesso. Vi renderò orgogliosi di me, anche se non sono un Dio e, probabilmente, non avrò un ruolo fondamentale per gli Universi come, invece, avete avuto voi!”.

“Chi l’ha mai voluto un ruolo fondamentale negli Universi?! Spassatela, ragazzo!” commentò Luciherus, con un mezzo sorriso poco convinto per via delle pessime condizioni in cui versava il Pianeta quasi senza vita.

“Farò il possibile…sto già facendo esperienza!” ghignò, ripensando al momento con la Dea della Morte, prima di realizzare la verità, non molto piacevole.

“Luciheday, la Dea della Morte, è vostra figlia?”.

“Sì! La mia piccola! Come sta?” esclamò Luciherus, pieno di gioia.

“Credo stia bene…più o meno…almeno con me stava bene…”.

“In che senso?”.

“Beh…ecco…io e lei…abbiamo avuto un incontro non molto fraterno…”.

“Fammi capire bene…fino a che punto si è spinto il vostro incontro?”.

“Fino in fondo…”.

Kasday e Luciherus lo fissarono con uno sguardo decisamente stupito e poi sorrisero.

“Bravo. Non c’è niente di male!” commentò Luciherus “Lei è davvero una bella donna. Credo che chiunque ci abbia pensato almeno una volta!”.

“Ora che sai che è tua sorella…” iniziò Kasday.

“Hai voglia di ripetere l’esperienza?” interruppe Luciherus.

“Se devo essere sincero…sì. Scusate…”.

“Sei proprio mio figlio!” si complimentò il padre, stringendolo a sé con puro orgoglio.

“G…grazie! Ma credo che più di qualcuno abbia qualcosa da ridire su questo mio…desiderio!”.

“E allora?! Io ho fatto ben altro!”.

“Lui ha baciato sua madre…e voleva fare il ben altro di cui ti parla!” spiegò Kasday.

Kevihang fissò entrambi annuendo poco convinto. Non era molto a suo agio a sentirsi dire certe cosa ma era felice che non lo rimproverassero.

“Immagino che ora…vogliate andare” disse, con una punta d’amarezza, il giovane evocatore.

“Credo che sia il momento, sì” confermò Kasday, guardandolo con tenerezza.

“Ok. Fatemi trovare la formula. È stato bello conoscervi, davvero. Era il mio più grande sogno”.

“Ci fa sempre piacere avverare qualche sogno, piccolo!”.

A parlare era stato Luciherus, che stava dando piccoli baci lungo il braccio di lei, che lo teneva per mano e gli sorrideva.

“Siete una bella coppia…” commentò il giovane, spalancando il libro sulla pagina che cercava.

“Grazie! Anche questa è una cosa su cui più di qualcuno trova qualche cosa da ridire!” ridacchiò Kasday, ricordando le molte persone che li avevano guardati con fastidio.

“Bene. Possiamo iniziare. Mi proteggerete dall’alto, ora che sapete che sono qui?”.

“Faremo il possibile, Kevihang” sussurrò lei, non essendo certa di poterlo fare.

Kevihang prese un bel respiro. Aveva i due genitori davanti a sé. Spalancò le braccia e chiuse gli occhi, memorizzando le parole da pronunciare. Ma li riaprì subito dopo. Rizzò le orecchie e serrò il libro, di scatto, con un ringhio sommesso.

“Nascondetevi!” sibilò.

“Perché? Che hai combinato?”.

“Questo libro è rubato e mi stanno cercando. Devo scappare!”.

“Questo libro è cosa?!” esclamò Kasday, mentre veniva trascinata assieme a Luciherus ed il figlio in fuga, legati tutti e tre da catene che sapeva di non poter spezzare.

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Capitolo 20
*** XX-legami d'acciaio ***


XX

 

LEGAMI D’ACCIAIO

 

I tre correvano, Kevihang in testa che trascinava gli altri due, lungo le fredde rocce del Pianeta morente. Alle loro spalle potevano udire chiaramente i loro nemici avvicinarsi.

“Fammi capire bene…” iniziò Kasday, non provando affanno nel correre “…dove, esattamente, hai preso questo libro?”.

“Dalla biblioteca di Vereheveil, nel palazzo di Mihael” rispose il ragazzo, ansimando.

“Mihael?!” esclamò Luciherus, senza che gli altri due capissero il perché di questo suo intervento.

“Non dovete preoccuparvi! È solo un prestito. L’ho sottratto per evocarvi, per poter conoscere i miei veri genitori, ed ora che ci sono riuscito posso anche ritornarlo, dopo avervi liberato, ovviamente! Ma eviterei incontrare le guardie del palazzo…”.

“Se quello che vogliono è il libro, allora gettalo!” suggerì Luciherus “Troverai un altro modo per liberarci da queste catene. Se ti prendono con questo affare in mano…dubito che potranno e sapranno darti molta clemenza!”.

“Non posso costringervi a rimanere legati a me! Prima devo sciogliere queste catene e poi restituirò il libro”.

“Non hai paura delle conseguenze?” si preoccupò Kasday.

“No. Ora che ci penso…non credo di aver più di tanto provato quel sentimento…se sentimento lo si può definire…”.

“Proprio un mio degno erede!” si deliziò Luciherus.

“Proprio un pazzo!” lo corresse lei.

Il paesaggio stava mutando. Le rocce si facevano sempre più spesse e scure, nere, alte e ramificate, come immensi alberi alti fino a dove ad un mortale non era dato di vedere.

“Potrei nascondere il volume. Magari mi rintracciano a causa di un qualche suo segnale o roba simile…era chiuso con un sigillo…”.

“Basta che corri, ragazzo, se non vuoi farti prendere!” sbottò Luciherus, guardandosi alle spalle.

Il ragazzo rallentò e virò, di colpo, facendo protestare i due genitori incatenati alle sue braccia. Si avvicinò ad una delle rocce nere e ne cercò un’insenatura. Nascose il libro accuratamente e contrassegnò il luogo, uguale al resto del paesaggio per chilometri, legandoci il nastro con cui si era fasciato il braccio, ricavato dalla sua veste strappata.

“Tornerò più tardi. Ora nascondiamoci. Ho corso e sono stanco, inoltre questo buio non mi rende tranquillo. Meglio non attirare bestie feroci”.

“Più di morti noi non possiamo essere perciò…” iniziò Luciherus ma Kasday gli tappò la bocca e gli impedì di aggiungere altro a quella frase.

Il sentiero si faceva impervio e sempre più stretto, in salita ed avvolto dalle tenebre. Kevihang però notò che non nevicava più e non faceva tanto freddo, anche se non riusciva a scorgere il cielo fra quei rami rocciosi e scuri. Forse, lassù, c’era una luce…ma non ne era sicuro.

“Non sento più il rumore assordante dei nostri, dei tuoi, inseguitori” commentò Luciherus.

“Forse hanno trovato il libro e non mi cercano più. Scusate. Se così fosse, per voi sarebbe un bel problema, immagino. Ma conosco un sacco di persone che praticano la magia. Sicuramente almeno una di loro saprà come aiutarci…”.

“Non è meglio fermarci? Non è prudente procedere al buio…” suggerì Kasday.

“Ma guarda che in questo Pianeta è quasi sempre buio. Oppure piove, o nevica, o grandina…o altre schifose emanazioni atmosferiche. Le rare volte in cui c’è il Sole, non lavora un granché e quindi fa un freddo cane e fastidioso”.

Lei non disse più nulla. Si vedeva che non era affatto felice di sentirsi raccontare certe cose.

Luciherus la teneva per mano ed insieme salivano dietro al figlio, che era scalzo ma pareva muoversi senza troppi problemi su quella via impervia e sconosciuta.

“Sei sempre stato in un orfanotrofio?” domandò Kasday, dopo un po’.

“No. Sono stato adottato. Mi ha aiutato Kuetzalikay”.

“E chi è Kuetzalikay?” grugnì Luciherus.

“L’ultimo Alto rimasto, assieme al padre che molti chiamano Krì”.

“L’ultimo? Ma…c’era Berkana, i suoi piccoli e…” iniziò lei.

“Non so da quanto tempo non getta un occhio da queste parti, Signora, ma moltissime divinità sono morte ed altrettanti Alti. Per non parlare dei mortali…”.

“Quanti, esattamente?”.

“Non credo ci sia nemmeno più un bambino fra le creature divine e superiori…”.

“Nemmeno un bambino?! Ma è terribile…”.

Luciherus la afferrò più stretta e si fermò, guardandola negli occhi.

“Non devi pensarci” la ammonì “Non è più affar tuo. Non permettere alla tua essenza di preoccuparsi per i Mondi e gli Universi, o ti perderò di nuovo”.

“Ma…Lucy…”.

Lui la interruppe baciandola e stringendola a sé, cercando di consolarla e calmarla.

“Scusate se interrompo…” si intromise Kevihang “…ma noi, o perlomeno io, dovremmo scappare. Non so quanto la cosa vi interessi, ma gradirei essere certo al cento per cento di essere salvo, prima di concedermi risvolti romantici e sdolcinati”.

“Ragazzino…ho tanta voglia di tirarti una sberla…” sibilò Luciherus.

“Provaci, Dio in cassa integrazione!”.

“Dici sul serio?! Ma allora sei pazzo per davvero!”.

“Dai, fatti sotto! Ti tiro un ceffone che nemmeno ti immagini!”.

“Tiri su rissa con te stesso?” lo apostrofò una voce alle sue spalle.

Subito, Kevihang estrasse la spada di ghiaccio donatagli dal fratello e si voltò, per colpire l’intruso. Non riuscì nell’impresa perché l’arma rimbalzò sulla barriera generata dal suo obiettivo e perse l’equilibrio. Inaspettatamente non cadde. Una mano lo teneva, saldamente. Era calda e…familiare.

“Rik?” si stupì “Cosa ci fai qui? Cosa vuoi?”.

“È questo il modo di accogliermi? Ho fatto un sacco di strada prima di trovarti, lo sai? Razza di ragazzino impudente e maleducato”.

“Scusa” mugugnò il giovane, non molto convinto.

Rifoderò la spada, con un pizzico di riluttanza, e si rimise in piedi da solo.

“Devi stare attento con quella spada. Avresti potuto ferirmi”.

“Era quello lo scopo…”.

“Volevi ferirmi?!”.

“Non te nello specifico, ma un eventuale nemico”.

“Ah beh…finché vai in giro parlando da solo e cercando di attaccar briga con un sasso…”.

“Non stavo parlando da solo! Ma con loro!” esclamò Kevihang, alzando le braccia e facendo tintinnare le catene alle quali erano legati i suoi genitori.

“Capisco…parlavi con le tue mani. E la cosa per te è normale?”.

“Ma sei orbo?! Dietro di me ci sono due persone, legate a me da due catene d’acciaio azzurro!”.

Rikarathör guardò dietro il ragazzo, mentre Kasday e Luciherus gli facevano “ciao” con le mani.

“Mmm…cosa ti sei fumato?” domandò, alla fine, con le mani dietro la schiena.

“Ma come?! Non li vedi?”.

“Vedere chi, Kevihang? Se è uno scherzo, è durato abbastanza. Non c’è nessuno dietro di te, né tantomeno legato ai tuoi polsi con delle catene. Io ai tuoi polsi vedo solo dei brutti tagli. Hai tentato il suicidio, per caso? Ti sei dato alla droga?”.

“Tu non li vedi? Ho fatto un’evocazione e…”.

“Hai fatto cosa?”.

“…e ho richiamato i miei veri genitori, però…”.

“Hai fatto cosa??!!”.

“…però ora devo fare in modo che ritornino dov’erano prima perché sono anime morte ed io ho lasciato il libro che ho rubato fra…”.

“TU HAI FATTO COSA??!!”.

“La smetti di ripetere sempre la stessa frase?”.

“E tu la smetti di farmela pronunciare?”.

I due fratelli si erano fermati a guardarsi. Kevihang era teso e rosso in viso, con i capelli scomposti e la veste stracciata ed in disordine. Rikarathör, al contrario, era impassibile nonostante l’agitazione che doveva provare. I capelli, legati in una coda, si muovevano leggermente, mossi dal vento. I loro sguardi si incrociarono ed entrambi sorrisero, all’unisono.

“Mi sono mancate le tue piccole pazzie, Kevy” ammise il maggiore, mentre il minore lo abbracciava ridendo.

“E a me è mancato il tuo modo di fare. Quello sguardo ed atteggiamento di chi si sente adulto ma in realtà…non lo è!”.

“Hei! Ma lo sai quanti anni ho, ragazzino?”.

“Sì. Ma, evidentemente, l’età non conta per il tuo cervello!”.

“Spiritoso! Adesso spiegami un po’ sta storia dell’evocazione e dei tizi che dovrei vedere…”.

“Tu prima spiegami come mai sei qui. È molto lontano da casa nostra questo luogo…”.

“Ti ho raggiunto appena possibile. Subito dopo essermi ripreso dallo sforzo magico della biblioteca. Non potevo permettere che ti succedesse qualcosa di male e speravo che non avessi commesso un’enorme cazzata come quella di rubare un libro a Vereheveil, nel palazzo di Mihael per giunta!”.

“E come hai fatto a trovarmi? La luce, sulla mia mano, era spenta”.

“Devo forse essere io a ricordarti che mio e nostro fratello è il figlio di Urihel, Dio del cielo e dell’Aria? E devo forse essere io a dirti che l’aria è ovunque? È stato proprio lui a darmi un passaggio fino a questo Mondo per poi indicarmi dove ti trovavi”.

“Il figlio di Urihel? Bello! Anche lui è figlio di Urihel?” commentò Kasday, entusiasta.

“No” spiegò Kevihang “Lui è il figlio del Dio del Sole”.

“Che tanti bastardi che sono nati in nostra assenza!” ridacchiò Luciherus.

“Hei! Stai parlando al mio fratellone adottivo!” protestò il ragazzo, mentre Rikarathör lo fissava con un’espressione un po’ smarrita.

“Ok…hem…fratellino…sediamoci e parliamone. Mi pare che qui ci siano delle cose di cui discutere. Ma non qui. Lasciamo il sentiero”.

Assieme si spostarono verso destra, nascondendosi in una piccola insenatura. Un’insolita radura di rocce invisibile dal sentiero principale. Il mantello del figlio del Dio del Fuoco strusciava sulle pareti nere, emettendo uno strano e simpatico verso d’elettricità statica. Si sedettero l’uno di fronte all’altro, mentre Kevihang tentava di far star comodi anche i suoi genitori.

“La tua luce è più pallida del solito…” gli fece notare il giovane.

“Te l’ho detto: sono venuto a cercarti appena mi sono ripreso, ma sono ancora debole”.

“Ed il tuo sigillo…”.

Rikarathör lo toccò. Da lì si stavano diramando segnacci rossi e profondi, come ferite.

“L’ho sforzato troppo”.

“Per me?”.

“E per chi altro, piccolo stupido?”.

“Grazie”.

“Non mi devi ringraziare. È il mio compito da fratello maggiore e maestro”.

Kevihang abbassò lo sguardo, non sapendo che cosa dire.

“Parlami di questa tua evocazione” parlò, allora, il figlio del Sole.

“Ho evocato i miei genitori. Che ora sono qui con me, solo che tu non puoi vederli perché sono semplici essenze, credo”.

“Come si chiamano? E loro possono vedere me?”.

“Loro ti vedono benissimo. E sono Luciherus e Kasday”.

“Occhio alle cacchiate che spari, fratellino. La mia pazienza ha un limite!”.

“Ma è vero! Vuoi una prova? Madre…sarebbe in grado di far apparire lo splendido fiore di prima? Era bellissimo e non ne avevo mai visto uno così prima…”.

“Posso fare di meglio!” gli sorrise lei e si alzò con grazia ed eleganza.

La catena era sufficientemente lunga per permetterle una certa libertà di movimento. Si mosse sulle punte ed iniziò a danzare. Non poteva compiere molti passi ma ciò che faceva era più che sufficiente per creare evidenti cambiamenti. Le rocce nere sotto i suoi piedi si aprirono, spaccandosi, ed iniziarono a spuntare splendidi fiori ed erba verde. La parete che le stava accanto, con il suo solo tocco, si animò e mutò, divenendo un albero rigoglioso ed altissimo. Rikarathör osservava il tutto con vivo stupore ed ammirazione. Poteva sentire il cuore pulsante del Pianeta sotto di sé, scorreva nella terra come una nuova sorgente.

“Oh…Kasday!” sussurrò, con gli occhi rivolti verso il bellissimo albero.

Luciherus, sentendosi in disparte, fissò con un pizzico di gelosia le movenze della sua donna. Non gli piaceva che danzasse per qualcun altro. Fece scricchiolare le sue nocche, scuotendo le mani. Era pronto per mostrare anche lui il suo potere. Allungò la mano verso il figlio del Sole e lo sfiorò appena, con la punta delle dita. Chiuse gli occhi e Rikarathör avvertì una specie di scossa nel punto sfiorato dall’antico Dio della Forza. Dal dorso della mano, dove era stato toccato, iniziò a sentire un insolito calore ed un’energia mai provata. Le ferite provocate dal suo sigillo guarirono in un istante e la sua luce si fece sempre più forte ed intensa. L’essenza di Luciherus gli aveva restituito tutta la sua forza ed anche di più, perché era la prima volta che brillava così energicamente.

“Fantastico…” commentò Rikarathör, sentendo le fiamme tatuate sul suo corpo alimentarsi di nuovo e le energie farlo illuminare.

“Ti senti meglio, fratellone?”.

“Altroché! Incredibile…sei il figlio delle divinità più venerate di tutti i tempi! Mi dovrò inchinare” rise, giocherellando con una sferetta di fuoco che aveva appena creato.

“Ora mi credi? Bene…”.

“Come puoi essere nato da loro, in effetti? E poi…dov’è quel fottuto libro che tutti cercano e che tu hai rubato? Perché è per questo che scappi, se non ricordo male…”.

“Lunga storia. Comunque il libro l’ho messo al sicuro”.

“Faresti meglio a restituirlo”.

“Ma devo riportare indietro i miei genitori nel luogo in cui stavano prima!”.

“A quello penseremo dopo. Sono sicura che la Dea della Morte saprà aiutarti…se troveremo il modo di contattarla…”.

“Non è un problema”.

“Giusto…è tua sorella se non sbaglio. Wow! Il fratello minore della Morte!”.

“Beh, sì…ma non solo per questo…”.

“Che intendi dire?”.

“Il nostro ultimo incontro non è stato molto fraterno…”.

Socchiuse gli occhi, aspettandosi una reazione da parte del fratello maggiore che, invece, lo guardò con tenerezza e tristezza.

“Il Destino è proprio stronzo quando vuole, eh? Innamorarsi della propria sorella…”.

“Già. Non mi sgridi?”.

“Come potrei? Cerca solo di non farti notare da altre divinità, perché sai che è proibito per un Semidio, o quello che sei, avere un certo tipo di contatti con le vere divinità…”.

“Farò il possibile…” sorrise Kevihang.

“Non è uno scherzo, ragazzino!” lo rimproverò Rikarathör.

“Ok…non te la prendere! Non ci faremo notare”.

“I tuoi genitori…sono dietro di te…cosa ne pensano di tutto questo?”.

Luciherus agitò la coda mostrando il suo entusiasmo. Kasday non fece commenti ma nemmeno guardò con rimprovero il ragazzo, anzi lo fissò con affetto.

“Loro non hanno niente al contrario. Fra divinità succede…”.

Rikarathör parve stupito da quella risposta. Inclinò il capo, appoggiato sulle ginocchia che aveva stretto a sé sedendosi, e gli sorrise.

“È una buona cosa”.

“Perché non avrebbero dovuto approvare? Siamo Dèi, in fondo”.

“Lei è una Dea. Tu sei un meticcio strano, come me. E pochi genitori approvano che la propria figlia venga toccata da un sanguemisto, anche se si tratta del loro stesso figlio”.

“Ah…ok…” si limitò a dire Kevihang, notando lo sguardo triste del fratello.

La Luna illuminava ora i fiori di Kasday, che brillavano come avvolti dalle stelle. Rikarathör guardava il satellite sorridendo malinconico.

“Mi chiedo perché abbia una luce così triste…” disse e il fratellino annuì, dato che anche lui aveva notato quanto sembrasse più pallida del solito.

“Perché non riesco a vederti…” rispose la Luna, da un punto imprecisato del cielo.

“Dove sei?” la chiamò il figlio del Sole.

Lei rise e tutti i presenti la videro. La sua cavalcatura, alata, era sopra di loro.

“Come ci hai trovati?” chiese Kevihang.

“La vostra luce è piuttosto visibile dall’alto…” sorrise lei e Kevihang notò di risplendere leggermente di rosso.

“Hai combinato un bel casino, Kevy! Ti stanno cercando tutti!” parlò ancora la Dea, atterrando dolcemente e scendendo dal destriero d’argento.

“Lo so. Aspetterò che si calmino un po’ le acque e poi restituirò il libro, così saranno tutti contenti”.

“Quanto ottimismo…l’hai contagiato, Rik?” azzardò lei, guardando il figlio del Sole.

“Non può tornare subito il libro, come anch’io gli ho suggerito, perché deve riportare indietro i suoi genitori, che ha evocato” spiegò Rikarathör.

“Quali genitori? Io non vedo nessuno!”.

“Questi fiori sono stati creati dalla madre che ha accanto, che però è un’essenza e perciò non la puoi vedere. Fidati…”.

Lei guardò le piante, incantata. Le sfiorò e queste brillarono con ancora più forza.

“Sono bellissimi.  Ma che creatura può far tornare i fiori in questo Pianeta annaspante?”.

“Kasday”.

“Tu mi prendi in giro”.

“Non potrei mai!”.

“Ti posso giurare che è la verità!” confermò Kevihang.

“Voi due siete pazzi!”.

“Dì al tuo fratellone di fare quello che gli suggerisco…” mormorò Luciherus, alle orecchie del figlio che non sapeva come convincere la Dea.

“Va bene…che cosa gli devo dire?”.

“Come?!” domandò la Dea, senza capire con chi stesse parlando.

“Noi non possiamo togliere il sigillo perché non siamo più in vita ma, unendo le forze, io e Kasday potemmo fare in modo che, per qualche istante, non abbia più effetto” continuò Luciherus.

“Interessante….e lui che dovrebbe fare?”.

“Baciarla”.

“Cosa? Ma è sua sorella!” sibilò Kevihang, ma subito si zittì. Si stavano guadando in un modo inequivocabile.

“Tu la ami” esclamò al fratello maggiore, che lo guardò in uno strano modo.

“Hai seguito proprio un brutto esempio” sospirò.

“Baciala!” lo incitò Kevihang.

“Non posso. Mio padre mi ha messo questo sigillo per non farmela toccare”.

“Ho sempre pensato che fosse perché al tuo rito dei cristalli sei impazzito. Non credevo l’amassi davvero…ora, però, mi sono chiare molte cose”.

“Voi uomini capite sempre le cose in ritardo” sbottò la Luna.

“Ignora il sigillo, fratello. Baciala. I miei genitori intendono dare la prova della loro presenza disattivando, temporaneamente, l’effetto di quell’oggetto. Chi, se non Kasday e Luciherus assieme, potrebbero fare una cosa simile?”.

“Kasday e Luciherus? Salvo un Alto e chi ha realizzato quel sigillo…immagino che solo loro, in effetti, possano fare una cosa del genere” commentò la Dea, guardando Rikarathör negli occhi, con un po’ di paura ed incertezza.

“Cosa c’è?” le domandò lui.

“Ho paura che…possa farti del male!”.

“Io mi fido di quello che dice il mio fratellino, gli credo, e quindi mi fido di ciò che mi suggerisce. Sta tranquilla. Andrà tutto bene…”.

“Baciala!” sbottò Luciherus, non abituato ai miscredenti.

Il figlio del Sole si avvicinò, sentendo che il sigillo non gli dava la solita scossa. Al contrario, pareva attirarlo verso la Dea dagli occhi argentati. Lei smise di essere preoccupata vedendo questo e sorrise. Gli prese le mani e, stringendole forte, lo baciò. La luce di entrambi si fece più forte e si fuse, per qualche istante. Poi furono costretti a lasciarsi, perché il sigillo ricominciava ad infastidire il suo proprietario. Lui non voleva farlo capire ma la Luna ormai lo conosceva bene ed era in grado di percepire subito se qualcosa non andava.

“Mi ami ancora” gli sussurrò.

“Certo! Avevi qualche dubbio?”.

“A volte sì. Ma il tuo bacio ancora trasmette inalterato il sentimento che ci ha legato anni fa”.

Lui le sorrise e girò la testa. Stava albeggiando. Vide il Sole sorgere da dietro il tronco dell’albero appena creato da Kasday. Era da tantissimo tempo che non vedeva un’alba così. Era rossa e forte, luminosa, senza nuvole e calda, piacevolmente calda.

“Ho quasi voglia di alzargli il dito medio…” brontolò Rikarathör, mentre assorbiva i raggi della stella avidamente ed inconsciamente.

“Lascia perdere. Io devo andare, ragazzi. Grazie Kevy, e grazie ai tuoi genitori. Devo andare, Rik. Sai che papà si arrabbia se mi vede qui con te…”.

“Vai pure. Non mi manca vederlo arrabbiato”.

“Buona fortuna, Kevy”.

“È la frase che mi rivolgono tutti fin da quando son piccolo…”.

La Dea sorrise e risalì sul suo destriero.

In cielo apparve, improvvisamente, un grosso drago verde cavalcato da Marinditi-ya, la sorellina di Rikarathör e Kevihang, che chiese informazioni sul figlio del Sole. Sembrava molto preoccupata. La Dea e la Semidea si fissarono, non in modo molto amichevole, poi la Luna scomparve all’orizzonte e Marinditi-ya atterrò. Di volata, letteralmente, atterrò anche Loreatehenzi, che ormai si librava in aria senza problemi.Il fratello minore Kevihang guardò il maggiore Rikarathör con un ghigno accattivante, al quale l’interessato non rispose.

“Non dire una parola su ciò che hai visto. Muto!” lo ammonì.

“Ma certo!”.

“Avanti. Andiamo a riprendere quel libro così potrai restituirlo e, forse, non ti succederà niente di male. Ci penserà la Dea della Morte a liberare i tuoi genitori”.

“Hai bisogno di una copertura perché papà non ti faccia il cazziatone?” sghignazzò Kevihang.

“Subito te lo do io il cazziatone! Muoviti!”.

“Ok! Non ti arrabbiare!”.

“Cos’è successo?” chiese Loreatehenzi, sentendosi escluso e non accolto.

“Cosa ci fate qui? È pericoloso!” fu la risposta di Rikarathör “Soprattutto per te, Marinditi-ya!”.

“Eravamo preoccupati per te, brutto stupido!” lo rimproverò la Semidea, scendendo dal drago e sistemandosi la veste scollata “E anche per te, ovviamente, Kevihang! Che bello rivederti!”.

“Che sollievo, più che altro. Mamma è molto preoccupata per entrambi”.

“Dite alla mamma che sono un po’ grandino perché si stia a preoccupare per me” sbottò Rikarathör, incrociando le braccia e guardando con disapprovazione, o forse interesse, la scollatura eccessiva della sorella minore.

“Mamma sa che non crescerai mai e che nel cervello resterai sempre un eterno bambino!” rispose Loreatehenzi, ghignando da folle ma consapevole di aver ragione.

“Chi sono questi?” domandò Luciherus, scocciato come non mai di essere invisibile.

“Sono i miei fratelli adottivi” spiegò il ragazzo evocatore.

“Con chi parli, pazzoide?” volle sapere Loreatehenzi.

“Storia lunga” interruppe Rikarathör, prima che Kevihang iniziasse a spiegare “Adesso andiamo alla ricerca di quel caspio di libro che tutti vogliono”.

“Non serve cercarlo. So dov’è!” si offese il ragazzo.

“Bene! Allora andiamo. Voi due potete anche tornare a casa, qui ci penso io” ordinò il fratello maggiore, rivolto al figlio di Urihel ed alla figlia dell’Estate.

Come avrebbe dovuto immaginare, nessuno dei due gli obbedì. Marinditi-ya legò il drago ad una roccia, consapevole di non poterlo far planare data la vicinanza delle due pareti nere lungo il sentiero, e si incamminò dietro ai fratelli. Percorsero a ritroso il sentiero principale, illuminato stavolta dal Sole.

“Qualcuno può spiegarmi che cosa sta succedendo?” chiese Loreatehenzi, svolazzando.

Librandosi in aria, i lunghi capelli gli restavano sospesi in onde e ricci provocati dai piccoli vortici che lo tenevano sospeso. Inspiegabilmente, la barba restava immobile. La tunica nera ed il mantello dello stesso colore sventolavano a destra ed a sinistra, senza una logica.

“Sembri il figlio della Morte” commentò Rikarathör, notando gli anfibi che portava ai piedi ed i teschi sulla collana che portava il cristallo azzurrino chiaro della sua prova di maturità.

“Sai che io sono il fratello minore della Morte?” si esaltò Kevihang.

“Sì?! Che figo!!” esclamò Loreatehenzi, senza chiedersi minimamente come questo fosse possibile.

“Che linguaggio è?! Hai trent’anni, quand’è che ti metterai a parlare come un uomo?” lo rimproverò il fratello maggiore, spingendo Kevihang a concentrarsi sul luogo in cui aveva riposto il libro e non distrarsi con i soliti discorsi stupidi che faceva.

“Da che pulpito, Rik!” rispose Loreatehenzi, mentre Marinditi-ya alzava gli occhi al cielo con rassegnazione: si sentiva all’asilo quando iniziavano certi battibecchi.

“Ecco! È quello il punto!” esclamò Kevihang e corse verso una roccia, su cui si poteva vedere chiaramente il pezzo di stoffa che ci aveva legato.

Si accorse subito, però, che il libro non c’era più.

“Non c’è!” gemette.

“Come non c’è? Controlla meglio! Come può non esserci?” si allarmò Rikarathör, aiutandolo a cercare nei paraggi “Forse è il luogo sbagliato!”.

“No, sono sicuro che il luogo è questo! Deve averlo preso qualcun altro!”.

“E chi?”.

“E che ne so io! Qui non c’è!!”.

“Il problema…sarebbe…?” si intromise Loreatehenzi, cercando di rendersi utile.

“Sarebbe che siamo nella merda” rispose il fratello maggiore, girandosi e restando immobile.

Erano circondati dalle guardie di Mihael e da altre creature armate e minacciose.

“È lui” parlò uno dei demoni, con voce profonda, indicando Kevihang.

“Arrestateli tutti” ordinò un altro, con una lunga picca lucente fra le mani.

“La lancia delle creature sotto il diretto comando della Dea del Kaos” sussurrò Rikarathör al suo allievo, mentre veniva immobilizzato “Vedi di non fare cazzate con loro. Sono estremamente pericolose ed irascibili…”.

Le guardie avanzarono verso il gruppetto di fratelli, dopo aver bloccato Kevihang, ma Rikarathör li bloccò, nonostante avesse già le mani legate.

“E dopo dice a me di non fare cazzate…” sibilò il figlio dei morti.

“Lasciate stare questi due” ordinò il figlio del Sole “Loro non hanno niente a che fare con questa storia. La colpa è mia e di Kevihang, non posso negare il nostro coinvolgimento, ma questi due sono solo curiosi ed impiccioni. Non han fatto niente”.

Le guardie si guardarono, perplesse ed annuirono. Nessun testimone aveva comunicato di aver visto il colpevole in compagnia di altri se non di se stesso e, ogni tanto, di uno strano uomo dai capelli che sfumavano dal nero al rosso, cioè colui che avevano davanti.

“Siete liberi di andare. Sparite dalla mia vista” sibilò il capo delle guardie, rivolto a Loreatehenzi e Marinditi-ya, che protestarono ferocemente.

“Chi credi di avere davanti, bello?” gli ringhiò contro Loreatehenzi “Io sono il figlio di Urihel!”.

“Puoi essere chi ti pare, basta che ti levi dai coglioni!” rispose l’enorme creatura, con almeno una ventina di occhi sparsi lungo tutto il viso che sbattevano in momenti differenti.

“Fate come dice, per l’amore degli Dèi!” urlò Rikarathör, con uno sguardo più minaccioso di quello dei demoni armati che li circondavano.

Il figlio del Sole rimpiangeva i giorni in cui bastava prenderli per la coda, nel caso di Kevihang, o per i capelli, nel caso di Loreatehenzi, per farli ragionare. Ma quei tempi erano passati e Kevihang era cresciuto, sfuggendogli dalle mani.

“Consegnaci subito il libro!” ordinò qualcuno al giovane, mentre Marinditi-ya ed il figlio di Urihel si allontanavano lungo il sentiero sotto la minaccia delle lance e delle spade.

“Non so dove si trovi. L’avevo lasciato lì” affermò Kevihang.

“Forse lo sai tu?” sibilò la creatura dai molti occhi, afferrando il braccio di Rikarathör.

Questi non rispose, ma scaldò il tatuaggio che aveva nel punto che il mostro stava stringendo e lo fece gridare per la scottatura.

“Portateli via, tutti e due!” ordinò, irato “Ci penserà la corte suprema a farli parlare!”.

“Sissignore!” risposero tutte le creature, all’unisono e mettendosi sull’attenti.

Erano davvero pittoresche alcune di loro, evidenti abitanti dei territori del Kaos. Alcune avevano molte braccia, altre molti occhi, più bocche o strane orecchie, pelle squamata o ricoperta di pelo. Vere assurdità che spuntavano fra i demoni del regno di Mihael.

“Fermi” parlò qualcuno, con calma.

Una luce fortissima avvolgeva chi aveva parlato, che era giunto mimetizzandosi fra le luci dell’astro che sorgeva all’orizzonte.

“Papà?!” si stupì Rikarathör, mentre si dimenava per liberarsi dalla morsa di due giganti che lo tiravano per le braccia.

“Lasciate andare quel mezzosangue” ordinò il Dio del Sole, con tono solenne ed indicando suo figlio “Slegatelo subito. So per certo che stava facendo ben altro fino ad un attimo fa. Non ha nessun coinvolgimento nel furto del libro”.

“Ma tu che ne sai? Non è vero!” protestò Rikarathör, mentre veniva slegato.

“Se la vostra padrona…” parlò il Dio, rivolto alle creature del Kaos “…ha qualcosa da dirmi, sa dove trovarmi. Per ora prendo io in consegna questo qui!” ed afferrò il figlio toccandogli il sigillo attorno al collo, questo gli impediva di opporre resistenza alla magia del genitore.

“Kevihang…” riuscì a dire il figlio del Sole “…sta tranquillo! I tuoi genitori ti proteggeranno ed io ti aiuterò. Vedrai che andrà tutto bene”.

“Non ho paura. Non preoccuparti troppo per me” lo rassicurò Kevihang, mentre veniva portato via velocemente dalle guardie e dalle creature del Kaos.

“Non ti abbandono, Kevy! Te lo prometto!” gli urlò il fratello maggiore, prima che sparisse in groppa ad un enorme drago a due teste che lo portò via.

 

Rimasto solo con il padre, Rikarathör lo guardò mentre il Sole lo lasciava andare.

“Perché lo hai fatto?” protestò.

“Cosa? Perché ti ho impedito di essere giustiziato?”.

“Giustiziato?”.

“Tu sei un mezzosangue. Non avresti avuto scampo davanti al giudizio dell’Alto Krì e della sua truppa di amichetti puritani. Quel ragazzo non è così evidentemente figlio di uno degli Dèi, avrà la possibilità di difendersi ed esporre le sue ragioni, ma tu no. Tu verresti giudicato colpevole e giustiziato prima ancora di proferire una sola parola”.

“Ma il mio compito era proteggere il mio fratellino ed allievo. Invece così non so come aiutarlo”.

“Io sarò presente al suo processo. Vedrò che posso fare”.

“Davvero?”.

“Sì. Cercherò di aiutarlo come posso. Non ho la facoltà di prometterti niente perché non sono di certo la massima autorità fra le divinità”.

“Perché lo fai?”.

“Perché vedo che ci tieni a quel ragazzo”.

“E con ciò?”.

“Sei mio figlio, Rikarathör! Il minimo che possa fare è aiutarti quando posso!”.

“Questo mi stupisce…”.

“Ti avverto, però, che se verrà giudicato colpevole e mi affideranno una qualche condanna da infliggergli…dovrò farlo. Non è il caso che il Dio del Sole ci rimetta le penne per un mortale, spero che tu capisca”.

“Potrò assistere al processo?”.

“Come tutore e maestro del ragazzo, sì. Ma non avrai il permesso di parlare, dato che sei un semidio, e gradirei che non mostrassi tanto la tua identità”.

“Saprò celarmi…”.

“Ti informerò appena inizierà…”.

“Allora…grazie…”.

“Figurati. Stai lontano da Selene, però”.

“Questa è una cosa che non posso prometterti” ridacchiò Rikarathör e corse via, senza dare il tempo al padre di replicare in alcun modo.

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Capitolo 21
*** XXI- giudici e giudizi ***


XXI

 

GIUDICI E GIUDIZI

 

“Incredibile…” protestò Luciherus, seduto nell’angolo della fredda stanza in cui avevano rinchiuso Kevihang in attesa del processo “…incredibile davvero! Non solo sono incatenato ad un figlio di cui non sapevo l’esistenza prima di poche ore fa, ma ora sono pure in galera! Io! Il più grande dei grandi nelle ultime Ere!”.

“Esaltato…” ridacchiò Kasday, appoggiata al muro a guardare il soffitto.

“L’importante è che io e te siamo ancora vicini…” aggiunse, allora, l’antico Demone.

“Appunto! Non protestare!” lo sgridò lei, afferrandolo per la coda.

“E chi protesta?!” mugugnò Luciherus, andandole vicino ed abbracciandola, riempiendola di baci.

“Scusate? Potreste non accoppiarvi mentre io mi trovo in questa situazione?” brontolò Kevihang, che camminava nervosamente per il perimetro che gli lasciavano a disposizione le catene a cui era legato ai genitori.

Come se queste non bastassero, era stato legato alle caviglie con dei pesanti ganci per impedirgli di scappare o aggredire le guardie che lo controllavano.

“Chiedi l’infermità mentale!” gli suggerì Luciherus.

“Spiritoso!” sibilò il ragazzo.

“Non scherzo! Tranquillo…andrà tutto bene! Non hai fatto niente di male”.

“Tranne rubare un libro proibito”.

“Quello l’ho fatto un sacco di volte!”.

“Quella era una cosa diversa…”.

La stanza era buia, con una piccolissima finestra, ed era bianca, priva di mobili, completamente spoglia. Inquietante e fredda, ma abbastanza ampia da far fare al ragazzo un sacco di giri, sbattendo le ali e la coda per il nervosismo. La porta si aprì, lentamente, ed entrò una piccola figura. Era Kiaritanya, la messaggera dell’Alto Krì e del figlio, stranamente vestita da creatura angelica, con lunga tunica e piedi scalzi.

“Sei pronto per essere giudicato?” domandò, rivolta a Kevihang.

“Certo. Facciamo in fretta!” replicò il giovane, con tono di sfida.

“Non esaltarti, giovanotto. Te lo consiglio”.

“Ma che vuoi da me, angioletto?”.

Kiaritanya gli mollò una sonora sberla e lo guardò con fastidio: “Sai chi attende qua fuori, cretino? Ti sconsiglio di fare tanto il gradasso e lo spocchioso, sai?!”.

“Ha ragione” si aggiunse Kasday e Luciherus annuì.

“Ok. Mi arrendo…cosa dovrei fare secondo te, angioletto bello?”.

“Chiamami Kiaritanya. Sono la Messaggera di Krì, l’Alto che farà da giudice supremo al tuo processo. Lui non è cattivo, te lo posso assicurare, ma è maniaco delle regole. È proprio fissato e quindi ti suggerisco di tentare in ogni modo di convincerlo di non volerle infrangere e dimostragli che non hai fatto niente di male. Così facendo non dovresti avere problemi, se consegni il libro”.

“Io non ho il libro! L’ho già detto e ripetuto più volte!”.

“Altra cosa: non dire che Kuetzalikay era con te al momento del furto. Ti crederà un bugiardo e non vorrà sentire altro da te”.

“Ma è vero! Kuetzalikay era con me!”.

“Lo so. C’ero anch’io! Ma segui il mio consiglio, se non vuoi essere giustiziato!”.

“Chi ci sarà là fuori?”.

“Ora lo vedrai. È ora di andare. Seguimi. E ricorda che, anche se avrai diversi giudici davanti a te, l’importante è che convinca Krì, è lui che ha l’ultima parola definitiva”.

Kevihang, con le mani legate, venne scortato lungo uno stretto corridoio grigio perla. Al suo fianco marciavano diverse guardie armate di tutto punto, con Kiaritanya che apriva la strada. I genitori del ragazzo si libravano in aria, tenendosi per mano, senza staccare gli occhi dal figlio. Il corridoio terminava con un enorme portone di legno massiccio, decorato e sorvegliato.

