Ghosts that we knew

di Calliope49
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'ordinario ***
Capitolo 3: *** Regali di compleanno ***
Capitolo 4: *** Una serata quasi perfetta ***
Capitolo 5: *** Trappola ***
Capitolo 6: *** Il piano del cardinale (parte prima) ***
Capitolo 7: *** Il piano del cardinale (parte seconda) ***
Capitolo 8: *** Il castello di Blois ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
Bentrovati!
E seguito di “By any other name” fu!
Sì, lo so, potevo rintanarmi nel mio antro e lasciare in pace i moschettieri, ma non c’è stato verso.
La storia è già a buon punto sul mio pc e spero come sempre che chi leggerà si divertirà anche solo un decimo di quanto mi sto divertendo io a scriverla.
Ci leggiamo come di consueto con un capitolo ogni sabato, a partire da questa settimana.
A chiunque voglia farmi compagnia, buona lettura :)
C.
 
____
 
 
Prologo
 
La sera era avvolta nella foschia che saliva lenta dalle acque del fiume.
Dal bastione più alto della Torre di Londra, il duca di Buckingham osservava il buio che assediava la città.
«Le donne belle sono tutte sciocche» disse. Un lampo di frustrazione alterò la sua maschera di perfetta cortesia.
Una donna - bella e per nulla sciocca - uscì dalla striscia d’ombra  di un pilastro, una visione avvolta in un ricco abito di raso scuro.
«Gli uomini invece non hanno bisogno dell’avvenenza per essere sciocchi» replicò.
«Oh, il mio commento ha turbato la vostra suscettibilità?»
«Dio non voglia arriviate mai a scoprire cosa turba la mia suscettibilità».
Il duca sorrise, di un sorriso che non arrivò mai ai suoi freddi occhi azzurri.
«Eravate così pungente anche col vostro vecchio padrone? Non mi stupisce che sia finita male» asserì, voltandosi per poter guardare la sua interlocutrice.
La donna sostenne lo sguardo. Aveva occhi da gatta, del colore verde intenso degli aghi di pino. Versò del liquore da un’elegante caraffa d’argento, riempì un bicchiere per il duca e uno per sé.
«Cosa vi turba, stasera?» domandò. «Non certo la mia impertinenza».
Buckingham rigirò tra le mani il bicchiere. 
«La nostra meravigliosa regina [*] ha deciso di lasciare Londra per andare a Parigi a far visita a quello smidollato di suo fratello. Ho tentato di farla desistere, ma ho evidentemente sottovalutato la caparbietà dei francesi».
La donna sorrise. «Potrei raccontare storie sulla caparbietà dei francesi».
«Potrebbero annegare tutti nella Manica, per quel che mi concerne» sospirò il duca. Bevve il liquore in un solo sorso. «Ma l’equilibrio in Europa è fragile e Inghilterra e Francia hanno bisogno l’una dell’altra».
«Non mi state dicendo tutto». La donna si sedette sul piano della scrivania, gettando all’indietro la testa. Trovava divertente vedere quella scintilla di desiderio accendersi nello sguardo gelido del duca, le rammentava la misura del suo potere sugli uomini.
«Se vi dovessi dire ogni cosa, significherebbe che non state facendo bene il vostro lavoro» disse lui.
La donna annuì con sussiego. «Se la regina inglese morisse, re Carlo sposerebbe l’infanta di Spagna, come era nei piani prima che Richelieu orchestrasse l’unione con la Francia. Così la Spagna avrebbe ben due sue figlie sui maggiori troni d’Europa, qui in Inghilterra e in Francia. Temete che possano approfittare della visita a Parigi per uccidere Enrichetta Maria, non è così?».
Buckingham fece una carezza pigra tra le spalle della donna, sfiorandole il girocollo di seta e indugiando con la punta delle dita sul bordo di pizzo della scollatura.
«È molto peggio di così» ammise, prima di sfiorarle le labbra con le proprie. «Non temo che possano attentare alla vita della regina: so per certo che vogliono farlo. Mi sono giunte voci di un sicario molto esperto assoldato appositamente per questo compito»
«E come pensate di fermarlo?»
«Immagino che sarete in grado di escogitare qualcosa. Precederete sua maestà a Parigi e mi porterete la testa di quel sicario».
La donna ebbe un sussulto, si sottrasse alle carezze dell’uomo con un scatto e gli diede le spalle per non lasciargli scorgere il moto di panico che le aveva alterato i lineamenti.
«Non andrò a Parigi» disse. «Sapete che non posso tornare in Francia, a Parigi meno che mai».
«I moschettieri, già. O un moschettiere in particolare, non ricordo e non mi importa» rispose il duca senza alterarsi. «È il vostro lavoro e voi lo porterete a termine per me»
«Non posso proteggere la regina se sono impegnata a nascondermi dai miei nemici!»
«Suvvia, siete molto più in gamba di così» concluse il ministro. Allungò una mano per afferrare il fianco della donna, ma lei fu lesta a sottrarsi.
Buckingham sbuffò con indolenza e la lasciò andare senza più curarsi di lei o della sua espressione oltraggiata - spaventata, forse.
«Naturalmente» esclamò prima che la donna uscisse, «se la regina non dovesse rientrare sana e salva, sarà mia premura rispedirvi dal cardinale, o dai moschettieri - vi lascerei scegliere, in onore dei nostri trascorsi più piacevoli. Ma questo lo sapete, vero, Milady?». 
 
***
 
Lo stridore delle lame era l’unico suono nella quiete del bosco.
Le spade luccicavano sotto i raggi di sole che filtravano dalla cupola di foglie e rami, bagliori rapidissimi come lampi.
Diane parò un colpo montante, ma per tenere a distanza di sicurezza l’avversario fu costretta a piegarsi sulle ginocchia. La polvere alzata dalle suole degli stivali le annebbiò la vista per un attimo, il cuore le martellava nelle tempie.
Doveva guadagnare spazio, doveva evitare di finire spalle al muro. 
Spinse con forza e poi scivolò di lato, velocissima, evitando un altro fendente. Ancora una volta era la rapidità a salvarle la pelle.
Erano passate appena due settimane da quando aveva deciso di rimanere a Parigi e da quando la regina Anna le aveva affidato l’incarico di essere i suoi occhi e le sue orecchie fuori dalla reggia, la sua lente per conoscere il mondo oltre le sbarre della gabbia dorata del Louvre.
La parola “spia” faceva ancora uscire di senno il capitano Treville.
Diane inspirò l’odore dolciastro dei tigli e fece appello a tutta la sua concentrazione. Una stilla di sudore le solcò la guancia come una lacrima.
La lama del pugnale da duello guizzò troppo vicino alla sua spalla sinistra. Diane scattò all’indietro e fissò l’avversario con disappunto.
«Non rovinarmi la giubba. È un regalo di Constance, ci tengo».
Era una giubba di cuoio rosso con applicazioni di velluto, sul petto a sinistra era ricamato un fleur de lis in fili d’oro. Il rosso era decisamente il suo colore: madame Bonacieux aveva occhio per quel genere di cose.
«I tuoi avversari faranno molto di più che rovinarti la giubba» disse Athos in tono piatto, poi attaccò. La lama fischiò a mezz’aria e colpì il ciuffo cadente di un salice, foglie lunghe e scure volarono via portate dal vento.
La ragazza indietreggiò, certa che non sarebbe riuscita a parare un altro colpo.
Athos combatteva con l’eleganza di un felino, preciso come se la sua lama dovesse ricamare l’aria. Lei si batteva con la foga di un soldato nella mischia di una rissa. Athos prestava attenzione a ogni dettaglio, lei vedeva solo la lama avversaria di fronte a sé.
Il moschettiere sembrava perfettamente calmo ma Diane notò che aveva accelerato il respiro, le labbra strette per la concentrazione. Senza sapere come, la giovane si trovò con le spalle contro il tronco di un albero, in trappola, come aveva temuto.
Lui fece saltare il pugnale sul palmo della mano e lei credette che lo avrebbe conficcato nella manica della giubba per darle una lezione, invece si limitò a spingere la lama nel tronco a pochi centimetri dalla sua guancia.
«Ti odio» borbottò la ragazza, lasciando cadere la spada.
Athos inarcò un sopracciglio con noncuranza.
«Fa’ pure. Mi preme solo che impari a difenderti in maniera appropriata».
La ragazza sorrise a denti stretti. «Il tuo romanticismo lascia molto a desiderare».
Lo sfarfallio di una risata le rimase imprigionato nella gola quando lui le cinse la vita con un braccio e la baciò.
Nell’amore di Athos c’era tutta la disperazione del naufrago che cerca di ritornare a galla. Si era lasciato sommergere da un dolore che lei non conosceva, ma non si era arreso.
Diane si ritrovò senza fiato, stretta a lui.
«Così va meglio» gli disse piano.
L’uomo la strinse più forte per un istante, prima di recuperare la spada da terra.
«Sei molto migliorata, ad ogni modo» ammise, restituendole l’arma.
Diane spalancò gli occhi, Athos era avaro di complimenti quando si trattava del suo addestramento.
«Sto solo recuperando» considerò. «Quando sono tornata a Parigi era una vita che non toccavo una spada, ma ho passato quasi cinque anni ad allenarmi con una certa costanza»
«Non si può certo dire che sia stato tempo sprecato».
La ragazza sorrise. Non aveva più pensato a Sebastiano, al soldato disertore nascosto nel monastero dove era cresciuta, il fantasma di ogni suo rammarico che l’aveva perseguitata con una voce che ora Diane faceva fatica a rammentare. Era in pace, non c’era posto per le ombre nel suo cuore speranzoso e innamorato - e quindi un po’ egoista.   
Un campanile lontano suonò le dieci, i rintocchi cupi fecero volare via uno stormo di uccelli che corse a ripararsi tra le ombre morbide del bosco.
«Devo tornare». La ragazza rinfoderò la spada. «La regina mi aspetta».
Per ora, tutto quello che aveva fatto per sua maestà era esserle amica e tenerle compagnia, ma non aspettava che un’occasione per dimostrare che era degna della fiducia che era stata riposta in lei, per convincere suo zio e i moschettieri che era qualcosa di più di una ragazza incosciente.
Athos annuì, si cacciò in testa il cappello che aveva appeso a un ramo e andò a recuperare il cavallo che brucava pigramente l’erba all’ombra di una quercia.
L’animale sbuffò quando il moschettiere lo sottrasse al suo spuntino e lo seguì reticente, strusciando gli zoccoli contro il terreno. Diane gli accarezzò il muso ottenendo un nitrito condiscendente.
Riusciva ad avere a che fare con i cavalli senza provare l’istinto di scappare: erano cambiate molte cose dal giorno del suo ritorno dall’Italia. 
Athos montò in sella e le tese un braccio per aiutarla a salire. Diane si sistemò all’amazzone, in un incastro perfetto tra l’arcione e il petto del moschettiere.
Quello del ritorno dal bosco era il suo momento preferito della giornata, un momento loro e loro soltanto, l’unico che avessero a disposizione, il primo sottile pilastro di un’intimità che sembrava ancora difficile da costruire.
In una notte di tempesta si erano lasciati andare a una passione troppo cieca e troppo acerba, quando c’erano ancora segreti a tenerli lontani. Ora che ogni distanza era stata annullata, le corazze e le maschere cadute un frammento alla volta, quell’amore inatteso aveva bisogno di crescere e respirare, per riempire una ad una tutte le crepe di due cuori feriti. 
A Diane non importava altro ora che era appoggiata con il capo sulla spalla di Athos e le sue labbra di tanto in tanto le sfioravano una tempia in un bacio distratto.
La strada del ritorno era sempre così dannatamente breve.
Il moschettiere si fermò davanti alla casa di Treville, in mezzo al viavai rumoroso di rue du Vieux-Colombier [**].
Diane smontò, scivolando a terra con un balzo agile. Trattenne l’uomo stringendogli il polso.
«Athos,» gli sussurrò, «grazie».
Lui la guardò da sotto le falde del cappello. «Non devi ringraziarmi. Mai» le disse, prima di rimettersi in marcia verso la guarnigione.
 
 
 
 
[*] Si sta parlando, naturalmente, di Enrichetta Maria di Borbone, la più piccola delle sorelle di Luigi XIII andata in sposa a Carlo I di Inghilterra.
[**] Nel romanzo, è la via dove si trova la casa di Treville. Lo so che nella serie vivono tutti alla guarnigione come i puffi, ma io ho in testa questa cosa delle case a causa del libro e me la sono trascinata dietro.

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Capitolo 2
*** L'ordinario ***


I
L’ordinario
 
Il compleanno del re si ripeteva tutti gli anni con irreprensibile puntualità, eppure il capitano Treville sembrava doversi imbracare in un’impresa terribile e ignota.
«Devo andare a palazzo» disse, guardando fisso davanti a sé con aria vagamente alienata. «Devo vedere sua maestà e sapere…».
Diane lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso la tavola apparecchiata al centro della stanza.
«Sono le otto del mattino» gli ricordò. «Per sua maestà è praticamente notte fonda. Possiamo metterci seduti e fare colazione come tutte le persone normali?».
Treville sollevò su sua nipote uno sguardo dubbioso. «Siamo persone normali? Da quando?».
Il peculiare incarico che Diane svolgeva per la regina era stato per lui fonte di un certo disappunto, non perché ritenesse sua nipote incapace di assolvere a quel compito ma perché era certo che lei vi si sarebbe dedicata con ogni fibra del suo essere e, se l’occasione lo avesse richiesto, con ogni goccia del suo sangue.
Era un uomo di larghe vedute, il capitano dei moschettieri - e ne aveva viste comunque abbastanza da non porre mai limiti alla provvidenza - ma per quella nipote che amava come una figlia avrebbe voluto una vita tranquilla, un matrimonio sereno e una bella casa lontano dal caos e dai pericoli di Parigi. E invece Diane era stata scelta dalla regina come suo agente personale, si era innamorata di un moschettiere dal passato burrascoso e stava attualmente cercando una casetta in affitto nei pressi della guarnigione.
A conti fatti, Treville non aveva niente da obiettare: la fiducia della regina nei confronti della ragazza era lusinghiera, il moschettiere di cui sopra era il più stimato dei suoi uomini e lei aveva di certo tutte le capacità per farcela da sola. A lui però rimaneva l’apprensione acida del vecchio che, non dovendosi più preoccupare del proprio futuro, guardava con una certa ansia all’avvenire dei suoi cari.
Diane era consapevole di tutto questo e sopportava con pazienza la manifesta inquietudine di suo zio.
Spalmò del miele su delle fette di pane e ne porse una a Treville. Quando alzò lo sguardo su di lui, si accorse che la stava fissando come se volesse leggerle nel pensiero.
«Cosa c’è?» gli domandò.
«Niente. Mi sembra che tu sia felice».
Diane sorrise.
Era tornata in Francia una mattina di novembre, spezzata come un riflesso in uno specchio rotto. Era stata cresciuta come una ragazza di buona famiglia, serenamente consapevole del futuro che le spettava, e aveva considerato il suo ritorno a Parigi come una parentesi tremenda e avventurosa prima di tornare sulla retta via. Poi però aveva cominciato a non riconoscersi, a non sapere quale dei mille frammenti di specchio riflettesse la sua vera immagine, era ancora quella ragazza, ma aveva scoperto di non essere più soltanto quello. Rendersene conto era stato difficile, aveva dovuto resistere a terremoti che avevano ridisegnato la geografia del suo essere e quando la terra aveva smesso di tremare, aveva dovuto fare i conti con le tante cose che erano cambiate in lei. A poco a poco lo specchio era tornato intatto, restituendole un riflesso a cui ora sentiva di poter essere fedele.
Era qualcosa di cui era consapevole, ma non sapeva dirlo a parole.
Scosse il capo e si versò un po’ di latte.
«Sto bene, zio. Mai stata meglio». Era una rassicurazione minuscola ma sincera.
«Mh» Treville annuì. «Non sarò così indiscreto da chiederti quanto di questo bene sia merito di Athos».
A Diane andò di traverso il latte e rischiò di sputarlo sulla tovaglia di lino.
Nelle due settimane trascorse da quando il moschettiere aveva confessato al capitano le sue intenzioni, zio e nipote non ne avevano mai parlato. La ragazza pensava che lui provasse un certo imbarazzo nell’affrontare apertamente la questione, e poi conosceva Athos abbastanza bene da non avere domande sul suo conto.
La giovane tentò di riaversi. Morire soffocata da un goccio di latte sarebbe stata una ben misera fine.
«Conosci Athos…» disse titubante. «È il tipo di persona che mette estrema cura in tutto quello che fa».
Treville scansò qualche briciola con aria distratta. «Se fossimo persone normali, dovrei invitarlo a cena».
Diane provò a figurarsi la scena.
Dio, aiutami…
Alzò la testa di scatto. «Se fossimo persone normali, indugeremmo in questa conversazione» disse. «Ma dato che non lo siamo, adesso andremo a prepararci per andare a palazzo». Si alzò di colpo e corsei fuori dalla sala da pranzo, prima che a suo zio venisse in mente di aggiungere altro.
 
Quella mattina sembrava che il re si fosse alzato dal letto con il piede giusto.
La sala delle udienze era tutto uno scintillare di sorrisi e di una luce calda e dorata, sorprendente per una giornata di marzo. Diane credette che la gente ne sarebbe rimasta abbagliata, ma poi il suo sguardo incontrò la macilenta figura del cardinale, ritto accanto al re e lei pensò che ci fosse sempre la giusta dose di ombra a bilanciare l’eccesso di luce, così che il mondo non andasse a fuoco.
Richelieu stava ancora raccogliendo i frutti del suo successo. L’arresto del conte Legrand era un’altra medaglia nella sua collezione di trofei più o meno immeritati, ma se la cosa lo aveva rinvigorito nello spirito, nel corpo Sua Eminenza continuava ad essere giorno per giorno sempre più stanco e deperito.
«Non vedevo l’ora che arrivaste, capitano. Ho delle grandi notizie da darvi» trillò il re, agitando tra le mani una lettera a cui il cardinale lanciava di tanto in tanto un’occhiata esasperata.
Il capitano Treville e sua nipote si inchinarono, poi lei si dileguò prima che il sovrano attaccasse bottone.
Il suo quartetto preferito di moschettieri aveva fatto rapporto al palazzo quella mattina e Diane fu contenta di vederli schierati accanto alla parete laterale - fu più contenta di  quando non lo fossero loro nel trovarsi lì.
Sgusciò verso i soldati e si nascose alle loro spalle.
«Buongiorno, signori» bisbigliò. Le risposero con leggeri cenni del capo.
«Mio zio è preoccupato per il compleanno del re» aggiunse. «È davvero una cosa così terribile?»
«Sì, se devi montare di guardia tutta la notte» le rispose Athos.
«E noi montiamo sempre di guardia tutta la notte» aggiunse Aramis.
«E poi il re è felice» squittì Porthos. «Guardalo quanto è felice: dà i brividi».
Diane soffocò una risata.
Sua maestà si alzò con uno scatto dal suo scranno e sgambettò per la sala, avvicinandosi a Treville.
«Al vostro servizio, maestà» disse il capitano dei moschettieri, osservando con malcelata ansia la faccia del sovrano che si tendeva verso di lui.
«La prima notizia è che per il mio compleanno ho deciso di dare un ballo in maschera» annunciò Luigi.
Il cardinale Richelieu nascose il viso nel palmo della mano, affranto.
I moschettieri inspirarono con un singulto, come se si fossero fatti male e Treville, che aveva il re a mezzo metro dalla faccia, si sforzò di non avere alcuna reazione.
«Molto bene, sire. Che altro?»
«Mia sorella mi ha scritto, che verrà a trovarmi». Sua maestà agitò la lettera sotto al naso del capitano. «Non è magnifico?»
«Indubbiamente, sire. Di quale delle vostre sorelle stiamo parlando?»
«Di Enrichetta Maria, naturalmente. Maria Cristina è impantanata nella Savoia con quel pallone gonfiato di suo marito il duca, figuriamoci…».
«Ed è meglio che ci resti» bisbigliò d’Artagnan, come un pensiero ad alta voce.
«Cos’ha Maria Cristina che non va?» chiese Diane, che conosceva ancora poco le storie di palazzo.
«Tutto, a cominciare da suo marito». Nella risposta di Aramis vibrò una nota di freddezza sprezzante che acuì la curiosità della ragazza.
«È una delle storie che ancora non mi avete raccontato?» domandò lei.
«È una delle storie che non c’è bisogno che tu conosca» replicò Athos. Significava che era troppo pericolosa e che lei non avrebbe potuto fare niente per convincere i moschettieri a raccontargliela.
Diane non insistette oltre. «E di Enrichetta Maria cosa mi dite?»
«Due parole: bella e stupida» fece Aramis.
D’Artagnan finse un’espressione oltraggiata. «Si può parlare in questo modo della regina di Inghilterra?».
«Naturalmente» proseguì il re, attirando di nuovo l’attenzione dei presenti. «Mi aspetto, capitano, che vi occupiate voi di scortare mia sorella a palazzo. Mi auguro che non ci siano incidenti»
«Naturalmente» disse Treville.
«Naturalmente» bofonchiò Porthos.
Aramis sospirò. «Scorta e festa di compleanno, poteva mettersi peggio di così?».
Diane gli batté una mano sul braccio con fare incoraggiante. «Andiamo, signori» disse. «È una bellissima giornata, il re sprizza entusiasmo da tutti i pori, non può che andare tutto benissimo».
Aramis voltò appena il capo per guardarla da sopra la spalla. «L’amore ti fa male, amica mia» osservò.
Athos sollevò la testa ma non disse niente. I moschettieri erano troppo gentiluomini per fare commenti inopportuni, ma la ragazza era certa che, in sua assenza, quei tre non dessero tregua ad Athos nemmeno per sbaglio.
«Male abbastanza da farmi dimenticare perché sono qui». Diane abbassò lo sguardo per controllare che il vestito fosse ancora in ordine. «La regina mi starà aspettando».
«Brava. Chiedile se può intercedere per la storia del ballo» borbottò d’Artagnan.
La ragazza sghignazzò sommessamente. Sfiorò la mano di Athos mentre gli passava vicino e lui le strinse le dita tra le sue prima di lasciarla andare.
Per i corridoi del Louvre, la corte del re si muoveva in piccoli gruppi, come branchi di pecore avvolte in strati di seta e pizzo; fazioni che continuavano a rivaleggiare nella lotta perenne per l’attenzione dei sovrani.
Diane salutò con un cenno cordiale ogni signore e ogni dama che incrociò mentre raggiungeva le stanze della regina, ma le occhiate che loro le rivolgevano erano stilettate piene di veleno. Ognuna di quelle pecore aveva cercato di attirarla al proprio ovile, ora che la ragazza - la nipote del capitano dei moschettieri e del duca ambasciatore del cardinale - aveva ottenuto la simpatia della regina, era per i cortigiani un bottino di guerra che ognuno voleva per sé. Decidendo di non dare corda a nessuna pecora imbellettata e a nessun gregge infagottato di pizzo, Diane aveva finito per inimicarsi più o meno tutto il palazzo e in tempi anche piuttosto brevi.
Era solo per timore della regina che non avevano cominciato a far circolare pettegolezzi fantasiosi, calunnie velate.
Diane si voltò verso il corridoio alle sue spalle e li vide, quei piccoli greggi silenziosi che pascolavano in mezzo al marmo e ai velluti, la fissavano fingendo di guardare altrove. La fissavano e sembravano aspettare di vederla cadere.
Si sentì piccola e sola in mezzo a quella selva di sguardi. Deglutì e si convinse a bussare.
Trovò la regina ancora in veste da camera, stesa su un sofà. La vestaglia si apriva sul davanti rivelando la curva morbida della pancia.
Siete una visione, Anna, pensò Diane sorridendo.
Sua maestà si scostò per farle posto accanto a sé. Le sue dame rabbrividirono quando la ragazza andò a sedersi sul bordo del divano dove la regina era distesa.
«Il dottore mi ha visitata stamattina, il bambino ha scalciato per la prima volta» disse Anna, raggiante. Prese una mano di Diane e se la poggiò sulla pancia. «Dice che sta andando tutto bene e che nascerà a maggio e dalla forma della pancia è sicuro che sia un maschio».
La giovane avvertì la sensazione di calore sotto il palmo della mano e l’eco leggerissima di un movimento.
Il futuro re di Francia, il delfino della casata dei Borboni. Il figlio di Aramis.
«Sarà bello come il sole, maestà» sospirò.
«Devo affidarvi un compito ingrato, Diane» dichiarò la regina dopo qualche momento.
Non c’era nessun compito al servizio di sua maestà che Diane avrebbe potuto trovare ingrato. La lealtà dei moschettieri verso il re rasentava il fanatismo, la sua fedeltà alla regina non nasceva dal dovere ma da un affetto sincero che andava oltre un’uniforme, un giuramento o una corona.
Anna si sollevò per avvicinare il viso a quello della ragazza. «Conoscete monsieur Masson?» chiese.
«Temo di no»
«È il più rinomato profumista di Parigi, produce una colonia che il re apprezza. Ho commissionato al mio gioielliere un’ampolla con intarsi d’oro e pietre: vorrei che andaste a prendere l’ampolla e la portaste da Masson per farla riempire con quella colonia. È il mio regalo di compleanno per sua maestà»
«Consideratelo fatto. Ma, perdonate, perché ne stiamo parlando come se fosse un segreto di stato?»
«Perché al re non piace aspettare per sapere quali sono i suoi regali di compleanno, se non faccio tutto nella massima segretezza non sarà una sorpresa e non intendo dargliela vinta, ecco».
Diane ridacchiò per quella curiosa bega coniugale.
«Ah, poi avrete saputo del ballo in maschera e della visita della sorella del re» aggiunse la regina, gettandosi all’indietro con la testa sulla pila di cuscini.
«Sì, maestà»
«Mia cognata è… adorabile, ma non andiamo molto d’accordo».
Diane si chiese quante volte in vita loro si fossero mai viste le due sovrane e nella sua testa cominciò a prendere forma un’idea non proprio gradevole della sovrana d’Oltremanica.
«Ma non voglio angustiarvi con le nostre vicissitudini famigliari. Piuttosto ditemi, Diane, avete già un accompagnatore per il ballo?».
La ragazza rischiò di cadere dal divano. «Cosa? Il ballo?»
«Il ballo, sì»
«Non sono invitata al ballo». E non voglio esserlo!
«Ma certo che lo siete. Vostro zio ci viene tutti gli anni. Be’, lui ha sempre l’aria di uno che sta andando al patibolo, ma lo comprendo. Voi, invece, non mi direte che non vi piacciono le feste»
«Mi piacciono, maestà. È che non ritengo di essere… uhm, adatta, a un ballo per il compleanno del nostro re»
«Siete molto adatta» puntualizzò la regina, perentoria. «Inoltre, vi proibisco di lasciarmi da sola con le dame di corte e con mia cognata»
«L’idea non mi ha mai sfiorato la mente, maestà» rispose Diane con prontezza. Nella sua testa c’era una bambina indemoniata che urlava.
«Bene, quindi, dobbiamo trovarvi un cavaliere»
«Sono certa che mio zio sarà felice di assolvere a questo compito. Accanto a lui potrei vestirmi da boia».
Anna scoppiò a ridere, attirando su di sé gli sguardi rapaci delle sue dame che se ne stavano a ricamare accanto alla finestra. Tentò di nascondere quello scoppio di ilarità nel palmo della mano, ma quando anche Diane cominciò a ridere sembrò che la cosa fosse impossibile da arginare.
«No, sul serio, dobbiamo trovarvi un cavaliere» insistette la regina quando riacquistarono un po’ di contegno.
«Non mi serve, maestà. E non ho pettegolezzi da offrirvi»
«Ah, capisco. E chi è il fortunato e perché non può venire al ballo con voi?»
«Verrà al ballo, ma sarà impegnato a fare altro. E credo che se gli chiedessi di danzare mi sparerebbe»
«Che intendete? Oh… avrei dovuto immaginarlo: un moschettiere»
«Già…»
«Athos?»
«È così evidente?».
La regina sorrise, poi un’ombra di malinconia le increspò le belle labbra a cuore. «Non sono un’esperta in fatto di uomini, ma c’è un tipo di sguardo che ho imparato a riconoscere. L’ho visto, una volta…» ammise.
D’impulso, Diane le prese la mano e guardò con freddezza le dame appollaiate sotto al davanzale come cornacchie.
La regina spalancò gli occhi e ricambiò la stretta guardando la giovane con un moto di stupore. Lei le sorrise e scosse il capo senza dire niente.
«Voi…» sussurrò Anna con voce strozzata.
Diane si alzò in piedi e fece un profondo inchino per prendere congedo.
«Come per il regalo del re, i vostri segreti sono al sicuro. Fino alla tomba, vostra maestà».
 
