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di Word_shaker
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'astrofisica e il magnate. ***
Capitolo 2: *** La maschera di Roger Penrose ***
Capitolo 3: *** "Tu sei quella pazza [...]?" ***
Capitolo 4: *** Scienza e cuore ***
Capitolo 5: *** Sogni che si avverano, sogni che fanno male. ***



Capitolo 1
*** L'astrofisica e il magnate. ***


«Darcy,» stava dicendo Jane ad alta voce con un palpabile nervosismo, la testa inclinata, il cellulare incastrato fra l’orecchio e la spalla e le mani - più o meno - salde sul volante «ti ho detto che non posso parlare, sto…» …Avrebbe dovuto continuare la frase con “guidando”, ma, sfortunatamente, proprio mentre svoltava a destra per raggiungere la destinazione, aveva preso il marciapiede e il pick-up si era ingranato in una posizione a dir poco sguaiata su quel tratto di strada. 
Poiché la sua auto non intralciava la circolazione, l’astrofisica decise di lasciarla lì dov’era e di raggiungere il palazzo di Tony Stark a piedi; in fondo, si trattava solo di qualche metro.
Jane Foster aveva il cellulare in tasca, il quadernino che conteneva tutte le sue ricerche fra le mani ed una domanda che perseguitava ogni tratto della sua anima: perché Thor era stato a Midgard e non era andato a trovarla? Perché non l’aveva cercata e non le aveva detto nulla? Insomma, si trattava della loro relazione! «Se vuole mettere fine al nostro rapporto, che faccia l’uomo e me lo venga a dire!» aveva ripetuto più volte alla sua stagista, ma ormai non era più tanto convinta di quanta virilità potesse avere un uomo sfuggente.
Per darsi pace, nella speranza che i Vendicatori sapessero qualcosa in più di lei, Jane aveva deciso di andare a parlare con Ironman soltanto perché era il più facilmente rintracciabile: i giornali dicevano che, probabilmente, Bruce Banner era tornato a Calcutta, Steve Rogers si era trasferito nella capitale - un viaggio che lei, più per mancanza di tempo che di denaro, non si poteva permettere il lusso di affrontare - e per rintracciare Occhio di Falco e la Vedova Nera avrebbe dovuto chiedere aiuto allo S.H.I.E.L.D… Cosa che, per questione di orgoglio, non avrebbe mai fatto. Perché far credere alla concorrenza che una brillante scienziata aveva bisogno del loro aiuto, specialmente in ambito amoroso? 
Citofonò - e ci mise un po’ per capire come fare, dato che il citofono di casa Stark era costituito da un touch screen - per poi sentire una voce che chiedeva: «Lei è?» 
«Jane Foster, astrofisica» rispose Jane con tutta la fermezza che possedeva in quel momento. 
«Il signor Stark non riceve nessun’astrofisica di nome Jane Foster, oggi» disse quella sorta di segretario che si trovava dall’altra parte dell’edificio.
«Lo so… Mi chiedevo se avesse dieci minuti per un paio di domande» 
«Sono a fine scientifico?»
«Sono qui per chiedergli di…» stava per raccontare tutta la verità, quando la porta si aprì e quella voce esclamò: «Benvenuta in casa Stark, signorina Foster! Il signor Stark la aspetta al secondo piano».
Chissà a chi apparteneva quella voce? Quell’uomo, a giudicare dalla sua educazione e pacatezza, doveva essere un santo. 
Il quadernino stretto al petto, gli occhi spalancati dallo stupore, percorse ogni gradino sperando che quella visita servisse a qualcosa. Quando arrivò al secondo piano, davanti ad una grande porta di vetro, un uomo la aspettava con le braccia spalancate ed un sorriso accogliente.
«Jane! Sapevo che saresti venuta da me, prima o poi» disse con una sovrabbondanza di superbia. Perché sapeva che, prima o poi, lei l’avrebbe cercato? Che sapesse cose sulla sua vita sentimentale che lei non conosceva? E se Thor, fra tutti quei combattimenti, gli avesse confidato che, per lui, Jane era un capitolo chiuso? Se la sua non fosse stata una semplice considerazione dovuta alla superbia? Quanto più le domande si affollavano nel suo cervello, tanto più lo sguardo della donna si faceva assente e sospettoso.
Presto, Tony le cinse le spalle con un braccio e la invitò ad entrare in quello che aveva l’aria di essere un bar. Nonostante fosse arredata in chiave moderna e fosse un po’ eccentrica, quella stanza conservava il tocco familiare ed accogliente tipico di una sala in cui si ricevono degli ospiti.
«Che cosa ti piacerebbe bere? Un caffè? Un tè nero? O preferisci un Martini?» chiese lui mentre cominciava a trafficare con alcune bottiglie dietro un bancone.
«Come, scusi? Sono appena le cinque, un Martini forse è esagerato…» osservò con la fronte corrugata mentre si sedeva su una di quelle alte sedie che costellavano il bancone.
«Niente è esagerato quando si tratta di me, Jane» commentò Tony con un sorriso scaltro, per poi sentenziare con uno sguardo che non ammetteva obiezioni: «E non darmi del lei, mai più».
«Credo che prenderò un caffè» decise la scienziata, il quadernino sulle ginocchia e la testa leggermente inclinata.
«Non è la scelta che avrei fatto io, ma… Va bene, un caffè in arrivo per Jane Foster!» esclamò mentre cominciava a preparare quanto richiesto; dopo qualche secondo, porgendole una tazzina colma del liquido scuro, domandò: «Ho sentito parlare molto di te. Come vanno le ricerche?» 
«Bene. Molto bene, in realtà! Ultimamente sto facendo parecchi progressi e ho anche ottenuto uno studio, ma non so per quanto tempo ci lavorerò… Solitamente preferisco fare le mie ricerche per conto mio»; Jane gli raccontò quelle cose come se lo conoscesse da una vita, confidando nel fatto che lui, avendo sentito parlare di lei, avesse associato il suo volto alle ricerche svolte nel campo della teoria Foster, più che alle peripezie amorose del Dio del Tuono.
«Ti capisco perfettamente!» esclamò lui mentre annuiva con uno sguardo eloquente. Anche il signor Stark - questo era risaputo - preferiva lavorare autonomamente; scelta che Jane condivideva pienamente.
La donna prese a sorseggiare il caffè (doveva ammettere che il magnate, con le bevande, non se la cavava affatto male!), mentre lui riprese a parlare.
«Sai, mi piacerebbe farti vedere i miei giocattoli, visto che sei qui. Non puoi perderteli»
Dopo aver bevuto tutto il caffè, Jane rispose: «In che senso “giocattoli”
«Sì, insomma, le mie armature. Ne ho parecchie… Anche se prima mi piacerebbe sapere che cosa ti ha condotta qui». Il suo volto non era turbato, tanto meno dispiaciuto; semplicemente mostrava una curiosità di fondo, una curiosità non ancora contaminata dal sospetto.
Prima che Jane cominciasse a parlare, lui si era posto dietro di lei e aveva messo le mani sulle sue spalle. L’astrofisica, istintivamente, sussultò e si strinse nelle spalle, guardandolo con circospezione.
«Jane, rilassati!» le ordinò pacatamente mentre cominciava a massaggiarle le scapole. Un po’ sorpresa del suo comportamento, pur di ricevere le informazioni tanto agognate, lei obbedì.
«Aspetta: non ci stai… Provando, vero?» domandò, dubbiosa.
«Provarci? Io? Che cosa te lo fa pensare?» rispose lui con eccessivo sarcasmo ed un sorriso malizioso. Pensando che arrivare al punto fosse la cosa migliore, Jane decise di proseguire.
«Thor non è venuto a trovarmi mentre era qui sulla Terra e non so che cosa fare, se considerare la nostra storia finita o se pensare che mi abbia dimenticata». La sua voce era fluida, al contrario dei suoi pensieri. Quei dubbi spinosi le facevano male, non le lasciavano un attimo di respiro, non la facevano dormire.
«Mmh,» rispose Stark, placido «ha parlato di te. Si è assicurato che tu stessi bene e fossi protetta, e se posso dire qualcosa a sua discolpa, non ha avuto molto tempo per bussare alla tua porta per colpa di Loki. E’ dovuto ripartire subito dopo la conclusione della battaglia».
«Davvero? Quindi–» Jane non poté continuare a parlare perché lo stupore glielo impedì: sentì le labbra di Tony premute contro il suo orecchio, la sua voce calda e disinvolta così vicina al suo udito che quasi la percepì scorrere nelle vene; «Io sarei riuscito a trovarli comunque, cinque minuti per te».
«Davvero?» domandò di nuovo, paonazza ed accaldata. Lei non era abituata a quel tipo di contatto. 
Abbassò lo sguardo e, ripensando alle parole di lui, sorrise. Thor si era assicurato che lei venisse protetta. Forse, dopo aver fatto pagare a Loki i suoi delitti, sarebbe tornato da lei per farle una sorpresa. C’era ancora speranza, dopotutto. Poteva ancora avere la certezza di essere amata, e questa certezza per lei era una fonte preziosissima di forza. Quante notti l’aveva sognato, quante volte, fissando le stelle, aveva immaginato che lui, lontano almeno due galassie da lei, le stesse sorridendo! Quante volte era andata a dormire con la malinconia in mezzo agli occhi, sperando nel suo ritorno… Jane non voleva vederlo dietro le immagini di uno schermo, mentre un giornalista parlava con una voce piatta di tutte le sue imprese. Jane voleva toccarlo, voleva sentirsi chiamare dalla sua voce, sentire il suo odore, fare ciò che ogni coppia fa; voleva andare a pattinare con lui, voleva studiare le stelle con lui… E tutti quei sogni e quelle speranze erano stati ricomposti, grazie ad un paio di belle parole, nella stessa velocità con la quale si erano frantumati davanti ad uno schermo televisivo. Probabilmente avrebbe dovuto comprare un regalo da dare a Thor quando fosse venuto sulla Terra… Sì, questa era una buona idea.
Due emozioni differenti si stavano impadronendo di lei: la tenerezza verso Thor e la soggezione in cui la stava mettendo Tony. 
«Ehm… Mi dicevi dei tuoi giocattoli…» ribatté ad un certo punto, guardandolo, decisa a non fare attenzione alle sue avances - o presunte tali -. 
«Quindi vuoi vederli?» domandò lui con gli occhi che gli brillavano dall’emozione. La sua espressione assomigliava a quella di Charlie mentre scopriva di aver trovato l’ultimo biglietto d’oro della cioccolateria Wonka.
«Sì» rispose nitidamente. In fondo, Jane aveva ottenuto quel che voleva, aveva scoperto - o meglio, immaginato - che, probabilmente, Thor sarebbe venuto presto a farle visita e tutto il mondo (perlomeno il suo, di mondo) sembrava sorriderle. Aveva tutto il tempo del mondo per vedere le armature di Tony Stark, adesso.







