Vitae Diurnae Pravitas

di DonnaEliza
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** capitolo sette ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Succede in questo modo:
Qualcuno ti ammazza.
Quando ti risvegli, sei veramente molto incazzato.

Mi scuso per il francesismo, non è veramente da me: nel corso degli anni mi sono liberato di molte abitudini futili come imprecare o seguire le mode. Tuttavia, trovo ugualmente che ci siano alcuni stati d’animo che necessitano del turpiloquio, per essere evocati con l’efficacia necessaria.
Così, quando vi svegliate in un vicolo puzzolente con gli abiti impregnati dell’acqua putrida dei canali di scolo e dell’urina stantia dei molti passanti bisognosi di vuotare la vescica che sono passati di lì; quando realizzate con limpidezza raggelante che avete la carotide schiacciata e tastate il filo da pesca che ancora vi stringe il collo; quando vi alzate barcollando e notate, a pochi piedi da voi, il vostro portafogli vuoto e il vostro sguardo è attratto dal barbaglio della luce di un lampione, catturato dalla catena del vostro orologio da taschino che penzola, tronca, dal vostro panciotto; quando riconducete il tutto all’improvviso tramestio che avete sentito alle vostre spalle poco prima (ma era davvero poco? Non lo potete sapere, non lo saprete per anni); quando, per farla breve, capite di essere stati strangolati da un borsaiolo e che siete morti, morti, morti, allora non siete furibondi, né indignati e nemmeno folli di rabbia: siete semplicemente, precisamente incazzati.
Una delle costanti è che capirete subito di essere morti: la sensazione è pressappoco la stessa che si prova quando ci si addormenta ascoltando della musica e, una volta terminato il disco, ci si sveglia di soprassalto a causa del silenzio improvviso. Vi renderete conto che una grande, continua, sotterranea attività all’interno del vostro corpo è del tutto cessata, come una fabbrica chiusa da poco: sentite ancora i macchinari ronzare in dissolvenza, mentre il loro moto interno rallenta fino a fermarsi. Sovrappensiero, vi sembrerà quasi di sentire il chiacchiericcio degli operai, il rumore dei loro passi e il calore dei loro corpi tracciare scie lungo i percorsi abituali all’interno dello stabilimento, ma non v’ingannerete, non ci proverete nemmeno: il vostro corpo è disabitato, silenzioso. Nelle ore a venire potrà riservarvi ancora qualche  sorpresa, perlopiù sgradevole: il cuore darà qualche balzo, scoordinato e privo di ritmo; i muscoli avranno contrazioni involontarie, impacciando il controllo che vi imponete per muovervi con naturalezza; probabilmente la vostra vescica si sarà già vuotata un’ora fa, quindi a quel riguardo vi troverete tutt’al più a dover fronteggiare un po’ di fastidio per i pantaloni umidi. Ad ogni modo, non è questo ciò che occuperà la vostra mente in queste prime ore: c’è un’altra cosa, un nuovo tipo di spinta biologica verso (per colmo d’ironia) la sopravvivenza che riempirà e dominerà ogni vostra percezione e guiderà le vostre mosse fino alla sua soddisfazione. Non potrete gestirla o rifiutarla in alcun modo. Non ho ancora capito se sia un bene o meno.
Saprete come trovare il vostro uomo, quello che vi ha assassinato. Un invisibile pilota automatico vi darà la pista e voi la seguirete, senza sapere se a guidarvi saranno gli occhi, il naso o chissà cos’altro. Partirete e basta, di buon passo, a testa bassa e per qualche motivo non darete mai nell’occhio. Per questa volta, solo stavolta, non dovrete preoccuparvi di niente: tutto andrà liscio. Localizzerete il bersaglio mettendoci senza fallo il lasso di tempo ideale per trovarlo da solo e portare a termine la vostra missione senza essere disturbati. Lo raggiungerete e lo sbranerete, e questo è quanto. Non vi si allungheranno i canini, non avrete una forza sovrumana, ciononostante ci riuscirete. Lo sgozzerete e schiaccerete la polpa della sua carne contro il palato per bere il sangue, perché già sapete che inghiottire materia solida vi farebbe star male. Lapperete il sangue arterioso finché smetterà di zampillare, e poi avrete finito. Vi ripulirete, puntigliosamente, con i migliori mezzi a vostra disposizione, poi ve ne andrete. Da quel momento in poi, sta a voi; perché ovviamente non riavrete in mano la vostra vita, dal momento che è finita; né avrete il controllo della situazione e tantomeno di voi stessi, visto che non sapete cosa stia succedendo o cosa siate appena diventati; non saprete dove andare, non saprete cosa fare. Tutto quello che vi riguardava è finito: tutto quello che resta, è affar vostro.
Mi chiamo Julian. Sono morto a trentadue anni. Da allora, perdonatemi la battutaccia, tiro a campare.

 
Prodromi
 
Naturalmente, non siamo vampiri: le differenze sono molte di più dei tratti che ci accomunano, tuttavia il termine era e rimane ugualmente il più calzante tra quelli a disposizione. Inoltre non c’era dubbio, nel 1912, che tutto eccitasse la fantasia in cerca di nuovi mostri: Dracula era stato pubblicato meno di cinque anni prima, seguito quasi a ruota dalla serie di omicidi di Jack lo Squartatore. Lo stuolo di romanzetti morbosi e crimini di solo minor successo che ammiccavano da ogni angolo di strada facevano sì che il cittadino medio sentisse il bisogno di portarsi la mano al collo ogni volta che metteva il naso fuori di casa.
Per inciso, non ho mai conosciuto il fantomatico Jack, almeno che io sappia, né ho mai elaborato congetture circa la sua natura, sia perché l’essere umano medio è perfettamente portato all’eccidio senza bisogno di svicolare dalla normalità genetica sia perché, comprensibilmente, nei miei primi anni dans ma certaine condition mi sono tenuto attentamente lontano dalla scena sociale. D’altro canto, sono quasi sicuro che anche Jack lo Squartatore facesse lo stesso.

Non fu difficile: il termine non ritrae per nulla quel tipo di esperienza. “Difficile” è qualcosa che ci separa da una meta che è in vista, o quantomeno immaginabile. Io invece non avevo idea dello scopo da raggiungere; a cosa aspirare, quale immagine interiore dipingere nella mia mente cui dare il nome di “tranquillità”. Che cosa potevo permettermi di desiderare, e con che mezzi raggiungerlo?
Ero stato un adulto, con una casa il cui mutuo riuscivo a pagare puntualmente e un lavoro rispettabile che, pur senza collocarmi nelle classi elevate, almeno mi elevava al di sopra degli operai e dei miserabili che brulicavano per le strade. Avevo una moglie e due figlie, la maggiore delle quali si affacciava alla pubertà; mi vedevo avviato verso un sereno sentiero pianeggiante, con preoccupazioni proporzionate al volume della mia esistenza: modeste, dignitose.
Invece ero morto, e nessun volo d’angeli si era accollato la mia anima immortale. Passai la mia prima notte barcollando per i vicoli meno in vista, tastandomi la gola senza sosta, incredulo al tocco del solco lasciato dallo strangolamento e fermandomi ad ogni fontanella per lavarmi il viso e le mani ancora e ancora, controllando lo stato dei miei vestiti alla luce dei lampioni a gas; la camicia e il panciotto erano irrimediabilmente lordi di sangue, ma avevo lasciato il cappotto sbottonato quando mi ero incamminato verso casa quella sera, quindi tenendolo chiuso potevo occultare alla meglio il macello che indossavo.
Quando riuscii a recuperare il controllo di me stesso, mi sedetti a fare il punto della situazione: al mio assassino avevo ripreso il mio orologio e, per soprammercato, tutto il contante che portava con sé. Più di ogni cosa, avrei voluto tornare a casa; agognavo il bozzolo rassicurante delle coperte del mio letto, ma non mi sarei azzardato a farmi vedere neanche dalla cameriera prima di aver potuto controllare di persona che aspetto avessi.
Ero stato aggredito sulla strada che percorrevo verso casa tornando dal mio lavoro d’insegnante in una piccola scuola nel quartiere industriale; i cancelli chiudevano alle nove, ma le lezioni terminavano alle sei. A quel punto dell’anno, a quell’ora era già buio. Quando mi ero ripreso l’orologio, erano quasi le due; per strada si aggiravano le due principali categorie di nottambuli: esponenti della piccola criminalità e gaudenti che usufruivano dei servizi della prima categoria. A pensarci adesso, era molto probabile che il mio aspetto non fosse troppo diverso da quello di molti di loro.
L’unica opzione che avevo, per trovare un riparo e scoprire che cosa ero diventato, era prendere una stanza, una qualunque, in uno degli innumerevoli pub che costellavano le vie. Buona parte di essi fungeva anche da affittacamere, chi più chi meno sottobanco, ma tutti comunque a buon mercato. Sentivo che sarebbe stato prudente rivolgermi a un ricovero sufficientemente malfamato perché il mio aspetto passasse inosservato. Conoscevo quartieri peggiori di quello in cui mi trovavo, dove avrei potuto dirigermi verso bettole rinomatamente deplorevoli, ma non volevo rischiare che le mie precauzioni mi si rivoltassero contro e che qualcuno, vedendomi con una pessima cera, pensasse bene di completare l’opera e assalirmi nella mia stanza. In tutta onestà, non avevo idea di come si sarebbe potuta sviluppare una seconda situazione di questo genere nella medesima notte.
Mi diressi alla svelta nel primo ingresso illuminato da lanterne a gas che trovai, tenendomi nella parte più buia dei vicoli. Alzai il bavero, chiusi il cappotto e composi sul mio viso l’espressione meno interessante che mi riuscì di ideare. Funzionò: il proprietario al bancone aveva da tempo imparato ad ignorare un campionario di umanità ben più pittoresco di me, e prestò attenzione solo al denaro che gli posi sul bancone. Mi consegnò una chiave e una candela, e mi indirizzò alla mia stanza.

Non sprecherò parole a descrivere la camera da letto di una stamberga: non ci vuole molta immaginazione per mettere insieme un’immagine di disadorno squallore. A me interessava solo che avesse uno specchio, e per fortuna questo coronava il treppiede con brocca e catino incluso nel prezzo della stanza, sorprendentemente rifornito di acqua pulita.
Spesi diverso tempo a fissare il mio riflesso. Chi di voi ha visto un cadavere conosce la straniante impressione che dà la vista di quello che è a tutti gli effetti un essere umano, eppure totalmente svuotato di ogni traccia di umanità. Un corpo morto è come la custodia vuota di qualcuno: nient’altro che pelle, ossa e imbottitura, e la sostanza di questi elementi s’impone alla vista, tanto che si fatica a ricomporre i singoli componenti di un volto in qualcosa di rassicurante come una fisionomia. Io vedevo, per la prima volta, il mio naso; la mia bocca dalle labbra carnose, ma perennemente contratte in una linea severa; la linea spigolosa dei miei zigomi; l’attaccatura dei miei capelli. La grana della mia pelle. Il tono preciso di celeste dei miei occhi. Il viso che riconoscevo come mio, però, non c’era più: un cadavere mi fissava, mirabilmente immobile, non disturbato dall’andirivieni del respiro. La pelle era grigiastra, tirata alle tempie, livida sulle labbra; le orbite spiccavano, non troppo scure però sicuramente infossate, rannicchiate ai lati del naso innaturalmente affilato. Mi accorsi che non battevo le palpebre e le cornee si facevano opache; la mia vista non ne risentiva, ma negli anni ho imparato a ristabilire un ritmo regolare nell’ammiccare, per mantenere gli occhi idratati. Sul bianco della sclera facevano capolino dal contorno dell’occhio larghe macchie rosso scuro; tirando di lato la pelle potevo vederle per intero. Aprii la bocca: palato, gengive, lingua… tutto era cianotico, violaceo. A guardar bene, c’erano petecchie anche lì. E nelle narici.
Per strano che suoni a dirlo adesso, l’insieme non era particolarmente repellente: non avevo l’aspetto di un mostro. Ad un’occhiata superficiale, potevo passare per un qualunque individuo ammalato. Certo, iosapevo di essere un morto che cammina, ma sapevo anche che l’uomo della strada non avrebbe preso in considerazione quest’ipotesi, incrociandomi per caso. Lo shock del mio aspetto era tutto per me; qualcun altro avrebbe dovuto guardarmi davvero a lungo, prima di ammettere coscientemente che cosa lo mettesse a disagio.
Il vero problema era il collo.
Il solco del filo da pesca era netto, preciso e profondo, e girava tutt’intorno al mio collo. Avevo l’aspetto di una di quelle bambole con uno snodo all’altezza della gola per permettere l’articolazione della testa; in più, c’erano i lividi. Un fregio sgraziato purpureo e violaceo incorniciava la linea di strozzo, con chiazze e venature che ricordavano il marmo. Mi accorsi allora che il pomo d’adamo era schiacciato e pesto. Presi dell’acqua nelle mani a coppa e tentai d’inghiottire: ci riuscivo, anche se con difficoltà e questo mi ricordò che qualche ora prima mi ero effettivamente nutrito. Invidio profondamente le persone che hanno goduto di amnesia a seguito di un evento traumatico. Quando mi ripresi dalle vertigini e dai conati, passai senza ulteriore indugio a nuovi  test: tirare il fiato, cercare di urinare, spogliarmi completamente per esaminare il resto del corpo. Suppongo di aver voluto andare fino in fondo tutto in una volta, scoprire il più possibile finché ero già così sconvolto. Non so cosa credessi di ricavare da un simile comportamento: in fin dei conti, non avevo alcun piano per il futuro verso cui concentrare la mia attenzione una volta superato il mio sgomento. Cionondimeno, mi scoprivo uomo d’azione. O, cosa assai più probabile, avevo il terrore di fermarmi a pensare.
Inevitabilmente, ad ogni modo, finii d'inventariarmi. Scoprii che potevo respirare volendo, ma producevo uno sgradevole rantolo, e l’aria entrava sibilando nei miei polmoni attraverso nuovi percorsi creati dallo schiacciamento della trachea. Fu talmente fastidioso che passai diverso tempo a camminare per la stanza scrollando le membra per liberarmi dalla sensazione. A quel punto mi liberai dei vestiti per controllare la scioltezza delle articolazioni e lo sguardo mi cadde su una serie di lividure che  avevo nella metà destra del corpo, su cui avevo giaciuto nel lasso di tempo in cui ero stato effettivamente morto. Tastarle portò alla scoperta che non mi dolevano; quindi mi diedi un pizzicotto e mi strappai qualche capello: parimenti niente dolore. Corsi e saltellai, mi produssi in tutti gli esercizi ginnici che mi vennero in mente, solo per arrendermi all’evidenza che non sudavo, non mi sentivo stanco e nemmeno accaldato. Quando, infine, mi lasciai cadere sul letto, dovetti accorgermi che non sentivo neppure freddo.
Seduto sul materasso logoro, riflettevo inconcludentemente. Che cos’ero, dunque? Un cadavere, sotto tutti i punti di vista. Fuorché il particolare non trascurabile di essere innegabilmente sveglio e cosciente. Alcune parti di me funzionavano a dovere – la scorza esterna, per così dire: vista, tatto, i cinque sensi, insomma; tutto ciò che era all’interno, invece, era risolutamente fermo, congelato nell’istante della dipartita. Il mio aspetto era quello di un cadavere tutto sommato fresco; potevo somigliare ad un tisico, o ad un assiderato. Anche il mio odore era cambiato, lievemente stagnante senza ancora essere puzzo. Potevo passare per vivo.

