Starlight

di theSwamp
(/viewuser.php?uid=63075)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Famiglia ***
Capitolo 2: *** Primo giorno ***
Capitolo 3: *** Realtà ***
Capitolo 4: *** Inaspettato ***
Capitolo 5: *** Benji ***
Capitolo 6: *** Incomprensibile ***
Capitolo 7: *** Attenta ***
Capitolo 8: *** Pranzo in famiglia ***
Capitolo 9: *** Divisa ***
Capitolo 10: *** Prigione ***
Capitolo 11: *** Notturno ***
Capitolo 12: *** Senza sogni ***
Capitolo 13: *** Vagabondo ***
Capitolo 14: *** Spionaggio ***
Capitolo 15: *** Ballerina ***
Capitolo 16: *** Più libera ***
Capitolo 17: *** Humphrey Bogart e Marlon Brando ***
Capitolo 18: *** Vigliacca ***
Capitolo 19: *** Stretto contatto ***
Capitolo 20: *** Sopra la città ***
Capitolo 21: *** Tenuis flamma ***
Capitolo 22: *** Racconto ***
Capitolo 23: *** Reverie ***
Capitolo 24: *** Socrate ***
Capitolo 25: *** Analisi imperfetta ***
Capitolo 26: *** Colpa ***
Capitolo 27: *** A prima vista ***
Capitolo 28: *** Cette chambre ***
Capitolo 29: *** Giuro ***
Capitolo 30: *** Nescio quid ***
Capitolo 31: *** La situazione non è nuova ***
Capitolo 32: *** First breath ***
Capitolo 33: *** Succede solo di notte sulle strade statali ***
Capitolo 34: *** For a simple twist of fate ***
Capitolo 35: *** L'iniziazione ***
Capitolo 36: *** (note al capitolo successivo) ***
Capitolo 37: *** Una brava compagna di viaggio ***
Capitolo 38: *** La libertà e le colpe- parte 1 ***
Capitolo 39: *** La libertà e le colpe- parte2 ***
Capitolo 40: *** Thoughts of a dying atheist ***



Capitolo 1
*** Famiglia ***


Merda. Traffico. Sentii qualche idiota che suonava il clacson, alzai un po’ la musica. Detesto il traffico. Lo odio. Sentii il motore della macchina che gemeva, soffriva con me, almeno lei. Era tardi e a casa avrebbero avuto da ridire, sicuramente. Mi concentrai sulla canzone. Jealousy turning saints into the sea, turning to sick lullabbies, joking on your alibies….cause I’m Mr Brightside… La colonna si mosse, finalmente. E si fermò dopo cinquanta metri, perfetto. Vibrò il telefono: era lei, lo sapevo. Abbassai il volume e risposi subito -Mamma!- -Stai tornando?- sentii la sua voce un po’tesa –Tra quanto arrivi?- Mamma, mamma, se tu sapessi almeno aspettare le mie risposte! –Sì ma c’è traffico…ci metterò ancora un’oretta- Sentii il respiro di mia madre, misurato, per telefono. Sospirò –Tesoro lo so che abbiamo litigato ma chiudiamo l’argomento, adesso. Ci stai? Lo so che anche tu preferisci fare finta di niente, passare avanti…e ci possono essere dei momenti nella vita che non vanno come devono o che non ti soddisfano o che…- Le morì la voce. Rimorso, orrendo rimorso. Ero cattiva e non meritavo il dolore di mia madre. -Torno subito mamma, non sto lontana da casa tanto per starci, c’è davvero traffico, ok?- Pausa –Scusami- Chiusi il telefono e spensi la musica, tanto non riuscivo a concentrarmi, aspettando di raggiungere l’imbocco dell’autostrada. Nemmeno il tempo di riappropriarmi di me stessa che il telefono vibrò di nuovo, e anche quella volta indovinai al primo colpo chi fosse il misterioso personaggio che mi cercava. Come avrei potuto sbagliare? Per un momento fui tentata di non rispondere, ma quel che rimaneva della piccola ragazzina adorabile che avevo dentro di me mi intimò di muovere il culo e di rispondere a una delle persone che più mi amava al mondo. Se non quella che più mi amava in assoluto. -Jake?- -Nessie dove diavolo sei??- La voce stretta in una morsa, sembrava un bambino sull’orlo di una seria crisi di pianto. -Ho fatto un giro….shopping, riflettere. Sai, forse non l’hai notato ma a volte le persone amano anche stare per conto loro- Oddio ero acida. Perchè me ne accorgevo sempre dopo aver parlato?- Eccolo, un altro che sospirava –Stai tornando?- -Da quando vi siete messi in testa che sono in fuga? No sai, vorrei saperlo- -E’ solo che mi manchi, quindi torna presto. E anche gli altri sono un po’…disturbati da…da oggi- Detesto il rimorso. Il rimorso e il traffico. -Jake sto tornando, tranquillo. E non sono nemmeno particolarmente alterata, quindi stai ancora più tranquillo. E adesso fammi un piacere: dì che sono a posto ma che non sarà più così se riceverò ancora una telefonata di qualcuno che voglia verificare se sto passando il confine dello stato, ti spiace?- Sento che ride, un po’ sommessamente – Certo capo, a dopo.- Pausa respirone –Ti adoro- Perfetto, pure la dichiarazione di rito ci mancava. Prima della completa rottura del mio equilibrio psico mentale, fortunatamente raggiungo l’ingresso dell’autostrada. Accelero e finalmente mi rilasso, l’auto che scivola liscia sull’asfalto bagnato, il riscaldamento che rende l’aria densa e profumata e che fa uscire tutta la fragranza dei sedili di pelle beige. Viaggio sulla corsia di sorpasso, ma tanto l’autostrada è semi vuota. Vedo il buio, nel senso che vedo tutte le sfumature dei colori della notte, e i fari delle poche auto che viaggiano con me, verso Nord, e i movimenti ora tranquilli, ora vorticosi, che il vento fa fare ai rami delle piante che costeggiano l’autostrada. E finalmente la pace raggiunge anche me, e per la prima volta in quella lunga giornata, non penso a niente. Oggi ho litigato con la mia famiglia, o forse farei meglio a dire che oggi ho aggredito senza un logico motivo la mia famiglia, gli ho rovesciato addosso tutta la mia frustrazione da ragazzina viziata e disadattata, li ho feriti e poi, da vigliacca quale sono, sono fuggita da quello che avevo fatto, ho preso la macchina e me ne sono andata. Sono rimasta in giro per tutto il giorno a piangere, fare shopping e a guardare il cielo. Ero troppo arrabbiata, è per questo che sono scappata via. Le mie emozioni fluiscono a tratti lente, quasi non ci fossero, a tratti particolarmente impetuose, e quando si liberano, vorrei avere attorno a me il deserto, per poter urlare, scalciare, sgretolare una montagna o chissà cos’altro. Se proprio non potevo avere il deserto fisico, ho almeno cercato di creare quello emotivo, allontanando tutti da me. Renesmee, sei da strizza. Te lo ha mai detto nessuno? Ho detto a mia madre la cosa più brutta, orribile, meschina e idiota che potessi pensare. Che sono un mostro. L’ho vista sbiancare, cercare con affanno un’ombra di ironia nei miei occhi, un qualsiasi appiglio che non la facesse sprofondare. Come ho potuto ferire mia madre? Lei, che ha rischiato la vita per farmi venire al mondo. Non lo farò mai più. Anche se è così che mi sento, non le dirò mai più la verità. Anche se ogni giorno mi chiedo dove sia il mio posto, se fra gli umani, o fra i vampiri, o fra chissà quale altra diavoleria. Tutto tranne vedere ancora una tale sofferenza sul volto di mia madre. Per mio padre è diverso, lui può vedere quello che penso. E se da una parte odio questa cosa, dall’altra sento che lui è con me, lo sento vicino. Mi conosce, e so che mi capisce, e che in qualche modo riesce a perdonare il mio egoismo. Ho detto alla mia famiglia che odio la vita che viviamo, il nostro voler vivere sullo sfondo del mondo vero, della gente reale. Che avrei preferito seguissero il loro istinto, cacciassero e uccidessero come era nella loro natura. Sono pazza. Perché mai avrei dovuto dire queste cose a loro? Loro, che sono molto migliori di tanti esseri umani. A Rose, che mi ha amata e educata come la migliore delle sorelle maggiori e come una madre devota; a mia nonna, Esme, la persona più dolce e comprensiva della Terra; a Carlisle, che preferirebbe morire tra i tormenti piuttosto che soddisfare i suoi istinti; a Emmett, che vede il mondo come un luogo in cui il nostro unico scopo è amare la propria compagna; a Jasper e a Alice, che mi dimostrano ogni giorno come l’amore possa qualsiasi cosa, nonostante tutto. Come ho potuto dire questo ai miei genitori? Le lacrime mi scendono piano, una dietro l’altra, sulle guance, fino a scendere sul mento e a cadere sul mio piumino. I singhiozzi silenziosi danno il ritmo al mio ritorno. Attraverso il viale alberato che mi riporta a casa, le querce sono bianche di gelo, perché qui la pioggia che è caduta oggi è già ghiacciata. Abbiamo cambiato casa da qualche mese, Forks non era più sicura: dopo essere scomparsi dalla vita “civile” della città, e aver vissuto per alcuni anni nella casa che avevamo lì, era venuto il momento di trasferirci. Mia madre e mio padre erano stati irremovibili: dovevo andare a scuola, e avrei dovuto conseguire il diploma (con ottimi risultati) come qualsiasi ragazza umana. Prima avevo studiato a casa, a causa della mia crescita “particolare”, istruita dai membri della mia famiglia. Esme mi aveva fatto studiare lettere, teatro, narrativa, poesia, storia e geografia, mentre Carlisle si occupava di matematica, chimica e biologia. Ero brava, sempre attenta, perché mi sarebbe dispiaciuto non soddisfarli. E poi in casa nostra era impensabile sfuggire al peso della cultura…perciò meglio arrendersi da subito. Così ci eravamo trasferiti, anche se la città distava nemmeno un centinaio di chilometri da Forks, per evitare di lasciare solo Charlie, che abitava ancora là. Povero Charlie. La mia crescita a vista d’occhio (nel vero senso della parola) lo spaventava, ma nonostante tutte le stranezze e i sospetti, pur di vedere me e la mamma aveva sempre accettato tutto: non so se sia un pregio o un difetto, non so se è un uomo dal cuore incredibilmente grande o un vigliacco. La nuova casa mi piace meno dell’altra, forse perché nell’altra ci sono tutti i ricordi più impagabili. La casa è molto antica, di fine ottocento, uno degli edifici più vecchi della zona: è di mattoni rossi, con un porticato bianco che corre davanti e su un lato, i due piani scanditi dalle finestre bianche, ad arco, e la piccola mansarda che Esme ha ristrutturato pensando a me. Avrei preferito vivere in un bell’appartamento in città, con i vicini che tengono il televisore troppo alto e il pensionato del piano di sotto che al sabato mattina decide di fare dei lavoretti con il trapano, ad un orario in cui le persone normali si dedicano solitamente al sonno. E invece vivevo in una casa in cui il tempo non era mai scandito, nessuno che dormisse, mangiasse o prendesse le pastiglie per il mal di testa. Tranne me. Egoista Renesmee, cattiva che non sei altro. Loro ti amano e tu non fai che lamentarti e rimuginare. Entro nel garage. Avevo già visto da prima una sagoma, e temevo che fosse mio padre, ma adesso la vedo meglio: è Jasper. Dio benedica Jasper, lo salvi e gli faccia un monumento. Scendo dalla macchina. Jeep nera, regalo di Rose ad Emmett per lo scorso compleanno. Jasper mi guarda, anzi mi squadra, cercando di comprendere il perché del mio rossore e dei miei occhi gonfi. -Mi vergogno Jazz, ecco qual è il problema- - Capisco…- e mi guarda più serenamente. Non ero del tutto sicura che capisse, ma mi faceva comunque piacere che si sforzasse di farlo. -Senti io non avevo assolutamente intenzione di dire quelle cose…è stato un momento…è un brutto momento, ecco. Ma io cerco di farmela passare, Jazz, credimi- Lo fissavo implorante. -Ti credo- e mi sorride. Grazie Jazz per infondermi la tua calma, la tua speranza. –Adesso però entriamo,piccola. Ci sei mancata tanto, non andartene così mai più. Hai fatto anche saltare la partita a baseball, Emmett è molto arrabbiato con te- Ci guardiamo e scoppiamo a ridere. -Anche voi mi siete mancati- Jasper mi fissa per un secondo e capisce. Mi abbraccia forte e poi ci avviamo verso la casa. Mi siete davvero mancati.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Primo giorno ***


Mi vestii di fretta per scendere a fare colazione, che era già pronta: Esme adorava cucinare per me, amava talmente tanto rimpinzarmi che anche mia madre si era arresa e le aveva lasciato questa priorità

 

Mi vestii di fretta per scendere a fare colazione, che era già pronta: Esme adorava cucinare per me, amava talmente tanto rimpinzarmi che anche mia madre si era arresa e le aveva lasciato questa priorità. Stamattina erano pancakes con panna e cioccolata. Da piccola trovavo il cibo umano ributtante, e mangiandolo provavo una sensazione a metà tra il leccare l’asfalto e l’addentare del polistirolo, poi crescendo i miei gusti sono misteriosamente cambiati, e ho imparato a mangiare di tutto. Alcune cose le adoravo, come pressoché tutti i dolci, la panna, il cioccolato e gli hot dog. Mentre detestavo il pesce. Ma non c’era bisogno che facessi tante storie, perché mia nonna si preoccupava di farmi trovare in tavola solo il meglio delle cose più buone che io preferivo.

Quello era il mio primo giorno di scuola, primo fra gli umani. Ero un po’agitata. Un po’ molto agitata. Non riuscivo a decidere cosa mettermi…inizialmente il mio problema era stato crearmi un guardaroba adatto alla scuola, adesso era cercare di scegliere cosa, in quell’immenso guardaroba, avrebbe fatto al caso giusto calcolando il colore dell’auto, la tonalità delle nuvole e il mio leggero rossore sulle guance. Alla fine scelsi dei jeans stretti scuri, una maglia sul lillà e grigio lunga e un po’ scollata e delle ballerine di Chanel con una stampa matassé. Misi i libri nella Chanel nera e usci dalla stanza senza nemmeno guardarmi allo specchio.

Giù dabbasso intanto erano tutti in un silenzioso fermento: erano seduti sui grandi divani bianchi, tranne Emmett che se ne stava sul pavimento. Mi sentii osservata, o meglio scrutata. Alice ruppe il silenzio, per fortuna.

-Tesoro ringrazio ogni giorno il cielo del fatto che sono stata io a insegnarti come ci si veste.-

Mi guardava con soddisfazione, come se fossi una creazione tutta sua. Questo mi fece venire in mente i miei.

Papà mi guardava con gli occhi lucidi, o almeno così sarebbero stati se avesse potuto piangere, ci scommetto, adesso erano come illuminati da una strana espressione adorante. Lo conoscevo e sapevo cosa stava facendo: pensava che la sua bambina era cresciuta in fretta, che non avrebbe mai pensato avrebbe potuto essere così bella, intelligente, affascinante, sana, forte…

Rise forte: -Sì, direi che è più o meno quello che mi sta passando per la testa!-

Mia madre strinse più forte la sua mano, che era già intrecciata da prima. – Che cosa, amore?-

-Niente…diciamo che Renesmee stava considerando quanto fosse sentimentale e noioso il suo “vecchio”-. Si guardarono complici e risero. Se, vecchio: sembrava quasi più piccolo di me.

Esme irruppe nella stanza, portando con sé una zaffata di profumo di pancake appena fatto.

-Basta! Lasciatemela andare, non vedete che le mettete agitazione?- Mi lanciò un’occhiata preoccupata, come se temesse di vedermi esplodere da un momento all’altro: evidentemente la mia ipotesi di essere “un po’” agitata era ottimistica,vista dal di fuori –Adesso devi fare colazione, e poi potrai andare!- Mi tirò per un braccio, con molta leggerezza, e io afferrai l’appiglio al volo. Sentivo solo le risatine dietro di me. Ma ero così maledettamente ridicola??

-Nonna, ma sono così….ridicola?- era l’unica che mi avrebbe detto la semplice verità.

-Tesoro, in tutta onestà…non sei mai somigliata tanto a tua madre prima come in questo momento! Sei totalmente…- fece una smorfia, non riusciva a trovare un termine non offensivo in alcun modo. La aiutai. – Diciamo svampita?- azzardai.

Mi sorrise, -Proprio quello- e mi rivolse un’occhiata dolce e un po’ apprensiva – E se stamattina non te la senti di cominciare ci saranno tanti altri giorni più…-

La bloccai, poco educatamente, mentre addentavo il primo pancake con la panna. – No oggi è perfetto!!!-. Troppa enfasi. Sentii Emmett ridere come un idiota e mio padre ghignare. Giurai a me stessa che me l’avrebbero pagata.

Un leggero fruscio alle mie spalle mi avvertì dell’arrivo di mamma, che mi diede un bacio leggero come l’aria. La mia perfetta madre. Non me la sarei mai bevuta, questa storia di Bella-l’imbranata-che- non- sa- camminare- senza- inciampare, anche se tutti mi assicuravano che prima era totalmente sgraziata e goffa.

-Tesoro, è ora di andare…non vorrai fare tardi?- “Come al solito”:sentivo che lo avrebbe voluto aggiungere. Ma oggi mamma era in piena modalità artificiere: io ero la bomba, e lei doveva avere a che fare con me senza che avessi una crisi di pianto, un eccesso di rabbia o entrassi in stato semi catatonico. Tutte cose piuttosto difficili ultimamente, considerato il mio umore ballerino. Me la immaginai con i guantoni e la mascherina mentre mi prendeva con una pinza gigante, con papà che le diceva una cosa del tipo “Bella, amore mio, fai attenzione!”. Mi venne da ridere.

Lei mi guardò interrogativa, corrugando la sua fronte di marmo –Tesoro ti va se guido io stamattina?- Aveva paura che andassi fuori strada. Oddio volevo Jasper. Ma che diavolo avevo quella mattina?

In quel momento sentii la porta d’ingresso aprirsi velocemente, e un altro odore familiare giunse al mio naso. Radici, bosco, terra smossa. Era lui.

Jacob entrò in cucina mentre ancora si abbottonava i pantaloncini: la decenza non lo aveva mai toccato più di tanto. Corse quasi per venirmi a schioccare un rumoroso bacio sulla guancia, caldo e profumato. Sentii un ringhio sommesso provenire dal salotto, ma non seppi se ricondurlo a papà o a Rose.

-Pronta piccola?- Gli occhi neri brillavano, anche lui sembrava sull’orlo della commozione.

-Certo!- Decisi di ostentare sicurezza, ma evidentemente non mi riuscì bene, perché Jacob mi fissò sollevando un sopracciglio. Sentivo di stare per perdere la pazienza: era il momento di abbandonare il campo, decisamente. – Be sono in ritardo!!- Mi alzai e ribaltai la sedia, perfetto. Emmett non perse l’occasione: -Tesoruccio, sei sicura di farcela stamattina? O pensi di distruggere la scuola prima di pranzo?-. Rose gli disse di chiudere il becco.

Jacob mi sorrideva e se ne stava appoggiato con i gomiti alla cucina, ancora svestito e con la stessa aria divertita che avevano tutti. Mi squadrava ancora, tanto che cominciai a chiedermi se non mi fosse cresciuta la coda durante la notte, visto come tutti mi fissavano. Ero piuttosto irritata.

-Non dovresti almeno metterti una maglietta? Sbaglio o dovevi venire anche tu?-

Anche lui sarebbe venuto a scuola. Se non per fingersi parte di una graziosa famiglia allargata, almeno per avere un diploma, dato che da quando si era praticamente unito alla mia famiglia non aveva mai più ripreso il liceo. Casa nuova, vita nuova, e valeva per tutti.

Naturalmente conoscevo i sentimenti di Jacob, solo una persona particolarmente idiota non sarebbe riuscita a decifrare i suoi comportamenti, che mano a mano che il tempo passava diventavano sempre più espliciti. Sapevo perché aveva lasciato tutto della sua vita precedente per seguire una famiglia di vampiri, lui che era un lupo, e per stare dietro a una bimbetta dagli strani poteri. Era l’imprinting. La cosa più stupida, idiota e cretina di cui avessi mai sentito parlare: innamorarsi a prima vista, nel vero senso della parola. Jacob aveva cominciato ad adorarmi praticamente da quando ero uscita dalla pancia di mia madre, e siccome ho una memoria profondissima, mi ricordo di lui sin da quel momento. La sua prima immagine è quella di un ragazzo che vede la luce per la prima volta, e che mi mormora qualcosa di molto gentile, che non ricordo ma che al momento apprezzai tantissimo. Da allora cominciai ad amarlo. Il mio amore per Jacob era come una parte di me, sentirlo crescere era naturale, non amarlo sarebbe stato impossibile, sarebbe stato come lasciare una parte di me, sarei stata incompleta, per sempre. E crescendo, il mio amore era cambiato, adattandosi a quello che diventavo. Se quando era una bambina lo adoravo perché aveva una pazienza infinita a giocare con me, e prendeva i miei giochi e i miei scherzi più seriamente di quanto io stessa facessi, quando cominciai a crescere mi accorsi che Jacob più di un compagno era un fratello, un amico. E quando sono diventata una donna ho capito che Jacob era anche più di un amico: era destinato ad essere mio.

Ma nonostante tutto questo, non ero pronta ad affrontarlo. Anche se a volte mi capitava di pensare troppo spesso alla sua pelle, ai suoi occhi profondi e alla piega delicata del suo labbro superiore, mi sembrava che l’eternità non l’avrei vissuta con nessuno al mio fianco.

Sarei stata sola, e sarebbe stata una scelta.

-Piccola, se c’è qualcuno in ritardo quella sei tu! Io ci metterò un secondo-. Mi guardò ammiccando. Spaccone che non era altro.

-Vogliamo vedere?- Voleva arrivare prima trasformandosi. Ma se lui rispondeva al richiamo della foresta, io avrei risposto al richiamo di un mille nove in garage.

-Non pensare di prendere la macchina e correre! Potresti farti male!-. Mi aveva praticamente letto nel pensiero, bastardo. E non era il solo, visto che mio padre sbucò dalla porta con un’espressione scandalizzata.

-Jacob, per favore: corre già troppi rischi di suo, potresti evitare di indurla al suicidio?-

Oddio eccola che arrivava. La paternale sulla sicurezza, per mio padre sarei dovuta andare in giro rivestita di gomma piuma e accompagnata da un cane per ciechi.

-papà non sono fatta di vetro, vorrei ricordarti!-

Mio padre mi guardò come se fossi scema. –No Nes, non sei scema, ma non hai alcun senso della misura e del limite, e vorrei evitare di doverti scollare da un tronco d’albero come è successo…-

E adesso la storia del tronco. –Oh, per favore! E’ successo cinque anni fa e stavo prendendo la patente, ok? E non mi sono fatta niente, due giorni dopo era identica a prima-

Jacob non potè evitare di fare la sua parte. –Nessie, tesoro, tuo padre ha ragione, devi andare più piano e magari cercare di rispettare i limiti, non si sa come…-

Mi era venuta un’improvvisa voglia di andare a scuola. Palestrati, professori ignoranti, chear leader, edifici fatiscenti, avrei affrontato anche questo pur di cinque minuti in meno di paternale sulla sicurezza. Sbuffai e zittii Jacob con uno sguardo.

-Ci vediamo a scuola, ok? Vado da sola…devo passare a ritirare delle cose in segreteria.-

E riuscii a sgusciare fuori di casa, finalmente in salvo, prima che otto vampiri e un licantropo mi offrissero un passaggio.   

 

 

 

 

 

 

Allora…grazie a tutti per i commenti, siete stati davvero gentilissimi! Scusate se il primo capitolo era assolutamente illeggibile, ma sono incapace con il computer, quindi figurarsi con l’HTML, per cui abbiate pietà…

Per favore commentate!! Ho un bisogno FISICO di commenti, anche perché è la mia prima fan fiction in assoluto e mi piacerebbe sentire pareri di persone che ne sanno sicuramente più di me.

A presto genteee!!

Giuls

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Realtà ***


In garage salii sulla Mini, accesi il motore e sfrecciai via in credo meno di cinque secondi

Dunque, grazie ancora per i commenti! Mi fanno davvero molto piacere, siete gentilissimi, e spero che la fan fiction continui a piacervi!

Gengi: ma su dai alla fine la piccola Ness è cresciuta un po’ viziata, non è del tutto colpa sua…ma è effettivamente una piaga XD

Kylebroflowsky81: e se ti dicessi che sono al capitolo 15? Altrimenti non riuscirei mai ad aggiornare tutti i giorni, coi miei tempi!

Alex150588: ce li vedevo troppo ad aspettarla tutti insieme in comunella…pensa che stress per lei!

Sab: sono contenta di averti fatto incuriosire! Mi raccomando continua a dirmi cosa ne pensi, anche se sono critiche!

 

 

 

 

 

 

In garage salii sulla Mini, accesi il motore e sfrecciai via in credo meno di cinque secondi. La Mini era la mia seconda auto, che mi avevano regalato Alice a Jasper, e ovviamente la mia adorata consulente di stile l’aveva un po’ “modificata”. L’esterno era grigio perla, mentre gli interni erano neri e rosa, l’impianto audio modificato personalmente da lei, mentre per il motore aveva delegato a Rosalie. Percorsi il viale di querce a una velocità tale che mi venne da pensare a come avrebbe reagito l’auto se per caso avessi dovuto frenare per non investire un coniglietto, al che pensai che forse il luogo più opportuno per fare certe prodezze con la Mini sarebbe stato la super strada. Ma dovevo arrivare prima, perché dovevo sul serio passare in segreteria: per me sarebbe stato il primo anno, ero una matricola in ogni senso, anche se per comodità mi spacciavo per una sedicenne, che aveva iniziato la scuola un anno dopo per problemi di salute. Sarei stata l’adorabile sorella minore di mio padre, e vivevo nel terrore di chiamarlo “papà” in pubblico.

Alzai il volume dell’impianto stereo, per allentare la tensione. Un remix di Prodigy, adoravo la house e la techno degli anni ’90.

Fortunatamente trovai tutti i semafori verdi e nemmeno l’ombra di un agente della stradale, e riuscii ad arrivare in perfetto orario.

Il mio ingresso nel cortile della scuola fu…trionfale. Mi dimenticai di spegnere la musica, sbadata com’ero in quel momento, e mentre entravo nel parcheggio pressoché tutti i presenti si voltarono. Un sacco di umani che mi solleticavano la gola, riarsa. Ma avevo autocontrollo da vendere, anche se purtroppo non potevo dire la stessa cosa della pazienza. Quelli mi guardarono come se avessero visto una specie di alieno, di quelli che si vedono nei finti filmati di repertorio anni ’50. I ragazzi si soffermavano sull’auto ( Alice aveva aggiunto anche i faretti da rally, non aveva resistito), mentre le ragazze cominciavano a sparlare ancor prima di vedere che ci fosse alla guida. Preferii non scoprire l’effetto che ebbi sui professori.

Sul momento non sapevo se scendere dalla macchina o tornare a casa a finire i pancake di Esme. Mi tolsi gli occhiali tondi di Prada, visto che mi sentivo già alquanto “diversa”dagli studenti medi che se ne stavano a fissar la macchina con gli occhi sgranati. Spensi il motore e feci il grande passo.

Fu come il peggiore degli incubi: erano lì, e mi guardavano come se fossi la donna pelosa di quel vecchio film. Avrei voluto confessare tutto urlando “Mi chiamo Renesmee e sono per metà una vampira!” e poi scappare in una miniera abbandonata per non farmi mai più vedere da anima viva. Ma loro guardavano. Non so se erano i miei capelli lunghi fino a metà schiena, con i loro boccoli composti e lucidi, la mia pelle compatta e vagamente luminosa, i miei lineamenti ottocenteschi, gli occhi profondi o più semplicemente la mia terza abbondante, ma quelli fissavano. Attraversai il parcheggio con decisione, dirigendomi verso quello che mi sembrava essere l’edificio della direzione. A causa del mio buon udito, non riuscii a non sentire i commenti. Fra le ragazze prevaleva l’invidia, del tipo “Avrebbe potuto evitare la maglietta scollata!”, o anche dei meno gentili “Chi cazzo è questa stronza con una Chanel da ottocento dollari?!”. Fra i ragazzi prevalevano le porcate, e fui molto felice del fatto che mio padre sarebbe arrivato solo dopo qualche minuto.

Entrai in segreteria come un fulmine, e le impiegate si voltarono chiedendosi cosa avesse prodotto quella folata di vento. OpsRenesmee vai piano. Andai verso una signora visibilmente sovrappeso, con troppo mascara e uno smalto rosa che sembrava essere rimasto su quelle unghie da troppo tempo. Mi accolse con un sorriso un po’ timoroso, anche se cordiale: come diceva mia madre, dovevo sembrare molto simile a una divinità a spasso tra i mortali, concetto non molto lontano dalla verità.

-Salve, sono Renesmee Cullen. Volevo chiederle se aveva ricevuto il mio modulo da Forks.-

La signora accolse il mio nome con innocente ignoranza, d’altronde capita se hai un nome unico al mondo: -René che?-

Mi armai di pazienza. – R-e-n-e-s-m-e-e! –

Lei si illuminò.-Ma certo gioia! Eccoti! La tua classe è la prima d. Non ti preoccupare, anche loro sono nuovi!- Mi fece l’occhiolino come per augurarmi buona fortuna, m tanto sapevo che tutti si sarebbero conosciuti comunque. In una cittadina grande poco più di Forks, quante possibilità c’erano di fare nuove conoscenze? Uscii dalla segreteria e entrai subito nell’edificio scolastico, che era un cubo triste e bianco, dalle pareti scrostate e ingrigite. Il contrasto con le mie precedenti aule, che erano sin ora state il salotto di casa Cullen, un giardino inondato di sole e ben curato, o un tavolo d’epoca di fine settecento, era più che lampante. Dentro non era molto meglio, ogni cosa era sulla tonalità del grigio, il massimo del colore era lo zoccolo dei muri, un celeste sbiadito: non che fosse una di quelle scuole da telefilm su ragazzi sbandati, era solo molto…squallida. L’odore era intenso, persistente. C’era sudore (tanto e rivoltevele), polvere, un po’ di gas di scarico che entrava dall’esterno, detergente per pavimenti (molto poco, constatai con disappunto). E poi c’era l’odore del sangue, ovviamente, che copriva tutto: mi chiesi come avrebbero fatto i miei a resistere, perché io potevo avere solo la vaga percezione di ciò che provava un vampiro vero in un posto del genere.

Ma d’un tratto, giunse un altro odore, un odore che conoscevo molto bene.

Era dolce, irresistibile, penetrante, cristallino.

L’odore del vampiro.

Ma la cosa che mi sconcertò fu che quell’odore non lo conoscevo, non era nel mio repertorio. Avrei riconosciuto tra mille le fragranze di mia madre e di mio padre, dei miei zii, dei miei nonni, dei componenti del clan di Tanya, delle amazzoni, di Nahuel. Quello era nuovo. Si confondeva in quel marasma di odori, e il mio olfatto imperfetto non riusciva bene a capire, a classificarlo, non riuscivo nemmeno a capire di preciso da dove venisse. Ero totalmente disorientata. Un vampiro che non era della mia famiglia era lì, quasi certamente nella scuola. Pensai rapidamente a quante probabilità ci fossero che fossimo capitati in una cittadina da diecimila abitanti in cui già abitava un’altra famiglia di vegetariani. Era quasi impossibile.

La campana mi risvegliò, dovevo andare. Forse sarebbe stato meglio avvisare i miei, ma poi ci ripensai: sarebbero arrivati a momenti, e al contrario di me sarebbero riusciti a capire qualcosa di più, grazie ai loro sensi più sviluppati. Io intanto sarei andata in classe e poi li avrei cercati per sapere qualcosa di più.

Questa storia mi spaventava.  Se ci fosse stato qualche altro vampiro in città lo avremmo scoperto, oppure lo avremmo saputo da subito. Non eravamo in molti, e solitamente quando un vampiro ne incontra altri, o sa della loro esistenza nei paraggi, non esita ad andare a incontrarli. Perché un vampiro non avrebbe dovuto presentarsi? Gli unici vampiri veramente ostili che avevo conosciuto erano i Volturi. Mi venne un brivido al solo ricordo della scena più cupa e spaventosa della mia infanzia.

Avrei voluto avere Jacob lì con me, sentire la sua mano calda passarmi tra i capelli, sentire la sua voce che mi diceva di non avere paura, il calore inusuale della sua pelle.

Jacob mi avrebbe rassicurata, e in quel momento lo avrei voluto lì.

Mi affrettai verso l’aula, disturbata dalla presenza del vampiro sconosciuto e dalla piega che i miei stessi pensieri avevano preso.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Inaspettato ***


4

Ciao gente! Rieccomi…prima del nuovo capitolo volevo ringraziare un casino Kylebroflowsky81, Gengi e Annuxiaaa per aver inserito la fan fic tra i preferiti, siete dei tesori! Ovviamente grazie mille anche a tutti gli altri che leggono, mi fa davvero molto piacere. Una preghierina: commentateeeeee! Please, confido in voi!

Un bacione a tutti, Giuls.

 

 

 

La lezione era stata noiosa, come previsto. Avevo avuto storia: la signora Russel era una professoressa poco appassionata e con tanta voglia di andare a casa a curare il suo giardino o a guardarsi una soap, a giudicare da come scrutava l’orologio con insistenza. Si dilungò in una noiosa e inutile spiegazione di quello che era lo studio della storia, del bisogno dell’uomo di conoscere il proprio passato e del suo metodo di giudizio per i compiti in classe. Il sacro e il profano, si direbbe. I miei compagni erano esattamente come li immaginavo, e ovviamente si conoscevano tutti. Alcuni avevano malauguratamente assistito al mio arrivo e mi guardavano con curiosità morbosa, ma nessuno osò avvicinarsi, forse perché ero totalmente assorta. La mia mente vagava, mentre il mio olfatto cercava di scoprire dove fosse lo sconosciuto, a cui in ogni caso ero un po’ grata: se non ci fosse stato il pensiero del vampiro, nella mia testa, molto probabilmente gli sguardi degli altri ragazzi mi avrebbero mandata fuori di testa.

Un punto a favore per il vampiro misterioso.

Quando la campana suonò, subito presi le mie cose e feci per uscire dall’aula: dovevo vedere i miei al più presto, e già avevo riconosciuto l’odore di mia madre da un’aula poco lontana. Ma proprio mentre stavo per uscire, mi si parò davanti una cosina piccola che istintivamente mi ricordò Alice. Era in classe con me, l’avevo intravista, ma non le avevo prestato attenzione. Era bassa, minuta, senza fianchi e con poco seno, e aveva le proporzioni ancora un po’ sgraziate di una ragazzina, accentuate dai capelli scuri, che portava lunghi e con la riga in mezzo, appunto come una bambina. Mi osservava dal basso, con un sorriso gentile stampato in faccia. Mi faceva tanta tenerezza, e il suo sorriso era caldo e amorevole. Oltre che Alice mi ricordò anche Esme, non che avessi conosciuto tante altre persone nella mia vita, dopotutto. Mentre io la fissavo, nel modo in cui probabilmente tutti gli altri scrutavano me, lei esordì, con una voce piccola e un po’ roca, quasi incerta.

-Ciao!- mi porse la mano, cercando di capire con lo sguardo che cosa ne pensassi di lei – Io sono Teresa, piacere di conoscerti!-

Strinsi la sua mano con cura e delicatezza, per evitare di farle del male, mentre lei strinse decisa la mia. Fece una faccia meravigliata sentendo quanto fossi calda.

-Mamma mia! Sei bollente! Comunque insomma….volevo dirti…benvenuta!- Mi guardava dritta in faccia e sapevo che dovevo dire qualcosa, qualcosa di cortese almeno quanto quello che aveva detto lei. Azzardai un ampio sorriso, che probabilmente somigliava più a una smorfia.

-Il piacere è mio!-

Lei si sentì più libera di parlare, dopo aver constatato che non ero di marmo e che ero in grado di spiccicare parola.

-…e ti chiami?-. Giusto, il nome! Dovevo dire come mi chiamavo!

No, il nome no. Ma come diavolo era saltato in testa a mia madre un nome del genere? Insomma, ci sono migliaia di nomi al mondo, perché quello? Ad esempio, Catherine era molto carino. Catherine di Cime Tempestose. O Elizabeth , come Elizabeth di Orgoglio e Pregiudizio. Ma mia madre no, doveva darmi un nome unico. E io ne avrei pagato le conseguenze.

-Mi chiamo Renesmee Cullen-  Lei si lasciò sfuggire un gridolino eccitato. Strana reazione, notai.

-Sei francese?? Ma è bellissimo!- Era veramente eccitata: mi stava considerando ancora più esotica di quanto fossi. Una ragazza nuova, nuova e straniera!

-Ehm, veramente no, sono anche io di qui. E’ che mia madre è sempre stata un po’ “particolare”-. Per un momento dimenticai che pubblicamente mia madre avrebbe dovuto essere morta in un incidente d’auto assieme a mio padre, e che papà sarebbe stato mio fratello. Ma lei non sospettò niente di tutto ciò, e probabilmente immaginò mia madre come una quarantenne ricca e stramba. Così avrebbe trovato una spiegazione anche alle mie stranezze, insomma due piccioni con una fava.

-Oh….figo! I miei mi hanno dato il nome di mia nonna, figurati!- Mi guardava imbronciata, come non le andasse giù che io avessi anche la fortuna di chiamarmi Renesmee. Che sciocca! Mi venne da ridere.

-Ti va di fare cambio? Io Teresa e tu Renesmee?-

Mi guardò soddisfatta per avermi coinvolta nella conversazione.

-Ok, ci sto!- E mi porse di nuovo la mano. Stavolta ridemmo assieme.

-Senti Renesmee…-

-Puoi anche chiamarmi Nessie!-. Il mio nome intero era decisamente troppo formale se veniva pronunciato da Teresa.

-Insomma …Nessie- era visibilmente soddisfatta dalla confidenza che le davo, trapelava anche dalla voce – io sto andando a scienze,con il professor Andrews…scusami ma prima ho sbirciato sul tuo programma e mi chiedevo se non volessi venire con me…- Mi guardava con aria colpevole. Aveva sbirciato il mio programma. Dopotutto non c’era niente di male, poteva anche averlo fatto involontariamente, visto che lo avevo messo in bella vista sull’orlo del banco. Odiavo gli impiccioni, ma c’era qualcosa nella voce timorosa ma allo stesso tempo cristallina di Teresa che faceva sì che non la mandassi al diavolo. Ero tra umani e doveva comportarmi da umana, quindi dovevo darmi ai rapporti inter personali. Stavolta era la mia voce a risultare un po’ esitante.

-Certo…mi fa piacere!- Sul viso di Teresa si lesse la vittoria. Avevo già capito che tipo di persona era: quelle che vedono nell’aiutare il prossimo il trionfo più assoluto che si possa raggiungere, in una parola le crocerossine. Oddio avevo bisogno di una crocerossina, di una specie di badante per affrontare il mondo. Per la seconda volta quella mattina mi ritrovai a fare quel pensiero, e non fu piacevole.

-Perfetto! Amy, vieni qui! Nessie viene con noi!-

Amy. E chi diavolo era Amy? Un’ umana da affrontare era più che abbastanza per il primo giorno, non doveva necessariamente riunire le sue conoscenza.

Amy arrivò all’istante, stava evidentemente seguendo la conversazione da lontano. Era l’esatto opposto dell’amica: alta, bionda, prosperosa, dai lineamenti deliziosi, anche se decisi. La bella della classe. Me esclusa, pensai con un po’ di superbia. E a lei la cosa non sembrava andare a genio. Eravamo alte all’incirca uguali, e mi fissava negli occhi senza alcuna inibizione. Al contrario di Teresa, Amy non mi ispirò alcuna tenerezza: sono sempre stata molto competitiva, e anche scorretta, dato che mi è sempre piaciuto dimostrare chi è che comanda. Fissare paletti.

E l’atteggiamento altezzoso di Amy mi irritava.

Sfoderai il mio sorriso migliore.

-Piacere di conoscerti Amy.- Le diedi la mano con un movimento fluido, il più aggraziato possibile. Anche Teresa ne rimase colpita.

Amy mi porse la sua e mormorò il suo nome. Davvero non capivo come loro due potessero essere amiche. Teresa interruppe le mie considerazioni.

-Bene, possiamo andare! Non sono sicura di dove sia la nostra aula di scienze, quindi sbrighiamoci.-

La piccoletta prese un piglio da generale e iniziò a condurci fuori. Solo allora mi ricordai del profumo e del vampiro sconosciuto, perché uscendo in corridoio lo sentii, più forte che mai.

Era passato di là, ne ero certa. Sentivo anche le scie dei componenti della mia famiglia: sentivo mia madre, mio padre, Jasper, e da lontano anche Emmett. Lo avevano incontrato? Probabilmente sì, se nessuno si era preoccupato di venirmi a parlare. Ma dov’era il vampiro? Lo sentivo, era vicino, ma il mio olfatto non riusciva a identificarlo del tutto. Maledissi gli odori degli umani, così forti e persistenti da coprire quello del vampiro. Dovevo capire chi diavolo era.

Indifferente alla mia evidente agitazione, Teresa decise che era venuto il momento dell’interrogatorio di rito, proprio quando ero così distratta da sentire a malapena le sue chiacchiere.

-Allora Nessie…non sei francese ma sei comunque nuova. Da dove vieni?-

Maledizione l’odore sfuggiva, si perdeva, a volte c’era, a volte no, era come se facesse apposta.

-Sì io vengo da…..-

Mi interruppi.

-….da?-

Eccolo.

-Da Forks.- Mi ricordai appena di risponderle, prima di schizzare verso di lui.

Era il vampiro.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Benji ***


5

5

Lo vedevo, vedevo la sua sagoma dietro all’anta dell’armadietto in cui stava riponendo dei libri. Stavolta sentivo il suo odore, preciso e distinto. Era un vampiro, sapeva di legno di betulla e di aria di mare, un sentore freddo e avvolgente, inconfondibile. Non sembrava rendersi conto della mia presenza dall’altra parte del corridoio, fino a quando, inaspettatamente, non si voltò.

Era bello.

Il volto scavato nella pietra, i lineamenti assurdamente definiti. Le sopracciglia lineari e decise davano al suo volto un’espressione concentrata e decisa; le labbra, piene per un ragazzo, erano però strette in una morsa di risoluzione e forza. I capelli corti, castani, non erano per niente a posto, la frangia era persa chissà dove. Il naso preciso mi ricordò le opere antiche di Fidia, e divideva il suo viso perfetto in due metà simmetriche, che terminavano nel mento preciso, che mi fece ancora venire in mente un frontone greco. Fu allora che mi accorsi degli occhi, su cui non mi ero, chissà perché, soffermata subito, al contrario di quanto sarebbe stato saggio fare. Erano cavità nere, incorniciate dalle profonde occhiaie, piene di cautela e dubbio, ma non erano rossi. Dunque era come noi, vegetariano, anche se controllando meglio, da ogni movimento del suo corpo potevo scorgere l’infinito sforzo in cui si dibatteva. Mi ricordò Jasper, anche se lo sconosciuto sembrava incontrare ancora più difficoltà di mio zio nel dominare il suo istinto, nella disperata ricerca di ignorare il richiamo della sete.

Mi sentii bruttina.

Lo sconosciuto mi osservava con curiosità e sospetto: aveva probabilmente solo una vaga idea di cosa potessi essere. Una vampira che sapeva di essere umano, ma che non faceva venire sete e a cui batteva il cuore. Classificarmi come “strana” sarebbe stato troppo semplicistico. Di fronte al suo sguardo improvvisamente mi accorsi che non avevo assolutamente pensato a che cosa avrei fatto una volta che avessi incontrato lo sconosciuto.

Renesmee sei una frana.

Che diavolo potevo fare? Andare via? Parlargli? Ma che gli dicevo? “Ehi amico, sai che anche io mi cibo di grizzly?” .

Ancora una volta, mi ritrovai a odiare Amy. Si fece avanti tutta contenta e andò a parlare nell’orecchio a Teresa. Pure maleducata, non ne aveva una giusta. Evidentemente pensava di nascondermi le sue magre elucubrazioni allontanandosi da me di due metri, ma il mio udito poteva fare anche di meglio.

-Hai visto il figo di fianco al mio armadietto?- sussurrò a Teresa tutta eccitata – andiamo a prendere il libro di chimica…-. Teresa rise soddisfatta. Non riuscivo ancora a inquadrarla bene come persona, non capivo se era più simile a Amy di quanto pensassi, purtroppo.

La nana si rivolse a me, con un’aria maliziosa che mi ricordò troppo quella che stava sul viso di Amy.

-Andiamo a prendere una cosa…- esitò un momento –Lo conosci?-.

-Chi, scusa?-. Era ovvio a chi si riferiva, potevo evitare quella scena. E infatti Teresa scoppiò in una risata sincera.

-Ma come chi? Lo fissi da un’ora!- Di nuovo aveva l’aria irrequieta. Certo anche io avevo degli ormoni, ma non avevo mai lasciato che si impossessassero di me in quel modo. Esisteva una cosa chiamata autocontrollo, e non sarebbe stato male se quelle due ne avessero un po’ approfondito la conoscenza. Ripresi il controllo.

-Ah, quello là- non mi trattenetti dal fare un cenno, che lui notò. Non seppi interpretare la sua reazione: c’era circospezione, c’era curiosità e c’era….soddisfazione? E di cosa?

- No, non so chi sia- Il suo volto si distese. Era evidente che poteva sentire, forte e chiara, ogni parola della nostra conversazione, sebbene ci dividesse il lungo corridoio.

Per la seconda volta mi sentii insignificante di fronte allo sconosciuto. La mia fronte non era abbastanza perfetta, il mio naso non abbastanza preciso, le mie labbra troppo poco tornite.

Amy cominciò ad avviarsi con passo deciso verso l’armadietto, seguita a ruota da Teresa, che mi teneva saldamente per il braccio: anche lei era riuscita a capire che non sapevo che fare davanti a quel tipo, fraintendendo completamente i motivi. Probabilmente pensava che mi piacesse da impazzire e che non sapessi come comportarmi, e in effetti non sapevo assolutamente che dire o che fare. Ripensai alla mia famiglia, non sapevo dov’erano, perché non mi avevano raggiunto, mentre nel frattempo suonava la seconda campana. Avremmo dovuto essere in classe, ma Amy aveva gli occhi fissi sulla preda. Risi al pensiero di un vampiro preda delle attenzioni di Amy.

Eccolo, lo avevo davanti a me. Ci guardava divertito mentre ci avvicinavamo, e in effetti lo capivo, perché eravamo davvero uno strano trio, totalmente scombinato. Amy andò ad aprire l’armadietto, con Teresa alle spalle. Io non ero riuscita a divincolarmi, ma mi tenevo alla massima distanza consentita dalla lunghezza del mio braccio.

Calmati Renesmee.

Nello stesso momento in cui lo pensai, i suoi occhi mi percorso dal basso verso l’alto, con interesse e curiosità, ed ebbi di nuovo la sensazione di essere fuori luogo.

Amy non apprezzò la cosa, e per riportare l’attenzione su di sé fece cadere la bottiglietta d’acqua che aveva appoggiato. Il liquido si versò sul pavimento, bagnando le scarpe al vampiro. Non ero sicuramente un’esperta negli approcci degli umani, ma riuscivo a capire anche io che la cosa non era andata nel verso che Amy si proponeva: voleva distoglierlo da me, non bagnarlo. Si affrettò a prodigarsi nelle scuse, felice di avere l’occasione per parlargli.

-Oddio scusa!! Non volevo! Ti ho bagnato molto?- La sua voce era modificata, quasi in falsetto, e si sforzava di essere più acuta e femminile di quanto già fosse. Lui sembrò notarlo, era contemporaneamente divertito e contrariato.

Fu allora che sentii la sua voce.

-No, tranquilla-

Era profonda, antica, temprata. La voce che di solito hanno agli attori degli anni ’50, assolutamente misurata, non trapelava niente. Amy e Teresa ne rimasero colpite e confuse quanto me, e per una volta le capii: sebbene fossi un’ottima osservatrice, quella voce era un enigma, non sapevo quale pensiero potesse nascondersi dietro. Ma nonostante l’attimo di confusione, Amy tirò dritto. Si poteva dire tutto di lei, ma non che fosse un’insicura.

-Per fortuna! Ancora scusa…- sorrise, nel più ammiccante dei modi possibili – Io sono Amy Stevenson, piacere di conoscerti!-. Di nuovo il sorriso. Le avrei pinzato le labbra.

Lui la guardava con lo stesso interesse con cui si seziona una rana, ma Amy non sembrava rendersene conto, da come lo fissava rapita. Lei gli porse la mano con foga, lui gliela strinse piano, con attenzione, e ancora una volta Amy fraintese la delicatezza del vampiro.

-Io sono Benjamin, piacere mio.- Non che tradisse alcuna emozione che rasentasse il “piacere”.

-oh, Ben…sei anche tu al primo anno?- Addirittura il diminutivo. Dovevo trovare qualcun’altro con cui andare in giro, prima di perdere il controllo e fare lo scalpo a Amy.

-No, sono al secondo. Scusami ma ho lezione…e penso anche tu.-

Amy rimase un po’ confusa di fronte a quell’abbandono di campo così repentino.

-Certo! A presto Benji!-

La sua smorfia stavolta fu inconfondibile, anche io risi apertamente. “Benji”? Ma cos’era, un cane?

-…si…a presto- Era turbato da tanta confidenza, gli occhi neri pieni di bisogno represso. Avrebbe volentieri rotto il digiuno, glielo leggevo in faccia.

Amy si voltò soddisfatta della sua performance, e Teresa ovviamente la seguì, liberandomi dalla presa, per andare a ridacchiare assieme a lei. Davvero non la capivo.

Ero da sola. Momento propizio, potevo parlare con lui. Ma non sapevo che fare, la mia mente era bloccata, la lingua non mi si muoveva, soltanto mi arricciavo aritmicamente un boccolo. Lui era girato, ma si accorse subito di me. Si voltò e mi venne incontro.

Era così strano.

Certo, era bello, molto bello, anche per un vampiro. Ma c’era qualcosa in lui che mi disturbava, quasi ad ammonirmi di non fidarmi troppo di quello sconosciuto. Forse era la sua aria un po’ selvatica, incredibilmente repressa, oppure era il suo sguardo distante e calcolatore, o forse ancora la linea asciutta e decisa delle sopracciglia.

Il mio cuore cominciò a battere, quasi di paura.

-Ho incontrato il tuo clan, Renesmee-

Si rivolse a me con la stessa voce risoluta e affascinante, solo molto più espressiva. Non voleva spaventarmi, al contrario di quanto stessi provando nel vederlo avvicinarsi. Si avvicinò un po’ di più, e fummo faccia a faccia. Era alto, almeno quindici centimetri più di me.

Mi osservava curioso, e credo che anche io stessi facendo lo stesso.

-Somigli a tuo padre.-

Diavolo dovevo dire qualcosa, non poteva parlare solo lui. Ma avevo la voce ancora bloccata. Decisi di andare sul banale, niente sarcasmo o ironia stile Renesmee, non ne sarei stata in grado.

-Chi sei?-

Lui rise forte, nel corridoio ormai vuoto. Era tardi, e sarei arrivata in ritardo a lezione, ma in quel momento me ne importava fino a un certo punto.

-Ma come chi sono? L’ho detto alla tua amica, mi chiamo Benjamin- Mi guardava divertito, evidentemente ero un soggetto facile da prendere in giro. Ah ah, divertente.

-Intendo dire…tu sei un….- indugiai: la parola vampiro pronunciata in un edificio di una piccola cittadina anonima non mi usciva molto naturale – un…- . Lui mi capì e sorrise malizioso.

-Certo che sono un vampiro- Pronunciò quelle parole a voce più alta di quanto mai avrei fatto io, e la mia reazione istantanea fu di guardarmi attorno con sospetto.

-Cosa pensavi che fossi, scusa?- Era davvero divertito.

Maledizione maledizione maledizione.

-Bè….sai volevo essere sicura- Mi uscì un soffio di voce. Quel tipo mi metteva in imbarazzo, ed eravamo soli in corridoio, a discorrere della sua natura. Quasi mi mancava Amy.

- Già, ci si può confondere, visti quanti siamo.- Era a un passo dal ridermi in faccia, e io ero sconvolta. Da tutta la mia famiglia, da tutti coloro che mi amano ho sempre avuto rispetto e adorazione, nessuno si è mai permesso di non prendermi sul serio.

E’ una cosa che mi manda in bestia. E ora arriva questo tizio a farmi passare per scema.

-Problemi?- Mi rivolse un ampio sorriso, incredibilmente bello e luminoso.

Arriva questo tizio a farmi sentire una scema e a farmi sentire bruttina.

Ma a che gioco stava giocando? O ero solo io a confondere me stessa?

-NO!- La voce uscì da sola, troppo forte.

Sbuffò e sorrise.- Sai credo che dovremmo davvero andare in classe. Ci rivedremo presto., tuo zio mi ha proposto una partita a baseball e vedi io adoro lo sport.- Di nuovo mi rivolse un sorriso.

-Aspetta un minuto! Ma chi sei??- Adesso mi stavo incazzando. Uno sconosciuto parla con la mia famiglia, fanno amicizia, ci manca solo si scambino cesti di benvenuto, e io non so ancora chi diavolo è questo tizio che mi prende per il culo. Avrei preso a botte qualcuno, preferibilmente lui.

-Ma te l’ho appena detto!-

rBrutto idiota, certo che avevo sentito come ti chiamavi.

-Intendevo- faccio un respiro profondo per non tentare di rompergli il naso – che ci fai qui.-

Lui mi guarda come se fossi scema, come se chiedessi di che colore è il cavallo bianco di Napoleone.

-Vado a scuola-

Stavo per rinunciarci. Ma perché tutto quel mistero? Stavo tornando in me, mano a mano che ci prendevo la mano sui suoi atteggiamenti. A quanto pare, Benjamin era un tipo strambo, riservato e sadico, per cui conoscevo bene il campo su cui giocava. Era il mio.

-Già….sai non avevo notato- Mi guardò, nemmeno un po’ stupito per il mio cambio di atteggiamento.

-Cerchi di fare del sarcasmo?- Era ancora più divertito di prima.

-Cerchi di farmi incazzare?-

-No- Era assolutamente tranquillo, sempre con la stessa maledettissima espressione divertita. Gliel’avrei tolta a pugni.

-Allora siamo d’accordo-

-Certo-

Non si andava da nessuna parte, dovevo essere ancora più chiara.

-Senti, mettiamola così. Non ho intenzione di andarmene finchè non avrai raccontato anche a me quello che hai detto alla mia famiglia- Adesso ero arrabbiata davvero, sentivo la faccia tutta rossa e calda e le sopracciglia tese. Lui rimase esattamente come prima.

-Dovrei farlo?-

-Ti conviene- quasi mi scappò un ringhio, ma fortunatamente uscì solo un gorgoglio cavernoso. Per la prima volta, il vampiro si stupì.

- Ok. Saltiamo l’ora?-

-Eh?-

Rise di gusto. –Se salti l’ora il primo giorno di scuola, magari i tuoi si arrabbiano.-

Ma per chi mi aveva preso questo? Mio padre che mi diceva quanto fosse importante andare a tutte le lezioni, almeno la prima volta, era l’ultimo dei miei pensieri. E volevo capire chi fosse quel tipo.

-Muoviti, alla prossima ora ho francese.-

Lui mi sorrise e mi seguì.

Benjamin mi inquietava, decisamente.         

r

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Incomprensibile ***


6

Rieccomi!! Scusate se il capitolo cinque era scritto in piccolo ma ho fatto i miei soliti danni con il computer…

Volevo solo ringraziare Padfoot e Isibiri per i preferiti, grazie mille!!! E grazie anche a Kyle (ma sì, passiamo ai diminutivi XD) per i commenti sempre stra gentili e che mi fanno morire dal ridere (riguardo alla Mini, credo che Renesmee sia un po’ tamarra…però ci stava XD)

A presto,

Giuls

 

 

 

Sin da bambina, avevo sempre adorato qualsiasi cosa fosse pericolosa. Forse per la mia natura a metà tra l’indistruttibile e il fragile, l’idea di poter provare cose che avrebbero ucciso una persona normale ma che avrebbero solo scalfito me mi era sempre piaciuta. La trovavo piuttosto esaltante. L’unico aspetto negativo era che le possibilità di divertimento, nel mio hobby, finivano in fretta. La caccia era un passatempo divertente, se sceglievi le prede giuste, ma non c’era animale abbastanza forte da costituire un avversario all’altezza. Di divertirsi un po’ con un membro della mia famiglia, quello poi era fuori discussione: solo Emmett a volte giocava con me, ma finiva sempre per farmi da punching ball, visto che aveva troppa paura della reazione di Rose se avesse scoperto che lui faceva a botte con me. Quando ebbi la patente, mi diedi alle auto veloci, ma anche se mi ero schiantata un paio di volte, non mi ero mai fatta niente. E visti i precedenti, i miei si erano categoricamente rifiutati di comprarmi di nuovo una Maserati, dopo che avevo messo fuori gioco la seconda coupé acciambellandola attorno a un abete secolare a Forks.

Era un periodo un po’ fiacco.

E mentre vagavo con Benjamin per la scuola, cercando un’aula vuota dove metterci a parlare, ero stranamente eccitata, come quando andavo a caccia dopo un periodo di sete. Anche la gola mi pareva più secca, ma cercai di non pensarci. Benjamin era lì di fianco a me, non proferiva parola e mi seguiva da vicino. Non sentivo il suo respiro. Il sangue doveva disturbarlo molto. Per un momento ebbi pena per lui.

Entrammo in un laboratorio vuoto in fondo a un corridoio, le luci erano spente e le veneziane abbassate, la penombra avrebbe impedito a qualcuno di vederci, ma per noi sarebbe stato esattamente come essere alla luce. Mi sedetti su un banco, mentre Benjamin rimase in piedi, dopo essersi chiuso la porta alle spalle. Avanzò piano verso di me, a velocità umana, i suoi muscoli sempre tesi dallo sforzo che gli comportava l’autocontrollo. La maglietta che aveva sotto la felpa leggere lasciava intuire una muscolatura robusta ma leggera, come quella dei nuotatori, e mi chiesi se da umano non fosse stato un campione dei cento stile. Mentre mi chiedevo chi fosse stato, mi ricordai di quello che dovevo fare. Sapere.

Ma lui non aveva intenzione di parlare, sicuramente. Se ne stava in piedi a guardarmi, con l’aria tornata impassibile, come all’inizio: non respirava e non si muoveva, era una statua nel mezzo dell’aula. Dovevo cominciare io.

-Allora…-

Non sapevo che dire.

-Sbaglio o hai minacciato di aggredirmi poco fa?- Senza il benché minimo movimento, mi rivolse la parola.

-Ehm, diciamo di sì- Ammettilo Renesmee, fai tanti peccatucci, ma l’ira è in assoluto quello che ti manderà all’inferno.

- E adesso non sai che dirmi, dico bene?-

Colpito e affondato. –Diciamo di sì anche a questo.-

-Quindi merito delle scuse?- Mi guardò supplichevole, cercando di fare gli occhi languidi. Ovviamente per quanto possano essere languidi gli occhi di un vampiro. Brutto viscido sconosciuto.

- Certo che non te le meriti!-

-Potresti aver violato la mia sensibilità-

-Ne dubito-

-Hai ragione-

Ma dove voleva arrivare? Sbuffai e mi mossi sul banco, ero innervosita. E oltretutto mi stupiva che qualcuno della mia famiglia non arrivasse lì, nemmeno mio padre, che poteva vedere i miei pensieri. In circostanze normali sarebbero subito accorsi per difendermi dall’eventuale pericolo…e un vampiro sconosciuto era l’apoteosi dell’eventuale pericolo.

Benjamin mi sorrise, stavolta senza nessun ombra di sarcasmo. Era un sorriso bello, che illuminava il viso, tanto da stonare quasi con le espressioni precedenti.

-Tu non hai mai conosciuto molte altre persone, oltre alla tua famiglia, vero?-

-No- Risposi sinceramente.

-Allora ti devo fare imparare.- Si avvicinò lentamente e mi tese la mano.

-Benjamin Asbury, piacere di conoscerti- Mi sorrise ancora. Non mi faceva più molta paura, solo mi incuriosiva.

-Renesmee Cullen-

Rise – Lo sapevo che dovevo farti imparare….devi dire “piacere”, altrimenti penserò da subito che non ti sto simpatico-

Mi prendeva per il culo.

-Sai Benjamin, credo che il concetto che hai appena espresso non sia poi tanto lontano dalla realtà-

Mi scocciavano i suoi atteggiamenti sempre diversi, non potevo prevederlo.

-Cosa vuoi sapere?- Inaspettatamente fu lui a prendere l’iniziativa, e non me la sarei lasciata scappare.

-Cos’hai detto alla mia famiglia?-

-Chi sono.-

-…e?-

- E cosa ci faccio qui.-

-E ti spiacerebbe ripetere la storia per me?-

Lui strinse gli occhi e sbuffò –Renesmee, ho l’impressione di avere già capito che tipo sei-

-Dovrebbe interessarmi?-

- Mi sembri un po’ viziata- Ci mancava solo la morale.

-E da cosa lo hai capito, genio?- Vai così Renesmee, mai farsi mettere i piedi in testa.

- Da come sei stata il primo pensiero di tutti i membri della tua famiglia e…da come hai deliberatamente sequestrato un vampiro, ad esempio, e da come pretendi che questo vampiro se ne stia qui a disposizione del tuo interrogatorio personale, che per inciso non è che un modo di giocare e passare il tempo morto- Aveva un’espressione soddisfatta e un’aria superiore, come un adulto che spiega a una bambina come stanno le cose.

-Sequestrato?-

-Sbaglio o hai appena confessato di avermi condotto qui con la minaccia della forza?-

Brutto infido schifoso.

-Sbaglio o dovresti dirmi chi sei?-

-Le critiche sono costruttive, non te lo hanno mai detto?-

Mi stavo stancando di lui, il suo atteggiamento mi snervava. Mi alzai dal banco, e mi stirai: se non voleva parlare, avrei semplicemente cercato mia madre e le avrei chiesto chi era Benjamin.

-Che fai?- era stupito, alzò un sopracciglio con diffidenza.

-Vado a chiedere a mia madre chi sei-

-Ti sei già stancata di me?- Abbozzò un sorriso canzonatorio.

- Mmm, sì-

-Allora vuol dire che ti dirò chi sono.-

Per quanto mi sforzassi di capirlo, mi era impossibile riuscirci. Lui si sedette sul banco, con un movimento leggero, felino, e chiuse un momento gli occhi. Ancora prima di averli riaperti, mi prese per un braccio e con un gesto estremamente veloce, che quasi non notai, mi face sedere accanto a lui. Riaprì gli occhi.

-Questi umani…- la voce roca, arrancava a fatica lungo la gola riarsa – Mi uccidono-

Pensiero particolare, in bocca a un vampiro. –Mi dispiace-

-Figurati- sospirò brevemente- Sono un vegetariano, come voi. Ma lo sono da poco, troppo poco. E non nascondo di doverci lavorare ancora un po’ sopra, su questa cosa…- Ridemmo assieme. Sembrava un po’ imbarazzato nel parlarmi del suo rapporto con la dieta. Lo capivo da come giocherellava con un braccialetto di cuoio che aveva al polso, un gesto che un vampiro normale in una situazione normale non si sarebbe mai sognato di fare.

-Vengo dalla costa Est, mi sono spostato perché là c’è troppa gente. Troppo cibo, capisci? E non posso andare a caccia senza imbattermi in qualche idiota…mi sono capitati molti incidenti , e ho pensato che forse, in un posto meno popolato mi sarebbe andata meglio.-

Benjamin guardava dritto di fronte a sé, non si voltò a guardarmi quando finì di parlare.

-Ma scusa…se hai tanti problemi, perché sei in una scuola? E’ pericoloso!-

Ero rimasta molto colpita da quello che aveva detto, mi era sembrato davvero sincero, davvero turbato per la sua situazione. Stranamente umano.

-Se sto da solo…diciamo che non do il meglio di me stesso-

Stavolta si voltò a guardarmi. I suoi occhi erano più profondi che mai, pieni di supplica, come se dovesse scusarsi per qualcosa. Improvvisamente mi sentii disarmata.

-Capisco-

Rise amaramente –Spero per te di no- Di nuovo guardava dritto di fronte a sé, quasi stesse ragionando con stesso. Anche il tono della voce era molto basso, un sussurro che l’udito di un umano non avrebbe saputo distinguere. Mi sentii in dovere di cambiare argomento, perché non sapevo davvero che dirgli, non sapevo se rassicurarlo, o rincuorarlo, o invece invitarlo ad andarsene, evitando di mettere in pericolo degli umani per un suo egoismo. L’unica reazione di cui fui capace fu rompere il silenzio che era calato.

-E dunque…abiti in qui in città, giusto?- Esitai un momento, temevo quasi di intromettermi nel suo silenzio. Ma al contrario di quanto pensassi, sembrò quasi sollevato.

-Sì, nei quartieri d’epoca-

-Bello- ero quasi invidiosa del fatto che abitasse in città, lui- e non ti d fastidio stare a così stretto contatto con gli umani anche durante il resto del giorno?-

Si mise a  ridere forte –Ottima domanda!- mi guardò di sbieco un momento, prima di tornare a fissare la porta davanti a sé – Non ne ho assolutamente idea.-

-Ma come?!- A che diavolo gli serviva una casa se non ci viveva?

-Sono arrivato oggi, in realtà so solo dov’è casa mia- Si voltò verso di me, gli occhi profondi mi fissavano con intensità, e avevo come l’impressione che stesse pensando ad altro.

-Non credo che alla fine ci “abiterò” più di tanto…più che altro sarà parte della scena in cui reciterò,non so se mi capisci-

Feci una smorfia e inarcai le sopracciglia. Non potevo dire esattamente la stessa cosa, per me era diverso: la mia era una sorta di vita nel vero senso della parola, perché per metà ero umana.

-Veramente no.- Non sapevo se parlare o meno. Ma poter raccontare di me a qualcuno che non conoscessi da quando ero nata, apertamente e del tutto liberamente, era una cosa che non mi era mai successa prima. Una vera occasione irripetibile. E del resto anche Benjamin alla fine mi aveva raccontato qualcosa di lui, in realtà davvero troppo poco per potermi fidare davvero, ma avevo voglia di raccontare. – Vedi, io non sono del tutto una vampira.-

-Il tuo cuore batte- La sua espressione, stranamente, ritornò per un momento quella ostile e impenetrabile che aveva quando lo avevo incontrato con Amy e Teresa.

Esitai –Sì-

-Ma sei immortale-

-Sì. Mio padre è davvero mio padre, non è il mio creatore. E mia madre è davvero mia madre-

Lui era confuso, ma non stupito. Si vedeva che gli dava fastidio non cogliere le sfumature del mio racconto.

-Ma come diavolo è possibile?-

-Sono nata quando mia madre era ancora umana.-

-Wow-

Wow? Che diavolo di reazione era “wow”? Insomma, ero l’essere più speciale tra tutti gli esseri speciali in circolazione sulla terra, e sinceramente mi aspettavo qualcosa di più di un sopracciglio alzato e di un’esclamazione poco convinta. Restai a bocca aperta, e questo fu motivo di una risata bassa da parte sua.

- Qual è il problema?- aveva ancora il sorriso sulle labbra.

- …mi aspettavo un’altra reazione- In realtà non sapevo nemmeno io cosa mi aspettavo…solo forse un po’ più di stupore. Quel tipo mi faceva sentire così invisibile e ordinaria come mai avevo provato prima: i miei parenti erano sbalorditi da qualsiasi cosa facessi, senza un vero motivo logico, e gli umani erano stupiti dal mio aspetto. Nessuno era mai stato tanto freddo, in ogni senso, davanti a me. O Benjamin era Buddha, e aveva una specie di auto controllo frutto di secoli di meditazione all’ombra di un albero di gingko, oppure ( opzione molto più probabile) dovevo dare una ripassatina alla concezione che avevo di me stessa.

- Devo strapparmi i capelli o preferisci uno svenimento simulato?-

- Senti, ma perché non rinunci a fare il simpatico?-

- Non lo sono?- Gli avrei tolto quell’espressione da scemo con uno scalpello e lui mi veniva a chiedere se non lo trovavo simpatico. In quel momento mi venne anche in mente che aveva menzionato una fantomatica partita a baseball quel pomeriggio…sì, avrei sicuramente mirato basso, quando sarebbe venuto il mio turno al lancio. Il piano si delineava già nella mia mente frustrata dallo stress a cui Benjamin mi sottoponeva. L’immagine di lui che si rotolava nella polvere dopo che un mio lancio lo aveva colpito in pieno fu l’unica cosa che mi impedì di prendere la porta e andarmene senza nemmeno salutare.

- Benjamin-

- Dimmi-

- Facciamo che adesso ognuno se ne va per la sua strada. Più o meno mi sento più tranquilla.- In effetti era vero. Il mio scopo primario era sapere chi fosse lo sconosciuto, dopotutto. E ora lo sapevo: non era un pericolo e non avrebbe rappresentato una minaccia per la mia famiglia. Era solo uno scocciatore troppo bello e con la malsana abitudine di fare sarcasmo su qualsiasi cosa. 

-Non ti piace stare in compagnia?- Se, ti piacerebbe.

-Diciamo che non mi piace la tua compagnia, è diverso- Lui non si mostrò particolarmente offeso, solo riprese la sua espressione distante e controllata. Mi stupì come i suoi stati d’animo riuscissero a cambiare così precisamente e velocemente, quasi fossero del tutto controllati. Si alzò dal banco e mi si avvicinò, tendendomi ancora la mano.

-E’ stato un piacere, Renesmee.- Misi la mia mano nella sua, gelida e dura. Anche la mia temperatura, più alta di quella di un’umano, non lo aveva stupito.

-Anche per me-

-Non lo avrei mai detto- Le sue labbra modellarono un sorriso bieco e amaro. Forse ero stata un po’ cattiva: la mia prima conoscenza e già la trattavo come una pezza. Almeno pensai di adottare un trattamento paritario, riservandolo anche a Amy. Decisi allora di rivolgergli un sorriso che non fosse una smorfia, perché mi sembrò davvero ingiusto detestarlo così tanto ora che sapevo che non aveva nessuna intenzione malvagia.

Per la prima volta il suo viso mutò in un’espressione sincera, dettata dal trasporto. Me ne accorsi perché durò solo un momento. I suoi occhi si fecero come un po’ più grandi, le labbra si dischiusero leggermente. In quel momento mi sembrò davvero bellissimo, come una giornata di sole in un posto in cui piove sempre. Ma se ne andò subito, proprio le giornate soleggiate nei luoghi piovosi. Non rispose al mio sorriso, solo si avviò verso la porta e aprendola si voltò verso di me velocemente.

-Ci vediamo Renesmee-

-Mpf- Niente, nemmeno il tempo di rispondere e se n’era andato.

 

Io non riuscivo a capire Benjamin Asbury.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Attenta ***


7

Ciao a tutti! Nuovo capitolo…di passaggio, diciamo, e avrà un senso vero solo fra molto tempo (tipo alla fine della storia, se riesco ad arrivarci XD). Grazie per i preferiti a Numby, Silvia 15 e Persephone 1981, davvero grazie mille!

Numby : attooooori OçO (presente il tono di Homer quando pensa alle ciambelle? XD). Vorrei troppo andare a Volterra, sarei troppo curiosa, giuro! Per le frasi corte, grazie, e io che pensavo fossero un handicap! ^^

Kylebroflwsky81: seee….diciamo che c’è alchimia, giusto. Però non so ancora fino a che punto, uffa!

 

 

Rimasi da sola nella stanza, e mi era rimasto del tempo libero prima della prossima lezione. Ero rimasta con Benjamin solo per venti minuti.

Per fortuna mi ero portata in borsa un libro, perché pensavo mi sarei annoiata a scuola. Stavo leggendo 1981 di Joyce.

La lettura non mi aiutò a distrarmi, forse perché il libro in sé non favoriva per niente il riposo e la quiete. Potevo anche immaginarlo, avrei potuto mettere in borsa le poesie giapponesi di Basho. Ero ancora nervosa, anche se se n’era andato.Anzi, il nervosismo che provavo mentre lui era lì con me era diverso da quello che provavo dopo. Mentre lui mi raccontava di sé e mi spiegava chi era, mi ero sentita tutto sommato sollevata e soddisfatta da quelle riposte. Ma ora, mentre cercavo di concentrarmi sulla lettura, capii che non sapevo ancora un bel niente di lui. Cercai di concentrarmi sulla musica, presi l’i-pod  e scelsi Night and Day di Billy Holiday. Di solito mi perdevo nelle note di quella canzone, gli affari della realtà venivano spazzati via dalla voce morbida e triste di quella cantante geniale. Ma oggi, ascoltandola mi venivano in mente solo altri dubbi.

Ad esempio, come mai nessuno dei miei era ancora venuto da me? Era molto strano. Li conoscevo bene, e non avrebbero mai permesso che uno sconosciuto, anche se apparentemente innocuo e non animato da alcuna cattiva intenzione, si avvicinasse così a me. Mi venne un po’ di panico: cercai con foga il loro odore all’interno o nei pressi della scuola. C’erano tutti. Anche Jacob, e nemmeno lui era venuto da me.

Cominciavo a sentirmi un po’ offesa, a dirla tutta. Offesa e abbandonata. E pure bruttina, stramaledettissimo Benjamin, lui e quel suo profilo. Per ammazzare il tempo decisi di rifarmi il trucco, non che ne avessi bisogno, ma era sempre meglio che perdere tempo a farsi dei complessi inutili. Presi lo specchietto con gli Swarovsky ( sempre un regalino di Alice) e mi diedi qualche altra mano di mascara, stesi di nuovo il fard che se n’era già un po’ andato e esplorai la mia pelle alla ricerca di imperfezioni. Come sempre non ce n’erano. Alla faccia tua Amy.

Visto che ormai l’ora era finita, se nessuno si faceva vivo, decisi di ricordargli io in persona della mia esistenza sulla faccia della terra. Presi la borsa e uscii in corridoio, annusando l’aria alla ricerca dell’odore di qualcuno. I più vicini erano Jasper,Alice, Emmett e Rosalie, ma avevo intenzione di parlare con mia madre e mio padre. Sentii il loro odore che si perdeva all’esterno: erano nell’altro edificio, e c’era anche Jacob con loro. La cosa era perfetta, dato che la mia prossima lezione era nel laboratorio di francese, proprio nell’edificio B. La campana suonò mentre mi avviavo verso il portone d’entrata, così che riuscii ad uscire evitando la marea di studenti del cambio d’ora. Attraversai il parco che divideva i due edifici, con passo deciso. Ero decisamente di fretta, volevo incontrare quei due disgraziati dei miei, e capire perché Jacob non si era ancora fatto vivo. Finalmente li vidi. Anche loro stavano attraversando il parco, nella mia stessa direzione. Probabilmente avevano sentito il mio odore che si spostava, e veniva in quella direzione. Il loro olfatto era indiscutibilmente più fine del mio. Mamma e papà si tenevano per mano, come sempre, bellissimi e unici. Ogni loro movimento era coordinato, quasi sincronizzato. Erano stupefacenti.

Dietro di loro c’era Jacob, tremante. Tremante? E perché mai?

Appena mi vide da lontano scorsi un largo sorriso sul suo viso, mentre quasi si metteva a correre per raggiungermi. Jacob, Jacob… Era anche colpa sua se a volte mi lasciavo andare a quei comportamenti da diva che tanto odiavo. Avere una persona che non sia tuo padre che ti venera come se fossi una dea mitologica da quando non stai ancora in piedi sulle tue gambe non fa di certo bene all’equilibrio di una ragazza.

Anche i miei sorridevano, in sincronia. Mia madre mi fu addosso quasi con un balzo, sotto lo sguardo contrariato di mio padre. Quello non era un movimento molto umano. Mi diede un bacio e mi guardò negli occhi, con un’espressione commossa e preoccupata, simile a quella che aveva Esme quando mi vedeva piangere. Mia madre di solito non era così, si comportava più da “ma mamma amica” che da “mamma chioccia”. Ma dopotutto era il primo giorno di scuola, ed era giusto che fosse così, anche se la situazione era un po’ atipica: io dovevo essere piccola e indifesa, mentre lei doveva essere la mamma che si commuove. Ma mi sembrava comunque che stesse un po’ esagerando. La sua fronte di pietra sembrava quasi solcata da una ruga, come quella di mio padre, ora che lo osservavo. Sperai che il secondo giorno sarebbero stati un po’ più loro stessi e avessero lasciato perdere quel comportamento da genitori ansiosi.

-Amore com’è andata?- anche la voce di mamma era più veloce del solito. Mi parlava praticamente nell’orecchio, pianissimo.

-Bene- mentii le mie impressioni disarmanti sulla scuola almeno a lei, visto che non potevo fare altrettanto con papà – Sai poi ho…- Volevo parlarle del mio incontro con Benjamin.

Jacob non mi lasciò finire –Davvero tutto a posto? Non è successo niente di strano?- Aveva i goccioloni che gli scendevano sulla fronte, si vedeva che avrebbe avuto bisogno di una corsa nella foresta.

-Ma certo, cosa volevate che mi succedesse? Che facessero test chimici su di me durante l’ora di scienze?- Cercai di restare calma e tranquilla. L’unico modo per dissipare la loro ansia inspiegabile sarebbe stato dimostrarmi del tutto serena.

Ma Jacob era ancora tutto sudato e tremante. Si tolse la felpa e rimase in maglietta.

-Piuttosto tu, Jake! Sei sicuro di stare bene? Vuoi tornare a casa?-

-Certo che no!- Quasi urlò. Era evidente che c’era qualcosa che non andava.

Stavolta mio padre mi rispose. –No, Jacob sta bene tesoro, e solo un po’ in ansia…come tutti noi- Mi sorrise pacifico, come se spiegasse la cosa più ovvia del mondo.

-A proposito! Ho incontrato il vampiro!- parlai piano, perché nessuno studente che passava lì vicino potesse sentirmi.

Jacob strinse i pugni e cominciò a tremare più violentemente. Finalmente capivo il perché di tutta quella scena: era geloso. Lui aveva incontrato il vampiro prima di me! E non era preoccupato per la scuola, ma per il mio incontro con lui, era ovvio. Jacob era geloso di mio padre, figurarsi di uno sconosciuto dall’aria misteriosa.

-Oh, Jacob non essere scemo! E’ solo un altro vampiro, non mi vuole mica mangiare!-

Lui cercò di trattenere la sua reazione, con scarsi risultati. Sembrava ancora come febbricitante. Il suo aspetto malsano attirava gli sguardi di molti studenti. Anche mamma lo notò.

-Jacob, per favore…trattieniti!-

-Ci sto provando- la voce era bassa, ostile.

-Jacob, piantala di fare il fissato!- Mi infastidiva quando si comportava così. Potevo capire alcuni suoi comportamenti iper protettivi, ma a volte oltrepassava il limite. E quella situazione ne era un perfetto esempio.

Jacob eseguì l’ordine. Fece un paio di ampi respiri e il ritmo del suo cuore ritornò pressoché normale.

-Non mi sembra una tragedia che io parli con uno sconosciuto. Di cui fra l’altro voi vi fidavate, visto che nessuno è accorso a salvarmi, se non sbaglio!- Jacob rimase molto colpito da quelle parole, quasi fossero state un insulto rivolto a lui.

-Nessie, ti giuro che se avessi potuto venire io…- Mio padre lo interruppe.

-Insomma, non siamo voluti venire per non farti sentire troppo oppressa, Nes. Se non sbaglio è così che preferivi tu, no?- Lanciò un’occhiata eloquente a Jacob. Il messaggio era “chiudi il becco, cretino”.

-Proprio così- Adesso ci si metteva anche mamma.

-Ok siete tutti scusati e vi voglio bene, ma adesso devo andare a lezione. Ho dovuto saltare l’ora per parlare con Benjamin e…- Mio padre mi guardò severo, quasi si fosse ricordato solo in quel momento della mia mancanza.

-Renesmee…non ho intenzione di tollerare dei comportamenti simili. Per te questa è scuola, non un alibi per sembrare umana. Tu devi applicarti, e non fare finta. E non pensare di non ricevere una lavata di capo quando saremo a casa!-

“Lavata di capo”: ma perché mio padre doveva sempre essere così Belle Epoque ?

-Papino, guarda che se non mi lasci andare perderò anche questa lezione- Gli feci un sorriso smagliante e sgranai gli occhi color cioccolato di mia madre.

Smise all’istante di fare storie. Adoravo incantare la gente.

. –E sei anche piuttosto brava!-Mio padre rise sentendo quello che stavo pensando.

-Cosa vi state dicendo?!- Mamma detestava non capire di che cosa parlavamo, la mandava in bestia.

-Eddai mamma, chissà cosa ti racconterà di me papà senza che io sappia niente!- Risi forte nel vedere la faccia che fece mia madre: era un’ammissione di colpa in piena regola. Mi voltai per andare a scuola, stavo di nuovo facendo tardi.

-Nessie!-

Jacob mi aveva chiamata, mi voltai di scatto. Aveva un’espressione terribilmente supplichevole, sembrava stesse per piangere.

-Mi raccomando stai attenta- Parlò con un tono grave e intenso. Mi preoccupai: vedere Jacob in quello stato mi angosciava.

-E attenta a cosa?- In ogni caso, finsi di essere del tutto a mio agio. Ma ancora una volta fu mio padre a parlare per Jake.

-A misurare la tua forza, ovviamente. Non vorrai far sorgere dei sospetti, vero?- Mi sorrideva pacifico. Quell’uomo era diabolico. Ma era ora di andare, e qualsiasi cosa stessero macchinando quei tre, non avevo tempo per scoprirla. Volevo andare a lezione: perlomeno avrei avuto l’occasione di spegnere per un momento il cervello. La mattinata era stata fin troppo carica di emozioni.

-Ok, starò attenta. Ci vediamo in mensa-

Andai a scuola quasi di corsa.

Avevo davvero bisogno di una pausa.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Pranzo in famiglia ***


8

Rieccomi con un nuovo capitolo…devo ringraziare Niki_95 e Liriel76 per i preferiti, sono felice che la storia per ora vi piaccia, spero di non deludervi! Ma ribadisco ancora: grazie anche a tutti quelli che semplicemente leggono e dedicano un po’ del loro tempo a questa storia. A presto per il nuovo capitolo!

Giuls

 

 

La lezione di francese fu orribile. Doveva essere un corso avanzato, ma ovviamente era scandalosamente facile. Altro che andare a scuola per imparare, se andava avanti così rischiavo di dimenticare anche quello che avevo già fatto. Per tutta la durata della lezione mi fecero riempire delle frasi da cretini, che nessun francese avrebbe pronunciato mai in una situazione normale, con il tempo verbale adatto. La scelta era tra presente e passato prossimo. E siccome la situazione non era già abbastanza squallida, dovevo fare gli esercizi con il vicino di banco. Ma per che diavolo di logica due studenti dovevano fare lo stesso esercizio? Non era costruttivo, ognuno avrebbe dovuto dimostrare quello di cui era capace!

Il mio compagno di banco si chiamava Luke, ed era all’incirca il corrispettivo maschile di Amy. Era un peccato che non fossero capitati allo stesso corso, avrei fatto il tifo per loro.

Luke guardava più spesso le mie tette che la mia faccia, e quando mi parlava sembrava che si rivolgesse a loro. Quando glielo feci notare prima diventò tutto rosso, e poi mi fece i complimenti e mi chiese il numero. Gli risposi che non avevo il telefono perché facevo parte di una setta indiana secondo cui le onde magnetiche sfruttate dai cellulari sono manifestazione degli spiriti del male.

Ero esterrefatta. Anche quando finalmente la campana suonò, Luke non mancò di dirmi dove abitava e dove lavorava nel week end.

Decisi di cambiare corso, visto che non mi perdevo niente comunque.

Dopo francese fu l’ora di chimica. Fu l’unico corso che mi interessò: la professoressa Hodge aveva all’incirca quarant’anni, un aspetto severo e un talleur impeccabile. Sembrava più una gallerista che una professoressa di chimica al liceo. Mentre tutti gli studenti arrancavano nel tentativo di capire la sua lezione, io la seguivo con passione e attenzione. La spiegazione che diede della struttura degli orbitali atomici fu impeccabile, superò anche quella datami da Carlisle. L’ora finì, e io mi avviai verso la mensa. Nel corridoio incontrai Amy e Teresa.

Teresa corse verso di me e mi prese la mano.

-Ma Nessie, dov’eri andata a finire? Non sei venuta a lezione con noi!-

Oh merda! Chissà cos’avrebbe pensato se le avessi detto la verità. Non conoscevo bene il mondo reale, ma avevo visto abbastanza telefilm per sapere che dovevo dire una balla, se volevo evitare che quelle due pensassero il peggio.

-Beh…vi ho perse un momento e poi…-

-Hai saltato l’ora?- fu Amy a parlare. Era evidente che non vedeva l’ora di trarre la conclusione che ero solo bella, ma per niente intelligente: insomma, saltavo anche le lezioni! Era patetica.

-Sì, non mi sono sentita bene- Se proprio dovevo mentire, almeno lo avrei fatto per bene.

Teresa strinse ancora più forte la sua manina attorno alla mia. Era davvero tenera se la consideravo staccata dalla sua amica.

-Oh mi dispiace! Cos’avevi? Ti senti ancora male? Dovevi dirmelo subito, ti avrei accompagnata in infermeria!- Era davvero preoccupata.

- Ma no, tranquilla, era solo un po’ di mal di pancia. Adesso sono a posto-

Teresa sembrò sollevata, sinceramente.-Pranzi con noi? Siamo a tavola con alcuni amici e saremmo felici se tu volessi venire con noi!-

Preferii rifiutare: i miei mi erano un po’ mancati, a essere sincera.

-Scusatemi ma pranzo con la mia famiglia…eccoli sono quelli là in fondo- Nel frattempo eravamo arrivati alla mensa, dove, in un tavolo in fondo in fondo, vicino all’uscita di sicurezza, c’erano tutti i Cullen più uno, Jake. Zia Alice mi salutò con la mano, come una forsennata. Le sorrisi: era un amore, mia zia.

-Wow somigli un sacco a quei due laggiù!- Amy ovviamente non aveva perso l’occasione per darmi sui nervi, notando la somiglianza con i miei genitori. Ora mi toccava anche raccontarle la storia della famiglia, maledizione.

- Vedi, quello è mio fratello Edward, e  quella è mia cugina, Isabella.-

-E gli altri chi sono?- Teresa era curiosa, mi scrutava da sotto con gli occhi sgranati. Ecco qua, che cosa creava Mtv: malati di gossip, sempre alla ricerca dello scoop, dell’ultima novità.

-Vivono sempre con me. Quella è Alice, sorella di Edward e Emmett, quello là grosso- Vidi Jasper dare un colpo sulla spalla a Emmett, mentre questo gli diceva qualcosa del tipo “oggi pomeriggio vediamo se sarai del parere”. Emmett era un fenomeno, non avrebbe mai sprecato un’occasione per fare a botte.

-La bionda fatale chi sarebbe?- Amy voleva essere ironica, ma avevo perfettamente capito che era invidiosa, mentre con il mento indicava Rosalie. Anche zia Rose se ne rese conto, perché scostò con orgoglio i lunghi capelli biondi, con un gesto talmente raffinato ed elegante che pareva essere uscito da una scena di Colazione da Tiffany. Non trattenetti un sorriso.

-Quella è Rosalie, la sorella di Jasper, quello di fianco ad Emmett. E’ bellissima, non trovi?- Feci a Amy il sorriso più carino e zuccheroso che ero in gradi di fare. Lei si limitò a stringere le labbra.

-A presto ragazze!-

In fondo Amy mi piaceva. Distruggerla era una delle cose più divertenti e positive per la società che avessi mai fatto.

Al tavolo i miei mi avevano già preparato un vassoio pieno di cibo. Forse per il fatto che loro non mangiavano, tendevano a cercare di iper nutrirmi. Mi ricordavano quelle vecchie signore che danno troppa carne al loro unico micio, solo per vederlo lappare contento. C’erano della torta di patate, delle polpette di carne, delle carote, del pane tostato, del burro di arachidi, una banana e due mele. Erano pazzi.

-Pensavamo che le lezioni ti avessero messo fame!- tentò di giustificarsi il più probabile autore di quello scempio culinario, mio padre.

-Ma papà, questa roba fa schifo! Puzza! Jake, la vuoi tu?-

-Certo!- Gli porsi il vassoio senza troppi rimpianti. Non avevo fame, la colazione di Esme era stata abbondante. Mi presi soltanto una mela.

Alice era impaziente di sapere, tamburellava le dita sul braccio di Jasper, di fianco a lei.

-E allora? Dicci un po’ com’è andata! E chi sono quelle due?-

-Sono due mie compagne di corso, una non la sopporto, mentre l’altra sembra soffrire di un disturbo della personalità-

-Interessante- non sembrava molto entusiasta, probabilmente si aspettava qualcosa di più esaltante-hai conosciuto qualcun altro?-

Addentai la mela. –Mmm, sì. Un ragazzino con l’ormone impazzito che si era fissato sulle mie tette. Domani mi metto la felpa-

Papà emise un sibilo soffocato. Probabilmente era già venuto a sapere dell’accaduto, se aveva tenuto d’occhio i miei pensieri.

-Wow- a questo punto, zia Alice aveva perso qualsiasi entusiasmo.

Mi fece venire in mente Benjamin. Lo cercai con la vista, ma non era in mensa. Cercai il suo odore, allora: era fuori, da qualche parte nel parco, probabilmente.

-Ah, mi sono dimenticata di dirvi del vampiro!- parlai con la bocca piena. Non ero carina.

Rose si spostò sulla sedia, Jake strinse una mano al tavolo.

-Jake non è il caso di prendersela tanto! A me è sembrato…normale.  Magari ha qualche difficoltà a controllarsi ma non mi sembra cattivo. Però rompe.- Terminai la mia breve filippica addentando un altro pezzo di mela.

Nessuno parlava, stranamente. Feci in tempo a finire la mela prima che Jasper parlasse.

