Le figlie di Nut

di Hamartia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
~

2575 a.C. Menfi, Egitto.
Era una notte fredda come tante altre, il firmamento splendeva sulle mura bianche della capitale e sul deserto circostante. La luna rendeva la sabbia così bianca da farlo sembrare un panorama lunare.
Al porto di Ineb-hedj1 gli unici suoni erano quelli dell'acqua del Nilo, che scorreva tranquilla tra le leggere imbarcazioni di papiro lì attraccate, il gracidare delle rane nascoste tra le piante della riva e una leggera brezza muoveva le canne, diffondendone il fruscio.
Una guardia faceva il suo solito giro di ronda all'esterno delle mura: Senmut era il suo nome e, come tutti coloro che facevano il suo stesso lavoro, portava la parrucca nera a caschetto e un semplice gonnellino chiaro. Di umili origini contadine, entrò volontario nell'esercito in cui si fece presto notare per la completa padronanza di arco e frecce e del bastone da lancio.
Aveva appena 16 anni ma la sua ambizione lo portava a desiderare di ricoprire le cariche più alte per avvicinarsi in questo modo al grande Faraone Snefru. Certo non lo faceva per la gloria del suo nome o per arricchirsi. Lavorare nell'esercito era un lavoro come un altro. Lo voleva per essere vicino al suo Faraone, reincarnazione del sommo Dio Ra, per essere da lui glorificato e assicurandosi così, un posto tra le stelle quando la morte sarebbe sopraggiunta.
Sognare era bello, di strada da fare ce n'era ancora molta ma, prima o poi, ce l'avrebbe fatta, lo sapeva. Sarebbe andato in viaggio col suo sovrano, avrebbe visto terre sconosciute e banchettato alla sua stessa tavola e, quegli stranieri dalla pelle color dell'ebano, gli avrebbero portato i piatti più succulenti, avrebbero danzato e cantato per lui ed il suo Faraone.
Ma ora doveva semplicemente completare la ronda notturna e poi, se non fossero riscontrati problemi, sarebbe tornato a casa, dove abitava ancora con i suoi cari genitori, e finalmente riposare.
La strada che percorreva fiancheggiando le mura, terminava sempre vicino ad ammasso roccioso non lontano dalla riva, che sembrava quasi artificiale dalla posizione dei massi: somigliava ad un muro basso che si arrotondava ai lati tendendo a chiudersi in circolo, formando una sorta di nascondiglio. Chissà, forse tempi addietro era usato per essiccare o cucinare ma poi abbandonato lì dopo la costruzione delle mura, lasciandolo così in balia delle intemperie.
Senmut controllava sempre che all'interno non ci fosse nascosto qualcuno, magari qualche ladro da poter arrestare, in modo da ottenere qualche attenzione a palazzo. Anche questa volta non vi era nulla. Era tempo di rifare la strada a ritroso così da essere a casa per le prime luci dell'alba.
Tutto sembrava normale, la mente aveva ricominciato a fantasticare sul suo futuro ricco di aspettative, finché, dopo pochi passi, l'atmosfera non fu rotta dal pianto di neonato. Non c'era nessuno a udirlo se non lui. Com'era poossibile che ci fosse un bambino lì, all'esterno delle mura e quell'ora così tarda? Ma non se lo stava immaginando. Tornò sui suoi passi, seguendo quei gemiti disperati che lo riportavano fino a quel misterioso ammasso roccioso, dove pochi attimi prima non vi era nulla. Assolutamente nulla.
E poi le vide. Non faceva a meno di tenere la bocca spalancata dalla sorpresa: all'interno, come per magia, c'erano due neonate che strillavano con tutta la forza dei loro piccoli corpicini.
Bisognava correre a chiamare il grande sacerdote: doveva vedere con i suoi occhi quella bizzarra visuale e avere la conferma di non aver perso la ragione. Grazie agli allenamenti a cui si sottoponeva ogni giorno, in pochi minuti era davanti alle porte della città e per la fretta, per poco non perse la parrucca. Trafelato com'era, non era facile dare spiegazioni ai compagni di guardia all'entrata, riusciva solo a ripetere di andare a chiamare il sacerdote capo. Mentre una delle due guardie partiva in gran rapidità, Senmut prendeva fiato e ripensava a quella scena, a quelle bambine, a come siano finite lì.
In pochi minuti l'altra guardia tornò insieme a Kaaper, il sacerdote, che aveva tutta l'aria di essere stato buttato giù dal letto a forza. -«Ragazzo, cosa sta succedendo a questa tarda ora di così importante da richiedere la mia presenza?» disse mentre si stropicciava gli occhi.
-«Sommo Kaaper, dovete venire a vedere con i vostri occhi, dovete dirmi che non sono imppazzito all'improvviso. Ho buone ragioni per credere che gli Dei ci abbiano mandato un segno!» gli disse Senmut.
-«Presto, mostrami! Venite anche voi guardiani delle porte perché, se è vero quel che dice questo giovane soldato, devono esserci quanti più testimoni possibili!»
Senmut camminava svelto, l'impazienza e il vigore tipici dei giovani si dimenticarono dell'abbondante corporatura di Kaaper che, a differenza degli altri due soldati, faticava a stargli dietro.
Arrivati all'ammasso roccioso, Senmut si fermò indicandolo. Il sacerdote, dalla testa liscia e umida di sudore, sfinito e boccheggiante, inaspettatamente trovò la forza di continuare a muoversi. Si avvicinava pian piano a quel muricciolo, la curiosità gli impediva di cadere a terra sfinito. Le vide.
Due neonate che, per terra, dormivano beatamente. Ma non era quello il fatto più anormale: ciò che sconvolgeva di più il grande sacerdote Kaaper e le due guardie era che le bambine erano custodite da due animali, l'una era avvolta da un cobra e l'altra vicino aveva appollaiato un avvoltoio.
I due animali non erano ostili, sembrava che volessero proteggerle come fossero state i propri piccoli, cullandole nella notte e difendendole dagli altri predatori come una madre canta una ninnananna per allontanare gli incubi.
Come il sacerdote si avvicinava, il cobra strisciò via e l'avvoltoio prese il volo. Il loro compito era giunto al termine.
-«Figlie degli Dei,
Figlie delle stelle,
Udajet e Nekhbet2
Dee reincarnate siete,
Noi ci prenderemo cura di voi
E voi ci proteggerete»