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Capitolo 2
*** La maschera di Roger Penrose ***


Los Angeles, California.

Qualche mese dopo l’incontro con Tony Stark, Jane Foster aveva ripreso la sua vita: studiava, aspettava, lavorava, aspettava, studiava, aspettava, lavorava, aspettava… E Thor non arrivava. Il suo cervello stava cominciando a consigliarle di nuovo di non sperarci più, mentre il suo cuore, ogni volta che lei tornava al suo appartamento - aveva temporaneamente rinunciato alla sua casa su quattro ruote -, moriva un po’ e smetteva di battere per una frazione di secondo, quasi aspettando che lui, sbucando da dietro la porta, potesse saltarle addosso. Non sapeva perché, ma si sentiva in dovere di essere pronta a tutto ciò.
Si era recata a Los Angeles con Darcy ed Erik, che, da quando Loki era entrato nella sua testa, contaminando la sua mente con il venefico potere del Tesseract, era lucido soltanto quando parlava di scienza; faceva un uso abbondante di farmaci che lo stordivano, gli facevano perdere la cognizione del tempo, dello spazio e della realtà, per non dire che spesso e volentieri parlava da solo, dimenticava i vestiti qua e là e si ubriacava ogni volta che poteva. 
Jane, preoccupata per lui - Erik era pur sempre quanto di più vicino avesse ad un padre -, aveva pensato che gli avrebbe fatto bene un cambio d’aria; così, approfittando del fatto che avesse ricevuto l’invito a prendere parte ad una conferenza nella quale si sarebbe espresso il celebre fisico Roger Penrose, aveva prenotato tre biglietti aerei: uno per sé, uno per Erik ed uno per la sua stagista.
Il viaggio fu abbastanza tranquillo: poiché l’aereo era decollato alle cinque del mattino, tutti e tre ebbero a stento il tempo di sedersi che si addormentarono come degli angioletti; anzi, probabilmente fu solo per l’intervento di chissà quale forza divina che sentirono la voce del pilota mentre annunciava l’atterraggio ben riuscito.
Una volta arrivati in albergo, Jane sistemò sul suo letto il vestito che avrebbe indossato in occasione della conferenza («Darcy, non è possibile! Non siamo neanche arrivati! Aspetta almeno un minuto prima di chiuderti in bagno!» gridò, nervosa), mentre Erik si mise a pancia in giù su uno dei tre letti, farfugliando qualcosa riguardante il Tesseract. 
Nel pomeriggio, vestiti di tutto punto, gli scienziati (e la stagista) uscirono dall’albergo per dirigersi alla Sala Conferenze situata a qualche isolato da loro. 
Dato che a Jane non andava a genio l’idea di vedere Erik barcollare lungo il marciapiede, decise che avrebbero preso un taxi.
Una volta arrivati alla Sala Conferenze, con grande gioia scoprì che loro tre avevano un posto riservato in prima fila. Per una persona che era pazza di Penrose da quando aveva all’incirca dieci anni, quella era una valida ragione per farsi venire un infarto.
La conferenza iniziò con un’inconsueta puntualità. Jane, eccitata come una bambina davanti ad un cosplay della sua principessa preferita al Walt Disney World, fissò Roger Penrose con gli occhi lucidi, le mani giunte ed un ampio sorriso, pronta a snocciolare domande su domande. Non si curò minimamente dei fotografi che proiettavano i loro flash su di lei e sugli altri scienziati: lei era lì per ascoltare e per guardare, non per essere ascoltata e guardata.
Purtroppo la sua gloria durò poco, perché un minuto dopo che il fisico si fu alzato qualcuno sparò un colpo proprio sopra di lui e mancò la sua testa soltanto per un grossissimo colpo di fortuna. 
Il colpo non ebbe neanche il tempo di risuonare che gli altoparlanti installati sul soffitto della stanza cominciarono a ripetere nervosamente: «Evacuare l’edificio! Evacuare l’edificio! Tutti i civili evacuino l’edificio all’istante!».
Darcy si alzò in piedi e strattonò con forza il braccio di Erik, il quale aveva un enorme, stralunato sorriso dipinto sul volto.
«La terra trema!» osservò languidamente.
«Lo so che la terra trema, idiota! Muoviamoci, Jane!» strillò Darcy, ormai in preda al panico. La terra tremava perché tutti gli ospiti della conferenza avevano cominciato a correre disordinatamente verso le uscite di emergenza, intasando tutta la sala.
«JANE! JANE! TU SEI FUORI!» la stagista quasi sputò un polmone per pronunciare quella frase, ma non c’era verso di smuovere l’amica dalle sue intenzioni; infatti dopo qualche secondo la sua voce non fu più udibile. 
Jane, disobbedendo a tutte le leggi di questo mondo, persino a quella di sopravvivenza, con il cuore che batteva alla velocità della luce, si avvicinò ai tavoli ai quali, fino a qualche secondo prima, erano seduti i personaggi importanti che avrebbero parlato - o meglio, avrebbero dovuto parlare - durante quel dibattito.
Andare controcorrente era quasi impossibile, eppure lei lo stava facendo: la gente che correva la schiaffeggiava e la sballottava da una parte all’altra, cercando di raggiungere le porte laterali; centinaia di teste che le si paravano davanti offuscavano la sua vista e, quando fu di fronte a quei tavoli tanto agognati, si guardò attorno, incerta. Penrose era fuggito.
Ad un certo punto sentì qualcuno che la afferrava bruscamente per la vita e se la caricava in spalla come un sacco di patate mentre correva via, usciva da quella sala, si precipitava per strada, lontano, attraversava il marciapiede. Tutto quello che era visibile di lui da quell’angolazione era la faretra piena di frecce che lui portava sulla schiena.
«Coulson, Foster è al sicuro. Ripeto: Foster è al sicuro» pronunciò chiaramente portandosi un indice all’orecchio, per poi rivolgersi a lei con un: «Si può sapere che diavolo avevi intenzione di fare?» domandò lui, leggermente alterato.