*** 
 
Un cielo violetto ingoiava gli ultimi scampoli di sole.
La vita di Parigi scorreva davanti al suo sguardo velato dall’ampio cappuccio della mantella di velluto.
Aveva passato quasi cinque anni in quella città, riconosceva le strade come si riconosce la pelle di un amante, ma non provava nessuna emozione nel rivedere quel posto. Non le apparteneva, o meglio era lei che non apparteneva a quel luogo, come non era mai appartenuta a niente e a nessuno. Il suo nome dimenticato tra la polvere di un passato avviluppato dalle ragnatele e dalle ombre, un oggetto in disuso a marcire in una soffitta, come il suo cuore.
Milady si fermò all’angolo della strada. I tetti del palazzo del Louvre svettavano contro le ultime luci del tramonto.
Nel suo camminare senza meta, non si era accorta di essere giunta fin lì. Una stilettata di gelo le trapassò il petto quando vide di fronte a sé l’arco del portone della guarnigione dei moschettieri.
Doveva aspettare la sera, certi affari si facevano al buio.
Aveva in tasca una manciata di informazioni lasciate da Buckingham, aveva davanti troppo poco tempo.
Mentre aspettava l’ora adatta, quella in cui i mostri escono dalle loro tane, aveva camminato alla cieca, protetta dalla folla asfissiante della capitale francese. Era finita lì senza accorgersene, vicina ai suoi nemici come se ne sentisse il richiamo, come se qualcosa dentro di lei, nel suo sangue, la spingesse continuamente verso l’orlo del precipizio. Aveva dimostrato di avere una volontà ferrea per resistere alla vertigine, si era consumata il cuore a forza di restare in piedi davanti a quel vuoto che la chiamava.
Di istinto si ritrasse confondendosi alle ombre che si addensavano tra le case.
Una risata le montò in gola come l’insistere di mani che graffiano.
Eccoli lì. Non li avrebbe incontrati neppure a cercarli di proposito.
Athos, Porthos, Aramis e d’Artagnan attraversarono il portone e si persero nel viavai serale. Camminavano spalla a spalla, il ritmo dei loro passi che si accordava con una cadenza precisa, come se fossero fatti per andare insieme dovunque. Quella loro amicizia era un muro che nemmeno lei era stata in grado di scalfire, durissimo e puro come il diamante.
Li osservò da lontano, lo sguardo appuntato sulle loro spalle, fino a quando non furono più visibili, macchie tra le facce anonime di una città traboccante di vita.
Solo quando li perse di vista si rese conto che il cuore le batteva da spezzarle il petto.
 
 
***
 
I moschettieri si lasciarono cadere seduti, vinti dalla stanchezza.
Il sole era tramontato, spandendo sulla città una cappa di freddo. Il tempo mutava così facilmente in quel periodo dell’anno e la taverna era un bozzolo accogliente di luce e calore.
Si erano attardati nell’ufficio del capitano per ricevere tutte le istruzioni sull’arrivo della regina d’Inghilterra.
Li aspettavano giorni faticosi, ma Athos pensò che era preferibile un incarico noioso a una missione pericolosa - o almeno era quello che diceva a se stesso fino a quando la noia non lo strozzava e lo obbligava a rimpiangere sparatorie, zuffe e inseguimenti. Ma quella sera era davvero convinto che qualche giorno faticoso e tranquillo a Parigi avrebbe giovato.
Rilassò i muscoli della schiena contro la spalliera della sedia.
D’Artagnan versò da bere per tutti.
«Non mi avete più parlato della sorella del re» disse. «Com’è?»
«Immaginati Luigi con la gonna» gli rispose Athos.
Il giovane arricciò il naso. «Avevate detto che è bella»
«Sì, sì, ma assomiglia in tutto e per tutto al fratello» intervenne Porthos.
«Con l’aggravante che è femmina» concluse Aramis.
Athos mandò giù un lungo sorso di vino. «Dobbiamo solo accompagnarla dal porto al Louvre, ce la caveremo».
Se la sarebbero cavata, non c’era niente che poteva andare storto.
In silenzio terminarono il secondo giro di vino. Il chiacchiericcio degli avventori era un ronzio indistinguibile, il tepore che emanava dal camino intorpidiva la testa, ma era una sensazione piacevole.
«Abbiamo un problema». La voce piovve in mezzo a loro come se qualcuno avesse picchiato un pugno tra i boccali mezzi vuoti.
I moschettieri si riscossero per vedere Diane trascinare con sé una sedia e sistemarla accanto al tavolo. Indossava abiti più comodi e semplici di quelli che aveva portato al mattino. Si sedette e li guardò in viso, constatando che erano abbastanza sobri per starla a sentire. 
«Tuo zio sa che vai in giro per le taverne?» domandò Porthos.
«Mio zio è alla guarnigione e credo ci rimarrà fino a domani» rispose lei. «E comunque, credevo avessimo superato questa fase mesi fa, nel momento in cui avete deciso di insegnarmi a sparare e tutto il resto».
I moschettieri si scambiarono un’occhiata.
«Qual è il problema?» chiese Athos. Non aveva voglia di mettersi a discutere delle uscite serali della ragazza, ma una parte di lui non aveva mai smesso di pensare che quello di farsi carico del suo addestramento era stato il peggior errore della loro vita.
«Eh?»
«Hai detto che abbiamo un problema»
«In verità, io ho un problema»
«Ma noi ti siamo amici e quindi i tuoi problemi sono i nostri problemi» bofonchiò d’Artagnan con un’enfasi da teatrante.
Diane fece cenno all’oste di portarle un bicchiere.
«La regina mi ha invitato al ballo in maschera» sbuffò.
«Delizioso. E con ciò?»
«Non voglio andare a quel dannato ballo con tutta quella gente che mi odia»
«Chi ti odia?» esclamò Aramis, genuinamente scandalizzato.
«La corte al completo. Non mi perdonano lo starmene alla larga dai loro circoli»
«Startene alla larga dai loro circoli è esattamente quello che devi fare» puntualizzò Athos.
Quando Diane ebbe il suo bicchiere si versò una generosa dose di vino.
«E comunque, non devi badare ai cortigiani, sono invidiosi perché vali più di tutti loro messi assieme» disse d’Artagnan.
Gli occhi di Diane scintillarono. «Grazie»
«Prego»
«Prendi nota, Athos» trillò Aramis con un sorriso da spaccare a pugni.
La ragazza sorrise, si inclinò di lato per appoggiare la testa sulla spalla di Athos, lui allungò il braccio per cingerle il busto. Aramis aveva ragione, non era bravo con le parole, sperava solo di riuscire a farsi amare abbastanza perché Diane potesse comprendere i suoi silenzi.
«Non capisco perché ti turbi tanto una festa da ballo, sei la nipote di un duca» osservò Porthos.
«La casa di un duca non è la corte del re di Francia» sospirò lei.
«Se non sai ballare ci sono un sacco di altre cose che si possono fare a un ballo: bere, mangiare, ciarlare di cose inutili, sventolarsi col ventaglio anche se fuori c’è mezzo metro di neve…»
«So ballare, Porthos, ma non so nemmeno da che parte si entra a una festa da ballo a corte… non ho un vestito adatto, non so come ci si comporta». Diane si scompigliò i capelli. «E se farò qualche pessima figura - come sperano i pecoroni incipriati - metterò in imbarazzo mio zio e anche la regina».
«Ha detto pecoroni incipriati?» sghignazzò d’Artagnan. «La nostra compagnia le fa più male di quello che credevo».
La ragazza gli rifilò un’occhiataccia.
«Per il vestito può aiutarti Constance» aggiunse il guascone, correggendo il tiro.
«E comunque, potrai sempre fingerti svenuta a metà serata, così potremmo portarti via» osservò Porthos, fin troppo convinto.
«Oppure potresti andare al ballo e divertirti. Non hai niente da dimostrare, a nessuno, nemmeno a tuo zio o alla regina» disse Athos.
Lei gli prese la mano da sotto al tavolo. Lui avrebbe voluto stringerla e basta.
«Be’, penso di non avere poi molta scelta, in realtà» concluse la ragazza, versandosi altro vino. Si sistemò meglio contro la spalla del moschettiere, i suoi capelli gli solleticarono il collo e lui inspirò il suo odore buono di sapone.
Rimasero a parlare in mezzo al brusio degli avventori. A beneficio di Diane e di d’Artagnan, tirarono fuori vecchi aneddoti sulla sorella minore del re mentre la sera scorreva come un nastro fuori dalle finestre appannate.
In mezzo ai suoi compagni, con il peso piacevole di Diane sulla sua spalla, Athos sentì un senso di calma sconosciuto, una sicurezza che non provava da troppo tempo. Era come una nave approdata nel porto dopo la tempesta, un veliero spezzato dal temporale eppure al sicuro nel luogo a cui apparteneva.
Era già tardi quando la ragazza si alzò. «Meglio che vada» disse, lisciandosi la stoffa della gonna. «Signori, grazie della compagnia».
I moschettieri sollevarono i bicchieri in cenno di saluto. Quando Diane sfilò via tra i tavoli, Athos la seguì.
Fuori il tepore della taverna sfumava verso il freddo della sera e la ragazza si strinse nella mantella.
«Mi dispiace avervi importunato con le mie sciocchezze» disse lei, stringendo le labbra in un’espressione da bambina.
«No, mi fa piacere che tu sia venuta». Athos le prese la mano e le sfiorò le labbra. «Ma non voglio più sentirti dire che non sei all’altezza di qualcosa»
«Credo di non poterti accontentare. È tutto così nuovo per me, devo ancora abituarmici».
Se solo potessi vederti con gli occhi con cui ti vedo io…
«Non serve che mi accompagni a casa» aggiunse poi Diane, lasciandogli la mano.
«Lo preferirei: quando tornerò dentro, quei tre mi massacreranno» le rispose lui.
La ragazza sorrise. Athos continuò a vedere il suo sorriso brillare anche quando sparì tra la gente.


 

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Capitolo 3
*** Regali di compleanno ***


II
Regali di compleanno
 
Il gioielliere della regina aveva confezionato l’ampolla in un cofanetto di ebano con intarsi a forma di giglio.
Diane aveva attraversato mezza città con quel bagaglio sottobraccio, con l’ansia costante che potesse perderlo o potessero rubarglielo. Pensò che sarebbe stato interessante se qualcuno ci avesse provato: una zuffa con un borseggiatore sarebbe stata un ottimo modo per smaltire un po’ di quel nervosismo che andava aumentando man mano che si avvicinava il dannato ballo in maschera.
Athos le aveva detto che non aveva niente da dimostrare a nessuno, era certamente convinto di quell’affermazione, ma la prospettiva di un moschettiere di buona fama era molto diversa da quella di una ragazza che era finita ad occupare un posto nel mondo a cui non era destinata.
Lei aveva tutto da dimostrare.
La bottega di monsieur Masson aveva una grande vetrina lucidata a specchio e incorniciata in una struttura di legno verniciato di verde smeraldo. Sul frontone della porta spiccava in grandi lettere dorate la scritta “parfums”. A guardarlo da lontano, quel negozio poteva essere confuso con una pasticceria.
Diane spiò dentro ma non vide nessuno. Le parve strano che una bottega così rinomata non avesse nemmeno un garzone o qualche commesso a quell’ora.
Entrò e fu investita da una cascata di odori pungenti. Presi singolarmente dovevano essere gradevoli, ma quell’insieme di aromi di fiori e spezie e sapone le seccò subito la gola e le pizzicò gli occhi.
Tossicchiò per annunciare la sua presenza e per tentare di tornare a respirare.
«Buongiorno» esclamò. «C’è nessuno?».
Non ottenne risposta. Mosse qualche passo tra gli alti scaffali pieni di contenitori di vetro dove maceravano fiori, stecche di cannella o di vaniglia e altre cose simili a radici che Diane non conosceva.
Superato l’ingresso, la bottega del profumista era uno scintillio di bottiglie di vetro e fiale allineate con cura su mensole di legno chiaro. La luce che entrava dalla finestra ad arco e dalla vetrina si rifletteva su quei contenitori di cristallo, spandendosi in lampi e arcobaleni che fluttuavano nel pulviscolo.
Diane rimase ferma tra due file di scaffali, davanti al banco di legno tinteggiato dello stesso verde dell’esterno, spostando il capo per vedere quei giochi di luce cambiare a seconda dell’inclinazione con cui li guardava.
Pensò che, dato che la porta era aperta, il negoziante doveva essere nei paraggi o forse nel retrobottega e decise di aspettarlo.
Non era mai stata nel negozio di un profumista, neppure amava troppo i profumi, le sembravano una scusa per evitare di lavarsi, ma era curiosa. Dopo qualche minuto, si avvicinò a una mensola piena di ampolle colme di liquidi limpidissimi leggermente colorati di giallo o di rosa.
Nel silenzio perfetto del negozio, sentì il suono ovattato di passi provenire dall’ingresso, il fruscio quasi impercettibile della stoffa. Si voltò di colpo, l’angolo del cofanetto che aveva tra le braccia urtò la fiala sul bordo della mensola e una mano fasciata in un guanto di velluto afferrò il piccolo contenitore di vetro prima che si infrangesse sul pavimento.
«Attenta, mademoiselle» disse una voce sottile. Aveva il suono delle dita sulla seta.
Diane alzò lo sguardo per incontrare gli occhi verdi di una donna. La sconosciuta le sorrise e la ragazza pensò che avesse la bellezza languida di un felino, qualcosa in quella giovane signora riccamente abbigliata le fece mancare il respiro.
«Mi avete spaventata» le disse.
«Non era mia intenzione»
«Sapete dov’è monsieur Masson?»
«No. Lo cerco anche io».
La donna ripose la fiala sulla mensola con delicatezza e guardò Diane con la coda dell’occhio come se stesse cercando di indovinare chi fosse. La ragazza non capì perché la sconosciuta provasse di colpo tanto interesse per lei e si sentì a disagio, ma le parve sgarbato voltare le spalle alla signora e fingere di ignorarla, così rimase a sostenere per un istante lo sguardo di quegli occhi da gatta eccessivamente belli.
«Scusate» fece poi la donna con un sorriso gentile, forse troppo ostentato. Si scostò i  vaporosi capelli scuri dalle spalle e Diane notò che aveva un girocollo di perle e fili d’argento stretto alla gola. «Avete un accento singolare, cercavo di indovinare da dove venite. Anche io ho viaggiato un po’»
«Sono di Parigi, madame. Ma ho vissuto all’estero per molto tempo»
«Perdonate, mademoiselle, vi sto infastidendo?».
C’era certamente qualcosa di insolito in quella donna, forse era la sua bellezza, forse il suo sguardo, ma Diane credeva di non essere tipo da lasciarsi turbare da una sconosciuta strana e affascinante.
«No, madame. Sono infastidita di mio» rispose.
«Perché mai? Se posso chiedere. Una giovane donna come voi dovrebbe essere impermeabile a ogni turbamento».
Diane sorrise, divertita da quella considerazione che le si addiceva così poco. Come ogni persona che si sente in difficoltà, le parve facilissimo e consolatorio confidarsi con una perfetta estranea. «Troppe novità. Conoscete la sensazione di quando si è tanto felici da essere spaventati?».
«La conosco. L’ho provata una volta, e avevo ragione d’essere spaventata». Con un gesto che parve casuale, la donna si pizzicò il girocollo. «Se è per un uomo, mademoiselle, vi consiglio di tenere per voi un po’ della vostra felicità e non consegnarla tutta nelle sue mani: gli uomini non sanno maneggiare certe cose»
«L’uomo in questione non sa maneggiare la sua, di felicità, figuriamoci!» sbuffò Diane. «Ma mi piace pensare che quando siamo insieme diventi tutto più gestibile»
«Conosco anche questa sensazione, e questo tipo di uomo». La donna scosse il capo, un sorriso un po’ civettuolo riemerse dal velo di freddezza che le aveva indurito il viso. «Scusate, le mie sono riflessioni che non si adattano a un cuore giovane come il vostro. Ma il consiglio rimane valido: per il vostro benessere, non affidatevi a nessun altro che a voi stessa»
«Non è un cattivo consiglio, madame. Ma come potrei amare senza fidarmi?»
«Spero non arriviate mai a scoprirlo» concluse la donna. «Si è fatto tardi, temo dovrò tornare da monsieur Masson un’altra volta».
Diane annuì. «Buona giornata, madame».
«A voi, mademoiselle».
La donna uscì con passi lenti, sembrava sfiorare appena il pavimento, e la ragazza rimase nuovamente sola nella bottega. Dopo lunghi minuti, cominciò a considerare l’idea di servirsi da sola, prendere la colonia e lasciare i soldi sul bancone, ma realizzò di non sapere quale fosse il profumo per il re.
Si chiese se non fosse il caso di lasciare una nota a monsieur Masson per chiedergli, a nome della regina, di venire a portare il profumo a palazzo. Non aveva voglia di tornare a girare per mezza città trascinandosi dietro quella preziosa ampolla che metteva ansia al solo guardarla.
Sospirò e si allungò dietro al bancone, alla ricerca di un pezzo di carta su cui scrivere. Non ne trovò e guardò con aria spazientita la porta di legno incassata nella parete che doveva immettere nel retrobottega.
Decise di tentare, l’aprì con discrezione e rimase immobile sulla soglia, pietrificata. Le dita strinsero con uno scatto il cofanetto.
Quando si riebbe, appoggiò il suo prezioso bagaglio su una mensola, si portò le mani ai fianchi e, come in un sogno strano, restò a fissare il cadavere di quello che doveva essere monsieur Masson. L’uomo giaceva a terra con la gola tagliata, il sangue era ovunque e gli lordava il panciotto di seta e il foulard.
Diane pensò alla donna, ma le parve impossibile: la sconosciuta era entrata e uscita dalla porta anteriore e chiunque avesse ucciso Masson avrebbe dovuto essere sporco di sangue. L’assassino aveva lasciato delle impronte che andavano verso la finestra da cui era scappato.
«Oh, no» fece Diane. «Non di nuovo». 
 
***
 
La regina di Inghilterra era sbarcata a Calais e da lì aveva deciso di proseguire in carrozza fino a Parigi. A causa del mal di mare, aveva spiegato il messo inviato in città.
Treville era furioso per quel cambio di programma, l’idea che la sovrana avesse attraversato mezza Francia con solo le sue guardie inglesi a scortarla, lo innervosiva. Era stata una scelta avventata per l’incolumità stessa della regina e aveva messo a rischio le teste di tutti loro, nel caso fosse successo qualcosa durante il tragitto. Ma Enrichetta Maria era la degna sorella di Luigi: le teste altrui non rientravano nella lista delle sue preoccupazioni.
Il capitano Treville aveva messo insieme un drappello di una dozzina di moschettieri e le era andato in contro, sulla strada che attraversava le campagne e i vigneti fuori le mura di Parigi. Prima avrebbero intercettato la sorella del re, prima avrebbero messo al sicuro lei e le loro teste.
Il corteo della regina inglese era un nugolo di polvere all’orizzonte. Le armature delle sue guardie scintillavano al sole come lucciole nella sera.
«Grazie a Dio…» sospirò Treville quando distinsero le bandiere con l’intricato stemma degli Stuart.
Il vento portò la polvere e l’odore dell’erba quando i moschettieri smontarono per schierarsi in due file oblique ai lati della strada.
Enrichetta Maria saltò fuori dalla carrozza, travolgendo il valletto che le aveva aperto lo sportello e che le stava tendendo la mano per aiutarla a scendere.
Quando era partita per sposare il re inglese, era una fanciulla, adesso era diventata una donna. I capelli ondulati e scuri le ricadevano sulle spalle candide che l’abito lasciava scoperte, i suoi grandi occhi castani erano velati di lacrime di commozione. Era ancora molto avvenente, anche se appariva troppo magra - forse era malata, oppure solo infelice, si diceva che non avesse vita facile alla corte londinese.
Treville e i suoi moschettieri si inchinarono quando la donna avanzò verso di loro.
«Capitano Treville, mi è mancato persino il vostro grugno» trillò Enrichetta, porgendo la mano all’uomo perché gliela baciasse.
«Sono lieto di rivedervi, altezza. Bentornata». Il capitano non mostrò il suo disappunto per il brutto tiro che la regina gli aveva giocato, sfoggiò invece una perfetta cortesia e il sorriso dovuto a una vera figlia di Francia che era stata così a lungo lontana dal suo paese.
«Se volete tornare in carrozza, altezza, saremo lieti di…». Enrichetta si voltò in un fruscio di stoffa e pizzo, mentre Treville stava ancora parlando, e tornò verso la carrozza. Ne tirò fuori una dama di compagnia che reggeva una grossa cesta.
«Scusate, scusate, voglio che uno dei vostri uomini porti questi in sella. Sono stati chiusi tutto il tempo in carrozza, stanno soffrendo. Sono il regalo di compleanno per mio fratello». Così dicendo, la sovrana mostrò a Treville il contenuto della cesta: quattro cuccioli di cane dal corpicno ancora un po’ tozzo e il pelo bianco a chiazze.
Il capitano annuì con un sorriso nervoso, prese la cesta e la tese bruscamente al moschettiere più vicino.
Toccò a Porthos afferrarla. Lanciò un’occhiata ai minuscoli animali che si rotolavano su un cuscino di seta, con gli occhi tondi e liquidi dall’aria troppo vispa e orecchie marroni a penzoloni come strisce di cuoio.
«Sono beagle» disse Athos. «Cani da caccia»
«Mh, mi sembrano una cosa buona da mangiare» considerò Porthos.
«Tu sei una persona orribile» sibilò Aramis mentre d’Artagnan ridacchiava.
La regina si decise a tornare in carrozza e Treville fece a tutti loro cenno di ripartire. Un giovane moschettiere lanciò il cavallo al galoppo per correre al Louvre e avvisare il re che sua sorella era in arrivo.
«Ancora poche ore» mormorò d’Artagnan mentre si mettevano lentamente in marcia ai lati della carrozza.
Una folla festante si era riversata per le strade, Parigi diede un festoso bentornato alla più giovane dei Borboni e il corteo avanzò lentamente tra la gente assiepata ai lati delle strade che applaudiva e urlava.
Athos odiava la folla, o almeno odiava trovarsi tra la folla e la carrozza di un sovrano, non si poteva mai sapere quale guaio poteva saltare fuori da quella massa di volti sconosciuti. Sentì la fronte sudata sotto le falde del cappello.
Quando furono in vista del Louvre, un drappello di Guardie Rosse disperse i curiosi, spingendo via chiunque intralciasse l’avanzata del corteo. Il cancello principale del palazzo si aprì per lasciar passare la carrozza e si richiuse dietro l’ultima guardia della scorta.
Treville mandò un sospiro di sollievo, smontò e si occupò personalmente di far scendere la regina dalla carrozza, la prese sottobraccio e l’accompagnò dentro.
«È bello essere a casa» disse la donna quando varcarono il portone anteriore della reggia e uno stuolo di servi si inchinò al suo passaggio.
Il re e la regina comparvero in cima alle scale, dietro di loro il cardinale strisciava come un’ombra appoggiandosi al corrimano di marmo.
Sull’ultimo gradino, Luigi lasciò la mano di sua moglie e si gettò con slancio verso la sorella. Molte cose si potevano dire di sua maestà, ma quello per i suoi famigliari era un amore a tutta prova, in particolar modo per quanto riguardava le sue sorelle, le uniche figure femminili che avessero fatto parte della sua vita, dopo l’esilio di sua madre.  
La regina Anna sorrise e avanzò lentamente verso la cognata. Non erano mai state molto amiche: Enrichetta Maria apparteneva a quella sempre più larga parte di francesi che odiavano gli spagnoli. Ma Anna conosceva le buone maniere e la diplomazia forse meglio di suo marito e accolse la regina di Inghilterra come una sorella.
«Proprio una bella riunione di famiglia» bisbigliò Aramis.
Athos osservava in silenzio Enrichetta scambiare convenevoli con Richelieu - entrambe le sorelle del re sembravano andare assai d’accordo col cardinale - poi gli sovvenne un dubbio, la sensazione sgradevole di aver dimenticato qualcosa.
«Porthos!» fece, afferrando il compagno per un braccio. «Dove hai lasciato i cani?»
«Oh, diavolo!». Porthos indietreggiò lentamente, sparendo tra le file di moschettieri allineati nell’ingresso del palazzo, poi si voltò e corse fuori come una furia e quasi atterrò un valletto che stava arrivando in quel momento.
Il pover’uomo, ancora mezzo tramortito dallo spavento per essersi visto quasi investito da un armadio di moschettiere, avanzò con passo titubante fino al fianco di Treville e gli consegnò una nota in un foglio ripiegato e sgualcito.
Con discrezione, il capitano si voltò per leggere il messaggio. Accartocciò il foglio e se lo mise in tasca con un gesto stizzito, poi si voltò verso i moschettieri con una faccia che non presagiva niente di buono.
«Diane» disse, avvicinandosi ad Athos, Aramis e d’Artagnan schierati in prima fila, cercando di non avere alcuna reazione troppo evidente e di parlare senza che nessuno udisse.
«Cosa?» domandò Athos.
«Si è fatta arrestare»
«COSA?!». I tre moschettieri lo dissero in coro, a voce alta, per fortuna il re e sua sorella erano troppo impegnati a cinguettare a metà della scala per badarci.
Treville cacciò un sospiro che sembrava contenere una manciata di imprecazioni. «È alla gendarmeria di rue d’Agnes. Qualcuno la vada a recuperare prima che la sbattano alla Bastiglia» ordinò. «E… dove diamine sono i cani?».
 