Detto questo, Kapeer prese in braccio la bimba dagli occhi neri e profondi, Nekhbet, e Senmut, con timore e delicatezza, accoglieva tra le braccia la piccola Udajet, meravigliandosi di quanto verdi e vivi fossero i suoi occhi.
Mentre le bimbe venivano portate a palazzo per crescere con i figli del Faraone, la voce si sparse per l'Egitto e presto tutti sapevano che, oltre al sovrano, altre due Dee vivevano fra loro. Feste e banchetti venivano organizzati, il popolo ballava e cantava.
Su quei due esserini, così piccoli ed innocenti, gravava già un destino più grande di loro e di tutte le epoche a venire.


1: "Muro Bianco", nome con cui veniva chiamata Menfi nell'Antico Regno
2: Udajet = Dea Cobra
Nekhbet = Dea Avvoltoio

 

Heylà!!! Prima di tutto ringrazio in anticipo chi legge.
Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto e se vi va potete leggere "la morte è soltanto il principio" http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3219817&i=1 altra storia in corso che sto scrivendo a cui è collegata (ma potreste farvi spoiler, io vi ho avvertiti).
A presto, spero,  con il secondo capitolo!

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I
~

Il tempo passava, gli anni scorrevano impetuosi come le inondazioni del Nilo e le due bambine crescievano in fretta a palazzo insieme ai figli del Faraone Snefru. Le innumerevoli mogli del sovrano erano delle madri apprensive e sempre attente alle due piccole dee nonostante non fossero loro figlie. Si prendevano cura di loro, nutrendole e lavandole, coccolandole e viziandole come ogni bambino dovrebbe essere coccolato e viziato. Ma loro erano molto più di due semplici bambine e veniva data loro più attenzione del dovuto.
Il Faraone, quando non era in viaggio, si ritrovava spesso a discutere col sacerdote capo della sorte delle piccole dee, chiamate anche "le figlie di Nut", l'appellativo con cui ormai il regno le chiamava. Nella grande sala del trono quasi completamente vuota se non fosse stato per le uniche presenze del sovrano e del sacerdote, Snefru sedeva sul suo trono di legno ricoperto d'oro e sui era inciso con i lapislazzuli il suo divino nome: Snefru, colui che arreca la perfezione. Kaaper al suo cospetto ascoltava per l'ennesima volta i timori del sovrano, aspettando il momento giusto per intervenire e dargli la tanto discussa e attesa notizia.
Snefru temeva che se le dee reincarnate fossero cresciute a palazzo si sarebbero sentite prese a parte alla sucessione al trono o, peggio, glielo avrebbero potuto strappare. In fin dei conti lui quand'era nato non era letteralmente apparso per magia sotto una coltre stellata con un animale sacro quanto pericoloso a proteggerlo. Loro avrebbero potuto farlo e il popolo non si sarebbe opposto, anzi le adorava già ora che erano ancora due infanti. E probabilmente una volta sul trono si sarebbero fatte la guerra tra di loro, perché un regno non si può certo governare in due. L'Egitto si sarebbe diviso, la guerra si sarebbe diffusa come una malattia. No, dovevano sparire dal palazzo reale il prima possibile, a costo di sfidare gli Dei stessi.
Kaaper dal canto suo teneva molto alle bambine, che fossero davvero state mandate dagli Dei o no - ma questo lo ammise solo a se stesso - perciò, in accordo con gli altri sacerdoti, voleva che le piccole dee crescessero al tempio e sotto la sua supervisone sarebbero diventate due sacerdotesse. Giò mentre lo diceva vedeva il suo sovrano illuminarsi di gioia.
«Ottima idea mio sommo Kaaper! Appena le due bambine saranno in grado di parlare e capire saranno affidate a voi. E mi raccomando: che siano educate in modo che l'idea del trono non passi nella loro testa neanche per un attimo..» il Faraone, con la voce decisa e profonda, col suo sguardo fiero e freddo contornato di nero e il viso dai lineamenti affilati, il mento spigoloso accentutato dalla barba posticcia guardò il sacerdote, affondando gli occhi nei suoi, e se li avesse avuti, ogni pelo sul suo corpo si sarebbe drizzato dal terrore.
«Ma certo mio Faraone, le uniche cose a cui dovranno pensare saranno accudire i malati e i morenti e presenziare alle processioni e ai riti.» rispose tranquillamente il buon sacerdote, nascondendo l'inquietudine. Sapeva di non dover temere il Faraone, perché lui, il Dio che regnava sul popolo d'Egitto, teneva molto al suo saggio parere.
«Meraviglioso! Ti ringrazio Kaaper, ora puoi tornare ai tuoi abituali compiti.» e con un mezzo sorriso ed un cenno del capo il Faraone congedò Kaaper.
Con un lieve inchino il sacerdote lasciò i ricchi e sfarzosi ambienti del palazzo, per tornare ai suoi compiti, felice di aver dato una buona notizia a Snefru. Il cielo era l'impido e l'afa pomeridiana cominciava a farsi sentire mentre Kaaper camminava Sulla strada sabbiosa per il tempio. L'euforia si impossessava di lui e gli veniva quasi voglia di canticchiare: presto avrebbe avuto quelle due meravilgiose bimbe con se al tempio; avrebbe insegnato loro tutto ciò che sapeva, le avrebbe viste crescere come le figlie che non ha mai avuto.


Qualche anno dopo..

