Everyone around me gets hurt.

di uhstilinski
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Welcome to Beacon Hills. ***
Capitolo 2: *** Beauty and the Beast. ***
Capitolo 3: *** The necklace. ***
Capitolo 4: *** The Hale Mansion. ***
Capitolo 5: *** Hunter. ***
Capitolo 6: *** Wuthering Heights. ***
Capitolo 7: *** Hot Mess. ***
Capitolo 8: *** Echo. ***
Capitolo 9: *** Triskele. ***
Capitolo 10: *** Don’t go in the woods. ***



Capitolo 1
*** Welcome to Beacon Hills. ***


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Welcome to Beacon Hills!



I numerosi alberi che circondavano la scuola di Beacon Hills erano mossi da un insolito vento autunnale, gli studenti si affrettavano ad entrare, visibilmente infastiditi dal suono insistente della campanella, che aveva interrotto le loro futili chiacchiere sul clima o su quanto le vacanze fossero passate velocemente quell’anno. Un rombo di motore attirò l’attenzione di Emma, che se ne stava per conto proprio ad organizzarsi mentalmente il primo giorno di scuola. Un ragazzo in sella alla sua moto rossa fiammante aveva appena parcheggiato a qualche metro di distanza dalle gradinate di marmo, sfilandosi il casco per rivelare un paio d’occhi glaciali. Stretto nella sua giacca nera di pelle, sfilò spavaldo davanti agli occhi di tutti i presenti, facendo sospirare d’ammirazione le ragazze e d’invidia i ragazzi. Con un sorriso beffardo ad illuminargli il volto spigoloso, sparì lentamente dalla propria vista, mimetizzandosi tra la folla. 
«Quello è Jackson Whittemore» mormorò una ragazza dai capelli neri e gli occhi grigi, affiancando la giovane come se la conoscesse da anni. «Il capitano della squadra di lacrosse e di nuoto, praticamente il tipo ideale di chiunque abbia un paio d’occhi funzionanti». Emma dovette sembrarle parecchio confusa, data l’espressione divertita che nacque sul suo viso pallido. «E io sono Valerie Butler», le porse la mano con gentilezza perché la stringesse, sorridendo a trentadue denti. 
«Emma. Emma Walker», sorrise anche lei in risposta, domandandosi se fossero tutti così accoglienti a Beacon Hills. E a giudicare dall’ultimo scontro avuto col postino, realizzò di sapere già la risposta: No, aveva solamente avuto fortuna.
«Lo so» annuì immediatamente la mora, allungando il passo. «È una cittadina molto piccola, le notizie arrivano prima di quanto immagini» concluse con espressione furba, rivolgendole un altro sorriso cordiale e divertito prima di correre in classe per evitare di arrivare in ritardo il primo giorno.
«Wow» borbottò piano la bruna, stringendo tra le mani la borsa nera piena di quaderni nuovi di zecca e penne colme d’inchiostro. Il primo giorno di scuola non l’aveva mai preoccupata a Portland, ma dopo il trasferimento le cose erano cambiate. Aveva perso un po’ della sicurezza dovuta alla familiarità con l’ambiente, si sentiva come un pesce fuor d’acqua e sperava solo di riuscire ad integrarsi, magari anche con l’aiuto di quella nuova conoscente. Percorse metà corridoio, facendo letteralmente lo slalom tra le matricole dallo sguardo perso e confuso e i giocatori di lacrosse che borbottavano qualcosa a proposito del coach. Non poté fare a meno di notare che fossero tutti molto belli oltre ad essere, ovviamente, incredibilmente alti e muscolosi. Avanzò qualche passo in direzione della segreteria, imbattendosi in una donna di mezza età seduta dietro la scrivania in legno. Un forte odore di cannella e latte caldo le inebriò le narici. «Emma Walker?» 
La stupiva parecchio il fatto che tutti conoscessero il proprio nome e sapessero chi fosse, mentre lei a stento ricordava il volto della prima e unica ragazza che si era preoccupata di darle il benvenuto. 
«Sì, sono io» rispose lentamente, annuendo e avvicinandosi alla larga scrivania colma di fascicoli e libri che avevano l’aria di aver più di qualche anno. Si guardò attorno con fare un po’ spaesato, ammirando in silenzio i numerosi trofei d’oro vinti dalla squadra di lacrosse e le medaglie appartenenti alla squadra di nuoto. Pensò che il preside dovesse essere estremamente fiero del corpo studentesco, nella sua vecchia scuola era già tanto se la squadra di pallavolo riuscisse a classificarsi penultima nei tornei regionali. 