Ammetto, non senza un leggero imbarazzo, di aver ricercato in me qualcosa di sovrannaturale – non fosse bastata l’evidenza della mia condizione; qualche capacità potenziata, percezioni affinate, questo genere di cose. Speravo forse in un dono, un premio di consolazione per aver perso la vita. Insomma, mi ritrovai a cercare di spostare oggetti con la forza del pensiero, o di levitare. Tutto ciò che ricavai da questi esperimenti fu la puzza di bruciato del mio dito indice quando lo tenni sulla fiamma della candela per qualche secondo e una peculiare sensazione nei muscoli e legamenti delle braccia, che mi avvertiva che sì, probabilmente sarei riuscito a scardinare la porta chiusa a chiave della mia stanza senza avvertire fatica, ma che farlo mi sarebbe probabilmente costato qualche danno interno.
Cos’ero? Un super-uomo, forse, ma di certo vulnerabile quanto un qualunque corpo vivente. Avrei forse potuto correre per ore senza rallentare, ma sui miei piedi si sarebbero aperte piaghe come a chiunque altro – e non ero sicuro che si sarebbero richiuse. Allora, cosa? Un guscio inarrestabile, fu la prima immagine che mi balenò. A tutt’oggi, la ritengo la più efficace. Vuoto e fragile come qualsiasi cosa finta o morta, ma capace di andare avanti fino a consumarsi fisicamente. Non ero sicuro del vantaggio che mi avrebbe portato.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Non vi terrò per sempre in quella squallida stanza; sapete quanto me che ad un certo punto ho preso una decisione e ne sono uscito. Avvenne mentre albeggiava, e il luogo verso cui mi diressi era la mia casa.
Al presente momento, non posso davvero dire di essermi pentito di qualcuna delle mie decisioni: una volta liberi dalla spada di Damocle della morte, le conseguenze delle nostre azioni fanno molto meno paura, e  acquistano minore importanza. Ciononostante, non potrei negare che l’intera esperienza sia stata, al suo meglio, profondamente sgradevole.
Il solo rimettersi i vestiti fu acutamente fastidioso: erano bagnati, sporchi e maleodoranti quando  me l’ero tolti, e quando li reinfilai erano a malapena passati da fradici a umidi, il che ne accresceva, semmai, il puzzo. Inoltre si erano raffreddati, anche se questo mi procurò meno disagio di quanto credessi; dopo qualche istante, mi resi conto che ciò era dovuto alla mia temperatura corporea, che si era abbassata di diversi gradi dopo la mia morte. Ad ogni modo, muoversi all’interno di quegli indumenti era ripugnante, e non aiutava certo il fatto che non si scaldassero, col tempo, a contatto col mio corpo. Con i piedi che sciaguattavano nelle calze e nelle scarpe mi misi in cammino verso la mia dimora.
Ci misi più tempo del previsto: il pub in cui avevo passato la notte era in una zona fuori mano, rispetto alle strade che percorrevo abitualmente e inoltre mi sentivo profondamente prostrato, confuso e abbacinato dalla luce crescente dell’alba che lasciava il passo al giorno pieno. Ogni persona che scendeva in strada per iniziare la propria giornata sembrava costituire un ulteriore elemento di disturbo alla mia concentrazione già labile: i colori dei loro abiti, il candore di certe camicie, il rumore di un omnibus che passava… erano come ganci che si portavano via la mia attenzione, trascinandola per qualche metro e lasciandola poi sperduta nel momento in cui scomparivano alla vista. Ora so che se fossi stato vivo sarei stato in preda ad una terribile emicrania, ma non ero più in grado di sentirmi male: quello che provavo era malessere senza dolore, senza nausea. Dolore della mente, e sembrava peggiorare. Sulle prime lo attribuii alla stanchezza dovuta alla serata traumatica che avevo trascorso, poi mi ricordai che non ero stanco. Non sarei mai più stato stanco.
Fu quella la prima volta che mi sovvenne l’idea del vampiro: mi resi conto che quel che mi disturbava era la luce. Si affacciava al mondo una giornata limpida e radiosa e il sole, lungi dall’incenerirmi, trasformava però ogni forma in movimento, ogni colore, ogni barbaglio in qualcosa che aveva sul mio cervello l’effetto di un grido a squarciagola direttamente nelle orecchie, ancora e ancora, amplificato a dismisura. Mi sentivo gli occhi in procinto di scoppiare e, nel cranio, la materia grigia entrava in risonanza per simpatia. Tenendomi in ombra riuscii a coprire la distanza che mi separava dalla mia casa.

Perché tornare a casa? Le mie ragioni non sono nobili: prosaicamente, non avevo alcun piano. Non avevo abbastanza soldi, né alcuna idea su come approntare una nuova esistenza in cui nessuno di quelli che amavo dovesse scoprire cos’ero diventato. Certo, ero terrorizzato al pensiero di poter rappresentare un pericolo per mia moglie o le bambine, ma come ho già detto, non vedevo alcun’alternativa. Inoltre, benché il mio corpo non fosse stanco, mentalmente ero stremato: avevo bisogno di un ambiente familiare e di un ragionevole lasso di tempo per riordinare le idee.
Non erano ancora le otto quando girai la chiave nella toppa e il mio arrivo passò assolutamente inosservato: mi ero mosso più silenziosamente possibile ma, soprattutto, a quell’ora la mia famiglia dormiva ancora, anche se a breve la cameriera sarebbe salita a svegliare le piccole e mia moglie si sarebbe levata, seguendo la scia del rumore casalingo. In quanto al personale di servizio, avevamo solo una cuoca e una cameriera ed entrambe si trovavano probabilmente in cucina, affaccendate negli ultimi preparativi per la colazione; il rumore che producevano era sufficiente a coprire il mio. Avevo tempo di sgattaiolare in camera da letto prima che chiunque potesse vedermi, dunque salii le scale alla chetichella e scivolai nella mia stanza.
Morivo dalla voglia di farmi un bagno, ma avrei dovuto attendere se volevo fare le cose per bene: le mie lezioni alla scuola della fabbrica iniziavano alle una, dopo la pausa per il pranzo degli operai, quindi in teoria avrei potuto poltrire fino a tardi, ma sono sempre stato un tipo mattiniero e  la mia famiglia era abituata a vedermi in giro per casa già al suo risveglio. Avevo in mente di mettermi a letto e chiamare Peg la cameriera, al momento in cui i suoi giri l’avessero portata a svegliare le donne di casa, per dirle di andare alla scuola ad avvisare che ero malato. Ci avrei rimesso il giorno di paga, ma non c’era alternativa concepibile, almeno per il momento. In camera mi tolsi finalmente i vestiti imbrattati, fino all’ultimo capo, e li nascosi sotto il letto; avrei atteso un momento opportuno per portarli fuori casa e sbarazzarmene una volta per tutte - da allora non ho mai indossato neanche un cappotto due volte di seguito. Mi infilai nella camicia da notte e poi sotto le coperte, aspettando l’arrivo di Peg con impazienza perché morivo dalla voglia di ordinare quel bagno.
Peg non obiettò quando snocciolai le mie battute – fosse stato altrimenti, non avrebbe avuto un posto da cameriera. Si limitò a rispondere “Molto bene, signore” alle mie richieste e accese senza commenti la lampada a gas quando la fermai nell’atto di aprire le tende per far entrare la luce del giorno. Voltai la testa per nascondere il viso mentre lei trascinava la pesante tinozza di rame in fondo al mio letto e procedeva al faticoso andirivieni dal piano terra alla mia camera, versando un secchio d’acqua calda dopo l’altro. Mentre sbirciavo le volute di vapore salire affacciandosi dalla pediera del letto, mi sovvenne che fino al giorno prima era nei miei progetti risparmiare abbastanza per installare una conduttura per l’acqua calda, così da poter costruire una vera e propria stanza da bagno con vasca e lavandino, come quelle di cui si fregiava ormai quasi tutta la classe media. Nel giro di una notte ero passato da questi placidi sogni borghesi a lambiccarmi per trovare il modo di mostrarmi a mia moglie; a come mantenere il mio impiego, poi, non volevo neanche pensare, per il momento. Era una rivoluzione vertiginosa delle mie condizioni, e quando la saponetta fu posata nel suo piattino e Peg ebbe poggiato con cura una salvietta pulita sulla sponda del letto e si ritirò dalla stanza, mi dedicai al bagno con la concentrazione disperata di un uomo che si getterebbe in qualunque impresa pur di non pensare.

Rimasi a mollo finché l’acqua non si raffreddò, soffregando ogni angolo del mio corpo, godendo del calore che l’acqua imprestava al mio corpo facendolo sembrare vivo per procura. Mentre sedevo ancora nella tinozza registrando la curiosa sensazione di essere in un bagno quasi freddo senza sentirmi minimamente infastidito, il bussare leggero di mia moglie mi raggiunse.
-Julian? Peg mi ha detto che non ti senti bene…
-Un attimo, ti prego.
Fu un attimo che durò più a lungo del previso: alzarmi, asciugarmi e indossare una nuova camicia da notte richiese del tempo, ma più ancora ne persi quando, già sotto le coltri, mi resi conto che la mia gola tumefatta era in piena vista; ne conseguì la proverbiale tabula rasa che mi portò ad annaspare in giro per la stanza in cerca di un fazzoletto da collo, avendo completamente dimenticato dove erano riposti. Quando ebbi rimediato e invitai Catherine ad entrare mi sembrò che fosse passata mezz’ora, ma entrando il suo viso non esprimeva altro che genuina apprensione.
Catherine, mia moglie, era il perfetto prodotto dell’educazione dell’epoca: era operosa, gentile e modesta in ogni sua azione. Ricordandola adesso, con la mente di uomo del ventunesimo secolo, dava l’impressione di veleggiare al di sopra della sostanza delle cose, aggirando con grazia ed eleganza qualunque fonte di conflitto o sentimento sgradito che incontrasse sulla sua rotta: la sua personalità era stata foggiata con perizia topiaria e lei, negli anni, si era limitata ad occuparsi della manutenzione, evitando ogni ributto di carattere che accennasse a germogliare in lei. Al giorno d’oggi non esistono più donne di quel genere, i fattori ambientali non lo permettono ed esse non offrirebbero alcuna attrattiva – a meno di essere generosamente attraenti. Ma, quando l’avevo conosciuta, era un esemplare femminile sopra la media per educazione e costumi; certo non era una bellezza sconvolgente – il viso aguzzo dai tratti volpini non aveva la morbida avvenenza richiesta dai canoni dell’epoca ed era così minuta che in coppia formavamo uno spettacolo curioso, ma per anni mi ero sorpreso della mia buona sorte, trovandola al tavolo della colazione ogni mattina. Era la figlia di un medico condotto e, se questo non l’aveva portata all’altare in compagnia di una dote consistente, mi aveva almeno liberato dalla frustrazione di doverle assicurare un elevato tenore di vita. Eravamo sposati da undici anni ed ero sinceramente contento di ogni comodità che ero riuscito ad offrirle, e lei me ne era stata grata, il che costituiva il ritratto di un matrimonio riuscito.
Entrò nella stanza avvicinandosi lentamente al letto, con un tenero rimbrotto per le tragedie che fanno gli uomini per ogni piccolo malessere; cercava di distinguere il mio viso nella penombra della lampada a gas, poi virò risolutamente verso la finestra e aprì le tende prima che potessi aprire bocca per fermarla.
Non ho dimenticato il modo in cui la sua espressione cambiò quando si girò nuovamente verso di me: le pupille si restrinsero mentre mi metteva a fuoco; le sopracciglia passarono dalla linea corrucciata della preoccupazione all’arco dell’aperta apprensione; le palpebre si sollevarono a scoprire gli occhi; la bocca si aprì lievemente. Vidi anche la sua gola muoversi quando deglutì prima di parlare.
-Julian, ma… Peg mi aveva detto che ti sentivi poco bene, però non credevo… Come ti senti? Hai un’aria davvero… Molto stanca – chiaramente si era trattenuta per non dire “orribile” o qualcosa che potesse spaventarmi. Anch’io stavo attraversando lo stesso cimento; nella mia mente un vocabolario veniva sfogliato da capo a fondo e poi di nuovo, alla ricerca di parole adatte.
In effetti, le dissi, non mi sentivo molto bene. Avevo passato tutta la notte tra i sudori e avevo vomitato. Anzi no, non avevo vomitato, ma c’ero andato vicino (il vaso da notte vuoto e lindo mi avrebbe subito sbugiardato). Di sicuro non era niente di grave; no, non c’erano stati casi di colera in fabbrica, e a quanto ne sapevo, neanche nel quartiere. Probabilmente avevo preso un colpo di freddo tornando a casa, ma non mi sentivo la febbre. Catherine ascoltava, poneva domande e annuiva attenta, seduta accanto a me senza toccarmi: non era certo che non fossi contagioso, dopotutto, e avevamo due bambine.
Riuscii a convincerla a non chiamare subito il dottore, ma insistette per farmi portare qualcosa da mangiare all’ora del pranzo. Mi chiese se volevo qualcosa da leggere, e nominai un paio di libri a caso che lei pescò dalla libreria e mi appoggiò sul comodino. Dopodiché, soffiandomi un bacio sulle dita, uscì. Contai un minuto, poi sgusciai fuori dal letto per chiudere le tende e salvarmi dal barbaglio caleidoscopico che mi faceva scoppiare la testa.
Fatto ciò, rimasi per un certo tempo in piedi, ancora accanto alla finestra, le braccia ciondoloni lungo i fianchi. Che fare? Un vero malato avrebbe dormito, ma io non avevo sonno. Né avevo voglia di leggere, scrivere o altro. Buon Dio, come poteva un uomo affrontare un’ora dopo l’altra, senza la benedizione del sonno, senza nemmeno sentirsi battere il cuore in petto?
Poteva esser fatto, ed io lo feci. Mi rimisi a letto e allenai la vista alla penombra, un’ora dopo l’altra. All’ora del pranzo la cameriera mi portò del brodo; di nuovo mi divertii ad assorbirne il calore tenendo la ciotola tra le mani, poi mi alzai e ne rovesciai buona parte  nel vaso dell’aspidistra che avevo in camera, quindi appoggiai il vassoio sul comodino e ricominciai a fissare il vuoto. Non pensavo a niente. Mi guardavo le mani, le unghie, sapendo che erano bluastre anche se la luce a gas mi impediva di vederne realmente il colore. Alle cinque di sera Catherine fu di ritorno con il vassoio del tè, e rimase a chiacchierare per un po’ con me; fortunatamente, a quell’ora fuori era già buio e lei non pensò a riaprire le tende, ma il rovescio della medaglia fu dover mandar giù un paio di biscotti e bere un po’ di tè per far contenta Catherine. Sentii il bolo masticato scendermi in gola, il liquido tiepido spingerlo giù per l’esofago...
…e poi bloccarsi a mezza strada. Nessun aiuto da parte del mio organismo, il condotto esofageo si rifiutava spocchiosamente di riconoscere tè e biscotti come cibo, e non intendeva dargli alcun aiuto a raggiungere lo stomaco. O forse aveva perso l’elasticità sufficiente per far passare bocconi solidi, fatto sta che mi ritrovavo letteralmente con un groppo in gola. Cominciai a deglutire a ripetizione, cercando di non dare nell’occhio, poi presi un altro sorso di tè nel tentativo di mandare giù la massa: parve scendere di qualche millimetro, ma questo fu tutto. In quella, Catherine mi chiese cosa avrei gradito mangiare per cena; aprii la bocca per risponderle che non avevo ancora molta fame e di portarmi senza troppi complimenti gli avanzi del pranzo, e subito mi venne spedita una raffica di conati. Agitai freneticamente un braccio per far segno a Catherine di allontanarsi, mentre con l’altro mi strappavo le coperte di dosso; feci appena in tempo a sporgermi dal letto, e rigettai sul tappeto che copriva il pavimento sotto il mio letto.

Sentivo che Peg avrebbe voluto dirmi di non vergognarmi, che succedeva a tutti di dare di stomaco, mentre sfregava il tappeto con una spazzola dopo averlo cosparso di amido di mais. Non poteva dirmi niente però: chi si credeva di essere, per prendersi una simile libertà con il padrone di casa?
Sentivo che Catherine era stata sul punto di rimproverarmi per aver sporcato il tappeto; davvero, non avrei potuto trattenermi un attimo in più, cosicché lei mi porgesse il vaso da notte? Non poteva dirmi niente, però: non si può rimproverare un malato per sentirsi male.
Sentivo che il tempo a mia disposizione per la dissimulazione si andava esaurendo.

Non ho mai realmente pensato di dirlo a Catherine: non solo non mi avrebbe creduto, ma ne sarebbe comunque uscita distrutta. E inoltre, cos’avrebbe potuto fare? Una donna non aveva molte possibilità di convincere una forma qualsiasi di autorità ad allontanare il proprio marito: se anche si fosse risolta ad internarmi, spaventata dall’idea di avere un farnetico sotto lo stesso tetto suo e delle bambine, Catherine avrebbe dovuto anzitutto convincere gli infermieri inviati dal nosocomio delle mie condizioni. La vista dell’ individuo lucido e padrone di sé che  ero, anziché di un lunatico vaneggiante, le avrebbe lasciato ben poca credibilità. Sarebbe passata lei per isterica, piuttosto, senza contare che io avrei smentito recisamente la sua versione dei fatti. I passanti ed i vicini avrebbero visto il carro dell’ospedale psichiatrico fermarsi davanti alla nostra casa, le domestiche avrebbero chiacchierato con qualcuno e in un batter d’occhio la reputazione di Catherine, quella della nostra famiglia e il nostro intero matrimonio sarebbero caduti nel fango.
Nemmeno si trattava del peggior scenario immaginabile: la semplice visita del medico di famiglia avrebbe segnato la mia fine. Il pensiero di finire in mano alla comunità scientifica mi spaventa oggi come allora.
Né avrei potuto andare avanti a lungo fingendo di avere una semplice congestione di stomaco: inevitabilmente, per scansare il medico avrei dovuto simulare una guarigione; riprendere a mangiare, uscire alla luce del giorno, tornare a lavorare. Tutte cose che non ero in grado di fare: avevo ingoiato una mezza tazza di brodo all’ora di cena, a scopo sperimentale, riuscendo a trattenerla per quasi un paio d’ore prima di rigettare di nuovo, nel corso della notte, nella sventurata aspidistra della mia camera da letto. Peggio ancora, la luce continuava a lasciarmi instupidito, il che escludeva… beh, tutto quel che aveva costituito la mia vita quotidiana fino ad allora.
Non c’era via d’uscita. O meglio: l’uscita era l’unica via rimasta.

Non lasciai biglietti d’addio. Non inscenai un rapimento. Avessi potuto far scomparire tutte le tracce della mia esistenza da quella casa e dalla mente della mia famiglia, l’avrei fatto: volevo solo volatilizzarmi.
Mi sfilai la fede nuziale e la riposi nel cassetto del mio scrittoio, dove già si trovavano tutti i documenti relativi alla casa e al conto in banca. Presi i contanti dalla piccola cassaforte a muro nascosta dietro un dipinto incorniciato: andavo a versare i miei risparmi in banca ogni tre mesi, e sarebbero scaduti a breve, quindi c’era una discreta somma da parte. Ne intascai la metà, e misi il resto nel cassetto. Aggiunsi anche le chiavi di casa: non volevo darmi la possibilità di un ripensamento.
Attesi che ogni segno di vita, nella casa, fosse cessato; quando mi parve che fosse così, attesi ancora un’ora.
Non pensai a Catherine o alle bambine: la massa dell’ignoto che mi attendeva aveva riempito il mio cervello, scacciandone ogni pensiero per la vita che non avrei più vissuto. Mi tornò tutto in mente più tardi, molto più tardi di quanto abbia voglia di ammettere. Quella notte, mentre la pendola nel salotto dabbasso batteva le tre, badai solo a sfilarmi le scarpe e sfruttare i rintocchi per coprire il rumore dei miei passi giù per le scale.