«Sorellina aspettami! Non correre così veloce!»
«Sbrigati Udajet, se il pelatone o qualcuno degli altri sacedoti scoprono che non siamo al tempio sono guai!»
«Non chiamarlo così! È il sacerdote capo!!!» urlò Udajet di rimando, indignata dall'insolenza della sorella.
«Non è mica qui ad ascoltare dai! Chi se ne importa!» la spensierata risata di Nekhbet colorò l'aria circostante, alleggerendo per un attimo il pesante caldo di un pomeriggio inoltrato. Quel caldo in cui tutto è tranquillo e silente, quel caldo che normalmente prosciuga tutta l'energia dal corpo umano senza fare alcunché. Per due bambine che di energia ne hanno da vendere, quel caldo appiccicoso e soffocante non faceva alcuna differenza.
Le bimbe correvano a perdifiato su una stretta via secondaria verso il tempio, spronando i muscoli delle piccole gambine ad andare più veloce nonostante la stanchezza per aver giocato tutto il pomeriggio. Ciocche di capelli biondi e corvini si aggrovigliavano nel vento per la corsa. I sacerdoti non avevano cuore a tagliarli per far indossare loro una parrucca, non ancora almeno.
Per l'ennesima volta la determinazione del carattere vivace della piccola Nekhbet aveva convinto sua sorella a sgattaiolare dal tempio per andare a giocare tra i banchi del mercato. Un piccolo atto di ribellione che era ormai una consuetudine a cui neanche la paurosa e timida Udajet sapeva più dir di no.
Kaaper aveva detto loro di restare nella loro stanza a studiare i geroglifici da "Il libro dei morti", copiarli su un papiro e impararli a memoria. Per delle bambine che non sentivano altro che il richiamo del gioco il compito si rivelò alquanto noioso, finché Nekhbet, capelli biondi e dritti, occhi neri e profondi, incarnato olivastro, con la sua aria da furbetta, alzò la testa dal papiro e propose di uscire di nascosto per andare a giocare e magari andare a spaventare qualche disgraziato giù al mercato fingendo di lanciargli qualche maledizione divina. Udajet, sguardo di smeraldo indeciso un poco nascosto dai lunghi capelli corvini leggermente ondulati che le incorniciavano il pallido viso, aveva acconsentito a patto di non intimorie nessuno; era solo una bambina ma aveva già capito che era meglio non giocare sui compiti di dea incarnata minacciando qualcuno per gioco o solo per qualche dolcetto e qualche veste di lino colorata. Dal suo punto di vista erano solo capricci. Stupidi capricci di bambina. Ma per la sorella non era così. Per Nekhbet tutto era un gioco e, per quanto odiasse studiare tutto il giorno, le piaceva di tanto in tanto approfittare della sua carica di Dea in Terra.
Dopo essere evase da una delle tante porte del tempio, una di quelle da cui non passava quasi mai nessuno, corsero verso il mercato e lì vi restarono tutto il pomeriggio a rincorrersi tra le bancarelle o a giocare al gioco del serpente1 con gli altri bambini, gioco che piaceva particolarmente alla graziosa Udajet. I bambini, almeno loro, le trattavano come fossero persone normali, delle semplici coetanee che volevano solo giocare senza essere giudicate per ogni parola, ogni esperssione. Almeno finché non facevano le solite curiose e odiose domande che solo i bambini possono fare: "come potete essere sorelle se siete così diverse?", "perché vi regalano sempre le cose più costose?", "non ho mai visto parrucche di quel colore, come l'hai fatta? Con i peli di cammello?", "Hai la pelle troppo chiara, sei per caso malata?". E continuavano così, fino al momento in cui lacrime di rabbia riempivano gli occhi della piccola Udajet e la sua bocca sputava insulti e minacce, che erano le ingenue offese di un bambino, e Nekhbet, prendendola per mano la portava lontana e si faceva dare dalla gentile anziana della bancharella dei frutti, i datteri più dolci. Cosa c'era di meglio per attenuare la rabbia e la tristezza?
Una volta sbollita la rabbia, stavano ancora gustandosi quelle dolci prelibatezze quando si accorsero che si era fatto tardi: a momenti Kaaper sarebbe tornato al tempio e avrebbe controllato il loro lavoro. Ringraziarono la donna per i suoi magnifici frutti e la sua gentilezza promettendole un posto tra le stelle insieme a loro, e cominciarono a correre spedite come il vento verso il tempio.