«Roger Penrose! Dov’è Roger Penrose? Lo hanno quasi colpito!» urlò Jane con tutta la forza che aveva in corpo, non sapendo se essere felice per essere stata a qualche metro da Roger Penrose o impaurita per aver rischiato la vita nella sua disperata ricerca del fisico nel momento più inopportuno di tutti. Stava tremando.
«Quindi speravi di poterlo salvare? E come? Con il potere della scienza?» l’uomo davanti a lei sembrava essere un tipo che non ammetteva delle domande come risposta. 
Dopo aver ascoltato la sua domanda, la donna si fermò ad ascoltare i colpi di pistola che provenivano dall’interno dell’edificio. Gli occhi sbarrati, la bocca spalancata, non sapeva che cosa dire. Avrebbe voluto mostrare stizza per la sua domanda un po’ sarcastica, ma quella fu subito sostituita dall’orrido stupore che stava udendo.
«James, vieni qui un momento. Ho bisogno di te» disse quello premendo di nuovo un dito sul suo orecchio. Guardando attentamente la sua divisa, l’astrofisica colse sei lettere familiari e poco piacevoli che, involontariamente, pronunciò ad alta voce: «S.H.I.E.L.D. Che cosa vuol dire tutto ciò?» domandò, stavolta un po’ interdetta. Che lo S.H.I.E.L.D. volesse rubare le sue ricerche in un momento critico come quello? O a Penrose, cercando persino di ucciderlo?
Istintivamente, fece un passo indietro per allontanarsi da quell’uomo. Lui sorrise appena.
«Clint, che diavolo è successo?» chiese nientemeno che Roger Penrose sbucando dietro il misterioso arciere.
«Avevo bisogno di te, James.» rispose Clint  «Ti smaschereresti?».
Penrose, con grande stupore di Jane, afferrò la propria fronte fra pollice ed indice e la tirò via da sé, mostrando il viso di un giovane uomo che le sorrideva, divertito dalla sua espressione sconcertata. Aveva rischiato la vita per un impostore. Quella sì che era una bella giornata!
«Ti ringrazio» fece l’altro, per poi dirle: «Io sono Clint Barton, conosciuto anche come Occhio di Falco».
«Tu sei negli Avengers!» esclamò lei. Il fatto che quel  tizio facesse parte dei Vendicatori - e che, quindi, conoscesse Thor - le fece momentaneamente mettere da parte l’enorme delusione per il falso Penrose.
«Sì, esatto. Sono stato controllato da Loki esattamente come il tuo amico Erik. Thor ha chiesto a Phil Coulson che tu fossi protetta in tutte le azioni che coinvolgono in qualche modo lo S.H.I.E.L.D. e i Vendicatori, e questa è una di quelle».
A quelle parole, intenerita, Jane sorrise. Anche se non poteva essere presente, Thor si preoccupava per lei e, durante un momento cruciale quale poteva essere l’ingresso dei Chitauri sulla Terra, lui aveva pensato ad assicurarsi che la sua amata stesse bene. Quella notizia, nel modo più silente e delicato possibile, riempì il suo cuore di gioia. Adesso sapeva che, piena di gratitudine, non avrebbe potuto fare altro che sperare. Sicuramente lo S.H.I.E.L.D. era ancora in debito con lei, poiché la donna non aveva dimenticato il furto a mano libera subito in New Mexico, ma per ora - per ora - avrebbe fatto bene a seppellire l’ascia di guerra. 
«Sai altro riguardo a lui?» 
«Non ho avuto modo di conoscerlo granché. In compenso, ho conosciuto bene suo fratello… Non ti invidierò per niente, quando andrai alla prima riunione di famiglia!» affermò con una smorfia di disapprovazione.
«Quando ne avrò l’occasione, gliene dirò quattro anche per te!» promise Jane. In fondo, lui le aveva dato una bella notizia - anche se il cruccio per la maschera di Roger Penrose persisteva nella sua mente -; chiuso l’argomento “Thor”, decise di chiedergli: «Se Roger Penrose non è qui, allora dov’è? E chi mi ha invitata?».
«Penrose è al sicuro, sotto scorta, e adesso sta dialogando con Nick Fury in persona» spiegò James «e ti abbiamo invitata perché, essendo un’astrofisica di successo, sicuramente la tua presenza sarebbe stata ben accetta e, anzi, non ci avresti smascherati. Abbiamo pensato a gente come te per essere sicuri che l’HYDRA agisse come sempre. Siamo stati noi ad organizzare la conferenza perché sapevamo che l’HYDRA avrebbe attentato alla vita del fisico».
Le informazioni correvano veloci nella mente di Jane, si sovrapponevano, la sconvolgevano. Non era sicura di aver capito tutto.
«In pratica, sono servita da copertura senza saperlo» dedusse per poi domandare:  «Che cos’è l’HYDRA?».
«Meglio che tu non lo sappia. Chi ne viene a conoscenza non fa mai una bella fine» fece Clint, laconico.
«Jane! Ecco dov’eri finita!» esclamò Darcy con l’aria distrutta  «Fra te che ti sei messa a inseguire Penrose ed Erik che si è messo a saltare quando quegli imbecilli hanno cominciato a sparare, non so chi stia messo peggio! Chi sono questi due tizi?».
Jane guardò Erik, che aveva la camicia semi-sbottonata e la cravatta sciolta lungo le spalle, l’aria di chi non sa dove la sanità mentale stia di casa.
«Selvig!» Clint sussultò.
«Clint! Fratello!» Erik si buttò fra le braccia dell’arciere che, con uno sguardo a metà fra compassione ed orrore, ricambiò l’abbraccio.
«Non si è ancora ripreso…» spiegò l’astrofisica con un sospiro. James osservò la scena raccolto in un apprensivo silenzio, la maschera di Roger Penrose ancora stretta in mano.
«Ce la farai, Erik. Abbi forza» lo consolò lui, per poi sorridergli. Dopodiché, rivolgendosi di nuovo a lei, disse: «E’ stato un piacere conoscerti, Jane Foster. Spero che le tue ricerche proseguiranno al meglio… E che non ci sia rimasta troppo male per Penrose!».
«Mi passerà, prima o poi. Anche a te auguro il meglio».

Dopo tutto quel trambusto, il grande timore e la titanica delusione, Jane, coccolata dalle coperte dell’hotel in cui si trovava, si consolò pensando al fatto che Thor, ovunque si trovasse, avrebbe sempre impedito che lei si facesse del male. Anche se indirettamente, lui l’aveva salvata, quel giorno. Proprio come lei, in New Mexico, aveva salvato lui. 

