Le cose che non ti aspetti

di agatha
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2° ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3° ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4° ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5° ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6° ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7° ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8° ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9° ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10° ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11° ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ho iniziato a scrivere questa long quasi due anni fa e da allora si è evoluta ed è cresciuta in un modo che non avrei mai immaginato (Berlinene ne sa qualcosa *___*)

Premetto che la Francia e i nostri francesini non erano in cima alla lista delle mie preferenze in CT. Non lo so come sia successo. Sono stati loro, è stato Napoleon a scegliere me non viceversa e mi sono trovata invischiata e legata a loro senza neanche accorgermene *___*

In teoria non è AU perché ho seguito il manga, partendo dalla fine del Torneo di Parigi (amo quel torneo) però è spostata avanti nel tempo, come se tutto fosse successo intorno ai 20/21 anni dei protagonisti (difatti è Under 21) per avere “più spazio di manovra” quindi ho messo “What if…”

Altra nota è che usare El Cid Pierre era davvero troppo strano, ho mantenuto il nome usato nell’anime Pierre Leblanc che gli dona decisamente di più.

La mia creatura, il mio pg originale Juliet, deve essere letto “Juliè”, tanto per capirci.Vi auguro buona lettura sperando di farvi apprezzare questo mio “mondo” e, in primis, Louis che è l’ammmore *__*



***********************************************************************************

 
“Ora, per la squadra della Francia, si porta davanti al dischetto il quinto rigorista, il bomber Louis Napoleon. Durante la partita il suo terribile tiro, il Cannon Shot, è sempre andato a segno. Eccolo che sistema il pallone con fare sicuro. L’arbitro si appresta a fischiare. Napoleon fa qualche passo indietro, carica il piede destro e scaglia la palla verso il portiere giapponese Wakashimazu.

 Colpo di scena! Dopo quattro rigori andati a segno, ecco che l’estremo difensore nipponico ha fermato il potente tiro del bomber della Nazionale, Louis Napoleon!
 
Il quinto rigorista ha fallito.
La Francia è stata eliminata.
 
…fallito.
…eliminata.”
 
Louis si svegliò di soprassalto. Con un colpo di reni si mise seduto mentre apriva la bocca in cerca di ossigeno, ancora scosso per quelle immagini. Una mano artigliò il lenzuolo, che era scivolato per terra, su un fianco del letto. Purtroppo quello che appena sognato non era stato solo un incubo bensì l’ennesima volta in cui riviveva la semifinale contro il Giappone.
 
Magari fosse stato solo frutto della sua fantasia, si sarebbe scocciato ma poi avrebbe liquidato tranquillamente la faccenda, archiviandola come un innocuo fastidio.
Invece la realtà era diversa.
La Francia, la sua amata Nazionale, aveva realmente giocato quella partita ed aveva realmente perso.
Perso.
Già questo era un colpo duro da digerire. Di nuovo tornò la sensazione di vuoto nel petto.
Dio, come faceva male.
 
Scrollò il capo per allontanare quel pensiero e scalciò le lenzuola con le gambe, infastidito dal contatto con il tessuto di cotone che gli trasmetteva un senso di oppressione, come se lo stesse ingabbiando. La stanza era immersa nel buio. Solo il quadrante luminoso della radiosveglia illuminava debolmente la stanza, creando un effetto di ombre piuttosto lugubri. Faceva anche maledettamente caldo, sentiva i capelli appiccicati alla testa e un velo di sudore su ogni centimetro di pelle. Possibile che quel cazzo di condizionatore non funzionasse?
Sbuffò sonoramente, con la voglia di spaccare tutto quello che poteva capitargli sottomano.
Non c’era una cosa che filava per il verso giusto!
Perché?
“Ma vaffanculo!” mormorò in tono di stizza, per scaricare parte del nervoso.
 
Scese dal letto, per qualche secondo le piastrelle fresche del pavimento gli dettero un po’ di sollievo. A piedi nudi, indossando solo un paio di boxer, raggiunse la cucina e aprì il frigorifero.
Sbatté gli occhi, abituati all’oscurità, quando la luce interna dell’elettrodomestico si accese.  Prese una lattina di birra e con un gesto secco l’aprì, portandosela subito alla bocca. Ingoiò un lungo sorso ghiacciato e, subito dopo, fece un verso schifato guardando la marca.
Ci mancava solo una birra scadente, probabilmente portata da qualcuno della squadra e rimasta lì fino a quel momento. Sorrise amaramente e sollevò il contenitore a mo’ di brindisi.
“Napoleon fai schifo, ti meriti di bere qualcosa altrettanto merdoso”
Detto questo bevve di nuovo. Considerò che, tutto sommato, non era poi così male mentre una sensazione di fresco gli accarezzava la gola e poi scendeva, sempre più giù, fino alla stomaco.
Sempre con la lattina in mano tornò verso il soggiorno e accese la luce. Sollevò lo sguardo in alto verso il condizionatore.
Che coglione.
Era spento, ecco perché l’appartamento sembrava un forno.
 
Socchiuse gli occhi facendo roteare lo sguardo per tutta la stanza. Dove diamine aveva lasciato il telecomando? Lo trovò incastrato tra le pieghe del divano.
“Fantastico. Un’altra perla da aggiungere alle sfighe del grande Napoleon” disse, roteando con una mano il telecomando, rivolto ad un immaginario pubblico.
Si lasciò cadere all’indietro, sul soffice divano e schiacciò il tasto di accensione. Con un sibilo il condizionatore cominciò ad emettere soffi di aria fresca. Louis chiuse gli occhi, sospirando di piacere.
Finalmente qualcosa che funzionava nel verso giusto.
 
 
*****
 
Quando riaprì gli occhi constatò, sorpreso, che anziché essere passati pochi minuti, ormai era giorno inoltrato. Stava per maledirsi per essersi addormentato sul divano ma si sentì così svuotato da non aver voglia nemmeno di prendersela con se stesso. Spense la luce e aprì le tende, lasciando che la stanza venisse inondata di luce.
Era una splendida giornata di sole.
Guardando il cielo azzurro considerò che, forse, aveva esagerato quella notte. Il buio aveva ingigantito tutti i suoi pensieri.
 
Si era chiuso in se stesso evitando il contatto con i suoi compagni di squadra. Nei giorni precedenti Ferreri lo avevano chiamato, dicendo di aver organizzato una specie di rimpatriata prima che la Nazionale si disperdesse per le vacanze estive. Sul momento si era mantenuto sul vago, dicendo che avrebbe fatto loro sapere se era ancora in città o se contava di partire per il meritato riposo. Al telefono Michel era sembrato così “normale”, non aveva fatto nessun cenno all’eliminazione della Francia né al fatto che, facendosi parare quel rigore, fosse stata tutta colpa sua. Questo comportamento l’aveva spiazzato. Insomma, per lui era ormai un chiodo fisso, possibile che gli altri se ne fossero dimenticati? In ogni caso aveva già deciso di non presentarsi, gli bruciava ancora troppo.
Si era sempre considerato superiore a molti suoi compagni di squadra, lui era più veloce, più scaltro ed era il bomber della nazionale, che sbaragliava tutti con il Cannon Shot. Come poteva adesso guardarli in faccia sapendo che loro avevano battuto Wakashimazu, segnando e lui, come un pivello, si era fatto respingere il tiro?
Cazzo.
Non esisteva che lo guardassero con compassione, pensando povero Louis facciamogli il favore di invitarlo.
Scosse il capo energicamente. Non avrebbe permesso loro di prenderlo per il culo, di farsi guardare dall’alto in basso. In quel momento squillò il telefono e lui lasciò partire la segreteria.
 
“Louis ciao, sono Pierre. Nessuno ha notizie di te, come stai? Volevo farti sapere che mi fermerò una settimana qui a Parigi. Ci vediamo per bere qualcosa insieme? Fatti sentire mi raccomando, ho delle novità da raccontarti. Ci conto. Il mio numero ce l’hai, ciao.”
 
Il calciatore era rimasto in piedi, immobile, a fissare la luce luminosa rossa che indicava la registrazione del messaggio, mentre risuonavano nella stanza le parole del suo capitano. Lo aveva piacevolmente sorpreso quella telefonata, aveva sempre ammirato Pierre e realizzare che qualcuno si preoccupava per lui fu una piacevole sorpresa, come una sensazione di calore che riempì quel vuoto che sentiva dentro. Con uno scatto raggiunse il tavolino e sollevò il telefono. Lo avrebbe richiamato e si sarebbero messi d’accordo per incontrarsi in qualche locale, bere qualcosa e magari rimorchiare.
Ecco, questo era quello di cui aveva bisogno.
Era stato un idiota a rinchiudersi tra quelle quattro mura come un eremita. Lui era Louis Napoleon, era nato per fare festa, stare in compagnia, al centro della scena. Compose il numero ma, prima di schiacciare l’ultimo tasto, un’immagine si sovrappose a tutto il resto.
Gli occhi del suo capitano.
Ricordava in modo così nitido il viso di Pierre. L’aveva fissato negli occhi e gli aveva detto “lascio tutto nelle tue mani”, con uno sguardo serio ma carico di fiducia. E lui si era sentito onorato e orgoglioso come non mai.
 
Scosse il capo più volte mentre i suoi occhi ritornavano cupi e la bocca si serrava in una linea sottile. No, non si meritava l’amicizia di Pierre dopo quello che aveva fatto. Doveva prima scontare il suo errore, lasciare che il suo orgoglio guarisse e poi sarebbe tornato tutto come prima. Era solo questione di tempo prima di poter di nuovo rialzare il viso senza temere che qualcuno si azzardasse a dire qualcosa.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2° ***


Juliet abitava in quell’appartamento ormai da quasi due mesi. Dopo il primo anno di università con indirizzo fisioterapico, era riuscita ad ottenere l’unico posto disponibile per uno stage pratico all’interno della squadra calcistica del Paris Saint Germain, a partire dalla ripresa della stagione successiva, cioè a settembre. Il Club disponeva di diverse strutture, che affittava sia ai giocatori che a chiunque lavorasse presso di loro, a prezzi vantaggiosi. Così, quando a maggio era andata a firmare i documenti necessari, si era informata circa la possibilità di ottenere un alloggio. Dopo una settimana passata a tenere le dita incrociate, le era stato proposto un appartamento libero e aveva accettato al volo viste le ottimi condizioni economiche e l’entusiasmante opportunità di vivere da sola e non con altre studentesse.
 
Conosceva solo di nome il suo importante vicino, Louis Napoleon, per quanto l’avesse intravisto non si erano mai rivolti la parola. All’università aveva sentito svariati commenti su di lui, tutti concordi nell’affermare che era un attaccabrighe, da cui era meglio stare alla larga. Non sapeva che corsi frequentasse ma, nonostante questa pessima fama, era sempre attorniato da uno stuolo di ragazze adoranti e da presunti amici, che si limitavano a scodinzolargli intorno per godere, di riflesso, della sua popolarità. Da quello che aveva potuto vedere era un ottimo giocatore. Riflessi pronti, un tiro potente e abbastanza arroganza in campo da far paura agli avversari. La sua squadra, il Paris Saint Germain era arrivata terza in campionato, ma lui si era aggiudicato il titolo di capocannoniere. E anche quello con più espulsioni dal campo. Di recente era stato protagonista dell’ormai famoso Torneo di Parigi Under 20, che aveva richiamato migliaia di persone da ognuna della nazioni partecipanti. Per fortuna, anche quello si era concluso e l’estate si era portata via la maggior parte delle persone, perlomeno nella sua palazzina costituita da una decina appena di appartamenti, facendole assaporare un po’ di tranquillità.
 
Quel giorno stava studiando quando aveva sentito, d’improvviso, della musica a tutto volume e, con “tutto”, intendeva proprio che sembrava di stare in prima fila ad un concerto rock.
Era convinta che tutti fossero partiti, invece sembrava che il bomber francese fosse lì. Aveva fatto dei profondi sospiri cercando presunte giustificazioni a tutto quel casino, sperando durasse pochi minuti, ma alla fine non ce l’aveva più fatta ed era uscita a passo deciso dal suo appartamento, diretta alla porta del suo vicino. Aveva provato a bussare, rendendosi conto, quasi subito dell’inutilità di quel gesto. Con quel baccano non l’avrebbe sentita nemmeno se fosse stato attaccato con l’orecchio al battente. Furente per tutta quella situazione incollò il dito al campanello, sperando di scocciare Napoleon almeno quanto lui stava facendo con lei.
Dopo un tempo che a Juliet parve infinito, ma probabilmente furono pochi minuti, la porta venne spalancata di colpo, accompagnata da un urlo.
“Ma chi c’è? Che cazzo vuoi?” sbraitò.
Per un momento Juliet rimase sbigottita, sia per il tono aggressivo sia perché il calciatore francese si era presentato completamente nudo, o meglio coperto solo da un piccolo asciugamano che teneva in vita, reggendolo con una mano.
“Potresti abbassare il volume?”
“Cosa?”
“Ho chiesto se puoi abbassare il volume!”
“Perché dovrei?”
 