Kaaper era appena tornato al tempio dopo l'ennnesimo colloquio col Faraone per organizzare la festa di Opet che si sarebbe tenuta dopo poche settimane. Camminava tranquillamente attraverso i corridoi del tempio, i suoi passi echeggiavano tra le alte mura e le varie statue di pietra finché si fermò e fu silezio: era arrivato alla stanza delle bambine, stava fissando la porta chiusa di legno e nessun suono proveniva dall'interno. Temeva che le bimbe fossero nuovamente uscite a giocare di nascosto. Avevano tutte le ragioni per farlo ma era pericoloso per loro e per le credenze del popolo. Chissà cosa poteva sfuggire dall'ingenua bocca di una bambina che tutto il regno crede una dea? E chissà come il popolo avrebbe interpretato quelle innocenti parole? Se uscivano doveva essere presente anche lui. Ma anche se lo facevano di nascosto non aveva cuore per punirle, erano solo delle bambine, era normale per loro voler solamente giocare alla loro tenera età, così si limitava a farle studiare più del normale.
Era il momento della verità: aprì piano la porta e infilò la testa all'interno.
«Buonasera gran sacerdote Kaaper!» le bimbe lo avevano accolto in coro, sedute al grande tavolo nella loro stanza, papiri sparsi ovunque e pennellini alla mano, che lo guardavano con quei sorrisi innocenti e gli occhi vivaci, pieni di vita e di speranza. Kaaper spalancò la porta ed entrò nella stanza sorridendo: la soddisfazione per averle trovate così dedite allo studio era per lui immensa.
«Buonasera mie piccole dee! Vedo che siete ancora a lavoro, che meraviglia! Ma per oggi avete studiato a sufficienza, ora potete andare a cenare nella sala grande e poi vi potrete coricare.»
Udajet e Nekhbet fecero un po' d'ordine nella stanza e poi composte, senza correre e senza fare confusione, si avviarono verso la sala grande del tempio per la cena. Sorridendo si lanciavano sgardi di sotterfugio: anche questa volta l'avevano scampata per miracolo.


1: una specie di gioco dell'oca.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II
~
 
Tebe, 2585 a.C. XV giorno del mese Apofi della stagione Akhet1: il Nilo era all'apice della sua piena ed aveva inizio la festa di Opet.
La folla si era radunata ai lati delle porte del tempio di Karnak: il sole splendeva alto e bruciante sulla sabbia che scottava sotto innumerevoli sandali, l'odore acre del sudore si mescolava nell'aria a quello delle mille fragranze e olii speziati, spalmati ovunque per purificare l'anima, le bronzee braccia scoperte si sfioravano l'un l'altra mentre una miriade di occhi fissavano le colossali porte del tempio e il fruscio delle leggere tuniche di lino di chi si spostava tra gli stretti spiragli della calca per trovare un punto di osservazione migliore era il solo rumore in quel pesante silezio impregnato di attesa. A momenti le porte si sarebbero spalancate e la festa sarebbe iniziata. Infatti così fu: con un leggero tonfo le porte vennero spalancate dai servitori di corte.