-Senza dubbio ha dei problemi a controllarsi. E questo ci fa pensare. Vorremmo tenerlo d’occhio.-

-In che senso?- Non capivo bene il nesso con il discorso di prima.

Mio padre prese la parola. –Forse dovremmo…stare a contatto con lui, non lasciarlo solo. Se si vuole stabilire qui deve seguire le regole, se succedesse qualcosa di sbagliato ci andremmo di mezzo anche noi-

-Che volete fare, adottarlo?O una partita a baseball è abbastanza? Lo volete anche tenere a “cena”? Da quando ci dedichiamo al volontariato?- Non riuscivo a capire perché la nostra strada si dovesse incrociare necessariamente con la sua. Mi sembrava strano. La Penisola Olimpica era il nostro territorio, ed era nostro diritto occuparlo: se Benjamin si fosse lasciato andare lo avremmo semplicemente allontanato, non serviva un gruppo di recupero per vampiri recidivi.

-Tesoro- mio padre riprese in miei pensieri, con pazienza –e se succedesse qualcosa a un umano? Tu non ti sentiresti in colpa?-

Jasper annuì gravemente –Lo terremo d’occhio- Dal tono sembrava una decisione definitiva e unanime. Non mi parve che valesse la pena discutere, in fondo non ero io ad occuparmi di queste cose. E magari zia Alice aveva visto qualcosa che aveva portato gli altri a prendere quella decisone.

-No, Alice non ha visto niente. Il vampiro a volte scompare, è sfocato. Le sue decisioni sono molto veloci e precarie.- Papà parlò pianissimo, quasi senza nemmeno muovere le labbra. Ero stupita: zia Alice poteva vedere tutti, tranne me e Jake. Com’era possibile che non vedesse un vampiro?

-Non lo sappiamo. Ma anche io ho dei problemi ha leggerlo, non so perché. Vedo come …le bozze di quel che pensa- papà tamburellava le dita sul tavolo, irritato.

-E’ per questo che lo volete tenere d’occhio, non conoscete i suoi movimenti?-

-Esattamente- Jasper mi guardò e annuì.

-E quindi oggi sarà a casa nostra?-

-Proprio così-

E io che avevo già pensato di guardarmi un Gli uomini preferiscono le bionde sul divano, in pace e tranquillità. Sbuffai leggermente.

-Io però avevo un altro progetto….- Jake mi guardava sorridendo, dall’altro lato del tavolo.

-Sarebbe?-

-Un hot dog alla tavola calda, dopo che saremo usciti di qui-

-Doppio ketchup?-

-Come no!-

Ancora una volta, Jake mi aveva salvata: ogni mio desiderio era un ordine.

-Allora ci sarò!- Ci rivolgemmo un ampio sorriso. Sapevo che entrambi avevamo bisogno l’uno dell’altra.

Per il tempo che rimase della pausa pranzo, pianificammo una caccia in Canada. Alice aveva previsto alcuni giorni consecutivi di sole la prossima settimana, e volevamo approfittarne per allontanarci dalla Penisola Olimpica e darci alla caccia grossa.

Quando tornai in classe, la situazione mi sembrò ancora più grottesca del solito: cinque minuti prima stavo discutendo con Rosalie sul colore di Moon Boot da portare per il nostro safari, mentre in classe Teresa commentava animata l’ultima puntata del suo telefilm preferito.

Era un telefilm sui vampiri.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Divisa ***


9

Rieccomi con un nuovo capitolo. Grazie mille a Lovvi, Aya chan e Mokki per i preferiti, mi fa davvero mooooolto piacere. Capitolo dedicato a Renesmee ( sono contenta che piaccia! ^^) e a Jacob. A presto!

Giuls

 

 

Il resto della giornata trascorse lento, noioso e inutile. Non incontrai nessuno dei miei, né Jake e nemmeno Benjamin, e per fortuna durante le lezioni del pomeriggio Amy non c’era, così che rimasi quasi sempre solo con Teresa. Non era nemmeno spiacevole stare con lei, anche se in generale lei parlava, e io ascoltavo annuendo. Ma era meglio così: non avrei comunque saputo cosa dirle. Alla fine delle lezioni mi accompagnò fino alla machina. Era stupita del fatto che avessi già la patente, lei l’avrebbe presa solo l’anno dopo.

-Ma come fai ad avere la patente??- Guardava la Mini adorante – E guarda che macchina poi! A me andrà bene se i miei mi daranno il permesso di usare la loro!- Sembrava una bimba che vede il cucciolo dell’amichetta.

-Ho sedici anni, ho iniziato la scuola un anno dopo. Ho avuto dei problemi di salute da bambina-

-Che hai avuto?-

-Un problema con la crescita…crescevo troppo velocemente-

-Oh! In effetti sembri avere più di sedici anni… E adesso stai bene?-

-Certo!-Una meraviglia, visto che ero del tutto cresciuta- Adesso scappo…-

Salii in macchina prima che a quella peste potessero venire in mente altre domande. All’ingresso del parcheggio c’era Jake, già sul lato del passeggero. Avevo già acceso la musica: erano ancora i Prodigy, da stamattina.

Accostai per farlo salire. Entrando nell’abitacolo Jacob fece una smorfia.

-Vuoi abbassare questa roba?? Ma cos’è?-

-E’ big beat. Me l’ha passata Emm-

-Ma è terribile!- Era profondamente disgustato. Scommetterei che avrebbe preferito che ascoltassi le canzoni dei film Disney.

-Su, ho solo bisogno di ricaricarmi un po’!

If you believe, the western sun is falling down on everyone, you’re breaking free and the morning’s come. If you would know your time has come.

La canzone scorreva dentro di me mentre procedevo a tutta velocità sulle strade larghe della città. Tamburellavo le dita sul volante al ritmo ossessivamente ripetitivo della canzone. Non sentivo più la gola secca, il sangue nelle vene della gente, il cuore di Jacob che batteva forte di fianco a me, come un tamburo, profondo e primitivo.

Era l’effetto musica. Su di me la musica aveva sempre avuto un forte ascendente, ne ero sempre stata rapita. Di qualunque genere fosse, la musica mi distraeva a tal punto da farmi dimenticare chi fossi, e farmi cadere in una specie di estasi in cui non esisteva niente a parte il ritmo.

E quel pezzo aveva un ritmo straordinario.

Ma Jacob mi conosceva fin troppo bene: sapeva quando era il momento di svegliarmi dalla mia trance mistica, giusto in tempo per evitare che investissi qualche pedone innocente, presa dallo slancio del ritmo.

-Nessie, non credi che dovresti almeno guardare la strada?- Mi fissava preoccupato, gli occhi che si spostavano velocemente da me alla strada. Avevo anche socchiuso gli occhi.

-Ehm, ok- Spensi la radio, per eliminare il problema alla radice. Avrei ascoltato la musica a casa. Jacob si lasciò scappare quello che mi sembrò proprio un sospiro di sollievo.

-Bene, ti stavo dicendo: com’è andata oggi? Insomma, il tuo bilancio, qual è?-

Doveva aver parlato della scuola mentre io ero immersa nella musica. Decisi di non fargli capir che non lo avevo nemmeno ascoltato.

-Te l’ho già detto oggi a pranzo. Fa abbastanza schifo, per ora. Non ci trovo assolutamente niente di stimolante,e gli umani sono così…noiosi- era l’unico aggettivo che potesse descriverli. Magari non lo erano, ma i miei canoni erano sicuramente viziati dal fatto che la mia famiglia fosse molto speciale. E, in linea generale, in molti aspetti un umano non poteva competere nemmeno lontanamente con un vampiro.

-Non dovresti essere così severa con le persone normali- Jake mi ammonì con dolcezza.

Gli sorrisi –Perché lo sei anche tu?-

-Ehi piccola, per caso ti sembra normale uno che fa così?- Incrociò gli occhi e piegò la lingua. Era un deficiente. Scoppiai a ridere mentre parcheggiavo la macchina davanti alla tavola calda sulla strada principale. Era uscito un sole velato e debole, un sole autunnale. Non riscaldava per niente.

Entrammo nella tavola calda. Io e Jake l’avevamo scoperta appena ci eravamo trasferiti in città, guidati dalla nostra smodata passione comune per gli hot dog. Era un locale ampio e un po’ anonimo, ma pulito (per i nostri olfatti raffinati era un fattore chiave: chi avrebbe potuto gustare del buon cibo con una terribile puzza nell’aria?) e in cui a cucinare era il proprietario, un tizio grasso e  calvo che sembrava dall’aspetto avere molta esperienza diretta in fatto di cibo. Ci sedemmo in un tavolo che dava sulla grande vetrata, proprio davanti al bancone. Quando eravamo noi due soli, cercavamo sempre di non nasconderci come invece dovevamo fare quando c’erano anche gli altri. Mi piaceva giocare con lui alla ragazza normale che esce con il suo amico, ragazzo, tutore a vita?

Mi cominciò a girare la testa al solo pensiero dell’intricata situazione in cui mi trovavo.

Jake, come al solito, mi guardava.

Mi guardò anche mentre venivano a prendere le ordinazioni.

-Nessie, sei sicura di voler andare a scuola? Se ancora non te la senti puoi aspettare. Lo sai che alla fine non sei obbligata, Bella e Edward capiranno- Il mio Jacob era così semplice. Non aveva nessuno strano potere, nessuna strampalata caratteristica vampiresca.

Aveva solo l’imprinting. Aveva solo me. Quel pensiero da una parte mi faceva sentire un terribile peso addosso, e dall’altra, in maniera molto poco sana, mi galvanizzava. Essere il centro di Jacob, il tutto verso cui ogni cosa verteva.

Non era la velocità, la forza, o il mio dono di mostrare a rendermi speciale. Era quello, era la forza dell’imprinting. Mi nutrivo di quella forza, come fosse stato nettare, un ricostituente indispensabile alla mia vita. Jacob mi dava la sicurezza. Chi sarei stata senza di lui? Probabilmente un’altra. Ed ero praticamente certa che sarebbe stata un’altra molto peggiore della mia versione Jake-dipendente.

I miei problemi, lo sapevo bene, vertevano tutti lì, tutti verso Jacob. Perché crescendo, anche lui stava diventando il mio centro, in un modo che non potevo dominare, con un impeto irresistibile. Il tempo mi portava verso acque troppo profonde, fatte di corpi, contatto ed emozioni inesplorate. E io reagivo davanti a ciò che stava accadendo sdoppiandomi: da una parte c’era una Nessie sconosciuta che si faceva trascinare verso quelle profondità, che si abbandonava, lasciva, al destino, senza opporre resistenza. Dall’altra c’ero io, la Nessie “esterna”, che cercava di resistere, o almeno di capire. Che cercava disperatamente di scegliere cosa sarebbe successo. Ma la Nessie che si dibatteva dentro non era così restia agli obblighi come quella esterna, e resistere al suo volere era sempre più difficile. Combattere contro me stessa era una sfida che avrei volentieri delegato a qualcun altro, come sempre. Ma non potevo: era la mia battaglia.

E mentre ci portavano le lattine di coca cola, la Nessie dentro mi fece notare come Jake quel pomeriggio fosse bello, solo con quella maglietta azzurra semplice. E mi fece anche notare come i suoi occhi brillassero attenti in attesa della mia risposta: qualunque cosa avessi detto, sarebbe stata legge, non per accontentarmi, ma per pura devozione.

-Jake, per me è importante. Voglio andarci. Devo capire da che parte sono in realtà- Sorseggiai la coca, mentre ci portavano gli hot dog. Doppio ketchup per me, doppia maionese per lui, con aggiunta di senape. Mi faceva morire, a tavola: mai visto niente di simile, era un pozzo. E per questo mia nonna lo adorava.

-Nessie, sii te stessa. Per una persona è già abbastanza complicato seguire se stessa, figurati scegliere chi essere-

Scossi la testa. –Jake, voglio vivere tra gli umani. E’ solo un esperimento. Vedila così…- Presi un altro boccone di hot dog e feci una pausa – esploro le mie origini, punto. Sono solo curiosa-

Jake aveva già finito il suo panino, gli era bastato stare zitto per un minuto. Io lo avevo praticamente solo iniziato: come al solito avrebbe aspettato altri venti minuti, prima che io finissi la mia lunga cerimonia. Si mise una mano sulla pancia: brontolò.

-Ehi, me ne porti un altro?-

-Arriva-

Ormai Tony, il proprietario, sapeva che nell’attesa che io finissi di mangiare il ragazzo che mi accompagnava prendeva sempre un altro hot dog. Sempre doppia maionese e senape.

-Fai bene Nessie, hai ragione tu. Ma mi dispiace che tu possa starci male e poi…-

-Fammi indovinare, vorresti essere in corso con me-

-Certo, piccola-

-Per controllare che non mi rubino i soldi del pranzo-

Jake annuì gravemente –E per pestare quelli che ti prendono in giro perché hai le lentiggini-

-E che mi dici di quelli che mi danno della secchiona?-

Emise una specie di ululato basso – Quelli poi! Hanno le ore contate-

Scoppiammo a ridere.

-Sei un deficiente-

-Fiero di esserlo. Sai, in casa tua manca un po’ la vena, come dire…leggera- Parlava con la bocca piena, e a un certo punto fece il gesto di scostarsi i capelli. Imitava Rosalie. Gli tirai una bustina di zucchero, ma non riuscii a non ridere. Ovviamente la cosa lo portò a continuare la sceneggiata. Arricciò il naso e fece il gesto di annusare attorno a sé.

-Oh mamma mia, non sento più l’odore di mughetto fresco e fresia del sud che avevo messo nei vasi di cristallo da novecento dollari, si vede che sarà passato quel bassotto di Jacob!-

A quel punto cominciai proprio a ridere. I suoi goffi tentativi di imitare Rose erano uno spettacolo. Per fortuna lei non li aveva mai visti: Jacob era certamente coraggioso, ma non aveva un particolare istinto suicida.

-E dai, lasciala stare!-

-Nessie, amore, lavati le mani, sai di dog-sitter!- Si tappò il naso con le dita e socchiuse gli occhi. Questo zia Rose lo aveva fatto davvero: me lo aveva detto una volta che rientravo da una caccia con Jake.

-Adesso torniamo a casa e glielo racconto, a Rose!!- Gli feci la linguaccia

-E allora io ti faccio il solletico, brutto muso!-

-Tanto lo sai che chiedo aiuto a Emm e lui ti pesta-

Jacob mi guardò di sottecchi –Chissà, potrebbero nascere nuove alleanze…-

Avevo proprio voglia di tornare a casa. Anche solo per dare un bacio a mamma, o per vedere se Jake sarebbe riuscito a stringere l’alleanza con Emmett e a farmi il solletico

-Andiamo a casa allora?-

-Ok, piccola-

Uscimmo dalla tavola calda e salimmo in macchina.

Solo mentre mi fermavo all’incrocio, attendendo che il semaforo diventasse verde, mi ricordai di Benjamin.

Probabilmente, in quel momento era a casa mia.

E per la seconda volta stravolgeva i miei piani.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Prigione ***


10

 

 

 

 

Avevo lasciato Jacob sul ciglio della strada, in un punto in cui era vicino abbastanza alla foresta da potersi trasformare quasi all’istante. Doveva fare il giro di perlustrazione.

Da quando ci eravamo trasferiti, per lui era stato molto difficile: abbandonando il suo territorio, aveva come abbandonato il branco, almeno dal punto di vista teorico. Dal punto di vista pratico, invece, Leah e Seth continuavano a essere con lui. Un centinaio di chilometri per dei lupi giganti che cacciavano vampiri nel tempo libero non erano sicuramente un problema, e pur di tenere al sicuro me, Jake aveva chiesto anche questo ai suoi compagni. E inaspettatamente tutti avevano accettato. Compresa Leah, contro ogni aspettativa. Era l’unica persona che non mi avesse amata dal primo istante, e continuava a non amarmi. Non mi aveva praticamente mai parlato: da bambina ero molto ferita da questo comportamento, mi sembrava troppo ingiusto. Solo da poco avevo capito che, per quanto la mia vita potesse essere piena di amore, comprensione e  buoni sentimenti, nel mondo non c’erano solo quelli. E sicuramente Leah non provava alcun tipo di affetto verso di me.

Ma era una brava ragazza, ed era sempre stata leale e giusta. Per questo, nonostante tutto, la apprezzavo.

Jacob mi aveva lasciato quasi più riluttante del solito, e aveva fissato a lungo l’auto prima di correre nel bosco. Non che non fosse sua abitudine, ma non a tal punto.

Era stata una giornata davvero strana, dall’inizio fino a…supponevo la fine, data la presenza dell’ospite. E di ospiti in casa Cullen non ne circolavano mai molti, a parte i vecchi amici di mio nonno.

Il cielo cominciava già ad imbrunire, erano più delle sei. E tornando a casa, stavolta, procedevo lentamente, godendomi la luce del tramonto che carezzava le cime lontane delle Montagne Rocciose. Mi feci anche sorpassare da un furgoncino dall’aria usurata: non era da me, Jacob mi aveva totalmente calmata. Avrei solo voluto tornare a casa, mettermi un bel pigiama largo, magari a salopette, e starmene sul divano del salotto a guardare i vecchi episodi di Sex and the City.

Ma avevamo ospiti. Mi sarei messa a piangere. Ospiti che mi facevano sentire un’idiota nel giorno più difficile della mia vita. Quando uno affronta la sua duplice natura vorrebbe avere attorno a sé solo persone che lo supportano: chiedevo troppo? Le avevo sempre avute, perché quel giorno no?

Percorsi il viale lentamente. Stavo ascoltando i Led Zeppelin. Le foglie stavano diventando brune e scarlatte, e tra poco gli aceri rossi avrebbero dato il meglio di sé. Detestavo l’autunno, era un assurdo presagio di morte.

Arrivai davanti a casa, e parcheggiata di fronte all’ingresso se ne stava acquattata un’enorme moto nera. Ah-a, e così al detestabile rovina serate piacevano le BMW. Se non altro aveva gusto, non c’era che dire. Andai a parcheggiare la Mini in garage.

Il perfetto vampiro impassibile e la sua perfetta moto ultimo modello. Cercai di non pensare a me che bucavo le gomme della moto, per non sembrare troppo sgarbata a papà. Scesi dalla macchina ripetendo intensamente il testo dei Led Zeppelin, ma chissà perché mi veniva da canticchiare Material Girl.

 

Cause everybody lives in a material worldeccomi davanti alla porta….and I am a material girl!

 

Entrai con un gesto lento e misurato.

Erano tutti sul divano.

Sul divanone color crema del salotto. E lui era sulla mia poltrona a sasso grigia. L’avevo comprata in un negozio d’interni a Rodeo Drive, era una Kenzo Home. Me l’aveva regalata il nonno.

Brutto stronzo. Mio padre quasi scoppiò a ridere. Altro che bucargli le gomme, io quella moto gliela trasformavo in un triciclo.

-Ciao a tutti-

Tutti mi accolsero con ampi sorrisi, come sempre. Mamma si alzò e corse d abbracciarmi, alla sua velocità.

-Ciao amore. Finalmente sei a casa-

-Ma mamma sono solo le sei e mezzo!-

-Non fa niente!- Mi diede un altro bacio.

A volte mi sentivo io la mamma, a doverla sempre rassicurare. Doveva essere un fattore fisso per le donne della sua famiglia, l’invertirsi dei ruoli.

-Ti siedi con noi?-

-Certo- Se magari quel deficiente non si fosse piazzato sulla mia poltrona. Che bisogno aveva lui di starsene in poltrona? Io potevo anche essere stanca, ma lui, diavolo, era un vampiro!

Mi sedetti tra mamma e Rose, la postazione del potere. Ma non mi ero mai sentita tanto piccola e scema. Di solito mi piaceva stare lì: avere loro, le due vampire più influenti tra noi, come tutrici, mi rendeva la regina incontrastata di quel piccolo mondo che era la famiglia Cullen, viziata, riverita e coccolata. Una piccola reginetta araba dal giaciglio di gemme e dagli abiti di seta pura. Eppure allora mi sentii stupida.

E ovviamente fu Benjamin a farmi sentire un’idiota. Mi guardava come un’attrazione da circo, come una scimmietta vestita da impiegato delle poste, mi sembrava. Avrei voluto essere sola, slegata da qualsiasi cosa. Assoluta e  incondizionata.

Come lui, che se ne stava, solo, seduto sulla mia poltrona.

Mi sentii una bambina. Arrossii, e lo feci violentemente, come se avesse scoperto un segreto molto imbarazzante: in effetti, lo aveva fatto. La bella Renesmee, la ragazza affascinante che vedevano gli umani, non era altro che una ragazzina di quattordici anni, una bambina troppo viziata per la sua età. Il mio piccolo regno dispotico, in cui i miei sudditi erano ben felici di vivere, mi parve una prigione insopportabile.

Papà trattenne il respiro e abbassò lo sguardo. Tentava di decifrare i significati di quel che avevo pensato.

Alice, che era seduta dall’altro lato dell’ampio divano, ruppe il silenzio e le mie riflessioni.

-Nessie, hai già incontrato Benjamin, vero?-

-Sì- Il caro vecchio Benji.

-E ti ha raccontato la sua storia?- Zia Alice sembrava entusiasta, parlava velocemente e a voce abbastanza alta.

-Sì- Non cambiai il tono, non mi sembrò il caso.

-Tutta?- Alice mi guardò come se fossi una bimba che mente.

-Penso di sì-

Benjamin si intromise.

-No, solo a grandi linee-

-Bè dovresti, è molto emozionante!- Alice gli rivolse un sorriso invitante, di quelli che fanno le commesse per invogliare i clienti a spendere più di quanto sia loro possibile.

-Magari lo farò, se Renesmee vuole- mi guardò con quella sua espressione impassibile, come fossi una statua di vetro – ma ora credo sia meglio che vada-. Mentre parlava, si alzò. Indossava una giacca scura, da moto, e una felpa blu notte con un piccolo logo. I pantaloni erano grigi, sembravano una specie di tuta da lavoro. Ma nel complesso stava bene.

Forse la sua era una domanda indiretta, ma non risposi. Rimasi un po’ colpita dal fatto che se ne andasse così: i vampiri non hanno problemi di orari, e la rarezza degli incontri mi aveva abituata a tempi molto più lunghi. Per esempio, quando Peter e Charlotte venivano a trovarci rimanevano a parlare per ore e ore, anche notti intere. Benjamin poteva essere arrivato al massimo da due ore.

Renesmee, sei un piccolo vermiciattolo che fa scappare gli ospiti.

In compenso, la poltrona era libera.

Ma i miei non sembravano condividere i miei scrupoli. Tutti si alzarono e accompagnarono alla porta Benjamin, ma senza che il tutto risultasse, nel complesso, un commiato: sembrava più una processione. Anche io mi unii, vicino a mamma.

Notai che il vampiro raccoglieva dal pavimento un casco, nero.

-E che te ne fai di un casco?- La voce uscì, senza che nemmeno lo volessi. Tutti si voltarono. Avevo rotto il sacro silenzio della processione alla porta. Amen.

Benjamin rise. Notai che la  sua risata, quando nasceva da una sorpresa, era forte e roca, come se provenisse da molto lontano all’interno del suo corpo.

-E se mi ferma la stradale che gli racconto? Di andarsi a rileggere Bram Stocker?- Scosse la testa, sorridendo.

Ero rimasta a bocca aperta. Appena me ne accorsi la chiusi immediatamente.

Benjamin salutò tutti con un gesto, e uscì di casa accompagnato da papà e da Carlisle, in silenzio. Li seguii con lo sguardo dalla grande vetrata: sembrava parlassero, ma lo facevano troppo piano perché io riuscissi a sentire. Mentre cercavo di affinare i miei sensi per captare qualcosa, Rosalie mi si avvicinò.

-Allora, ci racconti un po’ meglio di oggi?- Mi fece un sorriso dolcissimo, piazzandosi tra me e la finestra. Non le avrei mai detto di no, anche se non ne avevo assolutamente voglia. Rose era tanto dolce con quelli che amava quanto era acida, scorbutica e decisionista con chiunque altro non le andasse a genio. Ma la sua vera indole, lo sapevo, era gentile e delicata, come il suo nome: solo era difficile scoprirlo. La abbracciai dolcemente, affondando il viso tra i suoi capelli profumati. Sapevano di narciso, di fiore fresco, primaverile.

-Adesso vi racconto- Mormorai pianissimo, per non disturbare la quiete che avevo attorno, finalmente. Dopo averle rivolto un sorriso, sciolsi l’abbraccio e corsi di sopra, in camera mia.

Avevo arredato la mia camera come una specie di installazione pop art dalle influenze Belle Epoque. Era  a metà tra il Moulin Rouge, un locale anni ’70 e un stanza in stile giapponese. La scrivania era un tavolo barocco originale, battuto da Christie’s negli anni ’50. Sopra c’era l’opera prima che Esme mi aveva dedicato, in stile Wahrol: in quattro riquadri di diversi colori, c’era un mia foto venuta particolarmente bene. Me l’aveva fatto un paio di anni fa, perché la foto le piaceva molto, sembrava un dagherrotipo, e l’idea di mischiare antico e moderno l’aveva molto colpita. Il letto era matrimoniale, semplice, abbastanza basso, dal copri testiera in seta lilla. Sul comodino un telefono bianco, anni ’40: regalo di Alice, che aveva fatto aggiungere degli Swarovsky sul bordo della cornetta, che riempivo di caramelle ed m&m. Per chiamare usavo il cellulare, non mi serviva un fisso. Sull’unica parete spoglia di locandine o quadri, troneggiava un’enorme plasma argenteo, mentre dalla parte opposta stava l’impianto stereo, con la mia collezione di cd e DVD. Visto che me lo potevo permettere, non scaricavo niente e compravo tutto originale.

Entrai nella gigantesca cabina armadio e presi il pigiama a salopette, grigio e rosa, con un coniglio davanti. Mi stava larghissimo.

Entrai nel bagno della mia camera, e cominciai a riempire la vasca. L’avevo voluto enorme, tutto sui toni dell’azzurro e del bianco: visto che ci passavo ore, perché non renderlo il più vivibile possibile? Scelsi il bagnoschiuma alla vaniglia, il mio preferito, e riempii la vasca di schiuma. Feci il bagno in silenzio, dopo essermi struccata accuratamente, come non mi era solito fare. Quasi mi addormentai nella vasca, cullata dall’acqua calda e dal profumo dolce della vaniglia. Mi avevano sempre detto che il mio odore ricordava la vaniglia: un fiore sì, ma anche un cibo. Uscii solo quando l’acqua cominciò a diventare tiepida. Mi misi il pigiama e raccolsi i capelli in uno chignon morbido da cui parecchie ciocche rimanevano fuori.

Passando davanti allo specchio, mi osservai: senza trucco, senza vestiti particolari, senza che potessi parlare e prendermi gioco anche di me stessa, sentii il bisogno di andare giù in cucina. A farmi lusingare e vezzeggiare.

Una parte di me provò pena per quel che ero. L’altra parte corse giù dalle scale e andò ad occupare il suo solito posto.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Notturno ***


-Assolutamente imperdonabile- Era visibilmente scandalizzato

In cucina mi versai un bicchiere di latte e presi la busta dei biscotti al cioccolato, e mi sedetti sul pianale. Ovviamente tutti erano lì ad aspettare il mio resoconto dettagliato. Mamma e papà erano in pole position, seduti vicini al tavolo, mentre gli altri erano variamente disseminati per la stanza. Mandai giù un sorso di latte e mi schiarii la voce.

-Ma non vi avevo raccontato anche oggi?-

-Ma non ci hai detto niente!!- Alice strinse i pugni, come una bambina a cui viene tolta una caramella.

-Magari per ora non ha niente da dire, Ally…- Jasper tentò un vaga difesa, ma la piccola folle strinse gli occhi e fu abbastanza eloquente  da ridurlo al silenzio. Tanto valeva dire anche a loro quel che pensavo.

-Gli umani sono delle palle al piede- Ecco, era la sentenza.

-Lo sapevo!- Papà si lasciò scivolare sulla sedia scuotendo la testa.

-Ma amore!- Mamma c’era rimasta male.

-E se non te li puoi mangiare è anche peggio!- Emmett andava sul pratico.

-Non voglio fare conclusioni affrettate ma…sono molto prevedibili- presi un altro sorso di latte - …così scontati e stupidi. Non mi piacciono molto-

A mamma dispiaceva. Dopotutto, lei era vampira da poco tempo, era ancora legata alla sua vecchia specie.

-Tesoro cerca di essere comprensiva: se vieni da una famiglia come la nostra, è chiaro che sarai annoiata dagli umani, ma cerca di essere comprensiva…avanti Edward dammi ragione!-

Papà era un po’confuso, era strano che non si fosse ancora espresso –Ma Bella, amore, anche per me gli umani sono noiosi, a parte te da umana, ovviamente- Le diede un bacio sul collo. Un bacio che aveva tutta l’aria di essere il preludio di qualcos’altro. Insomma, adoravo il fatto che i miei genitori si amassero alla follia, ma il fatto che dopo le sei di sera tutto dovesse diventare un’allusione sessuale non lo avevo ancora digerito.

-Ehi!- Richiamai l’attenzione.

-Scusa- Mamma era imbarazzatissima, se avesse potuto sarebbe arrossita fino alle orecchie.

-Non preoccupatevi, adesso vado davanti alla tv- I vecchi sporcaccioni avrebbero avuto campo libero – comunque, nonostante tutto voglio comunque continuare. E per favore qualcuno spieghi a Jacob che non sto andando al patibolo!- Inaspettatamente, tutti reagirono con un certo imbarazzo e una certa tensione alle mie parole. Mamma si morse il labbro, brutto segno. M’invase una paura irrazionale.

-Jacob…sta bene?-

-Ma certo amore, sarà soltanto stato un po’ agitato e preoccupato, sai com’è fatto- mia madre parlava velocemente, guardando in faccia papà.

-Mamma, non sai raccontare balle, lo dovresti sapere- Il suo comportamento evasivo non faceva che seccarmi.

-Tesoro, tua madre ha ragione. Non vorrai essere tu quella che si preoccupa troppo, adesso?- Papà concluse con una risata, archiviando il discorso. Forse aveva ragione: a forza di starmene con quell’ansioso lo stavo diventando pure io.

-Bene, io vado a caccia!- Emmett prese per mano Rose – Chi viene con noi?-

Alice e Jasper si unirono al gruppo, avrebbero oltrepassato il confine e sarebbero andati in Canada. Per il giorno dopo era previsto sole. Li salutai e mi misi sul divano a guardare la televisione. Sul via cavo davano I sette cavalieri dell’Apocalisse, non proprio il mio genere, ma i film anni 50 erano sempre belli. Anche i miei rimasero con me a guardarlo. Verso le dieci era finito.

Di solito non andavo mai a dormire così presto, ma quel giorno ero stremata. Andai in camera, mi lavai i denti velocemente e andai a letto. Mi addormenti subito.

 

Ma quella notte l’incubo ritornò. Era l’incubo Biancaneve.

Da bambina pensavo che Biancaneve dovesse essere un vampiro. Dopotutto era bella e pallida, non era normale. In questo sogno ero io Biancaneve: vestita come nel film Disney, ero nella mia bara di cristallo, che giacevo sui fiori. Il principe si avvicinava, per svegliarmi. Ma io, inaspettatamente, aprivo gli occhi: erano scarlatti. Ero una vampira. Nel sogno, uccidevo il principe che stava per svegliarmi. Niente truculenzete, semplicemente, mentre lui si avvicinava per baciarmi, io lo addentavo alla gola. E dopo aver placato la mia sete bruciante, per caso mi voltavo e vedevo il viso del principe.

Il peggio di quell’incubo era che ogni notte il principe cambiava, senza un apparente senso logico. Ma era sempre qualcuno che amavo. Avevo sognato, e fasi alterne, tutti i membri della mia famiglia. Quella notte il principe era Jacob, ultimamente capitava più spesso. Le prime volte, chissà perchè, era sempre mio nonno. I volti dei principi erano diversi da quelli reali, più belli o più brutti. Ma sapevo che erano loro. Nel sogno, dopo aver ucciso Jacob, mi gettavo a terra, strappando l’erba del prato, strappandomi i capelli, mordendomi le labbra fino a farle sanguinare, graffiandomi la faccia. Mi svegliai.

Fortunatamente, avevo pianto in silenzio. Se avessi cominciato a urlare come una mentecatta, come mi capitava a volte, qualcuno sarebbe arrivato lì a chiedermi che diavolo c’era. E avrei pianto ancora di più.

Guardai la sveglia. Un quarto alle quattro. Che cazzo di orario. Se andava bene mi sarei riaddormentata alle cinque, dopo quello spavento. Dovevo distrarmi.

Fuori era ancora completamente buio. Captai i suoni calmi della notte, in contrapposizione ai battiti del mio cuore. Sentii il bisogno di unirmi a quella quiete. Mi tolsi il pigiama e mi misi una tuta da jogging e un paio di scarpe da ginnastica. Visto che fuori faceva freddo, mi misi anche un woolrich leggero. Aprii la finestra e saltai sul tetto, attraversandolo con tre balzi e lasciandomi cadere silenziosamente sul grosso ramo di una quercia, sul retro. Gli altri erano abituati alle mie incursioni notturne da insonne. La foresta era praticamente dietro al nostro parco, e non appena l’intrico dei rami mi mise al riparo, cominciai a correre il più velocemente possibile.

Detestavo i miei limiti, per quanto sforzassi il mio fisico, non avrei mai avuto le capacità di un vero vampiro. A volte sbattevo addirittura contro gli alberi, graffiandomi la faccia.

Correndo, concentrata com’ero per evitare le sagome degli alberi, cominciai a dimenticare l’ansia del sogno e smisi di piangere. Ormai dovevano essere le quattro e mezza, anche la notte non era più così profonda come quando mi ero svegliata, ma non avevo fretta di tornare a dormire. Più mi immergevo nella foresta, nelle sue fragranze, nei suoi suoni, più avevo voglia di proseguire la mia corsa in quell’infinito intreccio. Mi sembrava di essere in un labirinto, ma il pensiero non mi disturbava, anzi: era esaltante.

Di colpo sentii un odore nuovo, una scia vaga, e per poco non mi appiccicai a un abete. Mi fermai di colpo e sentii l’aria. L’odore di vampiro. Precisamente Benjamin.

Decisi di proseguire la mia corsa dalla parte che mi sembrava l’opposta rispetto alla sua, volevo starmene ancora un po’ da sola. Cercai di immergermi di nuovo nell’ebbrezza della corsa, ma non ci riuscii. Stra maledettissimo vampirastro. Girai i tacchi e tornai indietro, dirigendomi verso casa: tanto valeva andare a dormire, se la corsa non mi rilassava. Ritornando indietro, l’odore di Benjamin si fece più intenso.

Fino a che non mi trovai con la faccia praticamente appiccicata alla sua.

-Ciao- Sembrava sorpreso di trovarmi lì.

-Come diavolo…- Nel frattempo, poco c’era mancato che mi prendesse un colpo. Insomma, un vampiro che spunta dalla foresta e ti si piazza davanti alla faccia. Avevo il cuore in gola.

-Sei tu che sei distratta, non ti sei neanche accorta di me- Sollevò un sopracciglio con aria critica –Tutto bene?-

Oh, infieriamo sul corpo del nemico, mi raccomando!

-Certo, come fai a pensare che…- tirai il fiato. La corsa e lo spavento mi avevano lasciato senza respiro.

-Ehm, vuoi un momento?- Il sopracciglio era rimasto alzato, e stava dicendo “ma da dove esce questa sottospecie di alienata che se ne va in giro per la foresta senza nemmeno sentire un vampiro alle spalle?”.

Mi sentii molto ridicola, vestita come se stessi facendo jogging, alle quattro del mattino in una foresta, con gli occhi rossi di pianto e il fiatone. Benjamin, neanche a dirlo, non muoveva un muscolo. Sopracciglio schernitore a parte, ovviamente.

Approfittai della pausa per prendere fiato.

-Che diavolo ci fai qui?-

-Sono andato a caccia. Tu non dovresti essere a dormire?-

-T’interessa?-

-L’insonnia è provocata dallo stress, dovresti considerarlo-

Non riuscii a dirgli di chiudere il becco, forse aveva ragione. E vedendolo lì davanti a me, in una foresta, di notte, non provai la stessa strana repulsione, e paura, che avevo provato quella mattina a scuola. Fu una strana sensazione. In mezzo a quella solitudine, Benjamin non mi sembrava così assurdo e selvaggio. Non mi sembrava così sconosciuto.

-Renesmee?- Evidentemente ero rimasta zitta per troppo tempo.

-Perché non mi chiami Nessie?-

-Perché non ti conosco, e sarebbe sgarbato chiamarti con un soprannome-

-Allora l’umana con te è stata sgarbata oggi?- Stavo per mettermi a ridere. Non me l’aspettavo così cerimonioso.

aspettavo così cerimonioso.

. oggi?-hiamarti con un nomignolo

. la stessa strana repulsione, e paura, che avevo provato quella m-Assolutamente imperdonabile- Era visibilmente scandalizzato

-Però, sei permaloso-

-Potrebbe essere- mi rivolse un sorriso appena accennato-e tu?-

-Perché non rispondi mai alle domande che ti rivolgo ma me le giri indietro?-

-Giusta osservazione. Perché non so se risponderti o meno- Ma certo, era ovvio. Stronzo.

-E perché non dovresti rispondermi?-

Si limitò a fissarmi e a sbuffare, guardando attorno.

-Tra poco uscirà il sole, dovrò andare. Ma prima voglio parlare un po’- Fece un passo verso di me, lentamente – O vuoi tornare a casa?-

Mi colse di sorpresa, non mi aspettavo che avrebbe mai voluto parlare considerati i miei tentativi di interrogatorio.

-Dipende da cosa mi vuoi dire- Lo guardai di sottecchi, ma non riuscii a nascondere la mia curiosità. Lui osservò divertito il mio sforzo e guardò all’insù, corrugando la fronte.

-Magari ti racconto un po’ di me- Il suo sguardo ritornò su di me: scrutava la mia reazione. Feci spallucce e schioccai la lingua.

-Tutto qua?-

Rise forte –Ma per favore…tu muori dalla voglia di sapere-

-E come fai a dirlo?- Alzai la voce. Ero arrossita, lo sentivo.

-Dissimulare troppo a volte sortisce l’effetto contrario. Non sei brava a mentire-

-Ok, voglio sapere, c’è qualcosa di male?- A quel punto, era meglio lasciar perdere. Non avevo voglia di scontrarmi, volevo almeno sembrare una persona ragionevole. Benjamin sembrò sorpreso e compiaciuto dal mio cambiamento, come se fosse una sua vittoria.

-Vieni-

Si voltò e salì su un abete enorme: con pochi balzi al momento giusto si issò su un grosso ramo, in alto di parecchi metri. Si sedette, dandomi di spalle. Lo seguii, ma ebbi l’impressione che i miei movimenti fossero molto più goffi e scoordinati dei suoi. Sul ramo mi sedetti al suo fianco. Davanti ai miei occhi si elevavano le cime della foresta. Di fianco a me, il profilo di Benjamin ci stagliava  sulle ombre notturne, deciso e fermo. Si voltò prima che potessi distogliere lo sguardo.

-Non so cosa dirti-

Stavolta fui io a ridere. –E io per la seconda volta non so cosa chiederti- anche Benjamin sorrise, senza sarcasmo. Sembrava davvero quasi imbarazzato, ma stentavo a crederlo. Cercai i suoi occhi, ma li volse altrove all’istante.

-Anzi, io vorrei chiederti scusa per oggi. Non sono abituata a incontrare persone nuove…e oggi era una giornata particolare, cioè difficile…insomma ero un po’…- Mi mancavano le parole.

-Nervosa?-

-Esatto. Insomma non volevo essere così sgarbata, anche oggi quando sei venuto a casa nostra…e insomma tu sei anche un vampiro come si deve e io dovrei…-

-Ok, basta. Tranquilla- Benjamin aveva alzato la testa e mi aveva bloccata –non mi hai offeso-

Dopo essermi scusata, mi sentii più leggera, soddisfatta. Una persona civile. Respirai profondamente e sorrisi a me stessa, chiudendo gli occhi.

-Certo che sei strana- Mi voltai e vidi Benjamin che mi fissava corrugando la fronte, con il labbro superiore alzato in una smorfia.

-Ma ti sei visto?- Era il colmo. Io strana, e lui cos’era? Uno che controlla ogni piccolo movimento come se fosse fatto di circuiti, uno che va ad abitare in una città quando non sa nemmeno se è capace di essere vegetariano. Fece spallucce e un”umpf” che aveva tanto l’aria di voler dire “ma per favore, se c’è un esaurita questa sei tu”.

Stavo per lasciar perdere tutti i miei buoni propositi quando parlò. Sembrava sapesse perfettamente fino a che punto poteva arrischiarsi.

-Ti piace vivere qui?-

-Certo, c’è la mia famiglia. E non è esageratamente lontano da Los Angeles-

-Io odio Los Angeles-

-Io la adoro- Chiusi il discorso. Del resto, potevo facilmente capire da come si conciava che era una specie di spirito poco civilizzato. Pantaloni da lavoro. Il genere di cosa che avrebbe fatto subire un trauma ad Alice.

-E ci vai spesso?- Alla faccia del parlare un po’. Questo mi stava facendo il terzo grado.

-Quando sono a corto di vestiti…diciamo una volta ogni due settimane, più o meno-

-Interessante- non lo interessava per niente: non mi guardava nemmeno. Pure maleducato.

-E perché non ti piace Los Angeles?-

-Troppo caldo, troppa gente. Qui è molto meglio, credimi. E poi io sono di New York- Informazioni spontanee, mi stavo emozionando.

-Davvero?- non riuscii a trattenere la curiosità, stavolta – E quando sei…nato?- Non sapevo bene se dire, nato, morto o creato. Con i vampiri è sempre un gran casino.

-Non te lo dico- Si voltò e mi guardò come un bambino che fa un dispetto di cui va fiero.

-E perché?!- Ho sempre odiato i bambini.

-Mi diverte la tua curiosità-

-Sono ridicola?!-

Rise forte –Non sai quanto!- Bene, ero lo zimbello di uno squilibrato. Cercai di ripetere mentalmente un mantra che avevo imparato a una lezione di joga, e cercai di ricordare alcune perle di saggezza orientale. Sarei stata il contadino che aspetta di veder passare sotto il ponte il cadavere del nemico, avevo deciso. Pace e amore.

-La cosa non mi tocca- Strinsi le labbra.

-Certo che no- Smise di ridere ma alzò il sopracciglio. Stra maledettissimo sopracciglio ironico, giure che avrei preso una pinzetta e gliel’avrei modificato con le mie mani…..

Renesmee, la terribile estetista pazza.

Fui molto felice del fatto che mio padre non fosse abbastanza vicino da poter sentire la mia ennesima fantasia di vendetta da zitella frustrata.

-Se non me lo vuoi dire è uguale- voltai la testa e guardai dritto davanti a me. Quel tizio andava solo preso con la psicologia inversa. Se io avessi parlato, lo avrebbe fatto anche lui. E, come avevo provato quella mattina, parlare di me ad un perfetto sconosciuto in qualche modo mi soddisfaceva, mi faceva sentire più reale.

-Io sono nata quattordici anni fa, ma sono adulta già da un po’. Non sono mai stata una bambina, nel vero senso del termine: ho sempre avuto tutto chiaro. Non ho ricordi sfocati, e ho coscienza di me stessa dal momento in cui ho cominciato a vedere, quando sono nata.- di sbieco cercai di vedere cosa stesse facendo Benjamin: si era voltato e mi fissava – Quando giocavo alla Barbie, giocavo a Barbie moglie tradita che lascia Ken. O a Barbie scienziata che vince il nobel per la fisica. Per non parlare di Barbie donna in carriera: inventavo campagne pubblicitarie per movimentare i miei pomeriggi- probabilmente avrei continuato a descrivere i miei giocattoli per un bel po’, se non avessi sentito il ramo su cui stavo seduta muoversi.

Benjamin stava letteralmente soffocando dalle risate. Si contorceva tenendosi una mano sulla bocca, gli occhi chiusi. Ero sbigottita. Quando vide che l’avevo scoperto, cominciò a ridere enza trattenersi.

-Barbie moglie tradita?? E Ken le passava gli alimenti o era una separazione consensuale??

L’orribile Benjamin ululava dal divertimento. Si mise addirittura una mano sulla pancia: gesto inutile per un vampiro. D’un tratto mi sentii veramente un’idiota ad aver raccontato di me a lui, uno sconosciuto: il motivo per cui prima mi era sembrato il destinatario ideale per il mio sfogo me lo faceva ora sembrare un individuo del tutto inadeguato.

Vederlo ridere di me mi fece totalmente uscire di testa. Fu come una nebbia.

La mia anima di vampiro, la mia parte più animale avrebbe voluto prenderlo alla gola. La mia parte umana avrebbe voluto allontanarlo. Così, come sempre, le due me giunsero al compromesso più ragionevole: allontanarlo con violenza.

Con una manata spinsi Benjamin giù dall’albero, così, all’improvviso. Prima che potessi fermare me stessa. Era stato come un riflesso, come quando si allontana la mano dal fuoco. Lui ancora rideva.

La prima cosa che pensai fu “e se fosse stato umano”?

La seconda fu “oh merda, che cazzo gli dico adesso?”.

Lui fu più veloce di me a reagire. Ovviamente non si era fatto niente, erano solo pochi metri e lui era praticamente indistruttibile. Sentii il tonfo della sua caduta: non ebbi il coraggio di guardare di sotto.

-Ma che cazzo…-

Si stava pulendo i vestiti dalle foglie, sentivo il fruscio della stoffa. Avevo anche la vaga sensazione che mi stesse fissando, probabilmente con quell’aria distante e al tempo stesso impensierita per la mia salute psichica. E stavolta, dovevo ammetterlo, aveva pienamente ragione.

Scesi dall’albero con due salti, per affrontare il guaio, e atterrai di fronte a lui. L’espressione era proprio quella che avevo immaginato. Deglutii. Era anche molto diffidente: era evidente che se l’era un po’ presa.

-Oddio scusa! Ti sei fatto male?- Che domanda scema, in effetti.

-Renesmee, ma ti pare?- In effetti.

-Lo so ma sai…era un riflesso! E tu ridevi! E io sono un po’ permalosa…e non volevo proprio buttarti giù, insomma volevo solo allontanarti un po’! Sono…mortificata- Terminai con la parola preferita di papà per scusarsi.

Nessie, dì a tua madre che sei mortificata!

Sono mortificato per il tuo comportamento!

Questi pensieri mi mortificano!

Non mi ero mai sentita tanto mortificata in vita mia. Come si può lanciare uno sconosciuto da un albero?

Benjamin mi guardava, freddo. Io ero arrossita, e mi sentivo gli occhi caldi e gonfi. Mi sarei messa a piangere per la vergogna.

-Ma te la sei presa tanto per la storia delle Barbie?- Lui non faceva una piega. Mi infastidiva anche più di quando alzava il sopracciglio, perché per certi versi mi faceva paura. La paura che un vampiro doveva incutere.

-Sì- Mi morsi il labbro e guardai a terra. Era avvilente ammettere la realtà.

Benjamin fece un respiro profondo, come se stesse sentendo qualche profumo, profondamente. Fece qualche passo verso di me. Alzai lo sguardo. Sorrideva, e non aveva la sua solita espressione distante. Sembrava divertito, e anche incuriosito.

-Renesmee, ora non riderò, perché ho pura che tu mi voglia morto.- Fece un altro passo verso di me, eravamo faccia a faccia, lo vedevo benissimo. Aveva dei riflessi sul collo, guardai meglio.

Erano cicatrici. Cicatrici di altri vampiri, come quelle di Jasper. Istintivamente, arretrai di un passo. Lui sembrò accorgersene, perché inclinò leggermente la testa, interrogativo.

Il senso di paura, dopotutto, non era una sensazione del tutto immotivata.

Mi sembrò pazzesco essere rimasta con lui, senza sapere niente sul suo conto. Sulle cicatrici, sul comportamento. Ma più che irresponsabile, mi parve esaltante.

-Lasciami solo dire che forse hai sbagliato a considerare una cosa- chinò delicatamente la testa verso di me, e parlò in un soffio, piano anche per un vampiro.

-Tu hai detto che non sei mai stata una bambina, nel vero senso del termine- si fece sfuggire una lieve risata –Per esperienza personale ti devo smentire…forse ti sembra di non esserlo mai stata perché lo sei ancora?-

Aveva tutta l’aria di essere una constatazione, più che una domanda.

Ma non gli badai molto, sebbene fosse offensiva per me, perché ero tutta intenta a contare le cicatrici sul collo. Lo guardai negli occhi: non aspettava una mia reazione. E infatti non sapevo assolutamente che dire, a parte che ero mortificata. Ebbi la terribile impressione di essere rimasta a bocca aperta.

Mi diede un buffetto sulla guancia. Un buffetto, di quelli che si danno ai cani e ai bambini. Ero allibita. Non sorrideva.

-Ci vediamo, Renesmee-

In meno di un secondo, Benjamin era scomparso dalla mia vista, veloce e silenzioso, mentre io ero rimasta lì ai piedi dell’albero da cui lo avevo buttato.

Un buffetto.

Brutto stronzo, ma come si permetteva? Nessuno poteva compatirmi così. La pietà era un sentimento che detestavo: implica una superbia intollerabile e odiosa. Che se le tenesse per lui le sue considerazioni. “Per quanto vere possano essere”, pensò lontana una parte di me, che subito feci tacere.

Pestai un piede a terra, tanto per dare uno sfogo alla rabbia e alla vergogna, e me ne tornai verso casa, prima camminando, poi correndo. Doveva essere passato un po’ di tempo.

Mentre correvo, ripensai con rabbia e irritazione all’incontro con Benjamin, fino a quando non mi convinsi che ero stata più che gentile ad averlo solamente buttato giù da un albero. Ma, inaspettatamente, quando mi immersi nell’ebbrezza della corsa, non ripensai più a ciò che avevamo detto.

Mi misi mentalmente a contare le cicatrici sul suo collo. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Senza sogni ***


12

Capitolo cortissimo, ma aggiorno presto. Scusate se non ho ringraziato per i preferiti, ma nell’ultimo capitolo ho avuto dei problemi con il computer e non scriveva più niente…vaaaaabe! :S quindi ho perso il conto! Ringrazio quindi tutti quelli che hanno aggiunto la soria tra i preferiti, grazie mille, veramente! Giuli94: Ciao! be grazie! Ma secondo me alla fine la più scioccata era Renesmee...che tonna! XD

A presto!

Giuls

 

 

 

 

Rientrai dalla finestra della mia camera, che avevo lasciata aperta. Le tende svolazzavano, come nei vecchi film dell’orrore. E come nei vecchi film dell’orrore, ad aspettarmi in camera se ne stava un vampiro.

Papà era seduto sul mio letto, le mani giunte e l’espressione severa. Strano che non stesse facendo dell’altro, a quell’ora della notte. Sembrava molto irritato. Decisamente la lontananza dalla partner non gli faceva bene.

-Papà, cosa fai sul mio letto?- Ero più sorpresa che arrabbiata, in realtà. La mia camera era il mio posto, di solito nessuno poteva entrare, a meno che io non ce l’avessi portato.

Mio padre trasse un respiro profondo.

-Renesmee, tu cos’hai fatto per rimanere un’ora e mezzo fuori di casa, nel cuore della notte con uno sconosciuto? Sei impazzita?- non parlava a voce alta, ma era veramente arrabbiato: lo capivo da come la sua voce era talmente trattenuta da risultare sottile e pungente –Quando tua madre non ti ha vista tornare subito si è subito preoccupata. Molto. Voleva venirti a cercare-

I suoi occhi mi accusavano del più grande delitto che mio padre potesse immaginare, lo scempio per antonomasia: far soffrire mia madre. Quando faceva così lo avrei preso a schiaffi. Mia madre non era più una ragazzina umana troppo imbranata per evitare che qualcuno tentasse di ucciderla, e non aveva bisogno di una guardia del corpo. Ma a entrambi sembrava piacere continuare a vivere in quei due ruoli, la donzella indifesa e il cavaliere protettore. Sbuffai.

-Senti papà, se il problema è che sei andato in bianco perché mamma era preoccupata, guarda che hai tutta l’eternità per rifarti-

-Renesmee!- Papà sgranò gli occhi e si guardò attorno. Quanto ci somigliavamo a volte. Se il suo cuore avesse potuto battere, ero sicura che in quel momento gli sarebbe venuto un attacco tremendo e avrei dovuto usare un defibrillatore. Ci mise qualche secondo per riprendersi –Tesoro ma cosa vai a pensare?-

La verità, papino.

-Ti prego Renesmee, sii seria. Eravamo davvero preoccupati- sembrava un po’ dispiaciuto.

-E allora perché non siete venuti da me se eravate tanto in ansia? Non ero dall’altra parte della terra!-

-Ma perché se qualcuno si fosse azzardato a seguirti saresti semplicemente diventata furiosa- Papà spiegava calmo, gesticolando con leggerezza.

-Già- Non potevo non dargli ragione, era la semplice verità. Averli troppo addosso mi faceva molto arrabbiare. Abbassai gli occhi e guardai le scarpe, sporche di fango e foglie. Mi ero dimenticata di pulirle entrando in casa..

-Vorremmo che tu evitassi certe uscite, ok? Uscire la notte con un vampiro che nemmeno conosci, non è prudente- Papà mi fissava, quasi a convincermi solo con  l’intensità del suo sguardo.

-Papà, per favore. Sai perfettamente che non è Benjamin il problema: sono le vostre fisse della lontananza, ecco tutto- Mi sedetti sul letto di fianco a papà, per togliermi le scarpe e il giubbotto.

-E invece è Benjamin il problema- Mio padre sussurrò senza nemmeno guardarmi negli occhi, ma scrutando il bosco, attraverso l’ampia finestra ancora semi aperta.

-Cosa?- mi bloccai. Il tono di papà era grave e debole, un bisbiglio che mi ricordò una confessione.

-Non sai chi sia-

-Ma certo che lo so, e lo sapete anche voi-

-Non ne sono sicuro- Papà era ancora voltato, non vedevo il suo viso. Non capivo dove volesse arrivare. Scattai in piedi e mi piazzai davanti a lui.

-Cosa significa?-

-Non riesco a leggerlo al meglio-

-Che cosa vuole Benjamin?-

-E Alice non lo vede molto bene-

-Papà!- Urlai, per fermare il suo monologo inutile, che avevo già sentito –Cosa vuol dire che non sei sicuro di chi sia?-

Mio padre volse finalmente lo sguardo nel mio. I suoi occhi dorati sembravano fatti di pietra, erano duri e risoluti.

-Ti prego di non andartene in giro da sola con lui.- Era un ordine, non una richiesta, e chiudeva la nostra conversazione. Papà si alzò dal letto e mi abbracciò. Mi appoggiai a lui, e senza che nemmeno me ne accorgessi mi mise a letto. Ero stanca, non avevo voglia di fare domande, e mio padre era davvero arrabbiato, o comunque turbato. Non avevo capito un bel niente di quello che aveva voluto dirmi quella notte, ma qualunque cosa fosse, l’avrei scoperta domani.

Lasciai che mio padre mi desse un bacio leggero sulla fronte e poi, all’istante, sprofondai in un sonno placido e scuro, senza l’ombra di un sogno.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Vagabondo ***


13

Ciao! Nuovo capitolo, un po’ in ritardo ma eccolo comunque qua. Prima di tutto una precisazione per farsi un’idea sul tempo della storia: anche se dovrebbe essere ambientata circa quattordici anni dopo la fine di Breaking Dawn, tutti i riferimenti a oggetti, personaggi o avvenimenti reali sono riferiti ai giorni nostri. Lo so che è abbastanza triste ( XD ) ma credo sia meglio così, piuttosto che proiettare tutto quanto in un futuro vago e indefinito. Seconda cosa: ho perso il conto dei preferiti, chiedo SCUSA a coloro che hanno messo la storia tra i preferiti, perché non potrò ringraziarli come si deve citandoli. Ad ogni modo, vi ringrazio molto per il tempo che dedicate alla lettura della storia, davvero!

Giuly94: Ciao! Be mi dispiace ma riguardo a Benjamin (spoilerino! ^^) per scoprire tutto ma proprio tutto di lui bisognerà aspettare la fine della fan fiction, e quindi non so nemmeno quando, ma per sapere qualcosa in più ci vorranno ancora quattro o cinque capitoli…mi raccomando segui e fammi sapere se ti piace!! A presto!

 

Un bacio,

Giuls

 

 

 

 

E un nuovo giorno!! Gioia e gaudio, cantate fringuelli!

È tardi!

Renesmeeeeeee!

Credi che dovremmo tirarla fuori da lì?

Nessie….avanti è tardissimo! Salterai la colazione!

Nessie l’Apocalisse!

APOCALISSE APOCALISSE APOCALISSE

 

Voci scorrevano nella mia testa. Voci troppo alte, le ignorai.

APOCALISSE APOCALISSE APOCALISSE

Ma non riuscivo ad ignorare quella voce. Acuta e melodiosa. Alice. Il solo pensiero fu una condanna: lei era l’incaricata sveglia. Per un motivo ancora sconosciuto, la piccola psicopatica aveva deciso che svegliarmi sarebbe stato il suo compito personale e inderogabile. Forse per rimediare ai miei ritardi cronici. Il suo obiettivo era farmi arrivare a scuola in perfetto orario, né troppo presto né troppo tardi. Il motivo mi sfuggiva, ma anche se avessi deciso di arrivare a una risposta logica, non ci sarei comunque riuscita. Insomma, era Alice, cosa poteva esserci di logico o ragionevole?

Alice mi stava urlando “apocalisse” nell’orecchio destro da un minuto, e arrivai al limite della sopportazione. Dischiusi gli occhi.

-Alice, pietà…- Emisi un mormorio roco, impastato di sonno. Facevo davvero pietà.

-Finalmente sei tra noi! Stavamo già pensando di portarti giù di forza!- Alice era raggiante. Ogni mattina la sfida con me era dura, e ogni mattina la vinceva dopo una lunga battaglia, più soddisfatta che mai. Zia Alice l’adorabile sveglia vampiro. Mi diede un bacetto sulla guancia e contemporaneamente mi alzò con uno strattone. Sbarrai gli occhi: era completamente matta.

-Tesoro non fare quella faccia…sei in ri-tar-do! Ti ho già preparato i vestiti, muoviti!-

Qualcuno doveva togliermi quella cosina di torno. Non avrei resistito ad altri quattro anni di sveglie alla Alice.

-Alice…ha sonno, stanotte non ha dormito! Andrà a scuola l’ora dopo- Rose, la mia dolce Rosalie. Solo lei mi avrebbe salvato dal flagello –Lasciamola stare e torniamo dopo-

-No, lascia stare Rose- cercai di aprire ragionevolmente gli occhi. La stanza era piena di una fioca luce autunnale, il sole non doveva essere forte. Ma era abbastanza per costringere a casa i componenti della mia famiglia. Mi stiracchiai e mi alzai in piedi. Al primo passo verso la porta quasi inciampai nel lenzuolo.

-Visto, Rosalie? Non sarà mai in ritardo, te lo garantisco!- Alice sorrideva soddisfatta, con un’aria vagamente diabolica. O almeno così sembrava ai miei occhi.

-Alice, è una minaccia, vero?- Sbadigliai senza mettere la mano davanti. Al diavolo. –Sono molto in ritardo?-

-Hai dieci minuti!- Alice battè le mani. Si sentiva una specie di personal trainer, e quel giorno avrei dovuto battere ogni record.

-Oh cazzo- La notizia mi svegliò completamente.

Dopo aver fatto la doccia più veloce della mia vita, che durò all’incirca il tempo perché l’acqua diventasse piacevolmente calda, mi precipitai nella cabina armadio e mi misi un paio di jeans chiari con una semplice felpa verde (i propositi anti Luke erano ancora validi dal giorno prima) e un paio di Vans bianche. Pettinai i capelli senza nemmeno guardarmi allo specchio e misi qualche libro nella tracolla di Vuitton, sperando che almeno qualcuno fosse giusto. Volai letteralmente le scale.

-Amore ce l’hai fatta, sei in orario!- Mamma spuntò dalla cucina, seguita da papà.

-Jacob è già andato a prendere l’auto- Papà fece quello che doveva essere un sorriso sereno, ma il concetto “Jacob + auto” non era esattamente positivo.

I miei gli avevano regalato un pick up, quando si era trasferito con noi. La sua auto era troppo scassata per affrontare i cento chilometri che ci dividevano da Forks, e così mamma aveva pensato di comprargliene una che rispondesse alle sue esigenze. Quel traditore di Jacob aveva voluto un pick up, per avere la scusa per andare piano come un pensionato e per potermi caricare senza ansie. Era pazzesco: i miei gli avrebbero preso qualsiasi auto, ma pur di stare più tranquillo con me aveva scelto un pick up. A volte Jake mi spaventava.

-Lasciate stare, vado da sola. Altrimenti arriveremo per l’ora di pranzo. A dopo-

Presi le chiavi della Jeep prima che nessuno potesse dire niente.

 

 

Arrivai a scuola in anticipo. La Jeep aveva un’accelerazione straordinaria. Anche quella mattina vidi i miei bavosi compagni, intenti ad ammirare l’enorme massa nera del fuoristrada. Mi venne da ridere: erano patetici. Quella mattina stavo ascoltando della musica elettronica francese.

Non sarei scesa dall’auto, avrei aspettato che Jacob arrivasse per poi andare a scuola insieme: stare da sola con gli umani mi disturbava un po’, e se possibile volevo evitare il supplizio, almeno quando Jake c’era. Mi dedicai alla mia occupazione per i tempi morti: limarmi le unghie. Avevo l’occorrente nel cruscotto.

La lotta contro le demoniache pellicine mi prese talmente tanto che quando sentii bussare al finestrino presi uno spavento e feci volare in aria la limetta. Mi voltai.

Jacob se ne stava con la faccia appiccicata al vetro nel tentativo di vedere attraverso il vetro oscurato. Aveva una faccia a dir poco ridicola. Scoppiai in una risata e feci scorrere giù il finestrino.

-Mi hai fatto prendere un colpo!-

-Scusa, ma non vedo niente con questi cosi scuri…ma poi la usi solo tu la macchina, che bisogno c’era dei vetri oscurati??- Il povero Jake, quando avevo ricevuto il mio regalo, si era lamentato del fatto che non poteva controllarmi, dall’esterno, con i vetro scuri.

-Ma piantala, sei solo invidioso perché è full optional-

-Full optional?Ma se non ha nemmeno la rete per i cani? Non ci potrei nemmeno salire!- Prese un’aria di sufficienza.

-E chi ti ha invitato?- Tirai su di poco il finestrino, ridendo sotto i baffi.

-No aspetta, aspetta! Devo dirti una cosa- Per poco non infilò la testa attraverso il finestrino, che ancora si stava richiudendo: aveva un tono concitato. Lo feci scendere.

-Che c’è?-

Lui si mise una mano tra i capelli e guardò attorno a sé: stava per parlare del branco. Assumeva sempre un fare vagamente sospetto, quando doveva parlare della sua doppia natura. Parlò con gli occhi bassi. Ero circondata da persone che non sapevano mentire. Nessuno (proprio nessuno) poteva rimproverarmi per il mio poco talento nel raccontare balle, se avevo davanti agli occhi esempi tanto pietosi.

-E’ successo un casino, giù a La Push…due vampiri erano nei dintorni, ieri notte. E c’è stato un duplice omicidio, a Vancouver: due buttafuori sono stai ammazzati. Gli hanno spezzato le ossa e poi li hanno bruciati. Sono stati i vampiri, di sicuro.- Si guardò di nuovo intorno, concitato, respirando affannosamente, quasi che raccontandola la storia diventasse più reale –Devo tornare là, li devo trovare e ….- Mi guardò negli occhi, eloquente.

-Eliminare?- Il pensiero che due miei simili, almeno in parte, e anche se non vegetariani, venissero uccisi, mi disturbava.

Il silenzio di Jacob fu un cenno di assenso.

-Hanno ucciso, Nessie- Cercò di giustificarsi, prendendomi la mano e stringendomela forte.

-Hai ragione tu, come sempre- gli passai l’altra mano sul viso.

Restai con la mia mano sulla sua guancia fino a che non mi accorsi che tutti gli altri ci stavano guardando con gli occhi sgranati, ci mancava solo che qualcuno urlasse “Guarda guarda con chi se la fa quella che se la tira tanto!”. Magari Amy.

-Jake, mi sa che devo entrare in classe- Tolsi velocemente la mia mano, e lui lasciò la presa, comprensivo. Aveva capito cosa intendevo.

Scesi dall’auto e chiusi con la chiave da lontano, con un gesto plateale. Se proprio dovevo fare la femme fatale, l’avrei almeno interpretata bene.

-Ci saranno anche gli altri, vero? E anche il branco di Sam?- Mi preoccupava il pensiero di lui all’inseguimento di due vampiri omicidi, probabilmente poco civili.

-Certo Nessie, non preoccuparti…sarò a casa tra pochi giorni, se non prima. Già stanotte ci sono andati davvero vicini, quelli di Sam. Li prenderemo presto, piccola- mi rivolse un ampio sorriso, sereno, pacifico, contagioso. Non potei non sorridergli in risposta.

-Allora vai, vagabondo!- volevo fare l’offesa, ma lui mi trasse a sé e mi abbracciò forte, baciandomi i capelli. Affondai il viso sul suo petto, chiudendo gli occhi. Sciolse l’abbraccio quasi subito, con delicatezza.

-Devo andare- mi guardò triste: evidentemente se non avesse avuto molta fretta, quell’abbraccio sarebbe stato molto più lungo.

-Telefona, ok?-

-Ma, non so…insomma, per una volta che posso liberarmi di te?- fece una smorfia, guardando per aria.

Ridemmo all’unisono. Quella era davvero una battuta.

-A presto, piccola. Mi mancherai-

Lo salutai con la mano. Si voltò e corse verso il pick up, che aveva parcheggiato all’ingresso. Partì velocemente, lasciandoci le gomme: aveva davvero fretta. In effetti, non sarebbe stato esattamente in stile Jacob lasciare che due vampiri assetati vagassero indisturbati per La Push. E così, oggi a scuola sarei rimasta da sola. Completamente. Avrei voluto tornare a casa, a recuperare il sonno perduto quella notte. Le facce incuriosite dei presenti promettevano tutt’altro che bene, ma decisi di fare la martire. Avevo voluto andare a scuola come tutti? Bene, ci sarei stata.

Mentre mi avviavo con passo solenne verso l’entrata dell’edificio, come una martire cristiana che affronta le porte del Colosseo, mi venne in mente un’ipotesi inquietante. E se Benjamin fosse stato il responsabile? Correndo velocemente, attraversando in linea d’aria la distanza che separa la città da Vancouver, probabilmente avrebbe potuto andare e tornare, tra le sei di sera e le quattro di notte. E aveva detto di essere andato a caccia. Senza specificare di cosa, per la verità. Mi sentii tremare le gambe, e per un secondo mi fermai in mezzo al marciapiede. Mi vennero in mente la sua espressione selvatica e lontana, i suoi gesti misurati.

Aveva detto che gli umani lo uccidevano, ma a me sembrava fosse ancora più probabile il contrario. Entrai a scuola con una nuova inquietudine nel cuore.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Spionaggio ***


14

Ciao a tutti! Scusate per il ritardo ma sono stata in gita J! Comunque ringrazio di nuovo tutte le persone che hanno la storia tra i preferiti, mi fa sempre molto piacere.

 Isabella 19892: grazie! Spero che continuerai a seguire, se hai apprezzato! Riguardo a Benjamin, mancano ancora alcuni capitoli prima di scoprire qualcosa di più, quindi vedremo! ^^

 

A presto,

 Giuls

 

 

 

 

La mattina passò noiosa e incredibilmente lunga, apparentemente infinita. A francese ritrovai il mio amico Luke, che non sembrò molto entusiasta di vedermi nella mia nuova mise sportiva, ma non mancò comunque di raccomandarmi un bellissimo locale per quel venerdì sera, in cui guarda caso lui era un abitué. Gli dissi che ero eticamente contraria ai luoghi di ritrovo che si basavano sul consumo di alcool per socializzare. Non ero per niente d’accordo, ma almeno la mia argomentazione fece tacere quel deficiente per cinque minuti.

A pranzo, Teresa mi corse incontro con un sorriso larghissimo e mi prese la mano.

-Stamattina non ci siamo mai viste!- Sembrava che per lei fosse una grave ingiustizia.

-E’ vero, che peccato- cercai di sembrare dispiaciuta. In fondo non era male avere Teresa con me. Mi faceva sentire un po’ riverita, anche a scuola. A lei piacque la mia reazione, perché mi abbracciò con un impeto straordinario per una cosetta così piccola.

-Vieni, ti ho tenuto il posto, visto che Luke mi ha detto che c’eri!- Mi condusse al tavolo sempre con la sua ultra forza attivata, trascinandomi per il braccio. Al tavolo ritrovai la carissima Amy e quel simpaticone di Luke. Feci uno dei sorrisi più tirati della mia vita, quasi me lo stessero tirando a forza con delle pinze. Dovevo somigliare a una maschera tragica, di quelle con gli occhi tristi e la bocca piegata in una smorfia di dolore. E in effetti il pranzo fu un supplizio. Conobbi qualche altro umano, ma in realtà erano più o meno tutti uguali. L’argomento di conversazione del giorno erano le vacanze di primavera: diavolo, era settembre e pensavano alla primavera. Fossi stata in loro, avrei fatto qualcosa per movimentare l’intermezzo. Ogni tanto mi rivolgevano qualche domanda, ma non scesero sul personale, per fortuna: forse ci sarebbe voluto un po’ più di tempo prima che mi facessero le fatidiche domande “come mai siete tanti in famiglia” o “che fine hanno fatto i tuoi genitori?”. La cosa non mi dispiacque affatto.

Anche il pranzo finalmente finì, e mi avviai a storia con Amy e Teresa. Presi un posto davanti alla cattedra, per poter evitare di ascoltare le chiacchiere di Teresa. Feci finta di ascoltare quella cantilena che la professoressa voleva spacciare per una lezione sull’ America pre colombiana. Anche le restanti ore le passai assorta, riposando il cervello per rimediare all’insonnia di quella notte. Finalmente, alle quattro la tortura finì. Uscendo di scuola quasi mi misi a correre per arrivare alla macchina: mi sentivo davvero sola, e volevo tornare a casa al più presto. Di nuovo mi sentii una bambina che gioca con se stessa. Misi gli occhiali da sole, e senza perdere un momento partii, lasciando il mio luogo di agonia. Mi sintonizzai su una radio qualunque, per sentire se in giro c’era qualcosa di nuovo. Stavano dando una vecchia canzone dei Lynrid Skynrid, tamburellai le dita sul volante, mentre ero ferma a un semaforo. Scrutai lo specchietto, di riflesso, e vidi una grossa moto grigia subito dietro di me. Mi colpì dapprima il suono del motore, profondo e violento anche in sosta, poi l’abbigliamento del tizio che la guidava: era totalmente riscoperto di nero, dai pantaloni alla giacca al casco. Anche la visiera era scura,e portava dei guanti di pelle da moto. Sembrava uscito da un film di spionaggio, di quelli che escono per Natale. Il semaforo scattò, e voltai a destra, verso la statale che portava a casa. Continuavo a seguire i movimenti della moto, che aveva svoltato con me. Lasciò passare un furgone, e pensai che fosse perché doveva girare. Ma la moto era rimasta lì, solo semi nascosta dal furgone. Adesso mi sembrava davvero un film di spionaggio di basso livello. Perché mai avrebbe dovuto starsene dietro al camioncino, con una moto così potente? Non poteva trattarsi di uno che stesse attento ai limiti di velocità. Feci una prova e accelerai all’improvviso, e passai con il giallo al semaforo, sempre controllando nello specchietto. La moto rimase dov’era, dietro al furgone. Mi sentii una pazza e rallentai. Come diavolo avevo potuto pensare che qualcuno stesse seguendo me?

Ma il momento dopo non mi sentii più tanto pazza. Vidi la moto sbucare da dietro il camioncino e passare con il rosso, svicolando tra un paio di auto, e me la ritrovai di nuovo a due auto di distanza. Perché passare con il rosso se poi si facevano le trenta miglia all’ora? Senz’altro mi sentii meno pazza, ma molto più all’erta.  Il mio istinto mi diceva di tenerlo d’occhio, come quello apparentemente stava tenendo d’occhio me. Procedevo a velocità moderata, svicolando per la città senza una meta, sempre con gli occhi allo specchietto: a tratti la moto non c’era, ma poi, appena pensavo di avere solo qualche mania di protagonismo male espressa, vedevo la sagoma della moto riflessa nello specchietto. Porca troia. Ma chi diavolo era?

Chiunque fosse, decisi che tanto valeva andare a casa: non ero del tutto tranquilla, con un possibile pedinatore alle spalle, e sicuramente mamma avrebbe voluto che in un’evenienza simile fossi tornata a casa, dritta da lei. Ero più che sicura che almeno una volta nella vita mia madre avesse già pensato a una circostanza simile, un pedinatore misterioso. Mi venne da sorridere pensando a quell’ apprensiva di mamma e alle sue pare incredibili. Uscii dalla città, riprendendo la statale che volevo raggiungere prima, senza vedere la moto dietro di me, mentre attraversavo la triste e piccola zona industriale, quasi del tutto deserta, a parte qualche raro deposito. Era tutto morto, deserto. Gli umani erano capaci di brutture incredibili. Presto quella zona deprimente finì, e svoltai prendendo la larga strada che mi portava a casa. Era un percorso bellissimo: la strada era totalmente immersa nella foresta, e sebbene fosse abbastanza ampia, gli alberi secolari avevano fronde talmente imponenti da ricoprire la strada come un arco naturale. Era uno spettacolo.

Cercai la moto nello specchietto: niente. Ma avrei giurato che prima, in città, mi stesse seguendo. Davvero non capivo.

E infatti la rividi, di fronte a me. Non mi aveva sorpassato, solo era semplicemente comparsa in fondo alla strada. Ero sicura che fosse la stessa moto, riconoscevo l’abbigliamento esageratamente pesante del tizio in sella. Come aveva fatto a precedermi? Accelerai, per avvicinarmi: nel ruolo del gatto mi trovavo davvero molto più a mio agio che in quello del topo. Mi parve che anche la moto stesse accelerando di poco, impercettibilmente, o forse era solo una mia percezione, dettata dall’adrenalina. Ero a mille.

Un raggio di sole fioco riuscì a passare attraverso i fitti rami della foresta, illuminando per un breve istante la moto e il suo pilota, coperto di nero. Interamente coperto.

Non un lembo di pelle esposto alla luce del sole.

Capii.

Con uno scatto rabbioso mandai la macchina ai centotrenta, raggiungendo la moto in pochi secondi. La sorpassai, senza nemmeno controllare se dalla corsia opposta arrivasse qualcuno, ma tanto la strada era sempre deserta. Vidi il tizio della moto alzare la testa, di scatto.

Era Benjamin, ne ero sicura.

Cosa cazzo voleva fare? Cercare di vendicarsi per il fatto che lo avevo buttato giù da una pianta? Mi sembrò purtroppo più che plausibile che quel deficiente incivile fosse ancora rimasto alla legge della faida, chissà quando era stato creato…magari allora l’Inquisizione Spagnola andava ancora forte.

Accostai frenando bruscamente nella terra ancora fangosa e spensi l’auto. La moto passò oltre, rallentando dapprima, e poi frenando. Scesi dalla macchina, e misi le mie Vans bianche, appena comprate, edizione limitata con il bordino color mattone, in venti centimetri di melma.

-PORCA PUTTANA!-

Il conducente della moto si volto, e i sussulti lievi del suo corpo somigliavano spaventosamente all’agitarsi provocato dalle risate. Se era lui, lo avrei ucciso. Avevo preso una pozzanghera con le scarpe bianche perché un idiota mi aveva seguita. Che il cielo lo strafulminasse. Dovevo buttarlo da un grattacielo, non da un albero. Mi avviai verso di lui a passo di marcia, le spalle rigide, le labbra strette e gli occhi semichiusi. Sentivo il viso rosso e caldo, quasi mi mettevo a piangere dalla rabbia: era lui, scendendo dalla macchina ne avevo distinto l’odore. Il suo detestabile odore di mare. Mi faceva pure schifo il pesce.

Dovetti andare fino in fondo alla strada, per raggiungerlo: se ne era rimasto lì, senza muoversi. Mi piazzai di lato alla moto e trassi un respiro profondo. Non volevo proprio disintegrarlo dall’inizio, la vendetta è un piatto che va servito freddo. Ma non me lo permise, come sempre.

-Forse era meglio chiudere la portiera, Renesmee, un malintenzionato potrebbe rubarti la macchina-

Detestabile tono da petulante, saccente, presuntuoso ignorante. A se avesse tolto il casco, avrei sicuramente visto il suo marchio di fabbrica: il sopracciglio alzato.

Gli diedi un calco nella carena della moto, facendo un bel danno. Un’ammaccatura enorme, come se avesse incidentato la moto. A Benjamin scappò un ringhio: indietreggiai di un passo, aprendo la bocca dallo stupore. Era un suono spaventoso, come quello degli animali di cui di solito mi cibavo. Non avevo mai sentito il ringhio di un vampiro così…selvaggio: era come un ruggito, solo molto più espressivo, eloquente. Si tolse il casco di scatto, e apparve davanti a me con i capelli arruffati e la fronte magnificamente corrugata, la bocca semi aperta, in un’espressione di stupore e profondo disappunto. Aprì la bocca per parlare, ma non trovava le parole, e rimase per un secondo il silenzio.

-Dì un po’, sei matta o cosa?- quando parlò, aveva già ripreso il suo solito tono moderato ed equilibrato. Peccato, mi sarebbe piaciuto sentire la sua voce da arrabbiato, sarebbe stata un’espreinza interessante. Più o meno come il suo ringhio.

-Mi hai seguita, sottospecie di idiota!!- Al contrario della sua, la mia voce era totalmente alterata, altissima. Stavo urlando, ero all’orlo delle lacrime.

-Quella che hai distrutto è una moto che ho comprato tre settimane fa, Renesmee-

-Perché cazzo mi seguivi?-

-E tu me la ripagherai-

-Sei sordo?!-

Senza nemmeno accorgermene mi ero messa a piangere, era una cosa che mi capitava sempre quando mi arrabbiavo di brutto. Il nervosismo, l’adrenalina e l’emozione mi facevano scoppiare in lacrime. Un motivo in più per cui in casa potevo averla sempre vinta: mi bastava una lacrima per cambiare il corso degli eventi, nel mio piccolo reame. Ma davanti a uno sconosciuto era estremamente imbarazzante, e più mi convincevo che dovevo smettere all’istante di frignare, più l’emozione saliva. E alla fine invece di piagnucolare come al solito stavo piangendo a dirotto, scoppiando in singhiozzi. Benjamin era completamente colto alla sprovvista, mi fissava preoccupato e interrogativo.  Lentamente si sfilò i guanti e scese dalla moto, o almeno da quel che ne rimaneva, mettendola sul cavalletto. Chinò la testa verso di me: notai, attraverso il velo di lacrime da cui vedevo le cose, che stranamente non aveva il sopracciglio alzato.

-Renesmee? Ehm, guarda che la moto distrutta era la mia…sai, credo che fra i due quello che dovrebbe piangere sia io, ma purtroppo non posso farlo- scrollò le spalle con aria dispiaciuta.

Tirai su con il naso. Dannazione, avevo i fazzoletti in borsa: piangevo e stavo tirando su con il naso. Dio che vergogna. Ma perché dovevo avere delle reazioni sempre così esagerate? Mi passai le mani sul viso e mi ci nascosi dentro.

Sentii una mano fredda e leggera che prendeva la mia, posandoci un pacchetto di fazzoletti. Strinsi gli occhi e alzai la testa, e vidi davanti a me Benjamin, che teneva la mia tracolla di Vuitton. Mentre mi nascondevo nelle mie stesse lacrime, era andato in macchina prendere i fazzoletti. Però, che velocità. Cercai di mormorare qualcosa.

-Grazie- Presi un fazzoletto e mi soffiai il naso, più sonoramente di quanto volessi. Nel silenzio della foresta risuonò chiara la mia performance nasale. Arrossii e mi asciugai le lacrime, ormai avevo smesso di piangere. Benjamin mi esaminava ancora con un’espressione interrogativa, imbarazzato, guardandosi attorno e cercando qualcosa che non fossi io a cui dedicare la sua attenzione, non sapevo se per delicatezza o per semplice difficoltà a gestire la situazione.

-Scusami- Non sapevo che dire, ero veramente seccata per il mio comportamento esagerato e totalmente fuori luogo. Mi uscii un filo di voce. Lui sbuffò e si passò una mano sulla fronte, indugiando sulle tempie.

-Non potresti pensarci prima alle cose che fai? Così magari poi non ti devi scusare. Di solito la gente fa così- Sembrava fosse un consiglio sincero, più che una specie di presa in giro.

-Proverò- cercai di sorridere –Davvero scusa. Insomma, è imbarazzante…ma sai, mi avevi davvero spaventata-. Mi sforzai di trovare una giustificazione al mio comportamento, soprattutto per me stessa, più che per lui.

-Non volevo ringhiarti, è stato solo un riflesso- Per la prima volta sentii la sua voce leggermente inclinata, vagamente viva, come se non uscisse dal doppiaggio di un vecchio film del dopo guerra con Humphrey Bogart. Distolse gli occhi, fissandoli su un punto imprecisato della foresta. E così non ero l’unica ad avere problemi di reazioni sconsiderate, a quanto pareva. Il suo infelice tentativo di darsi un’aria indifferente mi fece scoppiare a ridere.

- Ma cosa me ne importa del ringhio? Io parlavo del fatto che mi seguivi!- Benjamin si confermava sempre per quello che era: un deficiente.

-Certo, dovevo andare a casa tua-

Era sconcertante come pensasse di vendermi le sue balle senza sforzo.

-Ma se sei venuto ieri?-

-Mi ero dimenticato la strada- Incrociò le braccia stringendole al petto, quasi a chiudere la questione. Piegò la testa di lato: si aspettava una risposta.

-Non credo proprio, tesoro!- Alzai l’indice e feci segno di no, dovevo rimarcare la mia posizione, nessuno poteva raccontarmi balle e pensare che me ne sarei rimasta zitta a bermele tutte.

-Tesoro?- Benjamin stava per mettersi a ridere, già vedevo il sopracciglio alzarsi, lentamente e inesorabilmente, pronto a farmi sentire una cretina. Avevo malauguratamente usato il “tesoro”, il mio intercalare preferito per i litigi: certo in famiglia il “tesoro” suonava benissimo (tipo “eh no, Alice, tesoro, non puoi coinvolgermi in questa cosa”, oppure “te lo scordi di andare a caccia prima di me Emm, tesoro, o quando andrò io non troverò più niente di buono”), ma chiamare uno come Benjamin “tesoro” era veramente uno scherzo.

-E’ il mio intercalare per i litigi!-

-Stiamo litigando?-  Strinse gli occhi e piegò la bocca di lato, in una smorfia divertita.

-NO!- Mi sentii uno di quei cani piccolissimi che abbaiano talmente forte da saltare.

Benjamin si lasciò scappare un sospiro.-Renesmee, ma ti disturbo così tanto?-

Anche io sospirai: non potevo andare avanti così, a scaricare le mie tensioni su qualsiasi cosa si muovesse sulla faccia della terra. Se essere me sessa voleva dire fare la matta col primo che mi capitava a tiro, allora forse era il caso di darsi una regolata, di fare almeno finta di essere un’ individuo equilibrato. Una vampira per bene.

-Senti Benjamin, se vuoi ti do un passaggio io- lo scrutai dal basso verso l’alto, con l’aria più innocente che potessi assumere –tra cinque minuti saremo a casa-

-Molto gentile, soprattutto visto che mi hai distrutto la moto- anche lui mi scrutava, dall’alto verso il basso. Dovevamo sembrare piuttosto ridicoli, visti dall’esterno, due idioti sul ciglio della strada, vicino a una moto scassata e con uno strano atteggiamento circospetto. Passò una macchina sulla strada, proprio in quel momento. Studiai il volto del mio nemico, in quel momento di pausa. Parve accorgersi del fatto che lo stavo osservando, ma lui si lasciò scrutare, vanitoso, e assunse una vaga aria compiaciuta, spostando il mento all’insù, con un movimento lento. Era davvero bellissimo. Bellissimo e terribile, come una tempesta: il suo sentore di mare mi sembrò più che mai appropriato per uno come lui. Cercai di studiare le cicatrici che aveva sul collo, ma alla luce della luna ieri notte erano molto più evidenti, e ne vidi solo alcune, le più profonde. Ce n’era addirittura una all’attaccatura fra il collo e la mascella, e rimasi stupita e incantata da quello spettacolo di morte. Mi risvegliai solo quando notai i suoi occhi, ironicamente fissi su di me, neri e intensi. Erano diversi da come li avevo visti prima, forse perché non li avevo osservati mai così tanto: erano profondità spaventose, come i mari della luna. Non potevo sapere dove portassero, se avessero una fine, quasi fossero un buco nero, l’esplosione di una stella. Ma non c’era luce, negli occhi di Benjamin. Rimasi estasiata, tutto in Benjamin ricordava la morte, quella cosa con cui mi divertivo a giocare sulle mie macchine veloci, con gli orsi più enormi e con i passatempi più pericolosi. La cosa che mi fece rimanere senza fiato fu la consapevolezza del fatto che lui era davvero mortale. Lo capivo da ogni suo tratto, da ogni suo gesto e da ogni suo sguardo. Ero piena di meraviglia e deferenza.

Benjamin mise fine al mio stato di trance, evidentemente sazio delle attenzioni che gli avevo dedicato.

 Renesmee, sei una scema: adesso gli dai anche delle soddisfazioni, a questo cretino.

-Allora, mi accompagni a casa tua?-

Feci segno di sì con la testa e senza parlare mi voltai e andai verso la macchina, ancora frastornata dal mio attimo di consapevolezza.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Ballerina ***


15

Ciao a tutti! Sono stata via per un po’ causa stupenda gita con la scuole e vacanze di pasqua, ma rieccomi qui. Volevo dirvi una cosuccia, o meglio un consiglio per  gli acquisti: in questo capitolo cito una canzone che secondo me è stupenda, e consiglio a chiunque di ascoltarla, se gli capita! E’ molto utile per entrare nel mood della storia…(poi magari a uno fa schifo, ma vabbè XD).

Ringrazio ancora una volta tutti quelli che hanno ancora aggiunto la storia tra i preferiti: scusate se perdo i vostri nomi nella lista di persone, e non posso ringraziarvi uno ad uno, ma a tutti mando comunque un grosso bacio.

Thsere: ciao! Dunque, non voglio dirti niente, però ti avviso: orse se apprezzi Jacob il seguito della ff potrebbe non piacerti molto ( per fare un eufemismo ^^) ,perché  diciamo che la Renesmee che penso io è un tipo molto indipendente, che tende a non apprezzare pienamente la presenza di chi le sta accanto, e penso che si sia un po’ notato. Non voglio dire che sia superficiale, ma forse ha bisogno di qualcosa (una persona, o un avvenimento, chissà) che la scuota dal suo stato di apatia. In una parola: è viziata. In ogni caso fammi sapere se gradisci il seguito! Un bacio

Isabella 19892: ciao!! Mi fa molto piacere che tu continui a seguire la storia, grazie! Riguardo a Benjamin…vedrai d te ^^! Da autrice confesso di avere un debole per Benjamin (non si era ancora capito *__* ?). vedrai che avrà molti pregi, oltre che enormi difetti. Fammi sapere anche tu il tuo parere sul seguito, mi raccomando! Bacio

 

A presto,

Giuls

 

 

 

Salimmo in macchina silenziosamente, senza scambiarci una parola, ma sentivo che ci sarebbero state molte cose da chiedersi, sia da parte mia che da parte sua. Ma non potevo sapere se anche lui avesse voluto chiedermi qualcosa: era uno di quei momenti in cui invidiavo il dono di mio padre. Benjamin se ne stava seduto con il braccio appoggiato alla portiera, la testa appoggiata sul suo pugno chiuso, la fronte corrugata, l’espressione lontana. Lo sbirciavo furtivamente, sperando di non attirare la sua attenzione, per poterlo studiare con tranquillità. Era chiaramente assorto nei suoi pensieri, ma non sembrava per niente imbarazzato quanto me dal breve viaggio che ci aspettava, era come se non ci fosse. Cercai di persuadermi che fosse così, ma soprattutto cercai (senza risultati) di convincermi di non aver mai fatto alcuna scenata in sua presenza. I miei esperimenti psicologici riuscirono ad assorbirmi.

-Renesmee- Benjamin si ridestò dal suo stato di meditazione proprio quando io stavo per ritrovare un minimo di calma: sembrava che facesse apposta, a rendermi la vita difficile. Ma non sembrava che avesse cattive intenzioni, parlò piano, leggermente. La sua voce affascinante giunse fino a me in un soffio.

-Ti ho davvero spaventata così tanto, prima?-

Esitai un secondo, indecisa tra un indignato silenzio stampa, una nuova ondata di irritazione oppure una semplice accettazione del fatto che mi aveva quasi fatto prendere un colpo. Alla fine cedetti. Forse fu il fatto che eravamo in macchina, in un ambiente che mi costringeva a dire qualcosa, visto che non potevo allontanarlo, oppure semplicemente per il fatto che dopo avermi vista piangere disperata come una cretina, avrei potuto dirgli qualunque cosa, anche che avevo la coda. Feci un respiro profondo, e risposi senza togliere gli occhi dalla strada.

-Sì-

-E come mai?- la sua voce era inflessibile, mi sembrava di vedere il suo volto, teso e concentrato. Ma non mi voltai a guardarlo.

-Diciamo che non mi fido molto degli estranei-

-Perché?- stranamente, non mi sembrava veramente curioso, o almeno dal tono non percepivo nessuna intonazione particolare. Pareva che stessimo parlando del tempo, o di altre cose così.

-Gli unici vampiri sconosciuti che ho incontrato volevano fare fuori me e la mia famiglia-

-E chi erano?- ancora nessuna emozione. Era come parlare a me stessa, ero solo io con la mia coscienza.

-I Volturi- un leggero brivido percorse la mia colonna vertebrale, mentre ricordavo il giorno più orrendo della mia vita.

