A.S. Potter sul sentiero dell'Occlumanzia

di MaddaLena ME
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una pozione di livello avanzato ***
Capitolo 2: *** Serpeverde? ***
Capitolo 3: *** Un favore ***
Capitolo 4: *** Un adolescente tenace ***
Capitolo 5: *** Arrivederci, Professore! ***
Capitolo 6: *** Proprio non ti piace il quidditch? ***
Capitolo 7: *** Il cerbiatto impavido ***
Capitolo 8: *** Fastidiosa invadenza ***
Capitolo 9: *** Che bello vederle correre, insieme! ***
Capitolo 10: *** Ci rivediamo al Castello! ***
Capitolo 11: *** Non cambi mai! ***
Capitolo 12: *** Sectumsempra! ***



Capitolo 1
*** Una pozione di livello avanzato ***


UNA POZIONE DI LIVELLO AVANZATO
 

Non era la prima volta che inventava una pozione. Ma prima d'allora erano sempre state cose di poco conto, come la pozione-fertilizzante che aveva rinvigorito le begonie della mamma. Per altro, nessuno aveva saputo che era stato lui; del resto, essendo minorenne, non ci teneva a far sapere a tutto il mondo quella piccola magia che, pur innocente, era comunque illecita.
Bezoar tritato, dittamo in quantità, qualche foglia di valeriana e due lacrime di Fenice; naturalmente ci aveva unito un lembo del mantello che gli era appartenuto. A logica, aveva senso: erano ingredienti di guarigione tutti quanti e, fermentati a dovere, avrebbero potuto dare un buon risultato. Tuttavia, questo rimaneva in realtà un'incognita, perché nessuno era riuscito a ridare la vita a morti, di decenni fa, per altro.
Era però speranzoso: le pozioni gli erano sempre riuscite facili; del resto bastava solo un po’ di determinazione, attenzione e, soprattutto, concentrazione. Tutte caratteristiche che suo fratello James non possedeva né si curava di incrementare: a quest’ora, in genere, le pozioni di suo fratello esplodevano o emanavano cattivo odore: il motivo era, quasi sempre, lo stesso: mentre ne attendeva la fermentazione, James si metteva nelle orecchie un aggeggio babbano che riproduceva musica, oppure scartava delle Cioccorane, si distraeva, o ancora, pensava a qualche scherzo ai danni dei più piccoli. La verità era che James poteva fare sicuramente di più, impegnandosi, ma definiva Pozioni “una materia per sottomettere gli spiriti liberi” come lui ed evitava di esercitarsi, fino a che non si rivelava assolutamente indispensabile,
Albus invece seguiva sempre con grande attenzione le lancette correre sul vecchio orologio del nonno, e cercava di mantenere sempre al massimo la propria concentrazione. Anche se, naturalmente, anche lui si abbandonava talvolta a qualche ricordo. In quel momento, ad esempio, stava pensando a quando gli era venuto in mente di prendere quel calderone “di riserva”, così aveva detto a suo fratello, quando l’aveva visto tornare da Hogsmeade, con le gambe che gli tremavano sotto il peso del recipiente, che era quasi più grande di lui. Un calderone di riserva, lui? Albus - perdente - Severus, il secchione che non sbagliava una pozione e che era forse il miglior allievo in Pozioni, non solo del suo anno di corso, ma probabilmente dell’intera Hogwarts? No, James non se l’era bevuta affatto, aveva sghignazzato e stava sicuramente cercando il modo migliore per umiliarlo. Tuttavia, gliel’aveva acquistato, dal momento che al fratello minore non era consentito ancora andarci. Ma, provvidenzialmente, in quel momento, erano passati alcuni amici di James che lo avevano distratto, consentendo al fratello minore di battere strategicamente in ritirata, allontanandosi in fretta, col suo prezioso carico, dirigendosi nel luogo dove si trovava anche in quel momento.
Definirla caverna sarebbe stato probabilmente inadeguato. La parte in cui si trovava in quel momento ne poteva essere, al massimo, l’imboccatura, la parte più esterna. Conduceva da qualche parte? Chi poteva dirlo? Non lo sapeva, ma, tutto sommato, neppure gli interessava. Suo fratello si sarebbe illuminato al pensiero di una nuova avventura per scoprirlo. Ma lui non era James. Quello era il posto ideale, perché farsi domande inutili? Seminascosta alla vista altrui da alcuni arbusti, un po’ umida, ma riparata dai raggi del sole e fresca anche d’estate, a pochi passi dalla Foresta Proibita (ma appena prima, di modo che nessun professore avrebbe potuto rimproverarlo per esservici inoltrato): che poteva chiedere di più, a quel luogo? Era l’ideale per pensare, studiare, farsi gli affari suoi in tranquillità, lontano dalle malsane idee di suo fratello e dei suoi amici, o di Scorpius e dei suoi compagni di Casa.
No, non dovete pensare che fosse un asociale assoluto. Aveva, naturalmente, i suoi pochi e selezionati amici, a cui erano da aggiungere i suoi cugini e fratelli, naturalmente, con cui spesso giocava o s’intratteneva. Semplicemente, talvolta, sentiva il bisogno di stare un po’ da solo, senz’avere addosso gli sguardi di tutta la scuola che gli rinfacciavano d’essere il fratello minore di James Sirius o il figlio sbagliato di Harry Potter, l’eroe del mondo magico. Un posto, in cui essere, semplicemente, Albus Severus, dodicenne smilzo e poco appariscente, appassionato di Pozioni e di Difesa delle Arti Oscure, con il segreto desiderio di divenire Guaritore, con un’insaziabile sete di conoscenza e la necessità di volersene stare un po’ tranquillo, ogni tanto e che, in quel momento, in abiti civili, si stava cimentando con la pozione più complicata che avesse mai affrontato fino a quel momento della sua breve vita.
Si avvicinò al calderone e mescolò un paio di volte, controllando, un po’ perplesso, il contenuto che ribolliva, schiumava e cambiava più volte il proprio colore.
«Ci siamo quasi!» disse, ad alta voce, controllando l’orologio.
 Una strana luce colorata si levò dal calderone, che, al contempo, schizzò liquido per tutta la grotta. Le piccole luci si unirono insieme, prima lentamente, poi sempre più velocemente, cambiarono forma nuovamente, poi colore, s’ingrandirono, s’allargarono, per un momento sembrò perfino che fossero scoppiate, finché.. iniziarono ad inseguirlo. Lui iniziò a correre, si addentrò nella caverna per un tratto, ma inciampò e cadde. “Forse si è arrabbiato… forse non dovevo.. forse ho fatto una magia oscura e adesso non so come rimediare!”. Mille pensieri si affollavano in quella giovane mente, mentre le mani si misero istintivamente innanzi agli occhi serrati: in silenzio, rassegnato, aspettava il peggio.
Ma non udì altro che un rumore secco, come lo scoppio di un palloncino. Poi il silenzio.
Non udendo altri suoni, dalla pozza in cui era scivolato, aprì cautamente prima un occhio, poi l’altro. Osservò attraverso le mani, di cui aveva allargato con discrezione le dita, per poter sbirciare cosa fosse avvenuto a pochi passi da sé, circospetto e sospettoso.
Ritta innanzi a lui, a circa mezzo metro, una creatura evanescente, un ectoplasma di un lieve azzurro dalle fattezze del professor Piton, si stagliava con eleganza, a circa mezzo metro dal suolo.
Si scrutarono a vicenda, per un paio di minuti abbondanti.
Fu il fantasma a rompere gli indugi, rivolgendosi, con malagrazia, ad Albus: «Be’, e tu? chi saresti? La buona educazione esige che almeno ci si presenti, non credi?»
E tra sé e sé sicuramente pensò che, con l’andare del tempo, le nuove generazioni continuavano a perdere di vista sempre più le buone maniere. Probabilmente doveva essere Babbano, questo: non riusciva quasi a vedergli gli occhi, da quanti capelli li ricoprivano. Forse era una nuova moda babbana, questo ciuffo sugli occhi. Di pessimo gusto, per altro.
Era ancora in silenzio, con gli occhi rivolti al pavimento, per cui lo spettro lo sollecitò: «Un ragazzo dovrebbe rispondere, quando gli viene fatta una domanda, specie se da qualcuno di più anziano di lui. Allora?»
«Sono solo… uno che non è riuscito del tutto a completare questa pozione, signore. Mi dispiace» rispose una voce sconsolata, che però lo spettro ascoltò distrattamente. Il ragazzo aveva alzato lo sguardo. Aveva gli occhi di Lily! Com’era possibile? Dopo tutti questi anni!
Lo spirito si agitò, iniziando a svolazzare su e giù.
Albus rimase a guardare, ancora seduto nella pozza d’acqua.
«Coraggio, ragazzo! In piedi e dimmi come ti chiami!» esortò, imperioso  come un generale
«Albus Severus Potter, signore. Figlio di Henry James Potter e di Ginevra Weasley, fratello di James Sirius e Lily Luna» rispose obbediente, tutto d’un fiato.
Ai fantasmi poteva mancare il respiro, come ai comuni mortali? Questa fu senz’altro la domanda che si fece Piton, in quel preciso momento. Incredulo ed interdetto, ripeté: «Figlio di Harry Potter!»
Il ragazzo annuì soltanto, ritenendo poco conveniente intervenire, dato che sembrava che il grande mago stesse parlando tra sé e sé.
Il fantasma si guardò intorno. Mise a fuoco il calderone, gli schizzi di pozione (pensando tra sé e sé: “così giovane da non saper tenere a bada le pozioni!”), gli ingredienti avanzati, disposti con cura in un angolo (pensando tra sé e sé: “piuttosto ordinato, per essere un piccolo Potter!”) ed infine il proprio mantello, o meglio un lembo sdrucito e rovinato dal tempo e dalla polvere.
«Cosa volevi fare, con quella pozione, Potter?» indagò l’ex Mangiamorte.
«RestituirLe la vita, signore. Ma forse qualcosa è andato storto. Non avete un corpo, signore. Voglio dire, professore!»
«Quanti anni hai?»
«Dodici, è il mio secondo anno!» rispose, con un tocco di emozione nella voce.
«E hai già fatto pozioni… di questo tipo?»
«Di quale tipo, professore?»
«Di questo… tipo. Di livello avanzato. Molto avanzato, Potter. Questa è magia oscura!»
«Cosa c’è di oscuro, nel voler riportare in vita un eroe?» domandò tutto d’un fiato, con un curioso miscuglio d’indignazione e purezza nel suo sguardo, sul suo volto accalorato.
«Perché me?» domandò, alzando improvvisamente il tono della voce, come se fosse arrabbiato «Sono morti in molti per salvare quell’idiota di tuo padre, che pareva divertirsi e fare di tutto per mettersi nei guai!» constatò, sinceramente aspro.


«Perché… è il mio secondo nome!» cominciò titubante, poi prese un respiro profondo, si fece coraggio e proseguì, vuotando il sacco, quasi si trattasse di un misfatto: «Perché Lei è stato sempre come un secondo nome. Importante sulla carta, ma trasparente nella vita quotidiana. Perché il secondo nome, di solito, non si usa. Resta inutilizzato, come se fosse senza vita: sempre, ostinatamente, in secondo piano. Perché… al secondo nome nessuno presta mai attenzione!»
E sulla frase finale mise uno strano accento, quasi indispettito, quasi fosse un sindacalista in procinto di chiedere il rispetto del contratto appena stipulato!
Lo spettro rimase pensieroso per qualche momento, colpito dalle parole del piccolo Potter che gli stava innanzi: piccolo d’aspetto, nient’affatto coraggioso all’apparenza, ma decisamente volitivo e determinato nelle sue scelte, così come nella loro esecuzione, se era riuscito a concepire e realizzare una pozione di quel tipo, che certamente non rientrava neppure lontanamente nel programma scolastico di Hogwarts!
Il ragazzo lanciò un’occhiata furtiva, inquieta, oltre gli arbusti che nascondevano l’ingresso della caverna al resto del mondo. Il sole stava tramontando dietro le montagne.
«È molto tardi, professore. Devo andare, se non voglio beccarmi qualche punizione super. Credo sia opportuno essere puntuali per la cena. Spero di trovarVi di nuovo, la prossima volta. È un onore poter parlare con un grande mago come Voi!» si accomiatò, facendosi strada tra gli arbusti.
«Arrivederci, Albus Potter!» disse soltanto lo spirito, soffermandosi a guardarlo, mentre spariva, inghiottito dall’oscurità, diretto verso il castello.
Ma, se non fosse stato per il suo colore evanescente, si sarebbe detto che sul suo volto brillava un tenue sorriso compiaciuto.

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Capitolo 2
*** Serpeverde? ***



SERPEVERDE?

Il sole brillava alto nel cielo di un pomeriggio di primavera. Le lezioni, ad Hogwarts, dovevano essere appena terminate. Si sentiva un vociare indistinto di fanciulli e ragazzi, dagli undici ai diciott’anni, che si aggiravano per il verde prato che circondava il castello,  rincorrendosi, chiamandosi, in piccoli e grandi gruppi, come inesausti piccoli formicai che si spostavano compatti e leggiadri.
Il fantasma non poté fare a meno di ripensare alla sua infanzia, a quei pochi momenti felici vissuti a giocare al parco, con Lily, durante le giornate già tiepide della tarda primavera, come quel giorno. Quando i fiori sbocciavano prepotenti, punteggiando il verde del prato di cremisi, di lillà, di ocra, d’azzurro e di bianco; bianco, come i gigli che costeggiavano il sentiero di Spinner’s End.
L’unico ricordo felice della sua vita, prima di studiare la magia. Prima di arrivare in questo posto che, prima di vedere la sua morte, aveva visto anche la sua umiliazione, ma anche la sua redenzione, le sue lacrime, la sua gioia, il suo turbamento, la sua adolescenza, il suo stupore: ogni centimetro quadrato die quel luogo era intriso di suoi ricordi!
In quel momento, invece, erba che si afflosciava, inerme, impotente, al passaggio di un’orda di adolescenti in preda agli ormoni che correvano come cavalli di Attila; grida che poco hanno di umano, incomprensibile mancanza di eleganza e di educazione; fruscii, concitazione, smarrimento. Che diavolo stava succedendo ad Hogwarts, quel giorno?
Il ragazzo arrivò di corsa, scostando con sapienza gli arbusti, di modo da far sembrare che, oltre quelli, non ci fosse altro e, con mala grazia, si tuffò, letteralmente, nella caverna, con una foga tale che, nella sua capriola finale, goffa e probabilmente non voluta, per un soffio, evitò di battere la testa contro il calderone in peltro, che si trovava al centro dell’atrio cavernoso.
«Buon pomeriggio, Albus Potter! Ti muovi sempre in questo… modo?» lo accolse il fantasma, un po’ sconcertato dal suo ingresso
«Oh, nossignore!» ansimò, spolverandosi i calzoni e tirandosi in piedi con un balzo.
«Di solito no, signore. È solo che mi stavano inseguendo! »
«In quale guaio ti eri cacciato?»
«Oh, nulla… ogni tanto, mi capita. Quelli più grandi, più grossi, più forti… trovano divertente sfidarmi ad incantesimi in 4 contro 1. La mia bacchetta può fare un solo incantesimo alla volta. Se scappo, mi chiamano “codardo”, eppure, a me pare semplice… logica, no: non posso attaccarne quattro in un colpo!» e sorrise, tra il beffardo, il divertito e il trasognante; un sorriso enigmatico, ma pur sempre un sorriso, che il professore valutava, in qualche modo, inadeguato alla corrente situazione. Per cui, lo guardava perplesso.
Come diavolo faceva a sorridere, quel ragazzino? Lo avevano inseguito, avrebbero potuto fargli del male.. e lui sorrideva?
«… loro saranno più grandi. E grossi. E tanti. Ma io sono più veloce, molto più veloce. Sia di gambe che di cervello. Ognuno usa le proprie armi, no?» soggiunse, allegro il ragazzo.
«Tu non sei codardo. Erano dei Grifondoro, immagino. Proseguono la tradizione, senza dubbio di sorta…» bofonchiò lo spettro, con rabbia malrepressa, in un sospiro di rassegnazione.
Il ragazzo annuì, guardandosi intorno, quasi come fosse la prima volta che vedeva quella grotta. Con un fazzoletto, prese a strofinare le gocce, ormai secche, della pozione del giorno prima, dalla parete.
Il fantasma ebbe modo di guardarlo con più attenzione, mentre lo studente gli dava le spalle, constatando che non aveva tutti i torti. Il fisico era minuto, dall’apparenza gracile, e non dava certo impressione di grande forza fisica; ma le gambe sembravano fatte apposta per correre, anche sui sentieri più impervi o sui dirupi, come quelle di un cervo.
Al contrario del giorno prima, però, il ragazzo questa volta aveva indosso la divisa: un mantello un po’ troppo abbondante per la sua corporatura, con lo stemma di un serpente, con la concessione di un foulard verde brillante, indossato sopra la divisa scolastica d’ordinanza, verde - argento, al posto della cravatta. Com’era possibile?
Squadrò la divisa, avvicinandosi, con un moto serpeggiante e sinuoso, fino a vorticare attorno al ragazzo. Con stupore evidente:«Dunque, sei un Serpeverde, per via del tuo secondo nome… per me?» domandò, ripensando a quanto gli aveva detto il giorno precedente.
Piton era incredulo. Lui ha fatto e avrebbe fatto qualsiasi cosa  per Lily. Ma nessuno, che lui ricordasse, aveva fatto mai qualcosa per lui, solo per lui. Appositamente per lui. Tutto ciò gli parve insolito, per non dire sospetto.
Infatti, con una smorfia dipinta sul volto sgraziato, gli si avvicinò, per indurlo a parlare.
«Già, esattamente » disse appena, in un soffio, il giovane Albus Severus.
In un attimo, la sua mente scivolò nel passato, a quei momenti che gli sembravano infiniti. Il primo viaggio verso Hogwarts. Socchiuse gli occhi, per riviverli meglio.

Il binario 9 e 3/4, era stato attraversato da pochi istanti, sia da lui che dalla sua famiglia, facendo attenzione a non farsi vedere dai Babbani.
Suo fratello maggiore che non perdeva occasione per prenderlo in giro e, più grande di lui, ormai conosceva già altri giovani maghi della scuola, oltre ai professori: sicuro e spavaldo, non perdeva occasione per fare lo spaccone.
Sua sorella minore, ancora troppo piccola, si guardava intorno, avida di dettagli, curiosa di sapere come sarebbe stato il suo, di viaggio verso Hogwarts.
Il treno ormai stava per partire, quando un dubbio colse il secondogenito. Tutta la sua famiglia era stata a Grifondoro, e se ne era sempre gloriata, come di un vanto senza pari. Suo padre era Harry Potter,  l’idolo dei suoi coetanei, colui che aveva sconfitto Lord Voldemort. Sua madre era Ginny Weasley, con un fratello morto per la causa e l’intera e numerosa famiglia nell’Ordine della Fenice. Grifondoro è il luogo dei coraggiosi, dicevano. Ma, a dire il vero, ogni tanto, sia suo padre, che suo nonno e i suoi amici, più che coraggiosi gli erano sembrati soltanto degli sconsiderati, baciati dalla Buona Sorte; insomma, solo uno stupido poteva non accorgersi che, se non fosse stato per quella Corvonero mancata di zia Hermione, probabilmente non sarebbe neanche nato, perché sia suo zio che suo padre sarebbero senz’altro morti anzi tempo, già al primo anno di Hogwarts!
Ancora adesso, gli risuonava nelle orecchie la risposta che gli diede suo padre. Solenne e rassicurante: «Albus Severus Potter, tu porti due nomi di due Presidi di Hogwarts,uno di loro era serpeverde è lui era l'uomo più coraggioso del mondo».


Ne era stato davvero rassicurato. In quel momento aveva ricordato quelle parole difficili che ogni tanto diceva zia Hermione: “unità delle Case”, o, addirittura “cooperazione tra maghi”. Quello che i Babbani avrebbero detto in modo più semplice “L’unione fa la forza”. Perché non era vero, come diceva zio Ron, che tutti i maghi peggiori erano Serpeverde: aveva letto diversi libri di Storia della Magia e poteva affermare, con una certa sicurezza, che anche nelle altre Case c’erano stati maghi attratti dal Potere e dal Successo. Tra i Serpeverde figurò anche un certo Merlino, che, oltre ad essere un mago leggendario, collaborò a lungo con i babbani e fu indulgente nei loro confronti, tanto da vietare di usare la magia contro di loro.  Sì, è vero, i Serpeverde erano sempre stati attratti dal mondo oscuro, dall’occlumanzia e quindi, diciamo, più predisposti a scendere lungo il crinale della magia nera. Ma, a pensarci bene, anche a lui non dispiacevano queste cose. Poter leggere nel pensiero non era solo negativo: ad esempio, consentiva di non sbagliare un regalo di compleanno; e cosa c’era di male in ciò? Conoscere le maledizioni senza perdono era il primo passo per contrastarle: come combattere il male senza conoscerlo? E poi, dovette ammettere con se stesso, dover camminare su quella sottile striscia, al confine tra il bene e il male, gli comunicava un eccitante brivido. La scelta finale è sempre del singolo mago, pensò, quindi si convinse del tutto: la Casa non era così importante, avrebbe accettato la decisione del Cappello, qualunque fosse stata. Gli sembrava sensato. Ma fu a quel punto che, come uno spillo, lo punse il ricordo delle parole ascoltate poco prima. "L'uomo più coraggioso": quelle tre parole gli gonfiarono il cuore. Del primo preside, aveva già onorato la memoria James, che era già un Grifondoro. C'era il secondo, la cui importanza si era capita solo dopo la sua morte. Aveva deciso: se la sua preferenza poteva contare, lui avrebbe chiesto Serpeverde, come il suo secondo nome, quel nome che tutti dimenticano, a cui nessuno dà importanza, come l'uomo al quale era appartenuto, che, in vita, non aveva avuto riconoscimenti né ringraziamenti per tutto quello che aveva fatto. Ma la grandezza di un uomo non si misura dai "grazie" che riceve!
Quello fu il suo ultimo pensiero sul treno. Arrivò al castello, tramite le barche, e, con un brivido, si apprestò anche lui, insieme con gli altri bambini alla Cerimonia dello Smistamento in Sala Grande. Tanti Babbani non la vivono allo stesso modo. Albus pensò che, per loro, quel primo giorno, era molto più semplice. Certo: tutto nuovo, tutto magico, tutto fantastico, tutto emozionante. Ma non avevano sulle spalle la responsabilità del nome della propria famiglia, i precedenti dei propri avi, compresi quelli andati in malora, come i Black, ad esempio. L’Oscuro Signore aveva diviso tante famiglie magiche, messo padri contro figli e fratelli contro fratelli. Tutto ciò non poteva non aver lasciato un segno indelebile anche nella Storia di Hogwarts.
Sentendo chiamare il proprio nome, in Sala Grande, si avvicinò, un po’ titubante al Cappello Parlante.
«Albus Severus… Potter: intelligenza e sagacia fanno pensare a Corvonero, eppure tutta la tua famiglia è Grifondoro: come la prenderanno? Sei complicato, Potter…»
«Serpeverde, come Severus… Serpeverde come Severus» si ritrovò, quasi senza accorgersi, a mormorare il ragazzino, sotto al vecchio cappello.
«Sei sicuro, Potter? Tuo padre, al tuo posto…»
«Io non sono mio padre, sono solo Albus!» rispose senza pensarci il bambino
«D’accordo, allora, se questo è quello che preferisci: SERPEVERDE sia!» proclamò infine il Cappello Parlante.
Ricordava ancora come, mentre andava a sedersi nella tavola Serpeverde, avesse  incrociato lo sguardo attonito ed esterrefatto del fratello. “Anche solo per essere riuscito a stupirlo, valeva la pena!” aveva pensato in quel momento.
Jamie era sempre il fratello grande, quello coraggioso, spericolato, senza freni: quello che doveva sempre attirare l’attenzione su di sé. Non potevano essere nella stessa Casa. Gli avrebbe reso la vita impossibile. Altrove, avrebbe avuto modo di dimostrare la sua bravura e di sviluppare quelle doti che sicuramente aveva anche lui, solo che magari erano solo… un po’ più occulte, rispetto a quelle del fratello esibizionista.