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Capitolo 3
*** "Tu sei quella pazza [...]?" ***


«Romanoff, abbiamo delle novità».
Era una voce maschile a parlare. Era profonda, serena, ma non lasciava presagire nulla di buono.
«Vi ascolto».
Stavolta fu una donna a proferire parola. La sua voce aveva un tono deciso, forse un po’ scocciato.
«Non è stato l’HYDRA ad organizzare l’attentato. L’HYDRA, a quanto pare, è ancora silente. In ogni caso, volevo complimentarmi con te per aver capitanato egregiamente l’operazione Penrose».
Allora, Jane ricordò le parole di Clint: «Chi ne viene a conoscenza non fa mai una bella fine».
«L’HYDRA è stata sconfitta. Perché non volete accettarlo?».
Malgrado il tono di voce della donna apparisse placido, il suo bisogno di arrabbiarsi era evidente.
«Agente Romanoff, tu non capisci. Con il ritorno di Captain America, l’HYDRA ritornerà!» sbottò l’uomo dalla voce profonda.
«Ma non ha ancora fatto nulla! Captain America circola liberamente da mesi e l’HYDRA non c’è! L’HYDRA non è mai stato l’unico nemico dello S.H.I.E.L.D., Fury! Perché avevate pensato proprio all’HYDRA, con tutte queste premesse?».
Stavolta, la donna aveva alzato la voce.

Los Angeles, California.

Con la schiena premuta contro la porta che conduceva all’auditorium della Sala Conferenze, il cuore in gola e gli occhi sbarrati, Jane Foster stava origliando la conversazione fra una donna con una voce particolarmente sensuale ed un uomo dalla voce profonda.
«Abbiamo pensato all’HYDRA, Agente Romanoff, perché dopo gli episodi di New York e, quindi, dopo il ritorno di Captain America, con molta probabilità anche i suoi vecchi nemici si faranno risentire. Ci sono delle cose che sono state congelate con Steve Rogers e che non sono ancora state scongelate. Pensavamo che l’HYDRA fosse l’artefice di questo attentato perché i due assassini si sono mossi – perlomeno secondo quanto hanno rivelato i nostri satelliti – esattamente come si sarebbe mossa l’HYDRA: in modo subdolo ma prevedibile. Pensavamo che fossero dei fanatici; invece, confrontando il loro volto con i protocolli presenti negli archivi dello S.H.I.E.L.D., non abbiamo trovato niente che avesse a che fare con l’HYDRA».
Jane trattenne il fiato, sconcertata. Quell’uomo stava rivelando i segreti del presunto assassinio del finto Roger Penrose, e lei, da brava persona curiosa, stava cercando di capire quanto più le fosse possibile.
«Di chi si tratta?»
«Christian Schloe e Naomi Ferrars: due coniugi americani di origine tedesca che volevano uccidere Penrose per mettere fine alle sue teorie, in quanto “dannose per il genere umano”».
Uno dei due – Jane non seppe dire chi – cominciò a camminare verso la porta. Sentendo dei passi avvicinarsi, lei si pose davanti alla porta.
Una donna dai capelli rossi e con una tuta nera molto aderente inveì contro di lei e la afferrò per il colletto della camicia con una mano sola.
«Chi diavolo sei?» chiese quella con una rabbia crescente.
«Jane Foster, astrofisica. Ieri ero qui quando hanno cercato di attentare alla vita di Roger Penrose» spiegò lei guardandola con un’aria sorpresa. Jane non aveva paura. Non delle persone, perlomeno.
«E perché sei qui adesso? Sai che l’edificio è chiuso al pubblico fino a data da destinarsi?» fece l’altra con aggressività.
«Volevo osservare i danni provocati alla struttura. E’ stato più forte di me. Non avevo intenzione di origliare, mi dispiace» Jane si scusò, ma l’Agente Romanoff, non intenzionata a crederle, le domandò: «Che cosa hai capito di quello che ci siamo detti?».
A quel punto, buttando un occhio nell’auditorium, la scienziata notò che quell’Agente era sola. Non c’era nessun uomo dalla voce profonda nella stanza, eppure tutto della loro conversazione le aveva fatto presumere che due persone si stessero parlando faccia a faccia.
«Ho capito che l’HYDRA non c’entra niente, che è stata sconfitta, e che due coniugi sono stati gli artefici dell’attentato e…» non fece in tempo a finire la frase che la donna quasi urlò: «Sai che cos’è l’HYDRA?»
«Me ne ha parlato Occhio di Falco ieri, ma non me l’ha spiegato».
A quel punto, gli occhi della rossa cambiarono forma: non erano più affusolati come quelli di una gatta infuriata, anzi; i suoi occhi erano diventati perfettamente rotondi, quasi pietosi.
«Clint… Hai parlato con Clint?»
«Sì, e mi ha detto che Thor ha chiesto a Coulson di proteggermi; ecco perché mi ha salvato la vita ieri» rispose Jane con tranquillità, domandandosi perché l’Agente continuasse a tenerla sollevata a due dita da terra, una volta capito che lei non rappresentava alcuna minaccia. Ma gli occhi della donna si spalancarono e la fissarono con un’aria funesta.
«Non so se lo sai, ma Coulson è morto. Lo S.H.I.E.L.D. ottempera alla richiesta di Thor a nome suo».
Quelle frasi spezzate furono pronunciate con un tono di voce più basso, rispettoso, come se la colpa dell’eccessiva superficialità e violenza di Loki fosse stata sua. I suoi gesti denotavano una ferita ancora fresca.
In fin dei conti, Jane non gradì a pieno quella notizia: pur avendo avuto i suoi dissapori con Phil Coulson, era grazie a ciò che Thor gli aveva chiesto che lei, adesso, aveva salva la vita.
«Mi dispiace; effettivamente, non lo sapevo» rispose abbassando la testa.
«Aspetta…» fece l’agente, stavolta quasi soffocando una risata e guardandola con più attenzione «Tu sei quella pazza che, al posto di darsi alla fuga, voleva correre verso Penrose? La ragazza di Thor? In effetti, Clint mi ha accennato qualcosa riguardo a te, ieri sera». Mentre cercava di non ridere, finalmente la posò per terra.
«Sì, sono proprio quella pazza e sogno di incontrare Roger Penrose da sempre» si giustificò Jane con un po’ di amarezza, la fronte aggrottata ed un moto di indignazione che saliva dal suo stomaco. Non le piaceva che la gente criticasse la sua determinazione, peggio ancora se per prenderla in giro. Probabilmente fu una sua impressione, ma la donna aveva pronunciato le parole “la ragazza di Thor” come se questo suo ruolo fosse una cosa di poco conto, un dettaglio che sarebbe stato meglio dimenticare. Allora, nella sua mente cominciò a trottare un piccolo pensiero: e se Thor l’avesse tradita con quell’Agente? In fondo, era una donna molto attraente e il suo accento russo risultava provocatorio perfino alle orecchie di Jane. Magari aveva chiesto a Coulson di proteggerla soltanto perché si era sentito in colpa per averla tradita. Magari era per questo motivo che non era andata a trovarla neanche mesi dopo le vicende di New York.
«Posso farti una domanda, Agente?». In tutto quel trambusto – il cuore di Jane batteva ancora all’impazzata –, non aveva ancora capito chi aveva di fronte a sé.
«Sono Natasha Romanoff, ma gli altri mi conoscono come Vedova Nera. Vai avanti». Lei era interessata, o almeno così parse: aveva incrociato le braccia ed alzato un sopracciglio. Evidentemente, aveva capito che non c’era bisogno di temere una persona come Jane, che non sapeva neanche cambiare la suoneria del suo cellulare con le proprie mani.
«Fra te e Thor c’è stato… Sì, insomma, c’è stato qualcosa?». L’astrofisica sperò che Natasha non scoppiasse a ridere da un momento all’altro e che non la prendesse di nuovo in giro; fortunatamente, lei si contenne. Certo, sorrise e fece intendere chiaramente che considerava quella di Jane una domanda stupida, ma questa reazione era comunque migliore di una risata in faccia.
«No, fra me e Thor non c’è niente e non c’è stato niente. Devo dirti la verità: Thor è molto affascinante e sa il fatto suo, ma non è il mio tipo».
La cosa confortò la scienziata, che, seppur debolmente, sorrise. Le parole di Natasha, come quelle di Clint e di Tony, non avevano fatto altro che consolidare la certezza (un po’ in bilico) che Thor amava Jane, e davanti alla testimonianza di chi l’aveva visto in azione non poteva che sorridere e sperare che, prima o poi, lui avrebbe chiesto a Heimdall di aprire il Bifrost e condurlo da lei. Il suo cuore era forte: poteva amare ancora un altro po’.
«Posso darti un consiglio? Anzi, due?» domandò la Vedova Nera dopo un po’, quasi con fare amichevole.
«Certo» rispose lei, nonostante fosse sicura del fatto che non li avrebbe seguiti in ogni caso.
«Non fossilizzarti su Thor. So che le tue ricerche vertono intorno a ciò che lui ti ha spiegato e so che stai facendo un mucchio di progressi, ma dovresti concentrarti anche su altro. Gli eroi, purtroppo, non hanno il tempo di coltivare gli affetti come si deve. Non aspettarti grandi cose, perché non arriveranno». La sua voce era ferma e, per un motivo a lei sconosciuto, aveva un che di autobiografico. Forse glielo stava consigliando per esperienza.
Non sapendo quale fosse la risposta giusta a quel consiglio, l’astrofisica mormorò soltanto: «Ci proverò. E’ stato un piacere conoscerti».
«La prossima volta che proverai ad origliare, non sarò tanto clemente con te!» ammiccò Natasha, quasi divertita dal loro incontro.