Le cose erano due: o Napoleon era scemo o la stava prendendo in giro. Non andava bene in ogni caso.
“La musica è così alta che non sento nemmeno la mia voce, abbassala” ringhiò, mentre nelle orecchie le rimbombava il ritmo della batteria.
A Louis non piaceva ricevere ordini. Questo, aggiunto al suo umore già pessimo, fu una combinazione letale. Doveva liberarsi di questa scocciatrice.
“Senti bella, a casa mia faccio quello che voglio. Dato che non mi hai tolto gli occhi di dosso un attimo, se vuoi una sveltina sono disponibile, sennò fuori dalle palle”
Juliet arrossì di fronte a quella proposta così sfacciata ma, per sua fortuna, era già abbastanza arrabbiata da reagire prontamente.
“Vaffanculo Napoleon, tu e la tua musica! – lo squadrò dall’alto al basso e scosse la testa – E per la cronaca: non hai niente per cui valga la pena accettare la tua proposta”
Un lampo passo negli occhi dell’attaccante, a cui non piaceva non avere l’ultima parola.
“Ne sei sicura?” domandò mentre lasciava cadere a terra l’asciugamano.
Juliet ebbe solo una fugace visione della “dotazione” di Napoleon perché chiuse gli occhi e si voltò, tornando a casa propria senza dire una parola, accompagnata dalla risata divertita e derisoria del giocatore.
Purtroppo aveva vinto lui.
Il supplizio era durato un’ora, dopodiché dall’altra parte non si era sentito più un suono. Quando era uscita, aveva rivolto uno sguardo di fuoco alla porta accanto alla sua e se n’era andata.
 
*
 
Erano quasi le due quando Juliet rientrò. Non vedeva l’ora di andare a sdraiarsi sul letto, non pensare a niente e chiudere gli occhi. Dormire. Solo Dormire.
Quando arrivò al suo pianerottolo si presentò un insolito spettacolo ai suoi occhi. Per un attimo pensò di avere le allucinazioni, li chiuse e li riaprì ma la scena non cambiò. Napoleon era seduto sul suo zerbino, con la schiena appoggiata allo stipite della porta, la testa piegata e gli occhi chiusi.
“Fantastico” pensò.
Arrivò di fronte a lui e si piegò sulle ginocchia. Con una mano gli toccò la spalla, scuotendolo leggermente.
“Louis?”
Nessuna risposta. Riprovò alzando il tono di voce.
“Louis?”
Lo vide arricciare le labbra in una smorfia e socchiudere gli occhi, chiaramente scocciato per essere stato disturbato.
“Mmh – mugugnò- che vuoi?”
“Ti sei addormentato e sei di fronte alla mia porta”
“Naaah, non è vero – biascicò con la voce impastata, poi sollevò un mazzo di chiavi - E’ casa mia, non vedi? Solo che la serratura non funziona” concluse come se fosse la cosa più logica del mondo e tornò a dormire.
Juliet sbuffò infastidita. Chiaramente era ubriaco fradicio e non si rendeva conto di cosa stava dicendo. Si chinò, rimanendo in equilibrio sulle ginocchia piegate per essere alla sua altezza e lo toccò di nuovo sulla spalla per attirarne l’attenzione e non farlo riaddormentare.
“Casa tua è di là - con un mano indicò la porta dopo la propria – è per quello che le chiavi non entrano. Forza, ti aiuto ad alzarti”
“Ma io non voglio andare da nessuna parte, sto bene qui” si lamentò.
“Fidati, domani mattina ti ritroveresti con un odioso mal di schiena. Meglio il letto, così ti sveglierai e starai benissimo”
“Non starò bene” borbottò.
“Ma dai, non è successo niente” minimizzò lei improvvisando dato che, ovviamente, non sapeva a cosa si stesse riferendo.
“Tu non puoi capire”
 
Era chiaro che non le sarebbe arrivato nessun aiuto da parte del calciatore, la ragazza prese il mazzo di chiavi dalle mani abbandonate in grembo e aprì la porta dell’altro appartamento, poi accese le luci all’interno. Ritornò dal suo vicino, sperando in un po’ di collaborazione.
“Dai Louis alzati, appoggiati a me”
In risposta ricevette solo qualche mugugno ma, per fortuna, il calciatore decise di collaborare e si alzò in piedi. Avvinghiò le braccia intorno a lei.
“Sai di buono” mormorò avvicinando il naso al suo collo.
Juliet roteò gli occhi, chiedendosi che male aveva fatto per ritrovarsi in quella situazione.
“Tu invece puzzi di alcol” rispose, cercando di indurre Louis a camminare.
 
Non fu facile, ma alla fine riuscì a depositarlo sul suo letto.
Rimase a guardarlo. L’espressione del suo viso era così serena. Un bambino addormentato, ecco l’impressione che le stava dando.
Possibile che da sveglio fosse così odioso e da addormentato così… indifeso?
La voglia di sbadigliare le ricordò che era tardi e non era il momento ideale per mettersi a riflettere sul suo vicino. Si sedette accanto a lui per sfilargli le scarpe, che lasciò cadere sul pavimento.
Doveva spogliarlo?
Si lasciò andare ad una piccola risata. Nei libri e nei film di solito succedeva proprio così ma questa era realtà e, tralasciando che non era un compito facile svestire qualcuno disteso, lei aveva fatto fin troppo, anche se dovette riconoscere che il corpo sotto quegli indumenti poteva meritare una seconda occhiata.
Ok, stava vaneggiando. Alzandosi di scatto gli diede un buffetto sulla guancia.
“Sogni d’oro Napoleon”


*******************************
Ed ecco che fa la comparsa anche il mio personaggio originale, Juliet e si comincia a capire un po' meglio cosa sta combinando Napoleon.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3° ***


La mattina dopo quello strano incontro, Juliet si augurò di non avere più niente a che fare con Napoleon. Lui incarnava proprio il tipico ragazzo che, solo per il fatto di essere famoso, si riteneva superiore agli altri.  E se aveva il vizio di bere dubitava che la sua carriera calcistica avrebbe avuto lunga vita. Mentre si infilava una canottiera e un paio di shorts, visto il gran caldo, si ritrovò a fissare il muro che confinava con l’altro appartamento.
Chissà se era sveglio…
Considerando la sbornia della sera precedente era probabile che si fosse guadagnato un bel mal di testa. Non era certo una bacchettona, anche a lei piaceva bere ma non fino al punto di perdere il controllo.
Ecco, era questo che non capiva.
Il bomber, a prima vista, aveva una vita perfetta: era carino, un promettente giocatore e, probabilmente, era attorniato da ragazze che aspettavano solo un suo cenno. Perché ridursi in quello stato? Proprio non riusciva a capire ed era probabile che non l’avrebbe mai scoperto. D’altronde loro erano due estranei, se si tralasciavano gli incontri del giorno prima.
Alzò le spalle in gesto noncurante. Aveva vissuto questi diciannove anni senza conoscerlo, poteva benissimo continuare così, tenendosi quei dubbi irrisolti.
 
Sistemò le lenzuola del letto e poi le venne in mente che doveva chiamare Martine per decidere cos’avrebbero fatto quella sera. A piedi nudi raggiunse il tavolino vicino alla porta d’ingresso, dove appoggiava il cellulare appena rientrava. Con disappunto si accorse che non c’era.
“Che strano” commentò a voce alta, corrugando la fronte nel tentativo di ricordare dove l’avesse lasciato.
Tornò in camera e controllò ogni angolo.
Niente.
Sembrava svanito nel nulla.
Eppure il suo appartamento non era gigantesco. Poteva fare un tentativo tramite il fisso, se non l’aveva spento l’avrebbe trovato. Era sicura di averlo avuto con sé nella borsa quando era tornata a casa perché aveva ricevuto un messaggio che poi aveva cancellato. Compose il numero e, quando sentì che squillava, strinse la mano a pugno, esultando. Con le orecchie tese a captare la sua suoneria, rimase in attesa.
Nulla.
Non un suono da nessuna parte.
Dove diavolo aveva lasciato il cellulare?
 
Stava ancora riflettendo su cosa fare quando sentì una voce.
“Pronto?” disse qualcuno un po’ dubbiosamente.
Inarcò le sopracciglia, sorpresa che qualcuno avesse risposto.
“Chi parla?”
“E tu chi sei?”
“Chi sei tu, che stai usando il mio telefono!” sbottò, alzando il tono di voce.
“Ehi, abbassa la cresta, chi ti credi di essere?”
Chiuse gli occhi, avrebbe riconosciuto quel tono arrogante anche in mezzo a mille persone.
“Louis?”
Sbuffò sonoramente.
Che cavolo ci faceva Napoleon con il suo telefono?
Sbatté giù la cornetta con forza e, veloce come il vento, ancora a piedi nudi si diresse subito dal suo vicino. Pigiò con forza il dito indice al campanello, anche se forse il medio sarebbe stato più azzeccato, irritata dal pensiero che il giocatore potesse leggere i suoi messaggi. A questo punto era ovvio quello che era accaduto: le era caduto quando aveva aiutato quel disgraziato e, stanca com’era, non se n’era accorta.
Quando la porta si aprì, Louis sembrò sorpreso di vederla.
“Ancora tu?” l’aggredì, sfoderando uno sguardo ostile che lei ricambiò mentre, spingendolo da parte senza tanti complimenti, entrava in casa.
“Dov’è?”
 
Napoleon, a quel punto, aveva capito tutto e non si lasciò sfuggire l’occasione di divertirsi.
Stampandosi in faccia un sorrisetto falso, le sventolò sotto il naso il cellulare.
“Cerchi questo?”
Ritirò di scatto la mano quando Juliet cercò di prenderlo e allungò il braccio in alto, mettendo la mano fuori dalla sua portata. Era più alto di lei, fece comunque qualche tentativo senza ottenere niente, anche perché l’alternativa era saltargli addosso e ci mancava solo che gli si strusciasse contro, la sua mente deviata avrebbe pensato che ci stava provando.
Napoleon sfoderò di nuovo il suo sorrisetto compiaciuto.
“Così… sei una specie di massaggiatrice thailandese?” esordì lui, rimarcando le ultime due parole, con il chiaro intento di usare un eufemismo per la parola “prostituta”.
“Scusa?”
Juliet sbarrò gli occhi, presa alla sprovvista da quella domanda, ma notando l’ironia e la presa in giro.
“Punto primo: evita di usare quel tono malizioso, per favore. Ho capito cosa volevi dire, non sono scema e, per la cronaca, sono giapponese non thailandese. Ma voi occidentali siete sempre stati negati per queste cose”
“Tu sei COSA?”
 
Juliet si morse il labbro, che cavolo le era venuto in mente di fare riferimento alle sue origini? Napoleon sapeva già fin troppe cose, ma ormai il danno era fatto.
“Mia mamma era francese. Anche se ho preso quasi tutto da lei ci tengo ai pochi tratti giapponesi che ho ereditato da papà – concluse abbassando lo sguardo verso terra, come se si vergognasse di quell’ammissione – mi ridai il cellulare adesso?” domandò spazientita.
Fu la volta del calciatore di sbiancare e sbarrare gli occhi.
Questa non se l’aspettava.
In effetti, adesso che la guardava attentamente, il taglio degli occhi era particolare, non proprio a mandorla ma leggermente diverso. Il suo sguardo si incupì, non voleva avere niente intorno che gli ricordasse il Giappone. Preferì concentrarsi su quello che aveva scoperto su di lei. Si portò il telefono vicino al viso e lesse.
“Cito testualmente non so come ringraziarti, hai delle mani d’oro e poi un altro ti prego sono a pezzi, mettimi le mani addosso e fammi andare in paradiso
La ragazza si portò una mano alla fronte, sconsolata: erano pezzi di messaggi delle sue amiche che la prendevano in giro e la ringraziavano per i massaggi fatti. Si prestavano volentieri a farle fare pratica quando aveva bisogno, non poteva non averlo capito dato che lo specificavano, quindi stava facendo apposta.
 
Furibonda per tutta quella presa in giro, riuscì finalmente a strapparglielo di mano mentre lui rideva sguaiatamente. Mostrando indifferenza raggiunse la porta decisa ad andarsene. Aveva già la mano sulla maniglia quando lui parlò di nuovo.
“Mi spieghi come ha fatto a finire da me?” le domandò.
Juliet subito pensò all’ennesima provocazione, ma quando si voltò bastò un’occhiata al viso del calciatore per capire che non era così.
“Non te lo ricordi?”
Napoleon si passò una mano tra i capelli e si sfregò la nuca prima di appoggiarsi con la schiena contro il muro.
“Senti, ho già un cazzo di mal di testa che mi fa impazzire, poi arrivi tu come una furia a riprenderti questo catorcio…”
“Ehi!”
Louis sgranò gli occhi.
“Fa schifo dai, non è nemmeno touch screen”
“Sono fatti miei cosa uso, nessuno ha chiesta la tua opinione”
“Ok. Il mio era solo un consiglio…” bofonchiò.
 