-Mi spiace di averti spaventata- mi voltai a guardarlo, mi aveva stupita. Sembrava dispiaciuto davvero, o per lo meno infastidito da ciò che aveva fatto, molto strano da parte sua. La sua massima sensibilità fin ora era stata porgermi dei fazzoletti durante una crisi isterica, non era proprio un comportamento da anima delicata.

Con sorpresa notai che non si era voltato, guardava ancora la strada con aria assorta, esattamente come prima. Rimasi un po’ delusa: infondo, non cercavo altro che un po’ di commiserazione, come da tutti del resto. Era un comportamento abbastanza crudele, il suo. Misi il muso, nell’inconscia speranza infantile di ottenere quel che non mi era stato concesso. Ripercorrendo mentalmente i torti di Benjamin, mi ricordai di una cosa che avrei dovuto tenere meglio a mente: la vicenda del vampiro, a Vancouver. Strinsi il volante fino a sentire che stavo per modellarlo sotto il peso della mia forza, e mi trattenetti. Deglutii, ansiosa. Come diavolo avevo fatto a dimenticarmi una cosa del genere? Era un duplice omicidio, non la lista della spesa!

 Il fatto era che Benjamin mi confondeva le idee all’inverosimile. Ogni volta che lo incontravo, c’era qualcosa che mi disturbava completamente. E a buona ragione, mi venne da pensare, visto che aveva appena finito di pedinarmi. Dopo aver rinunciato a stritolare il volante, mi limitai a tamburellare nervosamente le dita. Dovevo sapere la verità: non che per me sarebbe diventato più pericoloso, se avessi scoperto che la sua dieta includeva ancora persone, ma avevo bisogno di capire che vampiro fosse, fino a che punto fosse un uomo e fino a che punto un assassino. Mi voltai verso di lui con uno scatto, decisa a vedere la sua reazione.

-Sei tu il vampiro che ha ucciso a Vancouver?- la mia voce uscì a una velocità straordinaria, come se sputandola fuori la mia accusa diventasse meno pesante. Distolsi lo sguardo dalla strada. Anche lui si girò di scatto, in un gesto istantaneo, impulsivo, il viso diverso da prima, disteso, illuminato da un’espressione stupita e meravigliata. Quasi infantile. Mi ricordò quel momento nella classe vuota, il giorno prima. Teneva la bocca leggermente socchiusa, i suoi profondi occhi neri pieni di un sentimento che ricordava molto il rammarico.

Occhi neri, Renesmee, non rossi: potevi anche arrivarci da sola.

-Certo che no- Quella volta riuscii a sentire la sua voce totalmente vera, scoperta da ogni velo, libera da ogni timbro, in un breve momento di stupore. Aveva un tono duro, profondo e affascinante,oscuro, che mi ricordava la voce dei Depeche Mode. Ma in quel momento mi parve anche profondamente triste. Mi sembrò di avergli dato uno schiaffo: insinuare a un vegetariano di aver interrotto il suo digiuno era una cosa molto cattiva, offensiva. Per un vegetariano la vergogna più grande era cedere al proprio istinto più bestiale, ciò contro cui passava la sua esistenza a lottare. Il suo tono grave e addolorato me lo ricordò solo dopo aver parlato. Mi sarebbe bastato guardarlo negli occhi, e avrei comunque saputo la verità. Ritornai a guardare la strada di fronte a me, per evitare il suo sguardo, per evitare di dovermi scusare, di nuovo. Vigliacca. Mi morsi un labbro.

Lo sentii ridere leggero, di fianco a me. Sentivo che mi osservava.

-Non è il caso di rimanerci così male, Renesmee. O avresti preferito che avessi ammazzato qualcuno così avresti avuto una ragione per potermi disprezzare?-

-Oh, Banjamin, per piacere…- non avevo la forza di controbattere, ero veramente pentita per quello che avevo fatto.

-O forse, sembro semplicemente troppo vampiro per essere un vegetariano?- non capivo se stesse giocando o se fosse stato offeso nel profondo dalla mia ipotesi. Esitai.

-Potrebbe essere?-

-Ti concedo il beneficio del dubbio- rise sonoramente, di una risata fluida, incredibilmente naturale. Osai voltarmi. Mi osservava divertito, con il sorriso sulle labbra. Restai a bocca aperta: aveva un comportamento totalmente illogico. Prima rimaneva scioccato dalla mia supposizione, e poi si prendeva gioco della cosa, pazzesco.

-Renesmee, giuro che non ho mai riso tanto di una persona in vita mia!- sembrava sincero, purtroppo. Ma perché mi ricordavo che era un bastardo solo dopo averlo compatito?

-Quando si dice la fortuna…- scalai la marcia e accelerai, eravamo su un rettilineo.

-Avresti preferito che li avessi uccisi io?- sentivo ancora i suoi occhi sul mio corpo, li avvertivo, senza però nemmeno voltarmi per accertarmi. Seguii la linea diritta della strada, gli occhi fissi sul punto di fuga, laggiù infondo, prima del bivio che ci avrebbe ricondotti a casa.

-Renesmee?- anche se la sua voce era ritornata quella di prima, la solita parete di cristallo, impermeabile e insensibile, capii che voleva una risposta. Stavolta sì, era davvero incuriosito.

-No- neanche allora volsi lo sguardo, solo mi scostai dagli occhi una ciocca di capelli, per darmi un tono.

-Avrei giurato il contrario- sentivo che stava frugando tra i miei cd, aveva aperto il cruscotto, non era molto educato. Chissà se era proprio un troglodita o se faceva apposta.

-E perché?- il mio punto di fuga stava scomparendo, purtroppo.

-Perché sarebbe stato molto più eccitante-

-Pensi che sarei più felice se tu avessi ucciso due innocenti? Che mi sarei divertita?- feci una risata isterica, breve e acuta.

-Felice no,divertita sicuramente sì. Wow, i Led Zeppelin!- evidentemente aveva trovato un cd di suo gusto, perché fece un fischio leggero, apprezzamento. Non riuscii a prendermela più di tanto con quell’idiota: aveva appena detto la cosa che il mio inconscio aveva pensato cinque minuti prima. E io gli avevo appena dato dell’assassino, quindi era meglio se me ne fossi stata zitta, almeno per i trenta secondi dopo. –Posso mettere?- Mi voltai:aveva già il cd in mano, il dito sull’autoradio, pronto a scattare al segnale. Feci una smorfia.

-Ormai lo hai fatto-

-Grazie- fu veloce. Mise sulla traccia sei, Dy’er Mak’er. Dovevo ammettere che aveva alleggerito l’atmosfera. Benjaimn stava cantando a bassa voce, gli occhi chiusi, totalmente abbandonato sul sedile, mentre si dava il ritmo picchiettando le dita sulla portiera. Feci ricominciare la canzone, mi aveva fatto venire voglia di cantarla. Attaccai incerta, piano.

-Oh, oh oh oh oh, you don’t have to go-

-I, I, I all those tears I cried- aprì gli occhi e mi guardò di sbieco, sollevando il sopracciglio.

-I love you- tolsi le mani dal volante, mi sentivo a metà tra Aretha Franklin e Janis Joplin.

-Oh, Baby I love you!- si alzò a sedere e fece il finta di cantare in un microfono. Scoppiai a ridere, assieme a lui, dopo che ebbe finito l’assolo. La canzone continuava, in sottofondo.

-Sei brava, ti ha insegnato qualcuno?- Benjamin sorrideva, sembrava particolarmente contento. Forse le mie doti canore lo avevano per un momento distolto dal fatto che gli avevo accartocciato la moto, chissà. Peccato che mi stesse fissando interrogativo, come a chiedersi in che modo un disastro come potesse avere una qualsiasi dote innata. Non credeva neppure che sapessi cantare, senza l’aiuto di qualcuno. E in effetti non aveva tutti i torti.

- Mio padre. E a te?- ovviamente volevo provocare, mi aspettavo che alzasse il sopracciglio e si offendesse per una tale mancanza di stima verso sua altezzosità Benjamin Asbury. Figuriamoci se non sapeva anche cantare.

-Mia madre- si voltò, volgendo gli occhi alla strada, davanti a noi. Era rimasto impassibile, non muoveva un muscolo, mentre io rimanevo a bocca aperta. Era strano sentire parlare un vampiro della sua vita, prima di diventare quello che era. Anche i membri della mia famiglia ne parlavano poco, alcuni per dimenticare, altri perché semplicemente non ricordavano molto. Anche la vita di mia madre a volte aveva dei grossi buchi. Mi aveva sempre affascinato il prima dei vampiri, la parte della loro esistenza in cui erano essere umani, e come questa influisse sulla loro eternità da vampiri.

-Madre?-

-Sì, sai, quelle donne che rimangono incinte e fanno un bambino-

-Benjamin, la tua cultura mi arricchisce-

-Di niente. Fammi sapere se ti serve qualche altro chiarimento-

-Ma piantala-

Ovviamente gli si era stampato un sorrisetto insopportabile, ma non aveva ancora alzato il sopracciglio, strano. Forse si aspettava che, data la difficoltà dell’argomento, avrei detto presto cazzate anche peggiori. In realtà in quel momento Benjaimin aveva solo provocato la mia curiosità, in maniera un po’ morbosa.

-Ma quando sei nato?- feci l’indifferente, guardandomi le unghie. Eccellente manicure, non c’era che dire. Alice era impareggiabile.

-Dopo la rivolta del tè di Boston ma prima dello scandalo Lewinsky-  anche lui guardava di fronte a sé, anche se era evidentemente divertito dalla situazione: di certo non mi piaceva svagarlo con le mie ridicole figure da idiota, ma lui era così nuovo. Ero talmente curiosa da mordicchiarmi il labbro inferiore, con insistenza. Mi augurai che non avesse notato.

-Sei noioso-

-A me non sembra che tu lo pensi-

-E invece è così, guarda un po’- ero delusa, non ero riuscita ad avanzare di un passo. Raggiungemmo il viale alberato che portava a casa, rallentai un po’, per non far arrabbiare papà. Avevo messo il muso, senza nemmeno volere, tale era la mia abitudine di lamentarmi. Per ogni cosa non mi andasse perfettamente a genio. Sentii Benjamin sbuffare, ma non mi voltai, più che altro per non rivelare del tutto la mia delusione.

- E’ vero che balli?-

Mi colse di sorpresa. Ma come diavolo faceva a sapere che ballavo? Mi voltai verso di lui.

-Ma chi te l’ha detto?-

-I tuoi- fece spallucce, come per giustificarsi.

Probabilmente era stata mamma. Era particolarmente soddisfatta del mio talento per la danza, forse a causa dei suoi trascorsi da ballerina, che a quanto pareva non avevano avuto per nulla successo. Non mi avrebbe stupito che fosse riuscita a fare conversazione con Benjamin sulla mia inclinazione alla danza: quella donna era capace di tutto, e quell’infido traditore di Benjamin era anche rimasto ad ascoltarla, probabilmente.

-E a te cosa importa?- ero ancora un po’ incazzata a dire la verità, non era giusto che lui sapesse di tutto su di me mentre io non riuscivo nemmeno a capire quanti anni avesse. Eravamo giunti davanti a casa, mi diressi verso il grande garage sul retro.

-Così- non mi aveva nemmeno guardata in faccia, come a sfuggire dal mio sguardo. Non riuscivo a capire. Forse non era così distante, apatico, glaciale e indifferente come mi sembrava, forse c’era qualcosa, in lui, che mi sfuggiva. Ma quando vidi i suoi occhi, quelle cavità nere e infinite, mi convinsi che dovevo avere torto: Benjamin era ciò che si presentava, non scorgevo nient’altro. Nemmeno sforzandomi. Nell’oscurità del garage, potevo comunque scorgerlo benissimo, accanto a me, i muscoli tesi come sempre, anche da fermo. Come se si aspettasse di dover balzare via da un momento all’altro. Si voltò a guardarmi, senza dire niente, e senza volere mi ritrassi leggermente.

-Fai danza classica?-

-Soprattutto quella-

Doveva essere una scena particolare, sembrava un’aggressione più che una leggera chiacchierata tra conoscenti. Sentivo una tensione silenziosa nell’aria, ma non capivo se stavo solo proiettando ciò che sentivo dentro o se era reale. Deglutii.

-Ti piace la danza?-

-Mi piacciono le ballerine- anche lui si ritrasse, alzando il fatidico sopracciglio, come se sapesse cosa sarebbe successo da lì a due secondi dopo. Sentii il volto avvampare, diventare dello steso colore dei capelli. Mi ritrovai preda di un orribile subbuglio interiore, in cui non sapevo se essere lusingata o turbata. Benjamin rise di me, con garbo, stranamente, come se gli facessi un po’ pena. Bastardo.

-Non ti preoccupare, Renesmee. Credo che tu abbia ancora molta strada da fare come ballerina, non sarai vittima delle mie velleità. Tranquilla- le sue labbra piene scandirono la frase con delicatezza e morbidezza. Per un momento pensai quasi che fosse un complimento. Ovviamente prima di capire che quel viscido schifoso pedinatore di bassa categoria aveva appena detto che non ero granchè come ballerina, e sicuramente intendendo che non ero abbastanza bella, aggraziata, probabilmente nemmeno affascinante per esserlo. Il viso mi avvampò di nuovo, stavolta di rabbia, rimasi a bocca aperta dallo stupore. Prima che potessi riprendermi e cavargli gli occhi con le mie stesse mani, Benjamin aveva aperto la portiera dell’auto, l’aveva richiusa ed era venuto ad aprire la mia.

-Renesmee, scendi ci aspettano per la partita- lui teneva aperta la portiera, con fare cerimonioso, tutto impettito. Sembrava un maggiordomo.

-Certo, Battista- scesi dalla Jeep come un automa, lentamente.

-Eh?- alzò il sopracciglio. Chissà perché era sempre quello sinistro, lo notai solo allora.

Andai avanti, senza ascoltarlo, lui mi seguiva. Arrivata alla porta del garage, mi voltai verso di lui: dovevo chiarire un paio di cose.

-Dobbiamo stabilire delle regole, Benjamin Asbury- parlavo pianissimo, per non farmi sentire dai miei, e fissandolo negli occhi. Anche lui mi guardava dritto negli occhi, diffidente – primo: se mi segui ancora una sola volta, o fai ancora qualcosa di strano, giuro che ti farò demolire da mio padre. Ci sei?- Fece cenno di sì, totalmente impassibile: non potevo capire se l’avesse presa sul serio o se mi stesse solo prendendo in giro, come sempre. Mi convinsi che prima di essere trasformato doveva essere stato un attore, e anche di quelli bravi. Mi avvicinai a lui di un passo, fino ad avere il viso di fronte al suo. Mi alzai leggermente sulle punte, per vedere meglio i suoi occhi. La voce mi uscì in un sibilo minaccioso, impercettibile: non sapevo nemmeno io di essere tanto offesa.

-Secondo: detesto le persone che giudicano me. Se hai intenzione di restare nei paraggi per molto, cerca di andarmi a genio, è meglio, te lo dico io. Hai capito, Asbury?-

Alla fine della mia predica, Benjamin era impassibile, il respiro ancora leggero e impercettibile, quello tipico di chi non ha bisogno di ossigeno per vivere. Quando aprì bocca non riuscivo nemmeno a credere che da quella statua, da quell’idolo senza tempo potessero fuoriuscire parole.

-Renesmee, cerca di fare attenzione. Il mondo è pericoloso, non dovresti affrontarlo-

Mi sentii sbattuta a terra, terribilmente insignificante, come un’antico greco di fronte alla profezia dell’oracolo. Ogni parola era una catena di ghiaccio, mi sentii stretta in una morsa di incertezza. Le sue parole non significavano niente in sé, non le capivo. Ma percepivo dal tono della sua voce qualcosa di minaccioso, inquietante. Eppure era così cristallina, perfetta, profonda: mi sarei fatta cullare per sempre da quel suono di morte, come un bambino che si lascia addormentare tra le braccia calde e vive di sua madre. Io invece sentivo che avrei potuto perdermi in quel suono, senza doverne esplorare il senso, senza nemmeno sentire il bisogno di capire niente. Vagai tra i lineamenti di pietra del suo viso, e il naso perfetto, deciso, non mi sembrò che un’inclinazione della voce, le labbra non sembrarono altro che note di quel suono, la linea definita del mento un semplice accessorio di quella sinfonia. Ogni senso affluì nell’udito, fu come essere nati per ascoltare.

Benjamin mi guardava, ma era come se il suo sguardo passasse oltre il mio corpo. Si voltò e andò verso la porta, lasciandomi immobile e incantata. Mi destò solo quando, aprendo la porta, mi trascinò dolcemente per un braccio, riportandomi alla luce del tramonto.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Più libera ***


16

Ciao! E siamo al sedicesimo capitolo…vi avviso che sto scrivendo il capitolo numero 22 e ancora non si prospetta la fine, sospetto fortemente che smetterete tutti di leggere straziati dall’infinita agonia di questa storia XD ! Riguardo a questo capitolo preciso che l’interbase nel baseball dovrebbe essere la figura più importante e dotata (o almeno credo, comunque leggendo capirete perché devo precisarlo).

Di nuovo devo ringraziare le persone che hanno aggiunto la storia tra i preferiti! ^^

Thsere: Ciao! esattamente, il punto è proprio quello!! E infatti per ora non credo che Jacob nella storia abbia avuto una rilevanza particolare, a parte contribuire a far diventare Nessy una pazza maniaca! Sarà che io Jacob non l’ho mai amato particolarmente: più che altro mi fa un po’ pena, cioè innamorarsi della figlia dell’ex donna della tua vita è TROPPO da telenovela argentina. E comunque Benjamin nasconde qualcosa veramente, anche se devo ancora organizzare bene la cosa (notare la mia organizzazione). Spero di sentire ancora i tuoi pareri!

Isabella19892: Ciao! BRAVA! Anche a me ha disturbato un casino quella storia (vedi sopra), e l’ho trovata veramente inadatta, una specie di rattoppo che con la storia veramente non centrava niente. Io spero sempre in un vero seguito di Breaking ( dopotutto la cara vecchia Steph ha detto che non ha abbandonato del tutto l’universo di Forks, quindi possiamo permetterci di sperare) che metta a posto un po’ di cose, tipo René a cui non è stato detto niente di niente (proprio lei che tempestava Bella di e mail), ma secondo me alla fine non si farà niente. E in ogni caso penso che ti accontenterò relativamente presto riguardo a pov di Benji, diciamo che lo sto studiando. A presto, fammi sapere!

iLOVEtwilight: ciao!Be grazie mille, veramente! ^^ Scusa se vado pianissimo ma non ho tantissimo tempo per scrivere, e quando scrivo ci metto un sacco perché continuo a rivedere delle cose…mamma mia hai ragion se vado avanti così non finirò mai! XD

 

Baci,

Giuls

 

 

 

 

Camminammo lentamente, a velocità umana, io ancora un po’ intorpidita dallo strano effetto di Benjamin. D’un tratto, nel vuoto della mia mente, mi ricordai in un lampo di lucidità di come avesse parlato di “partita”, prima che partissi per la tangente. Lui camminava di fronte a me, eravamo in fila indiana, e con un passo mi avvicinai alla sua schiena.

-Di che partita parlavi?-

-Baseball, ovviamente-

-Ma c’è bel tempo!-  fu più una supplica che un’esclamazione. Giocare a baseball con la mia famiglia era senz’altro un passatempo piacevole, ma non sapevo quanto lo sarebbe stato con lui. Me lo sentivo: se avessi sbagliato qualcosa avrebbe alzato il sopracciglio, gli si sarebbe stampato in faccia un pensiero del tipo “ma guarda te questa povera scema”, io sarei andata in paranoia e avrei lanciato la palla in faccia a qualcuno. Sapevo che se avesse giocato anche lui sarebbe finita così, e il solo pensiero della figuraccia cominciò a mandarmi il sangue alla testa. Non volevo giocare.

-Non stasera alle dieci- ci mancava anche che fosse meteorologo. Volse leggermente il viso verso di me, aveva il sorriso stampato in faccia. –Vedrai che ci divertiamo-.

Immaginavo. Sbuffai.

-Io sono un interbase. E tu?- sembrava particolarmente loquace.

Certo: cantava, era un interbase e probabilmente sapeva volare. Ma per favore.

-Lanciatore- Ero davvero brava, in quello. Nel resto dei ruoli gli altri erano più veloci e con i riflessi più pronti dei miei, ma sapevo fare lanci precisi e potenti. Io e Alice eravamo le più brave in quel ruolo.

Arrivammo all’ingresso di casa, potevo sentire i leggeri movimenti dei miei che venivano ad accogliermi, senza che nessuno parlasse: a volte mi faceva quasi paura come fossi il centro della vita di tutti loro, il punto focale di qualsiasi circostanza. Di sopra stavano ancora ascoltando un vecchio cd dei Beatles, proveniva dalla camera di Alice e Jasper, erano scesi senza spegnere lo stereo. Benjamin si voltò verso di me, e mi aprì la porta con un sorriso cortese e formale: aveva davvero uno stile datato, a volte. Quando faceva così mi sentivo Audrey Hepburn in Sabrina, come se la luce attorno a noi diventasse improvvisamente in bianco e nero, alla maniera delle vecchie pellicole. Esitai per un momento ed entrai. Benjamin mi seguì all’istante e chiuse la porta con leggerezza.

Davanti a me c’era tutta la mia famiglia, tranne Carlisle, che era al lavoro. Erano disposti su due file precise, gli avrei fatto una foto di gruppo, tanto erano immobili e perfetti. Più che altro sembrava di essere entrati in un dipinto. Non sarei mai riuscita a essere come loro, per quanto loro cercassero di convincermi del contrario. Mamma e papà ovviamente davanti a tutti, Rose di fianco a loro, erano spalleggiati dal resto della famiglia, parevano quasi sulla difensiva. Mi sentii un’estranea, nessuno parlava. Ruppi il silenzio, esitante.

-Ehm…ciao a tutti- Certo che erano strani. E pensare che era il secondo giorno: non avrei sopportato quel comportamento ancora per molto. Niente, nessuno parlava. –Ci siete?-

Mamma fece un passo in avanti, rompendo la perfezione di quello schema.

-Stai bene?- parlò con la voce rotta, emozionata. Misi a terra la borsa e mi avvicinai a le, abbracciandola. Decisamente non poter venire con me a scuola non le faceva bene, quasi la preferivo appostata nella classe di fianco piuttosto che distrutta dall’ansia a casa.

-Io sì, certo. E tu?-

-Ero un po’ preoccupata…- mi diede un bacio sulla guancia, quasi sfondandomi la mascella. Mi uscì una risata nervosa.

-Strano!-

-Non c’era nemmeno Jacob…- mamma mi guardava negli occhi implorante, ma non riuscivo a capire cosa volesse chiedermi, o farmi capire: erano tutti troppo criptici, ultimamente. Papà arrivò con un leggero spostamento d’aria, veloce, a fugare tutti i miei dubbi, come sempre. Quei due erano straordinari, ogni loro gesto era l’ estensione di quello dell’altro, una parte inscindibile di esso. A volte li invidiavo, senza volere.

-Tesoro, mamma era solo un po’ in ansia perché con te oggi non c’era nessuno- papà parlò cingendo il fianco a mamma, protettivo, come per scusarla del suo comportamento. A volte quel loro essere così uniti mi faceva sentire esclusa: a papà dispiacque sentire questo, la sua fronte si aggrottò in segno di disapprovazione. Ma era così, e non li rimproveravo assolutamente. Ma c’erano cose che non si cambiavano, ed era giusto fosse così.

-E allora perché mi aspettavate tutti alla porta in stile plotone di esecuzione?- alzai il sopracciglio, senza nemmeno accorgermene. Lo riabbassai non appena mi resi conto che Benjamin mi stava influenzando troppo: non avrei lasciato che le sue psicosi attecchissero sulla mia personalità malata. Papà mi sorrise, con un sorriso tanto smagliante da far invidia alla pubblicità di un dentifricio, e che come i sorrisi della televisione sembrava del tutto costruito. Strano, papà di solito era un ottimo attore, le sue bugie erano sempre perfette.

-Eravamo impazienti di vederti tornare, tesoro-. Anche la voce mi parve un po’ tirata,calibrata male. Ora che lui e mamma mi aspettassero sull’uscio di casa poteva anche passare, ma Emmett che non aspettava altro che io rincasassi, quello mi sembrava oggettivamente un po’ strano. Strizzai leggermente gli occhi, papà si schiarì la voce, guardando il soffitto con aria colpevole. Beccato.

Nel momento in cui lo pensai deglutì, nervoso.

-Avanti, qual è il problema?- incrociai le braccia e piantai i piedi a terra, decisa –Non posso nemmeno starmene a dieci miglia da casa senza che voi diate fuori di testa?- tentai di restare del tutto calma, ma la voce mi si era già alzata di parecchie ottave. Come potevano essere così stressanti? Jasper si fece avanti, cercando di ristabilire una parvenza di calma, e rispondendo alla mia domanda.

-Ness, Jacob ti avrà sicuramente raccontato la storia del vampiro…non è un vegetariano, probabilmente è un nomade, potrebbe essere violento anche verso altri vampiri- Per quanto Jasper cercasse di parlare serenamente convincendomi delle paure pazzesche di mia madre, non riuscii a trattenere uno sguardo assassino. Di quelli da vampiro.

-Ehi Jazz, quella ti mangia adesso- Emmett stava per scoppiare a ridere. Ci mancava solo lui. Vedevo gli sguardi gravi di tutti gli altri, gli sguardi del “Renesmee, dovresti darci ascolto”: era quello il problema, io non avevo una coppia di genitori, ne avevo otto. Otto infermiere che aspettavano solo il momento per dirmi di non fare qualcosa. Restammo tutti in silenzio, io a incenerirli e loro a farmi mentalmente la predica, mentre probabilmente papà stava preparando un nuovo discorso serale sui suoi doveri di padre e sui miei di figlia. Che palle, Cristo santo.

-Questo è poco ma sicuro- anche lui incrociò le braccia, fissandomi. Quanto eravamo uguali.

Inaspettatamente, sentii un fruscio alle mie spalle: mi ero quasi dimenticata di lui, il comportamento dei miei mi aveva mandata fuori di testa. Benjamin si sistemò di fianco a me senza che quasi me ne accorgessi: vedevo il suo braccio di fianco al mio, non osavo guardarlo in volto. Non capivo perché, ma l’idea di mettermi a fissarlo spudoratamente, come prima, davanti a tutti, mi turbava. Teneva le braccia incrociate, eravamo nella stessa posizione, solo che avvertii una significativa differenza di significato: se la mia posa ricordava vagamente una bambina che protestava perché voleva mangiare prima dell’ora di cena, la sua era invece molto minacciosa, di quelle che uno prende prima di una rissa. Non voleva esasperare l’avversario, come me. Voleva semplicemente distruggerlo. Mi percorse un brivido incontrollato, era proprio quella la sensazione che mi piaceva. Vidi mio padre sgranare gli occhi, incuriosito dai miei pensieri, e ne fui molto infastidita. Erano sensazioni mie, soltanto mie. La voce scura di Benjamin scosse tutti noi, lo ascoltavamo attenti come bambini, senza eccezione.

-Forse la ragazzina ha ragione-

Ragazzina?

Rimasi a bocca aperta. Ma come cazzo si permetteva? Mi voltai a guardarlo, velocissima, dimenticandomi delle mie stesse precauzioni, ma rimasi immobile, zittita. In quel momento il suo viso era stupefacente, non trovavo altro aggettivo. Il profilo teso, i lineamenti saldi, il suo corpo era un unico nerbo d’acciaio in tensione verso il nemico. Teneva il volto leggermente all’insù, gli occhi neri delineati dalle sopracciglia tese fissavano la mia famiglia dall’alto verso il basso. Era uno spettacolo straordinario, l’incarnazione dell’ autorevolezza. Non poteva essere patetico, né ridicolo, nel suo ruolo portato quasi all’esagerazione, perché lui stesso era a conoscenza, e noi con lui, del suo ascendente. Non mi sentii altro che una ragazzina, lì ferma a guardarlo, debole. Eravamo tutti lì fermi ad ascoltare le sue parole, la sua voce, e fui rincuorata dall’atteggiamento dei miei: dopotutto, non ero l’unica a rimanere spiazzata di fronte a Benjamin. Lui proseguì, la voce che risuonava nel silenzio più assoluto.

-Insomma, non ha tutti i torti. Dovrebbe essere un po’ più libera-

Forse avrebbe dovuto essere un consiglio, ma a me sembrò un ordine. Ma per quale motivo? Fissavo Benjamin stupita, pareva non si fosse nemmeno accorto di essere vicino a me, sebbene avesse appena preso le mie difese: era ancora del tutto concentrato sui miei. Papà era immobile, pietrificato, non respirava. Le sue labbra divennero una fessura assurdamente tesa, proprio come le mie quando mi arrabbiavo. Sibilò lentamente, scandendo le parole.

-E’ mia figlia. Non le lascerò mai correre dei rischi-

-Io credo che invece non dovreste starle così addosso- i bicipiti di Benjamin si tesero, erano un fascio di muscoli e tendini contratti all’inverosimile. La piacevole sensazione di adrenalina si stava trasformando in ansia, paura addirittura. Quella situazione era pazzesca, sembrava l’inizio di uno scontro. Mi ritrovai a pensare a quello che papà mi aveva detto ieri, che non riusciva a leggere bene i pensieri di Benjamin. Ebbi paura per papà: se si fosse scontrato con lui, avrebbe perso il suo vantaggio, sarebbe stato vulnerabile. E Benjamin non sembrava per niente un avversario semplice. Gli altri erano fermi, lividi, ma all’incirca come ogni giorno, e non riuscivo a capire se fossero pietrificati dalla situazione o se stavano solo osservando, tranquilli. Ero al museo delle cere. Voltavo lo sguardo vorticosamente tra Benjamin e mio padre, alla ricerca di un segno, ma sembravano decisi a restarsene lì impalati ancora per un bel pezzo. Stranamente se ne restava fermo anche Emmett, avrei giurato che si sarebbe voluto buttare nella mischia, eppure non si muoveva. Molto sospetto. Cominciavo a spazientirmi, era come se si fossero dimenticati della mia presenza. Mi schiarii la voce, ma non feci in tempo a parlare. Il ragazzo era fin troppo loquace, in pubblico.

-Non ho ragione, Renesmee?-

Me ne rimasi lì stupita, le sopracciglia aggrottate e la bocca semi aperta, come una cretina. Io davvero non capivo dove volesse andare a parare. In soli due giorni mi aveva dato dell’idiota, pedinata due volte, aveva detto che ero una racchia e preso parte a una battaglia morale, che stava per diventare un incontro di wrestling, per la mia emancipazione. Avrei sfidato chiunque a capirlo. Cercai di balbettare qualcosa di comprensibile.

-Ehm…sì-

In realtà non sembrava molto interessato alla risposta, non mi guardava nemmeno: il suo sguardo rimaneva ancora fisso sulla mia famiglia, glaciale, lontanissimo. Fu come parlare tra me e me.

-Perfetto-

Passò una manciata di secondi, densa ed enigmatica, senza che dai due fronti provenisse alcuna reazione. Solo Jasper, inaspettatamente, ruppe quel silenzio.

-Edward, avanti- L’espressione del viso di mio zio poteva ricordare quella di Benjamin, avevano la stessa luce spenta negli occhi, la stessa sottile ma inattaccabile determinazione. Papà trasse un respiro, le labbra si allentarono lentamente.

-Hai ragione Renesmee, non dovremmo essere così apprensivi- Mio padre evitò accuratamente i miei occhi, rimanendo concentrato su Benjamin, anche se stava rispondendo a me. Lui fece un cenno di assenso, impercettibile, e la posizione solida, di attacco, che aveva mantenuto fino a poco prima si sciolse, lasciando i muscoli completamente rilassati. In quel preciso istante, magicamente, all’unisono, anche gli altri ruppero le file, chi facendo un passo, che voltandosi attorno, chi fissandomi ansioso. Come mia madre. Benjamin, solo lui, era stato il regista di tutta quella scena, e non capivo come fosse riuscito a creare una situazione simile. In cui lui imponeva la sua opinione su una famiglia di otto vampiri. Otto. Che era quel tizio veramente? Il fatto che fosse riuscito in tre minuti a far dire a mio padre le parole che avevo tentato di tirargli fuori per anni più che stupefacente era sospetto, altamente equivoco. Ancora in preda ai dubbi, presi la borsa e lentamente attraversai l’ampio atrio fino allo scalone e salii, intenzionata più che mai a rifletterci sopra in camera mia, dopo una doccia molto, molto lunga.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Humphrey Bogart e Marlon Brando ***


In camera mia accesi lo stereo e scelsi dalla parete dei cd un album dei Royksopp, strumentale: non volevo parole, ne avevo già sentite troppe quel giorno, e di ben troppo strane

Ciao a tutti! Sopravvissuta a un’interrogazione di filosofia da spararsi, stamattina, (mi sento di condividerlo con il mondo), posto il diciassette. Noticina: l’attitude è un passo di danza piuttosto semplice in cui la ballerina sta in equilibrio su un piede solo, mentre l’altra gamba è piegata a 90°, e le braccia possono prendere posizioni diverse a seconda del tipo di attitude (io rimango più sul generico XD).

Giuly94: Ciao!! Lasciando perdere i miei strafalcioni ortografici da far accapponare la pelle (non rileggo praticamente mai! XD), mi fa piacere che tu non ti senta minacciata dalla lunghezza del papiro ^^. E’ molto motivante, credimi! Spero che il capitolo ti piaccia comunque, anche se ho rimandato l’evento che speravi, ma don’t worry, ho comunque intenzione di inserirlo, ma credo verso la fine (perché avrà una fine, spero). Fammi sapere cosa ne pensi, di bello e di brutto, sia chiaro!

Thsere:Ciao! Anche io me lo immagino proprio ben messo, decisamente!! XD E ha sicuramente carattere, vedo che comprendi bene. Non ti dico altro per non rovinare la sorpresa, ma un po’ mi spiace perché dovrai aspettare almeno ancora sette o otto capitoli prima di arrivare a qualcosa di concreto su di lui. Fra l’altro sono tutte cose che devo ancora scrivere e sono confusissima riguardo ai particolari! Speriamo in bene! A presto!

Isabella19892:Ciao! sì, direi che un seguito per quel libro scritto non si sa con quale scopo (a parte disboscare le foreste pluviali e dare una sottospecie di fine alla saga)sarebbe decisamente un sogno.  Però va be, intanto accontentiamoci di un po’ di care vecchie insane fanfic! XD Be comunque le tue ipotesi sono del tutto legittime, è tutto nella norma, direi! Tu fra le due quale preferiresti? (mi sto preparando al peggio, ovvero fuga di massa dal fan fic a causa delle mie idee scadenti XD). A presto!!

 

 

 

In camera mia accesi lo stereo e scelsi dalla parete dei cd un album dei Royksopp, strumentale: non volevo parole, ne avevo già sentite troppe quel giorno, e di ben troppo strane. Presi dalla cabina armadio un pigiama leggero azzurro, con il bordo di pizzo, e una vestaglia di seta blu. Avevano ancora il cartellino attaccato, non li avevo mai visti prima. Feci scorrere l’acqua della doccia per farla diventare bollente e mi svestii, lanciando i vestiti da qualche parte nella camera. Restai nella doccia perdendo completamente il contatto con il tempo: mi ero ripromessa di pensare, di ragionare, ma il costante getto della doccia, così sereno e musicale non mi permise di fare altro che rilassarmi. Ero stanca. Benjamin mi sfiancava, ogni volta che lo incontravo mi capitava qualcosa di strano. E rimanevo inquietata, o forse affascinata, dai suoi modi, perché erano quelli di un tipo di persona, di vampiro, che non avevo mai conosciuto prima d’allora. Se da un lato mi irritava oltre ogni limite, con i suoi giudizi, le sue frasi ermetiche e il suo autocontrollo esagerato, dall’altro quelle stesse caratteristiche mi incuriosivano in maniera morbosa, per il solo gusto della novità.  Misi il viso sotto il getto della doccia: ero proprio una ragazzina, per comportarmi così. Quello stesso pensiero mi consolò, perché come i bambini presto avrei perso ogni interesse per il nuovo giocattolo, e la presenza di Benjamin non mi avrebbe fatto alcun effetto, ne mi avrebbe affascinata particolarmente. Uscii dalla doccia quando le punte dei polpastrelli cominciarono ad intirinzirsi, come se fossi stata nella vasca da bagno. Mi avvolsi in un accappatoio e mi lavai i capelli, nella vasca da bagno: erano troppo lunghi per lavarli sotto la doccia. Il profumo dello shampoo era buono, chimico ma delizioso. Mi attorcigliai un asciugamano in testa a mo’ di turbante e cominciai a mettermi la maschera all’argilla bianca, e proprio allora sentii squillare il cellulare, con la suoneria che avevo scelto per Jacob. Il solito tempismo. Mi pulii le mani in fretta per rispondere in tempo, ma tanto sapevo che Jacob avrebbe lasciato squillare fino a che non fosse caduta la linea. Accorsi al cellulare, che avevo lasciato su una pila di asciugamani: aspettavo la sua chiamata.

-Ehi, fuggitivo- Mi rilassai all’istante: il solo pensiero di parlare con Jacob mi rendeva serena. Sorrisi.

-Credimi non scapperei da casa per niente al mondo-, ridacchiava. Anche lui era contento, si sentiva.

-Tutto bene alla riserva?- mi sedetti sul bordo della vasca e cercai una posizione che non mi facesse sporcare il cellulare con la maschera per il viso.

-Quello schifoso è scappato- Si lasciò scappare un’imprecazione poco elegante.

-Ma come ha fatto? Eravate tutti riuniti!- Doveva essere un tipo sveglio. I lupi erano tanti, ben addestrati e condotti da Jake e Sam.

-E’ scappato …tra gli umani- un’altra imprecazione. Doveva essere fuori di sé, perché di solito con me cercava di essere il più educato e civile possibile. Per quanto gli fosse possibile, ovviamente.

-Ma come?-

-Non so, è tornato a Vancouver. In una città non possiamo fare niente-

-Potrebbe essere un neonato?- era strano che un vampiro tornasse nel luogo in cui si era cibato dopo così poco tempo, soprattutto perché non avrebbe potuto continuare a sfamarsi lì, avrebbe attirato l’attenzione.

-No...lo avremmo fregato- sentivo la sua voce appiattita, stressata. Riuscivo a immaginarmelo passarsi una mano sulla fronte, frustrato. Conoscevo tutti i suoi gesti alla perfezione. E sapevo anche che da lì a un secondo avrebbe cambiato argomento e avrebbe parlato di me.

-E tu piccola, tutto bene?- Ci avrei giurato. Mi usci una risata leggera e cristallina, di quelle che non ero più abituata a fare. Trasparente.

-Che c’è?- Jake era preso di sprovvista, ma sentivo che anche lui sorrideva con me.

-Niente, ho solo immaginato che stessi per parlare di me-

-Bè, piccola, mi sembra ovvio. Di cosa dovrei parlare, della fauna della Micronesia?-

-Non devi tirartela perché sai dov’è la Micronesia, cretino. A proposito, dov’è?-

-Dicevo, come stai? Tutto a posto con i vecchi?- Jacob glissò l’argomento con singolare non chalance. Scoppiai a ridere.

-Tu non sai dov’è la Micronesia?-

-Io qui tutto bene, mio padre ha comprato il pollo fritto per stasera- anche lui rideva, cercando di trattenersi senza risultato.

-Quando torni ti do ripetizioni di geografia-

-Per te anche questo. Se vuoi puoi anche farmi studiare le bandiere-

Mi faceva morire.

-Ti prendo in parola…- cercai di assumere un tono minaccioso, ma non riuscivo a smettere di ridere. Non mi accorsi nemmeno che Jacob aveva smesso di parlare.

-Tesoro, devo andare, scusami-

-Ma come? Di già?-

- Mi spiace, davvero. Dobbiamo controllare la riserva…magari cercare di prenderlo alla prima occasione. Appena prenderemo quello stronzo tornerò a casa. Subito- Mi stava facendo una promessa. Aveva un tono grave, come un quello di un giuramento. Ogni volta che semplicemente si impegnava nel fare qualcosa per me, sembrava giurasse sulla sua stessa vita. Il mio cuore accelerò la sua corsa.

-Ok, allora prendetelo-

-Certo, piccola-

-A presto, Jake-

Fui io a riattaccare. Chiusi gli occhi e cercai di allontanarmi da ogni senso, di chiudermi in me stessa. In quell’oscurità non avevo bisogno di niente e di nessuno, nemmeno di Jacob. Ero sola, ma non avevo paura. Mi smarrivo in me stessa, nel silenzio totale, fino a quando non temevo di perdermi del tutto, alla ricerca delle risposte che non riuscivo a trovare fuori.

Jake mi faceva spesso quell’effetto. Per capire doveva cercare, ma non potevo sapere come. Mi rimaneva solo il silenzio. Avevo voglia di ballare, per dimenticarmi di me, finalmente. Quando ballavo, perdevo la percezione di ogni cosa, la realtà era solo un giocattolino di cristallo su cui danzare, volare, senza romperlo, sempre sull’orlo dell’abisso.

Aprii gli occhi, sentii la pelle del volto tirare: mi ero dimenticata la maschera. Andai a sciacquarmi la faccia. Asciugandomi il viso e prendendo il pigiama accennai alcuni passi, ad occhi chiusi. Tra una cosa e l’altra dovevo essere rimasta chiusa in bagno per almeno un’ora, cominciavo a sentirmi oppressa tra quelle quattro mura. E avevo anche fame. Decisi di scendere in cucina a cercare qualcosa di mangiare, o meglio a cercare qualcosa che Esme mi avrebbe cucinato entro trenta minuti.

Aprendo la porta del bagno, per poco non mi prese un colpo.

Non era possibile.

Era coricato sul mio letto, comodamente disteso con la testa sorretta da una pila di cuscini, che leggeva il libro che avevo sul comodino. Non riuscii nemmeno a cacciare l’urlo che avrei voluto far uscire, rimasi ferma immobile. Pietrificata dalla sorpresa. Prima che potessi avere una qualsiasi reazione sensata, lui lasciò cadere il libro sul petto e mi guardò, senza alcuna ombra di imbarazzo. Nemmeno se ero in vestaglia e con un turbante in testa.

-Avevi intenzione di passarci la giornata, là dentro?- Sembrava addirittura spazientito. Lui. Sentii il volto infiammarsi, di rabbia e imbarazzo.

-FUORI!- Emisi un latrato terribile, talmente forte che non se ne distingueva bene il senso. Le punte delle orecchie in fiamme.

-Renesmee, guarda che ti partirà un embolo, prima o poi- Non ci vedevo più: mi stava fissando serio, senza muovere un muscolo, come se fosse seriamente preoccupato per la mia salute. Ma era solo il suo personalissimo e frustrante modo di tormentarmi. Ma cosa ci trovava di tanto divertente?

-Esci dalla mia camera- cercai di riprendere il controllo, chiudendo gli occhi. Almeno non avrei visto quella faccia da schiaffi.

-Devo solo dirti una cosa- lo sentii ribattere, e malauguratamente mi immaginai anche la sua faccia mentre lo diceva. Perfetta, immutabile, l’espressione piena di sé. Gli occhi scuri fissi su di me. Riaprii gli occhi: era esattamente come me lo immaginavo. Avrei voluto dirgli qualcosa di cattivo, di particolarmente malvagio, oppure anche solo semplicemente di uscire, ma non mi uscì un filo di voce. Non capivo come potessi essere io in imbarazzo in un momento come quello: se c’era qualcuno che doveva vergognarsi di qualcosa, quello era lui, non ero stata di certo io a pedinare una persona e a intrufolarmi in casa sua. Eppure non riuscivo a fargli niente. Mi sentii molto impotente, come se il corpo non rispondesse ai lontani ordini del mio cervello.

Benjamin aveva approfittato della pausa per mettersi a sedere, sempre tenendo il libro in mano. Inaspettatamente, mi rivolse un sorriso. Anche il suo sorriso era simmetrico rispetto al viso, regolare, come se fosse stato disegnato.

-Ti sei calmata?-

-Sì- idiota, Renesmee, dovevi dire di no! Il sorriso sul suo volto non scomparve, solo all’insieme si aggiunse il sopracciglio alzato. Ecco perché non dovevo dire che mi era passata.

-Sei facile da capire. Prendi le cose talmente di petto da non riuscire ad affrontarle. Se tu avessi fatto un respiro e poi mi avessi detto di uscire di qui, forse avresti ottenuto di più che mettendoti a sbraitare come una pazza. Fra l’altro non ho capito cosa hai detto- Alzò il mento e ritolse lo sguardo. Gli venne una ruga sulla fronte. Benjamin era davvero strano, oscillava dalla totale mancanza della più piccola reazione alle rughe. Stupefacente.

-Senti, parla ed esci appena hai finito. Il tono è di tuo gradimento?- cercai di essere la più distaccata possibile. Per certi versi mi sforzai di imitarlo, ma riuscii solamente a sembrare un po’ imbarazzata.

-Molto carino. Femminile- sorrise, gli occhi leggermente socchiusi. Chissà a che diavolo stava pensando. Inspirai, senza muovermi.

-Puoi anche avvicinarti, sai?- Benjamin mi osservava preoccupato, o forse solo sorpreso dal mio comportamento, come se non riuscisse ad afferrare la ragione del mio imbarazzo. Insomma, avevo uno sconosciuto in camera, e mi presentavo in pigiama e con un turbante in testa. Non mi sentivo propriamente a mio agio.

-Non do corda agli sconosciuti- incrociai le braccia e strinsi le labbra.

-Giusto- alzò una mano e fece cenni di sì con la testa -ma tu mi conosci-

-Non credo, davvero- aveva un concetto di conoscenza abbastanza lato, il ragazzo.

-Come vuoi- non sembrava che gliene importasse un gran che, stava frugando nelle tasche dei pantaloni e non mi guardava nemmeno. Fui io ad inarcare il sopracciglio. Mi irritava che prima facesse di tutto per cercare lo scontro e poi non mi ascoltasse nemmeno, probabilmente perché nessuno in vita mia era mai stato tanto distratto in mia presenza. Mi sentivo di vetro, un oggetto semi trasparente, in cui la luce passava attraverso e non si rifletteva del tutto.

Benjamin estrasse dalle tasche un pacchetto di sigarette e un accendino. Rimasi di sasso: mai sentito parlare di vampiri fumatori. Posò una sigaretta sulle labbra.

-Posso?-

Alzai le spalle.

Lui si alzò dal letto con uno scatto ben calibrato, in un unico movimento fluido, e andò alla porta finestra. La aprì e uscì sul piccolo terrazzo della camera. Io rimasi lì, in camera, senza sapere bene cosa fare. Prima mi faceva prendere un colpo, poi se ne andava per i fatti suoi: una logica inattaccabile. Uscii anche io, contrariamente a qualsiasi previsione razionale. A fare cosa non lo sapevo nemmeno io. Avevo anche i capelli bagnati, mi sarei presa il mal di gola.

Benjamin aveva una mano appoggiata sul parapetto della terrazza, girato di spalle. Rimasi sulla soglia.

-Guarda che i vampiri non fumano-

-E come lo sai?- si voltò a guardarmi, sorridendo, lieve. Ma si vedeva dagli occhi che era soddisfatto, probabilmente perché lo avevo seguito. Ma non potevo farci niente se mi incuriosiva. Per ora.

-Non ne ho mai visto uno che avesse bisogno di fumare-  lo guardai di sbieco.

-Ma non ne ho alcun bisogno, infatti-  si voltò, portando alla bocca la sigaretta e facendo cadere la cenere sul tetto.

-E allora perché fumi?-

-Sana abitudine umana. Tanto non può farmi niente- prese un’altra boccata profonda.

-Abitudine umana?- ero stupita. Non avrei mai associato Benjamin al concetto di umano, a dir la verità non riuscivo nemmeno a figurarmelo prima di essere quel che era.

-Se non facciamo qualcosa che ci ricorda di essere stati umani finiremmo per vivere nudi nelle foreste. Perché credi che tuo padre suoni il pianoforte? O che tua madre rilegga dei libri che ormai conosce a memoria?-

-Perché gli piace?- ero totalmente scettica. Mi sembrava un discorso esagerato. E non riuscivo nemmeno a vedere la sua espressione, era rimasto di spalle.

-Perché gli piaceva-

Silenzio.

L’aria fresca e umida preannunciava la pioggia di quella notte. L’inizio dell’infinita pioggia autunnale della penisola olimpica. Detestavo quel posto, mi piaceva il sole. A volte fantasticavo di essere una ragazzina umana di San Diego. O Venice. O New Port. Mi vedevo al sole d’estate, la pelle bronzea, un po’ scottata, con una tavola da surf. E invece ero là fuori, con un vampiro depresso ad aspettare la pioggia.

-Loro sono quello che sono. Non hanno bisogno di ricordarsi chi erano-

-Certo che ne hanno bisogno. Non puoi capire- la sigaretta era finita, lanciò il mozzicone nel prato. Mi faceva incazzare il fatto che Benjamin mi considerasse una perdente in qualsiasi cosa, che fosse la danza o il solo afferrare un concetto.

-Certo che posso capire-

-Non sei come noi- Benjamin assunse un tono grave, basso, difficile da sentire con precisione. Feci un passo avanti. Ancora silenzio. Lui prese un’altra sigaretta e la accese, lentamente. Ora che lo notavo, sembrava davvero più un rito che un bisogno. Si voltò lentamente, e senza dire niente si limitò a guardarmi prendendo una boccata di tanto in tanto.

-Sai che sei a metà tra Humphrey Bogart e Marlon Brando?- mi veniva da sorridere: mi sembrava di essere nella cara vecchia Hollywood dei tempi d’oro. Benjamin rise, i lineamenti si rilassarono. Quando si lasciava andare sembrava quasi vero, la sua bellezza selvaggia si calmava, e gli spettri dei suoi occhi scomparivano. Dimenticai che si era intrufolato in camera mia, che aveva detto che ero brutta e che mi aveva pedinata. Come negargli un sorriso?

-Dovrebbe essere un complimento?-

-E’ una piccola nota- mi strinsi nelle spalle, per proteggermi.

-Ah, certo- buttò il mozzicone della seconda sigaretta dietro di sé.

E fu di nuovo silenzio. Ma non ero imbarazzata, mi sembrava assolutamente normale rimanere a fissarlo senza dire una parola, e mi sembrava più che normale che anche lui facesse lo stesso. Non riuscivo nemmeno a stupirmi del mio comportamento, nemmeno a ricordare che cinque minuti prima gli avevo urlato di togliersi dai piedi.

-Renesmee, io vado- la sua espressione non cambiò di molto, non ritornò la scultura che era. Il cambiamento mi affascinava.

-Perché?- in realtà forse avrei dovuto dire “dove”, ma non mi parve di aver fatto un grande errore.

Lui sorrise, ma non fece niente di tutto ciò che avrei pensato potesse fare, prendermi in giro o inarcare il sopracciglio.

-Vado a caccia-

-Ah-

Ero un po’ sorpresa: non era in stile Benjamin uscire di scena per qualcosa di così banale. Senza accorgermene mi ero messa ad arrotolarmi un boccolo con un dito.

-Però prima devo chiederti una cosa- si avvicinò di un paio di passi, silenzioso come un soffio, con un movimento talmente veloce da essermi quasi impercettibile. Sapevo che non se ne sarebbe mai andato così. Incrociai le braccia, come una protezione. Ero pronta a tutto, a qualsiasi tipo di offesa: l’atmosfera serena e pacata di poco prima era già andata in frantumi, sentivo di nuovo i nervi fremere. Renesmee, tu lo sai che ha ragione. Se non ti rilassi ti scoppierà una vena in testa, una volta o l’altra.

Benjamin sorrideva di sbieco, pienamente conscio del suo potere, della sua capacità di zittire chiunque con un gesto. Lo fissavo in tutta la sua lontana magnificenza, e d’un tratto capii cosa me lo rendeva ostile.

L’invidia.

Era ciò che non riuscivo ad essere, ciò che non potevo essere. Un vampiro, nella pienezza del significato: mi mancava qualcosa per essere come lui, e non potevo averla in alcun modo. Una parte di me non andava, era quello il problema. Mi morsi il labbro, frustrata: detestarlo senza motivo era stato terribile e mi aveva fatta sentire in colpa, ma invidiare Benjamin era una delle sensazioni più sgradevoli che avessi mai provato. Potevo essere così miserabile. Era avvilente.

Lui non sembrò nemmeno accorgersi del mio silenzioso conflitto, ma d’altronde era un attore talmente bravo che avrebbe potuto tranquillamente fingere. Sentivo il suo odore, la sua scia fredda e avvolgente. Di vampiro.

-Renesmee-

E sentivo la sua voce, assoluta, distante. Non avrei mai potuto avere una voce così. Strinsi impercettibilmente i pugni, nascosti tra le pieghe della vestaglia.

-Devo farmi perdonare-

Il mio cervello mi intimava di chiedermi che cazzo stesse dicendo quell’ energumeno, le mie sensazioni avrebbero voluto prenderlo a schiaffi per il solo gusto di farlo. Mi limitai ad un’espressione stupita stampata sulla faccia, fortunatamente.

Benjamin piegò la testa, incuriosito e, ovviamente alzando il sopracciglio, rise piano. Sembrava più uno sbuffo che una risata, in realtà.

-Strano, non mi hai ancora detto che sono un idiota. A questo punto me lo aspettavo-

-Scusami. Sei un idiota-

-Perfetto, sono più tranquillo- trasse un sospiro di sollievo, ovviamente intriso di malsana ironia. Mi squadrava dall’alto in basso, sorpreso quanto me della mia assoluta mancanza di emozioni. Non avevo detto “idiota” con la solita enfasi e la solita convinzione, sembravo più una doppiatrice stanca. Cercai di superare quel momento di silenzio. Mi sentivo scoperta.

-Dicevi?-

Benjamin ritornò improvvisamente serio, dal suo viso scomparve ogni traccia di ironia, senza un motivo apparente. Era grave, concentrato: non in senso ostile, come avevo visto prima, ma solo molto riflessivo. Come se stesse soppesando troppi pensieri troppo velocemente.

-Insomma volevo farmi perdonare-

-Fino a qui c’eravamo, Benjamin- corrugai la fronte, dubbiosa, mentre lui volgeva lo sguardo altrove, sbuffando. Non che sembrasse scocciato: più che altro confuso.

-Compri una vocale?- stavo cominciando a rompermi, e i capelli bagnati mi facevano freddo, volevo rientrare.

-Ti va di venire a caccia con me, domani?-

Parlò con incredibile non chalance. Benjamin aveva una faccia tosta mostruosa. Scoppiai in una risata, non sapevo in che altro modo esprimere la mia totale sorpresa. Non aveva senso.

-Scusa?- mi portai un dito alla tempia e socchiusi gli occhi, nel tentativo di darmi un contegno.

-Se vuoi, domani puoi venire a caccia con me- Lui se ne restava lì, esattamente come prima, senza muovere un muscolo, ignorando completamente la mia reazione, chissà se perché gli era totalmente indifferente o perché preferiva non scoprirsi troppo. Non mi sembrava nemmeno reale, la voce non poteva uscire da quella cosa, da quella proiezione.

-E dovresti farti perdonare?-

-In realtà il premio sarebbe un giro in moto. Una di quelle che tu non hai distrutto, ovviamente- la presenza del classico sopracciglio alzato un po’ mi rassicurò, perché tutto il resto della situazione non era per nulla normale. Stavo cominciando ad arrotolarmi un boccolo piuttosto freneticamente.

-Tu non sei mai andata in moto, giusto?-

-Come cazzo fai a dirlo?- Suvvia Renesmee, va bene mostrarsi decisi, ma sfociare nel turpiloquio era decisamente una caduta di stile.

-Se fossi già andata in moto ti sarebbe piaciuto, e se ti fosse piaciuto non avresti mai avuto il cuore di distruggere una Honda ultimo modello- si strinse nelle spalle, con aria distratta. Mi sembrava Doctor House, con quella spiegazione idiota.

-E il premio sarebbe un giro in moto-

-Esattamente-

Benjamin se ne restava serio e zitto di fronte a me, talmente immobile da farmi pensare che la conversazione pazzesca a cui avevo appena preso parte non era altro che frutto della mia immaginazione. Studiai il suo volto, alla disperata ricerca di un segno, di un appiglio che mi aiutasse a capire. Ma nemmeno dagli occhi potevo concludere qualcosa, la mia ricerca era inutile: quelle cavità cupe non riuscivano a trasmettermi niente. Tranne la paura, l’ansia, la tensione della preda.

Inaspettatamente, il mio cervello era spento.

Esistevano solo le sensazioni.

E una parte di me non trovò nessuno tra le migliaia di motivi validi per rifiutare.

Forse la mia vita sarebbe stata diversa, se avessi rifiutato, o magari no.

Soltanto rimasi in piedi, zitta, a fissare i suoi occhi. Dopo un po’ mi parve che in realtà quel nero non fosse compatto, ma si muovesse minaccioso come il mare di notte. Un’onda sopra l’altra, all’infinito. Non erano come i miei occhi, profondi ed espressivi. Erano così lontani, infiniti, come un buco nero, l’apertura per chissà quale universo.

La mia bocca si mosse.

-Va bene-

Anche la sua si mosse. Diceva qualcosa di gentile, stranamente. Ebbi la percezione imperfetta che stesse sorridendo, ma in realtà stavo ancora nei suoi occhi. Avrei voluto sprofondare, nuotare in quel nero per sempre, senza che esistesse una cosa futile e sciocca come il tempo, o i legami, o il mondo o tutto il resto delle cose che non fossero un mare nero e profondo.

-A domani, allora-

-Niente partita?-

-Niente. A domani, Renesmee-

Benjamin davanti a me, un’ombra lontana, appena abbozzata. Adesso non mi faceva paura, non capivo come avesse mai potuto farmene. I suoi occhi non erano spaventosi, erano soltanto inesplorati. Liberi, lontani.  Non avrei mai avuto degli occhi così, non avrei potuto.

Sorrideva. Non mi faceva paura.

Gli sorrisi lievemente, le sopracciglia leggermente inarcate. Sorridevo tra me, più che a lui.

Benajamin se ne andò voltandomi le spalle, lasciandosi cadere a terra dal terrazzo con un balzo agile. Mi parve che non corse via all’istante, ma che per un momento rimase lì fermo, esattamente ai piedi del terrazzo, dov’era caduto. Eravamo entrambi rimasti immobili, nello stesso momento. Poi lui se ne andò, in un soffio, e io chiusi gli occhi.

 

Cosa ti succede, Renesmee?

 

Anche mettendomi a ballare, sola, con addosso una vestaglia e un asciugamano avvolto in testa, sul terrazzo della mia camera, non riuscivo a non pormi quella domanda.

Cosa mi succedeva?

I miei muscoli lavoravano, veloci e leggeri, seguendo note che passavano nella mia testa. Ma io pensavo, e chiedevo, e pensavo, e mi veniva da piangere.

Perché non lo avevo semplicemente mandato al diavolo? Era Benjamin, ed era insopportabile.

Perché dovevo sempre guardare i suoi occhi?

Non avrei potuto fare come la prima volta che lo avevo visto, semplicemente ignorarli?

Non potevo fare come ieri?

Conclusi la mia danza con un attitude, e rimasi tesa, immobile. Rilassai i muscoli piano, gradatamente, con quella lentezza che avrei voluto dare ai miei pensieri. Entrai in camera, e mi sedetti sul letto. C’era ancora lì appoggiato sul letto il libro che stava leggendo, o meglio quello che io stavo leggendo e che avevo appoggiato sul comodino. Era ancora 1981, di Orwell. Non avevo avuto il tempo di finirlo, in quei due giorni. Prendendo il libro tra le mani, ebbi l’impressione di potermi vedere. Era come vivere un film. Mi sentivo talmente nuova a me stessa da sentire il bisogno di dissociarmi, di rendermi indipendente. E mentre una parte di me fuggiva, un’altra rimaneva lì, seduta su quel letto con un libro tra le mani, a cercare di capire cosa era appena successo.

Mi lasciai cadere sul letto, esausta.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Vigliacca ***


Nessuno venne a cercarmi, stranamente

Ciao a tutti! Nuovo capitolo, e per tutta la settimana non credo potrò postare (vado in vacanza a Firenze, muahahah!). Grazie ancora alle persone che aggiungono tra i preferiti, mi fate sempre molto contenta! ^^

Thsere: Ciao! Molto bene, meglio per te che tu abbia moooolta pazienza perché oggi ho appena finito il 23! XD Comunque tranquilla…qualcosa succederà, non so cosa ti aspetti ma sicuramente una rivelazione ci sarà (era anche ora…)!. A presto! Bacio

Isabella19892: Ciao! Dunque, riguardo alle idee grazie mille, veramente, anche se spesso penso che sfiorino il banale. Comunque credo che sia maglio un po’ di banalità piuttosto che la totale insensatezza e mancanza di logica, mi consolo così! XD Riguardo alla teoria non ti dico niente, mi farai sapere a tempo debito quando si sveleranno tutti gli altarini! Riguardo alle domande, invece, posso dirti che anche lì si scoprirà un po’ alla fine (quando si scopre chi è davvero Ben e cosa deve fare, soprattutto) perchè conosce così bene i Cullen. Ad ogni modo Renesmee non si fa domande perché lui è rimasto a contatto con i suoi più a lungo rispetto a lei (passa il pomeriggio da loro). E invece il vampiro centra centra…^^ Oltre ad essere un utilissimo escamotage (si è visto così tanto che voglio togliermi Jacob dalle pantofole?) sarà anche utile per la storia, non fondamentale ma avrà comunque a che fare. Wow è troppo bello rispondere alle domande!! Grazie per il sostegno morale, sappi che è reciproco, anche perché una cosa come biologia mi sembra molto, molto, molto spaventosa :S ! A presto, bacio!

 

 

 

 

Nessuno venne a cercarmi, stranamente. Il tempo scivolava via veloce, imprevedibilmente rapido, mentre io rimanevo distesa sul letto. Dopo che ne fu passata una indefinita quantità, andai ad asciugarmi i capelli, come un automa. Mi fissavo allo specchio, un po’ stranita, perdendomi ad ascoltare il ritmo cadenzato del phon. Avevo voglia di andare a dormire. Contro ogni previsione, la natura di mio padre non aveva per nulla influito su di me sotto quell’aspetto: se il mio sonno era tranquillo, dormivo tranquillamente per dieci o dodici ore. Più che di sonno si poteva parlare di letargo. Mi sarei buttata sotto le coperte in quello stesso istante, se lo stomaco non si stesse lamentando, imperioso. Non dovevo essere molto attraente in quel momento, con la faccia inspiegabilmente distrutta dal sonno e la pancia che gorgogliava. Per giunta, i capelli quella sera erano indomabili, i miei soliti boccoli erano tutti arruffati e indefiniti. Ero un disastro.

Pensai al portamento impeccabile di Benjamin, ma il cervello si rifiutò di fare collegamenti particolari: era come se il mio inconscio fosse perfettamente consapevole del casino che sentivo dentro, e cercasse di annullarlo allontanandolo dai miei pensieri. La mia metà vampira era perfettamente consapevole del procedimento, quella umana stupita e un po’ infastidita. A volte avevo dei comportamenti che sfuggivano anche a me stessa, era quello il gaio di avere due nature. Chissà, magari era così anche per quella sclerotica di Teresa. Anche quella mattina, a scuola, mi aveva dato prova della complessità patologica della sua psiche. Era uno spaventoso ibrido che stava esattamente a metà tra Amy e Madre Teresa, sarebbe stata una sfida dura anche per Freud in persona. Mi divertivo ad osservare la sua varietà di comportamento, i momenti in cui si comportava come Britney Spears alle prima apparizioni e quelli in cui faceva volontariato psicologico tra la gente. Più che altro ritenevo che la mia osservazione fosse scientifica. In effetti più che convivere con gli umani, li sezionavo.

Mi sarebbe piaciuto potermi osservare come facevo con gli altri, per capire che tipo di metà ero io.

Umano o vampiro.

Vivo o morto.

Non era una scelta complicata, in fondo le possibilità erano sempre quelle. Non esisteva che la riposta fosse “a metà”, come i miei dicevano sempre: doveva esserci una risposta, avevo bisogno di essere definita.

Avevo sempre sperato di ritrovare me stessa nell’essere semplicemente un vampiro. I miei genitori lo erano, la gran parte delle persone che amavo lo erano. E io avevo provato davvero, sinceramente, con determinazione, a essere una vampira. Ma la verità la diceva il mio nome: Renesmee. René, né Esme. Una parte di me escludeva l’altra. Era terribile, assurdo, innaturale.

Era per quello che biasimavo i miei genitori. Nonostante tutto, aveva sempre avuto ragione mio padre. Mi scese una lacrima: ogni volta che pensavo a quello, avrei voluto scomparire all’istante, e portare via anche il ricordo di me. La mia esistenza non era semplicemente prevista in natura, e essere unici a volte non è così meraviglioso come si potrebbe pensare. A volte è soltanto molto solitario.

I capelli erano asciutti, crespi ma asciutti. Mi sarei fatta una coda, la mattina dopo. Mi asciugai le lacrime con cura: sapevo che papà aveva sentito i miei pensieri, ma almeno volevo che mamma non intuisse. Povero papà. Era ingiusto che potesse ascoltarmi. Scesi per andare a cenare, e guardai l’ora prima di uscire. Più delle sette, tardissimo.

Scasi le scale lentamente, timida. Avevo come l’inquietante impressione che tutti avessero seguito la mia conversazione con il maledetto Benjamin. Già la prima scena che vidi era abbastanza inquietante: la schermo piatto accesa sulla BBC, sul divano se ne stavo Alice e Jasper, immobili e silenziosi, a guardare un documentario sulle migrazioni delle anatre. Sbuffai. I Cullen erano talmente abituati a dissimulare che a volte tentavano di farlo anche con me, che ero una di loro. Non ci sarei mai cascata: Alice che guarda ferma sul divano un documentario sulle anatre non era un fatto che potesse avvenire nella nostra dimensione.

-Che fate?- ero sicura che stessero seguendo i miei passi da quando ero uscita dalla camera, potevo quasi vedere le orecchie muoversi, come quelle dei cani da guardia. Chissà chi li aveva piazzati lì. Mamma forse, che non poteva sentire i miei pensieri. O magari Rose. Oppure stavano solo eseguendo ordini di Jacob, dopotutto Alice era sua amica.

-Guardiamo la tivù- mi aveva risposto Jasper. Brutto segno: era sicuramente per non far parlare Alice. L’avrei subito scoperta, se stava raccontando una balla. Entrambi erano rimasti assorti e concentrati, non si erano nemmeno voltati a guardarmi.

Rimasi ancora alle loro spalle, indispettita, tamburellando le dita sui fianchi, aspettando che almeno dicessero qualcosa. Regnava uno strano clima di imbarazzo. Non lo avevo mai provato prima, con la mia famiglia, a dire la verità: c’era sempre stata la massima serenità, escluse le volte in cui io davo fuori di testa. Decisi di abbandonare il campo, cercando di salvare almeno la faccia andandomene senza chiedere altro. Il mio sguardo percorse velocemente l’esterno, attraverso le ampie vetrate, e vidi Rose e Emmett fuori, in lontananza, mano nella mano, che parlavano.

Mi sentii un po’ sola.

Mi diressi verso la cucina, dove sentivo mamma ed Esme, silenziose, intente a prepararmi qualcosa da mangiare. Non si erano scambiate una parola. Entrai quasi di soppiatto, mentre loro preparavano del roast beef: anche se era praticamente impossibile che non mi avessero sentita arrivare, parve quasi che non mi notassero. Non alzarono nemmeno la testa dal piano della cucina, rimasero di spalle. Non era poi tanto male essere invisibili.

-Hai fame, tesoro?- Esme si voltò solo a metà, vidi solo il suo profilo, sorridente e sereno.

-Molta- mi sedetti a uno sgabello alto, appoggiando i gomiti sull’isola della cucina. Mi piaceva mangiare in cucina, era così semplice, così umano. Inspirai gli intensi profumi di spezie e prezzemolo, mi parvero incredibilmente esotici, come se stessi per mangiare in un antico souk. Giocherellavo con le posate d’argento, moderne, battendo leggermente la forchetta contro il piatto, quasi senza toccarlo, tenendo gli occhi bassi.

Mamma non mi aveva ancora detto una parola. Era chiaro come il sole che era arrabbiata, anche se non capivo per cosa in particolare. Non capivo perché lei non parlava: c’era sempre stata estrema chiarezza tra noi, nessuna parola sospesa o non detta, nel bene e nel male. Nonna si lavò le mani al lavello e se le asciugò, silenziosa e veloce, come un’ombra.

-Vado a finire il progetto-

Esme si era defilata in meno di un secondo, la parola “progetto” l’avevo colta nell’aria, mentre già lei stava per salire le scale. Sospirai: volevano lasciarmi sola con mia madre, ecco perché tutti erano in giro. Sola con mamma, non c’era nemmeno papà. Probabilmente era stata proprio lei a chiederlo agli altri. Alzai lo sguardo per cercarla, ma lei ancora non mi guardava, tutta indaffarata con la mia cena.

-Mamma-

-Dimmi, Renesmee-

Niente, sembrava una segreteria telefonica: non potevo capire se era alterata, delusa o triste.

-Mi vuoi parlare?- Non mi era mai piaciuto rimandare troppo, le cose vanno affrontate, sempre.

Silenzio. Mamma aprì il rigo e tirò fuori il limone, già affettato, che mise sul roast beef. Posò il piatto in tavola e si sedette, delicata, di fronte a me. Mi fissava intensamente, ponendo fine a tutti i miei dubbi senza che nemmeno ci fosse bisogno di una sola parola. Perché mia madre era infinitamente triste, tanto abbattuta da sembrare finta, un archetipo della malinconia scolpito nel granito. Ritrassi il volto, di riflesso, come se allontanarmi di pochi centimetri potesse far diminuire il mio turbamento.

-Ho sentito cosa vi siete…detti- volgeva gli occhi, altrove, sfuggente, per aiutarsi a parlare. Mi era un po’ passata la fame, a dirla tutta. Adesso il mio unico bisogno da soddisfare era decisamente il sonno.

-Ah-

-Sì-

Ce ne stavamo ferme, senza parole, una di fronte all’altra, ma cercando accuratamente di evitarci, mamma mordendosi il labbro inferiore, concentrata, e io lisciandomi la vestaglia  sulle gambe. Voleva solo che parlassi, che le dicessi qualcosa, qualsiasi cosa, un’opinione, una battuta, un discorso. Ma tanto era inutile: non avevo saputo nemmeno rispondere  me stessa, figurarsi a mia madre. Cercai il suo sguardo, e lo incontrai di sfuggita. Mi faceva impressione come mamma mi avesse sempre raccontato che la cosa che più l’aveva colpita di papà erano stati i suoi occhi. Ora li avevano identici. Doveva essere strano, rasentare l’assurdo.

-Uscirai con lui?-

-Non ci esco. Vado a fare un giro in moto-

Ci guardavamo, finalmente. Lei vedeva gli occhi che erano stati suoi: cosa si poteva provare?

Mentre le rispondevo, parlavo a me stessa, e la sua presenza era diventata quasi superflua. Il mio era solo lo scorrere disordinato dei pensieri. Chissà dov’era mio padre.

-Gli hai detto di sì-

-Non so bene perché, forse volevo fare solo un giro in moto. Non ci sono più andata-

Bugia, Renesmee. Una parte di me sapeva tutto, sentiva tutto, ma io non capivo, non sentivo. Come se un grande vento fosse stato dentro di me, e ogni suono fosse attutito, lontano, non riuscivo a sentire quello che l’altra parte di me già conosceva.

-Ti sta simpatico?-

-A te?- osservai mamma. Sembrava un po’ meno abbattuta, un po’ più la mia solita madre distratta ed emozionata.

-Non è antipatico-

-Però se la tira un po’- contrassi il naso all’insù e strinsi gli occhi. Lo facevo sempre quando una cosa non mi piaceva proprio.

-Sembri un maialino-

-Ah, grazie!-

Scoppiammo a ridere.

-Comunque se la tira. Ma ha ragione, bello com’è-

-Mamma!-

Presi qualche fetta di roast-beef, dopotutto avevo ancora un po’ fame.

-Più bello di papà?- le feci l’occhiolino, maliziosa, cercando di trattenere una risata.

-Rimangiati subito quello che hai detto. Nessuno è meglio di tuo padre- cercò di assumere un’aria minacciosa, incrociando le braccia. Fece uno strano effetto, sicuramente non intimidatorio in alcun modo. Mamma non sapeva fare certe cose con me.

-Ok sposini, ci mancherebbe altro-

Buono il roast beef, come al solito: mamma e Esme erano due cuoche eccezionali. Però quel cibo non mi soddisfaceva mai del tutto, quella sera in particolare: pensai che la proposta del perfido Benjamin era arrivata proprio al momento giusto. Avevo bisogno di sangue.

-Domani vado a caccia, mami- altra fetta di roast beef.

-Con lui?-

Feci cenno di sì, avevo la bocca piena. Mamma giocherellava con le dita, osservando qualcosa di imprecisato alle mie spalle. Era sempre un po’ triste.

-Fai attenzione-

Non mosse lo sguardo, ma l’intensità della voce aveva fatto quello che gli occhi non avevano potuto.

-E a cosa?-

-A non cadere in moto-

Lei si morse il labbro, evasiva: non aveva mai, mai saputo mentire.

-Smettila. Non mi farei niente- posai la forchetta nel piatto, lentamente –A cosa devo fare attenzione?-

-A non farti male-

Sgranai gli occhi. Mia madre era pazzesca.

-Non mi farò male-

-Lo spero-

Incrociai anche io le braccia, sulla difensiva.  Non capivo perché mamma si comportava in quel modo. Di cosa poteva avere paura, in fin dei conti? Anche se fossi caduta in moto, sarei rimasta a letto due giorni e sarei tornata come nuova. Di Benjamin non poteva avere nessuna paura, visto che aveva lasciato che mi corresse dietro per due giorni di fila.

-Qual è il problema, mamma?- cercai di moderare il tono, ma la voce non potè fare a meno di uscire alterata, arrogante. Detestavo certi miei comportamenti, erano esagerati. Ma lei sorrise, serena, lasciandosi alle spalle ogni tristezza: faceva sempre così, quando io mi arrabbiavo lei sorrideva. Era come Jasper, che regalava serenità. Solo che lei lo poteva fare solo con me, e lo faceva senza bisogno di alcun poter: riusciva a farlo semplicemente perché era mia madre. In momenti simili capivo che un giorno, forse, mi sarebbe piaciuto avere un figlio.

-Niente. Mi sembrava solo strano che tu non avessi…allontanato anche lui-

-Perché?-

-Perché normalmente non avresti mai accettato un comportamento simile-

Eccolo, il punto, e mi si strinse lo stomaco al solo pensiero, senza un motivo particolare.

-Lo so-

Abbassai lo sguardo e giocherellai con il cibo che avevo nel piatto, cercando di disporre diagonalmente le fette di roast beef. Avrei voluto che se ne andasse, ignorandomi, giunti a quel punto, perché sentivo che a quel punto parlare mi avrebbe solamente fatto scoppiare la testa.

-E come mai?-

-Coma mai cosa?- non alzai gli occhi. Stavo componendo tutta la mia ordinata composizione, giusto per rifarla e non dover fissare mia madre negli occhi.

-Come mai ci vai a fare un giro comunque?-

Com’era evasiva, mamma: da quel punto di vista non ci somigliavamo per niente.

-Non so- la mia voce si incrinò, sottile e timida, come non mi succedeva spesso.

Ma certo che lo sai, Renesmee.

Ammettilo, sarà più semplice.

Sentivo la voce di mamma in lontananza, oltre a quella piccola di e lontana di una Renesmee molto saggia e molto sveglia, che se ne stava tranquilla a osservare, da dentro di me.

-Non me ne vuoi parlare?- mamma sembrava dispiaciute, magari anche delusa, ma non avevo molto tempo da dedicarle. Dovevo sentire cosa stavo pensando, cosa mi stavo dicendo, lontano dentro di me. Socchiusi gli occhi, ancora chini sul piatto.

 

E’ così ovvio, Renesmee, tanto ovvio da sembrare stupido.

Lui ti affascina. Punto.

Ecco perché non lo allontani, perché non gli dici quello che pensi, perché non ti piace come ti comporti con lui.

Che poi tu non voglia che questo succeda, o quanto meno che sia detto, è un altro affare.

Riaprendo gli occhi, sentii la testa leggera, come se tutti quei pensieri fossero pesati chili. Mi sentivo lucida. Rialzai lo sguardo, per vedere mamma negli occhi: come pensavo, era dispiaciuta.

-Non c’è soltanto niente da dire- e cercai di abbozzare un sorriso sicuro e solare, ma mi parve che il risultato non fu proprio quello sperato. La risposta poi era più che pessima: avrebbe potuto voler dire soltanto “ci sono un sacco, milioni di cose che non ho nemmeno idea di dirti”.

-Capisco- e anche mamma sfoderò uno stupendo sorriso di circostanza, da copertina. La nostra bellezza contribuiva soltanto a renderci più artefatti, e a volte la detestavo. Non riuscii a capire se davvero lei poteva comprendermi o no, ma sperai comunque di sì. Lei intrecciò le mani e le posò sotto il mento, come un sostegno.

Mi era passata la fame, e non intendevo prolungare quell’imbarazzante strazio un secondo di più. Non me la sentivo di affrontare mia madre, ero imbarazzata e confusa, come se avesse saputo leggermi dentro e avesse capito perché ero tanto agitata. Ma per fortuna lei non era mio padre. Pensai che non poteva essere un caso che papà non ci fosse. Semplicemente, capii che lui aveva capito il problema molto prima di me, e per amor proprio o per semplice pietà per me aveva preferito non esserci. Lo ringraziai dentro di me, e mi ripromisi di farlo di persona, prima o poi. Tuttavia, mi sfuggiva il comportamento degli altri: loro non potevano aver capito, non potevano aver sentito. Tranne Jasper, ovviamente, m lui non mi avrebbe mai tradita. Stranamente, il nostro rapporto era sempre stato molto profondo: non che non lo fosse con tutti gli altri membri della famiglia e con i miei genitori, ma Jasper, chissà perché, lo avevo sempre considerato come un fratello maggiore. Non era mai stato oggetto delle mie angherie, quando ero piccola, e non avevo mai osato contraddirlo. La sua figura mi ispirava sicurezza e autorità, e il rispetto che io gli riservavo veniva da lui ricambiato in fiducia, forse era l’unico in famiglia che non mi considerasse per quella che dimostravo di essere ma per quella che avrei potuto essere. Forse era troppo ottimista, o magari era distaccato a sufficienza da poter considerare le mie possibilità. Ma lui non poteva aver raccontato nulla di quello che avevo sentito.

Dovevo andarmene. Cercare di dormire, leggere, stare immobile davanti alla finestra. Andava bene qualsiasi cosa, pur di non restare davanti a mia madre a recitare una scena poco riuscita. Presi fiato.

-Vado a fare i compiti- Non era assolutamente vero. Li avevo fatti a pranzo, erano scandalosamente facili.

-Va bene- mamma sorrideva. Forse cercava solo di convincersi che avessi detto la verità, dopotutto, era quello che avevo fatto anche io fino a cinque minuti prima.

Mi alzai dalla sedia e le voltai le spalle, prima che potessi vedere il suo sorriso perfetto morirle sul viso, prima che potessi accorgermi che era triste.

Infelice per me, ma non capivo ancora il motivo.

Cattiva, Renesmee.

Scivolai in soggiorno, il più velocemente e silenziosamente possibile, Jasper e Alice ancora davanti al televisore. Mi parve di vedere Jasper seguirmi con lo sguardo, ma anche in quel caso evitai con accuratezza di indagare e corsi su per le scale. Ero una vigliacca.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Stretto contatto ***


19

Ciao a tutti!! Devo ringraziare per i nuovi preferiti, grazie mille ^^! Vi lascio subito alla storia!

Karima: Ciao! Sono contenta che la storia ti appassioni, e capisco che la lunghezza della storia possa essere un po’ “intimidatoria”, lo percepisco anche io :s. il punto è che a me piace molto indagare le sensazioni, e i piccoli gesti che poi alla fine, secondo me, sono importantissimi per dare profondità alla storia. È per questo che la fan fic sta diventando un papiro assurdo! XD Comunque se mi stai invitando a postare più velocemente, spero di accontentarti, anche se con maggio e la scuola non so cosa potrò fare: purtroppo sono occupatissima, tra compiti e interrogazioni! A presto, bacio!

Isabella19892: Ciao!! Guarda che sei stata tu a commuovermi con la tua recensione davvero troppo generosa!! Grazie, grazie, grazie: non sai quanto mi ha fatto piacere, anche se dubito di essere brava quanto Jasper! Però sono comunque contentissima di averti trasmesso qualcosa…qualsiasi persona a cui piaccia scrivere non aspetta altro. Alla fine scrivere di Nessie mi risulta facile, perché non faccio altro che applicare certi miei comportamenti (che poi sono comuni a tutte le persone che attraversano una certa fase) al suo personaggio: per ora quindi descrivo emozioni che conosco bene…più avanti dovrò un po’ improvvisare quindi non so che risultato salterà fuori XD. Anche per Bella versione mamma apprensiva ho improvvisato, e ho considerata come una specie di ragazza madre (in effetti a diciotto anni, cioè, non è proprio l’età canonica per diventare genitore!) che deve affrontare i veloci cambiamenti della figlia. Per Benjamin…resisti ci siamo quasi!! ^^ Sto scrivendo proprio desso il capitolo in cui si capisce praticamente tutto, e è il 24! Adesso però ho paura di cannare bellamente tutto: è difficilissimo costruire la storia giusta attorno al personaggio di Benjamin…allo stesso tempo non vedo l’ora e ho paura di sottoporvela. A presto, e ancora grazie mille! J Bacio

Thsere: Ciao!! Direi che la nostra Nessie è a dir poco impedita (come chi la sta manipolando, d’altro canto XD) e ci mette il suo bel tempo per capire! Comunque l’importante è arrivarci, anche per vie traverse. Comunque farai meglio ad armarti della tua infinita pazienza che mi gratifica tanto, perché la strada per svegliare completamente quella cariatide di Nessie è ancora lunga! ^^ A presto, bacio!!

 

 

 

In camera mia guardai la televisione, cercando di seguire le immagini e i colori, senza ascoltare nulla. Mi sentivo molto debole, senza forze, come se avessi avuto la febbre. Andai a dormire prestissimo, senza nemmeno controllare l’ora, come una malata. Mi addormentai praticamente all’istante, senza però evitare di pensare ancora una volta alla conversazione con mia madre, alla sorpresa e al timore. Non mi andava di pensarci più, ma era più forte di me: era un pensiero fisso, costante, che disturbava. Anche mentre mi addormentavo, sfinita, la percezione non diminuiva. L’ultima percezione che ebbi, sfocata e imprecisa, fu di uno strano pensiero, che non mi sarei mai aspettata di fare. Mi chiesi dove saremmo andati il giorno dopo, dove mi avrebbe portata.

Prima che potessi elaborare qualunque altro pensiero in reazione, stavo già dormendo.

Il mattino seguente mi svegliai da sola: non capitava spesso, ma avevo dormito molto. Dalla luce triste e sommessa che si intravedeva capii che il tempo era tornato quello di sempre, grigio e umido, e probabilmente anche quel giorno sarebbe piovuto. Sentivo odore di pioggia. Mi stiracchiai nel letto e richiusi gli occhi, mettendo la testa sotto le coperte. Avrei dormito ancora, ma sapevo che da lì a poco Alice sarebbe arrivata comunque a buttarmi giù di lì, era un danno umano. Sentivo il movimento giù da basso, da sotto la mia coltre spessa e calda: gente che parlava piano, qualcuno canticchiava, qualcun altro cominciava a preparare la mia colazione, come tutte le mattine. Captare i loro discorsi mi divertiva: sorrisi tra me, con gli occhi chiusi.

-Vi prego restiamo a casa oggi-

-Non se ne parla-

-Potremmo andare a fare un giro da qualche altra parte!-

-Rose, andiamo a fare shopping venerdì, a Los Angeles pioverà-

-Nessie perderà un giorno di scuola-

-Alice, valla a chiamare, ormai è tardi…-

Riconoscevo le voci di tutti, con i loro discorsi prevedibili, ed era piacevole, davvero rassicurante.

Purtroppo Alice non tardò d eseguire l’ordine, efficiente: l’avrei perdonata solo perché mi avrebbe accompagnata a fare shopping. La sentivo muoversi di sotto, e avvicinarsi alle scale. Cacciai la testa ancora più in fondo alle coperte, decisa  godermi gli ultimi istanti di beatitudine. Ma per quanto lo desiderassi, Alice non si fermò, e continuò ad avanzare, determinata: i suoi passi non mi erano mai sembrati così pesanti.

Aprì la porta, delicatamente.

-Sei già sveglia?- sembrava un po’ delusa. Le avevo tolto un rito imperdibile.

-Mpf-

-Peccato!-

Mi venne da ridere sentendo il suo piccolo sbuffo, una delle manifestazioni più tristi che Alice era capace di fare.

-Giornata dura?-

Chissà perché il suo tono mi sembrò un po’ finto, costruito. Mi ricordò che c’era qualcosa di strano nella giornata che era appena cominciata.

Benjamin.

Il pensiero mi colpì come uno schiaffo, non fu piacevole. Sentii il sangue andare alla testa, la confusione della sera prima ritornare, immensa, con l’unica interessante differenza che quella mattina ero anche come di solito era la classica, normalissima Renesmee in una situazione incasinata come quella. Ovvero incazzata, e piuttosto nervosa. Non potevo credere di avere fatto una cosa così idiota, solo dieci ore prima, ero veramente un fenomeno. Insomma: che cosa avevo fatto? Mi sentivo come se avessi firmato un patto colo diavolo, avrei voluto nascondermi sotto terra, ma soprattutto avrei voluto che di sotto non ci fosse mio padre. Che aveva potuto ascoltare ogni cosa. Mi sentii avvampare.

Cercai di organizzare la mia mente, come solo un mezzo vampiro poteva fare, ma non capivo dove diavolo fosse finita la mia mente ultra spaziosa. In realtà non la sentivo particolarmente ampia, in quel momento. Cercai di individuare il primo problema, più pratico, urgente e diretto.

Come diavolo mi vestivo?

Non avevo abbigliamento da moto, e non avevo idea di cosa mettermi. Strizzai gli occhi, infastidita. Ma la soluzione era al mio fianco, sulla soglia della mia camera.

-Alice, hai un giubbotto di pelle?- forse era l’unico capo d’abbigliamento che non avevo. O che mi ero dimenticata di avere.

-Ma allora ci vai davvero!- la sentii fare un salto. Era emozionantissima: sembrava una comare dalla parrucchiera.

Saltai praticamente fuori dal letto, facendo un gran casino con le lenzuola, senza nemmeno accorgermene. Era il caso di farsi fare una visita da Carlisle, probabilmente mi era saltata qualche importante componente dell’apparto nervoso volontario.

-Ce lo abbiamo o no?-

Alice era abbastanza sconvolta, e mi guardava un po’ stralunata.

-Sì…però è della mia taglia, ti starà stretto-

Fece una smorfia di dissenso, il fatto che uscissi di casa con qualcosa di sbagliato addosso la inquietava anche più dei miei scatti. Cercai di rassicurarla.

-Metto sotto una maglia lunga-

Alice trasse un sospiro e mi sorrise: bastava poco per farla stare buona, a volte.

-Lo vuoi nero?-

-Sì, per favore-

Alice corse nella sua stanza, consapevole del mio ritardo cronico. Mi misi a sedere dritta sul letto, incrociando le gambe, guardandomi intorno. In realtà non sapevo nemmeno quando sarei andata a caccia, non me l’aveva detto. Il solito deficiente. Alice arrivò praticamente dopo due secondi, neanche il tempo di stiracchiarsi, portandomi un giubbotto di pelle dall’aria molto anni ’80: era bello, di classe, nonostante tutto.

-Grazie mille- istintivamente mi si dipinse sul viso un largo sorriso, mentre lo prendevo dalle sue mani: era più forte di me, il mio debole per le cose belle veniva sempre a galla.

-Figurati!-

Alice se ne stava con le mani dietro la schiena, dondolandosi leggermente da un piede all’altro. Sapevo che voleva parlare.

-Ehm, credo che andrete al mattino, a caccia-

Rimasi sorpresa, sgranai gli occhi al pensiero di un altro vampiro che sapesse leggere la mente. Già uno era decisamente superfluo.

-Sai, pensavo che ti avrebbe fatto piacere saperlo-

Ci guardavamo negli occhi, cariche di domande. Era piuttosto imbarazzante, sebbene quella che avevo davanti a me non fosse altro che mia zia, la stessa persona di sempre. Non ero altrettanto sicura che dall’altra parte ci fosse la solita Renesmee, a quel punto.

-Non dicevi di non poter vedere Benjamin?-

-A volte compaiono delle cose…ma sempre molto imprecisate, purtroppo-

L’argomento non le andava per niente a genio, cominciò a muoversi un po’ più velocemente.

-Grazie- abbassai lo sguardo, in imbarazzo.

-Di nulla- fece una pausa, innaturale –stai attenta, mi raccomando-

Alzai lo sguardo, sorpresa: Alice non mi aveva mai detto una cosa del genere, e probabilmente non lo avrebbe mai fatto, nemmeno se avesse visto mentre mi stavo tagliando le unghie con delle cesoie o mentre mi spuntavo i capelli con una moto sega. Molto, molto improbabile che saltare un giorno di scuola per andare a caccia la potesse minimamente disturbare. Per non parlare del giro in moto: se Alice avesse potuto mi avrebbe ancora rifornito delle mie solite automobili da trecento all’ora, figurarsi se la poteva spaventare un banale giretto in moto.

-Ti prego Alice non cominciare anche tu!-

Ero esasperata, non li sopportavo più. L’idea di affrontare Benjamin in quel momento non mi parve nemmeno tanto irragionevole. Ma lei rimase inalterata, inspiegabilmente composta, come non le era solito fare, con una serietà serafica.