Jane, guardando le nuvole dal finestrino dell’aereo che l’avrebbe riportata a casa, ripensò alla conversazione avuta con l’Agente Romanoff ed ebbe l’impressione che, fra i tre Vendicatori che aveva incontrato, lei fosse stata l’unica a dirle tutta la verità. 

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Capitolo 4
*** Scienza e cuore ***


Cincinnati, Ohio. 

Circa un mese dopo l’incontro con l’Agente Romanoff, Jane si recò in Ohio per partecipare ad un congresso sulla meccanica quantistica nel quale avrebbe presentato la teoria Foster, cercando di spiegarla attraverso la teoria dell’universo inflazionario di Starobinski. In pratica, avrebbe dimostrato, attraverso dei grafici, che i Nove Regni si erano formati durante l’ordinaria espansione dell’Universo e che, fino ad ora, erano sempre coesistiti armoniosamente; inoltre, avrebbe dovuto convincere il pubblico del fatto che i pianeti del Sistema Solare, con le loro rispettive orbite, non erano altro che un ramo dell’albero di Yggdrasill, e che, quindi, non sarebbero andati in collisione con i Regni perché troppo lontani per esercitare una forza di attrazione abbastanza potente da permettere qualsiasi possibile scontro. Ciò che era difficile da accettare per gli altri astronomi era il fatto che nessuno prima di Jane avesse pensato ad una parte della Via Lattea come ad un albero, e che la Terra fosse parte integrante di quest’albero di stelle. E’ risaputo che un pensiero rivoluzionario è un pensiero pericoloso, per cui si può dire nella determinazione di Jane vi fosse semplicemente il peso del progresso tipico della storia. 
Essendo arrivata a Cincinnati con tre giorni di anticipo per poter organizzare il proprio lavoro senza eventuali distrazioni - fra cui Erik e la sua pazzia - ed avendo già sistemato tutti i grafici da proiettare durante la sua lezione al congresso, il giorno prima del suo discorso decise che fermarsi in una libreria non sarebbe stata un’idea malvagia. 
Era una bella giornata di sole, ma faceva parecchio freddo. L’inverno era ormai alle porte e l’Ohio era uno Stato ventoso, quindi l’astrofisica aveva pensato bene di indossare una giacca pesante. Il vento e il freddo la facevano piegare su se stessa in modo un po’ buffo, che, aggiunto alla sua aria un po’ trasandata, per molti aspetti era davvero comico; ma lei, ovviamente, non se ne curava. 
Poiché non sapeva nulla sulla città, la donna prese un taxi e chiese al tassista di condurla alla libreria più vicina, che, fortunatamente, distava soltanto poche miglia dall’albergo in cui alloggiava.
Quando entrò in quell’edificio enorme, Jane si sentì meglio: grazie al cielo lì avevano attivato il riscaldamento!
Sciogliendosi da quella sua posizione rigida e un po’ gobbuta, cominciò a guardarsi intorno come una bambina curiosa, certa che non sarebbe uscita da quella libreria a mani vuote. Il suo entusiasmo, però, si squagliò sul pavimento non appena vide un enorme cartonato di Thor che pubblicizzava il fumetto omonimo. 
In quel momento, gli occhi dell’astrofisica diventarono lucidi, e rivederlo lì, in formato “due-dimensioni”, immobile e fiero, forse un po’ idealizzato, la portò a sussurrare con la voce rotta: «Avevi promesso che saresti tornato per me...». Probabilmente agli occhi della gente sarebbe apparsa stupida, ma quel cartonato era la cosa più vicina e simile a Thor che le si era parata davanti, e lei, senza pensare al fatto che fosse sconveniente esprimersi in questo modo davanti ad una figura di cartone, si lasciò andare. Perché Jane aveva aspettato, aspettato, aspettato ed aspettato, ma era stanca di attendere qualcosa - o meglio, qualcuno - che non sarebbe mai arrivato. Voleva delle risposte, e credere che quella trovata pubblicitaria gliele avrebbe date era confortante, in un certo senso.
«C’è sempre qualcosa che viene prima di me, vero? E’ per questo che non puoi tornare» continuò Jane asciugandosi frettolosamente una lacrima che era rimasta intrappolata fra le sue ciglia. Nonostante tutto, non voleva cedere, non voleva credere alle parole di Natasha. Malgrado la realtà fosse avversa alla sua felicità, lei continuava a sperare. Questa speranza, però, adesso faceva male, la sentiva come un grosso pugno sul naso. Era struggente non poter stare con Thor e, al tempo stesso, non poter stare senza di lui. Non faceva altro che pensarlo e rivedere il suo sorriso ovunque, e questa cosa la portava a maledirsi. 
All’improvviso, sentì un grosso dito che picchiettava dolcemente sulla sua spalla e, lentamente, si voltò.
«Signorina, si sente bene?» domandò un uomo dal viso grande e gentile.
«Sì, ho avuto solo un attimo di... E’ un periodo difficile» borbottò l’astrofisica sentendo un enorme groppo alla gola. 
«Sa, vedendola parlare con un cartonato la gente potrebbe prenderla per pazza... Ed io di pazzia ne so qualcosa» ammise lui quasi commiserandosi. 
«Lei è...?» chiese lei con un piccolo sorriso, confortata dalla sua inaspettata empatia. Purtroppo, non fece in tempo a terminare la sua domanda che lui rispose: «Hulk? Sì, sono proprio io». Lui sorrideva, ma il suo sorriso aveva la piega triste di chi si disprezza.  
«Stavo per dire Bruce Banner, l’esperto di biochimica e genetica, ma posso chiamarla come preferisce» confessò Jane con la fronte aggrottata, leggermente perplessa. 
«Quindi per lei io non sono il mostro che ha improvvisi attacchi d’ira e distrugge palazzi?» fece il dottor Banner, ricolmo di scetticismo.  
«Per me lei è il brillante dottor Banner. I suoi progressi in ogni campo della scienza sono notevoli a prescindere dal suo incidente con i raggi gamma. Da scienziata, non mi focalizzo tanto sulla sfera privata, quanto sull’operato. E’ l’operato ciò che conta davvero» disse con tranquillità, cercando di scacciare la tristezza con la conversazione intavolata con Bruce.
«In poche parole, non le interesserebbe se io scatenassi l’altro adesso?». La sua curiosità aveva una nota morbosa ed affrettata che metteva i brividi; sembrava quasi avere l’intenzione di trasformarsi davanti a tutti e di reprimere quella calma e gentilezza apparenti per dimostrare che anche Jane, contrariamente a quanto aveva affermato, lo vedeva come un mostro da ripudiare. Ma a che scopo? Perché la stava riempendo di domande? Che cercasse solo qualcuno con cui parlare? Purtroppo, lei non era “la prima della classe” quando si trattava di capire l’animo umano, quindi si stupì della sua reazione.
«Certo che sì, ma non mi affascinerebbe quanto i passi da gigante che ha fatto nel campo della chimica. E’ grazie ai suoi esperimenti che la teoria Foster sta procedendo così speditamente!».
«Un momento: lei è...?» la interrogò Banner, stavolta con un’espressione stupita.
«Jane Foster, astrofisica, nonché fidanzata di Thor» concluse lei indicando il cartonato del Dio del Tuono con un pollice.
«Io la ammiro moltissimo! Tutto torna: ecco perché stava sussurrando qualcosa al cartonato...» dedusse lui con le sopracciglia corrugate ed il mento stretto fra pollice ed indice, gli occhi fissi su quella pubblicità piena di colori. «Non gli somiglia molto» sentenziò dopo un po’.
«Già,» fece Jane con un piccolo sospiro «nel frattempo, è la cosa più simile a lui che abbia potuto vedere da un anno e mezzo a questa parte».
«Se può consolarla, l’ho pestato un paio di volte...» confessò Bruce con un sorriso divertito e, vedendola assumere un’espressione a metà fra la rabbia e la preoccupazione, aggiunse: «...Non si preoccupi: Thor sta bene! Ha la pelle dura. La teoria Foster serve a cercarlo, vero?».
«Sostanzialmente» rispose l’astrofisica annuendo. 
«Se vuole un consiglio, stia lontana dal Tesseract e dalle armi asgardiane, se non vuole essere la protagonista di una teoria che porterà i vari Regni alla guerra. La Terra non si è ancora ripresa dalla strage di New York». Stavolta Banner si era fatto serio, e sulla sua fronte era comparsa una ruga che suggeriva un omesso: «So che cosa vuol dire avere a che fare con quelle armi».                 
 «Non ho intenzione di scatenare nulla di tutto ciò, tanto meno voglio utilizzare le armi asgardiane!» esclamò Jane in tutta sincerità, promettendo a se stessa di seguire il suo consiglio; dopo un attimo di silenzio, gli domandò: «Che cosa pensa di Thor?».
Involontariamente, lui sollevò lo sguardo verso la rampa di scale che portava al piano superiore e scrollò le spalle prima di guardarla negli occhi. «Thor? E’ determinato, combattivo e fedele. Certo, è testardo, ma dopo tutto è un buon compagno». Mentre pronunciava  «buon compagno» il suo sguardo assunse una sfumatura più eloquente, alla quale Jane reagì abbassando lo sguardo e sorridendo. 
«Non si preoccupi: prima o poi tornerà. E se proprio vuole parlare con lui, non lo faccia tramite i cartonati pubblicitari!» le consigliò, stavolta divertito.
Chissà perché nessuno capiva quale fosse il problema? Il problema era proprio quello: ogni Vendicatore che aveva incrociato aveva parlato molto bene di Thor, l’aveva considerato una persona che manteneva le promesse, un compagno fedele, qualcuno su cui contare, ma dov’era? Dov’era per la persona che avrebbe dovuto essere per lui la più importante di tutti?
«Lo farò. Anche lei domani parteciperà al congresso sulla meccanica quantistica che si terrà sulla strada principale?». Anche se fra i due, durante il dialogo, era rimasto un distacco cordiale, Jane sorrise, sperando che rispondesse sì. Le avrebbe fatto piacere vederlo, in fondo.
«Sì, ma come ospite» tagliò corto lui con modestia.
«Allora potremmo incontrarci lì. E’ stato un piacere conoscerla, dottor Banner» fece lei tendendogli la mano.
Stringendole la mano, Bruce ripose: «Il piacere è stato mio, signorina Foster. Spero di rivederla domani». 
Entrambi andarono per la loro strada: lui uscì dalla libreria e lei rimase a guardare quelle galassie di tomi colorati che piovevano sulla sua testa.
Dopo un’ora passata lì dentro, si presentò alla cassa con tre articoli: Il grande disegno di Stephen Hawking per sé, Night Visions  (il disco degli Imagine Dragons) per Darcy, che era rimasta a casa con Erik, e un carillon ricco di aneddoti simpatici per Erik (che in quel periodo aveva una fissa inspiegabile per quegli oggettini); dopo aver pagato, uscì e prese il taxi di corsa, temendo di potersi raggrinzire al freddo.