 

 

Riaprì gli occhi, in uno scintillio verde.
Piton sorrideva, compiaciuto, per quello che aveva visto. Nonostante, subito dopo lo smistamento, fu chiaro che non fosse lui l’unico motivo, ma la ricerca del proprio sé al di là del proprio ingombrante cognome, quel ricordo vivido gli dava molte informazioni sul ragazzo. Astuto, furbo, intelligente, stava crescendo e formandosi nella casa di Salazhar Serpeverde. E con gli occhi di Lily, per di più. Forse non gli era ancora simpatico, ma sicuramente aveva molti punti a suo favore, quel ragazzino!
Albus si accorse subito che lo spirito non aveva perso la sua dote per l’occlumanzia. La cosa non gli dispiacque: tuttavia, fu fonte di una domanda, che però si trovava un po’ impacciato ad esporre come si deve: sapeva bene di trovarsi di fronte, non solo al suo omonimo, non solo ad un grande maestro di Pozioni, non solo ad un preside di Hogwarts, ma anche ad un eroe della guerra magica, uno tra i migliori di quelli che i Babbani avrebbero chiamato “agenti segreti”. Era normale un minimo di soggezione, no?
Fu proprio Piton a toglierlo d’impaccio: accortosi della situazione, sbuffò: «Coraggio, non cincischiare! Chiedi!»
«Io… mi domandavo. Tu hai usato l’occlumanzia, per vedere il mio ricordo, giusto? Allora, gli spiriti dei morti non sanno tutto sui vivi, in modo, diciamo automatico? Pur non avendo il corpo, voi non riuscite comunque, ad avere una comprensione, diciamo così… totale?»
Piton era sempre più sbalordito. Il giovane Albus aveva sete di conoscenza, senza quella fastidiosa saccenza da Babbani che aveva rilevato dal primo giorno alla signorina Granger, né l’arroganza di James. Questa domanda ne era la dimostrazione.
«Oh, mi scusi, signore, devo averle fatto troppe domande, tutte assieme. Devo esserle risultato davvero maleducato!» disse il ragazzo, sinceramente dispiaciuto, con voce incerta, alternativamente grave ed acuta, come capita talvolta ai preadolescenti.
Poco mancò che a Piton, sebbene spirito, venisse un colpo: aveva la delicatezza di Lily, non solo gli occhi!
«Domanda legittima» rispose, quindi, con grande lentezza, una volta ripresosi dallo stupore «Stupore legittimo. La morte e ciò che ne segue è il mistero più grande, nel quale sono accomunati Maghi e Babbani, tanto nella paura, quanto nell’ignoranza»
«Cioè?» si lasciò sfuggire a fior di labbra. Fu timoroso d’averlo deluso, ma forse lo spirito lo sopravvalutava: per quanto sveglio e astuto, aveva pur sempre dodici anni e non era così bravo a capire le allusioni!
Ma lo spirito non parve alterato: lentamente, scandendo ogni parola come fosse un incantesimo, chiarì: «Maghi e Babbani sanno ben poco della morte e, forse proprio per questo, è ciò che fa loro più paura. La morte non apre completamente le porte alla conoscenza. Non subito. Un fantasma rimane tale fino a che non assolve il proprio compito. Ci potranno volere mesi, anni, o anche...»
«Secoli? »
«Sì, anche secoli, giovane Potter, anche se gradirei e-nor-me-mente che tu ti ricordassi l’educazione e non interrompessi un tuo superiore che ti parla!» rispose, con voce grave, alterata da una nota di rabbia, sapientemente controllata.
L’espressione del ragazzo fu di terrore puro. Il tono della voce del fantasma sapeva essere oltremodo spaventoso. Richiuse la bocca all’istante, lasciando spalancati solo due occhi terrorizzati.
Il fantasma non parve accorgersene, perché proseguì: «Non ero spirito, né mortale. Se hai notato, non ero neppure nel quadro, ad Hogwarts! Almeno… da un anno!»
«Naturale che l'ho notato, signore, e ne ero inviperito, perché pensavo si trattasse di un intenzionale oltraggio alla Vostra memoria!»
«E-ehm.. domanda retorica! Questa era una domanda - retorica! Non esigeva affatto una risposta, da parte tua!» precisò, con una gravità nella voce tale, da suonare come un rimprovero.
Piton si soffermò ad osservare il ragazzo. Se aveva qualcosa di suo padre, questo era l’entusiasmo. Un infantile, insopportabile entusiasmo; il più delle volte, assolutamente immotivato, per altro, che lo portava ad alzare il tono della voce, con arroganza indispettita. Eppure questo entusiasmo gli piaceva, in un certo senso. Perché era un entusiasmo che questi mitigava sempre con eleganza. Come un accesso di risa, che divampava veloce, potente, irrefrenabile, ma che durava poco più di un attimo: giusto il tempo necessario perché il ragazzo se ne accorgesse e lo tenesse a freno; come un drago con il raffreddore che, accorgendosi della possibilità di farsi del male e non potendo evitare di starnutire, si trattenesse dopo averlo fatto.
Infatti, in quel momento, Albus era di nuovo in silenzio, con aria colpevole e mite, quasi frastornato, e guardava nella sua direzione, con impazienza assetata di sapere, che spinse lo spettro a non indugiare in ulteriori rimproveri, ma a svelare la verità.
«In ogni caso, giovane Potter, la spiegazione è diversa. I presidi entrano nelle cornici loro destinate, se muoiono come devono, ma, nottetempo, qualcuno ha stregato il quadro ed io sono rimasto a metà strada tra vita e morte. Lo stadio del fantasma è solo temporaneo, ma sarà necessario finché non finisco quello che devo compiere. Nonostante tutto, credo di esserti debitore, perché tu sei riuscito, in qualche strano modo che, con ogni probabilità, ignori nel modo più totale, data la tua età ed inesperienza, a “disincastrarmi”» sembrava aver fatto una fatica immensa ad esprimere quel briciolo di gratitudine nei confronti del ragazzo, perché fu con un sonoro sospiro di sollievo che, in seguito, aggiunse una concisa precisazione, al riguardo: «Io posso dirti che ho accesso alle menti altrui in quanto occlumante; non ho limitazioni corporee, in quanto fantasma; ma non sono onnisciente. Almeno, non ancora...». Concluse con un ghigno che lasciava intendere che non aveva affatto rinunciato all'ambizione di migliorare costantemente le proprie doti., neppure dopo il trapasso.
«Provamelo!» disse, all’improvviso il ragazzo, accendendosi con aria di sfida.
Piton provò a penetrare la sua mente. Non era come prima. Ora il ragazzo si stava opponendo, lo avvertiva chiaramente. Era molto più difficile. Ma aveva solo dodici anni e.. nessuno gli aveva insegnato l’Occlumanzia, per cui, nonostante la sua feroce resistenza per 6 minuti abbondanti, alla fine si dovette piegare al professore, lasciandogli leggere la propria mente.
Stava ricordando la fine della guerra, quando Neville, ora professore di Erbologia, tranciava di netto la testa di Nagini, l'ultimo horcrux che andava distrutto, prima di sconfiggere Voldemort. Albus sapeva che non ce l'avrebbe mai fatta: era solo questione di tempo, ma non era verosimile pensare che l’abile occlumante non riuscisse a penetrare la mente di un ragazzino: così aveva pensato che dargli conferma che la guerra si era conclusa bene, che il suo sacrificio non era stato vano era qualcosa che gli sarebbe piaciuto vedere!
Dal suo canto, Piton era assolutamente ammirato per la sua determinazione e buona volontà. Opporsi alla lettura del pensiero richiedeva un’applicazione ed una concentrazione elevata che non ci si aspetterebbe mai di trovare in un mago così giovane. Gli spiaceva ammetterlo, ma, per una volta, il padre del ragazzo aveva visto giusto: Serpeverde aveva guadagnato un meraviglioso, giovane mago.
«Si vede proprio che sei il miglior occlumante mai esistito! Oh, dopo Voldemort, naturalmente!» disse, con l’entusiasmo che faceva brillare come smeraldo, per l’eccitazione, i suoi occhi verdi. Ma, dopo un attimo, si pentì. Si rabbuiò. Con una velocità impressionante.
E il fantasma, comprendendo perché, calcò la mano. «È molto gentile che tu mi apostrofi come il primo dei perdenti: senza dubbio, molto amichevole, da parte tua!» lo rimbeccò, ironico.
«Io… non volevo, davvero! Io, proprio, non posso volerlo. Sono un gran perdente, io!» Il ragazzino era davvero addolorato. Piton rimase interdetto. La reazione del ragazzo gli parve eccessiva. Rivedeva troppo di sé in quel bambino, perché potesse ignorare quelle parole.
«Non devi parlare così di te stesso!» e la voce suonò grave, come un rimprovero. Proprio non era capace di essere incoraggiante: neppure in forma di fantasma!
«Ne ho motivo, signore» gli confidò «Mio fratello è titolare della squadra di Quidditch e gioca dal primo anno, cercatore come mio padre; e mio nonno, del resto. Io odio il Quidditch. E fatico a stare sulla scopa. Preferisco le gobbiglie. O… leggere. Disegnare, scrivere piuttosto! Le ragazze non mi calcolano, al di fuori delle ore scolastiche; dev’essere perché io non sono muscoloso come gli altri. Forse ho qualcosa di sbagliato, nel sangue!»
«Albus Severus, essere diversi non è un crimine!» iniziò Piton, ma mentalmente si maledisse: come poteva parlare di crimine, lui che era stato un mangiamorte? Pessima scelta di termini, Severus!
Ma proseguì: «La gloria? La gloria non è per tutti. Non esiste un unico sentiero che porti alla vetta. Non vi sono solo stendardi che garriscono al sole iridescente della venerazione delle folle festanti. Oh, no, Potter! Non tutti ricevono gloria ed onori. Ma questo non significa che tu non abbia un tuo posto nella Storia. E un posto inderogabile, per altro. Un posto che risplende di uno scintillio ineguagliabile, luminoso non meno di altri scranni, riservati a re e regine.  Ti invito ardentemente  a pensare a Neville, giusto per esemplificare quello che intendo dire!»
Il ragazzo sgranò gli occhi: Neville? Dai racconti del padre, ricordava che tra l’attuale professore di Erbologia e quello che, ai loro tempi, era il professore di Pozioni, non c’era mai stata grande simpatia. Anzi, si stava proprio domandando se avesse fatto bene a mostrargli proprio un ricordo che, oltre alla fine della Seconda Guerra Magica, riguardava Neville Longbottom. Infine, però, chiese soltanto, con un filo di voce: «Neville?»


«Neville, sì: esatto.  Proprio lui! Al primo anno di scuola, non avresti scommesso un soldo bucato su di lui: lardosa palla di grasso, spaventata anche dalla sua ombra. Era una frana in Pozioni, un cataclisma in Incantesimi. Pareva avere una predisposizione giusto per quella materia da invertebrati che è Erbologia. E invece… senza di lui, Harry Potter non sarebbe riuscito nella sua impresa e avrebbe inoltre detto addio ai suoi migliori amici, nella patetica illusione Grifondoro di essere eroici perché morti insieme, mano nella mano. Neville ha ucciso Nagini, vendicando, quindi, indirettamente, anche me!» fece una pausa. E un ghigno sinistro apparve ad un angolo della bocca.
Eppure, Al lo ascoltava, rapito. Era bello ascoltare i suoi racconti, persino il suo sarcasmo e la sua assenza di ogni comune buonismo gli risultavano intriganti.  
«Dicevo, Neville. Nessun esempio sarebbe più azzeccato. Lui non è mai stato sotto le luci della ribalta. Oh, no! Non le avrebbe sopportate, senz’ombra di dubbio. Eppure proprio lui, dalle retrovie, in un certo senso, ha avuto più influenza di maghi più esperti, nel raggiungere l’obiettivo finale. È giunto ora alla tua comprensione il motivo per il quale ognuno deve, più di ogni altra cosa, occupare il proprio posto, anche quando questo significa, talvolta, obbedire ad ordini che non comprendi totalmente e masticare grandi bocconi amari, che vorresti far inghiottire al tuo superiore? È penetrato nella tua testolina vuota cosa significhi mettersi in gioco, totalmente, avendo tutto da perdere e quasi nulla da vincere?» mentre terminava la domanda, il suo tono era diventato irritato, furente, nonostante non avesse mai smesso di mantenerlo basso, come il sibilo di un serpente.
No, come poteva capire, povero ragazzo? Aveva dodici anni, era vissuto in tempo di pace, non aveva dovuto scegliere tra Mangiamorte e Ordine della Fenice, non aveva rinunciato alla sete di potere per l’Amore della sua vita, non aveva fatto la spia per diciotto lunghissimi anni, celando la parte più luminosa di sé al mondo intero, compreso se stesso. Come poteva… o, forse: sì?
Il dubbio lo sfiorò quando si volse a guardarlo, abbandonando, per un momento, l’enfasi del proprio stesso discorso, in cui si era impegnato fino a quel momento.
Vide il ragazzo socchiudere gli occhi, annuire lentamente, con eleganza e, con sincerità, rispondergli con calma «Ci sto provando, a capire… davvero! Non è sempre facile, la vita. A volte non lo è per nulla!»
Piton sorrise. Stava provando, in forma di spirito, una sensazione che non aveva mai provato prima. Quel ragazzo - figlio di Potter!-  lo capiva. Non aveva l’intelligenza dei Corvonero. Era un altro tipo di intelligenza. L’intelligenza del cuore, quella che rende capaci di leggere l'anima. I Babbani dovevano chiamarla empatia: è un dono che è molto più raro della magia e, in chi lo possiede, provoca sempre più danni che vantaggi.
«Non sei come tuo padre. Né come tuo nonno» disse, pronunciando adagio ogni singola sillaba, come se la stesse soppesando con grande cura sopra un bilancino di precisione.
«..... Sirius spesso chiamava mio padre James, lui lo amava perché gli ricordava James e, per un adolescente in cerca di sé, non è bello rendersi conto di questo. Lei, invece, perché era figlio di Lily, nonostante il suo aspetto Le ricordasse mio nonno, che non era proprio uno stinco di santo! Bisognerebbe guardare alle persone per quello che sono, non per i ricordi che scatenano. Gli adolescenti, poi, cercano riconoscimento, prima ancora che apprezzamenti e tutto questo non aiuta. Ma del resto, Lei non è mai stato prodigo, con gli apprezzamenti, o sbaglio?»
«Evidentemente!» rispose, secco, Piton, al ragazzo, che aveva colpito nel segno. Era estremamente seccante sentirsi rinfacciare i propri difetti. Specialmente, quando a farlo era uno sfrontato studentello del secondo anno, a cui non poteva nemmeno avere la soddisfazione di togliere punti, perché… non era più insegnante di Hogwarts! e, oltretutto, era perfino di Serpeverde, quell’impiastro d’un Potter junior!
«Lo dice spesso, vero?» domandò il ragazzo, senza guardarlo; poi,  immaginando la sua domanda, si affrettò a rendergli 'disponibile', nella propria mente, il ricordo del proprio padre che, innervosito, stringeva i pugni, al sentirglielo dire, borbottando tra sé e sé: "In famiglia nessuno risponde così, come ha potuto imparare... ?"
Lo spirito rise, divertito. Certo, aveva amato e protetto il figlio di Lily, pur facendo di tutto per celarlo. Ma nulla lo divertiva quanto far impazzire quell'ammasso di impulsività di Harry Potter, che non era mai stato capace di tenere a freno né la lingua, né, tanto meno, le proprie emozioni.
«Io credo di saperla, la risposta.. forse!» proseguì il ragazzo, con calma e discrezione, quasi in un sussurro «La realtà è che non esiste solo il DNA, i geni, il sangue, per trasmettere qualcosa di sé. Ci sono genitori che i figli li hanno solo generati, ma non li amano davvero.E  a parte i geni, non sono in grado di trasmettere altro. La grandezza di un uomo lascia impronta di sé, come un marchio, diciamo…» Piton guardò rassegnato, sulla superficie evanescente della sua sostanza d’ectoplasma, appena appena rilevato, ma ancora presente, il marchio dell’Oscuro Signore.
Il ragazzo se ne accorse e proseguì: «Sia il bene che il male lasciano un segno, naturalmente. Ma la parte migliore di sé riesce sempre ad essere tramandata, a superare il logorio del tempo e a proseguire il suo cammino per generazioni e generazioni, come un’eredità impalpabile, che va al di là dei legami di sangue» concluse, con un sorriso complice e distensivo, rispetto al precedente tono solenne che aveva accompagnato quel suo discorso. Era evidente che si trattava di un argomento sul quale aveva riflettuto a lungo, studiato, dibattendo continuamente tra le proprie esperienze personali, il proprio ragionamento e le opinioni lette sui libri, sulle riviste e.. su ogni sorta di diavoleria babbana attualmente in circolazione, perché Albus, senza eccedere nei pregiudizi, ma con il necessario discernimento, non disdegnava alcuna fonte d’informazioni che potesse entrare in suo possesso, in un modo o nell’altro.
«Sei davvero... Un ragazzo fuori dal comune!» esclamò Piton, con un entusiasmo, che non pensava di poter possedere.
Notò il ragazzo arrossire lievemente, in un sorriso timidamente compiaciuto per l'apprezzamento ricevuto.
Piton si stupì di se stesso. Era l'ennesimo complimento che gli uscisse di bocca. Ed era assolutamente sincero.
Nonostante fosse strano, per lui, esternare la propria ammirazione, specie nei confronti di qualche adolescente di Hogwarts: era un lusso che si concedeva di rado, e con riluttanza. Ma, con lui, era così facile! Era come se fosse in grado di tirare fuori... la parte migliore di lui!

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Capitolo 3
*** Un favore ***


UN FAVORE

Una leggera pioggia cadeva incessantemente, sul muschio che radicava sulla pietra grigia e sull'erba verde che riluceva sul prato lucente, penetrando dolcemente nel terreno umido.
Il fantasma, dal suo antro, osservava il cielo plumbeo rannuvolarsi rapidamente sopra la propria testa. Un odore penetrante di terriccio umido impregnava l'aria circostante, mitigando il profumo intenso dei fiori primaverili, che chinavano la corolla sotto il peso delle gocce d’acqua, che li colpivano senza requie.
Il giardino che attorniava Hogwarts era deserto: complici gli esami alle porte, tanti preferivano sfruttare il tempo incerto per un ripasso, piuttosto che uscire per bagnarsi inutilmente.