-Seriamente-

Non ebbi occasione di controbattere la dura risposta di mia zia, non ne ebbi il tempo perché se ne andò all’istante. Quasi facendolo apposta, mi parve. Ma era tardi, e io ero agitata, sul mio volto si dipinse un’espressione stupita, ma il cervello stava elaborando ben altro. Ad esempio un modo per mettermi quel maledetto giubbino di pelle extra small senza sembrare un fungo troppo cresciuto. Scattai in piedi e mi avventurai nella spaventosa cabina armadio, dove di certo l’olfatto mi aiutava, ma la scelta rimaneva così svariata da incasinarmi comunque la vita. Volevo avere un’aria un po’ vissuta, leggermente indie, un’aura da persona vissuta. Benjamin mi faceva sentire così piccola. Trovai una maglia lunga, blu, dai bordi in raso, di Vivienne Westwood, che sembrava fare a caso mio, in fondo a un baule nella cabina armadio. Avrei usato quell’episodio, prima o poi, per ribadire a papà l’importanza basilare e assolutamente primaria dei bauli di Vuitton, da lui continuamente messa in serio dubbio: sono il posto migliore per riporre tutti quegli oggettini che non si ha nessuna intenzione di usare, ma che vale la pena tenere per le remote emergenze. Mi misi un paio di jeans scuri e abbinai una grossa collana sui toni dell’azzurro di Tarina Tarantino, una pashmina di seta blu e delle converse chiare. Non sapevo che cavolo combinare con i capelli, provai di tutto. Fino a quando dal basso non cominciarono ad arrivare i soliti segnali orari. Guardai l’orologio, erano le  otto e venti: avevo dieci minuti per farmi i capelli ed essere a scuola per la prima campanella. Involontariamente, mi si stampò un sorriso sulla faccia quando mi resi conto che quella mattina non sarei andata a scuola. Mi ero già stancata di quella routine ancora sconosciuta. Chissà se mio padre sapeva di quella cosa, non mi sembrava in vena di approvare, se solo consideravo la ramanzina della scorsa notte e l’umore della sera prima. Strano che se ne stesse zitto e buono, senza mai stressarmi. Avevo davvero molte cose da chiedere a Benjamin: quelle stranezze le si potevano ricondurre solo a lui, ma ancora non capivo il motivo. Aldilà del considerarlo veramente pericoloso, ero assolutamente certa che c’era qualcosa di strano in lui, qualcosa che era in grado di modificare il comportamento dei componenti della mia famiglia. Che avesse un potere come Jasper? Magari in negativo, lui faceva incazzare la gente. Gli stava a pennello, come potere: magari da vivo era stato un rompi palle bestiale e da vampiro sapeva fare solo quello. Ma dal basso interruppero i miei pensieri, di nuovo, con una notizia agghiacciante.

-Tesoro, muoviti, stamattina ti porta a scuola papà-

Mamma mi parlò come una commessa che chiama un cliente alla cassa. Sapeva bene che la notizia non mi avrebbe fatto piacere. Papà andava piano quasi quanto Jacob quando c’ero anche io in macchina (probabilmente nel vano tentativo di dare il buon esempio), e di solito ne approfittava per farmi una paternale su qualche argomento scottante. Anche quando mi aveva spiegato cos’era il sesso, da piccola, eravamo in macchina: in assoluto era stata una delle scene più ridicole della mia vita, io scioccata dalla nuova consapevolezza e papà che smetteva di respirare quando leggeva nella mia mente la domanda silenziosa “ma allora è quello che fate sempre la sera?”.

-E perché?!- ero disperata, più che arrabbiata, chissà che cosa doveva propinarmi stavolta.

-Ehm…- pausa di mamma, che non riusciva a trovare una scusa adatta.

-Renesmee, muoviti, farai tardi-

Stavolta era stato mio padre a chiamarmi, risoluto. Risolvetti di farmi uno chignon, velocemente, al meglio che potessi, e mi infilai il giubbino di pelle, cercando di incastrare il seno in quello spazio angusto. Non capivo da chi potessi aver ereditato tutta quella roba sul davanti, mia madre era perfettamente normale e proporzionata. Probabilmente era a causa dei geni inizi novecento di papà. La cerniera tirava, prepotente: non avevo proprio le forme di Alice. Presi lo zaino (vuoto, viste le previsioni di mia zia) e scesi le scale in un lampo: tutti erano in salotto, come due giorni prima, variamente disposti. Solo papà era in piedi, alla porta, che mi aspettava fissandomi. Mi sentivo osservata.

-Non credi che ti stringa un po’…lì?- Alice fece una smorfia, incrociando le gambe sul divano.

-Meglio- Emmett aveva un concetto di eleganza del tutto discutibile, era chiaro, e apprezzava uno stile molto più diretto di quello che Alice avrebbe voluto fargli adottare.

-Infatti. Abbondare è meglio che mancare- ma anche l’insospettabile Rose, a volte, mostrava a tutti noi la sua profonda somiglianza al compagno. Mi venne da sorridere.

-Voi tettone siete insopportabili!- la piccoletta se l’era presa. Era molto permalosa su certi argomenti scottanti, o in ogni caso riguardo a qualsiasi cosa non andasse come lei aveva progettato o avrebbe voluto. Incrociò anche le braccia e sbuffò, ostile. Mamma scoppiò a ridere, mentre Rosalie tentava di trattenersi. L’atmosfera era così rilassata, quotidiana, che mi ero quasi dimenticata di papà, che nel frattempo continuava ad aspettarmi al varco.

-Non credete che dovremmo andare?- lui, al contrario di noi, era rimasto totalmente freddo, distaccato. Era arrabbiato, e mi sentii un po’ colpevole. Perché fondamentalmente ero colpevole: papà si arrabbiava sempre per me. Ovviamente mi amava, mi voleva bene, ma la sua capacità di leggermi dentro faceva sì che conoscesse tutto di me, anche gli aspetti negativi, che cercavo di allontanare da me. Ed era come e tutte le mie debolezze e i miei errori lo colpissero direttamente. Pensava che il suo potere avrebbe dovuto fare di lui un genitore migliore, praticamente perfetto, un genitore che sa come riparare ai danni di sua figlia, che sa come comprenderla. E invece, sebbene potesse leggere la mia mente, non era andato molto più in là di mia madre, nell’impresa. Nemmeno io potevo capire me stessa, la mia divisione, il solco profondo che mi spezzava, non era possibile che potesse farlo qualcuno di esterno. Nemmeno Jacob, il mio Jacob, la persona che aveva dedicato la sua vita a me soltanto, era riuscito a svelare il mio mistero. Dubitavo che fosse possibile, che fosse a quel punto anche solo pensabile. Non era colpa di mio padre. Avrei voluto vivere con lui un rapporto diverso, non sporcato dalla frustrazione e dal senso di colpa che, nonostante tutto, non lo lasciava mai. Non potermi aiutare lo rendeva infelice. Ero probabilmente l’unico difetto della sua vita.

-Sì. Andiamo pure- come me, anche gli altri sembrarono tutti un po’ imbarazzati. Mamma mi stava fissando intensamente, mi parve quasi con un’espressione di scuse. Le sorrisi debolmente.

Papà, nel frattempo, era già volato fuori di casa: aveva fretta. Io lo seguii, sinceramente un po’ agitata, perché avevo paura che mi avrebbe fatto domande scomode. Spiacevoli anche solo da immaginare. Mi voltai di scatto e lo seguii senza esitazione, lasciandomi alle spalle il soggiorno e uscendo in giardino: non ricordavo di essere mai stata così ubbidiente, o almeno non lo ero da molto tempo. Papà era già in garage, sentii la macchina in moto. Entrai e salii in macchina, il tutto molto silenziosamente, cercando di passare inosservata mentre mi appiattivo sul sedile beige della nuovissima Volvo di papà. faceva parte dell’abitudine dei miei genitori, avere come auto una Volvo, perché mio padre la aveva quando si erano conosciuti. Istintivamente mi venne da pensare al discorso che mi aveva fatto Benjamin la sera prima: forse per loro i legami con il passato erano davvero fondamentali, una ragione per andare avanti verso un punto imprecisato e lontano come l’eternità. E forse l’amore per i miei genitori, e per gli altri vampiri che circondavano la mia esistenza, era cristallizzato, un ricordo amplificato nel suo stesso paradigma, da lì all’infinito, senza alcun limite. E per me?

Che valore poteva avere per me l’amore?

Infinito e perfetto, come quello dei miei genitori. Momentaneo e struggente, come quello degli umani. Sicuramente la risposta non la avrei potuta trovare in me.

-E’ questo che ti ha raccontato Benjamin ieri?-

Ovviamente mio padre mi stava ascoltando, come avevo potuto dimenticarmene? Non ero ancora riuscita a farci del tutto l’abitudine, e anche se ce l’avessi fatta, non avrei comunque potuto nascondergli i miei pensieri. Uscimmo dal garage lentamente, senza fretta, e papà accese i fendinebbia. Ovviamente solo per il codice stradale, visto che ci vedevamo entrambi benissimo.

-Gli altri non vengono a scuola?- mi guardavo intorno spaesata, e un po’ intimorita. Mi sentivo in trappola, vittima di un ingiusto rapimento. Estrassi il cellulare dalla borsa e lo accesi, volevo mandare qualche messaggio a Jake.

- Vengono adesso, con Rosalie-

-Ah-

Percorremmo il viale con la solita flemma, in silenzio, mentre io cercavo di concentrarmi per non pensare a niente e non fornire inutili spunti a papà.

-Tranquilla, so cosa dirti. Non serve recitare Garcia Lorca- un debole sorriso si dipinse sul suo viso.

-Era per cultura personale- mi strinsi nelle spalle, indifferente.

-Certo, come no-

Anche io sorrisi, e incrociammo gli sguardi per un breve istante. Se solo avessi saputo chiudere la mia mente, tutto sarebbe stato molto più facile, più naturale.

-Renesmee. Oggi vorrei che tu…- fece una pausa, e deglutì. In compenso non mi sarebbe dispiaciuto poter leggere nella sua mente, certe volte –facessi attenzione-

Fissava la strada di fronte a se, concentrato come non mai sull’unico appiglio che gli offriva la perfetta scusa per non dover guardarmi negli occhi. La nebbia, sulla strada, era diminuita, e si era ridotta ad una foschia vaga. Avevo avuto tanta paura per nulla, papà voleva solo darmi l’ennesima rassicurazione da apprensivo qual era.

-Anche tu? Ma che diavolo avete tutti?- istintivamente mi raddrizzai sul sedile, tesa come un nervo.

-A me sembra che sia tu quella un po’ strana. Sei più nervosa del solito- mio padre cercò di metterla sul ridere, senza risultato.

-Sul serio: prima mamma, poi Alice e poi anche tu. Cosa c’è in Benjamin che non va?-

Faci uscire la domanda prima che il mio cervello me lo impedisse. Il mio inconscio non voleva ancora ammettere che il problema, il motivo di tutto quel casino, non era altro che lui. Anche mio padre parve sorpreso dalla domanda, quasi in difficoltà. Decisi di sfruttare il momento, prima che si ricomponesse e tornasse imperscrutabile e sibillino, come sempre.

-Allora, prima sembra un vecchio amico tornato a trovarci, quando nessuno sa chi sia. Poi sembra un pericoloso sconosciuto. E allo stesso tempo permettete che entri dalla mia finestra! Avete intenzione per andare avanti con questa storia assurda per molto? Sapete, tanto per sapermi regolare!-

Mi ero infervorata, ero diventata tutta rossa e il respiro era accelerato. Il loro comportamento ambiguo mi irritava parecchio, e in un  momento in cui ero già troppo confusa di mio non mi aiutava di certo. Papà aprì la bocca come per rispondere, ma si zittì all’istante. Mi voltai anche e lasciai cadere la testa sul sedile, profumato e avvolgente. Aspettavo la risposta, che quasi certamente mio padre si era già preparato, indagando i miei pensieri. Lo sentii sospirare, di fianco e me. Stavamo per entrare in città.

-E’ piuttosto difficile, credimi Renesmee. Tu ascoltaci, stai attenta, e non ci sarà nient’altro da spiegare-

-Questa non è una risposta. Lo sai, vero?-  giocherellavo con un laccio, distratta.

-Non ti basta?-

-No-

Silenzio, nessun rumore oltre al mio cuore e al mio respiro. Papà non respirava. Quando parlò, la voce uscì metallica, senza un filo d’aria, appunto.

-Benjamin ha dei pregi…e dei difetti-

-E chi non li ha?-

Io sbuffai, impaziente, mentre lui sospirò di nuovo, abbattuto, nello stesso istante.

-Difetti negativi-

-Come tutti-

Cercai lo sguardo di mio padre, che ancora mi sfuggiva.

-E allora perché permetti che stia con noi?-

-Vuoi sapere perché permetto che esca con te?-

Mi mossi sul sedile, imbarazzata.

-Andiamo solo a caccia-

-Lo permetto perché devo farlo-

-Che vuol dire?- ero stupita, dimenticai la mia scenata e mi voltai di scatto a guardarlo.

-E perché tu lo vuoi-

Non è vero papà, cosa stai dicendo?

-E’ così-

Sembrava molto infelice, forse quasi deluso.

-Non ti sto rimproverando, è tutto normale. Ma fai attenzione-

-Cosa stai insinuando? Forse che io voglia uscire con lui?-

Ero parecchio incazzata, e per fortuna stavamo per arrivare a scuola. Non vedevo l’ora di scendere, e allo stesso tempo volevo andare fino in fondo. Non gli lasciai il tempo di rispondermi, sebbene stesse per farlo.

-Allora proprio non mi conoscete. Non ci esco, hai capito bene?- trassi un respiro, avevo finito l’ossigeno.

-E devi ancora finire il discorso della notte scorsa, ti ricordo. E ti avviso, dillo anche agli altri: non ho assolutamente intenzione di stare attenta a un bel niente se non mi direte qual è il problema, ci siamo capiti?-

Avevo alzato la voce, e le mie ultime parole rimbombarono nell’abitacolo: non sapevo se andarne fiera, per l’autorità che esprimevano, o se vergognarmi, tanto mi ammonivano del mio orrendo carattere. Papà era solo un capro espiatorio, quelle erano le parole che avrei voluto rivolgere a tutti quanti. Forse anche a Jacob.

Mi si strinse lo stomaco al pensiero. No, a Jake non avrei mai detto quelle cose, per lui era diverso, e in qualche strano modo lo capivo. I suoi brividi, i suoi timori, erano così familiari da non disturbarmi, anzi. Avrei voluto rassicurarlo, avrei voluto che prendesse quel maledetto vampiro e che tornasse lì, da me. Come era sempre stato.

Mio padre sospirò, ascoltando la mia mente.

-Quando Jacob tornerà, forse ne riparleremo-

-Centra Jacob in tutto questo?- mi rivolsi a lui cercando il suo sguardo, preoccupata, ma lui non rispose. Ero preoccupata.

-Tu sai quando torna?-

-Quando avrà preso il vampiro-

A quel punto fui io a sospirare, e a stendermi sul sedile, scoraggiata. Non avrei cavato un ragno dal buco, era più che evidente. Papà, svoltò nel cortile della scuola, già pieno di macchine. Era abbastanza tardi, i ragazzi stavano già entrando; riconobbi Teresa, con Amy al suo fianco, che parlava con un ragazzo, vicino all’ingresso. Non riuscivo però a sentire le loro parole.

Vidi anche un’altra cosa molto interessante, all’angolo del parcheggio.

Alice aveva visto giusto, anche se c’eravamo di mezzo io e Benjamin.

Una moto nera enorme, con due caschi, se ne stava parcheggiata vicino a un paio di altre moto dall’aria piuttosto anonima, in confronto all’altra. Riconobbi subito la moto che aveva usato quella sera, quella che non gli avevo distrutto. Ma come avevo fatto a non pensare che mio padre avrebbe visto che saltavo la scuola? Mi guardai attorno, spaesata.

-Lo sapevo che sareste andati al mattino, stai tranquilla-

-Davvero? E non ti arrabbi?-

-Oggi non avevi niente di speciale, no?-

Papà non mi guardava, né dava segni di una qualsiasi partecipazione emotiva. Faceva paura. Parcheggiò la macchina piuttosto lontano dalla scuola.

-Io davvero non ti capisco-

Scesi dalla macchina senza nemmeno salutarlo. Se non voleva parlare, alla fine, erano affari suoi: voleva dire che non ci sarebbe stato assolutamente niente di pericoloso.

Trassi un respiro e mi avviai verso la moto, dall’altra parte del parcheggio.

Dovetti ammettere che ero un po’ emozionata.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Sopra la città ***


20

Ciao a tutti! Dopo una lunga assenza, causa vacanza e TROPPI compiti di maggio, eccomi qua…e visto che è tanto che non posto, stasera doppio capitolo! J Per mia fortuna devo ancora ringraziare per dei preferiti, davvero sono contentissima. Vi lascio alla lettura ^^

Baci

Giuls

Silvia15: Ciao! Grazie mille, mi fa piacere sapere che andando avanti la storia si faccia appassionante…adesso il mio problema è soltanto riuscire a far mantenere un minimo di interesse!! :s Be comunque : ma davvero all’apparenza ti sembra bravo? Oddio sto andando in para…io speravo di renderlo almeno minimamente sinistro, se non pauroso XD Sono andata in ansia! Spero di riuscire a soddisfare la tua curiosità tra pochi capitoli, e mi raccomando fammi sapere cosa ne pensi degli eventuali sviluppi ^^ Bacio!

Karima: L O N D R A  *__*  Me tapina sono sconvolta ma soprattutto molto invidiosa!! E poi una settimana, meraviglia! Io dovrei andare in Inghileterra quest’estate, ma a Cambridge, però penso che un weekend a Londra ci scapperà, quindi magari potresti darmi qualche consiglio (e qui mi riferisco ovviamente a negozi, muahah!). Mi spiace per l’inquietante papiro, ma è così XD! Non ci pensare, fa finta che stia per finirla…:s Bacio!

Isabella19892: aaah, stupende le tue recensioni stra lunghe! Sono sempre troppo galvanizzanti, ti guro: quindi grazie mille!! Ma sai che, a proposito della recensione appunto, alla fine secondo me è più semplice per quello affrontare il personaggio di Renesmee? Non avendo una forte caratterizzazione ognuno è libero di concepire il personaggio come vuole, e quindi corre meno il rischio di cadere in stravolgimenti assurdi o in semplicismi. Questa è la mia prima fan fic, quindi non so se sto dicendo un’assurdità o meno, ma penso sia così. Be per l’appuntamento sei confusa perché il punto di vista di Nessie è fondamentalmente confuso, e poi il nostro carisssssimo Ben (come potrai ben vedere…SPOILERONE XD) forse non è da meno. O forse no, chissà MUAHAHAH (oddio sto fondendo la scuola mi uccide). Oddio se lo chiedi a una delle tue autrici preferite una compagna per il cagnaccio vado in para!!! Sono emozionata! Be un’idea ce l’avrei, però va be, silenzio, ho già parlato troppo visto che sono veramente indietro con i lavori. E non sei assolutamente noiosa né stressante ma fondamentale per capire se quello che sto facendo va bene o no, quindi continua così!! (devo piantarla di istigare i miei recensori XD) Bacione!

Thsere: Ciao! Ahahah oddio dipendenza no!! Poi mi sento in colpa perché posto una volta ogni 6543658756 settimane! XD Spero che ti faccia piacere la dose doppia, e poi devo fare mea culpa…ultimamente ho scritto un po’ pochino, anche se se fosse per me ci dedicherei molto più tempo. Bacio!!

 

 

 

Non mi guardai indietro, camminavo decisa, rivolta all’obiettivo. I miei non avevano ancora capito l’importanza della psicologia inversa per il mio caso: se loro mi dicevano di non fare una cosa, era quasi certo che l’avrei subito fatta, e viceversa. Sapevo che era un comportamento da bambina, ma era più forte di me, e continuavo ad averlo. Andare verso quella moto, in quel momento aveva il significato principale di rimarcare l’indipendenza dalla mia famiglia. O almeno così pensavo mentre marciavo verso l’obiettivo.

Come sempre, mi sentivo un bel po’ di sguardi appiccicati addosso, ma non ci feci caso, stavolta. Arrivata alla moto, mi ricordai che mancava l’elemento principale della mia personalissima dichiarazione d’indipendenza: Benjamin. Mi guardai attorno, e non lo vidi, sentivo il suo odore ma lo percepivo abbastanza indistintamente, come se fosse un po’ dappertutto. Sbuffai, frustrata: i miei sensi non erano proprio quelli di un vampiro. Tuttavia sentii comunque dei passi, alle mie spalle, qualcuno che si avvicinava. Un umano, a giudicare dal casino che faceva. Mi voltai.

Era solo Luke, con il suo solito sorriso da cerebroleso che non abbandonava mai. Avanzava a braccia incrociate, gonfiando il petto come un babbuino e cercando di gonfiare i bicipiti. Che tristezza.

-Eilà, Nes-

-Ciao-

Fu subito accanto a me, nemmeno gli avessi mandato un invito scritto. Se ne stava appiccicato a trenta centimetri di distanza, sentivo il suo fiato che sapeva ancora di corn flakes: non sarebbe stato vagamente eccitante nemmeno per un’umana, o perlomeno così mi auguravo.

-Oggi abbiamo lezione assieme-

-Già-

-Vedrai, ti farò divertire!-

Ma cos’era, una promessa o una minaccia?

-Eh si-

Incrociai anche io le braccia e cominciai a tamburellare le dita, sperando che anche se era così deficiente capisse l’antifona e girasse i tacchi.

-Stai bene vestita così-, e fece una specie di cenno gutturale indicando con il mento il mio seno. Sperai per il bene della comunità che fosse solo un riflesso involontario.

-Grazie-

Mentre io tamburellavo con crescente ansia lui continuava a fissarmi, di sottecchi, il seno. Era fissato.

-Luke, potresti per favore evitare di fissarmi le tette? E’ la seconda volte che te lo chiedo-

Non riuscii a resistere, era una situazione inconcepibile. Lui non sembrò sorpreso dall’accusa, come ogni colpevole che si rispetti: si guardò attorno indispettito e cercò invano nelle sua mente vuota una motivazione valida con cui rispondermi.

-Bella la moto, è tua?-

Rimasi di stucco: era troppo stupido per essere vero.

-Luke, ti rendi conto che ti ho appena accusato di una possibile molestia sessuale?-

-Ma dai, è che è così tutto in vista!-. Riuscì a darmi solo quella motivazione, prima di mettersi a ridere. Rideva in un modo vagamente scimmiesco, alzando le labbra come gli scimpanzè. Avevo trovato l’anello mancante.

Ok, lo avrei ammazzato. Forse avrei potuto sfondargli il cranio con il casco, oppure avrei potuto sfruttare fino in fondo l’omicidio bevendo il suo sangue. Ma dubitai anche della qualità di quello, vista la stretta parentela Luke-scimmia. Ma, come sempre, Benjamin arrivò nel momento in cui doveva arrivare, e in quel caso prima che mettessi fine all’inutile vita di Luke Sellek. E, come sempre, arrivò di sorpresa, alle mie spalle: mi accorsi di lui solo quando, dietro di me, sentii la sua voce profonda, avvolgente.

-Ciao Sellek-

-Ehm, ciao-

Luke si guardava attorno, confuso: probabilmente nemmeno lui si era accorto dell’arrivo di Benjamin. E dalla faccia non sembrava nemmeno che lo conoscesse, dopotutto non poteva averlo incontrato a lezione, frequentavano un anno diverso.

-Mi sono perso qualcosa?-, sorrise cercando di essere il più umano possibile. Ma sembrava comunque uscito da Il Padrino, con quell’aria sempre un po’ minacciosa. O almeno così doveva sembrare al povero Luke, che indietreggiò di un passo, involontariamente.

-Ehm, niente…credo-, inclinò la testa, sospettoso, come se sentisse che qualsiasi risposta avesse dato sarebbe stata quella sbagliata.

Benjamin rise, divertito. Si vedeva che non si trovava male nel ruolo dell’aguzzino.

-Perfetto, allora andiamo-

Senza una parola mi porse il casco e montò in sella. Seguendo il suo esempio, mi misi subito il casco.

-Devo salire?- sentii la mia voce rimbombare in modo ridicolo all’interno del casco. Mi sentivo in imbarazzo con quel coso in testa.

-Vuoi seguirmi in bici?-

Non era giusto: la sua voce non sembrava per nulla ridicola, anche se portava il casco come me.

-Sta zitto-

-Ok-. Rise piano, con garbo.

Salii sul posto del passeggero, era una sensazione strana, mi sentivo instabile, e la moto era molto molleggiata.

-Tieniti, mi raccomando-

-E dove?-

-A me-

Mi aggrappai, nel modo più distaccato possibile, tenendomi forte alle pieghe della sua giacca. Era piuttosto imbarazzante.

-Guarda che così cadi, ti devi attaccare a me-, lo sentii sbuffare, ma non sembrava scocciato, più che altro divertito. Era insopportabile.

Prese le mie mani e le portò attorno alla sua vita. D’istinto cercai di allontanarle. Benjamin si mise a ridere.

-Dove scappi?-

-Da nessuna parte!-

Per fortuna non potevo vedermi, perché sentivo di essere arrossita fino alla punta delle orecchie.

-Saluta il tuo amico, partiamo-

Sentii il motore della moto accendersi, l’impulso espandersi lungo la carena, fino a far vibrare leggermente la sella. Era tanto che non andavo in moto, mi ero quasi dimenticata com’era. Sorrisi tra me, non riuscivo a eliminare l’entusiasmo che mi sentivo scorrere dentro. Volevo cominciare a correre sul serio.

-Accelera!-

-Un secondo!- ridacchiava, sembrava contento.

La moto partì, lentamente, come un felino che scorge la preda. Solo allora mi accorsi di Luke, che aveva assistito a tutta la scena e se ne stava lì a guardare, imbambolato. Merda, avrebbe raccontato tutto. E la scena in effetti era abbastanza equivoca: un ragazzo e una ragazza se ne vanno in moto prima che inizino le lezioni. Una storia che sarebbe molto piaciuta a Amy, soprattutto perché le avrebbe dato il modo di sparlare di me. Imprecai nella mia mente.

Ma presto mi lasciai alle spalle anche lui, con la sua faccia da idiota, e a dire la verità mi lasciai alle spalle molte altre cose, non appena fummo in strada. Mi piaceva andare in moto, lo avevo quasi dimenticato, e anche se stavo dietro non era per niente male. Mi aspettavo qualcosa di peggio. Non andavamo veloci, il motore rombava con discrezione.

L’unica cosa che mi disturbava, a quel punto, era soltanto l’essere appiccicata a Benjamin. Mi sentivo molto strana, come spinta verso terra, e non capivo perché. Facevo molta attenzione a non appoggiare la mia testa alla sua, e cercavo di rimanere più dritta che potevo. L’equilibrio che avevo sviluppando con la danza mi stava venendo molto utile, in quel frangente. Le strade si stavano lentamente svuotando, ormai l’ora di punta era passata e la città ritornava velocemente a essere il buco deserto di sempre.

-Ci vorranno venti minuti di viaggio. Non ti da fastidio andare veloce, vero?-

-No-

-Sei mai andata in moto prima d’ora?-

-Sì, con mio zio. Ma i miei non volevano che salissi-

-E tu ci andavi lo stesso-

-Sì. Ma poi sono caduta, e mi sono fatta male. Non sono più potuta salire-

Benjamin rise, e non capivo come per lui ogni cosa che facessi o dicessi potesse essere così entusiasmante. Era sempre così impenetrabile che i suoi pochi momenti di sensibilità mi sembravano tanto esagerati da essere quasi assurdi, per uno come lui.

-Cosa c’è da ridere?-

-Niente, è solo che ti ci vedo-

-A fare che?-

-A cadere in moto-, rise di nuovo, più sommessamente.

-Perché?- mi scostai un poco, allentando la presa. Mi sentivo in imbarazzo, non potevo scappare.

La moto svicolava nelle vie laterali della città, poco frequentate, vuote, e passavamo davanti a case altrettanto vuote, dall’aria triste e ingrigita da anni di pioggia e nebbia. Quanto avrei voluto essere una ragazza di San Diego, California.

-Perché non hai senso della misura. E dell’equilibrio-

-Io sto in piedi benissimo! Anni di danza classica! Ma cosa ne vuoi sapere?-. sbuffai, spazientita. Semmai quella con dei problemi con la forza di gravità era mia madre.

Sentii Benjaimn ridacchiare. Sembrava quasi che avesse capito che mi disturbava, il fatto che lui ridesse di me. Ma era molto più probabile che non glie ne fregasse niente, e che rideva più piano solo perché la cosa lo divertiva di meno.

-Equilibrio mentale. Lo so che ti reggi in piedi-

-Ah, ecco-

-Allora lo ammetti?-

-No!-

Benjamin accelerò a un semaforo, c’era giallo: la moto si appiattì leggermente a terra, suscettibile ai comandi. Avevo proprio dimenticato quanto era bello andare in moto.

-Quando è che andremo un po’ più forte?-, sbuffai, impaziente.

-Hai intenzione di farmi mettere sotto qualcuno?-

-Bé, avrei potuto anche seguirti in bici, a questo punto-

-Sei il passeggero più loquace della storia-

-Affari tuoi, sei tu che mi hai chiesto di venire-

Terminai la frase con un’inclinazione acida che non avrei voluto dare, ma mi era uscita lo stesso. Benjamin non rispose, e sperai che non se la fosse presa, perché rimanere in silenzio in quella situazione ( come nella gran parte di tutte le altre nella mia vita, a dire la verità) mi infastidiva. Mi strinsi un po’ a lui, avevo un po’ pura di cadere: mentre gli parlavo avevo mollato la presa, senza nemmeno accorgermene.

Le case diventavano sempre meno, fino a che non giungemmo alla statale, dove prendemmo la stessa strada che prendevo sempre per andare a Forks. Era larga e ben tenuta, ma sempre poco trafficata, perché quella era una zona poco frequentata.

-Adesso possiamo andare più forte. Sei un pericolo per la collettività, spero che a nessuno capiti di essere falciato da te. Anche se credo che prima o poi succederà per forza-

Benjamin sembrava del tutto rilassato, e fui contenta che non se la fosse presa, anche se non ci eravamo detti niente per tanto. Ma cercai comunque di non darlo a vedere.

-Sono molto attenta agli altri-

-Certo-. Non era molto convinto, all’apparenza, sembrava più una specie di contentino. Sbuffai di nuovo.

-Ti eri fatta male, quando eri caduta?-

-Sì, altrimenti i miei mi avrebbero lasciata andare in moto-

-E cosa ti eri fatta?-, e chiese con un tono diverso da prima. Sembrava un’intervista. O una visita medica. Era strano come fossi in grado di capire dalla sua voce quale poteva essere la sua espressione. La sua voce comunicava molto. Probabilmente aveva corrugato la fronte.

-Mi ero rotta la spina dorsale-

La moto decelerò di poco, ma di colpo.

-E sei guarita?-

-Sì, ma ci ho messo un mese-

Benjamin rimase in silenzio. Forse era una mia impressione, ma mi era parso molto colpito, addirittura preoccupato.

-Sei guarita da sola?-

-Mio nonno mi ha operata. Una persona normale sarebbe morta, ma io ho potuto farcela-

-Sei proprio strana, tu-

-Perché?-

-Così-

Il paesaggio era cambiato in fretta, si era fatto selvaggio e scostante: ci lasciavamo alle spalle i profili nebbiosi delle montagne non ancora innevate e viaggiavamo verso colline dall’aria languida, verdi e brillanti, ricoperte da una foresta continua, ininterrotta. Era il paesaggio di casa mia. Non pioveva, ma il cielo era gonfio, le nuvole basse e scure, quasi metalliche: era un bel cielo, e anche se detestavo la pioggia, sapevo che mi rispecchiava. Dentro di me c’erano quelle stesse nubi. Viaggiammo per un po’ senza scambiarci una parola, ma stavolta non mi dispiacque, e non mi parve per niente imbarazzante. Avevo bisogno di starmene da sola con la mia testa, punto.

A un certo punto riuscii anche a pensare alla mia conclusione della sera prima, e al mio incontro con Benjamin, e mi parve normale che fossi affascinata da lui. Non capivo perché, ma mi veniva naturale. Oltre al mio carattere, oltre al suo carattere, non mi sembrava di sbagliare cercando di stare vicina a lui, ovviamente inconsciamente. Seguivo un istinto, ed era per quello che una parte di me, dentro, fremeva e protestava.

Cadde qualche goccia di pioggia, ad un certo punto, ma fortunatamente smise subito. Avevo perso il contatto con il tempo, non avevo idea di che ore fossero.

-Tra poco siamo arrivati-

-Siamo più a nord di Forks. Ci sono venuta a volte-

-E’ un bel posto-

Eravamo incredibilmente rilassati, e non potevo crederci a tutta quella situazione. Era così naturale, ma al tempo stesso inaspettata: non ero la Renesmee di sempre, ma non mi sembrava strano cambiare me stessa. Era piacevole, come una vacanza.

Imboccammo una strada più piccola, secondaria. Dei cartelli disseminati qua e là ci guidavano alla piccola riserva in cui ero già spesso andata a caccia. Salendo di quota, la strada si faceva più stretta. Prendemmo una piccola stradina che risaliva un fianco della montagna, ad ogni curva la moto si piegava fino quasi a farci toccare l’asfalto. Incontrammo alcuni banchi di nebbia, spettrali, e mi venne in mente il quadro “Sopra la città” di Chagall: ebbi l’impressione, salendo alla riserva, su quella moto, con quella persona, di avere lasciato una dimensione. Lì, sarei stata libera.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Tenuis flamma ***


21

Dedicato a tutti quelli che hanno letto, leggono o mai leggeranno Catullo.

 

 

Egli mi sembra essere un dio,

egli, se è lecito, mi sembra superare gli dei,

che sedendo di fronte a te

continuamente ti ammira e ti ode

 

ridere dolcemente,

cosa che a me infelice

 ha sottratto completamente ogni senso:infatti quando ti vedo,

Lesbia, non mi rimane alcun suono

nella bocca

 

ma la lingua intorpidisce, nel corpo

una fiamma tenue si espande, di un loro suono

tintinnano le orecchie,da una doppia notte

gli occhi sono ricoperti.

Ille mi par esse deo videtur

Ille, si fas est, superare divos,

qui sedens adversus identidem te

spectat et audit

 

dulce ridentem, misero quod omnis

eripit sensus mihi: nam simul te

Lesbia, aspexi, nihil est super mi

vocis in ore

 

Lingua sed torpet, tenuis sub artus

flamma demanat, sonitu suopte

tintinant aures, gemina teguntur

lumina nocte.

                      Catullo, carme 51

 

 

 

 

 

 

Finalmente, o forse purtroppo, arrivammo al posto che Benjamin aveva scelto. Ci fermammo ai bordi della strada, in una vecchia piazzola dall’asfalto rovinato e vecchio, in cui gli alberi mal potati si stavano lentamente riprendendo possesso del terreno perduto. Era un posto affascinante, nella sua incuria.

-Scendo?-

-Tu che ne dici?-

Ci avevo anche quasi fatto l’abitudine, al suo discutibile senso dello humour. Scesi dalla moto e mi tolsi il casco, impaziente di levarmi quel coso: constatai con grande disappunto che lo chignon era diventato il vago ricordo di una acconciatura, e non avevo un capello al posto giusto. Me li sciolsi, lasciandoli liberi sulle spalle. Anche Benjamin si era tolto il casco, ed era davanti a me, impassibile. Pensavo che sarebbe stato felice, a modo suo, o almeno mi aspettavo che non fosse distante come sempre. Ma probabilmente mi ero solo fatta influenzare dalle mie stesse emozioni.

Le labbra erano strette, dure, la fronte impassibile. Gli occhi, neanche a dirlo, scuri, assenti. Avrei voluto toccarlo, per credere che fosse vero, e non solo una creazione del mio inconscio. O almeno avrei voluto che sorridesse, o anche solo che alzasse un sopracciglio, come al solito, ma non succedeva niente. Lui mi guardava senza un’apparente interesse e il lo fissavo cercando di capirci qualcosa. Anche la piazzola cominciava ad essere un po’ meno idilliaca, ma solo un posto troppo stretto e squallido, e i lunghi rami della foresta si allungavano come tentacoli. Incrociai le braccia e mi passai la lingua sul labbro superiore. Era un mio vizio, quando ero agitata.

Benjamin si avvicinò, con passi lenti e misurati, senza tradire alcuna intenzione. Si fermò alla nostra solita distanza: troppo lontani per essere equivoci, troppo vicini perché fossi tranquilla. Fu allora che, grazie al cielo, alzò il sopracciglio, e ritornai tranquilla. Era davvero Benjamin.

-Ma come ti sei vestita?-

-Indie!-

-Capisco-

Portò lo sguardo altrove, di lato, e sorrise. Non capivo come i suoi sentimenti potessero essere così vari.

-Non ti piace?- nonostante tutto, non avere la sua approvazione mi imbarazzava. Di solito, tutti mi davano il loro consenso. O perlomeno tutta la mia famiglia lo aveva sempre fatto.

-Magari con un giubbotto un po’ più largo-, mi squadrò dall’alto, con tutta l’aria di un critico molto severo e allo stesso tempo molto poco serio.

-Ma cosa ne vuoi sapere?-. Sbuffai e strinsi i pugni, come una bambina, e subito me ne vergognai. Certi miei comportamenti erano assolutamente da rivedere. Osservai attentamente com’era vestito, nel tentativo di azzardare una critica. Aveva dei jeans normalissimi, un po’ larghi, e un giubbotto nero, da moto, si vedeva la felpa d’ordinanza sotto. Ma, come al solito, non stava male, e non potevo dire niente. Anche io portai lo sguardo di lato.

-Aspetta-, mi aveva preso per un polso. Sentivo la sua pelle dallo strano profumo vicina alla mia. Mi voltai di scatto, con gli occhi sbarrati dalla sorpresa. Guardandolo, non sembrava più felice come prima. Era un po’ triste, oppure un po’ in imbarazzo, con gli occhi più grandi del normale. Aprii la bocca per respirare.

-Cosa c’è?-, ero stupefatta.

-Niente-

Un sorriso a metà tra l’ironia e il sadismo si dipinse sul suo volto, ritornando esattamente come prima. Era un ottimo attore.

-E’ che se cominciamo con il piede sbagliato tutta la caccia con te sarà una tortura. Quindi meglio che non cominci a cercare di uccidermi da subito-

-Non ho mai cercato di ucciderti-

-Mi hai aggredito fisicamente e hai attentato ai miei beni, come dimostra la mia moto distrutta in garage. Se fossi umano, credo che ti denuncerei-

-Che pensiero carino-

-Però non lo sono, quindi addio-

-Sono proprio una ragazza fortunata-

-Non credo-, fece una smorfia, allontanando da me lo sguardo.

-Hai ragione-

-E’ giusto ammetterlo-

-Con te sembra tutto un libro di Hemingway-

-Sul serio?-. sgranò gli occhi, mi parve quasi orgoglioso del paragone: abbozzò un sorriso storto e strinse gli occhi, altezzoso. Mi misi a ridere, non capivo come il mio commento un po’ idiota lo potesse rendere orgoglioso, in qualche modo.

-Che hai?-

-Mi piace Hemingway. Hai mai letto Addio alle armi?-

-No, solo Il vecchio e il mare e I quarantanove racconti-

-Te lo presterò-

-A te piace?-

-E’ il mio libro preferito-

Era vero che con Benjamin ogni percezione, quando gli parlavo, si appiattiva, come in una libro di Hemingway. Ogni parola era molto importante, e carica di un ricco significato: non avevamo mai parlato molto, ma ogni parola mi era sempre rimasta impressa in profondità. Mi parve molto saggio, mentre mi raccontava delle sue letture, con gli occhi un po’ chiusi, concentrato su quel che stava dicendo. Ce lo avrei visto con la barba, una bella barba folta da saggio. Mi dimenticavo quasi di essere me stessa, quando gli parlavo. Ero molto curiosa di sapere di lui, in quel momento. O forse ero solo curiosa di poterlo guardare negli occhi indisturbata, mentre parlava.

-Perché ti piace?-

-Perché penso che sia molto vero-

-In che senso?-

-Nel senso che quello che succede al protagonista è il paradigma di quello che succede a tutti-

-Dovrebbe essere così in tutti i libri-

-Lo è solo nei capolavori, e nei miti. Il resto sono discutibili storie immaginarie-

-E’ vero- annuii, e anche io strinsi un po’ gli occhi. Era buffo sentirsi ad una conferenza di letteratura ai bordi di una strada di montagna nello stato di Washington.

Non odiavo Benajmain, lo avevo capito. Quello che provavo era solo invidia.

Lui era lì davanti a me, così bello, così assoluto, così indipendente, così distaccato, ma io non potevo capire. Non potevo raggiungerlo. Benjaimn incarnava i miei limiti, e non potevo fare altro che invidiarlo o odiarlo. Mi sentii un po’ triste, e lasciai scivolare lo sguardo in basso. Lui mi faceva sempre sentire meno di quello che ero, con la sua lontananza. Feci un passo indietro.

-Cosa c’è?-

-Niente-. Cosa avrei potuto dirgli, che la sua presenza mi deprimeva? Sentii che fece un passo avanti.

-Sei veramente strana-. Alzai lo sguardo, incuriosita dal tono basso e veloce della sua voce: sembrava che avesse, per sbaglio, espresso un suo pensiero personale. Eravamo abbastanza vicini, e vedevo i suoi occhi grandi e neri, stupiti, fermi su di me.

-I tuoi occhi sono strani-, soffiai. Non capivo ancora come mi venisse l’idea di dire certe cose, e soprattutto non capivo come la sua presenza non mi disturbasse minimamente. Non ero per niente rilassata, il mio cuore martellava agitato, ma non ero arrabbiata, né infastidita in alcun modo.

-Prego?-, avvicinò leggermente il viso, mentre comparve l’ombra di un sorriso. Era divertito.

-Non so, a volte sono molto cupi, a volte sono molto…infantili-. Cercai di guardare altrove, con garbo. Mi sembrava un po’ un insulto, dargli del ragazzino, ora che ci pensavo.

-Infantili?-

-Non so, sono sempre un po’ stupiti-

-I tuoi sono sempre scettici-. Benjamin si avvicinò un po’, sentivo il suo odore leggero e frizzante sul viso. Era un sentore notturno, stonava nel giorno –Sembreresti una persona molto seria-

-Non lo sono?-

-Fortunatamente no-. Benjamin mi sorrise, e io rimasi un po’ confusa, perché non capivo bene come interpretare quello che mi stava dicendo.

-La pianti di parlare come un oracolo?-

-Perché?-, fece un passo indietro, sorpreso. Non volevo che il suo odore si allontanasse, era strano.

-Perché non riesco a pensare ad altro che a che cosa diavolo mi vuoi dire-

-Lo so, sono proprio bravo-, e mi sorrise. Sorrideva molto. Aveva dei lineamenti molto belli, quando sorrideva: metteva allegria. Anche io sorrisi. Mi ero dimenticata di odiare Benjamin, di detestare la sua sicurezza, di essere irritata dai suoi modi. Ero felice di vederlo felice, perché a volte sapevo ancora ricordarmi degli altri. Era molto bello sorridere con lui, e scrutare i suoi occhi. Continuavo a pensare che si muovessero, che nessun colore e nessuna ombra restasse allo stesso posto per più di dieci secondi, dando all’oscurità delle sue iridi tutta la profondità di un universo. Erano gli occhi più strani che avessi mai visto, come il suo odore era il più strano che avessi mai sentito. Sarebbe stato un peccato andare a caccia, e far scomparire gli occhi neri di Benjamin.

-Perchè sorridi?-. Benjamin piegò leggermente la testa di lato, come un bambino particolarmente curioso.

-Perché sono contenta.-

-Di solito non sorridi mai-

-Neanche tu, se è per questo-. Non era ancora riuscito a scocciarmi, stranamente. In ogni caso, ritornai in difesa, incrociando le braccia,senza allontanarmi. Non mi sembrò altro che divertito.

-Sei triste, di solito?-

-Sei uno psicologo?-

-Laurea a Yale nel 1976, prego-. Trattenne un sorriso compiaciuto e piegò la testa all’insù, visibilmente soddisfatto.

-Sul serio?-. ero molto impressionata: non pensavo che uno come lui potesse avere mai idea di prendere una laurea. E non ce lo vedevo nemmeno molto in un’aula universitaria, a dire la verità. Forse per essere studiato, ma sicuramente non per studiare.

-Credo che tu sia pienamente nel modello psicologico dell’orfano: cerchi di calamitare le attenzioni per paura di essere lasciata indietro. E’ molto banale. Tipico nei bambini e nelle persone deboli-.

Parlava freddamente, come un medico che da la sua analisi strettamente pratica. La sua voce, perfetta e profonda, risuonava come quella di un professionista annoiato dal suo mestiere. Era impressionante come mi avesse già catalogata con precisione e sicurezza. Mi ricordai di odiarlo, improvvisamente.

-Credo che tu  sia anche peggio di me. Per attrarre l’attenzione altrui ti basi sull’ostentazione. Molto comune, soprattutto negli adolescenti e negli idioti-. Cercai di essere anche io molto professionale, ma per trovare le parole la mia voce stentava. Non lo impressionai molto, non si degnò nemmeno di alzare il sopracciglio.

-Sei triste?-. era tornato al discorso di prima, indifferente.

-A volte. Non sono affari tuoi-. Alzai la voce, seccata. Lui sospirò  e chinò la testa, passandosi una mano sul viso.

-Una conversazione con te è un impegno. Ci vuole costanza e dedizione per non perderti dopo dieci minuti.-

-Tu che proponi?-. sentivo davvero, dopo che me lo aveva fatto notare Benjamin, che i miei occhi non esprimevano altro che scetticismo allo stato puro.

-Di parlarmi di te-. Sembrava una cosa molto semplice, detta così, con leggerezza. Con il sorriso sulle labbra. Benajamin sorrideva.

-Perché?-

-Sei interessante-

 Sembrava molto ovvio, ma mi sentii bruciare dentro. Come una fiamma sottile sotto la pelle, che strisciava in ogni angolo del mio corpo, sicura e corrosiva, e non avevo idea di cosa diavolo fosse. Davanti a me, un velo sottile celava ogni cosa, tranne il suo sorriso. Era un sorriso molto bello, che valeva molto più di quello di altri. Perché era così raro da sembrare irreale. Nelle mie orecchie, nessun altro suono che quella voce, profonda e avvolgente, lontana e primitiva. Ero un automa, avevo perso una parte di me

Pensai, senza accorgermene, senza volerlo, disprezzandomi nello stesso tempo in cui lo feci, che avrei voluto restare con Benjamin per scrutare i suoi occhi all’infinito più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Più della mia famiglia.

Più di mia madre.

Più di mio padre.

Più di Charlie.

Più di me stessa.

Sentivo il fuoco ardere, sottile, senza che potessi fare niente per impedirlo. Non vedevo nulla oltre a quel sorriso. Risposi come un automa.

-Raccontami di te-. Lo pregai. Non avrei mai voluto farlo, mi sentivo molto patetica.

-Poi mi racconterai di te?-

-Sì-

Sapeva di aver vinto, sapeva che avevo ceduto. Eppure non era vittorioso, soltanto grave, molto solenne: la sua voce scura giunse a me in un’ondata di pura delicatezza, in una sfumatura che mai da lui avevo ascoltato. Era spiazzante, sentire quella voce con un tono così arrendevole. Nel momento della sconfitta, mi aveva concesso il privilegio di una simile esperienza. Stavo impazzendo, vittima delle mie stesse emozioni.

-Seguimi-. Era ancora molto sottile, la sua voce. Benjamin era assolutamente incomprensibile: per quanto lo scrutassi, non potevo mai coglierne le forme interamente, come quando fissavo le ombre nelle notti di novilunio. La mia vista imperfetta non mi consentiva di vedere veramente, come i veri vampiri, ma solo di distinguere, nell’oscurità, le tracce del mondo.

Il suo sorriso era scomparso, e il suo volto marmoreo fu plasmato dalla stessa grave bellezza della voce. Le labbra giacevano morbide, abbandonate sul suo viso, come se avesse intenzione di parlare, di dire qualcosa di inaspettatamente delicato. Gli occhi, pieni di un vorticare nero e lontano, mi traevano a loro, senza incontrare alcuna logica resistenza. Non c’era ancora più alcun pensiero nella mia mente: era spoglia, sgombra, non l’avevo mai sentita così ampia e libera. C’era solo una flebile voce, dentro di me, che gridava parole rabbiose, indecifrabili, e a tratti si disperava, a tratti malediceva, e ancora chiedeva di sparire, di fuggire. Ma la voce era troppo sottile, mentre gli occhi di Benjamin erano troppo vicini.

Feci un passo verso di lui, o meglio sentii il mio corpo muoversi verso di lui. Era immobile, escluso il vorticoso movimento dei suoi occhi. Sentii la punta di un suo dito stringersi attorno al mio indice, ma il tatto era un senso del tutto insignificante in quel momento. Mi servivano tutte le mie energie, tutta la mia nuova mente spaziosa per dedicarmi alla libera contemplazione dei suoi occhi. Aveva la pelle fredda, come ogni vampiro, ma a me sembrava molto fresca. Avrei dovuto verificare, pensò una infinitesimale parte del mio cervello.

-Se mi segui, ti racconterò chi sono-. Sussurrava. Forse gli ero più vicina di quanto percepissi.

-Sì-. Mi parve di rispondere, ma forse me ne dimenticai.

Sentii una leggere pressione sull’indice, la pressione che poteva fare una piuma, o un alito di vento. Benjamin non sembrava altro che uno scherzo del vento e della mia immaginazione, dubitai che esistesse realmente, e forse il suo profumo era veramente solo una brezza del mare.

Poi sentii solo che cominciai a correre, che lo seguivo nella foresta.

Aveva lasciato il mio dito, e si era voltato. Mentre correvo, mi risvegliai, scossa. Non vedevo più i suoi occhi, e il fuoco che strisciava nelle mie venne tornò a tacere.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Racconto ***


22

Ciao a tutti! Mi ha fatto piacere che abbiate gradito la doppia dose! In questo capitolo finalmente salterà fuori qualcosa sul nostro Benjamin (e direi che era anche ora): fatemi sapere se gradite la parziale (e non aggiungo altro…) spiegazione.

Bacio,

Giuls

Silvia15: Ciao! Grazie mille per i complimenti, sono troppo contenta! Però sarebbe buono e giusto che anche tu ti convertissi lentamente al Banjaminesimo (ma si potrà dire, boo XD): insomma, non so più come fare per fartelo andare giù, sto povero disgraziato!! Speriamo almeno che quanto leggerai ti farà avere su di lui un’impressione un po’ più positiva…fammi sapere se ho avuto ragione o se lo prenderesti ancora a badilate! XD Bacio

Karima: Ciao!! Grazie per i consigli, li seguirò sicuramente…anche perché mi interessavano proprio informazioni sui posti un po’ più “abbordabili”, purtroppo :s. Spero almeno di ricambiare soddisfacendo un po’ la tua curiosità ^^ Bacio!

Rima_Brandon: Ciao, piacere! Wow, addirittura te l’ha consigliata??? Mamma mia la devo ringraziare! Ma come fate a sentirvi? Vi conoscete? Scusa ma non avendo molta abilità on i potenti mezzi della tecnologia rimango un po’, come dire…arcaica? Isolata? A parte questo: grazie anche a te! E mi fa piacere che anche tu apprezzi Benjamin, ne sono molto contenta perché è un personaggio tutto mio. Ti consiglio di non sprecarti tanto per Jake, visto che (spoilerone) non farà una grana fine, almeno nella mia storia :s. Ma penso già di avere capito che non ti ci farai molti patemi! XD Bacio!

Isabella19892: Ciao!! Aiuto: grazie, veramente. Sono troppo contenta di riuscire a trasmetterti così tante emozioni, giuro. J Addirittura Ben che scalza Edward…neanche nei miei sogni!! Mi cadono delle convinzioni XD In effetti per questi capitoli mi sono impegnata molto, e poi la poesia mi ha ispirata troppo…vedi che a volte a scuola capita di fare qualcosa di vagamente utile?? Me ne stupisco per prima…(A proposito: secondo me è più semplice il greco!!). Mentre me la spiegavano, a parte ragionare su mie situazioni depressive, mi è venuta proprio in mente questa storia. Per concludere: ovviamente come potevo far finta di niente di fronte alle tue accorate richieste? XD Ti chiedo solo ancora un po’ di pazienza e sarai pienamente accontentata…^^Bacione!

Thsere: Ciao! E brava, vedo che non hai capito male XD. In effetti la differenza tra ragazzo scimmia e Benjamin ha fatto risaltare un sacco il livello di civiltà di quest’ultimo, direi. La cosa deprimente è che attorno a noi vivono troppi ragazzi scimmia troppo pochi Benjamin, ecco qual è il dramma! Be comunque grazie mille anche a te per i complimenti, davvero…soltanto adesso diciamo che mi sento un po’ “oppressa” dalle grandi aspettative, e spero di riuscire a mandare avanti degnamente la storia!^^ Bacio

 

 

 

 

Non ebbi il tempo materiale per riavermi del tutto, perché Benjamin, davanti a me, correva veloce, mentre io arrancavo tentando di tenere il suo ritmo. Mi parve che fosse passato poco tempo quando la nostra corsa si arrestò, e noi ci trovammo nel cuore della folta foresta di conifere in cui ci eravamo inoltrati. Eravamo abbastanza in alto, e faceva fresco anche per me, che non soffrivo il freddo grazie alla mia temperatura corporea fuori dalla norma. Sentivo come un forte mal di testa, come se avessi bevuto troppo, mi fossi ubriacata e avessi passato la notte a vomitare nella tazza del water. Non era una bella sensazione. Quando ci fermammo barcollai.

- Tutto bene?-. Benjamin si era fermato poco più avanti di me, e sembrava scrutare la foresta, cercando tracce di possibili prede. Solo allora si voltò.

-Alla perfezione-. Cercai di riavermi mettendomi dritta, con l’unico risultato di una terribile fitta alle tempie. Avevo davvero voglia di vomitare, non era più solo una sensazione. Vidi Benjamin aggrottare la fronte, scettico e confuso.

-Abbiamo corso troppo velocemente?-

Feci cenno di no con la testa, decisa, cercando di trascinarmi con non chalance verso una pietra, su cui avrei potuto sedermi. La prospettiva di sentirmi male in una foresta, con Benjamin come croce rossina, non era per niente allettante. Ci arrivai, barcollando, e mi ci lasciai cadere sopra pesantemente. O almeno così mi parve.

Chiusi gli occhi e portai le mani alle tempie: il senso di nausea stava scomparendo, fortunatamente. Non sentii Benjamin sedersi accanto a me, ma quando aprii gli occhi era con me, impassibile, seduto al mio fianco. Vedevo il suo profilo, come sempre. Respirai di nuovo profondamente il suo odore. Si voltò, mentre ero intenta a decifrare le sfumature di quella fragranza.

-Vuoi che ti porti a casa?-

-Sto bene. Sono solo un po’ delicata di stomaco-. Ero la regina degli argomenti da conversazione. Renesmee, idiota, non si parla delle malattie con gli sconosciuti tanto per fare dialogo. Benjamin sorrise e si passò una mano tra i capelli arruffati. Aveva veramente un sacco di capelli.

-Certo che come mezza vampira sei abbastanza malconcia-

-Direi. Prendo anche la febbre. Mio padre dice che ho preso da lui, che da vivo era sempre malato-. Sorrisi, gli somigliavo molto. Chissà che cosa stavano facendo gli altri. Chissà che ore erano, soprattutto. Estrassi il cellulare dalla tasca dei jeans: me ne ero quasi dimenticata. Erano le dieci e mezzo, e avevo tredici chiamate perse e quattro messaggi.

Jacob.

Controllai, ma sapevo che era tutta opera sua fin da subito. Riposi il cellulare in tasca, piena di terribile senso di colpa per la negligenza che stavo commettendo: probabilmente Jacob era molto in pensa per me, e quasi sicuramente non sapeva niente della mia caccia con Benjamin. Sarebbe andato in bestia, nel vero senso della parola, cioè mi sarebbe scoppiato in giardino. Purtroppo non aveva ancora imparato a contenere le sue emozioni, sebbene si trasformasse ormai da tanti anni. Ma non potevo sprecare tempo, dovevo fare una cosa, e farla subito.

La Renesmee razionale e calcolatrice che sapevo essere si era risvegliata, e prima di correre il rischio di cadere di nuovo in quello stato di semi incoscienza, divorata da un flebile fuoco sconosciuto, volevo che Benjamin rispettasse la sua promessa. Volevo che mi raccontasse di lui. Strinsi i pugni e mi feci forza.

-Benjamin, hai detto che mi avresti raccontato chi eri-. Alzai lo sguardo, cercando di esprimere tutta la mia determinazione. Incontrai il suo sguardo: non stupito, né imbarazzato. Sentiva di dover compiere un dovere. Benjamin sentiva l’autorevolezza delle sue stesse parole, e come gli altri erano portati ad ascoltarlo, così lui stesso non dimenticava di seguire la parola data.

-Sicura che devo raccontare ora? Non hai sete, non vuoi cacciare?-. non mi arrabbiai per quel temporeggiamento inutile che anche solo il giorno prima mi avrebbe fatta incazzare come una iena. Capivo che Benjamin, in quel momento, voleva solo essere educato, comprensivo. Aveva un modo del tutto particolare di farlo, perché mascherava con l’ironia il suo interessamento.

-Non ho sete, preferisco la storia-. Mi misi a sedere ben dritta e mi voltai verso di lui, incrociando le gambe sul masso, cercando di sembrare il più attenta possibile. Lui rise, e di nuovo si passò una mano tra i capelli, guardandosi attorno, sembrava abbastanza nervoso, a dire la verità.

-Cos’è, ti metto paura?-. feci una smorfia, divertita. Finalmente potevo essere io a fare dell’ironia.

-Tu a me?-. Scoppiò in una risata fragorosa, mentre ancora mi indicata con l’indice. Aveva avuto una reazione un po’ esagerata, e infantile, a mio avviso. Incrociai le braccia, decisa a non cedere alle provocazioni: avevo deciso che dovevo ascoltare la sua storia, e l’avrei fatto.

-Vuoi che ti attacchi di nuovo?-. tamburellavo con insistenza le dita sul braccio, per scaricare la tensione.

-Per carità, potresti farti male!-. Mentre rideva divertito, passò un dito sul mio braccio, piuttosto lentamente. O così mi parve. Sentivo come una linea di fuoco, dove aveva toccato la mia pelle. Stavo arrossendo a vista d’occhio. Benjamin ritornò serio, all’istante, lasciando il suo polpastrello sul mio polso. Sgranò gli occhi, in un solo breve momento, ma ero certa che lo avesse fatto. Arrancò alla ricerca di una parola che ero curiosa di sentire, ma parlò solo dopo una pausa che mi parve interminabile.

-Sei morbida-. Mi guardava negli occhi con interesse, con un’espressione che pensai essere molto simile a quella che avevo assunto io nei suoi riguardi poco prima.

-Forse, rispetto a un vampiro-. Cercavo di mantenermi padrona di me stessa, dimenticando l’insistente bruciore lungo il braccio sinistro, ignorando con fatica quegli occhi pieni e neri che mi studiavano senza ritegno. Deglutii e sentii di nuovo un senso di malessere travolgermi.

-Racconta la storia-. Parlai molto piano, e lentamente. Anche io sapevo essere educata. Sentii il dito di Benjamin ritrarsi, lentamente, lasciando la sua scia bruciante. Una piccola parte di me si stupì del fatto che Benjamin, sebbene fosse freddo come ogni vampiro, mi lasciasse una sensazione di calore sulla mia pelle già  piuttosto bollente. Ma ero già abbastanza confusa, e le domande non mi avrebbero di certo aiutata. Trasse un sospiro e anche lui si voltò, sedendosi come me a gambe incrociate. Eravamo l’uno di fronte all’altra, immobili e sospesi. Benjamin non respirava, io non avrei voluto farlo. I suoi lineamenti erano più belli che mai, i suoi occhi fissi nei miei. Forse faceva apposta, sapeva che i suoi occhi mi facevano quell’effetto del tutto irrazionale e se ne approfittava. O forse non ne aveva la minima idea e il problema era del tutto mio, e non avevo la benché minima possibilità di dare la colpa a nessuno.

-Sono nato nel 1915 a New York. Sono morto a Barcellona nel 1936, ero un partigiano repubblicano nella guerra civile spagnola. Da umano avevo molti ideali, ma adesso non me li ricordo nemmeno. Strano il destino: non mi ricordo nemmeno il motivo per cui sono morto-. Sorrise amaramente, lasciando cadere in basso lo sguardo. Trassi un respiro profondo, cercando di immaginarmi Benjamin vivo. –Non mi ricordo molte cose della mia vecchia vita, e non ho molto da dirti. Però  è strano, ricordo comunque molto di più della maggior parte degli altri vampiri. Mia madre era una ballerina francese, lavorava a Broadway. Penso fosse abbastanza famosa, prima che nascessi, ma non ne sono del tutto sicuro. Si chiamava Sophie Mercier, non ricordo nemmeno quanti anni avesse. Però ricordo che volevo molto bene a mia madre, prima che morisse: aveva dei capelli lunghi e castani, chiari mi sembra. Me li ricordo bene perché mi piaceva vederli sciolti, perché quando ballava e lavorava li aveva raccolti, ma quando stava con me li aveva sciolti. Mio padre era stato il suo amante, era ricco, ci dava dei soldi e vivevamo bene. Io però avevo il cognome di mia madre, mio padre era sposato: all’epoca ero Benjamin Fabrice Mercier. Ricordo che era abbastanza vecchio, e lo avevo visto un paio di volte. Si chiamava Theodore Asbury. Penso di non esserci stato molto affezionato, non ricordo praticamente niente di lui, a parte che mia madre mi diceva di essere molto gentile e educato e carino perché era lui che pagava tutto. Vivevamo in un bell’appartamento pulito e grande, con delle grandi finestre luminose. Avevo anche una tata, penso. Mia madre morì quando avevo otto anni, di tubercolosi. Era veramente da sfigati morire di tubercolosi negli anni venti, ma lei c’è riuscita. Volevo molto bene a mia madre, e sono sicuro che anche lei lo volesse a me. Ero felice in quell’appartamento, dove aspettavo sempre che mia madre si svegliasse o tornasse dal teatro per poter stare con lei. Non avevo parenti in America, i genitori di mia madre erano in Francia, e mio padre non voleva che si venisse a sapere di me. Così mi mandò in collegio, vicino a Pittsburg. Non era un brutto posto, mio padre pagava abbastanza per farmi stare là. Era un posto per ragazzini coi soldi. Gli altri tornavano a casa per le vacanze, ma io rimanevo là. Di solito passavo tutta l’estate da solo, da bambino, da solo e con il custode. Me lo ricordo bene il custode, si chiamava Gregory: mi faceva ridere, aveva tre figlie ma continuava a fare figli perché voleva un maschio. Alla fine si ritrovò con sette figlie e neanche un maschio. Ogni estate ne nasceva uno, diciamo che ci passavo il tempo anche io. Quando Gregory rinunciò al progetto del figlio maschio mi accorsi che mi ero stufato di quel posto, cominciava a starmi stretto. Non ricordo se avevo qualche amico, forse sì ma non me ne importava molto. Leggevo molto, e parlavo molto con Gregory. Quando ebbi diciotto anni mi arrivò una lettera di mio padre, per venire a prendermi: aveva scritto che se avessi voluto mi avrebbe pagato gli studi, e poi sarei stato indipendente e avrei potuto fare quello che volevo. Ero un figlio illegittimo privilegiato, a pensarci bene. Me ne andai prima che arrivasse, non ricordo bene perché lo feci, ma ero molto orgoglioso, e probabilmente stupido, come tutti i ragazzini. Mi arruolai in marina, ma non faceva per me. Uscii dal corpo alla prima occasione. Come ti ho detto, avevo molti ideali, e spazzare il ponte di una nave non era esattamente quello che volevo. Avevo perso le tracce di mio padre, io avevo voluto così e lui non aveva evidentemente alcuna intenzione di starmi a cercare. Facevo qualche lavoretto qua e là, per lo più il facchino, o cose così. Poi arrivai a un giornale, e divenni l’assistente di un giornalista che stava per partire per la Spagna, per documentare la Guerra Civile. Non era un posto molto ambito, perché era pericoloso e mal pagato, ma a me piaceva, l’idea di andare a vedere la guerra. Mi sembrava una guerra giusta, in cui c’era molto in gioco, in cui c’era molto per cui lottare. Forse, quando partii, inconsciamente avevo già deciso che quella guerra l’avrei combattuta. Il giornalista che seguivo si chiamava Morrison, era vecchio, tutto bianco, e anche per lui alla fine non ero altro che un facchino. Però il lavoro mi piaceva. In Spagna conobbi molta gente, molti ragazzi come ero anche io: la sera nei bar raccontavano storie di libertà, di giustizia, di democrazia da preservare. Eravamo tutti eroi, la sera nei bar, quando ci incontravamo per ubriacarci. Anche Morrison si ubriacava con noi, quando non doveva scrivere il pezzo da inviare al giornale. A forza di sentire parlare di eroismo, di azioni indimenticabili, anche io mi convinsi che era ora di agire. Il sangue cominciò a non farmi più paura, la morte cominciò a sembrarmi naturale, giusta persino. Renesmee, quando gli uomini pensano di portare legge e giustizia, il ruolo che preferiscono è senza dubbio quello del boia: anche per me fu così, e diventai un partigiano repubblicano, da un giorno all’altro. Penso che il guaio nella mia vita fosse stato che in ogni cosa, io ero venuto sempre per caso, come se capitassi nel mondo per una pura coincidenza di avvenimenti. Quando diventai un partigiano, ero convinto di farlo per i miei ideali, per una nobiltà d’animo che il mondo stava dimenticando, per preservare la libertà di ognuno. Ma ora capisco che lo facevo solo perché quello era semplicemente un posto. Non mi ero mi sentito tanto libero come in quei mesi. Morii d’estate, di notte, mentre stavamo minando un ponte su cui sarebbero passati i franchismi la mattina dopo. Eravamo in cinque, si chiamavano Gabriel, Antonio, Frederic e Pedro, e poi c’ero io. C’era una sentinella, noi non la vedemmo, ci sparò alle spalle: una delle ultime cose umane che pensai mi rimase impressa, perché pensai che era un gran peccato che non morissi con delle ferite al petto. Come i veri eroi. Chi avrebbe onorato un uomo fucilato alle spalle? Renesmee, se solo potessi tornare indietro, giuro che non butterei via un solo secondo anche solo per pensare certe cazzate. Ma da vivo pensavo così, e non posso farci più niente. Ricordo che era una bella sera, quella in cui morii, di quelle sere d’estate che ci sono solo sul Mediterraneo. Caddi a faccia in giù, nell’erba secca, e sentivo che il sangue scorreva fuori a fiotti, veloce, e sentivo che stavo morendo come un cane, sulla riva di un fiume. Quando il dolore mi aveva già impedito di sentire i lamenti dei miei compagni che si spegnevano, mentre il sangue continuava a scorrere e mi lasciava ogni secondo meno vivo, sentii una voce. Era molto bella, ma era così artificiale che non mi ridestò, perché ero convinto che provenisse dalla mia mente. Era celestiale, ma non avevo mai creduto in nessun dio. “Povero, povero caro”, la voce era molto pietosa. Sentii la voce afferrarmi per le spalle, delicatamente, e dischiusi gli occhi. Era una donna bellissima, ma così lontana da sembrarmi finta. Una fantasia che avrebbe accompagnato la mia morte: e non avevo del tutto sbagliato. Distinguevo i suoi capelli chiarissimi, quasi bianchi, i suoi lineamenti marcati e asciutti, e capii che era la morte già prima che lei me lo dicesse. “Povero caro, ti salverò. Non sei ancora morto, devi salvarti”. Le sue parole non mi rassicurarono. Poi sentii il dolore, il fuoco. Urlai, sbarrai gli occhi, continuai a urlare. Continuai a urlare per molto tempo. Quando smisi di urlare non ero più in riva al fiume, ero in una casa bianca, spagnola, con tutte le tende accuratamente tirate. Ma anche al buio ci vedevo benissimo, e la mia prima consapevolezza fu che il mio cuore non batteva più. Ero morto. Quando mi svegliai con me c’era la vampira che mi aveva trasformato: si chiamava Tatjana Antipova. Quando mi spiegò quello che ero diventato, non ci credetti, cercai disperatamente segnali inequivocabili di vita nel mio corpo, ma ero morto. Non c’era sangue che scorreva, non c’era alcun battito, né alcun dolore. Tatjana mi disse che lei si nutriva di esseri umani, come tutti i vampiri, e che  approfittava della guerra per nutrirsi inosservata. Con una guerra tanto violenta in corso, dopotutto, chi poteva fare caso a qualche morto ammazzato abbandonato in un campo? Tatjana era venuta al ponte attirata dall’odore del sangue mio e dei miei compagni, e dopo aver ucciso la sentinella ed aver placato la sua sete, vide che ero vivo. Mi disse che i miei compagni erano già morti da un pezzo. Ma io ero rimasto lì, immobile, a morire. Tatjana mi disse che le parve giusto salvarmi: non posso dire di volerle bene, né di disprezzarla, ma non la ammiro per quello che ha fatto. Non riesco ad esserle grato. Se tu la conoscessi, capiresti che non lo ha fatto per salvare un uomo, ma soltanto per alleggerire se stessa dai suoi peccati. Voleva solo redimere se stessa. Si nutriva di sangue umano senza particolari remore, eppure vedermi lì a morire aveva fatto scattare qualcosa in lei: finché gli umani erano cibo, sostentamento, Tatjana non percepiva alcun peccato, nessuna ingiustizia, era la natura. Ma quando mi vide morire lentamente a terra come un verme mi vide come una persona, e capì che quella era la sua occasione per essere migliore, per ritornare per un momento solo un essere umano. Rimasi con Tatjana per alcuni anni, il tempo aveva perso ogni senso, mi mancavano i riferimenti. Giorno e notte si erano uniti per formare un’unica, infinita sequela di ore, minuti, secondi, che continua anche ora, mentre io e te, Renesmee, stiamo parlando. Lasciai Tatjana quando la guerra era ormai finita: lei voleva tornare in Russia, dov’era nata. Io cominciai a viaggiare, da solo, senza una meta. Attraversai l’Europa, scossa dalla guerra, ma passai oltre, perché gli affari degli uomini non mi interessavano più. Attraversai la Grecia, poi la Turchia, poi la costa del Medio Oriente, e poi mi diressi verso il cuore dell’Asia. Persi il conto degli anni, ogni tappa poteva durare mesi o ore. La mia occupazione, se non quella di nutrirmi, era quella di cercare di ricordarmi il mio passato, perchè la memoria di quel che ero stato scompariva lentamente, di giorno in giorno. La mia infanzia già la avevo dimenticata, e infatti non ricordo molto. Cercai di fissare il periodo immediatamente precedente alla mia morte, la guerra civile: era un passatempo che mi teneva molto occupato. Arrivai in India, e la guerra era finita. Mi ero sempre spostato a piedi. Visitai l’India, dal Kashmir al Punjab all’Orissa: è un paese affascinante. Poi anche in India scoppiò la guerra, e mi ritrovai a fare le stesse identiche cose che aveva fatto Tatjana in Spagna, e rimasi fino alla fine della guerra. Ripartii, e attraversai il Nepal, il Tibet, e poi la Birmania, la Thailandia, il Laos, e poi la Cina. Tu non puoi sapere cos’era Nanchino, o Canton, prima della rivoluzione culturale. O non puoi sapere cosa fosse la Porta di Giada. Ricordo che rimasi talmente impressionato dalle vestigia di quell’impero ormai morto da rimpiangere quasi di non essere più un essere umano. Non potevo sentire quelle opere anche mie. Arrivai a Vladivostok, e attraversai il Mare del Giappone. Arrivai a Sapporo, e da lì attraversai il Paese: quando arrivai a Kyoto era il 10 aprile del 1959, ed erano passati ventitre anni da quando ero stato trasformato. Ero molto stanco di quella vita. Da vivo avevo sempre desiderato vedere il mondo, senza alcun limite, e così ero riuscito a fare. Avevo attraversato l’Asia senza alcun limite di tempo, né di qualsiasi altro fabbisogno, oltre naturalmente al sangue. Avevo sete, ma non volevo nutrirmi, e fu allora, in una notte persa a vagare per la città, nel tentativo di resistere a me stesso, che mi ricordai di una cosa che aveva detto Tatjana, una notte mentre eravamo  caccia. “Ci sono vampiri che sopravvivono senza il sangue umano, si nutrono di animali”. Ricordo anche che Tatjana sorrise, dicendomelo, quasi non ci potesse nemmeno credere a un’assurdità del genere. Nello stesso istante in cui ricordai, decisi. Fu come ritornare alla luce, come respirare dopo ventitrè anni di morte. Capii che se solo lo volevo, la mia esistenza avrebbe potuto essere diversa. La stessa notte salii sulle montagne di Kyoto e ammazzai un lupo, e mi sentii di nuovo vivo. Decisi di diventare una persona, e diventai Benjamin Asbury: non avevo potuto avere il nome di mio padre da vivo, così lo avrei preso da morto. Sono rimasto in Giappone fino al 1960, poi sono tornato in Europa. Nel 1974 sono tornato in America, e sono riuscito a vivere con gli umani. Sono anche andato al college, te lo avevo detto? Ma è sempre stato difficile resistere, e vivere facendo finta di essere vivo. È stato talmente difficile che non ho saputo resistere a volte, Renesmee, così difficile che a volte ho anche provato a ritornare com’ero prima, un assassino. È strano sai, non avere una specie di luogo naturale a cui tornare: se non uccido sento dentro di me che sarebbe giusto e accettabile farlo, ma se uccido la convivenza con me stesso si fa insopportabile. Cosa dovrei fare, Renesmee, oltre a quello che già faccio? Questa è la mia storia, e spero che tu sia soddisfatta.-

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Reverie ***


Chinò la testa e tacque, sembrava quasi spossato

Silvia15: Ciao!! Be sono contentissima…ho fatto proseliti, ci sono riuscita J Tu fidati e vedrai! Jacob sta per tornare, mannaggia…però non ti dico niente!! Bacio!

Thsere: Ciao! Bravissima, hai proprio afferrato quello che intendevo: ciò che rende Benjamin positivo è il fatto che tenti di essere migliore e che si sforzi di raggiungere degli obiettivi, nonostante nessuno gli abbia mai offerto un modello positivo o comunque saldo. Più che ragazzi…direi magari ci fossero più persone così in generale! Anche se hai ragione, il genere maschile soffre di una carenza particolare nel campo! XD Bacione

Rima_Brandon: Ciao! Bene, ho capito, sono più tranquilla…pensavo che esistessero dei mezzi strani per sentirsi attraverso efp…meglio così, mi sento un po’ meno ignorante :s. E comunque fai bene a non prendertela troppo per il “caro”, vecchio Jake…XD Bacio!

Isabella19892: Ciao! Stai scherzando? Io adoro i commenti infiniti!! Sia perché mi fanno capire se una cosa è gradita o no, sia perché mi offrono tanti spunti per quando scrivo…E in effetti “l’etica dei vampiri” è davvero interessante, perché alla fine è un modo come un altro per prendere in considerazione i nostri valori e la nostra stessa etica: oggettivandola in una storia irreale, possiamo prenderla in considerazione più freddamente e quindi più razionalmente, credo. A me, ad esempio, Twilight ha aiutato a inquadrare meglio un sentimento indefinito come l’amore (mentre lo leggevo a scuola stavo facendo l’amor cortese…è una palla, ma è stato costruttivo :s). Comunque nella storia volevo anche far risaltare l’aspetto della scelta personale e consapevole, della possibilità di scegliere cosa fare della propria vita,  entro i limiti del possibile, e diciamo che questa sottospecie di analisi dovrebbe essere il comune denominatore tra tutti i personaggi della storia (in particolare per Benjamin e Renesmee, ovviamente). Passando invece ad aspetti più pratici, devo confessarti che il paragone tra Joey & Dawson mi ha fatto ridere come una cretina per dieci minuti…e anche adesso pensandoci sto ancora ridendo XD Aiuto spero che non siano una flebo simileeeeee!! Dai cercherò di farmi perdonare…chissà che qualcuno nella storia non si riveli mandrillo/a (MUAHAHAH risata da semi autrice sclerata dalla lunghezza della sua stessa storia). Vedi che anche io scrivo risposte chilometriche?? XD Bacione!

 

 

 

 

Chinò la testa e tacque, sembrava quasi spossato. Rimasi lì davanti a lui, totalmente immobile. Non capivo perché, ma stavo lottando per trattenere le lacrime. Eppure, ero talmente felice di aver sentito quella storia che mi sarei messa a saltare. Ora sapevo, conoscevo, e ora potevo finalmente essere pari a lui. Nessuna ansia, nessun dubbio mi avrebbe più tormentata, o almeno così speravo. Sorrisi fra me, e anche io chinai la testa: c’era molto silenzio, e avrei voluto che continuasse a parlarmi di lui. Allungai la mia mano e la posai sulla sua, lentamente, con molta delicatezza, quasi potessi spaventarlo con un movimento troppo veloce. Alzammo la testa insieme, con naturalezza. Era molto stupito, aveva gli occhi grandi di quando accadeva qualcosa che lo spiazzava. Si vedeva che non sapeva bene che fare, anche se cercava di rimanere concentrato sul mio sguardo, con poca convinzione. Le nostra mani rimasero dov’erano, e sentii come se la sua pelle si fosse adattata alla forma delle mie dita, come uno stampo. Ero io a sentirmi forte, stavolta: eppure, contrariamente a quando avrei pensato soltanto il giorno prima, non provavo alcun desiderio di rivalsa, o di rivincita. Gli sorrisi, e lui non mi rispose, ma mi sembrò comunque in qualche modo felice. Sicuramente era più confuso che mai. Volevo solo stargli accanto.

-E’ una gran storia-

-Bella o brutta?-. Mi sorrise, indeciso.

-Direi triste, però è comunque una gran storia. Sei stato molto bravo, a scegliere questa strada.-

-Io direi che è stata un scelta obbligata-. Fece una smorfia e portò lo sguardo altrove, laconico.

-Secondo me magari a te è sembrato così, ma qui gli obblighi non centrano proprio niente. Sei semplicemente ancora…umano. Sotto qualche aspetto-; mi sentii comunque di precisare, guardandolo bene.

-Grazie ma non penso proprio-

-Per favore!-. Mi veniva da ridere, perchè non avrei mai pensato che Benjamin potesse essere quello che avevo davanti in quel momento –Non vorrai farmi credere che sei troppo sensibile per credere in te stesso?-. Mi misi a ridere per davvero, era totalmente assurdo.

-Diciamo che conosco i miei limiti-

-Non si direbbe-

Ci fissammo negli occhi e ritornai seria, e tranquilla, perché così era lui. Si mise a giocherellare con le dita della mia mano, una per una. Sentii l’istinto di ritirarmi, di allontanarmi, ma la mia mano rimase lì.

-Sei soddisfatta, allora?-. Fissava le mie dita, nell’evidente tentativo di sfuggire al mio sguardo. Mi raddrizzai, e mi spostai leggermente, facendo attenzione a non allontanare la mia mano.

-Sì-, mi strinsi nelle spalle, e fui io a essere in imbarazzo. Sapevo che stavolta toccava a me dire la verità.

-Perché?-

-Perché se mi hai raccontato tutta la verità, in te non c’è nulla di sbagliato-

-E quindi pensavi che in me ci fosse qualcosa di sbagliato-

-Forse sì-

-Capisco-

Smise di distrarsi giocando con le mie dita, e abbandonò la sua mano sulla mia. Trasse un respiro profondo, che veniva da dentro.

-Renesmee, ascolta. Non fermarti alle apparenze. Sei sveglia, e quello che senti non te lo stai immaginando, e se credi che io abbia qualcosa di sbagliato, potresti aver ragione-

-Non mi fermo mai alle apparenze-. Ero stupita della piega che avesse preso il discorso: che interesse poteva avere Benjamin a farsi considerare peggio di quel che era? Inoltre era molto irritante che sminuisse, anzi addirittura che non considerasse affatto la mia comprensione. Mi sentii respinta, con molto garbo, ma decisamente respinta. Ritrassi la mia mano lentamente, con indecisione. –E ricordati che ti giudico solo ora, perché so chi sei-. Cercai di dare alla mia voce un tono autoritario, che mettesse a quella discussione la parola fine. Ero tanto infastidita allora, quanto ero stata felice prima. Benjamin sembrò contrariato, e ritrasse la mano, riportandola a sé. Incrociò le braccia, e intuivo la forma dei muscoli ben saldi che stavano sotto la giacca. Non mi faceva per niente paura, ora che sapevo.

-Renesmee, non voglio la compassione di nessuno. Ci siamo capiti?-

-Sicuramente non avrai la mia-

Anche io incrociai le braccia. Lui rispose, imperterrito, ignorando totalmente quel che avevo detto.

-Perciò cerca di non trarre conclusioni inutili-

-Tipo?- . Avevo un tono di voce molto alto, cercavo di impormi nella conversazione. Al contrario di Benjamin, che parlava lentamente e a bassa voce. In ogni caso, era sempre lui a vincerla a parole.

-Tipo che in me non c’è nulla di sbagliato-

-Benissimo, in te c’è tantissimo di sbagliato: sei un masochista egocentrico con manie di comando. Ti senti meglio adesso? O devo aggiungere che sei anche indiscutibilmente un enorme deficiente?-

Mi alzai. Ero furiosa, e trattenevo a stento le mie solite lacrime di rabbia. Perché Benjamin doveva sempre procurarmi certe reazioni da idiota? Mi allontanai di qualche passo, cercando di respirare regolarmente per non fargli intuire che stavo per mettermi a frignare. Ma come diavolo mi era venuto in mente di dargli del  deficiente? Non centrava assolutamente niente, in quel momento. Portai una mano alla testa, quasi per sostenermi.

-Scusami-. Parlò in un soffio, con molta delicatezza. Era alle mie spalle. Potevo sentire il suo respiro tra i miei capelli, la sua voce entrare strisciando nelle mie orecchie. Non risposi, perché sentii il cuore cadere giù, verso un abisso sconosciuto e senza luce. Non per paura, né per sorpresa, né per felicità, ma per una sensazione curiosa, indefinita, a metà tra la disperazione e l’euforia. –Non volevo infastidirti-.

Lasciai che quelle parole mi scorressero addosso, e lentamente penetrassero nella mia pelle, e che di nuovo la sensazione, più forte che mai, lasciasse cadere il mio cuore nell’abisso, in nuovo, terrificante salto nel vuoto.

-Non mi dai fastidio-. Risposi come un automa, la voce piatta, più sicura di quanto avrei immaginato. Cosa stavo dicendo?

-Pensavo di sì-

-Pensavi male-. Chiusi gli occhi, e mi concentrai sul suo respiro. Cessò.

-Non pensare male di me-

-Non lo faccio-. Sentivo la bocca impastata, eppure le parole uscivano veloci e sicure, pieni di significato

-Forse non ho davvero niente di sbagliato- al buio, Benjamin si ridusse alle sue stesse parole, a quelle stesse parole che penetravano dentro di me da ogni fessura.

-Lo so-

Silenzio. Ogni cosa era chiara. Benjamin non aveva niente di sbagliato, era per questo che il mio cuore poteva sussultare, e cadere in un baratro oscuro per un suo movimento, per una sua parola. Era semplicemente legittimo. Era giusto, perché era già scritto. Sorrisi, e aprii gli occhi: davanti a me la foresta, fredda e oscura, di un verde così intenso da sembrarmi nero. Sorrisi. Dietro di me Benjamin, e sapevo che i suoi occhi aspettavano solo di essere guardati. Aspettavano solo che io, di nuovo, ancora, e ancora, e chissà per quanto altro tempo, mi lasciassi cadere il quel nero vortice. Probabilmente lo stesso in cui terminava lo spaventoso baratro in cui il mio cuore era caduto.

Mi voltai, e finalmente ogni sensazione si appagò, perché raggiunse il suo più alto e assoluto apice. Percorsi lentamente il suo viso, con le sopracciglia disegnate, modellate in una linea turbata, concentrata, tese da chissà quali pensieri, e che mi portarono a percorrere il profilo preciso del naso, che mi trasse alla bocca socchiusa, piena di mille domande, o forse di altrettante risposte. Li occhi li lasciai per ultimi, per non rovinare la sorpresa di ciò che desideravo. Il suo sguardo mi percorreva con la stessa aria incuriosita che dovevo avere io, solo più turbata. Perché io mi sentivo molto tranquilla, e mi ero dimenticata il motivo per cui stavo per mettermi a piangere.

Avrei voluto mettere le mani tra i suoi capelli, scostargli un ciuffo, sentire il loro odore. Avrei voluto anche percorrere il profilo del mento con la punta di un dito, per soffermarmi sulla curva del labbro inferiore. Avrei voluto avvicinarmi per scorgere meglio le infinite profondità di quelle pupille cupe. Avrei voluto che non cacciasse, che non placasse la sete, solo per me, solo perchè io potessi vedere ancora il buio universo che si celava nei suoi occhi.

Scrutava i miei occhi, e non capivo cosa potesse cercare nei miei occhi. Erano così normali, talmente semplici, uniformi, senza alcun mistero che si celasse al loro interno. Non concepivo il motivo per cui Benjamin potesse cercare qualcosa nella terra piatta dei miei occhi.

Fu lui a parlare, in un rantolo basso, animalesco.

-Cacciamo?-

Una parte di me non ne aveva assolutamente intenzione, voleva restare lì, in quella stessa identica posizione all’infinito. Ma la sua voce riuscì  scuotermi tanto d farmi rispondere.

-Se vuoi-. Mi schiarii la voce, e distolsi lo sguardo, improvvisamente in imbarazzo. Era stato uno stronzo a parlare. Si passò una mano tra i capelli, con gli occhi socchiusi.

-Hai molta sete?-

-Sì. Tu metti sete-

-Che cosa?- riuscii a sorridere.

-Mi ricordi che ho sete, perché il tuo odore ricorda il cibo-. Mi venne da ridere. Questa mi era nuova.

-Ma i miei non me l’hanno mai detto!-

-Fortunati  loro che non hanno nemmeno il problema-. Anche lui rise, un po’ confuso, per poi smetter quasi subito –Sul serio a loro non fai venire sete? Neanche un po’?-

Mi faceva venire in mente le domande che facevano i bambini, quando cercano di non farsi spaventare da cose che non conoscono. Era strano.

-Certo, non gli do proprio nessun problema. Diciamo che sono un peso per altre questioni, sicuramente non per la sete!-. incrociai le braccia e tamburellai le dita: era riuscito a confondere anche me. Perché diavolo dovevo fargli venire sete?

Benjamin fece una specie di risata isterica che mi avrebbe fatto piegare in due dalle risate, in un altro momento. A casa non mi avrebbero creduto nemmeno, quando gli avrei raccontato dei comportamenti assurdi di Benjamin. Era un bravissimo attore, questo era sicuro.

-Andiamo, prima che mi venga in mente di farmi un escursionista-

-Non è un panino!-. non sapevo se essere scandalizzata o mettermi a ridere, così optai per una risata imbarazzata.

-Bé, per me sì!-, di nuovo rise, sempre con il solito tono isterico.

Potevo dire con sicurezza che eravamo entrambi molto, molto confusi, e forse una buona caccia era quello che serviva a entrambi. Perlomeno per darci un simulacro di lucidità.

Corremmo verso la foresta, veloci, nello stesso momento, senza che nessuno avesse bisogno di dire nulla.

 

 

Quando ce ne andammo di lì, aveva cominciato a piovere seriamente, e Benjamin guidava piuttosto piano. Mi stringevo a lui, un po’ per paura di cadere, una paura totalmente nuova, che non mi aveva mai sfiorata prima d’ora, un po’ perché ero molto stanca. Potevo ribadirlo: Benjamin mi stancava. Avevo lasciato cadere la mia testa sulla sua schiena, e non fosse stato per la tensione di averlo così vicino, mi sarei addormentata come una bambina, cullata dal suo respiro regolare. Ripensai anche alla caccia, a come aveva cacciato il mio compagno di escursione. Cacciava molto seriamente, acquattandosi come un felino e annusando l’aria con precisione e accuratezza incredibile. Lo presi in giro per la serietà con cui prendeva la cosa, e lui mi disse che era solo un retaggio dei suoi trascorsi da soldato. Me lo disse ridendo, e non sapevo se mi stava prendendo in giro o se stava ironizzando su stesso. Non potevo ancora capire bene quando Benjamin scherzasse o quando facesse sul serio. Avevamo cacciato due linci, per me era stato sufficiente, ma immaginavo che Benjamin sarebbe tornato a caccia quella stessa notte: i suoi occhi avevano assunto una tonalità marrone, luminosa, ancora lontana da quella dorata che avrebbero dovuto assumere. Gli avevo detto che sarei comunque rimasta con lui, ma aveva insistito per riportarmi a casa. In effetti la caccia era durata a lungo, e probabilmente avevamo anche superato i confini dello stato. Erano le quattro e mezzo quando ce ne andammo. Non avevamo parlato molto durante la caccia, o almeno non di cose serie. Lui mi chiese qualcosa sulla mia famiglia, e qualcosa su Jacob, sul perché fosse con noi. Non gli dissi niente dell’imprinting, proprio non mi sentii di parlargliene. Gli dissi che era stato il miglior amico di mia madre, e che restava con noi per il branco, perché potevamo essergli d’aiuto. Benjamin non volle sapere altro. Io gli chiesi qualcosa dei suoi viaggi, ero sinceramente incuriosita da quello che aveva fatto. Mi feci raccontare delle rovine dell’impero Moghul, in India, della foresta della Birmania, del corso del fiume Mekong, delle montagne del sud della Cina, dell’arte delle geisha di Kyoto. Mi raccontò anche dei suoi viaggi in Africa, e sulle Ande, in Sud America. Erano pochi i luoghi in cui non era mai stato, durante la sua esistenza. Eravamo molto tranquilli, e nessuno diede modo all’altro di tirare fuori il peggio di sé, come facevamo di solito.

Viaggiamo in silenzio, senza scambiarci alcuna parola, e lentamente ci avvicinammo a casa. Vedevo comparire i primi profili industriali della città, mano a mano che le strade si allargavano e diventavano più trafficate. Si era alzato un forte vento, che a tratti faceva quasi sbandare la moto. Pensai che forse Jacob sarebbe tornato presto a casa, non potevo credere che potesse stare lontana da casa più a lungo. O meglio lontano da me. Deglutii, agitata. Cercai di pensare d altro: non capivo perché, ma mi sentivo molto in colpa nei confronti di Jake. Dopotutto non mi facevo sentire da un giorno intero, e avevo ancora il telefono spento. Sperai che mamma non avesse provato nemmeno a chiamarmi, altrimenti mi avrebbe fatto una nuova scenata. O magari no, considerato il comportamento della sera prima. Erano improvvisamente diventati tutti molto liberali, dopo che Benjamin si era schierato dalla mia parte. Quello era un mistero che non ero ancora riuscita a risolvere.