Seduta nel taxi, osservando la copertina del trattato di Hawking e pensando al congresso dell’indomani, pensò: “Ma che diavolo sto facendo?”.  
Come le era venuto in mente di parlare con quel cartonato, di intraprendere quella conversazione con quell’uomo, di andare a cercare Tony Stark per avere dei chiarimenti? Perché aveva sperato grazie alle parole degli altri, perché aveva lasciato che il suo cuore fosse alimentato dai loro consigli? Era in questo modo che i rapporti andavano in cancrena, era per colpa dell’intromissione di terzi che la gente si lasciava.
La teoria Foster era il suo modo per cercare Thor, e Jane avrebbe dato importanza, d’ora in poi, soltanto alle proprie scoperte, a quello che lei poteva vedere con i suoi occhi; perlomeno, così facendo, avrebbe ridotto le illusioni. E quello che vedeva con i suoi occhi era questo: dopo tanti calcoli, tante notti insonni passate davanti ai laptop e ai telescopi, Thor era ancora lontano. 
Ma i Vendicatori non li ho cercati io”, disse fra sé e sé, e qui aveva ragione; però aveva messo le loro parole su un piedistallo e le aveva prese per oro colato, e in questo aveva peccato.    
Con gli occhi chiusi, ripensò a quel bacio che si erano scambiati prima che lui andasse via.
«Tornerò. Per te».
 Quelle parole rimbombarono nella sua testa ancora una volta, più forte di prima.
Quelle parole le aveva sentite con le sue orecchie, le aveva gustate nel sonno e le aveva sempre percepite come una felice sentenza.
Da quel momento in poi, per Jane, il significato di quella frase sarebbe cambiato: se prima quella era una frase ricoperta di sentimenti, adesso era scienza, e sarebbe stata la sua arringa contro chiunque, anche contro i suoi dubbi e le sue eccessive cure.
Magari i fatti non contribuivano a mantenere viva la speranza, ma Jane non poteva arrendersi del tutto. Non adesso.




Nota dell'autrice
Ho pubblicato il capitolo con due giorni d'anticipo perché - grazie al cielo! - ero ispirata.
Volevo chiarire un paio di cose: 
1. A tutti i supporters della mia Jay: non temete, incontrerà Penrose e (piccola anticipazione) anche Hawking. Tutti mi hanno fatto delle domande riguardo a Penrose, quindi voglio rendere giustizia a questo pilastro della fisica e alla passione di questa favolosa scienziata.
2. Mi hanno fatto notare che Jane spesso ha un po' troppa "confidenza" con il prossimo. Il ragionamento, per quanto riguarda questo punto, è molto semplice: le danno del lei? Jane dà del lei. Le danno del tu? Jane dà del tu. In questo capitolo ho evidenziato proprio questo.
3. Spero di aver caratterizzato Banner come si deve perché avevo un mare di dubbi!
Ci leggiamo presto! Grazie per la pazienza e per la sopportazione.

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Capitolo 5
*** Sogni che si avverano, sogni che fanno male. ***


Cincinnati, Ohio.