Non sono più tornato lì; non ho spiato la vita dei miei cari la notte, attraverso le finestre illuminate del pianterreno come un benevolo fantasma. Non ho assistito al funerale di mia moglie e non so se le mie figlie si siano sposate o cosa abbiano fatto delle loro vite. Tutt’ora, non so se la mia vecchia casa sia ancora in piedi e non ho mai riconosciuto qualcosa di mio da un robivecchi. Avrei voluto essere un fantasma, che il mio corpo fosse rimasto in quel vicolo, a fare da ponte tra quel che ero e quel che sono diventato; invece la mia vita si lasciò abbandonare, docile e senza muovere un dito per agganciarmi a sé. E’ bastato camminare in punta di piedi, chiudere la porta con attenzione.
Appoggiati al muro accanto al portone c’erano degli ombrelli ad asciugare; sovrappensiero, ne presi uno, come se stessi semplicemente uscendo per andare al lavoro. Non avevo bagaglio con me, indossavo il mio solito cappello e il soprabito che portavo abitualmente. Scesi tre gradini e fui in strada; scelsi una direzione a caso.
Quando non provavo a respirare, mi pareva di non essere mai morto.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Fase subacuta
“Cosa faresti, se potessi vivere per sempre?”
La risposta è: niente.
Niente di eclatante, comunque. Niente che possa portarti fama, notorietà. Che possa farti notare al di sopra della folla. Al contrario, terrai la testa bassa e condurrai una vita anonima e ritirata. Cercherai di non farti fotografare in pubblico. Non avrai un profilo su un social network; non uno con il tuo nome, comunque. Non causerai mai un incidente, ma nemmeno ti fermerai ad aiutare se ne incontrerai uno per strada. Sarai un cittadino molto, molto piccolo e buono, che non prende multe, che non disturba la quiete pubblica; qualcuno che non avrà mai motivo di mettere piede in una stazione di polizia. O in un tribunale. O in un ospedale. Perché non vuoi che il mondo sappia che puoi vivere per sempre.
Sai cosa succede ai conigli nei laboratori, sai cosa facevano ai prigionieri nei campi di concentramento e la tua naturale paranoia umana ti suggerisce che ci sono ragionevoli motivi di sospettare che le cavie umane vengano ancora usate, da qualche parte, in segreto. Le autorità potrebbero tenerci nascosto molto altro, oltre alla verità sugli alieni. E quindi no, non ci tieni affatto a far sapere al mondo di te.
Tu, viceversa, potrai apprendere tutto lo scibile del mondo: tempo, ne hai. Potrai imparare nuove lingue leggendo manuali di grammatica e conversazione, ascoltando lezioni registrate e guardando tutti i film in lingua originale che vorrai. Potrai colmare le tue lacune in fatto di storia, o padroneggiare finalmente il calcolo o la chimica, che a scuola ti riuscivano così astrusi. Ogni strumento musicale, prima o poi, diventerà il tuo docile schiavo, sol che tu lo voglia. Potrai scrivere il romanzo del secolo, del millennio!
A patto che tu non lo pubblichi.
Non potrai nemmeno sfondare con la tua band, soprattutto visto che non ne avrai alcuna.
Immagina poi la frustrazione di trovare una cura per il cancro.
Qualunque talento tu abbia o scopra, potrai coltivarlo fino alla più siderale perfezione senza mai poterlo estrarre dalla scatola dei passatempi.
La verità è che a colui che gli dèi vogliono distruggere, ma distruggere davvero, non viene data in dono la follia, bensì l’immortalità.
Ma immagino che Euripide non potesse saperlo.
 
L’anno scorso ho festeggiato il mio centesimo compleanno; è divertente e surreale pensare che potrei essere ancora vivo. Come regalo ho ricevuto una casa. Sempre più divertente: sono al mondo da cent’anni e non sono riuscito nemmeno a comprare casa per conto mio. La divido con altri quattro inoltre, come in una bizzarra sit-com: Julian, lo studente più vecchio del mondo e i suoi coinquilini. Che altro potrei fare, d’altro canto? Me l’hanno comprata loro, avranno ben il diritto di abitarci. Dopotutto, sono come me.
Cinque vampiri: il programma si fa avvincente, non trovate?

Non siamo mai stati in voga come adesso: le librerie sono affollate di romanzetti romantico/pruriginosi i cui protagonisti hanno smesso di respirare da un pezzo. Anche il cinema fa la sua parte, e il mercato del make up permette a chiunque lo voglia di impersonare il proprio non morto preferito con tutta la verosimiglianza a cui si vuole credere. Mi è capitato di incrociare “vampiri” molto più credibili di me, e che sembravano anche molto più morti. Noi li guardiamo con tenerezza e un filo di dispiacere: trovarsi così vicini ad un vero morto vivente e non saperlo! E scoprire di non somigliarci affatto! Un bel colpo, per l’immaginazione di un adolescente. Thomas giura di essere andato in un club underground, abbigliato per l’occasione e aver ballato con una ragazza candida di biacca, con elaborati arabeschi di trucco nero e livido attorno agli occhi. Cogliendo il giusto movimento della musica, l’aveva stretta a sé e fissata negli occhi senza mai battere le palpebre e senza respirare per lunghissimi attimi, e per buona misura, al culmine della melodia le aveva preso la mano e se l’era posata sul cuore, che ovviamente non batteva. Finita la canzone, aveva smesso di ballare e l’aveva trattenuta contro di sé –Ti giuro, Jules, che a quel punto la stavo guardando con la faccia di una maestra elementare che incoraggia lo scolaretto a rispondere ad una domanda difficile. Invece lei niente! Mi faceva gli occhioni da cerbiatta, sbatteva le ciglia. Finte. E aveva le lenti a contatto bianche e le sopracciglia disegnate a due metri da dove dovrebbero essere… una regina delle tenebre, guancia a guancia con un’autentica salma parlante e non se ne accorge nemmeno. Mi è scappato da ridere e l’ho lasciata lì. Magari ora è innamorata persa di me -
Thomas si è preso una blanda ramanzina per quell’alzata d’ingegno: in fondo, difficilmente una ragazzina probabilmente brilla in un club rumoroso avrebbe notato qualcosa di strano in lui. Inoltre, Thom è il genere di persona che si diverte a correre rischi controllati, o forse ha solo una fortuna sfacciata. Il punto è che la caccia al vampiro ci mette a disagio, che il fine ultimo sia lo sterminio o il matrimonio. Preferiremmo che il mondo ci ignorasse, oltre a non credere nella nostra esistenza.

Dal canto nostro, noi facciamo il possibile: abbiamo scelto come residenza uno di quei paesini accovacciati tra le colline che sono costituiti solo da un alimentari, un pub e una cappella che condividono la stessa, minuscola piazza di acciottolato. Le poche case in vista sono sparpagliate per i campi circostanti, e raramente vi si nota segno di vita. La strada è una, taglia la piazza dalla tangenziale a valle attraversando qualche altro paese parimenti trascurabile e prosegue poi intrufolandosi tra una collina e l’altra. Man mano che si sale, inoltrandosi nelle zone boscose, sulle curve della strada cominciano ad affacciarsi case dalle fogge più disparate, a distanza variabile l’una dall’altra. Sono costruzioni erette con l’unico scopo di essere case delle vacanze, secondo il capriccio del committente; su molti cancelli c’è il cartello Attenti al Cane, anche se non ne ho mai visto uno. Non si vedono nemmeno gli abitanti: a volte compare un’auto nel vialetto nei fine settimana o le luci colorate nel periodo di Natale. La maggior parte di queste case rincorre lo stereotipo della baita di montagna: tetto spiovente, infissi in legno, travi a vista. La nostra dev’essere stata progettata da un architetto folgorato sulla via di Damasco dalla Casa sulla Cascata, che abbia passato la vita aspettando gli anni Settanta per poter sfornare qualcosa di analogo senza dare troppo nell’occhio: un ammasso di parallelepipedi di cemento armato a tre piani, con una parete in pietra priva di finestre da terra al tetto, bucata solo da due file di bocche di lupo, la prima rasoterra e la seconda in corrispondenza della scala interna che sale dal primo al secondo piano. Due balconi dal parapetto assurdamente alto abbracciano l’angolo ovest del secondo piano e tre lati del terzo piano. Il tetto è assolutamente piatto, invisibile da terra e un lucernario ne prende buona parte. Ai miei occhi, nati e vissuti per posarsi sui solidi e maestosi edifici in stile georgiano o Regina Anna, sembra l’espressione architettonica di un attacco di panico. Sono convinto che l’abbia scelta Priska.
Casa nostra non appare più viva né più disabitata delle altre della nostra zona: le nostre imposte sono sempre accostate, ma le luci di Natale saltano fuori anche nel nostro giardino; d’estate gli irrigatori si prendono cura del prato e d’inverno il fumo esce dal camino. Anche il postino ci frequenta, dato che ordiniamo un sacco di roba su internet; in genere la ritira Lola. L’anno scorso il nostro giardino è comparso su Google Streetview: era il nostro primo inverno lì ed eravamo così ispirati che durante la notte abbiamo eretto non meno di una dozzina di pupazzi di neve dalle fogge più disparate.
Di notte apriamo le finestre: la vita domestica non cala durante il giorno ma, dovendo tenere chiuse le imposte, quando si fa sera è un sollievo aver qualcosa da guardare fuori dalla finestra. Ironicamente, la nostra casa ne ha di tutti i tipi: oltre al lucernario sul tetto, buona parte di una parete del salotto è presa da una vetrata; nel bagno al secondo piano una doppia fila di mattoni quadrati in vetrocemento opaco corre dal pavimento al soffitto; nella stanza della Santa c’è un grande e profondo bovindo con una finestra quadrata dall’intelaiatura asimmetrica, stile bauhaus. Abbiamo speso un capitale in tende.

Chiaramente, tutti abbiamo avuto più di una residenza, negli anni, ma questa è la prima casa che chiunque di noi abbia comprato da quando è morto; inoltre, è la prima volta che viviamo tutti assieme. Il nostro gruppo si è formato nel corso degli ultimi cinquant’anni e finora abbiamo sempre vissuto in maniera diciamo “canonica”, ciascuno per suo conto. Con l’arrivo di Lola, però, abbiamo lentamente capitolato all’evidenza: passiamo tutto il nostro tempo assieme. Credo che ci faccia sentire più normali rispetto all’infinita introspezione a cui conduce irrimediabilmente il tempo passato per conto proprio, e di certo è meglio del confronto con i vivi, che risulta di volta in volta tedioso, doloroso o surreale. Così abbiamo fondato la nostra stramba comune, un gruppo di morti viventi di età assortita tra i centouno e i trentanove anni. Facciamo il bucato, facciamo le pulizie, curiamo il giardino. Paghiamo le bollette. Andiamo al cinema e a ballare, con le dovute cautele. E leggiamo un sacco di giornali. I giornali sono importanti: il nostro seminterrato è in larga parte dedicato al setaccio dei quotidiani. Ogni giorno il designato di turno prende l’auto alle quattro e mezza del mattino e raggiunge l’edicola di uno dei quattro centri abitati a noi più vicini. Sei persone, quattro paesi a rotazione: siamo abbastanza sicuri che gli edicolanti non abbiano ancora memorizzato le nostre facce. Abbiamo anche una complicata tabella affissa al muro che regola la frequenza delle nostre visite nei vari paesi; la usiamo anche per fare la spesa. Ogni mattina acquistiamo tutti i quotidiani locali, quasi una decina tra testate autorevoli e gazzettini di paese. Una volta arrivati in casa, gli inserti di cronaca delle contee nel raggio di un centinaio di miglia vengono meticolosamente spulciati. Abbiamo anche un computer, un vecchio relitto che staziona nel seminterrato per le ricerche online; potremmo servirci di uno qualunque dei nostri portatili, ma ci sembra molto più romantico  usare uno scassone con un monitor CRT da sedici pollici. Non prendiamo sempre tutti parte alla ricerca, ma la compiamo ogni giorno, religiosamente. Abbiamo iniziato sei anni fa, ma solo da quando ci siamo trasferiti tutti insieme è stata messa a punto un’organizzazione metodica. Non ha ancora dato nessun frutto e non smettiamo di maledirci per non averci pensato prima.
Ci siete arrivati da soli, vero? Cerchiamo altri vampiri.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Quando ho incontrato La Santa erano quasi gli anni Sessanta. Dopo il disorientamento iniziale, avevo imparato a gestire la mia condizione convertendola in un’esistenza moderatamente soddisfacente, come  un naufrago abbastanza sveglio su un’isoletta prodiga di risorse naturali. Vivevo in piccoli centri poco distanti l’uno dall’altro, frequentandone due o tre per volta: in un paese lavoravo, dimoravo in un altro, mi recavo in un terzo per gli acquisti. Avevo imparato quali lavori potevo svolgere senza attirare troppa attenzione, e quanto a lungo mantenerli. Avevo  capito come porre rimedio al fastidio della luce intensa (bastava, in effetti, un paio di occhiali da sole; gli anni Trenta furono provvidenziali, per me) e in quali giornate potevo uscire prima di buio senza sentirmi così insopportabilmente frastornato. Sapevo dov’era meglio affittare una stanza per alloggiare e mi spostavo da un posto all’altro secondo un raffinato percorso che bilanciava perfettamente la distanza di spazio e di tempo tra un soggiorno e l’altro. Riuscivo ad avere dei negozi preferiti senza essere mai il cliente abituale di nessuno. Cosa non mi riusciva affatto, invece, era riconoscere un altro come me.
Dovevano essercene per forza: io non potevo essere un caso isolato, era un’ipotesi matematicamente impossibile. In decenni di letture, però, non mi ero mai imbattuto nemmeno in un racconto di fantasia il cui “mostro” rispecchiasse le mie caratteristiche, il che provava che l’esistenza di esemplari del mio genere non solo era ignota alla scienza, ma non aveva neanche mai toccato la fantasia dell’uomo come idea astratta. Pure, non mi rassegnavo all’idea di essere l’unico: nelle mie notti mondane non posavo lo sguardo su nessuno senza passarlo al setaccio in cerca di segnali: il respiro era naturale o artefatto?  Quando aveva battuto le palpebre l’ultima volta? Il drink in quel bicchiere, da quanto non veniva sorseggiato? Spesso mi sceglievo un “sospettato” e lo tenevo d’occhio per tutta la sera; in qualche occasione ho anche seguito il malcapitato di turno al locale successivo, per non interrompere la sorveglianza.
Non approdavo mai a niente: inevitabilmente, tutti prima o poi mangiavano, o bevevano qualche bicchiere, oppure sbadigliavano. E comunque, ne avessi anche trovato uno promettente, non avrei saputo come attaccare bottone. Mi ero dipinto la scena in mente decine, centinaia di volte, e non mi veniva in mente alcuna battuta che non sembrasse cavata da un romanzetto scadente:

“Tu non mi conosci, ma io so che cosa sei: sei un morto vivente, come me.”
“Ti ho osservato tutta la sera. Non hai bisogno di fingere, con me, ho riconosciuto subito che sei anche tu un vampiro.”
“So che sei un non morto. Non preoccuparti, il tuo segreto è al sicuro: sono un vampiro anch’io.”