“Che esagerazione…” mormorò Kevihang e Kiaritanya gli lanciò un’altra occhiataccia.

“Riavvolgi la lingua, ragazzo, e vedi di parlare solo se necessario, adesso. Non è un gioco!”.

Il giovane non sembrava convinto e guardò la messaggera con scetticismo ma poi lei aprì il portone ed il ragazzo abbassò le orecchie, deglutendo. L’ampia sala era gremita e vi si respirava un’aria pesante e minacciosa. Tutti fecero silenzio mentre lui avanzava verso la sua postazione, davanti ad una fila di giudici e giurati di varie specie e grado.

“Wow…quanti pezzi grossi…” esclamò Luciherus, dopo un fischio prolungato d’ammirazione.

“Quel libro dev’essere davvero importante…” borbottò Kasday, preoccupata.

Giudici e giuria avevano la luce alle spalle, rendendone difficoltosa l’identificazione, e nel resto del salone, divisi in più piani, si affacciavano diverse creature.

“Perché tanta gente?” sussurrò Kevihang.

“Credo non sappiano con che categoria di creature inserirti. E perciò ne hanno un po’ per tipo presenti, come rappresentanza del genere, ad assistere. Questi processi sono sempre stati piuttosto coreografici e plateali, fin troppo!” rispose Kasday, cercando facce familiari fra la folla.

“Il giudice supremo, l’Alto Ansuz, prende posto in aula” affermò Kiaritanya, in tono solenne, mentre il resto dei presenti si alzava, in segno di rispetto.

Krì entrò da un portone dorato. Anche lui, come gli altri giudicanti, era controluce e Kevihang ne poteva scorgere solo la sagoma scura. Prese posto più in alto rispetto a giudici e giuria e fece segno di sedersi a tutti gli altri. Kevihang vedeva altre nove sagome attorno all’Alto, di cui però non poteva cogliere i volti e la cosa lo infastidiva parecchio. Vedeva ali, corna, cappucci, forse…

Dopo alcuni minuti di interminabile silenzio, in cui tutti prendevano posto e si sistemavano, l’Alto diede ordine di abbassare le luci, notando quando l’imputato ne fosse infastidito. Alcuni specchi girarono e delle tende vennero calate. Il giovane credeva che la mancanza di tutta quella luce lo avrebbe rassicurato, in realtà quella sala, buia, era ancora più inquietante. Illuminata da candele e piccoli lumini, allungava le ombre di tutte le creature nella sala, che convergevano sul povero Kevihang, che si sentì tutti gli occhi addosso. La sua pelle emetteva una lievissima luce rossa. Inoltre, senza più il controluce, poteva vedere i suoi giurati. A partire dalla destra del lungo bancone, vide Heket, la Dea della Vita che lo guardava in modo piuttosto strano. Era vestita di bianco e verde, con i capelli raccolti e la piccola corona sempre presente sulla testa, simbolo della sua discendenza con il Principe Luciherus.Al suo fianco stava il Destino, Ajedrez, con una lunga tunica a scacchi con il colletto alto ed i capelli verde acqua sciolti. I suoi occhi dorati brillavano nel buio della stanza e sorrideva. Fra le mani stringeva una rosa con i petali pieni di scritte minuscole e lucenti. Il Dio del Sole, troppo antico perché qualcuno si ricordasse il suo vero nome, era il terzo e guardava fra il pubblico, con un’espressione mista fra apprensione ed il rimprovero. Kevihang lo guardò e sorrise. Notava tutti i tratti in comune con il suo maestro e fratello maggiore. Il Dio distolse lo sguardo dal punto imprecisato in cui guardava, e fissò il ragazzo facendogli un cenno del capo. Il quarto giurato e giudice era Vereheveil, con le ali nere che lo incorniciavano e la lunga tunica aranciata. I suoi occhi, una volta luminosi e brillanti, erano spenti e distanti. Al centro, subito sotto la postazione dell’Alto giudice, Kavahel guardava negli occhi il giudicato, senza avere un’espressione particolare. Lui era l’Equilibrio ed essere neutrale gli riusciva facile. I due, giudice e giudicato, avevano le stesse ali e questo fece sorridere il Dio, solo leggermente. Alla sinistra di Kavahel, alla destra dal punto di vista di Kevihang, stava Mihael che però non mostrava un grande interesse nell’essere lì. Leggeva un libro, con i piedi in diagonale sul tavolo. Urihel, il giurato successivo, cercava di fargli capire che doveva stare attento ma il Demone lo zittiva borbottando. Il Dio del Cielo, con la solita veste blu scuro, aveva le ali di un bel celeste acceso, segno che fuori c’era bel tempo e forse faceva anche un po’ caldo. La Dea del Kaos, Niebla o Skrich, era l’ottava giurata ed era troppo impegnata a guardare male il fratello Destino per preoccuparsi del ragazzino ladro che aveva davanti agli occhi. La sua pelle nera ed il suo abito lucente brillavano nonostante la poca luce. I capelli, corti, corvini e dai contorni indefiniti, si agitavano senza sosta, segno che la Dea era nervosa come sempre. Per ultima veniva la Dea della Morte, con la stessa pelle ed i capelli della sorellina minore Kaos, sorrideva. Le due Dee erano davvero molto simili, salvo per la differenza d’altezza e gli occhi: la Morte li aveva azzurri, il Kaos dorati. Era vestita nello stesso modo in cui Kevihang l’aveva vista la prima volta, con tanto di falce al suo fianco, e lo guardava con tenerezza.

“Possiamo cominciare” parlò Kavahel, mentre l’imputato sorrideva pensando al fatto che buona parte della giuria era imparentata con lui, compreso colui che aveva appena parlato.

“Non ti crederà nessuno, se lo dirai” parlò Kasday “Se dirai che sei figlio nostro, non ti crederanno e per te saranno guai. Capisci, vero?”.

Kevihang annuì e Kavahel sorrise, convinto che annuisse alla sua domanda precedente.

“Come ti chiami, ragazzo?” gli chiese, avvolto in quel mantello blu scuro che gli ingrandiva le spalle in un modo quasi comico, spiccando sul porpora della veste sottostante, tipici colori dell’Equilibrio che però stonavano con il blu delle ali, l’oro degli occhi ed il verde acqua dei capelli del proprietario.

“Mi chiamo Kevihang”.

“E basta?”.

“Sono un orfano. Non ho un cognome. Sono figlio di ignoti”.

“Immagino tu sappia chi sono io, perciò iniziamo. Giuri di dire, davanti a questa corte suprema, sempre e solo la verità? Ti ricordo che davanti a te ci sono parecchie divinità in grado di capire subito se menti e che ti condannerebbero immediatamente se lo facessi”.

“Lo giuro”.

“Bene, Kevihang, siediti pure. Sei qui per il furto del libro proibito che per millenni è stato posto al sicuro, lontano da mani inadatte, nella biblioteca custodita dal Principe Mihael, sotto la protezione del Dio delle Lingue e delle Letterature, Vereheveil. Sicuro di non volerci dire dove si trova? Perché se ora lo facessi…il tuo reato risulterebbe decisamente minore”.

“Io non ho il libro con me. E non so dove sia. L’avevo riposto al sicuro sotto una delle pietre nere che delimitavano il sentiero ma, al mio ritorno, non c’era più”.

“Quel libro era chiuso da un sigillo. Pochissime creature sono in grado di toccarlo” affermò Vereheveil, senza guardare negli occhi il giovane.

“Allora chiedete a quelle altre pochissime creature, perché io non l’ho con me. Poi credo che sia strano che pochissimi lo possano toccare. Credo, invece, che chi ha posto il sigillo non sappia fare il suo lavoro o lo abbia lasciato indebolire con il tempo”.

“Colui che ha fatto il sigillo è qui accanto a te e, credimi, sa fare il suo lavoro!” sbottò Kavahel, indicando il padre che sorrise, facendo segno al figlio di stare calmo.

“Scusate ma…” si giustificò Kevihang “…se una creatura come me, un mortale, è riuscito ad infrangerlo, vuol dire che non era poi così potente”.

“Nemmeno un Alto può infrangerlo, salvo con l’uso della forza, che distruggerebbe il libro. E questo è stato verificato spesso. Tengo sempre sotto controllo i miei libri. Perciò significa che tu sei una creatura più unica che rara perché sei riuscito ad aprirlo. Tutto da solo?” parlò Vereheveil.

“Il sigillo? Sì, l’ho infranto da solo”.

“E come hai fatto? Chi te lo ha insegnato?”.

“Ho aperto il libro e basta. Non ho fatto niente. L’ho toccato e si è spezzato il clip di metallo che lo teneva chiuso. Non me lo ha insegnato nessuno”.

“A che livello sei, ragazzo?” chiese il Destino, guardandolo incuriosito.

“In che senso?”.

“Suvvia…tutti i bambini provvisti di magia fanno un test per vedere a che livello sono e fino a che livello possono arrivare…”.

“Non so di che parla, Signore. Non ho mai fatto niente del genere”.

“Forse perché, essendo orfano, non ha studiato come gli altri bambini” azzardò il Sole.

“Ma qualcuno deve averti dato un’istruzione! Devi aver imparato da qualcuno!” affermò il Kaos.

“Sì, certo…” iniziò Kevihang.

“E, dimmi…hai aperto il libro, ormai non puoi negarlo, che ci hai trovato dentro?” si informò Vereheveil, sempre più interessato a quello strano ragazzo.

“All’inizio niente. Pagine bianche, lingue e scritte incomprensibili, ma poi, non so come, mi è stato tutto chiaro e sono riuscito a leggere ciò che mi interessava”.

“Chi ti ha insegnato a leggere una lingua così antica?”.

“Beh…il mio maestro mi ha insegnato il linguaggio della magia perché diceva che era il più grande dei doni che la natura poteva darmi e quindi un po’ l’ho imparato così e un po’ sono andato ad istinto, senza pensarci troppo”.

“E cosa ti interessava di quel libro, se mi è lecito saperlo?” domandò Urihel, fremendo con le ali.

“Volevo sapere di chi ero figlio”.

“Un’evocazione? Richiede un’enorme quantità di magia!” esclamò il Kaos.

Kevihang non rispose. Non voleva mentire e preferiva, se poteva, girar attorno alla verità.

“Solo quello volevi da quel libro, giovane orfano?” parlò Vereheveil, in tono comprensivo.

“Sì, lo giuro. Non ho idea di che altro contenga quel libro. Io volevo solo mettere in atto l’evocazione riportata sotto il nome di "linea di sangue". Poi ero pronto a restituirlo ed affrontare le conseguenze, qualunque queste fossero state”.

“Sei un ragazzo coraggioso e le tue intenzioni erano buone, voglio crederti. Non ho intenzione di chiedere una tua condanna, essendo io il soggetto più danneggiato da questa storia, ma pretendo di riavere il mio libro, adesso!”.

“Io non l’ho più, Signore. Vorrei tanto restituirlo, ma qualcuno me lo ha sottratto. Perché dovrei mentirvi? Non ho interesse a tenerlo con me…”.

Vereheveil non era convinto. Si vedeva quanto tenesse a quel libro.

“Come sei venuto a conoscenza dell’esistenza di quel libro?” si informò il Sole.

“Fin da bambino, mi è sempre stato detto che nella biblioteca di Vereheveil, nel palazzo del Principe Mihael, c’era la risposta ad ogni domanda. Non avevo in mente un libro in particolare ma sapevo che avrei trovato il modo di scoprire di chi ero figlio, l’unico grande desiderio che ho sempre avuto e che volevo realizzare”.

“Capisco…e come sei entrato nel palazzo del Principe?”.

“Come tutti. Camminando. Ho aperto la porta e ci sono entrato”.

“Da solo?” si stupì il Kaos.

“Sì, nella biblioteca sono entrato da solo”.

“Nessuno ha provato a fermarti?” continuò la Dea del Kaos, sempre più stupita.

“Nessuno. Erano tutti troppo impegnati a giocare, dormire, bere o a far altro di cui preferirei non scendere nel dettaglio. Io sono entrato…non è colpa mia se le guardie di Mihael non valgono un cazzo! Può mettere due spaventapasseri all’ingresso che fa lo stesso effetto!”.

Mihael, ancora immerso nella lettura, non fece obbiezioni ma Kavahel lo scosse, riportandolo alla realtà bruscamente.

“Puoi confermarlo?” gli disse.

Il Principe non rispose, ancora non del tutto concentrato sulla realtà.

“Allora?! Mi rispondi?”.

Ancora nessuna reazione se non il movimento involontario di un piede per una mosca fastidiosa.

“Vuoi anche solo vagamente calcolarmi, coglione?!” sbottò Kavahel, che non sopportava la mancanza di serietà, specie in occasioni così solenni ed importanti.

“Eh?!” si scosse Mihael.

“Puoi confermarlo?”.

“Cosa?” domandò il Demone, appena tornato dal mondo immaginario del libro.

“Che lui è entrato nel tuo palazzo da solo”.

“Lui chi?”.

“L’imputato, demente!”.

“Aah! E usa un soggetto, no? Lui può essere chiunque! Ad ogni modo…come sia entrato non lo so ma poi, assieme a lui, c’era uno strano uomo lucetta”.

“Cosa diamine è un uomo lucetta?” chiese la Vita, storcendo il naso confusa.

“Un uomo lucetta è un uomo lucetta! Era un uomo ma senza un corpo fisico, solo i contorni luccicosi e volava a mezz’aria senza che io potessi colpirlo con la spada”.

“Cosa ti eri fumato?” sibilò Kavahel, mentre il Sole lanciava un’occhiataccia in mezzo agli spettatori con un profondo sospiro.

“Cosa si era fumato il tuo stilista prima di conciarti così!” ribatté Mihael, convinto, e Kavahel lo guardò male, accusandolo di essere solo un misero Demone impudente fra gli Dèi.

Il Principe non rispose alla provocazione. Era immobile e guardava verso Kevihang, che girava le orecchie preoccupato senza capire quello sguardo folle e un po’ maniaco.

“Fratello!” disse il Demone.

“Io?!” si allarmò Kevihang, ma il Demone guardava altrove, alla sua sinistra.

“Miky…” sorrise Luciherus “Forse vede in te le somiglianze che hai con me, ragazzo mio”.

“No! Io vedo te!” sbottò, inaspettatamente, Mihael.

“Me? Ma tu…mi vedi?” domandò l’antico Dio della Forza e del Coraggio.

“Certo! Perché non dovrei vederti? Fratello mio!”.

Nel frattempo, gli altri presenti, non potendo vedere altro che Mihael che parlava da solo, si lanciavano sguardi interrogativi ed alzate di spalle.

“Lo sapevo che non eri morto! Ah! Sei tornato! Mio antico rivale! Adesso sì che tornerò a divertirmi!” parlò il Principe, con entusiasmo, sfoderando la spada.

L’Alto fece segno alle guardie di fermarlo. Mihael era saltato sul tavolo rialzato dietro al quale era stato seduto fino a quel momento e rideva isterico.

“Avete visto?! Avevo ragione!!!! Luciherus è tornato!!!”.

Sempre più sguardi interrogativi e gesti con le mani che stavano ad indicare:“Ormai è andato. È completamente pazzo, poverino”.

Il Demone saltò, agitando la coda, ad un palmo da Kevihang, che alzò le mani d’istinto ritrovandosi la spada praticamente sul collo. Il Demone pareva che nemmeno facesse caso alla sua presenza, impegnato com’era a fissare Luciherus con un sorriso colmo di soddisfazione e pura follia.

“Allora, fratellino, come butta?” domandò il Dio passato.

“Non mi lamento. Però mi annoio da morire. Per fortuna ci sei tu, adesso!”.

“Come và il regno?”.

“Bene. Più o meno. Ma non c’è mai niente da fare…che barba! Non sai quanto sia felice di rivederti, fratellino trasgressore”.

“Non più di me…”.

“Ti sono mancato?”.

“Da morire” sghignazzò Luciherus, pensando che, in fondo, non mentiva nel dire questo.

“Ma con chi parla?” si chiese la Dea del Kaos.

La Dea della Morte non parlò. Poteva vedere i suoi genitori e, sapendoli morti, aveva capito che il ragazzo aveva portato a termine l’evocazione. In quel caso aveva davanti a sé suo fratello, amante per una notte, e non voleva farlo condannare dicendo la verità. Preferì rimanere in silenzio.

“Combatti!” sibilò Mihael, rivolto a Luciherus che gli sorrise.

“Mi piacerebbe, Mikino bello, ma sono un po’…come dire…incatenato”.

Gli mostrò la catena azzurra che lo teneva legato al figlio ed il Demone storse il naso.

“Per così poco? Basterà tagliare la fonte dell’incatenamento”.

Dopo aver detto questo, si era già messo nella posizione per sferrare un colpo di lama alla mano di Kevihang che, capendo le intenzioni dello zio, protestò e tentò di spostare la mano, che però era legata dalle manette che lo immobilizzavano davanti ai giudici. Chiuse gli occhi, pronto a vedere il suo arto sul pavimento, quando sentì Mihael ringhiare. La sua spada era stata bloccata da un individuo incappucciato, che la teneva ferma con entrambe le mani. Il Principe, infuriato per essere stato interrotto, lanciò un grido e mosse in avanti la spada, scaraventando l’incappucciato sul pavimento dopo mezzo giro in aria.

“Dovrei ucciderti subito per aver interrotto il grande, meraviglioso, invincibile e perfetto Mihael…anzi…credo che sarà quello che farò adesso! Saluta la mammina…”.

Fece per infilzarlo come uno spiedino ma la figura riuscì, per un pelo, a schivare il colpo ed a rimettersi in piedi. Il Demone spalancò le ali per incutere più timore.

“Chi sei? E come osi bloccare la mano del più grande dei guerrieri?”.

“Usa la tua immaginazione…” fu la risposta.

Kevihang sorrise. Aveva riconosciuto quella voce ed era felice di sentirla. Mihael si accigliò ulteriormente ed iniziò e menar fendenti un po’ a casaccio. L’attaccato schivava come poteva ma non era affatto facile evitare la tecnica di Mihael, specie se non aveva una tattica ma una furia omicida momentanea che lo faceva ridere come un pazzo e colpire a caso.

“Miky! Calmati!” ridacchiò Luciherus.

Ma il Principe non lo ascoltava. Era troppo occupato a tentare di affettare l’intruso incappucciato. Svolazzava di qua e di là, appendendosi perfino al lampadario per fare più scena, mentre l’incappucciato non sapeva bene dove andare per schivare quel pazzo furioso.

“Io sono Mihael!!” urlava il Demone, appeso per la coda ad un lampadario e non badando alle fiamme delle candele che gli bruciacchiavano i vestiti.

L’importante, per lui, era che i capelli non venissero sfiorati dal fuoco. Oscillava a destra ed a sinistra e poi saltò, finendo sul tavolo di fronte a Urihel, che sobbalzò, e puntò di nuovo la spada verso l’incappucciato. Sempre con un sorriso maligno e folle, leccandosi le labbra per la felicità di poterlo uccidere, sghignazzò e lo minacciò, agitando la coda soddisfatto. Urihel, ripresosi, si alzò e lo afferrò per le gambe, tentando di immobilizzarlo. Mihael, d’istinto, tentò di prendere il volo ma il Dio del Cielo resistette ed iniziò a sbattere le ali per fermarlo, con un intenso svolazzare di piume azzurre ed il rumore sordo delle ali da pipistrello del Demone.

“Fermati, piccolo pazzo!” gli urlò il Dio, mentre Mihael si dibatteva come un pesce all’amo.

“Sembra un bruco con i piedi infilati nella crisalide…” ridacchiò Luciherus.

“Io sono il grande Mihael!! Non osare definirmi piccolo!”.

Finalmente, le guardie dell’Alto Krì fecero il loro ingresso e riuscirono, se pur a fatica, ad immobilizzare il Principe, che continuava a dimenarsi ed ad affermare la sua supremazia e grandezza con parole e frasi di lode.

“Portatelo fuori” ordinò Krì “Credo sia evidente che è matto. Sedatelo o picchiatelo, se necessario, e fatelo stare calmo! Facciamo una pausa. Riprendiamo fra mezz’ora”.

“NO!” urlò il Demone “LASCIATEMI! Io sono il grande Mihael! Toglietemi le mani di dosso!”.

Mentre veniva trascinato fuori, fra calci e bestemmie del catturato, il Principe passò accanto all’incappucciato e ne vide il viso. Si dibatté con ancora più convinzione.

“È lui! È l’uomo lucetta! Prendetelo! Maledetto! Un giorno ti avrò davanti ed allora saranno guai! Hai osato sfidare il grande ed invincibile Mihael, dannato uomo lucetta!”.

E con queste parole, che la maggior parte dei presenti percepì solo come un evidente caso di schizofrenia avanzata, tutti si presero una breve pausa e Kevihang venne ricondotto nella stanza bianca dalla quale era partito.

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Capitolo 22
*** XXII- pause, proposte e prediche ***


XXII

 

PAUSE, PROPOSTE E PREDICHE

 

I presenti nella sala del processo si sparpagliarono. La maggior parte di loro si recò nella saletta adiacente dove era stato allestito un piccolo rinfresco. Lì avevano modo di scambiarsi le prime opinioni fra uno spuntino ed un bicchiere di una qualsiasi cosa alcolica. Alcuni di loro preferirono, invece, trascorrere la pausa nel cortile interno. Quel palazzo, una volta l’antico palazzo di Madre Momoia, era sempre stato utilizzato come una sorta di tribunale supremo, in cui ci si riuniva in casi considerati di massima importanza o particolarmente gravi che andavano discussi. Una volta, tanto e tanto tempo prima, in una di quelle stanze si era deciso di dare ad un giovanissimo Kasday il ruolo di Dio dell’Equilibrio, dopo la sua esistenza mortale. Certo, a quel tempo c’erano solo gli Alti a prendere le decisioni, ricordò con nostalgia Krì. L’Alto non era interessato al cibo o all’alcol. Camminava avvolto in un’ampia veste, che ne ingrandiva le dimensioni, lungo il corridoio.  Ricordava con nostalgia i giorni in cui non era da solo. Non sentiva di certo la mancanza di Momoia ma del periodo a lei successivo, quando aveva la sua amata Berkana accanto a sé ed era circondato dai suoi piccoli, di cui era rimasto solo Kuetzalikay. Guardò verso il cielo, attraverso una finestra con una grata piena di riccioli e decori. Si chiedeva se ci fosse davvero qualcuno al di sopra di lui, come gli aveva sempre detto Kasday quando era in vita. Ci sarà sempre qualcuno sopra di te.

La sua autorità ed il suo potere andavano scemando e lui lo sapeva bene. Fortunatamente non aveva grossi problemi con gli Dèi suoi sottoposti e questo faceva sì che la sua autorità non venisse messa in discussione, se non da qualche testa calda ogni tanto. Fra l’elenco di queste teste calde, sapeva che rientrava anche il suo unico figlio che proprio in quel momento stava venendo verso di lui. Lo guardò con rimprovero. Non voleva che fosse presente a quella riunione, ma il suo erede aveva disobbedito come sempre ed ora era lì, di fronte a lui, che gli sorrideva. Krì sorrise a sua volta ed assieme si incamminarono lungo il corridoio buio ed antico, illuminato solo dalle candele, seguiti da Kiaritanya.

 

“Non so se definirti un pazzo o uno stupido” disse la Luna, con le mani dietro la schiena e lo sguardo di chi, ormai, si è rassegnato a non tentare di cambiare le cose.

“Fai un po’ ed un po’, così sei contenta” gli rispose l’incappucciato, bevendo un sorso d’acqua dalla piccola sorgente che zampillava da una roccia dell’immenso cortile interno.

“Non è divertente!”.

“Sì che lo è!”.

“Rik!”.

“Dimmi, Selene?”.

“Cosa sarebbe successo se Krì avesse capito chi sei?”.

“Solo un idiota non era in grado di capire chi sono…non è colpa mia!”.

“Colpa tua, di sicuro, lo è, invece!”.

“Oh, avanti! Smettila di sgridarmi…”.

La Luna respirò a fondo, sospirando, e lo guardò con apprensione e preoccupazione.

“Non sei ferito, vero?” domandò dolcemente.

“Solo qualche graffio. Niente di grave” rispose il figlio del Sole, stiracchiandosi come se niente fosse successo.

“Devo parlarti” gli disse la Luna.

“Ah, sì? Anch’io…”.

“Bene ma…non qui! Vieni con me”.

La Dea si era accorta di quanti sguardi erano rivolti verso di loro e voleva evitare conseguenze per sé e per suo fratello, che non poteva essere lì. Lui si calcò più forte il cappuccio sulla testa, in modo da coprire meglio il suo volto, e seguì la Dea lungo una piccola scala in pietra che si nascondeva fra le erbe alte ed aromatiche del giardino. Il terreno era leggermente in salita e lo spazio verde era davvero vasto. Quasi sicuramente quello era uno dei pochissimi luoghi ancora verdi e rigogliosi degli Universi, probabilmente perché ancora alimentato dalle energie latenti che sprigionava la magia versata in quel luogo, dapprincipio campo d’addestramento per i giovani Alti.

Rikarathör non resistette alla tentazione di toccare un grande fiore dai mille colori, che si chiuse di scatto, inglobandogli la mano. Si liberò a fatica.

“È bellissimo questo posto…” commentò, continuando a seguire la Dea che avanzava veloce, facendo finta di niente, scostando qualche ramo, lungo quelle ripide scale rovinate dal tempo.

Ad un tratto lasciò il sentiero ed andò a cercare rifugio sotto un enorme albero sempreverde che riusciva a celarla da tutti i presenti del giardino, che erano rimasti vicino alla porta della sala, e la faceva sentire al sicuro.

“Come conosci questo giardino così bene?” chiese lui.

“Ci sono stata non molto tempo fa”.

“Per?”.

“Ha importanza?”.

“Se non vuoi dirmelo…va bene. Ma sarebbe bello se non ci fossero segreti fra noi”.

“Tutti hanno i proprio segreti. Noi non facciamo eccezione. Allora…cosa dovevi dirmi?”.

“Prima le signore”.

La Dea della Luna si sedette, su una piccola protuberanza sulla corteccia dell’albero, e strinse le mani fra loro, in un gesto di nervosismo e tensione.

“È vero quello che mi ha detto papà?” chiese, senza guardare Rikarathör negli occhi “Lui mi ha detto che tu, al momento dell’arresto di Kevihang, volevi prenderti la colpa”.

“Non è esattamente così ma sì, se avessi potuto, mi sarei preso io la responsabilità delle azioni di quello scapestrato di Kevihang”.

“Perché?”.

“Come perché?! È il mio allievo, è mio compito”.

“Proprio perché è tuo allievo non dovresti!”.

“Cosa intendi?”.

La Dea alzò lo sguardo ed incrociò quello del figlio del Sole che inclinò leggermente la testa.

“Intendo dire che il tuo compito da maestro è educare, non proteggere. Un maestro deve essere anche in grado di punire!”.

“Io sono in grado di punire! Ma Kevihang è ancora un ragazzo, un ragazzino!”.

“No che non lo è! Per quanto ancora vorrai trattarlo come un bambino di quattro o cinque anni? È ora che cresca, che si prenda la responsabilità delle sue azioni. Ha commesso uno sbaglio e deve affrontarne le conseguenze. Non puoi e non devi farlo per lui”.

“È il mio fratellino minore. Il mio dovere è proteggerlo”.

“Il tuo compito è volergli bene ed aiutarlo, ma non puoi mettere a rischio la tua vita per prenderti colpe che non hai. E non puoi nemmeno avvolgerlo per sempre in una bolla dove farlo sentire sempre protetto. Ha deciso di lasciare il villaggio, intraprendendo un percorso che gli avevi sconsigliato, e deve capire i suoi errori, sulla propria pelle”.

“Lo so e vedo che è pentito”.

“No, non lo è. È ancora spocchioso e sicuro di sé come sempre, convinto che anche stavolta qualcuno lo aiuterà. È lodevole che tu faccia questo per lui ma è ora che cresca e che capisca che il mondo è pieno di pericoli dai quali non potrai proteggerlo”.

Rikarathör guardò altrove, serio ed infastidito da quella predica non richiesta.

“Per quanto tempo lo giustificherai ancora, dicendo che è solo un ragazzino, Rik?”.

“Lui ha chiesto il mio aiuto”.

“E glielo darai fin dove ti sarà possibile, ma prenderti tu la colpa o rischiare di morire per lui non è una soluzione! So che non lo vuoi deludere, non vuoi deludere mai nessuno, ma questa è una situazione a cui tu non puoi rimediare”.

“Ho cercato di fermarlo nella biblioteca di Mihael…”.

“Lo so, uomo lucetta…ma, forse, non con la severità che meritava. Perché davanti a te è ancora un bambino il cui reato è mangiare una fetta di dolce in più! E non è così…”.

“Sono un pessimo maestro, è questo che mi stai dicendo?”.

“Certo che no! Come puoi pensare questo?”.

“Me lo fai intendere…”.

“Tu sei un ottimo maestro ed un buon fratello, con alti e bassi come tutte le creature degli Universi. E sono sicura che sarai anche un meraviglioso padre”.

“Padre?! Come ti vengono certi discorsi?”.

La Luna sorrise, incrociando le gambe e sorreggendosi la testa con la mano.

“Non ci pensi mai? Non ti piacerebbe?” chiese, guardandolo con occhi sognanti.

Lui non rispose, con uno sguardo che indicava ben altri pensieri, molto distanti dall’argomento.

“Io ti ho detto ciò che dovevo dirti…cioè che devi crescere e lasciar crescere quel ragazzo, senza trattarlo come un bimbo per sempre!”.

“Io mi fido di lui. So che per te la fiducia è una cosa difficile a cui credere, anche se non so perché”.

“Ho dato troppo affidamento e fiducia alle persone, anche se non meritavano né l’una né l’altra cosa. Mi aspetto sempre di più rispetto a ciò che alla fine posso ottenere. Sono difficile da accontentare”.

“Ma io ti vado bene?”.

“Certo. Ovviamente a volte mi fai arrabbiare, ma io sono lunatica e perciò è normale…”.

“Allora…mi sposeresti?”.

La Dea rimase immobile, sconcertata da quella frase decisamente inaspettata.

“Era questo ciò che io dovevo dirti…ma se ritieni di essere delusa da uno come me, che sono solo un semplice Semidio mentre tu una grande Dea, meravigliosa e con millenni alle spalle…”.

“Ma tu…ragioni prima di parlare? Che razza di proposta è?”.

“Una proposta come un’altra…”.

“No. Mi stai chiedendo di restare legata per sempre a te, per l’eternità…”.

“No! Non per l’eternità. Solo finché la mia misera ed inutile vita mortale giungerà al termine. Immagino che per te non sia così gravoso dovermi sopportare per gli anni che mi restano. Ma se per te è così impegnativo ed hai già altri progetti per l’immediato futuro…”.

“Non è questo il problema…Il problema è, e resta, il tuo sigillo. Cosa pensi di risolvere, anche se ti dicessi di sì? E poi…pensi sul serio quello che mi hai chiesto?”.

“Assolutamente. E risolverebbe la cosa il fatto che papà Sole non potrebbe di certo impedirmi di toccare mia moglie…”.

“Ma chi vuoi che celebri un’unione come la nostra?”.

“Urihel. Sai che mio fratello, Loreatehenzi, è suo figlio…e lui è dalla nostra parte. Gli ho già parlato e, se dici di sì, lui sarà lieto di…”.

“Dici davvero?”.

“Sì…”.

“Non mi prendi in giro?”.

“Non potrei mai! Certo che…se a te proprio non và…”.

“Non ho mai detto questo! Ma…non so cosa fare…”.

“Ti prego…dimmi di sì…”.

La Dea lo guardò, con un grande sorriso e gli si avvicinò quando si sentì afferrare il braccio in malo modo e trascinare indietro.

“Eccoti dov’eri, Selene!”.

Era il Dio del Sole, insospettito nel non vedere più né la figlia né il figlio, che evidentemente aveva sentito ogni cosa ed era furioso. Le fiamme sulla sua pelle guizzavano ed aveva le pupille rosse ed infuocate, decisamente minacciose.

“È tua sorella! E ti avevo già avvertito di stare lontano da lei!”.

“Cosa vuoi che mi interessi di ciò che mi hai detto…”.

“Zitto, Rik. Non peggiorare le cose…” sibilò la Luna, chinando la testa davanti al genitore.

“Avanti, signorinella, è ora di andare” la trascinò il padre, noncurante delle proteste dei due figli.

“Ma papà…non voglio finire a fare figli con te!” gemette lei.

“Non sono io che l’ho deciso” disse il Sole, con aria seria e sguardo distante.

Portò la figlia lungo la scalinata, verso l’ingresso della sala del processo, lanciando un’ultima occhiataccia a Rikarathör, rimasto immobile sotto quell’albero.

“L’ho già spiegato ad entrambi…” spiegò il padre “…del perché non possiate frequentarvi. Ed adesso rientriamo. Il processo sta per ricominciare. E tu, ragazzo mio, credo faresti meglio a rimanere qui. Hai già attirato troppo l’attenzione su di te”.

Padre e figlia scesero rapidamente e quasi sparirono nel verde quando la Luna si girò, di scatto, verso il fratello e gli fece davvero un meraviglioso sorriso.

“Quando?” gli urlò, ignorando tutte le raccomandazioni ed i rimproveri del padre.

Rikarathör sorrise a sua volta: “Il più presto possibile!” le urlò di risposta.

Lei gli mandò un bacio e soffiò, in modo che arrivasse al volo al figlio del Sole, che mimò di afferrarlo fra le mani e tenerlo con sé.

Il tutto mentre nell’aria si poteva sentire un piccolo suono intermittente, a segnalare che il processo stava per ripartire e che dovevano rientrare tutti.

 

Kevihang sentì la sirena e rizzò le orecchie, pur rimanendo accoccolato con la testa sulle ginocchia. Non si sentiva tanto sicuro come avrebbe voluto e come si era sentito all’inizio di tutta questa storia. Voleva risolvere tutto e restituire quello stupido libro, ma non aveva idea di dove fosse. Nonostante tutto non era pentito di ciò che aveva fatto. Se avesse potuto tornare indietro avrebbe rifatto esattamente le stesse cose, tranne forse riporre il libro in quel luogo poco sicuro. Guardò i suoi genitori, che si tenevano abbracciati senza parlare, quasi assopiti e con la testa persa in pensieri lontani. Il ragazzo capì che avrebbe dovuto difendersi da solo e dimostrare che non aveva commesso errori. Così facendo avrebbe risolto tutto e magari avrebbe trovato il modo di riportare i suoi genitori indietro. Vedeva la loro luce affievolirsi ma non voleva farglielo notare. Se avessero saputo di essere in pericolo, aveva sentito dire da qualche parte che le essenze hanno un tempo prestabilito d’autonomia nel mondo reale, avrebbero reagito in chissà che modo…

La porta si aprì ed apparve di nuovo Kiaritanya, che gli sorrise.

“Sei pronto? Si riparte…” gli disse.

Kevihang annuì e scosse leggermente le catene che lo legavano ai genitori.

“È ora di andare” annunciò, alzandosi e Luciherus si stiracchiò pigramente.

“Finalmente! Mi stavo annoiando! E speriamo che ci sia Miky là fuori così mi faccio quattro risate in allegria e passo il tempo. Che barba se no!”.

“Scusami tanto…” sibilò Kevihang.

“Per cosa?” rispose Kiaritanya.

“Niente…ho altri pensieri in testa…”.

“Ah…beato te…” gli sorrise Kiaritanya e gli fece segno di avviarsi lungo il corridoio.

Il ragazzo sospirò e seguì la Messaggera, scortato come sempre dalle guardie armate, con le catene che tintinnavano e grattavano il pavimento facendolo rabbrividire. Alla vista del portone d’ingresso strinse i pugni, mentre Kasday e Luciherus gli sfioravano le spalle, come a volergli trasmettere che loro c’erano e non se ne sarebbero andati.

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Capitolo 23
*** XXIII- testimone ***


XXIII

 

TESTIMONE

 

Krì diede ordine di fare silenzio e di mettersi a sedere. Kevihang era già stato messo al proprio posto, legato e circondato dalle guardie, ed i giurati erano rientrati. Mihael si udiva soltanto, “da dietro le quinte” sussurrò qualcuno, mentre minacciava tutto il mondo sbraitando frasi di auto-celebrazione. Luciherus sorrise sentendo la sua voce da folle. Qualcuno ridacchiò o commentò.

“Silenzio!” ordinò Kavahel, battendo le ali in modo tale da emettere un suono simile a quello di un tuono, profondo e ridondante.

Tutti si ammutolirono e più di qualcuno si sforzò per non starnutire o farsi scappare un colpo di tosse involontario.

“Bene. Siamo pronti a procedere, dopo questa piccola pausa. Dopo aver appurato che sei stato aiutato da un fantomatico uomo lucetta, la cui esistenza credo dubbia, vorremmo approfondire ciò che è successo esattamente. A questo proposito, vorrei che Heket, la Dea della Vita, e Luciheday, la Dea della Morte, portassero alle orecchie di tutti i presenti le loro testimonianze”.

Il Dio dell’Equilibrio sapeva che, pronunciandone i veri nomi, le costringeva a sottostare ai suoi comandi, ed infatti, le due Dee si alzarono e fecero un piccolo cenno con la testa.

“Credo che, per anzianità e rapporti parentali, tocchi a Morte partire, per poi lasciare la parola alla figlia Vita, salvo interruzioni che l’un l’altra vi vorrete fare. Luciheday, mia cara, vuoi esporre e raccontare l’incontro che hai avuto con questo giovanotto? Ricorda che non puoi mentire”.

Luciheday, in evidente imbarazzo, rifletté un attimo su cosa dire e poi iniziò a raccontare. Narrò di come lo aveva trovato fra le rocce, solo, senza però scendere nei dettagli.

“Perché eri lì?” domandò la Dea del Kaos.

“Credevo fosse venuta la sua ora, ma mi ero sbagliata”.

“Non doveva morire?” chiese Kavahel al Destino, che confermò l’informazione.

“Era da solo quando lo hai incontrato?” continuò l’Equilibrio rivolgendosi di nuovo a Luciheday.

“Sì. Confermo!”.

“E come avrebbe potuto sopravvivere da solo? In quel luogo, pieno di predatori e bestie feroci, freddo ed inospitale, estremamente pericoloso ed ostile, è molto difficile riuscire a trascorrere incolumi anche solo una notte!” sentenziò Kavahel, mentre Kevihang lo trovava sempre più irritante.

“Questo non lo posso sapere” rispose la Morte “Quando l’ho trovato era solo”.

“Aveva il libro con sé?”.

“No. Nessun libro. Ne sono sicura”.

“Quindi il furto è avvenuto dopo. Ti aveva esposto la sua idea, per caso?”.

“Mi aveva detto di voler ritrovare i suoi genitori”.

“Quindi tu sapevi…”.

“Un momento, fratellino! Sei qui per giudicare me o quel ragazzetto? Perché, se cerchi rogne, hai proprio scelto la persona giusta da stuzzicare!”.

Kavahel non le rispose e la fissò, con lo sguardo di chi non voleva essere messo in discussione.

“Per quanto tempo siete rimasta accanto all’imputato, Madama Morte?” domandò poi, con calma.

“Un po’. Non ricordo quanto esattamente”.

“E perché? Una volta appurato che non era giunto il momento per il ragazzo di morire, avresti dovuto andartene e lasciarlo lì. Che hai fatto?”.

La Dea girò gli occhi verso l’alto ed incrociò le braccia, sospirando. Non voleva di certo parlare di ciò che aveva fatto!

“Non sono affari che alla corte interessano” affermò, infatti, sibilando.

“Avete forse cospirato con lui? Siete una complice?” chiese Urihel.

“No! Certo che no!”.

“E allora che avete fatto assieme?” domandò ancora Kavahel.

“Quello che tu non fai mai, androgino!” sbottò la Morte.

Kavahel rimase per qualche istante in silenzio, non aspettandosi evidentemente quella risposta.

“Con un mortale? Lo sapete tutti che è proibito!” tuonò Krì, facendo sobbalzare i presenti.

“Sì, lo so” rispose Luciheday, girando la testa “Ma è l’unico reato che ho commesso. Ed è di certo un reato minore rispetto alla cospirazione ed al furto di libri sacri”.

“Qualcuno può confermare che lei effettivamente stava…hem…svolgendo quell’attività e non divenendo complice del ladro?” domandò l’Equilibrio, iniziando all’improvviso a darle del Lei.

“Mia figlia Heket”.

Tutti si girarono verso la Dea della Vita, che arrossì.

“Parli, Dea della Vita” la incitò Kavahel.

“Beh…non volevo parlare di questo ma…sì, è vero. Posso confermarlo. Diciamo che…ecco…li ho colti praticamente sul fatto. E lui è un vero svergognato!”.

Luciherus ridacchiò a quelle parole ed anche Kevihang, ricordando quel giorno.