«Cosa pensi abbia combinato?» domandò Aramis mentre lui e Athos imboccavano rue d’Agnes.
«Non sono nemmeno sicuro di volerlo sapere».
La strada era uno dei quartieri più ricchi di Parigi, case dalle facciate perfettamente intonacate si allineavano ordinate ai bordi della via. In posti come quello era importante che la gente si sentisse al sicuro e i gendarmi erano sempre fin troppo solerti e suscettibili.
«Che ci faceva qui Diane?» chiese ancora Aramis.
«Non lo so»
«Adoro quella ragazza, ma non so tu come faccia a dormire la notte»
«Infatti, non dormo»
«Be’, non dormire la notte ha anche i suoi vantaggi…».
Athos lanciò al compagno un’occhiata che avrebbe frantumato un muro.
«Ah, quindi voi due non…» tentò Aramis, ma lo sguardo dell’altro si fece ancora più assassino. 
«Innanzitutto,» capitolò Athos, «Diane vive con il capitano. In secondo luogo, forse ti stupirà sapere che c’è gente che ha bisogno di tempo per entrare in intimità con un’altra persona e, infine, non sono affari tuoi»
«Aspetta, chi ha bisogno di tempo, tu o lei?».
Athos alzò gli occhi al cielo. «Ti è sfuggita la parte del “non sono affari tuoi”?»
«No, ma se ti imbarazza parlare con un tuo fratello moschettiere dovrei strapparmi l’uniforme e farmi prete». Aramis sbuffò una risata nasale.
«Piantala»
«Come vuoi». Aramis si fece serio di colpo. «Solo non negarti la possibilità di essere felice, d’accordo? Diane sarà pure giovane e, ehm, un po’ pazza, ma ha scelto te quando poteva tornare in Italia e sposare Corsetto…»
«Corsini. Cesare Corsini». Il ricordo del ragazzo e di lui e Diane nell’aranceto fece agitare qualcosa in fondo allo stomaco di Athos. 
«… qualunque sia il suo nome. La scelta di Diane merita tutto il tuo impegno» concluse Aramis, fermando il cavallo davanti alla gendarmeria. «E adesso andiamo a tirarla fuori da questo posto, prima che dia ai gendarmi una scusa per farsi fucilare».
Entrarono senza bussare, avanzando spavaldi verso uno scrittoio tarlato e polveroso dove stava un uomo di mezza età, intento a scrivere. Era più l’inchiostro che versava sul legno che non quello che arrivasse sulla pagina.
«Moschettieri del re» disse Athos, asciutto. «Avete arrestato una ragazza, siamo venuti a prenderla».
L’uomo li guardò come se faticasse a capire.
«Andiamo» sbottò Aramis. «Giovane, carina, lingua lunga… quante ragazze arrestate di mattina in questo quartiere?».
«Ah, sì, quella che ha ammazzato il signore dei profumi».
I due moschettieri si scambiarono un’occhiata allarmata, voltandosi lentamente l’uno verso l’altro.
«Quante volte ve lo devo dire? Non ho ammazzato monsieur Masson! Era già morto quando l’ho trovato» esclamò la voce di Diane da dietro una porta. Si sentirono dei rumori, passi pesanti e stridore di legno.
Athos si impose di mantenere la calma. «Siamo moschettieri. Il nostro capitano ci ha ordinato di prendere la ragazza, ora voi ce la ridarete e ognuno tornerà ai suoi affari. Mi sono spiegato?».
La porta si aprì e ne uscì un ufficiale con il farsetto consunto, indossava alti stivali con gli speroni e portava al fianco una spada dalla ricca elsa cesellata. Sembrava un moschettiere con un po’ meno stile.
Oltre il battente intravidero Diane, seduta su una sedia con i polsi legati. La ragazza si sporse in avanti e lanciò ai moschettieri un’aria esasperata.
«Conoscete questa ragazza?» disse l’ufficiale, sembrava annoiato, di quella noia che spinge di solito la gente a torturare gli animali. In una giornata normale forse sarebbe salito sul tetto a sparare ai piccioni o a prendere a sassate i gatti, e invece gli era capitata tra le mani una ragazza che non perdeva occasione di urtare la suscettibilità altrui.
«È al servizio della regina ed è qualcuno che non vi conviene toccare» disse Athos. La frase aveva molte implicazioni e sottintesi e tutti veritieri.
«Perché non ci dite cosa credete che abbia fatto e vediamo di sistemare questo seccante malinteso?» intervenne Aramis.
«È stata trovata sulla scena del delitto, vicino al corpo sgozzato del profumista del quartiere» spiegò l’ufficiale. «Ora, una ragazza così giovane, una persona dabbene, sarebbe svenuta alla vista di quello scempio - perché di uno scempio si tratta - invece lei era perfettamente calma».
Certo, da ragazzina la mandavano in punizione in un obitorio…
«Inoltre» continuò l’uomo. «Aveva un cofanetto con un’ampolla d’oro e pietre preziose. L’omicidio del profumista è chiaramente dovuto a una rapina e lei insiste col dire che il cofanetto con l’ampolla è roba sua. Io dico che era lì per rubare e…»
«E io vi dico e vi ripeto che siete un idiota!» strillò Diane. «Se ho ucciso io il profumista, perché non sono sporca di sangue? Le avete viste le tracce verso la finestra? Saranno stati certamente dei ladri e ora se ne staranno a bere in una taverna mentre voi perdete tempo con me!».
L’ufficiale girò su se stesso per tornare a guardare dentro la stanza. «Come mi avete chiamato?»
«Idiota» sillabò la ragazza. «Il cofanetto con l’ampolla me lo ha affidato la regina perché lo facessi riempire di profumo per il re. Idiota!».
Furioso, l’ufficiale fece per tornare dentro. Come minimo le avrebbe rifilato uno schiaffo e poi l’avrebbe spedita in mano a qualche boia anche solo per puntiglio.
Athos lo afferrò per una spalla. «Vi ho già detto che non potete toccarla» sibilò gelido. «Non è la vostra assassina e voi non la userete come capro espiatorio per un crimine che non ha commesso. Piuttosto, ci ridarete subito la ragazza e…»
«E il cofanetto!» fece eco Diane, dall’interno della stanza.
Dio, falle ingoiare la lingua!  «E il cofanetto, sì. Se non basta la parola di due moschettieri come garanzia, potete venire a Louvre e chiedere soddisfazione alla regina».
L’ufficiale rimase impietrito, fissando con una certa ansia le dita di Athos che gli stringevano la spalla. Ladri tagliagole dovevano essere una piaga in un quartiere come quello e, arrestando Diane, la gendarmeria aveva colto la palla al balzo per dimostrare che ogni tanto riusciva anche a fare il proprio lavoro; quell’ufficiale doveva essersi già reso conto di aver preso un grosso granchio, ma la giustizia sommaria era un’attività nella quale gli stessi rappresentanti dell’ordine tendevano a indugiare.
L’ufficiale si ritrasse dalla stretta del moschettiere con uno scatto brusco.
«Se proprio ci tenete a garantire per lei» sputò, senza poter dire altro. Afferrò Diane per un braccio e la rimise in piedi, spingendola con malagrazia verso Athos. Lui si affrettò a tagliare le corde che le stringevano i polsi, poi le cinse le spalle con un braccio e la pilotò fuori dalla gendarmeria, senza rivolgere nemmeno uno sguardo all’ufficiale o all’uomo sullo scrittoio che era andato a recuperare il cofanetto per restituirlo ad Aramis, il quale si fermò sulla porta e si sollevò il cappello con un sorriso beffardo prima di uscire.
Athos trascinò Diane fino ai cavalli. «Cosa diamine è successo?» domandò, alzando di qualche ottava il tono di voce.
«Perché mi sgridi? Sembra che sia stata colpa mia» borbottò la ragazza arricciando il naso.
«Naturalmente non lo è, ma la tua capacità di imbatterti in gente assassinata comincia a mettere un certo disagio» intervenne Aramis.
«Ho già spiegato cosa è successo» disse lei. «Ero lì dal profumista, l’ho trovato morto nel retrobottega. Mentre cercavo di riordinare le idee è arrivato il garzone del negozio e ha dato di matto. Mancava il denaro dal negozio e la borsa del profumista era stata tagliata: è stato un furto»
«Be’ niente di cui possiamo occuparci adesso» sospirò Aramis. «Spero che questi cari signori della gendarmeria siano abbastanza in gamba da trovare il vero colpevole, noi dobbiamo tornare a palazzo. Verremo a trovare quel simpatico ufficiale nei prossimi giorni, per sapere se ha qualche novità»
«E dobbiamo riportarti da tuo zio. Ha già avuto un mezzo infarto stamattina, quando ha saputo che la sorella del re ha viaggiato in carrozza per tutta la Francia» borbottò Athos, infilando lo scrigno di ebano nella sacca del suo cavallo.
Diane lo guardò senza dire niente, si aggrappò al suo braccio per montare in sella dietro di lui. Gli circondò i fianchi con le braccia e posò il mento sulla sua spalla.
«Sei arrabbiato?» gli domandò.
«No. Ero preoccupato. Con te c’è sempre il rischio che le cose degenerino».
La ragazza rise e gli posò la fronte tra le scapole. «Che ci vuoi fare, mi piace tenermi occupata».
 

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Capitolo 4
*** Una serata quasi perfetta ***


III
Una serata quasi perfetta
 
Le luci delle lanterne galleggiavano contro il buio della sera, nelle quiete perfetta dei giardini del Louvre.
«Il capitano non è ancora arrivato» mormorò Porthos, e lanciò un’occhiata ai gruppi di dame e gentiluomini che passeggiavano tra le aiuole e le siepi.
Prima del tramonto era stato allestito un rinfresco all’aperto, ora la folla di cortigiani confluiva verso la porta principale del palazzo in un ronzio di chiacchiere e risate.
«Il capitano starà cercando di tenersi lontano di tutto questo il più a lungo possibile» osservò Aramis.
Al limitare del parco, le guardie reali controllavano il perimetro lungo i cancelli. Oltre quel confine invalicabile, Parigi vibrava di luce e musica: tutti festeggiavano il sovrano, ogni rione della città aveva la sua piccola festa e in ogni taverna si facevano brindisi in onore del re. Forse persino ai bambini era stato concesso di rimanere svegli, per aspettare i fuochi d’artificio. Ogni singolo soldato era stato impiegato per controllare le strade, i moschettieri si muovevano come formiche tra i corridoi della reggia.
In qualche modo, era una bella serata. Le stelle che scintillavano tra le nuvole rade erano la promessa tangibile di una primavera imminente.
Quando i cortigiani furono tutti dentro al palazzo, Athos e d’Artagnan chiusero il portone, alcuni uomini del reggimento si piazzarono all’esterno davanti ai battenti chiusi.
Gli incidenti non erano una novità, in occasioni come quella: ospiti indesiderati che si confondevano alla folla e si introducevano a palazzo, domestici che approfittavano della confusione per scappare con piccoli tesori rubati ai loro padroni, signori ubriachi che dovevano essere gentilmente fatti allontanare. L’imponente servizio d’ordine non era privo di falle, ma Treville si era raccomandato - come ogni anno - di fare l’impossibile perché niente turbasse l’armonia della festa e soprattutto l’umore del re.
I corridoi del palazzo erano illuminati a giorno, il grande salone da ballo era un’esplosione di luce.
Un turbinio di gente si riversò attraverso le porte, sotto la volta del soffitto affrescato. I musicisti si sistemarono su un palchetto, seguendo le indicazioni di un minuscolo ometto con un’enorme parrucca di boccoli argentei.
Un ballo in maschera era l’occasione perfetta perché la corte francese desse sfogo a tutta la sua eccentricità. I signori e le dame sembravano grosse farfalle, nei loro abiti troppo colorati, occhi brillanti - per l’emozione o per il vino - scintillavano nei fori delle maschere più astruse. Volti di gatto o di uccello, visi di cartapesta incorniciati da piume di pavone, ghigni dipinti d’oro, tutti pigiati insieme nel fermento della festa, come la polvere da sparo che aspetta nella pancia di una bomba prima che si accenda la miccia.
In un modo o in un altro, quella serata sarebbe passata.
La folla si ammassò contro le pareti, in attesa che arrivasse il re.
Athos tenne la porta aperta per le ultime dame che si erano attardate lungo il corridoio. Non vide i loro visi nascosti dalle maschere ma un odore lo raggiunse, facendolo scattare. Era il profumo leggerissimo e dolce del gelsomino, attirò la sua attenzione come quando si scorge all’improvviso un volto noto in mezzo a una folla anonima, la sensazione istintiva di una nota stonata.
Non è possibile.
Era ancora troppo sensibile ai ricordi, ma una voce gli disse che non poteva essere lei. Si voltò, seguendo quel crocchio di signore, cercando di riconoscere nel passo di una di loro qualcosa di familiare, un indizio che gli desse la scusa per afferrarle una a una e strappare loro la maschera, tanto per sincerarsi che i suoi incubi non lo avevano raggiunto di nuovo.
Non è possibile, si ripeté e finì per convincersene. Era ancora immobile, con la mano stretta forte alla maniglia della porta e l’eco dei ricordi nelle ossa. Sussultò quando Porthos gli tirò una manata sulla spalla, con la sua delicatezza da pachiderma.
«E così, il capitano ce l’ha fatta ad arrivare» disse Aramis, una punta di divertimento nella voce. «Ah, ma è una visione…».
Quell’ultimo commento non poteva essere indirizzato a Treville. Diane al suo braccio era uno spettacolo da togliere il respiro, avvolta in un abito di velluto rosso e raso color avorio, stringeva tra le mani una maschera di pizzo e nastri dorati.
Athos ammutolì e, anche quando fu perfettamente consapevole delle occhiate fin troppo divertite che i suoi compagni gli stavano rivolgendo, si sforzò di rimanere impassibile. Qualsiasi reazione avrebbe avuto, quei tre gliela avrebbero fatta scontare fino alla fine dei suoi giorni.
«Sì, Constance ha fatto un ottimo lavoro» disse d’Artagnan con una punta d’orgoglio.
«Ma va detto che partiva avvantaggiata» bofonchiò Aramis, poggiandosi col gomito alla spalla di Athos.
«Fossi in te, proverei davvero a portarla via, prima che qualcuno la rubi» aggiunse Porthos, appoggiandosi all’altra spalla.
Athos lanciò loro un’occhiata truce e si scrollò i compagni di dosso. «Probabilmente, il corsetto la ucciderà prima che qualcuno ne abbia il tempo» replicò atono, cercando di ignorare la sensazione inattesa di morsa allo stomaco e non riuscendo a fare niente per il mezzo sorriso un po’ fiero e un po’ inebetito che gli era salito alle labbra.
Diane si guardava attorno, nervosa. Suo zio stava registrando con gli occhi ridotti a fessura la posizione di ogni moschettiere schierato nella sala e aveva tutta l’aria di uno che avrebbe preferito essere al loro posto - naturalmente, l’idea di portare una maschera non l’aveva neppure sfiorato, c’era un limite al disagio che poteva autoinfliggersi per amore dell’obbedienza.
Un valletto annunciò l’arrivo del re e della regina e la folla si zittì.
Luigi fece il suo ingresso con sua moglie al braccio e sua sorella  e il cardinale al seguito. Tra le mani reggeva una maschera color rame con una corona di alloro.
I presenti si inchinarono, poi il re fece un cenno alla volta dei musicisti. Lui e Anna aprirono le danze e dopo qualche minuto la sala divenne un caleidoscopio di colori e luce.
 
***
 
«Oh, perdonatemi, io… sono leggermente indisposta e credo mi ritirerò molto presto. Sono venuta solo per non mancare di rispetto a sua maestà» disse la donna, la voce sottile che vibrava delle note della più squisita modestia.
L’uomo che le aveva teso la mano si allontanò e Milady mandò un sospiro di sollievo.
Non vedeva l’ora di lasciare quella sala. Era così paradossale trovarsi lì per salvarsi il collo quando in mezzo a quella gente c’erano almeno due uomini che glielo avrebbero torto volentieri.
Maledisse il duca di Buckingham, che l’aveva cacciata in quel guaio, maledisse il cardinale e maledisse Athos.
Il cardinale, per conto suo, era poco più che uno scheletro avvolto in troppi strati di porpora. Milady lo aveva visto da lontano ritrarsi quasi inorridito da quella folla e sprofondare in una poltrona. Non sembrava in grado di nuocere neppure a un cane, ma lei lo conosceva abbastanza da sapere che avrebbe potuto schiacciare i suoi nemici anche dal letto di morte.
In quanto ad Athos, era sempre dannatamente sgradevole vederlo e se l’era trovato tra i piedi all’ingresso della sala, tra tutti i moschettieri di cui brulicava il palazzo, era stato proprio lui ad aprirle la porta. Aveva dovuto sforzarsi di non guardarlo, per un attimo era stata certa che l’avrebbe riconosciuta nonostante la maschera. Si era imposta di continuare a camminare e mantenere la calma e quando si era allontanata abbastanza ed era sparita dalla portata del suo sguardo, si era resa conto che rivederlo non era comunque sgradevole abbastanza.
Aveva dovuto intrufolarsi a quella festa, doveva sincerarsi che la regina d’Inghilterra fosse ben protetta. C’erano un mucchio di guardie eppure Enrichetta Maria non era al sicuro nemmeno lì al Louvre.
Quello che Milady aveva scoperto, indagando sulle informazioni ricevute da Buckingham, era inquietante e soprattutto era qualcosa che andava ben al di là delle sue possibilità.
Per anni a Parigi aveva prosperato una rete criminale, una di quelle senza credo e senza bandiera, disposta a trafficare armi ai rivoltosi protestanti tanto quanto a ogni nobile che desiderasse rafforzare la propria personale armeria senza attirare l’attenzione. A tenere in mano le redini della faccenda, era stato per lungo tempo il conte Legrand - Milady lo ricordava, un omaccione paffuto con la faccia da putto, un vero lupo vestito da agnello. Da quello che era riuscita a scoprire, il conte era stato smascherato e giustiziato meno di un mese prima, ma chiunque si fosse occupato della cosa aveva pensato che la sua ragnatela si fosse dissolta con lui, e invece si sbagliava. Ed era su questa ragnatela, tessuta da tante troppe mani insospettabili, che ora il sicario stava facendo affidamento.
Se c’era una cosa che Milady ricordava della sua permanenza a Parigi, era l’identità delle giuste persone da corrompere per avere le informazioni che le servivano. Con un fiume di denaro inglese si era aperta la strada in quella selva di segreti ed era venuta a sapere che monsieur Masson, il profumista, aveva una preoccupante collezione di denaro spagnolo. Era andata a fargli visita, ma l’incontro con quella ragazzina aveva sconvolto i suoi piani. Era poi andata a finire che monsieur Masson ci aveva rimesso la gola: le autorità avevano detto che si era trattato di un furto e di fatto, chiunque avesse sgozzato quel caro signore, si era premurato di far sparire il denaro spagnolo dalla cassa della sua bottega.
Il sicario si stava muovendo e se davvero poteva contare su una rete clandestina di criminali armaioli, c’erano pochissime probabilità che la regina tornasse a Londra sana e salva.  
Tutta quella luce, quell’ammasso di colori e risate e musica, cominciava a darle alla testa.
Pensò che non ci fosse niente che poteva fare lì per aiutare la regina, ma tutti quei volti coperti non erano rassicuranti. Il sicario avrebbe potuto facilmente essersi mimetizzato tra gli invitati e ora magari era lì, ad attendere il momento giusto per colpire.
Ci pensò e un attimo dopo le parve improbabile. Se avesse attentato alla vita di Enrichetta Maria quella sera, non avrebbe fatto in tempo a lasciare la sala, non sarebbe uscito vivo dal palazzo.
Tuttavia, Milady si convinse a rimanere lì fino a quando quella ridicola festa non fosse finita. C’era solo da sperare che Dio non decidesse di giocarle un altro dei brutti scherzi che usava rifilarle di tanto in tanto.
Si sistemò sotto il palchetto dell’orchestra, facendo bene attenzione a tenersi alla larga dai moschettieri. Lanciò un’occhiata alla sala e vide Enrichetta Maria intenta a conversare con la regina francese e un’altra persona.
Per un attimo pensò di essersi ingannata, ma fissando meglio realizzò che l’altra persona tra le due regine era proprio lei, la giovane che aveva incontrato in profumeria. Quella sconosciuta l’aveva insospettita per il suo strano accento, ma si era resa subito conto che non poteva essere di qualcuno di pericoloso. Non avrebbe mai immaginato si trattasse di una dama di corte, quando l’aveva conosciuta non ne aveva affatto l’aria, ma ora sembrava un vero gioiello, con tutta la bellezza fresca della sua gioventù e l’eccitazione per la festa che le arrossava le gote. Milady pensò che al prossimo giro di danze, i signori presenti le sarebbero piovuti addosso come rapaci, a meno che l’uomo di cui era così teneramente - scioccamente - innamorata non fosse venuto a salvarla e a reclamarla per sé.
Scosse il capo e si dimenticò della ragazzina. Mentre passava in rassegna la sala, notò il capitano dei moschettieri che sembrava stesse cercando di mimetizzarsi con la tappezzeria, lontano dalla folla.
Sorrise sotto l’orlo dorato della maschera.
«Se solo i moschettieri sapessero…» sussurrò. Un piano cominciò a prendere forma nella sua mente mentre l’orchestra attaccava con una quadriglia.
 