“Ma non ti ricordi assolutamente nulla di ieri notte?”
Napoleon scosse il capo.
Appoggiandosi alla porta lei rimase a fissarlo, indecisa su cosa dire. La cosa migliore era spiegargli semplicemente  di averlo aiutato ad entrare e basta, poi infilare l’uscita e dimenticarsi della sua esistenza. Purtroppo Juliet aveva un difetto in comune con il calciatore, il vizio di parlare istintivamente, senza collegare il cervello e pensare alle conseguenze.
“Bevi di meno la prossima volta” sbottò, in tono duro.
“E tu fatti i cazzi tuoi” fu la risposta pronta del francese, irritato come sempre quando qualcuno gli dava degli ordini.
“Allora fammi un favore – continuò lei avvicinandosi combattiva al calciatore – la prossima volta che decidi di ubriacarti e non capire più niente, evita di collassare davanti alla mia porta. Per me puoi dormire anche sul pianerottolo o per la strada, basta che non mi stai fra le palle”
“Ma chi ti ha chiesto niente!” rispose facendo spallucce, con il chiaro intento di far capire quanto non le interessassero le sue parole.
“Come pensi di essere arrivato fino al tuo letto stanotte?”
“Sei entrata in casa mia senza permesso?”
“Scusa? Guarda che non me ne frega niente del tuo appartamento, non sono una tua fan pronta a rubarti un paio di boxer o una maglietta. Non pretendo un ringraziamento ma nemmeno accetto di essere considerata quasi una ladra! Puoi star tranquillo che la prossima volta mi guarderò bene dall’aiutarti”
“Ecco brava, ignorami”
A quel punto, nonostante fosse arrabbiata, Juliet scoppiò a ridere perché finalmente si trovavano d’accordo su qualcosa.
“Non chiedo di meglio” 
 
Quando fu finalmente solo, Louis tirò un sospiro di sollievo. Anche se si sentiva la testa dolorante forse aveva trovato una soluzione ai suoi problemi. La sbronza della sera prima aveva fatto il suo dovere se si era dimenticato completamente di tutto. Per quanto irritante, non dubitava che quella rompipalle avesse detto la verità. A lui serviva solo un po’ di tempo per digerire quanto successo e far guarire il suo orgoglio ferito, bere non era poi un prezzo così alto, quindi sarebbe uscito anche quella sera.
 
Quello che Louis non aveva calcolato era che non riuscisse di nuovo ad entrare in casa. Aveva tentato di infilare la chiave nel buco ma sembrava proprio che la porta fosse dotata di una sua volontà e si divertisse a spostare la serratura, prendendolo in giro.
Frustrato dai tentativi andati a vuoto, il calciatore sbatté le chiavi a terra con stizza.
“Fanculo!” fu il suo unico commento.
L’essenziale per lui, era un sonno senza sogni, poco importava se dormiva sulle scale o in qualunque altro posto. E in pochi minuti il suo desiderio venne accontentato, almeno fino a quando un eco lontano si insinuò nelle sue orecchie.
 
 
 
**********************
Questo capitolo è un po’ la fiera della buona educazione, ironicamente parlando XD
Louis me lo vedo uno che non si fa problemi ad usare un linguaggio poco raffinato idem Juliet (o forse sono io che non sono avvezza a dire parolacce e mi pare di aver abbondato lol) e siccome volevo che i dialoghi fossero abbastanza “reali” ecco perché sono scritti in questo modo. Sono IC per i miei pg.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4° ***


Juliet stava salendo le scale di casa, si fermò per recuperare le chiavi, che ovviamente sembravano scomparse nonostante le modeste entità della borsetta. Tutte le volte succedeva così.
Quando arrivò a metà si spense la luce.
“La mia solita fortuna…” mormorò.
Appoggiò una mano alla parete, in modo da orientarsi, e salì adagio, girò a destra sempre seguendo il muro e proseguì. Ormai era quasi arrivata al pianerottolo e, fra poco, sotto le sue dita avrebbe sentito la forma dell’interruttore.
Eccolo” pensò schiacciandolo e poi urlò.
Con una mano appoggiata sul petto, in un riflesso istintivo, si soffermò a guardare l’oggetto che l’aveva spaventata, o meglio la persona.
 
Quanti anni di prigione le avrebbero dato se l’avesse spinto giù dalle scale uccidendolo?
Scosse la testa, accantonando quella deliziosa idea.
Napoleon sembrava non averla nemmeno sentita, stava lì seduto sul pianerottolo, con le gambe appoggiate ai gradini sottostanti ed era abbracciato alla ringhiera. Le aveva detto di non impicciarsi e di lasciarlo stare, ebbene lo avrebbe accontentato. Con passo deciso raggiunse la propria porta e infilò la chiave per aprire. Appoggiò la mano sulla maniglia ma si bloccò. Non aveva nessun obbligo verso di lui, eppure la coscienza non le permetteva di ignorarlo e basta. Avrebbe potuto ripetersi all’infinito quanto fosse odioso, quanto se la fosse andata a cercare eppure, sotto sotto, non poteva nascondere che c’era qualcosa in Napoleon, un qualcosa per cui si sentiva protettiva nei suoi confronti.
Il che era assurdo a pensarci.
Molto assurdo.
Ma sapeva di non poterlo lasciare lì così.
 
Si avvicinò cautamente, nel terrore di spaventarlo e farlo davvero cadere dalle scale. Si sedette accanto a lui e rimase ad osservarlo,sorridendo.
Aveva sul viso un’espressione rilassata, le palpebre abbassate erano incorniciate dalle lunghe ciglia chiare, la bocca leggermente socchiusa e i capelli biondi arruffati che gli ricadevano sul viso, nascondendone una parte.  Di nuovo si ritrovò a chiedersi come Napoleon riuscisse ad alternare l’espressione da fancazzista sbruffone a quella di un ragazzo dolce.
Quasi le dispiaceva rovinare quel momento ma non potevano rimanere lì tutta la notte. Lo toccò su una spalla, con la consapevolezza che era un chiaro deja-vù.
“Louis. Svegliati dai”
Questa volta lui non mugugnò, dopo essere stato scosso più volte spalancò gli occhi e la fissò anche se non sembrò riconoscerla.
“Alzati dai, ti accompagno a casa, starai meglio che qui”
“Non starò bene”
Stranamente il suo tono di voce era un po’ impastato, ma l’espressione che aveva in volto era lucida.
“Mi porterò dietro quella colpa…– si passò una mano tra i capelli, spingendoli indietro sconsolato – non ce la faccio…”
“Non capisco cosa…”
“Nessuno può capire. Ero l’eroe del torneo, il grande Napoleon… facevano affidamento… - si alzò di scatto in piedi, volgendosi verso la ringhiera e artigliando il corrimano – non ce la faccio più”
Quell’ultima frase, mormorata in un soffio, la fece rimanere di sasso. Prima di tutto perché era stato lui a dirla e, secondo, perché era palpabile la sofferenza che racchiudeva. Juliet intuì che era stato l’alcol ad abbassare le difese del calciatore, che mai si sarebbe azzardato a confidare certe cose, soprattutto ad una sconosciuta.
“Cos’è successo?” si azzardò a chiedere.
Non era facile seguire il corso del suoi pensieri, se voleva fare qualcosa doveva prima capire il suo segreto. Louis sembrava non averla nemmeno sentita, rimase immobile e l’unico suono intorno a loro era il suo respiro un po’ affannato.
“Vorrei scomparire…”
Quelle parole furono un’altra stilettata al cuore. Non poteva lasciarlo solo in quelle condizioni. Gli appoggiò una mano sulla spalla e cercò, dolcemente, di spingerlo a voltarsi.
“Andiamo da me, dai, ti preparo qualcosa di caldo da bere”
 
Stranamente Napoleon si comportò in modo docile, lasciandosi portare fin dentro casa. Juliet lo fece sedere sul piccolo divano e andò nell’angolo cucina per far bollire un po’ d’acqua calda.
Quando tornò da lui, lo trovò che stava fissando il pavimento, chinato in avanti. I capelli gli ricadevano intorno al viso, nascondendolo completamente. Si morse il labbro inferiore, incerta su come comportarsi, temeva che una parola o un gesto sbagliato l’avrebbero fatto arrabbiare e magari andarsene chissà dove. Si sedette anche lei sul divano, cercando di stare il più lontana possibile per lasciargli spazio.
“Sono un fallito” mormorò con lo sguardo sempre rivolto a terra.
“Perché dici così?”
Louis si portò entrambe le mani sul capo e si scompigliò i capelli con stizza, poi si lasciò andare contro lo schienale, appoggiando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi: a differenza di prima stavolta l’espressione del viso era tirata e sofferente.
“Non ne posso più. Vorrei solo… tornare quello di prima. Ma non ci riesco. Ogni volta che chiudo gli occhi rivedo tutta quella dannatissima partita”
Non ci fu bisogno di aggiungere altri particolari, Juliet aveva capito che si stava riferendo al famoso Torneo di Parigi e la partita era, per forza, la maledetta semifinale in cui avevano perso contro il Giappone.
Il rigore parato.
Doveva essere quello, senza ombra di dubbio.
 
“C’ero anch’io” mormorò piano.
Napoleon non si mosse ma la mano sinistra artigliò la stoffa che ricopriva il divano mentre tratteneva per un attimo il respiro.
“Come ho fatto a sbagliarlo? – ringhiò digrignando i denti - Dio… è una cosa che proprio non riesco a spiegarmi. Era imprendibile il mio tiro, ci ho messo tutta la forza, quel dannato portiere era anche ferito e…”
Si bloccò e sbuffò forte, come se non avesse il coraggio di continuare a dire quello che stava pensando. Juliet non poté fare a meno di toccarlo su una spalla ma, a quel contatto, Louis scattò in piedi come se fosse stato fulminato. Raggiunse la porta e, per un momento, lei pensò che sarebbe uscito. Invece il calciatore vi appoggiò la fronte e batté il pugno chiuso più volte, quasi ritmicamente scandendo le parole che pronunciò dopo.
“Gli… altri… hanno… segnato”
A quel punto Juliet si alzò in piedi e lo raggiunse. Era straziante starlo ad ascoltare senza poter fare nulla, d’impulso gli cinse la vita con le braccia, appoggiandosi alla sua schiena senza dire niente. Era preparata al fatto che lui potesse ribellarsi, come prima, e mandarla via. Invece rimase immobile. Non la toccò, non le disse niente, ma rimase lì a farsi stringere senza reagire.
Piano piano si calmò, il suo respiro divenne più regolare e profondo.
“Ho sonno” dichiarò girandosi e raggiungendo il divano, dove si sdraiò e chiuse gli occhi, addormentandosi quasi all’istante.
 
Mentre lo guardava, un odore di bruciato attirò l’attenzione di lei, che si ricordò del pentolino lasciato sul fuoco. Quando raggiunse la cucina vide che l’acqua era evaporata quasi tutta. Con espressione schifata spense il fornello e mise nel lavello l’utensile. Ci avrebbe pensato il giorno dopo: era stanca morta.  Il suo vicino dormiva tranquillamente, allungato sul divano, a pancia in giù e con un braccio che pendeva toccando il pavimento. Con uno sbadiglio da slogarsi la mascella, Juliet spense la luce del soggiorno e con gli occhi quasi chiusi si cambiò, infilandosi una maglietta della sua squadra di rugby, lo Stade Français Paris per dormire.
Si buttò sul letto, crollando all’istante come il suo ospite.
 
****************************************************

E così Louis finalmente ha rivelato quanto quel rigore parato l'abbia mandato in crisi.
Ho sempre immaginato che sia uno che non accetta di sbagliare, figuriamoci poi in una partita così importante della sua Nazionale, davanti a migliaia di tifosi e sapendo che è stato il suo errore a consegnare praticamente la vittoria al Giappone. Essendo poi molto orgoglioso, non vorrebbe che nessuno scoprisse quanto ci stia male per non essere compatito. Soprattutto è uno che continua a rimuginarci sopra, tormentandosi fino allo sfinimento.

Come si fa a non aver voglia di coccolarlo? *__*



Agatha

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Capitolo 5
*** Capitolo 5° ***


Napoleon era scomodo. Pur essendo ancora nell’incoscienza del sonno si sentì infastidito e tentò di spostarsi, ruotando sulla schiena. Quello che non aveva previsto, era di finire sul pavimento. Con un grugnito si massaggiò il braccio che aveva battuto per terra e, nel contempo, aprì gli occhi.
Non era nel suo letto.
Non era nemmeno caduto dal suo divano.
Fece scorrere lo sguardo intorno a sé e non riconobbe l’arredamento.
Non era nemmeno casa sua.
Ancora assonnato e stanco, si rimise seduto cercando di capirci qualcosa. Si sforzò di mettere a fuoco gli spostamenti della sera prima, corrugò la fronte rivivendoli: ricordava bene di essere arrivato a casa, aveva litigato con la serratura, di questo era sicuro perché la cosa lo aveva fatto imbestialire. Ma poi… vuoto assoluto.
Ed ora si era svegliato in un posto che non conosceva.
 
Un particolare attirò la sua attenzione: la porta d’ingresso. Era identica alla sua, ergo si trovava nella palazzina giusta, restava solo da capire chi fosse il proprietario. E mentre arrivava a questa conclusione gli fu chiara anche la risposta.
Cercando di non fare rumore raggiunse quella che, secondo lui, doveva corrispondere alla camera da letto. L’appartamento era più piccolo del suo ma, in base a quello che ricordava, doveva essere confinante alla propria. Abbassò piano la maniglia e aprì la porta quanto bastava per infilarci dentro la testa, lasciò che i suoi occhi si abituassero all’oscurità e la vide, confermando quello che aveva già intuito. Altrettanto silenziosamente richiuse la porta senza svegliarla e andò verso il bagno.
 
Appoggiò entrambe le mani sopra al lavabo e rimase a fissare la propria immagine nello specchio.  Aveva un’espressione seria, impassibile, con gli occhi fissi. Al contrario, nel suo animo si agitavano diverse emozioni contrastanti.
Odiava dipendere dagli altri.
La vita gli aveva insegnato che nessuno fa mai niente per niente, di conseguenza essere in debito voleva dire sottostare al volere di qualcun altro. Per questo aveva imparato ad arrangiarsi, a non trovarsi mai nella posizione di chiedere aiuto e dipendere da altre persone, cosa che per lui erano un segno di debolezza. Invece era successo ed era arrabbiato perché si trovava in questa condizione.
D’altra parte sapere che Juliet si era preoccupata per lui, che l’aveva lasciato dormire a casa propria fidandosi, gli provocava una sensazione strana che mitigava la collera.
E tutte queste contraddizioni lo stavano confondendo, rendendogli impossibile decidere cosa fare.
Andarsene di soppiatto o rimanere?
Arrabbiarsi o ringraziarla?
Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e si sciacquò il viso, sperando che l’impatto con la sua pelle gli schiarisse un po’ le idee.
 