Ve lo figurate? Pietoso. Fortunatamente, non ebbi bisogno di una battuta di apertura, quando incontrai La Santa. Mi piombò letteralmente addosso, una confusione di braccia, capelli e singhiozzi asciutti, tirandosi addosso una pioggia di terriccio, come riso lanciato ad un matrimonio.
Veniva giù dal versante di una collina, lungo il cui sentiero stavo passeggiando un venerdì sera. Era primavera inoltrata e faceva buio verso le sette; la mole della collina schermava prematuramente la luce di taglio del tramonto, così potevo permettermi di fare a meno degli occhiali da sole. Passeggiare è sempre stato un passatempo che amo praticare, probabilmente come retaggio della mia epoca: si passeggiava da soli per godere del panorama, prima che il cinema ci viziasse con scenari sempre più vari e spettacolari e si passeggiava in compagnia perché era la cosa più decente ed economica da fare. Io camminavo e mi guardavo intorno pigramente, senza pensieri particolari in mente: si perde l’urgenza di fare piani, quando si ha tutto il tempo del mondo. Le chiacchiere di esseri immortali su come i decenni passino in un soffio, che cinema e letteratura sembrano sentire l’obbligo di propinarci, sono chiaramente opera di chi non ha idea di cosa sia l’eternità. Il tempo scorre per noi esattamente alla velocità solita, anzi ci pare più lento: un nastro di Mobius dilatato dall’assenza degli stimoli corporali e dalla perdita di significato del giorno rispetto alla notte. Non aneliamo la nascita di un figlio, non ci preoccupiamo di portare il pane in tavola, non abbiamo da soddisfare che capricci passeggeri. Non siamo più in ritardo su alcuna scadenza. Una noia immortale.
E’ probabile che, quel pomeriggio, io mi stessi concentrando sul nuovo paio di scarpe che calzavo: dal momento che non avvertivo più dolore era necessario che prestassi grande attenzione a come sentivo il piede al loro interno, per evitare di camminarci sedici ore filate e poi scoprire, una volta sfilatemele, che mi avevano causato abrasioni quasi impossibili da guarire. Pertanto, quando La Santa mi cadde addosso ero alquanto sovrappensiero: anche se era stata preceduta da un gran chiasso di fronde smosse e rametti spezzati io ero troppo preso dal delicato compito di collaudare la vestibilità delle mie calzature. La sentii solo all’ultimo momento, un frastuono secco che si precipitava verso il mio orecchio destro forzando l’ovattata calma dei miei pensieri, come una pallottola che buchi una bolla di sapone molto spessa. Mi girai su me stesso, appena in tempo per vedere la sua sagoma spettinata, bianca, verde e sporca, appena in tempo per allargare le braccia e frenare la sua caduta, parandola come un portiere di calcio. Sputavo terriccio e scuotevo la testa per togliermelo dagli occhi, con le braccia occupate da quel corpo convulso che sembrava indeciso tra cadere in terra e continuare a correre; sembravamo la peggior coppia di ballerini del mondo mentre cercavo di bloccarle i gomiti contro il corpo e convincerla ad alzare la testa. Aveva uno di quei vestiti con la gonna a ruota e la finta abbottonatura sul davanti, in grosgrain bianco con un motivo di foglie verde menta; questo, oltre ai resti sconvolti della sua acconciatura a crocchia, era tutto ciò che riuscivo a vedere di lei. Alla fine mi risolsi a prenderla per le spalle e darle una scrollata per costringerla a calmarsi e guardarmi in faccia. A posteriori, vorrei aver speso qualche altro minuto a mormorarle di stare tranquilla.
La sua testa volò all’indietro sulla spinta dello scrollone; il collo si piegò tanto che lessi chiaramente il rilievo della trachea sotto la pelle della gola, e una nauseante sinfonia di scrocchi accompagnò tutto il movimento, finché si raddrizzò a guardarmi. I suoi occhi erano così sbarrati che avrebbero potuto rotolare fuori dalle orbite e guizzavano incessantemente mentre si spostavano sul mio volto, le pupille grandi come monetine. Apriva e chiudeva la bocca in un parossismo di suoni strozzati e schiocchi della mandibola. Dal naso al mento e giù lungo il collo, il suo volto era un impiastro di sangue e fango. Si era chiaramente fregata più volte con le mani sporche di terra che tremavano incontrollabilmente, bloccate tra di noi dalla stretta delle mie braccia sui gomiti di lei. Quando la scostai da me vidi lo stesso orrore sanguinolento anche sul vestito. Così mi dovetti accorgere del freddo fermo della sua pelle; poi del fatto che non prendeva fiato per gridare; poi dell’odore di carne rancida della sua bocca; poi dei brandelli di carne tra i denti.
Sono sempre stato grato di non avere avuto modo di specchiarmi, appena ucciso il mio primo uomo. Vederlo fu di lei fu appena sopportabile: mi guardava, vedeva l’espressione sul mio viso, poi si guardava le mani e me le mostrava, scuotendole. E gridava, gridava con quella voce strozzata e àtona, come una sordomuta, rincretinita fino alla bestialità dallo shock. Le era successa una cosa orribile, il suo aspetto era spaventoso, aveva commesso un’azione atroce e ricordava tutto. Mille diavoli dell’inferno le tiravano i capelli e la spintonavano, le strisciavano nelle orecchie e promettevano il peggio. Io non riuscivo a smettere di guardarla, ipnotizzato da quella bocca da maschera greca, dai convulsi che le squassavano il corpo come se venisse percossa continuamente; le dita erano così rigide che avrei potuto spezzarne una piegandola, come un rametto secco. Aveva perduto le scarpe, e dalle calze strappate le dita dei piedi artigliavano il suolo. Passavo in rassegna un particolare dopo l’altro, incredulo. Un’altra come me. Ma in che condizioni! Da quanto era in quello stato? Quanto avrebbe potuto reggere ancora, prima di spezzarsi? E se fosse diventata ormai irrevocabilmente demente? Aveva le unghie spezzate, era ferita?
Un colpo di vento mi riscosse; una di quelle raffiche vigorose, fredde, che se ne infischiano della stagione. Sollevò pezzetti di corteccia, strappò piccole foglie dagli alberi e si servì della mia sciarpa per schiaffeggiare la spalla di lei. Guardando la pelle che non reagiva con la pelle d’oca, mi riscossi. Ero allo scoperto, a venti minuti a piedi dalla pensione in cui alloggiavo, con una donna imbrattata di sangue che urlava in piena isteria. Contemporaneamente, mi resi conto che me ne ero stato a guardarla senza aprire bocca per tutto il tempo, come  un entomologo che osserva imperturbabile un raro insetto che si agita nella morsa delle sue pinzette. Maledicendomi, cambiai la mia stretta in un abbraccio e la condussi verso il ciglio del sentiero; riuscii a farla sedere sulla china erbosa e mi accosciai di fronte a lei. Aveva le gambe rigide come una bambola, e le braccia erano ancora piegate come le avevo lasciate, ma le grida si smorzarono e lentamente concentrò lo sguardo su di me. Le presi il viso fra le mani.
-Calmati, smetti di gridare, ascoltami. Ce la fai? Sei al sicuro adesso. So che lo dicono tutti, ma è vero, non puoi immaginare quanto è vero. Ci penserò io a te, va bene? Puoi fidarti di me. Mi credi?- attesi che annuisse, prima di continuare. - Se riesci a smettere di gridare e a camminare da sola, ti porterò in un posto tranquillo e potrai riposarti. Passerà, te lo garantisco. Starai bene.- Le strinsi le mani incrostate di sangue e terra, e le massaggiai finché lentamente non si distesero, senza smettere di ripeterle che sarebbe stata bene, fino a che riuscì a chiudere la bocca. Aveva ancora gli occhi fuori dalle orbite, ma il tremito si era attenuato e quando la aiutai ad alzarsi rimase dritta senza aiuto, con le braccia discoste dal corpo, il capo leggermente chino, come una ballerina a molla in attesa della carica.
Considerai la situazione: la sera avanzava sul tramonto e ciò giocava a nostro favore. Inoltre l’ora della cena si avvicinava, ed era improbabile che incontrassimo passanti per la strada, ma passare inosservati sarebbe stato più che difficile. Le feci indossare la mia giacca: le maniche lunghe coprivano le mani sudicie, e una volta abbottonata nascondeva facilmente il vestito. L’acconciatura era irrecuperabile, perciò le sfilai le forcine dai capelli e feci del mio meglio per aggiustarli e spazzolare via il terriccio e i fili d’erba che erano rimasti impigliati tra le ciocche. Dopo aver cercato a lungo un’alternativa, mi rassegnai a leccare il mio fazzoletto e pulirle alla meglio il viso. Lei mi lasciò fare: la crisi che l’aveva attanagliata per chissà quanto aveva ceduto il passo ad un’estenuazione simile alla catatonia. In piedi, con le braccia ancora lievemente divaricate nelle maniche della mia giacca, si fece strofinare la faccia e sistemare i capelli attorno al viso per nasconderlo almeno parzialmente. Le guidai anche una mano sul revère, per tenerlo sollevato e chiuso attorno al viso il più possibile. Non c’era invece nessun modo di rimediare all’assenza di scarpe: potevamo solo sperare di camminare abbastanza di buon passo e non attirare l’attenzione di nessuno. Finalmente la presi sottobraccio e partimmo verso la pensione presso cui alloggiavo. Non demmo nell’occhio lungo la strada, quasi deserta salvo un paio di ritardatari che si affrettavano verso casa per la cena. Contratti nella nostra andatura precipitosa saremmo sembrati della stessa risma, una coppia sposata, magari, con lui che aveva dovuto prestare la giacca alla moglie infreddolita e che ora teneva il broncio perché la cavalleria l’obbligava a patire il freddo. Un’immagine così domestica, così semplice.

Fortunatamente avevo l’abitudine di non lasciare le chiavi della mia stanza al bancone del concierge, quindi non dovetti fermarmi a parlare con lui e se anche ci gettò un’occhiata di disapprovazione non lo notai.
La feci entrare nella stanza e lei restò in piedi mentre accendevo la lampada del piccolo scrittoio e tiravo le tende. Si guardava intorno, nell’anonima solitudine di ogni stanza d’albergo: carta da parati con un motivo di fiori stilizzati che somigliavano a fiocchi di neve, pavimento in vinile color ruggine, un letto che poteva, al suo meglio, definirsi “spoglio”. Ho odiato l’arredamento di quel periodo: mi sento un senzatetto se non sono circondato da abbastanza mobilia e soprammobili, ma vivendo da nomade non ho mai potuto mettere insieme abbastanza ricordi da portare in valigia con me. Mi sto rifacendo adesso, e sono la macchietta di tutti gli altri; mi chiamano “la vecchia zia” ogni volta che parto alla volta di una mercato dell’antiquariato.
Insistevo sempre per avere una stanza con bagno privato: risparmiando sul cibo potevo permettermi questi extra; naturalmente non avevo bisogno di usare il gabinetto, ma da quando l’acqua corrente era diventata una dotazione comune di ogni casa mi ero scoperto un fanatico dei lunghi bagni. Inoltre non potevo certo rischiare che qualche pensionante entrasse mentre mi lavavo la faccia, senza il pietoso fazzoletto a proteggermi il collo, oppure spazzolavo i miei denti incorniciati da gengive bluastre. Il bagno della mia stanza era angusto e la vasca da bagno mi costringeva a tenere le ginocchia piegate, ma mi bastava che fosse mio. Feci scorrere l’acqua e tornai dalla ragazza. Pensai di sfuggita che non sapevo ancora il suo nome, ma era una faccenda che poteva aspettare. La toccai leggermente sulla spalla e lei si girò lentamente a guardarmi.
-Allora… - d’un tratto ero impacciato: c’era una donna nella mia camera e stavo per invitarla a fare un bagno. Come non sembrare equivoco? Per quanto le circostanze fossero tutto fuorché ambigue, il bisogno di rispettare un’etichetta mi ossessionava. –Di là c’è il bagno, ho aperto l’acqua. Fai un bagno, stacci quanto vuoi; possiamo parlare quando uscirai.- Le indicai la porta. Lei seguì con la testa il movimento del mio braccio e s’incamminò lentamente. Lasciò la porta aperta. Mi lasciai andare sulla sedia accanto allo scrittoio, chiedendomi di nuovo se lo shock non l’avesse portata alla demenza, e cos’avrei fatto, in quel caso? Vivere da solo era stato difficile, ma accollarmi una compagna incapace di badare a sé stessa era oltre le mie possibilità. Non riuscivo neanche a formulare un’ipotesi sul da farsi. Mentre mi fasciavo il capo anzitempo, la luce della stanza da bagno si spense e il rumore d’acqua corrente s’interruppe. Nel silenzio che riempì la stanza sentii il ronzio dei raggi di una bicicletta giù in strada. Poi il suono della mia giacca che cadeva a terra. Il guizzo veloce di una zip abbassata. Continuai a fissare il rettangolo buio della stanza da bagno finché non sentii lo sciacquio del corpo che entrava nell’acqua della vasca; in qualche modo, sapere che sapeva almeno farsi un bagno mi sollevò. Mi alzai dalla sedia e andai a recuperare la mia valigia dalla cima del piccolo armadio della stanza: abbandonato sul fondo, c’era un pigiama accuratamente piegato. Aveva almeno vent’anni: un bel giorno mi ero reso conto di essere rimasto forse l’ultimo uomo del paese a possedere ancora una camicia da notte. In realtà non usavo praticamente mai neanche quella, dal momento che non dormivo; mi piaceva, però, indossarla per qualche ora dopo aver fatto un bagno, per il gusto di un indumento comodo. Giunto il momento di acquistarne una nuova, mi ero accorto che i pigiami occhieggiavano ovunque e ne avevo comperato uno. Mi aveva lasciato perplesso: mi dava la sgradevole sensazione di stare indossando un finto vestito, e il fatto che avesse dei pantaloni mi spingeva continuamente a cercare tasche che non c’erano, ma ci stavo facendo la mano. Dato che lo indossavo raramente era in buono stato nonostante l’età, e comunque non avevo altro. Badai ad annunciarmi per tempo mentre mi avvicinavo lentamente all’ingresso del bagno:
-Ti lascio un pigiama qui fuori… Non ho niente di meglio, per il momento. Ti andrà un po’ largo -
Lo appoggiai sul pavimento appena fuori dalla linea d’inizio delle piastrelle del bagno, con la stessa cautela che avrei usato nel posare a terra un pezzo di carne per sfamare una tigre nella sua gabbia. Mi stavo rialzando,  quando:
-…Grazie -
Era una parola con un sacco di silenzio a precederla. Una voce minuscola, fioca eppure ferma. Credevo che fosse così lieve a causa dello shock, invece il tempo mi ha contraddetto: la voce della Santa è sempre stata così, grande la metà di lei. Mi prese in contropiede, ormai stavo dando per scontato che non avrebbe mai parlato. Mormorai un “Prego…” che suonava più sbalordito di quanto volessi, e ritornai alla mia sedia, a ritroso.
Fissai l’ingresso del bagno per tutto il tempo che lei passò dentro. Malgrado cercassi di controllarmi, sentivo nascere dentro di me terrore ed euforia: da quasi cinquant’anni vivevo come unica anomalia in un mondo che, benché in lento e costante cambiamento, tutto sommato conoscevo da sempre. Ora si aggiungeva un nuovo elemento, totalmente sconosciuto: una mia simile. Qualunque cosa io fossi, l’avevo sempre contemplata dall’interno: incarnata in una persona, era come se non la conoscessi affatto. Scalpitavo dall’impazienza, ma mi ripetevo di andarci con i piedi di piombo: la ragazza era in uno stato pietoso e dovevo usare tutta la delicatezza di cui disponevo. Pure, quando un piccolo braccio bianco spuntò nella cornice della porta e trovò a tastoni il pigiama per portarlo all’interno, balzai in piedi involontariamente.
Vorrei poter dire che mi balzò il cuore in gola.
Quando uscì dalla stanza da bagno, qualche minuto dopo, fu con la stessa lentezza con cui vi era entrata. Ma, se l’avevo vista avviarsi come una bambola sonnambula, ora si muoveva come un animale su un territorio sconosciuto: ogni passo veniva articolato con molto studio, il peso del corpo bilanciato con attenzione. Mi aspettavo di vederla ruotare le orecchie per captare meglio i rumori. Si fermò a un paio di metri da me. Ora mi vedeva, per la prima volta da quando c’eravamo scontrati: la vidi misurare la mia altezza; stimare un’età approssimativa; valutare il mio abbigliamento; registrare il colore dei miei occhi. Guardava il mio fazzoletto da collo quando parlò di nuovo:
-Mi chiamo Doris.
-Julian.
Ci stringemmo la mano. Io avevo voglia di sorridere, lei non ne sembrava ancora in grado. Indicai con un gesto la stanza:
-Prego, siediti. Letto o seggiola, per me è uguale.
Andò a sedersi sul letto, ginocchia strette, piedi uniti, mani in grembo. Il pigiama le andava così lungo che l’orlo dei pantaloni le andava ben sotto i talloni, e una volta seduta spuntavano solo le punte degli alluci. La giacca del pigiama si abbottonava davanti, ma anche se era chiusa fino all’ultimo bottone non garantiva certo uno scollo pudico. Lei, però, ne era talmente ignara da annullare ogni aura di seduzione possibile dalla sua persona. Aveva un piccolo neo su una clavicola, lo sterno leggermente in rilievo. Si guardò le mani; sotto le unghie c’era ancora dello sporco. Cominciò a ripulirsele, s’interruppe e mi guardò.
-Ho… Io credo… Di essere. Di avere… - ci metteva moltissimo tempo a scegliere ogni parola, e se ne pentiva appena la pronunciava. Mi resi conto di quanto fosse dilaniante la sua situazione: io non avevo mai dovuto raccontare a nessuno quello che avevo fatto. Nessuno mi aveva mai colto in flagrante, la prima volta come le seguenti. Avevo assorbito lo shock di cos’ero diventato completamente da solo, e avevo avuto tutto il tempo del mondo per riprendermi ed imparare a gestirmi. Ma lei… quello che le era successo non poteva essere capitato da più di un paio di giorni, forse quella mattina stessa. Era in preda al panico e quasi immediatamente incappava in uno sconosciuto che praticamente la portava di peso nella propria stanza. Come fai a raccontare a qualcuno che credi di essere morta e che hai sbranato una persona con le unghie e con i denti? Cercai di tranquillizzarla per portarla a raccontare, senza toglierle le parole di bocca e senza ancora travolgerla con la realtà dei fatti. Trascinai la sedia verso di lei di un paio di passi, ingobbendomi per portare il viso alla sua altezza:
-Ascolta, Doris. Sei sconvolta e io credo di sapere perché, ma credo anche che  raccontare quello che ti è successo potrebbe farti bene. Ti hanno fatto del male, vero?
Le sue spalle si contrassero. Strinse le labbra e annuì. Annuii anch’io, e seguitai:
-E dopo hai fatto qualcosa alla persona che ti ha fatto del male – annuì di nuovo. Stavo per continuare, quando lei si piegò in due, strizzò gli occhi tanto da farli scomparire e latrò:
-L’ho ucciso. Con la bocca. I denti. Come un cane! Ho mangiato la carne! DI UN UOMO!
Saltai giù dalla sedia e la presi di nuovo per le spalle. Lei ammutolì immediatamente e restò a fissarmi, di nuovo con gli occhi sbarrati. Una scena così simile a quella di poco prima… Ero contento che avesse reagito col silenzio, non solo perché urlare certe cose in una stanza d’albergo non è mai una saggia mossa, ma anche perché dimostrava almeno un pizzico di reattività in più rispetto a quando l’avevo incontrata. Volevo aiutarla a sfogarsi, ma avevo anche paura di quei blackout pieni di grida.
-Doris, Doris, guardami. Ascolta. So che cosa ti è capitato. Ora credimi, per favore, lo so che pensi di essere una persona orribile, ma non è così. E’ difficile e me ne rendo conto, ma devi cercare di stare calma e credere a quello che ti dico. - Mentre parlavo continuavo a tenerle le mani sulle spalle e la facevo ondeggiare leggermente, al ritmo delle mie parole, come se la stessi cullando. Speravo che si calmasse, ma si scosse via dalle spalle le mie mani e cominciò a guardarmi come se il pazzo fossi io.
-Io non ti conosco… come fai tu a dirmi che sai cosa mi è successo? E… poi perché sei così calmo? Ti ho detto che ho ucciso un uomo a morsi! Cosa, cosa sei, uno psichiatra? Vieni da un manicomio e cerchi di tenermi calma finché arriverà la polizia? E come hai fatto a trovarmi? Neanch’io so dove sono, sono ore che corro, non era ancora mattina quand’ho cominciato e ora è sera – era di nuovo sull’orlo dell’isteria, le parole le rotolavano fuori dalla bocca come tante palline.
-Doris!- Avevo alzato la voce, e levai anche una mano per risultare più incisivo. Lei si zittì tanto precipitosamente da battere i denti. –Non sono uno psichiatra e non sta arrivando la polizia. Ti ho trovata per pura fortuna e sto cercando di rendere questa cosa meno dolorosa possibile, ma non l’ho mai fatto prima e non so se ci riuscirò. Ora ascoltami: so cosa ti è successo perché è successo anche a me e so che cos’hai fatto perché l’ho fatto anch’io. E non solo, – mi accosciai davanti lei, le presi le mani. Fredde come le mie. Usai il mio tono di voce più dolce – so anche che ti sembra d’impazzire perché senti di essere morta. E’ vero?-
Passò diverso tempo prima che mi rispondesse. Mi fissò per un’eternità. Poi bisbigliò:
-Ed è vero?-