***  
 
Quando la musica finì, il cavaliere, un signore alto con una maschera da pappagallo, si inchinò fino quasi a sfiorare il pavimento col becco.
Diane sentiva ancora il respiro leggermente affannato per il ballo. Non le erano mancati inviti per danzare e lei non aveva trovato nessuna ragione valida per rifiutarli. Nessuno di loro aveva attirato particolarmente la sua attenzione - nessuno di loro avrebbe mai potuto reggere il confronto con un moschettiere musone e affascinante - ma quella serata che tanto l’aveva preoccupata era finita per diventare un piacevole diversivo e anche se metà delle donne in quella sala ballavano meglio di lei, la ragazza si era ricordata di quanto, in fin dei conti, le piacesse danzare per il solo gusto di farlo.
Tra una piroetta e l’altra, aveva scorto Porthos e d’Artagnan lanciarle cenni di incitamento.
Il pappagallo si tolse la maschera, ne emerse un viso sorridente e per niente sgradevole.
«Mi concedereste una passeggiata in giardino, mademoiselle?» fece l’uomo con un certo impeto.
Diane sgranò gli occhi. «Temo, monsieur, che faccia troppo freddo ormai»
«Di questo non dovete preoccuparvi» insistette lui con un’occhiata maliarda fin troppo eloquente.
No, ma potresti preoccupartene tu…
L’uomo le baciò la mano e la ragazza pensò che forse la situazione aveva finito per sfuggire al suo controllo. Si chiese se l’aver passato la serata a cambiare di continuo cavaliere non avesse dato di lei un’impressione sbagliata, eppure qualcosa in tutta la faccenda la divertiva, con quell’ilarità un po’ sfrontata che solo una giovane donna finalmente libera di respirare nel mondo può avere senza vergognarsene.
«Preferisco il clima che c’è in questa sala, monsieur» disse lei, ritirando la mano.
«Ho speranza di rivedervi?»
«Io non la definirei proprio una speranza».
L’espressione sicura del pappagallo si afflosciò e la maschera di cartapesta gli ricadde sulla faccia. Diane fece una rapida riverenza prima che il gentiluomo aggiungesse altro e si dileguò tra le coppie che si preparavano al prossimo ballo.
«Va bene, basta danze per stasera» sospirò sfilandosi la maschera e scostandosi un ciuffo di capelli che cominciavano a ribellarsi all’acconciatura.
«Eppure avrei detto che vi stavate divertendo come pochi» sussurrò una voce.
La giovane si voltò per trovarsi davanti lo sguardo d’acciaio di Richelieu. Sprofondato nella sua poltrona, il cardinale osservava la sala con aria annoiata, aspettando solo il momento opportuno di ritirarsi senza che il re si sentisse offeso dalla sua sparizione.
«Volete invitarmi per il prossimo ballo, Eminenza?».
Lui strabuzzò gli occhi. «La festa vi ha dato alla testa» borbottò. «Vi assicuro, mi siete simpatica, mademoiselle, nonostante i vaghi cenni di squilibrio e i discutibili gusti in fatto di compagnie»     
«Siete l’unica persona a palazzo a cui sto simpatica». Ed è un sentimento per nulla reciproco!
«Suvvia, la regina vi adora» replicò Richelieu con un’occhiata penetrante. Le sue parole andavano oltre il commento disinteressato. «E io non sono simpatico a nessuno qui dentro eppure me la sono cavata egregiamente»
«Be’, io non aspiro alla carica di primo ministro, quindi dell’antipatia altrui non ho che farmene»
«No. A cosa aspirate, allora, mi domando».
Diane ricambiò lo sguardo del cardinale con uguale intensità. «Aspiro a quello a cui aspirate voi o anche mio zio, Eminenza, servire fedelmente coloro che hanno riposto in me la loro fiducia»
«Una nobile aspirazione. Sempre se si pensa di aver scelto con saggezza chi servire»
«La saggezza non è mai stata il mio forte».
La ragazza regalò al cardinale un sorriso velenoso che lui le restituì.
«Ah, capitano» esclamò Richelieu dopo qualche istante, «stavo giusto parlando con vostra nipote di fiducia e saggezza, tutte cose che a voi piacciono molto».
Treville si era appena avvicinato, fece un vago cenno di assenso e lasciò cadere la provocazione.
«Credo sia quasi ora, Eminenza» disse funereo. 
«Di già? Sua maestà ha male ai piedi?»
«No, ma ha chiesto alla regina di ritirarsi, non vuole che stia troppo alzata, e molte dame andranno via con lei»
«Quasi ora per cosa?» domandò Diane. Il suo sguardo finì catturato da un candelabro dove le candele erano ridotte a grovigli di cera consumata. Si rese conto che doveva essere tardi, la sala era meno illuminata e molta gente sedeva stanca sui sofà accanto alle vetrate.
«Per la parte della serata dedicata ai soli uomini, mia cara» borbottò il cardinale, alzandosi e lisciandosi la mantella color sangue.
«Portate il re in giro per i bordelli di Parigi?»
«Delizioso, ho fatto tagliare lingue per molto meno».
Treville sospirò con troppa enfasi. «Adesso tutti noi ci ritireremo e passeremo la serata a giocare a carte e a scacchi e a tenere compagnia a sua maestà» spiegò. «Immagina il divertimento!».
Diane ridacchiò scuotendo il capo. «Be’, almeno è un cambiamento, non passerai la sera sveglio alla guarnigione»
«Lo preferirei»
Il capitano dei moschettieri si stropicciò il viso con la mano. «Noto comunque che la tua serata è stata un successo» concluse senza troppa allegria e fece un cenno al moschettiere più vicino.
Aramis comparve come dal nulla accanto a Diane.
«Pare che quest’anno sia andato tutto bene» osservò Treville, scoccando un’occhiata al suo soldato.
«Liscio come l’olio, signore» rispose Aramis.
«Bene. Mandate a riposare quelli che sono qui da oggi pomeriggio, gli altri che restino di guardia fino ai fuochi d’artificio. E qualcuno riporti a casa mia nipote» ordinò il capitano, preparandosi a raggiungere mestamente Richelieu che era rimasto ad attenderlo sulla porta.
«Povero zio…» sospirò la ragazza quando lo vide sparire dietro il battente laccato.
«Non preoccuparti, ne ha viste di peggio» le rispose Aramis.
La nipote del capitano si voltò per osservare la sala che cominciava a svuotarsi.
La regina, accerchiata da un nugolo di dame, attraversò l’ampio salone ricevendo i saluti e gli omaggi di quelli che erano rimasti. Si fermò accanto a Diane e le sorrise con gli occhi stanchi.
La ragazza e il moschettiere si inchinarono.
«Spero che la serata sia stata di vostro gradimento, amica mia» disse la sovrana.
«Assolutamente, maestà. Dovremo rifarlo».
Le due giovani donne si scambiarono un’occhiata complice e un risolino.
«Mi si dice che abbiate anche spezzato un cuore o due»
«Nessun cuore che non si possa riparare, maestà».
Anna allargò il sorriso. «Buonanotte, Diane»
«Buonanotte, maestà».
La ragazza la vide lanciare un rapido sguardo ad Aramis e provò una fitta di malinconia al petto per la regina e per il suo amico. Per contrasto, si sentì fortunata e l’enormità e la felicità del suo primo amore le brillò tra i pensieri come un fuoco d’artificio.
«Come sta?» fece il moschettiere, strappandola ai suoi pensieri.
«Mh?»
«La regina. Sai, l’esito di questa gravidanza ci tiene tutti sulle spine, sua maestà ha già perso un bambino in passato»
Oh, Aramis…
«La regina sta molto bene, i medici di corte dicono che il bambino è in salute. L’ho sentito scalciare, sai, è… è forte. Non potrà che essere meraviglioso»
«Lo sarà senz’altro».
Aramis sorrise, un sorriso troppo rapido e troppo triste, poi si riscosse.
«Aspetta fuori alla sala» disse, indicandole una delle porte laterali. «Ti manderò qualcuno, d’accordo?».
Diane annuì, afferrò il braccio del moschettiere e gli posò un bacio sulla guancia.
«E questo per cos’era?» fece lui.
«Per nessuna ragione particolare» rispose Diane, avviandosi verso l’uscita.
Un valletto dall’aria stravolta le riconsegnò la sua mantella, la giovane vide la cipria sciolta e raggrumata sulla sua fronte umida e realizzò che fosse un bene che quella serata fosse finita. Divenne consapevole anche del male ai piedi e del bruciore in fondo alla schiena: non si sedeva da ore.
Guardò il proprio riflesso contro un vetro scurito dalla sera, affondò le mani nel tessuto morbido della gonna. Pensò che suo zio, il duca, avrebbe approvato.
Una stretta la prese all’improvviso, avvolgendole la vita. Diane ebbe un sussulto e si ritrovò tra le braccia di Athos, i suoi occhi azzurri puntati in viso.
«Un moschettiere che insidia una donna della regina?» mormorò con finta aria indignata.
«Puoi gridare, se vuoi» rispose lui prima di baciarla con foga. Quel suo mischiare tenerezza e passionalità era disarmante. Forse il primo amore è cieco e folle, ma Diane non avrebbe mai creduto di potersi arrendere con tanta fiducia e confidenza.
Aveva riflettuto per un po’ sulle parole della signora incontrata nella profumeria, sullo stare attenta a non affidarsi troppo all’amore di un uomo, ma si era scoperta incapace di seguire quel consiglio. Forse la sua gioventù la rendeva fiduciosa e ingenua, ma aveva consegnato il suo cuore ad Athos molto tempo prima e non aveva intenzione di farselo restituire.
«Non ti chiederò se hai passato una bella serata, mi sembra evidente» disse il moschettiere, scostandole una ciocca di capelli dalla tempia sudata e sfiorandole la fronte con le labbra.
Lei sorrise. «Non mi verrai a dire che sei geloso»
«Non mi verrai a dire che non ne ho il diritto».
La ragazza scoppiò a ridere, anche se lui sembrava prendere la questione molto sul serio.
«Per piacere, riportami a casa, prima che mi si stacchino i piedi» concluse.
Athos accennò un inchino aggraziato, da perfetto gentiluomo, e la lasciò accanto a una siepe nel giardino. Diane si avvolse nella mantella e rimase a fissare il cielo stellato, i domestici che ronzavano tra le aiuole per spegnere le lanterne e preparare tutto per i fuochi d’artificio.
Il moschettiere ricomparve qualche minuto dopo, trascinando per le briglie il suo cavallo nero. Prese la giovane per la vita e la depositò in sella, con l’ampia gonna dell’abito che copriva come una tenda l’intero dorso dell’animale.
«E tu?» chiese Diane.
Athos scrollò le spalle. «Ho voglia di camminare». Sempre tenendo il cavallo per le briglie, lo pilotò attraverso il giardino, fino al cancello principale. Scambiò qualche parola con le guardie davanti all’ingresso prima che loro gli aprissero una parte della cancellata.
La città era sveglia, più sveglia del solito. Luci accese nelle taverne e per le strade dissipavano le ombre della notte, come se niente di brutto potesse mai accadere in una sera come quella.
Diane osservò un uomo con la fisarmonica che suonava all’angolo di un viale, attorniato da ragazzini che ballavano.
«Sai» disse, muovendo le gambe a penzoloni accanto a una staffa, «penso che se lo avessi chiesto alla regina, ti avrebbe invitato al ballo».
Athos si voltò per guardarla da sopra la spalla. «Sono contento che tu non l’abbia fatto».
«Oh, andiamo. A parte il fatto che gli altri tre ti avrebbero preso in giro vita natural durante, sono sicura che te la saresti cavata meravigliosamente»
«Mi lusinga che tu lo creda»
«Non mi dirai che non hai mai partecipato a un ballo, voglio dire… prima».
Athos si fermò e si voltò a guardare Diane con un’espressione indecifrabile. Il cavallo diede un’energica scrollata di capo.
«Scusami» mormorò lei, mordendosi il labbro. «So che non ti piace parlare del passato».
«No, ma dovremo pur parlarne, prima o poi»
«Non è necessario, Athos. Non per forza ora, intendo»
«Non mi hai mai detto chi ti ha raccontato di mia moglie e cosa ti ha detto»
«È stata Constance - non prendertela con lei, l’ho praticamente costretta - non mi ha detto molto, solo che eri un nobile, che sposasti una donna che poi si rivelò essere, be’…».
Diane si chiese come poteva pretendere che Athos le parlasse di tutta quella storia se lei per prima non riusciva ad articolare frasi di senso compiuto al riguardo. Però lui aveva ragione, avrebbero dovuto affrontare anche quel fantasma, prima o poi.
«Sì, ora che mi ci fai pensare, non c’è poi molto da aggiungere» disse lui, riprendendo a camminare, il cavallo che lo seguiva docile nelle strade meno trafficate. «I fatti sono questi, ma raccontare cosa tutto ciò ha significato per me… non credo ci siano parole. Sono cresciuto con un castello di certezze e poi le ho viste tutte crollare per un unico singolo sbaglio».
Diane ispirò l’aria fredda della notte e sentì un po’ di quel freddo scenderle dalla gola al petto, formare una stalattite che le pungeva il cuore.
«Lo credi davvero, che sia stato uno sbaglio?»
«Come la chiameresti una cosa che non ti ha lasciato altro che rimpianti?»
«Penso solo che dev’esserci stata tanta, tantissima felicità prima, se poi ne è seguito così tanto dolore» mormorò la ragazza. Doveva ammettere almeno con se stessa che il pensiero la rendeva gelosa e triste. «E allora mi chiedo se, alla fine, non ne sia valsa in qualche modo la pena».
Era una riflessione brutale, un pensiero che apriva un taglio purulento sul volto di quella notte perfetta e bellissima, ma Diane pensò che non fosse giusto nasconderla, che quella cinica sincerità fosse uno dei tributi che richiedeva l’amore - il suo, almeno.
Athos sospirò. «Alla fine sì» ammise. Una vibrazione strana gli alterò la voce, come l’eco del vento tra le macerie. E le macerie c’erano ancora dentro di lui, frammenti forse troppo ingombranti di un amore che lo aveva fatto a pezzi. Diane si disse che gli doveva il coraggio di convivere con quei relitti, era il suo modo in cui farne valere la pena.
«L’ultima volta che ho incontrato mia moglie, era una spia al servizio del cardinale» proseguì il moschettiere. «Non occorre che tu sappia delle tante scelleratezze che lei e Richelieu avevano orchestrato assieme. Le giurai che l’avrei uccisa, se mi fosse ricapitata davanti. Ad ogni modo, quella che avevo sposato anni fa era un’altra donna e il conte de la Fère era un altro uomo».
Il cavallo si fermò, strusciando gli zoccoli contro il ciottolato. Quando Diane sollevò lo sguardo si accorse che erano davanti alla porta di casa.
«Quello che sono oggi…» aggiunse Athos, scuotendo il capo. Le parole annegarono da qualche parte nel silenzio della sera. «Tutto quello che so è che quando ti guardo non penso che tu sia la mia seconda chance. Forse sei molto più di quanto io meriti, ma sei la sola donna che io possa amare».
La ragazza ammutolì e un attimo dopo si sentì una perfetta idiota. Athos aveva il potere di confonderla e lei si sentiva una bimbetta ingenua quando non riusciva a far fronte a quelle emozioni. Non aveva parole per rispondergli, ma avrebbe voluto poter dire qualcosa di eloquente.
«Io…» farfugliò. C’era un’unica, singola cosa da dire. «Ti amo».
«Grazie a Dio, sarebbe stato tutto molto imbarazzante altrimenti»
«Athos! Cosa avevamo detto riguardo al senso dell’umorismo?»
«Uhm, dovresti darmi qualche lezione in proposito» disse lui con un mezzo sorriso. Le tese le braccia per aiutarla a scendere dalla sella. «Vieni qui».
Diane scivolò nella sua stretta, con le mani arpionate alle sue spalle. Quando gli sfiorò le labbra, si sentì il fragore di un’esplosione lontana e si voltò per vedere una pioggia di scintille colorate solcare il nero del cielo.
Il fuochi di artificio esplosero nel cielo di Parigi, regalando alle ombre riflessi di rosso, blu e verde.
Diane rimase a guardarli salire e sbocciare come immensi fiori sopra i tetti delle case, circondata dalle braccia di Athos e dalla sicurezza di una felicità che le sembrava scintillare come le stelle di quella sera.
«Sono bellissimi» mormorò. Lui annuì, affondando il viso nei suoi capelli.
Il vento soffiò per la città la cenere e l’odore di bruciato. Quando i fuochi cessarono, rimase a regnare un silenzio perfetto.
Diane strinse forte la mano di Athos. «Tu non mi lascerai sola in una sera come questa» gli disse.
«Agli ordini».
Il moschettiere andò a legare il cavallo a una staccionata lì vicino e la raggiunse sulla porta.
La casa era rimasta vuota tutto il giorno e dentro c’era un freddo quasi fastidioso. Diane non ebbe tempo di avvertirlo, perché si ritrovò così stretta ad Athos da sentire il calore esploderle nello stomaco come una pugnalata. Era desiderio e faceva male, era la sensazione di lacci che stringevano fino a ferire, l’urgenza di arrendersi e l’ansia di liberarsene.
Salirono le scale alla cieca, quasi inciampando. La porta della camera da letto di Diane si aprì quando ci finirono contro.
Il ricordo di quella notte di tempesta era ben presente nel cuore della ragazza, ma era avvolto dalla nebbia delle troppe cose che aleggiavano attorno a quel ritaglio di felicità. Ora l’amore era una luce visibile, senza alcuna ombra a sbavarne i contorni.
Urtarono contro lo scrittoio, una pila di libri rovinò sul pavimento. Athos non accennò a volersi staccare da lei, le dita che si impigliavano nei troppi lacci del vestito.
«Constance è stata maledettamente meticolosa» ansimò lui contro il suo collo.
«Non strappare niente o ci ucciderà entrambi»
«Penso che correrò il rischio».
Il vestito cadde con un tonfo leggero sulle assi di legno del pavimento. Athos inspirò spazientito quando le sue mani strusciarono contro le stecche del corsetto.
Diane gli sfilò la giacca e la lanciò da qualche parte nella penombra della camera. Il cuoio rigido del coprispalla da moschettiere urtò contro un piccolo specchio da toeletta e lo ruppe.
«Tuo zio ci ammazzerà…»
«Se ti sento nominare ancora una volta mio zio, ti ammazzo io!». Diane gli slacciò la cintura. Spada, pugnale, pistola caddero con un rumore infernale. Il corsetto si aprì e cadde in mezzo alle armi.  
Athos la spinse sul letto e il materasso cigolò quando le si stese accanto. 
Diane lo baciò a lungo, mentre lui le sfilava la sottoveste. L’idea di essere completamente nuda con un uomo la faceva sentire ancora in imbarazzo, ma se ne dimenticò presto quando le labbra di Athos scesero dalla sua gola al petto, lasciandole una scia umida sulla pancia. Alzò la testa sul guanciale quando sentì l’ispido della barba sfiorarle le cosce, e poi il piacere risalì in una scia languida dal bassoventre alla testa, confondendo il buio della stanza con il ricordo della luce dei fuochi d’artificio.
Affondò le mani tra le lenzuola e strinse, serrando le labbra in un impeto di pudicizia che le rendeva insopportabile l’idea di emettere anche un solo suono.
Quei pochi scampoli di autocontrollo si persero da qualche parte nella sua mente. Chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro, prendendo aria a fatica tra i gemiti.
Athos si sollevò e le cinse i fianchi, stringendola a sé mentre si spingeva dentro di lei.
 
***
 
Una luce fredda filtrava dalla finestra. Nel riverbero argentato della luna, Diane era una curva bianca sotto le lenzuola.
Athos era rimasto a guardarla mentre si addormentava con un senso di pace che passava dai lineamenti morbidi della ragazza al suo cuore.
Le accarezzò i capelli e vide il riflesso di un sorriso salirle alle labbra.
Doveva andarsene da lì e l’idea non gli piaceva, soprattutto lo metteva a disagio il dover sgusciare via da quella stanza e da quella casa come un ladro, ma sapeva che Diane avrebbe capito. Il moschettiere pensò che avrebbe dovuto sentirsi molto più in colpa per essere steso in quel letto con la nipote del suo capitano in casa sua, ma non si sentiva colpevole abbastanza, anche se gli era rimasto un briciolo di decenza che urlava a gran voce che non avrebbe dovuto tirare troppo la corda, che farsi trovare lì da Treville sarebbe stata una pessima idea su tutti i fronti.
Ritrovare i vestiti e le sue armi nella penombra fu un’impresa più ardua di quanto avesse creduto. Nel disordine della camera, rischiò di portarsi via la sottoveste della ragazza.
Attento a non fare il minimo rumore, afferrò la cintura, stringendo spada, pistola e pugnale in un’unica massa pesante di roba e sgusciò fuori dalla stanza. Prima di chiudere la porta della camera, si voltò verso il letto e sospirò. Avrebbe riso di se stesso, se si fosse ricordato come si faceva.
Scese le scale cauto. Quando uscì, vide con la coda dell’occhio qualcosa che gli fece mancare un battito.
Sulla cornice esterna della porta era infilato un pugnale che teneva appuntato contro il legno un foglio che frusciava come una bandiera nel vento della notte.
Ovviamente era troppo sperare che quella sera restasse perfetta. 
Athos lo guardò e staccò la lama con un gesto nervoso. Quello non era un modo rassicurante di consegnare la posta e anche se il messaggio era certamente indirizzato a Treville, il moschettiere pensò che fosse meglio leggerlo subito.
Benissimo… strinse i denti e accartocciò il foglio tra le mani con un moto di stizza. Aprì la porta con una brusca manata e tornò di sopra. Ora il suo passo era reso pesante dall’agitazione, ma quando fu di nuovo nella stanza di Diane la guardò dormire e si chiese se fosse davvero il caso di svegliarla. Una voce sgradevole gli ricordò che la ragazza lo avrebbe saputo comunque e che in ogni caso si sarebbe lasciata coinvolgere da quel guaio perché, con la nomina della regina, si sentiva autorizzata a credersi una specie moschettiere - e non c’era proprio niente che lui o suo zio potessero fare al riguardo.
«Diane…». La scosse nel modo più gentile che gli riuscì.
La ragazza si svegliò con un sussulto. «Cosa? Oh… non dirmi che è tornato mio zio»
«Vestiti, dobbiamo tornare a palazzo, abbiamo un problema».
 
 
 

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Capitolo 5
*** Trappola ***


IV
Trappola

 
L’alba guadagnava terreno un raggio di sole alla volta. Parigi era ancora sprofondata nel silenzio e nel sonno e solo lo sbattere d’ali di qualche piccione sembrava scalfire quell’immobilità indolente.
Sette paia di occhi arrossati dalla stanchezza si scambiavano sguardi nervosi nel salottino ancora scarsamente illuminato.
Il cardinale aveva letto e riletto il messaggio che Athos aveva trovato appuntato alla porta di Treville.
 
La regina di Inghilterra è in pericolo. Un sicario straniero è stato mandato a ucciderlo e ha alleati nascosti a Parigi. La sua vita è nelle vostre mani. 
 
«Magari è solo uno scherzo di cattivo gusto» disse Porthos. «Guardate la calligrafia, sembra quella di qualcuno che non è abituato a scrivere»
«A me sembra la calligrafia di qualcuno che ha scritto apposta come un bambino di cinque anni» intervenne Diane, attirando su di sé gli sguardi dubbiosi dei presenti. «Lo facevamo in collegio quando volevamo mandare messaggi anonimi… d’accordo, è una sciocchezza, non fateci caso»
«L’unica cosa a cui sto facendo caso ora è che non capisco che ci facciate qui, mademoiselle» borbottò il cardinale.
Provate a mandarla via, se vi riesce, pensò Athos.
«No, quello che ha detto Diane ha senso» disse Aramis. «Hanno appuntato il messaggio con un pugnale, sapevano che quella era la casa del capitano: è qualcuno che sa il fatto suo»
«Qualcuno che dovremmo conoscere, se si è preoccupato di camuffare la calligrafia» aggiunse d’Artagnan, inquieto.
La stanchezza e la notte insonne non aiutavano a far funzionare il cervello, e tutto appariva ancora più spaventoso.
«Dimentichiamo un attimo chi può aver lasciato il messaggio e concentriamoci su quello che c’è scritto». Treville si appoggiò con le spalle contro il muro e sospirò pesantemente. «Proteggere Enrichetta Maria dev’essere la nostra priorità»
«Avete ragione» convenne il cardinale. «Eppure non sono tranquillo al pensiero che ci sia qualcuno che era a conoscenza di un attentato alla regina di Inghilterra e ce lo ha fatto sapere senza palesarsi». Non avere il controllo della situazione doveva farlo impazzire, come il non poter mettere le mani sul misterioso informatore.
«Dovremo dirlo al re» osservò Athos. «Sua sorella è sempre con lui e con la regina, nessuno è al sicuro».
Richelieu si pinzò la radice del naso con le dita. «Spagnoli» sbuffò. «Vi avviso: il giorno che chiuderò gli occhi per sempre, guardatevi dagli spagnoli, perché non ci sarò più io a farlo»
«Non potete esserne sicuro» obiettò d’Artagnan.
«Dite? Un “sicario straniero”, chi altri avrebbe interesse nell’uccidere la moglie del re di Inghilterra se non gli spagnoli? Non hanno rinunciato all’idea di far sposare Carlo Stuart con l’infanta. Sventai questa sciagura anni fa, ora ho idea che il problema si sia riproposto in una forma diversa. Naturalmente se Enrichetta Maria muore mentre si trova sul suolo francese, l’Inghilterra sarà doppiamente sfiduciata nei nostri confronti e una sua futura unione con la Spagna sarebbe una tripla catastrofe»
«Non possiamo muovere nessun’accusa» disse Treville.
«No, se non vogliamo scatenare quella guerra per cui il regno non ha abbastanza fondi. Non di meno, dobbiamo mettere al sicuro la regina di Inghilterra. Qualcuno di voi uomini d’azione ha qualche idea?»
«Ho raddoppiato la sorveglianza alle stanze di Enrichetta Maria e il numero delle guardie di palazzo. Ma lei dovrebbe rimanere al sicuro fino a quando non faremo luce su questa minaccia».
Richelieu mosse qualche passo per la stanza, si appoggiò a un tavolino e per un attimo sembrò accasciarsi, poi raddrizzò le spalle e si voltò a guardare il capitano dei moschettieri con un’espressione esasperata.
«Sua maestà non accetterà di restare al chiuso per una minaccia della quale non abbiamo prove» dichiarò, assottigliando le labbra in un moto di frustrazione.
Per un attimo parve che lui e Treville avessero lo stesso identico sguardo da segugi inferociti.
«Oggi pomeriggio Enrichetta Maria deve vedersi con l’arcivescovo a Notre Dame, il re e la regina dovrebbero accompagnarla» spiegò poi il cardinale. «Pregate che io trovi il modo di fermarli».
«Ah, quindi è tutto nelle vostre mani? Ora sì che mi sento tranquillo» sbottò Porthos.
Sua Eminenza finse di non averlo nemmeno udito. «Nel dubbio, suggerisco a tutti voi di farvi qualche ora di sonno, non siete utili nelle condizioni in cui vi trovate».
I moschettieri guardarono il loro capitano, che era rimasto appoggiato al muro e che fissava impensierito il vuoto davanti a sé.
«Enrichetta Maria dorme, lei e il re non si sveglieranno prima di pranzo e ci sono un sacco di guardie a proteggerla» disse Treville. «Per il momento è al sicuro».
Forse aveva ragione, ma questo non significava che lui o i suoi uomini sarebbero riusciti a prendere sonno - anche se in quel momento il sonno sembrava più forte persino della preoccupazione.
Lasciarono la stanza senza aggiungere altro.
«Diane» chiamò Richelieu quando erano già fuori dalla porta. La ragazza alzò la testa con uno scatto. Treville serrò la mascella e i moschettieri si voltarono all’unisono insieme a lei.
«Eminenza?». La nipote del capitano rimase in attesa sull’uscio.
«Tenetevi pronta, potrei mandarvi a chiamare» disse il cardinale, rivolgendole uno dei suoi sorrisi taglienti. «Se non riuscissi a convincere sua maestà ed Enrichetta, mi servirà il vostro aiuto a convincere la regina: di me si fida poco, di voi moltissimo».
Diane scrollò le spalle prima di uscire insieme ai moschettieri. «Come vi ho detto, Eminenza, sono qui per servire».
D’Artagnan richiuse la porta del salottino con un mezzo calcio e tutti loro si avviarono lungo il corridoio mentre la luce violetta delle prime ore del giorno disegnava ritagli sbiaditi tra le tende.
«Mio Dio, spero riusciate a raggiungere tutti un letto prima di crollare sul pavimento» bisbigliò Diane a nessuno in particolare, mentre i moschettieri camminavano ciondolanti davanti a lei.
Athos l’afferrò per un braccio e la trattenne accanto a una colonna mentre gli altri proseguivano verso le scale.
«Devi stare attenta al cardinale» le disse. «So che può sembrare un vecchio gatto spelacchiato ma è ancora pericoloso»
«Lo so»
«Non devi fidarti di lui»
«L’idea non mi ha neppure sfiorato la mente»
«Forse non dovrei dirtelo, ma ricordi quando ti abbiamo raccontato dell’attentato alla regina che ci costrinse a rifugiarci nel convento di Bourbon-les-aux?»
«Era lui il mandante. L’avevo capito»
«Ah. Bene…»
«Athos, ascolta, tu e mio zio ora avete fin troppi pensieri per preoccuparvi anche di me. Sarò prudente, lo prometto».
Il moschettiere sospirò. Se quella ragazza fosse stata meno folle e sconsiderata non sarebbe stata lei e lui ora non avrebbe avuto tutta quella luce e quel calore a sciogliere il ghiaccio accumulato tra le macerie della sua vita. Ma Diane possedeva un’incoscienza da innocente che non poteva fare a meno di preoccuparlo.
«D’accordo. Prenditi cura di tuo zio, ha avuto fin troppi scossoni nelle ultime settimane» concluse.
Diane gli sorrise e gli posò una mano sulla guancia in una carezza leggera. «E tu va’ a riposare. E rimbocca le coperte agli altri tre da parte mia»
«Come no».
La ragazza sfilò via dalla presa di Athos e si diresse a grandi passi verso le scale dove Treville la stava aspettando.
 