Piton udì improvvisamente uno scalpiccio leggero, appiccicoso e affannato: rumore di scarponcini che affondavano nel terreno bagnato, passi che procedevano a falcate decise, dirette da gambe lunghe e snelle. Fruscio di un mantello che svolazzava sotto la pioggia e colpi secchi di rametti spezzati. Sentì scostare con cura le frasche, come fossero una tenda.
«Non pensavo che saresti venuto, oggi!» confessò lo spettro, mentre il ragazzo si tolse subito le scarpe infangate e le calze umide. Ripose con cura le scarpe in un cantuccio.
«Invece sì!» rispose allegramente il ragazzo.
Poi, non appena scorta una sporgenza della roccia, vi appese, ben distese, le calze. Tolto poi il calderone, accese un piccolo focherello, per diminuire l’umidità presente in quel luogo.
Piton rimase ad osservare la diligenza con la quale compiva queste operazioni e non poté fare a meno di rivedere, in quei gesti precisi e pacati, quelli di sua madre a Spinner’s End, mentre era affaccendata nei lavori domestici. Era lodevole tutto quell’ordine, presente in modo spontaneo in un ragazzino di dodici anni!
«E lo studio? Non studi mai?» lo interrogò tuttavia lo spettro, aspro e poco amichevole.
«Studio quanto serve!» rispose, netto, Al, senza scomporsi per nulla. E gli spalancò i propri ricordi dell’anno scolastico in corso.
Incantesimi non era una materia in cui andasse male, ma neppure eccedeva in particolare: era preciso e rapido, non sempre altrettanto potente. Erbologia non era la sua preferita, ma era consapevole che il suo studio era strettamente collegato a Pozioni, che lo affascinava, per cui non poteva permettersi di distrarsi. Storia della Magia gli pareva di una noia mortale: la sua mente logica e razionale si rifiutava di imparare tutte quelle date, anche se, dovendo essere sincero, le strategie di battaglia, al contrario, incontravano il suo interesse. Trasfigurazione era bella, e gli riusciva discretamente, seguendo le indicazioni della professoressa McGranitt, ma, piuttosto, confessava di nutrire una (insana?) curiosità verso la possibilità di trasformare se stesso in un animale; ancora non ne aveva parlato con nessuno, ma ci pensava di continuo, ogni volta che era a Trasfigurazione e, forse, era questo il motivo per cui non riteneva sufficientemente interessanti le lezioni di quella materia. Difesa contro le Arti Oscure, purtroppo, a causa del periodo di pace, rimaneva poco approfondita: la McGranitt non aveva trovato candidati adeguati che avessero accettato, nonostante la maledizione di Voldemort fosse finita con lui. Astronomia gli sembrava noiosa; a parte le poche nozioni legate all’erbologia, di solito seguiva molto poco. Ma Volo era la peggiore di tutte: non aveva mai avuto un bel rapporto con la scopa; al primo anno ci mise moltissimo tempo solo per prenderla in mano e ancora adesso non era raro che cadesse rovinosamente, provocando l’ilarità dei suoi compagni di scuola. Insomma, quello era in assoluto il suo punto debole, per cui era spesso canzonato. D’altronde, non ne vedeva l’utilità. Per spostarsi più velocemente c’era la metropolvere e, quando fosse stato più grande, la smaterializzazione. Per tutto il resto, le gambe erano più che sufficienti, no?
Piton parve soddisfatto di quanto gli fu concesso di vedere, quindi decise di cambiare argomento:«Tuo padre che dice? È contento che tu sia a Serpeverde? Fa ancora incubi o altre cose strane?» domandò allora Piton. Ed Albus riuscì a scorgere, dietro a quel velo di dispetto, una sincera curiosità, anche se, forse, non esattamente un reale interesse.
«Mio padre mi ama molto. All’inizio temevo di finire in Serpeverde. Temevo di deluderlo, e io non volevo. Lui ha capito che non basta essere in Serpeverde per essere cattivi. Quando glielo scrissi non si arrabbiò. Anzi, credo senz’altro che gli spiaccia di più per il quidditch. Ma proprio non posso farci nulla. Non ci trovo niente di interessante nel Volo, forse è per questo che vado così male» ammise, schiettamente dispiaciuto «Mio padre non vuole che mi interessi a niente di oscuro. Dice che è pericoloso per tutti, ma soprattutto per i bambini. È grazie a lui che ho scoperto l’occlumanzia. Non direttamente, è ovvio! Un giorno (ero piccolo, molto prima di venire qui a Hogwarts!), mi ero spaventato per il temporale: mio fratello era grande e di sicuro non aveva paura, mentre mia sorella non c’era nemmeno, e poi era piccola; allora corsi nel letto di mamma e papà e gli raccontai tutto. Lui si addormentò subito, ma era un sonno agitato e io non riuscii a dormire. Mi misi seduto e lo guardai. Mi accorsi di vedere i suoi incubi, come fosse un film. Non volevo… non ne avevo intenzione, è solo… capitato. Non gliel’ho mai raccontato. Credo che mio padre sarebbe in imbarazzo, no?»
Ecco perché. Quando aveva visto il ricordo di Neville,  il fantasma ci aveva fatto caso. Gli era sembrato strano e non se lo sapeva spiegare. Adesso sì, ora era tutto più chiaro. Lui non aveva visto un ricordo di Albus. Quel ricordo era di Harry, era originale. Lo aveva “conquistato” il suo stesso figlio, con l’occlumanzia. Per questo era così nitido e vivido, come se l’avesse vissuto in prima persona; nonostante non fosse possibile, naturalmente, che il piccolo Albus avesse assistito direttamente all’uccisione di Nagini. Adesso che il ragazzino gli aveva rivelato queste esperienze, l’insieme gli compariva molto più nitido. Com’era più facile lavorare, quando la persona innanzi, per sua libera scelta, ti si consegnava con fiducia, senza ricalcitrare, nella convinzione di poter essere aiutata nella propria crescita!
Nel frattempo, anche il ragazzo aveva fatto una breve pausa, per commentare, pochi istanti più tardi: «Non dev’essere stato facile per nessuno, il periodo in cui mio padre ha frequentato la Scuola!». Poi prese coraggio e domandò: «Ma… è davvero così brutto poter vedere queste… cose? O lo è solo qualche volta?»
Come a cercare le parole migliori, con estrema lentezza, Piton rispose: «Non sono decisamente la persona più adatta a cui chiederlo. Io sono fermamente convinto dell’utile che risieda nella corretta padronanza della legillimanzia e dell’occlumanzia, se ben impiegate verso i più nobili fini. Tuo padre ha paura per te e questo ne condiziona la razionalità del giudizio su questo argomento. Tua madre, invece, che dice?»
«Mamma è paziente. E organizzata. Ha imparato dalla nonna Molly. Anzi, le assomiglia molto, anche se si arrabbia molto se qualcuno glielo dice… comunque, lei non parla molto di queste cose. O forse, solo, non è mai capitato che io ne abbia parlato con lei. In fondo, non sono così male, come genitori. Il mio amico Michael è figlio di Babbani e ha dovuto scappare e farsi portare ad Hogwarts da uno zio. Almeno, così mi ha detto. Per essere una cosa che non ho scelto, mi ritengo fortunato!» ammise, concludendo con un sospiro, che non era preoccupazione, ma semplicemente la constatazione che molti altri ragazzi della sua età erano e sono costretti a vivere situazioni quotidiane molto peggiori delle sue.
«Come va con tuo fratello?» chiese allora Piton, falsamente distratto.
«Come deve andare. Io leggo, lui combina guai. Ogni tanto, lui mi dice che crede che io sia stato adottato… e, alle volte, lo credo anch’io! Capita abbastanza spesso che bisticciamo. È che siamo parecchio diversi, per i gusti e le predisposizioni, diciamo! Ma, alla fine, ci vogliamo bene... credo. Del resto, è mio fratello! Quando non fa lo spaccone, è quasi sopportabile…»
«Hai anche una sorella, no?»
«È in gamba. Un po’ troppo … femmina, ogni tanto» sbuffò e, inavvertitamente, pensò a lei. Lei, la più piccolina di casa, inevitabilmente un po’ viziata perché più coccolata, ma in fondo, sempre gentile con lui!
«Capelli lunghi e lisci, direi… rossi?» chiese Piton, ad un tratto.
L’aveva fatto di nuovo, gli era entrato nella testa, a vedere un pensiero. Sua sorella che litigava con le spazzole, come ogni mattina. solo che era stato troppo veloce, perché Piton potesse cogliere tutti i dettagli.
Allora, volle provarci, così, anche solo per gioco. Selezionare esattamente cosa fargli vedere, perché si “servisse” da solo dei suoi ricordi, senza ch’egli aprisse bocca. Ma solo dei ricordi che servivano, in quel momento. Si concentrò, profondamente, con tutta la determinazione dei suoi dodici anni e la fragilità della sua mente ancora elastica ed in formazione.
 «Rosso, sì. Ma rosso Weasley. vero?» annunciò Piton.
Albus sorrise, compiaciuto. Ce l’aveva fatta. Non ci avrebbe  mai scommesso di riuscirci e invece…
«È la prima volta? Non l’avevi fatto prima?» stavolta non stava leggendogli la mente, solo interpretando il linguaggio non verbale dei suoi occhi intensamente espressivi e del suo volto dai piccoli muscoli mai completamente rilassati.
Albus sorrise, quasi imbarazzato. «Questa cosa sì. Un ricordo solo cromatico non l'avevo ancora selezionato...»
«Dev’essere una predisposizione naturale. Non tutti i maghi sono dotati per l’occlumanzia. Soprattutto, così giovani. Con tuo padre dovetti tribolare parecchio. Pur considerando il legame col Signore Oscuro, devo dire che non mi ha aiutato affatto nel mio compito! Credo che Lupin abbia fatto molta meno fatica di me nel fargli produrre un incantesimo Patronus!»
«Un incantesimo… cosa, signore?»
«Tuo padre non ti ha spiegato nulla?»
«Mio padre ritiene che io sia troppo piccolo per certe cose. Alcune letture le affronto ugualmente, ma… sono sempre meno gli esperti di arti oscure… e sempre più difficili da trovare!»
«Capisco» disse, con grave lentezza. E rimase in silenzio.
«Ma, signore, potrebbe spiegarmelo Lei. Potrebbe, per favore?»
Come resistere a quegli occhi verdi supplichevoli? Forse era per il turbinio incontrollato di ricordi di ogni tipo che gli facevano riaffiorare, forse era perché si specchiava in quella limpida, ingenua voracità di informazioni… ma, di fatto non era proprio possibile resistergli!
Iniziò quindi a spiegare:«L’Incanto Patronus, la cui formula è “Expecto Patronum” (da pronunciare con voce chiara e decisa!), è un incantesimo che evoca un Patronus (al plurale Patroni), forza dall'energia positiva e per metà tangibile che catalizza alcuni ricordi felici del mago evocatore e generalmente viene usata per proteggersi da creature oscure quali i Dissennatori e in rari casi dai Lethifold»
«Perdono, ma… cosa sono i Dissennatori? E i Lethifold?» chiese, confuso.
«Come? Ma tuo padre non ti ha proprio insegnato nulla!» commentò lo spettro, piccato. Albus temette, per un attimo, che non avrebbe ricevuto risposta e il suo volto si contrasse in una smorfia di mortificazione.
Al contrario, la spiegazione ricominciò, paziente:  «Il Dissennatore è una creatura oscura tra le più temibili» iniziò Piton, camminando su e giù per l’atrio cavernoso, come una volta faceva in aula. Poi il suo sguardo si posò sul ragazzo, intento a scrivere convulsamente,seduto a terra, con le gambe incrociate e la pergamena appoggiata sopra alla cartella; lo rimproverò: «Cosa - diavolo - stai - facendo?»
«Appunti, signore! Professore!»
Piton sospirò: «Albus!». Con la punta della bacchetta, gli sfiorò la fronte e, glaciale, gli intimò: «Usa questa, più di quanto usi la piuma, quando sei a lezione. Sempre! Chiaro?»
 «Sissignore» rispose, impietrito, Albus, lasciando cadere a terra la piuma per lo spavento.
«Il Dissennatore è un essere umano a cui è stata tolta l'anima. Il corpo può sopravvivere anche senza anima, ma regredisce e avvizzisce fino a diventare quasi un cadavere decomposto. Gli unici organi che restano funzionanti sono il cuore e il cervello. Il Dissennatore non ha coscienza né sentimenti, ma è comunque in grado di ragionare e dialogare, cosa che molti di loro sfruttano per formare alleanze coi maghi. Il Dissennatore si presenta come un umanoide scheletrico avvolto da un mantello. La sua pelle è appiccicosa e coperta di croste. Il volto è una maschera di pelle putrefatta tesa su orbite vuote. Non si conoscono fonti che attestino la provenienza dei Dissennatori, ma, trattandosi di esseri umani che hanno perso l'anima, è facile immaginare che siano il frutto di qualche Magia Oscura che li ha creati proprio sottraendo anime agli esseri umani. In un periodo imprecisato il Ministero della Magia, forse più per necessità che per volontà, decide di allearsi coi Dissennatori e affidare loro la custodia di Azkaban, la prigione dei maghi: in questo modo i Dissennatori hanno sempre a disposizione un nutrito numero di esseri umani di cui cibarsi e il Ministero riesce a controllare e impartire ordini a creature dai notevoli poteri quali sono i Dissennatori. Questo sodalizio, però, conosce un'incrinatura quando Voldemort, tornato al potere dopo tredici anni di assenza, inizia a reclutare queste creature, alle quali promette maggiore libertà di azione rispetto a quella offerta loro dal Ministero. L'alleanza con Voldemort diventa definitiva un anno dopo quando il suo ritorno diviene di dominio pubblico. Grazie a Voldemort, i Dissennatori diventano liberi di cacciare prede in tutto il paese. Grazie ai moltissimi baci somministrati il loro numero si accresce notevolmente nei due anni successivi, fino a quando, in seguito all'uccisione di Voldemort, i maghi non decidono di dar loro la caccia. Di sicuro, tuo padre ha contribuito, in questo. Possibile che non te ne abbia mai parlato?»
Albus, fino a quel momento muto, scosse la testa: «Se così fosse, me ne ricorderei!»
«Non importa. Ora è tutto chiaro?»
Albus assentì.
«Bene. Passiamo oltre, allora. “Lethifold” deriva da due radici: lethum, variazione di Letum, che in latino significa "morte", "annientamento", "rovina", e "fold", che in inglese significa "avvolgere", forse propria a significare l'aspetto e le modalità di caccia della creatura. Il Letalmanto, noto anche come Velo Vivente, è una creatura Oscura. Fortunatamente è molto rara e abita unicamente nei climi tropicali. Quindi, finché starai nelle Isole Britanniche, non dovresti avere problemi particolari con loro! Ok?»
Albus annuì, segnando giusto un paio di dettagli, timoroso di un nuovo rimprovero. Piton lanciò un’occhiata alla pergamena, che al ragazzo parve meno severa di prima.
«Assomiglia ad un mantello nero dello spessore di oltre un centimetro, più spesso se di recente ha ingoiato e digerito una vittima. Si muove scivolando lungo le superfici e si manifesta di notte. Aggredisce uomini ed animali addormentati e, come dicevamo poc’anzi, l’unica difesa che si è rivelata effettivamente efficace è invocare un incanto Patronus. Mi hai seguito?»
«Sissignore!»
Piton spiegava in modo fluente, con il suo modo di parlare secco,  pacato, a velocità costante, scandendo ogni parola. Era spesso inquietante quando si rivolgeva ai suoi studenti, ma era solo un modo per tenere costante la loro attenzione, sebbene fosse leggermente elettrizzante come metodo e decisamente poco adatto ai deboli di cuore. Ma tutto ciò contribuiva a sfruttare a pieno regime il tempo a disposizione: Albus non poteva chiedere di meglio e tra sé e sé si domandava come potesse essersi meritato tanto odio studentesco un insegnante che spiegava in modo così preciso e adatto alla comprensione.
Dal canto suo, Piton era un po’ stranito. Forse per la prima volta, aveva uno studente attento, senza bisogno dei suoi brutali richiami, dei suoi sguardi infuocati; nessun brusio di sottofondo, solo lo stridio regolare della piuma sulla pergamena e due occhi - verdi! - attenti e vispi, che lo scrutavano nella semioscurità, impazienti di conoscere qualcosa di nuovo.
«Bene così, allora. Torniamo all’argomento dal quale eravamo partiti. I Patroni evocati hanno la forma di un animale se evocati correttamente, se no si presentano sotto forma di una sottile nebbia argentea. Può anche essere evocato volutamente in forma non corporea. In genere, tuttavia, i migliori maghi ne evocano uno corporeo, che ha forma di animale comune che abbia, per quale motivo, una relazione con il mago stesso. I  maghi più straordinari sanno evocare invece un animale magico. Quello di Dumbledore, ad esempio, era una fenice.
Etimologia.  Expecto Patronum è una formula interamente derivata dal latino ma che cela interessanti particolarità. Patronum si traduce con l'italiano 'patrono' ma più correttamente con 'guardiano, protettore'. Queste due ultime accezioni chiariscono già in partenza il ruolo dell'incantesimo. In una forma arcaica del latino, patronus veniva adoperato anche per indicare, talvolta, il 'padre', interpretato come una figura che protegge i figli. Il termine Expecto deriva da exspecto o in forma più nota expecto, un verbo latino traducibile con "sono in cerca di", "mi aspetto...". Componendo le due traduzioni, Expecto Patronum diventerebbe, perciò "Aspetto un protettore”. Tutto chiaro, fin qui?»
«Sissignore, ma…»
«Ma - cosa, Potter?» domandò retorico, con un’espressione stizzita sul volto.
Albus si lasciò intimorire da quello sguardo truce, ma non demoralizzare: «Ma questa è solo teoria…»
Doveva aspettarselo. Un mago in grado di padroneggiare pozioni oscure non poteva lasciarsi incantare da belle parole, esposte con stile accademico e infarcito di qualche vocabolo forbito, come un babbano qualsiasi al primo giorno di scuola.
«Già. È solo teoria. Il difficile è realizzarlo. Realizzarne uno corporeo. Non tutti i maghi vi riescono.»
Albus era rimasto assorto, quasi sognante. Pensieroso. In silenzio. Per un momento chiuse le palpebre, sottraendo alla vista dello spirito quello splendente smeraldo che racchiudevano. Poi li riaprì. Ma continuava a tacere.
Lo avrebbe fatto, se glielo avesse chiesto. Ma doveva chiederlo, toccava al ragazzo fare quello sforzo. Lui l’avrebbe esaudito, non avrebbe potuto dirgli di no. Non ne sarebbe stato in grado: ne era certo, pur non sapendosi spiegare il motivo. Ma non poteva prendere lui l’iniziativa: il ragazzo doveva volerlo veramente, abbastanza da esprimere la sua richiesta e mettere da parte ogni timore reverenziale nei suoi confronti!
Lo guardò, fisso. Il ragazzo era intimorito, era chiaro. Ma voleva sapere, voleva imparare: aveva, anzi, una brama di conoscenza quasi innaturale per la sua età. Soprattutto perché il suo stile di apprendimento non era mai nozionistico, ma sempre ragionato, consapevole, profondo.
Finalmente, lo vide avvicinarglisi. Si mordeva nervosamente le labbra, con gesto infantile e alzò leggermente la mano, quasi fosse in un’aula scolastica vera e proprio.
«Potrei chiederLe un favore? Potrebbe insegnarlo anche a me, il Patronus?».  
«Hai appena dodici anni. Neppure tuo padre, che era il Prescelto e l'ha imparato molto giovane, lo sapeva fare alla tua età. Alla fine, a che ti serve?» lo interrogò Piton, per accertarsi delle sue intenzioni e metterlo alla prova.
«Non lo saprà nessuno che io lo so. Voglio solo... Essere pronto, qualunque cosa accada!» rispose, con un lampo negli occhi.
Era strano vedere quella determinazione in un mago così giovane, per giunta in periodo di pace.
«Ma io... Intendo pagare, naturalmente!» aggiunse subito, tirando fuori 100 galeoni dalla tasca e porgendoglieli.
Piton scoppiò in una grassa, fragorosa risata:
«Dov'è finita tutta la tua intelligenza? Che cosa credi possa farsene un fantasma, dei soldi? A che gli servono?»
Albus arrossì vistosamente fino alla punta delle orecchie: come aveva fatto a non pensarci prima?
«Ma io... Volevo ripagare, in qualche modo, il favore!» si giustificò infine.
«Ricordi che ti dissi? Non sempre si può capire tutto. Dev'esserci un motivo se un giovane ed inesperto Serpeverde, senza dubbio dotato di ottima predisposizione per le pozioni ed assistito da una mente brillante, ma senz'altro anche aiutato da una massiccia e sfacciata dose di fortuna , è riuscito a preparare una pozione oscura, senza l'aiuto di alcun insegnante di Hogwarts. Troverai il modo di restituirmi il favore, in un modo o nell'altro, ne sono certo!»
Senza farselo dire, Albus si alzò in piedi, bacchetta alla mano e prese posizione. Poi un dubbio lo assalì: «Non dovrei avere… un avversario?»
«Teoricamente sì… volendo, potrei essere io il tuo avversario. Ma in realtà… non è così fondamentale, per esercitarti. È molto più importante la parte preliminare, in questi casi. Prima ancora di soffermarci sulle modalità di esecuzione, devi sceglierti un ricordo. e potente. Quindi, sceglilo con cura»
Albus stette un momento in silenzio, poi domandò: «Sono un po’ indeciso. Potrebbe portarmi ad esempio il suo, così che io riesca a valutare meglio qual è la forza di quello che pensavo»
Piton indietreggiò. Se non fosse stato un fantasma, si sarebbe potuto dire che era impallidito. Non poteva sbottare contro di lui: era evidente che non voleva essere invadente, lo chiedeva solo per motivi didattici. Tuttavia, stavolta non riuscì a cedere. Con calma, ritornò davanti a lui e propose: «No. Piuttosto, dimmi che hai pensato e io ti aiuterò a scegliere!»
Vide il ragazzo indietreggiare.
«Non vuoi lasciarti aiutare!» lo rimproverò Piton, facendo volteggiare, indignato, un lembo del mantello.
«Prima vediamo come si deve fare…» azzardò Albus
«Con la bacchetta non devi fare molto. Appunto perché il Patronus fa al tuo posto. Devi solo puntarla in alto, impugnarla in modo deciso e pronunciare con chiarezza l’incantesimo. La sua forza risiede qui» disse, indicando infine la fronte.
Albus si concentrò, si portò in posizione e proclamò: «Expecto… Patronum!» con la voce rotta dall’emozione e il volto trasfigurato dalla preoccupazione.
«No, no, no… Potter!» esclamò, alterato
Il volto di Albus divenne come di pietra: frastornato, deluso, scornato, sprofondò i suoi occhi in quelli del fantasma, anelando, come chi affoga, la spiegazione di ciò che aveva sbagliato.
«Albus» disse con estrema lentezza, quasi a riempirsene la bocca, mentre i ricordi di quell’altro Albus gli riempivano la mente.
«Sapevi che era impegnativo. Non ti poteva riuscire al primo colpo!» lo ammonì, cercando tuttavia di non demoralizzare i suoi sforzi, avendo notato che l’impegno profuso era stato massimo. Non avrebbe potuto chiedergli di più.
Poi si avvicinò. Non era facile spiegare gli errori di un incantesimo ad uno studente, quando non è possibile toccarlo e persino trapassarlo non gli causa che una lieve… brezza. Ma l’uomo e il ragazzo erano entrambi di tenacia collaudata e questo non poteva che essere un dettaglio di secondaria importanza.
«Polso morbido, impugnatura salda. Il polso è una parte del tuo corpo, le tue dita un’altra: non sei un burattino, coordina i movimenti! » ordinò, sfiorandolo appena con la bacchetta, per guidarlo nella migliore posizione. «E poi… voce ferma e convinzione profonda. Questo fa la differenza, nell’esecuzione!»
Albus si concentrò. Due piccole rughe solcarono la sua fronte spaziosa.
«Expecto… expecto Patronum!» proclamò. La voce era più convinta, lasciava trasparire una maggiore determinazione e una fiducia nelle proprie forze accresciuta. Ogni tanto, i rimproveri brutali di Piton lo facevano rabbrividire, ma stava imparando a non lasciarsi sopraffare dalla paura ed estrapolare ogni prezioso suggerimento che, con generosità, il suo docente personale largiva a piene mani, a fruizione del suo giovane discepolo.
Una scintilla appena, un pulviscolo grigio come uno stoppino che si spegne fuoriuscì appena dalla bacchetta, quasi impercettibile.
«Ok, piccolo miglioramento. Difficile da percepire, ma presente. L’eleganza potrà essere acquisita unicamente con la pratica assidua, naturalmente. Ma… temo sia il caso che tu mi riveli quale ricordo tu abbia scelto. Potrebbe essere scarso»
«La prima volta che ho preso una E in Pozioni…» sbiancò.
«Veramente?» commentò, un po’ incredulo «Per questo ti dicevo che eri molto giovane. I ricordi tra cui scegliere sono meno, posso capirlo. Con gli anni sicuramente potrai attingere a qualcosa di più forte. Niente (pausa) di meglio?»
«Una cosa ci sarebbe. Non è proprio bello. Né brutto. È molto… ricco, ambizioso. Ma privato!» spiegò.
Piton si accorse che aveva immediatamente chiuso la sua mente. Avrebbe potuto entrarvi con la forza. Sapeva che ci sarebbe riuscito.
Non lo fece. «Riprova nuovamente, allora! Non ho tempo da perdere!» lo incitò invece, aspro.
Il ragazzo respirò, riprese la posizione, controllò il polso con la maggiore elasticità che gli riuscì, strinse le dita ossute attorno alla bacchetta ed enunciò, con la maggior determinazione che gli fu possibile: «Expecto Patronum!»
Nella foga, inciampò e cadde a terra. Non ci fu nulla di eclatante. Nessuna fenice né altri animali. Ma qualcosa accadde, questa volta. Una lieve nebbiolina azzurra si levò dalla punta della bacchetta, si sollevò di pochi millimetri, tentò faticosamente di espandersi, di ingrossarsi… salvo poi, al contrario, restringersi miseramente e tornare donde era venuta.
Lo smacco fu grande, per Albus.
Piton vide il volto del ragazzo cambiare espressione. La stizza arrivò per prima, ad aggrottargli le folte sopracciglia; subito s’inserì lo sconforto, che si affacciò ad inumidirgli gli occhi; in breve, non tardò a presentarsi la delusione, che lo fece ingrigire e nascondere il volto tra le ginocchia. Piton si aspettava ora di vederlo accogliere la rassegnazione, con ineluttabilità. Ma si sbagliò. Il ragazzo alzò il suo sguardo smeraldino verso il fantasma e, con un lampo di tenacia, chiese: «Lo faccia Lei, per favore! Mi faccia vedere il movimento, il gesto; mi faccia ascoltare il tono della voce. E io osserverò, ascolterò, imparerò e perfezionerò!»
Piton rimase per un attimo inerte. Non era sicuro che fosse ancora capace di usare la bacchetta, non sapeva se fosse possibile da fantasma. E quello non era certo l’incantesimo più semplice da realizzare!
Il ragazzo era rimasto fermo, muto. Ma continuava la sua supplica con quello sguardo volitivo e tenace, che non aveva ancora abbassato.
«Expecto Patronum!» pronunciò con chiarezza, determinazione e… speranza. Sì, speranza, perché ormai lui era un fantasma e che l’incantesimo gli riuscisse non era un particolare così importante.
Ma quel ragazzo aveva bisogno di imparare e trovare conferme. Aveva il diritto di vederne uno.
Dalla punta della bacchetta iniziò a formarsi una nebbiolina argentea, si espanse nell’aria tetra e prese forma, fino a che un’inconfondibile cerva dai contorni azzurro - argentei iniziò a correre, saltare da una parete all’altra, sfiorando Albus , salendo in alto e discendendo in picchiata: incorporeo come Piton, capace di andare oltre la morte come lui.

Il sorriso del ragazzo si accese, illuminandogli tutto il viso: sulle fossette smunte, s’innalzarono due gote tonde, in cui iniziarono a roteare, come palloncini di compleanno, delle impalpabili lentiggini.
«È… bellissima!» commentò Albus, senza fiato, tirandosi velocemente in piedi ad osservarla meglio ed applaudendo, con entusiasmo, lasciandosi sfuggire un estasiato - e sincero! -: «Lei è davvero… un insegnante formidabile!», che strappò un impercettibile allo spettro.
Piton si soffermò a guardare i suoi capelli scompigliati, madidi di sudore, il volto stanco, il corpo debilitato. La fatica o l’impegno non lo spaventavano, perché la sua richiesta era stata effettuata con tutta la tenacia della sua determinazione.
Piton annuì: «Nessun buon insegnante potrebbe mai cavare nulla, se avesse allievi pigri ed indolenti!»
Era indiretto, naturalmente, ma si trattava pur sempre di un complimento, indirizzato al giovane Potter. E quello, intelligente ed astuto, non aveva potuto fare a meno di coglierlo, portandosi la bacchetta a sfiorare la frangetta che gli copriva la fronte, a mo’ di saluto militare.
Solo allora si accorse di quanto fosse enormemente provato. Pallido, smunto, con la pelle tesa e le gote, unica parte del corpo dotata di colore, rimastegli violacee per lo sforzo.  
«Sono un fantasma, non ho cioccolato… » disse, a mo’ di scusa.
Albus capì: «Ce l’ho io». E aprì la cartella, tirando fuori una barretta di cioccolato e sporcandosi infantilmente tutto il viso, una volta addentatola. Piton gli scoccò un’occhiata di rimprovero e il bambino si ripulì allora, maldestramente, con una manica della divisa, ottenendo il risultato di rimediare un’altra occhiataccia, peggiore della prima, di fronte alla quale le sue gote avvamparono di sincera vergogna.
Stava rimettendosi calze e scarpe, quando domandò, tutt’a un tratto: «Se… tornassero tempi oscuri, starà dalla mia parte, vero?»
Non aveva specificato quale sarebbe stata la sua, di parte, quell’astuto ragazzino. Ma Piton non ebbe tentennamenti e «Sempre!» garantì, assentendo, lentamente e solennemente, col capo.
Il ragazzo sorrise, esclamando, con l’entusiasmo alle stelle, mentre la voce s’incrinava appena, per un tocco di commozione: «Grazie, grazie mille!».
Piton chiuse gli occhi, ascoltando i passi veloci del ragazzo allontanarsi, per condurlo al castello entro l’ora di cena.
Aveva trascorso tutt’una vita costantemente in pericolo e l’unico grazie che ricordi gli venne da Silente, quando gli chiese il favore di ucciderlo. Un favore da niente, no? Aveva rischiato la vita migliaia di volte, rimanendo nell’ombra; aveva sempre avuto l’agenda più piena di ogni altro mago; ogni suo pensiero, ogni sua azione, ogni sua parola, in qualunque momento della sua vita , avrebbero potuto essere gli ultimi, se solo fossero venuti all’orecchio dell’Oscuro Signore. In una parola, aveva vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo, a partire da quel maledetto Halloween del 1981.
Riassaporò con cura quelle parole, ogni singola sillaba, spazi di silenzio compresi. Era come se quel ragazzo lo ripagasse, in quell’esatto momento, della gratitudine che avrebbe disperatamente voluto ricevere in vita; nonostante fosse perfettamente consapevole di non averne alcun diritto, a meno che volesse mandare a monte tutta la copertura e tutta la propria.
Ma, per la barba di Merlino, per quanto fosse un mago potente, un occlumante, un Mangiamorte e tutto il resto… era comunque un uomo e un moto di riconoscenza esplicito, ogni tanto,non poteva negare che gli facesse piacere!