Non ebbe più attacchi isterici. La portata dell’evidenza glieli fece scavalcare e la portò ad approdare ad un dolore asciutto e muto. Le misi la mano sul mio cuore fermo, davanti alle mie narici e le feci posare due dita sulla mia gola. Volevo dimostrarle che non mentivo. Appena le lasciai la mano, lei girò il polso e prese la mia. La posò su di sé, negli stessi punti. Ogni volta mi guardava, con occhi color ostrica, e chiedeva “No?”
No, rispondevo. Mi dispiace, no.
Alla fine rimase ferma, lasciò cadere le mani, tirò le gambe giù dal letto. Neanch’io mi muovevo, in ginocchio contro il letto, timoroso di spezzare, insieme al silenzio, un equilibrio fragile. La mia fronte le arrivava all’altezza del naso; quando parlò, sentii le sue parole nei capelli.
-Non mi viene da piangere…-
Sospirai. A volte c’è bisogno di sospirare anche se non si respira.
-No, Doris.-
-Oh.-

Più tardi quella notte, quando avevo ripreso possesso della sedia e alla scrivania mi esercitavo a comporre cruciverba, senza preavviso mi raccontò la sua storia.

Aveva ventinove anni, era sposata, era una casalinga. Niente di particolare. Aveva seguito l’istruzione standard fino ai diciannove anni, nel genere di scuola che si proponeva principalmente di sfornare giovani donne in grado di accudire una casa, cucinare abbastanza bene da permettere al proprio marito di invitare a cena il principale e sostenere una conversazione. Conosceva un po’ di francese, era brava a giocare a tennis. A tredici anni si era rotta il polso sinistro cadendo dai pattini. Aveva dato il primo bacio ad un ballo dell’associazione filarmonica. Si era sposata a diciannove anni, con il figlio del proprietario dell’autofficina del paese. Si erano conosciuti ad una festa di capodanno; anche se vivevano a due strade di distanza non si erano mai incontrati prima. Lui aveva aspettato il capodanno successivo per farle la proposta. Avevano avuto un matrimonio felice, finché lei non aveva perso il primo bambino. Successivamente non era più riuscita a rimanere incinta, e il matrimonio si era raffreddato.

“William è buono, non mi ha mai dato colpe. Però… senza bambini, il matrimonio non va molto lontano. Abbiamo smesso di provarci ormai da anni. Stiamo bene insieme, non litighiamo quasi mai… comunque lui lavora tanto e senza figli io non ho molto da fare. E allora…
“E’ colpa mia.
“C’è un uomo che fa il tuttofare, in paese. E’ l’unico in città, lo conoscono tutti, passava sempre anche da noi. L'avrò visto cento volte, ma negli ultimi tempi ho cominciato ad offrirgli il tè quando aveva finito le sue faccende. Rimaneva a chiacchierare per un po’, poi se ne andava. Era piacevole conoscere una persona nuova, e lui era sempre tanto gentile e interessato… ma stavo civettando, lo so. Solo, non lo ammettevo. E un pomeriggio è venuto a vedere il boiler dell’acqua… io gli ho fatto strada in cantina e lui mi ha fatto delle avances, mentre ancora stavo cercando l’interruttore della luce. Gli ho detto di no. Lui si è arrabbiato, ha detto che lo avevo incoraggiato, che lo volevo anch’io, io mi sono spaventata e indietreggiavo e lui mi ha preso la testa per baciarmi. Io mi sono divincolata. Lui mi ha tirata a sé e io ho perso l’equilibrio. Credo che mi abbia baciata, ma ho sentito uno… uno scrocchio, uno schiocco forte. Ho sentito che perdevo una scarpa, sono andata giù. Sai, come tuffarsi di piedi. Poi… mi sono svegliata e lì per lì non capivo dov’ero.
“Avevo addosso un telo, uno di quelli impermeabili. Ho mosso le mani e sotto di me c’era un piano metallico. Per un po’ non ho fatto niente: ho teso l’orecchio, ho annusato l’aria”  si girò a guardarmi, con un aria di scusa.  “L’avevo capito, di essere morta. Ma come fai a crederci? Tu come hai fatto? Quanto ci hai messo ad ammettere di essere morto?”
Le feci un piccolo sorriso.
-Dove ti trovavi, insomma?
-Nel vano del furgone del signor… di quell’uomo. Mi aveva coperta col telone insieme agli attrezzi che ci teneva.
-Perché non vuoi dirmi il suo nome?
Scosse le spalle
-Non servirebbe a molto ora, no? L’ho- io- lui… è morto. Non mi cercherà. Non lo incontrerò per caso, insomma.

La gente avrebbe cercato lui, però. Quello che aveva ucciso me era un borsaiolo, un criminale da quattro soldi; la città ne era piena e le indagini per omicidio per gente di quella risma, ai miei tempi, erano affrontate alquanto sottogamba. Inoltre, non c’erano prove che avesse ucciso me: a parte il dettaglio non trascurabile che ero rientrato a casa sulle mie gambe e vi avevo trascorso due giorni prima di sparire, mi ero anche ripreso tutti gli effetti personali, quando l’avevo ritrovato. Ma l’assassino di Doris era un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che era stato probabilmente visto entrare in casa sua da qualcuno. Ora lei era scomparsa, e lui sarebbe stato trovato morto, dovunque fosse. Doris era scalza quando l’avevo trovata e probabilmente le sue scarpe si trovavano a metà strada tra il furgone del suo assassino e il punto in cui ci eravamo scontrati. Ci saremmo dovuti spostare, di molto e alla svelta. I tempi erano cambiati. Non avevo il cuore di dirglielo, però. Le chiesi solo di finire il racconto. Non mancava molto.

“Mi sono tirata su di scatto e ho visto che mi trovavo in un bosco. Ora che ci penso,  non eravamo vicini ad una strada o un sentiero. Deve essere stato difficile, guidare fin là.
“Lui, l’ho visto subito: ha detto “Oddio”, quando ha sentito il rumore del telone che veniva scostato. Era senza camicia, aveva una pala in mano e stava scavano una fossa. E quando l’ho visto, in quel secondo…
"Non so spiegarlo: io ho visto dove si trovava. Era l’unica cosa che ho notato, l’unica a cui ho dato attenzione: la sua posizione precisa. Ho visto che era girato verso di me, ma non era ben piantato sui piedi, ho visto che era vicino alla fossa e che teneva la pala con una mano sola e quanto era distante da me e non sentivo niente, non ero nemmeno arrabbiata, ma… ero in me. Vorrei dire il contrario. Invece ero solo… concentrata. Mi sono accorta di avere solo una scarpa, così l’ho sfilata. Poi mi sono tolta di dosso il telone e sono saltata giù dal furgone.
“E lui ha lasciato cadere la vanga e ha cominciato a venire verso di me. Diceva che gli dispiaceva, che mi credeva morta ed era stato preso dal panico, credo. Non ha finito la frase perché… a quel punto, gli sono saltata addosso. Era il momento migliore di farlo. Non so perché lo sapessi. Però non mi sbagliavo, perché non è riuscito a difendersi.
“Dopo, ho corso. Non so dov’eravamo e a pensarci adesso non so neanche se volessi tornare a casa. Volevo solo lasciare quel posto, correvo e mi pulivo la faccia con le mani. Anche quando si è fatto buio, non ho smesso. Neanche quando si è fatto giorno e tutto mi girava intorno… forse ho girato in tondo anch’io, non lo so. E quando mi hai trovato… non riconosco questo posto. Dove siamo?”

Glielo dissi. A voi, invece, non lo dirò: la riservatezza è importante e non avrete da me toponimi, né nomi di valuta o indizi sulla nostra posizione. Vi basteranno i nomi, e vi lascerò a chiedervi se siano quelli veri o no.

Risultò che la sua corsa forsennata aveva portato Doris ad un paio d’ore di macchina dal paese in cui viveva. Era pur sempre un vantaggio sulle investigazioni che forse erano già cominciate, ma occorreva comunque muoversi. Il che significava prendere quella povera creatura incapace di raccapezzarsi, piena di domande da scoppiare, che mi guardava annegata nel mio pigiama e portarla via senza tanti complimenti, ancora col sapore di terra in bocca.
Le promisi che avrei risposto a tutti gli interrogativi di cui conoscevo la risposta; le dissi che avremmo trovato un posto sicuro dove stare; le assicurai che avrebbe avuto una vita serena; le garantii che non le sarebbero mancati cinema, libri o balli; che avrebbe avuto vestiti nuovi, scarpe e cappellini; le giurai che sarei stato accanto a lei per tutto il tempo che lei lo avesse desiderato, preciso al secondo. Nemmeno la mia proposta di matrimonio era stata più accorata. Per la prima volta in quarantacinque anni incontravo qualcuno come me, e la trovavo ancora calda di vita, spaurita e inesperta come un uccellino caduto dal nido. Avrei dato una mano per non spaventarla più di quanto già non fosse, per non farla scappare via da me. Scoprivo che il bozzolo che mi ero filato intorno per tutti quegli anni per proteggermi era a tenuta talmente stagna da allagarsi di solitudine, e ne misuravo il volume proprio ora che il corpo di Doris vi era penetrato, facendola tracimare. Il principio di Archimede sui corpi morti immersi nell’immortalità.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Doris mi ascoltò parlare e se mi trovò ridicolo non lo dimostrò neanche col sorriso più piccolo. Quando finalmente mi trovai a corto di parole alzò un dito come si fa a scuola per chiedere la parola e chiese timidamente:
“Ma cosa potrei mettermi per uscire di qui?”
Questo era un gran bel punto: i suoi abiti erano sia laceri che lordi di sangue e non solo non erano da prendere in considerazione, ma costituivano anche un bell’impiccio dal momento che non era il caso di disfarsene sul posto; avremmo dovuto portarceli dietro per un po’ e anche pulire scrupolosamente il bagno, nel caso avessero macchiato il pavimento.
Impensabile farle indossare qualcosa di mio: le donne in pantaloni erano ormai diffusissime, certo, ma Doris sarebbe sembrata un clown, con addosso la mia roba. Non sono un pezzo d’uomo, ma una mia camicia le arrivava comunque alle ginocchia, e delle scarpe non c’era neanche da parlare. Mi ridussi a raggiungere, all’ora dell’apertura mattutina, una boutique di abiti pronti da indossare, con in tasca un foglietto su cui erano riportate le misure e il numero di scarpe di Doris. Inventai una frottola circa un regalo di compleanno e probabilmente suonai abbastanza imbarazzato da essere creduto. Comprai un vestito a maniche corte color fiordaliso, con un minuscolo motivo di fiori celesti. La commessa del negozio, bene addestrata nel suo lavoro, mi propose anche calze, scarpe, guanti e una borsetta, e io accettai tutto. Quindi, tentò il colpo grosso mostrandomi anche un corto bolero color panna e un cappellino in tinta che aggiunsi agli acquisti senza battere ciglio. La cosa la sconcertò talmente che, al momento di presentarmi il conto, sembrava più a disagio di me. Non lo era, invece: avevo sperato che mi suggerisse anche l’acquisto di biancheria intima, cavandomi dall’imbarazzo di doverla chiedere; purtroppo non mi sventolò sotto il naso neanche una sottoveste e io non riuscii a vincermi. Tornai alla pensione con un vestito completo di accessori, ma senza nemmeno un paio di mutandine. Doris restò scandalizzata. In mia assenza aveva fatto le mie valigie e pulito puntigliosamente ogni centimetro della stanza e soprattutto del bagno; aveva anche fatto un fagotto molto stretto dei suoi vestiti e l’aveva cacciato in fondo al bagaglio, e non aveva la minima intenzione di rimettersi la lingerie sporca. Quando tornai con il voluminoso pacco della boutique, mi aspettava seduta sul letto avvolta nell’asciugamani dell’albergo: aveva fatto un altro bagno ed era riuscita ad acconciarsi i capelli in un semplice chignon usando le poche forcine che le erano rimaste addosso quando l’avevo trovata. Era pronta a vestirsi, e quando scoprì di dover indossare l’abito senza niente sotto mi guardò come se l’avessi invitata a fare un giro su una bici senza manubrio. La sentii emettere un vasto campionario di espressioni di lesa dignità dal bagno in cui si stava vestendo, e mentre camminavamo verso la stazione delle corriere non riusciva a smettere di passare le mani lungo tutto il vestito come se dovesse volarle via di dosso da un momento all’altro, in assenza di un bustino che lo persuadesse a restare.

Raggiungemmo la stazione delle corriere a piedi. Avevo dato un paio dei miei occhiali da sole a Doris, anche se le stavano grandi, perché tollerasse la luce del giorno. Benché fossero d’aiuto, lei continuava a sbandare e io la guidavo con un braccio intorno alle spalle. Nella giornata grigia di pioggia, con la valigia in mano e gli occhiali scuri, sembravamo probabilmente una coppia clandestina in fuga d’amore. La borsetta di Doris era vuota. Non riuscivo a smettere di pensare a quella borsetta vuota, a quanto fosse solo parte di un costume, come le giacche che indossavamo, inutili contro un freddo che non sentivamo. L’unica cosa utile che portavamo erano gli occhiali da sole, ed erano l’elemento più stonato di tutto l’ ensemble.

Cambiammo due corriere, spostandoci verso il centro del paese. Senza pensarci troppo, immaginavo che un’ ipotetica ricerca della donna scomparsa si sarebbe mossa verso zone disabitate: in mancanza di indizi migliori, probabilmente in quel momento Doris figurava come possibile assassina del tuttofare, quindi avrebbero pensato ad una sua fuga dalla giustizia, e una persona che non vuole essere riconosciuta difficilmente cercherebbe rifugio in una località popolosa, dove più gente potrebbe aver fatto caso alla foto sul giornale. Pertanto, ci stavamo dirigendo verso una cittadina di medie dimensioni, distante poco meno di un giorno di viaggio.
Prima di partire comprai il giornale e una rivista per Doris. Volevo controllare se si parlasse della sua scomparsa, ma nella copia di quel giorno non se ne faceva menzione. Doris era morta quasi tre giorni prima; forse i quotidiani avevano già smesso di parlarne. Probabilmente i giornalisti si erano limitati a citarne il nome e accludere una descrizione. In realtà, non ero molto preoccupato che ci trovassero, non so perché. È una tendenza che ho riscontrato in tutti noi: non crediamo realmente che qualcuno ci troverà, una volta morti: vengono rinvenuti i cadaveri e vengono ritrovate le persone smarrite. Noi siamo cadaveri, ma non siamo morti: ci sentiamo sfuggiti all’equazione.