***

 
«Oh mio Dio!». Constance sussultò, le lenzuola bagnate che teneva tra le braccia le saltarono di mano e si sparsero attorno a lei come nuvole. «Diane! Mi hai fatto prendere un colpo».
La ragazza arricciò le labbra. «Scusa. Stavo per bussare».
Quando madame Bonacieux aveva aperto la porta, la figura immobile sulla soglia l’aveva colta di sorpresa.
Diane l’aiutò a recuperare le lenzuola dal pavimento. La stoffa bagnata era pesante, la ragazza incespicò fino alle corde tese dove stendere il bucato.
«Che ci fai in giro a quest’ora?» domandò Constance. Lanciò energicamente un lenzuolo al di là della corda, dispiegandolo con cura. «Mi devi raccontare come è andato il ballo».
«È andato bene, il ballo. Athos mi ha riaccompagnato a casa, abbiamo guardato insieme i fuochi di artificio e… ah, sarebbe stata una serata perfetta se non avesse trovato un messaggio anonimo su un sicario mandato a uccidere la regina di Inghilterra».
Il bel viso di madame Bonacieux spuntò dietro al sipario di lenzuola candide. «Cosa?»
«Già. E io ora sono preoccupata, credo che terrorizzata sia il termine giusto»
«Pensa se fossi la regina di Inghilterra».
Diane trovò la forza d’animo di soffiare una risata. Si lisciò la gonna dell’abito e fece il giro del cortile, andandosi a sedere sul bordo del pozzo, al limite della piazza ancora deserta.
«Se sei preoccupata per Athos e per gli altri…» esordì Constance, parandosi davanti a lei. Ah, certo, madame Bonacieux doveva averne viste abbastanza da aver superato da un pezzo la soglia della preoccupazione ed essere approdata alla vetta delle fede cieca da martire.
«Sono preoccupata di quello che devo fare». Diane agitò le gambe a penzoloni oltre il bordo di pietra. «Per i moschettieri e per mio zio sono un peso, ma se mi facessi da parte adesso non mi prenderebbero mai più sul serio»
«Proteggere la regina di Inghilterra è compito loro, non tuo»
«Le loro missioni sono diventate le mie da quando sua maestà mi ha nominata. A volte ho la sensazione che mio zio creda che io veda la cosa come un gioco o che si aspetti che me ne stia a casa a ricamare».
Constance inclinò il capo, cercando lo sguardo dell’amica. «Sono certa che la regina non intendeva metterti in pericolo, quando ti ha chiesto di lavorare al suo servizio» disse.
Diane aprì i palmi delle mani, come se volesse lasciare andare i pensieri che stava trattenendo, troppo grandi e pesanti. «Ho la possibilità di fare qualcosa che nessun’altra donna ha mai potuto fare prima, Constance» esclamò. «Non avevo mai pensato di poter diventare questo, ma adesso ha tutto un senso, gli anni del collegio passati a imparare a combattere, quello che ho fatto da quando sono tornata a Parigi! Non rinuncerò a questa possibilità, solo che…»
«Che hai paura di fallire e di giocarti la tua chance, lo capisco». Constance le strinse le mani attorno alle braccia. «Diane, sei la ragazza più in gamba che io conosca, non potrei immaginarti fallire nemmeno se ti ci mettessi di impegno».
La ragazza strinse le dita di Constance tra le sue. Forse era solo la stanchezza, la brutta sorpresa e il panico in cui quel messaggio aveva gettato lei e i suoi amici, ma sentiva di nuovo l’odore di ferro e fumo di una tempesta che si stava addensando all’orizzonte.
«Vuoi fare colazione con me?» propose madame Bonacieux. «Abbiamo un po’ di tempo prima che mio marito si svegli».
Diane sorrise. Non aveva più rivisto il mercante di stoffe da quando aveva lasciato quella casa per tornare da suo zio e non aveva alcuna voglia di incontrarlo.
«Inoltre, mi devi dire se ci sono stati progressi sulla ricerca di una casa tutta per te» aggiunse Constance, prendendo l’amica sotto braccio e pilotandola verso la porta. Una gallina zampettò via per lasciarle passare.
«La gente non si fida di una giovane donna sola, nemmeno se è la nipote del capitano dei moschettieri» sbuffò Diane. Quella di trovare un posto per sé diventava un’esigenza di giorno in giorno sempre più pressante, ma non era il momento di pensarci ora.
«Mademoiselle Leroux?». Una voce sconosciuta sorprese le donne alle spalle. Una guardia rossa si era fermata a un metro da loro, in mezzo alla piazza.
«Cosa c’è?»
«Sua Eminenza mi ha mandato a chiamarvi, ha detto che avreste compreso l’urgenza della situazione».
Constance aggrottò le sopracciglia e guardò con una punta di perplessità l’amica che ancora le teneva il braccio. Diane si divincolò gentilmente dalla sua stretta.
«Come mi avete trovata?» domandò alla guardia.
L’uomo picchiettò le dita sull’elmetto che teneva sottobraccio e storse le labbra facendo vibrare dei baffi biondicci simili a una spazzola per strigliare i cavalli.
«Sua Eminenza è sempre informato su dove trovare le persone che gli interessano» rispose secco.
«Lusingatissima» bofonchiò Diane. «Mi dispiace, Constance, sarà per un’altra volta»
«Va tutto bene?» le domandò l’amica all’orecchio, lei annuì e seguì la guardia rossa attraverso la piazza, fino all’imboccatura di un vicolo dove l’attendeva una carrozza strettissima e con fessure rettangolari come aperture, simile a quelle usate per trasportare i criminali nelle prigioni.
Sua Eminenza ha un senso dell’umorismo delizioso, pensò Diane, salendo a bordo e sistemandosi sullo scomodo sedile di legno duro.
Per tutto il viaggio verso il Louvre si sentì come un insetto dentro a una scatola.
Due guardie la scortarono dal cardinale, che si trovava ancora nel salottino dove avevano parlato ore prima.
Richelieu era steso su un sofà, teneva lo zucchetto scuro in una mano, con l’altra si massaggiava la fronte, stravolto.
«Direi che voi non avete seguito il vostro stesso consiglio di riposare, Eminenza» disse Diane.
Il cardinale sollevò una palpebra gonfia. «Nemmeno voi»
«Alla mia età sono imprudenze che si possono commettere»
«Comincio a non trovarvi più tanto simpatica» borbottò il ministro, continuando a stropicciarsi la faccia. «Non è il riposo che mi manca, mademoiselle, è la tranquillità. Ho mostrato al re il messaggio che mi avete portato stanotte, sapete cosa ha detto?»
«Ho paura a chiederlo»
«Ha detto che è una sciocchezza, e che nessuno oserà fare del male a sua sorella, che deve trattarsi di un falso allarme e che, anche se farà raddoppiare le guardie, non rinuncerà alla visita a Notre Dame»
«E volete che io provi a convincere la regina a persuadere il re? Temo stiate sopravvalutando la mia influenza, cardinale»
«Non siate modesta, mia cara».
Richelieu richiuse gli occhi e appoggiò la testa al bracciolo del divano. Se ci fosse stato uno scultore nei paraggi, sarebbe stato un soggetto perfetto per il proprio monumento funebre.
Diane sapeva cosa stava cercando di fare il cardinale, sapeva che voleva metterla alla prova e capire fino a che punto si trovasse nelle grazie della regina, quanto pericolosa doveva ritenerla.
Non aveva tempo per i giochetti mentali, non aveva tempo per la guerra infinita tra il cardinale e i moschettieri - categoria nella quale sua Eminenza doveva ormai annoverarla per principio.
«Ma sua maestà ha almeno parlato con sua sorella del messaggio che abbiamo ricevuto? Magari lei sarà un po’ più accorta di suo fratello, dato che è della sua vita che si sta parlando» osservò Diane.
Richelieu non rispose, sembrava essersi addormentato. Lo zucchetto gli cadde di mano, andando ad afflosciarsi sul pavimento.
Potrei soffocarlo con un cuscino e nessuno lo verrebbe mai a sapere…
«EMINENZA!». La porta del salottino si aprì di schianto. Un vaso appoggiato a un treppiedi dondolò minacciosamente e Diane lo afferrò quasi inciampando.
Nello stesso momento, Richelieu si svegliò di colpo, con un sussulto talmente forte da finire sul pavimento.
Enrichetta Maria entrò come una furia e si piazzò al centro della stanza. La gonna del suo abito color ciclamino disegnava un cono perfetto attorno alla sua vita sottile.
«Vos- vostra altezza» sospirò il cardinale con voce impastata, strizzando gli occhi arrossati. «Cosa posso fare per voi?». Tentò di rimettersi in piedi con gesti lenti e goffi, drizzò la schiena e quasi si poté udire lo scricchiolio delle vertebre.
«Luigi mi ha detto che volete annullare la mia visita a Notre Dame» disse la regina d’Inghilterra.
Diane era contentissima di non essere stata notata, continuava a reggere tra le mani il vaso e sperava di riuscire a mimetizzarsi con la tappezzeria. 
«Sua maestà vi ha anche detto che ci sono state minacce piuttosto preoccupanti alla vostra persona? Credo sia meglio che vostra altezza rimanga al sicuro fino a quando non avremo fatto luce sulla questione, il capitano Treville se ne sta già occupando».
Enrichetta Maria scosse la testa, i bellissimi boccoli bruni le danzarono sulle spalle, sotto le lunghe ciglia gli occhi scuri si spalancarono come se potessero schizzarle via dalle orbite.
«Mi avete mandata a vivere in mezzo agli eretici e ai miscredenti» esclamò con un tono che assomigliava in maniera preoccupante a quello di suo fratello. «In Inghilterra professare la mia religione mi ha resa invisa a tutti, mio marito il re mi prende in giro per questo, lo sapete, sì?» [*]
«La fede di vostra altezza sarà per questo ancora più apprezzata da Nostro Signore, tuttavia non c’è alcun bisogno che vi poniate sulla via del martirio»
«Mi prendete in giro anche voi, adesso?»
«Non oserei mai, altezza»
«Mio fratello non crede a quelle minacce e così nemmeno io» concluse la giovane sovrana. «Voi non direte più una parola che lo induca ad annullare la visita. Non verrò privata della mia fede anche qui in Francia, sono stata chiara?».
Chiara e stupida, pensò Diane, stringendo un po’ più forte il vaso e indietreggiando per sparire dietro l’anta della porta, in modo che Enrichetta Maria non la notasse mentre usciva.
«Se solo vostra altezza potesse prendere in considerazione…». Richelieu alzò il dito indice e provò a sorridere, con l’effetto di assomigliare a un gatto in stato d’allerta.
«Quella visita si farà, Eminenza. E si farà oggi, esattamente come era in programma».
La donna si voltò, stringendo le pieghe della gonna con stizza. Evidentemente, trovava inconcepibile che l’avessero fatta scomodare per ribadire l’impellenza dei suoi capricci.
D’altro canto, le condizioni avverse in cui viveva alla corte londinese rendevano comprensibile il suo stolido accanimento.
Diane fu investita dal suo profumo di bergamotto quando le passò accanto come un lampo, uscendo dalla stanza.
La ragazza ascoltò il ticchettio dei passi che si allontanavano e solo quando tornò il silenzio rimise il vaso al suo posto.
«Ma è una follia» esclamò, basita.
«Mi piace l’uso che fate degli eufemismi» replicò il cardinale. «Non è nemmeno la prima volta che accade che il re decida di ignorare una minaccia»
«Ma è folle! E immagino che non serva a niente che io parli con la regina. Cosa facciamo, adesso?»
«Fate chiamare Treville. E i moschettieri. Tanti moschettieri».
 

***

 
«Se questo è il tuo concetto di prudenza, credo tu debba aggiornare il tuo vocabolario» osservò Athos, laconico.
Diane gli rifilò un’occhiataccia e assicurò una pistola alla cintura, sopra i calzoni di panno chiaro.
«Il mio posto è accanto alla regina» gli rispose, lisciandosi la giubba rossa con il ricamo dorato del giglio che sembrava scintillare.
Il moschettiere si rese conto che non aveva la facoltà di contraddirla o di fermala. Avrebbe potuto chiederle di restare a palazzo, come favore personale, ma realizzò che sarebbe stato ingiusto. Ancora una volta dovette arrendersi all’idea che quella era la strada che Diane aveva scelto, che la natura della ragazza non si sarebbe piegata a nessun compromesso.
Dietro la coltre di preoccupazione vide brillare una scintilla di orgoglio e decise che non avrebbe aggiunto altro.
Dal cortile della guarnigione arrivava il trambusto degli uomini che si stavano preparando a scortare il corteo regale a Notre Dame. Il sole del pomeriggio brillava e sbiadiva al ritmo del vento che smuoveva banchi di nuvole argentee.
Treville aveva accolto con estrema rassegnazione la notizia della decisione del re e di sua sorella di ignorare la minaccia di un possibile attentato e recarsi ugualmente all’incontro con l’arcivescovo. Aveva mandato un drappello di moschettieri a controllare tutte le vie di accesso all’Ile de la Cité, ogni ponte, ogni attracco fluviale era sorvegliato a vista e, per precauzione, tutta l’area attorno alla cattedrale era stata fatta sgombrare. 
Diane non aveva accolto con altrettanta tranquillità la notizia che la regina Anna si sarebbe unita al corteo. Il re riteneva che fosse un bene che sua moglie incinta si mostrasse al popolo, ora che la notizia della nascita dell’erede al trono aveva reso meno invisa ai francesi la sovrana spagnola. Sua maestà non aveva creduto neppure lontanamente al messaggio dell’anonimo benefattore, non gli era venuto neppure il dubbio che potesse essere vero. Per fortuna, aveva ugualmente lasciato che il capitano Treville gestisse la sicurezza del corteo come meglio credeva.
E così la ragazza si era precipitata a casa, aveva indossato i suoi abiti da battaglia e si era presentata alla guarnigione chiedendo istruzioni a suo zio come se fosse uno dei suoi soldati. Treville era sbiancato di colpo ma doveva essere giunto presto alla medesima conclusione a cui era giunto Athos: che gli piacesse o no, sua nipote stava solo facendo il suo dovere e non era possibile impedirlo.
«Prima o poi sarebbe successo» aveva detto con un filo di voce mentre Athos gli passava accanto per accompagnare Diane in armeria.
Doveva succedere, solo sarebbe stato meglio che non fosse stato così presto.
Porthos si affacciò alla porta, oscurando la luce con la sua ingombrante figura. «Siamo pronti?» chiese. «Ehi, sei il soldato più grazioso che abbia mai visto» aggiunse, rivolto a Diane.
«Non sono un soldato. Sono solo una donna a cui piace vestirsi in modo stravagante». Quel sorriso di volpe poteva molte cose, ma non poteva fermare i proiettili, come testimoniava la cicatrice a forma di V che le era rimasta tra le scapole; Athos l’aveva sfiorata con le dita, la sera prima e gli era parsa incandescente sotto i polpastrelli.
Raggiunsero il cortile. Un numero spropositato di cavalli nitriva nervoso accanto all’arcata del portone.
Aramis e d’Artagnan, già in sella, avevano preso posto accanto a Treville.
«È scoppiata la guerra e non se ne sa niente?» domandò Serge, che da sotto la tettoia osservava con un sopracciglio alzato quell’insolito dispiegamento di forze.
«No, ma potrebbe scoppiare se qualcosa va storto» rispose Athos.
Mancavano ancora settimane al ritorno di Maria Enrichetta in Inghilterra e fino a quando non fossero riusciti a fare chiarezza sulla minaccia del sicario non sarebbe stato neppure prudente farle affrontare il viaggio verso Londra.
«Voi due e tu» disse Treville con un gesto della mano che comprendeva Porthos, d’Artagnan e Diane. «Vi voglio al fianco della nostra regina tutto il dannatissimo tempo. Al minimo segnale di pericolo la riportate in carrozza e ve la filate, non voglio colpi di testa o inutili eroismi».
I moschettieri e la ragazza annuirono.   
Il folto drappello di soldati si mise in marcia e raggiunse presto i giardini del Louvre dove il re, sua sorella e la regina li attendevano per salire in carrozza.
«Avete lasciato la guarnigione senza neanche un moschettiere, Treville?» domandò il re. «Il ponte di Saint-Michel crollerà sotto un tale peso»
«È un rischio che sono disposto a correre, maestà»
«Rischio, se sento di nuovo quella parola oggi potrei irritarmi e… Diane! L’abbigliamento da cavallerizza vi dona, ma perché mai siete armata?»
«Oh, è solo una sorta di costume tradizionale romano, vostra maestà» rispose la ragazza, agitando la mano, senza neppure preoccuparsi di quanto suonasse improbabile quella menzogna.
«Vi dona» ripeté il re.
«Grazie, maestà».
Luigi montò in carrozza e il corteo si mosse, procedendo lentamente verso il cancello della reggia.  
I moschettieri sembravano uno stormo di uccelli ammassati attorno alla carrozza dei sovrani. Guardie con l’armatura scintillante si adoperarono a sgombrare le strade e allontanare la folla che si era riversata lungo il tragitto previsto per il corteo.
La Senna scorreva con riflessi di stagno e di argento sotto il ponte di Saint-Michelle, una delle tante vie che collegava l’Ile della Cité al suolo di Parigi.
La cattedrale era un gigante che spezzava l’orizzonte irregolare dei tetti delle case, svettando verso il cielo con i mille occhi delle sue statue e il rosone come una gigantesca bocca spalancata a urlare muta nel vuoto della piazza deserta.
All’ombra della grande chiesa, Athos avvertì nell’aria il sentore della pioggia, alzò lo sguardo sulle guglie che sembravano voler arpionare le nuvole. Il riverbero del sole gli ferì la vista mentre il coreo si fermava davanti allo scalone anteriore.
Treville smontò da cavallo e si affrettò a raggiungere lo sportello della carrozza per accodarsi ai sovrani che stavano scendendo.
Aramis strinse le redini tra le dita e guardò nervoso la regina Anna emergere a fatica dallo stretto sportello della carrozza. Diane era un’ombra color porpora al fianco della sovrana.
Enrichetta Maria si sollevò appena la gonna dell’abito e si diresse a grandi passi verso il portone centrale. Meglio così, sarebbe stata più al sicuro dentro la cattedrale che là fuori.
Tra la calca di cavalli e soldati, scese un silenzio perfetto come l’attimo di stasi innaturale che risucchia ogni rumore prima di un’esplosione.
Athos avvertì d’istinto una tensione che gli gelò il sangue un secondo prima che due spari rombassero a spezzare quell’immobilità.
Una pioggia di piccioni si staccò dalle mura della cattedrale e si disperse nel cielo di Parigi; il frullare ritmico delle loro ali sembrava fare da contrappunto al suono dei due colpi.
I cavalli nitrirono e troppe bocche urlarono all’unisono, per una manciata di secondi il cielo e il bianco del lastricato si confusero in un lampo di caos totale.
Dannazione!
«Dove diavolo è?!» urlò Athos.
Aramis alzò lo sguardo verso il parapetto di marmo della facciata della cattedrale, ma il riflesso del sole non permetteva di mettere a fuoco alcun particolare.
Gli spari avevano centrato con precisione mostruosa i cavalli della carrozza che si erano accasciati al suolo, trascinando con sé la vettura che si era ribaltata in terra, con i vetri dei finestrini che saltavano e andavano in frantumi.
Una mossa astuta. Ora non ci sarebbe stato modo di riportare i sovrani a palazzo tenendoli al sicuro dal fucile di qualche cecchino. L’unico modo di metterli al riparo era portarli dentro la chiesa.
Athos non ebbe tempo di chiedersi come mai un cecchino con una mira così precisa si fosse preso il disturbo di sparare ai cavalli invece di colpire direttamente il suo bersaglio umano.
Treville si era gettato sul re per fargli scudo, Porthos e d’Artagnan avevano fatto lo stesso con le due regine e Diane ora stava combattendo con l’enorme battente della cattedrale che nessuno dall’interno si era preoccupato di aprire.
Perché il cecchino - o i cecchini - aveva smesso di sparare?
«Non entrate in chiesa!» strillò Aramis di colpo, smontando con un balzo. Athos lo imitò con uno slancio automatico, senza nemmeno capire cosa stava succedendo e perché il suo compagno avesse urlato quella raccomandazione. Lo seguì mentre correva verso il capitano e lo vide afferrare Diane per un braccio e staccarla dal portone.
«È una trappola» disse Aramis con il fiato corto.
I moschettieri si erano stretti in una muraglia umana attorno ai sovrani, con le pistole in pugno si guardavano attorno aspettando un attacco che non arrivava.
«Che stai dicendo?» strillò d’Artagnan. «Non possiamo rimanere qua fuori».
«Capitano, avete fatto sgombrare la piazza, ma qualcuno ha controllato l’interno della cattedrale?» insistette Aramis.
In un attimo fu tutto chiaro. Ecco perché sparare ai cavalli e sabotare la carrozza: il sicario e i suoi complici volevano assicurarsi che i moschettieri portassero i sovrani nella chiesa.
Tutti rivolsero un’occhiata tesa al portone.
Restare là fuori era pericoloso. Entrare poteva esserlo ancora di più. Erano in trappola, una trappola meravigliosamente orchestrata. 
«Voi ora farete irruzione lì dentro e mi porterete la testa di chi ha fatto questo!» strillò il re, rannicchiato tra il muro e le spalle di Treville. L’angolo tra le semicolonne e il portone, con i moschettieri a fare da scudo sembrava il posto più sicuro del mondo per l’incolumità dei sovrani, ma era una situazione precaria che doveva essere risolta al più presto.
Il capitano annuì. Fece cenno ad Athos e ai suoi compagni e un’altra dozzina di moschettieri perché entrassero nella chiesa con lui.
«Mandate a chiamare un’altra carrozza. La voglio qui prima di subito» ordinò a un paio di guardie, poi si voltò verso Diane che ora era accanto alla regina Anna e le teneva la mano, parata tra lei e la piazza come se potesse far fronte a qualsiasi nemico. «Tu resta con sua maestà e… cerca di non farti sparare un’altra volta» concluse, prima di lanciarsi verso la porta della cattedrale che Porthos aveva aperto con un calcio.
«Questa chiesa è qui da quasi duecento anni, abbiate rispetto» pigolò il re senza che ci fosse nessuno a prendersi il disturbo di ascoltarlo.
Athos scambiò una rapida occhiata con Diane prima di lasciarsi inghiottire dalla penombra fumosa dell’immensa cattedrale e lesse la paura nei suoi occhi chiari, la stessa paura lucida che le aveva visto addosso la sera in cui erano andati al porto per sorprendere i trafficanti d’armi, la stessa di quando i criminali nascosti nell’ospedale l’avevano presa per ostaggio, quella con cui si era fatta avanti dinnanzi all’intera corte per accusare il conte Legrand.
Un gruppo di moschettieri con le pistole già cariche si fermarono sulla soglia per impedire la fuga a chiunque cercasse di uscire.
All’interno la cattedrale era uno scrigno di marmo e ombre, l’aroma pungente e dolciastro del sego delle candele, dei fiori e dell’incenso si mischiava a un altro odore che i moschettieri non riuscirono subito a distinguere, non fino a quando non videro la prima massa scura di un cadavere riverso sul marmo in una pozza di sangue che disegnava un ovale lucido sul bianco del pavimento.
Treville e i suoi uomini guardarono con orrore la fila di morti che andavano dalla metà della navata centrale all’altare, corpi scomposti riversi tra i banchi di legno. Avevano tentato di scappare, ma invano.
«Dio misericordioso…» soffiò Aramis.
Contarono sette morti, frati con le tuniche da domenicani e un giovane curato che non poteva avere più di vent’anni: il seguito dell’arcivescovo.
Nella luce che filtrava dalle vetrate colorate dell’abside si distingueva una scia di sangue che colava vischioso da sotto l’altare.
«Non ho voglia di giocare a indovinare, ma scommetto che quello è l’arcivescovo» mormorò d’Artagnan in tono lugubre.
Notre Dame si era trasformata in un’enorme tomba. Chissà quanti angeli della morte armati di pistole erano annidati ora tra le sue colonne.
I moschettieri procedevano spalla a spalla tra le panche, cercando di mantenere la visuale in ogni direzione, pronti a sparare al minimo segno di movimento.
«Qualcosa non torna» bisbigliò Athos. «Se il sicario è spagnolo come ha pensato il cardinale… be’, uno spagnolo non avrebbe mai fatto una tale strage di religiosi cattolici».
«Il biglietto diceva anche che ha degli alleati in Francia, possibile che siano protestanti?» osservò Porthos.
«Rimandiamo le congetture a quando avremo portato a casa salva la pelle» li richiamò il capitano. La canna della sua pistola scintillava nella poca luce delle candele.
Nessuno aveva voglia di morire lì dentro.
«Continua a non avere senso» si lasciò sfuggire Aramis.
Sì, non ne aveva. Se anche la trappola avesse funzionato, gli assassini non sarebbero comunque usciti vivi da quella chiesa: perché mettere in piedi un piano tanto ingegnoso e così maledettamente suicida?
I moschettieri continuarono ad avanzare nel silenzio e nel semibuio. Un grande cero ardeva accanto al pulpito scolpito, la fiamma era una bolla di luce dorata e immobile, come sospesa.
Non mi piace, pensò Athos.
E poi lo vide, un’ombra che galleggiò per un rapidissimo istante tra le colonne.
«Fermo!» tuonò e la sua voce rimbalzò come un colpo di cannone fino agli archi del soffitto.
L’ombra continuò a correre. I moschettieri fecero fuoco alla cieca nel buio, la navata centrale si riempì di fumo denso come nebbia, i proiettili sollevarono schizzi di marmo e schegge di legno. 
Nel rettangolo di luce del portone spalancato, l’ombra divenne la figura distinta di un uomo armato di un fucile e una pistola.
Alzò il fucile contro i moschettieri schierati sulla soglia che non lo avevano visto arrivare dal buio e sparò. Non colpì nessuno ma ottenne di spezzare la fila di soldati che sbarrava il passo verso l’uscita.
«Prendetelo vivo» urlò Treville mentre correva fuori, ribaltando un candelabro votivo. 
Il criminale si lanciò a perdifiato verso la piazza, senza rendersi conto che era già spacciato. I moschettieri che accerchiavano il re gli furono addosso e lo atterrarono, ma non furono abbastanza lesti da levargli l’altra arma ancora carica dalle mani.
Lo sconosciuto fece partire un colpo, forse fu solo un gesto disperato, forse fu un riflesso non voluto.
Treville e gli altri moschettieri uscirono di corsa e il passaggio dal buio alla luce li accecò per un istante.
L’uomo che aveva sparato ora era in terra, un soldato si stava occupando di legarlo e dagli strilli e dalle frasi sconnesse che gli uscivano di bocca era facile intuire che non fosse meno francese di tutti loro.
Athos strizzò gli occhi che bruciavano per il sole. Si voltò e vide dove il proiettile sparato dal fuggiasco aveva colpito.
Gli si gelò il sangue quando vide sia Diane che la regina Anna riverse in terra. 
 