Erano le nove del mattino e Jane Foster rischiava di andare in iperventilazione. Il signor Wilde, ovvero colui che l’aveva invitata a prendere parte a quel congresso, non aveva neanche fatto il minimo accenno a tutte le persone che ci sarebbero state: migliaia, milioni di occhi brillavano all’unisono e la mangiavano, ma la cosa preoccupante non era questa.
Fra quei milioni di occhi, in prima fila, lei aveva scorto un uomo con una sedia a rotelle ed un sintetizzatore vocale e, ad alcuni posti di distanza da lui, uno scienziato occhialuto e sorridente che sembrava non vedere l’ora di ascoltarla. Fra quei milioni di occhi, aveva incrociato quelli di Stephen Hawking e Roger Penrose.
Reprimendo la bambina che era in lei - e, quindi, l’impulso di chiedergli un autografo e di scambiare quattro chiacchiere con loro in privato -, si concentrò sulla folla e, facendo un profondo respiro, cominciò a parlare dei Nove Regni.
Dopo circa due minuti - nei quali aveva precisato la loro posizione all’interno di Yggdrasil -, una voce robotica le porse una domanda:  «Può ripetere i loro nomi, per favore?».
Jane spalancò gli occhi. Il suo cuore batteva così forte che non si sarebbe sorpresa se, prima o poi, l’avesse ritrovato per terra, accanto ai suoi piedi. Stephen Hawking le aveva appena fatto una domanda! Era così felice che poteva sentire la sua anima saltellare da una parte all’altra del suo corpo come un’ossessa. 
«I loro nomi... Innanzitutto, il pianeta Terra è chiamato Midgard dagli asgardiani. Gli altri Regni sono Asgard, Hel, Nidavellir, Svartalfheim, Jotunheim, Vanaheim, Muspelheim ed Alfheim». La voce di Jane era pacata, ma le sue mani tremavano. Prima della fine di quella lezione sarebbe impazzita.
«Che nomi fantasiosi!» ironizzò lui, facendo scoppiare a ridere tutta la sala, Jane compresa.     
Cercando di rilassarsi - e magari di scorgere Bruce, il brillante chimico che aveva incontrato il giorno prima in libreria, in mezzo a tutta quella gente; non sapeva perché, ma quell’uomo, pur non avendo pace per sé, sapeva trasmetterne agli altri -, passò ad elencare le caratteristiche di ogni singolo Regno (a parte Midgard, ovviamente). Mentre faceva una pausa di un minuto per bere un bicchiere d’acqua, Roger Penrose sollevò una mano per interrogarla.
Prima Hawking, poi Penrose. L’astrofisica era così emozionata che non sputò l’acqua che aveva in bocca soltanto per miracolo. Dopo aver deglutito energicamente, lo esortò:  «Prego, mi dica, signor Penrose!».
Il fisico, come a volerla confortare, sorrise amichevolmente, per poi chiedere: «E quale sarebbe il movimento rotatorio di questi Regni?».
«Grazie per la domanda, signore. Stavo proprio per spiegare questa parte della mia teoria! Questi pianeti, in realtà, non hanno un movimento rotatorio ben preciso perché il loro arco temporale è influenzato dal Bifrost, il ponte arcobaleno regolato da Asgard, attraverso il quale si può accedere a tutti gli altri Regni. Il Bifrost è sorvegliato da Heimdall, fedele servitore di Odino. Questo ponte crea dei ponti di Einstein-Rosen, che, come molti di voi sapranno, sono delle scorciatoie per passare da un punto dell’universo all’altro. Questi collegamenti, che fra Asgard e Midgard non sono così frequenti, sono consueti, invece, fra Asgard e gli altri Regni; essendo effettuati nello spazio-tempo quasi alla velocità della luce e con grande precisione, influiscono negativamente sul movimento rotatorio di questi ultimi, che, in un arco di tempo relativamente breve, pare essere cambiato drasticamente. 
Per quanto riguarda la scarsa comunicazione fra Asgard e la Terra, non c’è molto da dire. Il fatto che Odino preferisca i nani e gli elfi agli umani è quasi leggenda; altrimenti perché avrebbe esiliato suo figlio mandandolo proprio in New Mexico, l’anno scorso?».
Mentre osservava gli spettatori, Jane scorse un uomo statuario e serioso seduto accanto a Penrose che aveva tutta l’aria di essere un poliziotto in borghese... Dopo avergli lanciato un paio di occhiate, lei si ricordò di aver visto il suo volto in televisione: Roger Penrose era stato accompagnato al congresso da Captain America.
Più parlava, più acquistava sicurezza. Le sue erano teorie scientifiche, e la scienza non mente mai. Di che cosa avrebbe dovuto preoccuparsi?      

Alla fine, quella fu una normale lezione di astronomia. Certo, a quella lezione aveva assistito gente del calibro di Stephen Hawking, ma si trattava comunque di una normale lezione di astronomia. Quando scese dal palco per sedersi ad ascoltare ciò che altri scienziati avevano da dire in merito ad altri argomenti, la sala fu invasa dagli applausi. Jane, che era già tanto se non risultava impacciata nel vestito lungo che indossava, andò a sedersi con un enorme sorriso, il laptop in braccio e gli occhi lucidi. Finalmente, qualcuno apprezzava il suo lavoro. Finalmente, il suo non veniva più definito «tempo sprecato».
Quando la giornata del congresso, qualche ora dopo, si concluse, con il cuore pieno di gioia, Jane corse verso Stephen Hawking quasi infischiandosene della gente che le pestava il vestito con l’intenzione di uscire dalla sala. 
Mentre gli prendeva la mano e gli sorrideva, sembrava quasi una bambina, e in quel momento le ritornarono in mente le sere in cui suo padre le mostrava i suoi trattati, glieli lasciava sfogliare e glieli spiegava dimodoché lei potesse capirli, e le parlava di lui come un esempio da seguire.
«Signor Hawking... I-io la ammiro... Moltissimo» balbettò Jane, in procinto di piangere.
«Questo è ciò che hanno detto anche le mie due mogli prima di lasciarmi» recitò il suo sintetizzatore vocale.
Jane rise, lasciando che due lacrime solcassero il suo viso.
«Lei è un esempio... Per me... Fin da quando ero piccola. Lei... Lei mi ha dato l’ispirazione. Grazie... Signore» continuò a balbettare con le mani tremanti. Abbassando lo sguardo, quasi poté sentire la presenza di suo padre accanto a sé, che sorrideva, esultava e scattava foto a non finire.    
«Non deve ringraziarmi. In quanto scienziato, ho solo fatto il mio dovere» disse lui, e forse fu solo un’impressione di Jane, ma un angolo della sua bocca si piegò in un sorriso accogliente. Dopo circa un minuto di pausa, Hawking aggiunse:  «Ci tenevo a dirle che lei è una donna fortissima, signorina Foster. Se si ricorderà di questo suo pregio, arriverà più lontano dei Regni di cui parla».
L’astrofisica tirò su col naso, lusingata da quelle parole tanto dolci. Non fece in tempo a ringraziarlo ancora che alle sue spalle, preceduto da una grassa risata, arrivò Roger Penrose. 
«Jane! Ragazza mia!» esclamò lui allargando le braccia. Jane, scossa ma sorridente, lo abbracciò.
«Questo giovanotto» spiegò Penrose, ancora ridendo ed indicando l’uomo impettito che la guardava come se stesse trattenendo una risata «mi ha appena raccontato di quello che lei ha fatto durante il mio finto attentato».
A quelle parole, lei sgranò gli occhi e lo guardò. Stephen Hawking le aveva detto che era una donna fortissima, Roger Penrose l’aveva abbracciata e per di più se la stava ridendo per una cosa accaduta mesi prima... Quella giornata sarebbe stata molto lunga!
«Mi scusi se sto ridendo;» aggiunse il fisico a sua discolpa «in realtà volevo dirle che apprezzo moltissimo la sua dedizione e spero di rivederla presto... Preferibilmente ad un congresso, piuttosto che in una missione suicida».
«Ci proverò» fece lei sorridendo, folgorata dalla tranquillità di quello scienziato. Erano mesi che viveva sotto scorta, eppure sembrava non avvertire il peso dello S.H.I.E.L.D., che volentieri succhiava la privacy e l’operato di chiunque gli capitasse a tiro. Non ci voleva un genio per ricordare il motto che molti giornalisti avevano coniato parlando di Steve Rogers: «Dove c’è Captain America, c’è lo S.H.I.E.L.D.», per cui le risultò facile dedurre che il caso Penrose non fosse affatto chiuso e che il fisico avesse un sacco di agenti alle calcagna.   
«A questo punto, vorrei presentarmi anch’io;» esordì Captain America tendendole la mano, «sono Steve Rogers, ed è un piacere conoscerla».           «Il piacere è mio» rispose Jane stringendogli la mano.
«Steve,» lo avvertì Penrose «io vado a scambiare quattro chiacchiere con Stephen».
«D’accordo!» esclamò Rogers.  
«Signor Penrose?» lo chiamò l’astrofisica, ancora in estasi.
«Sì, Jane?» 
«Domani mattina potremmo fare colazione insieme, io, lei e il signor Hawking?»
«Hai sentito, Stephen?». Roger sorrise.
«Sì, Roger. A quanto pare, abbiamo un appuntamento» affermò Stephen.
Jane e Steve risero. 
Penrose prese una penna ed un foglio di carta e scrisse due numeri telefonici, dopodiché spiegò: «Non abbiamo fretta di ripartire. Il numero di Stephen è quello a destra; farebbe meglio ad avvisarlo con almeno tre ore di anticipo, perché ci vuole parecchio per vestirlo».
«Lo terrò a mente» mormorò Jane mettendo il biglietto nel suo tanto amato quadernino nero. Sicuramente lì non l’avrebbe perso, poiché lo apriva e lo sfogliava anche nel sonno.
I tre si salutarono all’unisono con un «A domani!», sorridendosi.
«E’ stato Thor a raccontarle tutte quelle cose?» chiese Steve con le mani in tasca, lo sguardo fisso su Penrose.
«Non mi ha raccontato proprio tutto, ma molte cose le ho scoperte per merito suo» enunciò lei. 
«E’ da molto che fa questo lavoro?»
«Praticamente da tutta la vita...» ammise Jane con un’alzata di spalle, per poi buttare un occhio verso Penrose e domandare: «Perché Roger Penrose vive ancora sotto scorta? Non avevate preso i suoi presunti attentatori?».
«Nick Fury pensa che quei due siano soltanto degli esecutori e che ci sia dell’altro sotto, anche se non ha idea di chi possa essere il vero artefice. Ma questo come lo sa?». Steve Rogers aggrottò la fronte, sorpreso.
«Ho incontrato la Vedova Nera al momento sbagliato... Anzi, ho incontrato tutti gli Avengers, per la precisione. Ha visto Bruce Banner, per caso? Ieri mi ha detto che avrebbe partecipato al congresso come ospite»
«Mi dispiace, ma non l’ho visto... Io ero convinto che lei avesse incontrato soltanto Clint, anche se non c’è da stupirsi: Natasha non racconta mai niente a nessuno!» dedusse lui, rivolto più a se stesso che a Jane.
«Lei sa qualcosa di Thor? Ha idea di che cosa stia facendo adesso?» chiese Jane con un tono un po’ mesto. Sapeva che quella era una domanda inutile, ma tanto valeva ascoltare tutte le campane, visto che ne aveva avuto l’occasione.
«Probabilmente è impegnato a verificare che suo fratello paghi per i suoi errori. Loki sa essere una buona spina nel fianco, glielo assicuro» commentò Steve con un’aria leggermente austera. L’astrofisica annuì, rassegnata, ed indietreggiò di un passo.
«E’ meglio che vada, adesso...» annunciò lei con un piccolo sorriso «Grazie, signor Rogers».
«Grazie a lei, Jane».