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Capitolo 4
*** Un adolescente tenace ***


UN ADOLESCENTE TENACE
Il sole brillava alto nel cielo, mentre, nella grotta, permaneva una semioscurità, nonostante i raggi del sole s’infiltrassero da alcune fenditure nella roccia.
«Professore, meglio sospendere per un po’ il Patronus… l’altro giorno ero talmente stanco che non ho sentito la sveglia, sono arrivato tardi a lezione di Erbologia, sono finito in punizione e.. beh, è per questo che non sono riuscito a venire, nei giorni scorsi!» prese la parola Al; e concluse con un sorriso, in cerca di comprensione. Senza stare a specificare quale fosse stata la punizione, né a cercare di sminuire l’autorità di chi gliel’avesse inflitta.
Il fantasma parve non far caso alle sue parole, ma, in cuor suo pensò a suo padre che finiva sempre in punizione, a se stesso che vi capitava di rado, e ai malandrini, che non mancavano occasione per finirvi. Forse gli avrebbe dovuto delle scuse; forse, essendo lui un insegnante, avrebbe dovuto farlo smettere prima. In un certo senso, era stata sua la colpa di quelle punizioni. Guardò il sorriso sul volto del ragazzo, neppure lontanamente attraversato dalla rabbia: non c’era bisogno di alcuna scusa, visto che poteva invece rendersi utile in altro modo, fu il pensiero che convinse Severus a tentare altre strade, nel terreno fertile che lo fronteggiava con un sorriso volitivo ed uno sguardo smeraldino desideroso di nuove sfide.
«Se non sbaglio, qualcuno è bravo in Pozioni. Vuoi progredire anche in quel ramo? » lo tentò lo spirito.
Albus arrossì. Come se non fosse stato già intenzionato a chiederglielo! In realtà era parecchio tempo che ci stava pensando. ma era particolarmente gratificato dal sentirselo chiedere.
«Oh, certo, l’avrei chiesto!» e iniziò a cavare fuori dalla cartella, ai propri piedi, un vecchio libro, consunto e bruciacchiato, insieme con un quaderno scritto fitto fitto, con la sua scrittura precisa ed appuntita, fin quasi all’ultima pagina «È che… ho finito solo ieri notte questo lavoro!» annunciò, con un certo orgoglio negli occhi.
E Piton s’immaginò il ragazzo, nei dormitori Serpeverde (o in Sala Comune?), mentre, nel silenzio spettrale dei sotterranei, al lume d’una candela, si metteva a vergare, come un contadino arava la terra, lettere, parole, segni di punteggiatura ed annotazioni, con perizia da esperto cultore della materia.
«L’ho trovato una volta che mi ero perso…» confessò «Ero rimasto indietro rispetto ai miei compagni, che rientravano in dormitorio e lo vidi, vicino ad una vecchia armatura. Era terribilmente rovinato e mi domandavo quanto avrebbe potuto resistere ancora. Per quello, decisi innanzitutto di ricopiarlo integralmente, perché le preziose integrazioni non andassero perdute, ma potessero essere tramandate ai futuri allievi di Hogwarts. Così come quegli incantesimi potenti….»
«Hai letto anche quello?» s’informo subito il professore.«Quali hai già usato?» s’informò subito, preoccupato al ricordo di come quel babbeo di Harry Potter, al sesto anno, avesse rischiato di uccidere Draco Malfoy usando un suo incantesimo, delle cui potenzialità era all’oscuro.
«Alcuni… dopo che due studenti del mio anno si erano rincorsi con i coltelli d’argento per le pozioni, rischiando di farsi male, la Mc Gonagall ha imposto l’assoluto divieto, fino al quarto anno, di usare coltelli al di là della sorveglianza dell’insegnante. Siccome volevo cimentarmi con la Mors Aparentis, ho fatto il Sectum Sempra per le gocce di sangue di pipistrello che mi servano. Oh, poi, naturalmente, l’ho richiuso con l’incantesimo di guarigione che era scritto qualche pagina dopo… perché ucciderlo, quando servivano solo 3 gocce del suo sangue? Sarebbe stato uno spreco! Sono così belli, i pipistrelli!»

Piton poté tirare un sospiro di sollievo. Questo giovane mago un po’ di sale in zucca l’aveva, a quanto pareva. Poi confessò, a sua volta, al giovane allievo: «Il sesto anno di tuo padre è stato davvero impegnativo, per me, da questo punto di vista. Oltre a lui, ho dovuto fare da balia anche a Draco, che non era certo più collaborativo di tuo padre. Senza contare, poi, degli incontri con l’Ordine della Fenice e con i Mangiamorte. Avevo un’agenda veramente stressante. Non posso negare che il sospetto che, alla morte di Albus, si è impadronito degli alleati, sia stato positivo per l’alleggerimento della mia agenda!»
«Solo, da questo punto di vista, naturalmente!» aggiunse poi, a voce più bassa, incrinata dall’emozione, mentre un velo di tristezza calava sui suoi occhi scuri.
«Io lo so perché.. ha potuto farlo, anche se non lo odiava» disse piano il ragazzo, in quel momento. quasi parlasse a se stesso, quasi non avesse davanti a sé il temibile professor Piton, il Pipistrello dei sotterranei, il terrore di tutti gli studenti di Hogwarts.
«L’ha guardato negli occhi. Silente aveva paura di Bella e Greyback. Draco non si decideva. Lei gliel’ha letto negli occhi: se morte doveva essere, che fosse rapida. L’ ha supplicata con uno sguardo. Lei ha voluto veramente ucciderlo, con tutto il cuore. Non per l’azione in sé, ma perché lo voleva lui. È come quando uno desidera la felicità per un altro. Allora è felice, anche se è triste, perché la felicità dell’altro è quello che uno desidera con tutto il cuore. Anche a costo della propria. È così, vero?»
Piton rimase in silenzio. Era una domanda a cui non era riuscito ancora a trovare del tutto una risposta, nemmeno lui. No, lui non voleva ucciderlo. Però gliel’aveva chiesto il diretto interessato. A cui aveva giurato fedeltà. Con una serietà ancora maggiore di quella con cui aveva accettato di sottoscrivere, qualche mese prima dell’assassinio, il voto infrangibile con Narcissa. Albus Silente era forse l’uomo a cui doveva di più in assoluto. E Silente, in quel momento, era un uomo votato alla morte. Ai condannati a morte si concedeva sempre un ultimo desiderio, persino a quelli della peggior sorte. E lui era legato al Preside. Tuttavia, egli stesso, in quel momento, aveva provato l’estremo terrore che, quella volta, avrebbe potuto fallire la maledizione senza perdono. Fare cilecca… mandando all’aria anche il piano suicida di Silente, che, proprio su quello, faceva affidamento. Un piano suicida, ma anche l’unico a loro disposizione, in quel momento.
«Albus Silente era un grande mago, un grande stratega. Non posso negarlo. L’unico difetto dei suoi piani era che erano, per la maggior parte, terribilmente rischiosi, al limite del suicidio» disse soltanto, dopo un lungo momento di silenzio. Non aveva risposto alla domanda del ragazzo; era come se avesse concluso un proprio pensiero ad alta voce. Non aveva pensato che la sua famiglia era tutta rosso-oro: si sarebbe potuto offendere, per una critica all’osannato Grifondoro. Poco gli importava: nel caso in cui il ragazzo fosse stato tanto suscettibile, ormai, il danno era fatto!
Albus era seduto a terra, con un pezzo di pietra tra le mani, a disegnare, apparentemente distratto. Parve comprendere il motivo della mancata risposta alla propria domanda, perché non insistette, né la reclamò. Ne accettò la mancanza, così come avrebbe accettato il suo arrivo.
Alzò gli occhi verso di lui solo quando fu sicuro che avesse finito di parlare: «Parlano dei Grifoni come coraggiosi, ma a volte ho il dubbio che confondano il coraggio con l’avventatezza. Farsi uccidere non è l’unico modo per combattere, no? Professore, non ho una visione distorta di Silente e, anche se potrà stupirLa, neppure mio padre. Quando era quasi - morto, il vegliardo gli rivelò alcune cose, non proprio onorevoli, sul proprio conto. Non ho capito bene in che modo… ma credo sia accaduto davvero!»
«Anche perché si sbagliò su un punto molto importante. Non c’era bisogno che mio padre morisse, per uccidere l’Horcrux. Bastava che lui fosse disposto a sacrificarsi. Altrimenti… io non sarei nato!» aggiunse Al, con un sorriso.
«Oh, ma ce ne saremmo fatti una ragione, Albus!» non riuscì a trattenersi dal commentare, sarcastico, Piton. Che però si accorse di come il pronunciare quel nome fosse ancora terribilmente strano, alle proprie orecchie, tanto lo riempiva di commozione e, al contempo, disappunto, per avergli dovuto obbedire contro la propria volontà.
Albus arricciò il labbro e la punta del naso, con un moto di dispetto, ma non ebbe altre reazioni che ne scomponessero il portamento abitualmente elegante.
Mentre il fantasma si ritrovava a pensare su quanto le famiglie influenzassero, nel bene e nel male, la formazione delle giovani menti e quanto potesse essere difficile, per il ragazzo, seguire logica e obiettività, in certe considerazioni, Albus si era tirato in piedi, aveva srotolato una pergamena e aveva iniziato a spiegare, con allegria: «Ho fatto una lista, di ciò che non ho capito molto bene… o che non mi riesce bene. Vuole sentirla?» e, prima ancora di aspettare risposta, iniziò a prendere da una tasca dei pantaloni, una pergamena piegata in quattro, un po’ ingiallita e stropicciata. Piton si insospettì e, invece di rispondere alla domanda del ragazzo, lo interrogò:
«Cos’è quella? Non sarà mica…» e s’interruppe, ricordando la concitata notte in cui aveva rivisto Sirius dopo tanti anni, quella in cui aveva scoperto Harry gironzolare per il castello con la Mappa del Malandrino.
«Oh, nossignore!» sorrise Albus «Non è la mappa del malandrino! Quella ce l’ha James, non io», poi aggiunse, rassegnato «Le cose migliori vanno sempre ai primogeniti!»
Piton si lasciò andare ad un lieve sorriso, rilassandosi come gli era capitato di rado, nell'intera sua vita.
Si rigirò la pergamena tra le mani, la spiegò, gliela mostrò, allungando le braccia magre e poi, puntandole contro la bacchetta: «Rivela il tuo segreto!»
La pergamena si illuminò per un momento, evidenziando la trama con cui era realizzata, ma non comparve alcuna scritta, di nessun genere. Era una pergamena intonsa.
Quindi commentò: «Visto? Non c’è proprio nulla… è solo per prendere appunti! Capisco che possa sembrare strano, per un Potter!» concluse con un sospiro, come se i suoi più stretti parenti gli avessero, irrimediabilmente, rovinato la reputazione di persona leale ed affidabile nei confronti degli insegnanti.
Invece, il ragazzo si fidava di lui. Completamente. “Come Silente” fu il pensiero che gli sfiorò le labbra, livide. Fu un momento.
Si riscosse e gli chiese, senza mezzi termini: «Cosa.. non sai?»
«Occhiopallato…. Morte vivente… Antilupo..» iniziò l’enumerazione Al.
«Sono tutte pozioni… molto avanzate!» commentò «Pozioni più semplici, tipo…la Scordarella?»
«Una volta la preparai per mia madre… per evitare che ci mandasse tutti e tre a letto senza cena!»
«Eh? che avevate combinato?»
«Oh… James voleva recuperare la Ricordella di Hugo, che aveva dimenticato al Ministero, nel giorno della “giornata dei nonni”. Allora, abbiamo preso la vecchia Ford Anglia dei Weasley, ma ci siamo dimenticati di schiacciare il bottone dell’invisibilità e… »
«James a parte, tu che hai fatto?» lo interruppe allora il professore
«Aperto un ufficio con il ministero con un Alohomora per recuperare la Ricordella di Hugo e… preparare la Scordarella, poi!»
«Voi Potter siete un’associazione a delinquere!»
Albus arrossì. In effetti, nonostante le loro differenze di gusti e di vedute, non poteva negare che erano una bella squadra e che si divertiva, con i suoi fratelli.
«Comunque» riprese « sono tante e complesse… quelle dell’elenco!» Sovrastandolo con un veloce e sinuoso movimento e leggendo i nomi da dietro le sue spalle, sull’elenco che aveva stilato.
«Oh, be’… non è che proprio non mi riescano… ma alcune non sono belle come dovrebbero. Il colore non corrisponde, la densità… e credo che questo vada a peggiorarne l’efficacia, giusto?»
Non era un ragazzo studioso. Era appassionato.
«Hai la pergamena, vero? Penna? E quaderno?»
Il ragazzo annuì.
«La strada che conduce alla padronanza piena, completa ed assoluta dell’antica e nobile arte delle pozioni non è mai semplice, ma costellata di fatica, sudore, concentrazione. Assoluti.» Iniziò a declamare Piton, concentrato e compreso nel suo ruolo di mentore del suo giovane discepolo.
Aveva gli occhi del ragazzo incollati addosso, avidi di conoscenza come mosche alla vista del miele. Come qualche anno fa, nell’umida e malsana aula di pozioni di Hogwarts.
«Bene. Cominciamo!» proclamò Piton. E il ragazzo iniziò a lavorare, con il quaderno di appunti ricopiati dal libro del Principe Mezzosangue, una piuma e una pergamena appoggiati sopra un tavolo di fortuna che era riuscito a fabbricarsi da solo: si affaccendava, compito e diligente, al calderone, lasciandosi guidare, di tanto in tanto, dai suggerimenti sibilati dal professore, alle sue spalle, che ne correggevano e miglioravano i movimenti, il tempismo, la velocità, la precisione, fino a raggiungere, in ogni pozione eseguita, risultati che gli erano sempre stati, fino a quel momento, preclusi.
E se qualcuno fosse passato, in quel pomeriggio di primavera, con il sole velato da qualche nube passeggera, nei pressi della Foresta Proibita, in una caverna umida e poco illuminata, avrebbe potuto vedere, sul volto del famoso pozionista, uno tra i migliori dei suoi rari sorrisi.
***

Quella lezione non fu la prima e non fu l’ultima. Né il fantasma si prodigò in quegli incontri soltanto nel perfezionamento della preparazione delle pozioni.
Pur non avvisando mai se venisse oppure no (non sapendo come!), Albus si presentava quasi tutti i pomeriggi. Spesso arrivava di corsa; talvolta, invece, a passo lento, immerso nei propri pensieri; qualche altra volta, con lo sguardo sognante, raccontava subito di qualche strana scoperta o di qualche dubbio o perplessità che lo attanagliavano. Solo quando gli fu richiesto, il ragazzo confessò che in classe, di fronte ai compagni e ai professori, si sentiva in imbarazzo a fare troppe domande; qui sapeva di poter apprendere tutto ciò che gli premesse di più, senza che a qualcuno le proprie domande risultassero motivo d’ilarità.
Insieme prepararono le lezioni, stesero temi e saggi richiesti. Con la medesima severità ed il medesimo rigore che lo avevano caratterizzato da vivo, Piton lo correggeva, implacabile, imperturbabile, incurante dell’età estremamente acerba del ragazzo. Ma questi sembrava non curarsene, né risentirsene, se non sul momento. Entrambi puntavano, imperterriti, alla perfezione, che non accetta la possibilità di alcun errore ed esige il massimo da chiunque ne percorra la via.
Più volte, Piton pensò di aver esagerato con le proprie richieste, i propri rimproveri, le proprie correzioni. Eppure, ogni volta, il ragazzo, pur potendo scegliere di non farlo, tornava. Si rimetteva a sedere, apriva libri, quaderni, spiegava pergamene, intingeva piume nell’inchiostro. Niente sembrava fiaccarne la volontà e la determinazione.
Tutto ciò nonostante - lo aveva scoperto con un ferocemente veloce assalto di legillimanzia - in classe non fosse così: per quanto l’intelligenza non gli mancasse e lo studio fosse in ogni materia alla sua portata, spesso gli insegnanti lo vedevano svogliato o poco partecipe alle lezioni.
Forse erano proprio quei pomeriggi a stancarlo troppo, compromettendone l’attenzione in classe? Ma non ce l’aveva costretto nessuno, a venire! Era solo una conseguenza, l’impegno necessario: lui aveva esaudito le richieste dell’adolescente, ma era evidente che, a quel punto, da parte del ragazzo esigesse attenzione e concentrazione massime!
Però, d’altro canto, in effetti…possibile che un ragazzo di dodici anni preferisse passare i propri pomeriggi primaverili in un’umida e malsana grotta, in compagnia dello scorbutico fantasma di un professore morto più di vent’anni fa, piuttosto che giocare con i propri amici? A loro cos’avrebbe potuto raccontare, per giustificare le sue prolungate ore di assenza? A nessuno di loro aveva raccontato d’essere riuscito in una tra le pozioni più complesse che esistano? Forse, non aveva amici? Era un impenitente secchione, disprezzato ed evitato come la peste per eccesso di studio? E poi…possibile che nessuno (neppure tra gli insegnanti!) sapesse, dopo diversi mesi ormai, che un ragazzo del secondo anno aveva acquistato un secondo calderone in peltro, alcuni becker e delle fiale e che, con tutto questo materiale, si esercitava quasi ogni pomeriggio, invece di studiare insieme con gli altri allievi della scuola?
Era strano, tutto questo. Finalmente, un pomeriggio, lo spettro ruppe il silenzio al riguardo.
«Perché non hai invitato alcun amico, qui? Forse perché non ne hai?» chiese, all’improvviso, Piton, durante uno di quei pomeriggi trascorsi insieme
«Nossignore. Ne ho. Ma nessun amico è abbastanza fidato per queste cose, secondo me. Sono cose oscure. Secondo me, non c’è nulla di male. Ma resta il fatto che non sono insegnamento scolastico e preferisco non correre rischi. Anche perché… ricordo che quando mio padre insistette per inserire il quadro che La raffigura in presidenza, tanti storsero il naso. Non capisco neppure io il perché, ma, in generale, per molte persone Lei è una figura controversa. I miei amici li vedo a lezione, a cena, dopo cena e in dormitorio. Ho tutto il tempo!» spiegò; poi ribatté, fulmineo, rischiando consapevolmente di poter essere considerato un insolente: «Lei, invece? Perché rimane qui, tutto solo? Per aspettarmi? O perché non Le è possibile lasciare questo posto? È una regola legata alla condizione di fantasma?»
Che cosa avrebbe dovuto dire? Confessare che l’ipotesi di tornare ad Hogwarts in mezzo a una mandria scalpitante e scalcinata di mocciosi ragazzini non lo allettava? Rivelare la sua vergogna di doversi manifestare al castello, come un fantasma qualunque e non come il Preside, facendo sorgere la malsana idea che avesse paura della morte? Fosse l’ultima cosa che avesse fatto… no, non avrebbe permesso mai più - mai! - che qualcuno osasse di nuovo chiamarlo CODARDO.
«Sto bene qui!» bofonchiò.
Ed Albus, poco convinto della risposta ricevuta, provò a leggergli la mente, che però trovò chiusa e non riuscì in alcun modo a forzare, guadagnandosi un’occhiataccia del professore.

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Capitolo 5
*** Arrivederci, Professore! ***


ARRIVEDERCI, PROFESSORE!

«Professore» iniziò Albus, in un raro momento di pausa, in quella grotta che lo vedeva così ardentemente impegnato a migliorarsi «mi domandavo, spesso, una cosa. Il Cappello Parlante… la Bacchetta… le proprie predisposizioni personali… è come se ci fossero tanti indizi. Qualcuno sa quali maghi prenderanno una brutta strada oppure no, prima che la prendano? Si può capire? Ci sono dei… segnali?»
«Perché me lo domandi? Ti… riguarda?» domandò Piton, circospetto.
Al annuì, con gravità: «È difficile essere diversi. È come avere… dubbi in più. Io ne ho tanti!»
«Cosa ti disse Ollivander?»
«Ecco… non so se positivamente o negativamente, ma fu colpito. Bacchetta di tiglio argentato, 11 pollici e mezzo, ragionevolmente flessibile, cuore di piuma di fenice. Vuole vederla?» disse il ragazzo, allungandogli la propria bacchetta, affinché la esaminasse.
«C’era anche tuo padre?»
«Sì. Era… strano. Ma non ha detto nulla.»
«Albus, il tiglio argentato è caratteristico di tutti gli Occlumanti e, sebbene Silente la padroneggiasse in modo egregio, in generale è una dote considerata oscura e dunque malvista da molti maghi. Al contrario, la fenice era l’animale di Silente, oltre che il suo Patronus: sono le più difficili da dominare e personalizzare e le più potenti. Tuo padre e Voldemort ne ebbero una con cuore di piume di fenice. Si tratta senza dubbio di una bacchetta… impegnativa!»
«Intende dire… pericolosa?» domandò, con un lampo di terrore che gli attraversò le iridi smeraldine.
«Non ci sono bacchette pericolose. Né incantesimi pericolosi. Ci sono solo maghi capaci di fare grandi cose nel bene e nel male, e maghi capaci di fare cose mediocri, nel bene e nel male. La vera differenza è chi usa la bacchetta!» precisò l’occlumante.
«E in nessun modo si può sapere…» insistette Al, a cui pareva premere molto questo. Ogni tanto, si sentiva proprio come se fosse preso tra due fuochi: da una parte, il sacro fuoco della conoscenza gli lambiva le meningi e lo solleticava proprio in direzione dell'occlumanzia e delle pozioni più oscure; dall'altra, voleva quasi allontanarsene, ogni volta che vedeva i suoi parenti inorridire di fronte alla sua curiosità, quasi fosse essa stessa malvagia e capace di condurlo sulla via della perdizione. Sospirò tra sé e sé, quasi dimentico della presenza dello spettro, e attese la risposta dell’altro.
«La strada dell’ambizione è lastricata di ogni sorta di possibilità, compresa quella che porta allo spalancarsi della Porta delle Arti Oscure, che, altro non è che la ricerca del Potere Assoluto e, in ultima analisi, della sconfitta del più grande nemico di ogni tiranno, che decreta la fine di ogni potere attribuibile ad un mago. Sto parlando della morte. Aver ragione della morte equivale a non poter temere l’assalto di nessun nemico. Per questo, Voldemort creò gli Horcrux, per allontanarla. Per questo, Flamel ideò la pietra filosofale. Ma se hanno fallito nel raggiungere lo scopo migliaia di grandi maghi prima di te o la tua mente ha poteri sconfinati, oppure, forse, dovresti puntare ad altri obiettivi…» asserì, con logica stringente.
Albus rimase pensieroso. Erano discorsi impegnativi. E, come spesso faceva quando voleva serbare qualcosa dentro di sé, per riprenderlo solo più tardi, quando sarebbe stato pronto ad affrontarlo, cambiò totalmente argomento e commentò: «Sa, professore, deve significare qualcosa la sua scomparsa dal quadro… gli insegnanti non sono un granché, soprattutto quello di difesa delle Arti Oscure. E la Preside sembra non avere più il piglio di una volta. Così, d’improvviso. È molto strano, no?» sospirò «Sembra quasi che, senza di Lei, manchi… l’equilibrio giusto»
Piton ristette, pensieroso. Aveva vissuto quasi l’intera sua vita, al castello. Non era così strano quello che asseriva il ragazzo. Lui era legato al Castello… perché non potrebbe il Castello esserlo a lui?

«Professore, il libro del Principe Mezzosangue, cioè… Lei… magari vorrebbe che io lo rimetta dove Lei ora riposa, essendo una sua proprietà» domandò all’improvviso Al, un po’ incerto.
Piton si avvide di quegli occhi che avevano un un sentore di commozione, come se stesse per piangere da un momento all’altro e la voce, che si era fatta vibrante, tradiva la possibilità che il ragazzo stesse celando qualcosa. Così, senza troppi giri di parole, gli si rivolse di petto, da ectoplasma a giovane mago.
«Perché vorresti tenerlo?» chiese Piton, asciutto, senz’alcuna particolare intonazione nella voce.
“Come ha fatto a…” stava per chiedergli il ragazzo, ma poi si bloccò, le parole parole a fiori di labbra e la bocca spalancata in un’espressione di cocente sorpresa. Forse era la sua ottima legillimanzia, oppure semplicemente la conoscenza che ormai aveva sviluppato nei suoi confronti, ma la realtà è che aveva colpito nel segno, leggendolo come un  libro aperto. Non poté fare a meno di diventare tutto rosso, tuttavia si sentì in dovere di rispondere con sincerità al fantasma: «È solo che… mi piace poter riconoscere quella grafia… è qualcosa di Lei che posso tenere con me. È un ricordo, in un certo senso. A parte la Sua voce, non ho altro da poter tenere sempre con me…» confessò in un soffio.
«Alle volte, capita anche di peggio…» bofonchiò, appena comprensibile «Comunque, puoi tenerlo» proseguì, avvertendo i suoi occhi di smeraldo ingrandirsi a dismisura, in un moto di gratitudine.
«Ad una condizione, però» aggiunse immediatamente.
«Qualunque cosa!» rispose Albus, che non voleva in alcun modo deluderlo.
 «Sarà tuo soltanto. Un regalo per te. Dal direttore Serpeverde ad un giovane ed abile esponente della sua casata!» decise, repentino, Piton.
Albus, che temeva il professore ci ripensasse, si rilassò in un sorriso, per poi assicurargli: «Naturalmente! Parola d’onore. Lo proteggerò con qualche incantesimo. Lo proteggerò come se fosse un horcrux. Promesso!»
Piton si beò di quel gaudio adolescenziale. Forse un po’ troppo garrulo per i suoi gusti, ma non poteva negarsi che la genuinità di quell’entusiasmo era una sensazione che riusciva sempre a toccargli quel gelido cuore, rimasto fin troppo a lungo in balia del suo integerrimo e vigile controllo.
«Professore? Lei resterà qui?» domandò improvvisamente il giovane Potter, distogliendo il professore dai suoi pensieri.
«Certo, Potter, dove dovrei andare?» rispose distrattamente
«Oh, neppure adesso, che viene l’estate, la bella stagione, le giornate più calde? Può venire a infestare casa mia, se Le fa piacere!» gli propose, complice. Al non aveva paura di lui e sapere di poter contare sul professore anche durante l’estate lo poteva rendere solo entusiasta, come testimoniavano il suo sguardo limpido e acceso, in un moto di ingenua speranza.
Piton indietreggiò, portandosi il mantello verso il corpo, indignato: «Mi hai preso per uno stupido, flaccido fantasma casalingo?»
Albus diventò bianco come la cera: «Certo che no… mi scusi davvero, Professore, io… volevo solo poterLa vedere qualche volta anche d’estate!» ammise, candidamente.
A quella spiegazione, Piton non poté rimanere indifferente: «Solo per questo?» domandò freddamente
Al annuì, lentamente, imbarazzato per la pessima uscita e timoroso di averlo gravemente offeso.
«No, Albus, ti ringrazio, ma non verrò. Ci vedremo il prossimo anno scolastico!» replicò, secco.
Al ritrovò il sorriso, al vedere che lo spettro non fosse irrimediabilmente  offeso: «Va bene.. ci vediamo dopo l’estate, allora!»   