Fu un viaggio noioso: rimanemmo muti per quasi tutto il tempo. Tutto quel che avrei voluto chiederle io avrebbe potuto rivelare la sua identità ad un passeggero per caso in ascolto e tutto quello che avrebbe potuto chiedermi lei avrebbe riguardato la nostra condizione di morti viventi. Entrambe le eventualità avrebbero potuto avere risvolti catastrofici. Dovevamo cambiare due volte per raggiungere la nostra destinazione, e Doris si addormentò nel corso della tratta di mezzo; il sonno la colse pochi minuti dopo la partenza e poco mancò che non si rovesciasse giù dal sedile nel corridoio della corriera. Mi accorsi che stava scivolando appena in tempo per protendermi a sorreggerla, simulando un abbraccio.
Potrei aver dato ad intendere che non abbiamo bisogno di dormire: non è così. Attualmente è dimostrato che il cervello ha bisogno del sonno molto più del corpo, che riesce a ricaricarsi egregiamente con il semplice riposo ed il cibo. Ciò a cui serve il sonno è, in larga misura, la manutenzione e la rigenerazione della corteccia cerebrale, da cui dipendono i processi cognitivi, la memoria e la reazione cosciente agli stimoli; per essere lasciato in pace durante questa manutenzione, il cervello manda in ferie tutto l’organismo, inviando lo stimolo della sonnolenza opzionale, che viene spesso combattuta a suon di tazze di caffè e passeggiatine per sgranchirsi. Se la resistenza al sonno opzionale diventa una vera e propria battaglia, il cervello decide di chiudere i battenti ed entrare nel cosiddetto “sonno nucleare”. A quel punto il malcapitato di turno stramazza, volente o nolente. Quel che voglio dire con questo panegirico è che noi, svincolati dal bisogno di riposo fisico, non avvertiamo la sonnolenza opzionale: siamo dei cervelli con un sistema deambulatorio e, quando la nostra sala macchine chiude per manutenzione ci coglie completamente di botto. Prima di imparare quale fosse la mia soglia di resistenza massima ho passato diversi mesi soccombendo al sonno nei momenti più disparati, spesso nel mezzo di un’azione come allacciarmi le scarpe o voltare una pagina, come se la richiesta di compiere quell’ulteriore sforzo fosse stata la goccia che faceva traboccare il vaso della mia autonomia; per mia fortuna ho vissuto i miei primi anni con estrema cautela, passando la maggior parte del mio tempo chiuso nella mia stanza di pensionante e questo mi ha risparmiato molti incidenti potenzialmente tragici. Oggigiorno sappiamo che il cervello richiede il suo sonno nucleare di sei-otto ore all’incirca un giorno su due, e facciamo in modo di organizzarci di conseguenza. Doris non aveva dormito per più di tre giorni, sostenuta dalla tensione nervosa per quanto le era accaduto. Adesso, cullata dal beccheggio del bus, il suo interruttore era scattato e lei si era immediatamente spenta. Sperando di non essere notato, le tolsi il cappellino che le era scivolato su un orecchio e tenni la sua testa ciondolante al sicuro sulla mia spalla fino alla fine del tragitto.

Prendemmo in affitto due stanze ammobiliate in un palazzo di tre piani poco distante dal centro cittadino. Il pianterreno era occupato da un pub, e al primo piano si trovavano degli uffici; i nostri alloggi erano nel sottotetto dell’edificio, dove tradizionalmente si gela d’inverno e si cuoce d’estate e quindi erano economici. Al padrone di casa ci presentammo insieme e sottobraccio; lui diede per scontato che fossimo sposati e noi non lo contraddicemmo. Attraverso un paio di fedi nuziali che nemmeno c’erano ci valutò più di buon occhio, e la trattativa fluì liscia e senza inconvenienti. La verità è che le persone, quando non cercano un contatto umano, non fanno domande: il proprietario dell’emporio da cui andavamo sempre a fare la spesa non ci ha mai chiesto perché comprassimo regolarmente il sapone per i pavimenti, ma mai quello per i piatti e alla farmacia non domandarono mai a Doris come mai acquistasse sempre dentifricio e pastiglie per l’alito, ma mai assorbenti igienici. Una vita, anche una vita lunghissima, può passare bellamente inosservata, purché eseguita ad un volume basso.
Il primo giorno della nostra ufficiale convivenza comprammo tende molto spesse per passare le ore di luce indisturbati e lampadine a basso voltaggio per quando faceva buio. Il secondo giorno, Doris uscì per comprare la biancheria intima che tanto le mancava; rientrò con tre paia di calze, due sottovesti, una gonna, una camicetta, pantofole e un numero imprecisato di articoli di lingerie. Il terzo giorno si guardò allo specchio e si precipitò fuori casa, inorridita, alla volta di una profumeria: al suo ritorno, l’armadietto del bagno si riempì di flaconi, tubetti e pennelli. La sobria saponetta che mi accompagnava ovunque fu scalzata da sali da bagno, bagnoschiuma e creme emollienti, e un infernale asciugacapelli si appollaiò su una mensola di fianco allo specchio. Il giorno successivo, all’imbrunire, andammo insieme a fare la tessera della biblioteca locale. Anche lì, dettero per scontato che fossimo sposati e insistettero perché solo io facessi l’iscrizione, assicurando Doris che avrebbe potuto usare la mia tessera. Mi lanciò uno sguardo poco convinto, ma non disse nulla. Passeggiando, quella stessa sera, scovammo un modesto museo di storia naturale e riuscimmo a visitarlo prima dell’orario di chiusura. Osservammo canguri impagliati prima che io nascessi da qualcuno che non aveva idea di come apparisse un vero canguro, delicati scheletri di uccelli e feti di cane quasi invisibili nella formalina ormai torbida. Doris entrò per prima nella sala degli insetti, dalle pareti interamente rivestite di bacheche punteggiate di mosche e farfalle, protetti da tempo e polvere dagli sportellini di vetro. Le lampadine mandavano un ronzìo sonnolento e i tacchi di Doris risuonavano sul marmo mangiato del pavimento con un rumore pulito. Non c’erano orologi a ticchettare insieme a loro. Avanzò fino alla parete di fondo e rimase ferma, un piede quasi sul punto di lasciare il suolo. Potevo vedere la suola della scarpa ancora nuova, non ancora sporca davvero. Vedevo la coda di cavallo di Doris ondeggiare appena mentre lei muoveva lentamente la testa seguendo il sentiero dei coleotteri infilzati. Quando lei fermava lo sguardo, la coda dondolava ancora un poco, poi si fermava. A quel punto, tutto era immobile: l’aria asciutta della stanza dalle grandi finestre chiuse; le antenne degli insetti sotto vetro; le spalle di Doris, che non dovevano più seguire il ritmo del respiro. E nessun rumore. Se fosse calata una campana di vetro su di lei, nulla sarebbe mutato in quella stanza rispetto a prima del suo ingresso: come prima, avrebbe esposto graziose cose morte. Con una sola, affascinante variazione sul tema: gli insetti sembravano vivi, finché non si faceva caso alla loro immobilità; Doris sembrava perfettamente morta, a patto che non si muovesse.

 
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Sto leggendo il libro che ho comprato oggi pomeriggio, accomodato nel mio posto preferito del salotto: nel cantuccio dei cuscini d’angolo del divano che sta di fronte alla televisione. E’ un divano molto profondo, e la mia posizione mi regala ancora più spazio per le gambe. A un paio di cuscini di distanza da me, seduta sul bordo del divano e curva in avanti per avvicinarsi al basso tavolino da caffè, La Santa sta dipingendo le sue unghie finte. Ha troppa paura di danneggiare le sue unghie naturali per applicarsi lo smalto direttamente, così acquista online degli stock di unghie in resina di varie forme e lunghezze, che poi dipinge e indossa a seconda dell’umore. E’ diventata piuttosto brava in questa singolare branca della pittura miniata, al punto di avere un piccolo negozio online in cui vende le sue creazioni.
E’ un pomeriggio di novembre e il cielo fuori dalle finestre è del blu delle porcellane cinesi. In salotto ci siamo solo noi due: Lola è uscita da un’oretta e Priska è nella sua stanza, dalla quale esce un fiume di musica elettronica dai toni sepolcrali. Stavo per dire che anche Thom è nella sua camera, invece eccolo che scende le scale come Fred Astaire, con un paio di pantaloni di felpa grigia, una maglietta che probabilmente ha rubato a Priska e due pantofole impossibilmente voluminose ai piedi. E’ allegro come un fringuello e, a giudicare da come lo sventola, il cd che ha in mano ne ha il merito. Senza smettere di salterellare raggiunge la nostra oasi di pace domestica, poi si accoscia davanti al televisore e accende il lettore DVD. Dal piano di sopra ci raggiunge la voce di Priska:
-Ha fatto?
-Sì!- Abbaia felice Thomas. –E se non ti sbrighi comincio senza di te!
Vengo colto da un’intuizione.
-Thomas- esordisco cautamente. –È per caso un nuovo film sui vampiri, quello che ti accingi a somministrarci?-
-Non “nuovo”, caro mio. Trattasi di un film molto, molto vecchio: del 1927, per l’esattezza, e anche molto raro. Ci ho messo tre settimane a scaricarlo.
-Ci risiamo- brontola La Santa. Thom si esibisce in un ostentato sospiro di naso, del genere che si fa quando si cerca di mantenere la calma.
-Santa, anima mia, luce dei miei occhi, ortensia del mio davanzale: nessuno ti obbliga alla visione, sai. Puoi raccattare i tuoi artigli da laccare usando i tuoi artigli già laccati e trasferire altrove la tua augusta personcina sputasentenze.
La Santa non risponde, ma fa un sorrisetto; Thom riesce sempre a passarla liscia, con lei, e viceversa. Le loro lingue sono state affilate dallo stesso maestro di spada, e hanno imparato da tempo a non incrociarle più.
Mentre il televisore viene acceso Priska scende dabbasso, armeggiando con il suo cellulare. Scavalca lo schienale del divano e si siede vicino alla Santa.
-Ho scritto a Lola che guarderemo il film senza di lei e ci augura una morte lenta e doloros.- annuncia.
-Certo, è ammirevole la vostra perseveranza- osservo. –Un anno via l’altro, un film di vampiri dopo l’altro, la vostra speranza di trovare un’intuizione geniale sopravvive immutata-
-E dimentichi tutti i romanzi che ci sciroppiamo- mi fa notare Thom.
-Eppure dovrebbe essere palese, oramai: non si parla di noi. Nessun vampiro del mondo fantastico partorito dalla mente dell’uomo ha tratti in comune con noi-
-Duemila anni di evoluzione e nessuno ha creato niente di decente sui vampiri. Che mondo ingrato, vero?-
-È perché noi non siamo vampiri, Thom!- sbuffa Priska –Saranno trent’anni che te lo ripetiamo: non abbiamo i canini affilati, non abbiamo paura dei crocifissi, non andiamo in cenere alla luce del sole…-
-Ehi! La storia del sole è stata inventata da Murnau, non fa parte della tradizione del vampiro.-
-Se è per questo anche i canini sono stati introdotti da Stoker.-
-No, da Rymer. E comunque, questo va a supporto della mia tesi: vampiri si, canini no.-
-Santo Cielo, credevo di poterlo sopportare, ma mi esploderà la testa se sento queste chiacchiere una volta di più- sbotta La Santa. Si alza in piedi e scavalca le mie ginocchia, abbandonando smalti e unghie finte sul tavolino. Ci ingiunge di non toccarle e scompare di sopra.
-Lei potrebbe incenerire, alla luce del sole – sogghigna Thom.

Io non mi stanco mai di ascoltare i dibattiti sulla nostra natura, vampirica o meno, anche se  ormai raramente vi prendo parte. Però posso capire l’insofferenza della Santa: dopotutto, è stata la prima a parteciparvi, con me, e via via che si aggiungevano altri membri al nostro gruppo li ha visti ripetersi ancora, ancora e ancora. In effetti, fu una delle prime conversazioni che avemmo.
Quando la corriera ci portò a destinazione era quasi sera. Riparammo in una pensioncina, non troppo brutta rispetto a quelle cui ero abituato; le stanze non erano state riarredate dagli anni Quaranta e, se da un lato erano decisamente malconce, almeno non mi facevano soffrire di horror vacui. Varcammo stancamente la soglia della nostra camera. Io mi tolsi la giacca e la appesi alla spalliera della sedia; Doris si sfilò il bolero e lo appese nel piccolo armadio, poi sedette sul letto e si tolse le scarpe. Io cominciai a disfare la valigia. Lei andò in bagno; sentii scorrere l’acqua del rubinetto. Mi resi conto che stavamo deliberatamente allungando i tempi delle nostre azioni per rimandare il momento di cominciare a parlare. Non ho mai dovuto fare un discorso sulle api e sui fiori, ma immagino che causi lo stesso imbarazzo che provammo entrambi quella sera. Quando alla fine la mia valigia fu vuota e Doris si fu messa il mio pigiama, rimanemmo interdetti a guardarci ai due lati della stanza, io in piedi dietro alla sedia dello scrittoio, lei accanto al comodino del letto. La mia mascella calò progressivamente mentre cercavo qualcosa da dire, ma alla fine riuscii ad articolare:
-Beh… immagino che avrai molte domande.
-Oh, sì – rispose lei precipitosamente, sedendosi sul letto. –Sì, ehm… solo, non so da dove cominciare. Voglio dire, certo, ho molto da chiedere, ma ho anche una tale paura delle risposte…
-L’immagino. Non dobbiamo per forza parlare oggi, sai… sappi solo che puoi chiedermi qualunque cosa.
-No, io voglio chiedere!- Saltò in piedi, come se avesse paura che me ne andassi. –Insomma. Che cosa mi è successo?
Calai lentamente a sedere sulla sedia, cercando le migliori parole da usare. Poi parlai con il tono più calmo e pacato che avevo, come un dottore che illustra ad un paziente il decorso della malattia che l’ha affetto.
-Quello che è successo, che è successo sia a te che a me tanti anni fa, è che siamo stati uccisi. Credo che a te abbiano rotto il collo, mentre io sono stato strangolato. E siamo, a tutti gli effetti, morti: il nostro cuore non batte, non abbiamo bisogno di respirare; vedo che tu lo fai, ma se provi a smettere scoprirai che non ti sentirai mancare il fiato – tacqui, mentre Doris compiva quell’esperimento. I suoi occhi e la sua bocca si spalancarono, via via che i minuti passavano. Alla fine, esclamò:
-Dio mio, è vero! Ma… ho appena preso fiato per parlare. Non ci ho pensato, è stato involontario. Dovrei dominare anche questo?
-No… per parlare occorre respirare. Neanch’io ci avevo mai pensato, prima di morire, ma se ci poni mente è così che funziona. Pensa ai cantanti, a come sia importante la respirazione per modulare bene il canto. E comunque, non devi smettere di respirare, se non vuoi.
-Ma la gente se ne accorgerebbe!
Sorrisi. Quanto mi ero assillato, quante prove avevo fatto, io, per imparare! E tutto da solo.
-No, la gente non se ne accorge.
-Oh. Ma… se siamo morti… quando moriremo?
-Non lo so, Doris. Non ho mai incontrato un altro come me, prima di te. Ma, di sicuro, non tanto presto. Io sono… piuttosto vecchio.
Mi fissò, a lungo. Come era accaduto con Catherine, vidi i suoi lineamenti cambiare, mentre la portata di quello che le suggerivo li tirava e li spingeva verso la deriva del dubbio, dello sconcerto, dell’attesa di una rivelazione.
-Quanti anni hai?
-Ne ho settantasette. Sono nato nel milleottocento e ottanta e sono morto nel millenovecento dodici. Avevo trentadue anni.                
Mi guardava. Cercava qualcosa da dire, ma cosa? Parole di conforto per me, nel caso che soffrissi ancora? O le domande più pressanti su sé stessa, accompagnate dal senso di colpa, dalla paura di passare per egoista, per indelicata? Cercai di venirle incontro.
-Ascoltami, Doris: neanch’io so come muovermi in questa situazione. Ti ho già detto che non ho mai incontrato un altro come me, prima, quindi non mi aspetto nessuna reazione precisa da te, e tu non devi avere paura di seguire le tue emozioni.
-Ecco- soggiunse lei, imbarazzata. –Circa le emozioni… io mi sento strana. Non capisco cosa provo, Julian. Non per quello che mi è successo, ma in senso generale. Non so come spiegarmi… è come se capissi quello che sento, ma non lo provassi. Come se fossi spaventata, ma calma; oppure triste, ma calma. Preoccupata, ma comunque, sempre calma. A te capita? E’… normale?
-Sì, è normale. Ti ci abituerai. Io credo che sia perché non ci batte il cuore. Sai, quando siamo emozionati, il cuore ci batte forte; quando siamo preoccupati ci sentiamo un nodo allo stomaco e così via. Ma sono tutte reazioni fisiche ai nostri stati d’animo. Ora, il nostro corpo è spento, quindi tutto quello che proviamo rimane nella nostra testa. Sulle prime, pensavo che questo mi avesse reso un mostro senza cuore, ma ho capito che non è così. I nostri sentimenti, quello che ci rende umani, nascono nel cervello. E quello è l’unica cosa che funziona ancora.
“Però devi avere molta cura del tuo corpo: devi stare attenta a non ferirti, perché non puoi più guarire. Taglia le unghie molto corte. Lavati spesso i denti, perché purtroppo avrai sempre un alito cattivo, ma stai attenta a non spazzolarti troppo forte. Succhia pastiglie alla menta, ma non troppe: il tuo corpo non ha bisogno di mangiare e se gli fai ingoiare troppi liquidi o cibo, rigetterai. Ogni tanto succederà comunque: devi bagnarti spesso la bocca, perché non produci più saliva, quindi ingoierai per forza un po' d'acqua. Stai attenta anche alle fiamme e alle fonti di calore in generale: non sentiamo più dolore.- Le mostrai il dito che avevo messo sulla fiamma di candela, la mia prima notte da morto, quando cercavo di conoscere il mio nuovo funzionamento. La pelle era rimasta più scura, e sembrava conciata al tatto. Doris lo guardò a bocca aperta, poi mi prese la mano e la rigirò, guardandola da tutti i lati: era costellata di taglietti, piccole abrasioni, minuscole ferite di ogni genere. Avevo un’unghia annerita da quando mi ero chiuso il dito in una finestra. Da anni ormai temevo che cadesse. Portavo i guanti più che potevo, ma ferirsi era inevitabile. Anche con tutte le premure possibili, a Doris sarebbe accaduto lo stesso. Mi dispiaceva: aveva un aspetto così lindo, era una perfetta donnina degli anni Cinquanta, degna della pubblicità. Era riuscita a fare la casalinga per anni e a mantenere le mani morbide e immacolate, ed ora l’usura si sarebbe impadronita di lei, come di un oggetto qualunque. La vita eterna ci aveva reso le nostre proprie domestiche, armate di piumino antipolvere e panno per lucidare.
Mentre rimuginavo su questo, il filo dei pensieri di Doris si era spostato altrove. Senza smettere di rigirarsi la mia mano tra le sue, mi chiese:
-Ma, e perché la luce del sole ci dà fastidio? Cosa siamo… una specie di vampiri?
La domanda.
-Non saprei, Doris. Me lo chiedo da quando è successo. Ho letto diversi libri di vampiri, e ho visto anche tutti i film che sono usciti al cinema finora, ma non ci sono molte somiglianze. A parte il nutrirsi di sangue e il fastidio per la luce, non c’è altro che ci accomuni ai vampiri. Certo, il bisogno di sangue non è poca cosa, ma comunque i denti non ci si allungano quando ci nutriamo. Riguardo alla luce poi, non ci dà fastidio solo quella solare: hai visto anche tu che basta una lampadina troppo potente a frastornarci. Non so perché, ma ad ogni modo non è certo la stessa cosa che ridursi in cenere…
-Julian!
Mi stava strizzando la mano in una morsa. Sentivo due unghie che premevano sulla carne. Chissà se mi avrebbero lasciato un segno.
-Hai detto “nutrirsi di sangue”?
Oh, beh. In fondo, non credevo realmente che parlarne come di sfuggita l’avrebbe distratta.
-Sì, l’ho detto.
-Ci nutriamo di sangue?
-Lo facciamo, sì. Lo hai già fatto anche tu. Appena ti sei risvegliata, ricordi?
-Io credevo… speravo che fosse una reazione allo shock!
-Può darsi che lo sia, non ne so abbastanza da poterlo dire con certezza. Ma è la stessa cosa che ho fatto anch’io. E ho dovuto rifarlo, molte volte. – Misi la mano libera a coppa sulle sue –Dovrai farlo anche tu. Mi dispiace. Vorrei che ci fosse un altro modo.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