La donna dal sorriso rassicurante e affettuoso digitò qualcosa sul vecchio computer fisso, sbattendo le unghie laccate di un brillante rosso vivo contro i tasti bianchi e impolverati. 
«Sei ufficialmente nei registri. Questo è il tuo orario e qui c’è una piantina della scuola con le varie aule e laboratori. Questo è il tuo armadietto», cerchiò con una penna rossa l’armadietto numero 203, porgendole i numerosi fogli. Emma afferrò il tutto, studiando con lo sguardo la piantina e successivamente l’orario, domandandosi se sarebbe arrivata in tempo alla prima lezione di economia con il professor Finstock.
«La ringrazio, spero di riuscire ad orientarmi», la voce le uscì in un timido sussurro, per niente nel suo stile. Se la schiarì con un colpo di tosse, abbozzando un sorriso prima di indietreggiare in direzione dell’uscita. 
«Walker» la richiamò la segretaria dai capelli rossi, con urgenza. Fece capolino con la testa oltre il muro che le divideva, osservandola con aria interrogativa. 
«La combinazione del tuo armadietto la trovi sul retro della piantina».

«Stilinski!» 
La voce del signor Finstock echeggiò con prepotenza all’interno dell’aula, facendo sobbalzare metà dei presenti. Il fischietto che portava al collo le fece pensare che fosse lui il coach del quale tutti parlavano. «Sono passati appena dieci minuti e stai già dormendo?» 
«Scusi coach» borbottò il ragazzo dai capelli scuri e gli occhi color nocciola, stiracchiandosi in maniera buffa sulla sedia, ancora mezzo intontito a causa del brusco e inaspettato risveglio. Coach, bingo.
Nonostante la porta fosse aperta, Emma bussò, attendendo sulla soglia in assoluto silenzio. L’insegnante si voltò verso di lei e la sua espressione mutò da infastidita a raggiante. Scrutò la ragazza dai lunghi capelli color castagna e gli occhi caramello, assottigliando lo sguardo per un momento. Si alzò dalla sedia e si avvicinò, facendole cenno di entrare. Emma si ritrovò a pensare che somigliasse un po’ al lemure del film Madagascar e per poco non scoppiò a ridergli in faccia.
«Dunque, chi abbiamo qui.. Ah, Walker» esclamò, lanciando uno sguardo minaccioso agli studenti, «è un piacere averti nella mia classe», la sua espressione si ammorbidì di nuovo, confondendola. Sembrava possedere diverse personalità che uscivano fuori a seconda delle necessità. Nonostante questo, il suo volto le ispirava una strana simpatia. 
«Confido in voi animali per farla sentire a suo agio» continuò, serio. «E mi raccomando, tenete le vostre schifose mani nelle vostre schifose tasche. Intesi?»
Quell’avvertimento fece tremare le ginocchia di Emma, che abbozzò un sorriso tirato, tentando di non risultare troppo terrorizzata. Osservò il professore con espressione piatta, attendendo delle indicazioni.
«Puoi sederti in terza fila, dietro a Stilinski» le disse infine, indicandole l’unico banco libero, che si affrettò ad occupare. Si guardò attorno, incuriosita dalla diversità dei volti che la osservavano. E tra un bisbiglio e l’altro, tentò di isolarsi e prestare attenzione al lungo monologo del professore sulle norme scolastiche, mentre oltre i vetri appannati delle grandi finestre, un temporale si abbatteva violento su Beacon Hills. Le nubi grigiastre portarono con loro un’inaspettata oscurità a coprire interamente il cielo, dando spazio a qualche tuono di tanto in tanto, donando alla cittadina un non so che di mistico. 
«McCall, vuoi renderci partecipi del tuo divertimento?» domandò il professore, che più volte aveva espresso il desiderio di essere chiamato semplicemente “coach”, nonostante non ricoprisse più quel ruolo a causa di un infortunio alla rotula che l’avrebbe tenuto fuori dal campo per un po’. Le folte sopracciglia aggrottate duramente nascondevano quasi del tutto gli occhi verdi e – per la maggior parte del tempo – vivaci. 