 

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Capitolo 6
*** Proprio non ti piace il quidditch? ***


PROPRIO NON TI PIACE, IL QUIDDITCH?

 
Casa Potter era in febbrile fermento, quella mattina. Tutto era in allegro subbuglio. Stoviglie che si lavavano da sé nell’acquaio, tavola apparecchiata, ma, soprattutto… non potevano certo mancare i fratelli Potter che si rincorrevano, per cercare di raggiungere per primi i succulenti piatti che li attendevano. Harry, intanto, stava disperatamente cercando il materiale da Quidditch di James che, disordinato com’era, aveva disseminato per tutta la propria stanza. Ginny, invece, oltre a sorvegliare la tavola, stava finendo di preparare la borsa per il viaggio.
Tutti erano elettrizzati, all’idea di recarsi al campo di Quidditch per un’importante amichevole di James. Giocava infatti contro la Nazionale Irlandese, una delle squadre più rinomate del mondo: era un’amichevole, ma pur sempre prestigiosa, specie considerato che il primogenito aveva solo quattordici anni, il solo fato di essere stato convocato era da considerare un’opportunità unica! Per di più, era stato chiamato dal Puddlemore United, una tra le squadre di quidditch più antiche e famose, quindi il prestigio era da considerarsi, se possibile, doppio. Una di quelle amichevoli di lusso che dà pane ai giornalisti di tutto il mondo.


Inevitabile, del resto, a ben pensarci, dato che stiamo parlando della famiglia di due giovani Auror, che, precedentemente, avevano fatto faville, nella squadra di Quidditch di Grifondoro, durante gli anni della scuola. E che, a quanto pare, avevano trasmesso la medesima passione al figlio James, cercatore per il Grifondoro dal secondo anno.
Tutti, dicevamo, erano su di giri per questo avvenimento che li attendeva. Tutti, tranne lui. Albus, che era rimasto alzato fino a tardi per completare i suoi compiti supplementari di Volo, era ancora placidamente addormentato, ignaro e dimentico dell’importanza di quell’evento per il resto della famiglia.
Sua madre fu la prima ad accorgersi di quell’assenza dalla tavola e, rivolgendosi al marito, gli disse:
«Harry, per piacere, vai tu a svegliare Al. Ci manca solo che arriviamo in ritardo ad un evento del genere. Sai quanto è importante per Jamie!»
Harry prese le scale e si diresse in camera del figlio. Aprì le imposte, si avvicinò al letto, gli si sedette accanto, e lo scosse delicatamente:
«Al, è ora di alzarsi!»
Al si riscosse appena, con un grugnito. Si rigirò infastidito, si distese nuovamente, col volto stavolta rivoltò all’insù, si stirò, aprendo cautamente gli occhi.
Poi però, si abbandonò all’indietro, con gli occhi chiusi e commentò:
«Papà, ma è prestissimo… che ore sono?»
«Sono le sei. Ma è necessario, alzarsi, perché accompagniamo Al alla partita e la passaporta da raggiungere non è affatto vicina. Dovremmo raggiungerla con un lungo viaggio in auto, come i babbani. Riusciamo a risparmiarci solo di prendere il traghetto, in pratica. Dovresti saperlo, lo avevamo detto anche ieri sera!»
«L’ho scordato» sospirò, alzando le verdi iridi al soffitto, dopo essersi tirato a sedere sul letto.
«Ehi, Al! Cos’è questo musino smunto?» commentò Harry, prendendogli delicatamente il viso tra le mani, come faceva abitualmente quando Albus era piccolo, per farsi spiegare cosa non andasse. Aveva sempre funzionato. Ma, ora che lo guardava negli occhi, si accorgeva di quanto fosse diverso dal bambino che amava ricordare e, anche, di quanto fosse diverso da lui. Era un ragazzo, ormai!
Albus si lasciò prendere, con un sorriso di tenerezza, al pensiero che ancora suo padre non si fosse abituato al fatto che i suoi figli non erano più piccoli.
Cosa c’era che non andava? Gli mancavano le lezioni di occlumanzia con Piton ed i suoi assalti improvvisi, per tastarne i riflessi e la prontezza di mente.  Gli mancavano le sciarade di pozioni, le gare di logica, gli indovinelli, le pozioni più complesse, i pomeriggi sempre impegnati in mille attività per migliorarsi, nel segreto dell’atrio di una caverna. Non avrebbe mai pensato che avrebbe potuto mancargli quello scorbutico professore aggiunto, più di tutti gli altri messi assieme. Si sentiva un privilegiato per questa sua opportunità particolare. Se in quel momento Piton gli avesse letto al mente, non gliel’avrebbe perdonato e lo avrebbe ammonito con asprezza, rammentandogli che quello che aveva raggiunto, lo aveva ottenuto per i propri meriti, perché nessuno gli aveva regalato nulla. All’improvviso, sentì al responsabilità di tutto ciò, avvertì che era compito suo difendere quel fantasma, che lo istruiva in segreto, dai pettegolezzi e dalle malelingue. Glielo doveva. Non poteva pagarne i servigi, ma doveva almeno restituirgli rispetto e devozione senza pari, per non sentirsi in debito inestinguibile con lui.
Quindi, in un soffio, disse soltanto:
«Mi manca… Hogwarts!»
Era una bugia bianca, in fondo. Perché Piton aveva sempre considerato Hogwarts come la propria casa, quasi come una parte di sé. Vi era cresciuto, vi era divenuto ragazzo ed uomo, vi aveva maturato la decisione di seguire Voldemort. Ogni pietra ed ogni antro parlava di lui, delle sue gesta, dei suoi errori, dei suoi ripensamenti, delle sue lacrime, delle sue urla, dei suoi bisbigli, delle sue cure, delle sue pozioni.
Harry ebbe la vaga sensazione, per un momento, che il suo ragazzo non fosse più un libro aperto, per lui:
«Proprio non ti piace il quidditch, eh?» sorrise, conciliante, incrociando il sorriso sollevato del figlio, che si sentiva compreso «Però hai ragione… i tuoi amici Serpeverde non li abbiamo ancora invitati, a casa nostra. Facciamo così. Adesso ci prepariamo ed andiamo a vedere giocare tuo fratello. Domani, invitiamo a casa qualcuno dei tuoi amici. Che dici?»
Albus sorrise. Non era come tornare alla caverna con Piton, ma suo padre stava cercando di capirlo. Ce l’aveva sempre messa tutta, nonostante tutti gli sbagli che i genitori fanno, com’è naturale che sia. L’adolescente apprezzava l’impegno che l’adulto profondeva per accontentarlo e tenere conto delle sue esigenze.  
Forse, dal canto suo, Harry si aspettava un entusiasmo maggiore: lui, alla sua età, avrebbe fatto un triplo salto mortale all’aspettativa di rivedere i propri amici durante le vacanze estive. Si ricordò che non poteva continuamente paragonare i propri figli a sé. Dovevano percorrere la propria strada, non la sua. Il suo compito era solo stargli accanto, non imporgli le proprie scelte e i propri sentimenti.
Albus del resto sapeva sempre stupirlo, con i suoi slanci di affetto. E non mancò di farlo anche stavolta.
«Grazie, papà, per avermi permesso di essere Serpeverde!» disse il suo secondogenito, gettandogli le braccia al collo, sinceramente grato a suo padre. Non riusciva a confidargli altro in quel momento e quella frase era l’unica in cui riuscisse a condensare, seppure alla bell’e meglio, tutta la propria gratitudine.
Il discorso avrebbe dovuto essere ben più complesso: grazie per avergli permesso di sapere che Serpeverde non era un covo di negatività, ma aveva saputo un grande mago come Piton; grazie per averlo sempre sostenuto e aver accolto le proprie inclinazioni; grazie per aver sempre cercato di capirlo, anche quando i suoi gusti erano diversi dal resto della famiglia. Senza tutto questo, non avrebbe mai trovato il coraggio di essere se stesso, di tentare la sorte e, infine, di riuscire nella sua piccola impresa. Quella che non riusciva a confessargli, ma che, senza di lui, non avrebbe mai intrapreso uno come lui,  generalmente ligio al dovere e poco incline ad infrangere le regole. Disposto però anche a farlo, a fronte di un fine che ritenesse sufficientemente nobile da essere perseguito con tutto lo slancio di quel suo piccolo, ardente cuore.
Ma erano le sette del mattino, si era appena svegliato, di malavoglia e proprio non gli riusciva di mettere insieme di mettere insieme tutti questi concetti in una volta sola.
Harry ricambiò l’abbraccio con affetto, stupendosi che il proprio ragazzo, giunto ai suoi tredici anni, si lasciasse ancora abbracciare. Ne presi le mani, in un moto di nostalgia e si lasciò assalire dai ricordi. La prima volta che lo aveva preso in braccio, così piccolo da dover rimanere una settimana in incubatrice, per avere tempo di prendere peso. Così piccolo e gracile, ora si era così trasformato: le spalle iniziavano ad irrobustirsi, le mani stavano perdendo il loro aspetto infantile, la voce gli stava cambiando. Solo la pelle, così chiara e delicata, pareva ricordare quel fagottino chiaro che lui e Ginny si erano portati a casa, con tanta preoccupazione, 13 anni prima. Ancora adesso, manteneva quel suo animo gentile e buono, quella delicatezza nello sguardo e quell’eleganza nel portamento che lo faceva sembrare quasi un estraneo, rispetto all’esuberante irruenza del primogenito.
«Papà, ma che stai facendo? Ti sei incantato?» domandò il figlio.
«Ah, scusami Al… stavo solo pensando a quanto sei cresciuto!»
«Non te ne eri ancora accorto?» domandò Albus, stranito.
Harry rise: «Non mi ci ero mai soffermato, ecco…» e rimase colpito che un ragazzo di tredici anni potesse metterlo in imbarazzo.
Gli diede un buffetto sui capelli corvini e lo incoraggiò: «Dai, sbrigati: vestiti e scendi a fare colazione, se non vuoi che mamma si arrabbi!»
«D’accordo, papà!» rispose, con un punta di svogliatezza nella voce, sgattaiolando fuori dalle coperte. Si diresse poi alla sedia, dove aveva i propri vestiti, ordinatamente piegati. Si tolse il pigiama ed iniziò ad infilarsi la camicia.
«Aaaaaallll, ti sbrighi? La colazione si raffredda!» giunse una voce di donna dal piano di sotto.
A cui s’aggiunse una voce infantile, che aggiungeva:
«Sono già pronta pure io… che faccio sempre ritardo!»
Seguì poi una voce di ragazzo:
«Al, se arrivo tardi all’amichevole per colpa tua, ti schianto!»
Zittita tempestivamente dalla voce femminile di poco prima:
«Devi solo provarci, James, e puoi solo immaginare la fine che potrebbe fare la tua scopa da gara!»
Una volta ristabilita la quiete, di fronte a quella terribile minaccia, si udì finalmente la voce di Al rispondere «Arrivo, arrivo… sto venendo», accompagnato da uno scalpiccio convulso ed indaffarato: stava già scendendo le scale, mentre era ancora intento ad infilarsi scarpe e calze di gran fretta, per evitare di procurare l’ira dell’intero nucleo familiare, che, di fronte al Quidditch, perdeva letteralmente la testa!
***
«Dannazione, se solo fossi riuscito a raggiungere il boccino! Il risultato sarebbe stato del tutto diverso.. avremmo anche potuto vincere!» sbottò un infuriato James Potter, incapace di credere di aver perso.
«Dai, Jamie… calcola che tu sei entrato in sostituzione del titolare, che per altro si era infortunato. In aggiunta,  tu eri il più piccolo in campo, mentre nell’altra squadra c’erano giocatori non solo più grandi di te, ma soprattutto più esperti. Non eri nelle condizioni psicofisiche migliori. Era un risultato quasi impossibile, quello a cui hai aspirato!» analizzò sinteticamente Al, che rapportava il suo spirito logico ad ogni cosa, Quidditch compreso; ottenendo l’unico risultato d’innervosire ancora di più il fratello:
«Ma che ne sai tu? Che nemmeno riesci a stare su una scopa!» gli ribatté, piccato, di rimando.
Albus non osò nemmeno rispondere, né contraddirlo. Non era possibile ragionare con lui, quando c’era lo sport. Non era in grado di sentire ragioni.
Inutile dire che il ritorno fu molto più in sordina e nulla aveva a spartire con l’entusiasmo che aveva caratterizzato il viaggio di andata della combriccola familiare.
I genitori senz’altro condividevano la lucida analisi di Albus, ma ben comprendevano che questo non era il momento più adatto per discuterne. Il ragazzo non era pronto a parlarne, troppo impulsivo per accorgersi che, quando la rabbia gli faceva bruciare la sconfitta come una ferita, gli era impossibile essere lucido.
Fu con un James imbronciato, un Albus ciondolante e una Lily dolcemente addormentata tra le braccia di papà che fecero ritorno a casa. Era stata una giornata impegnativa  e piena di emozioni per tutti, ma soprattutto per James, che aveva vissuto un’avventura sportiva straordinaria, che avrebbe senz’altro conservato nei suoi ricordi.
Fu un ritorno un po’ mesto, nel cuore della notte. Ma il giorno seguente avrebbero avuto modo di parlare con James nuovamente. Harry se l’era già ripromesso: doveva valorizzare le sue buone azioni e fargli accettare quella sconfitta nel contesto di un’amichevole estiva con una squadra che non era possibile paragonare a nessun altro club britannico. Sorrideva, Harry, guardando il volto imbronciato di James: quanto si rivedere in quel suo essere tumultuoso come un vulcano, incapace di trattenersi, senza risparmiarsi, sempre disposto a dare il tutto per tutto per ciò a cui teneva davvero.

***
Il giorno seguente fu particolarmente movimentato. Cosa strana, per un ragazzo generalmente tranquillo come Al. Ma quel giorno, a casa loro arrivò Michael, un suo compagno Serpeverde, che fu immediatamente  radiografato dal fratello James, che non perse tempo per stuzzicarlo, immediatamente ripreso da un’occhiata, fulminea ma efficace di Ginny, mentre stava portando una torta per loro.
«Una crostata di mele. Niente di originale, lo so. Purtroppo, non ho avuto molto tempo, perché qualcuno ha ritenuto fosse divertente lanciare un Aguamenti sui panni appena stesa. Chiunque sia stato, mi auguro che sia qui e si stia vergognando. Quanto a te, Michael, prendi pure tutta la torta che vuoi!»
«Grazie, signora Potter, me ne basta una fetta. Molto gentile!» disse Michael, colpito dalla gentilezza riservatagli, specie in contrapposizione alla sonora ramanzina a cui stava assistendo in diretta.
Come al solito, Jamie riusciva sempre a pungolare gli ospiti che Al invitava a casa. Specialmente, se si trattava dei propri compagni di casata.
La rivalità atavica tra le case aveva attecchito con particolare fertilità nel fratello maggiore, che sembrava proprio impossibilitato al vedere alcunché di positivo, in tutto ciò che aveva colori verde - argento.
«Lascialo stare» si scusava Al col suo coetaneo «Fa così con qualunque Serpeverde. Non è cattivo, è solo.. mio fratello! Dai, andiamo al fiume… mamma ha già detto che possiamo, se torniamo per cena! ci ha già preparato dei panini da portarci dietro. Penso che venga anche mio padre. Papà, ci accompagni alla collina dei Conigli, vero?» e assunse quell’espressione supplichevolmente convincente che lo faceva aver ragione di chiunque. A maggior ragione di suo padre, che assentì, nonostante non fosse in programma alcuna gita.
Harry, pensando che quel momento con l’amico, a cui aveva chiesto di accompagnarlo, fosse un buon modo di approfondire la relazione padre-figlio, come aveva letto in qualche libro babbano, pensò subito che fosse un’occasione da prendere al volo. Anche perché avrebbe potuto essere l’ultima. Tuttavia, lasciare Ginny con gli altri due, non lo lasciava mai del tutto tranquillo:
«Ginny, Albus vorrebbe andare alla Collina dei Conigli con Michael. Ce lo accompagno? Prendo i panini? Dai tu un’occhiata agli altri due?» poi abbassò la voce, nell’aggiungere «Soprattutto a Jamie, mi pare non abbia preso bene questo momento dedicato ad Albus…»
«Andrà tutto bene. Jamie deve imparare che non è l’unico al mondo. Non gli abbiamo mai fatto mancare affetto ed attenzioni. Deve capire anche lui alcune cose. gli farò io un bel discorso. Lily pensò che andrà volentieri a giocare con la vicina di casa. Maggie, ricordi? Vai pure… qui me la sbrigo io!» rispose Ginny, decisa.
Entrambi erano contenta di vedere il secondogenito sorridere, dopo quel buio che era sembrato loro incomprensibile e che l’aveva a lungo accompagnato, durante quel periodo estivo. Possibile che davvero gli mancassero la scuola e le lezioni e le preferisse alle vacanze e alla bella stagione? Vederlo uscire volentieri, correre, giocare e divertirsi all’aria aperta come qualunque altro adolescente ridava un tocco di normalità a quel ragazzo che senz’altro doveva essere buono come il pane, ma forse un po’ troppo pavido e studioso, ai loro occhi.
I due adolescenti rimasero tutto il giorno per i boschi. nonostante la sua gracilità, Al stupì anche il padre sia perché sembrava non stancarsi mai, sia perché era rapido e precisissimo nello scovare, anche negli angoli più reconditi, praticamente tutto quello che poteva essere usato come ingrediente di Pozioni. Michael non era altrettanto bravo, nonostante Harry sapesse senza ombra di dubbio che fosse uno tra i più brillanti studenti non solo di Serpeverde, ma dell’intero anno. Del resto, Harry aveva potuto notare che si trattava di pozioni che abitualmente non sono affrontate al secondo anno, almeno secondo i ricordi sia dei suoi anni di scuola che del programma scolastico di Jamie. Tutto ciò era molto strano. Ma le risate allegre dei due ragazzi, la loro voglia di rivedersi e giocare, i loro scherzi e le loro freddure che lo coinvolgevano, distolsero la mente del Grifondoro da questi pensieri.
La giornata fu lunga, stancante e divertente: qualunque babbano avessero incontrato non avrebbe distinto quell’inedito trio di un Grifondoro e due giovani Serpeverde da qualunque padre babbano in gita estiva col figlio e un amico di quest’ultimo.
Quando il terzetto tornò a casa, Albus divorò la cena con un appetito che non gli era usuale. Anche Jamie sembrava aver accettato quello che, fino alla mattina, aveva giudicato un intruso. L’ultimo pasto della giornata si rivelò molto più tranquillo e loquace di quanto gli albori di quel giorno avevano preannunciato.
Appena concluso il pasto, Harry riportò l’amico del figlio a casa, materializzandosi nei pressi della casa dei genitori di quest’ultimo, risparmiando loro un lungo viaggio.
Giunse quindi l’ora di andare a dormire, anche in casa Potter. Dopo essere passato nelle stanze degli altri suoi figli, in ultimo Harry giunse da Al. Lo lasciava spesso per ultimo, perché era quello che gli faceva le domande più difficili e che lo metteva in difficoltà. Voleva poter avere a disposizione, almeno con lui, la scusa che fosse troppo tardi. Con Jamie poteva parlare di Quidditch e magari lasciarsi andare con qualche frecciatina sui Serpeverde, che sapeva fosse meglio risparmiarsi in presenza di Albus. Con la piccolina di casa, erano sempre coccole e racconti senza fine, ma lei era ancora piccola e non dava particolari preoccupazioni. Era Al quello delle domande impegnative.
Stavolta però non fu nulla di drammatico: anzi, fu molto conciso e poco complicato gestire i saluti serali con il secondogenito.  
«Non vedo l’ora di tornare ad Hogwarts!» commentò entusiasta, a fine giornata Al, quando il padre gli si sedette a fianco, per augurargli la buonanotte.
Nonostante non fosse affatto sempre chino sui libri, a quella affermazione, Harry ebbe il timore di avere messo al mondo un irriducibile secchione.
Inutile dire che il padre fosse abbastanza distante dalla verità: si trattava di una piccolo, abile, scaltro, brillante mago che procedeva spedito sulla via delle Pozioni, degli Incantesimi e dell’Occlumanzia. Senza dimenticarsi di coltivare, oltre alla mente, anche i propri sentimenti!
«Hai salutato la mamma?» gli chiese semplicemente.
«Sì, papà. Non ricordi? Lei fa sempre il giro all’opposto di te!»
Colpito e affondato. Come sempre.
No, non proprio come sempre. Ultimamente, gli riusciva sempre più spesso. Gli ricordava qualcuno, capace di coglierlo sempre in fallo, salvo poi proteggerlo sempre. No, non era possibile. come poteva esserlo: Al aveva solo tredici anni, sapeva a malapena chi fosse!
«Buonanotte, allora!»
«Buonanotte, papà!»
 