 
 
[*] È un fatto storico assodato che Enrichetta Maria, come regina della protestante Inghilterra, ebbe dei problemi a causa della sua religione cattolica.
 
 
 

 

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Capitolo 6
*** Il piano del cardinale (parte prima) ***


V
Il piano del cardinale (parte prima)
 
«Cosa vi è venuto in mente, Diane?». Il re si alzò dal trono con tanta foga che quasi lo ribaltò.
La giovane non rispose ma sostenne l’occhiata furente del sovrano con aria mortificata - non per coraggio, solo perché si sentiva in dovere di far capire a Luigi quanto si sentisse in colpa.
Gli sguardi della corte assiepata nella sala delle udienze erano rostri di vetro. Diane aveva la sensazione che, se si fosse mossa, avrebbe finito per tagliarsi.
La ferita al braccio era poca cosa, una virgola color porpora dove il sangue aveva già smesso di scorrere, inzuppando la manica della giubba attorno a un foro di stoffa bruciacchiata. Ma sembrava uno spiraglio aperto dal quale entrava il dolore bruciante della sconfitta e dell’umiliazione.
Era successo che il criminale scappato dalla chiesa aveva sparato alla cieca, dal centro della piazza.
Era successo che Diane aveva visto la canna della pistola puntata esattamente nella sua direzione, e quindi verso la regina.
Era successo che di istinto si era voltata per proteggere Anna.
Era successo che entrambe erano cadute a terra, il proiettile aveva fischiato sopra il naso di Diane e si era conficcato nel muro alle sue spalle, sfiorandole appena il braccio.
Nella caduta, sua maestà si era fatta male, era svenuta e adesso i medici di corte temevano per la salute del bambino.
Il re, spaventato per sua moglie, furioso per l’attentato e preoccupato per sua sorella aveva decisamente bisogno di qualcuno da tormentare. Parlava come se Diane avesse fatto del male alla regina di proposito, come se quella caduta non fosse servita a salvarla da un proiettile vagante, come se la sorte del figlio che Anna portava in grembo dipendesse da lei e dalla sua scelleratezza. E a Diane tutte quelle recriminazioni apparivano vere, epitaffi da incidere sulla sua lapide.
«Credevo che il proiettile avrebbe colpito la regina, maestà» tentò di giustificarsi. Era la verità, ma le sembrava ben poca cosa dinnanzi alla gravità della situazione.
Cosa sarebbe successo se fosse rimasta immobile? Forse il colpo di pistola l’avrebbe centrata in pieno e lei sarebbe morta, ma con onore.
Un pensiero stupido, senz’altro, eppure le occhiate velenose dei presenti le fecero provare la sensazione di un cappio alla gola. Sarebbe stata una ben misera fine, quella su un patibolo.
«Siete forse un soldato da riuscire a prevedere la traiettoria di un proiettile?» esclamò il re al colmo dell’esasperazione.
«Vostra maestà». Il capitano Treville emerse dalla muraglia di sguardi ostili e si fermò accanto alla ragazza, un passo più avanti come a volersi parare tra lei e il sovrano. «Avevo detto a mia nipote di badare alla regina, mi assumo la completa responsabilità di quello che è successo»
«Ah, ma voi eravate nella cattedrale a fare il vostro dovere, capitano» sibilò Luigi. «Tuttavia, se con questo intendete che dovrò far saltare anche la vostra di testa, nel caso succeda qualcosa al bambino, non tentatemi: potrei accontentarvi».
Diane alzò il capo di scatto. Non sapeva cosa la terrorizzasse di più in quel momento, se l’idea che la regina perdesse il bambino, quella di finire condannata a morte o la prospettiva che suo zio finisse impiccato insieme a lei.
Qualcosa di freddo e invisibile le solleticò la nuca, facendole drizzare i capelli.
Il re si voltò senza aggiungere altro e lasciò la sala con passo pesante. Sembrava trascinarsi dietro una nube densa di pioggia.
Il cardinale si affrettò a seguirlo non prima di voltarsi a lanciare verso Diane uno sguardo che la ragazza non seppe come interpretare. La folla di cortigiani rimase ancora lì, senza decidersi ad abbandonare lo spettacolo della ragazza umiliata che finalmente potevano criticare a voce alta.
Diane pensò che non gliela avrebbe data vinta, che non meritavano di vederla ancora più turbata di quanto già non fosse, che poteva accettare la collera del re ma non il loro disprezzo. Si guardò attorno e le parve che quel cerchio di dame e signori si fondesse in un unico ghigno di sadica soddisfazione come un gigantesco affresco sulle pareti della stanza.
Inspirò e si voltò per lasciare la sala. Provò a mantenere un’andatura composta ma il suo passo nervoso accelerava man mano che si avvicinava alla porta laterale. Sulla soglia cominciò quasi a correre e travolse i quattro moschettieri come se non li vedesse.
Corse via, senza nemmeno sapere in quale dei mille corridoi si era andata a infilare. La sua fuga terminò quando inciampò con la punta dello stivale nell’orlo di un tappeto e urtò con le mani contro il davanzale di una finestra.
Non era pianto, quello che le stringeva il petto, era qualcosa di più pesante e fastidioso, più difficile da scacciare.
Restò a boccheggiare contro il vetro della finestra che si appannava per il suo respiro, fino a quando udì dei passi alle sue spalle. Si voltò appena per scorgere Treville dietro di sé.
Il capitano dei moschettieri tese un braccio e l’afferrò, stringendola con forza, con la convinzione di poterle offrire riparo dal cielo che la ragazza sentiva crollarle addosso.
Con la guancia premuta contro il suo petto, Diane sentì il peso sul cuore che si alleggeriva appena.
«Quello che è successo non è colpa tua, non devi pensarlo neppure per un attimo» le disse suo zio, perentorio. «Il re è sconvolto e arrabbiato con se stesso per aver sottovalutato la minaccia, ovviamente non lo ammetterebbe mai e ha bisogno di sfogarsi, è solo un caso che tu sia stata il bersaglio della sua frustrazione»
«Non è un caso. Se ci fosse stato un moschettiere al mio posto con la regina…»
«Un moschettiere non avrebbe fatto niente di diverso da quello che hai fatto tu». Treville continuò a stringerla. «Se non avessi avuto i riflessi pronti da spingere via la regina, quel proiettile ti avrebbe colpita, oppure ti sarebbe passato sopra o attraverso e avrebbe colpito sua maestà»
«Sì, ma… se sua maestà perdesse il bambino…»
il re mi odierà, lei mi odierà, Aramis mi odierà, tutti mi odieranno! E mi odierò anch’io…
«Non devi pensare una cosa del genere. La regina si è spaventata ed è svenuta, una donna nelle sue condizioni è fragile, ma lei è comunque molto più forte di quanto sembra» ribatté Treville, poi scostò la ragazza dal suo petto e la guardò negli occhi. «E ora smettila di agitarti e comportati come la nipote di cui sono orgoglioso. Dobbiamo andare a interrogare l’uomo che abbiamo arrestato oggi pomeriggio».
 
Quando Treville e Diane lasciarono il Louvre era già sera.
Alla guarnigione gli uomini si stavano riunendo per la cena e il cortile risuonava di chiacchiere e schiamazzi, dei nitriti dei cavalli stanchi che venivano sistemati nelle stalle.
La ragazza chiese a Serge un catino di acqua pulita e si chiuse nell’ufficio di suo zio mentre lui andava a dare disposizioni per la visita alla prigione dello Chatelet, dove era stato condotto quello sconosciuto acciuffato fuori Notre Dame.
Diane si sfilò la giubba e guardò la macchia di sangue orami rappreso sulla manica della camicia. Avrebbe avuto un bel da fare per pulire e rammendare quei vestiti.
Sfilò il braccio e lavò con cura la leggera ferita, di quella non sarebbe rimasta la cicatrice. Medicò lo sfregio con un fazzoletto pulito e mosse il braccio cercando di liberarlo dal senso di indolenzimento.
Quando la porta dell’ufficio si aprì, Diane non ebbe bisogno di voltarsi per indovinare chi fosse.
«Stai bene?» chiese Athos.
«Sì» mentì la ragazza. Lui finse di crederci e le si avvicinò, osservando con quella sua aria indecifrabile la medicazione che spuntava dal foro sulla manica.
Le accarezzò la schiena e Diane sentì la tensione che si allentava appena sotto quel tocco leggero.
Quanto avrebbe voluto essere di più per quell’uomo!
Seguì Athos fuori dall’ufficio, senza dire niente. Nel cortile, Porthos e d’Artagnan aspettavano insieme a Treville accanto ai cavalli già sellati e pronti.
«Dov’è Aramis?» domandò la ragazza.
«Ha detto che andava… uhm, a pregare» rispose Porthos con una scrollata di spalle.
Certo che è andato a pregare.
Diane sospirò impercettibilmente e tentò di soffocare la smorfia di malinconia che sentiva irrigidirle il viso.
Montò in sella senza aggiungere altro. Andare a cavallo le dava ancora una certa sensazione di vertigine e di instabilità, ma si era decisa ad affrontare la cosa molto tempo prima. Serrò le ginocchia contro i fianchi dell’animale e lo spronò al galoppo dietro ai moschettieri.
L’aria fresca della sera che le scompigliava i capelli sciolti sembrò afferrare un po’ di brutti pensieri e portarli via. Arrivarono ai cancelli della prigione prima che se ne accorgesse.
Il portone di ingresso dello Chatelet era un semicerchio di buio. Nel cortile di pietra brillavano poche fiaccole e un fuoco attorno al quale erano radunati alcuni degli uomini di guardia.
Dalle piccole finestre sbarrate da grate spesse come le braccia di un bambino arrivavano di tanto in tanto strilli e suoni poco piacevoli.
Non era mai stata in una prigione, ma lo scenario le ricordò in qualche modo il convento romano dove era cresciuta. Sentì la pelle d’oca salirle sotto la stoffa dei vestiti e scacciò quel ricordo con una scrollata della testa.
La stagione dei fantasmi era finita e lei non avrebbe permesso che tornassero a turbare i suoi sogni.
Dentro la prigione era un labirinto di corridoi polverosi, sul pavimento irregolare si rischiava di inciampare ad ogni passo. Si affiancò ad Athos ed ebbe la tentazione di aggrapparsi al suo braccio.
Il carceriere fece loro strada reggendo una fiaccola. La macchia di luce sembrava strisciare come uno spettro sulle pareti per poi perdersi dietro un altro angolo di corridoio privo di aperture o finestre. Li condusse fino a una squallida cella incastrata in un’arcata che sembrava una grotta.
Nella scarsa illuminazione, Diane scorse le sagome ingobbite di alcuni topi che zampettavano contro il muro.
L’uomo era seduto su un ammasso di stracci che doveva fungere da letto.
«Si chiama Balise Briac, o così ha detto» disse il carceriere, assicurando la fiaccola a un gancio arrugginito nella parete.
Treville si fece consegnare le chiavi e congedò il loro inquietante anfitrione.
Porthos fu il primo a entrare nella cella. Senza troppi preamboli, afferrò l’uomo per il bavero della sua giacca consunta e lo sollevò in piedi.
«E così, ecco il nostro sicario» esclamò mellifluo.
Blaise Briac, o qualunque era il suo nome, scoppiò in una risata acuta, gettando all’indietro il capo.
I moschettieri e la ragazza si scambiarono un’occhiata perplessa. Porthos non mutò di una virgola la sua espressione minacciosa.
«Vorrei esserlo. Vorrei esserlo» disse l’uomo, la voce resa stridula dall’isteria.
«Ti sei nascosto nella cattedrale, hai sparato contro il re e la sua famiglia» ricordò Athos, senza scomporsi.
«E hai quasi ucciso me e la regina» aggiunse Diane facendo un passo avanti. «Non sei proprio nella posizione di farci perdere la pazienza».
L’uomo si afflosciò nella presa di Porthos. «No…» disse. «Ma immagino che la mia testa sia già persa, che mi serve parlare con voi?»
«Se non vuoi parlare con noi, parlerai col cardinale, e il suo modo di dialogare non è sempre gentile» minacciò Treville.
L’intimidazione sembrò sortire il suo effetto. Tutti conoscevano i mezzi di persuasione di cui si serviva sua Eminenza, come degno rappresentante della Chiesa, e occorreva una grande dose di coraggio per resistere al solo pensiero di un trattamento simile. Blaise Briac di sicuro non ne possedeva abbastanza.
«Una domanda alla volta, d’accordo?» intervenne d’Artagnan, ostentando un’aria più amichevole. «Se non sei tu il sicario mandato a uccidere la sorella del re, che ci facevi armato in una chiesa piena di religiosi morti?».
Briac impastò la bocca e si umettò le labbra screpolate. «È a lui che state dando la caccia?»
«Mi sembra evidente» ringhiò Porthos, spazientito.
«Allora vi auguro buona fortuna: quell’uomo è il Diavolo»
«Quindi lo conosci?» incalzò Treville.
«Per così dire. Mi hanno messo al suo servizio, ha pagato un sacco di soldi. In fede mia, vorrei non averlo mai incontrato… l’ho visto uccidere i frati e l’arcivescovo, credetemi quando vi dico che quello lì non ha un’anima, il demonio dev’essersela mangiata anni fa»
«Chi è? Come si chiama?» domandò Athos.
«Non lo so, non mi ha detto il suo nome, non parla nemmeno troppo è straniero e non conosce bene il francese»
«Spagnolo?»
«Non lo so, non ne sono sicuro».
Diane cominciava a sentire il disagio serpeggiarle nello stomaco. Credevano di aver trovato l’uomo mandato a uccidere Enrichetta Maria, ma ora cominciavano a capire di essere lontani miglia e miglia dalla soluzione del problema.
«Hai detto che ti hanno messo al suo servizio. Da chi prendi ordini?» intervenne ancora d’Artagnan.
«Non è che è qualcuno» sbottò Briac, come se la domanda lo avesse irritato. «Se nasci povero a Parigi puoi fare o il soldato o il criminale. A fare il soldato non mi hanno preso».
Porthos allentò la presa e si scostò appena dal prigioniero. Era una verità scomoda quella, e doveva aver smosso i suoi, di fantasmi.
«D’accordo, d’accordo, se non è qualcuno allora cos’è?» insistette Treville, ostentando una calma che doveva averlo abbandonato da un pezzo.
«È come la corporazione degli artigiani».
Oh, Signore…
«Esiste la gilda dei criminali tagliagole, adesso?» sbottò d’Artagnan, allontanandosi con un gesto infastidito un ciuffo di capelli corvini dalla fronte.
L’aria in quella cella cominciava a farsi appiccicosa e torrida.
«Se uno ha bisogno di fare un po’ di soldi, c’è sempre qualcuno che ti trova un lavoretto, se sai a chi chiedere» spiegò Briac.
«D’accordo, e a chi dovremmo chiedere, per esempio?»
«Non capite, non è che c’è un indirizzo o un registro… ci si conosce, ma mica si sanno i nomi e quelle cose lì». Il prigioniero scrollò le spalle. «Prima che quel signore venisse arrestato, c’era un bel giro. Adesso c’è ancora, ma è meno in superficie»
«Quale signore?» chiese Diane nervosa, intuendo una verità che forse preferiva non ascoltare.
«Quello, il nobile, il conte. Com’è che si chiamava?»
«Legrand?»
«Eh, lui».
La ragazza inspirò lentamente. Si disse che doveva mantenere la calma, ma qualcosa le esplose nel cervello come un barile di polvere da sparo rotolato per sbaglio in mezzo a un falò.
Scattò prima che gli altri avessero anche solo il tempo di preoccuparsi. Afferrò Briac con un mano mentre con l’altra sguainava la spada. Spinse l’uomo contro il muro, la lama appoggiata contro la sua gola.
Da qualche parte dentro di sé sentì i fantasmi ridere al di là  della prigione in cui li aveva confinati. Vide le loro mani bianche e fetide allungarsi oltre le sbarre.
«Che stai dicendo?» esclamò. «Che la rete di Legrand è sopravvissuta alla sua morte? Che sta aiutando il sicario straniero mandato a uccidere la regina di Inghilterra?»
«Che importa da dove vengono i criminali, per voi siamo tutti topi di fogna, no?» la rimbeccò Briac, spaventato.
Diane sentì il furore formicolarle nel polso della mano destra che reggeva la spada. La lama sfiorò la gola del prigioniero, grattando appena contro la barba sfatta.
Due braccia la circondarono e la strapparono dall’uomo. La giovane si ritrovò a ribollire di rabbia nella stretta di Athos.
«Calmati, Diane, basta» disse lui, parlando piano ma in tono di comando al suo orecchio. «Legrand è morto, non può più fare male a nessuno».
Lei boccheggiò, serrando le dita attorno al polso dell’uomo.
Va’ a dirlo ai miei fantasmi…
Alzò lo sguardo furente su Briac che si accasciò strisciando con le spalle contro il muro.
«Lo sapevo che una donna che si veste da uomo dev’essere pazza» ansimò.
Diane si irrigidì, ma Athos non la lasciò andare. Alla fine la ragazza si arrese e riprese con calma a respirare regolarmente.
Il moschettiere allentò la presa con cautela.
«Dicci solo qual era il piano» concluse Treville con un sospiro che vibrava di stanchezza.
«Lui sarebbe salito sulla balconata per sparare ai cavalli. Io non dovevo fare niente, solo fare da palo nella chiesa. Lui sarebbe sceso mentre voi portavate dentro la regina di Inghilterra e l’avrebbe uccisa. Io non ci dovevo neppure finire in mezzo» dichiarò Briac.
D’Artagnan spalancò gli occhi. «E avresti lasciato morire la sorella del re?»
«Che ha mai fatto la regina di Inghilterra o qualsiasi regina per me? Voi siete moschettieri e vedete nella corona qualcosa di interessante, io non ci vedo niente, sono solo persone fin troppo fortunate».
Treville sospirò e guardò l’uomo con un misto di pena e disapprovazione, poi fece tutti loro cenno di uscire.
Briac si aggrappò alle sbarre quando richiusero la porta della cella, tese le braccia verso di loro e riuscì ad afferrare Porthos per la manica.
«Il cardinale» disse con la voce che gli vibrava di terrore. «Il cardinale verrà a parlarmi lo stesso, vero? Mi farà torturare…».
Porthos sospirò e batté la mano sul braccio teso dell’uomo. «Vedremo se possiamo fare qualcosa per impedirlo» assicurò.
Arrivati alla fine del corridoio, Diane aprì la porta con una forte spinta e balzò fuori, prendendo una grande boccata di aria.
Athos le si avvicinò. La ragazza non si voltò a guardarlo.
«Non farlo mai più» disse lui asciutto. «Perdere la calma in quel modo»
«Non gli avrei fatto del male, ero solo arrabbiata. Sono arrabbiata»
«Lo so che non gli avresti fatto del male, ma certi scatti possono costarti molto cari in situazioni meno sicure di quella di stasera».
Diane sospirò. «Ti prego, c’è già troppa gente che non si fida di me in questo momento, compresa me stessa» concluse triste, prima di avviarsi verso i cavalli.
Tornarono alla guarnigione senza dire una parola, ma i loro pensieri andavano tutti nella stessa direzione.
Il sicario era ancora a piede libero, poteva contare su una rete criminale troppo radicata e per giunta invisibile. Maria Enrichetta non era al sicuro e nemmeno il re e la regina, fino a quando lei fosse rimasta a Parigi. D’altro canto, non si poteva nemmeno rispedirla a Londra, perché durante il viaggio sarebbe stata ancora di più in vulnerabile.
«Vado a palazzo» disse Treville, fermandosi accanto all’ingresso della guarnigione. «Il cardinale deve essere informato di quest’altro disastro»
«Magari è la volta buona che gli viene un colpo come si deve» bisbigliò Porthos.
Diane smontò e pilotò il cavallo verso le stalle.
«Dove vai?» le chiese Athos, intercettandola mentre raggiungeva l’uscita.
«A vedere se riesco a combinare ancora qualcosa di buono» mormorò lei. «Non ti preoccupare, ho finito con i gesti sconsiderati, per oggi» aggiunse senza riuscire a nascondere una certa amarezza.
Per fortuna Athos era il genere di persona che sapeva quando smettere di insistere.
Mentre camminava per le strade ancora mezze deserte nelle prime ore della sera, la giovane sentì pesarle sulle spalle un senso opprimente di solitudine e sconfitta.
La piccola chiesa spuntava al lato di un piazzale spoglio come una pianta selvatica cresciuta per caso. Dentro la luce dorata delle candele era quasi accogliente.
Dei fiori di campo appassivano in vasi sbeccati sull’altare. Il grande crocifisso di legno appeso sopra al tabernacolo era tarlato, con la vernice scrostata sulle sporgenze.
I banchi erano vuoti, ad eccezione di un’unica persona inginocchiata tra le due panche centrali.
Diane intinse la punta delle dita nell’acquasantiera e fece il segno della croce. Si accostò ad Aramis e si chinò in silenzio accanto a lui. Vide il rosario di pietre incastonate brillare tra le sue mani giunte.
«Posso pregare con te?» gli chiese.
Lui sollevò appena il capo, per un attimo la ragazza pensò che le avrebbe detto di no, invece il moschettiere le sorrise.
«Non pensavo pregassi»
«Solo perché non mi hai mai visto farlo».
Pregava, sempre. La fede era un’attitudine e un bisogno che neppure gli anni bui del collegio erano riusciti a scalfire. Diane pensava che Dio fosse al di sopra della severità talvolta ipocrita dei religiosi che l’avevano educata, al di sopra dei riti, delle ostentazioni vuote della gente che si definiva devota e poi negava un gesto caritatevole a chi ne aveva bisogno.
Pregò anche quella sera, pregò per la regina Anna e per il suo bambino, pregò per suo zio, per Athos, per i suoi amici, che uscissero tutti sani e salvi da quella nuova minaccia, e pregò anche per se stessa.
Non seppe quanto tempo era passato quando Aramis le posò una mano sulla spalla.
«Sarà meglio tornare alla guarnigione» le mormorò. «Voglio sapere cosa ha detto il prigioniero che avete interrogato, e magari è il caso di andare a palazzo a… cercare notizie»
«Sulla regina, intendi?»
«In generale» si affrettò a precisare lui.
Diane sorrise. Si segnò un’ultima volta e si alzò.
Lei e Aramis sfilarono in silenzio fuori dal banco, il moschettiere depositò un paio di monete nel piattino delle offerte e accese una candela sotto a una piccola statua della Vergine che teneva in braccio un paffuto Bambin Gesù.
La porta della chiesa si aprì e videro d’Artagnan strisciare dentro.
«Ho delle notizie» disse il guascone. «Una buona e un paio meno buone, quali volete per prima?»
«Quella che preferisci» rispose Aramis.
«Be’, quella buona è che la regina si è risvegliata e pare che non abbia subito danni».
Aramis baciò la croce del suo rosario, trattenendo un sospiro di sollievo.
«Quella cattiva è che Briac si è impiccato nella sua cella e che il cardinale vuole vederci, tutti quanti»
«Con tutti quanti intendi anche me?» chiese Diane. D’Artagnan annuì.
«Santo cielo, mi sembra di essere diventato uno sgherro del cardinale» sbuffò Aramis.
Il giovane guascone uscì dalla chiesa, facendo cenno ai due amici di far presto.
Diane si voltò verso Aramis e lo abbracciò con slancio, stringendolo forte.
«E stavolta per che cos’era?» chiese lui, ricambiando la stretta.
«Perché sono contenta che la regina e suo figlio stiano bene» rispose lei, premendo una guancia contro il cuoio rigido dello spallaccio, prima di staccarsi.
Aramis l’afferrò delicatamente per il braccio quando era già quasi sull’uscio.
«Diane» sussurrò titubante. Aveva capito. «Te lo ha detto Athos?».
La ragazza sorrise quasi con tristezza. «Non lo farebbe mai. L’ho scoperto da sola, a Bourbon-les-eaux».
Il moschettiere fece una faccia stupita. «Lo hai sempre saputo…»
«Sì. Andiamo, adesso».
 