«Scusi coach», trattenne l’ennesima risata quello che doveva essere McCall, un giovane dai capelli bruni, gli occhi neri, i lineamenti tipicamente latini e la mascella parecchio pronunciata. La campanella lo salvò per un pelo da quella che sarebbe potuta essere una punizione coi fiocchi, a giudicare dall’espressione del coach, che sospirò sollevato nel sentirla suonare. «Sparite dalla mia vista» esclamò serio, rivolgendo loro un segno arrendevole col capo prima di sedersi pesantemente sulla sedia. Gli studenti sfrecciarono fuori dall’aula con velocità sovrumana, provocando un ovattato chiacchiericcio in corridoio. Emma fu una degli ultimi ad uscire, prendendosi il tempo necessario per riordinare i quaderni e ricontrollare l’orario. Chimica col professor Harris, nel laboratorio del secondo piano. 

«Hey, hai bisogno di aiuto?» una voce maschile risuonò alle spalle della giovane, la quale si voltò improvvisamente, piantando il proprio sguardo serio ma allo stesso tempo curioso, nelle iridi carbone del ragazzo. Era McCall della classe di economia e probabilmente aveva notato la goffaggine con la quale tentava di aprire l’armadietto ormai da cinque minuti, ottenendo scarsi risultati. La bruna gli rivolse un timido sorriso arrendevole, facendo un passo indietro per permettergli di aiutarla. «La combinazione è tredici, sette, venti» mormorò lei, senza staccare gli occhi dalle sue mani grandi e abili. In pochi secondi, si ritrovò l’armadietto aperto. 
«Mi chiamo Scott, comunque» la informò lui, poggiandosi con una spalla contro la muraglia di armadietti chiusi. Lei si limitò a sollevare gli angoli della bocca in un sorriso discreto, sistemando i propri libri. «Emma» rispose  tranquillamente. Si era sciolta parecchio rispetto a qualche ora prima, quando sembrava volesse presentarsi alle audizioni del remake del Titanic per il ruolo della controfigura dell’iceberg.
«Lo so» ridacchiò lui, incrociando le braccia al petto muscoloso e ampio. Perché tutti rispondevano in quel modo incredibilmente inquietante?
«Chissà perché me lo aspettavo» sospirò lei, scuotendo appena il capo dopo avergli rivolto un’occhiata di sfuggita. Sembrava un tipo a posto, nonostante tutto. 
«Beacon Hills è più piccola di quanto credi» si giustificò lui, stringendosi nelle larghe spalle fasciate dalla felpa grigia col cappuccio che indossava.
«E voi siete tutti molto curiosi» aggiunse, alzando un sopracciglio e arricciando il naso sottile e leggermente all’insù. Sperò di non risultare troppo diretta o addirittura arrogante, le piaceva Scott e non le sarebbe dispiaciuto farsi qualche amico frequentante i propri corsi.
«Emma» una voce abbastanza familiare catturò la propria attenzione. «Emma» ripeté Valerie, intromettendosi involontariamente nella conversazione. «Ciao!» Sorrise allegramente, dondolandosi sui talloni prima di lanciare un’occhiata incuriosita a Scott. 
«Scott.. Vi conoscete?» domandò subito, assumendo un’espressione confusa. Lui si limitò ad annuire, controllando l’orologio al polso sinistro.
«È nella mia classe di economia e aveva bisogno di una mano con l’armadietto» le disse sbrigativo, iniziando a guardarsi attorno, quasi come se stesse cercando qualcuno che sarebbe già dovuto essere arrivato.
«Ah, i vecchi armadietti. Giocano sempre qualche brutto scherzo ai nuovi arrivati. Basta solo prenderci un po’ la mano» Valerie aveva l’aria di essere una tipa sempre allegra e sorridente ed Emma era convinta che sarebbero andate molto d’accordo. Le piaceva circondarsi di persone solari ed altruiste. 
«Scott, Valerie.. Hey, ma lei è quella nuova, quella di cui tutti parlano» 
Ed ecco anche Stilinski, il bersaglio preferito del coach. Il giovane dagli occhi dolci, il naso alla francese e l’espressione buffa si avvicinò al gruppetto, osservando per qualche secondo Emma, prima di beccarsi una gomitata nel fianco da parte di Valerie. «Ahia! Che c'è?!» 
«Scusalo, Stiles spesso scorda di collegare la bocca al cervello» si scusò lei, rivolgendo al soggetto in questione un’occhiata prettamente sarcastica. 
«Intendevo dire che… Piacere, Stiles» biascicò correggendosi, grattandosi la nuca, imbarazzato. Emma liberò una risata sincera nell’aria, chiudendo l’armadietto con delicatezza prima di stringersi nelle spalle. «Non fa niente, Stiles. Io sono Emma» replicò lei, sistemandosi la borsa a tracolla sulla spalla destra.
«Vieni a pranzo con noi?» domandò Valerie, prendendola sottobraccio prima che potesse replicare. «Lo prendo come un sì» continuò, ridacchiando sotto i baffi. 