Incontrammo i primi quartieri residenziali, e mi venne in mente una domanda, all’improvviso.

-Dove abiti Benjamin?-

Lui si mosse, sotto di me, sentii le sue costole muoversi, attaccata com’ero. Mi scostai leggermente.

-In città-

-E dove?-

-Magari ti farò vedere-

Mi sembrò fosse una specie di no, anche se non capivo perché non dovesse farmi sapere dove abitava.

-E perché ti sei preso una casa in città se poi fai fatica a trattenerti?-

-Perché mi piace investire sul mattone-

Scoppiammo a ridere. In effetti, freddo e distaccato com’era, ce lo vedevo bene nel ruolo dell’investitore senza scrupoli.

-Ma ci abiti?-

-In realtà no. Mi da fastidio passarci la notte, con tutta quella gente attorno che dorme, così vulnerabile- fu percorso da una specie di brivido, e anche io mi irrigidii – Uso un’altra casa, qui vicino-

-Sei ricco sfondato, allora-. Feci un smorfia pensando alle case, e alle moto

-Mi arrangio. Come te, d’altronde-

Restammo di nuovo in silenzio per un po’, e io mi persi a curiosare tra le insegne della città. La pioggia era diminuita, e cadeva solo qualche goccia leggera. Mi sembrò di metterci molto poco, a tornare a casa. Quasi troppo poco: la dritta strada alberata era troppo breve, il viale d’ingresso troppo vicino a casa. Sospirai, strinsi leggermente le mani attorno al suo giubbotto.

Parcheggiò la moto piuttosto lontano da casa, e mi sembrò una decisione molto saggia. Lasciò anche il motore acceso. Ero già da un po’ occupata a recitare canzoni a memorie, per evitare mio padre, almeno per ora. Non volevo tornare a casa, volevo restare sola, ancora per un po’.

-Sei arrivata-

-Grazie tante genio, non lo avevo ancora capito-

-E dai-. Rise piano e si tolse il casco. Lo imitai e scesi dalla moto, scuotendomi i capelli umidi e un po’ schiacciati. Ci scrutavamo con cautela, disturbati dalla mole della casa, che incombeva con la sua mole che mi parve quanto mai enorme, smisurata, volgare. Niente a che vedere con la libertà della foresta, della caccia.

-Ci vediamo, Renesmee- Mormorò pianissimo, quanto bastava per farsi sentire da me. Ritenetti opportuno fare lo stesso: sapevo che dietro quelle mura c’erano otto vampiri che non aspettavano altro che io ritornassi a casa. Ovviamente per ascoltare, o ancor peggio per spiare i miei pensieri.

-Domani, a scuola-

Rise forte, e anche io. Era grottesco dire a Benjamin “Ci vediamo domani a scuola”.

-Grazie per essere venuta-

-Grazie per avermi accompagnata-

Di nuovo sentii il mio cuore battere in qualche luogo buio, lontano e profondo. Non riuscii a trovare lo stesso scuro universo nei suoi occhi, almeno non a prima vista. Ma sapevo con una certezza sconosciuta e inspiegabile, che lì sotto si celavano ancora gli stessi misteri, le stesse ombre lunghe e le stesse sporadiche luci lontane. Sorrisi, rincuorata.

-Figurati-. Guardò a terra, e sorrise, con me. Avevamo sorriso molto oggi.

Sentii che mi strinse la mano, per una sola velocissima frazione di secondo. Fu come ustionarmi la mano, come metterla nel fuoco. Sbarrai gli occhi. Era un contatto così bruciante, dalla delicatezza quasi dolorosa. Benjamin non alzò gli occhi da terra, si rimise il casco e disse qualcosa che somigliava moltissimo a un “ciao Renesmee”, e mi lasciò lì come una cretina, davanti a casa. Tempo di rendermene conto ed era già scomparso lungo il viale d’ingresso. Non avevo nemmeno la forza di cercare di concentrarmi su qualcos’altro, perché le sensazioni erano troppo forti. Vittima di ondate troppo impetuose, furiose, che mi impedivano di celare qualsiasi sentimento, rimasi per qualche istante immobile sotto quella pioggerellina fine, concentrata sulla scia bruciante che era rimasta sulla mia mano. Il mio cuore pensava quasi ad alta voce, e credetti che mio padre non avrebbe potuto sentire niente di tutto ciò, perché i miei non erano semplice pensieri, ma liberi, puri e assoluti moti del mio cuore.

 

In quello stesso istante, mentre cercavo senza alcuna speranza la sagoma della moto in lontananza,fui consapevole di una verità folgorante, a cui non avevo assolutamente intenzione di credere, e che fece scendere dai miei occhi appannati due lacrime pesanti e inconsolabili.

Mi ero innamorata di Benjamin.

 

Qualcosa si rompeva, all’interno di casa mia. Rumore di voci, una confusione di urla. Qualcuno era arrabbiato, qualcuno mi chiamava. Io continuavo a cercare il profilo di Benjamin, in lontananza .

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Socrate ***


La notte era brutta

Ciao a tutti! Oggi capitolo doppio, visto che ho latitato più del solito…e prometto che con la fine della scuola posterò almeno due volte la settimana, ok? Così vedremo di darlo un futuro a sta povera sfigata che si strugge da febbraio ormai! Un bacio!

PS: capitolo pov di Benjamin, dedicato a Isabella19892 che lo voleva da un casino di tempo: spero sia all’altezza! J  

 

Silvia15: Ciao! Grazie mille, che complimenti mamma mia…J Sono molto contenta, veramente! Una volta finita questa fan fic però non saprei bene cosa scrivere: vedi io l’ho iniziata essenzialmente perché non mi piaceva il finale della saga, quindi ho pensato di farlo da sola (la disperazione, a cosa porta…XD). Quindi per il resto creo che potrei scrivere solo delle one shotbe dai, vedremo. in effetti Benjamin è affascinante, e direi che l’aggettivo dice tutto di lui. O comunque il classico uomo che o si ama o si odia, senza mezze misure…hai presente il signor Rochester di Jane Eyre? Lo sto leggendo adesso, e a me me lo ricorda abbastanza, tanto per farsi un’idea…Grazie mille per la recensione lunghissima, mi fanno troppo piacere i papiri!! Un bacio!

Karima: Ciao! Diciamo che hai praticamente scoperto tutto XD No hai ragione…c’era ancora qualcosa che non si sapeva, ma che verrà fuori subito se leggi il capitolo! Un bacio!

Rima_Brandon: Ciao! Sì direi che la frase mi è molto ma molto familiare!!^^Sono contenta che tu abbia apprezzato il cambiamento dell’atteggiamento di Benjamin, secondo me è uno dei punti più interessanti…mi spiace che ti manchi Jake, ma vedrai che nei prossimi capitoli qualcosa succederà, stai tranquilla! Anche se (come avrai notato XD) io non penso che Jacob sia poi tanto “perfetto” per Renesmee, anche solo per la storia dell’imprinting: ma dai, che roba è?? Mi sembra un istinto così animalesco, per quanto dolce o quello che vuoi. Secondo me l’amore deve anche essere razionalità, perché altrimenti si cade nella passione, che tende ad affievolirsi ed è comunque meno stabile. Ok, dopo questa posso anche andare (potevo anche andare prima!!) XD. Bacione!

Thsere: Ciao! Bene, questo capitolo capita proprio al momento giusto allora, visto che ti chiedevi cosa pensasse Ben in realtà! Anche lui è un po’ confuso, ma a questo punto dovrebbe essere chiaro che in questa storia non c’è un personaggio che sia uno che abbia un po’ di lucidità mentale! Bacione!

Isabella19892: Ciao!! Aaaaah, stupenda recensione chilometrica ç____ç Sai che non ho mai pensato che la descrizione di Ben potesse fare quest’effetto? Pensavo che fosse la descrizione di Renesmee quella più approfondita. Anche perché il personaggio di Benjamin è totalmente inventato: prima ho creato quello di Renesmee (e per lei penso quasi sempre a e stessa, tristezza!) e poi ho modellato il personaggio di Ben. Purtroppo non conosco nessuno di simile, che sfiga. Riguardo l’immagine di purezza di Renesmee, credo sia endemica, nel senso che essendo cresciuta così velocemente hoimmaginato che dovesse avere un’idea dell’amore e della sensualità piuttosto infantile, o comunque un po’ “ovattata”, vedi anche famiglia iper apprensiva…aahah magarib adesso diventa una panterona, iammè! Addirittura Dan Brown?? Aiuto sto andando in ansia…!Volevo leggere “Angeli e demoni” comunque, perché la settimana scorsa o giù di lì ho visto il film al cinema e mi è piaciuto molto, però per ora devo confessare la mia ignoranza perché non ne ho ancora letto uno :s. Ah comunque io ho appena fatto i 17 (il 28!)!! Una generazione anziana come la nostra peno non ci sarà più, con tutti i bimbi minchia stanno crescendo :s. Un bacione!!

lory_lost_in_her_dreams: Ciao! Sono content ache la storia ti piaccia, e soprattutto che tu gradisca la coppia…fammi sapere cosa ne pensi dei prossimi capitoli! Bacio!

 

 

 

 

La notte era brutta. Si era alzato il vento, era tanto forte che a volte, a folate, sentivo la moto sbandare sotto di me. La pioggia cadeva disordinatamente, senza una direzione particolare, in un turbine imprecisato. Sentivo i vestiti bagnati, le scarpe fradice, le mani umide. Ma non potevo sentire freddo.

Accelerai, per quanto mi permettesse l’asfalto bagnato. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, e ne avevo bisogno subito. Oltrepassai il ponte  sempre in sorpasso. Thomas mi avrebbe ascoltato, sarebbe stato in grado di farlo: di lui si poteva dire di tutto, che fosse subdolo, o che corresse dietro alle donne, e al loro sangue, o che fosse ossessionato dai soldi, ma non che non fosse un buon ascoltatore. Thomas era un buon amico: sapeva quando parlare, quando giudicare e quando tacere.

Erano ore che guidavo, era notte fonda. Avevo superato la frontiera, e avevo deciso di andare in moto. Avevo deciso di metterci del tempo, per restare con me stesso. E basta.

La ragazzina mi alterava. Era così strano averla con me. Se avessi potuto avrei fatto volentieri a meno. Ma non potevo tirarmi indietro, dovevo concludere il lavoro, avevo dato la mia parola. E a i Volturi non si può trasgredire, e non ci si può nemmeno scendere  patti. Eppure non avrei voluto essere coinvolto in quella storia. Cercai di non pensare alla ragazzina, cercai di dimenticare che aveva una pelle così bollente da riuscire a scaldare la mia, e cercai di non ricordare il pulsare del sangue nelle sue vene. Il battito veloce del suo cuore.

Mi spiaceva per la situazione in cui si trovava. Per quanto avesse comportamenti che non riuscivo a tollerare, e ingenuità degne di una bambina, non riuscivo a non essere coinvolto. Avrei voluto che ci fosse qualcun altro al mio posto, a fare quello che dovevo fare io. Lo avrei detto a Thomas, forse avrebbe saputo spiegare.

Le strade erano quasi deserte, controllai ed era quasi l’una. Non avevo ancora visto la nuova casa di Thomas: era un piccolo capolavoro di architettura contemporanea incastonato ai piedi delle montagne rocciose. Il tipo di casa che solo un dirigente di una multinazionale, un manager o un vampiro avrebbero potuto permettersi. A Thomas piaceva fare soldi, e mi aveva ripetuto da sempre, come un mantra, che, oltre al sangue, la possibilità di spendere e guadagnare all’infinito era l’unica prospettiva che gli rendeva l’esistenza tollerabile. Si era arricchito molto negli anni novanta, puntando sulla nuova tecnologia di internet e sulle agenzie pubblicitarie. Era sopravvissuto alla crisi del 1997 puntando sull’oro e sui diamanti, beni rifugio che erano andati alle stelle. Poi si era dato alla rendita di latifondi in Argentina, comprati per pochi soldi dopo la bancarotta del Paese. In quel momento stava attraversando una fase più artistica, in cui si divertiva a fare il mecenate di poveri artisti più o meno sconosciuti: se da una parte investiva su pittori sfigati di cui la settimana dopo si dimenticava, dall’altra comprava tranquillamente un nuovo Modigliani da mettere in salotto. Sorrisi tra me. Thomas era veramente un personaggio.

Andando verso nord, il vento si era placato e la pioggia cadeva più ordinatamente, con meno impeto. Vedevo le montagne stagliarsi davanti a me, ancora piuttosto nude e scabre, infernali. I ghiacciai sopravvivevano sulle cime lontane, immutati. Imboccai una strada secondaria, sperando di non sbagliare, visto che ancora non sentivo alcun odore che mi potesse ricondurre al passaggio di Thomas. Volevo arrivare il più presto possibile. Fortunatamente trovai la traccia di Thomas poco dopo, e imboccai una stradina ancora più minuscola: una strada privata. La strada si addentrava in un bosco di abeti. Detestavo gli abeti, erano così solenni. Mi irritavano quelle foreste così regolari, e verticali, e senza alcuna fantasia di colori. Verdi sempre, senza che la morte toccasse mai anche loro. Ripensai a quanto era calda la ragazzina. Era un calore molto piacevole, non calore del sole, né calore del fuoco, ma un tipo di caldo a sé, del tutto indipendente. Il calore di una cosa viva, calore di ossigeno e carbonio in reazione. Chissà che sapore poteva avere il suo sangue.

Arrivai davanti alla casa. Il grosso cancello di ferro battuto si aprì, non dovetti citofonare. Thomas mi aveva già sentito. Era una bella casa: sembrava modellata sull’ideale di un antico tempio greco, ma sviluppata con tecniche e funzioni moderne. Un lungo colonnato ritmava la facciata, costituita quasi del tutto da una vetrata ampia e luminosa. Tipico di Thomas, voler ostentare qualsiasi cosa, per quanto poteva fare senza farsi notare troppo. Il non potersi mostrare al sole era uno dei pochi inconvenienti della vita da vampiro che lo faceva davvero incazzare.

Parcheggiai di fianco al nuovo acquisto di Thomas, un’Audi dall’aria molto veloce e molto accessoriata, interni in pelle rossa e cambio sequenziale al volante. Decisamente non badava a spese. Entrai dentro, senza tanti complimenti. Le luci erano tutte accese, piacevoli e lievi, in sottofondo c’era della musica lounge. Cercai con lo sguardo Thomas, non lo trovai: mi buttai sul lungo divano grigio, senza molte cerimonie. Avevo voglia di stendermi.

Mi guardai attorno: la casa era bella, lussuosa. C’era un grande camino al centro del salotto, con pareti di cristallo, e da cui il fuoco sembrava nascere per magia, non c’era cenere, né legna. Sulle pareti scaffali pieni di libri, e un grosso impianto stereo. C’erano appesi alcuni quadri moderni, in un angolo una piccola statua egizia, raffigurava un gatto. Sentivo l’odore della mummia che c’era dentro, e non capivo come Thomas potesse sopportare quello schifo in casa sua. Pioveva ancora, un po’ più forte. Avevo bisogno di parlare, e chiamai Thomas, ad alta voce. Lo sentii rispondere dal piano di sopra.

-Non essere impaziente, mon chèr-

-Muoviti, non stai facendo un cazzo-

-Ma certo che lo sto facendo: mi preparo, ecco cosa faccio-

Ringhiai. Come poteva essere così rilassato? Avrei voluto conquistare i suoi secoli in un secondo, e dimenticarmi del tutto il concetto del tempo. Chiusi gli occhi e deglutii, e pensai anche alla ragazzina. Chissà cos’era per lei il tempo, lei che lo aveva provato sulla sua pelle per poi vedere se stessa pietrificarsi, cristallizzarsi, all’improvviso. Non come un vampiro, che rinasce dalla sua morte, inabissandosi in una nuova, totalmente diversa esistenza, ma come una ragazzina che vede il tempo scomparire dalla sua vita. Fui interrotto quando sentii Thomas avvicinarsi, scendendo la scala lentamente. Troppo lentamente.

-Ti vuoi muovere?-

-Ti senti negativo stasera, mon chèr?-

Sentii che si sedette di fianco me, su una larga poltrona di pelle nera che avevo notato prima. Riaprii gli occhi, e Thomas era esattamente dove lo avevo immaginato.  Però rimasi comunque stupito.

-Ma come diavolo sei vestito?-  volti la testa, per squadrarlo meglio.

Sospirò e scosse la testa, come se la domanda che gli avevo appena fatto fosse stata particolarmente stupida e non se la fosse aspettata da me.

-Hai bisogno che ti ascolti?-

-Sì-

-Bene. Ti offro il mio ascolto e la mia insondabile saggezza, ma posso farlo solo se mi vesto adeguatamente-

-E come saresti vestito?-

-Da Freud-

-Sicuro che Freud portasse una giacca di tweed con le toppe sui gomiti?-

-Ti piace? È di Ballantyne-

-Per me potrebbe averla cucita anche tua nonna-

-Sai, mia nonna si era sposata tre volte ed era sopravvissuta a tutti i suoi mariti. Si chiamava Georgiana, era morta vecchissima. Gran donna mia nonna-

-Non me ne frega un cazzo di tua nonna, Tom, almeno per ora-

-Comprensibile-

Espirai e di nuovo mi voltai. Imprecai  fra me: l’odore della ragazzina stava scomparendo. Era un buon odore, mi faceva incazzare che se ne andasse sempre così velocemente. Era molto più lieve dell’odore che poteva avere un vampiro.

- Che hai?-, Thomas aggrottò le sopracciglia.

-Adesso ti spiego. Raccontami dei cani, prima-. Dovevo risolvere la questione. Mi ero liberato di quel piantagrane del cane da guardia dei Cullen, ma sarebbe ritornato subito, forse stanotte, ora che Thomas non era più a Vancouver.

-Ah, giusto-, rise e si lasciò cadere sulla poltrona, rilassato. Sembrava molto soddisfatto, o almeno così sembrava dalla maschera di superbia che gli si era dipinta sulla faccia. Scrocchiò le dita e rise, di nuovo.

-Grazie Ben, mi ci voleva. Una sgranchita, ecco cosa mi serviva-

-Ma ti pare. Era ora che muovessi il culo dalla sedia-

-Ovviamente metterai una buona parola per me, a Volterra. Non li voglio tra i piedi, ci siamo capiti-

-Se non mi ammazzano prima ci metterò una buona parola di certo-

-E bravo, mon chèr-

Era bello parlare con Thomas, perché era un amico. Anche se non ci fossimo detti proprio niente, la notte sarebbe passata comunque, meno solitaria del solito. Ridemmo assieme. Se solo avessimo potuto bere qualcosa: ripensai alle mie notti in Spagna, a quanto mi piaceva bere, e a quando uscivamo dai bar talmente ubriachi da dover ritornare alle camerate praticamente in ginocchio, e a come in camerata, prima di dormire, qualcuno estraeva comunque una bottiglia di qualcosa di molto alcolico, e alla mattina c’era sempre qualcuno che aveva vomitato l’anima.

-Non ne hai ammazzato neanche uno, vero?-. Ricordai la piccola clausola che mi avevano imposto i Cullen: non fare entrare i lupi in quella storia. Gliel’avevo concessa volentieri, non mi interessava della fine che avrebbero fatto i cani. Non erano affari miei. E al cane da guardia, se ce ne fosse stato bisogno, ci avrei pensato io.

-Nemmeno uno: nessun morso, nessun danno. A uno ho rotto qualcosa, ma starà più che bene. E comunque mi devi risarcire, hanno un fetore. Puah, pestilenziale-. Fece una faccia schifata, si toccò il naso, quasi ad allontanare lo stesso ricordo dell’odore dei lupi. Ricordai l’odore del cane da guardia e lo capii. Arriciai il naso.

-Bene. Ti hanno dato problemi?-

-Non molti, mi muovevo in città. Una volta mi hanno quasi accerchiato: ne ho buttati giù due, uno si è rialzato subito, l’altro è rimasto a terra-

-Era quello grosso?- . Sperai che fosse il cane da guardia, dentro di me. Se non altro perchè non si presentasse, il giorno dopo, a stressarmi con le sue inutili minacce. Credeva che me ne sarei andato, se mi avesse detto che se facevo un solo passo falso mi avrebbe fatto a pezzi lui stesso? Avevo ucciso molto più di lui, e avversari molto più forti di me. Mi venne da sorridere al pensiero, era ridicolo.

-Non mi sembra, no. Quello grosso era il più sveglio-. Fece schioccare di nuovo le dita, nervoso.

Peccato. Ci avrei pensato io, prima o poi.

-Comunque mi sono molto divertito-, sorrise, soddisfatto.- E tu, il tuo affare?-. ritornò serio, e si schiarì la voce, raddrizzandosi.

-Ti volevo parlare di questo-. Sospirai, passandomi una mano sulla faccia. Cristo, quanto ero confuso. L’odore della sua pelle sulle mie mani stava andando via. Inspirai.

-Che c’è, la mezza cosa è matta?-, Thomas aggrottò la fronte, preoccupato.

-No-. Soffocai un ringhio, ma uscì comunque un gorgoglio sconnesso e animalesco.

-Calma, mon chèr-. Anche lui era sorpreso dalla mia reazione.-Qual è il problema?-

Era il momento, era la domanda. Non avevo aspettato altro. Non avevo aspettato altro da quella mattina, da quando avevo raccontato a lei chi ero. Ero distrutto. Sentii la bocca impastata, le parole impastate, i pensieri grumosi. Deglutii.

-Cos’è successo?-. Thomas nel frattempo incalzava, garbatamente. Era più un intermezzo che una richiesta, sapeva benissimo che avevo solo bisogno del mio tempo.

-La ragazzina-

-Chi?-

-Lei!-

-Più chiaro, mon chèr!-

-RENESMEE-. Urlai. Il suo nome squarciò l’aria, come un taglio. Mi passai una mano tra i capelli, presi le sigarette. Ne accesi una.

- Sei stato cristallino, mon chèr-. Thomas ridacchiava, divertito.-Passa una-

Obbedii, gli lanciai il pacchetto. Finimmo le sigarette prima di ricominciare il discorso.

-Dunque?-. Thomas tornò a stendersi sulla poltrona, sfatto, con un’aria molto annoiata. Ma sembrava attento, nonostante tutto: lo avevo incuriosito.

-Le ho raccontato chi sono-

Se avesse potuto, a Thomas sarebbe venuto un collasso. Strizzò gli occhi e scosse la testa, turbato, mentre borbottava qualcosa di incomprensibile ma  di molto convincente riguardo il suo parere negativo. Si schiarì la voce e strizzò gli occhi.

-Che cosa?-

-Le ho raccontato chi sono, ti ho detto-. Mi dava fastidio che non sapesse bene che dire. Non aspettavo altro che i suoi responsi e ora non sapeva che dire.

-Anche del perché sei qui?-

-No, sui Volturi non ho aperto bocca-

-Ah-. Trasse un sospiro di sollievo.

A pensarci bene, anche se i Volturi non mi avessero ordinato di stare zitto, non glielo avrei detto comunque alla ragazzina del perché ero lì. Perché avrei dovuto, dopotutto? Ancora un po’ di tempo e me ne sarei andato, questione di mesi, forse settimane. Dovevo solo controllare come procedevano le cose, aveva detto Demetri, così, in incognito, senza tanto clamore. Non facevo parte dei Volturi, ma avevo abbastanza legami con loro da essere considerato degno di fiducia. Dovevo solo vedere se la ragazzina era innocua, avrei fatto un resoconto dettagliato e me ne sarei andato. Non era una missione entusiasmante, né mi interessava particolarmente, ma quando i Volturi vengono a chiederti un piacere, si tratta di un ordine, non di una richiesta. Dovevo mantenermi in contatto con loro tre volte la settimana, raccontare loro come procedevano le cose, le loro abitudini, le abitudini dell’ “ibrido”, come diceva Dimetri quando parlava della ragazzina. Mi spiaceva per i Cullen, alla fine: era una famiglia per bene, di quelle che ti fanno ricordare che non sei del tutto un mostro, un assassino. Mi piacevano quasi tutti. A parte Edward Cullen, ovviamente. Ma forse potevo anche capirlo, non riuscivo a detestarlo per il solo fatto che lui mi odiasse: in fin dei conti la ragazzina era sua figlia, era normale che fosse incazzato. Fossi stato in lui avrei reagito anche peggio. Era molto equilibrato, come lo possono essere solo quelle persone che passano attraverso molte difficoltà. Mi avevano raccontato la storia sua e di sua moglie, Isabella. Era a dir poco incredibile. Thomas aveva liquidato la questione esprimendo tutto il suo sincero scetticismo di fronte alla storia di un vampiro che non uccide la sua cantante. A me era sembrata una storia strana e irreale, come un paradigma, un modello. Come un racconto, e non come una storia, qualcosa che era accaduto, che era potuto essere. Forse non potevo capire perché c’erano cose, emozioni umane, che non sapevo fare riemergere dalla nebbia confusa dei miei ricordi. Non potevo dire con sicurezza se le avessi del tutto perdute, o se semplicemente fossero rimaste di pietra, cristallizzate, conservate intatte ma in ogni caso morte. Come me.

Avevo detto solo ai Cullen chi ero, il giorno stesso in cui li avevo incontrati. Sinceramente mi aspettavo di essere attaccato, di essere perlomeno preso a pugni, se non proprio che cercassero di staccarmi la testa. Ma erano stati molto ordinati, molto civili, nella loro reazione. Chi mi fissava con distacco, cercando di valutarmi, chi sgranava gli occhi, stupito, o impaurito, chi fremeva di rabbia e indignazione. I Volturi avevano scelto me, per quella missione, anche perché Aro, quando avevo cercato di leggermi, aveva visto imprecisioni, buchi e sfumature. Il vecchio fu molto contento, si mise a ridere sommessamente con una specie di luce pazzesca, invasata che gli illuminava gli occhi scarlatti, scavate dalle occhiaie e da secoli passati a vivere sotto terra. Come un verme. Disse che era estasiato, entusiasta. Che se solo avessi voluto avrei potuto diventare uno di loro, un volturo. E ritornare finalmente “a nutrirmi della linfa”, così aveva detto. Rabbrividii al pensiero. Che il diavolo se lo portasse. Non avesse avuto attorno a sé schiere di vampiri pronti  difenderlo, lo avrei bruciato io stesso.

Ma il pensiero che quella disgustosa cariatide volesse fare qualcosa contro di lei. Contro la ragazzina.

Contro Renesmee.

Cristo, se fossi morto quel giorno. Se fossi morto quel giorno non sarei stato lì a spiare una ragazzina che non ha fatto nulla di sbagliato nella vita per meritarsi di essere perseguitata da una schiera di fanatici invasati e primitivi. Imprecai ad alta voce, Thomas mi disse qualcosa ma non ci feci caso. Stavo seguendo i miei pensieri.

Cosa volevano fare i Volturi a Renesmee? Dimetri mi aveva detto che dovevo solo guardare, controllare che non fosse feroce. Di nuovo imprecai. Che stronzata. Non erano di certo i Volturi quelli in gradi di giudicare se un vampiro potesse essere feroce o meno. Demetri mi aveva detto anche che avevano provato a “eliminare l’ibrido”, anni prima.

Eliminare Renesmee.

Imprecai, riaprii gli occhi. Thomas mi guardava, interrogativo.

-Che hai?-

-Le succederà qualcosa?-. cercai di non dare alcuna inclinazione particolare alla mia voce, come facevo sempre. Ma non fingevo mai con Thomas, di solito.

Lui si strinse nelle spalle, confuso. Potevo capirlo, mi stavo comportando come un idiota. Proprio come avrebbe detto Renesmee.

-Non saprei. Sei tu ad essere in contatto con loro-.

-Se le succedesse qualcosa, Tom?-. Deglutii, cercavo sempre di sembrare molto me stesso, perlomeno di assumere un comportamento che normalmente avrei preso in una situazione del genere.

-Non sarebbe colpa tua, ti hanno detto di farlo. Cosa potevi fare?-. Concluse con un gesto ampio della mano, come a sottolineare il pregnante pragmatismo della cosa. –E poi non è detto che le vogliano fare qualcosa. Dimetri non ti aveva detto che sarebbero intervenuti solo se tu avessi trovato nei Cullen qualcosa di strano? O sospetto, non mi ricordo.-. Scosse la testa e mi guardò, stringendo gli occhi. Voleva vedere gli effetti delle sue magre rassicurazioni. Mi venne da ridere.

-Non raccontarmi cazzate, per piacere. Lo sai bene quanto me che vogliono solo un pretesto per prendersi gli altri due, quello che legge la mente e quella che vede il futuro. Non gliene importa un cazzo della ragazzina: se deve andarci di mezzo ci andrà comunque.-

-Certo che lo so. Scusa se volevo levarti il senso di colpa, in ogni caso-.

Sospirai. Non potevo di certo prendermela con Thomas, se io ero un traditore, se stavo contribuendo a…

A cosa, poi?

A ucciderla, forse? A separarla dai suoi?A rovinarle la vita?

Se solo fossi morto quel giorno.

Appena Tatjana mi aveva trasformato, sentivo nelle vene scorrermi la violenza. Pura volontà di assassinio, giustificata dalla mia stessa natura, fluiva dentro di me al posto del sangue. Uccidere non mi sembrava altro che un atto più che giustificato, quasi sublime. E il sangue di cui mi nutrivo non era altro che il giusto premio che spettava alla mia nuova forza, alla mia nuova perfezione.

Ma lentamente, mentre ancora vagavo per la terra senza alcuna meta tranne la migliore scia che potevo incontrare, tranne il soddisfacimento dei bisogni che pulsavano dentro di me nel posto che prima era stato occupato dal cuore, la ferocia che sentivo scorrermi dentro si assopì. Fu allora che sentii scorrermi nelle vene fiumi rigonfi di tristezza, epurati da qualsiasi atto di violenza.

Avrei voluto morire. Ma decisi di sopravvivere a me stesso, e smisi di uccidere.

Non abbandonai mai la mia naturale predisposizione alla violenza e alla vendetta, che forse avevo anche da vivo, ma non uccisi più per continuare a portare avanti la mia esistenza. Ho ucciso vampiri, a volte esseri umani, ma non mi sono mai più cibato di loro. Non ho mai più commesso uno sbaglio, da quel punto di vista.

Ma ora cosa stavo facendo?

Per quale motivo condurre un’esistenza illuminata dal fine di un’etica ferrea, di un obiettivo che mi innalzasse al di sopra della specie bestiale di cui ero venuto a far parte, senza averlo voluto, se poi dovevo contribuire a fare il suo male.

Chiusi gli occhi, e nella mia mente riapparvero le curve dei suoi capelli. E poi il pallore della sue pelle, viva e luminosa. E ancora l’arco delle sue sopracciglia, severe e inquisitorie. Le sue labbra sempre socchiuse. Le curve profonde dei suoi fianchi, vie sconosciute e impercorribili.

Ricordai il suo profumo. Sapeva di crema, eppure era così piacevole. Così buono da farmi bruciare nel profondo, oltre ogni ragionevole motivo.

-Thomas. Credo che il problema sia uno solo-

-Sarebbe?-

Quel giorno Thomas era un Socrate piuttosto passivo, non mi aveva tirato fuori nulla. Ero stato capace di arrivare da solo alla mia conclusione. Era troppo evidente, era una verità esageratamente enorme. Impossibile ignorarla.

-Se succedesse qualcosa a lei,io morirei. Mi capisci?-

Parlai molto lentamente, nel dare la mia inesorabile sentenza. La mia valutazione finale.

Dio, perché hai fatto che la incontrassi?

Preferivo essere morto, come prima, piuttosto che così. Tormentato. Come se qualcosa dentro tirasse, e non ce ne fosse abbastanza. Sentivo che qualcosa dentro mancava. Era un buco enorme, ma lo sentivo solo in quel momento.

Per molto tempo, per tutta una vita, non ne avevo nemmeno avuto la percezione.

Riempire quella cavità, altrettanto velocemente quanto sorprendentemente, era diventato un bisogno primario, una necessità speciale. Qualcosa mi stringeva le tempie, premeva sul cervello, annebbiava ogni cosa. Portai una mano alla tempia. Sentivo un silenzio assordante.

-Cosa ti succede, mon chèr?-. anche lui parlava a bassa voce, ma si sentiva dalle sue parole il sorriso che increspava le sue labbra. Avrei voluto che fosse confuso, che sentisse il silenzio. Non sapevo cosa farmene delle sue risate. –Non sei mai stato un grande altruista, questo bisogna riconoscertelo. Dimmi una cosa: perché mai dovresti morire, se le succedesse qualcosa?-

Affilò la voce, incalzante. Meglio un interrogatorio che una presa per il culo, quello era sicuro.

-Non lo so-

-Certo che lo sai, mon chèr. Basta che tu mi dica quello che pensi, senza paura-

-Metti su della musica-

-Se ti aiuta-

Prese il telecomando dello stereo, cambiò cd. Opera, le nozze di Figaro: a Thomas era rimasto un debole per i suoi bei vecchi tempi. Avevo sperato che si alzasse, che ci mettesse più tempo. Avevo bisogno di pensare, perché non sentivo proprio nessuna risposta dentro, al contrario di quanto potesse pensare. Ripose il telecomando, incrociò le braccia: mi stava ascoltando. Mi misi a sedere. C’era molto silenzio, anche se l’aria era piena di musica. Mi sembrava quasi sacrilego irrompere in quell’atmosfera sacra, sospesa. Smisi anche di respirare, ma non mi piaceva. Trassi un respiro. Era ora di parlare.

 

 

 

 

 

 

 

 

    

 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Analisi imperfetta ***


25

Ciao a tutti! Scusate se rispondo molto velocemente ma stasera ho voglia di scrivere, quindi scappo!

Isabella19892: Ciao!! Wow che meraviglia, sono contentissima che tu sia soddisfatta!! Sarà che forse l’atmosfera aveva aiutato (in effetti era proprio quella giusta XD) . Condivido il discorso del dualismo al cento per cento: insomma, in soldoni, se Edward non fosse stato un vampiro che era tentato di mangiarsi la sua ragazza, diciamoci la verità, avrebbe perso punti, sarebbe solo stato un tipo molto educato e molto riservato e molto innamorato eccetera. Per carità, va benissimo per la realtà ma di certo non per la trama di un romanzo, che alla fine deve rappresentare degli archetipi, delle tipologie forse anche un po’ estremizzate. Altrimenti non c’è storia! E poi ha ragione anche a dire che ci riconosciamo nell’imperfezione: i personaggi perfetti o devono comparire per tre pagine e poi sparire, oppure li detesti per forza. E’ come quando vedi una ragazza troppo bella, per forza provi un po’ d’invidia come minimo, o magari finisce che non la puoi sopportare. Grazie mille per il discorso dell’indagine psicologica, mi prende un casino ed è proprio quello il mio scopo!! J Giuro che sono troppo contenta! Per me Twilight è stato importante, come altri libri, perché mi ha permesso di conoscere nuovi aspetti e nuove sfumature dell’interiorità…magari può sembrare un’esagerazione, però è proprio così. E vorrei che anche la mia storia offrisse dei minimi spunti, come dire, utili. Come al solito ho fatto il papiro, iammè sono irrecuperabile! A presto, bacione!

Rima_Brandon: Ciao! In effetti i Volturi li brucerei tutti (mai minaccia era stata tanto pregnante XD), dal primo all’ultimo! A parte i sogni di violenza…penso che adesso con le vacanze scriverò molto di più, e aggiornerò anche più velocemente: stavo pensando due volte la settimana, magari con dei giorni precisi, ma come al solito farò dei casini. Ho bisogno di commenti minatori tipo “muoviti o ti ammazzo il cane” altrimenti potrei anche dimenticarmi…tipo ieri mi sono completamente dimenticata che era domenica e non ho postato XD. A presto, un bacio!!

Thsere: Ciao! Finalmente qualcuno che apprezza Thomas!! Io lo adoro, cioè scrivendo mi sono divertita troppo: mamma mia che stiloso, con tutti quei soldi! XD A parte quell’idolo di Thomas, dico sinceramente che anche io preferisco il vero Benjamin, ma credo che Renesmee abbia già intuito la sua vera natura un po’ “imperfetta”. Ed è proprio per questo che lo apprezza…non voglio dirti altro, ma seguendo la storia credo che troverai altri spunti sull’argomento. Fammi sapere, un bacio!

Sily15: Ciao!! Bene, sono molto contenta che tu stia seguendo e che non abbia ancora buttato dentro, anche se sospetto che questa storia non finirà mai…ho sempre delle nuove idee che continuano a ritardare la fine, e mi dispiace non svilupparle :s. Grazie per il commento, un bacio!

Silvia15: Ciao!Grazie mille!!! Sono anche riuscita a scoprire la funzione “autori preferiti” e finalmente ho capito che tutti  i riferimenti alla cosa non erano ideali ma reali…mamma mia sono un’ignorante :s. Secondo me però Benjamin è buono un po’ per chi vuole lui…ma non ti dico altro (mi esalta troppo fare la misteriosa XD). Comunque qualche one-shot la farò di certo, mi è già venuta qualche idea usando un missing moment…se ci sarà mi aspetto un tuo commento!! (Sto passando alle intimidazioni, sono disperata) A presto! Un bacio!

 

 

 

 

 

-Sono certo di non aver mai provato qualcosa del genere in tutta la mia esistenza, Tom. Giuro che oggi, mentre ero con lei, sono giunto sull’orlo della pazzia. Ogni suo gesto, ogni suo movimento mi colpiva come uno schiaffo. E dovresti vedere come mi fissa, come scruta i miei occhi: è indescrivibile. Non so se è un incubo, o se sono arrivato al nirvana, alla perfezione. Cristo, Tom: dovresti vedere come mi guarda. Come se fossi un idolo, Tom, ti giuro che mi guarda come se fossi un’idea astratta. Lei ha capito, lei sa che c’è qualcosa che non va in me, ma non ha idea di che cosa sia. Eppure rimane, e sta lì, e mi fissa, e io vorrei andarmene cazzo, andare via e non vedere più lei che scruta i miei occhi e che rimane ferma per minuti interi senza dire una parola, senza muovere un muscolo, senza quasi sbattere le palpebre, per vedere chissà quale strano fenomeno, ma io rimango immobile, e non mi muovo, e rischio di rimanere anche io lì, per ore, minuti, giorni, e forse se non cercassi di tenermi sveglio ci passerei vite intere. Lei mi guarda e io rimango lì e vedo cose, Cristo Tom, vedo cose che tu nemmeno t’immagini. Vedo luce e poi vedo buio e poi ancora luce in un susseguirsi, e non so se è la realtà che cambia colore o la mia mente che viaggia, sto andando fuori di testa Tom, ho guidato fino a qui come un pazzo, stavo per investire un tizio per venire qui a dirti che sto impazzendo, sai? E adesso che mi hai fatto cominciare non so più tacere perché sono due giorni, due giorni cazzo che vedo cose, e immagino momenti che nascono nella mia testa, immagino la sua pelle, immagino i suoi occhi, immagino che mi dica qualcosa, immagino di dirle qualcosa, immagino di poter assaggiare il sangue delle sue vene, anche solo una goccia, perché mi chiedo da un po’ che sapore possa avere. Deve essere delizioso, e allo stesso tempo deve mettere sete. Ne vorrei anche una goccia sola, mi basterebbe. Cristo Tom, tu non sai cosa immagino. Immagino di uccidere Dimetri e di portarle la sua testa, come se fossi Erode, sai? Immagino di sentire l’odore che ha la sua pelle nell’incavo delle orecchie, immagino di vederla osservare un quadro, immagino di vederla ballare, immagino di farci l’amore per il resto della mia vita, immagino di vederla mangiare una fragola, immagino di vederla bere dell’acqua, immagino di vederla mentre si pettina, o mentre parla al telefono, o mentre piange, o mentre ride con qualcuno, o mentre si addormenta leggendo un libro. Non passa un secondo che io non stia immaginando di lei. Ma è una bambina, e anche umana, Tom, e non può capire, e nemmeno io posso capire che cosa cazzo è che mi porta a non pensare ad altro e a venire qui a chiederti aiuto, a chiederti un consiglio, un parere, qualsiasi cosa, ma ti prego non dirmi una cazzata, ti scongiuro di prendermi sul serio, perché sto per uscire di testa Tom, e se mi dirai una cazzata giuro che ti ammazzo, mi capisci? Capisci che sono fuori di me?-

Emisi un respiro pesante, che mi costò fatica, e mi passai una mano sulla faccia. Non avevo respirato, mentre parlavo. Quasi non avevo sentito quel che avevo detto. A parte che avevo minacciato di morte il mio miglior amico, ovviamente, e che ora sia lui che soprattutto io stesso eravamo a piena conoscenza dell’insana passione che provavo verso una ragazzina che avevo visto per la prima volta tre giorni fa. Mi venne da ridere. Thomas era schiacciato sulla poltrona, circospetto: probabilmente stava valutando le vie di fuga nel caso in cui mi fosse venuto in mente di staccargli la testa a morsi.

-Tom, dimentica la parte sull’aggressione. Ero un po’ alterato-

-Grazie, mon chèr. Ero un po’ preoccupato-

Entrambi scoppiammo in una risata forte, nervosa. Ero riuscito a turbare l’imperturbabile Thomas, in un’altra situazione sarei stato fiero di me.

-Dunque- Tom attaccò, incerto, cercando il mio guardo con discrezione. Evidentemente non si fidava molto delle mie rassicurazioni. Preferiva sondare il terreno di personalmente. Si schiarì la voce, vezzo assolutamente inutile per un vampiro. Era un maestro della retorica.

-Dunque, siamo alla fine, mio caro. E nota che ho cambiato lingua. Sapevo che cibarsi di bestie ti avrebbe creato qualche disturbo, ma non pensavo fino a questo punto. Siamo alla fine, mio caro. Ti sei innamorato, e tanti saluti. Mi capisci? E non fare quella faccia da idiota, e adesso non guardarmi contrariato. Sei innamorato proprio perché è una bambina, mio caro, e anche proprio perché è umana-. Prese una sigaretta e la accese, con gesti lenti, ritmici e rituali. Di nuovo risi: di lui, della situazione, di me stesso, delle nostre abitudini, delle nostre inutili macchine veloci, delle nostre inutili case piene dei nostri inutili letti, sedie, divani. Mi alzai di scatto.

-Tu sei pazzo-

-Ah, è qui che ti sbagli, mio caro Benjamin. Se tu fossi un po’ meno innamorato analizzeresti la situazione, e capiresti ogni cosa-. Di nuovo risi, mentre lui aspirava profondamente l’inutile fumo dell’inutile sigaretta. Ridevo sempre più forte, sempre più divertito.

-Tu sei proprio matto-

-Sei tu ad essere fuori di testa, mio carissimo Benjamin, amico mio. Se solo tu ti potessi vedere capiresti: sei innamorato, punto. Non so se la ami, ma so che ti ama. Se non ti amasse, non avresti visto in lei nient’altro che il suo corpo, o un taglio d’occhi affascinante, o magari delle labbra invitanti. Come abbiamo sempre fatto, mio caro.-

-Sei matto-

-Certo che no. Non sei d’accordo anche tu? Non mi hi detto tu stesso che ti guarda proprio come si guarda un’”idea astratta”? quale credi che sia lo sguardo di qualcuno che ama? È così semplice, Ben: lei ti ama, e tu non puoi non reagire.-

-Per favore-. Avevo smesso di ridere: non c’era proprio niente da ridere. Se avessi potuto piangere, in quel momento avrei dovuto trattenermi dal farlo. Era lui a ridere, adesso.

-Come sei innocente, mon chèr, un vero modello virginale. Sapevo che ti sarebbe successo qualcosa del genere, prima o poi. Sei molto monacale, sotto sotto, e una bella passione di ispirazione cortese è proprio quello che ti si addice. Tipo Lancillotto e Ginevra-

Thomas se ne stava seduto a ridacchiare, seduto sulla poltrona a gambe incrociate, scrutandomi con interesse. Rimasi a fissarlo dritto in faccia.

-Che vuoi che ti dica, mon chèr. E’ inutile che mi guardi, quel che è successo è successo-, alzò le spalle lievemente, come se potesse costituire una valida scusa per tutto quello che stava succedendo. Ritornai a sedere. Misi la testa tra le mani, affondai le dita tra i capelli.

-Non mi può amare-

-Certo che può. Sempre che tu mi abbia raccontato la verità. Non so se tu la ami. Tu lo sai?-

-No-

-E sai come scoprirlo?-

-No-

Rise. Anche io sorrisi. La musica era molto bella, in sottofondo. Non pioveva più, ma il giorno dopo sarebbe stata nebbia.

-Non so aiutarti, mon chèr. Forse ne so quanto te-

-Anche meno-

-Vuoi continuare a essere mio discepolo di vita o tenti l’ammutinamento?-

-Mi va benissimo fare il seguace-

-Ottimo. E allora non contraddirmi-

Thomas aveva molta esperienza, a modo suo. Forse era saggio, probabilmente era solo più vecchio di me.

-Sei sicuro di volerlo scoprire?-

-Devo scegliere?-. alzai la testa. Non sarei stato in gradi di prendere nessuna decisione. Non sarei riuscito a strapparmi fuori niente. Lo sapevo che c’era solo una persona che avrebbe saputo tirare fuori qualcosa da me. Thomas guardava fuori, nella notte, oltre di me.

-Se tu la amassi, cosa faresti?-

-Mi metterei a cantare-

Thomas rise, eppure a me non sembrava di aver detto una gran cazzata. Se l’avessi amata, ne sarei stato felice. Punto. Ma non sapevo se potevo, se mai avrei potuto, amarla davvero. Soprattutto non potevo sapere se avrei potuto volerle bene.

-Questa da te un po’ me l’aspettavo, mon chèr-

-Sono prevedibile, lo so- alzai le spalle.

Chissà se Renesmee stava già dormendo. La ragazzina aveva il sonno pesante: la notte scorsa ero rimasto praticamente per tutto il tempo a casa sua, con i suoi. mi avevano “invitato” loro, ma era solamente un’occasione come un’altra per tenermi d’occhio. Poco male, per me era uguale. Non c’era nessun avversario alla mia altezza là dentro, tranne forse quello biondo.

-E se tu non la amassi?-

Thomas era molto serio, ponderava le domande con intensità e partecipazione. Un analista quasi perfetto, non fosse che ingigantiva i miei problemi oltre l’inverosimile, con tutta quella teatralità.

-Sarebbe come prima-

-Impossibile-

Thomas aveva la straordinaria capacità di essere la voce del mio inconscio: prima che ciò che sta sotto la mia coscienza potesse anche solo rendersi conto dell’enormità del baratro in cui stavo cadendo, lui aveva già detto tutto quanto. Aveva già capito.

Era proprio mio fratello, non lo avevo scelto a caso. Lui era la mente, io, si poteva dire, il braccio. In ogni sua sfumatura: come sensazione, sensibilità, o semplicemente forza. Mi mancava la mente, diciamo.

E anche alla ragazzina. Era quello il motivo per cui sapevo già, fin da allora, che niente mai avrebbe fatto sì che potessi amarla. Non si ama senza la testa, non si vuole bene senza la ragione. Avrei potuto desiderarla, sentirla con tutta l’intensità di cui il mio corpo e le mie sensazioni erano capaci. Ma non avrei saputo come amarla.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Colpa ***


Chi mi chiamava

Ciao a tutti! Questo caldo mi ammazza, non riesco più nemmeno a scrivere, aiuto! Passerei la mia vita a guardare Dawson’s Creek stravaccata sul divano sorseggiando succo di frutta…oppure facendo una siesta che va più o meno dalle 2 alle 7 di sera XD Scusate se non sono più produttiva come un tempo.

Rima_Brandon: No per carità resisti, non t’impiccare!! XD Altrimenti chi mi ammazza il pesce rosso, scusa?! Che fascino Thomas, quasi quasi cambio protagonista (tipo Renesmee che scappa con Thomas a Las Vegas). No comunque sicuramente il problema di Ben è il non credere in sé stesso, o meglio il non conoscere a sufficienza sé stesso. Invece riguardo l’amore irrazionale, io sinceramente ci credo nella visione di Benjamin, mi spiego: se l’amore è solamente slancio della passione e dell’emozione, avrà sempre dei limiti, come del resto li avrà, e anzi ne avrà ancor di più, l’ ”amore” di carattere più intellettuale, che può nascere da un’affinità della mente. Credo che l’amore perfetto, ideale (e quindi che non esiste, accipigna) sia quello che unisce i due sentimenti. Madò, certe teorie potrei anche risparmiarmele! Un bacione, grazie per le minacce  XD

Silvia15:Ciao! E io sinceramente non so più come ringraziarvi! Davvero, mi lasciate sempre dei commenti troppo carini e gentili J Scusami se non posto molto nemmeno adesso che avrei tempo, ma sono sempre fuori, ultimamente…faccio quel che posso! Un bacio!

Thsere: Ciao! Direi che decisamente si sottovaluta…qualcuno gli assegni il premio Prozac XD Va be, ma chissene, tanto a Ben si perdona tutto!! E poi la chiave di tutto è la stessa spiegazione psicologica che da Thomas, che ha già capito tutto: insomma, io l’ho visto un po’ come un Socrate, e appunto come Socrate non ha rivelato niente di nuovo, ma ha aiutato Ben a rendersi conto di alcune cose. Ma credo che dal capitolo (che sono contenta tu abbia apprezzato così tanto!) sia venuto fuori più o meno tutto il perché del rapporto Ben-Nessie. Ed esce molto anche dal monologo, penso, o almeno così doveva essere XD però va be, sono ancora un’autrice della mutua :s. A presto, bacione!

Isabella19892 (Simo):Ciao!! Posso chiamarti Simo? Mi piace da dio il diminutivo! (Ti prego non prendermi idealmente a scarpate, è che sono stanca-accaldata-affamata XD). Primo: sappi che sono veramente più che lusingata, sono proprio…non so come dire…contenta che tu abbia voglia di parlarmi anche di te, perché vuol dire che allora davvero riesco a trasmetterti qualcosa, ed è la sensazione più bella che possa provare una persona che scrive. Grazie, davvero J Per la tua storia, non so davvero che dire, sembra la sceneggiatura di un film anni sessanta. Cioè, all’esterno, ti dico la verità, ha quasi fascino nella sua tristezza, però immagino che vissuta da dentro sia dura. E immagino anche cosa voglia dire per te una goccia sola di quella persona. Una goccia che però sarai sempre obbligata, volente o nolente, ad avere con te (almeno per ora, con la scuola). L’unica cosa che ti posso dire è non che ti capisco, ma che condivido la tua posizione e il tuo comportamento: anche io sono una fan storie stra pese in cui c’è sempre un problema enorme in mezzo, oppure in cui di problemi non ce ne sarebbero, ma magari me li faccio comunque venire, magari che non abbiano nemmeno a che fare con il ragazzo in questione. E’ per questo che non riesco mai a costruire un rapporto come si deve: in ogni storia trovo l’enorme problema insormontabile che poi alla fine non è altro che la mia vita in generale. Bah. Mi dispiace che alla fine la vostra amicizia si sia logorata, è molto triste. Però non si sa mai: se siete stati tanto vicini, o comunque amici davvero, nulla vieta che un domani voi possiate riavvicinarvi, non so se come amici o se come compagni. Ok, la smetto di fare la finta Pollyanna, che tanto non mi viene! Per il capitolo, che dire: sono di fretta perché sono a cena da una mia amica e devio stringere, perciò ti dcio solo che non voglio certo riporre Thomas J Anche a me è piaciuto molto descriverlo, sai? Ma ti prego non scomodare addirittura Oscar Wilde che mi emoziono!! XD Ah, poi terrò presenti anche i tuoi consigli per gli acquisti per le fan fic: ultimamente non riesco a trovarne di bellissime, uffa! E poi grazie, davvero grazie per le tue risposte super lunghe, e sempre troppo gentili. Mi piacerebbe davvero avere il dono della scrittura della scrittura che dici tu…all’università mi piacerebbe molto fare Lettere, ma d’altra parte non voglio nemmeno fare la disoccupata…scusami ma devo scappare, sarò più loquace (si…posso esserlo ancora di più MUAHAHAH) nella prossima risposta J Un bacione grosso! Giulia

Sily85: Ciao! In effetti non si pùò più fare niente, ormai è fatta!…spoilerone XD Bacio

 

POV Renesmee

 

Chi mi chiamava?

Voltai la testa verso la casa. Volevo restare lì, sotto la pioggia. Ad aspettare di vedere Benjamin ritornare. Magari anche solo per dirmi che si era dimenticato di raccontarmi di quando aveva percorso i sentieri hymalayani del Nepal. Magari solo per sfiorarmi un secondo la mano. Magari solamente per concedermi il privilegio incredibile di poter vedere, ancora una volta, dentro i suoi occhi. Non volevo tornare là dentro.

Chi mi chiamava?

La casa mi aspettava, enorme, scura, un masso di granito indefinito e inospitale. Preferivo di gran lunga il soffio del vento, il mormorio della pioggia, al rumore che proveniva da là dentro. Quanta cacofonia. Cosa stavano urlando quegli incivili? Chi faceva tutto quel casino?

In ogni caso non ne avevo la minima idea. Ma avevo tanta voglia di ballare, di raccogliere i capelli, lasciarmi andare, perdermi in un ritmo leggero, accennato, tuttavia felice. Profondamente appagata, completa. Non riuscivo a capire come quegli idioti potessero mettersi a urlare in un momento del genere. In un momento così felice.

Stavo per arrabbiarmi, tutta la mia felicità stava per scemare via, per scomparire, ed era solo colpa loro. Mi sarei arrabbiata moltissimo se non fossi stata tanto felice. O forse era più corretto dire estasiata, piuttosto che felice. Loro potevano urlare, perforarmi i timpani quanto volevano, ma non li avrei ascoltati comunque. Le loro chiacchiere non sarebbero riuscite in ogni caso a raggiungermi.

La porta di casa si aprì. Era Jacob.

Jake, quanto tempo Jake. Non riuscivo a parlare, ero percorsa da un blocco confuso e pesante di pensieri ma non riuscivo a dire proprio niente.

Jake, sai che mi sono innamorata? Sai che Benjamin è talmente assurdamente giusto per me che potrei fissarmi ad osservarlo fino alla fine dei tempi?

Dio mio cosa stava succedendo. Uscii dall’estasi, e fu come sbattere contro una superficie gelata. Jake mi guardava, mi fissava, mi implorava, sulla soglia di casa. E poi Jake correva, si avvicinava, mi abbracciava. E io non sapevo che fare. ero bloccata da mille catene, mille lacci di ghiaccio. Jake parlava, ma non volevo sentire, ero troppo impegnata a cercare di non piangere.

-Ness, amore-

Amore. Non me lo aveva mai detto: forse lo aveva pensato da sempre, ma non me lo aveva ancora detto. Era troppo tardi.

-Ness, dov’eri?-

Silenzio. Chiusi gli occhi, affondai il viso nell’incavo della spalla, sentivo l’odore forte, di terra e foglie della sua pelle. Conoscevo quell’odore più di ogni altro, ne conoscevo a memoria, perfettamente, ogni piccola sfumatura. Mi sembrava una fragranza così naturale, come se fosse esistita da sempre, come se avesse accompagnato il cammino del mondo. Fino ad allora. Non riusci a resistere, cominciai a piangere.

-Jake-

-Dimmi piccola-. Era preoccupato, tremava, sentivo il mio corpo adattarsi alle violente vibrazioni dei suoi muscoli.

Ma cosa stavo per fare?

Avrei voluto che la terra si aprisse sotto di me, che scomparissi, e che con me se ne andasse il mio stesso ricordo. Cosa stavo per fare? singhiozzai più forte.

-Devo…-

Non riuscivo a parlare: serrai gli occhi, non volevo assolutamente vedere la sua espressione, il suo viso tanto familiare. Che conoscevo a memoria. Come quello di qualcun altro. Lui tremava, voltò l testa, forse si guardava attorno, forse aveva già capito. Mio padre uscì di casa, sentii il ritmo dei suoi passi, qualcuno lo seguiva: era mia madre, e nessuno dei due parlava. Loro già sapevano. I miei singhiozzi diventavano lentamente lamenti, le mie lacrime si seccavano sulle guance e la mia bocca si serrava. Ero una vigliacca, traditrice, assassina.

-Cosa, Nessie?-

Prese le mie braccia, con la sua solita, esagerata delicatezza, le cinse con le sue mani ampie. Mi scosse con dolcezza, non mi sembrò quasi di muovermi. Dovevo solo stare zitta, dovevo solo tacere e non sarebbe successo niente. Non ero disposta a tutto questo, e non potevo accettare di perderelo. Se non avesse saputo, non avrebbe sofferto. Le mie labbra diventarono di pietra, la tomba della verità, di ciò che era stato. Riaprii gli occhi, e decisi che da quello momento avrebbero visto solo ciò che avrebbero dovuto vedere, ciò che io stessa gli avrei imposto. Inspirai profondamente, e stabilii che da allora quello sarebbe stato l’unico profumo che avrei assaporato, l’unica fragranza mia. E nient’altro. Non potevo farlo, non potevo nemmeno pensare di dirlo, non potevo permettermi di pensarlo. Traditrice, bugiarda. A chi dicevi di volere bene, a chi dicevi di tenere più che a un amico, più che a un fratello?

Avrei mantenuto fede alle mie stesse parole. E se avessi sofferto, sarebbe stata colpa mia.

Come avevo potuto soltanto pensare una cosa del genere?

Jacob, quello che mi ha accettata da sempre, per sempre e ogni giorno, in ogni momento, anche in quelli sbagliati. Solo allora capii, solo dopo aver pensato di potermi sciogliere dal suo abbraccio vitale. Si sarebbe sciolto con la nostra morte, con la morte di uno di noi. Era una trappola così dolce, così occulta, segreta, da essere visibile solo a noi due. E io lo scoprivo solo allora che quella in cui mi trovavo era una trappola dai lacci di seta e dalle catene d’argento. Ma non potevo piangere, perché sentivo che in quella trappola avrei potuto viverci, trascorrere infiniti giorni felici, innumerabili risvegli perfetti. Ma ritrovai la forza di aprire gli occhi e di rivederlo solo quando nella mia mente si fece strada un’immagine orrenda, spaventosa: mi fece vacillare.

La vidi nella mia testa. Era un’oscurità confusa, piena di mille luci semi spente, vorticosa, forte, veloce. Somigliava paurosamente agli occhi di lui, ma non potevo nominarlo. Non allora, che decidevo, che facevo la mia scelta. Non avrei nemmeno dovuto pormi la domanda, ma ero una traditrice. Come potevo paragonare lui a Jacob, cosa poteva significare per me? Non era niente. Non era stato niente, e non avrebbe dovuto significare niente. Mai.

Aprendo gli occhi lo guardai: Jacob mi fissava, scostandomi i capelli dalla fronte, preoccupato.  Mi sorrise, felice, perché un solo mio gesto si trasmetteva a lui in un’emozione potente, salda. Anche io gli sorrisi.

-Cos’è successo, Nes?-

Non doveva parlare, non doveva chiedere. Era tutto finito, non c’era alcuna domanda da fare, proprio nessuna. Nessuna sorpresa si celava dentro di me, nemmeno una. Misi un dito davanti alle mie labbra, delicatamente gli ricordai che volevo silenzio. Una lacrima fuggì giù dalla sua prigione. Risi: che ostinata che era.

-Nessie, ti prego…-, mia madre mormorò qualcos’altro, ma non era il momento di ascoltare loro. Quello era il momento per ascoltare un suono che mi era molto mancato, durante quei giorni. Un tamburo profondo, primordiale, infondo al petto di Jake, laggiù, nelle sue profondità.

Se si fosse fermato, sarebbe stata colpa mia. Se lo avessi ferito, percosso, lacerato, sarebbe stata colpa mia. Non potevo piangere.

-Nessie, Edward ha detto qualcosa, che non doveva succedere,che non era previsto: ma cos’è successo?-

Jacob tremava ancora, più forte di prima, e mi guardava fisso, senza quasi sbattere le palpebre. Forse per paura che potessi andare via, se avesse distolto lo sguardo. Non parlai: la mia bocca era sigillata, le mie labbra unite.

-Era Benjamin, era il vampiro? Cos’è successo?-

Era troppo. Digrignai i denti, strinsi gli occhi: era quasi un dolore fisico, potevo sentirlo. Un ago pungeva qualcosa dentro di me, lo sentivo, mi sembrava che ci fosse. Ma non era niente, perché era colpa mia. Anche mio padre parlò, mi chiamò. Ma quello era il nostro momento. Chiusi gli occhi, mi feci guidare dalla mente, dai ricordi della sua fisionomia, dall’odore di umido sulle sue labbra.

Lo baciai.

L’ago mi trafisse: fu doloroso ed inebriante allo stesso momento, come se fosse intriso di veleno. Sentii il suo cuore accelerare, i suoi battiti martellare il ritmo del nostro incontro. Sentii il mio cuore correre, scappare, e l’ago uccidermi da dentro. Ma era colpa mia.

Non ci eravamo mai baciati, ma sapevo che sarebbe successo. Eppure non pensavo che sarebbe stato così caldo. Andavo a fuoco: l’ago mi bruciava, le sue labbra scottavano, le mie ardevano, la testa divampava in strani pensieri sconosciuti, simili a sogni, popolati da ombre senza volto. Prima le nostre labbra si sfiorarono, si toccarono appena, e sentivo che tremava di nuovo, ma stavolta per l’emozione. Anche io tremavo. Poi fu un bacio vero, profondo. Non avevo mai baciato nessuno, e non avevo mai voluto sapere chi lui avesse baciato prima. Fu caldo, e molto rassicurante.

Dimenticai i miei genitori, e loro si lasciarono dimenticare. Non capivo perché.

Dimenticai che il tempo passava. Sentivo il respiro accelerato di Jake, la sua emozione violenta, inesorabile, e lasciai che ciò che doveva essere accadesse.

Dopotutto, quella era una trappola in cui mi ero lasciata cadere.

 

 

Io e Jacob guardavamo la televisione in salotto, con le mani intrecciate. Era tutta la sera che Jacob sorrideva,  a me, a mio padre che non gli rivolgeva la parola, a Rosalie che non ci rivolgeva la parola,a mia madre che gli sorrideva timidamente di rimando. Sorrideva anche a Jasper, che apparentemente non aveva alcuna reazione. Era tutto molto strano, eppure avevo già immaginato la scena, tutto quanto il momento, un milione di volte. Sapevo che tutti sarebbero stati un po’ strani. Il problema però era che non avevo assolutamente pensato di sentirmi anche io strana.

Ogni senso era attutito: pensai che forse era così che dovevano vivere gli esseri umani. Che rottura, doveva essere: ogni cosa era tanto lontana, tanto metafisica che sembrava capitare per caso. Un rumore, un colore, un movimento, tutto era molto lontano. Anche la mano di Jake, che se ne stava ben salda, attaccata alla mia. A volte anche io gli sorridevo. Niente panico, mi dicevo: la sera sarebbe passata, sarei andata a dormire e il giorno dopo io e lui saremmo stati insieme. Io e Jacob. Io e la mia baby sitter, io e mio fratello, io e il mio amico, io e il miglior amico di mia madre.

Quanto avrei voluto essere una ragazzina abbronzata di San Diego, California.

Nessuno mi aveva ancora parlato, proprio nessuno, non una parola. Mio padre era intrattabile e scontroso, e mentre noi due seguivamo gli ultimi sviluppi della mia telenovela preferita si erano ritirati a parlare chissà dove. O magari si stavano tirando su il morale a vicenda, non me ne sarei stupita. Esme e Carlisle, dopo averci liquidati con un sorriso liberale e altruista, se ne erano andati per i fatti loro. Seguiti a ruota da Alice e Jasper, palesemente irritati dalla piega che gli eventi avevano preso. Probabilmente sognavano ancora che mi disfacessi del cane, nel loro intimo. Rosalie era rimasta a casa, sicuramente per controllarmi: potevo sentire il suo sguardo infuocato colpirci direttamente sul collo. Ovviamente con lei c’era Emmett, che invece si occupava di tenere sott’occhio lei. Mi piaceva l’atteggiamento di Emmett, avrei potuto entrare in casa dicendo “Gente, credo che scapperò con un circo perché sono lesbica e mi sono appena messa con la donna barbuta che ci lavora, e che è umana”, che lui probabilmente avrebbe reagito con un sorriso contento e con una pacca sulle spalle. Non era mica stupido: la sua era semplicemente una filosofia di vita, e anche vincente.

E così ce ne stavamo lì, a guardare la televisione, quando arrivò la bomba della giornata. Una giornata che a quel punto definire faticosa sarebbe stato un vero e proprio eufemismo. Jacob si voltò: avevo sperato che non lo facesse. Lui non poteva sapere cosa mi era appena costato avere la mano intrecciata alla sua, averlo baciato. Avere scelto di risvegliarmi, il mattino dopo, con il pensiero di lui. Non poteva saperlo, e non era colpa sua. Era solo colpa mia.

-Renesmee-

I suoi occhi scintillavano, la voce era pericolosamente inclinata, emozionata come quella di un folle.

-Sono felice-

Mi morsi il labbro inferiore con forza, fino a che quasi non sentii la pelle lacerarsi. Sorrisi, anni e anni di pratica davano finalmente i giusti frutti. Non si accorse proprio di niente, e forse glielo fecero credere anche i miei occhi umidi: stavo per piangere, ma non per l’emozione.

-Tu?-, si aspettava una risposta affermativa. Ne era più che certo.

-Anche io, Jake-

Andai a  dormire quasi subito, non resistevo più, era una tortura. Qualunque cosa facessi, era sbagliata, qualsiasi cosa pensassi mi portava verso la via sbagliata, verso i pensieri sbagliati.

Quella notte non dormii quasi, ma piansi a lungo e molto silenziosamente. Nessuno doveva disturbarmi.

 

 

 

Erano quasi le tre quando entrò in camera mia. Non sentii meno che entrava, né mi accorsi di quando si sedette sul bordo del mio letto: me ne resi conto solamente quando cominciò ad accarezzarmi i capelli, e la fronte, con delicatezza. Allora mi accorsi immediatamente che si trattava di Rosalie. Solo lei e mia madre mi riservavano ancora dei gesti d’affetto così infantili, che non disdegnavo di ricevere, se in privato. Mi venne da sorridere.

-Renesmee, scusami se ti sveglio-

Aprii lentamente gli occhi e la trovai di fianco a me seduta, con le gambe accavallate, a piedi nudi. Non capivo perché ma mi colpiva il fatto che fosse a piedi nudi.

-Tanto non dormivo bene-

Sperai che non notasse gli occhi gonfi, perché io stessa li sentivo ancora rossi di pianto.

-Lo so-, inclinò la testa di lato, cauta.

-Perché?-, trasalii. Non poteva essersene accorta, avevo fatto molta attenzione.

-Lo immaginavo-

Trassi un sospiro di sollievo: forse non mi aveva sentita proprio nessuno.

-Nessy, tesoro, volevo dirti due cose-

-Anche io lo immaginavo-. Sbadigliai: in effetti avevo ancora sonno. E non avevo voglia di parlare. Rosalie sorrise comunque, apparentemente imperturbabile, come se capisse la mia irritazione ma fosse disponibile a sacrificare i miei desideri pur di parlare. Molto strano, da parte sua.

-Sai, tutti sono un po’ sorpresi da quello che è successo stasera-. Quella donna sapeva essere l regina elle perifrasi lunghe, con me. Preferivo quando dava apertamente dell’idiota a chiunque: lo avevo imparato da lei.

-Tu per prima?-, risi sarcastica, perché ero perfettamente a conoscenza dell’odio viscerale che scorreva tra lei e Jake.

-Io non sarei stata molto sorpresa, se prima tuo padre non mi avesse detto una cosa molto strana-. Cercò il mio sguardo ostinatamente, ma io avevo la netta impressione di essere sezionata viva. E non ne avevo assolutamente voglia. Mi fissai sulle caviglie nude di Rosalie. Lei andò avanti, spietata.

-Sai cosa?-. era forse una domanda?

-Che eri innamorata di Benjamin. Proprio così. Era incazzatissimo. Direi che incazzato è proprio il termine giusto: non dispiaciuto, o vagamente impaurito dalla situazione, no. Era proprio incazzato.- tamburellò le dita sulla gamba, lentamente.

-Io non ci credevo, insomma, per la storia dell’imprinting . Tu sai come la penso, quindi tralasciamo. E poi quell’idiota di Jacob che arriva di corsa, ovviamente nudo come un verme direttamente dalla foresta. Cosa ci devo fare io se è un cane. Si mette un paio di pantaloni e ti corre incontro, e non ne sa niente di quello che tuo padre ha appena scoperto. Arriva e chiede “Che c’è? Cosa centra Benjamin?”. Non sapeva niente, e tutti siamo rimasti zitti. Lui viene da te e lo baci: praticamente siete sposati, tesoro.- Le sue dita tamburellavano un po’ più velocemente, un po’ più furiosamente –Ma io voglio sapere una cosa. Senza doverti leggere alcun pensiero, non è corretto. Perché lo hai baciato?-. Rosalie la piantò di tamburellare le dita, per fortuna. Se avesse continuato per due secondi ancora le avrei dato un pugno: mi resi conto di essere molto stressata, più di quanto pensassi. Probabilmente mi sarebbe saltata una vena in testa prima dell’alba.

Che domanda stupida.

-Perché…-

Strano però, che non mi venisse da rispondere. Mi bloccai e presi fiato, emettendo una specie di sibilo, un soffio vagamente felino.

-Perché era giusto che lo facessi. Io amo Jacob-

Sorrisi, ero stupita dalla mia stessa coerenza. Vidi che Rosalie inarcò un sopracciglio, la sua espressione si fece improvvisamente distante, come se stesse calcolando qualcosa a mente fredda. Ebbi paura che lei si potesse arrabbiare sul serio perché avevo scelto Jacob: non volevo essere lasciata indietro da nessuno.

-Davvero?-

-Certo. L’ho solamente capito oggi-

Di nuovo mi scrutò, come si fa con un fenomeno sconosciuto. Non ricordavo un solo momento in cui mia zia mi avesse squadrata in un modo simile, ero infastidita. Sbuffai. Davvero non era giornata, o meglio nottata.

-Qual è il problema?-. fui molto acida, e cercai di non sembrare più patetica di quel che ero. Messa al muro prima ancora che mi fosse mossa un’obiezione.

-Il problema è che non ce l’hai affatto raccontata giusta, e non voglio che tu faccia degli errori-

-So quello che faccio-

Silenzio. Rosalie tacque, e io avrei voluto mordermi la lingua. Era solamente preoccupata, niente di più, e poi c’era di mezzo Jacob: era tutto normale. Eppure c’era qualcosa che mi diceva che non era per niente così. Qual era il problema, per loro? Che io avessi scelto Jacob o che mi fossi…non riuscivo nemmeno a pensarla, quella cosa che riguardava lui. Lo sconosciuto. Mio padre sapeva, eppure era rimasto zitto. Gli altri sapevano, ma nessuno era venuto a parlarmi, meno che Rose in quel momento. Arrossii: potevo parlare, dovevo parlare, ma se lo avessi fatto tutto sarebbe diventato reale, e avrei potuto rendermi conto di aver potuto fare uno sbaglio. Mi sentii sbiancare di colpo.

-Renesmee, so che è una situazione strana.-

Annuii, mentre lei mi guardava come se fossi una specie di internata. In effetti dovevano sembrare proprio strani quei miei repentini cambiamenti di colore e di umore.

-E so che forse senti il bisogno di un supporto maggiore, da parte nostra. Ma noi facciamo quello che possiamo, tesoro. Quello che gli aventi ci impongono di fare, mi capisci? –

Ci pensai su un secondo, e per quanto Rose spiegasse lentamente, scandendo le parole, come per parlare a un minorato, ne sapevo come prima.

-No-

-Bene- trasse un respiro e guardò in su, verso il soffitto. Il soffitto della mia vecchia casa a Forks era tutto colorato, come le pareti: ci scrivevo cose, oppure facevo disegni, oppure delle semplici righe, o macchie. Da piccola mi sentivo una grande artista, e tutti dicevano che lo ero, ed erano proprio convinti. Che sciocchi. –Ness, è difficile forse capire, ma farò in modo che presto tutto sia chiaro. Non è giusto che tu rimanga così sola, soprattutto in un momento come questo. Vedi io volevo parlarti, mentre non c’è nessuno. Siamo solo io, Emmett e Esme, in casa con te. Ascoltami: io voglio essere sicura che la tua scelta sia vera, sincera, mi capisci?-

Stavolta la capivo alla perfezione. Sola in casa, nessuno poteva ascoltarmi, ma se parlavo tutto sarebbe stato scoperto attraverso Rose. Ma ormai dovevo essere abituata: casa Cullen non era certamente un posto in cui qualcuno poteva anche solo sognarmi di tenersi delle cose per sé, delle emozioni strette dentro. Tutto era di tutti, nel bene e nel male. Era il momento di mettere alla prova il nostro legame. Fissai Rose negli occhi: non sentivo coraggio, ma solo una forma di dovere, una volontà suicida. Capii come poteva sentirsi un kamikaze.

-Rose, io devo amarlo, non ho scelta. Non ho scelta da quando lui mi ha vista, hai capito? Ho un debito così grande verso di lui da non poterlo esaurire nemmeno se gli rimanessi accanto per tutta l’eternità. E il problema è che non so nemmeno il perché: va oltre l’essermi stato vicino, o l’avermi amata da subito. E’ proprio una cosa che ho dentro, il senso di dover ancora dare-

Rosalie ascoltava interessata, sempre con la stessa aria tecnica e precisa, da distaccato professionista della psiche. Rimasi lì incerta, fino a che non mi fece un cenno.

-Rose io non posso…Benjamin, io non posso-

Le lacrime. Le sentii salire in un fiotto rapido e caldo, come se fossero state di sangue vivo. Non volevo piangere, ma in casa non c’era nessuno. E Rosalie ritornò di nuovo, come nell’infanzia, la mia roccia, il mio appiglio per i momenti disperati, in cui manca la fiducia in qualsiasi cosa. Tranne che in lei, la mia seconda madre. Paradossalmente, sapevo che in quei momenti di dolore lei era felice come non mai, o comunque appagata, profondamente. Sapeva di essere importante per me, e si rendeva conto di essere finalmente una madre. Mi lasciai cadere tra le sue braccia, che subito si erano protese verso di me. Affondai il viso tra i suoi capelli, e piansi forte, singhiozzando: fu una liberazione. Ogni lacrima scottava in un modo suo e personalissimo, ognuna diversamente dalle altre. Cercai l’abbraccio di Rose, lei lasciò che mi aggrappassi: ogni cosa attorno si muoveva, tranne lei. Mi cullava aritmicamente con delicatezza, accarezzandomi i capelli sulla schiena, ma io continuavo a piangere. e continuai per molto tempo, fino a quando non sentii gli occhi bruciare e il viso secco, intirizzito dal sale delle lacrime che avevo versato. Sfinita, i singhiozzi diventarono singulti, poi lamenti lontani. Restai immobile, totalmente nelle mani di Rosalie, che continuava a dondolarmi piano, come se volesse davvero farmi addormentare. Come faceva quando ero piccola: non avevo alcun problema a dormire, ma sin da bambina ero consapevole che permettere a mia zia di prendersi cura di me come se ne avessi bisogno sarebbe stato una gioia per lei. Fuori il vento soffiava, e dentro io lo ascoltavo muoversi impetuoso, solenne.

-Nessy, tu non ami Jacob-, mi sussurrò con assoluta calma, tra i miei capelli, le labbra quasi appiccicate ai miei capelli. Tirai su col naso, senza muovermi.

-Non è vero, lo amo-. Strinsi forte i suoi capelli, mi aggrappavo.

-Non come un compagno, però-. Rosalie era ancora molto calma, sorrise: come quando, da piccola, cadevo in piccole ingenuità che la divertivano. Rimasi in silenzio per un istante, raccolsi le idee e di nuovo arricciai il naso.

-Non è vero, io voglio stare con lui-

-E allora perché dovresti piangere? Dovrebbe essere il giorno più bello della tua vita-

-piango per l’emozione-

Mi incantai a seguire il fruscio dei rami fuori dalla finestra, mossi dal vento: potevo intravedere le sagome dietro le pesanti tende di seta.

-Ti prego, Renesmee, sii sincera-

I rami si muovevano con grazia singolare, per quanto il vento fosse forte. Un’unica lacrima fredda questa volta mi rigò la guancia, e Rosalie di nuovo mi accarezzò piano.

-Nessy, mostriciattolo, abbiamo fatto proprio un bel pasticcio con te. Sei stata tanto amata sin dal primo giorno in cui sei nata da non poter più distinguere l’amore da altro. E come potresti, in fondo? Usiamo così tante volte la parola amore che quando lo incontriamo non sappiamo nemmeno riconoscere se sia vero o falso-

Alzai lo sguardo: Rose guardava dritta davanti a sé, persa in qualche ricordo, o in qualche pensiero, con un lieve sorriso amaro sul volto. Non avevo capito molto, era una riflessione sua.

-Cosa?-

-Intendo dire che tu non sei in grado di riconoscere le tue emozioni. Forse l’eccessiva consapevolezza che hai sempre avuto, la coscienza costante della tua condizione di privilegiata, ti obbligano ad amare il lupo. E non pensare che io lo dica per semplice ostilità, perché se tu lo scegliessi spontaneamente, tesoro mio, sarei felice, nel profondo, perché saprei che lui ti ricambierebbe costantemente e con altrettanto amore. Ma io ti ho vista, e credimi: non lasciarti ingannare da te stessa-

-Ma Rose, non puoi capire- portai una mano alle tempie, mi stava venendo il mal di testa – se io non ricambiassi per lui sarebbe la fine-

-Ma allora te ne rendi conto?-. Rose ritornò a guardarmi, stupita, e forse un po’ accigliata.

-Rose non posso lasciarlo-

-Lasciarlo per Benjamin, intendi?-

Sussultai, mi concentrai con rinnovata attenzione sui movimenti del vento di fuori. Trassi un respiro. Avevo voglia di urlare, di scontrarmi con qualcuno. Di andare forte in macchina, di cacciare, di correre, e poi ancora di urlare.

-Sì-

Mi sembrava quasi di vederlo, Benjamin. Seduto sul mio pouf preferito, che mi guardava soddisfatto: ero sicura che se avessi allungato la mano si sarebbe avvicinato, mi avrebbe teso la sua. Come il pomeriggio prima.

-Nessy, devi essere sincera con te stessa. Nessuno può costringerti, tranne te stessa, mi capisci?-

-Sì-

-Devi essere libera. Me lo prometti?-

-Anche se questo ucciderà Jacob?-

-Se non lo farai ucciderà prima te e poi anche lui-

-Non credo proprio-

-Hai intenzione di vivere in una menzogna?- Rosalie si stava arrabbiando: non riuscivo davvero a credere che non volesse il male di Jacob, mi sembrava che ci stesse attaccando. Pensai a noi due come una coppia: in fondo, lo eravamo sempre stati.

-E’ la mia realtà, Rosalie-

Mi scostai dal suo abbraccio: lei mi guardava severa, non senza rammarico. Non poteva inserirsi, avevo scelto il mio mondo. Benjamin scomparve dal pouf, ma prima di andarsene mi guardò come solo lui sapeva fare, con quello strano sguardo un po’ smarrito e triste, e allo stesso tempo infantile e limpido. Come se fosse stupito da tanta malvagità.

-Spero che ci rifletterai, sapevo che non mi avresti ascoltata-

-In tal caso potevi anche fare a meno di venire-. Mi ero già dimenticata di come Rose fosse stata il mio appiglio, il mio punto di appoggio, e ricordavo solamente che mi aveva vista piangere. piangere per lui, che adesso non era nemmeno più sul mio pouf. Lui non c’era più. Rose continuò a parlare, indifferente: davvero forse si aspettava che l’avrei respinta.

-Perché domani nessuno te ne parlerà, capisci? Tutti ti diranno che hai ragione, che finalmente hai compiuto la scelta giusta, ma sarà solo per allontanarti da Benjamin. E quando tuo padre tornerà litigheremo sul serio, perché non era previsto che venissi qui a parlarti-

Rose riaccese la mia curiosità: ma allora c’era ancora qualcosa di Benjamin che mi era totalmente sconosciuto? Rimasi spiazzata.

-Cosa? Come sarebbe “per allontanarmi da Benjamin”?- , la mia voce uscì alterata, particolarmente acuta. Rosalie non fece una piega, rimase immobile dov’era, severa.

-Rifletti su quello che ti ho detto e avrà già abbastanza spunti. Non disperderti in questioni inutili.-

Senza dire una parola si alzò, e senza nemmeno un cenno uscì dalla stanza, silenziosamente e misteriosamente come ci era entrata, mentre io rimanevo lì, a gambe incrociate sul letto, con il volto sconvolto dalle lacrime, a chiedermi cosa diavolo ci fosse in Benjamin di tanto sbagliato. Tanto sbagliato da trovare il biasimo di mio padre: Edward aveva preferito Jacob a Benjamin. Per quanto gli volesse bene, non aveva mai accettato pienamente l’idea del suo imprinting, ne ero certa.

Benjamin ritornò a guardarmi dal pouf nell’angolo, e stavolta mi fissava spudoratamente, senza ritegno, studiandomi intensamente. Ma non mi sentivo spiata. Mi piaceva averlo accanto. Sorrisi a Benjamin, e a quel punto davvero non sapevo se stavo impazzendo o sognando.

-Cerca di dormire, Nessy-

Nessy: mi aveva chiamata Nessy. La sua voce era così perfetta. Era lo strumento più adatto per pronunciare il mio nome, gli si adattava alla perfezione. Nessy.

Addio Benjamin.

Mi sentii cadere sul letto, senza forze, e non seppi dire se mi addormentai o se svenni.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** A prima vista ***


Mi svegliai con un litigio come sottofondo, e proprio come Rose mi aveva anticipato i protagonisti principali erano lei e papà

Ciao a tutti! Bene, ho notato che gli avvenimenti vi hanno lasciati un po’ perplessi, direi…spero di non farvi scappare tutti! Però non ci posso fare niente, sono troppo incline al tragico per pensare che possa esserci un vero lieto fine per tutti, anzi, credo che non possa esserci proprio per nessuno, se devo essere sincera. Bene, prima di deprimervi vi lascio al DOPPIO CAPITOLO di questa settimana, e un bacio a tutti! J

Isabella19892: Ciao Simo!!(ma siiii…mi lascio andare!) Ci ho messo un po’ a postare…ma spero che gradirai i capitoli! ;) Comunque hai capito come sempre, Nessie non cerca Jake solo perché è la scelta di una vita, né per “comodità”, tra loro c’è davvero un sentimento. Che non necessariamente deve essere sbagliato, o d’amicizia, sia chiaro: solo che un sentimento può facilmente essere oscurato da un altro più forte, tutto lì. E’ triste, ma credo che sia vero, un po’ la gioia e la condanna dell’emotività. Sicuramente Nessie è anche un po’ codarda, ovviamente, a non essere in grado di scegliere il sentimento più forte e preminente, o forse è solo più saggia, più “anziana” di una ragazza normale, e tende a riconoscere le emozioni che potrebbero portarla alla deriva…come l’amore per Benjamin, la passione per antonomasia (e adesso vedrai anche perché XD). Non so, a me interessa moltissimo la differenza un po’ misteriosa e imprecisa tra amore e passione, ma anche io credo che non ci capirò mai niente! Scusa se ti rispondo velocemente ma qua da me c’è il temporale…e ho paura di restare fulminata al pc da un momento all’altro :S, scusa davvero se sono così veloce!! Mea culpa! Be, non ti sto nemmeno a dire che sono felicissima come sempre di farti provare tutte queste emozioni e soprattutto di riuscire a farti immedesimare…spero di continuare a riuscirci, mi fa troppo piacere! Un bacione, a presto!!

Thsere: Ciao!! E lo so…è un capitolo così! E sai che anche io sto rivalutando Jake? Ho appena finito di rileggere new moon e , che dire: è davvero una grande persona, e davvero si merita di più. Ma purtroppo io l’imprinting non l’ho mai, mai, mai digerito, giuro. Ma vedrò di studiare qualcosa per lui, perché di lieto fine sono stanca…ma anche di ingiustizie XD! E il comportamento di Nessie è debole, certo…ma vedremo poi come andrà avanti la storia! Non disperare! Scusami anche tu per la velocità della risposta ma il temporale chiama, AIUTO!! Bacio, a presto!!

 

 

 

 

Mi svegliai con un litigio come sottofondo, e proprio come Rose mi aveva anticipato i protagonisti principali erano lei e papà. A tratti si inserivano Alice e mamma, mentre Carlisle era prontamente zittito da papà: non avevo mai sentito una cosa del genere. Alice si era anche dimenticata di venirmi a chiamare, era tardissimo. Mi concentrai sulle voci, mentre mi vestivo. “Ma come hai potuto, sei impazzita, forse?” diceva papà, “Se c’è uno fuori di testa sei tu, che metti in testa a tutti loro le tue idee del cazzo”, sibilava Rosalie in risposta, “Rosalie, ti rendi conto di chi è?”, “E tu ti rendi conto di cosa le state facendo?”, “Ma Rosalie, non sappiamo le sue ragioni, cerca di capire, e non lo possiamo leggere, non possiamo permetterlo!” Alice si intromise, supportata da mia madre “Rosalie, non dovevi, noi non ci possiamo fidare: siamo in pericolo, lo vuoi capire?”. Andarono avanti per un pezzo, e l’unica cosa che capii era che il mio sospetto era giusto: Benjamin non mi aveva raccontato proprio niente. Non sapevo se dovevo essere più incazzata o delusa, ma sicuramente mi sentivo tradita: io gli avevo creduto, avevo avuto fiducia. E in cambio non avevo ricevuto proprio niente.

In ogni caso, non ero incazzata come mi aspettavo, proprio non riuscivo a esserlo. Mi vestivo come un automa, captando la discussione di sotto, ma proprio non riuscivo ad incazzarmi. Imprecai ad alta voce, cercando di darmi una pettinata. Avevo dei capelli inguardabili, e nessuna voglia di prepararmi, di scendere di sotto, affrontare tutti e poi dover andare a scuola. Dove ovviamente ci sarebbe stato Benjamin: ricordai la sua apparizione notturna sul mio pouf, e mi misi a ridere. Stavo sclerando, potevo dirlo. Mi avvicinai al pouf, così, tanto per pensare un secondo, e mi ci sedetti. Ero convinta di sentire il suo odore, ne ero quasi certa. Nello stesso istante decisi di scendere, perché forse sarebbe stato davvero meglio affrontare i miei piuttosto che uscire fuori di testa in silenzio nella mia camera. Presi un giubbotto beige piuttosto pesante, che di solito portavo più avanti nella stagione, ma che per quella mattina era perfetto. Una pioggia gelida e costante cadeva da nuvole basse e gonfie, di un profondo grigio color piombo. Scesi le scale quasi di corsa, presi le chiavi della Mini ed entrai in cucina: era là che stavano i miei di notte, se dovevano parlare, perché era il luogo della casa più lontano dalla mia camera. Ero ancora incerta se lo facessero per non disturbarmi o per agire indisturbati. In quel caso, però, ero più che certa del motivo. Quando entrai, tutti rimasero zitti, ammutoliti, insondabili come statue.

-Buongiorno-

Anche la mia colazione era più striminzita del solito: una tazza di te, marmellata e biscotti. Davvero anomalo. Ci misero un po’ a rispondere, nel frattempo notai che mancava Jacob all’appello. Arrossii.

-Buongiorno, tesoro-. Mamma si stampò in faccia un sorriso luminoso, e non potei trattenere una specie di smorfia di disgusto. Zuccherai il mio tè.

-Jacob sarà qui tra poco, per portarti a scuola-. Papà si inserì, senza quasi guardarmi in faccia. Perfetto, ci mancava anche che adesso mi pianificassero la giornata. Era un’associazione a delinquere, la loro.

-Pensavo ti avrebbe fatto piacere-. Ci mancava anche l’ex padre geloso che si metteva a fare l’amicone del mio ragazzo. Le avevo viste tutte. Sgranocchiai un biscotto.

-Di cosa stavate parlando?-. di nuovo, nessuno si mosse. Rosalie se ne stava appoggiata al pianale della cucina, guardando dalla finestra, dandomi le spalle.

-Di te e Jacob. Ci avete sorpresi, ieri-. Anche papà si stampò in faccia una specie di sorriso ebete. Era incredibile come tutti quanti credessero di darmela a bere: mio padre ignorava anche i miei pensieri, pur di entrare nella parte.

-Già-. Cercai di scrutarli, uno per uno: c’erano tutti, una riunione in grande stile. Che non riusciva a stare fermo come una statua aveva un’aria vagamente imbarazzata, come se si sentisse nel posto sbagliato. Alice continuava a osservare prima mio padre e poi Rosalie, aritmicamente, senza mai fermarsi.

-Stavamo dicendo che anche se ci avete sorpresi, tutti noi sapevamo già che sarebbe successo, Nes. E siamo tutti molto felici per te-

-Anche io sono felice-

Sembrava veramente una scena poco convinta. La vera tragedia stava nel fatto che tutti i partecipanti sapevano benissimo che lo era.

-Sapevamo che avresti fatto la scelta giusta- . mamma mi fissò negli occhi, e sperai di trovare almeno in lei un po’ di verità. Quelle parole mi fecero scattare: Rosalie aveva ragione, la vidi che mi fissava con la cosa dell’occhio. Loro non volevano che scegliessi Benjamin, punto. Era per quello che si erano incazzati, ieri.

-C’era una scelta sbagliata?- incrociai le braccia. Sapevo già che non mi avrebbero detto niente, ma dovevo almeno combattere. Dimenarmi un po’ per non sentire alcun senso di colpa.

-Ho sentito cosa avevi pensato, e non crediamo che lui fosse la scelta giusta-. Papà si strinse nelle spalle, come se quella fosse una verità oggettiva,  lui non potesse farci proprio niente.

-Jacob allora non ne sa niente?-

-No-. Mia madre fece qualche passo avanti. Era lei che si occupava di Jacob, lo aveva sempre fatto.