*
 
Fu il profumo a svegliare Juliet, un aroma così buono, così invitante che il suo naso lo percepì subito. Aspirò profondamente quella dolcezza, mugugnando di piacere, mentre si stiracchiava nel letto. Alzandosi si rese conto che il profumo non veniva dalla finestre aperte ma proprio da casa sua e, contemporaneamente, si ricordò della presenza di Napoleon nel suo appartamento.
Stava dando fuoco a tutto solo per farle dispetto? Se anche era così, sarebbe morta felice. Scrollò le spalle, dandosi mentalmente della stupida per quelle banali battute fuori luogo, sapendo che stava solo cercando di sdrammatizzare perché non sapeva cos’avrebbe trovato al di là di quella porta, né cos’avrebbe dovuto affrontare.
 
Di tutti gli scenari possibili, quello che le si parò davanti non l’avrebbe mai potuto immaginare.
Louis impegnato a cucinare davanti ai fornelli.
Rimase impalata, appena fuori dalla camera da letto, fissando quella scena con espressione attonita. Dopo poco lui si voltò e la vide. Aveva in mano una padella bassa e, con abilità, fece scivolare la crêpe nel piatto appoggiato sul tavolo e si girò di nuovo.
“Finalmente. Ancora un po’ e avresti mangiato tutto freddo – fu il suo laconico commento mentre spegneva il fuoco e trasferiva tutto nel lavandino – e non ti aspettare che mi metta a lavare i piatti”
Juliet si era avvicinata al tavolo, notando che era stato apparecchiato per la colazione. La caffettiera, appoggiata sul sottopentola, emanava uno sbuffo di vapore spargendo l’aroma di caffè appena fatto, su un altro piatto delle crêpes già farcite e piegate a ventaglio aspettavano solo di essere mangiate. 
Era… stupefacente.
Ignorandola, il bomber francese si sedette e cominciò a mangiare di gusto, versandosi una generosa tazza di caffè. Una contrazione allo stomaco risvegliò la ragazza da quello stato di trance e la convinse a sedersi e agguantare una crêpe al cioccolato. Ne addentò un pezzo, era tiepida e così dolce che le si sciolse in bocca. Subito ne mangiò un altro pezzo e un altro ancora finché non le rimase che leccarsi le dita soddisfatta.
“Buonissima” fu il suo sincero commento.
“Ovviamente, l’ho fatta io” sentenziò Louis con espressione seria, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Mangiarono in silenzio come per un tacito accordo, ognuno perso nei propri pensieri, rimandando qualsiasi parola o chiarimento riguardo la sera prima.
“E’ fantastico fare colazione con le crêpes suzette e…”
Un grugnito da parte del francese la interruppe.
“Si vede che sei francese solo a metà, queste sono semplici crêpes, la crêpe suzette è fatta con il liquore e la salsa all’arancia” spiegò nello stesso tono che avrebbe potuto usare un maestro con un alunno ignorante.
Poi sollevò la forchetta, puntandola verso di lei.
“Tra l’altro, mi devi pure ricomprare le uova e il burro che ho usato non te lo dimenticare, il tuo frigo è penosamente vuoto” concluse con una smorfia di disapprovazione.
 
Una volta tanto, Juliet rimase senza parole senza controbattere Napoleon. Chi l’avrebbe mai detto che fosse così bravo in cucina? Qualcosa le diceva che era una qualità che non amava far sapere in giro o che mostrava volentieri.
Ma allora perché l’aveva fatto?
Prese altro caffè e, mentre beveva, ne approfittò per sbirciarlo sopra l’orlo della tazza. Il suo enigmatico vicino era ritornato a mangiare con gusto, ignorandola. L’espressione del viso era sempre seria, quasi imbronciata, ma ormai aveva imparato che era la normalità per lui, quindi non ci fece caso. Se avesse dovuto scommettere, avrebbe puntato sulla sua fuga appena sveglio, senza troppi problemi. Invece era rimasto per preparare la colazione, come se volesse farle una gentilezza.
Un momento.
Tutto le parve stranamente chiaro. Il problema era che faticava ad associarlo a Napoleon.
Questo era il suo modo per ringraziarla.
Tutto quadrava, in base a quello che aveva capito del suo carattere. Non si sarebbe mai abbassato a dirle chiaramente un “grazie” per essersi presa cura di lui, in effetti non riusciva proprio ad immaginarselo. Era troppo orgoglioso e sarebbe stato come ammettere che aveva avuto bisogno di aiuto. Mentre fare delle crêpes e fermarsi a mangiarle lui stesso era un compromesso accettabile. Sì, decisamente era un comportamento da “Louis Napoleon”.
 
Doveva ammettere con sé stessa, che questa cosa le faceva molto piacere, soprattutto visto il carattere scorbutico che si ritrovava il calciatore. Imbarazzata dal sorriso compiaciuto che le era spuntato in volto, si alzò di scatto per mettere tazza e piatto nel lavandino. Poteva anche esserne contenta ma non era così sciocca da farglielo capire.
Quell’improvviso atteggiamento non sfuggì a Napoleon, che la osservò, domandandosi cosa le passasse nella testa e approfittandone per ammirare le gambe lasciate scoperte della maglietta.
Appoggiò un braccio oltre la spalliera della sedia, voltandosi con il busto.
“Ottima squadra lo Stade Français Paris – fece una pausa prima di continuare – ma indossi qualcosa sotto oppure no?” chiese malizioso.
Juliet incrociò il suo sguardo e gli si avvicinò.
“Tu cosa pensi?” ribatté sollevando un sopracciglio.
Louis decise di restare al gioco.
“Niente?”
“Con te in casa? – sollevò l’orlo della maglia rivelando un paio di pantaloncini –  Puoi scordartelo” concluse ridendo.
 
***********************************************

Ve l’aspettavate che Napoleon si comportasse in quel modo? Juliet sicuramente no, anche se comincia a capire un po’ la mentalità “napoleonica” dove i fatti sono meglio delle parole (ed è più facile un gesto piuttosto che un discorso). Louis è un menefreghista, senza dubbio, è il primo ad ammetterlo però dentro ha tutto un mondo, fatto di contraddizioni, di paure ad aprirsi agli altri, di non sapere come rapportarsi. Da qui scaturiscono i suoi comportamenti aggressivi. Meglio tenere la gente a distanza ed evitare problemi. (Louis in versione cuoco è *sbav* - nota personale)
 
***
Nota 1: è doveroso ricordare che è stata Pucchyko la prima a scrivere delle doti culinarie di Napoleon, per cui il credit dell'idea è suo e io mi sono limitata ad appropriarmene (legamente lol) perchè è una cosa che adoro e vedo benissimo su di lui. Grazie Pucchy!!!

Nota 2: dato che mi è stato fatto notare che le crêpes possono essere fatte senza uova, io mi sono basata sulle informazioni del sito di giallozafferano.it

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Capitolo 6
*** Capitolo 6° ***


Avevano consumato la colazione in tranquillità, in un tacito accordo di tregua, ma adesso era finito. Juliet fu la prima a tornare seria.
“Non vuoi sapere come sei finito a casa mia?”
Napoleon rimase in silenzio, non sapendo effettivamente come rispondere. Prese il coltello e tracciò delle linee sul tovagliolo, valutando cosa dire. Quel silenzio venne scambiato per una risposta affermativa e la ragazza sospirò, indecisa su come affrontare l’argomento.
“Ieri sera eri ubriaco… tanto per cambiare” aggiunse, mordendosi le labbra per non essersi trattenuta dal lanciargli quella battuta.
“E tanto per cambiare tu non ti sei fatta i cazzi tuoi” sbottò il francese, sollevando di scatto la testa, fulminandola con lo sguardo.
Questa volta Juliet non raccolse la provocazione, se gli avesse risposto nuovamente a tono sarebbe diventato un circolo vizioso.
“Eri in vena di confidenze “ cominciò cautamente e notò che quella parola aveva attirato l’attenzione del calciatore, che ora la stava fissando con un sopracciglio sollevato, probabilmente incuriosito da cosa voleva dirgli.
“Hai parlato della partita…”
Napoleon scrollò le spalle fingendo indifferenza.
“Capirai, ho giocato miliardi di partite”
“Ti riferivi alla semifinale contro il Giappone”
Louis si irrigidì per un momento, poi si rimise la sua maschera impassibile.
“Me ne vado” dichiarò, spostando indietro la sedia rumorosamente e dirigendosi verso la porta.
“Non vuoi sapere cosa mi hai detto?”
 
Sì, Napoleon voleva sapere cosa si era lasciato sfuggire, non gli andava di discuterne con nessuno, anche perché non c’era proprio nulla di cui parlare, ma rimanere nell’incertezza era una cosa che non gli piaceva. Amava avere tutto sotto controllo, avere in pugno la situazione.
Si voltò e, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni ostentando indifferenza, la affrontò.
“Avanti, sentiamo. Ti ho raccontato che è piovuto in campo? Oppure cos’ho mangiato quando siamo tornati in albergo?”
Si rendeva conto di quanto fossero insulse le sue parole, ma non poteva fare a meno di smorzare la serietà di quel momento e, forse, una piccolissima parte di lui continuava a sperare di non aver detto niente di importante.
Juliet si avvicinò al divano senza sedersi e appoggiò le mani all’imbottitura.
“Stai sbagliando tutto”
“Cosa?”
“Stanotte continuavi a tormentarti per il rigore che hai sbagliato. Capisco che l’effetto dell’alcol ti abbia reso esageratamente drammatico ma è chiaro che la cosa ti bruci ancora”
“Non ho la minima intenzione di parlarne con te”
 
Juliet si lasciò sfuggire uno sbuffo ironico. Figuriamoci se poteva aspettarsi una risposta diversa.
“Era solo una partita. L’avete persa, ok… ma adesso devi andare avanti”
Louis sbatté gli occhi, si sentiva messo all’angolo. Non era tipo da fuggire vigliaccamente, per nessun motivo, però le sue parole si stavano avvicinando troppo alla verità, stavano portando a galla degli argomenti che lui voleva solo seppellire.
“Chi ti dice che non l’abbia fatto?”
“Tu. Sei scontroso, bevi e continui a parlare di quella partita. La cosa stupida è che ti sei creato dei problemi che non esistono” rimarcò lei in torno fermo.
“Ma cosa vuoi saperne tu”
“C’ero alla partita”
“Stai zitta, non ne voglio parlare”
“Il pubblico applaudiva, era orgoglioso di voi. E mi ricordo chiaramente che tutti i tuoi compagni sono venuti intorno a te, ti hanno messe le mani sulle spalle per consolarti…”
Le afferrò entrambi i polsi, sollevandole le braccia.
“Smettila!”
Ignorandolo, lei continuò a parlare, per quanto ne sapeva poteva essere la sua ultima occasione di dirgli quello che pensava.
“Non erano arrabbiati, sanno che non è stata colpa tua”
Lui strinse la presa intorno ai suoi polsi e la spinse costringendola ad indietreggiare.
“Stai zitta!”
Juliet sapeva che era un rischio insistere, lo stava facendo arrabbiare e la stretta intorno alle sue braccia le faceva male ma ormai era lanciata, doveva finire quel discorso per il suo bene, era troppo importante.
“Quello che voglio farti capire è che nessuno ti ha mai dato la colpa di niente. Le partite sono così, a volte si vince e a volte si perde e le responsabilità sono di tutta la squadra”
Louis scosse la testa.
“Non è vero. Gli altri hanno segnato…”
“Ma ti ascolti? Hai ingrandito questa vicenda e ti stai punendo per Dio solo sa cosa. Non puoi continuare a crogiolarti e farla lunga. Louis ti prego…”
“Stai zitta! Tu non sai niente, non puoi sapere come mi sento. Soprattutto non ti devi impicciare in questo storia chiaro?”
“Ma io voglio solo aiutarti”
Di colpo la lasciò andare facendo un passo indietro, schifato da quell’inutile proposta appena sentita.
“Come no”
“Lo so che ormai sei convinto che sia colpa tua ma se tu parlassi con i tuoi compag…”
 
Juliet non riuscì a finire la frase perchè Louis, veloce come un fulmine, le si era avventato addosso nuovo, spingendola contro al muro, con le mani che la inchiodavano spingendo sulle spalle.
“Non devi dirlo ad anima viva. Dimenticati tutto, chiaro?”
Lei trattenne il fiato, stupita e spaventata dalla sua reazione.
“Giura che non tradirai il mio segreto” sibilò stringendo gli occhi fino a farli diventare due fessure e avvicinandosi al suo viso.
Juliet vi lesse rabbia ma anche dolore. Sapeva che la cosa più sensata era insistere e cercare di farlo ragionare ma, dato che il soggetto in questione era Napoleon, insistere sarebbe servito solo a farlo incapponire di più. Per ora non poteva fare altro che accettare e assecondarlo.
Annuì con il capo.
“Non dirò niente a nessuno”
Nel sentire quelle parole lui parve rilassarsi impercettibilmente e diminuì la pressione con cui la teneva ferma.
“Sicura?” domandò di nuovo, fissandola intensamente negli occhi, per avere conferma che non lo stesse prendendo in giro.
Si prese il tempo di un profondo respiro prima di rispondere di nuovo.
“Sì” gli assicurò lei rassegnata, consapevole che quel semplice monosillabo la stava vincolando seriamente, perché non avrebbe mai tradito la sua fiducia.
 