E poi eccolo: il Faraone, il cui capo era sormontato dal copricapo regale, il viso appuntito dalla barba posticcia, scettro alla mano e pettorale d'oro scintillante usciva con passo deciso dal tempio. L'oro di cui era ornato sembrava riflettere l'anima stessa del Sole, il figlio di Ra in tutto il suo splendore, e così quella figura, che non era altro che un uomo come tutti gli altri, sprigionava un tale potere che il clamore del popolo fu tale che sembrava quasi impossibile l'idea che gli Dei stessi non l'avessero udito. Il sovrano era seguito dai sacerdoti che purificavano il suolo e l'aria e l'amsofera si riempiva pian piano del forte odore di incenso proveniente dal dondolio dei lucidi flabelli dorati, i quali allontanavano le magie infauste da quel momento di festa. Ed infine vi erano i sacerdoti che portavano in spalla i simulacri delle barche su cui erano ben saldate le statute: Amon era il più grande, seguito dalla moglie Mut e dal figlio Khonsu. Per quanto fossero state lucidate non riflettevano la luce del Sole ma la assorbivano, dando loro un'aspetto tenebroso e ancor più nero del granito stesso in cui erano state scolpite.
La triade tebana svettava sulle spalle dei sacerdoti e sulle teste della folla, da dove le tre figure dallo sguardo severo sembravano osservare e giudicare tutto il regno, come se potessero alzarsi, prendere vita e dannare per l'eternità chiunque lì sul posto. Qualsiasi fossero le colpe delle tante persone sotto di loro, i tre restavano comunque immobili, impassibili e disinteressati dai comuni problemi umani e si lasciavano trasportare dai sacerdoti.
Lentamente arrivarono alla grande barca fluviale di Amon e il corteo di barche iniziava la sua traversata.
Intanto lungo la riva del Sacro Nilo si avviava la processione formata dall'esercito tra cui spiccava la figura muscolosa di Senmut, ormai divenuto un uomo adulto dal perfetto incarnato olivastro reso più scuro dall'abbronzatura delle tante ore passate ad allenarsi sotto al Sole, i lineamenti duri, zigomi sporgenti, mascelle larghe e pronunciate, occhi grandi e neri, ora fiero nel suo nuovo ruolo di responsabile dell'addestramento del gruppo militare del distretto di Menfi. Durante i duri allenamenti si era distinto in forza, ablità con le armi ed ingegno e il nuovo incarico gli fu dato nella grande sala del trono dal Faraone in persona che gli diede in dono una khopesh2 di bronzo ricoperta d'oro dal taglio affilatissimo e che ora teneva in mano con orgolio.
Dietro l'esercito i danzatori nubiani dalle braccia possenti e la pelle d'ebano suonavano i tamburi il cui tuono rimbombava fin nelle ossa, dando il ritmo all'intera processione che si chiudeva con le sacerdotesse che agitavano i sistri. Ad aprire quest'ultimo gruppo due sacerdotesse in miniatura, con i loro piccoli sistri, camminavano svelte per cercare di mantenere il ritmo giusto. Era la pima volta che potevano partecipare alla festa in prima persona. Gli scorsi anni avevano potuto guardare la processione da lontano, invidiando le forme seducenti delle sacerdotesse e prendendo parte solo ai banchetti dei giorni successivi. In questo momento si ritrovavano a guidare quel gruppo di donne mature e meravigliose come un giorno sarebbero diventate anche loro, e, nonostante sapessero di essere ancora piccole e acerbe, dalla felicità non riuscivano a non sorridere: tutto il popolo poteva ammirare la bellezza delle piccole dee. smaniando per un piccolo contatto, anche solo sfiorarne la tunica e plaudente cantava per rallegrare gli dei in terra e dell'aldilà.
 