***
 
«Ho un piano» annunciò il cardinale, appena Treville e i suoi uomini - e sua nipote - varcarono la soglia di quel suo immenso ufficio. Era stato informato della loro visita alla prigione e doveva aver passato la sera a cercare una soluzione al problema.
«Sono molto contento di sentirvelo dire» disse il capitano con un tono smorto che contraddiceva le sue parole.
«Rassegnatevi, Treville, tra me e voi sono io la mente»
«Il vostro buon umore illumina questa sera sciagurata, Eminenza».
Richelieu camminò su e giù per la stanza, come se stesse ripercorrendo nella sua testa i passaggi che lo avevano portato a elaborare quel piano che si preannunciava geniale, a giudicare dal suo sguardo compiaciuto.
Athos pensò che a breve uno qualsiasi di loro si sarebbe messo a urlare.
«Farò spostare la regina di Inghilterra in un posto segreto, noto solo a me. Ovviamente, il tutto nel più assoluto riserbo» disse il cardinale dopo lunghi minuti di silenzio.
«E terrete la regina di Inghilterra sepolta viva per sempre?» chiese Porthos, scettico.
«Non sappiamo quando e se troveremo il sicario» osservò Athos.
«È qui che entrate in scena voi» replicò il ministro con voce melliflua.
«Illuminateci» lo esortò Treville.
«Faremo circolare la voce che Enrichetta Maria verrà spostata, per la sua sicurezza, al castello di Blois. La mia speranza è che il sicario la venga a cercare lì, dove troverà invece voi ad aspettarlo».
Richelieu guardò tutti loro con aria speranzosa. Sembrava quasi che si aspettasse di ricevere un applauso.
Naturalmente il suo piano lo metteva alla prova da ogni rischio: se avessero preso il sicario, avrebbe rivendicato la paternità dell’idea, in caso contrario sarebbe stato un fallimento da imputare unicamente ai moschettieri di Treville.
Ma, al di là, della subdola accortezza, Richelieu non poteva non essersi reso conto che il suo piano difettava in efficacia.
«È una sciocchezza» sbuffò d’Artagnan forse persino troppo compiaciuto di poter dare torto a sua Eminenza.
«Se il sicario ci raggiungesse lungo la strada, si renderebbe subito conto che Enrichetta Maria non è con noi e tornerebbe subito indietro senza che noi riuscissimo a intercettarlo» osservò Aramis.
«Ah, pensavo ci sareste arrivati da soli» borbottò il cardinale con aria di sufficienza. «Naturalmente, ci sarà qualcuno che prenderà il posto della regina per inscenare il trasferimento a Blois come si conviene».
I suoi occhi da rapace rivolsero a Diane uno sguardo eloquente.
Il volto di Treville si trasformò in una maschera di sdegno. «Assolutamente…»
«… no!» sbottò Athos.
«Ci sto!»  esclamò Diane, che fino a quel momento era rimasta in silenzio in mezzo ai moschettieri.
E così il piano di Richelieu non prevedeva solo la possibilità di assicurarsi il successo, ma anche l’occasione di mettere a repentaglio la vita di una fedelissima della regina che, se non fosse tornata indietro viva, sarebbe stata considerata semplicemente una perdita necessaria al raggiungimento dello scopo. E Richelieu aveva intuito la posizione che la giovane occupava al seguito di Anna d’Austria, se il sicario l’avesse uccisa al posto di Enrichetta Maria lui non ne avrebbe tratto che vantaggio: come madre del futuro re di Francia, sua maestà avrebbe acquisito ancora più prestigio e ancora più influenza su Luigi, privarla di un’alleata era un modo come un altro per ridimensionare il potere che stava guadagnando.
Di tutto questa montagna di calcoli machiavellici, la ragazza non aveva scorto neppure la cima. Con il suo piano il cardinale le aveva offerto esattamente quello che lei chiedeva: l’occasione di scendere in campo e fare l’eroe, giocando sul senso di colpa e la voglia di riscatto che provava per quello che era successo a Notre Dame.
Era così ovvio e lei glielo stava rendendo così facile…
«Ci sto» ripeté Diane.  
«Ci sta» trillò il cardinale.
«È fuori discussione che io acconsenta a usare mia nipote come esca per un assassino». Treville si avvicinò a Richelieu e per un attimo i moschettieri furono sicuri che lo avrebbe colpito.
«Infatti non stai acconsentendo tu, lo sto facendo io» disse Diane.
Athos la guardò, furioso. Avrebbe voluto afferrarla e trascinarla via da lì e urlarle quanto era ingenua e cocciuta e… coraggiosa. E a che serviva amarla tanto se non poteva proteggerla, a che serviva farlo sentire così amato se lei non si lasciava proteggere?!
«Sono sicuro che si possa trovare un’altra soluzione» intervenne Aramis. Athos sentì la voce del compagno echeggiare da lontano, da dietro la coltre di collera e agitazione che gli velava i pensieri.
«Ci sono molte possibili soluzioni» ammise Richelieu con finta accondiscendenza. «Purtroppo nessuna di queste è attuabile in tempi brevi e non possiamo rischiare di rimandare il ritorno di Enrichetta Maria in Inghilterra. La voce dell’attentato a Notre Dame avrà già raggiunto Londra. Voi preoccupatevi pure dell’onore e della cavalleria, io devo salvare la faccia alla Francia di fronte all’intera Europa».
«Il re? Il re sa del vostro piano? Ha accettato?» domandò d’Artagnan confuso, come gli altri, dal rendersi conto che il cardinale, per quanto sleale, aveva ragione.
«Per quanto reticente, sua maestà non commette due volte di seguito l’errore di non starmi a sentire».
Treville alzò le braccia in un moto di protesta, poi le lasciò cadere lungo i fianchi.
«Allora è deciso? Fatevi tutti una buona dormita, due notti insonni di seguito non sono salutari. Domattina disporrò tutto per la partenza per Blois» concluse Richelieu.
Il capitano mosse ancora un passo verso di lui e stavolta quasi lo travolse. «Esigo comunque che mi diciate dove intendete nascondere Enrichetta Maria» ringhiò.
«Se i vostri uomini vogliono farci la cortesia di lasciarci soli».
Treville strinse le labbra e fece ai moschettieri un cenno perché lasciassero l’ufficio.
Athos si voltò e si affrettò a imboccare la porta. Non voleva rimanere lì dentro un minuto di più, non voleva ascoltare neanche una sola parola, non voleva avere Diane davanti agli occhi.

 
 
 
 
Alla vostra destra potete ammirare l’autrice che tenta di scrivere cose plausibili *ciao*
Blois si trova a poco meno di 200 km da Parigi. Storicamente, tra gli anni ’20 e gli anni ’60 del Seicento, il castello fu la residenza del fratello di Luigi XIII, nella mia storia l’ho pensato semplicemente come una sorta di “casa di villeggiatura” reale.
Non sono esperta ma ho letto che 200 chilometri è all’incirca la distanza che può percorrere un cavallo in un giorno (chiedo scusa se l’informazione non dovesse essere corretta, ma ci ho provato).
 
Ah, il sicario: non vedo l’ora che lo conosciate, ho grandi, grandissimi progetti per lui! *v*
 
Giacché ho infranto la mia regola di non ammorbare la gente con le note a fine capitolo, approfitto per ringraziare tutti voi che state leggendo :)
A sabato prossimo
C.

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Capitolo 7
*** Il piano del cardinale (parte seconda) ***


VI
Il piano del cardinale (parte seconda)
 
«Come sarebbe a dire esca per il sicario?» strillò Constance. Come avesse fatto madame Bonacieux a sgusciare via di casa a quell’ora tarda rimaneva un mistero, ma la notizia dell’attentato a Notre Dame aveva raggiunto ogni angolo della città e lei aveva pensato bene che fosse il caso di passare alla guarnigione per accertarsi che i moschettieri - uno in particolare - stessero bene.  
«Sssh! Dovrebbe essere un piano segreto» bisbigliò Porthos, alzando le mani a fare da argine alla furia sbigottita della donna.
«E voi avete lasciato che accettasse?» insistette la moglie del merciaio, tirando un buffo manesco alla spalla di d’Artagnan.
Il ragazzo sollevò lo sguardo e la fissò interdetto, come a chiedersi perché sembrava che se la stesse prendendo solo con lui.
«Non è che noi la lasciamo fare cose, lei fa e basta» puntualizzò Porthos.
«Ehi, io sono qui e vi sento, eh» bofonchiò Diane, salutando con la mano dal fondo del tavolo in mezzo al cortile.
«E tu non dovresti restare con la regina?» le disse Constance. Si portò le mani ai fianchi e per un attimo parve una cariatide.
La ragazza incassò la testa nelle spalle. Non aveva il coraggio di presentarsi da sua maestà, dopo quello che era successo: tentare di acciuffare un pericoloso sicario le sembrava assai meno spaventoso. Una parte di lei, quella più sciocca e irrazionale, pensava che aiutare i moschettieri a prendere l’assassino le avrebbe dato di nuovo il diritto di chiedere ai sovrani - alla regina soprattutto - di fidarsi di lei. Un’altra parte pensava semplicemente che fosse una cosa che andava fatta e che suo zio le facesse il piacere di farsi passare le paturnie!
E dove diavolo si era cacciato Athos, accidenti anche a lui!
«La regina non ha bisogno che le tenga la mano» borbottò Diane.
«Sei preoccupata che possa essere arrabbiata con te?» chiese Constance con dolcezza.
«Diciamo che non mi stupirei se fosse così»
«Ecco, lo vedi?» sbottò d’Artagnan. «Fa così da ore. E toglile quella bottiglia di vino da mano, già che ci sei»
«Non è mica mia madr-»
«Dammi quella bottiglia, Diane». Constance pestò il piede contro il suolo polveroso del cortile e le lanciò uno sguardo che avrebbe sciolto il marmo.
Diane appoggiò la bottiglia sul tavolo con un gesto repentino, rischiando di rovesciarla. La donna l’afferrò e l’allontanò da lei, ma forse era troppo tardi, c’era già una sottile nebbia a fasciarle la testa, una foschia calda che smussava i contorni dei pensieri.
«Continuerete tutti a tenermi il muso fino a quando non vi cadranno i denti?» sbuffò. Appoggiò la testa sulle braccia incrociate sul tavolo. Capiva perché si fossero tutti agitati, o almeno fino a qualche minuto prima le sembrava di aver capito: il cardinale non faceva mai niente per niente, e nell’architettare quel piano doveva sicuramente aver tenuto conto di molte più cose di quante ce ne fossero in superficie, ma non era importante. E non si trattava solo del fatto che Diane volesse riscattare il suo onore, era proprio così che doveva essere, era questo che facevano i moschettieri, mettevano la sicurezza del re e del paese davanti a tutto. Scovare il sicario che voleva uccidere la regina di Inghilterra non era una questione di onore o di gloria, era una questione di dovere e il dovere richiede sacrificio.
«Mettere a repentaglio la vita di una ragazza per il bene di tutto il paese è quello che siete tenuti a fare, non è né una mia scelta né la vostra» dichiarò.
Lo sguardo di Porthos si incupì. «Ora parli come Richelieu, e non ti si addice».
«Mettiti nei nostri panni» la esortò d’Artagnan. «Se tu fossi al posto nostro, sceglieresti davvero di mettere a repentaglio la vita di chicchessia per il bene della Francia?»
«È una domanda a trabocchetto?»
«Quanto hai bevuto?»
«Non sto mettendo a repentaglio la mia vita» insistette Diane, alzando la testa di scatto. «Ho voi a proteggermi e a fare tutte quelle cose da moschettieri in cui siete tanto bravi»
«Non conosciamo quell’assassino, non sappiamo di cosa è capace». Porthos puntò il dito sul tavolo, come a inchiodare nel legno il concetto con tutta la sua gravità.
«Va bene, se muoio non ve ne farò una colpa…»
«Diane!» strillò Constance.
La ragazza sospirò e affondò di nuovo la testa nelle braccia. In quello stesso momento, Aramis riemerse dal cono d’ombra dell’arco del portone, camminando a passo svelto.
Diane si morse le labbra nascoste nell’incavo dei gomiti. Qualcosa che assomigliava all’orgoglio le suggeriva che era meglio evitare la domanda, ma il vino che aveva ingurgitato era evidentemente di tutt’altro avviso.
«Dov’è Athos? Lo hai trovato?»
«No, mi dispiace» rispose Aramis.
«È scomparso Athos?» si intromise Constance, sempre più sconvolta.
«Non è scomparso, si sta nascondendo per fare l’offeso e farmela pesare»
«Più che offeso a me sembrava arrabbiato come un cane con la rabbia. Come un branco di cani con la rabbia, anzi» precisò Porthos.
«Non è il caso di puntualizzare» fece Aramis agitando la mano a mezz’aria e rivolgendo a Diane un’occhiata di apprensione.
«Non c’è motivo di preoccuparsi» intervenne d’Artagnan. «Sarà da qualche parte a… ehm, fare qualcosa»
«Qualcosa che ha a che fare con una dozzina di bottiglie di vino?» aggiunse ancora Porthos.
«Porthos, per piacere» mugugnò Aramis.
Diane si alzò di colpo. D’Artagnan, che era il più vicino, tese le braccia verso di lei quando la vide oscillare poco salda sulle gambe. La ragazza afferrò la mano del guascone per non cadere, inspirò e recuperò l’uso delle ginocchia.
«Sto bene» pigolò. «Sto bene». A dimostrazione di ciò scavalcò la panca con una mossa agile e finse che il momento in cui rischiò di andare a sbattere contro il palo di legno dietro al tavolo fosse stata una specie di piroetta voluta.
Aramis fece un enfatico cenno di assenso. «Stai bene, sì» disse. «E dove hai intenzione di andare?»
«Da Athos, che domande»
«Ma se non sappiamo dov’è» protestò d’Artagnan.
Diane incrociò le braccia sul petto e li guardò tutti con aria saputa. «Se Aramis non l’ha trovato in giro, vuol dire che è nell’unico posto dove sapeva che non lo avreste cercato: a casa sua - se casa si può chiamare».
I moschettieri e Constance guardarono la ragazza stupidi per quell’intuizione insperata.
«Che c’è? Sono solo un po’ brilla, non ho mica perso la memoria»
«Sei proprio sicura che sia una buona idea andare da lui in queste condizioni?» chiese Constance con un sorriso tirato.
«Sì. Mi irrita, d’accordo? Devo dirglielo, quanto mi irrita» replicò la ragazza. «E poi, non credo sia messo meglio di me».
Diane si voltò, intenzionata a non ascoltare altro.
«Dovremmo seguirla?» fece Porthos, quando lei aveva ormai imboccato l’arco del portone.
«Più che altro, temo che potrebbero uccidersi a vicenda» bisbigliò d’Artagnan.
«Avete fatto caso a quanto è migliorata Diane con le armi?» gli fece eco Aramis, annuendo preoccupato.
I tre moschettieri si scambiarono un’occhiata incredula e rimasero così a fissarsi in un silenzio attonito e impensierito, fino a quando Constance non batté le mani sul tavolo con furia.
«SIETE ANCORA QUI VOI TRE?».
 
***
 
Era appena riuscito a prendere sonno, o meglio era semisvenuto per la stanchezza.
Essere arrabbiati con il mondo intero richiede un grande dispendio di energie. Essere arrabbiati con il mondo intero con una notte quasi insonne sulle spalle e una giornata assurda a seguire era una specie di tentativo di suicidio.
Non stava esattamente dormendo, si era più che altro spento come una candela consumata e ora era lì, come un mozzicone di cera contorto nel foro di un doppiere.
Dei colpi secchi alla porta martellarono nelle sue orecchie, scalfendo la crosta di quel dormiveglia opprimente.
Athos spalancò gli occhi, fissando il buio polveroso. Li richiuse e pensò che l’universo poteva fare a meno di lui per una sera.
«Va’ via, Aramis» intimò.
I colpi continuarono.
«A meno che non stia andando a fuoco la guarnigione… e anche in quel caso non posso farci granché».
I colpi si fecero più forti e insistenti.
«Aramis!»
«Non sono Aramis, stupido».
Athos si mosse di lato, posò prima un piede in terra e poi una mano e in un attimo si ritrovò a carponi sul pavimento, strizzando gli occhi per mandare via la confusione.
Non era così certo di aver voglia di aprire. Si rimise in piedi e ponderò di buttarsi di nuovo sul materasso, che tanto prima o poi lei si sarebbe stancata.
O no. Considerando la caparbietà del soggetto, avrebbe potuto andare avanti anche tutta la notte.
E poi lo stupido sarei io?
Infine una parte di sé, quella coscienziosa e responsabile, realizzò che si trattava di una ragazza, da sola, fuori a una casa di uno dei quartieri meno belli di Parigi, a tarda sera.
«Che ci fai qui a quest’ora?» tuonò, aprendo la porta. «Ma… sono d’Artagnan e gli altri quelli laggiù?».
Le tre figure fecero capolino da dietro l’angolo della via, poi si ritrassero.
Diane si voltò per guardare nella direzione che le aveva indicato Athos, ma loro erano già spariti.
«Che ci fai qui a quest’ora?»
«Lo hai già detto» 
«Non mi hai risposto»
«Mi fai entrare, sì o no?».
La ragazza sorpassò la soglia, quasi travolgendo il suo reticente ospite che rimase un istante a fissare davanti a sé con aria rassegnata.
«Non dovresti essere qui a quest’ora» aggiunse Athos. E avrebbe continuato su quella linea per tutta la sera, perché quello era il suo ruolo, ciò che gli riusciva meglio, anche se sperava solo che lei se ne andasse e lo lasciasse dormire.
Oppure no.
Era arrabbiato, stanco, preoccupato e l’origine della sua rabbia, della sua stanchezza e della sua preoccupazione era quella ragazza vestita da soldatessa e con tutta la rabbia, la stanchezza e la preoccupazione del mondo non riusciva a trovare una maledizione da lanciarle.
Una cosa che aveva imparato sull’amore, sul suo almeno, era che lo rendeva debole e malleabile. Non se ne vergognava, ma a volte avrebbe voluto che non fosse così. 
Sospirò e non poté fare altro che tastare nel buio il piano del comodino sgangherato per cercare un’acciarino e quel che restava di una candela.
La fiammella tremula sembrava un sole di mezzogiorno in contrasto con il buio pesto della camera.
Diane se ne stava in mezzo alla stanza con le braccia incrociate sul petto e un grugno da oste.
«Sei ubriaca?» domandò Athos.
«Perché, tu no?»
«Ovviamente no. È un lusso che pensavo di non potermi concedere, visto che domani dobbiamo partire per Blois e ci sarà bisogno di tutta l’attenzione possibile. Qualcuno deve pur stare attento a qualcosa, no?»
«Oh, ti prego risparmiami le paternali»
«Sei tu quella che è venuta qui. Cosa ti aspetti che faccia? Che applauda?».
La ragazza sbuffò sonoramente. Diede le spalle al moschettiere per infilarsi con la testa nel secchio accanto al davanzale. Ne emerse una cascata di capelli aggrovigliati e gocciolanti.
«L’unica cosa che mi aspettavo era un po’ di appoggio» ammise.
«Appoggio per le tue tendenze suicide?»
«Non cominciare…»
«Il cardinale non ti ha trascinata in questa cosa perché ti ammira e spera che tu abbia successo, a lui farebbe molto piacere se restassi uccisa, insieme a noi, magari. Ma naturalmente tu hai pensato che fosse un’ottima idea assecondarlo, senza neanche rifletterci, senza neanche parlarne prima con tuo zio o con me»
«È questo il problema? Che non ti ho chiesto il permesso?» sbottò lei irritata. «So che se restassimo uccisi, il cardinale indirebbe un giubileo speciale, non sono stupida»
«Be’, a volte ti comporti come se lo fossi» 
«Tu neanche scherzi, però»
«No, io non scherzo mai».
E adesso cos’era quel verso grufolante? Stava forse ridendo, quella maledetta testa vuota di una ragazza?
«So che non ti piace tutta questa storia, ma è il solo modo di farlo» aggiunse Diane, ritrovando un tono più conciliante. «Non potete partire senza una donna che finga di essere la regina di Inghilterra, il piano non funzionerebbe. E, con tutti i miei limiti, penso di essere più adatta di una qualsiasi altra donna che in caso di pericolo non saprebbe come usare un’arma».
Athos scosse il capo e soffiò dalle narici un verso di disappunto.
«Oppure potreste far vestire da donna qualche recluta della guarnigione, ma è troppo crudele persino per te» concluse la giovane, avvicinandosi a lui e posandogli una mano sul braccio, abbattendo con quel singolo gesto le montagne che si erano innalzate tra loro quella sera.
Athos l’abbracciò, posò il capo sulla sua spalla, tra i capelli ancora bagnati. Realizzò quanto in una manciata di settimane quella ragazza lo avesse rivoluzionato, non aveva mai avuto niente che gli appartenesse come lei, neppure i suoi rimpianti.
Sì, c’era stato un altro amore, enorme e bellissimo finché era durato, ma poggiava su letto di menzogne e illusioni. Con lei voleva a tutti i costi che fosse diverso.
«Andrà tutto bene» mormorò il moschettiere.
«Sì, era quello che stavo cercando di dire» replicò la ragazza.
«Parlavo da solo»
«Sicuro di non essere ubriaco?».
Athos si andò a sedere sul bordo del letto, le braccia a penzoloni con i gomiti appoggiati alle cosce. Fece cenno a Diane di sedersi accanto a lui.
«Se ti trovassi davanti al sicario, cosa faresti?» le domandò.
«Spererei che si arrenda, per il suo bene».
Athos inclinò la testa per guardare con aria di rimprovero la sua interlocutrice.
«D’accordo. Spererei che voi siate nei paraggi per aiutarmi ad arrestarlo» si corresse lei. «Cioè, lo arrestereste voi, non io, siete voi i moschettieri».
«Non hai mai pensato che in una missione del genere, adesso o in futuro, ti potrebbe toccare di uccidere qualcuno?»
«Questo… questo cosa c’entra?»
«Ci sono persone che possono convivere con l’idea, ma non penso che tu sia una di queste».
Diane fece una smorfia. «Continuo a non capire perché tu me lo stia dicendo»
«Non posso perderti, Diane, non lo sopporterei. E soprattutto non posso permettere che tu perda te stessa».
Lei sorrise. Athos vide brillare quel sorriso nella luce fioca della candela che si stava consumando. La giovane gli prese il viso tra le mani.
«Andrà tutto bene» gli mormorò sulle labbra. «Lo hai detto tu».
Nel buio, il calore di Diane accanto a lui era piacevole. Athos le accarezzò la schiena e immaginò per un istante che il mondo potesse fermarsi quella notte.
«Dovremmo dormire» disse, dopo qualche minuto.
«Vuoi che me ne vada?»
«No».
 
***
 
I giardini del Louvre scintillavano di brina nella luce morbida dell’alba.
Diane uscì all’aperto da una porta secondaria e raggiunse i moschettieri che l’aspettavano accanto alla carrozza che il cardinale aveva fatto preparare per il viaggio verso Blois.
Aprì le braccia e fece una mezza piroetta, facendo ruotare la gonna dell’abito viola e giallo, proveniente direttamente dal guardaroba della regina di Inghilterra.
«Una cosa sobria» commentò Porthos spingendo in fuori le labbra.
«Tutti gli altri abiti di sua altezza mi stavano stretti» sospirò lei.
«Be’, sua altezza è molto magra e flessuosa, tu sei…»
«Questa adesso la voglio sentire» commentò Aramis a denti stretti mentre Diane inceneriva il suo amico con lo sguardo.
«Cioè… non sono mica belle, le donne troppo magre» biascicò Porthos.
Lo sguardo della ragazza si fece ancora più truce. D’Artagnan soffocò una risata con un verso simile a quello di un piccione.
«Dille qualcosa di carino, Athos!» risolse Porthos, lanciando una gomitata al compagno.
«Diane, siete incantevole» si intromise una voce alle spalle dei moschettieri. Il cardinale attraversò il giardino, seguito di Treville.
«Oh, è gradevole che qualcuno lo noti, Eminenza» borbottò la ragazza, continuando a guardare i moschettieri enfatizzando un’espressione piccata.
L’abito le stringeva sul torace e la ragazza non vedeva l’ora di poterselo strappare di dosso. 
«Dunque, le ultime istruzioni» esordì Richelieu, congiungendo le mani. «La servitù del castello è stata informata dell’arrivo di Enrichetta Maria, nessuno di loro l’ha mai vista o la vede da quando era bambina quindi non avrete problemi a spacciarvi per lei, ho persino il sospetto che possiate trovarlo divertente»
«Dipende da cosa dovrò indossare» rispose Diane, guadagnandosi una delle peggiori occhiatacce di suo zio.
«Ho fatto spargere la voce del trasferimento di sua altezza a Blois, fingendo che si tratti di una cosa segreta, così da giustificare una scorta di soli quattro moschettieri. Intanto, Enrichetta Maria verrà fin da oggi trasferita in posto più sicuro. Se vi riuscisse di prendere il sicario, vi sarei molto grato se me lo consegnaste vivo». Il cardinale terminò la sua spiegazione e incrociò lo braccia sul petto.
I moschettieri smisero immediatamente di prestargli attenzione e si voltarono verso Treville.
Il capitano alzò l’indice con fare ammonitore. «Niente soste lungo il tragitto» si raccomandò. «Non fatela uscire dalla carrozza. Siate prudenti e portatemi quell’assassino»
«Sì, signore» dissero in coro i moschettieri.
Treville prese un profondo respiro e continuò a fissarli senza riuscire a convincersi a lasciarli partire. Poi si accostò alla carrozza e aprì lo sportello, e sembrava che ad ogni passo dovesse smuovere un macigno.
Diane gli gettò le braccia al collo, prima di salire.
«Andrà tutto bene» gli mormorò all’orecchio.
Lui non rispose. Le cinse le spalle, mandando al diavolo la regola implicita di evitare manifestazioni d’affetto in pubblico, soprattutto davanti ai suoi uomini - per non parlare degli occhi rapaci del cardinale.
Diane sparì oltre lo stretto sportello della vettura e il mondo condensò nel quadrato di luce del finestrino, e così sarebbe rimasto per tutta la giornata di viaggio che avrebbero impiegato per arrivare a Blois.
Nella cornice del quadrato, la ragazza vide suo zio afferrare Athos per un braccio, prima che il moschettiere salisse a cavallo, e mormorargli all’orecchio un’ultima raccomandazione.
Aramis salì in cassetta, appoggiando un moschetto di traverso sulle ginocchia e qualche istante dopo la carrozza si mise in moto.
Porthos e Athos si allinearono alle fiancate laterali della vettura, d’Artagnan seguiva in coda.
Diane si sporse dal finestrino per lanciare un ultimo sguardo a suo zio e poi sollevò gli occhi sulle finestre delle stanze della regina. Quando sentì il rumore metallico dei cancelli che si  aprivano e chiudevano al loro passaggio, tirò fuori un libro dalla sacca da viaggio che aveva gettato sul sedile di fronte a sé e sperò di riuscire ad arrivare a destinazione senza incidenti.
 