“Si spieghi” continuò l’Equilibrio mentre la Morte sentenziava che non era necessario scendere nei dettagli e che non erano affari suoi né di nessun’altro.

“Quell’essere…” mormorò la Vita, indicando l’imputato “…non ha senso della decenza! Si copriva a malapena con quelle ali inutili e si avvicinava. Ho avuto paura che volesse…”.

La Dea si fermò e chinò il capo.

“Non è vero!” disse Kevihang e subito fu zittito da Krì.

“Non è questo il momento per te di parlare, mortale. Proseguite, Heket” ordinò l’Alto.

“Lui aveva sconfitto mia madre, in modo da restare in vita lungo il suo tragitto. Io ho tentato di rimproverarla per il suo gesto e lui…lui mi ha chiesto se ero gelosa e se volevo essere sconfitta anch’io. Ha detto che sarebbe stato più che lieto di farlo”.

“Neghi di averlo detto?” parlò Kavahel, rivolto a Kevihang.

“No, non posso negarlo. Ma…”.

“Che sia messo a verbale e che anche questo rientri fra i capi d’accusa”.

“Ma non è giusto!” si intromise la Morte “Non voleva fare niente di male! Scherzava!”.

“Non mi sembra proprio che stesse scherzando! E poi ha ucciso uno dei miei alberi quando era piccolo!” rispose la Vita e Krì alzò un braccio, facendo segno a tutti di abbassare il tono della voce, che si stava alzando gradatamente.

“Lei, Dea della Vita, conferma che l’imputato al momento del vostro allontanamento era solo e senza libro?” parlò l’Alto e la Vita annuì.

“Quindi il tuo complice è arrivato in un secondo momento…” continuò Krì.

“Quale complice? Non era stato stabilito che Mihael è pazzo e che quindi il suo fantomatico uomo lucetta non esiste? Non ha complici!” fece notare il Dio del Sole.

“Lo dici per tuo interesse, caro mio subordinato” lo zittì l’Alto “Da fonti certe mi è stato riferito che una persona a te vicina potrebbe sapere come in realtà sono andate le cose. E vorrei chiamarla qui”.

Il Sole lanciò un’occhiata bruciante alle guardie che, evidentemente, avevano spifferato.

“Non guardate in questo modo le guardie, fanno solo il loro lavoro e, ad ogni modo, non sono loro la mia fonte di informazione. Vorrei che venisse a testimoniare qui, davanti a questa corte, Selene, la  Dea della Luna. Dea dei Satelliti, alzati e vieni al mio ed al nostro cospetto”.

Il Sole ebbe un sussulto nel sentire il nome della figlia, come molti altri nella sala. Non potevano credere che anche la Luna fosse coinvolta. La Dea esitò, guardò verso il padre e verso il fratello, alzandosi, e poi iniziò a portarsi verso il punto indicato dall’Alto, con Kevihang alle spalle ed il viso rivolto verso giudici e giurati. Guardò negli occhi Krì, cosa che facevano in pochi, e poi si inchinò leggermente, senza sorridere.

“Selene, Dea della Luna, sei stata chiamata a testimoniare. Ti ricordo che non puoi mentire e che è tuo preciso compito esporre a noi tutti la verità” disse Kavahel e la Dea fece un piccolo cenno con il capo, in attesa di sentirsi fare delle domande.

“Tu hai già visto questo ragazzo, vero?” iniziò Krì.

“Sì, Signore. L’ho già visto” ammise lei.

“Ovviamente fuori da questa sede. Puoi raccontare a noi tutti il vostro incontro?”.

“Lui brilla ed io l’ho visto dall’alto. Mi sono incuriosita e mi sono avvicinata. Dopo un po’ me ne sono andata. Non mi sembrava avesse cattive intenzioni”.

“Era da solo?”.

La Luna non parlò, guardò suo padre con aria di supplica.

“Era da solo?” ripeté Kavahel.

“Rispondi!” sbottò l’Alto.

“No, non era da solo”.

“Chi c’era con lui?”.

“Una creatura insignificante, Signore” sussurrò lei.

“Insignificante per chi? Non per te, Luna, dato cosa mi trasmette il tuo sguardo”.

“Un amico d’infanzia del ragazzo. Stava cercando di convincerlo a riportare il libro al giusto posto. E lo stava rimproverando per l’errore commesso”.

“Poteva essere suo complice?”.

“Dipende da cosa intende Lei per complice…”.

“A conoscenza dei fatti e suo aiutante”.

“A conoscenza dei fatti immagino di sì…ma non era di certo in grado di aiutarlo con il libro, i sigilli e tutto il resto. Non è un Dio”.

“Puoi dirmi se è ora in questa sala?”.

La Dea alzò lo sguardo di scatto, spaventata. Guardò di nuovo suo padre, che scosse il capo.

“Non mentire, figlia mia” le mormorò, mentre la Dea annuiva all’Alto.

“Indicalo. Che venga qui”.

“Non voglio”.

“Perché?”.

“Perché lo fareste giustiziare”.

“Questo è tutto da stabilire. Dimmi chi è”.

“NO!”.

“Dimmelo o sarai tu quella che verrà giustiziata!!”.

Il Dio del Sole si alzò in piedi, in apprensione per la figlia.

“Non può farla giustiziare! È la mia bambina!” supplicò.

“Posso e lo farò se non saprò la verità! Sono stufo di storie lasciate a metà e divinità che si coprono a vicenda nei loro errori! È ora di finirla! Parla, Dea, o ti metterò a tacere per sempre!”.

“Non ti dirò mai chi è! Fammi pure ciò che vuoi, Alto!”.

“Bene! Guardie! Fatela parlare!” sbraitò Krì, che si sentiva punto nell’orgoglio e nell’autorità dalla testardaggine di quella donna.

“Non la toccate!” urlò il Sole, e tutti si girarono verso di lui e verso un’altra persona.

Non era stato solo lui a pronunciare quelle parole. Rikarathör si era alzato in piedi. Con il cappuccio calcato sulla testa per celare il proprio viso, era fermo immobile mentre tutti i presenti lo guardavano con curiosità e sospetto.

“Bene, bene…l’uomo lucetta, come ti ha chiamato Mihael. L’eroica creatura misteriosa che ha bloccato il colpo che avrebbe tranciato di netto le mani dell’imputato! Tanta lealtà mi avrebbe dovuto subito insospettire! Vieni qui, ora!”.

Il figlio del Sole obbedì. Avanzò a passi sicuri verso l’Alto, mentre la Luna era corsa appresso il padre cercando sostegno. Kevihang lo guardò preoccupato ma non parlò, come gli aveva ordinato l’Alto, sperando nell’aiuto di qualcuno.

“Togliti quel cappuccio” ordinò l’Alto, non appena Rikarathör fu giunto nel punto prestabilito, dove prima stava la Luna “E parla. Chi sei? Da dove vieni?”.

L’incappucciato esitò. Era a conoscenza dell’odio che Krì provava per i sanguemisto come lui e sapeva anche che non doveva essere presente in quella sala. Ma non poteva permettere che alla Luna capitasse qualcosa di male per colpa sua, anche se farsi riconoscere dall’Alto significava una condanna praticamente certa! Sospirò e tolse il cappuccio, lanciando una chiara occhiata di sfida a Krì. I presenti ammutolirono, prima di iniziare un gran vociare di fondo, pieno di commenti e domande, riconoscendolo come sanguemisto. La piccola fiamma che aveva sulla guancia, infatti, non  lasciava spazio ai dubbi. Si capiva subito di chi era figlio. Per non parlare della sua pelle che brillava e quello sguardo, così luminoso, deciso ed ottimista, da poter essere collegato solo al Sole.

“Mi chiamo Rikarathör e vengo da un luogo che so che Voi poco apprezzate, vostra Altezza”.

“Altezza non è il termine più appropriato…” iniziò Krì.

“Va bene, Vostra Altitudine!”.

L’Alto rimase sconcertato da quelle parole: “Sai a chi ti stai rivolgendo, meticcio?”.

“Lo so bene. All’Alto Ansuz, detto Krì, che odia le creature come me e che ha già stabilito la mia sorte non appena mi ha visto ed ha capito chi sono”.

“Su questo hai ragione. Ma prima di pronunciare la tua condanna, vorrei sentire la tua testimonianza. Parla: è vero che hai aiutato questo giovane?”.

“Sì, certo. Non posso certo negarlo”.

“E come mai Mihael ti ha dato il nome di uomo lucetta?”.

“Cosa passa per la testa a quel pipistrello malriuscito poco mi importa”.

Luciherus ridacchiò. Era sempre felice di sentir insultare il fratello.

“Dunque ammetti di averlo aiutato. Come mai?” domandò Kavahel.

“Avete dei fratelli, Equilibrio? So per certo che ne avete. Il Kaos ed il Destino, per iniziare. Quindi conoscete il legame che si stabilisce, o che si può stabilire, non ne sono certo. Io farei qualunque cosa per il mio fratellino, che è adottato e che quindi non ha rapporti di sangue con me, ma che ho accettato di accogliere in famiglia ed istruire. Voi non fareste lo stesso con i Vostri fratelli?”.

Krì ricordò il suo gemello e non disse nulla, mentre i fratelli presenti si guardavano capendo le parole del figlio del Sole.

“Era tuo allievo…” iniziò l’Alto.

“Era ed è mio allievo, anche se non so chi glielo abbia detto. Ero un maestro molto giovane quando è arrivato, e forse questa è la causa di molti dei suoi comportamenti, ma l’ho sempre seguito come avrei dovuto o, perlomeno, così credo”.

“Non gli avete fatto fare la prova per stabilire di che grado fosse…” affermò il Destino.

“Noi non facciamo test del genere. Perché dividere i bambini in gruppi e categorie? Perché stabilire chi è il più forte? Per quale motivo?”.

“Per stabilire il modo più corretto di insegnargli le arti magiche”.

“Credo che non ci siano obbiezioni da fare sul mio metodo d’insegnamento, essendo le sue capacità aumentate al punto da fare invidia a molti dei presenti”.

“In effetti…è stato in grado di infrangere il mio sigillo…” borbottò Vereheveil.

“Ammetti di averlo aiutato. Per puro e semplice legame fraterno?” volle sapere Kavahel.

“Gli avevo promesso che lo avrei aiutato a ritrovare i suoi genitori o, perlomeno, a capire chi fossero. Mi spiace che lui abbia considerato un metodo così…come dire…poco consono”.

L’Alto continuava a guardare la Luna, preoccupata e con occhi solo per il fratello.

“Anche il vostro legame fraterno deve essere molto forte, Selene…” affermò, non nascondendo una certa malizia nel tono della voce.

“Sì” ammise la Luna, girando il viso verso il padre che le era andato accanto.

“Gli vuoi bene?”.

“Sì, Signore”.

“Fino a che punto?”.

“Questa domanda non è pertinente con il processo!” affermò il Dio del Sole, stringendo a sé la figlia con convinzione ed affetto.

“Prenditela con me, gigante blu!” parlò Rikarathör.

“Tu tendi sempre a dire cose sbagliate nel momento meno opportuno” lo sgridò il padre.

“Quel cristallo! Lo hai rubato!” tuonò la Dea del Kaos, notando la pietra che il figlio del Sole aveva, involontariamente, preso fra le mani.

“Se lo rivolete indietro, sono pronto a renderglielo, Signora” propose Rikarathör.

“Non lo voglio, se toccata da un incrocio come te!”.

“Hei, bella! Tu sei nata da un uovo e da un Dio dall’identità sessuale incerta con un androgino! Non dare a me dell’incrocio!”.

La Dea del Kaos lo guardò con odio e la Morte ridacchiò. Luciherus, invece, si stava sbellicando dalle risate sotto lo sguardo accusatore di Kasday, che tentava di fargli tornare un certo contegno.

“Che futuro vedi per questo giovanotto sfrontato?” sibilò il Kaos, rivolta al fratello Destino.

“Lo sai che io non posso vedere il futuro delle persone, se non in rari casi. Sono solo un archivista, a cui non è lecito sapere troppo. E poi dovrei avere il suo fiore fra le mani, cosa che non ho”.

“Dimmi qual è che lo estirpo dalla radice! Ladro e strafottente. Creatura immonda!”.

Rikarathör non rispose alla Dea. Sapeva bene che l’Alto aveva già stabilito una sentenza di morte per lui, dato che non doveva essere presente in quel luogo e dato che aveva sempre tentato in ogni modo di porre fine all’esistenza di esseri semidivini.

“Sei colpevole di aver aiutato questo individuo, di aver rubato i cristalli della Dea del Kaos, di aver parlato a sproposito e di essere presente in questa riunione strettamente riservata a creature di cui tu di certo non fai parte e…”.

“Signore! Siate clemente con lui. È solo un Semidio…male non può farvi…” supplicò il Sole.

“Fai silenzio tu! La tua situazione è già abbastanza complicata!” gli ordinò l’Alto.

Il Dio del Sole guardò il figlio, mettendo un braccio sulle spalle della figlia.

“Io pertanto ordino che la tua vita non vada oltre all’ultimo errore che hai commesso. Non uscirai da questo tribunale. Non vedrai il magnifico tramonto che tuo padre organizzerà stasera sul tuo Pianeta, né su nessun’altro. Guardie!”.

“Posso avere l’onore di avere un ultimo desiderio?” domandò Rikarathör.

“Un ultimo desiderio? Hai infranto tutte le regole possibili ed immaginabili, sei il frutto stesso di una regola infranta, ma non posso impedirtelo perciò parla. Qual è il tuo ultimo desiderio?”.

“Vorrei potermi esprimere liberamente davanti a questa corte, senza impedimenti”.

“Dicci pure ciò che vuoi. Ti do dieci minuti”.

Il figlio del Sole guardò per primo il suo allievo e gli sorrise: “Sei stato davvero un allievo impossibile, ma hai imparato molto bene e mi hai reso orgoglioso. Spero solo che il tuo cammino non termini qui come il mio, ma possa andare avanti ancora per molto, perché te lo meriti”.

Kevihang non rispose. Non sapeva cosa dire.

“Tu…” ripartì Rikarathör, puntando la Dea del Kaos con il dito “Ho dovuto schivare e difendermi per tutta la vita dalle orribili bestiacce che tu hai creato e che girano per i Pianeti! Non puoi pretendere che ti chieda scusa per averti sottratto uno stupido sasso! Per quel che mi riguarda, puoi anche mangiartelo se ci tieni tanto!”.

La Dea rimase a bocca aperta e non contrattaccò, bloccata dall’Alto.

“Per giustizia…continuo con te!” parlò il semidio, indicando il Destino, che lo guardò con preoccupazione “Tu, sei il Destino! Non ti dovresti farti mettere i piedi in testa da individui come questi! Volendo, potresti infrangere i loro fiori come se fossero vetro e riscrivere il loro futuro, ma ti piace troppo sottostare agli ordini. So che tutto questo fa parte del normale Equilibrio del Mondo…” parlando si era girato verso Kavahel “…ma questa non è una scusa per sottostare a degli ordini idioti semplicemente pensando alla totalità degli Universi. Vi state rovinando la vita e per cosa? Per preservare delle vite che non stanno venendo preservate, perché gli Universi ed i loro abitanti stanno morendo! Prima di giudicare gli altri, forse, dovreste giudicare voi stessi ed il vostro operato. Siete pronti a dare la colpa a noi mortali perché non crediamo in voi e vi indebolite, ma datemi anche solo una ragione per venerarvi! Tu in particolare, Equilibrio, fai tanto il duro e l’autoritario davanti a me, ma io vedo il tuo lato femminile. So cosa sei! Sei debole perché reprimi te stesso e ciò che hai dentro di te. Sei nato per essere come il tuo genitore Kasday, che esprimeva la sua natura per metà femminile creando, danzando. Tu sei nato per essere una creatura perfetta, né maschio né femmina ed entrambi allo stesso momento ma, forse, hai paura di questo e ti nascondi dietro ad una maschera da severo ed autoritario. In realtà sei debole e sperduto”.

Kavahel spalancò gli occhi, così dorati e tondi da far solo tenerezza. L’occhio sul sigillo di Rikarathör girava la sua pupilla da tutte le parti, inquietando parecchio chi lo guardava.

“Io non ho niente da dirti” parlò di nuovo, rivolto alla Dea della Vita “Se non che, essendo Dea della Vita, dovresti amare ed apprezzare ogni forma vivente ed ogni manifestazione della sua potenza. Ma, probabilmente, più che provare disgusto per un corpo nudo, provi repulsione per il tuo stesso ruolo che senti di non svolgere come dovresti”.

Luciherus si leccava le labbra aspettando il momento in cui avrebbe insultato Vereheveil, ma il ragazzo si soffermò prima sul padre Sole.

“Io ti giudicavo in modo sbagliato fino a poco tempo fa. Credevo che fossi un’autoritaria testa di cazzo, ma mi sono dovuto ricredere perché ho capito cosa significa preoccuparsi davvero per una persona che si è cercato per tutta la vita di incanalare sulla retta via mentre, invece, questa continua a sbagliare. So di averti deluso e di averti provocato dei guai e mi dispiace”.

Avanzò di qualche passo, andando a pararsi davanti al Dio delle Lingue e delle Letterature.

“E tutto questo non può che essere, in parte, anche colpa tua!” sibilò, mentre Vereheveil lo fissava in modo decisamente stupito “Sei un idiota! Come puoi mettere un libro tanto importante in un buco di posto come il palazzo di Mihael, dove c’è una sorveglianza del tutto inutile?! Dei bambini dell’asilo sarebbero delle guardie più appropriate rispetto a quelle che ci sono in quel luogo! Un libro proibito e così sacro, importante eccetera…dovevi tenerlo con te o comunque in un luogo inespugnabile! Il mio comodino accanto al letto era più adatto rispetto alla biblioteca di Mihael!”.

“Non è vero!” protestò il demone, rinchiuso chissà dove e percepibile come una voce in lontananza. “Te ne stai lì a fare il sapientone, ma in realtà non sai nemmeno da che parte iniziare per rimediare al primo dei tuoi errori: l’aver lasciato quel libro da Mihael! E non importa se ti giustifichi dicendo che una volta era diverso e simili…la verità è che, come con noi mortali, voi Dèi calcolate le cose solo quando vi danno problemi o quando ne avete bisogno! Inutile che vi faccia notare che non è così che funziona…” terminò il figlio del Sole.

Luciherus applaudì, anche se si aspettava insulti più cattivi.

“A me non dici niente?” domandò Urihel.

“Come potrei? Sei il padre del mio fratellino Loreatehenzi, che hai sempre aiutato e sostenuto in tutti i modi. Non potrei mai trovare il modo di insultarti, ma potrei ringraziarti. Prenditi cura del mio fratellino, ora che non potrò essere io a farlo. E anche tu, Luna…” aggiunse, girandosi verso la Dea dei Satelliti “…prenditi cura di papà e di te stessa”.

“Non mi rimproveri?” disse lei, sorridendo in modo decisamente sforzato.

“Io la mia predica l’ho già ricevuta quest’oggi e volevo condividerla ma non potrei mai…”.

“I dieci minuti sono finiti” esclamò l’Alto.

“Solo una cosa ancora. Vostra Altitudine, o come diamine dovrei chiamarVi, Voi siete troppo pomposo e preoccupato di fare una buona impressione sugli altri. So che non siete così per davvero. So che un tempo eravate molto diverso, l’ho studiato e me lo sento. Forse dovreste ripensare a come eravate nel passato e come siete ora. Probabilmente potreste essere un’Alta Divinità migliore. Ed ecco, infine…Madama Morte…mi rimetto al Vostro giudizio. Colei che lavora sempre com’è giusto ed ha aiutato il mio fratellino. Di questo ve ne sono grato. Faccia di me ciò che deve” affermò Rikarathör, facendo un piccolo inchino alla Dea della Morte.

L’Alto fece segno alle sue guardie di portarlo via, mentre la Dea della Luna si dibatteva fra le braccia del padre per poterlo salvare. Nell’aria borbottii che contenevano le parole “Chi si crede di essere?” ed altre domande simili. Rikarathör sorrise. Amava le uscite in grande stile. Le guardie si avvicinavano a grandi passi e già lo avevano afferrato per entrambe le braccia quando sentì uno strano formicolio lungo il corpo e rabbrividì.

“Chiudi la bocca se vuoi salvarti” si sentì dire, ma non capì da dove.

“Resta immobile e fidati di me. Sono Luciherus, il padre di Kevihang. Se vuoi rispondermi basta che formuli pensieri ed io li percepirò, ma ora sta zitto ed ascoltami. So come salvarti”.

E me lo dici adesso?! Pensò Rikarathör in modo che Luciherus potesse capire. Potevi interrompermi prima che dicessi tutte quelle cose!

“E perché avrei dovuto? Mi sono divertito da matti, anche se saresti potuto essere più cattivo! Inoltre hai aiutato mio figlio ed il minimo che possa fare è salvarti, vero Kasday?”.

“Assolutamente!” rispose un’altra voce nella sua testa.

Ora siete tutti e due qui? Bene…non per farvi fretta, ma se volete aiutarmi è meglio che lo facciate adesso, perché non credo di avere molto tempo…

“Ho già un piano” affermò Luciherus, mentre altre due guardie tenevano fermo il figlio del Sole ed iniziavano a trascinarlo lungo il corridoio per portarlo verso la sua ultima meta.

Parla allora.

“Le vedi quelle finestre?” disse Kasday, e Rikarathör guardò in su, sopra la testa dell’Alto.

Sì, le vedo.

“Quelle sono l’unica uscita diretta. In fondo al corridoio si và verso la stanza in cui era rinchiuso Kevihang ed il cortile interno, attraverso il quale non potesti fuggire tanto facilmente perché saresti circondato da mura e guardie. Dalla porta dietro all’Alto si và verso il salone in cui giudici e giurati si radunano per decidere la sentenza ed il verdetto, collegato ad altri corridoi e stanze, con annesse, ovviamente, guardie e servitori. Ma quelle finestre lassù in alto sono rivolte verso l’esterno e da lì puoi fuggire. O, perlomeno, provarci!”.

Rikarathör guardò il punto descritto. Sopra la testa dell’Alto, le pareti si piegavano leggermente e, dietro alle tende, si poteva intravedere la luce entrare dalle ampie finestre. Ma erano davvero in alto, molto più in alto delle finestre di una normale stanza.

Come credete che possa arrivarci lassù?

“Tranquillo! Ti basterà saltare prima dove sta Kevihang, poi dov’è Kavahel ed infine prendere una bella spinta e lanciarti dalla postazione di Krì” parlò Luciherus, come se fosse la cosa più normale del mondo.

“Cosa?!” esclamò il figlio del Sole, dibattendosi per non essere portato via.

“Tranquillo ti ho detto. Ti aiuteremo noi. Tu fidati!”.

Rikarathör guardò di nuovo in su e fece un profondo respiro.

Mi fido. Non ho niente da perdere dopotutto…

Luciherus e Kasday si presero per mano e le loro essenze si fusero con quella del figlio del Sole che sussultò, avvertendone la forza.

“Ora noi ti aiuteremo, ma una volta fuori di qui te la dovrai cavare da solo. Noi non possiamo allontanarci da colui che ci ha evocato”.

Urihel, vedendo dove puntava lo sguardo del ragazzo, mosse leggermente la mano e le tende si scostarono, aiutate dall’aria che il Dio aveva spostato.

“Questo fa sì che tu non possa rischiare di schiantarti contro il muro…gentile da parte sua!” commentò Luciherus, mentre l’occhio sinistro di Rikarathör diveniva aranciato come quello dell’antico Dio della Forza e del Coraggio.

Rikarathör, dopo un cenno dato da Kasday nella sua mente, chiuse gli occhi e lasciò che le fiamme che aveva sulle sue braccia si scaldassero. Così facendo le guardie lo lasciarono subito, scottandosi, e lui ne approfittò per saltare sulla piccola balaustra a cui era legato Kevihang. Altre guardie entrarono dalla porta, con le armi sguainate. Padre Sole, notato il gesto di Urihel, guardò le candele che circondavano la porta e ne alimentò le fiamme, in modo da impedire ad altri di entrare. Rikarathör saltò e si ritrovò davanti a Kavahel che non si mosse, come a volerlo lasciar fuggire.

“Fermatelo!” urlò l’Alto, ma nessuno obbedì, chi perché sconvolto e chi perché non voleva intervenire.

Rikarathör saltò sul bancone di Krì, aiutato dalla forza di Luciherus. L’ultimo salto, da lì alla finestra, sapeva che era il più impegnativo, ma non ci pensò troppo. Sapeva che non doveva farsi prendere dall’Alto. Lanciò un grido e saltò verso la finestra. I secondi più lunghi della sua vita, in cui gli parve di rimanere sospeso nel vuoto. Qualcosa lo colpì alla gamba, forse una freccia, e sentì le forze mancargli. Le essenze di Luciherus e Kasday si erano allontanate troppo da Kevihang.

“Non cadrò!” disse a sé stesso, anche se già iniziava a precipitare.

Il Sole ed Urihel si guardarono ed il Dio del Cielo annuì. Il Sole sorrise mentre l’Angelo divino guardava verso Rikarathör e pronunciava parole magiche con un impercettibile movimento della bocca. Il figlio del Sole si sentì sollevare ed ebbe una nuova spinta. Il suo volo terminò contro la finestra, che si infranse mentre lui si copriva il viso, e ritrovò la libertà. Cadde per qualche metro prima di sentire sotto i piedi le tegole del tetto che copriva il corridoio. Saltò di nuovo, aggrappandosi al ramo di un grosso albero che cresceva subito a ridosso delle mura del palazzo. Lì riprese fiato. Era ferito e ricercato ma era vivo. Avvertì di non essere ancora al sicuro. Le guardie si avvicinavano in fretta e se lo avessero preso non sarebbe servito a niente l’aiuto ricevuto da Luciherus, Kasday, Urihel, suo padre e tutti gli altri.

“Prendetelo!” urlò l’Alto da dentro il salone.

 

“Torniamo a noi” sbottò Krì, rivolto ai presenti “Mio caro ragazzo, Kevihang mi pare che ti chiami, io ho già preso la mia decisione per quel che mi riguarda. Ed anche per quanto riguarda alcuni individui qui presenti…” affermò, guardando male il Sole ed Urihel “Prima di tutto, è ovvio che devi essere punito. Hai ucciso uno degli alberi di Heket, hai rubato uno dei cristalli del Kaos, ti sei intrattenuto con una Dea, ne hai traumatizzato un’altra ed, ovviamente, hai rubato il libro proibito. Tutto questo dovrebbe essere punito con la morte certa…”.

Mormorii di disapprovazione si alzarono fra alcuni mentre fra altri si sentirono apprezzamenti.

“…tuttavia, piccolo essere, noi tutti rivogliamo quel libro e tu sai dov’è…”.

“Non è vero” protestò Kevihang.

“Fai silenzio! Dicevo…tu sai dov’è e perciò non posso e non voglio ucciderti. Per farti confessare, dato che questa è una cosa di primaria importanza, ti condanno alla reclusione nelle prigioni del Kaos fino a quando la situazione non sarà risolta. Siete d’accordo?”.

La Dea del Kaos annuì, entusiasta. Da qualche parte, non si sa da dove, si sentì Mihael sbraitare che lui non era per niente della stessa idea della Dea. Kasday gemette, come chiunque sapesse di cosa si intendesse per “prigioni del Kaos”. Kavahel non si espresse. Vereheveil guardò il ragazzo supplicandolo di riferire dove il libro si trovasse per evitare inutili conseguenze.

“Mi spiace ma non vedo alternative, piccolo mortale. Sono pronto ad ascoltarti in qualunque momento tu voglia porre fine alla tua prigionia”.

L’Alto poi guardò il Sole ed Urihel e parlò loro in una lingua che solo Kasday, e gli Dèi a cui erano rivolte le parole, era in grado di capire.

“Tu, Urihel, non avrai più il permesso di uscire dalla cupola del mio palazzo. Nessun contatto esterno e nessuna uscita. Mi spiace, ma hai disobbedito alle regole ed è così che reagisco quando succede, e tu lo sapevi. Per quanto riguarda te, Sole, sarò magnanimo e non farò nulla a tua figlia. Tu però dovrai darmi una tangibile prova della tua fedeltà in cambio, occupandoti di questo ragazzo. Se non lo farai, mi occuperò io della tua bambina”.

Il Sole chinò il capo e Urihel ringhiò.

“Stupide regole, stupido Alto, stupido verdetto…” brontolò Luciherus.

Kevihang venne portato via, con la Dea del Kaos ed il Sole alle spalle. Kiaritanya lo guardò e non disse nulla, attendendo il suo padrone.

“E chi mi porta la testa del mezzosangue appena fuggito avrà una notevole ricompensa a suo piacimento. So essere molto generoso” concluse Krì, allontanandosi usando la porta alle sue spalle.

E la Luna, rimasta sola, pianse.

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Capitolo 24
*** XXIV- prigionia ***


XXIV

 

PRIGIONIA

 

Completamente al buio, senza nessuna apertura verso l’esterno, la cella di Kevihang era un luogo stretto ed umido, decisamente inospitale e malsano. Incatenato per la caviglia destra e con i polsi legati, aveva misere capacità di movimento e restava seduto. Non poteva spalancare le ali perché avrebbero occupato tutto lo spazio disponibile e per fortuna i suoi genitori, ancora legati a lui, non erano dei corpi fisici ma erano semplici essenze e non toglievano prezioso ossigeno. Non aveva un posto dove poter dormire se non la nuda pietra. Dopo un’intera giornata passata in quel luogo, senza né cibo né acqua e senza vedere nessuno, avvertì il rumore di passi svelti e decisi. La porta si aprì, lasciando entrare una luce accecante, ed entrò il Dio del Sole, chiudendo la porta dietro di sé.

“Dunque, ragazzo…” parlò, con autorità “…hai qualcosa da dirmi?”.

“Riguardo al libro? Proprio niente. Non so dov’è” rispose Kevihang.

Il Sole sospirò, passandosi una mano sui capelli voluminosi ed a forma di fiamma, piegandosi sulle ginocchia per poter guardare negli occhi il prigioniero, che non si era alzato.

“Lascia che ti illustri la situazione, mortale. Non uscirai da qui fino a quando Ansuz non avrà ricevuto l’informazione che necessita, e cioè dov’è quello stupido libro”.

“Ma non ce l’ho io!”.

“Sappiamo bene entrambi che esistono pochissime creature in grado di prendere fra le mani un volume del genere perciò non prendermi in giro. Chi altro, secondo te, avrebbe potuto portartelo via? Dai…fai delle ipotesi…”.

“Io…non lo so…”.

“Bene. Allora lascia che ti spieghi che cosa succede qui. Ci resterai fino a quando non dirai ciò che vogliamo sentirti dire e la prigionia non sarà sempre così piacevole perché, sì, ciò che hai vissuto fino ad adesso è piacevole rispetto a ciò che ti capiterà. La cosa sarà graduale. In poche parole, giovanotto, il mio compito e quello dei miei collaboratori qua fuori sarà torturarti in nome di Ansuz e della corte suprema. Non dovrei dirtelo, ma così facendo spero di darti una mano: ti preparo psicologicamente e ti do la possibilità di confessare ora, evitando tutto ciò che posso farti e posso farti fare. Mi hai capito?”.

“Ho capito, ma non ho niente da dirti. Perché proprio tu, Dio del Sole, diventi un torturatore? Non dovresti essere un portatore di luce, vita e speranza?”.

“Certo, ma solo l’assoluta luce conosce ogni angolo delle tenebre. Io sono un Dio in vita da Ere intere, miliardi e miliardi dei tuoi insulsi anni, ed ho visto ogni tipo di atrocità negli Universi, perpetrate da mortali e Dèi, in alcuni casi anche in mio onore. Non ho nulla contro di te, rispetto degli ordini, e quindi non avrò pietà, anche se sei giovane e non divino”.

“Io pensavo che tu fossi diverso, ed invece ti fai comandare da quell’Alto. Non potresti ribellarti ed andare contro le regole, come ho sempre fatto io?”.

“Senti un po’…” si spazientì il Sole, facendosi guizzare una fiamma fra le iridi “…ma tu rifletti prima di parlare?! Hai condannato entrambi i miei figli e mi vieni a dire che devo infrangere le regole, come hai fatto tu?!”.

“Che colpa ne ho io di ciò che è successo ai tuoi figli?! Alla Luna, poi, non ho fatto proprio niente! Non accusarmi di cose che non ho fatto!”.

“Dal processo non ho più notizie di mio figlio. Non so se è riuscito a salvarsi, ma non ha importanza perché c’è una taglia sulla sua testa. Dovrebbe nascondersi per salvarsi ma so che non riuscirà a stare lontano dalla donna che ama, mia figlia, perché è testardo e se vuole una cosa non demorde mai. Krì ha capito il sentimento che li lega e tiene sotto stretta sorveglianza la mia bambina e, non appena Rikarathör la incontrerà, sarà pronto ad intervenire, se non lui di persona qualcuno dei suoi sicari. Morirà per colpa tua. E la mia Selene quanto tempo vuoi che viva, una volta persa la luce che la fa splendere? Perderò entrambi i miei figli per un tuo atto sconsiderato”.

“Hei! Aspetta un momento! Io non ho costretto nessuno a fare ciò che ha fatto! Il mio fratellone era libero di non aiutarmi ed invece lo ha fatto, ma non l’ho obbligato io!”.

“Non capisci. Non capisci proprio…” sospirò il Dio del Sole e si alzò.

“Sei tu che non capisci! Se quello stupido Alto non rompesse tanto con le sue regole, a quest’ora staremmo tutti meglio, di sicuro!”.

Il Dio lo guardò con ancora più odio e rimprovero.

“Se tutti avessero rispettato le regole…” sibilò “…a quest’ora staremmo tutti meglio, mostriciattolo! Ma voi giovani non sapete far altro che agire senza mai pensare a ciò che potrebbero comportare le vostre azioni sconsiderate! Sai una cosa? Non mi interessa se hai o meno quel fottuto libro! Hai condannato i miei figli e quindi per me sarà un piacere torturarti!”.

La divinità bussò sul portone blindato ed uscì dalla cella, sbattendola.

“Un momento!” sbraitò Kevihang “Ho fame, ho sete, devo andare in bagno!”.

“Non è un problema mio se sei un mortale” rispose una delle guardie a lato della porta ed attorno al ragazzo fu di nuovo tutto buio.

 “Perché la mia pelle non risplende?” protestò.

“Per via di quei bracciali che ti hanno messo alle caviglie, uno dei quali è legato alla catena che ti imprigiona al muro” spiegò Kasday “Assorbono tutta la tua magia e ti impediscono di averne a sufficienza per tentare di fuggire”.

“Grandioso…”.

“Conosci bene questo luogo?” domandò Luciherus alla sua compagna, che annuì.

“Ci sono stata rinchiusa a lungo, subito dopo la nascita della nostra bambina”.

“Ah…era questo il posto…”.

“Ok. Perfetto. Quindi sai come farmi uscire!” esclamò Kevihang.

“Sì, ma non so se per te sarà possibile…”.

“Spiegami!”.

“Quei bracciali reagiscono alla tua magia, al tuo genoma. Se imparassi a modificarlo, ad essere qualcosa di diverso da te stesso, allora potresti fuggire”.

“È una cosa fattibile?” domandò Luciherus.

“Fattibile sì, dati i suoi livelli magici, ma non so se sarà possibile fartelo imparare una volta iniziate le torture. Sarai sempre più debole e …”.

“Imparerò. Voi insegnatemi!”.

Kasday gli sorrise, sfiorandogli il viso, assicurandogli che avrebbe fatto il possibile.

Nel frattempo la porta si riaprì ed entrò una creatura massiccia, con un cappuccio a coprirgli il viso. Aveva braccia possenti e ricoperte da un’inquietante peluria violacea. Un’altra creatura del Kaos, evidentemente, che aveva in sé i geni da creatrice ma non a sufficienza per generare qualcosa oltre ad esperimenti e servi dalla scarsa forza di volontà.

“Ora vedremo a che livello puoi arrivare, microbo” sibilò la bestia, con voce profonda.

Afferrò saldamente Kevihang, mentre una delle guardie lo liberava dalla catena alla caviglia, e lo trascinò lungo il corridoio. Il ragazzo si dibatté e protestò ma non aveva via di scampo. Fu portato in un’ampia sala con diverse piscine di colore verdastro. Il Sole era davanti alla prima.

“Queste sono vasche ripiene di energia di vario livello magico” spiegò, serio e severo “Ce ne sono dieci, come puoi vedere. Ti spiego quali saranno i loro effetti. Quelle di magia inferiore alla tua saranno come acqua fresca ma noi, ovviamente, cercheremo quelle di livello più alto del tuo che ti bruceranno la pelle e ti ustioneranno”.

“Allora mettetemi direttamente nella decima, no? Perder tempo a provarle tutte…”.

“Nella decima probabilmente moriresti perché è troppo potente e ti fonderebbe il cervello. Non vogliamo la tua morte, per ora, perciò inizieremo con un livello intermedio, per poi proseguire”.

Kevihang fu trascinato davanti alla vasca numero quattro e, dopo essere stato messo in ginocchio, fu immerso nel liquido. Le particelle verdi disciolte nell’acqua si accalcarono sul suo viso e non gli fecero nulla, se non un leggero solletico. Ne approfittò per bere un sorso di quell’acqua ristoratrice e poi venne tirato fuori per i capelli.

“Notevole. Per un mortale è già impegnativo un livello quattro” commentò il Sole.

“Tu a che livello sei, esaltato?”.

“Non sono affari che ti riguardano…”.

Con un cenno del Dio, il prigioniero fu portato due vasche in avanti. Davanti alla numero sei Luciherus e Kasday mostrarono la loro preoccupazione. Immerso, Kevihang rabbrividì. Il liquido era gelido e dava leggermente fastidio. Scosse la testa, mentre il suo aguzzino continuava a tenerlo sott’acqua. Dopo quasi un minuto fu risollevato, sempre per i capelli, ed il Dio del Sole ne guardò il volto, rigirandolo con due dita.

“Qualche danno ma niente di serio…davvero notevole…”.

“Non è che sei geloso perché sono ad un livello superiore del tuo?” ridacchiò il giovane, ansimando per la lunga apnea.

“Sei un vero idiota a stuzzicare colui che decide la tua sorte” sibilò il Dio e lo trascinò lui stesso, per i capelli, davanti ad un’altra vasca.

Vi immerse la mano e guardò il prigioniero con un sorriso, un ghigno.

“Come vedi a me non fa niente…adesso vediamo come te la cavi tu con un livello otto, carino!”.

Kevihang fu assalito da un’immensa magia che lo bruciò e lo ustionò sul viso. Si dibatté per liberarsi e solo dopo diversi secondi, che al torturato sembrarono un’eternità, fu liberato. Riemerse con uno scatto e riprese fiato.

“Sei stato bravo. Non hai urlato. Di solito lo fanno e si ustionano la gola…” commentò il Sole, asciugandosi la mano con un asciugamano.

“E così abbiamo un livello sei…molto bene. Ne terrò conto” affermò poi, facendo segno alla bestia pelosa di riportare Kevihang nella sua cella.

“Mettete dei sigilli a livello sei sulla porta ed alla parete esterna. Non vorrei che gli venisse in mente di sfondare o abbattere muri” ordinò ad una piccola creatura incappucciata, che annuì.

 

“Livello sei. Interessante…” commentò Luciherus, una volta che furono di nuovo soli nella cella.

“Capirai…” brontolò Kevihang, mentre Kasday tentava di alleviare le bruciature che aveva sul viso.

Con i nuovi sigilli non poteva più appoggiarsi alla parete di fondo o alla porta, altrimenti veniva colpito da una forte scossa.

“Tu a che livello eri, papi? Posso chiamarti così?”.

“Bello, papi! Suona bene! Comunque non ne ho idea…ai miei tempi non si facevano test simili”.

“Più o meno credo potresti rientrare nella stessa fascia del Sole” commentò Kasday “Cioè un livello otto circa. Immagino che il dieci sia quello di Krì o forse non rientra in quella scala…se avessi un corpo fisico lo proverei personalmente”.

Kevihang scosse la testa. I capelli davano fastidio strusciando sulla pelle rovinata e gli occhi gli bruciavano. Anche le labbra le sentiva pulsare e sanguinavano.

“Non male come primo giorno” mormorò, avvilito.

Non aveva niente da confessare e si sentiva tremendamente stanco, troppo stanco per poter seguire gli insegnamenti dei suoi genitori sul suo cambio di stato. Si addormentò senza nemmeno accorgersene e cadde in un sonno profondo senza sogni.