Quando eravate bambini, vi hanno portato in campagna. Vostra madre ha fermato la macchina accanto ad un casolare di pietre tanto malmesso da sembrare disabitato; le imposte erano scrostate; un albero era cresciuto troppo vicino alla casa e le sue fronde coprivano una finestra al primo piano; eppure ci sono panni stesi ad asciugare all’aperto ed una donna impossibilmente curva, con un paio di babbucce informi ai piedi, sta cogliendo quella che sembra comune erbaccia pescandola dai ciuffi davanti all’uscio e la ficca poi nelle tasche del grembiule. Voi siete saltati fuori dalla vettura, nell’aia di terra battuta in cui biancheggiavano drappelli di galline. Un paio di cani arruffati sonnecchiano a ridosso del muro caldo di sole e scodinzolano blandamente quando li accarezzate, ma non insistete troppo: hanno le mosche negli occhi e sono veramente puzzolenti. Vostra madre sta parlando con la vecchia che era nell’aia, che ha solo pochi anni più di lei, ma alla vostra età un diciottenne è un adulto, e un quarantenne un vecchio. Le due si spostano dietro la casa, dove il terreno è coperto di appezzamenti quadrati piantati a lattuga, schieramenti inquadrati di ortaggi con il loro bastoncello di supporto, modesti filari di uva. Ci sono un paio di casotti che sembrano edificati con tavole di legno accatastate a caso e un tetto di lamiera. Sono piuttosto bui, e voi ricordate le ammonizioni a stare in guardia contro i chiodi sporgenti e i rastrelli arrugginiti, ma vostra madre sta esaminando minuziosamente una pianta di pomodori mentre la vecchia coglie cespi di lattuga che ripone in una sporta di rete e la faccenda ha tutta l’aria di durare ancora a lungo, quindi vi avviate verso il casotto più grande e dall’aspetto più robusto ed entrate con tutta la cautela di cui siete capaci, aspettando che da un momento all’altro un falcetto vi assalga di sua volontà per tagliarvi il polpaccio nudo ed infettarvi col tetano.
Trovate i conigli. Ce ne sono molti, rannicchiati con aria indolente in stie di legno scuro di sporcizia impilate lungo le pareti. Sotto gli sportelli di molte gabbie ci sono dei biglietti con annotate date di accoppiamento e di parto delle femmine. Alcune sono impossibilmente gonfie nella loro gravidanza, sprofondate in sé stesse come formiche regine; altre sorvegliano con un occhio nidiate di coniglietti minuscoli, mentre ruminano un filo di paglia. Infilate il dito nella rete delle gabbie, ma i conigli si spostano nervosamente e il massimo che vi guadagnate è di infilare l'indice in un fianco di morbida peluria il cui proprietario non si è accorto di voi.  Un angolo del casotto è stato adibito a recinto, delimitato da una rete a maglie fitte alta più di un uomo adulto. All'interno scorrazzano altri conigli. Il pavimento è coperto di sterco e fieno pesticciato e l'aria è satura di un odore dolciastro così intenso che sembra donare all'aria una sfumatura giallastra. L'atmosfera è talmente sospesa e sonnolenta da avere un che di arcano, come se foste entrati in un bislacco tempio eretto in onore del bestiame e di tutte le sue eiezioni.
Sapete che vostra madre non vuole che vi sporchiate e che probabilmente vi metterete nei pasticci, ma vi annoiate e i conigli, benché si muovano su un letto di strame, sembrano comunque più puliti dei cani nel cortile; perciò rimuovete con attenzione il ghirigoro di fil di ferro che funge da serratura alla porta del recinto ed entrate, facendo attenzione a che nessun coniglio scappi e richiudendo bene alle vostre spalle. Vi accosciate nel centro del perimetro, cercando di non toccare col sedere in terra, ed aspettate pazientemente che i conigli vi prestino attenzione. Via via che il tempo passa qualche ardimentoso si avvicina, e voi ammirate la luce rosata che sembra sprigionare dai loro padiglioni delicati quando un raggio di sole filtrato tra le tavole delle pareti colpisce le loro orecchie, vi divertite al moto laborioso dei loro nasi, ridete silenziosamente quando qualcuno tra i più coraggiosi si alza sulle zampe posteriori per osservarvi con più attenzione. Nessuno di loro si lascia toccare, ma se gli porgete una manciata di foraggio raccolta da terra si avvicinano fin quasi a mangiarvi in mano. Mentalmente, date un nome a tutti quelli che vi hanno colpito di più e decidete qual'è il vostro preferito. Quando vostra madre vi chiama, sulle prime non rispondete: non volete che la vostra voce spaventi i conigli.
Quando vi raggiungono, lei e la vecchia, c'è un fuggi fuggi generale tra i conigli, messi sull'allarme dal rumore. Vostra madre si limita a fare una smorfietta, quando vi vede accovacciato nello sterco di coniglio: dopotutto vi ha portato in campagna, è normale che un bambino si sporchi. Vi invita ad alzarvi e, mentre le andate incontro, soggiunge, come se le fosse appena venuto in mente:
-Vuoi il coniglio?-
Quasi non credete alle vostre orecchie. Sì! Sì, mamma, lo voglio! Quello lì! Indicate il vostro preferito, che si accavalla con gli altri sul fondo del recinto.
-Quello no- interviene la vecchia. -E' troppo giovane.
Supplicate la mamma di prendere il coniglio che avete scelto, ma lei non vi presta attenzione e chiede alla vecchia di sceglierne uno. Quella entra, si aggira tra i conigli che ormai galoppano nervosamente per tutto il recinto, scartando qua e là con le orecchie ritte. Come se fosse in grado di leggere oltre le loro traiettorie, la vecchia si china e ne acchiappa uno per le orecchie. Un coniglio qualunque, marrone grigiastro. Non siete sicuri di riconoscerlo, ora che si sono tutti mischiati insieme è facile confonderli, ma va bene lo stesso, non speravate in un coniglio! Chissà cosa dirà vostro padre, e se lasceranno che lo teniate a dormire nella vostra stanza.
Col solito passo strascicato, la vecchia esce dal recinto, sempre tenendo per le orecchie il coniglio, che sta rigido come un paletto, con le zampette anteriori giunte davanti a sé come se stesse per ricevere la prima comunione. Voi tendete le braccia per prenderlo in collo, ma la vecchia lo scansa dalle vostre mani tese e quello tira un paio di calci in aria che le fanno ondeggiare il braccio.
-Attento- vi ammonisce con voce assente. -Se ti prendi un calcio ti fai male.- E procede oltre, uscendo dal capanno dei conigli. Fate per seguirla, ma vostra madre vi trattiene per una spalla. Voi non capite, ma aspettate a fare domande, d'altronde gli adulti spesso sono imperscrutabili e comunque, come se n'è andata la vecchia tornerà col vostro coniglio, magari in una scatola con i buchi per farlo respirare.
Quando sentite lo strillo, sulle prime non intuite niente. Ma poi la vecchia torna, dopo qualche minuto, senza più il coniglio e guida voi e vostra madre fuori, al sole. Lei chiede alla vecchia quanto le deve e c'è una breve, complimentosa contrattazione in cui la vecchia finge di volere meno soldi di quanti vostra madre gliene offre. Vi hanno insegnato a non interrompere gli adulti, ma state cominciando ad innervosirvi, così tirate vostra madre per una manica e chiedete timidamente dov'è finito il coniglio. Vostra madre esita a rispondere, ma non importa, perché la vecchia risponde allegramente:
-Un attimo ancora, giovanotto! Deve finir di sgrondare, sennò non è buono. Tanto, prima di stasera mica lo mangi.-
“Vuoi il coniglio”.
Non “un coniglio”.
I dettagli sono importanti.
Avete pianto per tutta la strada fino a casa, seduti sul sedile posteriore dell'automobile che vostra madre sta guidando nervosamente, snervata dal senso di colpa. Avete gridato istericamente finché non avete ottenuto che la sporta della spesa, con gli ortaggi e l'involto di carta oleata contenente il corpicino scuoiato, sventrato e decapitato, venisse riposta nel portabagagli, lontana dai vostri occhi. Avete continuato a piangere anche a casa e i vostri genitori vi hanno preso in giro perché non possono chiedervi scusa per non avervi avvertito di quel che sarebbe successo al coniglio. Negli anni avete raccontato questa storia agli amici, una volta cresciuti, ogni volta facendola passare per un avvenimento buffo in cui la vostra inesperienza vi ha giocato un brutto tiro: avete mimato la vostra faccia, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, quando avete capito che cosa c'era in quel fagotto da macellaio che la contadina infilava nella sporta di vostra madre. E i vostri amici hanno riso, comprensivi, e vi hanno raccontato aneddoti analoghi capitati anche a loro, o a conoscenti.
Vi siete chiesti spesso se il silenzio di vostra madre e la bruta sollecitudine di quella vecchia non fossero stati una forma di vendetta tardiva, una rivalsa in ritardo di generazioni su quando la stessa cosa era capitata anche a loro. Forse, da allora non avete più mangiato carne di coniglio.

Alcuni di voi sono stati ancora più sfortunati, e hanno ottenuto proprio il coniglio o l'agnellino che avevano scelto. Alcuni l'hanno visto macellare sotto i loro occhi. I bambini di campagna sono stati privilegiati: hanno imparato presto ad identificare l'animale col cibo. Hanno giocato, ai piedi delle loro nonne, con le piume della gallina che veniva spennata a pochi palmi di distanza dalle loro teste; hanno riso all'imitazione di loro padre del grido del maiale scannato. Per l'età in cui è toccato a loro prendere in mano il coltellaccio, avevano già le loro difese.

Il nostro è un trauma da bambini di città. Spiegare a Doris che si sarebbe dovuta nutrire, e come, e di che cosa, fu come regalare ad una bimba una nidiata di coniglietti, aspettare che avesse dato un nome a tutti, guardarla addomesticarli e poi spiegarle dettagliatamente come tenerli fermi tra le ginocchia per spezzargli il collo. Non riusciva a crederci, mi guardava come l'avessi insultata, come se per un voltafaccia le avessi detto che era una persona cattiva e che si meritava quello che le era capitato. Per diversi minuti ripeté solo “No”, con inflessioni sempre diverse. Poi, mi chiese con tono di sfida cosa sarebbe successo se lei non l'avesse fatto.
-Onestamente, Doris, non lo so fino in fondo. Anch'io ho provato a resistere, ma sono durato pochi giorni. E' come se ricominciassi a morire: cominci a puzzare, diventi torpido, impacciato nei movimenti. Ma rimani lucido. Sulle prime ho sperato che sarei morto, ho ritentato un paio di volte di non mangiare più, ma ogni volta ho avuto troppa paura, capisci? E se non funzionasse? Quanto a lungo sarei rimasto vivo in un corpo che si putrefà? E se mi avessero trovato, attirati dall'odore, e avessero capito che cos'ero e mi avessero esaminato? Tu saresti in grado di affrontare un rischio simile?
“Per paradossale che sia, Doris, noi viviamo; anche se non siamo vivi. So come ti senti, ma io, dopo tutti questi anni, sono diventato un po' fatalista: voglio pensare che c'è uno scopo anche per noi. E sono umano, quindi non voglio morire. Ora abbiamo l'un l'altro, possiamo farcela.”
Non mi rispose. Non toccò l'argomento per giorni, comportandosi come se niente fosse successo. Io ero metà sulle spine e metà sollevato dalla parvenza di normalità della nostra routine e aderivo con entusiasmo ad ogni sua proposta, accompagnandola nei posti che desiderava visitare, comprandole ciò che desiderava acquistare; ero un genitore che vizia la figlioletta dicendo sempre di sì, ansioso che la nube della sua ultima bizza passi alla svelta. Quello che stava succedendo era che la mole d'informazioni era stata troppa per Doris, che come per miracolo era uscita da un parossismo isterico pochi giorni prima grazie a nient'altro che un bagno. Io avevo avuto anni per impararmi, e se questo aveva comportato esperimenti che mi avevano nuociuto, avevo almeno potuto agire secondo i miei tempi. A lei avevo rovesciato addosso un compendio sulla vita in assenza di battito nel giro di un pugno di giorni, sperando di risparmiarle tempo, di insegnarle a manutenersi. La rivelazione della nostra ematofagia fu la goccia che fece traboccare il vaso e Doris reagì con la negazione: la sollecitudine con cui arredò il nostro appartamento, il bisogno di acquistare abiti e cosmetici e tutti gli altri comportamenti che mi avevano divertito come squisitamente femminili erano la messa in atto di una strategia di difesa portata avanti con rigore militare: Doris riprogettava la propria umanità. Usciva spesso in pieno giorno, con gli occhiali da sole ben calcati sul naso e un foulard annodato sotto il mento: non si sentiva a suo agio con gli occhiali da sole, e ricalcare la moda delle dive cinematografiche fasciandosi i capelli come su una macchina sportiva le sembrava l'unico modo di giustificarli. Raramente resisteva più di un paio d'ore, se la giornata era luminosa, e quando tornava era di cattivo umore. Borbottava che la luce fioca le causava la depressione e si paragonava ad una pianta in vaso, che perde tono e si affloscia senza sole. Comprò un vasetto di fondotinta molto più scuro del tono della sua pelle e per giorni si ostinò a portarlo, sostenendo che le dava un'aria più “sana”. Inutile dire che, dopo aver speso un'ora a stendere quell'intruglio su viso e collo con una spugna umida, aveva l'aria di una malata di ittero. Desistette, infine, quando si accorse di quanto fosse seccante rimuovere le tracce arancioni lasciate sui colletti degli abiti. Si preparava spesso del tè, che poi versava nelle tazze e lasciava a raffreddare in giro per casa. Poi, le sciacquava e risciacquava, mugugnando perché non avevamo detersivo per piatti. Diceva che era la forza dell'abitudine. Una volta la trovai a cucinare uno stufato; mise in scena una gran manfrina di sorpresa e imbarazzo, ridacchiando nervosamente e raccontando di come l'avesse fatto totalmente sovrappensiero, dopo tutto aveva cucinato tre volte al giorno per anni. Non le credevo neanche per il tè, figuriamoci per questo. Anni dopo, mi ha confidato di essersi forzata a mangiare e bere più volte, in quel periodo: non si capacitava di non avere più fame, di come l'odore del cibo non le stimolasse più alcun appetito. Andava nei caffè o al pub, e consumava un'ordinazione. Spesso rimetteva già nel bagno del locale. Portava nella borsetta una bottiglietta di collutorio e dopo essersi sciacquata con quello, l'alcool in esso contenuto le seccava la bocca tanto da costringerla ad ordinare qualcos'altro per bagnarsi la lingua. A quel punto, non resisteva ad inghiottire di nuovo, ed era da capo.
Se solo me ne avesse parlato, mi verrebbe da dire. Se solo me ne avesse parlato, le avrei raccontato di tutti i pasti che mi ero cucinato, partendo dai più consueti e restringendo il campo ai soli piatti di carne, poi alle bistecche al sangue, poi alla carne cruda, per approdare al sanguinaccio e per finire al sangue di maiale, che compravo da un macellaio che riforniva principalmente allevamenti e trattava carogne. Niente aveva funzionato: avevo vomitato per anni. Negli anni Novanta ho provato anche col sushi: un disastro. In mancanza di succhi gastrici i miei denti non si erano consumati come succede ai bulimici, ma a causa dei conati mi sono procurato delle lesioni al tubo digerente: prima ancora degli anni '30 mi ero dovuto abituare a convivere con la famigerata sensazione dell' “osso di pollo” in gola. Credo di avere avuto un tic di deglutizione per quasi vent'anni. Alla fine mi sono abituato. Abituato, e rassegnato. Noi non siamo carnivori: siamo ematofagi. Antropoematofagi, se per caso questo termine è mai stato coniato da qualcuno di autorevole.
Se solo me ne avesse parlato.
Storie: se anche me ne avesse parlato, tutta la mia esperienza non l'avrebbe aiutata a superare un solo giorno della sua solitudine. È come avere fame e sentirsi dire che in Africa i bambini muoiono di fame. Non ti fa certo sentire più sazio, al massimo più in colpa. E Doris non doveva combattere con la fame, ma col bisogno struggente di sentirsi viva. La sua condizione di bambola di carne la stava strangolando, e senza neanche la benedizione di sentirsi soffocare. Non si può descrivere a parole cosa si provi in uno stato di atarassia forzata. Avete paura, ma non vi si chiude la gola. Vi sentite nervosi, ma lo stomaco tace. Vi innamorate, ma il cuore non batte più forte. Siete un cervello solitario, che grida al vostro orecchio cosa provate senza che il corpo lo convalidi.
Vi innamorate...