 

La mattina dopo, Jane, elettrizzata, fece colazione da Starbucks con Stephen Hawking e Roger Penrose, e i tre parlarono di fisica per tre ore buone.  Alla fine di quell’insolito simposio, chiudendo lo sportello del taxi, ebbe la tentazione di darsi un pizzicotto per verificare che non si era sognata tutto, che aveva parlato davvero con quelli che considerava i suoi idoli da sempre. La sua angoscia adesso non trovava spazio nella sua mente, che era troppo felice per pensare al fatto che erano passati altri due giorni e Thor non si era ancora fatto vedere.    

New York, una settimana dopo.

Erano le cinque  del mattino, faceva freddo e Jane aveva gli occhi pieni di sonno, ma non voleva perdersi lo spettacolo del sole che sorgeva sopra New York. 
Ad un tratto, avvertì un paio di mani sulle spalle, un profumo familiare che non si sarebbe mai stancata di sentire ed un paio di labbra circondate da una barba solleticante sfiorare la sua guancia. 
Istintivamente, lei chiuse gli occhi, il cuore pieno di gioia, e dimenticò il freddo.
«Thor...» sussurrò sorridendo.
«Perché sei già in piedi?» domandò lui cingendole la vita con le braccia.
«Vuoi dire perché sono ancora in piedi!?» lo corresse ridacchiando.
«Lo dico sempre: dormi troppo poco!» ribatté Thor lasciandole un bacio sulla scapola, anche lui rapito dalla maestosa alba newyorkese.
«Sono un’astrofisica, è perfettamente normale!» esclamò lei in risposta mentre cercava di stiracchiarsi.
«Pensi che ci sia posto per me qui?». Chissà perché Thor aveva cambiato argomento tanto bruscamente? Probabilmente aveva qualcosa che gli frullava per la testa. 
«Certo che c’è! Ci sarà sempre posto per te qui!» ribatté Jane per poi voltarsi e guardarlo negli occhi; «Che cosa hai in mente?». Il suo era uno sguardo indagatore, pronto a percepire qualsiasi sfumatura negativa presente nei suoi gesti e nelle sue parole.
«Niente, poi vedrai» mormorò il Dio del Tuono prima di lasciarle un bacio sulla fronte. «Ti amo, Jane».
«Anch’io ti amo, Thor» affermò lei, abbracciandolo. Probabilmente non era mai stata così felice in vita sua. Il suo cuore scoppiava, in preda a quel sentimento che stravolge ogni cosa e la fa brillare.

 

Jane si svegliò di soprassalto, madida di sudore. Sul letto accanto al suo, Darcy stava russando.
Pensando alla scena che aveva appena sognato, corse in bagno in punta di piedi e scoppiò a piangere. 
Qualche minuto dopo, il suo cellulare vibrò. Senza neanche guardare il mittente di quella chiamata, l’astrofisica rispose.
«P-pronto?»
«Jane, stai piangendo?» 
«Ma no, mamma! Mi sono svegliata adesso e...». Non riuscì a finire la frase perché un groppo alla gola la ammutolì.
«E’ ancora per quel ragazzo, vero?».
Lei annuì, come se sua madre, dall’altra parte del mondo, avesse potuto vederla annuire, e continuò a piangere silenziosamente.
«Jane, per favore, ascoltami una buona volta: vieni a stare da me, anche solo per qualche mese! Londra è carina, è stimolante e piena di belle persone. Vedrai che tornerai in America rinata!»
«Mamma, io...»
«Oh, andiamo, credi che non si possa fare gli scienziati anche in Europa?»
«Non è per questo...»
«E allora? Credi che se lui tornerà, verrà a cercarti in America? Non mi hai detto che può andare ovunque, con quel suo ponte colorato?».
Sua madre non aveva tutti i torti: se Thor avesse voluto cercarla, avrebbe potuto trovarla e raggiungerla ovunque fosse andata. 
Mentre singhiozzava - e controllava che Darcy ed Erik non si svegliassero -, capì che il sogno che aveva fatto quella notte non si sarebbe mai avverato; avvertì quasi una spina nel cuore, un chiodo che, probabilmente, sarebbe rimasto lì per sempre con il solo scopo di farle male.
Doveva continuare le sue ricerche senza Thor, doveva lasciarlo da parte una volta per tutte. Non poteva continuare ad avvelenarsi con la speranza e a svegliarsi piangendo, non poteva lasciare che il tempo scorresse sotto le proprie mani attendendo, invano, davanti al cielo senza stelle del loro futuro. Quelle di Thor, come quelle degli altri Vendicatori, erano solo parole, e si diede della stupida per non averlo capito prima. Non poteva rimanere eternamente legata a lui, se non aveva intenzione di dimostrarle il suo amore.
Un altro pensiero, forse il più doloroso di tutti, le si parò davanti, pericoloso e palpabile: c’era un motivo se Jane e Thor erano di due mondi diversi.
Con il cuore in gola, una funesta determinazione che riempiva ogni centimetro della sua pelle, rispose: «Va bene, mamma. Partiamo fra tre giorni».   

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