 
 
Al solito la real life sconvolge i miei piani. Sto lavorando anche di sabato e la domenica sono troppo stanca/incasinata, per questo chiedo scusa del ritardo e se per un po’ non riuscirò ad essere regolare negli aggiornamenti. Ma non temete, non ho nessunissima intenzione di lasciare questa storia incompiuta.
Spero di riuscire ad aggiornare entro una settimana.

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Capitolo 8
*** Il castello di Blois ***


VII
Il castello di Blois
 
Una fila di contadini tornava dai campi, vanghe e rastrelli gettati di traverso sulle spalle. Visti da lontano sembravano un gigantesco bruco che strisciava lentamente al margine del sentiero che portava al villaggio di Blois.
Il piccolo corteo di moschettieri sollevò polvere e ciuffi d’erba. I contadini li seguirono con lo sguardo fino a quando non sparirono tra gli alberi, più avanti.
Il cielo violetto ingoiava gli ultimi raggi di sole, quando giunsero in vista del castello.
Il gioco di luci e ombre sulla facciata spezzava le linee diritte della costruzione gotica, il palazzo sembrava annegare nella sera.
Athos vide Diane sporgersi dal finestrino per guardare l’edificio, il vento le soffiava i capelli sulla faccia. Il moschettiere si chiese se un’intera giornata chiusa dentro una carrozza non l’avesse resa ancora più pazza: a guardarla sembrava una molla pronta a scattare.
Mentre attraversavano il piazzale di lastricato dinnanzi al castello, Aramis voltò il cavallo e rimase a scrutare l’orizzonte che si perdeva nelle prime ombre della sera, il sentiero che si erano lasciati alle spalle sembrava deserto e il villaggio era un grumo di luci oltre una fila di alberi.
«Ho controllato, più volte» disse d’Artagnan. «Non siamo stati seguiti».
La carrozza si fermò e un maggiordomo in livrea uscì di corsa dalla porta principale. Incespicò sullo scalone di marmo, mentre con una mano tentava di sistemarsi alla meno peggio una parrucca boccolosa.
Si fermò davanti ai moschettieri che era rosso in viso, c’era quasi da temere che potesse farsi venire un collasso. Sbuffò come un mantice, cercando di recuperare un’aria decorosa mentre i soldati smontavano e Athos apriva lo sportello della carrozza.
«Sei un disastro» bisbigliò guardando Diane. La ragazza aveva i capelli sconvolti, poche forcine superstiti reggevano un’acconciatura ormai inesistente, il davanti dell’abito mezzo slacciato e una stecca del corsetto aveva forato la stoffa, spuntando tra i merletti come un indice puntato.
«E tu sei il solito cavaliere». La giovane si staccò le forcine con gesti rabbiosi e diede uno strattone verso l’alto alla scollatura del vestito. Restava comunque impresentabile.
Athos inspirò, come se potesse inalare dall’aria tutto il coraggio e la pazienza di cui sentiva di aver bisogno.
Tese la mano a Diane con lo stesso formale distacco che avrebbe usato con una regina vera e lei mise su un’espressione solenne che sembrava il volto dipinto di una marionetta.
Il moschettiere vide una risata trattenuta brillare nello sguardo dei suoi compagni.
Che Dio ci assista…
Il maggiordomo fece un profondo inchino, rischiando di farsi scivolare la parrucca dalla testa.
«Vostra altezza, siamo lieti di avervi qui» disse. Se aveva notato l’improbabile tenuta della finta regina, non lo diede a vedere, del resto nemmeno lui stava dando il meglio di sé.
«Grazie, monsieur. Ho sempre desiderato visitare questo castello» rispose lei in uno sfarfallio di ciglia.
«Ma, altezza, ci siete già stata. Quando eravate piccola, con vostra madre»
«Ah. Sì, certo… abbiate pazienza, quando la tua famiglia ha un sacco di castelli, a un certo punto cominciano a sembrarti tutti uguali».
Athos alzò gli occhi al cielo e dovette trattenersi dal dare una gomitata al fianco di Diane. D’Artagnan tossicchiò con una certa enfasi, Aramis e Porthos si scambiarono un’occhiata obliqua.
«Sarà meglio che entrate, altezza» intervenne Porthos, la voce rotta dalle risate trattenute. «Comincia a far freddo qui fuori».
Era un’ottima idea: sottrarre Diane al maggiordomo e metterla al riparo all’interno del castello, tutto molto sensato.
Mentre raggiungevano l’ingresso, il domestico si profuse in un lungo soliloquio sulla scarsità del personale, di come quella casa fosse caduta in disgrazia da quando Maria de Medici  l’aveva abbandonata. Diane ascoltò quel lagnoso monologo con paziente educazione, fin troppo per una regina nota per la somiglianza col suo bizzoso fratello.
Il castello portava, in effetti, i segni dell’abbandono. I tendaggi erano impolverati e uno strato opaco copriva i vetri, la polvere era annidata negli angoli delle cornici dei quadri.
C’era qualcosa di triste, persino lugubre in quel posto.
«E della sicurezza, cosa mi dite?» chiese Athos. Sperò che l’aura spettrale di quel luogo non fosse un presagio.
Il maggiordomo si strinse nelle spalle. «Una decina di guardie impigrite. Ma tanto qui non succede mai niente».
Confortante.
Athos e i suoi compagni si scambiarono un’occhiata nervosa. Ogni reggimento inviava i suoi soldati peggiori a fare la guardia ai palazzi vuoti: che ci fossero o no quelle dieci guardie non avrebbe fatto alcuna differenza.
«È molto peggio di quello che avevamo pensato» sospirò Aramis, mentre il maggiordomo spariva dietro una porta per controllare che gli appartamenti della regina fossero in ordine.
D’Artagnan scosse il capo. «Questo posto è praticamente una locanda, in quanto a libertà di entrata e uscita» aggiunse.
«Grazie, ora sì che mi sento al sicuro» fece Diane.
«Quello che mi domando io» intervenne Porthos, «è se il sicario dovesse arrivare abbastanza vicino a lei, riconoscerà che non è la regina di Inghilterra? Insomma, quanto da vicino può averla vista quel giorno a Notre Dame?»
«Vedremo di non farlo avvicinare» replicò prontamente Aramis.
«No, voglio dire che se non lo prendiamo e lui smaschera il piano saremo punto e d’accapo»
«La regina di Inghilterra è al sicuro nel luogo segreto disposto da Richelieu» considerò Athos. «Dobbiamo comunque acciuffare l’attentatore finché siamo qui, non so se avremo una seconda possibilità di trovarlo»
«Sarà un vero spasso» brontolò Diane.
Tutti loro sembravano dare per scontato che il sicario li avesse seguiti, in qualche modo, e che si sarebbe fatto vivo.
Il maggiordomo riemerse da dietro la porta laccata.
«Spero che le vostre stanze siano di vostro gradimento, altezza» trillò.
I moschettieri accompagnarono la ragazza negli alloggi della regina. Si guardarono attorno per valutare gli ingressi e le aperture.
«Non va bene» sentenziò Athos, dopo qualche minuto.
Il maggiordomo fece una faccia mortificata, i boccoli della parrucca sembrarono appassire come fiori. «Perché mai?».
«È al piano terra» rispose il moschettiere in tono piatto. Tutte quelle dannate finestre così maledettamente accessibili; troppi pochi metri tra l’ingresso e la stanza; troppo facile da spiare dall’esterno.
«E a me non piacciono i piani bassi» disse Diane titubante, come se fosse una domanda.
«Ma, altezza, questa era la stanza dove dormivate da bambina» protestò debolmente il maggiordomo. «L’avevo fatta preparare, il piano di sopra è in disordine e non c’è abbastanza personale per…»
«Preparate una camera qualsiasi» sbottò Athos, spazientito.
Aramis alzò le mani con fare conciliante. «Sua altezza è molto stanca, è stato un lungo viaggio»
«E noi vorremo cenare» puntualizzò Porthos.
Il maggiordomo scosse il capo sconsolato e si avviò di sopra, borbottando qualcosa sulle voci che dicevano che la vita londinese non avesse affatto giovato alla sorella del re.
«Pover’uomo» mormorò Diane quando lo vide sparire in cima alle scale.
«La prudenza non è mai troppa» le rispose d’Artagnan.
«Dunque, qual è il piano?»
«Stiamo qui e aspettiamo».
La ragazza spalancò gli occhi. «Per quanto tempo? E se il sicario non si fa vedere?»
«Ti ricordo che venire qui è stata una tua idea» borbottò Athos.
«Mi pare fosse un’idea del cardinale»
«Infatti» convenne Porthos. «Per questo non può che essere brutta. E, santo cielo, ci daranno da mangiare prima o poi?»
 
Il desiderio di Porthos venne esaudito poco dopo. Almeno in un certo senso.
L’enorme sala da pranzo sembrava una cripta. Le statue contro le pareti erano coperte da lenzuola impolverate, come sudari. L’ambiente, troppo grande per una persona sola, non aveva abbastanza luce.
Dalle finestre arrivava sottile il frinire dei primi grilli.
Diane sedeva a capo di un’enorme tavola di legno scuro, irrigidita contro l’alto schienale intagliato di una sedia che doveva essere lì dal medioevo.
Alle sue spalle, i moschettieri stavano ritti come colonne, stirando con discrezione le braccia o spostando il peso da una gamba all’altra. La stanchezza della giornata di viaggio cominciava a farsi sentire in maniera quasi dolorosa.
Cameriere goffe con le cuffie inamidate servirono la cena in un’infinità di porcellane mentre il maggiordomo sgambettava attorno al tavolo scusandosi per la poca cura con cui era stato preparato il pasto e per altre mille cose a cui nessuno aveva fatto caso.
«… se solo sua altezza ci avesse avvisati con più anticipo» concluse, affranto.
Diane strinse le dita attorno al tovagliolo che teneva appoggiato in grembo. Era ancora conciata come uno spaventapasseri, ma tentava in ogni modo di darsi un contegno regale.
Per renderle giustizia, andava detto che non era certo priva di eleganza, il duca e gli insegnanti del collegio avevano fatto un ottimo lavoro da quel punto di vista, semplicemente a volte si dimenticava di essere una donna adulta, ma non avrebbe sfigurato come moglie di un gran signore alla corte dei papi.
Athos arricciò le labbra, sorpreso da quel pensiero e distolse lo sguardo, osservando il nero del cielo oltre le finestre.
Sì, di certo a Roma sarebbe stata più al sicuro, insistette una voce molesta nella sua mente.
«Sareste così gentile da andare ad accendere il camino nella mia stanza?» esclamò all’improvviso Diane, rivolta al maggiordomo.
L’uomo si riscosse, per poco la parrucca non gli saltò dalla testa.
«Il camino?» chiese, perplesso.
«Sì, il camino»
«Siamo in primavera, altezza»
«Mi sono portata dietro il freddo da Londra, va bene?». Diane si lasciò cadere contro lo schienale. «Per piacere» aggiunse in un tono che voleva essere gentile ma che finì per suonare minaccioso.
Il maggiordomo annuì. «Come vostra altezza desidera» soffiò prima di correre a grandi passi fuori dalla stanza.
«Mi sento tremendamente a disagio» disse la ragazza, abbandonando le mani oltre i braccioli della sedia. «E voi quattro lì dietro non siete di aiuto»
«Se compiace a vostra altezza, Aramis potrebbe cantarvi qualcosa: ha una bella voce» scherzò d’Artagnan.
«Lo mangi quello?» fece Porthos, indicando un pezzo di pane  imburrato in un piattino d’argento con un centrino.
«Non l’ho mangiato perché non so se devo usare coltello e forchetta o no. È tutto tuo, comunque».
Athos fece il giro della grande stanza, controllando una ad una le finestre. Il bosco attorno al castello era una macchia di nero, poche lanterne brillavano nel piazzale, insieme a un falò dove sedevano cinque delle dieci guardie del palazzo.
Ogni riflesso, ogni scricchiolio sembrava una minaccia. A fare da contrappunto a quel pensiero, il vento fischiò rabbioso, con un suono simile a uno strillo acuto.
«Questo posto dà i brividi» sbuffò Diane, tormentando con la forchetta quel che restava di una coscia di pollo.
Aramis si appoggiò con il fianco al bordo del tavolo. «Ma certo, è infestato» asserì con un sorriso divertito.
«Anche il collegio dove stavo a Roma» rispose la ragazza. «Ma fantasmi io non ne ho mai incontrati».
«Forse hanno più paura loro di noi di quanto ne abbiamo noi di loro» considerò Porthos, pulendosi i baffi dalle briciole.
«No, aspetta, perché dici che il castello è infestato?» chiese d’Artagnan. Lanciò un’occhiata nervosa alla stanza in penombra, alle sagome delle statue coperte dai drappi.
«Superstizione da guascone?» scherzò Aramis.
Il ragazzo scrollò le spalle e tentò di darsi un’aria convinta. «Semplice curiosità».
«Valentina Visconti rimase richiusa qua dentro dopo l’assassinio del marito, si dice che il suo fantasma di vedova inconsolabile sia rimasto a svolazzare per i corridoi»
«Speriamo che almeno ci lasci dormire» borbottò Diane.
 
***
 
«Si muore dal caldo qui dentro» sbottò Diane.
«Certo. Hai fatto accendere il camino» le ricordò d’Artagnan. Il guascone si avvicinò all’ampia finestra e chiuse le tende con uno scatto dopo aver lanciato un’occhiata guardinga al cortile con alte querce che spuntavano nel semibuio come pilastri contorti.
La ragazza si sedette sul bordo del letto, la gonna dell’abito si alzò e si afflosciò con uno sbuffo attorno alla sua vita. Quando agitò i piedi, le scarpette di raso le volarono via, ognuna in una direzione diversa. La destra scomparve sotto una specchiera dorata, la sinistra era un fungo al centro del tappeto.
Diane alzò lo sguardo sul baldacchino trapuntato di seta viola.
«Questo letto ha il colore dei paramenti funebri» disse Porthos.
Aramis si sedette sull’altro lato del materasso e si dondolò facendo scricchiolare le molle. «È anche scomodo come un patibolo».
Lei non li stava ascoltando, i suoi pensieri erano volati a Parigi, a suo zio e alla regina. Le dispiaceva essere andata via senza vederla, ma forse Anna non era poi tanto desiderosa di incontrarla.
Lo sguardo di Diane vagò per la stanza e si posò su Athos. Il moschettiere stava controllando per l’ennesima volta la pistola, distratto dai propri pensieri.
Un domestico entrò trascinando con sé il pesante baule da viaggio di sua altezza e guardò con un misto di perplessità e disappunto i moschettieri che vagavano con noncuranza nella grande camera della regina di Inghilterra.
L’uomo si defilò con una profonda riverenza e Diane aprì il baule con un calcio, i piedi fasciati da bianchissime calze di seta.
Tirò fuori i suoi abiti da soldato e una spada e un pugnale da duello.
«Me li ha dati mio zio» si giustificò davanti alle occhiate esasperate dei quattro uomini. Aramis sbuffò una risata sotto i baffi mentre la ragazza nascondeva la lama sotto al cuscino.
La brace nel camino si spense con un sibilo, una bolla di fumo acre aleggiò per qualche istante tra la cenere.
Da dietro al paravento dove era andata a cambiarsi, Diane ascoltò i passi irrequieti dei moschettieri, come se cercassero qualcosa da fare per non lasciarla sola.
«Dormire» suggerì, allacciandosi in vita la cintura dei suoi calzoni da soldatessa.
«Come dici?» chiese Aramis.
«Dobbiamo andare a dormire, tutti quanti»
«… disse quella che ha nascosto una spada sotto al cuscino» fece Porthos.
Ahos, appoggiato con le spalle contro il muro, strinse le labbra per soffocare uno sbadiglio. «Faremo dei turni alla porta» decretò. «Due alla volta».
Agli altri parve una soluzione accettabile e Diane li seguì con lo sguardo mentre uscivano.
«Urla, se ti serve qualcosa» disse d’Artagnan prima di chiudere la porta della ricca anticamera che separava la stanza da letto dal corridoio.
Athos sembrava troppo stanco per un’ultima raccomandazione o un’ultima protesta contro quella situazione che sembrava piacergli sempre meno. Forse era solo colpa di quella grottesca messinscena, ma Diane avvertì tra loro la distanza di un silenzio comprensibile solo in apparenza.
Rimasta sola, si lanciò a peso morto sul letto, affondò tra le lenzuola di raso come in un prato. C’era un odore come di stantio tra quelle coperte e nel silenzio impenetrabile della stanza vuota le parve di sentire suoni lontani, echi e scricchiolii provenienti da un luogo indistinto.
«Sciocchezze!» sibilò stizzita contro il baldacchino. Non aveva mai creduto ai fantasmi e non avrebbe cominciato quella notte.
Aveva bisogno di riposo tanto quanto i moschettieri, si disse.
Spense la lampada ad olio sul comodino e infilò una mano sotto al guanciale. Quando sfiorò l’elsa della spada si sentì di colpo più sicura e pensò che niente l’avrebbe colta alla sprovvista tranne il sonno che la fece cadere di colpo.
I rumori arrivarono dopo, da lontano e dal buio. Suoni sordi, un raspare di cardini e pietre smosse, qualcosa che vagava dietro la parete, dentro la parete.
Aprì gli occhi, spiando la stanza attraverso uno spiraglio tra le lenzuola. Con lo sguardo annebbiato dal sonno, vide solo la luce fluttuare attraverso il muro. Pensò ai fantasmi di cui le aveva parlato Aramis e più il suo cervello le ripeteva che era impossibile più il suo cuore le martellava nel petto per una paura superstiziosa che non riusciva a controllare.
La luce emerse da muro, un fazzoletto di fuoco che sembrava essere sgusciato dalle linee geometriche dell’affresco. La fiamma rivelò la figura sottile di una donna, l’abito di sete scuro e il volto coperto da un cappuccio come un grumo di buio imperscrutabile.
Il fantasma mosse qualche passo verso il baldacchino e, infine, parlò.
 
***
 
Conosceva il castello: era stato una delle residenze del cardinale, nel tempo in cui la sua vita era passata dalla luce alle ombre e Richelieu aveva raccolto dalla strada quello che restava della contessa de La Fére.
Era tornata a splendere sotto l’ala di sua Eminenza, ma non era più luce di diamante, solo un fuoco fatuo, una fiamma feroce alimentata dal rancore e dal rimpianto.
Si raccontavano storie sul palazzo di Blois e Milady non aveva mai scoperto quante di queste fossero vere ma era una dei pochi a conoscere i passaggi segreti e le vie nascoste che erano rimaste intatte dalle molte ristrutturazioni che l’edificio aveva subito negli anni. Quelle viscere di pietra e polvere esistevano da prima che la corona cadesse sul capo della dinastia dei Borboni.
Nel buio dei cunicoli, la fiaccola pulsava di luce dorata.
La donna strinse i denti quando sentì gli squittii e il ticchettare di zampette e code da qualche parte in mezzo all’oscurità.
I moschettieri avevano portato la regina d’Inghilterra lontano da Parigi, una precauzione del tutto inutile dato che tutta la città sapeva di quel trasferimento, persino lei ne era venuta a conoscenza e non c’erano dubbi che lo sapesse anche il dannato sicario. Un piano stupido e rischioso a cui porre rimedio prima che fosse troppo tardi: quante probabilità c’erano che il sicario li avesse seguiti come aveva fatto lei?
Gli uomini di Treville avevano forse qualche pregio, ma non brillavano per arguzia. Li maledisse mentre inciampava in un’irregolarità del pavimento.
La stanza della regina era al secondo piano. Milady sperò che Enrichetta Maria la riconoscesse e si fidasse di lei: doveva portarla via e nasconderla prima che fosse troppo tardi, poi avrebbe pensato a come lasciare la Francia.
Provò una punta di divertimento al pensiero di rubare di nascosto sua altezza da sotto il naso dei moschettieri. A rubare, dopotutto, era sempre stata brava; altri talenti erano giunti col tempo.
Il pannello nella parete ruotò con un suono sottile di cardini. Nel buio della stanza, la regina di Inghilterra era una curva sotto il bianco delle lenzuola, una pozza di luce illuminava il baldacchino del letto.
Milady rimase un attimo immobile, reggendo la fiaccola e osservando la figura emergere dal bozzolo di coperte. Per un attimo ebbe paura che la sorella di Luigi potesse urlare, ma la figura rimase muta e attonita, gli occhi fissi sulla lingua di fuoco della fiaccola. 
«Altezza… dovete venire con me».
Il corpo ebbe un tremito e Milady si ritrovò a osservare sorpresa la figura che saltava giù dal materasso con una spada tra le mani e abiti decisamente poco regali.
La torcia quasi cadde dalla sua stretta ma la tenne salda mentre cercava di illuminare la figura sconosciuta che ora sembrava un uomo troppo minuto.
Non era un uomo, era una ragazza con calzoni e giacca di pelle e guardava avanti a sé come se avesse visto un fantasma o come se avesse appena iniziato a credere ai fantasmi.
Con uno scatto goffo la ragazza allungò la mano verso la lampada sul comodino e la fiammella si ingigantì fino a disegnare un rombo sul muro.
La sorpresa mutò il volto gelido e determinato di Milady in una maschera di incredulità.
«Non siete Enrichetta Maria» borbottò, avvertendo subito la stupidità di quell’affermazione assolutamente superflua e del suo tono querulo.
Non che la ragazza avesse un’aria particolarmente brillante, comunque.
Milady avvertì l’impulso di stringerle le mani attorno al collo sottile e liberarsi di quello sguardo da pesce lesso, non riusciva a credere di aver perso le tracce di Enrichetta Maria e di aver seguito una falsa pista.
Ora era evidente: avevano scambiato la regina di Inghilterra con una sostituta per attirare il sicario, non era difficile capire che dietro quell’impresa si celava lo zampino del cardinale.
La rabbia d’esser stata giocata incupì lo sguardo di Milady e per un istante la ragazza trasalì.
«Siete la donna della profumeria!» esclamò muovendo un passo verso di lei.
Solo allora la riconobbe.
«E voi chi o cosa siete?» le rispose di rimando, celando la rabbia dietro una maschera di gelida minaccia.
«Il bersaglio sbagliato, a quanto pare». La giovane esibì un sorriso beffardo anche se le tremava la mano.
Era uno strano esemplare, quella ragazzina, e Milady provava una simpatia istintiva per le donne fuori dal comune - come la moglie del merciaio che tanto piaceva al giovane d’Artagnan, ad esempio. Ma a volte le donne poco comuni finivano per diventare ostacoli sul suo cammino… persino una come quella lì, con il suo ghigno da eroina di ballate da taverna e il cuore soffice di chi non avrebbe mai usato davvero la spada che tanto baldanzosamente teneva in pugno. 
«È una piacevole conquista sulla strada della parità tra sessi il fatto che anche le donne vengano impiegate come sicari» commentò la ragazzina. «Ad ogni modo, per il vostro bene, sarebbe stato meglio che vi foste scelta un’altra occupazione».
«Non indugiate troppo nel fare sarcasmo, mia cara, mi siete già venuta a noia e io non sono il sicario mandato a uccidere la regina di Inghilterra»
«Frequentate passaggi segreti e vecchi castelli per diletto, quindi?».
Milady assottigliò lo sguardo senza tradire alcuna emozione. La sua inopportuna interlocutrice non aveva gridato e non sembrava intenzionata a farlo, quindi c’era ancora speranza per lei di metterla a tacere e andarsene di nascosto così com’era arrivata.
Non aveva voglia di uccidere la mocciosa, ma se non lo avesse fatto i moschettieri avrebbero scoperto che era in Francia, Athos le avrebbe dato la caccia e lei non sarebbe riuscita a proteggere Enrichetta Maria.
«Chiunque voi siate, mademoiselle, siete un fastidio inimmaginabile» sospirò.
«Se mi dite il vostro nome, vi dico il mio».
Con un movimento impercettibile, Milady fece per estrarre il pugnale dalla scollatura del coretto. Un solo lancio preciso al centro del petto sarebbe bastato.
La mano guantata della donna non arrivò mai a toccare la lama. La porta si aprì di schianto e nella penombra della stanza brillò la canna di una pistola.
«Diane» chiamò una voce ferma e un po’ imperiosa. Una voce che Milady conosceva abbastanza da cogliere il fremito dietro quel tono irremovibile.

Athos…




In questo periodo proprio non riesco a fare di meglio con la tempistica degli aggiornamenti. Vi prego di scusarmi.
Alla prossima.
C. 

 

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