 
Dopo qualche ora di cammino la piccola Udajiet notò distante dalla folla che seguiva la processione nei pressi della riva, un improvvisato altare di pietra solitario con una manciata di persone radunate attorno che pregavano e un uomo dalla testa completamente calva era intento a ripulirne la superficie dal sangue di qualche animale donato in sacrificio. L'uomo, sentendo l'avvicinarsi della processione, alzò lo sguardo incrociando da lontano quello di Udajet che gli sorrise ma l'uomo non non ricambiò il gentile saluto e con aria impassibile si chinò su una cesta accanto all'altare, tirandone fuori un piccolo naja haje. Persino a quella distanza la bambina poteva riconoscerne il colore di quei minacciosi occhi luccicanti: un verde così vivo ed intenso, come i suoi.
Mentre il corteo procedeva lentamente e sembrava non accorgersi di quell'uomo, Udajet si sentiva intimorita per ragioni che non riusciva a spiegarsi e non riusciva a staccargli gli occhi di dosso nonostante continuasse a camminare, mantenendo il ritmo. L'uomo teneva il serpente per la testa con una mano, in modo che quello non tentasse di spalancare la bocca e di morderlo, e con l'altra mano prese un coltello che per un attimo rifletté la luce del Sole negli occhi della piccola, accendola per qualche istante. Per quanto infastidita, lei non osava perdersi neanche uno  dei movimenti dell'uomo e del serpente. Quest'ultimo continuava a dibattersi, cercava in ogni modo di ribellarsi contro colui che lo teneva prigioniero senza tuttavia riuscire a svincolarsi dalla sua presa, simile ad una morsa.
Ad un tratto costui appoggiò la mano con cui teneva il serpente sulla liscia superficie di pietra dell'altare, la mano che impugnava il coltello sospesa a mezzaria sopra il cobra e puntò gli occhi in quelli della bambina, come per invitarla ad osservare con più attenzione perché questa sarebbe stata la parte più importante di tutto il procedimento. Un moto di paura riempì il cuore di Udajet: sapeva cosa sarebbe successo di lì a pochi istanti e tutto quello che avrebbe voluto fare era urlare. Urlare a quell'uomo di fermarsi, di non uccidere inutilmente il serpente per lei, non era giusto. Ma era un sacrificio, cosa normale per la sua religione, sarebbe stata pazza a fermare un atto di così poca rilevanza. Quell'uomo voleva solo farle questo dono ed era solo il primo di tanti altri come lui appostati lungo il suo cammino.
Il lucido coltello si abbassò all'improvviso staccando di netto la testa al piccolo cobra. L'uomo portò in alto, verso il cielo, le mani in cui teneva ancora la testa del rettile, con la bocca pronunciava preghiere per la piccola dea, che tuttavia non riusciva e non voleva udire. Il suo cuore si era spezzato nel momento in cui il coltello si era abbassato come se quella stessa lama le avesse trapassato il cuore.
La processione stava sorpassando l'uomo e Udajet smise di guardarlo, stringendo i denti per bloccare i gemiti di rabbia ma con lacrime silenziose a bagnarle le guance.
Lungo il resto del cammino molti altri altari, tempietti e mattatoi furono incrociati, molti animali furono sacrificati ma Udajet non dimenticò mai l'uccisione del serpente, l'isitinto animale che lo portava a lottare inutilmente, anche a pochi attimi prima della morte. Un giorno l'avrebbe compreso molto bene.
 