Dopo qualche secondo di perfetta immobilità, Louis parve intuire la serietà con cui gli aveva fatto quella promessa perché la lasciò andare, dimostrando di crederle. Non aggiunse nient’altro, voleva solo andarsene da lì e da tutte quelle parole che erano state dette. Velocemente agguantò la porta e uscì sbattendola con rabbia.
 
**************************
 
Ovviamente non poteva durare troppo la tregua stabilita e le cose si complicano ulteriormente per colpa della promessa che Louis ha strappato a Juliet, anche se li sta legando ancora di più.
Più lei insiste a toccare quel nervo scoperto più la reazione di Napoleon è forte perché gli fa portare allo scoperto quei sentimenti che lui vorrebbe solo seppellire (a torto perché così non li risolverà mai).

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Capitolo 7
*** Capitolo 7° ***


Si sentiva come un leone in gabbia. Aveva voglia di urlare, di spaccare qualcosa, di prendere a calci il muro. Come aveva fatto a essere tanto idiota da spifferare tutto solo per aver bevuto un  qualche drink?
Cristo santo, doveva aver fuso il poco cervello che aveva.
Non gli erano bastate le stronzate fatte in campo, adesso aveva coinvolto anche quell’impicciona nella sua vita già abbastanza incasinata. Doveva uscire e sfogarsi in qualche modo. Velocemente si spogliò, indossò una maglietta nera, i pantaloni della tuta, gli occhiali da sole e il cappellino, e si diresse, a passo svelto, al parco Montsouris, lì vicino.
 
Appena entrato, inspirò l’aria a pieni polmoni. Lì si sentiva chiaramente l’estate: era tutta un’esplosione di colori. Sembrava quasi di entrare in una bolla di sapone, dove i rumori della città, semplicemente, non esistevano. Cominciò a correre lungo un vialetto, costeggiando i prati di un verde quasi accecante e proseguì, ignorando le persone sedute sulle panchine a leggere o semplicemente a riposarsi. Non guardò nemmeno le ragazze distese a prendere il sole, continuò  la sua corsa finché non si sentì i polmoni scoppiare e i muscoli indolenziti che ormai gridavano pietà. A quel punto, dopo aver costeggiato più di metà laghetto, si lasciò cadere su una collinetta, sdraiandosi completamente e allargando le braccia. Inspirava con la bocca profonde boccate d’ossigeno, mentre il petto si alzava e si abbassa, cercando di compensare lo sforzo e ritornare a un ritmo più tranquillo.
 
Fissò il cielo sopra di lui. Non c’era una nuvola, era una splendida giornata di sole e questo lo fece incazzare ancora di più. Anziché tranquillizzarsi, come sarebbe accaduto alla maggior parte delle persone davanti a quello spettacolo, a lui venne il nervoso. Tutti sembravano così soddisfatti dell’estate, del caldo, erano felici.
Che andassero a farsi fottere.
Lui era incazzato nero e avrebbe preferito un bel temporale che rovinasse la giornata a tutti, così avrebbero capito come si sentiva. Soprattutto lei. Gli risuonavano ancora nella testa tutte le parole inutili che aveva detto. Sollevò leggermente il capo e lo sbatté all’indietro, sul terreno, per un paio di volte, quasi bastasse quel gesto per cancellare quanto si erano detti.
“Non erano arrabbiati, sanno che non è stata colpa tua”
Cazzo, avrebbe pagato qualsiasi cifra perché fosse tutto vero, ma le cose non stavano così. Potevano anche non avercela con lui, però il rigore sbagliato che li aveva buttati fuori dal Torneo era stato il suo: tutte le frasi del mondo non sarebbero servite a cambiare quella realtà né a cancellarlo dalla memoria di tutti quelli presenti allo stadio.
 
Era un menefreghista, ma una cosa l’aveva capita: non avrebbe retto ancora per molto in questo stato. Aveva davvero bisogno di andarsene via, lontano da Parigi, lontano da tutti quei ricordi.
Etienne.
Suo fratello lo aveva invitato a trascorrere qualche settimana nella casa che aveva affittato in un paesino vicino a Le Havre. Non erano mai stati particolarmente legati, loro due. Etienne aveva quasi 10 anni più di lui, soprattutto da ragazzi quella differenza era stata di ostacolo al loro rapporto. Troppi interessi diversi in un’età in cui anche solo pochi anni creano un divario enorme. Quando lui era arrivato ad apprezzare i robot e i videogiochi, suo fratello li aveva già abbandonati per le ragazze e quando anche Louis aveva raggiunto quella fase, Etienne aveva messo la testa a posto, dedicandosi agli studi, fidanzandosi e poi sposandosi. Alla fine avevano preferito ignorarsi per la maggior parte del tempo. Sette mesi fa, invece, c’era stata la svolta. Sophie, la sua cara cognata, era rimasta incinta e l’idea di diventare padre aveva letteralmente trasformato suo fratello, facendogli riscoprire l’importanza della famiglia. Nonostante non amasse particolarmente il calcio, si era interessato della sua carriera nel Paris St. Germain e aveva fatto il tifo per lui, venendo allo stadio durante il Torneo.
 
Ricordava ancora l’espressione che aveva dipinta in volto quando lo aveva aspettato all’uscita. Lui camminava a testa bassa, tenendo il borsone appoggiato su una spalla, lasciando che il ciuffo gli nascondesse il volto. Non stava più piangendo, le lacrime le aveva versate tutte su quel maledetto campo. Etienne lo aveva chiamato per nome, senza aggiungere altro e lui aveva rialzato il capo, colpito dall’intonazione che aveva usato. Non c’era rimprovero nella sua voce, non c’era  compassione, ma qualcosa di diverso che, per la prima volta dopo tanti anni, gli aveva ricordato il legame con lui.
Poi Sophie lo aveva invitato da loro la prima settimana di agosto. Diceva che il piccolo, o la piccola, già nella pancia imparava a distinguere le voci ed era giusto che si abituasse anche a quella dello zio Louis.
Zio Louis.
Sorrise al pensiero di un marmocchio che sbavava, appiccicandosi a lui. Sarebbe stato molto fastidioso, non aveva dubbi ma, una parte di sé molto in fondo e molto nascosta, non vedeva l’ora di sentirsi chiamare così. Annuì con il capo, soddisfatto di tutte quelle riflessioni e poi, con un colpo di reni, si sollevò mettendosi seduto.
Sarebbe partito per andare da loro. Doveva solo far passare le prossime due settimane.
 
*
 
“Come stai tesoro? In Giappone siamo stati accolti come degli eroi, non immagini le feste e le manifestazioni dopo la vittoria al Torneo di Parigi. Avrei tanto voluto che fossi qui con me a goderti il nostro trionfo... Ma fra due settimane ci sarai finalmente! Non vedo l’ora di riabbracciarti. Voglio sapere tutto sull’università,  sui corsi e anche sullo stage che farai al Paris St. Germain. Anche se, non te lo nascondo, preferirei che tu tornassi. Non ho dubbi che, con le tue competenze, riusciresti a ottenerne uno anche qui in molti club. Lo sai che spero sempre che tu decida di tornare in Giappone. Chiamami. Ti voglio bene Yuki-chan.”
 
Juliet sospirò finendo di leggere la mail di suo padre.
Yukiko.
Le faceva strano sentire il suo primo nome, non lo usava più da tanto tempo, da quando a quindici anni aveva messo piede sul suolo francese in pianta stabile, per l’esattezza. Era quasi come se stessero parlando di un’altra ragazza, di una persona completamente diversa. Invece era sempre lei.
Suo padre, come al solito, non mancava mai di sottolineare le possibilità offerte dal Giappone ed esagerando nell’attribuirle chissà quali doti ma, tutto sommato, le faceva piacere che suo padre la ritenesse brava. Sorrise, riflettendo che certe cose non cambiavano mai. Aveva voglia di vedere Tokyo, Sapporo e le altre città, di sentir parlare in giapponese e di vedere i kanji. Ok, era una cosa molto infantile, ma gli ideogrammi l’avevano sempre affascinata: da bambina aveva passato ore china sui libri a studiarli e anche adesso, nonostante non li vedesse abitualmente, capitava che li disegnasse se era al telefono o solo soprappensiero.
Sì, aveva davvero voglia di staccare un po’ dalla sua vita e cambiare aria. Non poteva non ammettere che tutto l’interesse di suo padre la riempisse di gioia e, per quanto fosse stata lei a decidere di stargli lontana, farsi coccolare un po’ era quello di cui aveva bisogno. Non sarebbe stato facile all’inizio, lo sapeva bene, ogni volta che usciva dall’aeroporto veniva investita da un’ondata di ricordi che finivano per farla stare male, ma, superato quel primo scoglio, tutto sarebbe filato liscio. O almeno lo sperava.
Di sicuro non ci sarebbe stato quel disgraziato di Napoleon, con tutti i suoi casini irrisolti. Per quanto la riguardava poteva davvero andare al diavolo. Aveva fatto fin troppo per lui, non gli doveva niente né tantomeno c’era un motivo per comportarsi verso di lui da chioccia premurosa.
Gli aveva promesso di non farne parola con nessuno, questo la sollevava da ogni responsabilità. Aveva davvero provato ad aiutarlo, cosa poteva fare di più?
Niente.
Voleva continuare a bere e rovinarsi il fegato e la vita?
Che lo facesse pure.
Non lo avrebbe più aiutato, assolutamente.
 
***********************
 
Capitolo abbastanza neutro in cui non succede granché, ma che da qualche informazione in più sulle situazioni familiari di Louis e Juliet. Napoleon sta per diventare zio e, per quanto faccia finta di nulla, è elettrizzato *___* mentre emerge qualche particolare del passato giapponese di Juliet (o Yukiko). Partiranno entrambi dopo 2 settimane, ma non è una coincidenza buttata lì, c’è un evento a cui sono legati, che verrà fuori più avanti.
 
Ringrazio chi legge e commenta o legge silenziosamente dietro le quinte (anche se mi farebbe piacere sapere se vi piace, se c’è qualcosa di stonato o altro).

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Capitolo 8
*** Capitolo 8° ***


Si erano incrociati sulle scale. Juliet stava rientrando, dopo essere stata al McDonald’s, con in mano un sacchetto di carta che sprigionava un’invitante odore di patatine fritte. Louis, invece, stava scendendo, pronto a uscire.
Dopo essersi ripromessa un miliardo di volte che non si sarebbe più fatta coinvolgere da lui, riuscì a non fare nessun commento, mordendosi la lingua e limitandosi a squadrarlo . Napoleon, invece, sembrò trovare divertente la sua reazione, perché si mise a ridere.
“Sei stai cercando di farmi paura con quell’occhiataccia, devo proprio deluderti. Ho intenzione di uscire, come ho sempre fatto” dichiarò strafottente, con le braccia allargate, che toccavano l’una il corrimano, l’altra il muro, quasi come se volesse bloccarle la salita.
“Per quanto mi riguarda puoi anche andare a farti fottere” commentò lei, lapidaria.
“Uhh che cattiveria. Sei per caso gelosa?” la prese in giro.
Juliet salì un altro gradino, trovandosi quasi faccia a faccia con lui, per quanto lo consentisse la differenza di altezza. Era già abbastanza arrabbiata per il comportamento stupido di Napoleon che, oltre a non volersi far aiutare, l’aveva praticamente costretta a diventare sua complice in questa strana follia. Ma che ora le sbattesse in faccia il suo divertimento era davvero troppo.
La ragazza scosse la testa.
“Hai deciso di continuare a comportarti da coglione? Va bene, ma non prendermi per il culo scherzando in questo modo. E, soprattutto – continuò, puntandogli un dito contro la spalla, spingendolo indietro – non ti azzardare a chiedermi aiuto. Stasera non esco quindi non c’è pericolo che ti trovi moribondo sulle scale, non contare su di me”
Louis, strinse gli occhi, fissandola, altrettanto arrabbiato. Non gli piacevano le ramanzine, da parte di nessuno, soprattutto con quel tono saccente, come se lei avesse la verità assoluta e lui fosse solo un ragazzino capriccioso.
“Non ti ho mai chiesto niente, quindi sarebbe proprio ora che ti facessi i cazzi tuoi”
“Lo farò, stanne certo”
“Bene. Almeno mi sveglierò nel mio letto e non da qualche altra parte dopo essere stato sequestrato”
“Sequestr… - non concluse la parola, cercando di non perdere le staffe dato e dare a Louis quella soddisfazione – fammi passare” gli intimò.
Lui rimase immobile per un momento, come se volesse ribadire di avere in pugno la situazione, persino di poter decidere se e quando farla passare. Alla fine, spostò un braccio, lasciandole la via libera. Juliet salì veloce le scale, senza voltarsi indietro, e Napoleon uscì.
 
*
 
Louis era riuscito a tornare a casa, aveva persino infilato le chiavi nella serratura, entrando in casa. Camminare fino al proprio letto, però, sarebbe stata un’impresa troppo ardua, quindi si era limitato a lasciarsi cadere sul divano. Poco dopo, però, aveva iniziato ad avere dei dolori allo stomaco. Le fitte si erano fatte più insistenti e, contorcendosi, era scivolato sul pavimento, tenendosi la pancia con le mani.
Stava male.
Per un momento pensò quasi che sarebbe morto, poi però capì cosa stava succedendo. Forse qualche medicina l’avrebbe aiutato.
“Gocce, pastiglie, droghe… - mormorò – qualsiasi cosa purché passi”
Con uno sforzo riuscì a tirarsi in piedi, trascinandosi fuori dall’appartamento.
 