 

I giorni successivi non trascorsero in modo diverso. Venne svegliato di colpo, aveva il dubbio che in realtà qualcuno attendesse di vederlo addormentato per mandarlo a svegliare, trascinato in altre stanze dove subiva diversi trattamenti. Le catene che lo bloccavano erano sempre più strette e le torture sempre più pesanti. Veniva appeso, legato, ferito, bruciato, quasi ibernato, immerso in acqua gelida o bollente…e molto di tutto questo avveniva mentre una luce fortissima gli veniva puntata in faccia. Questo gli stava lentamente rovinando la vista, dato che per la maggior parte del tempo era avvolto dalle tenebre.

“Per quanto vuoi ancora continuare?” gli domandò il Dio del Sole, mentre lui era appeso per i polsi e sospeso in aria.

“Io non ho niente da dire” rispose Kevihang, con gli occhi e la bocca sanguinanti.

“Non costringermi a passare allo stadio successivo” disse il Dio, mostrando compassione nel suo sguardo ed apprensione.

“Nessuno è mai uscito vivo da qui, tranne Kasday, perciò anche se ora ti dicessi dov’è il libro, se lo sapessi…verrei ucciso. Perciò perché dovrei parlare?”.

Il Sole lo guardò un’ultima volta, così, quasi messo in croce, ed abbassò gli occhi.

Luciherus ricordò quando veniva messo nella stessa posizione dal Kaos e tentò di donargli un po’ di forza, ma ormai, come il suo evocatore, anche le evocazioni erano deboli.

“Mi costringi a fare una cosa che…proprio non vorrei! Procediamo…” disse, rivolto ad un paio di creaturine incappucciate che sganciarono i polsi di Kevihang mentre due altri mostri del Kaos lo trascinavano altrove. Il prigioniero non oppose resistenza, sapeva che era inutile, e si fece portare fino ad una stanzetta bianca, pulita e moderatamente luminosa.

Qui venne incatenato, con le braccia spalancate, dando la schiena ai suoi torturatori. Anche le gambe furono bloccate e gli vennero tolte le poche vesti che gli coprivano la schiena.

“Sai cos’è questo?” domandò il Sole, tenendo fra le mani uno strumento simile ad un paio di cesoie.

“Non mi interessa” rispose il prigioniero.

“Procedete” diede ordine il Sole.

Le luci della stanza furono alzate e Kevihang venne imbavagliato con un fazzoletto impregnato da una strana sostanza magica che bruciava leggermente. Il giovane sorrise. Gli bastava non urlare o stringere i denti così non ne avrebbe ingoiato il liquido. Non vedeva niente per colpa della luce e sentiva solo strani rumori che non voleva interpretare. Serrò gli occhi mentre qualcuno gli tirò le ali. Si agitò, dato che la cosa gli dava parecchio fastidio, ma non aveva modo di evitare quel momento. Le sentì bruciare ed aveva anche una strana sensazione al naso. Odore di bruciato. Stavano dando fuoco alle sue piume! Non avvertiva dolore. Questo era strano…che razza di tortura era se non provava alcun male? Ma poi arrivò una scossa spaventosa di dolore lancinante. Non le stavano solo bruciando…gliele stavano strappando dalla schiena! Strinse i denti ed il liquido magico del fazzoletto gli scivolò in gola, incrementando la sua pena. Gli occhi lacrimavano e tentava di urlare ma aveva la bocca serrata da quel bavaglio. Resistette finché poté…dopodiché svenne.

 

Si risveglio parecchie ore dopo. Incatenato, in modo da far fatica a percepire la punta dei piedi da quanto era stretto il gancio, gemette. Non aveva più le ali e la ferita era stata lasciata aperta, senza bendaggio. La gola la sentiva calda ed insensibile. La sua voce era storpiata e provava dolore anche solo nel respirare. Chiuse gli occhi, per dare sollievo alla sua vista già provata, e tentò di addormentarsi. Non appena chiuse le palpebre, sentì la porta aprirsi ma non ci fece caso. Rimase immobile, disteso sul pavimento.

“Devi alzarti, figlio mio!” gli diceva Kasday.

“Devi farti forza” lo incitava Luciherus.

La persona entrata nella stanza, senza parlare, lo prese delicatamente fra le braccia e lo fasciò con cura. L’operazione fece soffrire ulteriormente il ragazzo che però non aveva le energie necessarie per liberarsi da quelle mani.

“Non voglio che tu muoia. Non posso permetterlo” parlò.

Una donna? Kevihang si sforzò di aprire gli occhi e vide due donne: Selene e Luciheday. La Luna e la Morte, l’una accanto all’altra.

“Solo a noi è concesso venire qui. Tieni un po’ d’acqua” mormorò la Luna.

“Non dire a nessuno che ti abbiamo bendato noi. Ufficialmente siamo qui solo per controllare la tua salute, nemmeno là fuori vogliono la tua morte, hai delle informazioni troppo preziose nel tuo cervello” aggiunse la Dea della Morte.

“Io non so niente…voi mi credete?” mormorò Kevihang.

“Io non so se crederti o meno, ma il mio fratellino ha creduto in te e quindi…” disse la Luna, con sguardo triste.

Il prigioniero bevve un sorso d’acqua, aiutato dalla Dea dei Satelliti che sorreggeva la sua coppa, e tentò di riprendersi. La testa gli girava fortissimo ed era tutto indolenzito.

“Se sai come uscire da qui…” disse la Morte “…se hai chi ti aiuta…” aggiunse, guardando i suoi genitori “…allora ti conviene agire il più presto possibile perché dopo le ali temo che passeranno alle corna, alla coda…o forse alle braccia ed alle gambe. Vattene, se puoi, o morirai qui. Questo tipo di torture è stato concepito per far parlare le divinità, non i mortali!”.

“Se pur di livello elevato…” terminò la Luna, vedendo il sigillo alla porta.

“Grazie” gemette Kevihang, respirando a fatica “Avete notizie del mio fratellone Rikarathör?” domandò, dopo qualche attimo.

“Non parlare di questo. Pensa ad uscire da qui, se ci tieni alla vita” sbottò la Morte e prese la Luna con sé, sottobraccio.

Assieme, le due Dee uscirono da quell’antro buio, serrando la porta dietro di loro.

Il prigioniero si ributtò in terra, cercando sollievo sul gelo della pietra del pavimento.

“Hanno ragione loro” intervenne Luciherus “Devi uscire di qua ed alla svelta, o ci lascerai le penne, mio caro ragazzo!”.

“Le ho gia lasciate tutte le penne. Non le riavrò mai più” mugugnò Kevihang.

“Non pensarci…” suggerì Kasday.

“Come posso non pensarci? Fa male, malissimo, ed era il nostro legame, ricordi? Mi hai detto che queste ali erano il legame che ci univa…”.

“Tesoro, il fatto che io sia tua madre è il legame che ci unisce. Devi sforzarti ed usare le tue energie per scappare ed andare lontano”.

“E dove? Anche se fuggissi, sarei braccato da tutti e non saprei dove nascondermi. Morirò qui…e nessuno piangerà per me!”.

“Non è vero! Io piangerei per te, ad esempio, e sono sicura che anche tutta la tua famiglia adottiva sente la tua mancanza e ti rivuole a casa. Adesso te lo mostro…”.

Kasday si concentrò e, con la poca energia che aveva a sua disposizione, creò una bolla davanti a sé dentro la quale si intravedevano delle figure.

“Quella è la mia madre adottiva…” disse Kevihang ed, in effetti, era proprio lei.

Camminava assieme a Loreatehenzi ed Enrikiran, assieme ad altri mezzosangue, e lei piangeva.

“Perché piange? Che succede?” domandò il ragazzo, preoccupato.

Sullo sfondo della bolla apparve la torre di sorveglianza del villaggio, in fiamme.

“Stanno scappando. Qualcuno sta attaccando il villaggio…ma Urihel? Solitamente era Urihel, assieme a mio fratello, a dare l’allarme ed a controllare che ciò non accadesse!”.

“Urihel è stato condannato a restare per sempre nella cupola dell’attuale palazzo dell’Alto Krì. Lo han detto al processo, ma in una lingua che non sei in grado di capire”.

“Quindi, senza Urihel, il villaggio è rimasto senza preavviso e non ha potuto crearsi una barriera protettiva per celarsi a chi ci vuole distruggere! Ma è terribile…”.

“Non so se potrai salvarli ma…io credo che, per loro, non dovresti arrenderti”.

Kevihang strinse i pugni e si alzò, anche se a fatica, e ringhiò: “Insegnatemi tutto ciò che devo sapere. Sono pronto” affermò ed i suoi genitori, dopo un cenno d’assenso, iniziarono a mostrargli come uscire da lì.

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Capitolo 25
*** XXV- alleanza d'elementi ***


XXV

 

ALLEANZA D’ELEMENTI

 

Si risvegliò pigramente il figlio del Sole, cullato e stimolato da una dolcissima fragranza di fiori appena sbocciati. Un profumo più unico che raro in quei Mondi morenti. Al principio pensò che fosse un sogno, un’allucinazione. Non ricordava esattamente cosa fosse successo. Tentò di concentrarsi ma non ci riusciva, la mente era annebbiata e confusa così come tutti i suoni che udiva risultavano ovattati e filtrati.

Forse sono morto pensò, dopo che in un rapido flash gli si parò davanti la scena del processo, con lui che stupidamente insultava tutte le divinità presenti. Non era male la vita dopo la morte allora…perché, assieme al profumo dei fiori, sentiva anche dolci aromi di cibo e prelibatezze che aveva ormai dimenticato. Annusò l’aria e sorrise, tenendo gli occhi chiusi. Aveva provato ad aprirli ma aveva scorto solo ombre e luci, niente di particolarmente rilevante.

Quando ormai si era convinto della sua dipartita, avvertì un lieve formicolio alla gamba che divenne, gradatamente, dolore. Subito realizzò che, nella vita dopo la morte, non dovevano esserci sensazioni spiacevoli come quella che provava in quel momento e perciò era ancora in vita. Ma allora…dov’era e cosa era successo? Aprì gli occhi di nuovo e si sforzò di mettere a fuoco attorno a sé. Una voce, o un’altra allucinazione, lo chiamava e forse qualcuno lo stava scuotendo. Rosa…vedeva del rosa. Color carne o forse una tonalità più scura ma non di molto…

“Marinditi-ya!” realizzò, spalancando gli occhi e girando la testa.

“Mi hai riconosciuto dalle tette?” ridacchio lei.

Si era chinata sul fratello maggiore, forse per rianimarlo, e tutto il rosa che Rikarathör aveva visto era, evidentemente, quello della scollatura vertiginosa della sorella minore.

“Io…” balbettò lui, non sapendo dove rivolgere lo sguardo.

“Stai tranquillo. Guarda che lo fanno tutti…” sghignazzò lei, dando una mano al fratello a mettersi seduto, lentamente.

“Cosa è successo?”.

“Al processo non ne ho idea. Dimmelo tu…”.

“Non ricordo esattamente ma…” gemette e si sfiorò la gamba.

La sorella gli bloccò il braccio e lo rimproverò: “Non la toccare! Era stata trapassata da una delle frecce delle guardie di Ansuz. Sei fortunato che ti abbia solo colpito la gamba e non qualche altro punto vitale. Così facendo sono stata in grado di aiutarti. Devi ringraziare la tua buona stella lassù. Saresti morto, sai!”.

“Ma non lo sono. E non ho chissà che stelle da ringraziare…”.

“Sei uno scapestrato”.

“Non farmi la predica anche tu!”.

“Temevo di perderti…” confessò lei, con quegli occhi color del miele ed il viso truccato, abbracciando il figlio del Sole con forza e dolcezza.

“Mi hai salvato? Grazie, sorellina…”.

“Ti ha salvato la fortuna, non io. Forse il Destino è dalla tua parte”.

“Dubito, dopo quello che gli ho detto. Forse la Morte, se Kevihang ci ha messo una buona parola”.

La Semidea della Terra gli appoggiò una mano sulla gamba ferita, subito sopra il ginocchio, dove aveva realizzato un’accurata fasciatura con un bel fiocco, e sorrise.

“Ti ho preparato qualcosa da mangiare” disse, allontanandosi per un attimo.

Porse un piccolo fagotto al fratello, che lo scoprì e si sentì subito meglio. Marinditi-ya gli aveva preparato del buon pane caldo.

“Oh, sorellina…ma è difficilissimo trovare gli ingredienti per una cosa del genere!”.

“Difficilissimo, ma non impossibile per la Semidea della Terra!” esclamò lei, raggiante, ed invitò il fratello a mangiarlo per dirle se era buono.

“Buonissimo” confermò lui e lei ne fu davvero felice.

“Raccontami cosa è successo. Perché io ricordo solo il processo, vagamente…”.

“Premessa: io ero qui perché al villaggio è successo un vero macello”.

“Spiegati”.

“È stato distrutto”.

“Come distrutto? Mamma e gli altri stanno bene, vero?”.

“Sì, stanno bene ma ci siamo dovuti spostare. Sapevo che sia tuo padre che Urihel erano a quel processo ed avevamo deciso di farglielo sapere. Loro sono sempre stati dalla nostra parte…e quindi mi sono avviata. Loreatehenzi ed Enrikiran sono rimasti con mamma e le loro famiglie ed io ho deciso di partire da sola. Un gesto avventato, è vero, ma grazie a quello ho potuto salvarti. Anche se speravo di incontrare faccia a faccia quell’Alto e dirgliene quattro!”.

“Lui fa solo rispettare le regole. Noi siamo qualcosa di non previsto e non prevedibile, di sbagliato e sconvolgente per quanto riguarda l’equilibrio degli Universi”.

“Da quando cerchi di fare il saggio? Guarda che con me non attacca, sai! Lo so bene che non lo sei!” ridacchiò Marinditi-ya.

“Ho 35 anni…sarebbe anche ora che iniziassi a fare l’adulto, no?”.

“No! A me piace il mio fratellino stupidino ed eterno bambino!”.

“Sei stata una vera incosciente a venire qua da sola. Mamma sarà in pensiero!”.

“Credo di sì ma adesso andiamo da lei, entrambi, e sarà tutto risolto”.

“Potevi chiedere a qualcuno del villaggio di accompagnarti!”.

“Non farmi la predica! Tu, poi, che usi il cervello una volta ogni tanto!”.

Lei si era accigliata, prendendo il tipico comportamento delle adolescenti capricciose.

“Non fare così. Non volevo farti arrabbiare” commentò Rikarathör.

“Ed invece mi hai fatto molto arrabbiare! Te ne sei andato così, senza dire niente! Sono sicura che eri con lei…con quella”.

“Quella? Intendi Selene?”.

“Proprio lei. Con quel suo pessimo carattere ed il suo atteggiamento superiore”.

“È una Dea. Anch’io, se lo fossi, avrei un atteggiamento del genere!”.

“Lei è gelosa di me”.

“E tu di lei. Ma ti consiglio di abituarti alla sua presenza perché le ho chiesto di sposarla”.

“Sposare quella?! Non accetterà mai! Si sente troppo superiore per sposare uno come te!”.

“Sei tu quella che fa sempre la superiore! E comunque ha già accettato. È una semplice questione di organizzazione prima che tutto venga stabilito ufficialmente”.

“Voi due siete troppo diversi per stare assieme. Ti serve un tipo di donna differente. Lei è una Dea, una creatura lontana da te, che ama e fa cose opposte da quelle che ti piacciono ed ami fare tu. È fredda, distaccata e cambia continuamente umore. Inoltre…è vecchia!”.

Rikarathör non disse nulla e si limitò a guardarla, come a voler dire che non capiva dove voleva andare a parare con quelle parole.

“A te, Rik, serve una donna diversa. Una stabile, che sa godersi la vita in ogni attimo, con cui giocare e fare il ragazzino tutto il giorno. Lei ti vuole uomo, probabilmente, ed in un attimo ti ritroveresti circondato dalle responsabilità essendo sposato ad una Dea. Poi siete così dissimili anche di carattere…tu sei solare ed ottimista, non farti spegnere da una come lei!”.

“Finiscila adesso! Io splendo per lei e lei sorride e brilla grazie a me. Ma sono cose che non mi aspetto capisca una ragazzina”.

“Sono più donna di lei. Io so amare, con il corpo e con la mente…lei può dire lo stesso?”.

“Che tu possa amare con il corpo non ho dubbi…credi che non mi venga riferito quello che combini quando io sono lontano dal villaggio?”.

“Non è la donna per te! Io e te abbiamo molte più cose in comune! Più della Terra e del Sole che la alimenta…non c’è unione migliore! Siamo nati per stare assieme”.

“Seguendo questo ragionamento, allora perché non Enrikiran? Lui è l’acqua…”.

“Ed il gelo. La Terra ha bisogno di calore…ed io posso crescere rigogliosa solo grazie alla tua luce ed al tuo calore, fratello. Perché guardi altrove quando la donna per te l’hai sempre avuta davanti agli occhi? Lei ha mai detto di amarti? Io posso dirlo…posso dire che ti amo”.

“Lei non l’ha mai detto. Ma, come non l’ha detto a me, non l’ha detto a nessun’altro. Tu invece…quante volte hai pronunciato quelle parole davanti ad un uomo? Tu non sai ancora cos’è l’amore, sei troppo piccola e giovane per comprendere ciò che lega me e la Luna, e forse non sarai mai in grado di comprenderlo”.

“E tu lo comprendi?”.

Rikarathör rimase in silenzio e non rispose. Era stufo di farsi fare la predica…ed era già la seconda nel giro di pochi giorni.

“È questo il modo di ringraziarmi per averti salvato?” piagnucolò la Semidea, non trovando altre armi se non quella di mettersi a piangere.

Il figlio del Sole detestava vedere le donne piangere e cambiò immediatamente atteggiamento. Lasciò che la sorellina lo abbracciasse e tentò di consolarla, meglio che poteva.

“Raccontami cos’è successo e non piangere più” le sussurrò, accarezzandole la testa piena di capelli color del grano ed attraversati da striature più chiare provocate dal Sole.

“Ti ho visto da lontano. La tua luce brillava da dietro uno spuntone di roccia. Ho capito subito che qualcosa non andava. Non era la tua solita luce. Era più fiacca ed andava spegnendosi. In quel momento ho notato che delle guardie ti stavano inseguendo e mi sono spaventata. Son dovuta intervenire ed ho evocato i poteri della terra che scorrono in me. Stringendo fra le mani il mio cristallo, ho fatto in modo che il paesaggio si modificasse, così da coprirti e da metterti al sicuro”.

“Hai corso un grande rischio. Avrebbero potuto ucciderti, se ti avessero visto. Senza contare che avranno capito che è stata opera tua e ti daranno la caccia”.

“Non importa! Ho creato una conca fra le rocce, spostandole, e tu ne eri il centro, accoccolato e silenzioso. Quando le guardie si sono allontanate, mi sono avvicinata attraverso una piccola apertura e mi sono calata giù, accanto a te. E lì mi sono spaventata di nuovo. Eri freddo. Tu non sei mai freddo. Tenevi gli occhi chiusi ed eri immobile, gelido al tatto. Ho visto quella freccia sulla tua gamba ed ho temuto che fosse avvelenata e che fossi morto, ma poi hai avuto un movimento impercettibile delle labbra ed ho capito che eri ancora in vita. Ho tolto la freccia ed ho curato le ferite con le erbe che porto sempre con me, anche se sapevo che avrei dovuto cercarne delle altre, e ti ho fasciato con il mio nastro per i capelli. Ma eri sempre così freddo…così ti ho abbracciato ed ho sentito il battito del tuo cuore, così regolare nonostante tutto, e ti ho chiamato per nome. Sapevo che, per farti stare bene, dovevo farti scaldare e così…”.

Lei si fermò guardò il figlio del Sole negli occhi.

“Così? Che cosa hai fatto?” sorrise lui, senza capire.

“Ho fatto…così…” mormorò lei e lo baciò, dolcemente.

Lui reclinò leggermente la testa all’indietro, come ad opporre resistenza, ma poi lasciò che la baciasse, come se dentro di lui sapesse che era una cosa che aveva sempre desiderato. La luce della sua pelle ora era di nuovo forte e vigorosa, emettendo il suo solito calore.

“Anche quel giorno hai reagito così” sussurrò lei “Ti sei illuminato ed hai ripreso ad essere il mio adorato Rikarathör che mi trasmetteva sempre tanto calore quando ne avevo bisogno. Forse arriverà il giorno in cui ti accorgerai di amare me e non lei. Di aver sempre amato me…”.

“Come siamo arrivati qui?” domandò lui, tentando di cambiare argomento.

“Ho semplicemente spostato di nuovo le pietre in modo da aprire la grotta che avevo creato. Così hai potuto riposare all’aria aperta, prendendo la luce di tuo padre, finché non ti sei svegliato”.

“Ci ho messo tanto a svegliarmi?”.

“Qualche giorno, ma è normale. Quelle frecce sono state intinte di uno speciale liquido che blocca il sistema nervoso in modo da rendere più semplice la tua cattura. Per fortuna sono intervenuta in tempo. Poco tempo più tardi e saresti rimasto immobile davanti a loro e sarebbe stata la fine”.

“Grazie allora…”.

“Figurati”.

Si guardavano negli occhi e si sorridevano, dimenticando ogni altra cosa. Poi Rikarathör si scosse e sciolse l’abbraccio in cui era avvolto. Si distese, sospirando.

“Devo aiutare Kevihang” esclamò “Anche se la Luna mi ha detto di non farlo. Devo fare in modo che possa stare bene…”.

“Ho sentito che è stato rinchiuso nelle prigioni del Kaos” disse lei.

“Nelle prigioni del Kaos? Devo farlo uscire da lì…ma non so come…”.

Chiuse gli occhi, ancora stanco ed un po’ provato, e cercò di trovare una soluzione, ma non ne vedeva. Come poteva fare in modo che il suo adorato fratellino ed allievo tornasse a casa?

“Tutto per colpa di quello stupido libro!” borbottò, prima di spalancare gli occhi e sorridere “Ma certo! Libro! Se riesco a convincere Vereheveil…forse è una persona ragionevole! Potrei parlargli e, magari, spingerlo a parlare all’Alto, convincendolo che quel libro non è poi così importante. Dopotutto, se Vereheveil fa cadere le sue accuse, non ha senso che Kevihang venga condannato!”.

“Sempre se riesci a convincere Vereheveil…”.

“Certo! L’ho un po’ preso per il culo al processo ma…sono sicuro che riuscirò a parlargli ed a convincerlo. E Kevihang tornerà a casa!”.

Marinditi-ya sorrise, raggiante. Adorava il suo fratellino Kevihang e desiderava anche lei saperlo di nuovo al sicuro. Certo però che, come Rikarathör, non amava considerare i lati pericolosi o negativi delle cose e quindi non gli passò nemmeno per la testa che Vereheveil potesse reagire in modo diverso da quanto sperassero i due fratelli. Si distese accanto al Semidio suo parente ed assieme guardarono il cielo, sfiorandosi le mani.

“Sei un ricercato…” ridacchiò lei.

“Sono un fuorilegge…stai attenta, sai!” rispose, con lo stesso tono, lui.

“Per aiutare Kevihang, però, dovrai aspettare ancora un po’ perché la tua gamba non è ancora guarita e non sei ancora sicuro…”.

“Sicuro sulle zampe? Tranquilla…”.

Tentò di alzarsi ma, come aveva detto la sorella, non ci riuscì. Gli girò la testa e la gamba non lo resse, facendolo cadere disteso di nuovo.

“Ti posso dare delle erbe particolari per aiutarti a guarire prima, ma dovrai aspettare ancora almeno una settimana, temo” disse lei, controllando la ferita del fratello con apprensione.

“Vorrei volare come fanno tutte le creature alate oppure possedere una creatura magica, come mio padre o Selene, che mi porti in giro per il cielo”.

“Anche se l’avessi non potresti comunque cavalcarla, debole come sei! Cerca di stare calmo, di solito ti riprendi in fretta, specie alla luce del Sole. Devi solo avere pazienza”.

“Io non ho pazienza…”.

“Io ne ho per entrambi, perciò adesso, da bravo, ti rimetti disteso e riposi. Chiudi gli occhietti e dormi, bel bambino!”.

“Smettila! Io non sono più un bambino!”.

“Ma sei adorabile nello stesso modo” ridacchiò la Semidea.

Rikarathör si arrese all’evidenza. Era troppo stanco per poter fare qualcosa di utile e quindi rimase disteso guardando in alto, osservando il cielo sereno, con il Sole che brillava e pochissime nubi. Faceva sempre freddo, ma vedere suo padre così luminoso e bello sopra di lui lo faceva stare meglio anche se era molto perplesso. Si sentiva così bene, sapendo che il figlio poteva essere morto o gravemente ferito da qualche parte? Vabbè…non ci pensò e si addormentò, pieno di voglia di sentirsi subito meglio per poter aiutare il fratello, e confortato dalla presenza della sorella che gli si era accoccolata accanto, appoggiandogli la testa sulla spalla

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Capitolo 26
*** XXVI- verità ***


XXVI

 

VERITÀ

 

“Dunque è così che si fa…” borbottava Kuetzalikay, camminando avanti ed indietro per la stanza degli specchi dove, un tempo, Kasday guardava i Mondi.

Era da solo a casa, Nosmagiés era stato mandato a fare spese ed il giovane Alto aveva chiesto espressamente di non venire disturbato da nessuno. Aveva bisogno di riflettere e per farlo non poteva avere rumori di fondo od inutili interruzioni. Con un piano in mente, che voleva sviluppare per bene, camminava con la sua solita andatura ondeggiante per quella stanza che faceva parte dell’attuale dimora sua e del padre. Suo padre…si augurava proprio che non venisse quel vecchio ad interferire!

Si era seduto, leggendo, e sibilando leggermente in modo involontario con la lingua biforcuta, agitando la lunga coda, quando qualcosa fece rizzare tutte le sue piume rosse. Una sensazione, un presentimento…qualcosa stava per accadere, qualcosa di importante. Non riuscì a capire cosa fosse ma, per il momento, si limitò ad appurare che c’era una presenza in casa e non era né suo padre né l’Angelo Messaggero Nosmagiés. Si alzò e, silenziosamente, si accostò alla porta. Era nelle sue dimensioni normali e quindi non notò la figuretta che ci stava subito dietro. Anche lei stava sbirciando dalla porta, desiderosa di scoprire se ci fosse qualcuno all’interno. Sobbalzò quando vide Kuetzalikay e l’Alto sobbalzò nel vedere lei.

“E tu cosa ci fai qui?” sbottò il serpente piumato, facendola accomodare nella stanza con fastidio.

“Volevo parlarVi…” mormorò lei, a testa bassa.

“E non potevi dare un segno della tua presenza?”.

“Temevo ci fosse Vostro padre. O mio padre…”.

“Giusto…il Sole a volte bazzica da queste parti…”.

La Dea della Luna si sforzò di sorridere al suo interlocutore, ma non era troppo in vena.

“Rilassati, Selene. Tuo padre non c’è e nemmeno il mio. Nosmagiés, quello spione, è fuori e l’unica altra anima in tutta la casa è Urihel, che però è segregato nella cupola e non può darci fastidio. Volevi parlarmi…immagino della faccenda del sigillo…”.

“L’ultima volta che ci siamo visti era nel palazzo del tribunale, fra i suoi giardini, e mi avevate rassicurato che avreste risolto al più presto il problema…”.

“Ti prego, cosa rara che lo faccia, dammi del Tu!”.

“Va bene…”.

“Ad ogni modo mi è un po’ difficile accelerare i tempi perché ho bisogno di vedere lui da solo, senza che ci sia suo padre…o mio padre! Quel rompicoglioni è sempre fra i piedi!”.

“A quale padre ti riferisci?” sorrise la Luna.

“Ad entrambi!”.

“Non è per metterti fretta, credo nella tua buona volontà ma…Ansuz era a casa mia ieri sera e stava discutendo con il Sole di matrimoni e cose simili”.

“Immagino che per te non sia piacevole l’idea di sposare tuo padre…”.

“Per niente!”.

“Coraggio…pensa e me. Sono l’unico rimasto della mia specie, oltre al mio genitore…”.

“Deve essere terribile…”.

“Non così tanto. Per noi Alti non è così importante l’amore e la famiglia. È per una questione d’istinto che cerchiamo una compagna ma, non essendoci femmine, il mio istinto è bello latente e non mi stressa. Va bene così”.

“Davvero non desideri mai avere una moglie e dei figli?”.

“Non riesco a comprendere il desiderio di averne. Io sono un Alto, un solitario, un mostro secondo alcuni punti di vista, ed ho imparato a stare per conto mio. In questo modo non devo rendere conto a nessuno di quello che faccio e nessuno può venirmi a dire che ciò che penso, dico o metto in pratica, è sbagliato. Cosa che invece a mio padre succede piuttosto spesso”.

“Credi che, maturando, questo possa cambiare?”.

“Maturando? Al contrario, mia cara. Quando ero piccolo, giovincello, cercavo sempre compagnia e non ne trovavo. Ero triste, e mi chiedevo sempre se ero io quello fatto e messo nel modo e nel posto sbagliato, oppure se erano gli altri ad avere la colpa. Cercavo di cambiare me stesso in base alle situazioni ed alle persone che avevo accanto, ma ora ho capito che è sbagliato. Crescendo, ho capito che io sono fatto così ed è così che mi si deve accettare. Se non siete in grado, voi Dèi e mortali, di comprendere la mia natura ed il mio modo di pensare ed agire, allora non devo essere io ad adattarmi per poi farmi sempre e comunque criticare. Io la penso così”.

“Beato te che riesci a fare questi ragionamenti. Vorrei anch’io avere la forza di pensare una cosa del genere…ma non sono così coraggiosa”.

“Oh ma tu sei coraggiosa, Luna. Nessuno ha avuto l’ardire di venire fino qui se non gli abitudinari come tuo padre ed i residenti come Urihel. È solo un coraggio diverso. Tu sei qui, rischiando la vita! Se mio padre dovesse scoprire cosa hai in mente, per il tuo uomo..”.

Selene chinò lo sguardo ed arrossì leggermente. Kuetzalikay si era rimpicciolito, fermandosi sui due metri e mezzo, e si era seduto accanto alla Dea.

“A proposito…ho sentito dire che il tuo fidanzato ha combinato un bel casino al processo”.

“Già…proprio un bel casino. Non ascolta mai i consigli”.

“Dov’è adesso? È ricercato, se non sbaglio…”.

“Non ne ho idea. So solo che, quasi sicuramente, è con lei”.

“Lei? Hullalà…un bel triangolo…”.

“No, macché triangolo! Lei è sua sorella…”.

“Anche tu lo sei”.

La Luna rimase immobile, guardando la sua immagine allo specchio con rabbia.

“Lei…Marinditi-ya…quella piccola ragazzina! Quella troietta figlia dell’Estate! Ha tutto lei…è bellissima, è sempre felice ed osa guardarmi dall’alto in basso. Osa farlo, nonostante io sia una Dea e lei una misera mezzosangue!”.

“Anche tuo fratello è un misero mezzosangue…eppure lo ami. O no? E lui…ti ama?”.

“In che senso? Certo che mi ama! Mi ha chiesto di sposarlo”.

Lo sguardo della Luna era misto fra tristezza e rabbia, confusione e stanchezza.

“Per far quello non ci vuole niente. Posso farlo anch’io! Ascolta: Selene, vuoi sposarmi? Ecco…visto? Te l’ho chiesto!”.

“Ma non lo pensavi veramente”.

“E lui lo pensava davvero? O era solo un capriccio della sua mente bombardata dalle reazioni chimiche che ha mal interpretato?”.

“Io mi fido di lui…se mi ha detto una cosa avrà avuto una ragione…”.

“Una ragione? I mortali raramente fanno qualcosa per una ragione!”.

“Questo è vero, ma…”.

“Dovresti capire se ti ama davvero, prima di rischiare la vita per lui. Non trovi?”.

“Non so nemmeno dove sia…come posso capirlo?”.

“Se vuoi posso darti una mano…li vedi questi specchi? Possono mostrarti le persone che vuoi, basta concentrarsi e le visualizzi. Per fortuna mio padre non ne è conoscenza o il tuo caro mezzo Sole sarebbe già morto…se non lo è già…”.

“No. Lui è vivo. Me lo sento. Insegnami come visualizzarlo”.

Kuetzalikay le indirizzò il viso verso lo specchio e le toccò la spalla, incanalandovi energia.

“Chiudi gli occhi, Luna, e concentrati. Immagina davanti a te la persona che vuoi vedere e, quando senti di essere pronta, riapri gli occhi e guarda nello specchio. Non distrarti e lo vedrai apparire”.

Selene obbedì. Chiuse gli occhi e poi li riaprì. Nello specchio, prima tutto nero, iniziarono a formarsi delle ombre colorate ed a sentirsi dei suoni, confusi. L’Alto le stava dando la forza necessaria per portare a termine la visualizzazione e sorrise quando vide apparire il figlio del Sole. Era in piedi, con la gamba fasciata, che saltellava sul posto.

“Ora la mia gamba va molto meglio” lo sentì dire.

La Luna sorrise. Si sentiva decisamente rassicurata ora che lo vedeva lì, davanti a sé, sano e salvo.

“Sono pronto. Posso andare” disse ancora Rikarathör.

“Dammi un ultimo bacio prima di partire. Ti porterà fortuna” sentì un’altra voce rispondere.

La Luna smise di colpo di sorridere. Marinditi-ya, la semidea della terra, ora teneva suo fratello per mano e lo guardava, con occhi ammalianti e dolci, mentre lui le sorrideva.

La Dea distolse lo sguardo, facendo scomparire l’immagine allo specchio. Non volle vedere altro.

“Dammi un ultimo bacio…significa che…quanti ne hai dati a quella…?” mormorò, piegandosi in avanti e stringendo le mani fra loro.

Kuetzalikay non sapeva che dire. Non aveva previsto una cosa del genere.

“Ho fatto male a fidarmi di lui. Ho fatto male. Mi ero ripromessa di non fidarmi più di nessuno e lui…lui osa prendermi in giro in quel modo! Mi ero fidata…”.

Ora Selene singhiozzava, tentando di nasconderlo all’Alto che però, in modo decisamente inatteso, le si inginocchiò davanti, rimpicciolendo ancora un po’ la sua statura.

“Luna, suvvia! Non piangete! Non ne vale la pena! È solo un mortale, colto in un momento di debolezza. Cercate di…”.

“Momento di debolezza?!”.

“Non posso dire di capire ciò che provate, perché non sono mai stato innamorato e, di conseguenza, non sono mai stato tradito o abbandonato ma…riesco a sentire quanto siete triste…”.

“Sì…ma…ora…cosa ci sono venuta a fare qui? Alla fine sarò io quella che ci rimetterà. Lui sarà felice con la sua sorellina ed io qui da sola, sposata a mio padre!”.

“L’unico modo per evitare questo Hieros gamos è avere un figlio con questo Rikarathör oppure uccidere tuo padre…in alternativa dovrai accettare il tuo destino, temo, mia cara”.

“Non potrei mai uccidere mio padre! Ed avere un figlio con lui…dopo che ho visto che si trova decisamente più a suo agio con lei…”.

“Sono umani, mia bella Luna! Per loro è molto importante il semplice contatto fisico. Noi, che siamo divinità, non diamo molta importanza a queste cose perché abbiamo l’eternità davanti e per noi l’amore è diverso dal loro, che usano la scusa che la loro vita è breve per compiere una quantità esorbitante di cazzate!”.

La Luna non poté fare a meno di sorridere, anche se solo leggermente.

“Sorridi Selene, ad asciuga le tue lacrime. Non sopporto vedere un così bel viso sfigurato dalla tristezza. Sono sicuro che c’è una soluzione”.

“Tu sei buono, Kuetzalikay…qualunque cosa gli altri dicano” mormorò la Dea, affondando la testa nelle piume rosse dell’Alto ed abbracciandolo.

Non poteva credere a ciò che aveva visto ed era, oltre che triste, furiosa. Come si era permesso di fare una cosa del genere? Come aveva osato? E tutte le sue belle parole? Poteva mangiarsele! Delusa, da se stessa per aver ceduto così stupidamente ad un’illusione e da suo fratello per averle mentito così a lungo, si asciugò le lacrime e lasciò Kuetzalikay, che le sorrise.

“Avete l’eternità davanti, no?” le disse dolcemente, e la Dea annuì, anche se poco convinta.

“Cosa vuoi che faccia, dunque, ora, Luna?”.

“Non lo so. Non credo che tu debba rischiare guai con tuo padre per aver infranto un sigillo il cui portatore vuole che resti lì. Non lo so…”.

“Prova a parlarci. Forse si sono scambiati solo qualche bacio sulla guancia…”.

“Ho visto il loro sguardo. Era quello di due persone innamorate. Non mi stupirei se fossero andati ben oltre i baci. Ed io qui ad aspettare e ad illudermi…”.

“Siete sempre in tempo per rimediare…siete una Dea dopotutto e sono sicuro che avete un sacco di divinità ronzanti attorno al vostro essere…”.

“Non credere. Molti Dèi sono morti e la maggior parte di quelli rimasti ha ben altro per la testa”.

“Sì, la segatura! Come mio padre!”.

La Luna rise, presa alla sprovvista da quella frase così strana e così diretta.

“Perché non riescono a capire la tua importanza?” domandò Kuetzalikay.

“Io non ho una grande importanza. Sono solo la Dea dei Satelliti, non sono il Sole, il Tempo o altre cose fondamentali per la vita negli Universi”.

“Un cielo notturno senza nemmeno una Luna per me è triste ed inutile. Le maree, che tu provochi, non sono inutili e sotto la tua luce han preso vita le migliori poesie degli Universi. Forse i Mondi non finirebbero se tu non ci fossi più, ma sentiremmo tutti la tua mancanza. Chiunque percepirebbe che manchi e sarebbe un vero peccato”.

“Sei molto gentile. Molto dolce”.

“Questa è una cosa che non mi ha mai detto nessuno…”.

“Lieta di essere la prima”.

“È così importante?” domandò l’Alto, accucciato sul pavimento.

“Cosa?”.

“Un bacio. È un semplice bacio, un contatto fra le labbra. Non è niente di più…è così importante?”.

“Con un bacio puoi capire se la persona davanti a te ti ama. Puoi farla stare bene, rilassandola e trasmettendole buone sensazioni. Puoi farla sentire al sicuro, protetta e desiderata. Sì, per me, è molto importante”.

“Davvero si può trasmettere tanto con un semplice contatto del genere?”.

“Sì, se lo si fa volendo trasmettere certe cose per davvero. Se si pensa ad altro…non ci sarà nessuna magia e sarà un semplice contatto senza alcuna sensazione”.

“Davvero curioso…voi Dèi siete davvero strani…”.

“Davvero? Non è che siete voi Alti ad esserlo?”.

“Può essere, non lo escludo…ma cerca di capire…noi siamo l’unione fra tutte le creature viventi”.

“Lo capisco…”.

La Dea scese dalla sedia, una specie di trono, su cui stava, e si accovacciò anche lei sul pavimento.

“Non ti spavento? Sono così diverso da te…” si stupì l’Alto.

“Sei diverso, è vero, ma non posso e non voglio cambiarti. Non mi spaventi, no! Se mi volessi far del male lo avresti già fatto, invece di stare qui a perdere tempo parlandomi”.

“Perdere tempo? A me piace…parlare con te”.

“Con me in particolare o con qualcuno?”.

“Con te. Tu mi ascolti perché vuoi farlo e non perché sono un Alto”.

Lei gli sorrise di nuovo e lui le asciugò l’ultima lacrima che le scendeva sulla guancia. Lei, senza più aver voglia di pensare, si avvicinò e lo strinse a sé, baciandolo. L’Alto spalancò gli occhi, non aspettandosi una cosa del genere. Poi li chiuse, cercando di percepire tutte le sensazioni che gli aveva descritto la Dea ed alcune riuscì a sentirle. Davvero.

“Scusa…non avrei dovuto…” disse la Luna, scostandosi dall’Alto “Ma ne avevo davvero bisogno. Spero di non darti problemi con questo…”.

“No…non credo…” mormorò Kuetzalikay, senza notare uno dei corvi del Kaos appollaiato alla finestra che lo guardò decisamente male, prima di prendere il volo.

“Ma…quel libro…” esclamò la Dea, notando un volume rosso deposto sul pavimento.

Era apparentemente nascosto sotto le due sedie della sala, invisibile se non dal punto di vista delle due divinità, ma ora lei lo aveva visto e credeva di riconoscerlo.

“Quel libro cosa?” disse lui.

“Non è quello…”.

“No, non lo è. Neanche un po’!”.

Lei lo guardò con sospetto e si alzò.

“Devo andare adesso…” disse.

“Tanta fretta, perché?”.

“Non voglio sapere se stai imbrogliando l’intero Universo con i tuoi giochetti. Giuro di non dire a nessuno che, forse, sei tu quello che ha fra le mani il libro che tutti cercano. Ma forse dovresti far liberare Kevihang, che è rinchiuso in galera per colpa tua”.

“Era nell’elenco delle cose da fare”.

L’Alto non mentì e non tentò di nascondere il libro ulteriormente. Al contrario, lo prese fra le mani e lo mostrò alla Dea.