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Capitolo 7
*** Il cerbiatto impavido ***


Il cerbiatto impavido

Binario 9 e 3/4. Il brulichio di ogni 1° settembre. La banchina che pullulava di bambini ed adolescenti, accompagnati dai loro genitori. Carrelli, bauli, civette, gufi, si confondono in un turbinio di baci, abbracci ed ultime raccomandazioni.
«Al, cerca di non prendere compiti supplementari in Volo anche quest’anno! Sei il figlio del più giovane cercatore da qui a un secolo… non dico di essere il migliore della classe, però…»
Albus arrossì fino alle orecchie, poi disse, in un soffio: «Farò il possibile, ce la metterò tutta… ma per me è difficile!»
Era impossibile resistere a quella sua disarmante sincerità. Appoggiò la testa del suo secondogenito al petto, lo strinse a sé con forza e gli sussurrò, scompigliandogli affettuosamente i capelli: «Lo so che ti impegni molto!».
Harry non lasciò il suo ragazzo che quando vide spuntare un timido sorriso; cercò con gli occhi il suo primogenito, nel tentativo di un saluto, ma si accorse che era ormai troppo tardi: era sicuramente ormai salito sul vagone, lo intravvedeva saltare e schiamazzare con un paio di compagni di scuola Grifondoro. Si volse alla sua figlia minore, che pareva non riuscire a staccarsi dalla madre.
Ginny la rincuorò: «Due anni fa non vedevi l’ora, adesso fai la timida? Vedrai che ti divertirai e troverai tanti amici!»
«E se qualcuno ti fa qualche dispetto, hai qui due grandi cavalieri, che ti trarranno d’impiccio, non è vero?» aggiunse Harry, facendo un occhiolino complice ad Al, che sorrise ed annuì con convinzione al padre.
Per un attimo, il ragazzo aveva pensato che forse, era lui che aveva bisogno di aiuto… ma una punta di orgoglio, aggiunta ad un istinto fraterno insito in lui, lo aveva convinto ad incoraggiare Lily, mostrandosi coraggioso e convinto anche più di quanto non lo fosse effettivamente.
Il treno fischiò. Era ormai l’ora degli ultimi saluti.
Teddy scese dal vagone ed aiutò Al e Ginny a caricare i bauli sullo scompartimento.  
Solo in quel mentre, videro arrivare i Weasley. Hugo era cresciuto un sacco dall’ultima volta che si erano visti. Era stato solo un paio di settimane fa. Aveva tutta un’altra faccia. Più convinto, più sicuro di sé. Non aveva più quell’aria da bimbo sperduto che lo aveva sempre caratterizzato. Aveva negli occhi l’entusiasmo di chi sta per vivere una nuova, grande avventura e ne è pienamente consapevole.
«Dai, Hugo, muoviti: quest’anno, ti aspetta il Cappello Parlante!» gli sorrise Al.
Hugo spiccò una corsa verso il vagone, dimenticando il carrello, che Ron fu costretto a portargli, con il suo baule. Teddy e James gli diedero una mano a caricare tutto, mentre Hugo raggiungeva i cugini nello scompartimento.
Il treno fischiò tre volte. I primi sbuffi di fumo imbiancarono l’aria. Gli stantuffi iniziarono a girare, veloci, mentre i genitori e gli amici si sbracciavano dalla banchina, per salutare figli ed amici che stavano per iniziare un nuovo anno scolastico alla Scuola di magia e stregoneria di Hogwarts.
***
«Primo anno, da questa parte!» risuonava, familiare, la voce di Hagrid.
Era il terzo anno per Al, il quarto per James ed il primo per la piccola Lily. Era eccitato ed impaziente di iniziare un nuovo anno scolastico, ma non era come la prima volta. Lui sapeva già cosa lo aspettava. Per cui poté permettersi di raccomandare a Lily:
«Segui con attenzione quello che ti viene detto. Se lo fai, non ti metterai nei guai!».
Non era il maggiore in assoluto, era solo il mezzano. Ma, rispetto a Lily, era comunque più grande, per cui gli sembrò normale preoccuparsi per lei, che era alla sua prima esperienza.
«Sì, Al… non sono una piccola stupida!» rispose, piccata. E gli fece una smorfia.
Al scosse la testa. Non cambierà mai. Alla fine, però, nonostante quel caratterino tutto pepe, era impossibile non volerle bene: era la piccolina di casa e tutti le perdonavano tutto. Al compreso.
«Ci vediamo in sala grande, per la cena!» la salutò, dirigendosi verso le carrozze.
James lo aveva già preceduto, mentre discuteva animatamente gli schemi di Quidditch da mettere in pratica durante l’anno, per poter vincere l’agognato Campionato.
Sulla riva, il brulichio si faceva sempre più fitto: decine di ragazzi e ragazze, di età compresa fra gli undici e i diciotto anni gremivano la spiaggia, si ammassano, si scontravano, si rincorrevano, si urlavano dietro, si salutavano a gran voce.
«Ciao, Al, non ti avevo visto sul treno!» lo raggiunse la voce di Michael McCunningham, suo compagno di Serpeverde.
Anche lui si era alzato parecchio, durante l’estate: era quasi irriconoscibile, con quel ciuffo sugli occhi che non aveva mai avuto, con quei dieci centimetri in più d’altezza e con quelle braccia che avevano guadagnato parecchio in muscolatura e forza. non l’avesse visto qualche giorno prima, non l’avrebbe per nulla riconosciuto, in quella folla.
«Ero coi miei fratelli e i miei cugini, sul treno… scusami, avrei dovuto cercarti io!» si scusò Albus.
«Oh, non importa!»
«Sei riuscito a venire senza problemi?»
«Ora sto da mio zio, Al. I miei genitori non vogliono bambini strani!» spiegò, con tranquillità inaspetttata.
«Oh…» disse Albus, e acquisì come una pugnalata la consapevolezza di quanto fosse fortunato.
Michael capì e, non volendo che si preoccupasse, si affrettò ad aggiungere, ostentando un certo orgoglio: «Comunque, con lui mi diverto molto. E mi lascia anche fare i compiti, anzi mi ha dato una mano con i saggi!»
«Bene… così sarai il migliore!»
«Aaaah.. smettila, Al. Come se non fossi tu il migliore!»
«Solo in Pozioni» si schermì il ragazzo.
«E in tutte le altre!»
«No, in Volo ho preso un sacco di compiti supplementari….»
Era vero. «Già, amico… fortuna che è l’unica materia. Non so come tu faccia! Che poi darti cinque temi come recupero dell’anno scolastico, in una materia pratica, è proprio un’assurdità!» commentò Michael, sincero.
Al scosse le spalle, ridacchiando con indifferenza.
«E li hai fatti?»
«Certo… »
«La cosa più difficile è stata solo la delusione di mio padre…» gli confidò, sincero. Nonostante facesse di tutto per non mostrarlo, era evidente che essere figlio di un cercatore leggendario ed avere compiti supplementari in Volo era quasi un’onta familiare.
«Beh, considerando che lui, alla tua età era il più giovane cercatore di Quidditch da secoli, per non parlare di tuo fratello che ——»
«Stop, Michael: puoi anche evitare di ricordamelo, ogni volta, no?»
«Oh, andiamo, devi fartelo dire da un Sanguesporco come me? Il Quidditch è IL gioco dei maghi, come si può ———»
«Mike, ne abbiamo già parlato… non lo so: non ci riesco… non mi piace, non mi dice nulla. Non so che dirti, la mia strada è semplicemente… diversa! So solo che… devo seguirla!»
«Ok, non ti scaldare…» rispose, facendogli il verso
Erano arrivati.
«Vieni in stanza, allora?» propose subito Michael
«No, tu vai… ci vediamo dopo, nella Sala Grande, ok? Ora… devo fare una cosa!» disse soltanto, vago.
Michael lo vide sparire, letteralmente. No, non ci si può smaterializzare ad Hogwarts; ma la corsa che spiccò non fu molto più lenta. Per cui, sembrò quasi una letterale sparizione.

I suoi piedi piegavano lievemente l’erba umida che, docile, gli cedeva spazio, per lasciarlo incedere. Il sole stava ormai tramontando, dietro le montagne e gli ultimi bagliori si riflettevano sul Lago Nero. Un prefetto doveva averlo visto, gli aveva intimato di fermarsi, ma, complice l’oscurità calante ed i cespugli, Albus era riuscito a far perdere le proprie tracce.
Con un solo movimento, mosse le fronde, spiccò un balzo e si ritrovò a…. scivolare rovinosamente sul freddo pavimento della caverna.
«Sono tornato!» esclamò Al con entusiasmo, ancora ansante per la corsa, senza neanche guardarsi intorno, tanata era la convinzione che lo avrebbe trovato lì, come sempre. Erano quasi le sette, rischiava di arrivare in ritardo per la cena e perdersi lo smistamento della sorella; ma quella volta, Albus aveva deciso di correre il rischio. Non resisteva un minuto di più. Era tutta l’estate che attendeva quel momento!
«Come mai così di corsa, Potter? Inseguito da un grizzly?» domandò con lentezza sorniona.
Albus gli sorrise e, ignorando la domanda, gli si rivolse, con fretta eccitata (e, in parte, anche giustificata, dal poco tempo a disposizione): «Quest’anno c’è anche mia sorella Lily, è al primo anno, deve ancora essere smistata….Quanto mi è mancato, Professore! Possiamo vederci ancora?»
Piton si avvicinò. Lesse un timore incontrollabile, negli occhi del ragazzo «Purché non influenzi negativamente il tuo rendimento scolastico! Quest'anno hai più materie....».
«Infatti! Aspettavo Lei per quello... Speravo in un consiglio!»
ammise il ragazzo.
«Dimmi!» lo esortò
Il volto di Al si illuminò. Non attendeva altro.
«Non mi interessa nessuna più delle altre, tra le materie opzionali. Lei quali sceglierebbe? Quali ha fatto, all'epoca? Oppure, quali consiglia, a me?» domandò, in un turbinio di interrogativi che sciorinava uno via l’altro.
Piton si ritrasse un poco da lui. Questa situazione continuava a metterlo a disagio. Sembrava che stesse sviluppando nei suoi riguardi quell'attaccamento che il padre aveva per Silente. O, quanto meno, qualcosa di molto simile. Tuttavia, ritenne di potergli rispondere: «Antiche Rune e Aritmanzia sono le migliori, per uno come te!» rispose senza mostrare alcun dubbio, poi aggiunse: «Se riesci a convincere un certo numero di altri studenti, dall’anno prossimo potresti fare Alchimia. Per uno come te, così naturalmente portato per le nozioni, sarebbe senz’altro interessante!»
«Grazie, grazie mille!» fece Al, ancora incredulo di aver ricevuto risposta, con una nota d’emozione nella voce. E poi tacque, e lo guardò soltanto, incapace di dire qualunque altra cosa.
«Volevi dirmi altro?» ruppe il silenzio Piton, senza preamboli, vedendolo incerto.
«Expecto Patronum!» proclamò. Un piccolo, rudimentale Patronus incorporeo si era effettivamente sprigionato dalla punta della bacchetta, nonostante non fosse riuscito a farlo durare più di pochi secondi.
Gli veniva quasi da sorridere, per quanto era infantile quel tentativo. D’altronde, era un risultato a cui non tutti arrivavano in una vita intera. Non poteva essere troppo duro: «Direi che c’è da lavorare ancora parecchio, Albus» commentò lo spettro, sincero.
Al fece una smorfia poco convinta, in assenso al commento del professore, che trovò ugualmente motivo per rimbrottarlo: «Dove ti saresti esercitato, se ti è proibito usare la magia, fuori da Hogwarts?»
«Io... Non ero sicuro di riuscirci ora, infatti… Mi ero esercitato solo a cercare pensieri felici!» ammise, arrossendo lievemente.
Niente male come pensiero, per un Potter!
«Che  altro intendi fare, quest’anno?» proseguì Piton.
«Veritaserum!» replicò, deciso.
Puntava alto, il ragazzo.«Veritaserum?»
«È possibile?» domandò, più incerto
«Sai che è illegale produrla, eccetto per i più grandi Maestri di Pozioni?»
«Sì, lo so... Ma la preparerei sotto la Sua supervisione e poi non la userei... Solo per imparare. Gliela consegno, gliela affido, se non si fida di me! È possibile?» insistette Al, con veemenza.
«Se non ti fai mettere in punizione, per aver fatto tardi alla cena dello Smistamento!» lo punzecchiò, dispettoso, Piton.
Al si contrasse, fece un balzo indietro: «Mannaggia, è vero… è tardissimo e c’è lo Smistamento di mia sorella: se me lo perdo, quella mi ammazza direttamente!».
Accennò un inchino, si volse lestamente indietro: «Buonanotte, Professore, torno appena possibile… solo, non vedevo l’ora di tornare… qui!». Una confessione d’affetto e rispetto in una semplice frase, condita dal sorriso più buono del mondo.
Impossibile, per Piton, riuscire a trovare la forza di reagire in modo immediato.
A grandi falcate, il ragazzo si allontanò, avvolto dal buio della notte.
«Buonanotte, promettente occlumante!» lo salutò il professore, ma, pressato dall’ansia del ritardo, Albus non poté sentirlo.


***
«Proviamo una sfida di occlumanzia?» azzardò un pomeriggio Al, con gli occhi che gli brillavano, desideroso di misurarsi e mettersi alla prova col grande mago, incurante della possibilità di perdere rovinosamente quella sfida.
«Tu non sai quel che chiedi!» Commentò Piton.
Ma non era sua intenzione solo metterlo in guardia. Ora, senza il pensatoio, non poteva eliminare nulla dalla sua mente: il ragazzo avrebbe potuto vedere qualunque cosa!
Certo, anche viceversa, naturalmente. Piton, al contrario di Al,  faceva fatica a provare quella fiducia incondizionata in qualcuno che al ragazzino pareva connaturata e che, di contro, spaventava enormemente Piton, perché la sua esperienza gli suggeriva che non potesse portare altro che guai al giovane Potter. Ancora una volta, però, il sorriso mite e gentile di Al, ottenne il suo effetto.
«E va bene!» Bofonchiò Piton «Spero non ti lamenterai delle conseguenze, avendolo chiesto!»
«Nossignore» sussurrò appena Al, incerto se fosse il caso di rispondergli.  
Piton sfoderò la bacchetta e, fulmineo, pronunciò: «Legillimens!».
Il ragazzi fu preso alla sprovvista e non riuscì a proteggere alcun ricordo, sulle prime. Vide qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere. Quello che il ragazzo aveva sempre evitato di dirgli apertamente, che era forse il motivo per cui voleva essere 'pronto'.
Così piccolo e magro, sembrava anche più piccolo della sua età. Sembrava un cerbiatto che cercava di correre, mentre le sua gambe, acerbe nei movimenti, s'intrecciavano tra loro, incapaci di seguire la velocità della sua mente acuta. Al correva a perdifiato, inseguito da ragazzi più grandi di lui. Michael non lo abbandonava mai, ma non era mai stato sufficientemente veloce per poter essere efficace nella sua difesa e del resto, gli altri erano troppi per poter essere affrontati da un solo mago. Una bacchetta può fare un incantesimo alla volta. Eppure, mai una volta andò a segnalare l’accaduto ad un insegnante: cercava, di volta in volta, la strategia migliore per cavarsela con minori danni. Ma possibile, si chiedeva, che nessuno, tra gli adulti si accorgesse delle continue vessazioni che subiva?
Si commosse profondamente, a quella vista, rivedendo se stesso nei ricordi del ragazzo. Per un momento, perse la concentrazione e Al si introdusse nella sua mente, riuscendo a vedere i luoghi della sua infanzia e il pessimo comportamento di Piton senior.
Il sorriso soddisfatto del ragazzo, orgoglioso del suo successo, si spense all’istante, in una smorfia di disgusto sincero, fino a trasfigurarsi in una curva di indignazione, coi pugni serrati e le unghie che gli penetravano nella carne.
In genere, nell’occlumanzia, tende ad essere più indifeso chi viene penetrato che, può, occasionalmente, provare dolore per quest’invasione della propria privacy.
Eppure, stavolta, chiusa la propria mente, alla visione della reazione del ragazzo, si accorse, con stupore, di essere preoccupato per Albus: non riuscì a sgridarlo, perché i suoi lineamenti si erano tanto contratti, il suo volto era tanto impallidito, che temette il peggio. Lo trapassò da parte a parte a velocità folle, solo con l’intenzione di rinfrescarlo, diverse volte.
Il ragazzo parve riprendere colore, ma ancora respirava affannosamente, in un accesso di rabbia, che pareva non lasciarlo.
Finalmente aprì bocca e sentenziò soltanto, con rabbia: «Non doveva… non doveva! Come ha osato?». non disse altro, ma Piton capì che il giovane si riferiva a suo padre. E che, se non andava oltre, era solo per rispetto a lui, perché la sua indignazione pareva essere davvero enorme. Pronunciato questo tacque, si lasciò cadere a terra, sconfitto. Annichilito.
Piton si trovò a pensare che nulla era andato come doveva. Egli aveva sorpreso il ragazzo. Il ragazzo aveva saputo riprendersi dall’intrusione ed entrare dentro la sua mente, nonostante il docente, al contrario del solito, non gli avesse espressamente spalancato l’accesso. Ma nessuno era risultato vincitore.
Il risultato era che avevano sofferto entrambi, pur non avendolo voluto. Ecco perché l’occlumanzia, pur rivelandosi talvolta utile ed in rari casi indispensabile, rimaneva magia oscura.
Al lo guardava, sconvolto, mentre, a poco a poco i suoi lineamenti, non senza sforzo, cercavano di rilassarsi, fino a riprendere i soliti contorni garbati che ne caratterizzavano l’espressione.
«Sei soddisfatto?» domandò Piton, d’un tratto. ed era difficile comprendere se fosse davvero arrabbiato, preoccupato, deluso, o solo fuori di sé. L’espressione della sua voce era sfuggente e difficilmente interpretabile.
Al scosse la testa, sconsolato. Aveva sempre pensato che imparare cose nuove fosse un’avventura esaltante, che ogni nuova sfida gli avrebbe fatto conoscere se stesso e le sue potenzialità, che sarebbe cresciuto ogni volta un po’ di più come mago e come ragazzo. Non aveva mai pensato che sapere certe cose non fosse, propriamente, bello! Soltanto in quel momento capiva il rifiuto risoluto di suo padre di avvicinarlo all’occlumanzia, così come ad ogni magia oscura. Forse era un eccesso di tenerezza nei suoi confronti, ma preservarlo era il suo modo di volergli bene, ma certo (ora gli era chiaro!) non l’ostinazione di impedirgli di esprimere le sue potenzialità.
«Adesso ti sei calmato?» chiese Piton, pur conoscendo la risposta da quelle pupille che ritrovavano la loro normale dimensione, mentre il battito ed il respiro si regolarizzavano a vista d’occhio.
Il ragazzo annuì lievemente, con un cenno impercettibile del capo.
«Intendi continuare?» domandò secco a quel punto Piton, serio, intuendo che da questa risposta e dal motivo di quest’ultima avrebbe potuto capire molte cose.
Tuttavia, il ragazzo non rispose. Non subito. Un implacabile silenzio li separò per diversi minuti. Piton fu tentato di sollecitarlo, nella malaugurata ipotesi che non avesse capito la domanda o che non l’avesse sentita. Ma capì che non era necessario. Quei limpidi occhi di smeraldo gli rivelavano tutto, senza bisogno di incantesimi.
Stava riflettendo. Quella domanda ne sottintendeva tantissime altre, ma, in sostanza, si riduceva allo scoprire cosa volesse e se lo volesse davvero.  
Prese un profondo respiro e disse semplicemente «Sì, signore. Anzi, grazie per la fiducia!»
«Perché?»
«Perché ho capito che sottoporsi all’occlumanzia, in modo volontario, presuppone grande fiducia reciproca!»
No, il ragazzo non aveva capito cosa Piton volesse sapere. Anche se aveva capito molto di più di quello che Piton avrebbe voluto. Allora il pozionista rifece la domanda, evitando volutamente di commentare la risposta del ragazzo: «No, Albus, non era questo che volevo sapere. Perché hai detto che vuoi continuare, mentre è evidente che sei rimasto impressionato dagli effetti di questo esercizio?»
Vide il ragazzo raccogliere le forze: era evidente che questi voleva assicurarsi di rispondere in modo inequivocabile. «È una magia difficile, molto. Impegnativa e faticosa. Ma saperla utilizzare può servire a proteggere chi amo. Per questo motivo, posso e voglio sopportare l’impegno che essa richiede! Tuttavia, è lo stesso vero che mi dispiace poter conoscere il Suo passato, professore!» rispose a fior di labbra, tutto tremante.
Piton fu rassicurato da questa risposta, ma disse soltanto: «È meglio che tu vada, adesso. Vediamoci domani!»
«Va bene, Professore. Grazie per la lezione di oggi!» disse il ragazzo, scomparendo tra i cespugli, con gesti più lenti e controllati del solito.
Sì, Piton doveva ammetterlo: quella risposta lo aveva enormemente rasserenato. Lui aveva perfettamente presente, specialmente adesso che aveva tanto tempo a propria disposizione, in silenzio e senza nessuno, i propri errori. Sapeva perché si era lasciato attrarre dalle Arti Oscure e dalle lusinghe di Voldemort. Era desiderio di gloria e potere, era voglia di rivalsa, su una vita che era stata ingiusta. Ma la vita dei Mangiamorte non era veramente migliore, perché non può riempire il cuore nessuna azione senza cuore! E indietro non si torna. Non senza lasciarci la vita.
L’interesse del ragazzo per le Arti Oscure, la predisposizione per l’occlumanzia lo avevano entusiasmato e preoccupato nello stesso momento. Ogni grande potere, presuppone grandi responsabilità. Sarebbe stato in grado di sopportarle? Sulle predisposizioni non era colpevole il ragazzo: nessuno può sceglierle. Ma inseguire una conoscenza pericolosa poteva rivelarsi deleterio per sé e per gli altri. Per questo, sin da principio, pur contento di tramandare le proprie conoscenze, si era reso conto che avrebbe dovuto vigilare con particolare e scoprire le vere intenzioni del ragazzo. Non potevano sbagliare di nuovo, ad Hogwarts: non potevano allevare un nuovo Voldemort. Non se lo sarebbe mai perdonato. Ma, giorno dopo giorno, tutto si faceva sempre più chiaro. Nonostante l’eredità di un cognome pesante si facesse sentire e il giovane Albus si sentisse talvolta frustrato, non cercava gloria, né potere, né rivalsa. Cercava solo il proprio spazio, cercava se stesso e la propria strada, ostinatamente. Ma la sua anima era pura: non dava importanza ai lati oscuri della vita, sapeva trovare il sorriso in ogni situazione, lottava per essere semplicemente se stesso. Ed era una creatura meravigliosa. La sua sete di conoscenza e la volontà di proteggere chi amava erano le uniche motivazioni che lo spingevano ad andare avanti nel progresso impegnativo sulla via delle Arti Oscure, anche quando questo comportava una sua sofferenza personale. E tante erano le sue sofferenze personali, per la sua straordinaria empatia. Ora ne era certo: poteva stare tranquillo: se nulla lo avesse “guastato”, avrebbero solo avuto un grandissimo occlumante, pozionista, conoscitore delle Arti Oscure. Al servizio della Luce!

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Capitolo 8
*** Fastidiosa invadenza ***


Fastidiosa invadenza

Quel pomeriggio, Al era meno attento del solito. Piton non poté fare a meno di accorgersene:
«Che hai, Albus? Era una pozione semplice… a che pensi? Me lo vuoi far vedere?»
Il ragazzo scosse il capo.
«Sta’ più attento, se non vuoi far esplodere tutto… conta con attenzione la quantità degli ingredienti! È una cosa fon-da-men-tale, in Pozioni!» lo sgridò, secco.
«Sissignore, mi scusi!»
Successe di nuovo.
«Le foglie di mandragora andavano nel mortaio, non nel calderone, Albus! Albus! Ma che ti succede?»
Al arrossì.
«Questa pozione è da buttare. Se continui così, perdiamo solo tempo, tutt’e due!» sbottò il fantasma, avvicinandoglisi.
«Non mi leggerà la mente!» intimò allora Al, pallido in volto, come nessuno lo aveva mai visto.
«Potter, ma che stai facendo?» fece Piton, allarmato, al vederlo contorcersi, nello sforzo di serrare la mente.
Il ragazzo non lo ascoltò. Serrò tutto: occhi, mente, orecchie. Stava compiendo uno sforzo di concentrazione che aveva quasi dell’incredibile, per occultare ogni cosa di sé.
«Albus, guardami…» gli intimò il professore.
Ma il ragazzo non sentiva: non voleva o non poteva sentire.
«Albus!» urlò il professore, nel tentativo, vano, di farsi ascoltare. Per l’ennesima volta, notò come quel nome gli richiamasse alla memoria il ricordo di chi se n’era andato, per mano sua.
Se avesse avuto un corpo, lo avrebbe scosso, con tutta la forza che aveva in corpo. Forse lo avrebbe anche percosso, se lo avesse ritenuto necessario. Ma non poteva fare nulla di tutto ciò.
Era mezz’ora che continuava in questo modo, imperterrito
«Albus. Non. ho. intenzione. di. penetrare. la. tua. mente. senza consenso. Ti è chiaro?»
Il ragazzo scosse la testa, sollevò appena le palpebre e mormorò: «Non mi fido!»
«Albus, smettila… dannazione! Ascoltami…» non fece tempo a terminare.
Il ragazzo barcollò. Perse l’equilibrio. Stava per cadere. Stava.
Non aveva corpo, ma aveva la magia. Piton ne accompagnò la caduta, per evitare che si ferisse. Poi, slegò il foulard del ragazzo dal suo collo, lo bagnò con un Aguamenti. Poi, con un incantesimo di appello, chiamò a sé tutti i più maturi e gustosi frutti di bosco della zona, depositandoli nel calderone (che aveva svuotato della pozione che conteneva in precedenza): non saranno come la cioccolata, ma erano pur sempre un cibo delizioso, oltre che ricco di zuccheri!
«Sono davvero così inaffidabile? Perché lo hai fatto? L'occlumanzia può essere arma offensiva. Ma non era mia intenzione guardare dentro di te, se non avessi voluto... » domandò sdegnoso, voltandogli le spalle, quando si accorse che stava riavendosi.
«Mi scusi, io…» provò a spiegarsi, in mezzo ai tentennamenti, mentre apriva gli occhi. Ma Piton non lo lasciò finire e proseguì, imperioso: «Serrare la mente in modo così ermetico richiede uno sforzo enorme. Ci arriverai, ma la gradualità è importante! Non sei ancora pronto e questi sforzi estremi ti costano solo uno spreco d'energia! Perché non ti sei fidato della mia parola?» Piton, arcigno, lo fissava con asprezza. Ma era impossibile non vedere una punta di malinconico disappunto in questa sua osservazione. Possibile che la dannatissima età adolescenziale dovesse rovinare anche i migliori ragazzi?
«Mi scusi professore, sono stato uno sciocco!» rispose il ragazzo, mortificato.
Si meravigliò di ritrovarsi attorniato di frutti di bosco. Evidentemente, era opera di Piton, per cui iniziò a trangugiarne qualcuno.
Nel suo cuore, Al sentì che gli era necessario fidarsi del professore; al contempo, ebbe come l'impressione che non fosse meno importante, per Piton, la certezza di avere la fiducia del ragazzo.
Sospirò. E si decise a spiegarsi: «È vero, c'è una ragazza con cui sto bene. Ma non so se ne sono innamorato. Al momento, sono un po' confuso, ecco..» confessò allora il ragazzo, che non poté fare a meno  né di arrossire, né di notare che il fantasma non aveva neanche lontanamente cercato il contatto visivo per saperne di più, per conoscerne il nome o il volto.
Al parve rasserenato, si tirò seduto, con la schiena contro la parete della caverna. Sorrise, rilassato, e lo guardò negli occhi. Avrebbe voluto dire tante cose, ma non disse nulla, a lungo. Solo, mantenne quel contatto d’occhi, ostinatamente. Fiduciosamente.
Piton non riuscì a staccarsi, da quel contatto visivo, come se vi fosse magneticamente attaccato. Quel ragazzino, dannatamente ostinato, si era comportato come un adolescente. Impulsivo, reattivo: come suo padre. Ma aveva saputo riprendere il controllo di sé e tornare sui propri passi. Non doveva pensare al padre del ragazzo. Era evidente, ormai: lui non era uguale a nessuno, se non a se stesso. Era Albus Severus Potter: un tredicenne ormai al terzo anno di Hogwarts, che stava entrando al trotto nell’adolescenza, galoppando per le autostrade della conoscenza magica.
Finalmente, parlò, con voce grave e solenne, ma di tonalità vicina ad un sussurro: «Che tu viva tanto o poco, ci saranno donne che segneranno per sempre la tua vita. Forse, solo per il fatto che sono profondamente donne. E sanno strapparti fuori la parte migliore di te. Persino nel caso in cui non ricambino i tuoi sentimenti. Tu hai un bel cuore, Al!» e lo vide avvampare leggermente, a questa osservazione «Ma non dimenticarti di quanto tu sappia essere coraggioso: è l’unico modo che hai per salvarti dai pericoli in cui potrebbe cacciarti! Non lasciare che la gente si approfitti del tuo buon cuore. Non farti calpestare, Al. Tu meriti rispetto!».
Il ragazzo annuì in modo appena percettibile, tutto compreso nell’ascoltare quelle istruzioni, non meno concentrato ed attento che se si fosse trattato della corretta modalità di preparazione di qualche difficile pozione. Del resto, pur non essendo argomento scolastico, il professore ne aveva parlata con un tono solennemente inusitato per chiacchiere inutili, spingendo il ragazzo a dare quindi il giusto peso alle sue parole, nonostante non fossero legate alla magia. Comprendendo con un’occhiata di avere assorbito pienamente l’attenzione dell’adolescente, Piton non intese proseguire. Gli parve di essere stato fin troppo loquace ed aveva avuto la netta sensazione che il giovanotto avesse pienamente compreso, come suo solito: era abitudine dell’allievo intridersi l’animo delle parole che aveva appena ascoltato con avidità, per farle sue e comprenderle meglio, anche quando non esprimeva a parole accordo né disappunto. Il docente aveva imparato a comprenderlo, dunque non aggiunse altro, ma rimase ad attendere le reazioni dell’altro.
Pochi istanti dopo, tuttavia, notò un improvviso mutamento d’espressione, nello studente.E adesso, a cosa stava pensando quella piccola, giovane mente? No, certo, ora non poteva entrarci. Piton non poteva e non voleva. Aveva dato la sua parola e, per nulla al mondo, avrebbe ritrattato! Ma avrebbe dato qualunque cosa per carpirne i pensieri, seduta stante.
Il ragazzo parve prevenirne la curiosità, perché prese la parola ed espresse la sua preoccupazione.
«Professore… è perché sono un debole, che sono svenuto? Come mio padre?» chiese, all’improvviso.
Piton respirò profondamente. Lo faceva sentire a disagio, dovergli spiegare tutto, a quella voce, che ora stava cambiando, ma rimaneva innocente nell’intento, nonostante iniziasse a prendere una tonalità sempre più grave, com’era normale aspettarsi, del resto, a quell’età. «No, tu non sei tuo padre» iniziò con una calma, che aveva il sapore della solennità delle grandi occasioni o, per lo meno, delle grandi notizie «Tuo padre sveniva talvolta a causa della connessione con l’Oscuro. L’avvicinarsi di Voldemort era per lui motivo di dolore fisico senza pari. Il motivo del tuo svenimento è molto più semplice, ma non meno importante. Ti sei visto, Albus?»
«Eh? Cosa?» sbottò, contrariato, come se lo avesse insultato. In effetti, il tono del professore era quello. Ma era solo una domanda; semplice, per altro. In quella reazione, a dire il vero, ricordava davvero molto il proprio padre: ma l’insegnante si guardò bene dal sottolinearlo e si occupò solo di spiegare più nel dettaglio la propria osservazione.
«Potter, hai guadagnato almeno un venti centimetri, quest’estate (sto approssimando per difetto!)… e buona parte è finita nello stacco di gambe che ritrovi. Ne usi di energie! E anche l’occlumanzia ne richiede. Ecco perché sei svenuto, testa di legno!»  sbottò, con stizza. Ma il ragazzo era riuscito a scorgervi anche un accento di tenerezza, in quelle osservazioni, e ne sorrise.
Al si guardò le gambe, smarrito. Era troppo abituato a stare con se stesso per notare questi dettagli.
Suo padre forse si starebbe stizzito. Lui no, ormai aveva imparato a stupirsi sempre meno della sua unicità: Piton attese di vedere, un’altra volta, la sua stranezza. Quella di chi sapeva capirlo, perché leggeva tra le righe.
«Davvero? Già, già… come ho fatto a non pensarci!» rise, grattandosi la testa, impacciato «Grazie, per l’acqua e per la frutta, in tal caso. E per la sgridata. Ho fatto proprio una cosa stupida…» ribadì, scuotendo vigorosamente la testa.
«Sei una testa di legno: come tutti i miei studenti, del resto!» rincarò la dose Piton. Consapevole che fosse un’iperbole, perché, nel profondo, era perfettamente consapevole del fatto che fosse tra i più brillanti studenti che avesse mai avuto occasione di incontrare.
Al, del resto, non riuscì a sentirsene umiliato, perché percepì un lieve tono paterno, in quella voce ormai familiare ed amica. Nonostante tutto.