Juliet aveva passato una serata tranquilla. A parte l’incontro sulle scale, che le aveva fatto venire il nervoso, era riuscita a rilassarsi. “Il ritorno dello Jedi” visto in televisione le aveva fatto recuperare il buonumore. Quello e il cibo spazzatura che aveva mangiato fino all’ultima briciola. Le piaceva professarsi salutista, ma le scorte di M&M’s e di tavolette di cioccolato, smentivano clamorosamente i suoi buoni propositi. Si era appena addormentata quando il suono del campanello l’aveva fatta saltare sul letto.
Chi mai poteva essere? C’era un’emergenza?
I secondi impiegati ad alzarsi le servirono per darsi da sola una risposta, anche se non poteva credere che lui avesse avuto la faccia tosta di suonarle. In realtà, era capace di fare ben di peggio, era quello il problema.
Aprì la porta, trovandoselo davanti con un aspetto cadaverico. Era bianco come l’intonaco delle pareti, stava appoggiato allo stipite della porta, leggermente piegato in avanti.
“Mi sento male” spiegò, portando una mano all’altezza della pancia.
Juliet gli scoccò un’occhiata ironica.
“E io dovrei aiutarti? Eppure questa mattina e questa sera sei stato molto chiaro...” non poté evitare di commentare, ancora arrabbiata per quei suoi modi così contradditori. In realtà voleva solo evitare di rendergli facili le cose: non gli avrebbe mai negato aiuto, ma non era giusto che se ne approfittasse.
Louis picchiò il palmo aperto sullo stipite della porta, in gesto di stizza.
“Sei un medico…”
“Tu vaneggi! Io non sono un medico, studio da fisioterapista è ben diverso”
Napoleon non era in vena di discutere su certi dettagli inutili e cominciava a sentire un dolore sordo che gli opprimeva lo stomaco e stava risalendo fino alla gola.
“Mi fai entrare?” sbottò al colmo della pazienza.
“Perché dovrei?” risposte piccata Juliet, ben decisa a non dargliela vinta subito.
Napoleon capì di essere al limite, con uno scatto spinse di lato la ragazza, fiondandosi all’interno dell’appartamento.
“Perché sennò ti vomito sul pavimento” fu la sua spiegazione mentre correva verso il bagno.
Juliet rimase immobile, troppo stupita. Chiuse gli occhi augurandosi che fosse riuscito ad arrivare fino al water.
 
Gli lasciò un po’ di privacy e solo quando sentì, prima il rumore dello sciacquone e poi quello dell’acqua che scorreva, si azzardò a entrare. Louis era seduto per terra, con le ginocchia piegate e la schiena appoggiata alla parete.
La rabbia provata poco prima era svanita di colpo. Juliet si sentiva impotente e non sapeva come aiutarlo. Se fosse servito dargli delle legnate in testa per farlo rinsavire l’avrebbe fatto. E probabilmente si sarebbe pure divertita, pensò con benevola malignità. Involontariamente si lasciò sfuggire una risatina che attirò l’attenzione di Louis, il quale alzò il capo verso di lei, scostandosi il ciuffo biondo dagli occhi.
“Non ci trovo niente di divertente” replicò in tono roco, con un filo di voce perché la gola gli faceva male dopo lo sforzo.
“Scusa” mormorò la ragazza, sedendosi accanto a lui e stando attenta a non toccarlo.
Fissò le piastrelle davanti a sé.
“Stavo immaginando di bastonarti” ammise seria.
Louis, che non si aspettava un’affermazione del genere, tossì, gemendo per il fastidio.
“Perché non di accoltellarmi già che ci sei, così la facciamo finita del tutto” replicò ironicamente.
“Poi dovrei pulire il sangue” fu la risposta secca di lei.
 
Juliet si sentì sollevata, se quel disgraziato era in grado di fare battute, allora stava meglio. Oltre al sollievo c’erano altre sensazioni che si agitavano nel suo animo… l’irritazione costante che avvertiva nei confronti di Louis, quand’erano insieme, sembrava così lontana ora. In quel momento era solo un ragazzo normale, che non cercava a tutti i costi di trattare male le persone intorno a lui, ma le stava mostrando un’altra sfaccettatura di sé. Era sicura che non fosse sua abitudine chiedere aiuto, invece si era rivolto a lei, mettendo da parte il proprio orgoglio, perché non stava bene. Non poteva negare di essere contenta che fosse venuto a cercarla, dimostrando così di fidarsi di lei, in un certo senso.  Era ironico che, solo pochi giorni prima, si fosse augurata di non vederlo mai più e adesso, invece, fosse felice di essere con lui.
Doveva essere impazzita.
Una cosa, però, l’aveva capita: con Louis non valevano teorie o promesse. Andava preso così a scatola chiusa, a seconda del momento e, a quanto pareva, lei aveva ormai accettato, inconsciamente, tutto questo.
“Non so tu, ma io ho sonno” dichiarò, sbadigliando subito dopo.
Poi si alzò in piedi e gli voltò le spalle per uscire dal bagno.
“Se vuoi, il divano è tutto tuo, a patto di farmi trovare le crepes anche domani mattina” butto lì, senza girarsi, in tono neutro.
“Perché, hai fatto la spesa?” la prese in giro Louis, alzandosi a sua volta e raggiungendola.
Arrivati in salotto lei si voltò, storcendo le labbra in una smorfia.
“No”
“E come pensi possa farle, le crepes?” domandò lui, allargando le braccia con fare teatrale.
“Mi alzo domani e compro tutto” promise Jules.
“Non mi svegliare quando esci” la minacciò Louis.
“Lo farò quando torno per avere la mia colazione” ribatté di nuovo la ragazza.
“Va bene” accettò il giocatore.
“Affare fatto allora. Buonanotte”
“Buonanotte”
 
 
*************************************

Non perdono occasione per dirsene di tutti i colori ma, alla fine, quei due sono sempre insieme. Louis dimostra tutta la sua classe, pure andando a vomitare a casa altrui XD eppure io lo trovo tenero lo stesso *__* E’ chiaro che non vuole stare da solo ed è fortunato perché Juliet ha la sindrome della crocerossina di voler aiutare tutti (tranne se stessa).

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Capitolo 9
*** Capitolo 9° ***


Napoleon l’aveva sentita muoversi per l’appartamento. Per quanto lei avesse cercato di fare piano, lo aveva  comunque svegliato. Louis aveva dischiuso solo un occhio, per capire cosa stava combinando e l’aveva vista muoversi in punta di piedi, con in mano le scarpe da ginnastica. Era abbastanza ridicola, come quegli attori di film di serie B, che recitano da cani e fanno tutto in modo scontato.
Che stupida.
Tra l’altro non era nemmeno riuscita a mantenere la promessa di non svegliarlo. Appena Juliet fu uscita, e dopo aver sentito girare la chiave nella serratura, si spostò mettendosi su un fianco con un braccio piegato sotto la testa. Realizzò, di colpo, che era già mattina e che aveva dormito placidamente finché lei non l’aveva disturbato.
Cazzo, non aveva avuto nessun incubo, nessun brutto sogno l’aveva tormentato finalmente. Provò, per un attimo, una sensazione di benessere. Riconsiderò anche il comportamento di Juliet: non aveva nessun obbligo nei suoi confronti, come le aveva ribadito lui stesso più volte, eppure gli aveva aperto la porta ancora una volta, dopo che lui si era comportato da idiota e l’aveva ospitato per dormire. Si era persino alzata presto per fare la spesa, quando avrebbe potuto dirgli di arrangiarsi e sbatterlo fuori casa. Lui avrebbe fatto così con chiunque. Forse non con lei.
Perché lo faceva?
Perché si stava prendendo cura di lui?
Era un solitario, un po’ misogino a volte, ma non era così stupido da non aver capito quanto fosse disponibile nei suoi confronti. Sì, probabilmente, lui era stato abbastanza presuntuoso da pretendere un aiuto quando gli faceva più comodo, ma non capiva perché lei non l’avesse ancora preso a calci. Sbuffò scocciato, non sapendo rispondere a nessuna di queste domande. Forse era meglio approfittarne per dormire ancora un po‘ prima che tornasse.  Però doveva ammettere che era bello avere qualcuno che, una volta tanto, si preoccupava per lui.
 
Juliet era molto soddisfatta di se stessa. Aveva un sacchetto pieno di roba da mangiare, roba fresca che qualcuno avrebbe cucinato per lei. Solo il pensiero la fece sorridere. Lei odiava mettersi ai fornelli, le sembrava solo una perdita di tempo; ecco perché prediligeva i cibi pronti, da scongelare o che non necessitavano niente di più che farli cuocere o semplicemente scaldare. Quasi si leccava le labbra al pensiero di mangiare di nuovo quelle favolose crêpes, chissà magari poteva convincerlo a prepararle anche dei pancakes, o persino il pranzo. Stava fantasticando, mentre saliva le scale, quando i suoi occhi, che erano all’altezza del pianerottolo, inquadrarono un paio di scarpe da ginnastica, poi intravvidero un paio di gambe dentro dei jeans e, più su, un fondoschiena di tutto rispetto. Sorridendo si trovò a considerare che anche la schiena e le spalle facevano la loro figura sotto la polo blu scuro. Insomma un ragazzo niente male da guardare. Quando quest’ultimo si voltò, i magnetici occhi verdi dello sconosciuto si fissarono su di lei. Juliet spalancò i propri, soffocando una parolaccia.
Pierre Leblanc.
Aveva di fronte il capitano della Nazionale francese e stava proprio davanti alla porta di Napoleon. Purtroppo l’aveva vista e questo le impediva di tornare indietro, facendo finta di niente.
“Scusa” le disse lui, accennando un sorriso mentre lei, a malincuore, era salita fino al pianerottolo.
“Dimmi”.
“Abiti qui?” le chiese a metà tra una domanda e un’affermazione mentre adocchiava il sacchetto della spesa.
Juliet si trovò costretta ad annuire, senza aggiungere altro.
“Conosci Napoleon? Sai dove può essere? E’ una settimana che gli lascio dei messaggi ma non mi ha mai risposto. Adesso sono qui ma sembra che non ci sia nessuno in casa” le spiegò, scuotendo il capo come se non trovasse una motivazione valida al suo comportamento.
Juliet si morse il labbro, maledicendo la situazione in cui si trovava. Se solo Louis non l’avesse costretta a quell’assurda promessa… Sarebbe bastato invitarlo a casa propria e lasciare che quei due si parlassero e se la vedessero da soli, faccia faccia. Invece non poteva perché quel disgraziato di Louis, le aveva fatto giurare di non dire niente a nessuno.
Per un momento fu tentata di fregarsene, se anche lui poi si fosse arrabbiato, pazienza: non aveva obblighi verso di lui. E allora perché cazzo sentiva di non poter rovinare la fiducia che le aveva dato?
Sapeva di sbagliare, lo sapeva fin nel profondo del cuore, ma ormai aveva deciso e non poteva fare altro che andare avanti.
“Lo conosco di sfuggita, ma in questi giorni non ci siamo visti. Forse è andato a casa di qualcuno…” butto lì, come se questa piccola parte di verità potesse compensare l’enorme bugia appena detta.
Vide la delusione sul volto di Pierre.
“Capisco – mormorò annuendo – se ti capitasse di vederlo potresti dirgli che l’ho cercato? Sono Pierre Leblanc”.
Lei sorrise.
“So chi sei”.
“Sono onorato che tu mi conosca e grazie per l’aiuto” le disse, sfoderando un affascinante sorriso mentre la fissava negli occhi, come se fosse l’unica donna sulla faccia della terra.
Juliet fu costretta a sostenere quello sguardo solo per un momento, prima di rompere il contatto visivo e fare finta di riprendere a salire le scale.
 
Pierre era molto affascinante e capiva le folle di ragazze urlanti, soprattutto dopo questo contatto ravvicinato, però non poteva negare di sentirsi uno schifo per avergli mentito mentre lui era stato così gentile.
Perché era finita in questo pasticcio?
Aprì la porta e si trovò davanti, perfettamente lavato e vestito, la causa dei suoi tormenti.
“Che c’è? – l’apostrofò malamente lui sentendosi fissato – sembra che ti sia morto il gatto, hai una faccia…”
Jules si limitò a scuotere il capo, senza dire nulla. Appoggiò la spesa sul avolo e tirò fuori il cibo.
“Ho fatto la mia parte, adesso voglio le crêpes
“Siediti e osserva il maestro all’opera” dichiarò solennemente Louis.
 