-Non deve saperlo-

-Certo-

A quel punto chiunque avrebbe capito, sarebbe stato in grado di distinguere la giusta emozione. Ma non io. Non ancora.

Sentii la macchina di Jake parcheggiare davanti a casa.

-Bene, è ora di andare-, mio padre seppe cogliere al volo la scusa: avevo voglia di mettermi a urlare “Rosalie aveva ragione”. ero contenta di andare a scuola, ero contenta persino all’idea di vedere quella squilibrata di Teresa, perché almeno lei non avrebbe avuto nessun mistero, nessun comportamento assurdo, a parte quelli che già assumeva, da propinarmi. L’unico problema era che a scuola ci sarebbe stato anche Benjamin. Ma dovevo parlargli, in qualche modo. Cercai di non pensare ai miei piani almeno finché ero in casa, almeno finché rimanevo spiata, e mi concentrai su Jacob.

Era evidente che avevo fatto una enorme, incredibile, stupidissima cazzata. Anche riguardo a quello cercai di non pensare, e a quel punto non sapevo veramente più che pensare. Cominciai a recitare una canzoncinaSome boys kiss me, some boys hug me, I think they’re ok…some boys try and some boys lie, but I don’t let them play, only boys who save their pennies make my rainy days..

Che genio Madonna. Riusciva  quasi quasi a farmi scordare per un momento che avevo appena fatto la più grande cazzata della mia vita.

-Sì, è ora di andare. Vi aspetto a scuola-

Non mi presi nemmeno il disturbo di notare i loro comportamenti, non mi interessavano perché già sapevo che non mi avrebbero trasmesso niente di vero. Per la prima volta nella mia vita ero arrabbiata con loro e non riuscivo a sentirmi in colpa, e pur non riuscendoci non mi sentivo per niente colpevole. Ero molto delusa. Presi il giubbotto che avevo lasciato sul divano e uscii di casa. Jacob mi aspettava in macchina. Forse aveva paura di entrare, dopo quello che era successo la sera prima, ma non avevo intenzione di stare a spiegargli che poteva tranquillamente avventurarsi in casa anche quando io non potevo difenderlo. Avrebbe comportato che io stessi a spiegare anche la facci della medaglia, il motivo per cui mio padre lo aveva accettato. E quella era proprio l’ultima delle cose che potevo desiderare. Appena mi vide, mi sorrise. Se solo la terra si fosse potuta a aprire sotto i miei piedi. Sorrisi lievemente.

Salii in macchina, Jake mi aveva già aperto la portiera.

-Ciao, piccola-. Non sapevo bene che dire, rimasi lì seduta, impacciata, ad aspettare che qualcosa succedesse, con il solito lieve sorriso passivo stampato in faccia. Mi sentivo mia madre prima, in cucina. Travolta dagli eventi, paralizzata da qualcosa che era successo senza che ancora ne conoscessi il motivo.

L’unica cosa che successe fu che Jake si chinò su di me per posare sulle mie labbra un bacio bollente e delicatissimo. Chiusi gli occhi e restituì il bacio.

Jake era la mia scelta, per quanto chiunque potesse dirne, ed era una scelta saggia. Non potevo permettermi scelte avventate: la mia vita non aveva alcun confine davanti a se, e le conseguenze delle mie azioni si sarebbero amplificate per tutta la sua durata. Avrebbero riecheggiato finché fossi stata in grado di sentirle sulla mia pelle.

Jake era la mia scelta. Ci scostammo, lui mise in moto e cominciò a parlare, e potevo riconoscere che era un po’ emozionato. Chissà da quanto tempo aveva aspettato quel momento, il nostro momento. Parlava di cose semplici, e persi il filo del ragionamento perdendomi tra le sfumature delle nuvole: erano diverse da quelle del giorno prima, erano più basse e meno volubili, se ne stavano lì, tra la terra il cielo, immobili. Parlò anche del vampiro, disse che aveva ucciso di nuovo, stavolta più vicino a noi. Disse che bisognava fare attenzione, che era veloce, e si nutriva in città, e che si vedeva che non era un neonato, né un qualsiasi nomade. Non me ne fregava molto del vampiro, in quel momento.

-Guarda che cielo c’è oggi, Jake-. Avevo la fronte appoggiata al finestrino. Lo interruppi perché non mi sembrava giusto farlo parlare per dare aria alla bocca.

-Più o meno come tutti i giorni, piccola. La penisola olimpica non offre molte varianti, sai com’è!- rise, sorpassando un’automobile.

-Oggi è più scuro-

Tutto era ricoperto di una strana patina, quella mattina, vibrante e grigia, come le lacrime che coprono la vista. Tutto si muoveva, fuori dal finestrino, dentro la macchina tutto era immobile, volevo scendere e muovermi anche io. Non sapevo bene come muovermi e perché, ma volevo solo sgranchirmi. Occupare il cervello con gli impulsi dei miei nervi.

Arrivammo a scuola presto, tutti erano ancora fuori, e Jacob parcheggiò. Gli altri arrivarono ed entrarono: decisamente il loro stile di guida era diverso da quello di Jacob quando mi portava in macchina. Jacob mi osservava con un sorriso lieve e rilassato, senza che nessun ombra potesse attraversarlo. Un’espressione da persona completa, che è arrivata al punto. Mi sarebbe piaciuto avere uno sguardo simile, un giorno, da uno che ha contemplato tutto quello di cui ha bisogno. Era proprio una fregatura che non lo amassi. Ma mi sarei impegnata.

-Eccoci-

-Già-

-Ti devo lasciare, piccola-

-Davvero?-

-Vampiro-

-Ah-

Jake si strinse nelle spalle, desolato, e lo imitai. Mi sentivo più sola che mai. Volevo tornare a casa a dormire, sentivo il bisogno assurdo di addormentarmi, di lasciarmi cullare e di sentirmi scomparire dolcemente.

-Qualcosa non va?- Jake aggrottò la fronte e si sporse in avanti, sospettoso.

-Ho solo un po’ sonno- strascicai la voce, e mi venne anche un bello sbadiglio. Non sapevo nemmeno io se avevo sonno davvero o se ero totalmente matta e mi stavo auto suggestionando. Lui rise forte, e anche io sorrisi.

-E’ incredibile quanto dormi!-

-Davvero. Devi andare?-

-Sì, mi dispiace amore-. mi accarezzò il viso con gentilezza. Si era fatto serio, mi diede un bacio. Ricambiai.

-Quando torni?-

-Quando ammazzo quel bastardo-

-E se non ci riesci?-

-Vedrai che lo ammazzo. e che tornerò da te subito-

-Certo- . gli rivolsi un sorriso: perlomeno, se mi fosse rimasto vicino, mi sarebbe stata più chiara la ragione di tutto quello che stava succedendo. Se se ne fosse andato, tutto mi sarebbe sembrato molto più stupido.

-Vado a scuola-

-A presto amore-

Gli sorrisi e scesi, trassi un respiro. Avevo bisogno di ossigeno, tanto ossigeno. Aprii l’ombrello e mi voltai, per vedere Jacob che metteva in moto, voltava la macchina usciva in strada. Il tutto osservandomi con attenzione dal retrovisore. Non mi sentivo spiata, o forse un po’. Ma sapevo che faceva bene.

Quando conobbi Teresa, non avevo idea del ruolo che avrebbe avuto  nella mia vita. E ad oggi mi spiego che Alice non avesse visto niente solo perché sin dall’inizio il suo coinvolgimento nel futuro della mia vita era stato talmente profondo, talmente intrinseco che le sarebbe stato impossibile prevedere qualcosa. E invece fu proprio Teresa, l’inutile ragazzina, a tirare le fila del mio destino.

Mi prese alle spalle, saltandomi praticamente in testa. Non ero dell’umore per sopportare il suo carattere indecifrabile e mutevole. Notai che con lei non c’era Amy, per fortuna.

-Nessy! Amore!-

Ci mancava anche lei, sbuffai, cercando di non prenderla a schiaffi.

-Tutto bene?- allargò gli occhi come una cretina, perché sembrasse che glie ne fregav qualcosa di come stavo.

-Sì, ho un po’ sonno-

Anche lei si mise a ridere.

-E magari non hai voglia di entrare là dentro…nel carcere!- strinse gli occhi, riducendoli a due fessure, come se stesse parlando dell’Occulto, o di Satana, o di un demone giapponese.

-Esatto-, riuscì a strapparmi un sorriso involontariamente.

-Allora facciamo così: oggi niente scuola. Io, te e Amy a casa mia, ti va? Ho comprato ieri il cofanetto originale con tutta la serie di Gossip Girl, ce la guardiamo e poi ordiniamo la pizza!-

Mi stava proponendo un orrore dietro l’altro: prima Amy, che avrei volentieri preso a mazzate, poi ore di una serie tv piuttosto insignificante e infine uno schifo di pizza ordinata per telefono. Ma nonostante tutto, l’idea non mi dispiaceva. Avrei fatto di tutto pur di non stare in quel posto, quella mattina, e soprattutto pur di non rendere pubblici i miei pensieri. Sorrisi della mia sorte, per una volta favorevole. Forse Teresa non era così inutile, se poteva portarmi via di lì: i miei non avrebbero mai ostacolato un po’ di sana socializzazione con l’altra metà di me, anche a costo di farmi fugare la scuola.

-Perfetto!- la mia voce risultò squillante e acuta, come quella di Teresa e Amy. Dopotutto, dovevo pur uniformarmi un po’.

-Ok! Lasciami chiamare Amy!-. mi fece un gran sorriso eccitato e corsa via, sculettando un po’. Feci un respiro profondo e mi guardai attorno, cercando di sentirmi un po’ in colpa. O magari anche io un po’ eccitata. Ma continuava solo a sembrarmi un puro e semplice atto di sopravvivenza, come il riflesso che si ha quando ci si avvicina al fuoco. Ci si deve spostare per forza, e io dovevo stare sola per forza. Mi tirai il cappuccio in sulla testa, cominciava a piovere con più forza.

Amy e Teresa arrivarono con gli ombrelli aperti, mi toccò starmene sotto con Amy, perché Teresa era troppo bassa.

-Ok, però non facciamoci vedere!- Teresa era tutta agitata, si vedeva che era contenta. Le sorrisi: davvero non potevo credere che potesse essere veramente cattiva.  Amy grugnì qualcosa guardandosi intorno. Era talmente cretina da aver paura di essere vista quando non c’era assolutamente nessuno ad osservarci. Era incredibile: mi morì ogni traccia di sorriso sulle labbra.

Camminavamo velocemente per il parcheggio, con Teresa che zampettava agitata e Amy che si guardava intorno sospettosa.

-E’ un peccato che tu non abbia la macchina oggi…potevamo fare un giro fuori città!-, Teresa mi guardò dispiaciuta, come se ci fossimo perse molto per uno sfortunato gioco del destino.

-Già-. La mia compagna di ombrello non mi guardò nemmeno. Decisamente non riusciva a tollerare la mia esistenza, o più che altro la mia immagine.

-Manca molto a casa tua?-. mi rivolsi alla nana.

-Prendiamo un pullman e andiamo a casa di Amy, a quest’ora non c’è nessuno!-. per giunta a casa sua. Probabilmente avrebbe provato ad uccidermi tirandomi un frullatore addosso. Non doveva avere molto stile nemmeno nella vendetta, era troppo insulsa.

-Perfetto-. Non avevo altro da dire.

Scendemmo in strada passeggiando più tranquillamente sul marciapiede pieno di pozzanghere. Mi bagnai tutte le scarpe e anche io rimpiansi di non aver preso la macchina. Amy e Teresa si stavano raccontando qualcosa. Svoltammo in una via un po’ laterale, un viale piantumato, pieno di alberi rugosi e massicci, con le foglie ingiallite, quasi marroni. Marce di pioggia. Amy e Teresa si fermarono e mi accorsi che eravamo fermi alla fermata del pullman. Non c’era nessun’altro ad aspettare, nemmeno un vecchio.

-…insomma, Kate c’è stata. Cioè, ti rendi conto? A una festa! La prima volta che lo vedeva! Non dirmi che non è una gran troia!-

-Hai ragione…però dai ci stava anche che ci stesse alla festa-

-Ma era la festa di Pete, cioè ci era andata tre giorni prima!-

-Tre?-

-Giuro!-

-Che troia, cazzo-

Non capivo più chi dicesse cosa. Non mi piaceva il marrone delle foglie, era molto triste, morente. Guardai le macchine che passavano alzando schizzi alti e sporchi dalle pozzanghere della strada. Che schifo. Osservavo le facce della gente e vedevo ben poco di interessante. Osservavo le facce di Amy e Teresa, contratte dallo sdegno, o dalla sorpresa, o da una forte gioia sadica, e non trovavo niente di interessante. Continuai a fissare la strada.

E allora arrivò, inaspettato come sempre. Prima sentii il rumore della moto, e lo riconobbi. Poi lo vidi arrivare, e solo scorgendone la sagoma capii. Non era una decisione per me, quella che avevo provato a prendere. Osservai con attenzione la sua figura, e rimasi affascinata. Mi si dipinse un sorriso sulle labbra secche. Come avevo potuto confondere l’inferno con il paradiso? Come avevo potuto anche solo pensare di potermi convincere?

Avrei potuto vagare per l’eternità, e non avrei incontrato nessuno di simile. Era chiaro.

Lo vidi, e capii quanto avrei voluto che fosse con me. Quanto, Cristo, quanto. Avrei stillato il mio sangue goccia a goccia. Lo avrei cercato per sempre, se fosse stato necessario. Lo avrei seguito in ogni posto, se ce ne fosse stato bisogno.

Voltò la testa e seppi che anche lui, da sotto il casco nero, mi osservava. Non sapevo come, ma ci stavamo guardando, e tanto mi bastava. Rallentò. Di nuovo volse la testa dinanzi a sé, e seppi che i nostri sguardi non si incontravano più. Istintivamente, mi mossi per seguirlo. Feci alcuni passi decisi prima di rendermene conto e di fermarmi, stupita. Sentii alcune lacrime rigarmi le guance, ed erano così pesanti che caddero subito a terra, come se fossero di mercurio. Sostanza pesante.

Non sapevo come, ma la moto girò: così, sulla strada, inversione di marcia. Non c’era nessuno. Sapevo che Benjamin veniva verso di me ma io non riuscivo a smettere di piangere. sapevo che Amy e Teresa mi stavano dicendo qualcosa ma io non riuscivo a dire niente. Ero semplicemente immobile. Il rombo familiare della moto era piacevole, si avvicinava lentamente. Sentii anche il profumo di Benjamin, più freddo che mai, attaccarsi alla mia pelle, alle righe delle mie lacrime. La moto si fermò, ma non la spense quando fu di fianco a me. Alzò la visiera del casco.

I suoi occhi erano così grandi, ma non riuscivano comunque a contenere, nel loro infinito nero, tutte le sue emozioni. Traboccavano. Erano sulla fronte tesa, sulle sopracciglia aggrottate, sulle palpebre appesantite, nelle mani vibranti, nei muscoli in tensione. Non riuscivo a capire cosa provasse, ma sembrava triste. Non una tristezza per qualcosa di particolare, sembrava più una diffusa malinconia, non del tutto negativa. Era un sentimento molto dolce, come l’assenzio, o l’oppio.

-Renesmee?-. la sua voce mi avvolse, come sempre e più del solito. Era pura seta.

Strano che non mi chiamasse Nessy, avrei giurato che lo avrebbe fatto, come nel sogno.

-Cosa ci fai qui?-

Cosa ci facevo lì? Scappavo da lui, era ovvio.

-Non mi parli?- mi prese una mano nella sua. Era senza guanti, non stringeva quasi, la mia pelle era solamente sfiorata dalla sua. Era come essere in una piccola gabbia di brina, intessuta con precisione attorno a me.

Avrei voluto dire qualcosa, ma l’unica cosa che mi riusciva bene era far cadere lacrime pesanti. Una dietro l’altra, con precisione e senza rumore. Non singhiozzavo per niente, il mio viso non era contratto. Era semplicemente bloccato.

-Ti senti bene?-. la piccola gabbia di brina si strinse impercettibilmente. Aprii la bocca, cercai di soffiare qualcosa.

-Benjamin-

Mi fece un cenno. Non era nel suo stile rispondere se era chiamato. Ne sorrisi, mentre un’altra lacrima scendeva lungo il solco scavato dalle altre.

-Portami con te-

Tenne lo sguardo basso, per un momento. Era in difficoltà, e non capivo la sua reazione, perché non l’avevo mai vista sul suo viso deciso e inflessibile. Poi mi sorrise, e io davvero non riuscii a capire.

-Dove vuoi andare?-

-Fammi vedere la tua casa-

-Se lo vuoi-

Era incredibilmente accondiscente. Avrei detto debole, se io stessa non stessi piangendo. Mi asciugai le lacrime con una mano e gli sorrisi. Mi rispose con lo sguardo più inquieto che i suoi occhi avrebbero potuto esprimere. Salii sulla moto e finalmente ritrovai la sua vicinanza, il duro calco del suo corpo e il morbido profumo freddo della sua pelle. Sospirai impercettibilmente.

-Vuoi vedere la mia casa?-. Benjamin non si voltò, guardava sempre basso davanti a sé.

-Sì-

-Perché?-

-Voglio vedere dove abiti-

-Ma io non ci sto mai-

-Voglio vedere comunque-

-E’ un po’ lontana-

-Meglio così-

-Non vuoi restare con le tue amiche?-

-No-

-E la tua famiglia?-

-Niente-

-In che senso?-

-Nel senso che loro adesso non centrano-

 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Cette chambre ***


26

 

 

La moto partì con uno scatto leggero, e finalmente capii che almeno per quella mattina sarei stata libera. Seppi che per quella mattina avrei camminato su quella vecchia terra più leggera di qualsiasi altro essere, senza quasi toccare il suolo, perché niente mi costringeva. Mi lasciai cadere sul corpo di Benjamin.

Andavamo veloci, molto più veloci del giorno prima, quando aveva detto che ero un pericolo. Attraversammo la città in silenzio, senza rispettare neanche uno stop: non capivo bene perché avesse tanta fretta, ma per me andava benissimo. La sua casa era davvero dall’altra parte della città. Osservavo i movimenti delle nuvole in cielo e mi sembravano già un po’ meno opprimenti, modellando le loro forme pazzesche. Quando ci fermammo quasi non me ne accorsi.

Eravamo fermi davanti a un grosso cancello imponente, di ferro battuto. Sembrava piuttosto antico. Si apriva su un grande parco disseminato di siepi di bosso ed alberi alti, semi coperti di foglie marroni e bagnate. Si indovinava la sagoma di una casa antica, bianca, terribilmente art nouveau. Benjamin aprì il cancello a distanza. Il viale che portava alla casa era in ghiaia, un po’ trasandato, e mi ricordava proprio il proprietario: lunghe fronde disordinate, da foresta, si allungavano e vibravano al di sopra di noi, erba folta e verde cresceva a ciuffi sporadici e selvatici. Le piante avevano una corteccia dura e nodosa. Benjamin spense la moto davanti all’ingresso, e mi distolse dall’osservazione di quella stramba boscaglia. Scese dalla moto, e io lo seguii. Si tolse il casco, e vidi che la sua espressione era ancora lì, immutabile.

-Scusami, non ti ho nemmeno dato il casco-

-Ho visto, eri di fretta-, cercai di sorridere.

-Sì-

Non sapevo bene che dirgli.

-Bè, questa è casa mia-

-Interessante-

-Non accogliente?-, stavolta sorrise davvero, con quella sua strana espressione infantile e allo stesso tempo serissima.

-Sinceramente ho visto di meglio-, mi strinsi nelle spalle, e mi sentii circondata dalla foresta. Era un giardino così fitto. Sembrava lì da secoli.

-Immagino-, anche lui si strinse nelle spalle, guardandosi attorno. Io lo osservavo, come sempre.

-Vuoi entrare?-. Non si volse a guardarmi, continuo a vagare con lo sguardo tra le fronde scure.

-Sì-

-Seguimi-

Sì voltò e feci come aveva detto. Non mi dava fastidio seguirlo, anche se era contro la mia natura, perché quello che lui diceva era esattamente quello che dovevo fare.

Benjamin aprì la porta e mi fece passare: rimasi sorpresa.

La casa di Benjamin era tanto fredda, disarmonica e inospitale fuori quanto curata e sorprendentemente accogliente dentro. Era abbastanza scura, ma era bella. C’erano mobili moderni di ebano, sedie dall’aria vissuta agli angoli, un grande specchio ovale all’entrata. Ci vidi riflessi, entrambi stupefatti, probabilmente per motivi diversi. Mi piaceva il soggiorno, che vedevo davanti a me da un’ampia apertura ad arco ribassato. C’era una specie di soppalco in legno, nell’alta stanza, che si raggiungeva con una scala leggera e semplice, su sui se ne stava una ricca libreria. Due grandi divani verdi scuri erano al centro della stanza, raccolti attorno a un tappeto che ricordava molto un futon candido. Feci un paio di passi verso la stanza, piena del suo profumo.

-Ti piace?-

-Molto-. Risposi a Benjamin, che era rimasto fermò all’ingresso. Le pareti erano spoglie, a parte un ampio schizzo: sembrava una venera al bagno, ma non capivo se era rinascimentale o impressionista.

-Ti vuoi sedere?-

-Vuoi offrirmi un tè?-. Mi veniva da ridere, era uno strano padrone di casa, sembrava che nemmeno si sapesse orientare. Riguardava attorno, e pensai che forse non era nemmeno casa sua.

-Di cibo non ne ho molto-. Continuava a guardarsi attorno, forse cercava la cucina.

-Ma è davvero casa tua?-

-Certo-. Era molto serio. A me invece veniva proprio da ridere: non mi era mai venuto tanto da ridere in vita mia. Andai a sedermi sul divano, incrociai le gambe prima di ricordarmi che non è così che ci si siede a casa degli altri. Avevo ancora il giubbotto, e non sapevo se togliermelo o no. Non sapevo bene perché ero voluta andare a casa sua, a dire la verità: solo che prima avevo tanta voglia di ridere che non ci avevo fatto caso. E mentre mi passava mi rendevo conto che non avevo idea di che cazzo volessi fare. Mi fissavo i piedi.

-Renesmee, come mai sei venuta qui?- . Continuavo  guardarmi i piedi con molto interesse, ma riuscivo a capire dall’inclinazione della sua voce che c’era qualcosa di strano. Una specie di turbamento, lo distinguevo nel suono della sua malinconia.

-Tu mi ci hai portato-

-Tu hai voluto venire-

-Potevi lasciarmi là-

-No-

Il tono si era alzato impercettibilmente, non per imporsi, semplicemente per farsi sentire. Alzai lo sguardo non mi sentivo più attaccata. Benjamin era ancora lì all’ingresso, immobile, che mi fissava. Capivo da ogni suo gesto inespresso che era nervoso e inquieto, come se si trattenesse da qualcosa: vedevo la tensione che percorreva il suo corpo, i suoi nervi, la sua stessa espressione. Forse avrebbe potuto sembrare ostile, forse addirittura rabbioso, ma a me non faceva nessuna differenza che lui ridesse o che fosse incazzato. Davvero nessuna.

-Cosa c’è?-. Anche io lo osservai, con altrettanta convinzione. Per me non faceva nessuna differenza.

Lui sorrise, senza nessuna gioia: era un sorriso tanto amaro da far male, da disturbare.

-Niente. Solo non capisco cosa ci fai qui-

-Non volevo stare là-

Rimanemmo così, fermi a guardarci, ma non mi dava fastidio nemmeno il silenzio. Era molto riposante, come silenzio, perché non ci trovavo proprio nessuna tensione: non stavo nemmeno cercando di capire perché fosse incazzato. Mi sfilai il giubbotto, tanto per riempire il momento. Mi era venuto un po’ caldo.

-Renesmee, perché non volevi stare là?-

-Così-

Non avevo voglia i parlare, mi piaceva il silenzio di prima, e lui sembrò capirlo. Condividevamo quel silenzio magnifico, pienamente consapevoli che sarebbe finito per forza, ma non per questo rassegnati all’idea. Di nuovo lo osservai, e tutto quel suo agitarsi mi divertì: non capivo se gli altri non potevano vederlo, o se era una cosa che succedeva solo di fronte a me. In entrambi i casi era un fatto notevole. Benjamin aveva dei grandi occhi da bambino adulto. Così pieni e vorticosi da farmi girare la testa ad ogni sguardo, ma non sentivo nessun bisogno di staccare lo sguardo dal suo. Mi piaceva moltissimo quella strana sensazione di disorientamento. Benjamin incrociò le braccia e cominciò a tamburellare le dita contro i bicipiti tesi, alzando il solito sopracciglio. Mi venne davvero da ridere, più che da sorridere, per quella situazione surreale.

-Cosa c’è?-. si fermò un secondo. Non sapeva neanche lui cosa fare, lo potevo vedere.

-Volevo solo sapere perché sei così agitato-. Mi tirai sulle mani le maniche del maglioncino: mi sentivo un po’ in imbarazzo. Quasi non mi resi conto che Benjamin si era seduto di fianco a me, semplicemente mi voltai e lo vidi lì. Sembrava un po’ più tranquillo.

Ci osservavamo con gentile curiosità, fissandoci senza ritegno, perché ognuno aveva molto da scoprire dell’altro. Io, ad esempio, non ero ancora riuscita a seguire del tutto la sottile tela intessuta dalle cicatrici sul suo collo, simile a un ricamo.

-Sono un po’ confuso, Renesmee-

-Ho notato-. Non staccai gli occhi dal suo collo. La sua voce era incredibilmente vicina, potevo rabbrividire al contatto.

-Perché non capisco alcune cose-. La sua voce mi sembrò ancora più vicina, ed era bello lasciarsi sfiorare lentamente da quel suono freddo e scuro. Lo lasciai fare.- E non so cosa devo fare-

-Cos’è che non capisci?- Preferivo che fosse lui a parlare, ma non come prima, perché volevo capire, ma solo per sentire la sua voce. Nessun secondo fine. Rimase in silenzio per un po’, e io volevo che ricominciasse a raccontare.

-Ci sono cose, Renesmee, che io non riesco più a distinguere, mi capisci?-

-No-. Lo guardai negli occhi,e capii quanto mi era mancato. Capii quanto in basso stavo cadendo.

Ero innamorata, e di me non era rimasto nient’altro.

Benjamin mi osservò serio, si passò una mano tra i capelli scomposti.

-Io sono morto, Renesmee. E a volte penso che non dovrei provare certi…turbamenti. Ma poi mi ritrovo davanti ai fatti, e non so cosa fare. anche adesso, non so cosa sia giusto fare.- Chiuse gli occhi ed espirò: gli credevo, quando mi diceva che non riusciva  capire, perché era evidente. Riaprì gli occhi di scatto, e mi si avvicinò impercettibilmente. Ne fui sorpresa. –Ma c’è qualcosa davanti a me Renesmee, che mi impedisce di vedere ogni altra cosa, e non c’è ragione che tenga, mi capisci? Se potessi io penserei, cercherei di decidere, di fare qualcosa, di capire almeno. Ma non posso contemplare altro che quella cosa, e non posso fare altro che contemplarla. E’ terribile, Renesmee, e allo stesso tempo così…-

-Bello- Non lasciai che finisse la frase: quelle dovevano essere le mie parole. Era strano sentirle pronunciate da lui. Lui mi guardò, e prima d’allora non pensavo che sul suo volto avrei mai potuto leggere la paura. Una leggera angoscia percorreva i suoi occhi, ma anche quella mi sembrava estremamente affascinante: mi ci sarei abbandonata molto volentieri. Era senza parole, e io preferivo decisamente non usarle, preferivo ascoltare il suo respiro lento e ritmato.

Davanti a me c’era solo Benjamin, nessuna maschera, nessuna finzione. Nessuno tra di noi.

Mi voltai verso di lui, mi inginocchiai sul divano verde. Lentamente, senza che opponesse alcuna resistenza, mi chinai e posi le mie labbra sulle sua guancia. Non era un bacio, ma un semplice contatto. Raggelai : nello stesso istante in cui le mie labbra toccarono la sua pelle, capii cos’era che Benjamin non riusciva a capire, e cos’era quella cosa che non poteva fare a meno di contemplare.

Ero semplicemente io.

Sentii le sue mani sui miei fianchi, leggere come un soffio, e tra i miei capelli, sinuose e veloci.  Poi ci baciammo, e ogni pensiero venne meno. eravamo solo materia che si incontrava, e ogni cosa era spaventosamente luminosa. Pronunciava il mio nome sulle mie stesse labbra, e io tacevo, perché l’unica cosa importante in quel momento era sentire il mio nome pronunciato dalla sua voce.  Mi aggrappavo alla sua pelle, in silenzio, e tutto era assolutamente perfetto. Eravamo soli al mondo.

 

Ogni bacio rompeva qualcosa, dentro di me. Ad ogni bacio avrei voluto essergli più vicina, essere una parte di lui, ma per quanto mi avvicinassi, c’era sempre una distanza da colmare. Cercavo i suoi baci disperatamente, e per quanto fossero profondi, niente era mai abbastanza. Dovevo diventare la sua stessa sostanza.

Non capivo se fossero passati alcuni minuti o alcune ore, non mi rendevo più conto del tempo che passavo. Il mio unico scopo era stare con lui, nient’altro, seguirlo dovunque. Il resto non valeva niente. Volevo perdermi nell’infinita dolcezza di ogni gesto di Benjamin, che mi percorreva con decisa delicatezza. Come se avesse avuto paura di rompermi. Del resto delle cose, non valeva per niente la pena.

Mi sembrò molto naturale fare l’amore con Benjamin. Non capii con precisione in che momento ci ritrovammo a salire le scale e a sdraiarci su un letto che nessuno aveva mai usato. Continuavo a baciarlo,l e lui continuava a percorrermi, esattamente come prima. Ma finalmente capii che ogni distanza tra noi si sarebbe annullata, e fui felice. Sentivo il contatto con la sua pelle,e lo adoravo, sentivo il contatto con le sue labbra, e ne rimanevo incantata. C’era tutto quello di cui avevo bisogno, in quel momento, nulla di meno e nulla di troppo: ogni parola sarebbe stata superflua, ogni distanza era un dolore quasi fisico. Non avevo mai pensato seriamente al momento in cui avrei fatto l’amore, non mi era mai capitato di aver bisogno di farlo. Era una situazione sorprendentemente familiare, non ne fui nemmeno stupita. Quando tra noi non ci fu più nessuna distanza, nessuna barriera, non fu una scoperta ma un ritorno. Ogni sensazione era amplificata oltre ogni immaginazione, ogni gesto era pieno di un significato traboccante, tutto era pieno di sensazione, anche la testa. I sensi, la mente, i pensieri, erano tutti assieme, un’unica percezione. Ogni cosa era unita perfettamente, al suo giusto posto.

Benjamin era una sorpresa in ogni momento. Tutte le caratteristiche che amavo di lui si rivelarono in tutta la loro profondità: potevo perdermi nella dolcezza di un suo bacio o nella presa vibrante delle su dita. Solo a volte mi concedevo di fissarlo negli occhi, e quando lo facevo non potevo fare a meno di sorridere. Lasciarmi cadere con lui nell’abisso scuro che avevo temuto fu l’emozione più grande della mia vita.

 

Restammo lì sdraiati per un pezzo: Benjamin aveva cominciato ad accarezzarmi i capelli, io chiusi gli occhi, stesa su di lui. Mi modellavo sul suo corpo di marmo come se fossi fatta di gomma, era una strana sensazione. Chiusi gli occhi e lasciai che le sue dita scorressero lungo i capelli, sciolti sulla schiena, senza muovermi. Respiravo lentamente direttamente dalla sua pelle, e notai che non aveva un profumo molto intenso, ma delicatissimo. Sapeva di mare ma anche di pioggia estiva, di temporale. Sapeva anche di giacca di pelle, ma solo perché l indossava sempre: però mi piaceva anche quell’odore. Mi percorse lentamente e per molto tempo, ma non capii per quanto. Fuori continuava a piovere, potevo vederlo dall’ampia finestra della stanza. Quando riaprii gli occhi percorsi la camera con lo sguardo, perché prima non mi ero praticamente resa conto di dov’ero. Eravamo su un grande letto dalla testiera in tessuto, viola scuro. Un bel viola. I non c’erano altri mobili tranne un grande armadio di legno scuro e vetro, alla parete opposta rispetto alla finestra. La finestra era un ampio arco ribassato, avrebbe fatto entrare molta luce, se non ci fosse stata quella pioggia. Ma preferivo una luce più soffusa, e i toni del grigio. Le pareti erano bianche. Mi piaceva il bianco alle pareti, risaltava le figure, risaltava anche noi. Sapevo che Benjamin mi stava guardando, sentivo il suo sguardo percorrermi come una carezza. Anche io lo guardai, e incontrai i suoi occhi, e scoprii che potevano essere infinitamente pieni d’amore. qualunque emozione provasse, lui la amplificava con la forza tenace della sua espressione. Già sapevo che entrambi ci amavamo, senza che nessuno avesse parlato: era quello che intendevo per “parole superflue”. Parlavamo con lo stesso silenzio.  Fece scorrere un dito sulle mie labbra, gli sorrisi.

-Dovrei dirti qualcosa?- Alzò il sopracciglio sinistro. Quanto amavo la forma delle sue sopracciglia.

-No, va bene così-. Scossi la testa, sentii i capelli muoversi sulla mia schiena, le sue mani ricomporli con delicatezza.

Velocemente mi girò, e fu sopra di me. Si sdraiò delicatamente e infilò la testa nell’incavo della mia spalla, sentivo il suo respiro danzare sulla mia pelle. Fui io a mettere le mani tra i suoi capelli stavolta. Ricambiò mordendomi l’attaccatura della spalla. Sentii che sorrideva, dalla forma delle labbra sulla mia pelle, mi venne da ridere.

-Chiudi gli occhi-. Obbedii. Ogni suo desiderio era così mio. –Nessy, ti amo-

Mi diede un bacio. Mi scese una lacrima: stavo per traboccare, nel mio cuore non c’era più spazio per nient’altro. L’unica risposta che gli diedi fu versare due lacrime sulla sua spalla, e lui capì che a modo mio provavo i suoi stessi sentimenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Giuro ***


29

Ciao a tutti! Ci ho messo un po’ a postare di nuovo (sono presissima di saldi, piscina e uscite…aaaaah, mi rigenero XD), ma prometto che caricherò un altro capitolo entro il fine settimana: mi raccomando commentate, è un po’ che non stresso con il desiderio morboso di commenti e mi sembra giusto rinfrescarvi la memoria :s. mi fa molto piacere che io debba ancora ringraziare per dei nuovi preferiti, grazie davvero! A presto e un bacio

Giuls.

Vasq:Ciao! Oddio, me tapina, mi sento una capra di montagna! Confesso che, non so perché, ho sempre confuso le date e ho sempre detto 1981 al posto di 1984. e fin qui ok, è una menomazione mentale mia. Però porca vacca, anche confondere Joyce con Orwell, non me l’aspettavo,eh. In ogni caso grazie per la correzione (cercherò di provvedere anche se non so più come fare a manomettere il capitolo, il computer non collabora e io so praticamente solo scrivere e andare su facebook e youtube) e per l’attenzione con cui hai letto la storia. Spero che continuerai a seguire J Un bacio!

Thsere: Ciao!! Muahahah, lo so, era inaspettato, questo c’è da dirlo. In effetti si conoscono da…4 giorni XD. Cioè, altro che conoscenza occasionale! Dai, sono molto soddisfatta che i capitoli ti abbiano coinvolta così tanto, davvero: credimi, è molto difficile rendere certi momenti e certe emozioni, specie se così interiori e intime, con le parole, e credevo proprio di non farcela del tutto, stavolta. Di certo il carissimo Benjamin aiuta ;) Posso definirlo “sfrenato dio del sesso”, citando Bridget Jones, o ti sembra esagerato? A presto, un bacione!

Silvia15: Ciao! Anche io faccio il tifo per loro, tengo a dirtelo, quindi non ti preoccupare: qualcosa di buono cercherò di farcelo saltare fuori, ok J? A parte le vaghe anticipazioni, posso solo scongiurarti di portare pazienza e seguire, perché le domande che mi hai fatto sono esattamente tutte quelle a cui non so bene come dare risposta. Anzi, se proprio devo essere sincera non ti dico ancora niente perché non so bene nemmeno io come comportarmi…sono una pseudo autrice troppo scassa XD, meriterei di essere pestata dai miei stessi personaggi :s. A presto, non disperare che in qualche modo la storia andrà avanti…un bacio!

Sily85: GRAZIE. E’ troppo bello quello che mi hai scritto, di averti fatta viaggiare in un altro mondo: è gratificante. Io scrivo soprattutto per me, e per il gusto di farlo, però se mi capita di ricevere certi complimenti…sono troppo contenta J Ti ringrazio di nuovo e spero di riuscire a farti viaggiare ancora per un po’. Un bacione!

 

 

 

 

 

 

-Questa stanza è un po’ spoglia-

-Diciamo che mi ci dedico poco-

Benjamin stava fumando una sigaretta, con la schiena appoggiata alla testiera del letto.

-Mi fai provare?-

-Ti ricordo che hai dei polmoni-

-Anche tu-

-Ma i  miei non funzionano-

-Che palle-

Incrociai le braccia e mi voltai dall’altra parte. Non ero veramente arrabbiata, proprio per niente. Ma mi piaceva averla vinta.

-Sei un idiota-

-Sei una ragazzina insopportabile-

Cercai di non voltarmi, lo avrei fatto solo se lo avesse voluto. Mi stavo incazzando veramente.

-E comunque potevi anche dirmelo che eri vergine, Nessie-

Avvampai. Fortuna che mi ero voltata, perchè sentivo la faccia a diecimila gradi, neanche mi fossi mangiata un cucchiaio di lava. Mi si impastò la lingua, rimasi senza parole.

-Ma sei scemo?-. cercai di non urlare, ma il risultato fu terribile, una specie di cornacchia triste. Sentivo che stava per mettersi a ridere, ma ero troppo in imbarazzo per avere il coraggio di voltarmi.

-Io ti direi di no, non so tu come la pensi-. Stava per mettersi a ridere. Non mi sentivo più a disagio, ero solamente furiosa. Mi voltai e gli diedi uno schiaffo. Forte, di quelli che fanno rumore. Non mi feci male alla mano ma mi rimase un po’ intirinzita: gli avevo lasciato il segno. Fece una faccia un po’ stupita, un’espressione da idiota che gli avrei tolto a pugni.

-Penso che sei uno stronzo!-. non mi trattenetti dall’urlare. Cercai di avvolgermi attorno il lenzuolo, volevo alzarmi, ma ero tanto agitata che non riuscivo nemmeno a legarmelo attorno. Sentii la sua mano stringersi al mio polso, le sue labbra avvicinarsi al mio orecchio.

-Sei proprio il mio ragazzo-

Rimasi spiazzata, lasciai scivolare il lenzuolo.

-Ragazzo?-

-Sei violenta e permalosa. E manesca, e maleducata. Sei un ragazzo-

-Tu sei matto-. Cercavo di non ridere. Mi diede un bacio dietro all’orecchio, credetti di morire. Mi lasciai cadere sul letto, e di nuovo lasciai che mi percorresse con la solita attenta delicatezza. Lo lasciavo fare, lui pensava ad entrambi. Però parlare non mi disturbava più.

-Perché volevi sapere che ero vergine?-

Alzò la testa, si stava occupando dei miei fianchi. Mi scrutò molto seriamente.

-Stavo scherzando-. Ritornò al punto in cui aveva lasciato il suo lavoro.

-A me non sembra-. Gli presi un ciuffo di capelli e gli alzai la testa. Aveva un’espressione vaga e un po’ smarrita.

-Era solo per te-

-In che senso?-

-E’ una cosa importante- Sbuffai. Non lo facevo così pesante.

-Ti prego, non fare quello pieno di buoni propositi-

-Infatti non ne ho neanche uno-

-E allora qual è il problema?-

-Avrei preferito saperlo, tutto qui-

-Sarebbe cambiato qualcosa?- , fui io ad alzare il sopracciglio. Non capivo. Lui ci pensò su un momento, si guardò un po’ attorno.

-No, non credo-. Ridacchiava imbarazzato.

Mi divertiva che non sapesse come prendere l’argomento: non mi sembrava assolutamente morigerato in materia, questo lo avevo capito. Eppure era come se non sapesse da che lato prendere la cosa.

-Tu non eri vergine, vero?-. non mi sembrava per niente strano fargli una domanda del genere, anche se in teoria avrei forse dovuto porgergliela prima. Lui mi guardò un po’ confuso e sorrisi.

-No, direi di no-. Abbandonò la testa sulla mia pancia. Di nuovo lo tirai per i capelli: era divertente vederlo in trappola. Non mi sentivo in colpa a metterlo in difficoltà.

-Raccontami-

-Eh?-. stavolta era davvero spaesato, sbarrò gli occhi e alzò il sopracciglio.

-Con chi sei stato?-

-Bè, così su due piedi non mi ricordo-

La verità era che ero gelosa, e vederlo in difficoltà aumentava la mia gelosia e allo stesso tempo calmava il mio desiderio di vendetta.

-Come non ti ricordi?- , mi aggrappai più forte ai suoi capelli.

-Ahia-

-Scusa- lasciai cadere la sua testa. Mi veniva un po’ da piangere. Ma non c’era bisogno di nessuna lacrima perché lui capisse.

-In ogni caso era parecchio tempo fa-. Sentivo le sue labbra muoversi sul mio ventre, era la carezza di un soffio di vento. -E non amavo nessuna di loro-. Sorrisi, ero molto fiera di me e molto tranquilla.

-Perché te ne importa tanto?-, mi guardò divertito. Aveva una testa indecente tutta ciuffi e nodi, mi piaceva mettergli le mani tra i capelli.

-Mi sembra ovvio-, mi strinsi nelle spalle. Non mi andava tanto di stare a dire che ero gelosa.

-E io?-

-Tu cosa?-

-Devo essere geloso, come te?-

Non c’era nessun segreto tra noi, ogni volta che sfioravamo un argomento, un’idea, un proposito, era in comune. Era la domanda più difficile che potesse pormi, mi sentii cadere: fino ad allora, il mondo non era andato oltre noi stesi, oltre quel letto e oltre quella stanza. Ma se volevo rispondere, la realtà era indispensabile. Lo tirai per i capelli e lui mi baciò.

-No-

-Non è vero-. Mi osservava serio, corrugando la fronte con la solita disinvolta arroganza di quando sospettava qualcosa. Era meraviglioso quando veniva tormentato dal dubbio, l’essere più bello della terra. Aveva il volto pieno di ombre scure.

-Sei splendido-

-Sapevo che era solo attrazione fisica-. Non sorrise, mi guardò grave: era un ottimo attore, io risi.

-Sei troppo bello per essere considerato per quello che sei-

-Ha i suoi aspetti positivi-

-Tipo?-

-Non me ne vengono in mente, ma dovevo pur difendermi-

-Bene-. Percorsi il profilo del suo volto con la punta dell’indice, e sperai che si fosse dimenticato della sua domanda, perché così anche io avrei potuto dimenticarmene. Ma lui continuava a chiedere la sua risposta, scrutandomi con attenzione: mi guardava come se sperasse che dicessi qualcosa di molto tranquillo e di molto semplice. Non potevo ignorare la sua richiesta.

-Tu sei geloso?-

-Ovviamente-

-E di chi?-

-Di chiunque. Non ho un soggetto preciso-. Feci un respiro profondo, mi fissai a guardare le mie mani tra i suoi capelli. –Renesmee, vuoi parlare?-. Non era una domanda retorica, Benjamin voleva sapere davvero se mi sentivo di raccontare. Dentro di lui c’era una delicatezza infinita, mi piaceva sentire che adesso fosse mia. Feci cenno di sì, si sedette di fianco a me, immobile, guardava il soffitto.

Cominciai a parlare, e gli raccontai tutto. Praticamente da quando ero nata, tutto di me e Jacob, di quanto fossimo legati, di come lui fosse destinato a me, della forza dell’imprinting, della mia volontà di liberarmene, e dei miei sensi di colpa. Era molto strano parlarne: non ne avevo mai parlato davvero con nessuno, e quello a cui stavo parlando era lui. Era Benjamin. Mi sembrava di confessare molte cose. Benjamin non mi guardò mai, continuò a tenere lo sguardo fisso al soffitto. Capii che non lo faceva perché non voleva guardarmi, ma solo perché potessi parlare: se mi avesse guardato negli occhi, non sarei mai stata in grado di dirgli la verità. Quella delicatezza era soltanto mia. Lui si sforzava di non assumere nessuna espressione particolare, e dentro di me gliene fui grata. Raccontai davvero tutto, anche della sera prima, e ancora lui continuò a non guardarmi. Ma allora non capii bene per quale motivo, sentii il cuore cadere giù. Il mio racconto finì, e rimasi immobile a guardarlo. Avrei voluto che mi guardasse, che mi dicesse qualcosa, non che rimanesse lì fermo a pensare: non capivo che cosa stesse valutando, e ne ero spaventata. Guardavo il suo profilo perfetto e preciso, cercavo di capire cosa nascondesse per me il vortice nero dei suoi occhi in quel momento. Prima che potessi ottenere una risposta, si voltò e mi diede un bacio sulla fronte. Lo guardai interrogativa, cercai di dire qualcosa.

-Vestiamoci, è tardi-. La sua mano era lungo il mio collo. Aveva un’espressione enigmatica, una sorta di amara malinconia. Mi assalì un’ondata d’ansia spaventosa.

-Hai capito che voglio te?-

-Sì-. Pronunciava un giuramento, tutto in lui suggeriva un impegno straordinario. –Ma non so ancora cosa hai intenzione di fare-

-Non lo so nemmeno io-

Mi abbracciò, un semplice abbraccio, nient’altro. Mi sentivo più forte, come se gli eventi non potessero più investirmi. Come se potessi decidere cosa fare di me.

-Benjamin, non posso scegliere altro che te-. Parlavo nell’incavo della sua spalla.

-Resta con me- Non si mosse, non fece niente di particolare, ma io riuscii a capire che quella era la cosa più bella che Benjamin avrebbe mai potuto dire a nessuno. Ogni cosa in lui era indipendenza, sicurezza, libertà, ogni gesto e ogni decisione. La cosa più grande che potesse offrirmi era fare parte della sua vita. Sorrisi.

-Cosa?-

-Stai con me. Sei il mio ragazzo adesso-

-Allora hai deciso che sono un ragazzo?-

-Sì-. Rise: mi piaceva farlo ridere, sembrava che si fosse dimenticato come si faceva, a ridere senza nessuna amarezza.

-Parlerò con Jacob-, parlai molto piano, lentamente.

-Devi farlo-. Io annuii.

-Certo-

-Ma voglio che tu ci pensi bene-. Di nuovo annuii, e mi staccai da lui.

-Che ore sono?-

-Le due-

-Cazzo-. Mi morsi la lingua: dovevo cercare di essere un po’ più fine, almeno in certi frangenti. Benjamin scoppiò a ridere. -E’ tardi!-

-Ti avevo detto che dovevamo vestirci-

-Ma come fa ad essere così tardi?-. Ero angosciata.

-Mi piace fare le cose con calma-. Benjamin sorrise: avevo voglia di dargli di nuovo uno schiaffo.

-Porca troia. Mi passi i vestiti?-

Me li passò, e riconobbi che la maglia era inutilizzabile, c’era uno strappo alla cucitura lungo tutto il fianco. Benjamin si stava divertendo parecchio, a vedermi lì tutta confusa.

-Ti presto qualcosa-. Si alzò e si vestì. Fino ad allora avevo dubitato che avremmo mai più potuto alzarci dal letto. Frugò un po’ nell’armadio, mentre io indossavo i miei vestiti. –Tieni, questa ti piace-

Mi porse una camicia grigia chiara, di Henry Cotton’s. Era davvero bella: la indossai, mi stava larga ma mi piaceva. Mi rimboccai le maniche.

-Grazie. Non pensavo che portassi le camicie-

-Infatti. Hai fame?-

-Cosa mi offri?-, feci un paio di passi verso di lui, mi ero già stancata di non averlo a contatto con la mia pelle.

-Penso di avere dei cornflakes-

-Stai scherzando?-. rimasi letteralmente a bocca aperta. Io avevo fame e lui voleva darmi del becchime.

-No no-, riportò la mia mandibola al suo posto con un dito. Sorrideva, apparentemente orgoglioso di sé.

-Ti diverte?-, mi alzai sulle punte, se mi alzavo potevo vederlo dritto negli occhi.

-Non sai quanto. Li vuoi o no i tuoi cornflakes?-. Avvicinò il suo viso al mio, non sapevo più bene cosa fare. era troppo umiliante: gli diedi una spinta e me lo tolsi dai piedi. Avevo fame e li avrei anche mangiati, i suoi schifosissimi cornflakes, ma di certo non avrei ammesso che mi andavano bene. Era questione di principio. Uscii dalla camera sbattendo la porta, e scesi le scale di corsa: a dir la verità mi aspettavo almeno che mi seguisse. Imprecai contro i miei sentimenti contrastanti da idiota. La cucina era la stanza dall’altro lato del salotto, in fondo a un corridoio. Vidi ancora qualche quadro affisso alle pareti, sembravano tutti originali. Aveva smesso di piovere quasi del tutto, cadeva solo qualche rara e piccola goccia fresca. In cucina trovai Benjamin, seduto sul ripiano di un cucina dall’aspetto nuovo e triste, un po’ impolverata, a braccia incrociate. Mi osservava con attenzione, seguendo tutti i miei movimenti. Mi bloccai sulla porta.

-Pensavo fossi ancora di sopra-. Alzai un sopracciglio. Volevo mangiarli da sola i cornflakes. Lui indicò la finestra semi aperta, in risposta. Andai ad aprire qualche scomparto della cucina alla ricerca del cibo, e trovai degli oreo.

-Potevi dirmelo che avevi i biscotti!-

-Perché, sono buoni?-

-Sono i miei preferiti!-

-Hanno un odore nauseante. Sanno di profumatore per ambienti-

Andai a sedermi di fianco a lui, cibandomi del mio magro bottino, e appoggiai la testa sulla sua spalla. Sentivo che era inquieto, teneva lo sguardo fisso davanti a sé, e sembrava che non fosse concentrato su nulla di reale: non si accorgeva nemmeno che lo stavo fissando. Mi piaceva moltissimo quando non aveva nessun legame con la realtà, ed era inutile riportarlo a me.

-Credo che tu sia molto umana-. Parlava continuando a guardare di fronte a sé, rifletteva. Una specie di piccola ruga solcò la sua fronte. Posai i biscotti.

-Perché?-, non capivo dove volesse arrivare, o comunque da cosa fosse dovuta la sua opinione. Ma soprattutto, non volevo essere umana.

-Ragioni come un umano. E comunque, mi auguro che tu lo faccia.- Lo guardai perplessa, lui si voltò, ma ancora non riuscivo a capire. –Lascia perdere- Mi baciò sulla fronte e poi mi baciò davvero.

-Che schifo, sai di biscotto e di additivo chimico-

-Mamma mia, sono ributtante-. Mangiai un altro biscotto, ridemmo assieme. Ritornò subito serio, era molto grave e noioso, e non capivo perché.

-Voglio che tu ci pensi davvero-

-A cosa?-

-A Jacob- Sentii una specie di pugno nello stomaco, non volevo che affrontasse ancora l’argomento, non volevo che pronunciasse il suo nome. Jacob e Benjamin non avrebbero mai dovuto incontrarsi, nemmeno nella mia mente. Mi tremava la testa, mi tremavano le mani. Intrecciò la sua mano alla mia: erano perfettamente unite, non si poteva immaginare intaglio più preciso, giusto.

-Renesmee, non potrai mai avere da me quello che potresti avere da lui-. Mi sembrò triste, capii che si sentiva in colpa, tanto in colpa da aver voglia di prendermi per mano.

-Lo so-. Anuii. Con il pollice accarezzai il dorso della sua mano, e ci fu un piccolo brivido, ma nell’intreccio non distinsi se era mio o suo.

-Io sarò solo uno che ti ama-

-Può bastare-

-Non una parte di te-

-Lasciami stare con te-

-Non ti completerò mai-

-Non sarebbe successo comunque-

-Non è vero, non è detto. Lui è giusto-

-Lo è stato. Fammi stare con te- Sentii che sospirò, lasciai che i capelli mi coprissero la faccia, perchè non potesse vedere che stavo trattenendo le lacrime. Se ne accorse comunque, si sapeva rendere conto di tutto.

-Renesmee sono troppo egoista per non dirti che sei tutto quello di cui ho bisogno-

-Resterò con te?- . Mi sembrò di rivedere la luce. Benjamin si mosse.

-Se sarà la tua decisione. Cerca di capire cosa perderai-

Sapeva essere così saggio. O forse a me sembrava saggio quando in realtà era solo riflessivo: Benjamin era così, circospetto verso il mondo, come un gatto, e lo era anche verso di me, soprattutto verso di me. Ero una manifestazione del mondo reale particolarmente energica e speciale che entrava nella sua stramba libertà su cui si fondava tutta la sua esistenza, sconvolgendola. Ero convinta che mi vedesse più o meno così, ed ero altrettanto convinta che non avesse mai cercato nessuno in vita sua: gli ero capitata fra le braccia per caso, lo vedevo da come si rifiutava categoricamente di lasciarmi andare, nonostante i suoi sforzi. Se io avessi scelto Jacob, sapevo che mi avrebbe lasciata libera, perché la sua non era una prigione, nessun laccio mi teneva stretta a lui. Solo dai gesti, dal fatto che mentre mi diceva che dovevo scegliere mi tenesse la mano nella sua, io capivo che inconsciamente mi teneva stretta a sé.

-Stasera io voglio dormire con te-. Percorsi le cicatrici sul suo collo con la punta dell’indice. Io sapevo che lui non aveva bisogno di parole, ma di sensazioni, lo sapevo perché era così anche per me. Sorrise, chiuse gli occhi per un momento.

-Sei la cosa più strana che abbia mai visto-. Si lasciò percorrere pazientemente.

-Perché?- Anche io sorrisi, e mi domandai come riuscissimo a farlo nonostante tutto.

-Hai uno strano modo di comunicare-

-Non lamentarti, mi capisci benissimo-. Passai alle orecchie: mi piaceva la consistenza dei lobi, mi era sempre piaciuta.

-Lo so-. Un altro bacio, sulle labbra. Aveva un modo tutto suo per rassicurarmi.

Andammo a sederci in salotto sul divano, a guardare la pioggia cadere dalle ampie finestre. Provavo un sentimento tutto nuovo, lì ferma, praticamente distesa su di lui, ad ascoltare il suo respiro. Come se non avessi più nient’altro da fare, nessun bisogno da soddisfare. A volte parlavamo, un po’ di tutto in generale: di solito io chiedevo di lui e lui chiedeva di me attraverso strane domande retoriche. Gli piaceva essere interpellato, ma non interrogare. Parlava con attenzione calibrando ogni parola, mi piaceva come cercasse di comunicarmi tutto, al meglio, come se dovesse spiegare a sé stesso, per evitare ogni imprecisione. Disse che mi avrebbe regalato la camicia perché non mi aveva mai visto niente di più bello addosso. Risi e gli risposi che era uno sciatto criminale senza gusto. Spesso ci scambiavamo un bacio, ma io preferivo parlargli nelle orecchie, sotto voce. Di nuovo facemmo l’amore, e mi sentii molto bene e molto a posto. Non mi sentivo più così sperduta, senza un posto tutto mio, perché avevo scoperto dov’era che dovevo stare: non avevo alternative e nemmeno ne sentivo il bisogno. Capivo perfettamente cosa voleva dire Benjamin quando aveva detto che non mi avrebbe mai completata. Non mi poteva offrire un amore magnifico, un archetipo stesso del sentimento, ma solo quello che poteva darmi: solamente stesso. Conosceva i suoi limiti, e sapeva che i suoi difetti non gli avrebbero mai permesso di mettere a posto quelle cose di me che non andavano, fosse la mia divisione, o la mia tendenza alla tragedia, o il complicato rapporto che vivevo con i miei parenti. Eppure a me bastava solo lui, e nient’altro. Sarebbe stato un compagno di viaggio, e non una guida. Da sempre avevo pensato che fosse una guida quella che dovevo cercare. E invece avevo solamente bisogno di qualcuno che mi prendesse per mano e mi accompagnasse. La strada che percorrevo, però, era tutta mia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Nescio quid ***


30

Ciao!Scusate se ci metto davvero troppo ad aggiornare, ma mi sto dedicando alla…raccolta delle cipolle XD. Che si fa per guadagnarsi la pagnotta, oggigiorno! Quindi sono troppo indietro, perdonatemi, ma anche io detesto il fatto di non poter scrivere come vorrei. Prima di iniziare il nuovo capitolo (che fra l’altro è l’ultimo del momentaneo idillio che sta andando avanti da un mese). Una precisazione: non sono di Milano, ma magari se qualcuno che legge lo è, potrebbe dirmi se ha mai provato la mia stessa sensazione. Non so perché ma è capitato che la facessi pronunciare a Benjamin. Ok, dopo l’inutile sproloquio non posso che augurarvi buona lettura e ringraziarvi del tempo che dedicate a questa storia. Siete fantastici J

Deniroose: Ciao! Addirittura l’onore?? Mi verranno delle ansie da prestazione, questo è troppo, davvero! Seriamente, mi fa moltissimo piacere che la storia ti prenda tanto, e soprattutto mi fa piacere che tu me lo abbia voluto dire lasciando un commento (per chi non l’avesse capito: I <3 COMMENTI). E anche io avevo pensato a far fuggire Nessie, e tanti saluti alla cosca dei Cullen…però va be, un po’ di sani casini ci vogliono sempre, perciò vedremo un po’ come va a finire…a presto, un bacione!

Isabella 19892: Ciao Simo!! Lo aspettavo troppo il tuo commento, mi stavo insospettendo (ti ho pensata sbracata su una spiaggia tropicale che sorseggi un cocktail nella noce di cocco, con l’ombrellino e tutto, mentre io aspettavo il commento sotto la cappa di afa XD).  Spero davvero i riuscire a sorprenderti ancora, anche perché ho fatto due conti e per finire diciamo che ci metterò…un’altra ventina di capitoli? *.* Oddio mi verranno i capelli bianchi prima di piazzare assieme sti due. Comunque come al solito hai capito tutto quanto il contesto, anche se però non capisco come mai pensavi che dopo il fattaccio (avercene) ci sarebbe stato un po’ più di imbarazzo. Ci ho pensato anche io ma non ci arrivo (perdona, ma a forza di passare le giornate a raccogliere cipolle arrivo a sera che sono un po’ confusa). Il discorso della coppia, , è proprio quello che volevo far capire. Insomma, non intendo fare altri colpi di scena o ribaltoni particolari,l al riguardo, perciò meglio mettere le carte in tavola: Renesmee e Benjamin staranno insieme, e stop. Insomma, è la classica coppia letteraria, statica e inderogabile, e (ma porca vacca) ieraticamente legata all’immaginazione. Aaa, sano sproloquio. A presto Simo, un bacio grosso! J

Red_apple: Ciao! Eeehm, direi che non ho prestato fede alla promessa :s. sono un disastro, scusami. Anche perché prima del confronto Jacob - Benjamin, credo che passerà mooolto tempo, visto che passerò tutto agosto in Inghilterra. Abbi fede e prima o poi lo posterò! Grazie mille per i complimenti, sei stata gentilissima J Un bacione

Sily85: …E io penso di aver esaurito le parole per ringraziare! Se tutti i tuoi deliri sono così, fai pure che io ascolto e mi “gongolo” un casino ;). Davvero grazie mille, addirittura la citazione, sei troppo gentile. E seriamente non so più come dirti grazie, posso solo ripeterti che spero di non deluderti e di riuscire ancora a coinvolgerti tanto. A presto, un bacione!!

Silvia15: Ciao! Benjamin santo subito! Altro che padre Pio, quello sì che sarebbe un santo a cui votarsi sul serio! Credo che sia lui il motivo principale per tante recensioni, se proprio devo confessartelo…ma se il fine giustifica i mezzi, credo proprio che sfrutterò ancora il carissimo Ben *.* Un bacio, a presto!

Vasq:Ciao! Rispondo con poche parole: leggi il capitolo ;) muahahahah ( e spero che il pezzo che intendo io sia davvero nel capitolo! XD) Un bacione!

Thsere: Ciao! Triste?? Stai scherzando, spero: cioè, si parla di INGHILTERRA, gioia e gaudio e tripudio infinito! Io non vedo l’ora di partire, anche se c’è la suina (ahahah mi ci faccio una porchetta io, della suina!). che sex machine, mamma mia…prima o poi devo tornare a descrivere le loro mirabolanti imprese d letto, promesso ;) Così magari mi sari più fedele che mai! XD Un bacio e a presto, e buon viaggio!

 

 

Era pomeriggio, dovevo tornare a casa. Ci eravamo messi seduti su una grande poltrona davanti alla finestra e osservavamo le cose muoversi, in generale. Il concetto stesso del tempo che passava. Noi ce ne restavamo lì seduti, immutati, immobili. Non mi ero mai sentita tanto immobile come in quel momento, come se avessi vissuto una vita scossa dal vento e solo allora avessi l’occasione di fermarmi. A volte ci parlavamo, ma nemmeno tanto spesso, perché altrimenti mi sarei sentita meno immobile.

-Sei mai stata a Milano?-. aveva uno strano modo calmo di parlare. Che bella voce che aveva.

-No, perché?-

-Quando ci vado, ho la stessa sensazione di adesso-

-Cioè?-

-Che tutto tranne me stia scorrendo via-

-E’ una strana sensazione-

-L’avevi mai provata?-. Chinò il suo viso verso il mio, cercando il mio sguardo. Ero convinta che lo cercasse per il solo gusto di trovarlo.

-No, mai-

-E’ proprio una sensazione molto strana. Ma oggi non mi sento morto-

-Nemmeno io- Appoggiai con delicatezza la mia fronte alla sua, i miei capelli scivolarono tra di noi. Non volevo tornare a casa, non volevo tornare nel mondo. Avevo tutto ciò di cui avevo bisogno, e non valeva di certo la pena allontanarsi. Adoravo quella casa, nemmeno lei cambiava, era immobile come noi, con noi. Sentii che scosse la testa leggermente, sorrise.

-Tu non sei morta-

-Sono nata. Per il resto non saprei-

-Sei una strana, stranissima cosina viva che pensa di essere morta-

-Mi hanno fatta così-. Forse ero un po’ offesa. Ma non ci feci caso, perché pensavo soltanto a trovare dentro di me la forza per alzarmi, per smettere di tenerlo stretto a me e per uscire da quella casa meravigliosa per uscire e uccidere Jacob. Non volevo fargli del male, volevo restare per sempre in quella casa, seduta con Benjamin a vedere come le cose cambiassero, e a fare l’amore con lui e a mangiare i suoi corn flakes. Mi andava benissimo così.

-Benjamin, tu vorresti essere morto?-

Era proprio una domanda idiota. Avrei potuto perlomeno girarci attorno un po’. Aggrottò un po’ la fronte, ci pensò su.

-Ora direi di no-

-E prima?-

-Prima direi che non ci avevo mai pensato più di tanto. In linea generale forse avrei preferito morire, ma non sempre-

-Perché?-

-A volte mi sentivo molto potente. Quando sono morto ero un idiota-

Sorrisi: aveva una percezione di sé un po’ sballata, ma lo capivo. Ce l’avevo anche io l’impressione di convivere con diverse persone all’interno dello stesso corpo.

-A me fa un po’ paura l’idea di non avere nessun limite davanti a me-

-Sei molto saggia-

-Sono molto umana. Credo di essere più umana di mia madre prima che si trasformasse- Mi uscì una risata nervosa e spiacevole, Benjamin mi diede un bacio sulle labbra, premendo leggermente sul labbro inferiore.

-Vorresti essere umana?- inarcò il sopracciglio, dubbioso. Inarcava il sopracciglio anche quando era all’erta, ora lo sapevo.

-Sì. Ma adesso non ci penserò mai più- Mi aggrappai con le dita alla sua maglietta, mi strinse a sé. Vivere per sempre o morire in quell’abbraccio sarebbe stato per me in ogni caso il destino migliore. Benjamin era molto caro a non ricordarmi che dovevo andare a fare quello che avevo promesso.

Posai i polpastrelli delle mie dita sul suo viso, appena appoggiati alla sua pelle, e mi scostai dall’abbraccio. Mi guardò incuriosito e sospettoso, aggrottando la sua magnifica fronte e corrugando leggermente le sopracciglia scure. Sorrisi, mi tremavano le mani: non ci avevo pensato per niente, mi era solamente venuta una terribile voglia di farlo, di usare la mia capacità. Non avevo quasi mai più usato il mio inutile potere, dopo la mia infanzia, da quando avevo cominciato a parlare come tutti. Non ne avevo più sentito il bisogno, e avevo quasi dimenticato di possederlo. Ma in quel momento il mio mi sembrò il più bel dono che mi sarebbe mai potuto capitare. Esattamente, precisamente ciò di cui sentivo il bisogno. Mi concentrai, cercai di creare ordine nella mia mente e soprattutto di smettere di tremare. Il pensiero che stessi per entrare nella sua mente mi turbava. Mentre gli mostravo, la stanza era piena di silenzio lieve e delicato, come se fossimo in una distesa di neve. Non sapevo perché, ma quando ero con lui avevo sempre la sensazione di essere nella neve. Benjamin dischiuse un poco le labbra, mentre sentiva i miei pensieri fluire dentro di lui. Sembrava un po’ allucinato, con i capelli in disordine e lo sguardo sperduto, perso nel vuoto. Mi divertiva molto, ma cercai di concentrarmi, perché i miei pensieri mantenessero la stessa bruciante intensità che potevo sentire io. Scostai  le punte delle dita dal suo viso molto lentamente, e le feci scivolare tra le sue mani. Continuava a fissare qualcosa di lontano alle mie spalle, con poca convinzione. Quando finalmente mi guardò negli occhi, le sue iridi scure erano un vortice particolarmente violento e magnifico. Deglutì.

-Che cos’hai fatto?-

-Posso mostrare i miei pensieri- Sorrisi incerta, non sapevo se dovessi andarne particolarmente fiera o meno. anche lui sembrava un po’ confuso. C’era ancora un silenzio molto lieve e molto gradevole.

-E cosa mi hai mostrato?-

-Cosa vedo nei tuoi occhi-

Di nuovo deglutì, fece cadere lo sguardo. Non mi spaventai: capii che era la sua giusta reazione. Niente di lui mi era sconosciuto.

-Mi piace molto guardare nei tuoi occhi- Gli accarezzavo la mano, e anche io avevo posato lo sguardo.

-Io preferisco guardare quando ti muovi- Alzai lo sguardo e vidi che aveva assunto quella strana espressione infantile, tutta sua.

-Perché?- Sorrisi: mi sembrava che un giorno, molto tempo prima, o forse solo pochi giorni prima, mi avesse detto che gli sembravo piuttosto sgraziata. Anche lui forse se ne ricordò, perché rispose subito e velocemente, come per insabbiare tutto.

-Quando ti muovi, sembra che tu non sia abituata a spostarti in questo mondo. Sembri una specie di astronauta-. Mi guardò di sbieco, calcolando con precisione il paragone. Gli sembrava proprio appropriato. Pensai che se stava dando tanti giudizi su di me era solo perché ci aveva pensato molto, molto a lungo. Benjamin non era il genere di persona capace di agire inconsapevolmente. Era un calcolatore, ma la sua freddezza non mi infastidiva, perché sapevo che non era per me.

-E a te piace?-

-Mi piace l’idea che tu non riesca ad abituarti a stare qui. E’ un gran brutto posto il mondo, se sei solo-

-Ma noi non siamo soli-

Mi osservò, e i suoi occhi grandi e sinceri diventarono un po’ più tristi, e io mi preoccupai perché non riuscivo a capire come potessi averlo ferito. Pensai anche che probabilmente nessuno si era mai preoccupato molto di ferirlo o meno. mi diede un bacio sulla fronte, e a quel punto non sapevo più che cosa pensare.

-Pensi davvero che ora non sarai più sola?-

-Credo di sì-

-Non sarà così. Saremo meno smarriti-. Capii cosa intendeva dire, e non ci rimasi per niente male. Ero una ragazzina molto ottimista e molto egoista, ma Benjamin avrebbe saputo capire.

-Su questa stessa vecchia terra-. Forse sospirai, ma il ricordo andò perduto negli occhi neri di Benjamin, e tra le note della sua voce scura.-Non ho intenzione di trovare niente, a parte me e te-

-Nemmeno se cercassimo per tutta la vita-. La sua voce era il soffio fresco sulla mia pelle.

-Vorrei poter essere completamente felice-

-Non ti accorgeresti nemmeno di esserlo-. Benjamin mi sorrise, amaro.

-Allora voglio essere un po’ felice con te. E voglio dormire con te accanto. Starai con me mentre dormo?-

-Fino a che tu lo vorrai-

-Ti prometto che non cambierò, anche se sono ancora umana. Promettimi che se io cambiassi te ne andrai-

-Perché dovrei?- Inarcò un sopracciglio, sorpreso e allarmato. Si guardava attorno, in cerca del pericolo. Era così selvatico, a volte.

-Se te andassi, capirei che ti devo seguire-

-Me ne ricorderò-. Mi sorrise, in risposta alla mia serietà: davvero avevo paura di cambiare, e davvero temevo che mi stesse dando più fiducia, più importanza di quanto fosse giusto dare a una creature incostante e mutevole come me. –Ma non ne avrò bisogno-

-Sei molto sicuro-. Mi sentivo in imbarazzo, non volevo deluderlo. Spostai lo sguardo altrove. Sentii che percorreva la curva del mio collo con baci lenti e delicati. Chiusi gli occhi.

-Sono sicuro di te-

-Perché?-

-Fai troppe domande-. Un bacio sulle labbra, sfiorandomi appena. Era più che altro l’emozione del suo profumo. Ma continuò –Ti sei fidata di me, e io adesso mi devo occupare di te-

Era un calcolatore così adorabile che gli avrei perdonato qualsiasi logica. Aveva il viso appoggiato nella cavità tra il collo e la spalla. Quando di nuovo parlò sentii le sue labbra disegnare strani contorni astratti sulla mia pelle.

-Come puoi vedere tutte quelle…cose, nei miei occhi?- Era un po’ imbarazzato, come se la domanda fosse troppo sgradevole per essere posta senza vergogna. Gli sorrisi.

-E’ solo quello che c’è-

-Non credo proprio, ma mi piace che tu lo pensi-

-Sei noioso e pessimista-. Sbuffò un po’, ci ridemmo su.

-Non ci sono abituato, a queste cose-

-Ma per piacere-

-Vuoi sapere una cosa?- Si alzò leggermente, lo seguii nel movimento: mi guardava con serietà e interesse, cercando di capire se fossi pronta o no a starlo a sentire. Era un po’ scuro in viso, aveva dei cambiamenti d’umore molto veloci e molto sottili.

-Ti ascolto-

-Sai perché ho deciso di portarti qui?-. Conoscevo bene tutte le implicazioni della cosa, e intendeva dire prendermi con sé. Non lo interruppi. –Perché mi sono reso conto che non avrei mai capito il motivo per cui il mio unico desiderio è stare con te. Ho capito che non c’era proprio niente da capire. E ho capito che se ti avessi voltato le spalle mi avresti perseguitato, e non ci sarebbe stato altro spazio che per te, in ogni caso-. Terminò il suo breve discorso molto soddisfatto, guardandomi fiero e tranquillo, di sbieco. Senza volerlo, ero rimasta a bocca aperta. Non era la sua bellezza agghiacciante a colpirmi, avevo sempre vissuto in un mondo di esseri perfetti e incredibili, ma il suo strano portamento solenne e allo stesso tempo disinvolto. Sorrise inarcando di poco l’angolo della bocca, sempre guardandomi di sottecchi. L’impressione che mi faceva lo intimoriva un po’.

-Io non credo di capirle bene, queste cose-. Mi grattai un po’ la testa, avevo tanti nodi nei capelli.

-E allora lasciamole stare- Si strinse un po’ nelle spalle, e mi guardò, comprensivo.

Era così facile averlo al mio fianco.

-Devo andare- Mi passai una mano sul viso, mi sentivo molto stupida e molto maleducata a porre fine al momento. Il tempo non avrebbe più potuto scorrere tranquillamente e noi non avremmo più potuto rimanere immobili. Mi tolse la mano dal viso con un gesto veloce e invisibile e mi diede un bacio. per ora, sentivo che era l’ultimo. Ci alzammo, e mi costò molta fatica. Come se fossi coperta di piombo. Ci rivestimmo in silenzio, mentre io pensavo a cosa dovevo fare. la mia mente era una superficie liscia e infinita, senza alcun punto di riferimento, senza alcuna memoria. Benjamin mi osservava con discrezione, educato, seduto sul divano. A dire la verità se ne stava un po’ sbracato, con le braccia conserte dietro la testa e i capelli in disordine. Volevo ballare un po’, sulle note di uno studio di Chopin. O di qualche canzone anni sessanta.

Pensai che non ce l’avrei mai fatta a ritornare  casa, e pensai anche che dovevo parlare prima con qualcuno. Qualcuno che mi capisse, o perlomeno che cercasse di farlo.  Feci scorrere velocemente l’immagine mentale di chi avrei potuto cercare, e decisi che avrei telefonato a Jasper. Dovevo assolutamente parlargli. Era l’unico che non fosse troppo coinvolto nelle faccende della famiglia, l’unico in grado di essere abbastanza cinico da sapermi dare un consiglio ragionevole. Tutti gli altri sarebbero stati viziati da opinioni personali, preferenze, pregiudizi e paure.

-Voglio parlare con Jasper-

-Perché?- Sembrò un po’ allarmato, e mi ricordai di tutti i suoi segreti. Ma chissenefrega.

-Per capire cosa devo fare-

Andai a sedermi al suo fianco, e pregai che mi rimanesse la forza per andarmene e fare il mio dovere. Estrassi il cellulare, e mi venne in mente la scusa giusta per fare uscire mio zio di casa senza che attirassi alcun sospetto: quella mattina non avevo preso la macchina, e poi me ne ero andata con Amy e Teresa, qualcuno avrebbe pur dovuto venire a prendermi. Composi il numero e aspettai che rispondesse, al secondo squillo. Mi sembrò che Ben avesse smesso di respirare.

-Nes?- Mi schiarii l voce, volevo essere molto convincente.

-Ciao Jazz. Per favore, mi passeresti  prendere?-. Sentii una specie di risata.

-Certo, dove sei?-. Esitai un secondo.

-Facciamo che vengo io davanti a scuola, ok?-

-Sì. C’è qualcosa che non va?- Nella mia mente imprecai, Benjamin si voltò, insospettito.

-No, niente, davvero-

-Ok. Arrivo tra poco-

Chiuse la conversazione con uno strano tono un po’ duro: sapevo che aveva capito qualcosa, speravo solo che non ci pensasse troppo, non volevo testimoni. Mi alzai e presi il mio giubbotto, che era rimasto per terra, dietro al divano.

-Mi porteresti a scuola?- 

Benjamin mi osservava interessato, seduto stravaccato esattamente come prima, con le labbra leggermente dischiuse. Chissà se capiva di essere non solo così bello, ma anche così innocentemente seducente. Sembrava non lo facesse apposta, perché era ancora più meraviglioso quando era distratto. O forse sembrava così a me. Si ridestò quando si accorse che ero rimasta a guardarlo. Ci osservammo, immobili, e sapevo che anche lui stava facendo le sue considerazioni: era bello non dovergli per forza sorridere.

-Mi fai vedere come balli?-. Arricciai il labbro superiore: potevo vedere che in quel momento Benjamin sapeva benissimo che avrebbe potuto costringermi a fare di tutto. Aveva un mezzo sorriso sulle labbra piene, che sembrava promettere chissà cosa. Sentii un’ondata di quella antica irritazione che avevo provato all’inizio nei suoi confronti, la paura di non poterlo raggiungere.

Non volevo ballare di fronte a lui. Facevo troppi errori e cadevo in troppe imprecisioni, a volte impercettibili, ma orrende. Detestavo non saper ballare come avrei voluto. Rosalie era stata una maestra eccezionale, e avevo superato la sua tecnica in poco tempo, ero naturalmente portata per la danza, con grande sorpresa di mia madre. Ma ad un certo punto, per quanto mi allenassi, per quanto cercassi di affinare la mia tecnica, il mio livello non avanzava. Mi dedicavo con passione e rigore, ma non ero riuscita a raggiungere il mio obiettivo. Volevo essere assolutamente perfetta, almeno in una cosa non volevo cadere in nessun errore. Avrei voluto che la mia danza fosse una fluida rappresentazione di una melodia. Ma non ci ero riuscita. Mi imbarazzava il solo pensiero di dovermi esibire di fronte a Benjamin. Ormai da tempo avevo proibito ai miei parenti di venirmi a vedere mentre danzavo.

-Portami a scuola, per favore-. Mi misi rapidamente la giacca, parlai piano e molto velocemente. Rimase un po’ interdetto dalla mia reazione. Forse intese che ero arrabbiata, perché inarcò un sopracciglio, dubbioso, piagando la testa di lato, come se avessi appena detto qualcosa di incomprensibile.

-Che c’è?- Appoggiò le braccia sulle ginocchia e si fece avanti, curioso. Esitai.

-No, è che…preferirei non mi vedessi ballare-

-E, se non ti inquieta troppo, mi diresti il motivo?- Capivo che prendeva un po’ per il culo, ma lasciavo correre. Sia perché adoravo quella faccia da idiota, sia perché mi rendevo conto di essere ridicola. Cercai di non guardare troppo nei suoi occhi cupi. Optai per la verità, solo un po’ edulcorata.

-Non mi sento pronta, diciamo-. Rise di me, con molto garbo.

-Hai paura di non essere abbastanza brava?-. il suo tono era sempre più sicuro, e trionfante. Rimasi zitta, ero tutta rossa, dalle dita dei piedi alle punte dei capelli, nel vero senso della parola. Non gli sfuggì nemmeno questo: di nuovo piegò la testa di lato, interessato. – Sei dello stesso colore dei tuoi capelli. No aspetta, adesso sei quasi più scura dei tuoi capelli-. Seguiva gli sbalzi termici del mio corpo con interesse scientifico. Non sapevo che dire. Mi aveva distratta, merda: ero molto concentrata prima che mi si avvicinasse così. Mi ritrovai a percorrere il profilo del suo collo, seguendo le tracce luminescenti delle antiche cicatrici, senza nemmeno volerlo.

-Non mi hai detto come ti sei fatto questo- Ero ancora assorta, lo vedevo un po’ di sfuggita. C’erano davvero tante cicatrici. Eppure mi sembrò di vedere la sua espressione indurirsi di colpo, molto chiaramente. Me ne stupii.

-Ok, è ora di portarti fuori di qui- La metteva sul ridere: si alzò e andò verso la porta, sicuro. Quasi non me ne accorsi mentre tornava indietro e mi prendeva sulle spalle. Presi uno spavento e cacciai un urlo, mentre lui rideva soddisfatto, sentivo le sue spalle muoversi al ritmo dolce della sua risata. Ci ritrovammo intenti in una specie di lotta molto poco seria in cui io cercavo di liberarmi dalla sua stretta facendolo cadere, un po’ tirandogli i capelli e un po’ mordicchiando qui e là, dove potevo. Ogni mio tentativo gli provocava un eccesso di risa stupefacente, ero scioccata. Però dovevo ammettere che anche io mi stavo divertendo come una scema. Quando riuscii a buttarlo per terra mi uscì una specie di ringhio soffocato, sembrava un gatto bagnato, e ovviamente lui non perse occasione per sfottermi, e ne fece un’imitazione perfetta. Non riuscivo a smetterla di ridere, soprattutto se guardavo Benjamin, disteso sul pavimento, con una mano sul viso, che sussultava dalle risate. Forse era solo una stupida reazione isterica di una stupida coppia di stupidi stronzi, ma non ci potevo fare niente se stavo bene così. E poi mi piaceva tantissimo il suono della sua risata, era incredibilmente musicale. Nemmeno quando rideva perdeva quella sua strana aria di contegno naturale. Quando la piantammo di ridere, ci ricordammo improvvisamente che probabilmente mio zio mi stava già aspettando davanti a scuola, e addio propositi di segretezza. Non me ne importava molto, tanto gliene avrei parlato. Quando uscimmo di casa sentii quasi un dolore fisico, una nostalgia forte e smisurata. Ero anche un po’ agitata, parecchio agitata. Benjamin mi passò il casco, salì sulla moto, e si voltò verso di me. Era malinconico, scuro in volto, come quando mi aveva trovata alla fermata dell’autobus, quella mattina. Sembrava fosse passato un secolo, sembrava che non potesse più essere infelice. Anche io sentivo la stessa maschera di angoscia sul mio volto.

-Sei sicura?-

Annuii, dandomi forza. Sapeva di cosa parlavo.

Perdonami Jacob, non era mia intenzione. Io questo non lo avevo calcolato: come tu non avevi calcolato me, io non avevo calcolato lui. Perdonami.

Benjamin mi sorrise, ma era solo una bieca deformazione della sua espressione grave, e non mi diedi neanche la pena di rispondergli. Volevo tornare sul pavimento a ridere e a mordicchiargli le guance. Montai in sella senza che me lo chiedesse, e partimmo, abbastanza velocemente. Mi piaceva farmi portare in moto da Benjamin, avrei anche potuto lasciare la Mini ad arrugginire in garage. Posai la testa sulla sua schiena, sentivo il suo respiro, l’aria assorbita dai suoi polmoni. Sentii la sua voce rimbombare nella cassa toracica, era ancora più profonda e scura del solito.

-Mi dispiace Nessy-

-Di cosa?- Ero indignata, ma non avevo voglia di prendermi il disturbo di staccare la testa dalla sua schiena, ci stavo così bene.

-Che tu debba fare tutto questo-

-Non ne sei felice?-

-Felice no. Ma sinceramente voglio che sia così-

-E perché non ne sei felice?- Chiusi gli occhi: sembrava che la sua voce fosse tutta attorno a me.

-Renesmee, io non so se l’ho capita bene questa storia dell’imprinting. Ma sembra complicata. E ci sono altre complicazioni che devo…raccontarti-

-Quali complicazioni?- Sentii il mio respiro farsi improvvisamente affannoso, mi strinsi a lui, come se qualcuno potesse strapparmi di lì da un momento all’altro. Lui continuò il discorso, ignorando la mia reazione.

-E mi dispiace che tu debba affrontare tutto questo. E vorrei che tu ancora una volta mi dicessi che ne sei sicura-. Sembrava che ci avesse pensato parecchio, a quello che stava dicendo.

-Giuro. Ti giuro che sono sicura- Parlai pianissimo, ma mi sentì. Non sembrava molto più rilassato di prima. Restammo in silenzio, e io non riuscivo a ripensare a prima, a tutti i momenti in casa sua. Il solo pensiero del contatto con lui mi dava i brividi.

-Hai freddo?- chiese, preoccupato.

-No, sto bene-

-Tremi- Era una semplice constatazione, decisi di non aggiungere altro.

Arrivammo troppo presto dove mi aspettava Jasper, e davvero c’era già. Era come svegliarsi da un sogno particolarmente vivido, una mattina d’inverno. Un sogno caldo e accogliente e perfetto, per essere poi catapultati nel freddo glaciale della realtà. Jasper ci vide arrivare, e riconobbe il mio compagno, mi sembrò di vederlo con chiarezza fare un balzo sul sedile della Porsche. In altre circostanze , avrei potuto riderci sopra.Benjamin spense la moto, mi tolsi il casco e mi preparai a scendere. Era ancora più difficile del previsto: sentii mille dubbi mal celati nascere dentro di me, prepotenti, seppur cercassi di arginarli, proprio come avevo fatto fin’ora. Quando avrei rivisto Benjamin? Cosa potevo dire a Jacob? Come potevo anche solamente guardarlo in faccia per un momento? Che avrei detto ai miei, che mi avevano sempre intimato di lasciar perdere Benjamin? Cosa avrei detto a Jasper?

-Ho il tuo numero- Benjamin interruppe i miei pensieri, e mi accorsi che di nuovo stavo tremando. Stavolta di ansia, e di paura. Mi fissava intensamente, di sbieco, gli occhi neri illuminati d un bagliore deciso, penetrante. Come se nessuno potesse smuoverlo dai suoi intenti. Non mi venne nemmeno in mente di chiedergli come avesse fatto ad averlo. Solo presi il suo viso tra le mie mani e lo baciai. Le sue labbra seguivano le mie a un ritmo frenetico, che tradiva la sua inquietudine.

-Stasera- Mi ricordò la mia promessa, con una singolare intensità nella voce, concitata, nervosa, una preghiera implicita e oscena. Benjamin ancora aveva dei problemi ad abituarsi all’idea di avere bisogno di me. Bisogno per vivere. Le nostre labbra erano quasi ancora unite.

-Stasera-. Cercai con tutte le mie forze di non piangere, perché quella promessa era bellissima e terribile. Voleva dire molte cose meravigliose, e molte assurde sofferenze. Lo sapevamo benissimo entrambi. Le nostra mani si lasciarono molto lentamente, presi un respiro profondo e diedi le spalle a Benjamin.

Attraversai la strada facendomi quasi investire da un furgone, arrivai davanti alla macchina, e incontrai lo sguardo indecifrabile di Jasper. La portiera era già aperta. Mi lanciai nell’abitacolo, senza il coraggio di guardarlo in faccia.

-Andiamo-. Guardavo fuori dal finestrino.

-A casa?-. Ricordai perché avevo scelto proprio Jasper. Sapevo che avrebbe capito.

-No. A mangiare. Jasper, devo dirti una cosa-

-Già-

Sentivo che non mi stava osservando, per fortuna. Lo dovevo ringraziare davvero, alla fine di tutto. La macchina si mosse e cercai di spegnermi, almeno un secondo ancora.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** La situazione non è nuova ***


31

Carissimi individui che ancora avete voglia di buttare un po’ di tempo a leggere la produzione piuttosto scrausa di una ritardataria cronica (due mesi…un sesto di anno, è un record personale anche per me, ma se vi può far sentire meglio, devo restituire tre libri alla biblioteca del mio orribile paesello da tipo due anni e mezzo. Sono una specie di succube dei fondi provinciali alla cultura, mea culpa), buonasera. Purtroppo causa: a)meravigliosa vacanza da un mese in Inghilterra, Paese notevolissimo, civilissimo, bellissimo, con dei rossi stupendi b) vacanza in Grecia per dieci giorni (consiglio a tutti di visitare Delfi, l’acropoli di Atene, i resti di Micene e il tempio di Poseidone a Capo Sounio, una volta nella vita) e infine c) depressione da inizio scuola e fine vacanze, con conseguente blocco della scrittrice scrausa (per quello che scrivo potrei anche darmi una mossa e non farmi tanti problemi), non ho più potuto aggiornare. E adesso, a causa del bisogno fisico di guardarmi “into the wild”, non posso nemmeno rispondere ai vostri bellissimi e come al solito gentilissimi commenti, perché se rispondo lo voglio fare per bene, evitando di liquidarvi con due righe, visto che tengo tantissimo alla vostra opinione. Il capitolo 32 è già pronto e lo metterò domani, e risponderò anche ai commenti vecchi (con allegate foto dei baldi giovani che mi ispirano quel figo di Benjamin ;) ok Ale? ). Bene, riprendiamo da dove li avevamo lasciati.

Un bacio a tutti, mi siete mancati J

Giuls

 

 

 

 

 

 

Mangiavo la mia chimichanga sulla macchina, i finestrini mezzo abbassati. Mi ero voluta fermare al messicano: mangiavo lentamente, perché le domande, e le spiegazioni, sarebbero venute fuori solo una volta che avessi finito. Jasper sembrava più preoccupato che sconvolto, e la vocazione al pragmatismo mi avrebbe sicuramente mi avrebbe aiutata ad evitare di pensare a certe altre cose.

Molto più importanti, e molto più dolorose. Per il momento mangiavo la mia chimichanga super imbottita cercando di non sporcare la macchina, e basta. Mi sforzavo di non fare caso a Jasper, che mi studiava senza alcun riguardo. Mi colse di sorpresa quando mi rivolse la parola. Eravamo fermi nel parcheggio semi vuoto di un piccolo centro commerciale, vedevo le macchine sfrecciare sulla statale lì accanto.

-E così…Benjamin, eh?-

Feci cenno di sì, lentamente.

-Non capisco- scosse la testa, lo sguardo più assente. Ragionava per conto suo e io non centravo molto. Stavo per finire la chimichanga.

-Nemmeno io, ma è così-. Mi strinsi nelle spalle, e capii che Jasper stava facendo qualcosa per farmi stare meglio. Non sentivo più il bisogno di mettermi a urlare, lo squarcio era sopportabile. Mi zio mi sorrise. Sicuramente la mia famiglia era atipica, ogni livello della parentela era sfasato dall’età, dai ruoli e dalle personalità. Ma era in momenti come quelli che capivo fino in fondo quanto loro fossero lì per me, ed ero sopraffatta dall’emozione.

-Sei innamorata?-. Non mi sembrava innervosito, come pensavo prima, ma solo parecchio stupito.

-Sì- Era molto facile ammetterlo con lui, perché sapevo che in ogni caso lo aveva già un po’ sentito.

-Mh-

Ci stava pensando su, era parecchio riflessivo. Nel frattempo finii la chimichanga con calma.

-Quindi, volevi che lo sapessi io, giusto?-

-Chiaro-

-Mh-

Altra pausa, un po’ più breve.

-Vuoi raccontarmi?- Era facile scambiarlo per la voce della mia coscienza: si mimetizzava con la tappezzeria dell’auto, acquattato e tranquillo, e la sua strana esortazione inespressa mi spingeva a parlare. Semplice e indolore, per niente subdolo se si considerava che ero io ad aver ricercato la situazione.

-Oggi ho fatto l’amore con Benjamin-

-Mh-. Un po’ lo spiazzai, ma non più del previsto. Dopotutto, aveva ragione lui: quelle non erano cose che si addicevano alla piccola Renesmee. Si guardò attorno evitando accuratamente il mio sguardo.

-E credo che in qualche modo noi ora siamo, come potrei spiegare…-

-Una coppia?-, disse giungendomi in aiuto, con un’espressione sospettosa e incredula dipinta sul volto.

-Non ne sono sicura ma credo di sì. Quando uno dei due ti propone di passare la vita con l’altro è una coppia?-. Non era sarcasmo, è che ero sinceramente bisognosa di conferme.