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Capitolo 7
*** capitolo sette ***


So che lo state aspettando: un uomo solo da mezzo secolo, una donna che non si sente amata da quasi dieci anni; la letteratura vi ha allattato con storie di vampiri sentimentali, sensuali, spregiudicati. Sono legati al sangue, alle pulsazioni nelle vene. Sensibili al calore dei vivi. Le loro labbra fremono sulla pelle degli uomini, bevendo il calore del desiderio. Bramano, vogliono, addentano. Quando un vampiro si nutre, il suo corpo si contrae e freme, gli occhi si girano nelle orbite e la sua vittima gode con lui. Il sangue è la vita, cibarsene è un orgasmo. Tutti vogliono quel morso.
Non funziona così. La nostra sete non è spasmodica, somiglia più al cerchio alla testa che viene quando non si è bevuto in una giornata di intenso sforzo fisico: magari non vi sentite assetati, ma il vostro corpo vi dice forte e chiaro che qualcosa non va. Vi sentite opachi, di malumore, come dopo una sbronza. E bere non è l'estasi, solo il reintegrare elementi che vi mancavano. La mente si schiarisce, gli ingranaggi vengono oliati. Io sento il petto che si dilata; non so come sia per gli altri, non l'ho mai chiesto, né loro a me. Sono sicuro che fra di loro ne parlino, ma con me no: mi trattano da eminenza grigia, presumono che io abbia tutte le risposte e di conseguenza non mi pongono domande; vogliono scoprire le risposte da sé. Anche Doris, che non aveva che me con cui rapportarsi, si limitava ai quesiti sulla meccanica. Forse per educazione, non chiedeva mai nulla che potesse essere intimo, e per anni non ha raccontato niente di sé. Io  non ci vedevo niente di strano: ero cresciuto e vissuto in un'epoca in cui le donne erano congegnate per apparire come affascinanti enigmi, perfettamente funzionanti eppure imperscrutabili, e quando ero morto il loro mistero era passato ben più che in secondo piano nei miei interessi. Il trasporto che sentivo per Doris era dovuto al mio bisogno di non essere più solo, ma a ben guardare non mi interrogavo sul suo più intimo sentire. Oggi, passerei per egoista. Nel millenovecentocinquantasette, come nel millenovecentododici, non c'era niente di strano nel mio comportamento. Quando Thom ci trovò, una delle prime cose che ci chiese fu se Doris fosse la mia ragazza. Ricordo che Doris non disse nulla. Io la guardai, cercando un indizio nel suo silenzio, e il suo viso era perfettamente immobile nel collo di pelliccia del soprabito, modellato in un'espressione cortese. Non mi guardava, ma non guardava neanche Thom. Mentre cercavo qualcosa da dire, lui cambiò argomento e noi seguimmo la sua scia come sul pelo dell'acqua. Thom ha spesso quest'effetto sulle persone intorno a lui, le manipola anche quando non vuole, e in quel momento eravamo comunque più incuriositi da lui che dalla natura del nostro rapporto. Ma, Doris era mai stata la mia ragazza? Certamente no: noi non eravamo ragazzi. Lo siamo forse adesso, per i tempi che corrono, quando i trentenni dividono ancora gli appartamenti come tanti studentelli e cominciano appena a prendere in considerazione il matrimonio, ma io e Doris per la nostra età eravamo adulti a tutti gli effetti, sposati da anni. Avevo avuto la mia prima figlia a ventun anni; nella mente mia e di Doris il tempo dei fidanzati, degli spasimanti, era passato da un pezzo. “Ragazzo” e “Ragazza” erano due termini moderni per relazioni ancora più fatue e superficiali: in nessun mondo possibile Doris sarebbe mai stata la mia ragazza. Non è però questo, che mi state chiedendo; lo so, ma vi prego di capire che non ci sono spiegazioni semplici, nella nostra condizione. Siamo impossibili scherzi della natura: persone che sono morte eppure si aggirano ancora sulla terra, da anni. Ognuno di noi ha subito il trauma più surreale che si possa immaginare: avete idea del giardino botanico di nevrosi che può germogliare nella mente di una persona che ha sperimentato quel che è capitato a noi? Siamo stati educati nella nostra epoca, e poi abbiamo continuato ad esistere al mondo senza poter invecchiare. Pensate agli anziani: viene un momento in cui smettono di tenersi al passo e si abbandonano alla comodità di poter dire “ai miei tempi...”. A noi non succede: siamo costretti ad aggiornarci continuamente, a recitare per sempre l'età che dimostriamo, ma i nostri vent'anni sono passati da decenni, ormai, e per quanto possiamo far nostri gli ideali della contemporaneità, sotto sotto saremo sempre uomini del nostro tempo, di quando eravamo vivi. Siamo paradossi in carne ed ossa, incatenati alla manutenzione del nostro corpo mentre ci alleniamo a riconoscere sentimenti che ormai proviamo solo col cervello, e non conosciamo altre persone che i nostri simili. Voi vi state chiedendo se sono mai stato innamorato di Doris: quanto tempo avete, per la risposta?

Per quattordici anni, non ho conosciuto che lei. Siamo vissuti insieme da quando ci siamo incontrati; il suo viso è quello che ho guardato più a lungo e più spesso, in più di cento anni. Le ho scattato centinaia di fotografie e ho schizzato il suo ritratto altrettante volte, per il semplice motivo che lei era lì. Era sul piccolo divano color carota del soggiorno, con le gambe raccolte sotto di sé mentre leggeva una delle riviste di moda che non ha mai smesso di accumulare da quando l'ho portata via con me. Era in bagno, protesa verso lo specchio sopra il lavello mentre si passava il filo interdentale. Era al tavolo della cucina mentre si sottoponeva ad uno dei suoi interminabili trattamenti di bellezza, con la faccia e le mani coperte di crema cosmetica, i capelli avvolti nella pellicola per la cucina. Lei era la mano che saliva ad aggiustare l'orlo del fazzoletto al mio collo quando rischiava di scivolare scoprendo la cicatrice; ha riattaccato i miei bottoni e preteso che imparassi ad intendermi d'idraulica. La mia esistenza, per quattordici anni, ha compreso la sua. Non abbiamo mai concepito un'alternativa, non ci è mai passato per la mente di vivere separati, allo stesso modo in cui ad una rondine non verrebbe mai l'idea di scavarsi, per nido, un buco nella terra. Eravamo simili; c'eravamo solo noi. Dovevamo stare insieme, era questa la nostra natura: l'avevamo deciso noi. Quanto altro ci restava, di cui fossimo in controllo?
Certo che mi piaceva: era acuta, e con gli anni diventò brillante. Era ignorante, ma diventò colta. Era graziosa, e la mania per la moda che sviluppò negli anni la rese elegante. Avrei potuto essere molto più sfortunato, nella lotteria del mio primo compagno, ma so che sarebbe andato bene chiunque. In molti imparano ad amarsi, all'interno di un matrimonio combinato.
Abbiamo ballato insieme centinaia di volte - quickstep, tango, swing: nominate un ballo, noi l'abbiamo imparato. Facevamo pratica nel nostro salotto, ascoltando la radio o un disco comprato appositamente, prima scalzi e poi con le scarpe. Quando eravamo abbastanza sciolti, andavamo a ballare fuori. Truccata, Doris non era diversa da qualunque donna: abbiamo passato i nostri primi anni insieme in un periodo in cui il make up per una serata mondana era tutto fuorché leggero, e il colorito di Doris scompariva sotto fard e ciglia finte. Io, sfortunatamente, continuavo a sembrare un malato di tisi, ma questo semmai contribuiva a tenere la gente alla larga da me, piuttosto che ad osservarmi con attenzione.
E' facile divertirsi ballando, quando non ti viene mai il fiatone. Durante i lenti Doris appoggiava il viso sul mio petto; con i suoi capelli sotto il naso la facevo ridere bisbigliando descrizioni poco lusinghiere delle chiazze di sudore che ornavano le camicie degli altri ballerini o della ragazza che si stringeva al suo partner senza sapere di essersi cancellata mezzo sopracciglio strofinando teneramente il viso sulla spalla di lui. Quando diventavo troppo perfido, lei si scioglieva dall'abbraccio e mi dava un colpetto di rimprovero sulla spalla destra – sempre la destra, sempre tenendo la mano ben tesa, con tutte le dita unite - e mi diceva che avevo una linguaccia velenosa. E sempre, io ribattevo “tranne che con te”. Allora ci sorridevamo, io le facevo un complimento e lei si fingeva imbarazzata.
Tornavamo a casa tenendoci a braccetto: le regole dell'intimità erano diverse, in quegli anni. Se c'era una cosa su cui una donna poteva contare erano le galanterie, spontanee o artefatte che fossero: cedere il passo, tenere aperta la porta aperta e aiutare una donna a scendere da una vettura erano gesti che venivano compiuti in automatico e non sottendevano a niente. Io, che venivo da un'epoca ancor più cerimoniosa, ne ero anche più prodigo della media degli uomini. Chiamavo Doris “cara” e “mia diletta” e con cento altri nomignoli. Lei, invece, mi chiamava sempre per nome: sembrava provare un autentico piacere nello scandirlo, e faceva cadere pesantemente l'accento sulla prima sillaba: Juuulian. Le facevo il verso di rimando.
Una volta rientrati, seguiva sempre un meticoloso rituale durante il quale lei si svestiva, indossava una vestaglia e passava poi in bagno, restandoci quasi un'ora: si toglieva il trucco, riponeva le ciglia finte dopo averle lavate e pulite minuziosamente e si lavava i capelli, su cui poi applicava una maschera che teneva in posa nel turbante di un asciugamano. Nel frattempo anche il viso veniva coperto da qualche impacco, a volte oleoso, a volte di un'argilla che seccando conferiva al suo viso la rigidità di un gesso mal modellato. Io restavo a guardare affascinato, seduto sul bordo della vasca da bagno. Aveva cercato di tenermi fuori dal bagno un'infinità di volte, ma alla fine si era arresa e come pegno da pagare mi costringeva ad ungermi le mani di vaselina e a tenerle infilate in un vecchio paio di guanti di cotone per almeno venti minuti, per ridare sollievo alla pelle indurita da settant'anni di incurie. Aveva cercato di convincermi ad adoperare il suo trattamento per i capelli (lo comprava in farmacia e aveva un odore di petrolio che la profumazione aggiunta non riusciva a coprire del tutto), ma io avevo resistito, votandomi tenacemente alla mia brillantina. Con gli anni, avrei capitolato, quando l'esigenza del restauro avrebbe tolto di mezzo i pretesti della vanità.
Venivo cacciato dal bagno solo quando tutti gli impiastri sul corpo di Doris erano maturi al punto giusto per essere lavati via. Allora, mentre l'acqua cominciava a scorrere dietro la porta chiusa, andavo in camera e mi toglievo gli abiti della serata, puzzolenti di fumo e di tutti gli odori che una sala da ballo gremita poteva appiccicarci addosso. Restavo in maniche di camicia in attesa che Doris emergesse dal bagno, minuscola nell'accappatoio di spugna e con un nuovo asciugamano intorno alla testa. Quando lei finiva le sue abluzioni io iniziavo le mie, e nel giro di due ore ci ritrovavamo vestiti da capo di tutto punto. A quel punto, uscivamo di nuovo. In abiti comodi, con i piedi calzati in scarpe morbide che non facessero rumore, andavamo fuori città, nei prati lasciati a maggese al limitare dei boschi. Camminavamo anche un'ora o due, a seconda delle stagioni, per uscire a sufficienza dall'area urbana. Poi, continuavamo a camminare, molto adagio, dando ai nostri occhi il tempo di abituarsi all'assenza di luce elettrica. Passeggiavamo cauti nei boschi, evitando fronde e rami caduti, o li costeggiavamo vagando per i campi azzurri di luna. Sedevamo sulla riva di stagni e laghetti, muovendoci meno dei giunchi che crescevano attorno a noi. Aspettavamo, pazienti, il nostro spettacolo personale.

Cervi che spuntavano dal bosco in un silenzio fantastico per venire a brucare nei prati, muovendosi con la lentezza di un sogno -e com'erano grandi! Alti quanto una mucca a volte, e con musi lunghi quanto il mio avambraccio; i loro piccoli, nella stagione delle nascite, erano minuti come statuine e sgambettavano nell'erba come caprette, sconcertati dalla lunghezza delle loro zampe. A volte, una volpe o due attraversavano il nostro campo visivo, tanto veloci da lasciare quasi una scia arancio pallido nell'erba. Nei boschi, ci  sorprendevamo sorvegliati da gufi, allocchi e barbagianni, che seguivano il nostro passaggio ruotando la testa come automi ben oliati; se ci soffermavamo a sostenere il loro sguardo, ci squadravano con aria di rimprovero. I tassi transitavano rumorosamente, senza curarsi dell'etichetta, come tanti vecchi brontoloni; a volte abbiamo visto una femmina seguita dalla nidiata, un pugno di fagottini soffici che trotterellavano ordinatamente al seguito della madre. Il nostro odore non allarmava gli animali, che ci giravano al largo per decenza, più che per precauzione. Sedendo nei prati, imbambolati dal placido vagabondare dei conigli al pascolo notturno, più volte siamo stati annusati indifferentemente. Vedevo Doris mordersi le labbra per la voglia di allungare una mano e accarezzare il naso di un daino o dare una grattatina tra le orecchie di una volpe, ma era troppo pericoloso: un morso da un animale selvatico avrebbe potuto cacciarci in guai seri. Così Doris si torceva le dita, e quando la bestiola di turno si era allontanata, con un sospiro di desiderio frustrato si lasciava cadere contro il mio fianco. Io la abbracciavo consolandola con esagerata sollecitudine e baciandola in fronte o sul naso.

Prima o poi, andavamo a letto. Il nostro era un appartamento da sposini, e il letto era uno, di quelli che ai nostri giorni passerebbero a malapena per una piazza e mezzo, con la testata e la pediera impiallacciate in radica, lineari e delle assurde zampette coniche divaricate che non ispiravano alcuna fiducia. Non ci siamo mai infilati sotto le coperte, tuttavia Doris cambiava le lenzuola puntigliosamente ogni settimana; pure, dai cuscini e dal materasso esalava tenacemente un odore di pensionato, di soggiorni brevi. Ogni volta che mi alzavo controllavo di non aver lasciato niente di mio sul copriletto o sotto il cuscino, con l’inconscio timore che la donna delle pulizie potesse intascarlo. Per anni abbiamo usato il letto a turno, per pudore: Doris dormiva quando io ero al lavoro, probabilmente con la testa costellata di bigodini. Col passare degli anni, la confidenza ha avuto la meglio: ci mettevamo a letto a leggere insieme finché uno dei due non si addormentava o trovava altro da fare. Ascoltavamo la radio. Era anche il luogo in cui ci raccontavamo dei nostri passati; lì Doris venne a sapere di quando, pochi mesi dopo essere morto, il bisogno di compagnia mi aveva spinto a frequentare gli ospedali, tenendo compagnia ai malati come una crocerossina volontaria; di come poi me ne fossi servito per evitare l'arruolamento nella prima Guerra e di cosa mi ero inventato per scampare anche alla seconda; di come mi avesse sconcertato osservare, negli anni, l’evolversi della moda femminile, i capelli che si accorciavano, i corpi che venivano rivelati come alberi spogliati da un autunno irriguardoso. Parlavo quasi sempre io: Doris aveva così poco da raccontare! L’impressione della prima sigaretta fumata, l’invidia per i bei capelli della sorella minore, un paio di corteggiatori con i quali non si era mai decisa a fare coppia fissa; il matrimonio, la luna di miele in una località sciistica con l’inconveniente di una storta alla caviglia durante una passeggiata in alta montagna. L’aborto e quel pugno d’anni prima di morire e questo era tutto. Non sapeva di cosa parlarmi, di fronte ai trentaquattro anni di avventure post mortem che potevo vantare io, finiva a raccontarsi con tono di scusa, spesso chiudeva il discorso spazzando via le parole con il gesto di una mano, “dimentica tutto, sono solo sciocchezze”. Certo che lo erano, ma che importava?  Le stringevo la mano, fissavo il soffitto e aspettavo che continuasse. A volte lo faceva, altre volte no. A volte, mi addormentavo.
Una di queste volte, successe.

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