Quando furono seduti a fare colazione Juliet si decise a raccontargli chi aveva visto.
“C’era Pierre qua fuori quando sono tornata”
“Cosa?”
Napoleon lasciò cadere la tazza di caffè, che sbatté malamente sul tavolo.
“Gli hai detto…” esordì facendo sicuro in volto.
“No” mormorò lei sconsolata, fissandolo negli occhi.
Louis, che era rimasto a bocca aperto, la fissò a sua volta con uno sguardo indagatore, cercando di capire se lei gli stesse mentendo oppure no.
Era sincera.
Non sapeva spiegarsi da cosa l’avesse intuito ma era così.
“Perché?” l’aggredì, come se volesse accusarla per aver mantenuto la promessa.
Juliet batté i palmi delle mani sul tavolo con stizza, dopodiché si alzò in piedi. Come poteva, proprio lui, rivolgerle quella domanda, per di più comportandosi come se fosse offeso da quello che aveva fatto? Non bastavano i sensi di colpa per aver mentito a Pierre, che era stato così gentile nel chiederle informazioni, adesso doveva anche farsi trattare in quel modo…  un modo che non si spiegava.
“Perché? – sbottò arrabbiata alzando il tono di voce – Fammi capire bene: prima fai mille menate e mi fai giurare di non dire niente, poi quando lo faccio mi aggredisci come se ti avessi fatto chissà che torto?”
Napoleon strinse gli occhi, riducendoli a due fessure, e alzandosi a sua volta in piedi.
“Non ti ho aggredito!”
“Spiegami quella domanda allora, perché io non ci arrivo! Cosa vuoi da me ancora?” domandò esasperata.
“Intendevo dire… Perché lo stai facendo?” sbottò Louis a sua volta, afferrando la sedia per lo schienale e sbattendola a terra per dare maggiore enfasi alle sue parole. Quel gesto non l’aveva minimamente turbata, mentre la domanda sì, la stessa che si era fatta più volte. Sospirò profondamente, passandosi una mano nei capelli e scompigliandoli. Fece qualche passo, scuotendo più volte il capo e andò ad appoggiarsi con la schiena al lavello, fissando il pavimento.
“Non lo so – mormorò lei con un tono di voce molto più tranquillo, quasi stanco, scavando dentro di sé per trovare una risposta – non lo so perché finisco per raccattarti dalle scale quando stai male e, soprattutto perché sono diventata tua complice in questa… cosa. Però ormai è così. Ci sono delle azioni che, ragionando, non faresti mai perché sai che sono stupide, che sono sbagliate ma… Se ascolti il cuore capisci che ci sono motivazioni diverse e cedi – rialzò il capo, fissandolo con gli occhi quasi di un grigio metallico – sei uno stronzo e pure un coglione, se vogliamo dirla tutta… e mi fai girare le palle una volta sì e un’altra pure – si interruppe nel vedere Napoleon fare un sorriso sghembo, quasi fosse d’accordo con quella descrizione, dopodiché, rivolse di nuovo lo sguardo verso il pavimento – però ormai ti ho aperto la porta di casa mia e… beh, la troverai sempre aperta” concluse d’un fiato, vergognandosi per avergli confessato quelle cose, ma anche sollevata per aver fatto un po’ di chiarezza per se stessa.
“Comunque, mi sento uno schifo per aver mentito a Pierre” aggiunse.
 
Napoleon rimase a guardarla, valutando tutto il discorso appena sentito. Era completamente immobile e, per qualche secondo, trattenne anche il respiro mentre una strana sensazione si faceva strada dentro di lui e finì per provocargli un vuoto all’altezza dello stomaco. Gli sembrava di essere sulle montagne russe quando scendono in picchiata, senza avere nessuna cintura di sicurezza. Ma anziché avere paura, tutto sommato era… felice. Si mosse, raggiungendola e appoggiandosi nello stesso modo di fianco a lei.
“Grazie” si trovò a mormorare, con un filo di voce.
Una parola che aveva pronunciato pochissime volte in vita sua, probabilmente si potevano contare sulle dita di una mano, ma si sentiva di dirlo, si sentiva di farle capire che, per quanto non fosse capace di esternare i suoi sentimenti, né volesse farlo, aveva apprezzato quanto fatto per lui, quanto le fosse costata quell’ammissione e quanto lo avesse toccato nell’animo.
 
E Juliet lo capì. Tutto si aspettava, tranne che di sentire quella parola. Avvertì il cuore accelerare i battiti, mentre combatteva per non sorridere. Sapeva che non doveva essere stato facile per lui dirlo, anzi. Proprio per questo si sentiva privilegiata. Non disse niente perché qualunque cosa sarebbe apparsa insulsa. Timidamente, inclinò la testa, per appoggiarla contro la sua spalla, lo fece piano, preparata al fatto che Louis avrebbe potuto sottrarsi a quel contatto, offendendosi. Invece il calciatore si irrigidì per un momento, probabilmente spiazzato da quel movimento, ma non si mosse, accettando quel contatto e tutti i significati che c’erano dietro.
“Bah… mi sa che mi toccherà cucinarti anche il pranzo. Starai comunque da schifo, ma almeno avrai lo stomaco pieno”
Quella battuta alleggerì l’atmosfera e Juliet si concesse di ridacchiare, felice per la piega presa dal loro strano rapporto.
 
*******************************
Niente è mai semplice tra Juliet e Louis, nemmeno quando devono chiarirsi ma ormai comincia ad esser chiaro che possono contare l’uno sull’altra. Pierre ha fatto la sua comparsa e non sarà felice di scoprire che Juliet gli ha mentito ma tutto a tempo debito.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10° ***


“Basta! Io non ce la faccio più…”
Juliet, ormai senza fiato, si fermò con la schiena piegata in avanti e le mani appoggiate sulle ginocchia. Louis l’aveva convinta ad andare con lui a correre, al Parco Montsouris, dove si allenava abitualmente. All’inizio lei si era mostrata un po’ scettica, anche perché non si era aspettata quella richiesta, però le aveva fatto piacere essere invitata, il fatto che volesse coinvolgerla nella sua vita. Per uno come lui era già un grande passo. Quello che non aveva considerato era quanto avrebbero corso. Era riuscita a resistere per ben due giri interi del parco, completando il secondo per pura forza di volontà e per non sentirsi prendere in giro. Infatti sospettava che, sotto sotto, fosse quello il suo diabolico intento.
Ma alla fine aveva ceduto.
Louis l’aveva squadrata, dall’alto al basso, con espressione di disprezzo e scuotendo il capo.
“Non hai il fisico…”
Juliet era troppo stanca perché qualcosa riuscisse a scuoterla, nemmeno gli sbeffeggiamenti di Napoleon. Raggiunse una panchina e si sdraiò sopra, a pancia in su, lasciando una gamba che toccava terra e l’altra piegata, appoggiata sulla seduta. Aveva la gola secca e il fiato corto, cortissimo.
“Non mi interessa – mugolò con un filo di voce – fai tutti i giri che vuoi, puoi anche arrivare fino alla Tour Eiffel e salirci a piedi. Io rimango qui a recuperare il poco di vita che mi è rimasta”.
A quel punto lo sentì ridere.
Fu così inaspettato che, per un momento, quasi non si accorse che veniva da lui. Sbarrò gli occhi e si sollevò con uno scatto di reni, dopodiché rimase a fissarlo sconcertata. Napoleon notò quello strano sguardo e, in un attimo, ritornò alla solita espressione scontrosa.
“Che c’è?” scattò, subito sulla difensiva.
“Niente, niente” si affrettò a precisare lei, non volendo attirare la sua attenzione su quel particolare e si rimise sdraiata.
Dopo averla squadrata ancora per un momento, il bomber francese scrollò le spalle.
“Faccio ancora un giro, poi vengo a raccattarti, così proviamo l’inversione dei ruoli” commentò, guadagnandosi una linguaccia da parte della ragazza, a cui rispose con una smorfia e poi corse via.
 
Quella mattina, Napoleon si era alzato decisamente riposato. Con sollievo aveva constatato che, per la seconda volta, aveva dormito placido come un bambino. Forse il suo incubo era finito, era riuscito a superare quei maledetti ricordi che sembravano divertirsi a tormentarlo di notte. Subito aveva pensato a Juliet e gli erano tornate in mente le sue parole “ti ho aperto la porta di casa mia e… beh, la troverai sempre aperta”. Poteva anche averlo detto per semplice cortesia ma a lui piaceva aggrapparsi a quelle frasi, risentirle nella sua mente e farle scendere giù, fino a scaldargli il cuore. Si rendeva conto che era una cosa idiota e non l’avrebbe mai confidata ad anima viva visto che se ne vergognava, ma lo faceva star bene e, dannazione, aveva pure il diritto di rimuginare liberamente su quello che gli passava per la mente. Quindi avrebbe continuato a farlo tutte le volte che voleva, tanto nessuno l’avrebbe mai saputo.
Era anche curioso di sapere qualcosa di più su di lei. Si era interrogato, la sera prima nel suo letto, su cosa provasse. Non si sentiva attratto in modo sessuale. Certo, era una ragazza carina, quegli occhi grigi erano particolari e sarebbe stato cieco a non vedere quel seno prosperoso, su cui aveva indugiato più volte con lo sguardo, ma non aveva voglia di baciarla o portarsela a letto per una notte di follie. No, il suo interesse era diverso. Voleva sapere qualcosa della sua vita, capire cosa l’aveva portata lì a Parigi e anche cosa ci trovava in uno come lui, per perderci tutto quel tempo. Non gli capitava spesso di provare curiosità verso le persone, anzi solitamente se ne disinteressava totalmente. Solo lui contava, gli altri erano comparse marginali, a meno che non dimostrassero doti particolari che potevano servirgli nella sua vita. Come Pierre. Lui sì che era una persona degna di nota, era un eccellente giocatore e con i suoi passaggi riusciva sempre a segnare e dimostrare tutto il suo talento. Si adombrò per un attimo, ripensando al fatto che era venuto a cercarlo.
Doveva richiamarlo?
Ovviamente sì, anche se non sapeva come fare, cosa dire. Avrebbe lasciato passare ancora qualche giorno, magari sarebbe successo qualcosa o gli sarebbe venuta l’ispirazione per farlo, inutile preoccuparsene prima.
 
Perso in tutte quelle riflessioni, non si era accorto di aver già finito l’intero giro del parco. Doveva ricordarsela questa cosa: rimuginare aiutava ad affrontare meglio gli sforzi, ma ti incasinava di più la vita. Scosse la testa rispondendosi da solo: meglio la fatica fisica che quella mentale.
Si fermò al chiosco provvisorio che veniva montato quando cominciava la bella stagione e comprò due bottigliette d’acqua. Fece l’ultimo pezzo di sentiero camminando, regolando la respirazione per rallentare i battiti e immettere più ossigeno nei polmoni. Juliet era esattamente nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata. Si avvicinò e la propria ombra le oscurò il viso, ma la ragazza tenne comunque gli occhi chiusi.
“Sei ancora viva?” domandò, fingendo indifferenza.
“Sembra proprio di sì” mormorò lei.
“Io vado a fare un po’ di streching sul prato, se mi vuoi raggiungere…” l’avvertì.
Non fece in tempo a voltarsi che la vide scattare in piedi, sorridente.
“Vengo anch’io”.
Sollevò le sopracciglia, squadrandola con i suoi occhi indagatori.
“Non eri in fin di vita?”.
Juliet si tolse l’elastico dai capelli per rifare la coda più stretta.
“Ho una ripresa eccezionale e se pensi di avermi spaventato con quella corsetta, non ti illudere. Andrà meglio la prossima volta” concluse rialzando il mento e guardandolo con espressione di sfida.
A Louis piacque il suo modo di fare, era abbastanza sbruffona e con la faccia tosta da aver rigirato la figuraccia di prima come se fosse stato solo un caso. Poi, gli era piaciuta la battuta finale “la prossima volta”, come se desse per scontato che sarebbero andati di nuovo a correre insieme. Lui preferiva farlo da solo, non avere nessuno tra i piedi che volesse parlare o che lo rallentasse, ma non escludeva di poterla includere in qualche allenamento, giusto per il gusto di prenderla in giro. Sì, probabilmente ci sarebbe stata una prossima volta, decise.
 
Raggiunsero una zona ombreggiata dagli alberi e si sedettero per terra.
Louis la chiamò e poi le lanciò la bottiglietta d’acqua.
“Per me?” chiese Juliet, spalancando gli occhi grigi, dubbiosa.
Il bomber francese scrollò le spalle.
“Non fare quella faccia stupita… E’ semplice acqua, non ti ho preso dello champagne”
“Grazie, allora. Non avrei gradito comunque champagne a quest’ora del mattino… magari tu sì. Anche se… ho visto come reggi bene l’alcol” butto lì, per prenderlo in giro.
Poi aprì la bottiglietta dell’acqua per berne un sorso fresco, osservando di nascosto Napoleon, che se ne accorse e si limitò a sollevare il dito medio nella sua direzione, mentre faceva degli allungamenti per i polpacci.
Juliet non se la prese, l’aveva provocato apposta. Anzi, si stava accorgendo di quanto fosse divertente punzecchiarlo, anche perché lui stesso forniva un sacco di spunti per essere preso in giro. Accantonando queste considerazioni, si dedicò anche lei a fare stretching.

**********************
Capitolo un po' di transizione, però mi piaceva raccontare un momento di vita "normale" e poi veder ridere di gusto Napoleon, in modo sincero vale il capitolo *___*  (sono di parte sul mio pupillo, si sa) e, comunque, ci sarà il continuo di questa giornata.
Grazie a chi mi segue nonostante i tempi lunghi, dovuti alla real life.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11° ***


Meglio tardi che mai! Eccomi qui a postare nuovamente, mi scuso ma il tempo è veramente tiranno.
Spero di riuscire a postarla tutta senza troppi ritardi.
Buona lettura alle anime pie che avranno voglia di spendere due minuti per leggerla, grazie.