 
Le barche, giunte a destinazione, sparirono agli occhi della folla plaudente, concentrata sulle statue che venivano trasportate nel tempio di Luxor, per poi essere deposte del Naos, la parte più sacra del tempio, in cui solo i sacerdoti e il re potevano accedere, così che il popolo non avrebbe potuto posare lo sguardo su di loro fino alla prossima festa di Opet, l'anno successivo.
Nel Naos il Faraone doveva sottoporsi alla cerimonia della nascita divina e, una volta purificato, ascoltava gli oracoli. Eccezionalmente da quest'anno le piccole dee avrebbero potuto parteciparvi e così fu: il Faraone varcò la soglia del grande tempio di Luxor seguito dai sacerdoti trasportanti le statue e dietro di loro a chiudere la fila vi erano le bambine che, tenendosi per mano, si davano coraggio a vicenda. Sapevano cosa dovevano fare, l'avevano studiato per ore, non era nulla di così importante, ma gli errori venivano pagati con più ore di studio al giorno, così Kaaper aveva detto loro; passavano già troppo tempo sui papiri per essere due bambine e per questo non potevano permettersi alcun tipo di errore.
Attraversarono le colossali porte del tempio, che non potevano minimante essere paragonate alle umili porte di quello di Menfi in cui vivevano. Mentre camminavano lungo il corridoio  per arrivare al Naos gli unici rumori erano i passi eccheggianti sulle alte pareti ricche di disegni e geroglifici di quel meraviglioso luogo di culto ora completamente vuoto, le preghiere sussurrate dai sacerdoti e il forte martellare dei loro cuoricini. Temevano che anche quel suono potesse rimbalzare sui muri, facendo così sapere a tutti i presenti quanto erano agitate.
Dopo aver percorso l'intero edificio, si ritrovarono finalmente nella stanza finale: il Naos. Il penetrante odore d'incenso riempì subito le narici dei presenti; Udajet respirò profondamente, riempiendosene i polmoni, le era sempre piaciuto quel profumo grazie al quale sentiva il suo legame col divino farsi più forte. Nekhbet strinse gli occhi infastidita da quell'odore troppo forte che aveva sempre odiato e non si tappò il naso solo perché il Faraone era presente.
I sacerdoti deposero le tre statue in cerchio al centro della stanza dalla pianta quadrangolare, fiocamente illuminata dalle fiamme di qualche torcia sulle pareti. Il Faraone restò in ginocchio in mezzo alle statue, mentre i sacerdoti formavano un ulteriore cerchio esterno alle inquietanti figure di granito e cominciarono a cantare. Le bambine si unirono a loro nel canto e nelle preghiere guardando ogni loro mossa, calcolata in ogni dettaglio, mentre cospargevano il loro sovrano  di olii, gli facevano dondolare intorno i flabelli carichi d'incenso e di altre erbe che non conoscevano e che causavano loro capogiri, tanto che faticavano ulteriormente a ricordarsi le parole della canzone cerimoniale. In questa atmosfera quasi buia e appesantita da quei strani profumi e dalla cantilena, il tempo sembrava sospeso e dopo attimi che apparivano infiniti, la canzone finalmente finì, sfumando nell'eco del soffitto e le bambine poterono sedersi in disparte ad ascoltare gli oracoli che altro non erano che i sacerdoti capo, tra cui Kaaper, i quali, dopo aver aspirato il fumo del solito miscuglio di erbe bruciate, si inginocchiarono intorno alle