“Ecco quello che tutti cercano. Puoi riprenderlo se vuoi”.

“Non è bloccato dal sigillo?”.

“Lo è. Ma a me non serve più. Se hai desiderio di dire a qualcuno che io l’ho fra le mani puoi farlo. Fra l’elenco delle cose da fare avevo messo anche quello di restituirlo”.

“Fallo allora. Restituiscilo e libera Kevihang”.

“Vuoi che ti aiuti?”.

“In che modo?”.

“Non te lo posso dire. Ma, se giuri di non svelare a nessuno che ho questo libro, io ti aiuterò e farò in modo che il tuo destino sia diverso”.

“Sai bene che non mi fido di nessuno. Perché dovrei crederti?”.

“Perché non hai alternative. Sbaglio o, fra noi, sono io quello con potere magico maggiore? L’alternativa per te è obbedirmi o venire punita”.

“Bella alternativa…”.

“Oh, no Luna! Non arrabbiarti con me. Non voglio che tu…”.

“Che io? Che io possa odiarti?”.

“Non voglio che questo accada. Ma questo è un periodo difficile per me e per tutti. Ti prego di avere solo un po’ di pazienza, dopodiché vedrai che andrà tutto bene”.

Selene indietreggiò leggermente. Non aveva alternative. Guardò l’Alto negli occhi da serpente e sospirò, giurando di non parlare.

Stava per lasciare la stanza quando la terra iniziò a tremare. Un violento terremoto scosse l’edifico e la Dea, perdendo l’equilibrio, fu afferrata saldamente dall’Alto. Durò a lungo, più di due minuti, un’eternità per chi non aveva mai provato un evento simile. La Luna rimase abbracciata stretta a Kuetzalikay, che tentò di tenerla al sicuro come poteva con il suo corpo mingherlino, finché tutto ebbe fine. L’Alto rizzò tutte le penne. Era forse quella la sensazione che aveva provato prima? Aveva previsto quel terremoto? E cos’era tutta quella magia ed energia sprigionata? Quando tutto si fermò, alcuni specchi erano caduti ed il pavimento era pieno di vetri rotti. Prese in braccio la Dea e la portò fuori. Il palazzo era in disordine ma apparentemente senza gravi danni strutturali.

Chiamò Urihel, che rispose e rassicurò che la cupola era ancora in piedi, con solo qualche crepa trascurabile, e che stava bene.

“Siete libera di andare, Madama Luna. Se non le dispiace…credo che ci sia qualcuno che mi attende non molto lontano da qui”.

Selene annuì. Voleva cercare suo padre ed assicurarsi che tutto fosse a posto. Si sistemò il vestito, che aveva addosso polvere e calcinacci caduti, e si passò una mano fra i capelli. Vi trovò una grande piuma rossa e la indicò all’Alto.

“Puoi tenerla, Selene. Dicono che porti fortuna” concesse Kuetzalikay, richiamando a sé una delle creature del Kaos per giungere più in fretta alla sua meta.

Era una specie di grosso cavallo verde, a pelo lungo e con quattro occhi rossi. Davvero inquietante. S’impennò e partì, lasciando la Luna ai suoi pensieri. Anche lei si allontanò, in cerca del padre e del resto delle divinità, preoccupata da cosa potesse essere capitato. Un terremoto non era una cosa tanto normale e naturale, su quel pianeta, e doveva scoprire cosa era accaduto.

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Capitolo 27
*** XXVII- cambio di forma ***


XXVII

 

CAMBIO DI FORMA

 

Stremato, atterrito ed infreddolito, Kevihang fu riportato nella sua cella dopo l’ennesima giornata di tortura. Fuori pioveva forte e di conseguenza sulla parete che dava sull’esterno scorreva l’acqua. Il ragazzo, già debole e maltrattato ogni giorno di più, inevitabilmente si era ammalato e questo rendeva ancora più difficile l’addestramento che voleva seguire con i suoi genitori. Il suo corpo stava iniziando a cedere internamente ma non era disposto ad arrendersi, anche perché non aveva niente da dire a nessuno. Non sapeva dov’era quel fottuto libro. Tossendo ed arrancando, si sedette nel suo solito angolo e si sforzò di restare sveglio.

“Dovresti riposare” suggerì Kasday.

“No, deve fare esercizio con noi!” protestò Luciherus.

“Ha ragione papà. Se muoio prima di avervi riportato a casa, vi dissolverete e non potrete più rivedervi. Non potrei mai permetterlo!”.

“E se muori per fare esercizio con noi?” rimbeccò Kasday.

“Allora sarò morto per una ragione, nel tentativo di portate a termine, per una volta, qualcosa che mi ero ripromesso di fare” gemette Kevihang, con gli occhi chiusi perché ancora gli bruciavano per la forte luce che aveva sempre contro il viso durante le torture.

“Ne vale la pena?”.

“Ho qualcosa da perdere?”.

“Non hai paura?”.

“Il Dio della Paura e dei Sogni è morto da tempo e la sua sostituta, la sua unica figlia, è ancora troppo piccola per potermi in qualche modo alterare”.

Kasday lo guardò con tristezza e poi chinò la testa.

“Aerimanios, fratello mio, Dio della Paura dei Sogni…sei morto per davvero! E cosa ne è stato di mia madre, Dea della Guerra?”.

“Non è più in vita neppure lei, mi spiace”.

“Nemmeno Meneriva…madre mia…chi è rimasto fra le persone a me legate, salvo i pochi che ho visto quel giorno al processo? Cosa ne è stato dei bei Mondi che ho creato e che ho salvato?”.

“Credo ben poco. Sono tempi difficili. La Dea delle Armi dovrebbe essere ancora in vita. Molte divinità sono morte e quelle che restano sono molto più deboli di quanto fossero un tempo”.

“Nostra figlia, Luciheday, però è ancora forte e bellissima” sorrise Luciherus, prendendo per mano Kasday e baciandogliela.

“Oh, questo posso confermarvelo di persona” ridacchiò Kevihang.

Le guardie fuori non facevano più caso al fatto che parlasse da solo, per loro era semplicemente un chiaro segnale di follia derivante dall’isolamento e dalle torture.

“Non senti crescere un po’ di fastidio, rabbia, dentro di te, figlio mio?” azzardò Luciherus “Ti stanno torturando da giorni, o settimane, non te lo so dire, perché qui dentro il tempo è difficile da calcolare…non provi il desiderio di uccidere qualcuno?”.

“Quello l’ho sempre avuto. Ma immagino derivi dal fatto che mio nonno era il Kaos!”.

“Il Kaos non era cattivo” lo corresse Kasday “Era inquieto, com’è giusto data la sua natura, ma non era cattivo. L’ho avuto nella mia testa per un sacco di tempo e, credimi, non era come tutti credono. Era un Dio connesso con la confusione ed i cambi di stato, ha dovuto seguire lo scopo per cui era nato come ora lo sta seguendo mia figlia che ricopre il suo ruolo”.

“Credimi se ti dico che era cattivo…” sibilò Luciherus.

“Non più di te o di me. Ricordati quello che abbiamo fatto…”.

“Non mi sembra che possa essere messo sullo stesso piano di ciò che ha fatto e mi ha fatto lui…”.

“Io, avendolo avuto nella testa, ho i suoi ricordi passati. Di quando, ad esempio, giocava con i miei fratelli e mostrava il suo lato migliore, l’amore per mia madre…lo sai meglio di me che trasmetteva i suoi sensi di colpa su di te, suo sottoposto”.

“Me lo ricordo bene…”.

“Doveva sottostare al suo ruolo. Non immagini quanto, in realtà, abbia sofferto per alcune azioni da lui compiute. Ma era quello per cui era stato creato. Anch’io sono stata costretta a compiere gesti che non avrei mai desiderato compiere per mantenere fede al mio scopo…”.

“Tutto questo non ha senso!”.

“Voglio farvi uscire da qui. Avanti…procediamo con gli esercizi” interruppe Kevihang, avendo il sospetto che la discussione sarebbe potuta durare ancora a lungo.

Padre e madre si guardarono, con aria decisamente contrariata, ad iniziarono a far fare esercizi al loro figlio, che si sforzò di incanalare la sua energia ed imparare, inaspettatamente faceva progressi, fino a quando non poté far altro che addormentarsi, sfinito, appoggiato alla parete di destra. Dopo poche ore la porta si aprì e fu di nuovo trascinato fuori.

 

“Dov’è il Sole?” ebbe la forza di chiedere, fra una percossa e l’altra, non notando il Dio fra le file dei torturatori.

“Non ti deve importare, sgorbio!” lo apostrofò qualcuno.

Era nella sala delle vasche per i livelli magici e si stavano divertendo ad immergerlo a livelli diversi per vederlo rabbrividire, guarire e bruciare.

“Perché non collabori? Ormai sei pelle e ossa, malaticcio e debole…” lo consigliò una delle guardie, tenendolo per i capelli sul bordo di una delle vasche “…ti converrebbe parlare e porre fine a tutto questo. Morirai qua dentro altrimenti, lo sai?”.

“Fottiti” sibilò Kevihang, sputandogli in faccia.

La guardia gli rimise la testa a mollo, sconcertato dall’incapacità di quel ragazzo di smetterla di essere sfrontato e sbruffone di continuo.

“Il mio era un consiglio, testa di cazzo! Se ci tieni tanto a morire qui, basta dirlo!”.

“Che ti importa? Tu ti diverti!”.

“Io faccio il mio lavoro. E tutti noi obbediamo a degli ordini precisi”.

“L’unico che si diverte, allora, è il Sole? Assieme alla sua amichetta dalla pelle blu che fa finta di avere i coglioni quando sappiamo tutti che gli Alti sono privi di attributi sessuali…”.

“Non sai proprio tenere a freno la lingua, eh? Nessuno di loro due si diverte a farti questo”.

“Balle!”.

“Sei libero di non credermi. Noi cerchiamo solo…”.

“Di aiutarmi? Bella battuta…”.

“Il tuo potenziale è ampio. Non dovresti buttare la tua vita per colpa di un pessimo carattere!”.

“Succhiamelo!” ringhiò il prigioniero, dopo l’ennesima immersione.

Kasday guardò male Luciherus, con l’espressione di chi voleva dire: gli hai insegnato tu queste cose? E l’antico Principe dei Demoni si limitò ad agitare la coda, attorcigliandola.

Arrivò un’altra guardia, più grossa della precedente, che lo sollevò, tirandogli indietro la testa per i capelli, e rispose al suo ringhio con rabbia.

“Sai cosa accadrà, ragazzino?” sibilò, a pochi centimetri dalle orecchie del prigioniero “Accadrà che l’Alto Ansuz, stufo dei tuoi capricci e del tuo essere così spocchioso, darà ordine di agire in modo esterno, attaccando le persone a cui vuoi bene per srotolarti quella lingua lunga per uno scopo valido e non solo per prendere per il culo chi non è il caso che offendi”.

“Che intendi?” gemette Kevihang, cercando di sopportare il dolore che gli provocava la stretta di quella creatura.

“Il tuo villaggio è già stato attaccato. Vuoi che dia l’ordine successivo, cioè di stanare tutti i superstiti e di metterli a morte? Magari davanti a te che, per qualche istante, riuscirai e non essere così tremendamente irritante ed esaltato?”.

“Voi non sapete dove sono nascosti…”.

“Ma Urihel è sempre a portata di mano. Ed anche il caro buon vecchio Sole. A quello basta minacciare la figlia per fargli spifferare tutto lo spifferabile!”.

Il ragazzo non rispose. Sapeva che quelle due divinità erano a conoscenza di ogni possibile posto di ritrovo degli abitanti di quel villaggio che lo aveva accolto. Rimase, per poco, terrorizzato all’idea ma poi si riprese e sorrise, con cattiveria.

“Non mi importa di quel villaggio. Mi hanno sempre odiato. Hanno avuto paura di me”.

“Anche Valek-hiteia?”.

“Mamma…”.

“Sì, la tua mammina adottiva. Vuoi che muoia davanti ai tuoi occhi? E la tua sorellina? I tuoi fratelli? Il tuo maestro? Tutti loro…vuoi vederli morire?”.

“No…”.

“Allora parla! Oppure darò quell’ordine!”.

“Non ho niente da dire!”.

Fu immerso ancora alcune volte, sotto minaccia. Ora era sospeso a pochi centimetri dalla vasca numero dieci, che ribolliva di magia pura.

“Vuoi finire qua dentro? Moriresti, ed a noi non resterebbe altro da fare se non catturare tutta la tua famiglia adottiva come complice del tuo delitto e sottoporla ai tuoi stessi trattamenti. Non farmi dare quell’ordine! Parla, oppure indicami chi può farlo per te!”.

Kevihang non parlava. Rimaneva immobile, con il calore emesso da quella vasca che gli faceva chiudere gli occhi ed irritare la pelle. Poi la guardia, notando la sua riluttanza, fece un cenno ai suoi colleghi con convinzione.

“Informate il grande Ansuz che è necessario attuare la manovra da lui proposta” ordinò.

“NO!” urlò il figlio di Luciherus e Kasday, ed iniziò ad agitarsi.

“Non dimenarti, girino! Ormai è tardi!”.

Kevihang, ignorando anche le parole dei genitori che gli suggerivano di calmarsi, continuò a dibattersi fino a quando, in un attimo, senza volerlo, si ribaltò e cadde nella vasca, assieme alla guardia. Si alzò un denso fumo verdastro e tutti ammutolirono. Le altre guardie si fissavano con aria interrogativa e spaventata. Non era così che doveva andare! Il prigioniero morto in un modo del genere non era di certo previsto e qualcuno sarebbe stato punito.

“È morto?” domandò qualcuno.

“Ovvio. A quel livello dubito possa sopravvivere qualcuno…o qualcosa…” rispose un altro.

“Non può essere morto...” constatò Luciherus “…altrimenti io non sarei ancora qui!”.

Il fumo iniziò a dissolversi e la terra a tremare.

“Che succede?” si stupì Kasday, sentendo la terra muoversi sotto i suoi piedi.

“Il terremoto!” urlarono le guardie e corsero verso le uscite, che però si serrarono di colpo.

“Ma cosa…” sbottò qualcuno, prima di sentire una risata agghiacciante alle spalle.

Qualcuno, o qualcosa, stava riemergendo dalla vasca, lentamente.

“Io sono il figlio di Kasday e Luciherus” tuonò una voce profonda e spaventosa “E voi, miseri omuncoli, avete osato sfidarmi! Moriranno tutti coloro che hanno osato intralciarmi! Moriranno tutti coloro che oseranno farlo in futuro”.

Kevihang era riemerso, sorretto dalla magia che lo avvolgeva. In spirali e rivoli, il liquido verde stava guarendo ogni sua ferita e ristabilendo ogni sua funzione vitale. Si stava riempiendo di forza magica, modificando il suo corpo. Ogni singola parte del suo fisico stava assorbendo magia. Il ragazzo urlò, sentendo tutta quell’energia divenire parte integrante di se stesso, ed il terremoto incrementò la sua potenza, aprendo diversi crepacci lungo le pareti. Il liquido delle vasche iniziò a scorrere per la stanza e Kevihang, divenuto molto più grosso e muscoloso, si avviò verso il gruppo delle guardie con un ghigno malefico. Stava ancora mutando. Il suo corpo si ingrossava e si modificava. Rideva e la sua risata era agghiacciante. Luciherus e Kasday non sapevano come comportarsi e si guardavano, stupiti ed un pochino spaventati.

“Non sarò io personalmente ad uccidervi…” tuonò il ragazzo, rivolto ai suoi torturatori “…perché non spreco le mie energie per delle nullità come voi. Il mio obiettivo è un altro. Ma…dubito possiate uscire vivi da qui!”.

L’edificio stava crollando e tutte le uscite erano state bloccate.

“Abbi pietà di noi…” supplicò una delle guardie.

“Mmm…no!” rispose Kevihang e diede loro le spalle.

Si stava ingrossando ancora. Le sue spalle si inarcarono e la sua coda si allungò, riempiendosi di una peluria decisamente più lunga di prima. Le gambe si ispessirono e si piegarono, il viso si allungò divenendo un muso e tutto il suo corpo, mentre si piegava sulle braccia, si stava ricoprendo di una strana peluria, dello stesso colore dei capelli. Urlò di nuovo, ora che il terremoto si era placato, ma il suo non era più un grido umano ma un verso animale, un ululato o qualcosa di simile. Kasday e Luciherus si ritrovarono a cavallo del dorso del loro secondogenito, ora divenuto un enorme lupo blu con fauci e denti acuminati e gli occhi carichi d’odio.

Kevihang iniziò a correre, puntando verso il muro. Kasday chiuse gli occhi mentre il figlio lo sfondava senza problemi. L’edificio, che lo aveva tenuto rinchiuso per tanto tempo, crollò alle sue spalle senza dare possibilità di scampo a chi lo occupava.

Libero, sentendo di nuovo la brezza dell’aria del mattino, corse felice mentre Kasday e Luciherus si sforzavano di rimanere in groppa. Il tatuaggio sul viso del ragazzo era rimasto inalterato, così come tutti i segni simili a filo spinato o gambo di rosa, adattandosi alla nuova conformazione anatomica del loro padrone.

“Attento, Kevihang! Tanta magia ti distruggerà!” gli urlò Kasday, sicura che non l’avrebbe ascoltata, continuando a fare di testa sua.

“Mi sto divertendo un sacco!” rise Luciherus, incitando il figlio ad andare più veloce.

“Sei impazzito? Hai per caso segatura nel cervello?” lo rimproverò Kasday.

“No, perché? Lascia che si diverta e che si sfoghi!”.

“È un concentrato puro di rabbia e follia! Hai idea di cosa abbia in mente di fare?”.

“Qualunque cosa sia…deve essere fighissima!” rise l’antico Dio della Forza e del Coraggio.

“Cerca di fare il serio! Dammi una mano a fermarlo!”.

“Non ci penso proprio! Vai, figliolo! Facciamo vedere agli Universi cosa succede a mettersi contro colui che porta dentro di sé i geni del grande Luciherus!”.

Kevihang accelerò il passo e ghignò alle parole del padre.

“Sai dov’è il tuo obbiettivo, mio erede?” si informò l’antico demone.

“Certo” rispose il figlio, con un vocione inquietante “Riconoscerei il suo odore fra mille!”.

“E che odore avrebbe esattamente?” borbottò Kasday, facendo sempre più fatica a non cadere.

“Di bruciato”.

“Bruciato?! Non sarà mica…”.

Kevihang ringhiò ed accelerò ulteriormente, non lasciando a Kasday altra possibilità se non quella di sforzarsi di rimanere in groppa ed aspettare.

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Capitolo 28
*** XXVIII- lacrime d'inchiostro ***


XXVIII

 

LACRIME D’INCHIOSTRO

 

“Vereheveil?”.

Rikarathör camminava incerto per la casa del Dio delle Letterature e delle Lingue. Era ancora insicuro sulla gamba ferita e si appoggiava, ogni tanto, al muro o a qualche mobile. Era giunto fin lì grazie ad una delle creature che sua sorella Marinditi-ya aveva ricevuto in dono dal padre, Dio dell’Estate. Su suggerimento di quel Dio, aveva raggiunto quella dimora. La porta era aperta e nessuno lo aveva fermato mentre aveva varcato l’ingresso. Aveva fatto un giretto per le varie stanze, senza incontrare anima viva. Dov’era quell’essere? Non aveva tempo da perdere giocando a nascondino!

“Vereheveil!” chiamò ancora, ma non ricevette risposta.

Forse non è in casa, si disse, ma allora dov’è? Uffa…

Starnutì. Quella casa era una specie di museo abitabile, con oggetti risalenti ad ogni sorta di Era passata che nessuno aveva il coraggio di buttare. Foto di bambini incorniciate con cura ma ricoperte di polvere e lacrime, libri non aperti da secoli, giocattoli, disegni…tutto lasciato lì come se si volesse mantenere intatto un giorno lontano, ormai troppo distante per essere ricordato per davvero.

Rikarathör guardò fuori dalla finestra. Il giardino era spoglio, triste, ricoperto da roseti neri e senza vita. C’era un’altalena, arrugginita e cigolante, dai colori scrostati, leggermente mossa dal vento. Cos’erano quelle pietre tutt’attorno all’unico albero, di cui restava solo una misera parte del tronco morto da tempo? Tombe. Alcune di loro troppo piccole per essere quelle di un adulto.

“Vereheveil…”.

Chiamò ancora il figlio del Sole e prese un corridoio stretto e buio, illuminandolo con la sua luce. Ignorando i rumori inquietanti che emetteva quella casa, scricchiolii e sospiri, aprì una porta di legno verde che cigolò, volendo mostrare la sua lotta contro i tarli.

“Non voglio essere disturbato, Kavahel!” sbottò qualcuno dall’interno.

“Non sono Kavahel” rispose Rikarathör, entrando.

“E allora chi sei?” domandò il Dio, senza girarsi.

Erano nella biblioteca, molto più grande di quella di Mihael, cosa che il figlio del Sole non credeva potesse esistere. Vereheveil non leggeva, come amava fare di solito, ma guardava malinconicamente fuori dalla finestra.

“Io…sono un vecchio amico” parlò Rikarathör.

“Ah…sei tu” borbottò il Dio delle Letterature, con un lieve fremito delle ali “Come osi giungere fino a qui? Dopo quello che hai detto…e dopo la condanna che pesa sulla tua testa…”.

“Sono qui per mio fratello. Se vuoi, puoi pure chiamare chi di dovere a portarmi via, ma almeno avrò provato ad aiutarlo in qualche modo”.

“Nessuno ti ha fatto notare l’insensatezza di insultarmi per poi venire qui a chiedere il mio aiuto? Per non parlare del fatto che sei ricercato. Morto. Perciò…hai fatto davvero una cosa stupida”.

“Sono il re delle cose stupide. Ma di certo ho davanti a me l’imperatore, colui che mette un libro di fondamentale importanza fra le mani di un demone rincoglionito”.

“Sempre meno rincoglionito di te, che continui ad insultarmi trovandoti a casa mia. Potrei farti uccidere in un istante”.

“Vorrei che prima ascoltassi ciò che ho da dirti”.

“E perché dovrei?”.

“Perché non hai niente di meglio da fare”.

Vereheveil non ribatté e ridacchiò: “Bene, uomo lucetta. Accomodati e parla. Ma ti consiglio di sbrigarti perché presto tornerà mio figlio ed a lui non piacerà vederti qui”.

“Kavahel?”.

“Ovvio. Ajedrez ha altro da fare che perder tempo in inutili battibecchi con i mortali”.

“Io non sono un mortale. Sono un sanguemisto”.

“Che morirà come tutti i mortali. Sanguemisto o meno!”.

“Anche tu morirai, angioletto!”.

“Certo. Ma decisamente avrò vissuto molto più di te”.

Rikarathör gli fece una smorfia. Gli dava sui nervi quel Dio così altolocato ed eccessivamente raffinato. Si guardò attorno. Le pareti dovevano essere state affrescate riccamente un tempo, ora avevano preso il sopravvento l’umidità e la noncuranza e si erano scolorite, scrostate e rovinate. Tutto lì dentro mostrava segni di abbandono e degrado. Alcune ante dei mobili erano pendenti o rotte, la polvere e le ragnatele regnavano sovrane ed i vetri delle finestre erano ingialliti ed opachi. I lampadari, come quello spaventosamente grande che aveva sopra la testa, non erano più tutti attaccati al soffitto e si notavano i buchi lasciati da quelli caduti. Quelli ancora al loro posto erano pieni di ragnatele e senza candele, cigolanti come il resto della casa se mossi dal vento.

“Da quando non date una bella pulita a questo posto?” sbottò, starnutendo di nuovo.

“I miei figli venivano sempre a giocare qui, esercitandosi con le parole e le lettere. Io conosco a memoria il contenuto di tutti questi volumi quindi…questo luogo non ha più senso, ora che i miei piccoli non ci sono più, e perciò può anche andare in malora”.

Il figlio del Sole si strinse nelle spalle e guardò il Dio negli occhi, inclinando la testa. Vereheveil scosse le ali nere con fastidio. Era da tempo che qualcuno non riceveva il contatto diretto del suo sguardo dorato e malinconico.

“Parla” mormorò il Dio, tornando a guardare fuori dalla finestra.

Era avvolto dalla sua solita tunica aranciata, a piedi scalzi, con le grandi ali nere semichiuse ed i capelli verde acqua disordinati e di varie lunghezze.

Rikarathör lo guardò ed ebbe un sussulto, non poteva stare tanto tempo in piedi. Il Dio delle Letterature e delle Lingue gli indicò una sedia.

“Ho notato che sei un po’ malandato. Siediti. Siamo persone adulte, non ragazzini dispettosi”.

Il figlio del Sole si stupì di quelle parole e si sedette, mentre Vereheveil rimaneva appollaiato al balcone, socchiudendo gli occhi per la lieve brezza.

“Io sono qui per poter ottenere il rilascio di mio fratello Kevihang”.

“Io adoro la diplomazia ma…con che basi vieni qui a chiedere una cosa simile?”.

“Non hai dei fratelli?”.

“Gradirei molto che usassi un tono un pelino più rispettoso con me, sono sempre e comunque un Dio, anche se tu non lo apprezzi più di tanto”.

“Devo fare la riverenza?” sbottò Rikarathör.

“No, per carità! Ma almeno non rivolgermi la parola come se mi conoscessi da buon amico!”.

“Peccato…perché avevo proprio bisogno di una bella chiacchierata con un amico”.

“Tu sei il figlio del Sole, vero? Quelle fiamme tatuate ti rendono subito identificabile come tale”.

“Sì. Sono il figlio del Sole, anche se lui mi considera come voi tutti: una brutta e debole copia di se stesso”.

“Non è vero! Lui ti vuole bene, come ogni buon padre. Ed io non ti considero così. Non sono nato come Dio, so che significa quando tutte le divinità ti guardano dall’alto in basso. Ma ho imparato ad alzare la testa, più o meno. Mi ha aiutato molto l’amore di Kasday”.

“Ma poi lo avete abbandonato…”.

“Io sono un debole. Mi sono spaventato ed ho cercato la normalità in una famiglia stabile e duratura. Sapevo che Kasday avrebbe dovuto affrontare molti altri passaggi ed io, è vero, l’ho lasciato solo. Vedere morire i miei bambini mi ha fatto capire molte cose e se potessi tornare indietro…ma non può succedere una cosa simile. Sono rimasto solo, salvo per mio figlio Kavahel, com’era giusto che accadesse. Dicono che sia il Karma a fare questo, o il Destino. Non credo che mio figlio mi possa fare una cosa del genere ma…”.

“Certo che parli davvero tanto, te lo hanno mai detto?”.

“Oh, sì! Un sacco di volte! Da che pulpito, ad ogni modo!”.

“E se fosse Kasday a chiederti di aiutare Kevihang?”.

“Lo farei. Ma lui è morto tanto tempo fa…”.

“Kevihang è il figlio di Kasday. E Luciherus. Lo aiuti?”.

“Vacci piano con le cazzate, non sono buono come posso sembrare”.

“Non sono cazzate. Ho sentito le loro voci nella testa. Sono stati loro a dirmi come evadere il giorno del processo. Anch’io ho avuto la stessa reazione quando mio fratello mi ha detto di chi era figlio ma poi mi sono ricreduto. Perché dovrei raccontare una cosa così incredibile, se non fosse vera? Poi tu, come Dio delle Parole, dovresti capire se mento o proferisco il vero”.

“Vero. Non mi sembra che tu menta. Questo può, però, avere una doppia valenza: è vero, non si sa in che modo, e dobbiamo liberare Kevihang prima che il suo potere latente si scateni, oppure sei completamente pazzo e sei convinto di dire la verità anche se non è così”.

“Non sono pazzo…cioè, sì, lo sono, ma non in questo caso!”.

Vereheveil abbassò un sopracciglio e storse la bocca, sconcertato.

“Beh…tanto a posto con le rotelle non devi essere!”.

“No di sicuro”.

“Però, del resto, se quel ragazzo è il figlio di Kasday, spiegherebbe perché è riuscito ad infrangere quel sigillo con tanta semplicità. E perché non abbia mai paura di niente…potrebbe derivare dal fatto che è figlio della Forza e del Coraggio”.

“Credo che quella sia solo incoscienza”.

“Ad ogni modo…perché non l’hai detto al processo?”.

“Chi mi avrebbe creduto?”.

Vereheveil annuì e si fece pensieroso.

“Ritirerai le accuse su mio fratello?” incalzò Rikarathör.

“Senti, bello, può anche essere figlio del più alto degli Alti ma è comunque un ladro! Ha sottratto un libro molto importante e, soprattutto, pericoloso! Non hai idea delle conseguenze che può comportare il suo uso”.

“Mi ha assicurato di non averlo più con sé”.

“Allora mi dica chi lo possiede adesso. Deve tornare al suo posto, al sicuro!”.

“Ma se lui non lo sa…”.

“Non è colpa mia! Io non posso andare a dire ad Ansuz che non mi importa più niente di quel libro e che può fare a meno di tentare di ritrovarlo, perché non è così!”.

“Quello stupido e pomposo affare blu…”.

“Un attimo, mortaluccio! Chi ti credi di essere? Lui agisce tentando di dare un senso ed una logica agli Universi e non ne ha colpa se tuo fratello non ha disciplina e buon senso! Ma del resto come può averne, con un maestro come te da seguire come modello?!”.

“Razza di checca esaltata, vedi di non alzare il tono con me!”.

“Tu vedi di non alzare il tono! È la verità! Anche adesso lo tratti come un bambino incapace di difendersi e di comprendere i suoi errori, probabilmente è così data l’immaturità che mi pare di aver notato in lui, ma non è più un problema tuo!”.

“È, e resterà sempre, mio fratello e mio allievo! Sarà sempre un mio problema!”.

“Potevi insegnargli l’educazione e l’uso del cervello. O, dato che non hai esperienza in nessuna di queste due cose, ti era impossibile fare una cosa del genere?”.

“Mi stai dando del maleducato e dello stupido?”.

“No. Anche se nei miei confronti e di quelli di altri Dèi lo sei stato. È che non sei mai diventato adulto e sarebbe ora che crescessi, assieme al tuo allievo”.

Rikarathör ebbe una strana sensazione. Assomigliavano troppo alle parole della Luna.

“Io sono un adulto e mi comporto da adulto!”.

“Essere adulto non significa fare le cose che fanno gli adulti, o esserlo fisicamente, ma ragionare come tale. Un uomo si prende tutte le responsabilità delle sue azioni, cerca di prevedere gli eventuali problemi che possono provocare le sue decisioni e tenta di limitare gli istinti per soddisfare i suoi capricci, senza prendere sempre tutto alla leggera”.

“Come sai che sono così?”.

“Lo sei per come ti sei comportato e per come tratti quel ragazzo. Tu e lui volete una cosa e non vi importa di quanto fastidio e male possiate fare a chi avete accanto. Pensate a ciò che desiderate ed andate, come un mulo contro un muro, e così insistete. Bisogna rendersi conto dei propri limiti”.

“Io non ho fatto male a nessuno”.

“La Dea della Luna è sempre sotto l’occhio vigile di Ansuz adesso, perché non hai saputo tenere a freno quella lingua lunga! Il tuo villaggio è stato distrutto per quanto avete irritato, tu e tuo fratello, l’Alto. Ancora convinto di non aver fatto niente di male?”.

“Un momento…quello non è stata per colpa mia!”.

“Non capirai mai, vero?”.

“Crepa”.

“Vorrei, in effetti”.

“Bene. Mi auguro che la tua morte sia lenta e dolorosa”.

“Spero anche la tua, meticcio”.

Si guardavano con odio e Rikarathör si accese leggermente. Le orecchie a punta del figlio del Sole fremevano, come fremevano le piume del Dio delle Letterature. Si alzarono contemporaneamente, assumendo un atteggiamento di sfida.

“Facciamo così, sanguemisto: sconfiggimi, ed io ritirerò tutte le accuse”.

“Scherzi?! Tu non sai combattere!”.

Vereheveil spalancò le ali e richiamò a sé le energie, sempre guardando con rabbia lo sfidante. Così facendo, aveva aumentato le sue dimensioni ed illuminato se stesso di magia verdastra.

“Mostrami ciò di cui sei capace, figlio delle stelle”.

“Eccomi che arrivo, piumino col pancino scarabocchiato!” ringhiò Rikarathör, serrando i pugni.

Le fiamme tatuate sul suo corpo guizzarono. Non poteva aumentare di dimensioni ma non lo spaventava la prospettiva di sfidare apertamente quella divinità.

“Sai…è buffo! Con gli studi che faccio, dovrei adorarti” ghignò il sanguemisto, prima di creare una piccola palla di fuoco fra le mani.

Stava ignorando il suo sigillo, che ruotava l’iride da tutte le parti e tentava di tenere a freno il potere del suo portatore con piccole scosse.

“Proprio buffo. Pensa che io dovrei proteggerti…” rispose Vereheveil.

L’aspetto del Dio era notevolmente cambiato. Aveva di nuovo le fattezze di quando era molto più giovane, con grandi occhi vispi e riflessi pronti.

Il figlio del Sole, quando la pallina di fuoco crebbe fino alle dimensioni da lui desiderate, si concentrò e la lanciò verso il suo avversario, che si avvolse nelle grandi ali nere, senza riportare alcun danno.

“Non male, per essere quello che sei” commentò il Dio delle Letterature.

Rikarathör ghignò, infastidito, e creò una palla più grossa. Vereheveil la bloccò pronunciando poche parole, in una lingua che pochi conoscevano. Poi ne pronunciò altre e Rikarathör si ritrovò assalito dalla magia del Dio. Accentuò le sue fiamme e si liberò.

“Dovrai fare meglio di così!”.

“Non stuzzicarmi! Conosco tutte le formule magiche degli Universi. Vuoi che le usi contro di te?”.

Il Dio delle Lingue e delle Letterature prese il volo, seminando qualche piuma nera nella stanza, e si preparò per attaccare di nuovo. Borbottò una strana formula e dalle sue penne nere si diramò una fitta rete di energia magica. Il figlio del Sole alzò entrambe le mani e formò una barriera aranciata, come una specie di uovo luminoso che lo avvolse. I colpi di Vereheveil non lo centrarono, tranne alcuni guizzi magici che gli lasciarono dei segni simili a lettere sulla pelle.

“Feriscono più le parole che le armi, lo sai, mezzosangue?” affermò il Dio.

“Sparati!” rispose il sanguemisto, preparandosi ad attaccare di nuovo.

Creò altre sfere di fuoco e le scagliò verso il suo avversario, che le schivava in volo.

“Smettila di svolazzare, pennuto schifoso! Atterra, e combatti da uomo! Sempre che uno come te ne sia capace!”.

“Non diventare offensivo!” tuonò Vereheveil, scendendo in picchiata e fiondandosi sul figlio del Sole che, colto alla sprovvista ed essendo di dimensioni minori rispetto al Dio, cadde in terra.

Ma riuscì ad afferrare per le braccia la divinità, che lo stava trascinando lungo il pavimento, ed a concentrare il suo calore fra le mani. Vereheveil urlò, sentendo la pelle bruciare.

Lasciò andare Rikarathör e si rialzò, barcollando e guardandosi gli arti bruciati. Ringhiò, cosa che faceva raramente, e spalancò di nuovo le ali. Un’ondata di magia nera, come uno schizzo d’inchiostro, investì il figlio del Sole, che venne scaraventato contro uno scaffale della libreria. Si alzò una gran nube di polvere e molti libri caddero. Rikarathör si scosse, tossendo, e si rialzò.

“Hai la testa dura, come tuo padre! Speravo che rimanessi almeno un po’ a terra!” sibilò il Dio.

“Oh, sì! Ho proprio la testa dura! Spera invano! Avanti…fatti sotto!”.

Vereheveil riprese quota ed iniziò a battere le ali in un modo particolare, formando una corrente che, comandata dalle formule magiche che pronunciava, sollevò da terra il figlio del Sole e lo lanciò nel lato opposto della biblioteca. Di nuovo a terra, Rikarathör gemette, indolenzito, e vide il Dio avanzare velocemente verso di lui, pronto ad attaccarlo di nuovo. Non vedendo altre alternative, afferrò un grosso volume che gli era caduto accanto e lo lanciò contro Vereheveil. Lo colpì in piena faccia. Si ribaltò e si fermò, toccandosi il viso. Il mezzosangue, nel frattempo, era riuscito a rialzarsi ed era pronto per continuare lo scontro. Lanciò quattro sferette di fuoco, che sfiorarono il Dio.

“Hai mancato il tuo obbiettivo…” ansimò Vereheveil, non abituato alla lotta.

“Sei sicuro?” rispose l’avversario, anche lui con il fiatone.

Il Dio delle Letterature urlò. I suoi preziosi libri erano in fiamme e lui li sentiva bruciare. Sentiva se stesso bruciare da dentro.

“Sei un vandalo!” gridò, stringendosi il petto ed inginocchiandosi a causa della sensazione fastidiosissima che provava e che tentava di sedare.

“Non amo bruciare i libri. Ma questo è l’unico modo per indebolirti”.

Vereheveil si alzò, pronunciando parole rivolte alle fiamme che, in parte, smisero di consumare le amate pagine che aveva custodito per Ere.

“La pagherai per questo” sibilò, lanciando un’occhiata perfida al suo avversario, che si preparò a ricreare la barriera protettiva per controbattere.

Erano pronti, l’uno contro l’altro, quando la terra iniziò a tremare.

“Che succede?! Il terremoto su questo pianeta?!” si stupì Vereheveil.

Le pareti si muovevano in modo poco rassicurante. Entrambi si fissarono e diedero priorità alla propria vita, tentando di guadagnarsi l’uscita. I libri cadevano a terra, si aprivano crepe sotto i loro piedi e tutto scricchiolava in modo inquietante. I quadri alle pareti caddero, infrangendo la loro cornice e, dove c’era, il vetro che li proteggeva. Uno dei lampadari cedette, a poca distanza dai due fuggitivi, che lo schivarono con un salto laterale ed un sussulto. Vereheveil si guardò indietro e vide un’ombra sulla sua testa. Uno degli scaffali, quello già indebolito dal fuoco di Rikarathör, aveva ceduto e lo aveva travolto. Bloccato da metà ventre in giù, tentò di liberarsi ma non ci riusciva. Gridò. Nel frattempo la terra aveva smesso di tremare ed il figlio del Sole si era fermato. Guardava il suo avversario, senza espressione nel volto.

“Ci provi gusto a vedermi morire?” ansò Vereheveil, sentendo le energie abbandonarlo.

“Non sono così crudele” ammise Rikarathör e si avvicinò al Dio, cercando un modo per aiutarlo.

Ma quello scaffale era pesante e da solo non era in grado di sollevarlo.

“Vado a cercare aiuto” esclamò, dopo aver esaminato la situazione.

“No. Aspetta!” lo chiamò il Dio delle Letterature.

Il mezzosangue si tornò a girare verso il padrone di casa e gli si inginocchiò accanto.

“Cosa c’è? Dai…un paio di Dèi lo sollevano questo coso, cosa vuoi che sia? Vado a chiamarli!”.

“Tu non ti muovi di qui. Se qualcuno di loro ti vede, sei morto. Ti consegneranno ad Ansuz e verrai giustiziato. Non mi va che accada questo”.

“Suvvia, chissenefrega! Fammi cercare aiuto!”.

“Smettila! Muoio in un gran bel modo, meglio di quanto avessi potuto immaginare. Tu sei l’erede del Sole, non puoi morire. Io sì, ormai. Ho fatto il mio tempo”.

“Ma chi prenderà il tuo posto? Non dire fesserie! Ora vado a cercare aiuto”.

“Resta qui con me. Non voglio andarmene da solo”.

“AIUTO!” gridò Rikarathör, sperando che qualcuno lo sentisse.

“Forse ora rivedrò le persone che ho amato e che ho perso”.

“Muori per colpa mia…”.

“Non dire stupidaggini…”.

“Ma…”.

“È giusto che vada così”.

Vereheveil guardò Rikarathör negli occhi e gli sorrise: “Mi hai fatto capire e mi hai riportato alla mente molte cose. Non male per un semplice sanguemisto…ora và da tuo fratello, perché è lui che ha bisogno di te. Fra tutti i miei libri ce n’è uno con la copertina verde. Quello là sopra, lo vedi?” sussurrò il Dio, guardando un punto dello scaffale di fronte con gli occhi dorati.

Il figlio del Sole annuì e Vereheveil continuò: “Leggilo attentamente. Contiene degli incantesimi che ti aiuteranno a farlo evadere ed a proteggerlo da Krì”.

“G…grazie…” borbottò il sanguemisto, senza trovare altre parole.

Il Dio delle Letterature e delle Lingue brillava sempre di meno, finché non si spense. Le ali smisero di fremere e rimasero immobili, mosse solo dal vento. Chiuse gli occhi, divenuti di nuovo belli e lucenti come sempre, e versò solo una lacrima, nera come l’inchiostro. Vereheveil morì, ucciso dalla stessa linfa che aveva, e che lo aveva, alimentato per Ere intere.