-Generalmente sì, credo. Se l’altro è d’accordo, ovviamente.-

-Bè, diciamo che è successo questo-

-Mh. Interessante-

Gli lasciai il suo tempo per pensarci su, e vidi che era abbastanza lucido, e ringraziai il cielo per la sua freddezza. Ormai non pioveva più da un pezzo, ma era rimasta una tale umidità che il vetro dell’auto si stava appannando per conto suo. Che schifo.

-Nessy, ti rendi conto che sei in una gran brutta situazione?-

 Il responso era arrivato anche prima del previsto.

-Lo so-. Tenni gli occhi bassi, come quando da bambina venivo rimproverata, e ammettevo di avere torto.

-E ci sono anche altre problematiche che dovremmo analizzare…-

-Che problematiche?-

-…tutti insieme-

Mi guardò con una certa durezza, con l’autorità che solo la responsabilità poteva conferirgli. Decisi di starmene un po’ zitta, per una buona volta. Dopotutto mi serviva un consiglio, era meglio lasciarlo parlare.

-Ma in ogni caso, credimi Ness: non penso che tu abbia sbagliato-

-Davvero?- Stupefacente.

-Ti capisco-. Riuscì anche a sorridermi, ne rimasi sorpresa. Era sicuramente il mio zio preferito. Mi ero divertita troppo quando mi aveva insegnato ad andare in moto. Si era divertito anche lui.

-E come fai, scusa?-

-L’amore è importante- si strinse nelle spalle –E se sei legato a una persona, non c’è ragione che tenga-. Mi guardò di sbieco –Non hai molta scelta, se ami veramente-.

Mi uscì una risatina nervosa, l’educazione sentimentale di Jasper sembrava un riassunto di appunti universitari degli anni sessanta. Ci rimase un po’ male.

-Cos’è, non ti fidi?-

-Ma no, certo che mi fido-

-E tutti ti direbbero queste stesse cose, se potessero-

-Perché non possono, giusto?-

-Torniamo a casa e parliamone-

Ero molto tranquilla, e non solo grazie alla sua capacità: naturalmente riusciva a farmi sentire più tranquilla, era molto rassicurante il suo approccio sicuro, pratico e riflessivo. O almeno lo era per me.

-Jazz, davvero tu non credi che io sia una…una stronza?- Non sapevo bene come classificarmi,  quel punto. Scoppiò a ridere.

-Forse un po’. Ma è l’amore, cosa ci vuoi fare-

-Jacob non reagirà così, vero?-

-No- Continuò ad essere molto tranquillo e molto pacato.

-Vorrei che lo facesse. Ma vorrei anche che mi prendesse a schiaffi-

-Comprensibile-, ci penso un po’ su, tamburellando le dita sul volante. – Se la passassi liscia non sarebbe giusto. Sei una persona molto onesta, Renesmee, quando ti ci metti.-

-E’ un complimento?-

-Prendila così-

Mi resi conto che avevo uno strano tono di voce: biascicavo velocemente parole che solo una piccola parte del mio cervello elaborava. Era una strana sensazione asfissiante, sentivo l’aria troppo pesante. Non mi sembrava che l’aria fosse così pesante, mentre ero con Benjamin. Forse Benjamin era così strabiliante da farmi respirare ossigeno puro. Era un ragionamento idiota ma l’aria che respiravo in quel momento mi sembrava troppo grezza per essere la stessa di un’ora prima.

-Cosa stai provando?-. interruppe i miei pensieri, mi voltai e notai che si era un po’ rabbuiato. Confondersi lo infastidiva terribilmente.

-Non so cosa, di preciso-, ammisi.

-A cosa pensavi?-, mi sembrava un po’ più curioso e un po’ meno scoraggiato: perlomeno, se non capiva era perché non capivo nemmeno io.

-A quanto è pesante l’aria-

-Non ci avevo mai fatto caso-

-Io ci ho fatto caso adesso. Prima mi sembrava più leggera-

-Prima quando?-

-Con Benjamin-

Era bello parlare. Jasper non era esattamente quella che si chiama “migliore amica”, ma taceva e ascoltava. E non giudicava. Non avevo paura se non venivo giudicata.

-E’ come respirare la prima volta-.

Rimasi un po’interdetta, la gente doveva piantarla subito di togliermi le parole di bocca. Era esattamente, precisamente, la sensazione che non riuscivo a cogliere.

-Come lo sai?- Sapevo che dovevo avere un’espressione poco intelligente, in quel momento. Sorrise e mi rivolse uno sguardo enigmatico.

-Conosco la situazione-

Ovviamente la conosceva, ma non mi era venuto in mente che quella cosa che legava Jasper a Alice potesse essere minimamente simile a quella provavamo io e Benjamin. Pensavo fosse unica.

-Non ci avevo pensato-. Rise, probabilmente della mia faccia sconvolta.

Pensavo che niente potesse essere così arrogante e sfrontato come ciò che avevo provato per Benjamin, pensavo fosse una creatura nuova, dalla forza fresca e vigorosa. Non riuscivo nemmeno a classificarla come “amore”, non mi sembrava potesse essere solo quello. Quella che provavo io, e che sentivo provava lui, era più una specie di ansia di possedere, un’angosciosa ricerca dell’altro, che non si spegneva mai. In qualsiasi momento, anche nel più profondamente appagante, c’era qualcosa di terribilmente ansioso nell’aria. Forse era la paura del tempo, paura che il tempo finisse, che non fosse abbastanza. Totalmente irragionevole per una creatura immortale, e allo stesso tempo affascinante oltre ogni limite.

-Nessy, posso farti una domanda?- Di nuovo interruppe i miei pensieri, ma non me ne preoccupai.

-Dimmi-

-Come lo dirai a Jacob?-

Fu come ricevere un pugno nello stomaco, mi ripiegai leggermente su me stessa. Ma me lo meritavo e, come aveva detto Jasper, se mi ci mettevo ero una persona giusta, fino a sfiorare il masochismo. Avevo sempre sentito addosso il peso delle responsabilità, per quanto io tentassi di disfarmene.

-Non ne ho idea- Mi mancava l’aria, mi mancava sempre di più. Le tonalità dei colori erano più scure, gli odori erano più spiacevoli. Ossigeno.

-Hai già scelto- Non era una domanda, ovviamente. Jasper mi permetteva di andare oltre tutte quelle cazzate che avrebbero dovuto spiegare la mia scelta. E poi, cosa avrei potuto dirgli, come avrei potuto giustificarmi? Se avessi trovato delle valide motivazioni, non mi sarei certamente sentita come mi sentivo. L’ultima traditrice. Un boia.

L’unico motivo concreto per cui avevo deciso di essere una traditrice era che quando ero con Benjamin nell’aria c’era molto più ossigeno.

-Non lo avevo previsto, Jazz-

-Lo so. Non è colpa di nessuno-

-Vorrei non aver bisogno di nessuno per vivere-

-Impossibile-

L’aria si era fatta irrespirabile. Dopo il primo respiro, i miei polmoni non riuscivano più a riadattarsi all’aria di sempre. Avevo bisogno di ossigeno puro.

-Ascoltami Nes. Torniamo a casa e parliamone, con tutti. E’ la cosa più ragionevole, ed è il momento che tu sappia…delle cose-

-Lo so-

-Sono cose importanti-

-Lo so-

Jasper avviò il motore e ci muovemmo, e io ero perfettamente certa che stessi per capire ogni cosa a fondo. Non era rimasto altro da scoprire, dentro e fuori di me. Era come essere esposti al vento. Ma non riuscivo a respirare, non ancora.

Avevo bisogno di ossigeno puro.

Stavamo solo tornando a casa, cercavo di rassicurarmi in silenzio, mentre Jasper guidava, a velocità piuttosto moderata. Probabilmente aveva capito che non morivo dalla voglia di tornare là. Non ci eravamo quasi più rivolti parola, l’unica cosa che gli chiesi fu se sapeva quando Jacob sarebbe tornato. Mi rispose che non ne aveva idea, e io ne fui felice, perché di colpo il mio appuntamento con la scelta mi sembrò più irreale di quanto era giusto che fosse. Cercai di concentrarmi sulle canzoni, ma era la compilation di Alice, ed erano tutte troppo incasinate e rumorose per riuscire a prendermi. Mia zia aveva dei gusti musicali particolari, dai suoni della natura ai Korn. E non era quello che mi serviva.

Cercavo di capire cosa dovessi dire, una volta che fossi arrivata. Speravo almeno di poter parlare di persona, senza che mio padre leggesse niente nella mia testa. Volevo parlare con i miei genitori, mi sembrava ovvio e giusto: ancora non sapevo come avrei fatto, ma un modo lo avrei trovato.

-Jasper, dimmi una cosa-

-Sì-

-Come pensi che reagiranno?-

-Edward e Bella?- Li chiamò con i loro nomi, nemmeno io con gli altri ero abituata a chiamarli “mamma” e “papà”, mi sembrava molto irreale. Feci cenno di sì, mio zio mi guardò distrattamente, perso nelle sue considerazioni.

-Ci sono altri fattori da considerare. Ma forse saranno comunque…delusi-

-Sono una stronza-

-Credo che sia anche per Jacob-, non sembrava che mi avesse ascoltata.

-Lo so. Ma non potevo fare altro, mi capisci?- Sentivo io stessa l’ansia profonda della mia voce: volevo solo essere rassicurata, avrei pagato oro pur di essere consolata. Anche solo a parole, in quel momento poco importava. Ero sempre stata troppo sensibile alle apparenze.

-Anche io lo so, ma non sono tuo padre. Credo che un padre cerchi sempre il meglio per i suoi figli-

-Benjamin è il meglio, sei libero di non credermi, ma le cose stanno così-, sbottai. Mi sentii improvvisamente offesa: nessuno poteva dire una parola contro di lui, non in mia presenza.

-Ci sono molti fattori da considerare-

I fattori. Al diavolo tutto il casino che poteva esserci dietro. Se anche fosse stato un assassino, a quel punto cosa sarebbe potuto cambiare? Benjamin mi aveva mostrato il meglio di sé, lo sapevo, ed era solo per me. Questo ormai non me lo sarei mai più potuto scordare.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** First breath ***


32

Ok, sono una brutta maleducata che posta in ritardo. La mia unica scusante è che sto attraversando una specie, di, come dire…”secca emotiva”, perciò mi è un po’ difficile descrivere come si deve i sentimenti di questi due bravi figliuoli. Scusatemi. Volevo iniziare un’altra fan fiction però, con uno stile del tutto diverso…più breve, con una trama molto meno complicata, e soprattutto ambientata nel mondo reale, che alla fine da Twilight prenderà solo spunto. Ve lo dico perché mi piacerebbe che qualcuno di voi, se alla fine la farò davvero, commentasse: ci terrei davvero a sapere cosa ne pensate J

Nel frattempo vi lascio questi due capitoli, sperando che siano leggibili anche se il mio livello di ispirazione purtroppo è piuttosto scarsino…un bacio a tutti,

Giuls.

Sily85: Ciao Ale! Addirittura hai scomodato quel gran bel libro, grazie mille, sono stra lusingata!! E in effetti Jasper è un po’ Volpe, è un personaggio che nella saga mi intriga moltissimo perché non mi sembra per nulla forzato (come magari lo potrebbero essere altri, tipo Emmet o Esme, o lo stesso Carlisle, che a volte mi pare sfiorino il super zuccherio da fiction americana per adolescenti con crisi affettive, a mio avviso).  J Comunque ti metto i link delle foto nel secondo capitolo, così sarai costretta ad andarlo a vedere, muahahah, mente diabolica! Bacio grande anche a te, a presto!

Silvia15: Per quanto i lavori procedono a rilento sto scrivendo adesso (cioè stasera, tra un biscotto e l’altro e una tazzona di latte bollente) il capitolo “cruciale”. Ti avviso però, niente scontro aperto perché non sono troppo crudele…nemmeno verso Jacob! Un bacio anche a te, a presto J

Sinead: Ciao! Ok, non ho postato presto: perdono! Però accetto comunque i bellissimi complimenti, ti ringrazio davvero, non sai quanto sia bello sentirsi dire delle cose del genere…ti fa sentire di essere arrivata a qualcuno, è bello. Fammi sapere se il seguito sarà di tuo gradimento, se hai voglia! Un bacione

LadyEl: Ciao! Mi dispiace davvero doverti dire di no, perché verso i nuovi adepti sono sempre molto grata e tutta carina/pucciosa ma purtroppo non credo che Jake farà una bella fine, come ho già detto, o almeno non sotto certi aspetti…e alla fine, sai, mi spiace anche un po’, perché ultimamente ho un po’ rivalutato il personaggio. Non so, mi sembra che in fondo abbia un suo senso. Grazie anche a te dei complimenti, sei troppo gentile J Un bacio e a presto!

 

 

Percorrevamo il lungo viale verso casa in una strana atmosfera ovattata e surreale, che conoscevo bene. Ci avevo vissuto per parecchio tempo, negli ultimi giorni. Avevo conosciuto verità più o meno celate, e allo stesso tempo avevo vissuto nella totale illusione: era snervante. Eravamo arrivati, sentii la macchina decelerare, il motore spegnersi con un gemito. Mi sforzai di non pensare a niente e di studiare la casa, e riuscii a distinguere precisamente le voci di mio padre e di mia madre. Erano così armonici assieme, come due strumenti dal suono simile e complementare.

Ora li capivo perfettamente.

Di nuovo, dovetti frenare i miei pensieri.

Papà? devo dire una cosa a te e a mamma. Parliamone soli, per favore.

Da soli.

Parliamo.

Per favore, da soli.

Mi sforzavo di non sembrare melodrammatica, ma mi serviva tutta la mia concentrazione per non lasciare trapelare niente. Nessuno parlava più: non mi erano sembrati per nulla agitati, prima. Forse pensavano davvero che fossi rimasta con le due umane. Senza una parola, vidi i miei genitori uscire di casa, meravigliosi e pieni della loro luce, come sempre. Non ero più gelosa. Adesso avevo una luce tutta mia, mille stelle in cui riflettermi, i suoi occhi mi avrebbero sempre accompagnata. Jasper mi fece un cenno, un leggero sorriso, forse un incoraggiamento, ed entrò in casa. Sentivo i rumori delle voci degli altri provenire da dentro. I miei genitori erano bellissimi:erano così belli che a volte stentavo a credere che fossero i miei genitori e non i miei fratelli. La fronte elegantemente corrugata di mia madre, gli occhi intensi e caldi di mio padre. Alcuni dettagli mi colpirono con forza, mentre boccheggiavo alla ricerca delle parole giuste. La sensazione di lontananza si fece più acuta e forte: vedevo le loro labbra muoversi, parlare, ma non mi arrivava nessun suono. Ero in un’altra dimensione, e mi serviva ossigeno. Uscì una parola.

-Scusate-. Rimasero in silenzio, stupiti: dovevo avere una voce molto strana, ma non avevo idea di come potesse essere. Continuai con quella stessa voce falsata ed estranea. – Scusate, Jasper dice che forse sarete delusi. Mi dispiace, davvero, ma non ci potevo fare niente. E non ci ho voluto fare niente.- Un immagine di Benjamin attraversò la mia testa, mio padre ne rimase stupito, rimase all’erta. – E so che penserete che queste non sono cose che fanno per me, e che sono giovane, e che non sono pronta- Un'altra immagine di Benjamin. Benjamin che mi sorride. Fu involontario, mio padre mi guardò, sgranò gli occhi, capì ogni cosa nello stesso momento in cui le sue labbra divennero una linea dura e severa. Tirai dritto, non sapevo come ma ci riuscii. – E so che dovete dirmi delle cose per convincermi a piantarla, e potete dirle-

-Cosa vuoi dire?- Mio padre era livido, la voce sconvolta. Mia madre se ne accorse anche lei cominciò a squadrarmi, agitata.

-Vi prego, non pensate che io non sia riconoscente a Jacob, e soprattutto non pensate che a modo mio non lo ami- Anche mia madre sgranò gli occhi, incredula e spaventata: non capiva, m aveva sentore di cosa stesse per succedere, anche se non aveva visto lui nella mia testa.-Accetterò qualsiasi altra critica, ma vi prego, non pensate che io non lo ami-

-No, Renesmee-, supplicò mia madre. Muoveva la testa ritmicamente.

-Cosa vuoi dire?- A mio padre si era ristretto il vocabolario, e anche a me. Non riuscivo ad andare avanti.

Come potevo spiegare lui?

Vivide immagini attraversarono la mia testa, e non ero in grado di fermarle. La prima volta che lo vidi, bellissimo e terribile. La notte in cui lo incontrai nella foresta, stranamente familiare. Il pomeriggio in cui mi raccontò la sua storia, inquieto e umano. Ricordai i suoi occhi. Per un momento anche i suoi baci, mi interruppe un ringhio gutturale e sommesso. Anche se mio padre non gradivo, non potevo fare finta di non stare bene. Quando ricordavo, mi sentivo bene.

-Cosa è successo, dimmelo!- Mia madre era esasperata, non riusciva a capire l’ostilità di mio padre, non voleva ammettere ciò che aveva intuito. Sapevo com’era fatta.

-Sono innamorata di Benjamin-

Silenzio. La verità era uscita di getto, come il fiotto di sangue che sgorga da un’arteria recisa, rapido e vivo. Eravamo tutti lì sospesi e io non sapevo che fare, ma non stavo troppo male. Avevo fatto il mio dovere, ero fiera di me.

-Sei pazza?-. Mia madre sibilò, furiosa.

-Bella, lei non sa- Mio padre sembrò quasi confortato al pensiero, e tremai. Non avevo paura della rabbia di mia madre, sapevo che non era per me. Non era mai per me. Ma temevo le cose che mio padre sapeva e che io ignoravo.

-Dici sul serio, Renesmee? Cos’è successo?- Sembrava meno arrabbiata, ma più scossa, come se le avessi appena tirato uno schiaffo. Mi morsi il labbro, disperata. –Sono passati quanti giorni…quattro! Ti ha detto qualcosa?-

Avrei potuto dirle tutte le cose che ci eravamo detti, certo che ci eravamo parlati. Ma sapevo che lei intendeva altre cose, di tutt’altro genere, molto più sconvolgenti. Che io non sapevo. E Jasper di nuovo aveva avuto ragione: sembravano entrambi delusi, scoraggiati.

-Lo amo-. Un po’ mi vergognavo a dirglielo, ma non perché mi vergognassi del sentimento. Solo mi sembrava di svilire orribilmente ciò che provavo. Era molto più difficile spiegare davvero cos’era a legare me e Benjamin. Non era un istinto, non era la mente, non era l’attrazione.

Era solo un ritorno, dove ogni dettaglio è assolutamente familiare.

Mio padre scosse la testa, afflitto, mentre mia madre mi osservava incredula e tesa. Sapevo che da dentro casa tutti avevano ascoltato, e immaginavo le loro reazioni, senza molto interessa. Mi sentivo molto vecchia.

-Renesmee, dobbiamo dirti una cosa-. Papà prese in mano la situazione, a parole ci sapeva fare. potevano fare quel che volevano, non avrei riparato al danno in ogni caso.- Benjamin è stato mandato dai Volturi-

Era uno schiaffo in piena faccia. Mi pulsava la testa, le idee giravano troppo velocemente, in un vortice di pensieri, di collegamenti.

Benjamin era pericoloso. Benjamin poteva influenzare la mia famiglia. Benjamin si rifiutava di dirmi delle cose. Ci sono diversi fattori da considerare, ripeteva calmo Jasper nella mia testa.

Non riuscivo a piangere, mi sembrava soltanto di morire. Barcollai, mio padre fece qualche passo avanti, mormorò qualcosa, indietreggiai. Ringhiai. Non mi capitava spesso. Mio padre si fermò, sorpreso e spaventato, mia madre non riuscii a non lasciarsi scappare qualche singhiozzo secco e arido. Che pena. Dovevo scappare, dovevo andarmene. Non c’era spazio, non c’era aria, si soffocava, la pioggia bruciava sulla pelle come se mi stessero cospargendo di acido. Corsi in garage, mia madre mi seguì, ancora preda dei suoi ridicoli singhiozzi.

-Renesmee, ti prego, ragiona, parlaci. Dimmi qualcosa!-

Controllai velocemente la borsa, cercai le chiavi di una macchina qualunque, trovai quelle della Mini, aprii la portiera, mi infilai in macchina, e mentre ancora mia madre mi scongiurava di parlarle, misi in moto e partii. Successe tutto a un ritmo molto rapido, come se qualcuno avesse premuto su un tasto con sopra scritto “avanti veloce”. Accelerai la macchina quanto più potevo nella coltre nebbiosa e umida. Non pensavo più a niente, se non che dovevo accelerare. Sempre dritto, sempre aventi, senza nessuna deviazione. Paradossalmente, sapevo che l’unica cosa che mi aspettavo alla fine della strada era proprio Benjamin. Persi la cognizione del tempo, il sole abbandonò il cielo e venne la sera, perché il grigio del cielo divenne nero e profondo. Persi la cognizione dello spazio, perché a un certo punto mi accorsi che il panorama cambiava e diventava aspro e montagnoso,e  non riconobbi più le strade che percorrevo. Non facevo niente, muovevo le mani e le braccia per sterzare e cambiare marcia, muovevo i piedi per usare i pedali. Per il resto, non facevo niente, non pensavo, non piangevo, quasi non respiravo. Forse speravo solo di arrivare a Benjamin, alla fine di tutto, mi andava anche bene che mi ammazzasse, forse non avrei sentito niente.

Un Volturo.

Come poteva avermi detto la verità, se era solo uno di loro?

Ero stata un’idiota, una patetica presuntuosa. Avevo pensato di aver trovato la mia strada, avevo tradito Jacob, avevo pensato di tradire la mia famiglia. Avevo pensato che se anche fosse stato un assassino, lo avrei amato, ma non avevo pensato mai che lui potesse essere il mio assassino, non lo avevo mai considerato. Il problema era che lo amavo comunque, e mi detestavo per quello. Ero debole e meschina. E mi sentii ancora più debole quando mi finì la benzina, e la macchina si fermò, con un borbottio sinistro e triste. Dovevo aver percorso molta strada, perché avevo appena fatto il pieno. Mi arrivò un messaggio sul cellulare, mio padre mi chiedeva se poteva raggiungermi. Non avevo voglia di rispondere, ma pur di non trovarmelo tra i piedi raccolsi le ultime forze e risposi. Gli dissi di restare a casa, che dovevo rimanere un po’ sola. Omisi che ero rimasta senza carburante. Analizzai il luogo in cui mi ero ritrovata a fermarmi: somigliava a casa, ma era un po’ meno verde, e un po’ meno opprimente. Anche se era notte, capivo che il giorno dopo la coltre di nubi sarebbe stata meno spessa e meno soffocante, e magari sarebbe potuto anche comparire un raggio di sole. Dovevo essermi allontanata dalla Penisola Olimpica abbastanza da permettere all’astro di risplendere come in ogni qualsiasi altra parte del pianeta. Mi rilassai, cercando di trovare una buona posizione sul sedile. La strada in cui mi ero fermata mi ricordava molto la strada che portava a casa mia, come quella tagliava a metà la fitta foresta. Era una foresta di conifere, dovevamo essere abbastanza in alto: avevo freddo ma non avevo voglia di allungare la mano e di accendere il riscaldamento. E poi la macchina era senza benzina, tanto meglio: mi sarei risparmiata lo sforzo, pensai. Incominciò a piovere anche lì, e imprecai. Mi era rimasta la forza per imprecare, se lo facevo a bassa voce. Sotto sotto speravo che Benjamin si ricordasse di me, forse, o forse pensare a lui era diventato un riflesso. Mi immersi di nuovo nel mio tentativo di dimenticarmi di tutto, se ci riuscivo non stavo troppo male. Ma non mi stupii molto quando vidi Benjamin che mi fissava dal finestrino, bagnato fradicio: dopotutto, sapevo benissimo che ad aspettarmi alla fine della strada c’era lui. Mi sorpresi di non provare ancora niente, né gioia, né paura. Lui mi continuava a fissare, angosciato e cupo, e io continuavo a starmene lì immobile. Non mi veniva da pormi tante domande, non mi veniva proprio niente, sentivo il liscio vigore della pietra dentro di me. Mi si era gelato il sangue, avevo finalmente capito la mia reazione. Senza che me ne resi conto, salì in macchina, sul sedile del passeggero. Mi voltai a osservarlo, senza che forse veramente me ne importasse. I suoi occhi erano straordinari, come sempre, ma non ero sicura di essere in grado di leggerli: sospirai. Aveva una stana smorfia dipinta sul viso, digrignava leggermente i denti. Avrei voluto accarezzarlo, ma non ne avevo la forza, non ero in grado di alzare la mano, non ne ero in grado fisicamente.

-Renesmee, volevo dirtelo io-

Aveva quegli occhi grandi e scuri e tristi e io speravo che non mi volesse ammazzare subito perché io volevo guardarli ancora un po’.

-Se vuoi che me ne vada, ti prego, dimmelo. Lo farò. Ma volevo sapere dove stavi andando-

E aveva quella strana voce profonda e vibrante, che usciva dalle stesse labbra che avevo baciato al mattino. Avrei voluto rassicurarlo, ma non ne avevo la forza, non potevo alzare le braccia e avvolgerle attorno a lui.

-Perdonami-

Non volevo che mi uccidesse proprio lui. Forse se me lo avesse chiesto con gentilezza ci avrei pensato io stessa, avrei raccolto le forze e lo avrei fatto.

-Ti prego dimmi qualcosa, qualsiasi cosa-. Mi guardava, e mi supplicava, e avrei voluto abbracciarlo, chiedergli di non uccidermi di persona, perché è orribile morire per mano della persona che ami. Ma non ci riuscivo. Cercai di parlare, la gola tagliava.

-Mi devi ammazzare?-, riuscii a parlare con un rantolo roco. Rimase a bocca aperta, mille emozioni si mossero contemporaneamente nei suoi occhi, il vortice nero più sfaccettato che mai. Fino a quando le sue labbra non si serrarono in una morsa stretta e dura, e una ruga sottile non solcò la sua fronte alabastrina. Scese dall’auto in una rapida mossa, si allontanò di qualche metro, sotto la pioggia. Non reagii subito quando sentii il suo urlo. Era come un ringhio, molto più umano: forse era così che si lamentavano gli umani, se venivano colpiti, se gli veniva fatto del male. Non ne avevo idea. Sentivo un grido orribile che squarciava il silenzio di quella notte di pioggia, e sentivo che dentro di me, mentre vedevo Benjamin lasciarsi cadere nel fango sul ciglio della strada, finalmente qualcosa di muoveva. Avevo ancora dei nervi, e dei muscoli, e delle forze nascoste chissà dove. Mi lanciai fuori dalla macchina, con un unico movimento veloce lo cinsi stretto a me: il nostro respiro accelerò, di nuovo sentii l’ossigeno purificare i miei polmoni, il mio corpo, la mia mente.

-Non dirmi mai più una cosa simile-. Forse doveva essere un rimprovero, ma riuscivo ancora a capire quanto quella non fosse altro che una preghiera.

-Benjamin, io non riesco più a capire-. Confessare mi sembrò l’unica cosa che avrebbe potuto aiutarci.

-Non dubitare mai di me-. Anche lui mi strinse a sé, e restammo così, in silenzio nel fango, sotto la pioggia, e riuscii anche a piangere. con lui, tutto era possibile. –Se può aiutarti, non sono uno di loro-.

-Non credo che ormai faccia la differenza-. Ci stringevamo forte e le pioggia scorreva sulla nostra pelle, ma le guance erano asciutte, serrate strette tra loro.

-Lo capisci che sono qui per te?-. Annuii. Come potevo pensare che non fosse sincero? Mi lasciai cadere su di lui, mi prese, accarezzandomi i capelli. –Resta con me, Nessie-

Annuii lievemente, per poi lasciarmi prendere dallo strano torpore che sentivo percorrermi. Benjamin mi prese in braccio, mi aggrappai a lui senza alcuna energia, e in pochi secondi ritornammo all’asciutto. Eravamo all’interno dell’abitacolo di un’auto, ma non era la mia. Avevo gli occhi socchiusi e mi concentravo soprattutto sul suo profilo, non capii che macchina era. Sentii il motore accendersi, con un’inaspettata energia, e i tergi cristalli azionarsi al ritmo massimo. Non mi ero accorta che stava piovendo così forte.

-Vuoi dormire?- Non sapeva se parlare o no, glielo leggevo nella voce, esitante. Volevo sentirmi parlare rivolgergli ancora la parola, ma allo stesso tempo voleva che rimanessi tranquilla.

-No- Volevo solo riposarmi e tenere gli occhi socchiusi fissandolo mentre guidava, attendo a non farme sentire troppo le curve per non disturbarmi. –Dove siamo?-

-Quasi a Sandpoint. Benvenuta nell’Idaho, Nessie-. Rise sommessamente.

-Però. Ci credo che sono rimasta a piedi. Che ore sono?-

-Le due e mezzo, quasi. Dormi-

-No- Cercai la sua mano, posata sul cambio, con la mia. Disegnai forme astratte e irreali sulla sua pelle candida, sentii che fremette.

-Perché mi cerchi?-

-Forse, se lo sapessi non sarei qui con te- Mi pentii di essere stata tanto dura, appena mi resi conto di cosa significava una risposta del genere. Ma Benjamin non sembrò ferito: sorrise amaramente, e poi di nuovo mi osservò con lo stesso sguardo malinconico di sempre.

-Lo so. Sono l’alternativa irragionevole-

-Sei l’alternativa che voglio. Per favore, piantiamola-

-Cosa?-

-Non capisci che non fa nessuna differenza il motivo per cui sei qui? Non per me-. Ero io ad essere arrabbiata, con entrambi.

-E se te lo avessi detto? Saresti qui?-

-Non ti fidi?-. Di nuovo alzai la voce, anche se non se lo meritava.sentivo che non voleva litigare, sentivo che pensava di essere più colpevole che mai. Ma non riuscivo ad accettare il solo pensiero che potesse dubitare di me. Che potesse lasciarmi lì, sola, e non volermi più con sé. –Ferma la macchina-

Obbedì all’istante, accostammo sul ciglio della strada. Una macchina solitaria ci passò a fianco.

-Piantala con queste stronzate, Benjamin- Presi un respiro profondo, cercai di calmarmi. Qualche lacrima rabbiosa riuscì a ucire dai miei occhi gonfi e stanchi. –E dimmi cosa vuoi. Ti sono tra i piedi?-

-Cosa pensi di me, Renesmee?- Anche lui mi osservava, e sembrava stanco, debole. Come se qualcuno lo avesse picchiato. Mi morsi un labbro, avrei voluto abbracciarlo di nuovo, era un istinto irresistibile. Sapevo come fare per farlo stare meglio, dovevo farlo, mi sentivo di farlo, ma dovevo trattenermi. Rimasi in silenzio. –Credi che io non ti ami?-, fece una smorfia, come se stesse raccontando uno scherzo di cattivo gusto.

-No. Credo che tu pensi che tornerò da Jacob. Che non gli dirò niente-Rimase immobile, non respirò, non mi guardò. Sapevo che avevo capito benissimo già da prima che me ne desse la dimostrazione, in ogni caso. –Evita di pensarlo. Se lo pensi, non fai altro che ferirmi. Mi ferisce dover abbandonare Jacob, e lo amo. Mi ferisce che tu pensi che non ti amerò abbastanza-. Inaspettatamente, rise. Una risata roca e amara, più sonora del solito, mentre buttava teatralmente indietro la testa.

-Pensi che io dubiti di te? Davvero?-, era perversamente divertito dalla faccenda, lo sentivo.

-Mi prendi per il culo?- Fu serio in un secondo.

-Renesmee, io ho paura di Jacob, tutto qui. Volevi proprio la verità? Eccola. Ho paura di essere meno di lui, di non essere giusto per te. Sono sicuro di me come di te, Renesmee, credimi. Tutto quello che tu provi, lo provo anche io e mi entra dentro cento volte più a fondo, perché mi sento in colpa. Ogni gioia è una tortura, mi capisci?-

-Vuoi che me ne vada?- Trattenni il respiro, il mio cuore mancò qualche battito.

-Ma non vuoi capire, allora? Ti voglio con me fino a quando tu vorrai. E anche dopo, penserò solo a te-

-E perché dovrei cambiare?-

-Non vedi che Jacob è fatto apposta per te? Sei cieca?-

-Basta!- Urlai. Le lacrime cominciarono a essere molte, e molto dolorose. Non capivo dove volesse andare a parare. Mi abbracciò, lo allontanai con una spinta. Dovevo parlare. –Non sottovalutarmi. Non credere che io non abbia considerato ogni cosa. Se sono disposta ad abbandonare Jacob, è solo perché so che se tu mi lasciassi sarebbe la fine. Pensi che io sia stupida?-

-Ingenua, sì-. Teneva lo sguardo basso, sentivo tutto il suo dolore. E mi chiedevo com’era possibile che non riuscissimo a capirci.

-Se non vuoi che io resti con te, dimmelo- Più urlavo più la cosa mi sembrava irreale. Ma non riuscivo quasi a parlare, glielo chiesi in un soffio. Alzò lo sguardo e di nuovo mi trasse a sé, e stavolta non lo cacciai.

-Non pensarlo mai-. La sua voce vibrava,mi faceva tremare.

-Dimmi che sono per te. E basta-

-Sei per me- Parlavamo pianissimo, bisbigliavamo i segreti di noi stessi. Quel momento non sarebbe più tornato, e lo sfruttai fino in fondo.

-Dimmi cosa sono per te-

-Aria- Non ci pensò su un secondo, chiusi gli occhi e assaporai la sensazione. –Cosa sono per te?-

-Il primo respiro-

-Sei per me-

 

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Succede solo di notte sulle strade statali ***


Andavamo molto veloci, sulla macchina di Benjamin

Andavamo molto veloci, sulla macchina di Benjamin. Non sapevo ne avesse una. Non pioveva quasi più, ma la strada era bagnata e scivolosa: ma lui voleva riportarmi a casa ad un orario decente, o comunque prima dell’alba. Gli avevo detto che avrei dormito volentieri anche i macchina, i sedili erano enormi e io ero stremata, ma lui aveva insistito per riportarmi a casa. Si sentiva in dovere, non riuscivo a capire perché. Cercai di non addormentarmi per tutto il tragitto, ma era più lungo del previsto, avevo guidato tanto, e a tratti non riuscivo a non chiudere gli occhi. Benjamin era ancora meno loquace del solito perché si era messo in testa che dovevo dormire. Sembrava che da come avesse scoperto che io sapevo chi era, avesse deciso di prendersi cura di me con tutte le attenzioni, come per mettermi in testa il contrario. Non ce n’era bisogno. ggdi prendersi cura di me con tutte le attenzioni, come per mettermi in testa il contrario.tti non riuscivo a non ch

Gli chiesi anche in che perché fosse stato mandato dai Volturi: fu elusivo, ma non troppo. Era evidente che si vergognava, ma allo stesse tempo aveva bisogno di parlarmene. Non ero mai stata una persona particolarmente dolce, delicata e protettiva, ma con Benjamin era tutta un’altra storia. Ogni suo sorriso era una conquista meravigliosa, e quando mi rivolgeva uno sguardo luminoso mi sentivo piena di orgoglio. Erano cose che potevo vedere solo io, un’esclusiva meravigliosa. Quando invece Benjamin era più malinconico del solito, stavo male: annaspavo alla ricerca di qualsiasi cosa potesse aiutarmi a farlo stare meglio, a farci stare meglio. Forse la chiave era stata proprio quella, pensai durante il viaggio. Io ero fatta per amare, non per essere amata, come mi era sempre successo. Sin da prima che io nascessi, le vite di tutti i miei familiari, e non solo, erano girate attorno alla mia in un vortice di emozioni e sentimenti forti e positivi. Spesso ero stata amata più del dovuto. Ma Benjamin era diverso, perché mi amava in un modo tutto suo, differente da quello di tutti gli altri. Non conosceva i suoi sentimenti, e non sapeva come affrontarli, e ne era spaventato. Era troppo riservato e introverso per venerarmi. Se fossi stata meno sensibile alla sua personalità, probabilmente non mi sarei mai nemmeno accorta che si fosse innamorato di me. Non mi aveva mai detto nulla di eclatante, o di rivelatore. Mi era accorta di lui attraverso semplici sguardi, contatti, profumi, espressioni. Eravamo naturalmente compatibili, in sostanza molto simili. Sapevo che mi adorava, e che ero diversa da chiunque altro, e quando mi raccontò di come fosse stato contattato da Demetri, mandato da Aro in persona, e che aveva deciso fosse meglio tacere ed eseguire, e quando mi confessò ridacchiando che inizialmente non gli importava molto della sorte di una mezza vampira sconosciuta, trovai quella storia più che naturale. Gli chiesi se sapeva cosa avevano intenzione di fare, mi rispose che non ne aveva idea. Mi percorse un brivido, alla sola idea dei Volturi: finchè nella storia c’era Benjamin, non vedevo alcun pericolo, ma appena usciva di scena, cominciavo ad avere paura. Per me, e per la mia famiglia, e per i lupi. Era orribile.

Mi diede un bacio sui capelli, vicino all’orecchio.

-Non preoccuparti. Non avete mai fatto niente di male. Cercavano scuse, ma non possono trovarne-

-Te ne andrai?-

-Come?-

-Quando ti diranno che devi andare-

-Devo andare?-. Mi osservò, accigliato. Stava cominciando a prendermi in giro, lo capivo dalle sopracciglia innaturalmente inarcate.

-Sì, non ti sopporto più. Vattene- Ci rimase un po’ male, forse pensava che non sarei stata al gioco. Fece uno strano sorriso tirato, furbo.

-Posso provare a farti cambiare idea?-. Sterzò velocemente l’auto e accostò. Ero ancora un po’ assonnata, e sinceramente non capii subito cosa volesse fare. Almeno fino a quando non sentii le sue labbra percorrere la curva del mio collo, dall’incavo dell’orecchio alla scapola. Capii all’istante, e non mi parve una cattiva idea: cercai di non mettermi a ridere, ma il suo respiro mi faceva il solletico. Cercai di baciarlo, ma le sue labbra sfuggivano sul resto del mio corpo. Volevo togliermi il giubbotto, ma mi tremavano un po’ le meni: mi aiutò lui, in un unico gesto fulmineo. Le sue mani fredde bruciavano sotto la maglietta. Quando riuscii a baciarlo, mi strinsi forte ai suoi capelli, per non farlo andare via, ma di nuovo riuscì a divincolarsi. Lo faceva apposta, era chiaro. Reclinai un po’ il sedile, con la poca concentrazione che mi rimaneva, a approfittai di un momento in cui era tornato a concentrarsi sulle mie labbra per provare a togliermi la maglietta. D’un tratto, si immobilizzò e bloccò una mia mano nella sua. Rimasi lì imbambolata.

-Nessie, vacci piano-

-Perché?- Protestai vivamente, sembravo un bambina che chiede come mai non può sbafarsi un chilo di gelato con gli smarties.  Ero terribilmente ridicola, soprattutto per lui: si allontanò da me ridendo e cercando di rimettersi a posto i capelli con la mano.

-Forse non è il momento migliore, non credi?-

-Ma che stai dicendo?- Mi alzai a sedere, a gambe incrociate, ma mi rifiutavo di alzare il sedile: non aveva il diritto di illudermi così per poi tirarsi indietro. Mi fissava un po’ spaesato, guardandosi attorno, e cercando di non ridere troppo.

-Insomma, non dormi da un giorno, siamo sporchi di fango, accostati sul ciglio di una statale piena di camionisti guardoni, e – alzò l’indice per rafforzare la predica –ti ho appena detto che sono stato mandato qui dai Volturi. E tu vorresti, come dire…sfruttare la notte per altri scopi?-

-Mi hai detto che volevi farmi cambiare idea!-. Speravo che quella storia della protezione e del prendersi cura di me finisse al più presto.

-Bè, scusami se pensavo che bastasse un casto bacetto-

-Casto bacetto? Mi hai succhiata come un lecca lecca!-

Non riuscì più a trattenere le risate, e scoppiò in una risata rauca e profonda che scosse la macchina. Arrossii vivamente al pensiero della cazzata che avevo appena detto. Ero pessima. Non smetteva di ridere e gli diedi uno spintone, imbarazzata.

-Nessie, hai un meraviglioso concetto della sessualità- Continuava a ridere, appoggiato al volante,e d’ogni tanto si voltava a guardarmi, solo per rimettersi a ridere più forte. Non sapevo più da che parte guardare. Scesi dall’auto quando capii che la cosa sarebbe andata avanti per un pezzo. Mi appoggiai alla portiera e misi la testa tra le mani. Ero molto confusa: un minuto prima avrei voluto passare la notte con Benjamin, e non mi importava più niente di niente, e ora mi ritrovavo sul ciglio di una statale a meditare su quanto fossi superficiale e idiota. Forse aveva ragione a ridere tanto. Quando me ne resi conto mi accorsi che nessuno rideva più, e ritrovai qualcuno al mio fianco.

-Tutto bene?-, aggrottò le sopracciglia, confuso. Era tornato lo stesso Benjamin un po’ sulla difensiva di sempre.

-Tu che dici?-. Dalla voce sembravo arrabbiata, ma non ero più nervosa del solito, o almeno così mi sembrava.

-Non volevo offenderti, scusami-. Rimase a debita distanza, sembrava si sforzasse di farlo.

-Perché ti scusi sempre ma non eviti mai di fare delle cazzate?- Sembravo ancora arrabbiata, non era giusto.

-Sono fatto così-, fece una risata amara, portò lo sguardo altrove, anche io mi voltai. Forse era un impressione, ma la notte sembrava un po’ meno scura. Dovevo controllare il cellulare, ci sarebbero state sicuramente delle chiamate perse e dei messaggi. –Ma non voglio che te la prenda-

In un attimo, mi strinse a sé in un abbraccio. Ce ne stavamo lì appoggiati alla carrozzeria della macchina e c’era una pace inaspettata nell’aria.

-Piantala, non sei tu il problema. Puoi ridere quanto vuoi. Puoi anche continuare, se preferisci- Finalmente sembravo un po’ meno incazzata. –Sono un’idiota-

-Questo veramente avresti dovuto dirlo a me-

-Sei un idiota, Benjamin-

-Ah, sto meglio. Sei ancora tu, Renesmee-. Sorrise tra i miei capelli, stringendomi ancora di più. Anche io non riuscii a non sorridere.

-Stavolta hai ragione tu, sono ridicola. Invece di pensare a una congrega di energumeni che vogliono sfasciare la mia famiglia, e alla situazione in cui ci troviamo, e al casino che ho fatto…voglio fare l’amore con te. E’- mi guardai attorno, in cerca della parola giusta –infantile-

Di nuovo nascosi la testa tra le mani, imbarazzata. Mi tolse delicatamente le mani dal volto e mi baciò sulle labbra, dolcemente.

-Non hai fatto niente di male, Nessie. Non puoi farti carico di ogni cosa e pensare che con un po’ di impegno potrai porvi rimedio-

-Che vuoi dire?-, fui io ad aggrottare le sopracciglia, non seguivo il filo. Si strinse nelle spalle, paziente, mentre ancora teneva le mie mani strette nelle sue.

-Dico che è normale che tu voglia fare l’amore con me-

-Però prima non l’abbiamo fatto-. Non doveva essere un’ accusa, ma ne aveva proprio l’aria. Non riuscivo bene a gestire la comunicazione, forse aveva ragione lui e dovevo andare a dormire. Mi guardò imbronciato, di sottecchi, e anche io rimasi piantata lì con un’espressione molto simile alla sua sul viso. Eravamo irritati per motivi diversi.

-Non mi sembrava giusto. Non so se te ne sei accorta, ma non sei molto lucida-

-Sono lucidissima- .Il mio mormorio passò del tutto inosservato.

-E per quanto tu possa mancare totalmente del senso del pericolo, pensavo che ti avrebbe fatto piacere che qualcuno ti ricordasse la situazione incasinata in cui stiamo. Ma non pensavo di farti venire tutti questi sensi di colpa-

-Il tuo ragionamento non fila-

-La mia vita scorre su una sottile linea rossa-

-Oh, per piacere-

-E per quanto io pensi che tu tenda ad essere un po’ troppo spensierata, credo anche che dovresti evitare i tuoi momenti di depressione cosmica-

Continuavamo ad osservarci di sbieco, mentre io tentavo di capire cosa avrei dovuto fare secondo lui. Ci rinunciai quasi subito. All’improvviso mi sorrise e si avvicinò a me, come per mormorarmi qualcosa all’orecchio.

-E poi, oggi ho pensato a una cosa-. Fremetti, sentivo le sue dita percorrere i miei fianchi –Se ti chiedessi di fare le cose…per bene, con me, come la prenderesti?-

Sembrava emozionato, cercai il motivo nei suoi occhi e trovai solo il solito intenso vorticare oscuro. Era più enigmatico che mai.

-Mmh. Spiegati-, non riuscii a celare il dubbio nella mia voce. Lui rimase qualche secondo fermo a pensare, mentre io cercavo di decifrarlo senza successo.

-Diciamo così Nessie: ti spiacerebbe se parlassi con i tuoi genitori?-Istintivamente mi irrigidii: era una prospettiva orribile a priori. Capì che era meglio non interpellarmi e tirò dritto –Io vorrei starti accanto come un compagno, mi capisci?-

Mi ritornò in mente il discorso con Jasper, quel pomeriggio, e sembrava molto lontano. Cercai di schiarirmi le idee, mi massaggiai una tempia.

-Fammi capire. Tu vuoi una roba tipo la benedizione dei miei?-. Trattenevo a stento le risate, cercando di immaginare Benjamin, truce e minaccioso, che cerca di convincere mio padre e mia madre ad affidargli la loro bambina perché potesse vivere con lei un’intensa e appagante vita di coppia. Già vedevo mio padre stramazzare al suolo e mia madre attaccata alla gola di Benjamin come una sanguisuga.

-Una roba così-. Forse ci stava pensando anche lui, alla prospettiva, perché scoppiammo a ridere assieme.

-Non pensavo la vedessi così. Con presentazione ai genitori e tutto il resto-

-Infatti non l’ho mai vista così, prima di tutto perché non ho mai avuto genitori con cui fare i conti-

-Pff-, sbuffai al solo pensiero delle decine di vampire perfette che vedevo con lui, nella mia mente. Dovevo fare chiarezza sulla questione, o prima o poi mi sarebbe scoppiata la testa.

-In secondo luogo, e qui fai attenzione,- cominciò a percorrere con la punta delle dita la linea della mia colonna vertebrale –mi farebbe piacere che la relazione tra noi fosse ufficiale-

-Lo è, gliel’ho già detto io-. Non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di mia madre che attaccava Benjamin con l’evidente scopo di ucciderlo. Anche lui sbuffò, impaziente.

-Ma non ti fa piacere?-, si allontanò leggermente da me per potermi vedere in faccia. Mi sembrava un po’ deluso, e mi dispiaceva: cercai di dare una risposasse che non suonasse troppo come un “ma che diavolo ti viene in mente”.

-Sì…però preferirei che la cosa restasse tra noi. Non voglio che gli altri abbiano niente a che fare-. alzò un sopracciglio, dubbioso.

-Se loro saranno al corrente, potremmo anche vivere assieme, non ci hai mai pensato?-In effetti non ci avevo mai pensato, e la prospettiva era piuttosto eccitante: per un secondo non pensai a mia madre attaccata alla gola di Benjamin. –Ovviamente, solo se lo vuoi-

Adoravo la sua voce quando era nel dubbio, quando vacillava timorosamente nel tentativo di darsi un tono. Solo io potevo sentirla così. Risi leggermente, perchè non sapevo più come trattenere la gioia: ero felice per quello che voleva fare, ero felice per come me l’aveva detto.

-Dammi un motivo per cui non dovrei volerlo-

-Sei giovane, ci ho pensato-. Sembrava un po’ preoccupato nel dirmelo, quasi temesse che facendomelo notare me ne sarei resa conto anche io.

-Per piacere, Ben. Ragiono come una persona adulta da quando ho sei anni-

-Lo so. Però sei comunque giovane-

-Non avresti dovuto pensarci prima?- risposi acida. Detestavo quando veniva messa in ballo la mia età: ero matura, ero adulta, me lo sentivo. Cosa importava alla fine quanti anni biologici avessi, considerando che la mia vita stessa era un’eccezione a qualsiasi regola della genetica? Lui sorrise e lasciò perdere, era di ottimo umore. E riuscivo anche ad intuirne il motivo. Mi morsi un labbro, estasiata.

-Tu vorresti vivere con me?-

-Sì, ho pensato anche a questo. Ho pensato che forse sarebbe meglio aspettare, vedere come si mettono le cose…in generale, prima di dirti niente- alzò lo sguardo, e mi fissò curioso, in attesa della mia reazione –ma poi non ho resistito. Mi piacerebbe, stare con te. Mi è venuto da chiedertelo, scusami-

E scusarsi di cosa, poi. Forse davvero in noi c’era qualcosa che non andava, in tutta quella fretta che avevamo. Non sentivo di non conoscerlo, né di aver corso troppo, e non avevo rimorsi, con lui, al contrario che con chiunque altro. Forse poteva sembrare stupido e avventato, pensare di passare un’indefinita ed estesa quantità di tempo che si cerca di definire con il sostantivo “eternità”, alla fine abbastanza vuoto e riecheggiante in sé stesso, come una stanza troppo vuota, ampia e disabitata, forse anche asettica, dopo che avevamo passato insieme meno di una settimana. Ma non mi pentivo di niente, e ogni azione con lui, ogni gesto, era perfetto. Era giusto, punto. Non ero mai stata una persona particolarmente sicura di sé, aldilà di ciò che cercavo di ostentare, e ogni decisione era un lungo travaglio che di solito terminava grazie all’intervento di qualcun altro. Con lui non c’erano dubbi. Non dubitavo di lui se mi trattava male, non dubitavo di lui se era stato mandato dai Volturi, non dubitavo di lui se cercava di farmi capire che avrei dovuto rimanere con Jake. E non mi sentivo per niente un’idiota, nel fare tutto questo. Lo sentivo in ogni cosa, che non stavo sbagliando niente. Lo sentivo fisicamente, che non sbagliavo, quando sentivo la schiena tremare, e fremere, come se ogni vertebra stesse per scardinarsi, e quando sentivo che dentro di me c’era qualcosa, un luogo, un pensiero, che gli era sempre appartenuto. Chissà se anche lui le percepiva, queste sensazioni. Forse glielo avrei chiesto, ma non in quel momento.

-Davvero vorresti stare con me?-. mi piacque come si strinse nelle spalle, quasi che fosse una cosa tanto banale da essere più che ovvia.

-Ti porto a casa, adesso. E’ tardi, Nessie-. La sua mano scivolò al mio fianco, e mi condusse fino alla portiera. Salii a bordo, e Benjamin mise in moto. Riprendemmo la strada, e mi sembrava che viaggiassimo più lentamente di prima, e non ne ero dispiaciuta. Controllai il cellulare,e  trovai diverse chiamate perse: non verificai nemmeno di chi, perché già lo sapevo. Mi si chiudevano gli occhi, ero assonnata, stremata e sconvolta.

Ma nel silenzio ovattato dell’abitacolo, rotto con grazia solamente dal rombo gentile del motore e dal ritmo sottile dei nostri respiri, l’emozione che maggiormente mi stravolgeva era sicuramente, e assurdamente, contro ogni giusta ragione, la gioia profonda che provavo al pensiero di non essere sola su quella grande, vecchia terra.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** For a simple twist of fate ***


33

Ciao a tutti! Bene, questa storia in realtà è piuttosto vecchiotta, e non posto da settembre o ottobre. Ok, ero andata in crisi di ispirazione, ma sono contenta di poter dire che sia passata, visto che ho appena finito di scrivere due capitoli e ho già un terzo in testa (e sono bloccata a casa dal raffreddore, quindi penso che lo scriverò stasera stessa ;) ). Cerco di farmi perdonare postando due capitoli, il secondo questa sera. Ai vecchi lettori SCUSATE, ma proprio non riuscivo a scrivere, e ci tengo troppo alla storia per inserire dei capitoli che alla fine non piacciono nemmeno a me! Vi prego perdono! L Ai nuovi lettori, se ce ne fossero: ok, ci sono un sacco di capitoli indietro, però non sarebbe male se deste un occhiatina…magari potete leggerla pian pianino se non avete niente di meglio da fare (però occhio che ci sono trilioni di cose migliori da fare piuttosto che starsene ore davanti a un computer, io lo faccio solo in casi di estrema necessità tipo super raffreddore), e dirmi come vi sembra nel complesso. Scusate ancora, spero di non aver postato davvero troppo tardi!

Un bacio e buon anno a tutti!

Giuls

PS: non ho scritto le risposte ai commenti perché devo andare a fare l’aerosol -.-.  però mi ricordo che Sily85 a suo tempo mi aveva chiesto i link per i personaggi, quindi li metto:

Benjamin: http://static.open.salon.com/files/james_dean1244780699.jpg (ok, è un po’ anni cinquanta e l’espressione è trash ma ci sta un sacco, e poi voglio dire è James Dean), oppure questo, che è un po’ meno super figo ma se ci si mettesse sarebbe da volare via …no scusate non lo trovo. Vaaaabe alla prossima! XD

Renesmee: non è rossa, ma è bellissima comunque, e per i lineamenti, le movenze, mi immagino lei http://filmblog.girlpower.it/wp-content/uploads/2008/01/marion.jpg , la bellissima e bravissima Marion Cotillard (cioè: http://www.themediaphiles.com/wp-content/uploads/2009/04/marion_cotillard.jpg, una più di così…).

Fatemi sapere cosa ne pensate!!

 

 

 

 

 

 

Mi addormentai in macchina poco prima di arrivare a casa, riuscii a riposarmi solo per una mezz’oretta. Ero assolutamente determinata a non perdermi un secondo della strana atmosfera perfetta che si era creata in macchina, in quell’intenso silenzio che avevamo creato. Quando mi risvegliai, l’oscurità della notte stava per lasciare posto al grigio pesante del giorno. Ero ancora stanchissima, e sentivo la paura lungo la schiena. Puro terrore. Mi veniva da battere i denti. Non avevo idea di cosa diavolo dovessi fare. non riuscivo a pensare coerentemente alla prospettiva vivida e reale di dovermi dividere in due entità distanti e indipendenti. Da una parte lui, dall’altra tutto il resto. O meglio, da una parte noi, dall’altra gli altri. Pensavo di non poter pensare agli altri come una minaccia, o come dei nemici, ma dal momento che era così che doveva andare, non ci misi molto ad abituarmi all’idea. Nel farlo, più che mai mi sentivo una vampira.

-Hai paura?-. Mi riscosse dai miei pensieri con le note basse della sua voce. Era pura poesia.

-Sì. Ma è normale, no?-

-Penso di sì-

-Hai idea di cosa gli dirai?-

-Forse dovresti essere tu, a parlare. Sarò con te-. Mi scrutava di sottecchi, curioso. Cercava di capire se aveva esagerato o no.

-Lo so. Non essere irragionevole, Benjamin-

-Farò del mio meglio-, si voltò. Il suo sorriso incerto mi rassicurò oltre ogni aspettativa.

Pensavo e ripensavo alle parole esatte che avrei detto dì li a una decina di minuti, e a ciò a cui avrei dovuto pensare non appena mio padre avrebbe potuto leggere i miei pensieri. Ma anche se continuavo a pensare, l’idea era sempre quella: dire la verità. In un secondo. In ogni caso le mie azioni avrebbero riflesso le mie reali intenzioni.

Amo Benjamin più di quanto possa amare tutti voi.

Non ci sarebbe stato altro da aggiungere, e speravo davvero che mi avrebbero capita. Non sapevo cosa mi riservava il futuro, e non ero tanto ingenua da credere che i Volturi non avrebbero più cercato qualcosa da noi. Ma per ora, la mia priorità assoluta era riuscire a tradire la mia famiglia, perché sapevo che sarebbe stato così che si sarebbero sentiti. Benjamin non era dei nostri, non potevano fidarsi. E soprattutto, tradire Jacob. Quello mi avrebbe fatto male veramente. Non dovevo dimenticarmi che senza Benjamin non erano niente di più e niente di meno che una ragazzina viziata e troppo egocentrica, e la perdita di Jacob, del mio Jacob, mi avrebbe sconvolta. Avrebbe scombinato tutto il mio equilibrio. Forse non sarei stata più la stessa, e non esageravo a pensarlo. Jacob era sempre stato più di un fratello, e più di un amico, aveva assunto un ruolo indescrivibile, e con il tempo sempre più complesso. A lui, che aveva dedicato la sua vita a me, cosa potevo dire? La verità era troppo crudele. Non riuscivo nemmeno a formularla in una frase dal senso compiuto.

Mi ricordai di averlo baciato, le mie labbra bruciarono come se le avessi appena cosparse di veleno. D’un tratto la possibilità di rimanere accanto a Benjamin, il mio desiderio, divenne una necessità oggettiva. La presenza di Benjamin mi permetteva inspiegabilmente di essere più ragionevole, più chiara. Non c’era spazio per dubbi e trepidazioni, se lui era lì con me: potevo essere me stessa senza nessuna colpa o paura, senza l’obbligo costante di dovermi chiedere chi fossi.

Jacob, senza Benjamin non sono capace di essere me stessa.

Forse non avrebbe capito subito che era solo un modo come un altro per dire che senza lui non vivevo. Non come avrei voluto. Ma quando lo avesse capito, allora lo avrei sentito eccome. Avrei sentito una fitta da qualche parte, vicino al cuore. Ma sarebbe stata la mia giusta punizione.

-Benjamin, pensavo che la tragedia è ovunque. E per quanto cerchiamo di evitarla, di qualsiasi forma o specie noi siamo, lei è sempre lì-

-Non pensi mai che sia giusto sia così?-. rispose al mio impulso come se già da prima avesse saputo dove i miei pensieri mi avrebbero portata. Mi osservava con attenzione, degnando solo di qualche occhiata distratta la strada davanti a noi. Era semi deserta.

-Certo. È rassicurante, no? Intendo, la nostra possibilità di soffrire-. Mi ritrovai a gesticolare velocemente con le mani, foggiando i miei pensieri nell’aria tiepida dell’abitacolo. Sorrise mestamente.

-Devo farti conoscere un mio amico, prima o poi. Si chiama Thomas. Credo che avreste di che discutere-

-Perché?-. Cercai di immaginarmi un amico per Benjamin, e sebbene mi riuscisse difficile, mi affascinò l’idea che qualcuno oltre me potesse trovarlo abbastanza piacevole da ricercare volontariamente la sua compagnia. Stavolta rise sonoramente, al pensiero di chissà quale aneddoto, forse.

-Penso che abbiate visioni molto…distanti. Il suo pensiero fisso nella vita è evitare il dolore. Come la peste, non so se mi intendi. È l’occupazione della sua vita-

-E ci riesce?-

-Oh sì. Ma a spesa di molte vite innocenti-

Capii l’allusione al volo. Forse la chiave era davvero quella, l’unico modo per essere veramente indistruttibili, dentro e fuori. Ma era anche l’unico modo per morire veramente, e ci tenevo troppo alla vita per volermi perdermi nella visceralità dei miei istinti annacquati. Capì che il pensiero del vampiro mi aveva inquietata, forse quando mi vide fissare dal finestrino il paesaggio fuori.

-Non è cattivo Nessie. Ha una filosofia tutta sua, ma nemmeno tanto pazzesca-

-Può anche essere-

-Tu pensi che soffrire sia giusto-. Non era una domanda, ovviamente, come sempre.

-C’è chi me lo ha insegnato- Sorrisi, e pensai a mio padre. Come eravamo simili. Sperai che potesse essere orgoglioso di me, un giorno.

-Anche io lo credo. Ma mi ricordo sempre che non c’è mai giustizia, nella sofferenza-

-Che vuoi dire?-. Fui io ad osservarlo incuriosito, mentre aggrottava le sopracciglia e contraeva leggermente la linea precisa e morbida delle sue labbra, alla ricerca delle parole giuste. Non capivo ancora fino a che punto potesse essere perfezionista.

-C’è sempre chi soffre troppo, Renesmee, e chi non soffre abbastanza. È un sistema geniale ma imperfetto, e non ci possiamo fare niente-

-Jacob soffre troppo, vero?-

Posò su di me quei suoi splendidi occhi profondi come la notte, e non seppi cosa vide, ma prese la mia mano nella sua. E senza un sorriso, seppi che per quanto potesse, soffriva per noi. Soffriva per me, aveva orrore di ciò che sarebbe successo a Jacob. La sua innocenza infantile gli impediva di macchiarsi di alcuna colpa, in quel momento.

-Vorrei poter fare qualcosa-

-Se ci credi davvero, sono felice lo stesso-

Il discorso aleggiava ancora tra noi come un gas tossico ma inodore. Per quanto potesse essere comprensivo, ci sarebbe sempre stato un muro invalicabile tra Benjamin e Jake. Ero infantile nella speranza che potessero vivere nello stesso mondo. Fui colta dall’improvvisa consapevolezza che dal momento che Benjamin fosse entrato a far parte della mia vita, Jacob se ne sarebbe andato, e non sarebbe mai più tornato.

Ero sicura che non si sarebbe mai più trasformato. E tutta la storia sarebbe finita esattamente come era iniziata, e il cerchio si sarebbe chiuso. Non sarebbe tornato a La Push, non si sarebbe più trasformato.

Cercai di non piangere e ci riuscii, perché la prospettiva di poter essere un umano, un ragazzo come tutti, era la migliore che gli potessi augurare. Sarebbe stata la migliore anche per tutti noi. Mia madre sarebbe stata una donna bellissima, se avesse potuto diventarlo. Mio padre un uomo brillante e intenso. Forse anche io sarei stata migliore.

Ma non Benjamin. Quello che toccavo era il suo vero corpo, non quello dell’umano che era morto per una raffica di mitra nel tentativo di far saltare un ponte, probabilmente ancora mezzo ubriaco. Quella che sentivo era la sua vera e unica voce, quelli che vedevo i suoi veri occhi. Inspiegabilmente,  non poteva essere altro che un vampiro. E il mio destino mi sembrava un po’ meno ingiusto.

Percorremmo il viale di vecchi alberi che ci riportava a casa a velocità moderata, ciascuno immerso nei suoi pensieri artefatti. Nessuno si aspettava che tornassi con Benjamin, ma speravo comunque che in casa ci fossero tutti. Volevo parlare una volta sola, e volevo essere ben chiara con tutti. Parcheggiò l’auto alla fine del viale, in mezzo alla strada. La cosa mi ricordava una fuga, m non era un problema nemmeno quello. Respirò profondamente, provai il bisogno irrazionale di rassicurarlo, di cauterizzare dolcemente tutte le sue ferite. Posai le mie labbra sulla cicatrice sul suo collo che mi sembrava essere più evidente, e le allontanai con lentezza. Fu scosso da un lieve sussulto. Non mi importava molto che mio padre potesse leggere i nostri pensieri, perché dovevo occuparmi anche di lui, e non solo di me.

-Andiamo-. Mi rivolse un ampio sorriso, quasi luminoso, e scese dell’automobile. Aprii la portiera, scendendo mi porse la mano. Camminammo per il vialetto che serpeggiava lungo il giardino, costeggiato da cespugli rigogliosi di camelie, mano nella mano. Tremavo un po’, anche se avevo la ferma convinzione che il mio dovere era prendermi cura di entrambi, adempiere ai miei doveri.

La porta di casa si aprì prima che potessi bussare. Alice ci fissava, seria e pensierosa, quasi con fare accusatorio. Ma potevo anche capirla. Non le piaceva essere tagliata fuori per così tanto tempo, e probabilmente si era fatta venire un gran mal di testa nel tentativo di capirci qualcosa, almeno cercando Benjamin.

-Ah. Siete arrivati, allora-. Era impaziente: non ci aveva visti, ma aveva comunque saputo anticipare le mie mosse. Decenni di veggenza le avevano donato una notevole conoscenza delle azioni degli uomini. La seguimmo dentro casa, e come speravo c’erano tutti. I miei genitori, mio padre che strngeva a sé mia madre, agitati, seduti sul grande divano del salotto. Carlisle ed Esme stavano ancora scendendo le scale, lentamente. Emmett e Rosalie alla finestra, assieme, si erano voltati verso di noi. Jasper seduto al tavolo di mogano scuro, accanto a sé la sedia smossa su cui forse fino a poco prima era seduta Alice. La porta fu chiusa alle mie spalle, e cominciai a cercare dentro di me tutta la sicurezza che avevo sentito. Quasi non mi resi conto che tutti erano ammutoliti, nel vedermi rientrare con Benjamin. Lui aveva di nuovo assunto quella sua strana aria arrogante e taciturna che assumeva con coloro di cui non si fidava abbastanza.

-Renesmee! Sei andata fuori di testa? Non mi hai più risposto! Giuro che se non fosse successo qualcosa entro quindici minuti sarei venuta  cercarti-, riuscì a sputare fuori mia madre. Era abbastanza arrabbiata e preoccupata da riuscire a fregarsene della presenza di Benjamin. Le sorrisi, ignorandola. Cercavo di prendere coscienza di una cosa sola: la sua presenza, alle mie spalle. Inspirai, mi preparai al tuffo.

-Edward vi ha già parlato, vero?- Qualche cenno di assenso, altri che si limitavano a fissarmi immobili. -Credo che dobbiate conoscere la mia decisione- Erano tutti incredibilmente immobili. Mia madre però si torceva le mani, ansiosa, mio padre mi osservava con attenzione, teso. Cercai le parole dentro di me, e quando le trovai, dopo alcuni secondi di assoluto silenzio, ebbi il coraggio di dirle. Ero orgogliosa di me.

-Io e Benjamin ci amiamo. Credo che staremo insieme-

Ci fu un lungo attimo di silenzio, cercai di capire la reazione dei miei genitori, ma non la capivo bene. Mio padre fece una smorfia, come se non potesse crederci.

-Ma lui è…-

-Lo so. Mi fido-. Non lo lasciai finire, sapevo cosa stava per dire: che era un Volturo. Ma non mi piaceva che si parlasse di lui come se non fosse lì con noi, e soprattutto come se fosse un criminale. –E mi farebbe molto, moltissimo piacere se vuoi riusciste a smetterla con questa storia del pericolo. Se volessero farci fuori ci riuscirebbero benissimo, anche senza di lui-

C’era troppo silenzio attorno a me, andava oltre l’irreale. Era totalmente fuori dal tempo, come tutti loro. O meglio come tutti noi, se consideravo i miei ultimi sviluppi. Mi mordicchiavo il labbro inferiore, cercavo un qualsiasi appiglio. Mi sentivo molto sola, e sentivo il mio sangue pulsare ancora nelle vene solo perché ero fermamente convinta della sua presenza alle mie spalle. Mia madre mi sorrise, negli occhi una strana espressione tagliente.

-Allora è proprio amore, è così?- Annuii, anche se forse avrei dovuto incazzarmi. Ma era mia madre, e c’era molto silenzio attorno a noi. -Sono felice che tu te ne sia accorta in tre giorni soltanto-. Mi pietrificai. Sentii qualcosa di amaro, una sensazione sgradevole, nella mia gola.

-Non c’è niente da obiettare-

-Naturale. Perché voi vi amate-. Mia madre sputava veleno, era l’unica espressione che riuscisse ad esprimere ciò che vedevo di fronte a me. Faceva paura, davvero. Lei, che aveva sempre controllato la sua natura, che era rimasta così umana, disciplinata, civile. Le pupille leggermente dilatate, la voce leggermente rauca, stringeva i pugni in quella che sembrava una sorta di posizione di attacco. Una parte di me reagì alla paura facendo due passi avanti, schierandomi a difesa di lui. Come se ne avesse avuto bisogno. Non avevo mai visto mia madre come un’avversaria, non avevo mai sofferto di alcun tipo di complesso. Ma avevo già capito che cosa era successo quel giorno.

Non ero più parte di quel gruppo.

Non ero più legata a quella famiglia. Ogni legame era spezzato, davanti a me, un avversario. Non volevo litigare, ma davanti a me non trovavo un’altra prospettiva.

-Chiaro-

-Certo, certo. Ti ama talmente tanto da fare un resoconto dettagliato su di te a Demetri ogni due giorni. Vuoi raccontarle quello che hai fatto ieri sera, Benjamin?-

-So tutto-

-Ovviamente. Il vostro rapporto è nato all’insegna della sincerità, come potresti non conoscere tutti i dettagli della vita di questo sconosciuto-

-Come se potessi capire dal tempo-

-Giusto! Dopotutto, avete bruciato le tappe, non è vero? Insomma, vuol dire che sapete molto di voi-

-Esattamente-

-Sì, posso immaginare. Sai, il sesso aiuta la conoscenza reciproca, sicuramente-

-Ci hai preso di nuovo-

-Non lascerò che tu faccia questo-

-Piantala mamma-. Mi pulsava la testa, potevo sentire il ritmo del sangue che scorreva nelle mie vene come un fiume in piena. Forse mia madre non era per niente minacciosa, forse stava solo supplicando sua figlia, ma il mio sangue ormai pulsava e scorreva, e non avrei potuto fermarmi. Mi raccolsi ancor più come se stessi per attaccare, mio padre sospirò.

-Renesmee, ti prego. Vai se credi, ma non lasciarci così, come se ci volessi ammazzare-

Mi rilassai, la testa smise di pulsare., ricominciai a vedere, uscii dal vortice. Mi lasciai cadere e trovai due mani che conoscevo bene ad afferrarmi, per tenermi in piedi. Lasciai ciondolare la testa.

-Tua madre vuole solo questo-

Guardai mia madre e incontrai i suoi occhi pieni di angoscia, e mi vergognai per quello che avevo pensato, mi vergognai per tutto. Dovevo scappare, così nessuno avrebbe mai più potuto ascoltare, o intuire, i miei pensieri orribili. Le mani che mi sorreggevano erano così fresche che un brivido leggero corse lungo la mia schiena.

-Sono mortificata-. Non mi accorsi nemmeno di usare la parola che mi faceva sempre usare mio padre, non me ne importava molto.

-Teniamo troppo a te per tenerti qui. Anche la mamma lo pensa-

-Lo pensiamo tutti- Rosalie si voltò verso di me, e mi sorrise triste. La luce della grande vetrata la illuminava, sembrava una madonna. Mi risultò quanto mai strano che una creatura come lei potesse sembrare una santa di tanti secoli fa.

-Non mi era sembrato-

-Scusaci-

Tutto era molto confuso, e mi sembrava che la luce tenue dell’alba che entrava dalla finestra fosse troppo forte. Tutti nella stanza iniziarono a brillare, tranne me. Percepii il bagliore emanato da Benjamin alle mie spalle. Sentivo il suo fiato seguire il ritmo del mio.

-Posso andare?-. Dentro di me sentii nascere una risata. Era stupido chiedere qualcosa adesso, ma non potevo dimenticarmi di essere una bambina.

-Se sei convinta, tutto ciò che vuoi-. Parlava mio padre, ero più che sicura che mia madre non ce l’avrebbe mai fatta. Mi osservava da sotto quelle folte ciglia scure che le avevo sempre invidiato, con i miei stessi occhi, o almeno con quelli che erano stati i miei occhi. Chissà cosa si provava ad avere di fronte a sé qualcosa che era stato tuo, tanto, o forse poco, tempo fa. Non lo avrei mai scoperto. Non riuscivo a capire come potessero lasciarmi andare. Ero troppo cieca, e sorda, e distante, per capire che era solamente l’ennesima prova di quanto mi amassero. Quando davvero si ama non c’è spazio per l’egoismo. Era chiaro dagli occhi tristi e profondi di mia madre che mi salutavano come e più di un caldo abbraccio, non perché non ci saremmo più riviste, ma perché aveva già capito che era appena successo qualcosa di inderogabile. Mi sentii colpevole, ma alla fine libera. Dovevo ancora pagare il prezzo della mia libertà.

Tra noi stagnava un silenzio pesante e irreale. Capitava spesso che la casa fosse piena di silenzio, ma mai così profondo e cupo. Mi ricordava i momenti della mia prima infanzia, in cui tutti facevano bene attenzione a quel che dicevano, o a volte anche pensavano. Gli unici momenti che avevo passato senza Alice e Jasper. Avrei voluto fare qualcosa, ma non mi veniva in mente altro che guardarmi le mani. Per un secondo temetti che Benjamin potesse rimanere deluso dal mio comportamento. Poi mi sincronizzai di nuovo con il suo respiro, e non ci pensai più.

-Jacob sta per tornare- Una mano fresca si posò sui miei fianchi, chiusi gli occhi. –Dovrete parlare-

Aprii gli occhi, mi chiesi come gli eventi avessero potuto spingermi fino a quel punto. Mi sentivo annegare, sommersa da acque che non potevo combattere.

Ero così giovane. Sperai che Benjamin lo avesse già capito, già calcolato.

Non riuscivo a piangere. Dovevo fare qualcosa o sarei impazzita, mi sarebbe scoppiato il cervello.

Mi guardai attorno, vidi il vaso di cristallo del tavolino all’ingresso, lo buttai a terra. Il suono della lastra che si frantumava, delle schegge che fendevano l’aria, mi tranquillizzò. Trovai una statuetta di porcellana, un orrendo prendi-polvere  di chissà quanti anni fa, la gettai a terra. La fine ceramica si squassò a terra con un suono lieve e delicato, non mi soddisfò. Percorsi le scale di corsa, senza fare attenzione agli altri, entrai nella mia camera e mi chiusi la porta alle spalle, a chiave.

Ero totalmente fuori di testa. Andai in bagno e mi lavai la faccia, ma l’acqua non era abbastanza fresca, e la testa era ancora troppo calda. Decisi di bagnarmi la base del collo, ma avevo ancora più caldo, perché la testa mi scottava. Avevo l’impressione di produrre vapore, come le patate lessate. Misi tutta la testa sotto al rubinetto e mi rilassai, l’acqua sembrava più fredda. Poi diventò troppo fredda, e ritirai la testa, quando sentii di avere i brividi. Come potevo non essermi accorta che era gelata? Era assurdo. Poi mi sentii sporca, tutta sporca, anche i vestiti. Aprii la doccia cinque secondi, facendo scorrere l’acqua per farla scaldare per bene, mi ci buttai sotto con i vestiti. Piano piano mi tolsi tutto, mi pulivo bene perché mi sentivo sporca. Avevo l’impressione di non riuscire a pulirmi, ci rinunciai e mi misi un accappatoio addosso. Era un accappatoio molto morbido e profumato e mi dispiaceva che dovessi toccarlo con la mia pelle sporca.

Poi cominciai a mettere in pratica la mia idea, sperando che nessuno si accorgesse di quanto ero sporca.

Tirai fuori dalla cabina armadio un paio di valigie, di quelle enormi, che si usano per andare in quei posti in cui si ha la certezza di non poter trovare niente di quello di cui uno ha bisogno. Le aprii entrambe, in mezzo alla camera da letto, e aprii gli armadi. Cominciai a riempire, senza un vero ordine logico, mettevo un po’ di tutto. Shorts, giubbotti, bianche canottiere di lino, guantini di camoscio, sandali, sciarpe. Non sapevo ancora cosa sarebbe stato giusto portare.

Bussarono alla porta, andai ad aprire. Avevo quasi finito, potevo anche avere pubblico, dopotutto. Mi trovai di fronte mio padre e mia madre, affiancati da Carlisle. Mi suonò un campanello nella testa: l’asso nella manica Carlisle si usava solo in casi disperati, come per esempio attacchi da parte dei Volturi, o evidente schizofrenia di un membro della famiglia. Sospirai. Trovai lo sguardo di Benjamin, acquattato alle spalle dei miei famigliari, curioso e indecifrabile come al solito. Gli sorrisi. Avevo proprio bisogno di mettere la testa sotto l’acqua.

Ignorai il trio e ritornai alle mie valigie. Infilavo e schiacciavo tutto, infilavo e schiacciavo, mentre gli altri mormoravano. Trovai un altro paio di mani ad infilare e a schiacciare, e mi chiesi come facesse a capire sempre tutto. O forse semplicemente accettava i miei ridicoli sbalzi d’umore, cosa che non avrei mai fatto, fossi stata in lui. A volte le nostre mani si sfioravano, mentre preparavo la mia fuga. Presi una grossa borsa, la mia Fendi preferita: sul momento non ci feci nemmeno caso. Ci infilai dentro una bottiglia d’acqua, il telefono, il laptop e il passaporto. Presi dei vestiti dall’armadio, infilai anche un cardigan in borsa, non sapevo ancora quale fosse la mia meta. Andai in bagno e mi vestii velocemente, districai i capelli ancora fradici, non feci caso agli occhi gonfi. Durante tutto quel lungo rito, non avevo mai smesso di piangere. Mi sentivo secca, prosciugata. Quando tornai nella stanza, Benjamin aveva già chiuso le valige, e se ne stava seduto sul letto, a guardare negli occhi mia madre e mio padre.

Non capivo come potesse salvarmi anche solo restando in silenzio, immobile.

Ero ferma in mezzo alla stanza.

-Sta per arrivare?-

-Sento i suoi pensieri- Mio padre mi rispose cercando di decifrare i miei pensieri. Non ci riuscivo nemmeno io, non ce l’avrebbe fatta nemmeno stavolta. Inspirai.

-Glielo dirò. Ma voi dovete aiutarmi. Non lasciatelo solo, vi prego. Un giorno vorrò rivederlo, e vorrò vederlo vivo, e senza di me, e senza quel suo stra maledettissimo bisogno di me. Non lasciatelo solo-

-Non lo faremo. Dove te ne stai andando?-. Mamma aveva la voce più dolce di tutti noi.

-Non lo so-

Mi abbracciò. Si fece avanti e mi strinse forte e mi cullò un pochino.

-Ha solo bisogno di più tempo- La voce triste di Benjamin aleggiava nell’aria.

-Ha tutto il tempo che vuole- Papà prese il posto di mia madre nell’abbraccio, lo strinsi forte, sperando che capisse.

Benjamin e mia madre parlavano di cose pratiche, spezzoni di discorso che non capivo a fondo. Si chiedevano se sarei riuscita a guidare, se era meglio che lui andasse all’aeroporto prima, se forse qualcuno doveva accompagnarmi, se lui aveva una diavolo di idea di dove me ne potessi andare, e che il suo amico Thomas ci avrebbe sicuramente dato una mano, ci avrebbe prestato una delle sue case, ma doveva fare qualche telefonata, e poi c’erano i Volturi, ma non c’era problema, Tatiana avrebbe saputo cosa fare, si sarebbe inventata qualcosa, potevo lasciare il Paese senza problemi, almeno per ora.

-Renesmee, ricordati che qui c’è casa tua, no hai bisogno di scappare via. Ma lo accettiamo, e ti aspettiamo-

Mi chiesi perché cazzo dicessero sempre le cose giuste, quelle migliori, quelle che io non facevo mai.

-E’ solo che ci sforziamo di fare il meglio. Ma magari quello diciamo è diverso da quello che pensiamo- rise nervosamente, anche io afferrai l’ironia- puoi credermi-. Annuii, mi allontanai dall’abbraccio.

Benjamin era lì, che spiegava a mia madre che cosa avremmo fatto. Sapevo che avrebbe potuto sembrare impassibile, ma sapevo decifrarlo, nel suo codice tutto particolare. E non per me non era di certo un problema capire che era nervoso,e preoccupato, e forse anche intimamente felice della piega che la cosa aveva preso. Chissà se lo sapeva, che io capivo tutto.

-Vai all’aeroporto, prendi le valige, ti raggiungerò subito-

Strinse leggermente gli occhi scuri, si soffermò sul mio volto con singolare attenzione, ma non trovò nulla di cui preoccuparsi. Ovviamente i nostri oscuri movimenti gli altri non li potevano nemmeno avvertire. Mi sorrise, forse la prima volta in cui gli altri lo vedevano sorridere.

-Ti aspetto-

Non era esattamente un commiato romantico, vederlo uscire dalla porta di camera mia con due enormi valige da viaggio transoceanico, senza nemmeno un abbraccio, un bacio, qualche bella frase. Ma non era proprio un problema. Mi sedetti sul letto, esattamente di fianco  dove fino a poco prima c’era stato lui.

-Vuoi che diciamo a Jacob di salire?-. Non mi ero accorta che in camera era rimasta solamente mia madre. Feci un cenno di assenso. Mi ero persa a guardarmi attorno, a cercare di capire la mia camera. Avrei voluto spogliarla del tutto, dormire sul pavimento e contemplare un muro bianco. Non riuscivo più a capire tutta quella profusione di cose, oggetti, accessori, colori, tessuti. Erano così pesanti: mi toglievano il respiro.

-Mamma, ti prenderai cura di Jacob?-

-Ci proverò. Non devi sentirti in colpa-

-Non dirlo se non lo pensi- Non mi rispose.

-Cos’è che ti lega a lui?-. Forse volevo parlare con rabbia, ma riuscii solo a simulare una stanca curiosità. Lei si morse un labbro, allontanò lo sguardo.

-E’ una storia così vecchia che non ha nemmeno senso ricordarla-

-Quanto vecchia?-

-Una vita fa-. Certi riferimenti non erano mai casuali, non potevano esserlo in quella casa. Aggrottai le sopracciglia, disorientata.

-Qualcosa come quindici anni fa, o giù di lì?-. Silenzio, mentre mia madre mi fissava, eloquente e chiara nei suoi occhi dorati ed eterei. Rabbrividii: non era possibile credere a quello che avevo appena capito. Ma era del tutto inutile negare, e sebbene stentai a trovare la voce, non potei non chiederglielo. –Mamma, eravate insieme?-. Fece una smorfia, si guardò attorno.

-Non insieme-

-Ti piaceva?-

-Era il mio migliore amico, e forse sì, un po’ lo amavo. Ma io non volevo-

Ovviamente perché lui voleva.

Ero disgustata dalla malvagità della sorte.

Come diavolo era possibile che succedesse due volte? Perché qualcosa, qualche cazzo di forza pervertita, poteva fare questo a lui? Alla stessa persona.

Mi incazzai molto con il destino, con la storia di tutti, in quella mattina d’autunno color grigio chiaro, con la pioggia fine che entrava un po’ dalla finestra semi aperta., e le foglie appiccicate alla terra umida e mia madre che mi raccontava la storia sconosciuta di due ragazzi normali, o quasi, che si innamorano ma si trovano ad affrontare forze molto più grandi di loro. Sapevo bene che non me la potevo prendere con un semplice giro di destino, di quelli che con un soffio ci sbattono proprio dove non avremmo mai immaginato, m era sempre molto più semplice di prendermela con me stessa o con Benjamin.

C’è sempre chi rovina tutto, ma non era colpa mia se ero nata così, e non potevo farci proprio niente. Forse anche Jacob se la sarebbe presa col destino. Ci stavo ancora pensando quando entrò, e io alzai gli occhi, e la mia gola era secca, e il mio cuore batteva piano, un ritmo lento e silenzioso, come se si volesse nascondere. Sospirai e incredibilmente gli sorrisi. Ma non era di certo il sorriso che gli avevo sempre riservato: era quello di Benjamin, il suo sorriso triste di chi capisce perfettamente il tuo dolore.

Ormai era parte di me, per un semplice giro di destino.

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** L'iniziazione ***


Dovunque scegliessi di andare, la pioggia mi seguiva

Per una volta rispetto le scadenze! Dopo quello di oggi pomeriggio,ecco il capitolo della sera. Allora per prima cosa grazie a tutti quelli che hanno letto e leggeranno, mi fa piacere che qualcuno riesca ancora a riprendere il filo della storia (o almeno lo spero! :s) o comunque ad interessarsi. seconda cosa: devo precisare che il capitolo è ambientato un anno dopo rispetto a quello precedente, e anche il luogo non è più lo stesso, mentre la voce narrante è sempre quella di Nessie!

Buona serata e un bacio

Giuls

 

 

 

 

Dovunque scegliessi di andare, la pioggia mi seguiva.

Batteva sui vetri, sui tetti delle case che abitavo, sulle auto che usavo, sulla mia pelle bollente.

Mentre preparavo di nuovo la valigia, ripensavo al tempo che avevo passato in quella casa. Era stato così assurdo da sembrare un sogno, e seguendo la stessa logica pazzesca, mentre riponevo tutto le mie cose nella grossa valigia grigia mi sembrava di poter esaminare con inaspettata chiarezza tutto quello che mi era successo. Piegavo delicatamente i maglioni, i cappoti, i cardigan di cachemire , assaporavo ancora una volta lo strano odore di antico, e di legna che brucia, e di muschio ed erica bagnate di quella casa che era stata il mio rifugio. Mi fermai un istante ad osservare la distesa verde e marrone, bassa e robusta, bagnata dalla nebbia, ritmata da meschini muretti di torba, che era la brughiera.  La piccola strada che ci avrebbe condotti alla civiltà, e poi all’autostrada, e di lì a Londra, spezzava con discrezione il paesaggio, tanto era insignificante. Quando, un anno prima, ero arrivata in quel posto, quell’infinita solitudine mi era sembrata una vista insopportabile. Ora che mi preparavo a lasciarla, sentivo la certezza che l’avrei portata per sempre dentro di me. Il vento che compiva il suo giro tra i bassi cespugli di erica robusta scorreva nelle mie vene allo stesso modo del sangue. Mi ero abituata alla bellezza selvatica di quelle distese umide, allo splendore del cielo increspato da nuvole maestose, o illuminato da una luce cristallina, della stessa tonalità della mia pelle ai raggi del sole, ai profumi semplici di torba e muschio, che riempivano l’aria anche nelle giornate di neve.

Benjamin al piano di sotto stava parlando al telefono con Thomas, forse per le ultime direttive da parte sua: la casa ce l’aveva prestata proprio Thomas. Era stato molto premuroso,a modo suo. A volte veniva a trovarci, “per controllare lo stato della proprietà, se organizzavamo festini o se le tubature erano a posto, perché si faceva presto a svalutare un bene, con i tempi che correvano”. Ma era molto legato a Benjamin, e di conseguenza anche a me, anche se continuavo a sospettare che mi considerasse più come una specie di accessorio del suo amico piuttosto che come una persona vera e propria. Avevamo passato dei bei momenti in quella casa: forse non era proprio esatto chiamarli “belli”, forse sarebbe più appropriato “sensazionali”, o semplicemente importanti. Non c’erano gloriosi ricordi d’amore, tra quelle mura, in quelle stanze, tra i mobili pesanti e fuori moda. C’era qualcosa di molto più freddo, ma così vero da togliere qualsiasi dubbio. Non era un sogno, e me ne ero accorta proprio lì. E ogni emozione, positiva o negativa che fosse, non era mai più stata attutita da nulla.

I primi tempi non erano stati duri: ero eccitata dalla novità, confusa dalla situazione e troppo piena di emozioni per poter pensare. Per poter fermarmi a considerare, così, in silenzio, per un paio di minuti. Mi muovevo, facevo, esploravo, leggevo, ballavo. Fu quando ricominciai a ritornare in me, lentamente, come se l’effetto di un narcotico svanisse, che cominciai a sentire distintamente tutte le ferite che mi ero fatta. E fu quando cominciai a non trovare alcuno sfogo nella danza, né alcun interesse in un libro, né nessuna bellezza nel paesaggio, che cominciai a non avere la forza di alzarmi dal letto, la mattina. Volevo che la notte non finisse mai, che il sonno potesse cullarmi sempre. Avevo smesso di nutrirmi, prendevo solo cibo: non ci avevo mai provato, o meglio non avevo mai voluto provarlo. Fu molto strano:divenni magra, piuttosto gracile. Non avevo mai avuto una corporatura particolarmente ossuta, ed era strano vedere le ossa dei polsi e delle caviglie tirare la pelle, tanto sottile che pensavo avrebbe potuto strapparsi da un momento all’altro. La mia carnagione diafana, luminosamente alabastrina, assunse uno strano colore, tra il giallo chiaro e il bianco sporco. Mi venne qualche piccola ruga, vicino agli occhi.

Scoprii che potevo morire, , perché il mio corpo poteva deperire, se rinunciavo al sangue, e io sapevo rinunciarci. Una mattina mi guardai allo specchio, e vidi che ero brutta: avevo degli orribili capelli sfatti e radi, perché avevo cominciato a perdere molti capelli, delle occhiaie profonde e violacee, il viso smunto, non avevo più le guance, ma due incavi profondi. Notai una nuova ruga, ad un angolo della bocca, e sorrisi debolmente, mentre i miei occhi iniettati di sangue sprizzavano gioia. Non capivo, in quel momento, a quale folle causa avessi deciso di votarmi, senza nemmeno accorgermene.

Volevo solo espiare tutte le mie colpe, dopotutto. Sarei ritornata innocente come una volta.

Quella mattina, mentre procedevo alla mia solita routine, cioè farmi una doccia veloce, mangiare qualche pezzo di cibo imprecisato e poi ritornare a letto a cercare di riaddormentarmi, percepii qualcosa di diverso. Un’impressione, forse. Ma c’era davvero qualcosa di diverso, nell’atmosfera della casa: mancava qualcosa, un odore, un colore, un oggetto. Ritornai a letto e cacciai un urlo: avevo capito qual era il pezzo mancante. Di fianco a me, sul letto, o sulla poltrona vicino al camino acceso, mancava Benjamin. Immediatamente mi alzai, feci qualche giro della camera da letto come se potesse ricomparire da una parete. Notai le ceneri fredde del braciere del camino: nessuno lo aveva acceso. Per la prima volta da un bel po’ di tempo, uscii di casa, e per la prima volta da tantissimo tempo, usai i miei sensi per cercare qualcosa. Con uno scopo. Percepii la sua scia all’istante, la seguii: volevo correre, e mi sforzavo, ma non riuscivo ad andare più veloce di quanto potesse fare un essere umano. Il mio corpo era troppo intorpidito per rispondere agli impulsi e troppo debole per soddisfarli. Mi fermai a riprendere fiato, mi sedetti a terra, per un istante mi sembrò di averne perso la scia. Sentii il respiro affannarsi nei polmoni, l’aria mancare, l’ossigeno venirmi meno. mi sforzai di respirare e ripresi a correre. Non sono mai stata un vero essere umano, tranne che forse in quel momento, mentre mi sforzavo di non cadere mentre correvo.

Ma alla fine, quando già sentivo venirmi di nuovo meno il respiro, lo vidi.