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Di comune accordo per un po’ non si rivolsero la parola, ognuno preso dai propri esercizi. Louis avrebbe voluto rivolgerle qualche domanda, le aveva proprio sulla punta della lingua ma non sapeva come fare e quindi si limitava a non dire nulla. Juliet si era accorta delle occhiate che ogni tanto lui le lanciava, non aveva idea di cosa significassero, ma aveva capito che c’era qualcosa che lo preoccupava e non riusciva ad esternarlo. Forse poteva fare lei il primo passo.
“Lo sai che, se dovessi farti male, potresti finire sotto queste mani” dichiarò, muovendo le dita ripetutamente verso di lui.
Napoleon aggrottò le sopracciglia, sorpreso da quella strana frase.
“Non ci penso minimamente a farmi curare da te. Scordatelo!” asserì sicuro.
“A meno che tu non faccia più parte del Paris Saint Germain… in caso contrario, sarai costretto a passare per le mie grinfie”
“Cosa stai blaterando?”
Juliet si concesse un piccolo sorriso di soddisfazione per aver attirato, finalmente, la sua attenzione. Rimase seduta e distese le gambe, unite, davanti a sé. Poi si allungò, toccando con le mani la punta delle scarpe, senza piegare le ginocchia. Dopo aver tenuto la posizione per una decina di secondi, tornò a rivolgersi al calciatore.
“Non ti sei chiesto come mai abito nella tua stessa palazzina? Lo sai che è di proprietà del Club, no?”
Napoleon non disse nulla, però la sua mente cominciò a mettere insieme tutte quelle informazioni. Era vero quanto stava dicendo, tutti quelli che ci abitavano avevano a che fare, in qualche modo, con la squadra. Non si era soffermato a ragionare su quale fosse il suo ruolo e perché fosse lì. D’un tratto gli tornò alla mente quello che aveva letto nel suo cellulare.
Juliet era rimasta a fissarlo e, quando un guizzo passo nei suoi occhi azzurri, capì che aveva messo insieme tutte le informazioni.
“Sei nello staff medico” affermò, quasi parlando più a se stesso che a lei, che annuì in risposta.
“Sono arrivata prima in un concorso all’università e mi hanno preso per uno stage di un anno all’interno del PSG. Probabilmente ho esagerato, magari avrò semplicemente la possibilità di assistere, chi lo sa. In ogni caso sarà un’esperienza interessantissima”
Louis smise di fare gli esercizi e prese la bottiglietta dell’acqua, andando a sedersi vicino a lei. Ne bevve più di metà tutto d’un fiato, assaporando quel liquido freddo che scendeva giù per la gola, fino allo stomaco. Si asciugò le labbra con il dorso della mano e avvitò il tappo, posando poi la bottiglietta nell’erba.
“Che ci fai qui?” le chiese a bruciapelo.
Juliet sapeva che, alla fine, le avrebbe rivolto qualche domanda.
“Intendi su questo pianeta o qui a Parigi?” provò a scherzare, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del francese.
“Studio fisioterapia e riabilitazione motoria in ambito sportivo all’università”
“Come mai non sei in Giappone? Insomma… Voi siete molto conservatori, vi permettono di uscire e andare all’estero?”
 
Questa volta fu lei a rimanere stupita. E incredula.
“Scusa, cosa significa quello che hai detto? Guarda che in Giappone non si vive mica nel medioevo! A parte che, secondo me, ti stai confondendo con la Cina dove sono molto più conservatori e chiusi verso il mondo esterno, in ogni caso non è che i giapponesi vivano dentro delle gabbie, da cui si può uscire solo per una piccola passeggiata!”
“E io, che ne so?” si difese lui, imbronciandosi.
Juliet avrebbe voluto spettinargli i capelli e prenderlo in giro ma temeva che si sarebbe chiuso a riccio ed era quello che non voleva.
“Mio padre è giapponese e io sono nata lì. A Sapporo, per essere precisi, sull’isola di Hokkaido”
Vedendo la sua espressione dubbiosa, mosse le mani, mimando la forma del Giappone.
“Hai presente com’è fatto? Ecco, Hokkaido è quell’isola grande che sta a nord e Sapporo è la capitale, o capoluogo più precisamente della Prefettura”
“Quindi spiagge assolate e mare?”
“Mica tanto... Non siamo proprio sulla costa e, comunque, tutti gli anni, a febbraio, si tiene il Festival della Neve di Sapporo, famoso a livello nazionale” concluse, rialzando il mento, orgogliosa di quella manifestazione che rappresentava uno dei suoi più bei ricordi d’infanzia.
“Mi piace la neve – dichiarò Louis, guardando il cielo, come se stesse immaginando una giornata d’inverno, con i fiocchi che scendevano a spirale, imbiancando tutto il parco – io compio gli anni a Natale” le confidò, quasi senza nemmeno rendersene conto.
“Davvero?” mormorò lei, stupita, prima di ridacchiare.
“Che c’è?” la fulminò Napoleon, un po’ risentito da quell’atteggiamento, dopo la sua confessione.
“Scusa. E’ che non ti vedo nei panni di un Gesù bambino nato la notte di Natale”
“Perché?” scattò lui.
Juliet si accorse che si era messo sulla difensiva. Sapeva che era stata colpa sua e del suo atteggiamento, ma le era venuto spontaneo. Con la mano chiusa a pugno, gli colpì una spalla di lato.
“Eddai, non prendertela. Non ho dubbi che fossi un cosino carino e coccoloso da piccolo. Abbastanza da fare il bambinello nel presepio. Ma, ammetterai, che ad oggi non sei propriamente adatto” commentò in tono leggero, sperando che capisse che non aveva voluto offenderlo.
Louis, si scostò il ciuffo dalla fronte, imbronciandosi per un momento, ma poi le scoccò una delle sue occhiate di superiorità.
“Farò finta di niente, per questa volta – sentenziò, prima di continuare – e tu, quando sei nata?”
Juliet fece un sorriso radioso.
“Ovviamente durante il Festival della Neve, ecco perché mi hanno chiamato così”
Napoleon aggrottò le sopracciglia, cercando di capire il nesso nella sua frase tra la neve e il suo nome. Non riuscendoci scosse il capo.
“Cioè?”
La ragazza si picchiettò la fronte con il palmo della mano.
“Ah già, scusa, tu non sai tutto. Il mio nome completo è Yukiko Juliet. Fukawa è il cognome, se vogliamo essere precisi. E, Yukiko, in giapponese significa figlia della neve. Mi hanno chiamato così proprio perché sono nata, appunto, durante il famoso festival e la città era sommersa dalla neve”
Yukiko” si trovò a ripetere mentalmente Louis, facendo fatica ad associare quel nome così strano alla ragazza di fronte a lui. Ormai si era abituato a chiamarla Juliet e quell’altro gli sembrava solo una nota stonata.
“Perché non lo usi?” si ritrovò a domandare di getto, senza aver seguito un ragionamento particolare.
La vide oscurarsi in viso e distogliere lo sguardo da lui, fissando il prato. Poi, prese la bottiglietta dell’acqua per bere, chiaro segno che stava prendendo tempo per non rispondere. Napoleon non ci trovava niente di speciale nella domanda che aveva fatto, quindi gli risultava ancora più strano il suo comportamento.
 
“Un’altra cosa per cui Sapporo è famosissima è la birra, sai? La migliore di tutto il Giappone – disse con enfasi – non è forte come quelle europee ma è buona, te l’assicuro. Semmai ti capitasse la possibilità, assaggiala”
Il bomber francese aprì la bocca, deciso a chiederle perché non avesse risposto alla sua domanda, quando un piccolo scrupolo di coscienza si affacciò nella sua mente, bloccandolo. Al contrario del solito, dove se ne fregava altamente di ferire la sensibilità altrui, questa volta preferì non insistere su quel punto, avvertendo istintivamente che Juliet non se la sentiva di parlarne. Liquidò questo scrupolo senza ragionarci sopra, non volendo attribuirgli troppa importanza.
“Da quanto sei in Francia?”
“Dopo aver vissuto a Sapporo i primi anni della mia vita, ci siamo trasferiti a Furano, dove mio padre è entrato nello staff tecnico della squadra – notando l’occhiata curiosa di Louis si affrettò a precisare – è medico sportivo. Per questo abbiamo cambiato città varie volte, a seconda di dove lo portasse il lavoro. Negli ultimi anni, però, ha preferito lasciare la parte pratica, dedicandosi all’insegnamento all’Università di Tokyo. Ho studiato in varie città e, alla fine delle scuole obbligatorie, ho ottenuto il permesso di venire qui a Parigi dai miei zii per iscrivermi al Liceo e proseguire con l’Università. Quindi – si alzò in piedi, pulendosi i pantaloni dall’erba – per rispondere esattamente alla tua domanda, sono cinque anni che calpesto il suolo francese, senza contare le vacanze estive” concluse, picchiettando i piedi per terra.
Napoleon era stupito da tutte quelle informazioni.
 
“E tua madre ti ha lasciato venire qui da sola, senza controllare i ragazzacci con cui potresti uscire?” buttò lì scherzando, per prenderla in giro.
Juliet sbiancò nel sentire quelle parole. Lasciò cadere la bottiglietta che teneva fra le mani, come se fosse stata colpita da un fulmine. Strinse le labbra e raccolse l’acqua da terra.
“Sono stanca. Mi sa che andrò a casa a riposare, tu continua pure” dichiarò, cercando malamente di dissimulare il suo cambiamento d’umore e voltandosi per andarsene.
Napoleon era rimasto basito da quell’atteggiamento. Solo pochi secondi prima stavano parlando tranquillamente e poi lei aveva reagito così, scappando via letteralmente.
Dannazione, cos’era successo?
Per una volta che si era sforzato di non fare lo stronzo, di non insultare né prendere per il culo, aveva ottenuto lo stesso risultato di restare da solo. Dopo aver rimuginato qualche minuto, scattò in piedi per raggiungerla, doveva capire cos’era successo e cos’aveva detto per farla reagire in quel modo.
La raggiunse sulle scale.
“Cos’è successo?” chiese, seguendola.
“Niente, te l’ho detto. Sono stanca” ribadì lei, in tono più duro, continuando a salire e tirando fuori, dal marsupio, le chiavi da casa mentre raggiungevano il pianerottolo. Louis si posizionò di fianco a lei, appoggiandosi al muro.
“Andiamo! Fino a qualche minuto fa eri fresca e riposata”
Juliet continuò a fissare la porta, armeggiando con le chiavi, senza voltarsi e tenendo la testa bassa.
“Ho voglia di stare da sola, va bene?” sbuffò scocciata, abbassando la maniglia.
 
Quando entrò in casa, Napoleon fu svelto ad infilare un piede in modo che non potesse chiudere la porta.  Frustrata lei lasciò perdere, dandogli le spalle e raggiungendo il divano.
“C’è qualche possibilità che tu te ne vada lasciandomi in pace?” mormorò sconsolata, limitandosi a voltare appena il capo, guardandolo di traverso.
Louis scosse la testa.
“No” sentenziò.
Lei sbuffò, raccogliendo le gambe vicino al petto e abbracciandole con le braccia. Non se ne sarebbe mai andato, di questo era sicura. Chiuse gli occhi maledicendosi. Era stata tutta colpa sua e adesso non aveva scappatoie. Deglutì, sforzandosi per l’ennesima volta da quando aveva lasciato il parco, di ricacciare indietro le lacrime e il nodo che le stava stringendo la gola.
“Mia mamma è morta quando avevo dodici anni” disse a bruciapelo, fissando il pavimento.
“Cazzo” fu l’unico commento di Louis.
“Giusto – commentò Juliet amaramente – avrei tanto voluto che fosse qui a giudicare i ragazzi con cui esco, credimi. Questo è anche il motivo per cui ho lasciato il Giappone appena ho potuto e non uso l’altro nome. Non sopportavo più di stare lì, ho voluto cancellare ogni legame da… troppi ricordi” mormorò, con un filo di voce, appoggiando la testa sulle ginocchia, sentendo qualche lacrima che le bagnava le ciglia, rotolando giù e rigando le guance.
Si vergognava da matti.
Primo per essersi lasciata andare così, soprattutto con Louis che l’avrebbe giudicata una ragazzina incapace, secondo per non riuscire ancora a gestire quei ricordi senza trasformarsi in una fontana e terzo perché era un’idiota e basta.
 
Napoleon non sapeva cosa dire. Non si era aspettato certo di sentire quelle cose e aveva capito il perché della sua reazione. Si sentì in colpa, pur sapendo di non averlo fatto apposta. Finora era stato lui quello triste o incazzato, vederla così gli faceva uno strano effetto, una sensazione che non voleva provare di dispiacere. Non sapeva cosa fare in quel momento, una pacca sulla spalla era fuori dubbio, idem abbracciarla. Si alzò, prese un bicchiere e lo riempì dopo aver aperto il frigo e preso qualcosa di fresco. Glielo portò.
“Tieni”
Lei accettò il bicchiere e dopo averlo vuotato se lo rigirò tra le mani, senza dire niente. Napoleon stette lì, con le mani nelle tasche della tuta, imbarazzato.
“Il tuo frigo è sempre così vuoto? Ti nutri di aria?” commentò, girandosi a guardare l’elettrodomestico in questione. Quello fece sorridere Juliet.
“Guarda dentro il freezer, è pieno di cose buone che vanno solo scongelate”
Lui fece una smorfia, fissandola dubbioso.
“E quello lo chiami cibo?”
Lei si strinse nelle spalle.
“Te l’ho detto che odio cucinare, quella roba è comodissima”
Portandosi teatralmente una mano alla fronte e scuotendo la testa, Louis riprese a parlare.
“Ho capito che, se non ti nutro io, altro che lavorare al PSG…” commentò, avvicinandosi alla porta per andarsene. L’aprì, appoggiò una mano sullo stipite e voltò la testa per guardarla.
“Ti aspetto stasera da me. Porta il vino, almeno quello lo sai comprare?”
Lei rimase perplessa per un momento, prima di annuire e accennare un sorriso.
“Credo di potercela fare a trovarne uno buono”
“Ti conviene” la minacciò il bomber, soddisfatto della sua reazione, chiudendo la porta e dirigendosi al proprio appartamento.

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