Rikarathör si alzò, senza parlare, e si mise sulle punte per afferrare il libro indicato dal Dio. Riuscì a prenderlo ma, a causa dell’instabilità in cui versava tutta la stanza, quel piccolo spostamento di peso provocò un crollo. Tutti gli scaffali franarono, in un curioso effetto domino, alzando una gran nuvola di polvere. Tossendo e senza vederci molto, tentò di guadagnarsi l’uscita. Solo che all’ingresso dell’immensa stanza ora c’era Kavahel, che lo guardava allarmato.

“Dov’è mio padre?” urlò al figlio del Sole che, preso alla sprovvista, farfuglio una risposta sconnessa ed incomprensibile.

“Tu! Sei quello ricercato! Dove credi di andare con quel libro? Rendimelo subito. Sei un ladro come il tuo allievo Kevihang!”.

Rikarathör, non sapendo come giustificarsi e non trovando scuse credibili, cambiò direzione e si mise a correre verso una delle finestre. Voleva uscire e quella non era la prima finestra che sfondava. Chiuse gli occhi, mentre Kavahel lo inseguiva ordinatogli di fermarsi e bloccandosi solo quando vide suo padre riverso a terra. Il figlio del Sole accelerò il passo, alle sue spalle sentì un urlo agghiacciante di disperazione e rabbia. Salì in groppa alla creatura che lo aveva condotto fino a lì e si allontanò velocemente, libro sottobraccio, riuscendo solo ad intravedere, per un attimo, Kavahel. Piangeva ed urlava, come chiunque rimasto solo al Mondo. Non aveva più nessuno, oltre ai suoi due fratelli Destino e Kaos che non facevano altro che innervosirlo e stancarlo, e questo, ora, lo aveva messo in ginocchio. Guardò Rikarathör con uno sguardo che lo fece rabbrividire.

“La pagherai” mormorò “LA PAGHERAI!” ripeté più forte, in modo che potesse sentirlo.

Il figlio del Sole fece accelerare la sua cavalcatura color cioccolato, inseguito da fulmini e tuoni, chiedendosi perché tutti volessero ucciderlo ultimamente.

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Capitolo 29
*** XXIX- Ragnarok ***


XXIX

 

RAGNARÖK

 

Kuetzalikay osservava l’orizzonte in groppa alla sua strana cavalcatura verde. Sorrideva, soddisfatto. Iniziava a vedere chiaramente i fili del suo destino tendersi ed intrecciarsi come aveva pronosticato e sperato. Era una giornata piacevole, il Sole splendeva e soffiava solo una lieve brezza fresca, anche se era evidente la nebbia provocata dalle polveri sollevate dal recente terremoto.

Il più giovane degli Alti portava un lungo mantello, che secondo lui dava un tocco di stile, agganciato sul petto da un ampio collare decorato. La sua pelle verde riluceva alla luce dell’astro nel cielo, mettendo in evidenza i motivi geometrici disegnati su di essa. Gonfiò le grandi piume rosse che fungevano da suoi capelli e sbatté gli occhi da serpente. C’era tensione nell’aria e lui riusciva ad avvertirla chiaramente. Agitò la coda e ghignò, passandosi la lingua biforcuta sulla bocca larghissima.

“È un piacere rivederti, Signore delle Stelle” salutò l’Alto, educatamente.

Il Dio del Sole stava risalendo la collina in groppa al suo solito destriero alato, di colore rosso.

“Piacere mio. A cosa devo la Vostra presenza qui?”.

“Passi sempre per di qua a quest’ora, seguendo il corso del Sole di questo Pianeta”.

“Esatto, ma questo non risponde alla mia domanda”.

“Aspetto gente. Perché non mi tieni un po’ di compagnia?”.

“Io dovrei lavorare…ma se insistete…chi state aspettando?”.

“Lo vedrai…lo conosci anche tu”.

Il Sole guardò il giovane Alto con sospetto e non disse nulla.

“Dov’è tua figlia?”.

“Selene? Dovrebbe arrivare. Di solito, quando è bel tempo, ci incontriamo da queste parti per mezzogiorno. Mangiamo assieme”.

“Sei fortunato. È una bellissima bambina”.

“Credo sia stanca di sentirsi definire una bambina, anche se io la vedrò sempre così”.

“Per i genitori, i figli non crescono mai. Basta vedere come mi tratta mio padre. Ma presto le cose cambieranno, puoi starne certo”.

“Cos’è quello?” domandò il Sole, dopo aver sghignazzato a Kuetzalikay.

Qualcosa si avvicinava velocemente, dalle terre del Kaos.

“Niebla deve aver fatto scappare un’altra delle sue bestie” commentò l’Alto.

“Sta venendo qui” constatò il Dio, facendo fatica a trattenere la sua cavalcatura.

E Kevihang giunse velocemente, a grandi balzi, e spalancò le fauci da lupo. Il suo pelo blu scuro brillava, mosso dal vento, ed a nulla servivano le grida di Kasday che gli suggerivano di fermarsi. Arrivo correndo, risalendo la collina a balzi, e digrignò i denti. Affilati e lucenti, riflettevano la luce esterna, fecero sobbalzare il Dio del Sole.

“Dobbiamo andarcene” disse, dando un colpetto alla groppa del suo destriero.

“Dai…non avrai paura di una creaturina del Kaos?” lo derise l’Alto.

“Creaturina?! È enorme! Almeno quattro volte me!”.

“Ma è solo una creatura del Kaos. Di livello magico decisamente misero”.

Il Dio del Sole guardò l’Alto e si preparò difendersi. Non sarebbe scappato, se quel ragazzino restava lì immobile. Ma c’era qualcosa in quell’enorme lupo che non lo convinceva. Non era una semplice creatura del Kaos…aveva qualcosa…quel disegno sul suo viso dove lo aveva già visto? Aprì la mano, dopo aver sollevato il braccio, pronto a difendersi da quella bestia che stava per balzargli addosso. Avvolse se stesso e la sua cavalcatura in una bolla di fuoco ma questo non bastò a fermare Kevihang che riuscì ad andare oltre, spegnendo le fiamme, disarcionando il Sole.

“Kevihang!” esclamò il Dio “Sei quel ragazzo che…”.

“Che hai torturato. Bravo!” rispose il lupo, con voce tonante, spalancando la bocca.

“Kuetzalikay! Ti prego! Fai qualcosa! Aiutami!” supplicò il Sole, vedendo che le sue fiamme non riuscivano a respingere quella bestia né la ferivano in qualche modo.

L’Alto non disse né fece nulla. Rimase lì fermo e salutò Kevihang, che gli sorrise, prima di ricominciare a ferire mortalmente la divinità che governava tutte le stelle.

 

Rikarathör era riuscito a raggiungere le grotte in cui si erano rintanati tutti i superstiti del suo villaggio. Era stanco ed un po’ malconcio ma, appena arrivato, si concentrò subito sul libro verde che gli aveva indicato Vereheveil. Voleva trovare il modo per aiutare il fratellino nonché allievo. Constatò con sollievo che nessuno della sua famiglia aveva subito delle conseguenze gravi dalla scossa di terremoto precedente. Sua madre lo guardò preoccupata, vedendolo tornare così impolverato e ferito, ma non fece domande perché sapeva che non le avrebbe risposto. Loreatehenzi lo guardò sghignazzando e scuotendo il capo.

“Sei il solito testa di cazzo! Cos’hai combinato, stavolta?” commentò.

“Non ti deve importare”.

“Un altro libro? Non dirmi che hai un nuovo Dio che ti vuole uccidere…”.

“Beh…ecco…sì e no. Ribadisco il concetto di prima: lasciatemi in pace”.

Il figlio del Sole andò a rintanarsi in una rientranza della grotta dove poter stare tranquillo almeno per un po’. Si accoccolò nel buio ed iniziò a leggere, illuminando le pagine con la fioca luce che ora emetteva. Combatté contro la stanchezza, per non chiudere gli occhi, e contro il dolore. Pur essendo il Dio delle Letterature, Vereheveil gli aveva inferto alcune ferite piuttosto fastidiose. Ricominciò a leggere, dopo essersi rinfrescato i tagli ad una piccola sorgente interna alle grotte, ma venne interrotto dall’abbaiare insistente della cagnolina di sua sorella o, per meglio dire, di quella strana creatura rassomigliante ad un cane che ora latrava come una pazza sotto la sua postazione rialzata. Rikarathör sospirò, cercando di ignorarla, ma la bestia non diede segno di volersi fermare.

“Piantala!” le urlò, dopo un po’, ma lei continuò con maggior convinzione.

“Brutta stupida…” borbottò il figlio del Sole, tentando di concentrarsi.

“Rik, dovresti scendere da lì” lo chiamò il fratello Loreatehenzi.

“Le parole NON VOGLIO ESSERE DISTURBATO per voi che significano? Sparite!”.

“Ma c’è un problema”.

“E sarebbe?”.

“Non so. Credo abbia a che fare con tuo padre”.

“In che senso?”.

“Scendi e guarda”.

Rikarathör scese dalla sua postazione, lentamente, e seguì suo fratello, che avanzava a grandi passi verso l’uscita delle grotte. Insieme giunsero all’aperto, facendosi strada fra la folla di curiosi che si era radunata.

“Quella…non è la cavalcatura di tuo padre?” domandò Loreatehenzi, indicando il destriero del Dio del Sole, scappato dopo l’assalto al suo padrone.

“Sì…” ammise Rikarathör “…ma è davvero strano che sia qui da sola”.

“Eppure non c’è nemmeno l’ombra del Dio del Sole, ma solo il suo destriero. Che mi pare parecchio agitato, fra l’altro…”.

L’animale, col dorso e gli occhi infuocati, scalciava ed agitava la coda rossa.

“State lontani” suggerì il semidio del fuoco “Diventa molto aggressivo se non è il suo padrone a toccarlo. Solo a lui è concesso avvicinarsi”.

“Ma che senso ha che sia qui da solo?”.

“A me lo chiedi, Lore?” sbottò il fratello maggiore “Però mi fa pena. Guardalo…sembra davvero molto spaventato”.

Si avvicinò alla bestia lentamente, invitandola a stare calma. Nessuno poteva avvicinarsi. Per la tensione che aveva in corpo, l’animale lanciava piccole fiamme dal dorso.

“Cosa ci fai qui, tutto solo? E dov’è mio padre, il tuo padrone?”.

Il destriero guardò verso Rikarathör e parve rilassarsi, anche se per poco. Avanzò deciso nella direzione del figlio del suo padrone ed iniziò a scuotere la testa verso una precisa direzione.

“Vuoi che ti segua? È successo qualcosa?”.

Il cielo mutò di colore, improvvisamente. Era tutto rosso, rosso sangue, come un immenso tramonto. Ma era mezzogiorno o poco più, non avevano senso quei colori. Inoltre mutavano, divenendo sempre più tenui.

“Mi sento strano” mormorò il figlio del Sole, stringendosi il sigillo ed avvertendo un insolito malessere sconosciuto.

Il destriero mosse le zampe e richiamò l’attenzione con dei versi sempre più insistenti.

“Ho capito. Vuoi che ti segua. Va bene, vengo con te. Fammi strada”.

“Non dovresti andare” gli consigliò Valek-hiteia “Hai un brutto aspetto. Cosa c’è che non va?”.

“Guarda in cielo, mamma. Ecco cosa c’è che non và. Io starò meglio presto, vedrai. Fidati…”.

Si girò verso l’animale impaziente, che chinò il collo come a voler indicare che voleva un cavaliere.

“Solo il Dio del Sole può cavalcarti. Non io”.

Ma la bestia insistette ed attese. Rikarathör allungò una mano ed, inaspettatamente, la creatura si fece toccare. Era straordinariamente calda e piacevole al tatto, le fiamme che guizzavano su di lei solleticavano leggermente sulla pelle e Rikarathör sorrise.

“Avete metà codice genetico in comune. Forse a questo coso va bene comunque…” commentò Loreatehenzi, notando lo stupore e la perplessità del fratello.

Il figlio del Sole salì in groppa, sempre più sconcertato nel constatare che più di qualcosa non andava. Si mise un po’ ad abituarsi a quella strana creatura, che lo avvolgeva fra le sue fiamme senza bruciarlo o portargli alcun tipo di conseguenza.

“Portami dove devi…” disse, e partì ad altissima velocità.

“Deve essere successo qualcosa di grave” commentò Valek-hiteia, guardando tutti i suoi figli.

“Forse è meglio se andiamo con lui…” azzardò Marinditi-ya.

“Non ancora. Se vedremo che tarda, allora potrete raggiungerlo. Quella bestia lascia delle chiare tracce dietro di sé”.

Essendo fatto per buona parte di fuoco, quella creatura imprimeva nel terreno ogni tocco delle sue zampe. Non poteva volare, probabilmente ferita da Kuetzalikay, ma correva velocissima, avvolta in una bellissima scia di fiamme. Il suo cavaliere si sentiva sempre più strano. Un’insolita sensazione di nausea e di debolezza, la testa gli girava, lo stava avvolgendo.

“Che mi succede?” gemette, toccandosi il sigillo che sentiva stringere attorno al suo collo.

Semplicemente lo sfiorò con le dita e questi si staccò, infrangendosi in migliaia di frammenti dorati, ed il suo portatore avvertì una fortissima scossa, come un brivido, simile a quello che si prova quando si prende il primo respiro dopo una lunga apnea. La sensazione di malessere che provava iniziò a placarsi, sostituita da un molto più piacevole flusso d’energia primordiale. Come se il fuoco stesso avesse preso il posto del suo sangue, la pelle del figlio del Sole brillò, più forte che mai, ed i suoi tatuaggi si accesero di fiamme vive. La pesante tunica rossa che indossava bruciò, nei punti in cui aveva quei disegni, e lui non poté fare a meno di urlare, avvertendo tutto quel potere dentro di sé. Le ferite provocate dal Dio delle Letterature erano guarite, la stanchezza scomparsa e quel fuoco vivo alimentava ogni sua cellula. Sorrise, per un attimo, prima di constatare che, se lui aveva tutto quel potere, probabilmente era successo qualcosa di grave al padre. Incitò l’animale che cavalcava ad andare più in fretta, mentre il cielo era sempre più buio.Di sfuggita, intravide una luce a lui familiare e si bloccò.

“Selene” chiamò.

Scese dal suo destriero e corse verso quella luce argentea, preoccupato che fosse successo qualcosa di grave anche a lei. La vide. Era seduta sulla riva di un piccolo fiume, poco più che una sorgente, e si sistemava i lunghi capelli color delle stelle.

“Selene” la chiamò di nuovo.

“Papà” mormorò lei, con un tono di voce piuttosto triste.

“Io…non sono papà…”.

La Dea si girò e lo fissò, stupita: “Rik? Sei tu?” domandò.

“Sì. Và tutto bene?”.

“Cosa ti è successo?”.

“A te cos’è successo! Piangi…”.

La Dea si girò, dando le spalle al fratello, e tentò di asciugarsi gli occhi come poteva: “Da quando non ti guardi allo specchio, fratello?”.

“Da un po’, in effetti…”.

“Vieni qui”.

Il figlio del Sole si specchiò nell’acqua fresca e trasalì. Era la copia identica di suo padre, con la sola differenza del colore degli occhi e dell’aspetto leggermente più giovane. I lunghi capelli gli guizzavano sulla testa, ordinati in modo da formare dei singolari raggi rossi, e tutta la sua pelle aveva assunto una colorazione tendente all’arancio.

“Da quando sei così?” domandò la Dea.

“Non molto. Mia madre lo avrebbe notato…credo che sia successo qualcosa a papà. Mi si è rotto il sigillo e…”.

“A papà? Dove? Quando?” si allarmò la Luna.

“Non lo so! Ma il suo animale è venuto a prendermi…”.

“Andiamo, allora! Presto!”.

“Non mi dici perché piangi?”.

La Dea non lo degnò di uno sguardo, o di una risposta, e salì sulla sua creatura alata ed argentea, pronta a partire. Partì di corsa, anche se la bestia del Sole la sorpassò facilmente subito dopo, per condurre entrambi su quella collina in cui Kevihang stava lentamente uccidendo il loro genitore.

“Avanti, Selene! Dimmi perché piangi…” domando Rikarathör, mentre entrambi correvano fra le rocce ed il gelo di quel pianeta morente.

“Piangevo. Come vedi, ora non lo faccio più” rispose lei, senza voltarsi.

“Ok…allora perché piangevi?”.

“Perché hai fatto una grossa cazzata”.

“A quale ti riferisci? Ne ho fatte tante di grosse cazzate…”.

“Ti ho visto. Con tua sorella…”.

“Sì…hem…e allora?”.

“L’hai baciata!”.

“Ah! Per quello! Suvvia…era solo un bacio”.

“Come sarebbe a dire?!”.

“Un semplice bacio. Non abbiamo fatto nulla di più! Non è importante, un bacio!”.

“Nemmeno io e te abbiamo fatto nulla di più” sibilò la Luna, guardandolo con rabbia.

“Sì, è vero. Ma io amo te!”.

“E allora perché hai baciato lei?”.

“Beh…quello non te lo so dire…”.

Il destriero di Rikarathör ebbe un sussulto, come a tentare di far star zitto il suo cavaliere. Un monito che assomigliava ad un “non aprire la bocca, che peggiori solo le cose”.

“Che intendi con quel: non te lo so dire?”.

“Quello che ho detto. Credo dipenda dalla chimica…dopotutto lei è la Terra ed io il Fuoco, il Sole. C’è alchimia fra di noi, suppongo”.

“Te la do io l’alchimia!” gridò la Luna, incitando la sua stupenda cavalcatura a virare leggermente, in direzione del fratello.

Aveva gli occhi guizzanti d’ira, ancora umidi dalle lacrime. La creatura del Dio del Sole virò, agilmente, ed accelerò la sua corsa. Il cielo si faceva sempre più scuro.

“Credo sia il caso di concentrarsi sui problemi di papà, adesso, e poi sui nostri” suggerì Rikarathör, cercando una via di fuga da quella situazione.

“Sì, certo. Prima i problemi di papà. Poi preparati perché ti aspetta qualcosa di veramente brutto, prima a te e poi a quella stronza di tua sorella!”.

Continuarono a correre, fino a giungere in prossimità della collina.

“Che bestia è quella?” si allarmò il sanguemisto, intravedendo il lupo blu scuro.

“Mai visto niente di simile. Però c’è Kuetzalikay. Forse ha aiutato lui papà…”.

“O è la fonte dei suoi guai…”.

“Cosa intendi?”.

“Niente. Avviciniamoci”.

Il Dio del Sole stava a terra e continuava ad essere attaccato, ripetutamente, da Kevihang, che evidentemente si stava divertendo a torturalo per ucciderlo lentamente. La Luna, vedendo quella scena, si preparò a difendere il suo genitore ma Rikarathör la fermò. Aveva riconosciuto i disegni sul muso di quella enorme creatura feroce e, anche se non poteva crederci, tentò di farla ragionare.

“Kevihang…sei tu? Che cosa...cosa stai facendo?!” urlò.

Il lupo blu si fermò e lo guardò, con grandi occhi aranciati, leccandosi le labbra.

“Sei impazzito?!” continuò il suo maestro.

“Sta facendo la cosa più giusta” rispose Kuetzalikay “Largo alle nuove generazioni!” aggiunse, avvicinandosi in groppa al suo destriero verde e sfiorando, con le lunghe piume rosse, la pelle del figlio del Sole, che reagì scostandosi.

I destrieri dei due si osservarono, ringhiando sommessamente l’uno contro l’altro. Kevihang rise, nel solito modo agghiacciante ereditato dal padre Luciherus, e mutò leggermente. Prese la forma di una specie di uomo lupo dal pelo blu.

“Cosa ci trovi da ridere, demente? Hai attaccato il Sole!” lo rimproverò il maestro.

“Ho ucciso il Sole” corresse l’allievo.

“Ucciso?”.

Il figlio girò la testa verso il padre. Selene era scesa dalla sua cavalcatura ed era andata accanto al genitore, chiamandolo. Non era ancora morto ma, dai suoi occhi e dalla scarsa luce che emetteva l’astro nel cielo, si capiva che non sarebbe rimasto ancora a lungo in vita. Luciheday, Dea della Morte, giunse sul dorso del suo destriero nero, falce alla mano, guardandosi attorno per stabilire per quale motivo si trovasse in quel luogo.

“Dharam!” esclamò, vedendo il Sole a terra “Cosa ci fai lì? Non dirmi che sono venuta fin qua per te! Su, su, alzati! Il Sole non muore. Si stanca e si ritira in qualche luogo isolato dove si consuma lentamente fino a divenire semplice e pura luce. Alzati”.

“Temo che, per questa volta, al Sole tocchi morire. E non usare quel nome…con tanti che me ne han dati in tutte queste Ere di vita…” mormorò il Dio, sorridendo a fatica.

“Non dire fesserie! Alzati! Cosa vuoi che sia…qualche graffio, qualche squarcio…qualche ferita incurabile…” e perfino la Dea della Morte si rese conto che non c’era molto da poter fare per aiutare il Dio di tutte le stelle.

“Un momento! Non potete portarlo via! Lui è il Sole!” sbottò Rikarathör.

“E tu chi sei?” rispose la Morte.

“Suo figlio”.

“Il Sole”.

“No..hem…tecnicamente sono un mezzosangue. Sono mezzo Sole…”.

“Tecnicamente davanti a me vedo il nuovo Dio del Sole e sì, tecnicamente, a me sta bene così. Se c’è un nuovo Sole, pronto a sostituire quello vecchio, allora posso fare tranquilla il mio lavoro. Prendetevela con qualcun altro!”.

“Io non sono il Dio del Sole!” protestò Rikarathör.

“Ed io non sono la Dea della Morte” ironizzò Luciheday.

“Ah, ah…che ridere!”.

“Su, dai. Rilassati! Sei pure carino con quel taglio di capelli…”.

“G…” partì a ringraziare d’istinto, per poi fermarsi e ripartire di getto “Grazie. Ma non è questo il punto!” aggiunse, dopo aver cambiato espressione, passando dal lusingato allo scocciato.

Nel frattempo si era unito alla “allegra comitiva” anche Krì, l’Alto Ansuz, con la sua cavalcatura giallognola, seguito da Kiaritanya.

“I cavalieri dell’apocalisse…” ridacchiò Luciherus, collegandone uno per ogni colore.

“Che succede qui?” sbottò l’Alto, guardandosi attorno “E cos’è successo al Sole?”.

“Storia lunga…” iniziò a spiegare Rikarathör ma venne interrotto dall’Alto stesso, che lo fissò con rabbia e fastidio.

“Tu! Com’è che, se c’è qualche guaio, tu ne sei in qualche modo coinvolto?” sbottò.

“Io non ho fatto niente!” protestò il figlio del Sole.

“Tu non fai mai niente, ma sei sempre fra i piedi” sibilò l’Alto “Ti ucciderò con le mie mani!”.

“Non credo ti convenga farlo, mio caro Krì” mormorò il Sole, con le poche forze che gli erano rimaste “Colui che hai davanti è il mio unico figlio maschio e, come vedi, prenderà il mio posto. È pronto, ormai, anche se non so per quanto tempo potrà svolgere il suo lavoro, data la situazione. Ti sconsiglio di ucciderlo, se vuoi che ci siano ancora albe e tramonti!”.

Krì non rispose. Guardò entrambi e chinò il capo da un lato, segno che si arrendeva all’evidenza.

“Chi ti ha fatto questo, Dio solare?” volle sapere.

“Io!” si vantò Kevihang “Ne vuoi un po’ anche tu?”.

“Quella era la cosa più stupida che mai potevi pronunciare, piccolo pirla!” lo rimproverò Rikarathör, cercando di separare i due, notando quanto Krì si fosse inalberato a quelle parole.

Spalancò le braccia, mentre Kevihang e l’Alto divenivano sempre più grossi, Kuetzalikay rideva come un matto, la Morte aveva capito che era meglio non andarsene perché avrebbe avuto altro lavoro e la Luna abbracciava suo padre, che le diceva di essere orgoglioso di entrambi i suoi figli prima di morire. Rikarathör, tentando di non mostrare la paura di trovarsi fra due bestie simili, disarmato, rimaneva immobile e serio, nel tentativo assurdo di proteggere Kevihang.

Socchiuse gli occhi, ormai sicuro di sentirsi colpire dall’Alto o dal suo allievo, quando avvertì qualcosa di gelato accanto a sé. Guardò in basso e vide una splendida spada, a pochi centimetri dalla sua gamba sinistra.

“Credo che con quella potrai fare qualcosa di più” si sentì dire.

Alzò lo sguardo. Suo fratello Enrikiran aveva creato quella spada di ghiaccio e gliela aveva tirata, dall’alto del drago che stava cavalcando. Accanto a lui svolazzava Loreatehenzi e Marinditi-ya si intravedeva da dietro il mantello del figlio dell’Inverno.

“Cosa fate voi qui?”.

“Soccorso fra fratelli” spiegò il figlio di Urihel.

I tre maschi si sorrisero ma la sorella guardava altrove, verso Selene. Anche la Luna la guardava, con odio. Con un gesto delle mani, fece apparire un arco argento e lo impugnò saldamente.

“Ti stavo aspettando, Semidea…” sibilò la Luna.

“Sono qua…vecchiaccia!” sbottò Marinditi-ya.

“FATTI SOTTO!” urlò la Dea della Luna e la Semidea della Terra saltò giù, pronta allo scontro.

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Capitolo 30
*** XXX- psicostasia ***


XXX

 

PSICOSTASIA

 

Il cielo era buio, il Dio del Sole era morto e, fra le lacrime della Dea della Luna che si sentiva in colpa per questo, Rikarathör decise di intervenire. Era, ora, il Dio del Sole, dopotutto! Selene, dopo aver finito di ripetersi che se fosse stata sulla collina con suo padre, come faceva sempre, avrebbe potuto aiutarlo, si concentrò su Marinditi-ya. Ignorò il fatto che il suo fratellino di sangue stava tentando di fare il suo lavoro. Aveva riacceso la stella Nesidey, che ora di nuovo illuminava il cielo. Constatò che la cosa non era affatto semplice, ma doveva sforzarsi di mantenere stabile solo quella stella per ora, poi avrebbe pensato alle altre. Prima c’erano ben altri problemi da risolvere! Prima di tutto le sue due sorelle si stavano per scontrare. E poi, ovviamente, Kevihang e Krì continuavano a tentare di affrontarsi. Per non parlare di Kuetzalikay, che lo guardava in un modo decisamente strano ed inquietante. Padre e figlio, Krì e Kuetzalikay, sibilavano e si osservavano sottecchi. Luna e Terra, i due Alti, Kevihang…tutti per qualche a lui oscura ragione si stavano scontrando l’un l’altro e tutti, per una ragione a Rikarathör ancora più oscura, parevano avere qualche problema con lui! Marinditi-ya si concentrò e spostò le rocce, quasi colpendo Selene.

“Vuoi davvero sfidarmi, Semidea?” si stupì la Luna, schivando facilmente la magia della ragazza.

“Certo! E chi vince…” rispose la figlia dell’Estate, indicando Rikarathör “…se lo prende!”.

“Eh?!” esclamò il figlio del Sole, sentendosi chiamare in causa.

La Dea della Luna preparò il suo arco. Marinditi-ya incanalò più energie possibili ed urlò. Così facendo, provocò un altro spaventoso terremoto. Il terreno si spacco e, seguendo le indicazioni della semidea, si sollevò proprio sotto i piedi di Selene. Lei non si fece prendere di sorpresa e saltò, rimanendo per qualche istante sospesa in aria, avvolta da una forte luce argentea.

“Ti ucciderò, Dea inutile!” gridò la mezzosangue.

“Non se prima lo faccio io, ochetta viziata!” ribatté la Luna.

“Non dovremmo fare qualcosa per fermarle?” azzardò Kasday.

“Perché? È divertente starle a guardare…” ridacchiò Luciherus, mentre la Luna scaraventava la sua avversaria per aria, insultandola.

 

Ansuz aveva iniziato uno scontro diretto con Kevihang che, però, riusciva a difendersi adeguatamente, fra lo stupore generale. Questo era dovuto al fatto che Rikarathör, poco prima, era riuscito a mettere in pratica uno degli incantesimi contenuti nel libro verde di Vereheveil. Grazie a questo, quella specie di grosso lupo mannaro blu era quasi alla pari dell’Alto e non veniva ferito. Il figlio del Sole però non aveva modo di proteggere sé stesso e si ritrovò a combattere contro Kuetzalikay, che insisteva nel guardarlo in modo strano.

“Ma si può sapere cosa vuoi da me?” sbottò, impugnando con due mani la spada che gli aveva creato suo fratello.

“Voglio porre fine alla tua vita”.

“E perché? Sei l’unico qui a cui io non ho fatto o detto niente!”.

“Perché voglio uccidere mio padre”.

“Ed io che ci azzecco con i problemi di famiglia tuoi o dei tuoi simili?”.

“Secondo il libro che Kevihang gentilmente ha sbloccato dal sigillo, uccidere il Sole è il solo modo per distruggere mio padre”.

Tutti si immobilizzarono, per un attimo, tranne Selene e Marinditi-ya, che continuarono a darsele di santa ragione, con pura cattiveria.

Un grido, di gioia o di follia, si levò sopra tutti loro. Mihael, in groppa al suo enorme drago, arrivò tutto contento sul gruppetto di litiganti.

“Sento l’odore di battaglia lontano chilometri! Che bello, una rissa!!” esclamò, ridendo, sadico.

Fece virare la sua bestia, per schivare Marinditi-ya che veniva lanciata in aria per l’ennesima volta.

“Uomo lucetta!” gridò, guardando giù “Anche se ti sei travestito, ti riconosco comunque! Io ricordo sempre le facce dei miei avversari!”.

“Non ho tempo da perdere con te oggi, tu e la tua storia dell’uomo lucetta!” affermò Rikarathör.

“Troverai il tempo per me, lucetta dalla pettinatura fashion!”.

Gli Alti rimasero sconcertati per quelle parole, Luciherus scoppio a ridere e Mihael, esaltandosi, volò giù dal suo drago, che iniziò a litigare con il drago dei fratelli minori del figlio del Sole.

“Enrikiran…” disse Loreatehenzi “…ci pensi tu al drago? Io vedo di aiutare la palla di fuoco, perché temo che si sia cacciato nell’ennesimo grosso guaio”.

“Vai pure. Ci penso io al lucertolone alato” rassicurò Enrikiran, sorridendo gelido al drago di Mihael, che tentava di disarcionarlo senza motivo, sputando fiamme.

“A noi due, abbiamo un conto in sospeso!” ringhiò il Demone, agitando la coda per la soddisfazione.

Rikarathör schivò uno dei colpi di Kuetzalikay e roteò la sua spada, concentrandovi il suo potere. Era un’ottima arma, che brillò con forza, obbedendo agli ordini del suo padrone. Il ghiaccio di Enrikiran ed il fuoco di Rikarathör si fusero, creando un materiale tutto nuovo, di pura energia magica, che si attorcigliò al braccio del proprio portatore, pulsando come parte del suo corpo.

“Mihael! Che combini?” lo richiamò Rahahel, giunto fino a lì dietro al drago del Principe.

“Ma guarda un po’ chi si rivede!”.

“Asmodai!” sbottò lo spirito dell’Arcangelo.

“Proprio io. Ho visto il principino muoversi ed ho dovuto raggiungerlo. È il mio scopo come capo delle schiere angeliche, mi sembra…”.

“Fatti gli affari tuoi, piumino spelacchiato!” ringhiò Mihael, sguainando l’enorme spada.

“A lui ci penso io…” mormorò Rahahel, non nascondendo un sorriso soddisfatto “…io ed il piumino qui presente abbiamo un certo conto in sospeso…”.

“Dici bene” confermò Asmodai, anche lui con un’elegante spada fra le mani.

“Sarah” ridacchiò Luciherus “Che strano affare in sospeso…”.

Mihael scese in picchiata verso il suo avversario, che cercava di allontanarsi da Kuetzalikay. Non voleva ritrovarsi fra due fuochi, anche se ora era lui stesso un fuoco bello grande. L’Alto, fortunatamente, fu bloccato dal padre, che lo fissò con aria di sfida.

“Cos’è tutto questo chiasso?” urlò Kavahel, giunto fino lì per verificare per quale motivo il Sole avesse dei colori così altalenanti e perché la terra continuasse a muoversi.

Dietro di lui si era trascinato la Dea del Kaos, Niebla, ed il fratello Ajedrez, Dio del Destino. Come sempre, i due stavano litigando ed il fratello maggiore non poteva lasciarli da soli.

“Tu!” tuonò il Dio dell’Equilibrio, bloccando Mihael a mezz’aria e riferendosi al figlio del Sole “Com’è che ogni volta che c’è qualcosa che non và, ultimamente, vedo la tua faccia?”.

Il mezzo Dio si strinse nelle spalle, non sapendo che altro dire.

“Io ti ammazzo, mezzosangue profanatore di biblioteche! Tutto questo è per colpa tua!”.

“Non ti permettere di offendere il mio fratellone. La colpa è mia. Prenditela con me” si intromise Kevihang, parandosi davanti a Kavahel, di parecchio più basso e gracilino di lui.

“Sarà un piacere. Non mi spaventi, mezzosangue peloso!”.

“Che meraviglia! Una rissa gigante!” gongolò Luciherus, notando che tutti avevano trovato il loro avversario, e si sedette come per assistere ad uno spettacolo.

“Non ti preoccupa questa cosa? Troppe magie sprigionate così…” mormorò Kasday.

“Rilassati e goditi lo show!” le consigliò l’antico Dio della Forza e del Coraggio, baciandole delicatamente la mano ed invitandola a sedersi accanto a lui.

Kasday preferì restare in piedi, circondata dagli scontri, mentre ai suoi piedi sbocciavano piccoli fiori dal lungo gambo verde e petali aranciati.

La Dea della Morte, assieme ai genitori, decise di rimanere tranquilla ad osservare tutti gli accadimenti. Da brava giudice imparziale, restava ferma, con la lunga veste e la falce, ad attendere il momento in cui avrebbe dovuto svolgere il suo lavoro.

“Sono venuto a pesare la tua anima!” urlò Mihael, vestito con la sua solita armatura.

“Ma vai a pesare tua sorella, minchione!” gli rispose Rikarathör, ed il loro scontrò iniziò.

 

L’enorme spada del Demone si abbatté sulla ben più piccola arma del nuovo Sole, che però resistette e parò il colpo, senza riportare danni. La cosa stupì parecchio il Principe, abituato com’era a vedere tutte le spade dei suoi nemici infrangersi, dopo un tale colpo dato con Betzy, il nome che aveva dato alla sua fedele compagna di battaglia.

“Carina la tua lama” borbottò Mihael “Come si chiama?”.

“Non lo so…diciamo che è appena nata…”.

“Lei e Betzy. La tua come si chiama?”.

“Betzy?! Come una mucca? Beh…la mia…diciamo che si chiama: ti ucciderò Mihael”.

“Mi sembra un nome piuttosto lungo e complicato…ma il padrone sei tu, perciò…”.

“La pianti di tergiversare? Avrei altro da fare nella vita…”.

Il Demone, punto nell’orgoglio, ringhiò e ricominciò a tentare di colpirlo.

Erano piuttosto instabili con i piedi piantati in terra, continuando la Semidea della Terra a provocare terremoti, crepacci e sollevamenti di pietre. Il Principe optò per gli attacchi aerei, rimanendo sospeso accanto al suo avversario, che non aveva ancora ben capito come gli Dèi volassero. Rikarathör protestò per questo, prima che una grossa roccia gli si sollevasse sotto i piedi e lo lanciasse per aria, mossa da un improvviso spostamento d’aria. Mihael scoppiò a ridere ed il nuovo Sole si concentrò per non cadere, senza ottenere nulla. Ma qualcosa, nello specifico qualcuno, non lo fece schiantare. Loreatehenzi sorrise al fratello maggiore, protendendo le mani verso di lui.

“Tu combatti. A tenerti sospeso ci penso io, finché posso” assicurò il figlio del Dio del Cielo.

“Non vale!” protestò il Demone.

“Ma stai zitto, pipistrello gigante!”.

Luciherus alzò lo sguardo, estasiato da quello scontro aereo.

“Vuoi dei pop corn?” ironizzò Kasday.

Rikarathör saltava da una roccia sollevata dalla sorella ad un’altra, sostenendo le grandi distanze con l’aiuto del fratello minore, che muoveva le mani come se avesse un burattino da controllare, con i fili fra le dita. Avvolto da una nube di fiamme sempre più forte, il Sole e la stella Nesidey brillavano e bruciavano sempre più forte, alimentati dalla rabbia e dalla battaglia. Il forte caldo infastidiva il Demone, abituato ormai al gelo costante.

“Vai, Betzy! Fatti valere!” urlò, prendendo la rincorsa per colpire in picchiata.

Rikarathör, saltando all’indietro, lo schivò ed espanse ulteriormente le sue fiamme, andando a colpire Mihael, che cominciò a dimenarsi convulsamente per spegnersi i capelli. Virò, usando la coda, e ripartì all’attacco. Le loro lame stridevano ed emettevano moltissime scintille, che non facevano altro che alimentare il fuoco del figlio del Sole.

Rikarathör stava gradatamente imparando a gestire le sue abilità in battaglia. Creò una sfera di fuoco, molto più grande di quelle che aveva creato fino a quel momento nella sua vita, e la lanciò contro il Demone. La schivò, andando a colpire la terra sottostante, sfiorando le piume di Kuetzalikay, che le arruffò per lo sdegno. Ma il figlio del Sole non era di certo soddisfatto e ne creò altre. Mihael le respingeva, certe improvvisando a racchetta da tennis la sua spada, ridendo come un folle. Si stava divertendo. Rikarathör lo fissò, con occhi infuocati, chiedendosi che cosa ci fosse da ridere. Scese momentaneamente a terra, dato che Loreatehenzi si era preso una piccola pausa.

“Scendi e vieni qui, rettile!” sibilò il nuovo Sole.

“Perché?” si stupì Mihael “E non sono un rettile…credo…”.

“Perché stai combattendo con me!”.

“Ah, già! È vero!”.

Scese, velocissimo, e le loro armi si scontrarono di nuovo violentemente. Rikarathör mosse rapidamente gli occhi, comandando il fuoco, ed avvolse il Principe fra le fiamme. Mihael ringhiò, sbattendo le ali per spegnersi, e contrattaccò subito, ancora con piccoli guizzi di fuoco accesi sul suo corpo, colpendo il suo avversario con il braccio ungulato. Anche se la sua spada era enorme, il Demone la maneggiava agilmente anche con una mano sola, a differenza di chi aveva di fronte. Rikarathör si sbilanciò e Mihael lo ferì con la spada. Dove la pelle del nuovo Dio veniva scalfita, le fiamme si spegnevano.

“A quanto pare non sei ancora totalmente una divinità. Tuo padre, a quest’ora, si sarebbe già rigenerato, creando nuova energia bruciante…” lo derise il Principe.

L’avversario non fece caso a quelle parole e ricominciò ad attaccare, pur percependo chiaramente che la sua ferita bruciava e non guariva. Il Demone riprese il volo ed il Dio lo seguì, sfruttando di nuovo Loreatehenzi e le sue capacità. Quasi si schiantarono contro Asmodai e Rahahel, anche loro guerreggianti in cielo. Volavano e si affrontavano, fra scintille di magia e fuoco. Mihael, canticchiando, afferrò la spada del suo opponente con la mano libera, ferendosi. Il Dio avversario si chiese come ci riuscisse, ma il Principe pareva ignorare il dolore, anzi pareva andarselo a cercare. Rikarathör, immobilizzato per le braccia, usò la cosa per farsi da perno e tirare un poderoso calcio al Demone, che ci rimase male perché non se l’aspettava. Dato che non voleva mollargli l’arma, il Dio del Sole e del Fuoco ne afferrò saldamente la coda e la annodò, ridendo.

“Ma quei due…” borbottò Luciherus, non riuscendo a trovare parole adatte a descrivere il loro modo insolito di battersi.

“Perché mi hai annodato la coda, maledetto uomo lucetta?!”.

“Rinfodera la tua vacca ed arrenditi, cornuto!”.

“Non offendere la mia Betzy! Non osare!”.

 

Nello stesso istante in cui il Sole ed il Demone avevano iniziato ad affrontarsi, anche i due Alti erano pronti a combattere.

“Come osi sfidare uno degli Alti?” tuonò Ansuz, guardando il figlio con odio.

“Sono anch’io un Alto, vecchio” sibilò Kuetzalikay.

Il padre si era ingrandito ed aveva modificato il suo aspetto, illuminandosi di luce dorata. Grazie alla manipolazione della sua forza magica, si era creato un’armatura sospesa, che ne copriva buona parte del viso. Avanzò con aria solenne, ma il più giovane non sembrava per niente impressionato.