Mi aspettava in piedi, di fronte a me,e  mentre arrancavo lungo la salita della collina, cercavo invano di decifrare il suo viso. Ma non capivo, e mi ricordai solo allora che era molto tempo che non gli avevo più prestato attenzione. Benjamin aspettava fermo, immobile irraggiungibile. Arrivai, e presi fiato per qualche secondo perché mi girava la testa. Nessuno mi sorreggeva.

-Non pensavo che saresti venuta-. Si accese velocemente una sigaretta, guardò un po’ per aria, si concentrò su di me. Il suo sguardo poteva essere così aspro da infastidire. Rimasi in silenzio, perché ancora avevo bisogno di riprendere fiato. –Ma riesci sempre a stupirmi-. Strinse gli occhi, mi studiò, piegando leggermente la testa.

-Te ne eri andato-

-Anche ieri me ne ero andato, e anche il giorno prima-. Ancora silenzio.

-Non è vero-

-Non puoi sempre avere ragione Nes. Ti hanno viziata un po’ troppo-

-Tu te ne sei andato oggi-

-Certo che no, ma ultimamente sei troppo impegnata a suicidarti per accorgerti degli altri. D’altronde, è un’occupazione a tempo pieno. Sono comprensivo-. Una risata roca e spiacevole, e anche io risi. Sembrò contrariato.

-Non prendermi in giro, sei andato via oggi-

-Tornerai a casa, Renesmee. Adesso andrai a vestirti, a prendere il passaporto e tornerai a casa-

Mi bruciava la testa, mi facevano male le ossa, dovevo tornare a dormire.

-Sei impazzito?- sibilai tra i denti.

-Torna dai tuoi genitori, Renesmee. E da Jacob. Perché io non posso prendermi cura di te-

-No-. Avrei voluto piantare i piedi a terra, e assumere un’espressione decisa.

-E perché non dovresti? Perché mi ami?-. Piegò la testa di lato, mi sfidò apertamente, ma non ero ancora sicura per che cosa stessimo lottando. Mi sentii addosso tutto il peso delle mie ossa, dei miei capelli radi, della mia carnagione malata, e mi resi conto che lui aveva bisogno di me, nello stesso identico modo in cui io avevo bisogno di lui.  Tutta la paura, lo smarrimento che avevo provato quando mi ero resa conto che mancava, dovevano essere solo un’idea imperfetta di ciò che io avevo fatto a lui.

Io avevo voluto andarmene.

-Non voglio abbandonarti-

Silenzio.

Era chiaro come il sole che eravamo felici di rivederci, finalmente. Sapevo che era solo colpa mia, che avevo cercato di spegnermi, ma Benjamin non è mai stato uno che porta rancore, per mia fortuna, perché ho sempre avuto la tendenza a fare un casino di errori. Mi perdonò subito.

Tornammo a casa decisi a fare del nostro meglio, nel futuro.

Nei mesi successivi, ritornai me stessa, più o meno. bere sangue mi fece bene: recuperai il peso e il colore, i miei capelli ritornarono folti e sani, anche se un po’ più lisci e sottili di prima. Cominciai a fare cose, a pensare, ad avere uno scopo nelle mie giornate: io e Benjamin passavamo il tempo a leggere, guardare film, parlare. Mi chiese tantissime cose, di quando ero piccola, di quando ero nata, di che cosa pensassi in quel momento riguardo a tante cose. A volte mi chiese qualcosa sull’imprinting di Jacob: gli dissi quello che sapevo, e che ero sicura che per me sarebbe stato sempre una persona a sé stante, in una dimensione privilegiata. Non si sbilanciò molto, ma ero certa che dentro fosse un po’ amareggiato. Gli piaceva avere la mia attenzione totale, che lo guardassi, che facessi attenzione a lui. Non capivo se era sempre stato così, o se lo era diventato dopo quel brutto periodo. Mi chiese se da piccola avevo mai giocato, come fanno i bambini, con le costruzioni e i peluches. La mia cameretta di quando ero piccola era stata piena di peluche, sempre perfetti e ben lavati, senza un granello di polvere, ma non ne avevo mai usato uno. non ero mai stata abbastanza immatura da sentire il bisogno di giocare. La mia infanzia, se possibile, era stata ancora più desolante della mia adolescenza, che era durata sì e no un paio di anni e che era stata caratterizzata da un’inquietante consapevolezza dei cambiamenti esagerati del mio corpo, come un medico che può controllare freddamente gli sviluppi di un male incurabile e aggressivo sul suo corpo inerme. Nel giro di un mese o poco più, da bambina piatta ero diventata una ragazzina prosperosa. Il particolare lo fece ridere un po’, ma come biasimarlo? La situazione era stata piuttosto grottesca: soprattutto con mio nonno, per quanto abituato da un bel pezzo alle mie stranezze, la cosa era stata piuttosto ridicola. Aveva chiesto per due volte ai miei, a bassa voce, pensando non potessi sentire, se avessi assunto qualcosa di strano. Il povero Charlie proprio non ci si raccapezzava. Era molto che non lo rivedevo, e mi mancava, e mi mancava ancora di più se pensavo che lui non era indeterminato, come tutti noi, ma faceva parte di quella categoria di esseri viventi che hanno una fine davanti a sé, nel momento stesso in cui vengono al mondo.

Invidiavo Charlie.

Allora decisi di tornare a casa. Non me lo aspettavo, ma Benjamin non gradì il cambiamento: non era per niente contento di tornare a casa. Non volevo litigare con lui, perciò restai bene attenta a insinuare l’idea che il suo unico problema fosse Jacob. Ero diventata un’osservatrice acuta, e a quel punto mi era assolutamente chiaro che Benjamin era assolutamente, ossessivamente, geloso di me. Allontanandomi da lui, avevo perso un po’ della sua fiducia: non lo sentivo più lontano, semplicemente più attento, come se fossi stata sul punto di scappare da un momento all’altro. L’idea che tornassi dalla mia famiglia, e da Jacob, lo turbava, ma non me lo fece mai capire apertamente. Decisi di tornare comunque per affrontare un po’ di cose, e così, di malumore e piuttosto dubbiosi, lasciammo la casa in cui eravamo arrivati l’autunno precedente.

 

 

 

 

Angolo masochismo:

secondo me questo capitolo non era il massimo, spero di rifarmi con i prossimi! XD

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** (note al capitolo successivo) ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti! A causa di problemi sconosciuti con word (a volte penso che la tecnologia avrebbe dovuto fermarsi al buon vecchio telegrafo, per non farmi scoppiare il cervello), scrivo qui le note e inserisco il capitolo a parte.

Bene, sono molto contenta di aver ritrovato un’accoglienza così calorosa, come quando vi avevo lasciati, graaaazie mille J E spero che tra i lettori ci sia anche qualche nuovo adepto! (senza nulla togliere agli afcionados e ai loro strepitosi commenti ;) )

 

Vasq: Ciao! Più che altro, grazie per la tua pazienza e la dedizione! Be sì, in effetti è di passaggio, ma alla fine lo sono un po’ tutti. A volte penso che dovrei inserire un po’ d’azione. Però preferisco così: mi sembra più reale, per quanto si possa parlare di realtà in un frangente simile… a presto, un bacio! J

Sily85: Ciao! Auguri anche a te (ma sì dai, non facciamo troppo caso alla tempistica XD) Porca vacca mi spiace troppo dover sempre rimandare, ma ormai ho le idee abbastanza chiare in testa, e direi che il faccia faccia tra Jake e Nessie sarà sicuramente in uno degli ultimi capitoli, ma non credo che manchi molto :) perdono, sono lentissima, lo so, però mi perdo sempre nelle descrizioni, azz! In ogni caso grazie per la comprensione, è quel che ci vuole…a e poi per quanto riguarda i personaggi “dal vero”, sai che mi hai buttato lì un pallino assurdo? Dunque, ho riflettuto su Renesmee/Marion, e ti dico: non è che io la veda proprio così (anche perché la Cotillard è una donna, ha i suoi trent’anni, non può rappresentarla), diciamo che ci riconosco una femminilità e una bellezza basiche, un po’ senza tempo, non legata ai nostri canoni passeggeri. Tipo: forse una tizia del genere http://www.topnews.in/files/images/MirandaKerr1.jpg  potrebbe rappresentare molto meglio oggettivamente Renesmee, ma mi sembra così…di plastica. Non so, per me Renesmee rappresenta una sintesi tra l’umano e l’ultraterreno. Una ragazza vera ma meravigliosa. Ok, adesso che hai capito che non ce la posso fare a tirare questi pacchi posso andare.Anzi no, beccati qua:

 http://www.giglio.com/moda-online/_landing/_img/armani2.jpg .questo è il profilo sputato di Ben, se ti interessa ;) senza nulla togliere a quella meraviglia di Dean…Un bacio e a presto!

LadyEl: Ciao! Sai che la tua descrizione mi ha fatto troppo venire in mente una di quelle giornate d’autunno in cui cadono le foglie e il protagonista si strugge per qualcosa e intanto in sottofondo parte una musica super struggente di violino/pianoforte?? O.o (scusa ma stasera sono un po’ esaltata: dalle mie parti nevica e magari domani sto a casa da scuola) Mi sento troppo una merda, passami il termine…potevo anche scantarmi a scrivere. Be, in ogni caso. Grazie mille dei complimenti, troppo gentile, davvero. E sono proprio contenta che alla fine Benjamin ti piaccia. Anche se alla fine nella saga non c’è…mi sarebbe piaciuto che ci fosse stato un personaggio simile: soprattutto rileggendola, mi rendo conto che manca qualcuno di un po’, come dire…in dubbio. Non so se ho reso. E poi STRA GRAZIE per il particolare di Eclipse che mi hai fatto notare: guarda caso lo sto proprio rileggendo, e mi sono andata a riprendere il capitolo. Direi che mi hai abbastanza salvato la storia, visto che non avevo assolutamente idea di come mettere a posto le cosa con Jacob (ho escluso il suicidio perché sono una persona che ama la pace, yea). A, e tranquilla: il prossimo capitolo è un bel tete à tete Edward- Bella e Nessie-Benji   ;) un bacione, a presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Una brava compagna di viaggio ***


36

36

L’aeroporto di Seattle era stato  colpito da una nevicata piuttosto intensa, considerato il periodo dell’anno. Era solo fine novembre, eppure la neve aveva già bloccato la città un paio di volte. I ritardi dei voli furono inevitabili, e così anche noi arrivammo a destinazione sei ore e mezzo dopo rispetto al previsto. Ci fermammo a noleggiare un’auto e a chiamare mia madre: ci aspettavano tutti. Osservavo i paesaggi tanto noti e mi chiedevo cosa fosse cambiato. Ero talmente sicura di non essere più la stessa persona da non poter nemmeno credere che Benjamin stesse ancora lì con me.

-Grazie per essere venuto- dissi, mentre leggevo il giornale del giorno prima, distratta e annoiata dalle notizie sempre simili a se stesse.

-Eh?-

-Voglio dire, io lo sapevo che tu non volevi ritornare qui-. Chiusi definitivamente il giornale.  Lui mi guardò di sbieco, con quei suoi grandi occhi scuri, più inquieti che mai. Rimase un po’ lì a guardarmi e rise.

-Però ci sei voluta venire comunque!-

-Bè, dovevo farlo- risposi piccata.

-Giusto. Renesmee e il senso del dovere, un’inscindibile connubio-. Anche io sorrisi, perché effettivamente c’era dell’ironia.

-Dai, mi voglio impegnare-

-Lo so- sospirò –dobbiamo cercare di essere civili-. Sbuffava irrequieto, guardandosi attorno. Proprio non voleva tornare, ma ero convinta che fosse meglio per tutti e due.

-Fidati, vedrai che non sarà male. Potremo tornare a scuola…-dissi con poca convinzione.

-Ecco, adesso mi hai convinto. Ma come diavolo non ti è venuto in mente di dirmelo prima, che d’ora in poi potremo fingere di essere degli adolescenti complessati e asociali!-

-Ma no, io dico, diciamo che la cosa mi aiuta. Ho bisogno di un momento di normalità, così, per conciliarmi un po’..-

-E poi ti manca casa-, disse, voltandosi a guardarmi negli occhi. Era ritornato serio.

-e poi mi manca casa- ammisi sottovoce, come una sconfitta. Era una sconfitta, in effetti, e anche bella grossa.

-Guarda che anche io lo sapevo già che ti mancava casa-, mi sorrise.

-Potevamo anche dirci tutto prima, allora- sbuffai, più divertita che infastidita dalle nostre rivelazioni paradossali.

-Certo, ma sarebbe stato semplice. E a noi piacciono le cose complicate-. Sorrise di nuovo, ammiccante.

-Lo hai notato anche tu?-, dissi, mettendomi gli occhiali da sole di Ben. Non c’era il sole, ma era la stessa cosa.

-Sì, però se ci fai caso, io sono una persona molto semplice, quindi tutte le complicazione in realtà le porti tu-

-Mmm-. Mi allungai sul comodo sedile della monovolume, e cercai qualche stazione radio decente. Non avevo cd miei, su quella macchina anonima e un po’ triste, come una camera d’albergo.

-Okay, era un sì- ridacchiò soddisfatto.

-E stai zitto un po’!-

La sensazione della sua mano che mi carezzava i capelli, leggera come non mai. Me la portai alle labbra.

-Manca molto?-

-Boh-

-Per te è un problema che mi manchi casa?-. lo guardai di sottecchi, da sotto gli occhiali scuri. Si strinse nelle spalle, come faceva sempre quando doveva darmi un parere.

-Dipende- disse alla fine- da chi ti manca. Ma in generale lo capisco: anche io se avessi una famiglia vorrei rivederla, credo-.

-Non è lui che mi manca, stai tranquillo. E non devi vergognarti di essere geloso-

-Tu mi psicanalizzi, e la cosa ti diverte-

-Nah. La cosa mi affascina-. Gli feci una linguaccia, e ricevetti in risposta una tirata di orecchie. Ma decisi di piantarla, visto che non era proprio il caso di finire fuori di strada con la macchina appena presa a nolo.

Il viaggio durava parecchio a causa della neve, che aveva riempito le strade di una poltiglia gelata grigio marrone che ci impediva di superare con successo le sessanta miglia orarie, e io mi addormentai un paio di volte. Verso sera cominciarono a comparire cartelli stradali in direzione di Bremerton.

Bremerton era la nostra nuova città, dopo Forks. Per ovvi motivi molti della famiglia avevano lasciato Forks prima di me, come Carlisle ed Esme, che avrebbero dovuto dimostrare dieci anni più della loro apparente età, e che già cinque anni fa, per i bravi abitanti di Forks, si erano ritirati nel Maine perché il dottore aveva deciso di trasferirsi nella casa natia, da poco lasciata vuota a causa della morte del padre. La tristezza della circostanza mise a tacere le chiacchiere. Poi fu il momento di Jasper e Alice, entrambi vincitori di una borsa di studio alla facoltà di fisica dell’università di Cambridge, Inghilterra, seguiti l’anno successivo dai novelli sposi Rosalie ed Emmett, che decisero di trasferirsi ad Augusta, nel Maine, per vivere a meno di quattro ore di fuso orario dai genitori adottivi. Fino a che non rimanemmo solo io e i miei genitori, nella piccola casetta perfetta. Ma anche il loro aspetto divenne presto un problema, fino a quando anche noi ci trasferimmo nel Maine. Soffrii il distacco da mio nonno, e Jacob soffrì il distacco dal suo branco. Ci aveva seguiti, giustamente. Fu soprattutto il pensiero di Charlie e dei compagni di Jake a convincerci a tornare da quelle parti, almeno ancora per un po’. Almeno fino a quando Charlie sarebbe rimasto tra noi, era quello che tutti tacitamente pensavamo. E così la primavera precedente arrivammo tutti a Bremerton.

Era un’insulsa cittadina a sud di Forks, brutta e scomoda per le nostre esigenze, perché la foresta attorno era povera di animali e troppo ricca di campeggiatori. Ma era abbastanza vicina a Forks perché potessimo mantenerci in contatto con i nostri legami, e abbastanza lontana perché nessuno si ricordasse della nostra famiglia. Alcuni di noi, per precauzione, cambiarono cognome. Quando ne attraversammo la strada principale, mi sembrò quasi di non esserci mai stata prima.

-La tua casa era in affitto?-, dissi, mentre lasciavamo la macchina all’autonoleggio. Avremmo proseguito con l’auto di Ben, che si trovava ancora nel garage della grande casa.

-No. Me l’aveva procurata Thomas-

-Allora la possiamo usare ancora?-

-Se vuoi sì.-. controllò di aver dato l’importo giusto, consegnò le chiavi, non lasciò mancia. Non era tirchio, ma non dava molta importanza al denaro, perciò non capiva il motivo per cui alla gente normale i soldi piacessero tanto. Si dimenticava quasi sempre di lasciare le mance. –Ti piacerebbe?-. mi osservò, con un mezzo sorriso che lasciava intravedere i denti lucidi, affilati.

-Non so. Mi fa tutto un po’ impressione, non so se mi piacerà così tanto-

-Hai dei ricordi tanto brutti?- . Con indifferenza mi mise un braccio attorno al collo, non prima di aver alzato il cappuccio del mio giubbotto. Aveva cominciato a piovere un po’.

-No. Ma nemmeno con la mia famiglia ho dei ricordi tanto brutti, eppure adesso che sto per tornare vorrei non essere qui-. Chissà dov’era Jacob. Chissà se mio padre poteva già sentire un’ eco dei miei pensieri. Fermammo un taxi e Ben diede l’indirizzo della casa: non era lontana, e saremmo arrivati nel giro di dieci minuti. Il taxista era impegnato a canticchiare una canzone che non avevo mai sentito, continuammo il nostro discorso.

-Vorrei capire qual è il tuo problema-, disse giocherellando col mio indice sinistro. –Per poterci lavorare-. Aveva un senso del dovere molto sviluppato, al contrario di me. Sorrisi.

-Quando lo saprò, stai certo che te lo farò sapere-

-Tu hai capito qual è il motivo per cui siamo così giusti insieme?-. strinse un po’ i suoi occhi scuri. Mi sembrò più perfetto che mai.

-Sinceramente no-

-Nemmeno io. Ma non ci faccio più tanto caso, perché alla fine mi piace, non riuscire ad arrivarci-

-Anche a me, mi fa sentire viva-

-Anche io mi sento vivo. Non capitava da un po’-

Scendemmo dal taxi, Ben pagò, mi guidò lungo il lungo viale, dopo aver aperto il cancello con una lunga chiave dall’aria antica. Il viale era coperto di neve, la coltre avvolgeva la casa, il giardino poco curato. Della neve riuscì ad entrarmi negli stivali, mi inzaccherai tutti i piedi. Volevo cambiarmi le calze.

-Quando avremo messo a posto un po’ di cose, ti porterò a fare un viaggio-, disse distraendomi dal mio tentativo di non fare entrare altra neve negli stivali. Aveva alzato il viso al cielo, lo sguardo rivolto verso l’alto, alle nubi chiare cariche di nuova neve. Non si rivolgeva direttamente a me, ci stava pensando su, e mi piaceva essere le confidente. Le cose che non si potevano dire proprio a nessuno, era bello dirle tra di noi. –Così potrai vedere tante cose. Sei una brava compagna di viaggio-

-E da cosa lo sai?-

-Quando ci sono cose nuove da vedere, la tua attenzione si focalizza su quelle, e basta: non c’è altro, solo quello che c’è di nuovo. Anche quando hai visto me, non mi hai notato per qualcosa di… speciale. Era solo la tua curiosità a spingerti ad avvicinarti a me-

Qualche fiocco pesante ricominciò a cadere.

-Vero. Ma la mia curiosità non poteva sapere a cosa mi avrebbe portato, per fortuna. Altrimenti mi sarei spaventata-

-Vero anche questo. Prendiamo la macchina, ci aspettano-

Andammo verso il garage sul retro, dove se ne stava, inutilizzata, l’auto di Ben. Quella lunga berlina dall’aria veloce e costosa non gli si addiceva per niente, e capii che anche quella gliel’aveva procurata Thomas. Ma c’era troppa neve sulle strade per poter prendere la moto, e ci arrangiammo con quello che c’era.

-Ho proprio voglia di partire, ci sto-, dissi, mentre osservavo le strade della città, note e allo stesso tempo inesplorate. –Dove mi vuoi portare?-. Avevo viaggiato spesso con la mia famiglia, soprattutto nella stagione invernale, più umida e piovosa, e avevo visto tanti posti. Mi piaceva viaggiare, essere coccolata nei grandi alberghi, entrare nelle boutique delle più belle città d’Europa ed essere servita da commessi impeccabili, visitare i musei più famosi del mondo. Ma ovviamente con Benjamin sarebbe stata tutta un’altra cosa. Sembrava contento che gli avessi rivolto quella domanda, e mi ricordai dei suoi lunghi vagabondaggi.

-Per prima cosa- disse, solenne –ti porterò a sud di San Francisco. Poi ti dovrò portare in Norvegia, e poi in Turchia, a vedere Istanbul. E poi ti dovrò portare in Kashmir. Sono dei gran bei posti- 

-E questa tabella di viaggio non ha alcun senso, giusto?-

-Assolutamente no-. Mi venne da ridere –Il bello è non essere mai rintracciabili, al punto che nemmeno tu sai dove sarai il giorno dopo-.

Osservavo il paesaggio cambiare, i prati lasciare il posto alla foresta fitta, sentivo casa avvicinarsi.

-Anche da umano sei sempre scappato via-

-Sempre. È il mio talento, essere…-

-Schivo?-. Non era esattamente quello il concetto, ma nemmeno io trovavo la parola giusta.

-Forse direi più…bugiardo. In ogni cosa, ed è per questo che i tuoi mi detestano: non riescono mai a capire le mie intenzioni, ed è per lo stesso motivo che i Volturi mi hanno ritenuto adatto ai loro scopi. Abbastanza ragionevole per non tradire, cinico quel tanto che serve per essergli utile-

-Non è giusto, sbuffai- anche io voglio essere una brava bugiarda-. Lui mi guardò un po’ storto, disapprovando.

-Vai benissimo così, non c’è nessun gusto in quello che sono-

-Ti capisco, nemmeno io lo faccio apposta, a essere crudele-

-Tanto non vale la pena di cercare l’approvazione della gente-, disse alzando le spalle-sinceramente, finché tu mi perdoni, non devo giustificare altro-. Era una dichiarazione d’amore così articolata, per i suoi standard contorti, da spaventarmi quasi.

-Bè, quando si parla di famiglia, forse anche tu cercheresti l’approvazione di quelli che ti hanno cresciuto-

-Magari sì, ma non è che me lo ricordo, quindi non posso giudicare. Però te l’ho sempre detto, che capisco che tu abbia bisogno della loro approvazione-

-Approvazione…non esageriamo-, mi lamentai frustrata. Detestavo doverlo ammettere, proprio lo odiavo profondamente. E d’accordo che tanto tra noi ci si poteva dire davvero tutto e si poteva accettare ogni debolezza, ma quella davvero non la potevo soffrire. Rise un po’ di me e ci rimasi un po’ male, ma non avevo tanto tempo per pensarci su. La parte più previdente, intelligente e ordinata della mia testa stava già pensando a quello che sarebbe successo di lì a dieci minuti.

Famiglia, realtà, problemi. Problemi a non finire. Mi girava la testa, ma dovevo pur cominciare ad adattarmi. Non si può vivere nella propria dimensione per sempre , e anche se Benjamin sembrava volermi dimostrare il contrario, per me era diverso. Le somme io dovevo tirarle.

-Cerco solo di far quadrare i conti Ben, lo sai. Perché le cazzo di cose io le devo mettere a posto, mi capisci?-

-Sono proprio un selvaggio del cazzo. Mi spiace che io sia così un selvaggio del cazzo e che tu debba rimettere a posto le cose anche per conto mio-

-Non è un problema, meglio: lo è ma ci sarebbe anche se tu non ci fossi-

-Non credo proprio. Non te ne sarebbe successa mezza se non ci fossi stato io, Nes. Nel bene e nel male-

-Be, questo non lo so-. Pensai un secondo alla faccenda –Mi piace che tu sia venuto, alla fine. Anche se non capisco più niente di niente e se tutti pensano che sono una traditrice. Non è che si tia troppo male-

-A me non sembrava-, disse, sbuffando nervoso.

-E’ solo qualche effetto collaterale. Insomma, non è che volevo suicidarmi per colpa tua. Sono una ragazzina incredibilmente lagnosa, Ben, dovresti saperlo-

-Vedi di ricordarti una cosa sola, e ricordatela sempre. Per quanto chiunque possa pensare che tu sia sbagliata, e che hai dei peccati sulla coscienza, la tua parte migliore è mia. È mia, la tengo con me, e non posso separarmene, e non posso vedere altro. Mi capisci? Io ho il meglio di te-

Il tono con cui aveva parlato non mi spaventò, ma mi turbò. Il suo amore passava per il sangue e la materia, eppure non era una cosa sbagliata. Volevo avere dei diritti su di lui come lui li aveva su di me. Se dovevamo essere liberi, dovevamo esserlo insieme.

-Anche io ho il meglio di te. Non è di nessun altro-, sussurrai.

Non parlammo più fino a quando giungemmo a casa, e con un sospiro, mi ritrovai di fronte alla porta semi aperta. Benjamin non più alle mie spalle, ma di fianco a me.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** La libertà e le colpe- parte 1 ***


37

 

 

A casa mia, per quanto mi ricordassi, c’era sempre stato un odore strano. Sebbene la casa fosse sempre asetticamente pulita, e tutti i suoi abitanti avessero un delizioso e irresistibile aroma, c’era sempre uno strano odore. Che forse, tra l’altro, sentivo solo io, visto che nessuno se ne era mai lamentato. C’era un odore di negozio: tipo colla e carta da pacchi. Mi aveva sempre dato un po’ fastidio. Forse era dato dall’accumulo di cose nuovissime che avevamo in casa, fatto sta che questo odore mi dava proprio sui nervi. E quando entrai, l’odore c’era ancora, proprio come ricordavo. Arricciai il naso.

Ma l’odore di muschio, e foglie e terra fresca che portava sempre con sé Jake era scomparso. Questa sì che era una cosa strana.

Non era cambiato pressoché nulla, a parte qualche nuovo prezioso vaso e un gigantesco albero di Natale sui toni del blu e dell’argento che troneggiava di fronte all’ampia vetrata, in fondo sulla destra. Ogni cosa era, come al solito, straordinariamente perfetta. Anche la voce di mia madre che, dal pianerottolo, richiamava la mia attenzione.

-Renesmee!-, mi disse sorridendo, e salutandomi con la mano, come se fossimo troppo lontane.

-Ciao mamma-, risposi cautamente.

-Ti aspettavamo tanto-

-Eggià. Guarda che puoi anche scendere, mamma-

La cosa la colse un po’ di sorpresa e stette un po’ a guardarsi attorno, giusto per farmi ricordare di che razza di stronza ero stata ad andarmene per così tanto tempo, giusto per ricordarmi che ero piuttosto un’incapace. La mia cara mamma matta. Era proprio tutta matta, altrochè. La mia cara mammina matta scese le scale e mi venne ad abbracciare, e io non ci volevo pensare, almeno per trenta secondi, giusto il tempo di essere felice di rivederla, ma non ci pensavo da un po’ e mi venne proprio da farlo: e ci pensai di nuovo, al fatto che proprio per me non era una mamma vera. L’avrei tanto voluta una mamma vera, di quelle che a un certo punto ti fanno un fratellino o una sorellina, oppure che ti vengono a vedere alla recita delle elementari, o che vanno ai colloqui con i professori, o che semplicemente quando le fai incontrare ai tuoi amici non hai bisogno di dire “Questa è mia sorella” invece di “Questa è mia madre”. Ero proprio noiosa, e ripetitiva, e Ben aveva proprio ragione a dirmelo. A un tratto mia madre sciolse l’abbraccio e andò ad abbracciare anche Benjamin. E allora sì che pensai che fosse proprio tutta matta. Quando ero partita lo detestava, proprio dal profondo. Anche Ben fece una faccia strana, un po’ idiota perché si vedeva troppo che non si aspettava di essere abbracciato da mia madre. Mia guardava fisso e mi sembrava di vedere un enorme punto di domanda luminoso stampato sulla sua fronte.

Questo sì che era un ritorno da telenovela. Sorrisi tra me e cercai di ricordarmi la battuta per dopo, per dirla a Ben.

Poi dal pianerottolo cominciarono a scendere tutti, uno a uno, e io cominciai a sentirmi parecchio male. E poi ero anche parecchio sotto pressione perché sapevo che dovevo fare una faccia del tipo “Scusate se vi ho procurato solo casini da quando sono al mondo”. Che pena.

Papà fu l’ultimo a scendere, e aveva una fantastica faccia incazzosa che mi fece sentire davvero meglio. Grazie papà per essere incazzato, pensai intensamente. Almeno una reazione normale, finalmente. Mi venne ad abbracciare, anche se non fece alcun riferimento ai miei pensieri, e mi rivolse un lieve sorriso. Non abbracciò Benjamin, e tutti e tre ne fummo sollevati.

-Sei molto cambiata Nessie-, disse Rosalie osservandomi attentamente. O meglio esaminandomi.

-Eggià-. Non trovavo risposta migliore a quella, qualsiasi fosse stata la domanda.

-E’ proprio cambiato il tuo…aspetto-, disse Jasper, sorpreso. Doveva essere dura da mandare giù, che potesse cambiare il mio aspetto. Forse come quei ragazzi che dopo gli studi si prendono un anno sabbatico e tornano a casa pieni di tatuaggi e piercing e i genitori e i parenti se li ritrovano davanti e si chiedono che diavolo hanno fatto, ma soprattutto perché diavolo li hanno lasciati partire per quello stramaledettissimo anno sabbatico.

-Eggià-

-Sei dimagrita-. Caspita, quello sì che era un commento da mamma. Mia madre mi studiava con apprensione, e io proprio non riuscivo a starla a guardare. Ci fu un attimo di silenzio.

-Possiamo andare a sederci e parlare, adesso?-, suggerì mio padre, spazientito. Se ne stava ai lati della scena, in silenzio, lo sguardo impenetrabile. Era più facile avere un avversario piuttosto che uno stuolo di individui che cercano di percepire i minimi mutamenti della tua faccia. Si diresse in salotto e ci limitammo a seguire.

Dopo esserci tutti messi comodi, rimanevano pochi posti liberi. Di fianco a me, avevo sempre un silenzioso Ben, seduto sul bracciolo della poltrona bianca su cui mi ero appollaiata, in allerta. Loro non erano proprio cambiati. Chissà perché, ma mi ero immaginata che avrei trovato qualche particolare diverso, al mio ritorno. E invece no.

-Posso dire una parola?-. saltai praticamente sulla poltrona quando sentii che a parlare era stato Benjamin. Mi percorse un brivido di freddo, mi succedeva sempre quando mi agitavo. Mio padre strabuzzò gli occhi, colto alla sprovvista, mentre reazioni simili coinvolgevano tutti i presenti, me compresa. Senza stare tanto a osservare i particolari, si vedeva subito che Ben non era proprio quel che si chiama un oratore. Ci sorprese tanto che nessuno si ricordò di rispondere.

-Nessun problema-, dissi alla fine, rivolgendogli uno sguardo interrogativo. Alzò un sopracciglio, scettico: probabilmente avrebbe preferito che a rispondergli fosse stato un membro della famiglia, piuttosto che giocarcela tra di noi. Quasi quasi mi mettevo a ridere. Si schiarì la voce brevemente, raddrizzò la schiena, si schiarì la voce di nuovo.

-Dunque. Per prima cosa, buonasera.- Si guardò attorno, in cerca di consenso. Feci un cenno d’assenso. Proprio non era un oratore. –per seconda cosa…salve. No, per seconda cosa, voglio dire, grazie per avermi permesso di unirmi a voi, oggi. So che siete alquanto…dubbiosi, riguardo il fatto che io e Nessie siamo, come dire, compagni, no? Per diversi motivi, come per esempio il fatto che ero qui per conto di Caius-. Fece una breve pausa: era molto divertente, assistere al suo tentativo di non risultare ostile. Ma i suoi modi erano sempre pessimi.

-E vi ringrazio anche per aver dato modo a Renesmee di fare di testa sua, riguardo all’allontanarsi da casa. Mi sembra giusto che ognuno segua la sua strada, no? E quindi, grazie per averci dato queste possibilità. Vi devo molto.-

La conclusione del suo breve discorso mi fece restare di sasso, perché da lui non me lo aspettavo. Da come aveva pronunciato quelle parole, sentivo che davvero lui era riconoscente alla mia famiglia, e anche se non sapevo per quale motivo lo fosse, ne ero felice. Estremamente felice, perché nella realtà, per la prima volta, mi appariva la possibilità di conciliare lui a tutto il resto. Sapevo che la parte peggiore sarebbe venuta solo dopo, quando avrei dovuto affrontare il vero problema. Ma dovevo pur iniziare a rimettere le cose a posto, e forse era più logico cominciare dalla più piccole. Ero un po’ su di giri.

-Averci dato questa possibilità. Da quando è sottinteso che abbiamo permesso tutto questo per il tuo personale diletto, Benjamin?-. Mio padre era seduto esattamente davanti a noi, le mani intrecciate, osservava Ben con uno sguardo che poteva solo aggiungere alle sue parole una sfumatura ulteriormente sarcastica.

-Edward, ne abbiamo parlato tutti. Non c’è ragione, davvero non c’è ragione per alterarsi-, disse mia madre, inaspettatamente pacata. Eppure, quando ero partita era lei ad essere più contrariata. Continuavo ad essere un po’ stranita dal ribaltamento di posizione.

-A me la storia continua a puzzare-, mugugnò Emmett.

-E io continuerò a non vedere niente, un tubo di niente! Bene!- sbraitò Alice, stravaccandosi sul divano in una posa sgraziata che le si addiceva poco. Ce l’aveva ancora con me per storia delle visioni sbiadite, pensai tra me, con un sorriso. Quella sì che era proprio matta, forse più di mia madre. Proprio matta sciroccata completa.

-Tappatevi la bocca, ha diritto di fare quel che vuole!-, strillò Rosalie, coprendo la voce di Alice che stava per aggiungere qualcosa. A quel punto le voci cominciarono ad accavallarsi, e tutti cominciarono a dire la propria. Era una cosa molto disordinata, non ero abituata a scene simili. Di solito le nostre riunioni di famiglia erano sempre pacate e pacifiche. Cercai comunque di seguire il discorso.

-Ma non capisci che i Volturi verranno comunque? Non centra niente che lui sia con Renesmee o no!- disse mia madre, visibilmente alterata, rivolgendosi a mio padre.

-E’ del tutto irragionevole, Bella, è solo un rischio in più…e la reazione del branco! Non abbiamo molti alleati-

-Non ce la faremmo comunque, se lo volessero, non di nuovo-

-E non mi fido di lui. Non è prudente-

Ne avevo sentite proprio tante, compreso uno strano riferimento ai lupi su cui avrei dovuto andare a fondo. Ma quello era davvero troppo: quando presi la parola, mi sorpresi di come la mia voce riuscisse ad essere così spiacevole e perentoria.

-Non venirmi a parlare di prudenza, puoi evitare Edward, visto che sei l’ultimo in questa casa a poter giudicare cosa sia prudente e cosa no. Non mi pare che io sia saltata fuori da una pura elucubrazione mentale, o mi sbaglio?-. non volevo chiamarlo col suo nome, sapevo che gli spiaceva, ma quando mi alteravo non potevo farne a meno.

-Era una cosa molto differente-, sussurrò, scuro in volto.

-Nel senso che era assolutamente più pazzesca, folle e rischiosa?-

-Nel senso che io amo Bella-

-Al contrario di quanto io sia in grado di fare-

-Scusami Renesmee, ma ti conosco e non mi fido dei tuoi capricci-

Rimasi zitta per un secondo, tutta concentrata a mordermi il labbro inferiore. I miei genitori non mi avevano mai dato uno schiaffo in vita mia: sentii come se mio padre, in quel momento, lo avesse fatto.

-Sta attento a quello che dici-, gli suggerii freddamente.

-E’ solo un dato di fatto, non voglio fartene una colpa-. Sembrava volesse scusarsi, ma non ritrattare.

-Non sei stato con me in quest’anno, non puoi sapere davvero-

-Non che io non abbia voluto esserci. Sei tu che hai voluto rimanere sola-

-Dacci un taglio Edward. Le cose stanno così, ed è meglio se ti ci impegnerai, ad accettarle-

Non sopportavo di non avere l’ultima parola nelle discussioni, ed anche quella volta ci riuscii. Tirai un lungo sospiro, e finalmente mi rilassai sulla poltrona. Mi sentivo come il vincitore di un duello in cui l’avversario era rimasto a terra.

-Ha ragione. Le cose stanno così. E io mi fido abbastanza di lui-, disse Jasper facendo un cenno a Benjamin, che mi sembrò quasi infastidito dal richiamo.

-Sono sicura che sia un bravo ragazzo- aggiunse Esme, dolcemente. Benjamin le rispose con la vaga traccia di un sorriso. Mi era sempre sembrato che gli stesse simpatica.

-E ormai in ogni caso Edward e Bella hanno permesso che le cose stessero così, quindi non ha senso essere risentiti-, suggerì Carlisle, scambiandosi una veloce occhiata con sua moglie. Avevamo una gerarchia piuttosto interessante, avrebbero dovuto studiarci come i branchi di elefanti. Mi era sempre piaciuta la gerarchia matriarcale dei branchi di elefanti. Tornai a concentrarmi sulla situazione, ma dovevo ricordarmi di chiedere a Ben che ne pensava della gerarchia dei branchi di elefanti.

-Credo che allora possiamo anche invitare Benjamin a…-. Mia madre cercava le parole giuste, ma dopotutto era una cara vecchia mamma matta e non era portata a fare discorsi. Nemmeno lei. Se fosse stato per lei e Benjamin, probabilmente saremmo rimasti lì a guardarci in faccia ancora per un bel pezzo.

-Far parte della famiglia?- cercò di concludere Alice, un’espressione schifata sul bel viso. Come se a lui ne importasse qualcosa, pensai fra me, facendomi scappare una risatina nervosa. Mi guardarono un momento, prima di concentrarsi su di lui. Aspettavano una reazione.

-Bè, molto onorato-, fu tutto quello che disse. Come avevo immaginato, la cosa non lo esaltava più di tanto, ma sembrava comunque soddisfatto: in ogni caso, non sarebbe stato di certo un loro parere ad allontanarlo da me.

-Caspita che entusiasmo-, grugnì Emmett. Chissà perché era così circospetto. Avrei dovuto indagare.

-La seduta è chiusa? Abbiamo il benestare dell’alta corte?- chiesi, con un sarcasmo il più amaro possibile. –Dovrei parlare un secondo con loro-, proseguii indicando i miei genitori, di fronte a me. In un secondo tutti si alzarono, pronti a lasciarci soli. Anche Benjamin, al mio fianco, se ne stava per andare.

-No-, dissi tenendolo saldamente fermo per il braccio –Resta qui. Parliamo di cose nostre-

Lo guardai e capii che in quel momento stava provando una gioia molto più intensa, e sincera, di quando poco prima tutta la famiglia aveva accettato la sua presenza.

Erano quelle le cose che mi ricordavano sempre il motivo per cui per lui avrei rinunciato a tutto.

 

 

 

 

 

Ciao a tutti! Ho deciso di cambiare la location dell’angolo commento/ringraziamenti. Beh, direi che questo capitolo ha già un po’ più di sostanza, cosa ne dite? Finalmente Renesmee è tornata e comincia ad essere fatta più di azioni e decisioni e meno di pensieri. Ho cercato di dare questa sfumatura (e spero di esserci riuscita anche se non ne sono proprio sicura…) perché sento che ormai la storia debba avviarsi verso la conclusione, per vostra fortuna XD.

Quindi grazie ancora a tutti i lettori, a tutte le buone anime che hanno aggiunto Starlight ai preferiti di recente (ma anche in passato, sia chiaro!) e ovviamente a tutti i gentilissimi commentatori. I vostri commenti sono davvero motivanti, mi fa davvero tanto piacere riceverli, leggerli e sviscerarli per bene alla ricerca di significati nascosti…(l’ultimo concetto è un po’ inquietante -.-). Lancio una proposta che mi è venuta in mente oggi: vi interesserebbe avere una specie di soundtrack della storia? Be tanto io la metterò lo stesso XD

Allora, i ringraziamenti:

LadyEl: Ciao!! Se tutti i tuoi commenti “in ritardo” (che poi erano passati solo un paio di giorni dal postaggio!) sono così interessanti e stimolanti, sono pronta a ricevere commenti in ritardo senza nessun problema, anzi! (*ç*àsbavo al solo pensiero). Seriamente, grazie mille, sia per i tanti complimenti con mia conseguente “ansia da prestazione”, ma soprattutto mi fa molto piacere che tu nella tua analisi dei personaggi abbia ragione. Sono contenta perché vuol dire che allora attraverso le parole qualcosa è davvero passato! E direi che hai proprio ragione, quando dici che Benjamin viveva tanto per vivere, prima di incontrare Nessie. Ed è esattamente così, il suo vivere distaccato da tutto e tutti non è un modo di difendersi (banalotto come concetto, da telefilm per ragazzini), ma è semplicemente “altro non è che una diversa visione della vita”. Mi hai stupita perché era proprio quello che intendevo. Così come hai ragione classificando il rapporto tra Nessie e Ben come simbiotica: una convivenza silenziosa ma indispensabile per mantenere un equilibrio precario come le loro nature, inquiete e nervose. Invece per Thomas, purtroppo non posso dirti bene se hai ragione o meno, perchè, dal basso della mia super ignoranza, non ho ancora letto Il ritratto di Dorian Gray. Lo so, lo devo fare! Però potresti avere capito bene anche qui (strano! J), e te ne renderai conto quando inserirò il racconto del passato e della trasformazione di Thomas. Bene, spero che tu non ti sia addormentata nella lettura, ma tranqui, ti capirei XD Grazie mille per i bellissimi commenti, sono davvero…appaganti! Sapere che qualcuno legge quello che scrivi con tanta attenzione è davvero stupendo. Ciao, spero a presto! Ps: anche a me piace molto la letteratura, e la poesia, ma purtroppo non posso dire lo stesso della filosofia, che devo studiare con una canna di fucile puntata alla tempia! XD

Sinead: Ciao! Che bello risentirti, sono contenta che tu segua ancora! Be, alla fine ho postato relativamente presto, rispetto ai miei standard (mesi senza postare XD) e spero che il capitolo sia di tuo gradimento…un bacio, a presto!

Sily85: Ciao!! Bene, eccoti qua non uno, ma due (c’è la seconda parte, che devo ancora inserire) capitoli sull’incontro tra Ness e l’inquietante family…non so a me personalmente inquieta O.o E il senso di possesso è come la gelosia, tutti che se ne lamentano, e tutti che in silenzio ne sentono il bisogno…bah, l’amour. Un bacio anche  te, fammi sapere cosa ne pensi del famigerato incontro!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** La libertà e le colpe- parte2 ***


38

 

 

 

 

-C’era una cosa che volevo sapere-, attaccai subito- Jacob-

Se faceva parte del mio passato, era giusto che anche Benjamin sapesse tutto. Nel bene e nel male.

Non avevo mai creduto che i segreti aiutassero a vivere una vita più serena, ma solo più opprimente. Lo sapevo bene perché per me era sempre stato così, come quando, l’anno precedente, ero venuta a conoscenza del fatto che Jake e mia madre, prima che io nascessi, e che lei si trasformasse, erano stati molto vicini ad avere una relazione. Più tardi, pochi giorni dopo la mia partenza, piena di dubbi, e di domande inespresse, scrissi una e mail a mia madre, per chiederle di raccontarmi per bene come erano andate le cose. Lei preferì telefonarmi, e mi spiegò minuziosamente la loro storia. Mi raccontò di quando mio padre la lasciò, dell’amicizia che Jacob le seppe offrire, del suo bisogno di lui, del loro legame strano, forte. Che di certo sarebbe stato amore, se solo forze ben più potenti non fossero già in gioco. Non sapevo niente di tutto questo, sapevo solo che Jake aveva avuto il suo imprinting con me, dal primo istante in cui mi aveva vista: quando seppi che Jake aveva amato mia madre, e che lo aveva fatto intensamente, e disperatamente, sentii che il peso della colpa mi schiacciava. Per lui la storia si ripeteva, due volte, e il destino non gli aveva offerto nessuna ricompensa per le sue sofferenze. Rimasi attonita e frastornata dalla brutalità del caso. Riuscii a non farmene una colpa, di tutto ciò che era successo, e fu proprio questo che mi fece stare male. Avrei dovuto pentirmi di quello che avevo fatto, ma ogni volta che mi trovavo di fronte a Benjamin, sapevo di aver fatto la scelta giusta. Dentro di me, lo ammettevo in silenzio, per non turbare la memoria di Jacob.

-Non è ancora tornato, vero?- domandai, con poca curiosità, perché già sapevo la risposta.

-No-, ammise mia madre.

-E non tornerà più?-

Mia madre brontolò qualcosa di incomprensibile.

-Come?-

-Non so se è giusto che tu sappia…- disse, scambiandosi un paio di occhiate eloquenti con mio padre. Sbuffai, tesa, -Avanti, sono qui che ascolto-.

-Ecco, Seth ci ha detto- cominciò lei, indecisa –che in realtà avrebbe voluto tornare…una volta che tu fossi ritornata. Per parlarti, ha detto, e basta. Seth ci ha detto così-

Trasalii. Cercai di non sembrare entusiasta quanto ero, per non ferire Benjamin, che ascoltava sospettoso la novità. Non era ostile, ma come di tutte le cose che potevano ferirlo, era solamente diffidente. Non riuscii a non sorridere: la possibilità di rivederlo, di potergli spiegare a freddo, lucidamente, le mie ragioni, di potergli augurare ogni bene, e soprattutto di potermi scusare ancora, mi sembrò il più grande regalo che mai mi fosse stato fatto. Era semplicemente meraviglioso.

-Sono molto felice-

-Bene-, sorrise mia madre. Era entusiasta: sapevo quanto per lei fosse difficile assistere al dolore del suo amico.

-Seth non vi ha detto quando tornerà?-

-No- intervenne mio padre –Seth gli ha parlato dieci mesi fa. Da allora non si sono più sentiti. Il branco lo aveva seguito, dopo che lui se ne andò. Seth era riuscito a raggiungerlo, a parlargli, ma oltre a quello che tua madre ti ha già detto, Jacob non ha aggiunto altro. Li ha solo pregati di farsi gli affari loro e di non seguirlo. Non abbiamo più avuto sue notizie-.

Chissà come, io pensavo che Seth gli avesse telefonato. Molto sagace, Renesmee, davvero: uno scappa nella foresta e si porta dietro il cellulare. Molto logico, davvero. Rimasi delusa dalla notizia.

-E allora come saprà del mio ritorno?-. cercai di essere equilibrata, ma si sentiva che ero turbata.

-Non ne abbiamo assolutamente idea-

-Prima o poi tornerà. Ti cercherà. Potrai parlargli ancora, come vorrai-, mi rassicurò Benjamin. Restai a bocca aperta. Queste erano quelle cosa di lui che mi facevano restare a bocca aperta: un secondo prima se ne sta lì in silenzio, tutto intento a non occuparsi per niente di quanto gli sta intorno, e subito dopo arriva lì e con una sola battuta mette tutto a posto. E per giunta mi fa capire che anche se me no sto zitta, in ogni caso capisce tutto quello che mi passa per la testa.

Restai ancora un secondo a bocca aperta, come una deficiente. Sinceramente, più tornavo in me, più Benjamin mi irritava.

-Ma come diavolo fai?-

-A fare che?-, chiese di rimando, sorpreso e imbarazzato.

-A dire sempre la cazzo di cosa giusta!-

-Mh- mugugnò, stringendosi nelle spalle –Se ascolti bene e non perdi tempo a parlare ce la potersi fare anche tu-

-Vuoi dire che parlo a sproposito?-

-Molto spesso, sì-

Ero tutta rossa in viso. Mi vergognavo di azzuffarmi con lui davanti ai miei: non mi sarebbe spiaciuto riuscire a fare la coppia perfetta almeno per un po’, almeno davanti a loro.

-Andiamo avanti dopo- mormorai, cercando di non fare caso a  mio padre che sogghignava. –Però io…prima di partire vi avevo chiesto di prendervi cura di Jake-. Ero un po’ delusa di come si erano comportati: mi aspettavo che Jacob avrebbe fatto qualcosa di questo genere, come scappare nella foresta, trasferirsi su un altro continente o, che so io, chiudersi nel mutismo più assoluto. Ma non mi aspettavo che i miei lo lasciassero al suo destino, perché mi fidavo del legame che c’era tra lui e mia madre. Ripensando a quel legame, fui colta da un fremito.

-Non è colpa sua Nessie. Hai deciso di crescere, no? Adesso affrontane le conseguenze. Prenditi il bello e il brutto, le libertà e le colpe. Non puoi dare la colpa anche di questo a Bella-

Mio padre aveva parlato con molta calma, infondeva quasi serenità. Ma per chi lo conosceva bene, era semplice capire come in lui la rabbia fosse un sentimento molto ben aggiogato, saldamente trattenuto. Più era trattenuto, più era profondo. Non era mai stato veramente in collera con me, nemmeno quando, prima che arrivasse Benjamin, li avevo detestati.

Mi fece piacere, perché sino ad allora, non era mai potuta esistere la contrapposizione”Bella-Edward” contro Renesmee. Mi riempii di tacito orgoglio.

-No, non è colpa sua-. E nemmeno lo pensai più, fui in apprensibile. Ero decisa a cambiare, e non sarebbe stato di certo ammettere quello che avevo fatto a fermarmi: avevo avuto tutto il tempo che occorreva per rendermene conto, e altrettanto ne avevo per guarirmi. Con l’aiuto dell’unico farmaco di cui avessi bisogno. Involontariamente, strinsi la mano a Benjamin.

-Dispiace anche a noi di non avere più saputo niente. È dura per tutti, o quasi- disse Edward, facendo un leggero cenno al piano di sopra. Sapevamo tutti che Rose non era mai diventata una grande fan di Jake, nonostante gli anni. E che l’unico motivo per cui non mi aveva lanciato tra le braccia di Benji sin dall’inizio era che non gli andava molto a genio la storia del legame con i Volturi.

-Sono sicura che tornerà-, conclusi.

Me lo aveva detto Benjamin.

-Certo, certo-, fece mia madre sopra pensiero. Me lo ricordò più di quanto fosse giusto, ci fu una piccola pausa.

-Immagino che Benjamin sappia tutto di Jacob, giusto?-, insinuò Edward rivolgendosi  a me.

-Sicuro, Cullen-, rispose senza esitazione l’interessato. La scontrosa freddezza tra di loro mi innervosiva, e se osservavo in maniera imparziale, non era solo mio padre ad esserne responsabile. Avrei proprio dovuto fare un discorso a qualcuno. “Cullen”. Di certo non sognavo che lo chiamasse “papà”, ma per lo meno con il suo nome.

-E la cosa non di disturba?-, disse l’inquisitore inarcando un sopracciglio.

-Forse. Di certo non quanto desideri, Cullen-, rispose l’inquisito, replicando con un’alzata di sopracciglio. Stavo per sbuffare e mettermi a rimproverarli, spazientita, ma mia madre mi precedette, si sfregò un po’ le mani, nervosa, e guardando a terra sibilò irritata: -Per favore Edward, ne avevamo già parlato a lungo. Non c’è nessuna ragione razionale perché tu debba fare la parte del…cattivo. Eppure è esattamente quello che stai facendo!-

-Giusto! Si può sapere perchè diavolo sei così ostile?-. rimarcai bene l’ultima parola con un gesto teatrale della mano –Gesù ce l’ha fatta Jasper, e dico Jasper, che non mi pare sia mai stato quel che si dice un tipo di compagnia, ad accettare la cosa!-

-Forse non lo hai notato, ma Jasper non è tuo padre-, grugnì acido.

-Che vuoi, che mi senta in colpa?-

-No, voglio solo che tu ti renda conto che ho dei doveri…-

-Ci risiamo-, soffiò mia madre, mettendosi la testa tra  le mani. Ma lui tirò dritto, inesorabile.

- …e sicuramente uno di questi è cercare di aiutarti a fare le scelte più corrette-. A quel punto anche io avevo appoggiato la testa al palmo della mia mano destra. Cercai lo sguardo di Benjamin, e lo vidi fissare mio padre, leggermente scioccato.

-Ti prego. Almeno tu. Speravo che fossi un po’ più duttile, Edward-. Più che irritata, o arrabbiata, o violentemente incazzata, ero piuttosto delusa. Di certo non era la sua antipatia a cambiare di una virgola i miei piani, ma di certo avrei preferito che fosse un po’ più soddisfatto delle mie decisioni. Ma d’altronde, rimuginai sospirando, come Benjamin aveva di me la mia parte migliore, a Edward era decisamente toccata la peggiore. E anche io mi ero beccata la parte peggiore di lui. Avevo sempre saputo che un giorno o l’altro ci saremmo presi a pugni.

-Perché dovrei esserlo io, duttile?- Quasi urlava. Mi sorpresi di non ricordare nessun momento in cui lo avessi visto sbraitare così sguaiatmente. –Questo sconosciuto-e indicò Benjamin –entra nella mia casa, pretende di averci ai suoi comandi per conto de Volturi, si approfitta di noi, ti porta a letto e poi te ne vai con questo energumeno per un anno intero e adesso, che se ne è tornato indietro come se niente fosse e che pretende anche di starsene qui, pretendete- e qui squadrò me e mia madre -che io lo riaccolga a casa come il figliol prodigo? Follia. Giuro che questa è pura follia-. E concluse la sua filippica con una teatrale alzata di mani al cielo.

-Be, sai Cullen, mi piace proprio come la pensi-. Quando Benjamin parlò ci rimasi un po’, non me l’aspettavo. Mia madre lo guardò con tanto d’occhi –Anche io se fossi nella situazione sarei parecchio incazzato. E mi verrebbe proprio una gran voglia di strappargli la testa, al tizio che pensa di avere dei diritti a casa mia…-

-Proprio una gran voglia-, suggerì Edward, interrompendolo.

-…però forse, d’altra parte- insinuò con delicatezza –considererei anche cosa vuole l’interessata. E magari, potrebbe anche essere, ne terrei conto. Non ho ragione?-. rimanemmo tutti zitti, in attesa che Edward dicesse qualcosa di conciliante. Se ne rimase lì muto e zitto.

-Gesù, papà dì qualcosa!-, sbottai alla fine.

-Edward questa non volevo dirtela. Sei peggio di Charlie. Qual è il problema?-

-Charlie non era a conoscenza del problema, e se lo fosse stato sicuramente per lui non sarebbe stato semplice accettare la cosa-

-Ma per te dovrebbe esserlo un po’ di più, no? Visto che per lo meno il ragazzo di tua figlia è della tua stessa specie-. Era bello avere mia madre da parte mia. Mi risparmiava un sacco d fiato, e c’erano molte probabilità in più che le mie ragioni venissero ascoltate. E infatti, anche quella volta lo zittì.

-Per favore papà, piantala con questa messinscena del padre geloso. Non è proprio il caso di andare per il sottile. Io e Ben stiamo insieme, ma voi siete la mia famiglia, e ci tengo a vivere con voi. Perciò non farmi scegliere tra la persona che amo e la mia famiglia, perché sai bene cosa sceglierei. Lo hai fatto anche tu una volta-. Non mi rispose, sapeva che avevo ragione. Quando aveva scelto Bella, aveva allo stesso tempo allontanato la famiglia, era naturale. E sapevo che, sotto la maschera di intransigenza e durezza, mi capiva benissimo: era solo preoccupato, niente di più. Aspettai che mi desse una qualche risposta acida, ma non lo fece.

-Grazie papà. Sono contenta di essere a casa-, e gli sorrisi. Pensavo davvero quello che avevo detto, e anche lui tentò di abbozzare un sorriso. Chissà perché, ma da quando c’era Benjamin anche i loro sorrisi non mi sembravano più falsi e costruiti come un tempo. Anche se il sorriso più bello rimaneva quello di Ben, ovviamente.

- Però ci sono delle regole!-, disse interrompendo il mio idillio.

-Perché dobbiamo proprio essere patetici?-, gemette mia madre, al limite della sopportazione. Feci segno con la mano di procedere, già irritata. Visto che potevo ben immaginare  quali fossero le regole che intendeva mio padre, ritornare a casa mi sembrava già un po’ meno esaltante, e già pianificavo quanto ci avrei messo a trasferire tutte le mie cose a casa di Ben. Forse, se prendevo la Jeep, con tre viaggi avrei trasferito tutto il necessario.

-Primo: in questa casa solo le persone sposate…-. Non lo lasciai nemmeno finire, me lo immaginavo già.

-Possono fare sesso. Il garage è compreso nella casa o devo considerare come “casa” tutta l’area compresa sul mappale della proprietà?-

-Renesmee, per favore-, supplicò mia madre. Povera mamma matta. Sapevo che da un momento all’altro le sarebbe scoppiata la testa.

-Considera il mappale-, borbottò Edward.

-Oppure ci sposiamo!- mi disse Benjamin, divertito.

-NO!-, ruggì mio madre. Rimanemmo tutti un po’ sconvolti.

-Mamma, stava scherzando-, la rassicurai dolcemente.

-Perfetto-. Aveva ancora un’aria vagamente minacciosa.

-Potrebbero anche farlo-, insinuò mio padre. Rimasi a bocca aperta: altroché all’antica, quello era un fondamentalista.

-Stai scherzando anche tu, vero?-. Povera, povera mamma matta. Non sapevo che fosse possibile, ma mi sembrava di vederle una vena gonfiarsi sul collo.

-Ovviamente se lo desiderano non sarebbe una cattiva idea-, si azzardò lui.

-NON -lo –desiderano -, scandì lei con chiarezza e precisione.

-Vuoi passare alla seconda regola o preferisci disquisire ancora un po’ sulla mia ipotetica virtù?-. Ero annoiata: visto che ormai il problema non c’era più, tanto valeva che facessimo sesso dove preferivamo.

-Secondo- fece lui, visibilmente stizzito a causa dei miei pensieri impuri -pretendo un po’ di rispetto da parte di Benjamin. Nei confronti di tutta la famiglia-

-Giusto- fece lui.

-Sono contento che la cosa ti soddisfi, ma sono esattamente questi comportamenti a farmi infuriare-

Ok. Benjamin rendeva mio padre furioso. D’un tratto la convivenza mi sembrò più difficile del previsto.

-Io sono fatto così, è un bel problema, eh?-. sfoderò il suo miglior sorriso da schiaffi, strinse gli occhi, si fece avanti con il viso. Provocare la gente lo divertiva.

-Enorme-

-Se è un problema così gigantesco, vedrò di farci qualcosa. Magari, in cambio di tutto questo impegno sulla seconda regola, potrei ottenere qualche deroga sulla prima, no?-, fece lui, sempre sorridendo, sempre con un’insopportabile espressione da stronzo. Non riuscii a trattenere un risata divertita, per fortuna: Edward gli stava davvero per staccare la testa.

-Facciamo che la riunione è sciolta? Magari ti va di andarti a fare una doccia e di mangiare qualcosa-, suggerì speranzosa mia madre, conscia della strana tensione nell’aria. Dovuta soprattutto a mio padre, che se ne stava lì seduto con un’espressione da pluriomicida, aspettando che Ben ne dicesse un’altra abbastanza grossa da costituire una buona scusa per pestarlo. Io colsi l’occasione al volo.

-Sì, ho proprio bisogno di una doccia-. Volevo scaricare la tensione sotto a un getto di acqua bollente.

-Vuoi anche tu Benjamin?-

-Certo Bella, grazie-, rispose riconoscente. Mi sembravano abbastanza in sintonia, a conti fatti.

Prima di andarmene, osservai mio padre, immobile sul divano, un’espressione confusa sul volto. Era ovvio che era geloso. Mi sembrò molto dolce, l’uomo di cui mia madre si era innamorata. Andai ad abbracciarlo, prima che potesse dirmi qualcosa, contrariato dai miei pensieri.

-Grazie. Mi sei mancato-

E me ne andai a farmi la doccia, prima che potesse rispondermi qualcosa di molto paterno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ciao a tutti! Bene, capitolo un po’ più leggero per certi versi, cosa dite? Mi è uscito così, non so perché. Sono molto felice di avere qualche nuovo preferito, anche adesso che la storia è abbastanza avanti, grazie mille. Ma grazie anche ai tanti che continuano a leggere, sono molto contenta! Riguardo la soundtrack, penso proprio che la farò, anche se non so bene a quanti interesserà, alla fine dei conti XD però al momento sono un po’ presa dalla scuola, perciò rimando al prossimo capitolo. Alla prossima, un bacio

Giuls

Sinead: Ciao! J Be direi  che alla fine il problema di Renesmee è proprio quello che hai detto tu: l’essere sospesa a metà tra due mondi le permette di essere consapevole dei limiti e dei difetti di entrambi, e quindi per forza finisce per sentirsi un po’ sola, una specie di unicum, quale effettivamente è! E poi, come sicuramente avrai notato, Renesmee è non dico pessimista, però molto realista. Nella saga la Meyer ci ha coinvolti in una relazione (quella di Edward e Bella) in cui la realtà è totalmente tagliata fuori. Bella secondo me, in fin dei conti, non sente mai la mancanza della realtà, tranne che in alcuni momenti particolari, tipo quando pensa ai suoi, o quando a volte parla dell’ amicizia con Angela (vedi Eclipse). Ecco, per Nessie è esattamente il contrario: per lei il riscontro con il reale è fondamentale, è per questo che si è scelta Benjamin. Ben è esattamente come lei, è un vampiro “umano” non perché non uccide la gente, ma perché ha deciso di non voler perdere il contatto con la realtà, con la vita e con il tempo. Benjamin non uccide le persone non perché così facendo si sente migliore, un essere degno di vivere (come fa la famiglia Cullen), m perché dentro si sente molto vicino ad essere un uomo. Semplicemente non gli va. Ok dopo questo sproloquio (sorry!) ti lascio al fatidico dialogo, sperando che ti piaccia!! Un bacio e grazie!

LadyEl: Ciao!! Wow questi commenti mi galvanizzano troppo o.o Grazie grazie grazie, davvero! E se, come scrivi, pensi che lo scambio di opinioni sia utile anche a te, sono soddisfatta il triplo J alla fine sono così poche le occasioni per scambiarsi opinioni disinteressate sulla scrittura. Anche a scuola (anche io sono in quarta…in questo momento mi sto disperando su Michelangelo, infatti la risposta forse sarà un po’ cortina perché devo correte a studiare Il Giudizio Universale XD) non si fa praticamente mai: io faccio il classico e di italiano, filosofia, letteratura greca e latina ne faccio parecchia, ma mai un volta che si possa parlare un po’ liberamente, bisogna solo memorizzare e fare la verifica, punto. Che tristezza. A parte questa critica estemporanea, adesso che mi hai illuminata sul personaggio di Henry, penso che sia veramente molto simile a Thomas. Forse non direi che Thomas voglia “plagiare” Benjamin, però sicuramente lo vuole, come dire, “proteggere”. Benjamin, aldilà della sua forza, della sua marcata indipendenza e della sua tendenza a vivere in una dimensione totalmente indipendente dagli altri, è fondamentalmente semplice. Come nota Nessie (notare che descrivo i personaggi immedesimandomi in altri personaggi. Come vedi anche io sono vittima di una specie di “follia idiota” O.o), a volte Ben si comporta come un bambino, o ha degli atteggiamenti da bambino. Questo perché, quando tende ad avere fiducia in qualcuno, è molto sincero e diretto, al contrario di Thomas, che come vedrai (il suo ruolo nella storia non si è ancora esaurito J ) è molto controverso e calcolatore, in qualche modo. Thomas non è buono. Uccide le persone, sta dalla parte dei Volturi. Ma riconosce che Benjamin è buono in maniera totalmente disinteressata: non ha bisogno di essere riconosciuto come tale (vedi l’atteggiamento quasi irritato che ha nei confronti della famiglia di Nessie, a dargli fastidio è il sentirsi scoperto e giudicato, e non importa che il giudizio sia positivo!). è per questo che lo aiuta, e che gli è vicino. Thomas sa che Benjamin è sincero, e per questo lo reputa degno di tutta la sua fiducia e di tutte le sue attenzioni. Insomma, è la classica storia dell’amico vero. Invece, riguardo a Nessie “tesoro” di Benjamin, che dire, non penso di poter aggiungere molto, perché il concetto è esattamente quello :) Come ho scritto a Sinead, Benjamin è umano perché si sente ancora un essere umano, per alcuni aspetti. Nessie è stato ciò che lo ha riportato a vivere, e adesso è parte di lui, del Benjamin cambiato. E la stessa cosa è per Nessie: ora che ha trovato Ben, tutto è piò ordinato, può prepararsi ad affrontare il tempo.

Ok, vado! XD Scusa ma la spiegazione mi ha presa un po’! spero di non essere troppo in ritardo col capitolo…be, addirittura dipendente? Stupendo!! J  Presto manderò anche la soundtrack, e grazie per i supporto anche riguardo a questa! A presto e un bacione, spero di non verti fatta scappare con il commento XD

Sily85: Ciao!! No dai, non esageriamo, la conclusione arriverà RELATIVAMENTE  presto, sai conoscendo i miei tempi! XD Diciamo solo che adesso ho le idee chiare e devo solo capire come seguirle…non preoccuparti, fornirò ai lettori i miei viaggi mentali ancora per un po’ ;) E comunque sì, è un ricovero di pazzi!! Però sai cosa avevo pensato? Che non mi piaceva che i personaggi restassero troppo “intrappolati” dietro la loro maschera. E così ho pensato “Bene, perché adesso Edward non potrebbe piantarla di fare capitan Perfettino e non potrebbe decidere di essersi rotto di essere trattato da sua figlia come una pezza da piede?”. E così più o meno con tutti i personaggi. Mi è sembrato un po’ più vitale! Spero solo che l’effetto non sia stato troppo straniante O.o Come ho scritto sopra, la soundtrack la farò presto, sto già studiando un po’ cosa si potrebbe inserire! Un bacio anche a te e a presto!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** Thoughts of a dying atheist ***


La sera era sempre stato il momento più dolce della giornata, per me

 

La sera era sempre stato il momento più dolce della giornata, per me. I momenti migliori della mia vita avevano sempre avuto un sottile legame con l’oscurità. Come se la luce delle stelle la vita si animasse.

E nemmeno quella notte era differente. Le nuvole si erano disperse, e larghe chiazze di cielo scuro lasciavano intravedere alcune piccole, o grandi, o assolutamente insignificanti, stelle bianche. Le guardavo incantata, mentre scompigliavo delicatamente i capelli sottili di Benjamin. Avevano un profumo. Aveva un profumo. Tornai ad osservarlo, distogliendo lo sguardo dal cielo. Tenevo la sua testa in grembo, teneva gli occhi chiusi,ed era talmente tranquillo e silenzioso da sembrare quasi addormentato. Ascoltavamo un cd, a volume basso. Non sapevo che ore erano, forse erano suppergiù le due. Non sapevo perché, ma non avevo per niente sonno.

-Sai che io c’ero andato a una sue esibizione?- Si riferiva a Billie Holiday. Non avevamo scoperto da molto che era una delle cantanti preferite di entrambi. Ci piaceva quella strana malinconia che faceva voglia di sorridere, ci piaceva davvero starcene in silenzio ad ascoltare un paio di vecchie canzoni ruvide e scure.

-Davvero?-, risposi io, stanca. Non aveva ancora aperto gli occhi, fino a quel momento. Mi guardò ancora con quella strana espressione incuriosita sul volto, come se ancora avesse dovuto capire bene chi fossi.

-New York, 1948. Era un genio. Era una delle prime volte che tornavo in America-

-Un gran bel modo per festeggiare il ritorno-

-Era dura stare con tutta quella gente attorno, era proprio dura-

-Non sarà dura per sempre-

-Migliora-, mi rassicurò, scrollando le spalle. Improvvisamente, però, qualcosa sembrò attirare la sua attenzione: indicò lo stereo, dalla parte opposta della camera. –Ascolta la canzone-. Obbedii.

Si chiamava You showed me the way. Anche a me piaceva molto. –Anche a me hai mostrato la strada-.

Doveva smetterla di essere così maledettamente lirico, o un giorno o l’altro mi si sarebbe strappata un arteria. Mi si accelerò il respiro: non era una cosa volontaria, se avessi potuto avrei preferito evitare tutta quella scena. Proprio il mio corpo non voleva saperne di non reagire, di abituarsi a lui. Gli presi il volto tra le mani e lo baciai. Sospirò.

-Sarebbe proprio una bella sera per fare l’amore-, si lamentò. Non ci feci troppo caso, sapevo che lo faceva tanto per fare.

-Potrebbe fare irruzione con un machete. Lasciagli il tempo di abituarsi alla situazione, e poi vedrai che anche lui capirà-. Anche a me la cosa non piaceva, perché in effetti era proprio una bella sera per fare l’amore. Avevo la strana, più che certa impressione che mio padre fosse appostato sulla soglia della porta della camera.

-Mmm. Cercherò di adattarmi-, sospirò, risistemando la testa sulla mia pancia. Sorrisi, avevo ripreso possesso di me. Forse avrei potuto divertirmi un po’, in qualche modo.

-Allora, anche tu eri un cuore in cerca di felicità e io ti ho mostrato la strada?-, gli chiesi, parafrasando la canzone che mi aveva fatto ascoltare. Decisamente mi divertiva, metterlo in imbarazzo, farlo stare zitto. Capì quale era il mio gioco, anche lui mi sorrise, furbo.

-Forse non proprio la felicità…m direi che mi hai comunque mostrato la strada. Adesso lo scopo della mia vita è evitare che tu ti lasci assoggettare da certe tue manie compulsive piuttosto idiote, o dalla tua inguaribile tendenza al dramma-

-Non tendo al dramma-, risposi seccata. Avrei voluto anche io essere fredda come lui.

-No Nessie, non tendi assolutamente al dramma. Hai solo cercato di suicidarti lentamente e scenograficamente sperando di lasciare la scena in una fiammata di gloria. No, non tendi assolutamente al dramma-. Scoppiò a ridere, incapace di trattenersi. Era parte di lui, rallegrarsi delle debolezze altrui. Ad alcuni avrebbe potuto sembrare semplice cattiveria, a me sembrava solo spassionata drammatizzazione di uno stato di cose. Era stupido prendersela tanto per i propri difetti, ci si poteva anche ridere un po’ su. Anche io risi.

-Ci devo un po’ lavorare, su questa cosa-, ammisi alla fine. Sciolsi i capelli che avevo raccolto in un alto chignon. Ma si era scomposto, e lasciai che i capelli mi coprissero le spalle. Le punte arrivavano a solleticare la punta del naso di Ben.

-Lascia perdere, è meglio così. Di chi riderò di qui alle prossime svariate centinaia di anni se tu diventi l’essere super perfetto che la tua testolina confusa immagina?-. Sembrava davvero dispiaciuto. Rimasi un po’ in silenzio, pensavo.

-Hai davvero intenzione di vivere così a lungo?-

-Gesù, Nessie. Spero che la pianterai un giorno o l’altro con questa ossessione del tempo-, esclamò, un po’ nervoso. Si agitava sempre quando andavo sull’argomento. Ovviamente perché anche lui se lo chiedeva, a cosa gli sarebbe servito tanto tempo, era questo che lo rendeva speciale. Non voleva ammetterlo davanti a me, credeva che avrei pensato che non mi amava abbastanza. Ma io lo amavo, sinceramente, oltre ogni ragionevole limite, anche se non sembrava. Eppure continuavo a domandarmelo, a cosa ci sarebbe servito tanto tempo.

-A me capita di pensarci, tutto qua-. Scrollai le spalle, cercando di sembrare indifferente. Aprì gli occhi: spostò i miei capelli dietro le spalle e allungò la mano verso il comodino, per prendere le sigarette. Gliele passai. Ne mise una tra le labbra, gliela accesi.

-Ci pensi ancora spesso, eh?-, chiese lui. Lasciva cadere la cenere nel posacenere che avevo messo sul letto, di fianco a lui.

-A che cosa?-

-Alla questione dell’essere umana-

-Non tanto, adesso. Ma ci ho pensato molto, lo sai-

-Sono contento che tu non ci pensi più tanto-

-Perché?-

-Perché non porta a niente. Credimi.-

-Purtroppo no-. Ritornai di nuovo a guardare il cielo. le nuvole si stavano muovendo: probabilmente non avremmo visto la luce del sole, il mattino dopo.

-Mi piace tua madre-, disse, fissandomi con quello sguardo stranamente ironico.

-Mi vuoi già piantare?-. Feci una smorfia,irritata. Insomma, quando eravamo partiti lei lo odiava, e adesso se ne stavano qui, a farsi un sacco di moine l’uno con l’altra.

-Dovresti essere contenta. Adoro mia suocera-

Suocera. Che ridere.

-Infondo, è una donna anche lei. L’avrai solamente conquistata-. Mi strinsi nelle spalle, lo sentii ridere. Che voce del diavolo che aveva, avrebbe dovuto cantare.

-E’ sposata. Con le donne sposate non ci si può combinare niente-, asserì tranquillo.

-Per piacere, come se potesse fare la differenza-

-Ammettilo: ti piace immaginarmi così infame. E se anche non lo fossi per te sarebbe lo stesso, perché saresti convinta che lo sono-

-Stasera parli troppo-

-Questa era la mia battuta-, disse sottovoce. Prese la mia mano, ancora tra i suoi capelli. La osservava attentamente.

-Raccontami di una donna con cui sei stato-. Non mi raccontava mai le sue storie. Ovviamente ero gelosa, spaventosamente piena di gelosia, se mi raccontava di una donna con cui era stato, ma ovviamente provavo un certo piacere perverso nel sentirmi la vincitrice, tra tutte quelle che ci avevano provato. In fin dei conti, ero sempre stata molto competitiva. Ma non mi raccontava quasi mai niente. Di solito lo faceva così, per darmi un po’ fastidio, quando ero un po’ persa nei miei pensieri. Mi riportava a terra in un istante.

-Ancora? Gesù, Nessie, stasera hai intenzione di andare a tirare in ballo tutti i discorsi più pesanti che tu possa immaginare o è solo il tuo inconscio che lavora a un ritmo più frenetico del solito?-, esclamò spazientito, improvvisamente all’erta. 

-Avanti, alla fine piace anche a te raccontarmi. Solo una!-

-Poi se te la racconto diventi nervosa-. Si guardava attorno, in trappola. Pensavo che avrebbe aperto la finestra e se la sarebbe data a gambe da un momento all’altro.

-Mi passerà-

-Nes-, mi guardò serio, sbuffò. –Nes, lo sai anche tu che ti passerà solo se poi ti porterò a letto, ma visto che qualcuno ha fatto voto di castità per stasera, preferirei evitare di assecondare le tue domandine morbose-

-Non è un voto inderogabile. Insomma, alla fine, nessuno ha accettato le condizioni di mio padre, no?-

-E la storia che sarebbe entrato facendo irruzione con un’ascia o qualcosa di simile?-, inarcò le sopracciglia. Soppesava le proposte. Era un gran furbo, ecco cos’era.

-Non credo che un machete potrà veramente arrecarti qualche danno permanente, dopotutto-

Lo visi riconsiderare la cosa, e anche io fui soddisfatta della piega che la situazione aveva preso. Forse sarei riuscita a dormire, dopo essermi stancata un po’.

-Racconta!-. Schioccai la lingua entusiasta.

-Che fatica. Vediamo, fammi pensare-

-Secondo me preferivi le bionde!-

-Mah, era abbastanza uguale-

-A me piacciono i biondi!-

-Mmm, interessante-. Inarcò le sopracciglia scure, rise. –Che diavolo hai stasera?-

-Credo di essere abbastanza felice. Non cambiare discorso, chi era la bionda fortunata?-

-Non ho detto che mi piacciono le bionde-

-Scusa-, sussurrai. Giurai a me tessa di stare zitta e di contenere la mia momentanea esuberanza per uno scopo migliore.

-Ti racconterò di Dharma, visto che probabilmente accompagnerà Tatjana qui, la prossima settimana-. Si mise a sedere di fianco a me, appoggiando la schiena alla morbida testiera del mio letto. La luce smorta delle stelle illuminava il suo profilo di una strana tonalità metallica, d’argento. Rimase in silenzio, a guardarmi con una sfacciata espressione di sfida negli occhi. –Allora, non sei gelosa?-

-Veramente ti ho chiesto io di raccontarmi la storia, perché dovrei essere gelosa?-, tagliai corto. Benjamin sbuffò divertito, mi strinse a sé.

-Che palle. Non mi fai mai divertire. Comunque, io e Dharma abbiamo avuto una storiella. Niente di che-, mormorò suadente. Se fossi stata un po’ più scema sarei rimasta solamente incantata ad ascoltarlo, senza farmi troppi problemi.

-Esattamente un storiella di quanto?-

-Mah, una decina d’anni, quindici forse, comunque è uguale. Sai, è una un po’ strana. Tutta fissata sui chakra, e sul karma, e su tutte quella roba da fachiri. Proprio non era il mio tipo-

-L’hi lasciata tu?-. Mi guardavo le unghie che mi ero giusto fatta quella sera, mentre cercavo di capire se era il caso di agitarsi o no. Una decina di anni, quindici forse.

-Penso di sì-, fece una smorfia, annoiato – Un giorno le ho detto che me ne andavo senza di lei e lei ha detto che si poteva fare-

-Interessante. L’hai più vista da allora?-

-Un paio di volte-

-Cosa centra con Tatjana?-. mi concentrai sul suo viso. Di lei non sapevo praticamente niente: sapevo che era la sua creatrice, sapevo che già un volta aveva intercesso tra noi e i Volturi, quando avevo deciso di lasciare la mia famiglia e di andarmene con Ben. Senza il suo appoggio non ci avrebbero lasciato fare così facilmente. Qualcosa la legava alla famiglia reale, era potente, a suo modo. Io non l’avevo mai vista,in ogni caso: e Benjamin non ne parlava quasi mai e, se capitava, di solito il solo pensiero bastava a irritarlo. Anche allora sembrò un po’ seccato dalla domanda.

-Sono legate da una specie, come posso dire…di patto. Entrambe sono profondamente egoiste, tutto quello che fanno è ben calcolato perché vada a loro vantaggio tra loro. Evidentemente trovano che spalleggiarsi a vicenda sia un ottimo modo per assicurarsi una vita più agiata e sicura-. Sembrava disgustato da quello che aveva appena detto.

-In che senso?-, chiesi piano. Seguii con le dita i contorni delle piccole cicatrici sul suo collo, così, giusto per tranquillizzarlo un po’. Ero molto curiosa di sapere, valeva la pena di insistere un po’ a modo mio. Funzionava, socchiuse gli occhi.

-A tutte e due piace sentirsi potenti, gli piace imporre il loro carattere. Sono due stronze, Ness. E Dharma ce l’avrà con te, vedrai-. Sospirò e mi strinse ancora un po’ a sé, mentre rimanevo a bocca aperta, entusiasta della mia fortuna sfacciata. La rivale in amore. era meraviglioso: già mi vedevo, vittoriosa, mollemente avvinghiata a Benjamin, pienamente ricambiata, mentre la rivale, in silenzio e in disparte, oppressa da un’invidia insostenibile, lasciava la scena accompagnata dalla triste melodia gracchiante di un violino. Cercai di non lasciar trasparire l’entusiasmo, perché non pensasse che fossi pazza. Ricominciai a sfiorare le tracce delle cicatrici, lui ricominciò a vuotare il sacco-

-Mi spiace che ce l’avrà con te. Sa essere insopportabile,e cattiva-, disse scuotendo la testa. Rivolse a me lo sguardo - Quasi quanto te-. Ci scambiammo un’occhiataccia.

-Guarda che non m’incanti. Io lo so che ti piace-. Sciolsi l’abbraccio e mi distesi sul letto, a pancia in giu.

-Cosa?-, chiese confuso.

-Il fatto che io sia seccante-, sussurrai, schioccando la lingua. Andavo molto fiera del mio pessimo carattere.

-Mmm. Confesso che mi aiuta. Non penso mai che nessuno potrebbe provarci seriamente con te, per esempio-, rispose lui, giusto per provocarmi. Come sempre ci riuscì, ringhiai. E lui rise delle mie fusa sgraziate.

-Vuol dire che non sei geloso?-, esclamai risentita, come se fosse un’accusa.

-E perché dovrei esserlo? Tu non lo sei, no?-, fece lui calmo.

-Certo che lo sono!-, strillai

-Non pensavo proprio, visto che farti raccontare le mie storie passate ti diverte-. Rimase in silenzio a fissare il soffitto. Ero talmente concentrata sulla mia piccola offesa che non mi ero resa conto che si  era incazzato. Rimasi per un po’stupita a fissarlo. Presi la sua mano, la baciai delicatamente.

-Ehi. Cosa c’è?-. sussurrai piano, di nuovo posai le labbra sul dorso della sua mano.

-Non fare così. Mi fai sentire in colpa, cazzo-. Continuava a guardare il suo soffitto, tutto concentrato. Era esattamente così che volevo farlo sentire, ragionarci sarebbe stato più semplice.

-E per cosa?-, strinsi la sua mano, senza starlo ad ascoltare. Sapevo bene cosa dovevo fare.

-Non dovrei fare così, non sono un’idiota e so che non è giusto-

-Però?-,lo incalzai inquieta.

Posò lo sguardo su di me, il battito del mio cuore accelerò. Come diavolo facevano i suoi occhi ad essere sempre così neri?

-Perché non sei gelosa?-

-Certo che lo sono!-, giurai sicura. Avrei ucciso per lui, lo sapevo bene.

-Non quanto me!-. Quasi urlò, feci un salto. Mi guardava con insistenza, desideroso di una risposta. Me ne stessi un po’ zitta così, solo a guardarlo, per non perdermi lo spettacolo della sua fronte corrugata e dei suoi occhi inquieti.

-Tu credi che io non sia gelosa-

-Non è così semplice. Per me è..-

-Importante?-, azzardai. Fece una smorfia, poi alzò di nuovo gli occhi al soffitto e infine, guardandomi di sbieco, fece cenno di sì. Improvvisamente mi sentii molto matura e ragionevole, fu proprio una strana sensazione. Mi sfuggì una risatina. –Sai che non ti facevo così permaloso?-, dissi, rilassandomi un po’. Benjamin sorrise e si passò una mano tra i capelli, ancora distratto. –E guarda che io sono gelosa!-, aggiunsi, offesa dal suo mutismo.

-Ah sì?-. Alzò teatralmente un sopracciglio, dubbioso.

-Certo che sì, razza di idiota!-, attaccai io, ma Ben mi interruppe prima che potessi insultarlo ancora un po’.

-E allora perché non reagisci? Perché non fai qualcosa di minimamente sospettoso! Insomma sei qui tutta contenta e beata che non vedi l’ora di farti raccontare con chi è che sono stato, e non reagisci nemmeno se ti dico che la mia ex sarà qui la prossima settimana!-. scuoteva la testa, frustrato.

-Ma io sono gelosa. È solo che mi piace conoscere le mie rivali, solo per sentirmi più forte di loro, non lo avevi capito?-, sbuffai –Di solito non ci metti molto a capire-. I suoi dubbi erano totalmente  assurdi. Ero gelosa di lui da star male. Sembrò sorpreso quanto me di quella considerazione così ovvia.

-Cosa scusa?-, chiese Benjamin, cercando di capire meglio.

-Mi piace pensare a me che sto con te e a loro senza niente-, spiegai velocemente. In effetti, era una cosa abbastanza ridicola, nel mio stile. Subito Ben non disse niente, poi scoppiò in una risata fragorosa. Anche io sorrisi: mi piaceva farlo ridere.

-Nessie, sei un mostro-, mi disse mettendomi a posto una ciocca di capelli fuori posto.

-E tu sei un idiota-. Gli diedi una spinta, lui si distese al mio fianco. Il suo viso era di fronte al mio, sentii i miei nervi tendersi.

Era come se improvvisamente il ritmo della notte fosse cambiato. Anche la musica in sottofondo era cambiata.

-Uccideresti per me?-. Benjamin mi osservava, con quel suo sguardo stranamente lucido, con quell’ espressione morbosa sul viso. Forse anche io avevo la stessa faccia deformata dall’ emozione.

-Quanto tu per me-, risposi senza esitazione.

-Non so perché te lo chiedo-

-Anche io lo penso a volte-

-E’ un aspetto interessante della relazione-

-Forse parliamo troppo-

Sfiorai la sua palpebra con il mio indice. Sfiorò le mie labbra con il suo.

-Lo senti anche tu che potremmo morire?-, sussurrai incerta.

-Sì. Hai paura di morire?-

-Solo se penso che sarò sola. Non se penso che dopo di me non ci sarà niente-

-Io ho paura del vuoto-

Posai il palmo della mia mano sulla sua guancia. Toccò appena il mio mento.

-Benjamin, non dovremmo avere paura di morire. Non dovresti preoccuparti del tempo-

-Gli esseri umani vivono e non si accorgono del tempo. Noi consumiamo la nostra esistenza pensando di sconfiggerlo. Non voglio sfidare il tempo Nes. Non voglio sfidare nessuno, mi basta vivere con te-. Chiuse gli occhi, io rimasi in silenzio a guardarlo. Era innaturale. Per un istante, posai le mie labbra sulle sue, una linea dura e tesa sul suo volto di pietra. Sentii il suo sapore, mi allontanai.

-Se non lo vuoi, non farlo. Non lottare con nessuno. Non potrei seguirti, non so come si fa-

-Lo so-

-Ma se volessi, potrei imparare a farlo-

-Non voglio-

Riaprì gli occhi, non aspettavo altro. Era confuso, come se avesse paura di qualcosa. D’un tratto mi sembrò un po’ meno pazzesco, che avesse avuto paura che non fossi gelosa di lui. Sentivo il bisogno di difenderlo.

-Non ci divideranno. Nessuno di loro può fare la differenza per noi-

-Pensi ai Volturi?-

-Esattamente-

Mi sorrise, complice. Eravamo due bambini con un grosso segreto tra le mani, nella mia cameretta da ragazzina con le pareti color malva e con il mio telefono finto con le smarties nella cornetta trasparente.

Non avevo nemmeno troppa paura di morire.

-Benjamin?-, sussurrai.

-Cosa?-

-Non ho nemmeno paura di vivere-

-Come sei profonda, ragazzina-

-E tu?-

-Nemmeno io ho paura-

-Prima o poi riusciremo a mettere tutto a posto, vedrai-

-Ne sei sicura?-

-Cosa?-

-Credi davvero che i nostri problemi siano Jacob e un paio di sadici maniaci?-

Ci pensai su un secondo.

-No-

-Non è così semplice-

-Proprio così-

-Per me va bene- dissi

Mi sorrise, entusiasta.

-Io non me ne andrò mai-

-Nemmeno io-

 

Dovevo proprio ammettere, arrivata a quel punto, che ero stata molto fortunata, più di quanto mi sarei davvero meritata. Infinitamente di più di qualsiasi altra persona normale. Ci sono centinaia, migliaia, milioni di persone che soffrono, per i motivi più diversi. Per la solitudine, per l’abbandono, per l’incomprensione, per la rabbia, per l’odio, per l’indifferenza. Ma sono molto pochi quelli a cui è data la possibilità di ricominciare. Forse non di essere felici, perché non tutti sanno essere felici. Ma perlomeno di avere la possibilità di vivere davvero.

Tutte le grandi cose della mia vita erano successe di notte, e così fu anche allora.

 

 

 

 

 

 

 

Ciao a tutti! Scusate per il ritardo, ma sono stata piuttosto presa dalla scuola e dallo scambio con una classe di svedesi (ma siccome sono praticamente tutte ragazze, con mio enorme disappunto, non sono poi così entusiasta. Vorrei vedere voi, a girare con una vichinga super bionda e super tettona, se mi passate il termine!). Il titolo l’ho copiato dalla famosa canzone che penso conoscerete tutti e che mi ha molto aiutata nella scrittura del finale, cioè Thoughts of a dying atheist dei Muse.

Grazie ancora a chi legge e a chi commenta J

LadyEl: Ciao!! Be non credo che chi fa scuole come le nostre abbia di certo innato il dono della sintesi XD Ti capisco! Purtroppo stasera vado di fretta (devo ripassare la mia parte della visita guidata della città che faremo domani con le terribili svedesone) quindi devo fare un sunto. Non sapevo che scrivessi! J appena ho tempo darò un’occhiata alle tue storie, anche se di solito non leggo molte fan fic…però mi hai incuriosita!Riguardo la playlist ho pensato di associare le canzoni a dei particolari momenti: in effetti mi aiutano molto, come nel caso di questo capitolo, e mi piacerebbe riuscire a trasmettere attraverso le parole quello che a me dicono, però è complicato! Riguardo la fine della storia invece, penso che ormai sia quasi tempo J alla fine, siamo giunti a un punto fermo, no? E dove non c’è contrasto, non c’è storia. Quindi credo che dovrò solo mettere a posto qualche questione (vedi Jacob) e introdurre qualche altro piccola modifica prima di finirla. Non credo che farò seguiti…non mi piacciono! Le belle storie sono quelle che rimangono immobili nella nostra memoria, quelle a cui non c’è bisogno di apportare cambiamenti, secondo me. Grazie ancora per le bellissime recensioni e a presto! Un bacio

Sinead: Ciao! Be niente “blocco della scrittrice” ma più che altro “scuola assassina”, uffa! Be Edward padre anche a me affascina come figura…secondo me perché la Meyer non l’ha approfondita a dovere. Insomma rimane quasi ambigua: certo, ama sua figlia alla follia, ma quasi “convenzionalmente”. Mi da un po’ quest’impressione, come se amasse più il fatto che sia una parte di Bella piuttosto che sua figlia. Sotto sotto Edward mi ha sempre inquietata un po’… grazie ancora per le recensioni, un bacio!

Sily85: Ciao Ale! J ed ecco qua Ben super tenero che ascolta Jazz anni trenta…me lo immagino un po’ così, ancora perso nel suo mondo. E’ lui il cucciolo!! XD Be comunque non ti preoccupare, c’è un futuro anche per Jake tra un’effusione e l’altra dei due colombelli (ok, non è esattamente la figura adatta ma non mi viene in mente altro :s ), che non sarà poi così triste e tragica, solo un po’ disincantata. Grazie mille per i complimenti, davvero, mi incoraggiano sempre a partire per la tangente! XD  Un bacio, a presto!

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=329971