 

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Capitolo 9
*** Che bello vederle correre, insieme! ***


Quella volta l’avevano studiata bene, Edward Johnson e i suoi scagnozzi, tutti Grifondoro del sesto anno, che da diversi mesi parevano aver preso di mira Albus.
L’inganno era stato semplice. Gli avevano fatto avere un biglietto scritto da suo fratello, con la calligrafia magicamente identica a quella di James. Diceva che voleva parlargli lontano da occhi indiscreti. Era plausibile. Quello spaccone di suo fratello era una furia, un tornado, sempre in attività. Ma Al lo sapeva che anche Jamie faceva fatica a portare quel cognome, che tutte le aspettative erano innanzitutto sul suo conto, in quanto primogenito, che doveva essere all’altezza delle imprese di suo padre, un eroe del mondo magico, fin dalla culla. Non una cosa da poco, insomma!
Capitava di frequente che si incontrassero, in modo discreto, anche solo per parlare. Essere in due Case diverse aiutava Al a trovare la propria strada, ma il tempo per vedersi era molto meno, con dormitori differenti. E, nonostante tutto, erano 11 anni che si conoscevano. Incrociarsi solo casualmente per i corridoi o in sala da pranzo era un grande cambiamento, rispetto alla convivenza forzata, e non sempre pacifica, ma continua, in casa Potter!
Inoltre, le direttive di tipo familiare (il ritorno a casa o i programmi per le vacanze) di solito erano comunicate a James. Cosa che ad Al non era mai dispiaciuta, per altro, perché significava che nelle sue lettere poteva dilungarsi sui racconti che riguardavano la sua persona, senza dover discutere dettagli di tipo logistico, che lo annoiavano.
Quindi, Al non sospettava di nulla, quando arrivò al luogo prefissato. Raggiunto il luogo convenuto, però, non c’era traccia di Jamie. C’erano invece sei ragazzi che avanzavano minacciosi, bacchette in mano, pronti a tormentarlo.
“Pensa, Al, pensa… veloce, però!” si disse, mormorando tra sé e sé, abitudine che aveva favorito spesso gli scherni dei suoi compagni di scuola e coetanei, sia nel mondo dei maghi che in quello babbano.
«Stupeficium!» sentì alle proprie spalle, e, senza riuscire a reagire, si trovò a sbattere contro un masso.
“Non abbastanza, Al… più veloce…expelliarmus? sono in troppi, qualcuno rimarrebbe comunque armato… sectumsempra? può fare danni irreparabili, non è il caso! E se provassi il Patronus? Ma se non mi è mai riuscito…” inutile dire che si ritrovò a pensare tutto questo in una frazione di secondo o poco più, stupendosi di quanto i suoi pensieri si rincorressero veloci nella propria mente, accompagnati da un altrettanto rapido susseguirsi di espressioni sul proprio volto.
Nel frattempo, Piton, nella grotta, insospettito dell’insolito ritardo del ragazzo, dopo mezz’ora di inutile attesa, si decise a lasciare la grotta ed iniziò a perlustrare la zona, fluttuando rapido lungo tutto il giardino di Hogwarts.
“Non sarà mica andato nella Foresta Proibita, come amava fare quell’incosciente del padre?” pensò e, senza pensarci, accelerò visibilmente. Ma niente, non c’era traccia di lui: neppure i centauri, a cui chiese sue notizie, l’avevano visto.
“Che sia andato ad Hogsmeade, in cerca di dolciumi, senza permesso?” pensò allora, virando verso il villaggio. Bastò un’occhiata veloce a capire quanto fosse, nuovamente, fuoristrada.
Quando il fantasma disperava ormai di poterlo trovare, lo vide. Era in un terrapieno, praticamente ai confini di Hogwarts, attorniato da sei ragazzi del sesto anno di corso. Alcuni ridevano, o, meglio, sghignazzavano. Altri lo deridevano. Uno lo stava facendo levitare sulle loro teste e minacciava di lasciarlo cadere.
Si domandò se fosse il caso di intervenire e, soprattutto, in che modo.  Si appiattì dietro ad una roccia, per non farsi vedere, meditando sul miglior modo d’intervento. Proprio allora sentì il ragazzo tuonare con voce stentorea e decisa: «Expecto Patronum!».
Piton non credeva alle proprie orecchie. Non l’aveva mai detto così bene, né aveva mai tenuta così saldamente la bacchetta, con polso morbido ed impugnatura decisa. Era tutto perfetto. Compresa la cerva che volteggiava in cielo, parandosi a protezione del ragazzo.
Difficile stabilire se Piton fosse più commosso dalla stupefacente perfezione di quell’incantesimo di protezione, oppure dal fatto che il patronus del giovane fosse uguale al proprio oltre che a quello di Lily. Cosa poteva significare: che aveva creato un legame particolare proprio con lui? Oppure con la nonna?
Nel frattempo, alcuni dei ragazzi indietreggiarono, esterreffatti ed impressionati:
«Ma… Ed, non è possibile: è al terzo anno, quel pivello: non può… o sì?!»
La sfrontatezza di Ed vacillò. Il ragazzo era ammutolito irrimediabilmente, sbiancando come un cencio.
Ma il meglio doveva ancora venire: quando, nel cielo, le cerve che volteggiavano, leggiadre e splendide, diventarono due, lo spavento fu tale che Ed lanciò in aria la propria bacchetta, terrorizzato, e se la diede a gambe,seguito dagli altri che, allibiti e increduli, lo imitarono. Nel giro di pochi minuti, il silenzio, in quel luogo, fu totale.
Al scese con un balzo dall’albero a cui si era prontamente aggrappato, quando l’incantesimo di levitazione s’era interrotto all’improvviso (cioè quando Ed aveva lanciato, terrorizzato, in aria la propria bacchetta):
«Professore, può uscire allo scoperto, ora. So benissimo che non sono io che ne ho evocate due, di cerve… però è stato meraviglioso vederle correre, insieme! Abbiamo lo stesso patronus, che bello! Ce l’ho fatta!» gridò Al, entusiasta, con gli occhi che gli brillavano di gioia, non appena fu certo di essere rimasto da solo.
E, al sentir questo, Piton uscì da dietro la roccia, preceduto dalla cerva, che si accompagnò ancora un po’ a quella di Al.
I loro sguardi si incrociarono.
«Ora puoi dirmelo, no? Qual era il tuo pensiero, quello con cui hai evocato il Patronus?» domandò Piton
 «Il ricordo più bello è stato quando la mia pozione è riuscita ed è arrivato Lei. Tanti mi parlavano di Silente. Di Lei sapevo poco, mentre volevo saperne di più. E poi… sapevo che era una pozione difficile: mi ha dato tanta soddisfazione riuscirci!» confessò Al.
«Comunque, non è vero che non ho amici. Michael McCunningham lo è, ad esempio. Solo, in quel momento, stavo venendo da Lei, quella volta che Lei ha visto nella mia mente, la volta scorsa. E poi….» aggiunse, facendo riferimento a ciò che il fantasma era riuscito a leggergli nella mente, l’ultima volta «Non finisce sempre così… spesso, James mi aiuta. Ma… non può essere sempre presente!» Poi con un sorriso, lo guardò: «Be’, per una volta, sono riuscito a farLa muovere dalla grotta! Ora vuole che ci torniamo, assieme?»
«Sì. Ora credo tu sia pronto a realizzare la Morte Vivente e la Pozione Anti - Lupo» propose. Poi, dopo una breve pausa, proseguì: «Tra tutti gli incantesimi che conosci, hai sceltoproprio quello che non padroneggiavi ancora bene? Come mai?»
Al arrossì fino alla punta delle orecchie: «Lo so, era rischioso, ma ho  pensato solo che se avessi focalizzato con attenzione ogni singolo appunto che mi aveva fatto, il risultato doveva essere migliore!»
«Non hai pensato al Sectumsempra?»
«Sì, certo che ci ho pensato» ammise, abbassando gli occhi, al ricordo della propria riflessione al riguardo «ma non volevo far loro del male. A nessuno… volevo solo che mi lasciassero in pace. E basta!», poi concluse: «Avevo pensato, anche se non sapevo come, ma mi aveva detto che si poteva, quindi doveva essere vero… di mandarglielo per chiederLe aiuto… poi ho visto il Patronus doppio: per quanto fossi migliorato, mi sembrava un po’ troppo; ho capito che doveva avere preceduto la mia intenzione ed essermi venuto a cercare… ma questo lo sapevo solo io, non gli altri, per mia fortuna!».
Cercò di celarlo, ma la risposta lo aveva soddisfatto pienamente. Aveva un animo puro, ma non gli mancava l’astuzia, così come la capacità di rimanere lucido. Gli doleva ammetterlo, ma era molto, molto più maturo di quanto fosse egli stesso, alla sua età; e non meno dotato. Dal primo momento in cui lo aveva visto, aveva scelto di farne il suo discepolo, di percorrere l’impervio e sottile crinale che correva tra bene e male, di mostrargli le magie più potenti. Mano a mano che procedevano, la paura che la sete di potere potesse ghermire il ragazzo aumentava in lui, come non gli era mai successo prima. Ma adesso non era prima. Prima, egli stesso si era lasciato prendere dalle mire di potere e dalla ricerca della gloria personale. Ora, era perfettamente consapevole dei rischi e delle conseguenze estreme, a cui queste potevano portare: erano ingredienti delicatissimi, che chiunque  volesse averne a che fare, doveva essere ben conscio di quanto fossero da maneggiare con cura. Nessuno poteva avvicinarlesi con superficialità.  Il ragazzo non gli aveva mai dato motivo di preoccuparsi seriamente. Tuttavia, sapeva bene che crescere non era mai semplice: troppe variabili entravano in gioco, tante cose potevano variare ed era convinto che non fosse inutile vigilare senza requie sulla mente e sul cuore del ragazzo.
Risolta la questione più importante, non resistette e lo stuzzicò, naturalmente, per motivi didattici: «Hai pensato che potevi fare una cosa più semplice: con un incantesimo chiamare la scopa e poi scappare via? Il dispendio energetico era sicuramente inferiore. Davvero non ti piace volare? Non ti è mai piaciuto o è solo perché non sei bravo a farlo?»
«Non mi ha mai entusiasmato, né prima né ora.» ammise, mogio mogio. Poi, riprendendo colore, speranzoso e pieno di entusiasmo, domandò: «Ma è vero che Lei sa volare senza scopa?»
«Sì» ammise, secco, senza pensarci.
«E non potrebbe.. insegnarmelo?»
«Albus, è una magia complessa, molto complessa, non di quelle che si fanno ai primi anni… non è roba da ragazzini!» iniziò.
«Oh, ma non sono mica piccolo… ho 13 anni, ormai!» rispose d’impeto, serio serio.
Piton fece fatica a trattenersi da una fragorosa risata: a 13 anni si sentiva già grande, il piccoletto, eh? Gli lanciò un’occhiata torva.
Albus allora sfoderò la sua faccia migliore, quella supplichevole, quella di fronte alla quale chiunque finiva alla sua mercé.
«Comunque, hai dimostrato di impegnarti, per cui, magari, tra un po’… ne potremmo parlare!» cedette il mago adulto, concedendo al giovane allievo un varco di speranza al proprio, precedente diniego.
«Oh, Sev, davvero? Grazie…. grazie mille!» esclamò, illuminandosi tutto, alla nuova, entusiasmante prospettiva.
Il fantasma si rabbuiò ed, inarcando il sopracciglio, tuonò (non gli era sfuggito il repentino ed istintivo passaggio dal Lei al Tu): «Albus, sei simpatico, sei un allievo in gamba, ma… resti uno studente. E sei molto più giovane di me! Porta rispetto e…» si fermò. Per l’abitudine stava per aggiungere “10 punti in meno a Grifondoro”, quando si ricordò che… non era Harry, non era a Grifondoro e, per finire, egli stesso non era più un insegnante di Hogwarts. All’improvviso, inaspettatamente, scoppiò in un fragorosa risata.
«Sev, non l’avevi mai fatto!» disse, ridendo, il ragazzo. Senza pensarci, Albus l’aveva fatto di nuovo: accortosene, arrossì fino alla punta delle orecchie e si nascose il volto tra le mani.
Piton sorrise: «Cosa non avrei fatto?», chiese, incapace di arrabbiarsi di fronte a quel nomignolo che gli evocava ricordi felici.
«Ridere, professore» rispose, ricomponendosi «E di se stesso, per di più!» Albus capì il motivo, senz’alcun bisogno di ricorrere all’occlumanzia. Quando hai la certezza che chi ti sta di fronte non riderà di te, puoi farlo tu, mentre questi ride con te.
Ma Al non dimenticò la propria colpa, pur non segnalata in modo esplicitamente e gli spiegò con sincerità: «Mi scusi, professore… non so cosa mi è preso… ero solo felice della notizia e… con Lei mi trovo così bene che… mi è venuto spontaneo. Ma ho sbagliato io: sono stato indisponente e arrogante e… poco rispettoso e… —» si affrettò a dire.
«Basta così, Albus… solo gli elfi si puniscono da soli per queste cose. Non vorrei essere costretto a sanarti ferite autoinflitte!» lo interruppe, severo, di fronte a quell’eccesso di zelo nell’umiliarsi di scuse.
«Oh, no, Signore: non ve La costringerò! Non intendo costringerLa a fare nulla che non voglia!» esclamò compito, strappando l’ennesimo sorriso allo spettro.
 «Professore?» domandò a un tratto, poco dopo.
 «Sì, Albus?»
«Grazie per essere venuto. So… quanto Le sia costato!»
E, per ritornare al solito posto, Albus scelse la strada più buia, più oscura, meno frequentata: aveva capito che Severus voleva ardentemente evitare di incontrare altri studenti, confusione, ma soprattutto l’onta di essere un fantasma come un qualsiasi Nick Senza Testa, come il Frate Grasso, o il Barone Sanguinario. E ad Al non parve una fatica o un disagio, quella deviazione: non aveva paura di nulla, in sua compagnia. Erano in due, con due Patronus, per giunta: si sentiva quasi invincibile, con lui al suo fianco. Si trovò a ripensare a quanto era migliorato in quei mesi (meno di un anno): le sue pozioni erano più accurate, i suoi incantesimi più precisi e potenti, le sue conoscenze sul mondo oscuro e sulle creature magiche più approfondite. Dietro, c’era sempre lui, che gli raddrizzava la bacchetta, gli ammorbidiva il polso, lo sgridava, gli intimava di mantenere la concentrazione, gli sibilava consigli ed indicazioni. È vero: a volte era duro, implacabile, rude, sgarbato, per nulla amichevole. Ma i frutti si vedevano: erano evidenti. Si fidava e si lasciava correggere, perché la voglia di imparare sovrastava anche il suo amor proprio e sapeva di chi si stava fidando.
Piton, dal canto suo, si accorse di come, anche solo con una parola o con uno sguardo, avesse una gentilezza tale che gli sembrava che, ogni volta lo carezzasse con la tenerezza di una madre. Sì, lui, il suo adepto pareva avere con lui una delicatezza che era insolita da trovare, quasi come se lo conoscesse da sempre e riuscisse a leggerlo nel profondo con una sola occhiata. Pensò che, se non fosse stato un fantasma, probabilmente gli avrebbe gettato le braccia al collo con lo stesso affetto, grato e genuino, con cui compiva quel gesto nei riguardi del padre. Al solo pensiero ebbe un lieve imbarazzo: stimava il ragazzo e la sua mente brillante, era rispettoso, caparbio e tenace, non era però sicuro di poter dire di essergli affezionato, anche perché forse non era sicuro di essere in grado di amare; poco avvezzo alle dimostrazioni di affetto, non gli dispiacque che quella sua condizione di fantasma lo togliesse dall’imbarazzo di non sapere come avrebbe potuto reagire ad eventuali gesti d’affetto che quel piccolo, amabile sconsiderato avrebbe potuto compiere nei suoi rispetti. Rifletté quindi, che non dover affrontare questo grattacapo era un aspetto positivo dell’essere fantasma, anche se forse l’unico.
In quel mentre, Albus si volse a guardarlo, con gratitudine; ma in modo così fisso, che il fantasma non poté fare a meno di chiedergli: «Che c’è?»
Ma Albus non rispose, anzi si affrettò a chiudere la mente perché non potesse saperlo. L’aveva appena ringraziato; era già la seconda volta e un altro moto di gratitudine sarebbe stato considerato eccessivo: non aveva dubbi al riguardo. E non voleva contrariarlo in alcun modo!
Il fantasma notò quel gesto e sorrise, compiaciuto, ricambiato dal ragazzo. Era ammirato della sua intransigenza, della sua applicazione, del suo continuo esercitarsi, della sua costanza e della sua determinazione. Era lo studente che ogni docente avrebbe sognato avere. Non perché sapesse ogni cosa (diciamoci la verità: quegli studenti non li vuole nessun insegnante, perché frustrano la fatica con cui essi preparano le lezioni!) e neppure solo per il suo studio. Aveva una mente aperta, disposta ad ascoltare, docile agli insegnamenti dell’insegnante che riceveva la sua stima. Forse non era così con tutti, ma il fantasma si accorgeva che era così nei suoi riguardi. E questo gli bastava per poterne essere orgoglioso, come di una propria creatura.

 

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Capitolo 10
*** Ci rivediamo al Castello! ***


Ci rivediamo al Castello!

«Io ho capito perché non sopportava Neville» disse Al; poi fece una pausa strategica, per mantenere il pathos, prima di proseguire: «Anche lui era nato alla fine di luglio, come mio padre. Se Voldemort avesse interpretato diversamente la profezia, avrebbe cercato Neville, non mio padre. E mia nonna non sarebbe morta. È così, non è vero?»
Vide Piton farsi ancora più trasparente e mordersi lievemente un labbro. Non aspettò oltre. Era la più eloquente delle risposte. Commentò, rassegnato: «Tanto.. con i se e i con i ma non si fa la storia!» esclamò a voce alta.
Poi parve distrarsi, per un attimo, sfogliando un quaderno. Ma dopo pochi minuti, tornò alla carica, sempre con domande impegnative:«Com’è… la morte?»
«È come chiudere gli occhi un momento e… poi riaprirli in un altro luogo.» disse con calma, soppesando ogni parola. Non riuscì a dire altro. Non poteva. Non era facile esprimere la morte a parole, neppure per chi ci era passato.
«E… fa male?»
«Fa male la solitudine, fanno male le ferite, ma la morte, in sé, non fa male!» spiegò, con estrema lentezza, con voce quasi annoiata.
 Il ragazzo rimase pensieroso, come se dovesse rimuginare ancora un po’ su queste rivelazioni, Quindi, riprese a scrivere le risposte ad un questionario di Storia della Magia, che doveva portare compilato per il giorno successivo.
«Lei pensa che mia nonna sia stupida?» chiese il ragazzo, senza preavviso.
Il fantasma si indignò, tirò a sé il mantello e, risentito, esclamò:  
«Come osi pronunciare una frase simile?»
«Forse sono io che sbaglio, ma in un libro sull'aldilà, ho letto che, per i morti, ogni risentimento, causa la perdita della gioia perfetta, che potrebbero invece raggiungere» si fermò e aggiunse, in un soffio: «Come può pensare che mia nonna non l'abbia ancora perdonata, dopo tanti anni, per un semplice momento di stizza?»
«Allora... Forse perché non mi ha mai più cercato, in tutti questi anni?»
«Le donne hanno tanti pensieri, sempre; le vostre strade si erano divise. Ma, se Lei pensa che il suo animo era buono e che non fosse stupida, allora... L'ha perdonata di sicuro, non può dubitarne in alcun modo! In più» aggiunse poi, con un ghigno compiaciuto di se stesso e del risultato a cui era pervenuto «c’è il Patronus. Ancora adesso è lo stesso di Lily. E non avrebbe senso che il legame sia univoco. Quindi, mi viene da pensare che non si sia mai spezzato, completamente, tale legame…. neppure quando Lei lo ha creduto!»
Aveva esposto il suo pensiero in modo lucido, impeccabile. Piton ne era sinceramente ammirato.  
«Devi frequentare parecchio tua zia, non c'è altra spiegazione!» fu il commento più inaspettato che si potesse pensare provenire dal pozionista: eppure fu proprio il primo che gli affiorò alle labbra: indiretto ed imprevedibile. Assieme ad un ancora più sorprendente sorriso. Era veramente incredibile a delicatezza che quel giovane gli riservava e che gli era palese, persino in quello che aveva tutta l’aria d’essere un rimprovero.
Il giovane sorrise: «Un po'».
Poi ascoltò lo spettro proseguire:
«Devo ammettere che, per essere una Babbana, è sempre stata molto sveglia!» poi aggiunse, con disappunto: «Peccato fosse una melliflua Grifondoro!»
"L'unità delle Case è ancora di là da venire!” pensò Albus, in quell’istante. Ma subito chiuse la mente ed impedì a Piton di accedervi.
Lo spirito sorrise. Non aveva letto nulla, ma aveva notato quel che il ragazzo aveva fatto. Per quanto potesse averne predisposizione, chiudere la mente richiedeva determinazione, fiducia, volontà e soprattutto una concentrazione che era difficile da tenere a solo 13 anni: si meritava di veder riconosciuti i propri sforzi!
«Con l'occlumanzia, batti la velocità di tuo fratello sulla scopa! » mentre lo pronunciò, si accorse che non era un complimento, ma la pura e semplice verità!
Vide un ghigno di compiacimento affacciarsi sul viso del ragazzo. Dopo aver ricevuto il miglior complimento possibile dal miglior occlumante che avesse mai incontrato, ora era riuscito addirittura a carpirgli un pensiero. Era un giorno da segnare sul calendario!
Ne convenne anche lo spirito, che, alla risposta, priva di arroganza, che lo raggiunse («Ho solo avuto un ottimo Maestro!»), si trovò a riconoscere:
«Non sono tutti pessimi, questi Potter!».
E, d’improvviso, iniziò una scomposizione corpuscolare, mentre si librava sempre più in alto nel cielo, fluttuando con grazia ed eleganza virili e maestose. Mentre, senz’alcuna fatica, come se non fosse la sua volontà a guidarlo, ma una forza superiore che sapeva perfettamente cosa fare, svoltava, volando, in direzione dell’ufficio della preside, si voltò verso il ragazzo a domandargli:
«Sai dove sto andando, vero?»
L’adolescente annuì, con elegante solennità ed agitò la bacchetta nell’aria, pronunciando l’incantesimo a mezza voce.
Una bellissima cerva argentata si sprigionò, accompagnandolo nel suo breve tragitto.
«Ci rivediamo ad Hogwarts, allora. Ci sarò sempre, per te. Farai grandi cose. Anzi… ne hai già fatte!» fu l’ultimo saluto, da fantasma, di Severus Piton.
“La morte sarà solo l’ultimo nemico ad essere sconfitto!” pensò. E sorrise. Ancora una volta, uno sguardo verde e gentile aveva accelerato il corso degli eventi e gli aveva dato una mano a compiere la propria missione.