“Inutile che ti gonfi e ti travesti. So benissimo che dentro di te sei sempre il solito: un nanerottolo di colore blu! Non mi spaventi!”.

“Insolente ragazzino…”.

Kuetzalikay sibilò, con la lunga lingua biforcuta, contro il padre che ringhiò. Kiaritanya guardò entrambi con un pizzico di inquietudine. Fece per andarsene, allontanandosi da quello scontro, quando il più giovane degli Alti la afferrò per le ali.

“Non volevi perderle, mia cara?” mormorò l’essere dalla pelle verde.

“Sì…ma…” balbettò la Messaggera, non sapendo cosa dire.

Kuetzalikay la sollevò da terra e la rese incapace di volare, strappandole le ali. Lei urlò, prima di essere scaraventata in un angolo.

“Questo non lo dovevi fare!” urlò Ansuz, saltando addosso al figlio.

L’enorme quantità d’energia che si sprigionò, con il solo contatto fra i due, provocò uno spostamento d’aria spaventoso, che sollevò rocce, massi e persone. Il figlio gonfiò tutte le penne rosse e scattò in avanti, con un verso selvaggio. Sfoderò le unghie e spalancò la bocca, mostrando due enormi canini affilati, preparandosi all’attacco. Morse il padre, che lo colpì duramente. La sua pelle verde brillò, assorbendo più magia possibile, aumentando il contrasto con i disegni geometrici su di essa. Avvolse la coda attorno alla gamba del padre e la strinse, avvertendo uno scricchiolio. Krì tentò di far lo stesso, ma non ci riuscì. Il figlio non aveva le ossa rigide ed erano estremamente difficili da infrangere. Con la magia che scorreva potente nelle loro vene, si lanciavano incantesimi e scosse d’energia di vario colore. Tutt’attorno l’aria mutava, seguendo i cambi di tonalità del cielo e di Nesidey. Il fuoco passò a pochi centimetri da loro, con disappunto di Kuetzalikay che insultò chi lo stava provocando, intimandolo a fare più attenzione. Saltarono, per evitare la terra che si sollevava per colpa di Marinditi-ya, e rimasero sospesi in aria grazie all’alone di magia che li circondava.

“Non sei ancora abbastanza potente per potermi battere, figliolo”.

“Non sei ancora abbastanza debole per potermi permettere di batterti”.

Eppure Krì, nonostante fosse convinto di ciò che aveva appena detto, si sentiva decisamente più debole del solito, confuso, quasi stanco, nonostante non avesse fatto molto.

“Sono i miei denti, caro papà. Ho imparato a dosare il mio veleno…” spiegò il figlio.

“Tu non puoi uccidermi”.

“No, ancora no. Ma è una cosa alla quale presto potrò rimediare”.

Kuetzalikay si girò verso il figlio del Sole, sapendo che, finché era in vita, suo padre non sarebbe mai morto.

“Non ti permetterò di ucciderlo” esclamò Ansuz.

“Eri tu stesso a volerlo morto, fino a non molto tempo fa!”.

“Ora è diverso. Ora è un Dio, l’unico Dio del Sole, e non può morire! Ne va della continuazione dell’Universo!”.

“Me ne frego altamente della continuazione dell’Universo!”.

“Dovresti, brutto idiota!”.

Un fulmine squarciò il cielo, anche se era libero dalle nuvole.

 

“Ti farò pentire di essere nato, ammasso di peli blu!” urlò Kavahel.

“Ed io ti farò pentire di esserti permesso di intralciarmi” rispose Kevihang.

L’equilibrio, come sapevano i presenti, non poteva attaccare e quindi doveva limitarsi a difendersi. Con un gesto delle mani, creò uno scudo e parò tutti i colpi della creatura simile al lupo mannaro ma si stancò presto ed iniziò a rispondere, sbattendo quell’oggetto contro il muso del suo avversario. Luciherus trovò la cosa esilarante, mentre invece Kasday si preoccupò nel vedere i suoi figli litigare in quel modo. Kavahel era avvolto dalla sua luce blu ed i suoi occhi dorati brillavano.

“Spostati! È stato quell’idiota del tuo maestro ad uccidere mio padre!”.

“Questo è impossibile! Rikarathör non ucciderebbe mai nessuno, lo conosco bene”.

Kavahel non disse altro. Era sconvolto per quello che era successo e per quello che aveva visto. Non poteva credere che Vereheveil, l’unica persona che gli era rimasta accanto da quando ero piccolo, non c’era più. Aveva visto morire la sua compagna, i suoi figli, i suoi fratelli…era stato lui ad uccidere Kasday e sapeva che molti ancora lo odiavano per questo. Solo il suo genitore lo aveva sostenuto, facendogli capire che poteva andare avanti. Ma ora come poteva? Si guardò attorno, ignorando il suo avversario, proteggendosi con una potente barriera magica. C’era fuoco, distruzione, dolore e la Morte, bellissima e sorridente, era lì ed aspettava qualcuno di loro. Come potevano tutte quelle divinità, e creature simili, provocare tutto questo? Così restavano coinvolti i mortali e gli animali! Notò lo sguardo triste e spaventato di quelle bestie che avevano portato fino a lì i vari contendenti, tranne i due draghi che si affrontavano alla pari dei loro padroni. Che diritto avevano loro di provocare simili disastri? E per quale motivo coinvolgere anche creature innocenti? Ed il suo avversario, che cos’era? Il frutto distorto di quel pianeta che lui stesso aveva contribuito ad uccidere lentamente. Bestie, mortali, divinità, Alti…erano tutti allo stesso livello, dopotutto! Meritavano tutti la vita e non era giusto che il più debole venisse sconfitto e distrutto dal più forte. Ma quella era una delle regole non scritte degli Universi che aveva visto fino a quel momento. Arrivò a considerare che, molto probabilmente, le bestie meritavano di gran lunga la vita più di lui, misera divinità colpevole, e della maggior parte delle creature che eran lì.

“Perché gli Dèi dell’Equilibrio sono sempre depressi?” si chiese Luciherus.

“Forse perché vedono quanto difficile sia, in realtà, il Mondo e la vita, e quanto sia impegnativo mantenere gli Universi in armonia, dato chi ci abita” rispose Kasday.

“O forse è genetico…” azzardò Luciheday, alzando lo sguardo verso la Semidea della Terra.

 

Rahahel sapeva essere tremendamente feroce se voleva, e con Asmodai ci riusciva benissimo.

“Cosa vuoi, Rahahel?” sbottò l’Angelo “Sei stato sconfitto. Sarah ha scelto me. Devi capire quando è il momento di farsi da parte. E poi…sappiamo entrambi che non sai combattere. Cosa credi di poter fare? Ero il capo delle guardie di Luciherus, non ricordi? Finirei con l’ucciderti”.

“Errore, mio caro. Non potrai mai uccidermi perché, vedi…io sono già morto!”.

Lo spirito si alzò in volo, raggiungendo l’Angelo. Asmodai si accorse subito di non poter fare molto contro quella creatura. Non poteva colpirlo e, anche se ci riusciva, non provava dolore e non aveva grosse conseguenze. Con un gran sbattere di piume, l’antico generale di Luciherus non si diede per vinto e continuò ad attaccare Rahahel. Arrivò perfino a staccargli un braccio, che però questi si riattaccò subito, come se nulla fosse. Rahahel, al contrario, riusciva benissimo ad infierire e far danni. Con una risata molto poco angelica, l’ex Arcangelo colpì più volte Asmodai, che non poteva far altro che parare e schivare. Nonostante il fantasma dagli occhi rossi mostrasse segni di stanchezza, la sua luce si attenuava man mano, non si fermava. Provava una tale rabbia, sentimento che non aveva mai provato quand’era in vita, da ignorare qualsiasi altra cosa. Finalmente aveva modo di vendicarsi nei confronti di Asmodai, che era stato prescelto dalla donna per la quale aveva rinunciato all’immortalità. Era morto per lei, dopo una martoriata vita fra le creature senza magia, e non aveva ottenuto altro che solitudine e derisione.

“Io avrei dato tutto per lei!” gemette quella specie di vampiro spettrale che portava il nome di Rahahel “Avrei fatto qualunque cosa pur di vederla felice”.

“Infatti hai rinunciato all’immortalità” lo derise Asmodai.

“Ho rinunciato, certo! E lo rifarei! Io la amo, la amo davvero!”.

“L’amore è un sentimento inventato dai mortali per giustificare la loro incapacità a restare da soli”.

“Sei un verme! Una serpe! Anche se sei un Angelo, io riesco a vedere dentro di te e vedo che sei ancora un Demone! Un grosso Demone spocchioso, incapace di amare davvero! Non riesco proprio a capire come abbia potuto preferire te a me!”.

“Quello, in realtà, è un quesito di facile soluzione. Tu eri bravo a parole, io a fatti! Tu la riempivi di frasi fatte e di promesse, io le dimostravo concretamente ciò che provavo. L’ho riempita di regali, le ho fatto vedere il suo piccolo Mondo ed il mio…”.

“Ma il sentimento che provavo, e che provo io, è molto più forte di quello che provi tu!”.

“Sveglia Rahahel! I mortali non vivono di parole! Non sopravvivono respirando solamente! Il loro animo non è in pace con i meri sentimenti”.

“Ti sbagli. Io credo, invece, che i sentimenti siano la linfa vitale che  permette agli uomini, esseri mortali, di andare avanti in questo Mondo gelido ora, come un tempo. Anche quando gli Universi erano perfetti, era lo stesso, secondo me”.

“Ecco il motivo per cui io sono un potente guerriero fra gli angeli e tu una specie di zombie ambulante pieno di rabbia, rancore e tristezza…”.

Poco distante dai due litiganti, sfrecciarono Mihael ed il figlio del Sole, quasi investendoli. Dopo quella breve distrazione, ricominciarono a stuzzicarsi ed affrontarsi.

 

Anche il Kaos ed il Destino stavano combattendo, anche se il Destino sapeva di essere in netto svantaggio. La Dea lo aveva sempre sconfitto, fin da bambino, e solo l’intercessione di Kavahel lo aveva salvato fino a quel momento. Ma ora Kavahel era impegnato altrove ed il Dio non si sentiva per niente a suo agio, né tantomeno al sicuro. Sua sorella era una pazza, lo aveva sempre saputo. Tutta vestita in nero, rideva follemente e saltellava verso il gemello, che si allontanava con sempre maggior convinzione. I loro occhi dorati si incrociarono. Quelli di lei erano sottili e furiosi, quelli di lui grandi e spaventati. Era triste il Dio del Destino. Triste per la sorte di Vereheveil e per l’odio che la sorella provava nei suoi confronti. Lui, dopotutto, non aveva colpa. Ciò che era riportato sulle sue rose era ciò che gli veniva dettato da qualcosa, o qualcuno, di cui nemmeno lui capiva esattamente la provenienza. A volte era Ansuz a parlargli, a volte non parlava nessuno ma le parole si scrivevano comunque. Con lettere dorate e minuscole, poteva scrivere ed aveva scritto le vite di tutti gli esseri viventi. Ma non inventava quelle parole, non era colpa sua se gli eventi accadevano in una determinata maniera! Allora perché la sorella continuava ad insultarlo, dicendogli che era solo colpa sua? Con l’ampia veste bianca, saltellò all’indietro, cercando l’aiuto ed il conforto del fratello maggiore. Ma Kavahel non rispondeva alle sue richieste e rimaneva fermo, con sguardo triste e distante, in mezzo ad un vortice di gente che si massacrava.

Poi un urlo si levò, più alto di tutti, ed i presenti si immobilizzarono: Marinditi-ya, la Semidea della Terra, era stesa sulla nuda pietra con una freccia della Dea della Luna conficcata nel torace.

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Capitolo 31
*** XXXI- crepuscolo ***


XXXI

 

CREPUSCOLO

 

Il drago di Mihael ringhiò, sputando fuoco, infrangendo il silenzio che si era creato fra i presenti.

“E chiudi il becco!” gli gridò contro Enrikiran “Nessuno ti ha interpellato!”.

Il figlio dell’Inverno allungò il braccio verso la bestia, lanciando un getto d’acqua quasi solida dal freddo. Metà del suo viso era coperto di ghiaccio, come gelidi erano i suoi occhi e la cresta che aveva per capelli. Colpì quel grosso animale in pieno muso e gli serrò le fauci, bloccandole in una morsa di acqua gelata. Enrikiran rise, contento del risultato. Si scosse. Si sentiva strano. Qualcosa dentro di lui gli dava proprio una strana sensazione. Il suo potere, leggermente più forte del solito, era come fuori controllo e fremeva per essere espresso. Guardò giù e vide sua sorella Marinditi-ya a terra. Trasalì perché sempre gli avevano ripetuto che, nel caso di morte di uno di loro, gli altri avrebbero dovuto affrontare pessime conseguenze. Questo perché, senza il verde della Terra, l’Aria non può essere prodotta e, senza Aria, il Fuoco non brucia e l’Acqua non può generarsi. Probabilmente non era morta la Semidea della Terra perché lui, figlio dell’Inverno, era ancora in vita e, salvo un po’ di debolezza e questa strana sensazione di malessere, non si sentiva prossimo alla fine. Cercò con lo sguardo il suo fratello minore, che non volava più. Sembrava anche lui piuttosto debole e confuso, ma nel complesso stava bene.

“Oh, Selene…perché lo hai fatto?” gemette Rikarathör, senza ricevere risposta.

La Morte aveva guardato quella ragazza, che ora non si sarebbe più rialzata.

“L’hai uccisa? L’hai uccisa per davvero?” protestò il figlio del Sole.

Voleva continuare il suo discorso, ma cominciò ad avvertire uno strano formicolio lungo tutto il corpo. La magia, elettrica e calda, lo stava solleticando senza controllo e la cosa lo allarmò non poco. Dietro di lui, Nesidey, grande stella azzurra al centro del sistema dei Pianeti rimasti in vita, cominciò a pulsare ed ingrandirsi. Stessa cosa stava succedendo al nuovo Sole, il cui colore di pelle mutò divenendo rosso acceso. Si ingrandì a dismisura, un gigante rosso nel cielo, e fu avvolto da enormi fiamme di color rubino.

“Così non vale!” protestò Mihael, sentendosi di colpo piccino, piccino.

“Com’è possibile?” esclamò Kavahel, alzando gli occhi “Non esiste nemmeno la Dea della Guerra, non capisco perché stiamo qui a litigare! Non dovrebbe essere possibile!”.

Poi si voltò verso il Principe dei Demoni e vide che un simbolo gli era apparso sulla fronte. Lo guardò con più attenzione e spalancò gli occhi: Mihael era divenuto Dio della Guerra! Ed ora questa sensazione che provava, che da tanto non percepiva, che cos’era? Paura! Notò di non essere l’unico ad avvertire un sentimento simile dentro di sé…la Dea della Paura era fra loro, ad occhi spalancati e braccia incrociate.

“Hei, tu! Torna a diventare piccolo! Come posso sconfiggerti se sei così grosso?” urlò Mihael.

“Non è colpa mia!” rispose Rikarathör “Non ho proprio idea di come ridimensionarmi!”.

Approfittando della confusione generale, la Dea del Kaos scattò, afferrando fra le mani uno di quei fiori dal lunghissimo gambo che crescevano ai piedi dell’essenza di Kasday. Lo strinse fra le mani, stando attenta alle spine e, senza pensarci troppo, lo lanciò verso il fratello. Ajedrez, colpito al petto ed inaspettatamente trapassato, rimase immobile mentre la sua veste candida si tingeva di rosso.

“Ma che razza di fiori sono?” sbottò Luciherus.

“Sono i fiori dei morti” spiegò Kasday “All’opposto degli alberi della Vita, questi portano la morte di chi ne sfiora le spine o ne viene colpito”.

“E perché hai creato fiori del genere?”.

“Non sono stata io. È stato il Pianeta stesso a volermeli donare. Il Pianeta stesso vuole che tutto questo accada e che tutto questo finisca”.

Il Dio del Destino tentò di togliere quella pianta dal suo corpo ma questa iniziò a creare radici, filamenti, che si districarono lungo tutto il suo petto e la sua pelle. Si inginocchiò, mentre i suoi occhi d’oro iniziavano a divenire vitrei e senza vita.

“Che hai fatto, Niebla?!” urlò Kavahel, correndo verso il fratello minore.

La Dea del Kaos rise, guardando Kuetzalikay con soddisfazione.

“È stato lui a chiedermelo. È stato lui a provocarmi. Mi impediva di vivere come desideravo con i suoi stupidi fiorellini scarabocchiati” si giustificò.

“Lui non ha mai avuto colpa di ciò che stava scritto su quelle rose. Semmai era colpa di uno di quei due…” rispose Kavahel, indicando i due Alti e chiudendo delicatamente le palpebre al fratellino.

L’Equilibrio restava in ginocchio, sentendo un fortissimo dolore al torace. Il Destino era morto, il Kaos aveva prevalso, lui era venuto meno al suo compito ed ora non sapeva cosa fare. Chiuse gli occhi, abbracciando Ajedrez in una sorta di ultimo saluto, mentre la Dea del Kaos si soffermò sul combattimento dei due Alti. Krì era appoggiato contro una grossa roccia sollevata da Marinditi-ya e si stringeva il braccio, gravemente ferito. Avendo legato la sua essenza a quella delle creature a lui sottoposte, avvertiva ogni loro morte e diveniva sempre più debole. Kuetzalikay non aveva creato un legame del genere e quindi combatteva con tutte le sue forze. Notando le difficoltà che provava Ansuz, Krì, Rikarathör si intromise fra i due e tentò di fermare il più giovane fra i due con tutte le energie che aveva ancora in corpo. L’Alto non gradì per niente quel tentativo di impiccio nei suoi affari e sibilò al Sole, mostrando la sua lunga lingua biforcuta.

“Credi di farmi paura solo perché sei più grosso? Sei sempre e solo un Dio, apprendista fra l’altro!”.

Detto questo aumentò le sue dimensioni, fino a divenire pari al nuovo Sole. Mihael si offese per quel gesto. Non trovava carino da parte del Sole abbandonare così un combattimento per dedicarsi ad un altro avversario!

Fece per farglielo notare, quando una voce alle sue spalle lo fermò:“Non ti diverti se non rompi le palle, vero Mikino?”.

“Lucy! Sei tu?”.

“Sono io, ma non chiamarmi Lucy!”.

“Lo sapevo che eri vivo!”.

“Non sono vivo, Mihael. Sono solo una semplice essenza”.

Detto questo, Luciherus allungò la mano verso il gemello e lo trapassò, mostrandogli di non possedere un corpo solido. Mihael rabbrividì a quel tocco e scosse la testa.

“Non è vero” mormorò “Tu non sei morto. Tu sei il mio fratellone Luciherus, colui che mi ha sempre fatto pesare quei pochi minuti di differenza che abbiamo nella nascita noi due, colui con cui ho condiviso l’infanzia, colui che è stato il mio unico e solo grande avversario…non puoi essere morto per davvero! Mi prendi in giro…”.

“Mihael…” iniziò Luciherus ma si fermò subito, notando che quel demone non era più in sé.

Il Principe e nuovo Dio della Guerra, impugnò la sua enorme spada e, dopo aver lanciato un grido agghiacciante, fece per colpire il fratello. Ovviamente la lama passò attraverso all’essenza di Luciherus. Mihael ripeté quel gesto diverse volte, prima di arrendersi all’evidenza. Sconvolto, ed incapace di controllarsi, si scagliò contro tutti coloro che gli capitarono a tiro.

 

Kuetzalikay ed il nuovo Sole combattevano, anche se era evidente la loro differenza di potere. Kevihang, nel frattempo, tentava di portare a termine gli intenti del giovane Alto, attaccando Krì. Rikarathör bruciava molto intensamente ed era furioso, anche se non sapeva bene verso chi rivolgere la sua rabbia. Certo era, però, che non poteva permettere a quel serpente piumato di continuare a far danni. Ad ogni loro passo facevano tremare ed arroventare il terreno.

“Non puoi uccidermi. Sei solo un Dio”.

“E tu sei solo un serpente. Sai cosa succede ai serpenti gettati fra le fiamme?”.

Kuetzalikay faceva attenzione a non farsi colpire o toccare, sicuro che il trucco fosse indebolire a tal punto il suo avversario da farlo desistere. Rikarathör, anche se non voleva mostrarlo, si sentiva sempre più stanco. Lanciando sfere infuocate, notò la punta delle sue mani: stavano diventando bianche, spente e fredde. Così come la punta dei suoi piedi e parte del viso. Il suo fuoco si faceva sempre meno intenso mentre le sue dimensioni stavano tornado lentamente a ridursi. Sicuro di essere ormai prossimo alla fine, fu aiutato dal provvidenziale intervento della Dea della Luna. Con il suo arco d’argento, scagliò una freccia all’occhio dell’Alto, che urlò e si distrasse. Il nuovo Sole approfittò di quella distrazione per sferrare l’attacco finale. Avvolse il suo avversario fra le fiamme e lasciò che queste lo consumassero, fra le grida atroci dell’attaccato. Rikarathör, poi, si concentrò su Mihael, che stava attaccando Loreatehenzi, che tentava di difendere Enrikiran, caduto a terra ed ormai debolissimo a causa dell’enorme quantità di calore emanato dal fratello maggiore e da Nesidey. Il demone, felice del ritorno del suo precedente avversario, ignorò i due Semidèi, che ormai erano senza forze, per dedicarsi di nuovo a Rikarathör. Non notò che questi era divenuto tutto bianco e continuava a stringersi. Anche Nesidey pareva stringersi ed il cielo iniziò a farsi sempre meno luminoso, l’aria più fredda. Rikarathör sapeva di essere debole, ma non si scansò quando il suo avversario partì alla carica verso di lui. Lo guardò negli occhi mentre, con furia omicida, Mihael volava deciso, puntando la propria spada verso il cuore del suo avversario. A pochi centimetri da lui, però, cambiò espressione. Rahahel, una volta sconfitto Asmodeo, era sceso in picchiata verso il demone ed ora lo aveva colpito, duramente, alla schiena.

Mihael virò e Rahahel lo spinse con il viso contro una roccia.

“Ora ho capito qual è il mio ruolo” sussurrò Rahahel, trapassando con la sua mano incorporea il petto del demone e stringendone il cuore “Ora ho capito…io sono ancora un guaritore. Posso guarire…posso guarirti, amico mio. Posso guarirti…da te stesso!”.

Strinse con forza il muscolo cardiaco del demone e boccheggiò qualche istante, prima di cadere in terra senza più vita. Rikarathör guardò quello strano vampiro dagli occhi rossi e gli sorrise, ansimando per la fatica.

“Niente di personale” affermò Rahahel “…non volevo che uccidesse il Sole. A quanto pare, ne resta uno solo…”.

“Non so ancora per quanto…” sospirò Rikarathör, guardandosi le mani che iniziavano a tingersi di nero, come nero stava divenendo il cielo e Nesidey.

 

Mihael, prima di morire, aveva lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue. Kavahel guardava incredulo il corpo della sorella Kaos, decapitata dal Principe. Aveva ucciso molte divinità presenti, angeli, mortali e demoni accorsi sul posto per vedere cosa stesse succedendo. Nessuno era riuscito a fermare la sua follia e molti erano caduti per sua mano.

“Che facciamo adesso?” si chiese Rikarathör, rivolgendosi a se stesso più che ad una persona specifica fra le poche rimaste.

“Innanzitutto ti proibisco di morire” gli ordinò Kevihang.

“Eh?!” si stupì il nuovo Sole.

 

Kevihang, non avendo mai dato ascolto ai consigli di nessuno, né tanto meno aver mai avuto paura di superare i suoi limiti, iniziava a pentirsi delle sue scelte. A causa dell’eccessiva quantità di magia che aveva usato, e della potenza dei suoi avversari, il suo corpo stava cedendo. Debole sempre di più, avvertì la magia lasciarlo, facendogli provare un fortissimo dolore. Ogni colpo subito dagli altri non si curò più grazie alla sua forza, e tutte le torture subite nella prigione del Kaos influirono pesantemente sulla sua salute fisica e mentale. Si strinse la testa, cercando di resistere a tutto quel dolore improvviso che lo stava avvolgendo in ogni sua cellula. Solo dopo parecchi minuti il suo corpo cedette definitivamente. Cadde in terra, senza far rumore, e anche lui chiuse gli occhi per sempre. Kavahel andò verso Krì, piuttosto preoccupato.

“Signor Ansuz…” lo chiamò.

L’Alto era steso anche lui a terra e guardava il cielo, sempre più nero.

“Signor Ansuz…state bene? Che sta succedendo? Che dobbiamo fare?”.

“Niente, ragazzo. Il tuo momento è vicino…”.

“Quale momento?”.

“Quello per il quale sei nato: far ripartire gli Universi, una volta che questi si saranno distrutti”.

“Siamo giunti davvero alla fine? Ma io non so cosa devo fare…”.

“Devi imparare a vedere”.

“Vedere cosa?”.

“Avvicinati…”.

Kavahel obbedì e Krì gli prese il volto fra le mani.

“Fidati di me, figlio della Letteratura e dell’Equilibrio. Chiudi gli occhi, rilassati…”.

L’Equilibrio, non vedendo alternative, chiuse gli occhi e li tenne chiusi, anche quando una fitta dolorosissima attraversò quello sinistro.

“Devi imparare a vedere” ripeté Krì.

Kavahel riaprì le palpebre. Ora solo il suo occhio destro vedeva come era abituato a vedere ma, in cambio della vista dell’occhio sinistro, ora possedeva un’assoluta consapevolezza di quale fosse il suo futuro ed inoltre riusciva a scorgere chiaramente Kasday e Luciherus, rimasti sospesi nell’aria, liberi da catene e controllati dalla Morte. L’Alto, soddisfatto nel constatare che l’Equilibrio aveva dissipato ogni suo timore nell’animo e nel cuore, sorrise e si rilassò. Kavahel lo guardò e rispose al suo sorriso, alzandosi in piedi. Con un battito delle sue ali blu, aiutò l’essenza di quella creatura a staccarsi dal suo involucro a cui era rimasta legata per Ere e l’Alto Ansuz si spense.

 Anche Nesidey era quasi del tutto spenta. Era nera e buia nell’immenso cielo dello stesso colore. La Luna tentava di riflettere quella scarsissima luce come poteva. Selene e Rikarathör erano stesi, l’uno accanto all’altro, abbracciati. Il figlio del Sole era quasi del tutto nero e respirava a fatica, con gli occhi ancora rossi come il fuoco, mentre la Dea della Luna non brillava più.

“Sapevi che sarebbe successo?” le domandò lui.

“Sapevo che, se tu ti fossi spento, io avrei fatto lo stesso”.

“Allora perché…”.

“Non volevo perderti. Non volevo condividerti. Nessuno di noi due voleva cambiare…”.

“E così moriremo assieme. Era questo ciò che desideravi?”.

“È questo ciò che desidero. Guardati attorno…ormai è tutto finito e non avrei desiderato nulla di più che vivere questo momento con te, se è proprio deciso che io lo viva”.

“Mi dispiace che tu abbia sofferto nell’avermi visto con la mia sorellina, mi dispiace davvero”.

“E a me dispiace aver reagito in quel modo così sconsiderato ed esagerato…”.

“Non pensiamo a questo…quanto è vuoto il cielo senza di te…”.

“Ma io sono qui, solo per te, e non più per il cielo, amore mio!”.

“È la prima volta che mi chiami così…”.

“Lo so. Perché io capisco quello che provo per qualcuno, o qualcosa, solo quando sono vicino a perderlo per sempre. Scusa…”.

Si abbracciarono e chiusero gli occhi, dopo un ultimo bacio, spegnendosi lentamente per sempre, mentre dai loro occhi scesero calde lacrime di fuoco ed argento.

Urihel, Dio del Cielo, appena avvenne questo, cadde. Svenne per non risvegliarsi più, mentre tutt’attorno a lui cadevano le sferette rappresentanti i Pianeti e le stelle. Il Dio del Tempo smise di rimanere avvolto nel suo torpore e cessò di respirare, sempre tenendo per mano l’adorata moglie.

Tutte le divinità, una dopo l’altra, si stavano accasciando al suolo. Solo Kavahel rimaneva immobile, in piedi in mezzo a loro, guardando Kasday.

Luciherus, ora che tutti gli spiriti dei morti iniziavano a comparire attorno a lui, cercava con insistenza la figura della madre Sophia per salutarla un’ultima volta. Rahahel, il Kaos, il Destino, Kevihang, gli Alti, la Morte stessa…stavano tutti sparendo in un mucchietto di lucette e niente più.

“Sogni mai realizzati o confessati, che restano come schizzi abbozzati fra le pagine della nostra anima” mormorò Kavahel, rivolto a Kasday che si stava avvicinando.

“Ti senti pronto?”.

“Se sono in grado di vedervi, voi tutti spiriti morti, vuol dire che siamo giunti per davvero alla fine, madre mia e Signora dell’Universo”.

“Non sono tua madre. Sono colui, colei, che ti ha creato, assieme a Vereheveil” rispose Kasday, prendendo l’aspetto con cui era abituato a vederlo Kavahel, con i lunghissimi capelli neri e gli occhi azzurri nel suo corpo androgino ed aggraziato.

“Sono felice che tu abbia avuto Luciherus accanto per tutto questo tempo…”.

“Lui ha imparato a vedere al di là delle cose, figlio mio. Essendo lui un dannato ed avendo un corpo molto diverso da quello degli altri, ha imparato a guardare altro, apprezzando anche il mio corpo da Alto, così inquietante e spaventoso”.

“Cosa che papà Vereheveil non è mai riuscito a fare…lo so…”.

“Non è colpa sua, in fondo…”.

“Credi che io sia in grado di fare ciò che è stato predetto?”.

“Certamente. Come erano state predette molte altre cose che poi, volenti o nolenti, sono avvenute”.

“Ma se io vedo te…vuol dire che parte di me è già nel regno dei morti?”.

“Certo. Perché tu sei tutto e niente. Un po’ vivo, un po’ morto, un po’ reale ed un po’ no. Sei un poco di tutto ed un insieme di niente…sei Kavahel, il Signore del Nuovo Inizio”.

Mentre parlavano, Luciherus era abbracciato a sua madre, che amava ancora e che non era riuscito a dimenticare, mentre questa cantava un’antica canzone della sua ormai lontanissima infanzia.

“Mi ami almeno un po’, Sophia?” le domandò Luciherus.

“Come una madre ama un figlio, piccolo mio, e sai bene che non c’è amore più grande. Ma c’è una persona che prova un amore diverso, non so se altrettanto grande, per te, ed è giusto che tu vada da lei adesso perché non manca molto tempo”.

Le essenze si stavano dissolvendo in migliaia di scintille di luce, spargendosi per il cielo. Luciherus si girò verso Kasday ed allungò le braccia verso di lei, chiamandola. La raggiunse, mentre tornava all’aspetto gradito all’antico Dio della Forza e del Coraggio, e la abbracciò.

“Cosa accadrà adesso, amore mio?” le disse, mentre lei si scioglieva da quell’abbraccio ed iniziava a danzare, invitando Kavahel a fare lo stesso.

Era una danza complessa ma che i due conoscevano molto bene. Era un ballo di distruzione, con movimenti contrari a quello di creazione. I Pianeti e gli Universi iniziarono a mutare seguendo i loro movimenti, mentre Luciherus provava un’impareggiabile invidia e gelosia. Afferrò saldamente Kasday fra le sua braccia, impedendole di continuare a ballare. Lei non oppose resistenza, ormai ciò che doveva fare l’aveva fatto, e si lasciò abbracciare.

“Cosa ne sarà di noi, adesso?” mormorò di nuovo lui.

“Quel che sarà, sarà…”.

“Promettimi che ci rivedremo…”.

“Questo è certo. Ci rivedremo ancora, nel nuovo Universo. Ed io ti amerò, come ti amo ora”.

“Anch’io…non potrò mai dimenticarti e appena ti rivedrò lo saprò”.

Si baciarono, mentre entrambi lentamente svanivano in mille scintille di luce. Kasday si girò verso Kavahel, alcuni attimi prima di dissolversi del tutto, e lo sfiorò con le mani. L’Equilibrio, piuttosto stanco e confuso, avvertì un brivido attraversargli la schiena e svenne, avvolto dal buio e dal nulla.

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Capitolo 32
*** XXXII- Ouroboros ***


XXXII

 

OUROBOROS

 

Quando Kavahel riaprì gli occhi, si ritrovò avvolto dal buio. Galleggiava nel vuoto, nel nulla, senza nemmeno una luce attorno a sé. All’inizio pensò di aver perso anche l’uso dell’altro occhio ma poi si ricordò ciò che era successo e capì che non vedeva nulla perché non esisteva più nulla. Provò a parlare ma, in assenza d’aria, i suoni non si propagavano e non poté sentirsi. Sorrise. Aveva chiesto silenzio per millenni ed ora ne aveva quanto ne voleva. Ripensò con nostalgia a tutte le persone a lui care ma, con la nuova consapevolezza che scorreva dentro la sua essenza, sapeva di non doverne essere rattristato perché sarebbero ritornati tutti, prima o poi. Doveva iniziare e ricreare tutto già da quel momento? Decise che non ne aveva poi così tanta voglia e si rivoltò un po’ su se stesso, sospeso nel vuoto. Girò e rigirò, con estrema lentezza e rilassatezza, prima di fermarsi. Mise le braccia e le mani dietro la testa, come fossero una sorta di cuscino, e chiuse gli occhi, consapevole del fatto che la vista non sarebbe cambiata di certo. Nero su nero. Sbatteva le ali e gli pareva di nuotare in un mare leggero ed incorporeo. Davvero una sensazione bellissima! Sbadigliò e si accorse di essere molto stanco, stremato, e che finalmente aveva la possibilità di poter riposare senza correre il rischio che i suoi fratelli, Kaos e Destino, litigassero a vanvera come sempre. Dopo millenni, si rilassò completamente e si addormentò, lasciandosi cullare dal nulla eterno.

 

Si risvegliò parecchio tempo dopo, ristorato e pieno di energia come non si sentiva da Ere intere. Sbadigliò, stiracchiandosi, e poi sorrise. Si concentrò per qualche istante, prima di spalancare gli occhi dorati. Questo spezzò le immense tenebre, generando la luce. In un solo istante, Kavahel concepì Universi tutti nuovi, con regole che lui stesso stabilì. Rise, e quel suono fu il primo che si espanse nella neonata aria degli Universi. Avrebbe ricreato tutto, come aveva sempre desiderato, anche se, grazie alla sua capacità acquisita con l’aiuto di Krì, sapeva di doversi mettere dei limiti perché alcune cose non potevano coesistere, come invece aveva sempre sognato. Volava, con le grandi ali che splendevano della luce d’oro che emanavano le stelline che stava creando. Ed, attorno a loro, pianeti, satelliti, sistemi complessi in connessione l’un con l’altro e corpi celesti pieni voglia di vita.

Percepiva i loro cuori pulsanti e vivi e questo lo riempiva di orgoglio. Non era necessario che facesse altro. La forza generatrice, che aveva infuso in ogni Pianeta, stava creando da sé tutto ciò che gli serviva. Kavahel sapeva che ora tutto era iniziato e che quell’immensa forza, che ammetteva di aver sottovalutato a lungo, avrebbe dato vita ad ogni cosa, dalle piante fino agli Dèi. Come il suo fratellastro Kevihang, la prima generazione di Dèi sarebbero nati dall’elemento stesso che avrebbero dovuto poi controllare e proteggere. Ora poteva sentire la voce della Madre Terra, la potenza generatrice che bisbigliava dentro ad ogni pianeta, stella, satellite e corpo celeste. La sentiva e ne rimase deliziato, stupito egli stesso di essere riuscito a donare una voce così bella e meravigliosamente intonata. Una nota sbagliata avrebbe voluto dire qualcosa di poco corretto nell’evoluzione. Perfettamente consapevole che qualche stonatura doveva esserci, perché la perfezione portava all’immutabilità ed all’auto distruzione con la mancanza di stimoli e cambiamenti, emise delle particolari vibrazioni con le ali e lasciò che queste, leggermente stonate, si espandessero per gli Universi. Dopodiché, soddisfatto di se stesso e del suo operato, si rilassò di nuovo, facendosi cullare dal buio e dalle vibrazioni emesse da tutto ciò che si sviluppava attorno al suo esile corpo fluttuante. Si stiracchiò e tornò ad addormentarsi, agitando leggermente le orecchie a punta ed accarezzandosi le piume con il dorso delle mani

 

Si svegliò parecchio tempo dopo, anche se a lui non sembrava di aver tenuto gli occhi chiusi così a lungo. La prima cosa che notò fu che i Pianeti e le stelle erano stabili, non solo masse ancora da plasmare e da definire. Seguivano la loro bella traiettoria e brillavano di vita e meravigliosa luce. Kavahel, compiaciuto, si accorse che, accanto a sé, ora era aperto un grosso libro. Nonostante fosse rimasto immobile, avvolto dal torpore e dal silenzio che desiderava, la sua mano aveva scritto fra quelle pagine bianche tutto quello che era avvenuto fin ora. Lesse, affascinato, soddisfatto anche dell’evidente esistenza di un nuovo Dio delle Letterature, essendo presente quel libro. Si chiese, per un istante, chi avesse mai potuto governare la sua mano per riportare quegli eventi e se il suo scritto aveva in qualche modo influenzato il presente e gli accadimenti passati. Sorrise, comprendendo la frase che ripeteva sempre Kasday: “Ci sarà sempre qualcuno al di sopra di te”. Non sapeva chi fosse, e non era sicuro che qualcuno effettivamente esistesse al di sopra della sua entità, ma lo faceva sentire meno solo, meno responsabile, l’idea che lo accompagnasse e guidasse qualcun altro. Ora comprendeva anche perché i mortali volevano gli Dèi e perché le potenze creatrici dei Pianeti li creassero: erano presenze rassicuranti, da un lato, e perfetti capri espiatori dall’altro. Guardò giù, verso uno dei Mondi sottostanti, mentre la sua mano continuava a scrivere, e decise di dare un’occhiata, cosa che non aveva mai fatto da particolarmente vicino. Sbatté le grandi ali blu, che si dischiusero come fece l’uovo che lo racchiudeva alla nascita, e puntò i suoi occhi verso un grande edificio nero, che si stagliava nel cielo con le sue torri irregolari. Aveva un’aria decisamente familiare. Kavahel guardò dentro una piccola finestra tutta storta e sbirciò gli occupanti della stanza. Era un’ampia sala molto singolare, con pareti storte, pavimenti diagonali, strane protuberanze ed una gran confusione.

“Ti vedo più calmo del solito questa sera. Anzi…ti vedo tranquillo come mai prima d’ora!” sentì parlare da un punto imprecisato di quello stanzone assurdo.

“Vaffanculo” fu la risposta, e Kavahel si sforzò di capire chi fosse stato a parlare.

Un giovane Dio del Kaos sedeva, sul suo trono a spuntoni e fronzoli eccessivi, reggendosi la testa con la mano destra. I suoi lunghi capelli, vaporosi e senza contorni definiti, galleggiavano in aria come nebbia e solo i suoi occhi azzurri si potevano distinguere nei suoi tratti somatici. Tamburellava le dita della mano libera sui braccioli, dopo essersi sistemato l’alto colletto nero. Kavahel constatò che, data la giovinezza del Dio del Kaos, una delle prima entità generate solitamente, quell’Universo non poteva esistere da molto. Il Dio del Tempo, colui che aveva parlato per primo, era leggermente più giovane del Kaos e fluttuava in aria, avvolto da una veste grigio chiaro a sfumature ed i capelli arricciati con il simbolo dell’infinito. In mano reggeva il suo pendolo color rubino che muoveva, avanti ed indietro, ogni secondo. Il Kaos ruotò gli occhi, scocciato.

“Piantala con quel pendolo, Tempo! Mi fai veramente incazzare…” sibilò il Kaos.

“Ti faccio inKaosare? Mi fa davvero piacere!” rispose il Tempo, ridacchiando.

“Non sei divertente!” sbottò il Disordine, prima di girarsi verso una bambina che lo fissava con grandi occhi sognanti.

“Stellina!” sbottò, rivolto al Dio del Sole “Potresti riprenderti tua figlia? Mi da sui nervi!”.

Il Sole richiamò a sé la sua bambina e Kavahel sorrise. Lui sì che aveva un’aria decisamente familiare! Ed anche la sua consorte, la Dea della Luna. Ed i loro tre figli, un altro Sole, una piccola Luna e la Speranza, che fissava il Kaos, mostravano tutti i loro geni divini. Il Sole, con la sua veste rossa, i capelli a fiamme che si agitavano in aria ed i tatuaggi infuocati dipinti sul corpo, baciò delicatamente la sua sposa sul dorso della mano, guardandola incantato con i suoi occhi rossi e guizzanti.