statue e quindi al Faraone e parlavano di strane visioni passate e future. Udajet era molto attenta e, da sola nella sua testa, cercava di dare un'interpretazione alle parole che uscivano dalle sagge bocche di quei grandi uomini di culto. Nekhbet si annoiava, arrivò persino a sbadigliare un paio di volte guadagnandosi le occhiatacce dei sacerdoti rimasti in piedi intenti ad ascoltare. Ascoltare cosa poi? Il farfugliare confuso di uomini la cui vista era stata momentaneamente distorta e la lucidità della mente portata via da qualche erba di dubbia identità? Scemenze. Che perdita di tempo era per lei.
Senza che la sorella se ne accorgesse, la biondina si alzò e andò verso quegli idioti. Avevano tutti gli occhi chiusi, Faraone compreso, presi com'erano dalle "grandi" rivelazioni degli oracoli; i sacerdoti che erano rimasti in piedi e che non parlavano sembravano statute a loro volta, o corpi le cui anime avevano deciso di abbandonarli, spinte a cambiare spazio e luogo dalla noia. Chissà se qualcuno si sarebbe mai accorto di lei che passeggiava tranquillamente tra le statue e tra loro. Quando Udajet la vide, senza fiatare le fece segno di tornare a sedersi. Non poteva crederci, stavano per finire di nuovo nei guai per colpa sua e lei non avrebbe potuto fare nulla. Nekhbet non fece altro che sorriderle mostrando tutto il biancore dei suoi denti per comunicarle che non c'era problema, nessuno se ne sarebbe accorto, doveva stare tranquilla. Come non detto.
Un passo troppo lungo e la statua di Amon cominciò pericolosamente a traballare. Nekhbet guardava quella oscura e pesante figura a bocca aperta senza riuscire a muovere un solo muscolo. Nessuno dei presenti si era accorto della situazione, erano tutti in uno stato di trance. Udajet si alzò, corse verso la sorella e, prima che la statua cadesse di lato con un gran tonfo, causando un rimbombo assordante, la spinse via. I sacerdoti furono improvvisamente riportati alla realtà, aprirono gli occhi confusi e la videro lì, in piedi accanto alla statua, che li guardava. A quel punto con aria contrita tornò a sedersi in disparte al suo posto, vicino alla sorella, che era sgattaiolata via in fretta ed ora con la saliva si ripuliva un ginocchio sbucciato. Udajet sapeva che la colpa sarebbe ricaduta su di lei, ma al Faraone, che non si era accorto di nulla perhé ancora troppo confuso dai fumi di quelle strane erbe, fu raccontato che la statua era caduta da sola, che era un segno di cattivo auspicio e qualcosa di terribile sarebbe successo negli anni a venire.
I giorni successivi furono riempiti di festa, banchetti, danze, musica e giochi, per evitare il panico generale al popolo fu detto che gli oracoli prevedevano il meglio per il regno e le bambine si divertirono molto. Erano sollevate per il fatto che il Faraone non venne mai a conoscenza del guaio che avevano combinato durante la cerimonia ed erano preparate alle conseguenze: niente più giochi, la fine di tutte le libertà ed interminabili giorni, o meglio, anni di studio erano ciò che le aspettava una volta tornate a casa. Se avessero combinato altri guai non l'avrebbero più passata così liscia.
 
 
 
 
1: secondo mese della stagione dell'inodazione (settembre).

2: tipica spada-falcetto

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