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Capitolo 11
*** Non cambi mai! ***


Non cambi mai!

L’ufficio della preside era illuminato dalla luce solare, che si diffondeva uniformemente nella stanza, attraverso le finestre spalancate.
«Ah, Severus! Che bello rivederti! Te la sei spassata un po’, fuori dal castello, eh!» iniziò allegramente Silente, dalla sua cornice.
«Spassata, non direi proprio… ho lavorato alacremente, come ho  sempre fatto!»
Del resto, stare dietro ad un Potter è sempre impegnativo e, oltre alle ore effettive di lezione, dà sempre da fare, per tutte le restanti ore del giorno. Non aveva esagerato.
«Senza di te, era davvero un’altra cosa….» sospirò. E Piton davvero non capì se il Preside avesse fatto una battuta oppure no.
«Davvero era avvenuta una maledizione? Alla cornice? E per quale motivo?» provò a domandare Piton, che aveva sempre avuto grande stima per la brillante mente del mago, anche quando tutti pensavano fosse diventato un vecchio rimbambito.
«Sì, ragazzo mio. È arrivato un Mangiamorte incappucciato. Io stavo ancora dormendo, non sono riuscito a reagire. Ti ha fatto un incantesimo. Ti sei dissolto. La cornice è rimasta intatta. E da quel momento, nulla al Castello è stato come prima. Nulla, Severus. Noi tutti siamo come pietre di questo castello. Se le guardi bene, non ce n’è nessuna uguale. Siamo tutti diversi, Severus. Nessuno può sostituirti. Senza di te, avevamo irrimediabilmente perso un pezzo di questo iridescente, curioso puzzle che costituisce l’affascinante quadro realizzato dall’unione di tutti noi. È stata colpa nostra, Severus! Avremmo dovuto aspettarcelo, stare più attenti. Sei un bersaglio troppo ghiotto. Quei ragazzi irrequieti si stanno senz’altro organizzando, anche se non ho idea di cosa abbiano in mente di fare, né se siano riuniti intorno ad un nuovo capo. Comunque, è innegabile che tu sia importante. Tu sei la testimonianza che è possibile tornare indietro, dopo essere diventati Mangiamorte. Che anche un Mangiamorte può seguire la via della Luce, fino alla fine. Tu sei un esempio, e un monito, per tutti i Mangiamorte: per chi lo è, per chi lo è stato, per chi intende diventarlo. Tu sei più fastidioso di tutti noi messi insieme, che tu lo voglia o no!» spiegò Silente, con un sorriso affettuoso.
«Io, un esempio?» disse a stento Piton, ridendo fragorosamente, tanto che Silente lo rimbeccò: «Hai imparato a.. ridere? Dovresti farlo meno sonoramente, sebbene sia un gran sollievo per me, se non vuoi che i nostri discorsi privati siano immediata preda di tutta la scuola! Ah, Severus, i tuoi vecchi colleghi devono aver stimato ben poco il tuo lato migliore, se hanno pensato che tu non saresti mai riuscito a vincere i tuoi pregiudizi sul sangue e...sui Potter! Perché hai capito che di quello si trattava, no?»
Non l'aveva proprio capito in verità, ma aveva intuito che la maledizione che riguardava il suo quadro dovesse concernere qualcosa di simile, quello sì.
«Devo dedurre che tu abbia trascorso molto tempo col secondogenito dei Potter. Sbaglio?»
Piton annuì soltanto.
«E… com’è andata: racconta, ragazzo mio, non vedo l'ora!» domandò, curioso.
«Ho allenato Albus Potter, un serpeverde del terzo anno. È dotato per l’occlumanzia, ha buona concentrazione e, anche se forse non sei d’accordo con quanto ho fatto, gli ho passato tutta la conoscenza che ho. Compresa quella oscura, Preside. Tranne quella del volo; solo perché non ne ho avuto il tempo, naturalmente!»
«E come l’hai trovato?»  s’interessò Silente. E dalla concisione della risposta ricevuta, comprese che il Grifondoro non stava disapprovando nulla del lavoro che il pozionista aveva svolto con il ragazzo. Questo dettaglio, inevitabilmente, lo spinse a domandarsi se non fosse rimasto all’oscuro di qualcosa, rispetto alle idee o ai piani del barbuto mago.
«In gamba. Del resto, non avrei potuto aspettarmi di meno, dato il secondo nome che porta!» ghignò, ancora soprappensiero.
«Oh, caro il mio ragazzo, vorrei però rammentarti di chi è il primo nome!» specificò Silente.
«Non mi è sfuggito. Ma forse a te è sfuggito chi lui sia venuto a cercare!» replicò, con un certo orgoglio, che non l’aveva mai abbandonato, nel pensiero che il ragazzo si fosse cimentato nella preparazione di una pozione tanto difficile, pensando di riportare in vita proprio lui.  
«Oh, capisco cosa intendi! Non credere di essere stato l’unico ad avere il privilegio di conoscere da vicino il piccino! Forse non te l’ha detto? Ah, quale tatto quell’animo gentile! Non che entri di soppiatto o tramite incantesimi in questa stanza (è un allievo molto rispettoso, lo avrai notato!), ma se la preside, accidentalmente beninteso, si dimentica di chiudere la porta… suvvia, la curiosità non sarà una colpa, no?»
«Preside! Non ci posso credere!» lo ammonì il ritratto di Severus.
Capì che il ragazzo gli aveva detto la verità. I fatti dimostravano quale immensa fiducia gli avesse concesso, senza che Piton avesse fatto nulla per incoraggiarlo davvero ad aprirsi con lui in modo spontaneo e sincero. Era più che lecito che volesse conoscere tutta la propria storia, di cui, innegabilmente, anche Silente faceva parte. Eppure, continuava a essere fastidioso come il solletico il modo con cui quell’ottimo mago riusciva ad ottenere esattamente ciò che voleva, pur facendoti credere che fosse stata tutta una tua idea!
«Oh, suvvia, non c’è nulla di male. È così un caro ragazzo, tanto garbato e gentile, e simpatico pure! Non deve essere solo l’ottima combinazione Weasley - Potter… anche la materia grezza dell’allievo è di prima qualità, nel caso del piccolo Albus! Perché non avrei dovuto conoscerlo, Severus?»
«Preside, a questo punto sto pensando seriamente che Lei possa aver dato (ipotizzo!)qualche suggerimento rispetto a qualche pozione per trovarmi e sconfiggere la maledizione che aveva colpito il mio quadro. Sbaglio?»
Il professore dalla lunga barba bianca accennò un sorriso innocente quale sua risposta, ma lo sguardo malizioso e furbetto tradiva tutt’altro.
«Comunque sia andata, dopo anni, ho ricevuto un po’ di soddisfazione come insegnante. Per anni, l’ho sempre fatto solo come copertura. Odiavo quei mocciosi e i miei sforzi mi sembravano vani. Con lui… era tutto diverso! Seguiva, talvolta preveniva. Ha una mente brillante, una fiducia al di là di ogni aspettativa, un’umiltà e un rispetto rari. Non solo: la sua capacità di concentrazione lo rende malleabile e capace di assorbire, con ragionevolezza, ogni indicazione. Il suo punto debole è la sua empatia: mi spaventa quanto sappia leggere in profondità l’animo umano, anche senza l’occlumanzia. Al contempo, mi ha rassicurato vedere come il suo interesse verso l’occlumanzia sia sincero, ma al tempo stesso, sempre volto al bene. Salvo complicazioni particolari, in futuro, mi sento di dire che il suo giovane cuore è rivolto alla via della luce, nonostante l’interesse per l’occlumanzia (e ad ogni genere di incantesimo). Lo spingono la sete per il sapere e la volontà di migliorarsi, non ha pregiudizi con nessuno, ma sa leggere le persone meglio dei libri!»
«Hai trovato un ottimo studente, insomma, Severus?»
«Un ottimo Serpeverde!» ghignò, soddisfatto.
«… che terrà alto il nome di Hogwarts!» concluse Silente.
Incredibile:ancora una volta, quella vecchia volpe riusciva ad avere l’ultima parola.
E, come sempre, riusciva a parlare di tutt’altro l’attimo seguente.
«Severus, guarda che splendida giornata! È una fortuna che siamo proprio qui, nel posto migliore per vedere l’alba, oltretutto! Dà… speranza, non trovi?» squittì con entusiasmo.

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Capitolo 12
*** Sectumsempra! ***


Sectumsempra!

Non poteva saperlo, quello no, ma intuirlo, almeno sì. Michael: quell’impulsivo, irrimediabilmente facile da “accendere” nel bene e nel male, del suo migliore amico. Gli assomigliava come un elfo assomiglia ad un gigante, ma è nella differenza che si scoprono le ricchezze, proprie ed altrui. Nonostante fosse tremendamente simile a James per mille e un motivo, sapeva sempre come prenderlo, non gli mancava mai di rispetto e non smetteva mai di incoraggiarlo.
Tuttavia, non riusciva a tollerare gli insulti a proposito del sangue, che non mancavamo mai, soprattutto da parte dei concasati più grandi di loro. Theodore Lestrange, lontano parente di Bellatrix, in particolare, si era mostrato particolarmente accanito, contro di lui e, in un paio di occasioni. Michael ne aveva parlato con Al. Scoppiettava come un vulcano e meditava vendetta. Al ebbe l’impressione che, stavolta, l’amico avrebbe potuto fare davvero sul serio e cercò di dissuaderlo in ogni modo. Ma, un po’ come Jamie, non era affatto facile dissuaderlo dai suoi propositi, una volta che si era convinto di andare fino in fondo. Era molto simile a sventolare un fazzoletto rosso, di fronte ad un toro furente. Inutile, quasi sempre; il più delle volte, foriero di situazioni peggiori.
Infatti, raggiunto il ponte attraverso cui Hogwarts comunica con i dintorni, i tre fratelli Potter si ritrovarono, loro malgrado, ad avere a che fare con la tremenda idea del giovane Ginger della casa di Serpeverde.
Appena vide quell’enorme esemplare di Dorsorugoso farsi loro incontro, sputando fuoco e fiamme a volontà, si ritrovò a sbottare, seccato, mentre avvertiva la mano di Lily stringersi impaurita alla propria: «Ci mancava solo che quell’imbecille si risentisse per quegli stupidi scherzi e combinasse qualche guaio!».
James non perse occasione per rincarare la dose:
«Ovviamente, se c’è un guaio, chi ne è la causa, se non un Serpeverde?» sbraitò, a muso duro.
Al ricambiò con forza la stretta della sorella e, mentre la conduceva al sicuro dietro un masso, la rassicurò:
«Andrà tutto bene. Siamo 3 Potter!»
Gioì al vedere un timido sorriso in risposta all’incoraggiamento, nonostante si rese conto di non essere del tutto convinto egli stesso di quanto avesse appena detto.
James era rimasto allo scoperto. Facendosi scudo con il coperchio di un grosso bidone, che il vento doveva aver fatto arrivare fin là, lo punzecchiava:
«Coraggio, vieni… lascia stare mia sorella e combatti da uomo, drago fiammeggiante!»
Al lo guardò ammirato, con quello stesso sguardo che i secondogeniti riservano ai primi, nonostante tutto e tutti. Sembrava davvero coraggioso e determinato, come e più di quanto lui avrebbe mai potuto essere, nell’intera propria vita. Di questo era profondamente convinto. All’improvviso, da quello che inizialmente gli era sembrato un sacco di iuta e poi si rivelò essere il Cappello Parlante, Al vide che il fratello sfilava, senza sforzo apparente, una spada e, con quella, colpiva ripetutamente il drago, nel tentativo di allontanarlo dagli altri fratelli. Ottenne solo il risultato di essere inseguito da un drago ancora più furioso, che gli sputava contro fiamme enormi, con tutta la forza di cui era capace. Allora, si volse verso Albus, con un lampo di speranza negli occhi. Quanto doveva essergli costato, ammettere a se stesso di aver bisogno dell’aiuto del proprio fratello minore!
“Solo un vero Grifondoro può usare la spada di Godric!” ricordava che suo padre glielo aveva ripetuto diverse volte. “Non riuscirò a prenderla” pensò immediatamente, mentre la spada, lanciata da James, stava, letteralmente, volandogli tra le mani. Chiuse gli occhi, durante gli ultimi attimi di quel volo. Inaspettatamente, sentì tra le mani qualcosa di duro, metallico. L’impugnatura era dorata, preziosa e la lama di fine fattura: ma non aveva tempo per rimanere a rimirarla. La strinse con forza e l’affondò nella carne del drago.
Ma il colpo non era ben assestato. E il drago era soltanto più arrabbiato.
«James!» gridò. Uno sguardo, non servì altro. James era il fratello maggiore: lui era responsabile di Lily, lui doveva impedire che si facesse del male. Del resto, era troppo piccola perché sapesse padroneggiare un incantesimo che tenesse a bada un drago: se Jamie l’avesse portata via, avrebbe potuto anche chiamare aiuto. Era meglio per tutti! James diresse uno schiantesimo al drago, per allontanarlo dal fratello minore e dargli tempo, poi prese in braccio la sorellina e si allontanò velocemente.
Ora che il fratello se ne era andato, nulla poteva impedirglielo. La paura che lo attanagliava si sciolse in calde lacrime che scivolarono lungo le gote di Al. Non sapeva assolutamente che incantesimo fare. Non sapeva volare. E aveva una fifa blu di quelle vampate di fuoco: sapeva cosa significava prendersene una nel pieno della sua forza. Morire bruciati: la peggior morte possibile. Era più che sufficiente per immobilizzarlo dalla paura.
In quel momento, penso a Piton, alle lezioni, alle raccomandazioni, ai rimproveri.
“Usa la testa”. “Controlla le tue emozioni”. “Disciplina la tua mente”. “Non farti sopraffare dalla paura: dominala con il coraggio che ti viene dai tuoi obiettivi”. “Non lasciare che una sconfitta ti impedisca di vedere le tue opportunità!”. "Sovrasta i sentimenti, e padroneggerai la situazione contingente!".
Quelle frasi, nonostante le ricordasse esattamente come le aveva sentite in quei giorni, vomitate addosso con stizza e disapprovazione, accompagnate da una smorfia di disgusto, gli stavano infondendo coraggio. Si sentiva rinfrancato, come se nuova linfa gli scorresse per il corpo, che non tremava più come una foglia, mentre le mani stavano rinsaldando la loro presa sulla bacchetta. Ma nulla era come le lezioni. Un drago gigante davanti agli occhi non era come esercitarsi nella placida calma della grotta, nonostante Piton non mancasse di simulargli situazioni di stress, mettendogli pressione in ogni modo conosciuto o non ancora conosciuto. Era comunque diverso. Perché non aveva mai fronteggiato un drago, come quello che gli stava alitando addosso il suo fiato caldo, a pochi passi da lui. E lui avvertiva, condensato in un solo istante, tutta la sua consapevolezza di essere estremamente piccolo rispetto a lui.
In quel momento, ricordò altre parole del professor Piton: “Sei stato bravo ad intuire che ci sono alcuni incantesimi che ti saranno utili. Ad esempio, non puoi usare un Expelliarmus se il tuo avversario non ha bacchetta!”. Già, perché non ci aveva pensato subito? La spada richiedeva un incontro ravvicinato.. la bacchetta no… poteva essere più preciso e più efficace. Aveva raccolto il ricordo giusto, tra gli insegnamenti ricevuti, ne era certo!
Ora gli mancava solo di metterlo in pratica.
«Sectumsempra!» proclamò con chiarezza, disegna nell’aria precisi movimenti con la bacchetta, come se avesse una spada tra le mani.
Inaspettatamente, tutto andò come doveva andare. Il drago si accasciò su se stesso, emettendo solo qualche faticoso sbuffo di fumo dalle grandi narici. Solo quando lo vide a terra, avvolto su stesso come un cencio sporco, gli si avvicinò di corsa, volendo risanarlo.
Di gran carriera, anche la professoressa McGranitt si stava dirigendo nei pressi dell’animale, dopo essersi materializzata nei pressi, portando una fiala di una potente pozione soporifera, che gli somministrò con grande rapidità, subito dopo averlo immobilizzato con un incantesimo Incarcerus, che nessuno, tra i ragazzi, conosceva. Alla vista del guardiacaccia che si dirigeva loro incontro preoccupato, Al si gettò sul drago e, come un folle, iniziò quella nenia che aveva imparato e perfezionato in quei mesi, grazie al professore, accompagnando le sue parole con gesti delicati della bacchetta, proprio a pochi centimetri della dura pelle del drago:
«Vulnera sanentur…. vulnera sanentur».
Di fronte allo sguardo, atterrito ed esterrefatto, della preside, lentamente ed inesorabilmente ogni ferita del drago si stava rimarginando, in seguito alle parole posate del giovane Albus.
«Albus Potter, devo chiamarti nel mio ufficio. Aspettami là, mentre vado con Hagrid a scrivere un gufo per sistemare questo drago affinché non faccia ulteriori danni: a sé, persone o cose…»
«In presidenza, davvero?» domandò incredulo e speranzoso. Una reazione che la preside non si sarebbe mai aspettata, ma non fece a tempo a dirgli nulla, perché il ragazzo schizzò via come se avesse le ali ai piedi.
Albus non aspettò per molto tempo, seduto davanti alla scrivania della preside.
«Potter, senza dubbio, il tuo comportamento è stato utile. Ma tante cose sono strane. Hai evocato un Patronus contro alcuni tuoi compagni. Hai realizzato un incantesimo offensivo contro un drago, che, vorrei ricordarti, per altro, è un esemplare raro e una razza protetta…» iniziò questa, non appena ebbe varcato la soglia e chiusa la porta alle proprie spalle.
«Solo perché aveva attaccato mia sorella..e poi ho usato il controincantesimo: non intendevo fargli del male, davvero, signora preside!» si difese Al, senza chiederle la parola.
«Potter, fammi finire!» si stizzì lei.
«Mi scusi, signora preside!»
«Tra le altre cose, vorrei proprio sapere come abbia fatto un drago proveniente da uno degli ultimi allevamenti irlandesi, per altro probabilmente illegali, ad arrivare fino a qui? Non ne sai nulla, vero?»
Era improprio dire che non sapesse nulla, ma nemmeno sapeva tutto! Conosceva Michael, sapeva che era irlandese, sapeva che gli piacevano i draghi e che, tanto quanto lui, era stufo degli scherzi di alcuni ragazzi più grandi. Probabilmente, aveva solo pensato di dar loro una lezione e… la cosa gli era sfuggita di mano. Insomma, cose che capitano, no? Doveva essere per forza così, perché Michael non era cattivo. E, soprattutto, era uno dei pochi Serpeverde con cui avesse legato, in quegli anni. Non poteva dire nulla, proprio nulla. E infatti non disse nulla. A parole.
Quando, però, la professoressa McGranitt domandò: «Potrebbe forse c’entrare il signorino McCunningham?», il suo volto andò letteralmente in fiamme.
La preside sospirò; quindi, comprendendo la battaglia interiore del piccolo Al, lo rassicurò: «Saranno presi seri provvedimenti disciplinari sul colpevole, com’è giusto che sia. Ma nessuno lascerà questa scuola. A tutti sarà data una seconda possibilità, come si è sempre fatto!»
Albus tirò un sospiro di sollievo, ma si accorse subito che non era ancora finito il supplizio.
«Senza dubbio, ha dimostrato buona maestria, signor Potter e la capacità di dominare le proprie emozioni» continuò infatti la Preside. E a quest’osservazione, Al si accorse di inorgoglirsi interiormente, perché significava che era apparso anche all’esterno, in modo oggettivo, che aveva fatto suoi gli insegnamenti nella caverna!
Ma la Preside non aveva concluso: «Sono comunque incantesimi offensivi, per quanto usati con prudenza e parsimonia. E anche il controincantesimo non fa parte del curriculum scolastico. Sono tutti incantesimi che non ti sono stati insegnati a scuola!»
«Oh beh, proprio in aula no, ma li ho imparati qui, Le assicuro…» iniziò Al, che però non sapeva come andare avanti. Non era sicuro se potesse esserne contenta, lei. E non avrebbe mai voluto addossare la colpa a Piton. Gli aveva promesso di fidarsi. Quando ci si fida, non si espone l’altro a nessun pericolo, ma lo si protegge, in ogni modo.
«E da chi li avresti imparati, si potrebbe sapere?»
«Da me!» tuonò una voce, alle spalle del giovane studente.
«Non pensavo che ti avrei rivisto tanto presto, Albus!» commentò la voce, rivolta al ragazzo, mentre questi arrossiva; poi, questa proseguì, seraficamente calma: «Garantisco io per quest’ottimo studente Serpeverde!».
Minerva barcollò. Si avvicinò al quadro e mise una mano alla bocca. Era stato tanto il trambusto di quei giorni, che non ci aveva fatto caso. Il ritratto di Piton era tornato a riempire la cornice.
«Severus, io… non ti avevo visto! Ma è vero, quindi? Sei tornato? Potter ha ricevuto lezioni avanzate… da te?»
«È esatto. Albus Severus Potter ha chiesto lezioni supplementari. Da quando me ne sono andato, del resto, sembra proprio che la scuola abbia iniziato un certo degrado. Anzi, a tal proposito riterrei opportuno che vi fosse maggiore sorveglianza su alcuni alunni del sesto anno, Grifondoro e Serpeverde, che pare si divertano a tormentare con scherzi ignobili alcuni compagni più piccoli. Sai benissimo che, di fronte ad agguato con molteplici bacchette, nessun mago, da solo, neppure il migliore, riuscirebbe ad avere la meglio!» constatò il ritratto, aspro.
«Vi porremo rimedio!» replicò, decisa, la preside.
Poi si rivolse al giovane Serpeverde:
«Va bene, Potter, in tal caso, può andare! Spero che utilizzerà con parsimonia e criterio le lezioni del professor Piton! » disse poi, rivolgendosi al ragazzo e dando le spalle al quadro.
Albus si alzò dalla sedia.
«Certo, signora Preside. Ci starò attento!» promise Albus.
Osservò ancora il quadro, prima di oltrepassare la soglia. Era sicuro, gli stava sorridendo, pur nell’ombra di quel suo mantello scuro, in quella cornice appesa: allora, era vero che, se l’avesse cercato, l’avrebbe trovato sempre dalla stessa parte, la sua. Sempre! *

*citazione indiretta di “Sempre e per sempre” di F. De Gregori

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