“Non dovresti permettere ad una bambina così piccola di starmi tanto vicino…” lo rimproverò il Dio dai contorni indefiniti.

“Lei è la Speranza, non posso impedirle di sostenerti” rispose il Sole, con voce calma e felice.

“Non ho bisogno di sostegno!”.

“Strano…perché a noi sembra di sì” esclamò la Luna.

“Sto bene. Come vedete, sono calmissimo” ringhiò il Kaos.

“Dev essere la tua natura” riprese a parlare il Tempo “Il Kaos, quando tutto va bene, è agitato e nervoso. Quando invece ha motivo di preoccuparsi se ne sta tranquillo e mogio”.

“Mi vien voglia di mandarti di nuovo in quel posto” fu la risposta del Dio dagli occhi azzurri.

Si alzò e si diresse verso il suo primogenito, Dio delle Paure e dei Sogni, prendendolo in braccio.

“Tornatene alle tue stelle, uomo lucetta, io qui sto benissimo!” ordinò al Sole.

“Io non comando solo le stelle, ma anche i vulcani, il fuoco e tutto ciò che ad esso è legato”.

“Conosco le tue credenziali. Ero piccolo quando sei nato ma c’ero, ricordi?”.

“Come dimenticarlo? La tua brutta faccia appena nati non la scorda nessuno!” ridacchiò il Tempo.

Non avevano un nome, erano divinità antiche a cui gli uomini, i mortali, avevano dato un nome ma, non essendo generati da genitori ma dalla magia stessa, non potevano far altro che darsi il nome dell’entità che li avvolgeva alla nascita. Solo le divinità nate con i mortali, come il Dio delle Letterature e la Dea della Guerra, avevano un nome proprio perché nate dai pensieri degli umani. Li chiamavano “quelli della seconda generazione”, perché della prima facevano parte entità come il Tempo, la Luce, il Kaos, il Sole… La terza, ovviamente, era composta da tutte le creature figlie di questi due primi gruppi.

Kavahel, osservandone i volti, ne riconosceva i tratti. Non erano proprio identici a come li ricordava, differivano di qualche particolare, ma capiva che la loro essenza era la stessa dell’Universo in cui lui era cresciuto. Sicuramente il Tempo era lo stesso che, quand’era bambino, veniva a trovare i suoi genitori e giocava con lui ed i suoi fratelli. Ed il Kaos, non poteva giurarlo perché era molto piccolo l’ultima volta che lo aveva visto, ma assomigliava molto a suo nonno, il padre del suo genitore Kasday. Sicuramente gli occhi erano gli stessi. Era certo che la Luna fosse Selene, come altrettanto sicuro era che il Sole forre Rikarathör. E si stupì di ciò che provava. Non era più il Dio dell’Equilibrio pieno di rancore, tristezza e paura che era un tempo. Era come se ora il cammino gli si mostrasse chiaro davanti a sé. Ogni cosa era accaduta per un preciso scopo e non importava più se, quella volta, aveva provato rabbia o timore nei confronti di creature che vedeva in quella stanza. Capiva che il Dio del Kaos svolgeva il suo ruolo ed era quello il suo compito, anche se era spaventoso e raccapricciante a volte ciò che faceva. Capiva che il Sole, nonostante tutte le stupidaggini che aveva commesso nella sua vita precedente, aveva agito come avrebbe dovuto e che d’ora in avanti sarebbe stato un grande Dio. Si chiese fra quanto avrebbe visto Mihael nei panni di Dio della Guerra e ridacchiò ripensando a come sarebbe stata generata la propria essenza, da Dio dell’Equilibrio, in quel nuovo Universo. Forse non era destino che accadesse, forse lui doveva restare come eterno supervisore. L’idea non gli dispiaceva affatto! Era stanco di fare la guardia a Kaos e Destino, ed il silenzio era una cosa che ormai apprezzava sopra ad ogni altra.

La Dea della Vita, luminosa, splendida e sorridente, entrò nella stanza stringendo un fagottino avvolto in una stoffa bianca. Kavahel chiuse il libro che aveva accanto a sé e ne ripose la penna blu, staccata dalle sue ali, con la quale aveva scritto per tutto quel tempo. Guardando quel fagotto, infatti, aveva capito che la storia, d’ora in poi, avrebbe proseguito il suo corso anche senza il suo aiuto. Si avvolse nelle ali e sorrise a quel minuscolo neonato, dagli inconfondibili occhi azzurri.

Il Kaos lo guardò con disgusto, avendo già deciso come disfarsene, e Kavahel volò via, dando le spalle a quella creatura, sicuro che, da qualche parte, in qualche altro Pianeta, un piccolo Luciherus la stesse aspettando.

 

FINE

 

 

Grazie a tutti per aver seguito la storia per intero! Mi fate sapere quale personaggio preferite? :) La trilogia termina così. A seguito, per “semplificarvi la vita”, ho inserito tutti i personaggi di tutti e 3 i racconti.

 

 

INDICE DEI PERSONAGGI E DEI NOMI

 

Fra parentesi il numero del volume in cui compaiono o vengono citati.

 

Ø  ABIGOR: Demone soldato a servizio del Principe dei Demoni. (1)

Ø  ABRAMIAN: Nome da creatura senza magia del NUOVO EQUILIBRIO. Giovane, al primo anno dell’Università, ha capelli corvini ed occhi azzurri. (1)

Ø  ADAHEL: Nome da demone del NUOVO EQUILIBRIO. Ha capelli neri, a riflessi rossi, ed è l’unico della sua specie ad avere gli occhi azzurri. Ha l’aspetto sproporzionato, gracile e magrolino. Ha una cicatrice sul cuore, conseguenza della ferita della precedente reincarnazione da angelo KASDAY. È il padre di AGARES, compagno di LILIM, cognato di LUCIHERUS/SATANAHEL. Corna e coda, rosse, e ali, sono troppo grandi rispetto al resto del suo corpo. Adora ballare ed ha una bella voce. (1)

Ø  ADANAK: Demone guardiano ai cancelli del palazzo del Principe dei demoni. Massiccio, con occhi rossi e piuttosto stupido, almeno così sembra. (1)

Ø  AERIMANIOS: Nome del DIO della PAURA e dei SOGNI. (3)

Ø  AGARES: Demone figlio di ADAHEL e LILIM. Ha gli occhi neri, i capelli blu scuro e la pelle bianca, come la madre. Le sue corna rosse si arricciano ad ariete nel demone adulto, che diventa Messaggero degli ALTI. (1,2,3)

Ø  AJEDREZ: Nome del Dio del DESTINO, gemello di NIEBLA, la DEA del KAOS, figlio di VEREHEVEIL e KASDAY. È detto PRINCIPE BIANCO. (3)

Ø  ALTI: Divinità superiori, supreme. Si mostrano, nel primo volume, come esseri avvolti da un’intensa luce bianca, indefinita, e dalla voce profonda. Non prestano molta attenzione alle preghiere di chi li invoca. Alcuni di loro sono antiche divinità semplici divenute più sagge e potenti. Oppure che hanno trascorso la loro esistenza e si sono stancate di fare fatica! Dal numero due in poi si contraddistinguono per l’aspetto inquietante. Cambiano aspetto, cercando di assomigliare il più possibile alle creature che li venerano. Il loro punto debole è il cuore: un oblò azzurrò in cui si vede scorrere la loro magia. Non presentano tratti di distinzione sessuale. A capo di tutti loro nel due c’è MOMOIA ed i loro nomi noti sono FEHU, JERA, HAGALAZ, DAGAZ, ANSUZ, RAIDO e TANAZ. (1,2,3)

Ø  AMORE (Dio del): Dio protettore delle unioni e delle amicizie. (1,3)

Ø  ANSUZ: Nome che è stato dato all’Alto Krì. (2,3)

Ø  ARIA (Déi del): Divinità che controllano gli eventi atmosferici. (1)

Ø  ARMI (Dea delle): Dea figlia del Dio del KAOS e della Dea della GUERRA, sorella minore del NUOVO EQUILIBRIO e del Dio della PAURA E DEI SOGNI. Ha i capelli lunghi, neri, e gli occhi scuri, sempre accigliati. Veste con i colori del sangue, attorniata dagli armamenti. Ha una freccia per simbolo. (1,2,3)

Ø  ASMODAI: Demone a capo delle guardie del Principe LUCIHERUS/SATANAHEL. Ha l’aspetto massiccio e porta sempre il mantello. Diverrà di nuovo un angelo per amore di SARAH. (1,2,3)

Ø  AZAZEL: Angelo caduto, araldo di LUCIHERUS/SATANAHEL. Veste in nero e rosso. Soffre il freddo ed impreca contro la bandiera del suo capo. Gli verrà affidato CERBERO, il cane del suo signore. È il fratello minore di RAVEN. Nel numero tre serve MIHAEL. (1,2,3)

Ø  BALAM: Demone soldato a servizio del Principe dei Demoni. (1)

Ø  BELZEBU’: Demone al seguito di LUCIHERUS, di cui si augura la sconfitta e l’allontanamento. Ha gli occhi da mosca ed è un gran lecchino. (2)

Ø  BERKANA: Piccola Celeste, figlia di DEYAN, con i capelli bianco latte ed enormi occhi fuxia. Romperà le scatole ad HAGALAZ, nel secondo volume, fino a quanto questi non acconsentirà ad aiutarla, salvandone la madre. Crescendo diverrà la sposa di KRI’ e la madre di KUETZALIKAY. (2,3)

Ø  BETZY: Nome della spada di MIHAEL. (3)

Ø  CAMAHEL: Arcangelo dell’amore puro, con le ali dorate. Ha una delle voci più belle e dolci del regno degli angeli. Ha i capelli rosso scuro. Fa da insegnante e tutore ad ELENIEL. (1,2,3)

Ø  CELEBRAZIONI (Dio delle): Detto anche Dio delle Feste, ricorda tutti i compleanni e le ricorrenze, anche se tutti si dimenticano di lui. Veste in modo assurdo ed è petulante. (2)

Ø  CELESTI: Creature simili agli ALTI, loro corrispondenti. Vivono in un universo parallelo. Fra loro ci sono BERKANA e DEYAN. (2)

Ø  CERBERO: Il cane a tre teste di LUCIHERUS. Enorme ed affidato ad AZAZEL. (2)

Ø  CIELO (Dio del): Il ruolo che assumerà URIHEL grazie a KASDAY. (2,3)

Ø  CREATORI: Una delle categorie in cui sono divisi gli Alti ed i CELESTI. Sono coloro che sono in grado di generare vita e far nascere altri ALTI e nuovi Mondi/Universi. (2)

Ø  DAGAZ: ALTO dal volto d’uccello ed il busto d’insetto, con piccole zampette. Il suo addome, d’ape, ha occhi lucenti e gambe sottili a sostenerlo. (2)

Ø  DAMHAR: Demone guardiano ai cancelli del palazzo del Principe dei demoni. Sembra stupido tanto quanto il suo collega ADANAK. (1)

Ø  DARAM: Nome del DIO del SOLE, padre di SELENE e RIKARATÖR (3)

Ø  DENIAN: Gruppo di divinità al cui capo sta la Dea del DESTINO. Il loro simbolo è una spada. Non si sa esattamente quante e quali divinità appartengano a quel gruppo. (1)

Ø  DESTINO (Dea del): Dea a capo dei DENIAN e una delle creatrici, padrona del regno degli angeli. Dona agli Arcangeli l’immortalità. Il suo simbolo è un occhio diagonale. Porta i capelli raccolti in una treccia verde scuro a riflessi dorati, tre occhi viola, di cui uno al centro della testa, e due sferette che le ruotano continuamente attorno al suo capo, mandandole immagini del futuro. Vive in un grande palazzo a specchi, riflettente. Non si separa mai dalla sua sfera di cristallo. Era amante del Tempo, prima di conoscere VEREHEVEIL. È la rivale del KAOS: La sua creatura è un pavone con molti occhi. Dopo la battaglia finale diviene divinità triplice, fondendosi con il KAOS e il NUOVO EQUILIBRIO. (1)

Ø  DESTINO (Dio del): Ruolo di Ajedrez, figlio di VEREHEVEIL e KASDAY, gemello di SKRICH, la DEA del KAOS. Tenta invano di sconfiggerla. Ha i capelli verde acqua, come quelli del suo fratello maggiore KAVAHEL, dal quale cerca di imparare l’arte del combattimento. Scrive tutto ciò che accadrà su rose bianche. (1,2,3)

Ø  DEYAN: Corrispondente Celeste di HAGALAZ e madre di BERKANA. Ha il corpo di due colori e i capelli bianchi. I suoi tre occhi sono due fuxia e uno azzurro. (2)

Ø  DIRI-HIUVA: Uno dei nomi di RAIDO. (2)

Ø  DISTRUTTORI: Una delle categorie in cui sono divisi ALTI e CELESTI. Sono coloro il cui compito e portare alla fine le vite ed i Mondi. (2)

Ø  ELEIAN: Dio della Vita, figlio di ELENIEL e SAMHIAN, e sposo di LUCIHEDAY, padre di HEKET. (2)

Ø  ELENIEL: Cherubina dalle ali rosse, nasce assieme a KASDAY, VEREHEVEIL E SAMHIAN, di quest’ultimo diverrà la moglie. È bionda, con gli occhi blu e gli abiti pastello. Viene istruita da CAMAHEL e diviene prima insegnante di canto e poi Dea della PACE. Avrà un figlio, il Dio della VITA. (1,2)

Ø  EMANAZIONI: Creature generate da HAGALAZ/KASDAY per compagnia personale o per controllare altre persone da lui conosciute. Ognuna di loro ha parte della sua essenza. Fra loro stanno SARMORGHELL e SHEKINAH. (2)

Ø  ENRIKIRAN: Secondo figlio di VALEK-HITEIA, dopo RIKARATÖR. Ha per padre il DIO dell’INVERNO ed è il Semidio dell’Acqua e del Gelo. Suona una specie di chitarra ed è in grado di ricoprirsi di ghiaccio. (3)

Ø  EQUILIBRIO (Dio del) ANTICO: Divinità precedente e maestro del NUOVO EQUILIBRIO. Ha occhi color grigio perla e capelli come il latte. Anche lui ha subito reincarnazioni nei vari mondi, acquisendo un paio di corna azzurre e le ali da angelo, che però gli furono strappate in uno scontro, lasciandogli solo due cicatrici. È il fratello minore del KAOS ed è un creatore. Muore ucciso dal fratello maggiore ed in seguito alla lunga malattia che ha dovuto subire a causa dei conflitti di KAOS e DESTINO. Ha una voce indefinita, a metà fra il maschile ed il femminile, e zoppica. Ha per creatura un gatto alato blu e porpora. EREZEHIMSAY è il suo Messaggero. (1)

Ø  EQUILIBRIO (Dio del): Acquisisce il suo potere dopo aver trascorso varie reincarnazioni nei diversi mondi. Come angelo porta il nome di KASDAY, come demone di ADAHEL e come creatura senza magia quella di ABRAMIAN. È figlio della Dea della GUERRA e del Dio del KAOS, fratello minore del Dio della PAURA e dei SOGNI e la sua sorella minore è la Dea delle ARMI. Ha i capelli neri, le corna rosse e le ali blu. Come il padre e la figlia LUCIHEDAY, ha gli occhi azzurri. Avrà un figlio con VEREHEVEIL che chiamerà KAVAHEL. Dopo la battaglia si unirà nell’essenza con gli altri due creatori, divenendo una divinità triplice. EREZEHIMSAY e NOSMAGIES svolgono il ruolo di suoi Messaggeri. Per simbolo ha un rombo. Cambia forma, da maschio a femmina, a suo piacimento. (1,2,3)

Ø  EQUILIBRIO (Dio del) NUOVO: KAVAHEL avrà principalmente questo ruolo, divisore fra i suoi due fratelli NIEBLA e AJEDREZ. (2,3)

Ø  EREZEHIMSAY: Angelo Messaggero dalle ali d’argento. Servirà entrambi gli Dèi dell’EQUILIBRIO. È capace di suonare il violino. Veste di porpora ed ha gli occhi color del rame, con capelli arancio a riflessi violetti. Il suo nome significa “sempre sorridente”. È disposto a morire per la divinità che serve. Impara a pregare grazie al NUOVO EQUILIBRIO. (1,2)

Ø  ESPERO: Uno dei nomi di RAIDO. (2)

Ø  ESTATE (Dio dell’): Veste, assieme alla PRIMAVERA, tutte le divinità. È descritto come un Dio massiccio e deciso. Padre di MARINDITI-YA e maestro di RIKARATÖR. (2,3)

Ø  FAMIGLIA E FIGLI (Dea della): Compare solo alla riunione generale organizzata dalla nuova divinità creatrice EQUILIBRIO. (1)

Ø  FEHU: ALTO privo di bocca, parla con il pensiero, e con il corpo per metà equino. Ha otto braccia, due con le chele e sei tentacoli. La sua coda è quella di uno scorpione e ha le antenne terminanti con due fiori. I suoi occhi escono dal volto. (2)

Ø  FIGLIO DEI MORTI: Nome dato a KEVIHANG a causa del disegno di teschio che porta sul viso. (3)

Ø  FLEAVIA: Figlia adottiva di VEREHEVEIL. È un sangue misto, figlia di due angeli caduti. Sfuggita alla cattura, viene salvata dall’angelo e accudita. È bionda come una creatura angelica ma presenta anche tratti demoniaci. Diventerà, da grande, la Messaggera del Dio delle LETTERATURE e la sposa di AGARES. (1,2)

Ø  FORZA E CORAGGIO (Dio di): Ruolo che assumerà LUCIHERUS grazie a MOMOIA. (2,3)

Ø  GEHENNA: Nome del tempio del mondo dei demoni. (1,2)

Ø  GIBRIHEL: Arcangelo, dalle ali dorate e dai capelli biondi, delle annunciazioni e dei messaggi. È allergico ai gigli, nonostante sia uno dei simboli che lo contraddistinguono. Da giovane stava in classe con gli altri Arcangeli. Diverrà maestro di nuove divinità, prima di cadere assieme a MIHAEL per essersi rifiutato di uccidere innocenti. (1,2)

Ø  GIUSTIZIA (Dio della): Divinità che si intrattiene con LILITH. (2)

Ø  GUARDIE: EMANAZIONI di KASDAY che ne sorvegliano il palazzo (2)

Ø  GUERRA (Dea della): MENERIVA. Moglie dell’ANTICO KAOS; madre delle divinità delle ARMI; della PAURA e dei SOGNI e dell’EQUILIBRIO (Kasday). Porta i capelli corti, che sono neri come i suoi occhi. Veste con i colori dell’acciaio e del sangue. Ha per simbolo una linea spezzata. (1,2,3)

Ø  HAINUET: Gruppo di divinità con a capo il KAOS. La loro arma è una lancia. (1)

Ø  HAGALAZ: Il nome da ALTO di KASDAY. Ha le antenne, sette braccia (uno rosso di fuoco che scalda, uno trasparente di ghiaccio/vetro che congela, uno grigia di roccia e metallo che distrugge, uno verde d’acqua che crea liquidi, uno rosa e delicato che crea, due blu d’aria che si ricoprono di piume per farlo volare). Su ognuna delle sue mani si apre un occhio di colore diverso. Come tutti gli ALTI, ha l’oblò azzurro in corrispondenza del cuore. Tutto il suo corpo è diviso a metà fra il bianco e il nero. Ha quattro gambe, due che aveva in precedenza di colore l’una bianca e l’altra nera, e due simili a tronchi d’albero. Tre code, una da gatto, una da uccello azzurro e una da coccodrillo. I suoi occhi, sul viso, sono tre: due enormi e azzurri, uno più piccolo e fuxia che si apre nel centro della fronte. Ha lunghe sopracciglia e orecchie a punta. Cambia il suo aspetto a suo piacimento. Se arrabbiato fa spuntare le corna ed i capelli corvini gli si gonfiano, vivi. Presenta inoltre la lingua biforcuta ed i denti a punta. Buona parte del suo corpo è velenoso. Creerà EMANAZIONI per accontentare le preghiere delle persone che amava. Vuole morire e ci riesce, alla fine del due, per essere presente come semplice essenza nel numero tre in forma femminile (2,3)

Ø  HEKET: Dea della Vita, figlia di LUCIHEDAY ed ELEIAN. (3)

Ø  INVERNO (Dio del) Antico: Divinità che cambia le stagioni assieme alla Dea dell’estate, con cui litiga periodicamente. (1)

Ø  INVERNO (Dio del): Padre di ENRIKIRAN e fratello del DIO DELL’ESTATE. (3)

Ø  IÙNO CAELÉSTIS: Nome della Luna del Pianeta degli Angeli. (3)

Ø  KADMON: Il padre di LUCIHERUS e MIHAEL, leggendaria prima creatura del regno degli Angeli, dalla bellezza e dalla potenza straordinarie. (2,3)

Ø  KAOS (Dio del) ANTICO: E’ il Dio del Disordine e della mancanza di logica. Uno dei creatori, fratello maggiore dell’ANTICO EQUILIBRIO e marito della Dea della GUERRA. È padre della Dea delle ARMI, del Dio della PAURA e dei SOGNI e del NUOVO EQUILIBRIO: terminata la battaglia finale si fonderà con il suo secondogenito, l’EQUILIBRIO, e alla Dea del DESTINO, formando una divinità triplice. Non ha tratti somatici definiti ed è sempre avvolto da una luce nera e nebbiosa. I suoi occhi sono azzurri e le mani sono affilate e taglienti. La sua creatura è un corvo dagli occhi turchini ed il suo simbolo è una spirale nera. Aiuta LUCIHERUS, chiamandolo SATANAHEL, dopo la caduta dell’Arcangelo. È il controllore del Mondo dei Demoni. (1,2,3)

Ø  KAOS (nuovo): NIEBLA. E’ la figlia di VEREHEVEIL e KASDAY, detta anche SKRICH per via del suo corpo minuto. È una divinità piccina, dalla pelle nera e dagli occhi dorati. Sconfigge sempre il suo fratello gemello DESTINO. Innamorata, forse, di KUETZALIKAY, farà di tutto per poterlo avere. (2,3)

Ø  KASDAY: Nome angelico dell’EQUILIBRIO e dell’ALTO HAGALAZ. Serafino. Ha l’aureola di due colori, blu e rosso cupo, sei ali blu e gli occhi azzurri. Il suo nome significa “occhi del Kaos”. Ha capelli neri a riflessi blu, viene addestrato da LUCIHERUS. (1,2,3)

Ø  KAVAHEL: Figlio del Dio delle LETTERATURE e dell’EQUILIBRIO, di cui prenderà il ruolo. È detto FIGLIO DEI MORTI. Ha gli occhi dorati ed i capelli verde acqua. In mezzo alla fronte porta un corno rosso e ha le ali piumate blu. È la divinità che rimarrà dopo la fine dei Mondi. Nasce da un uovo, creato dalla magia dei genitori. (1,2,3)

Ø  KEVIHANG: figlio di LUCIHERUS e KASDAY, nato con le loro lacrime ed il loro sangue, cresce come orfano. Ha i capelli blu scuro, con due ciuffi rossi, gli occhi aranciati ed un complicato disegno di filo spinato/gambo di rosa con un teschio sul viso. Ha una lunga coda rossa e morbida, le corna scure ed apprende il modo di mutare forma grazie al suo immenso ed incontrollato potere. Verrà adottato dalla famiglia di RIKARATÖR, che gli farà anche da maestro. (3)

Ø  KIARITANYA: Messaggera di KRI’. Porta la bandana e parla in modo strano. Segue il suo Signore cavalcando uno strano animale giallo. Pur essendo una creatura angelica, odia Angeli e Demoni e vorrebbe perdere le ali. (2,3)

Ø  KRI’: ALTO (ANSUZ) dalla pelle blu e con quattro braccia. Ha tre occhi, serpenti sulle spalle e fiori di loto fra i capelli. Le sue piccole corna sono rivolte verso il basso. È bravo ad usare l’arco e le frecce. La sua messaggera è KIARITANYA ed ha un fratello dalla pelle aranciata. È il padre, assieme a BERKANA, di KUETALIKAY con cui, però, entra spesso in conflitto. Maniaco delle regole, finirà per divenirne schiavo. (2,3)

Ø  KUETZALIKAY: Alto, figlio di KRI’/ANSUZ e BERKANA. Ha la pelle verde, ricoperta di disegni geometrici regolari color dell’oro, le piume rosse al posto dei capelli, la lingua biforcuta, gli occhi gialli e la bocca grande. Ha la coda che termina a sonaglio, che agita se nervoso. In eterno conflitto con il padre, finiranno per scontrarsi. (3)

Ø  JERA: ALTO con due teste, una da cane e l’altra umana, la prima senza occhi e la seconda senza bocca. Il suo busto è un tronco in legno e le sue gambe tentacoli. (2)

Ø  LARIAN o LAMIAN: Demoniessa degli occhi verdi e i capelli rossi che si confonde fra le creature senza magia. Porta una maglia con la scritta: io non sono qui. Incontra ABRAMIAN all’Università. (1)

Ø  LETTERATURE E LINGUE (Dio delle): Il ruolo che prenderà l’angelo VEREHEVEIL, in seguito all’incontro con l’ANTICO EQUILIBRIO. Sul petto ha tatuato vari sistemi di scrittura e sul viso ha disegnato raggi neri. Emette una luce verde. A parte questo, il suo aspetto non cambia rispetto a quando non era una divinità. (1,2,3)

Ø  LILIM: Demoniessa, compagna di ADAHEL e madre di AGARES, che diverrà la guardiana delle anime. È sorella di LILITH e, come lei, è stata creata dal KAOS per diletto e distrazione del Dio. Ha la pelle bianca, gli occhi neri ed i capelli blu scuro. È brava a ballare ed a realizzare miniature. (1,2)

Ø  LILITH: Compagna di LUCIHERUS/SATANAHEL, sorella di LILIM. Indossa solo un lungo serpente, regalo del Principe. Ha la pelle bianca, gli occhi grigi, i capelli vermigli e ricci. Anche lei, come la sorella, è stata creata per diletto dal KAOS. (1,2,3)

Ø  LOREATEHENZI: Terzo figlio di VALEK-HITEIA, dopo RIKARATÖR ed Enrikiran. Suo padre è URIHEL, e diviene il Semidio del Cielo e dell’Aria. È in grado di volare e comandare l’aria. Ha i capelli lunghi, che restano sospesi a mezz’aria quasi sempre, il pizzetto e veste sempre di nero. (3)

Ø  LUCIHEDAY: Figlia della forma femminile di KASDAY, del KAOS e di LUCIHERUS. Emette una forte luce rossa, ha gli occhi azzurri ed i capelli vaporosi ed indefiniti. Porta la falce. Diverrà Dea della Morte. Sposerà ELEIAN, DIO della VITA, con il quale avrà HEKET, DEA della VITA. (1,2,3)

Ø  LUCIHERUS: Nasce come Arcangelo, il più bello, cugino di KASDAY. Ha i capelli scuri e gli occhi arancio. L’occhio sinistro ha la pupilla sottile a causa dell’esposizione ai libri proibiti del regno degli angeli. Viene maledetto e cacciato nel mondo dei demoni dove, grazie al KAOS che lo chiamerà SATANAHEL e lo renderà immortale, diverrà Principe. È il compagno di LILITH e, in forma demoniaca, ha la coda e le corna nere. Di solito trangugia alcolici o fuma sigarette, sicuro della sua immortalità. Si scontrerà più volte con MIHAEL. Si irrita facilmente, specie con gli angeli. Ha i piedi a punta, a cui spunteranno gli artigli, e la esse sibilante. Probabile padre di LUCIHEDAY. Verrà liberato dal controllo del KAOS da KASDAY. Diverrà DIO della FORZA e del CORAGGIO. È padre di KEVIHANG. (1,2,3)

Ø  MALAPHAR: Demone guaritore. (1,2)

Ø  MARE (Dea del): Compare solo alla riunione generale organizzata dalla nuova divinità creatrice EQUILIBRIO. (1)

Ø  MARINDITI-YA: Semidea della Terra, figlia di VALEK-HITEIA e del DIO dell’ESTATE, sorella minore di RIKARATÖR, ENRIKIRAN e LOREATEHENZI. È innamorata del fratello maggiore, figlio del SOLE, che vorrebbe tutto per sé, gelosa di SELENE. Ha i capelli color del grano ed il suo corpo è prosperoso ed attraente. (3)

Ø  MEMORIA: Divinità che toglie i ricordi a VEREHEVEIL, dopo la sua caduta. Appare come un ombra ed è al servizio del KAOS. Diviene sposa del DIO del TEMPO, con il quale avrà 24 figli (le ORE). Nel terzo volume riposa, assieme al marito, in un torpore eterno dal quale non uscirà. (1,2,3)

Ø  MENERIVA: Nome della Dea della Guerra, madre di KASDAY e sposa del KAOS. (1,2,3)

Ø  METATRON: Angelo altissimo, diviene un insegnante nel mondo delle creature senza magia. Lo incontra ABRAMIAN e gioca in spiaggia nel numero due. (1, 2)

Ø  MIHAEL: Arcangelo guerriero, con la veste più corta rispetto ai suoi colleghi. Porta sempre con sé una spada con l’elsa dorata, BETZY. Predilige i colori caldi. Cadrà assieme a GIBRIHEL e diverrà il Principe del regno dei Demoni, prendendo il posto del fratello gemello LUCIHERUS. Verso la fine sarà anche Dio della Guerra. (1,2,3)

Ø  MOMOIA: La Madre ed il capo supremo degli ALTI. Ha ali da farfalla, vita sottile, tentacoli al posto delle braccia, una lunga cresta verde lungo tutto il corpo e orecchie da gatto. È colei che permette agli ALTI morti di rinascere. Assieme a TANAZ, è la madre di SOWELO. (2)

Ø  MORTE (Dea della) ANTICA: Divinità presente alla nascita dell’EQUILIBRIO KASDAY e che lascerà il posto a LUCIHEDAY, una volta stanca del suo ruolo. Nessuno ha mai visto il suo volto né sa a quale sesso appartenga. (1)

Ø  MORTE (Dea della) NUOVA: Ruolo svolto da LUCIHEDAY, con una lunga falce ed un abito aderente e nero. Ha la coda da demone. (1,2,3)

Ø  NATURA (Dea della): Compare solo alla riunione generale organizzata dalla nuova divinità creatrice EQUILIBRIO. (1)

Ø  NESIDEY: Stella del Pianeta dell’EQUILIBRIO KASDAY che diviene perno centrale del sistema di pianeti rimasti in vita nel terzo volume. (1,3)

Ø  NIEBLA: Nome della DEA del KAOS, figlia di VEREHEVEIL e di KASDAY, gemella di AJEDREZ, il DIO del DESTINO, sorella minore di KAVAHEL. È detta PRINCIPESSA NERA. (3)

Ø  NOTTE (Dea della): Divinità presente alla nascita del NUOVO EQUILIBRIO. Diverrà sposa del Dio della PAURA e dei SOGNI. (1,2,3)

Ø  NOSMAGIE'S: Messaggero dell’EQUILIBRIO KASDAY. Ha i capelli magenta e gli occhi di giada. Nonostante la morte del suo padrone, nel terzo volume continuerà a svolgere il suo ruolo con devozione e malinconia. (1,2,3)

Ø  ORE: I 24 figli del DIO del TEMPO e della DEA della MEMORIA. Hanno i numeri fra i capelli e le pelle con i colori del cielo nelle varie fasi della giornata. Anche loro, come i genitori, rimarranno bloccati in un torpore eterno. (2)

Ø  PAROLE E SUONI (Dea della): Sposa di VEREHEVEIL, con il quale avrà numerosi figli. Non sopravvivrà al gelo dell’Era successiva alla morte di Kasday. (1,2)

Ø  PAURA E SOGNI (Dio della): AERIMANIOS, Figlio maggiore del Dio del KAOS e della Dea della GUERRA. Ha gli occhi sempre chiusi, completamente bianchi, ed è muto. Se emette un suono è per lanciare un urlo per terrorizzare la gente. Ha i capelli spettinati e corvini. È il marito della Dea della NOTTE ed il padre della NUOVA DEA della PAURA E DEI SOGNI, che prende il suo posto non essendo più in vita nel terzo libro. (1,2,3)

Ø  PAURA E SOGNI (Dea della): Figlia di AERIMANIOS e la DEA della NOTTE. (3)

Ø  PACE (Dea della): Ruolo intrapreso da ELENIEL, dopo la morte della Dea precedente. (1,2)

Ø  PRESERVATORI: Una delle categorie in cui sono divisi gli ALTI ed i CELESTI. Il loro compito è controllare che non ci siano squilibri fra vita/creazione e morte/distruzione. (2)

Ø  PRIMAVERA (Dea della): Veste, assieme all’ESTATE, tutte le divinità. (2)

Ø  PRINCIPE BIANCO: AJEDREZ. (3)

Ø  PRINCIPESSA NERA: NIEBLA. (3)

Ø  RAGUHEL: Arcangelo dell’armonia. Ha i capelli color miele ed i capelli biondi. Gli viene affidato il controllo del tempio degli Angeli. (1,2,3)

Ø  RAHAHEL: Arcangelo dalle ali dorate e dall’aria sognante. Svolge il ruolo di guaritore e ha i capelli castano chiaro, vaporosi. I suoi occhi grigi sono i più grandi, dopo quelli dell’angelo e Dio VEREHEVEIL. È il più piccolo della classe degli Arcangeli, che definisce suoi fratelli. Si allontana dalla protezione della Dea del DESTINO per poter aiutare il demone ferito LUCIHERUS. Rinuncerà all’immortalità per amore di SARAH, che però lo rifiuterà e lo porterà alla morte. Vaga come anima, una specie di vampiro dagli occhi rossi, per il palazzo di MIHAEL. (1, 2,3)

Ø  RAIDO: Uno degli ALTI, detto anche DIRI-HIUVA, SIGNORE DEL CIELO o ESPERO. Ha le stelle fra i capelli, la coda da pavone, il volto con i colori delle farfalle. È il promesso sposo di HAGALAZ. (2)

Ø  RAVEN: Sorella maggiore di AZAZEL, vestita sempre in nero ed in modo gotico. È molto più alta del fratello ed è amica di LILITH. (2)

Ø  REMIHEL: Arcangelo della speranza. (1,2)

Ø  RIKARATÖR: Primo figlio di VALEK-HITEIA e del DIO del SOLE. Fratello minore di SELENE, di cui è innamorato fin da bambino, anche se avrà dei momenti di allontanamento da lei per MARINDITI-YA. Diverrà il Sole dopo la sconfitta del padre da parte di KEVIHANG, suo allievo e fratello adottivo. (3)

Ø  SARAH: Mortale della quale si innamoreranno RAHAHEL, che rinuncerà all’immortalità per starle accanto, e ASMODAI che, per lei, ridiventerà un angelo. (2,3)

Ø  SARMORGHELL: Angelo ed EMANAZIONE di KASDAY, dai capelli neri e dritti e dai tratti orientali o egiziani. Ha gli occhi scuri e porta sempre con sé una collana con uno scarabeo azzurro che pulsa al ritmo del suo cuore. (2)

Ø  SATANAHEL: Nome dato a LUCIHERUS dal KAOS. (1,2,3)

Ø  SATELLITI (Dea dei): Compare solo alla riunione generale organizzata dalla nuova divinità creatrice EQUILIBRIO. Avrà una figlia con il Dio del SOLE (DARAM), SELENE, che prenderà il suo posto. (1)

Ø  SATELLITI (Dea dei) LUNA: Ruolo di SELENE, figlia del SOLE. (3)

Ø  SAMHIAN: Angelo Messaggero dai capelli ramati e gli occhi verdi. Viene accudito da URIHEL e veste di scuro. Sposa ELENIEL ed avrà da lei il Dio della VITA. Scrive canzoni e testi fin da piccolo. (1,2)

Ø  SAMUAEL o SAMAEL: Angelo biondo e dagli abiti larghi che si aggira per il mondo delle creature senza magia. Incontra ABRAMIAN all’Università. (1)

Ø  SELENE: DEA dei SATELLITI, della Luna, è figlia del DIO del SOLE ed innamorata del fratello minore RIKARATÖR, un sanguemisto. Ha i capelli e la pelle d’argento. (1,3)

Ø  SERPENTE PIUMATO: KUETZALIKAY. (3)

Ø  SHEKINAH: EMANAZIONE di KASDAY. Appare per la prima volta al cospetto di LUCIHERUS. Ha gli occhi viola, i capelli scuri e le pelle chiara. Anche lei, come il fratello SARMORGHELL, ha per collana un gioiello che pulsa seguendo il suo cuore. Sarà l’aspetto con cui si presenterà prevalentemente KASDAY nel terzo libro. (2,3)

Ø  SIGNORE DEL CIELO: Uno dei nomi di RAIDO. (2)

Ø  SKRICH: Altro nome di NIEBLA, la DEA del KAOS.

Ø  SOLE (Dio del) ANTICO: Dio presente alla nascita dell’EQUILIBRIO KASDAY, assieme al figlio, il SOLE (DARAM). Ha deciso di allontanarsi dalle divinità dopo millenni di servizio. Ha la pelle tatuata con motivi a fiamme ed i capelli alti e rossi. (1)

Ø  SOLE (Dio del): Prende il posto del padre, l’ANTICO SOLE, quando questi decide di allontanarsi. Ha i capelli come le fiamme, gli occhi rosso vivo ed i tatuaggi con motivi infuocati. Ama stare nel palazzo di URIHEL. Controlla il fuoco, le luci e le stelle. Ha una figlia, SELENE, avuta con la DEA dei SATELLITI, ed un figlio, RIKARATÖR, avuto con VALEK-HITEIA. (1,2,3)

Ø  SOPHIA: La madre di LUCIHERUS, di cui lui è innamorato. (2, 3).

Ø  SOWELO: ALTO, creatura generata da MOMOIA e dal marito. Cambiava aspetto seguendo i desideri dell’ALTO a cui dava amore. Ha dato vita, assieme ad HAGALAZ, ad un bambino che però verrà ucciso. Dopo questo episodio si toglierà la vita. (2)

Ø  SPERANZA (Dea della): Appare nella notte della nascita dell’EQUILIBRIO, grande ed a mani giunte, e come bambina nel numero tre, figlia di SELENE e RIKARATÖR. (1,3)

Ø  STAGIONI (Dèi delle): Compaiono alla riunione dell’EQUILIBRIO (1) e, nello specifico, in vari altri accadimenti riguardanti l’ESTATE; l’INVERNO e la PRIMAVERA. (2,3)

Ø  TEIWAZ: Padre di SOWELO e marito di MOMOIA. Sarà il primo ALTO a scomparire. (2)

Ø  TEMPO (Dio del): Divinità controllore delle Ere, porta sempre con sé un pendolo rubino che oscilla ogni secondo. Ha i capelli arricciati come il simbolo dell’infinito (∞), grigi, ed indossa vesti che ricordano le colonne dei templi. Ha gli occhi del colore della sabbia delle clessidre, suo simbolo. Sposo della DEA della MEMORIA e padre delle ORE, cadrà in un sonno eterno assieme a loro. (1,2,3)

Ø  UOMO LUCETTA: RIKARATÖR. (3)

Ø  URIHEL: L’Arcangelo più anziano, studioso delle luci dei Pianeti e delle loro orbite. Vive in un palazzo isolato, non accettando la sua immortalità. Seguiva SAMHIAN nel mondo degli angeli. Ha i capelli color del cielo e gli occhi d’argento. Diviene DIO del CIELO, con le ali che mutano di colore a seconda del tempo atmosferico, e padre di ENRIKIRAN. (1,2,3)

Ø  VALEK-HITEIA: Semidea della Luce, madre di RIKARATÖR, ENRIKIRAN, LOREATEHENZI e MARINDITI-YA. Ha adottato KEVIHANG ed è un’entità luminosa e bella, di buone capacità magiche. (3)

Ø  VEREHEVEIL: Angelo dalle ali nere, gli occhi dorati ed i capelli verde acqua, corti davanti e lunghi dietro. Impara le lingue in fretta e per questo diviene Dio delle LETTERATURE e delle LINGUE. Ama KASDAY e tutte le sue rinascite. Avrà con lui un figlio: KAVAHEL, altri due gemelli successivamente, NIEBLA ed AJEDREZ. Sposa la DEA delle PAROLE. (1,2,3)

Ø  VITA (Dea della) ANTICA: Presente alla nascita dell’EQUILIBRIO KASDAY. Descritta come una Dea bellissima. (1)

Ø  VITA (Dio della): figlio di SAMHIAN ed ELENIEL, sposo di LUCIHEDAY. (1,2)

Ø  VITA (Dea della): HEKET, figlia di LUCIHEDAY ed ELENIEL. (3)

Ø  YELEA’N: Messaggera di DEYAN. Ha gli occhi color del rubino ed i capelli verdi, screzianti di riflessi blu. (2)

Ø  ZAGAN: Demone al servizio del Principe LUCIHERUS/SATANAHEL. (1)

 

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