Gli ampi corridoi pullulavano di studenti, nonostante Emma si aspettasse di trovarli tutti in sala mensa, la maggior parte di loro preferiva passare la prima metà della pausa pranzo fuori a fumare o per i corridoi a chiacchierare, lontani da occhi indiscreti, o almeno così le aveva detto Scott durante quel breve tragitto. Valerie sembrava essere parecchio popolare e dopo averla presentata a qualche membro della squadra di lacrosse, prese posto affianco ad un giovane dai capelli castani e disordinati, un paio d’occhi azzurri grigiastri e un sorriso mozzafiato. Emma si accomodò con loro, seguita da Scott e Stiles che non la smettevano di bisbigliare tra loro e a giudicare dall’espressione di quest’ultimo, qualcosa doveva preoccuparli parecchio. 
«Isaac, lei è Emma Walker. Emma, lui è Isaac Lahey» li presentò Valerie, lanciando un’occhiata confusa a Stiles. Probabilmente aveva notato anche lei il comportamento particolarmente ambiguo dei due migliori amici. 
«E così sei tu la nuova. Da dove vieni?» le chiese con una smorfia simile ad un sorriso un po’ intimidito.
«Portland» rispose Emma, incrociando le braccia sul tavolo, scansando qualche centimetro più avanti il vassoio blu scuro.
«Quindi sei abituata al caos» constatò automaticamente lui, giocherellando col picciolo di una mela dal colore verde brillante. Il suo respiro regolare e la sua voce calda e profonda la mettevano a totalmente a proprio agio. 
«È un po’ difficile ambientarsi in una cittadina così piccola» ammise lei, che in un mese era uscita solo un paio di volte da casa. «Ma non impossibile» aggiunse, non volendo risultare troppo pessimista. 
Lui annuì, masticando lentamente e con disinteresse una foglia di insalata, limitandosi a rivolgerle qualche occhiata solo se necessario. Sembrava la stesse studiando per stabilire se gli piacesse o meno. Doveva essere un tipo molto chiuso e riservato, lo si vedeva dal modo in cui manteneva la testa bassa e lo sguardo altrove la maggior parte del tempo. 
«Dove vi siete trasferiti tu e la tua famiglia?» La voce di Valerie interruppe il breve silenzio di riflessione. 
«Oh» esclamò Emma, un po’ sorpresa. Abbozzò un sorriso disinvolto e afferrò la bottiglietta d’acqua, aprendola senza alcuno sforzo. «Vivo con mio padre a meno di un chilometro dal confine con il bosco» spiegò ai presenti, incuriositi. Aveva catturato anche l’attenzione di Scott e Stiles. 
«E tua madre dov’è?» chiese innocentemente Stiles, prontamente fulminato dallo sguardo di Scott. 
«È morta quando avevo sei anni» mormorò, abbassando le iridi scure sul vassoio per pochi istanti. 
«Stiles» lo riprese duramente Valerie, portandosi una mano sulla fronte prima di lasciarsi sfuggire un sospiro profondo. 
«Mi dispiace, io-» balbettò il castano, visibilmente mortificato. «Oh cielo».
«Stiles, va tutto bene. Avevo solo sei anni, mi ricordo poco e niente. Tutto quello che ho sono delle foto e qualche filmato. La ferita ha smesso di bruciare qualche tempo fa». Tentò di tranquillizzarlo, non poteva sapere, la sua curiosità non meritava di essere punita in alcun modo. Le bastava specchiarsi nei suoi grandi occhi nocciola per capire che fosse totalmente in buona fede e non intendesse risultare un ficcanaso. 
«Allora, quali erano i tuoi hobby a Portland?» s’intromise Scott, masticando un paio di rigatoni al sugo ormai incollati tra loro. 
«Per anni ho frequentato un corso di ginnastica artistica» spiegò gesticolando, specchiandosi negli occhi scuri del ragazzo. «Mi piace anche disegnare. E tu invece?»
Stiles tossicchiò, avvicinandosi col busto al tavolo. «Scott va a caccia di cervi nel bosco» mormorò come se fosse un segreto compromettente, sollevando un sopracciglio prima di accennare un sorrisetto malvagio. Emma corrugò la fronte, guardando entrambi negli occhi con fare un po’ titubante. «Davvero?»
«Certo che no» replicò frettolosamente Scott, fulminando l’amico con lo sguardo. «A Stiles piace scherzare» affermò con un ghigno un po’ tirato. Quest’ultimo, in tutta risposta, gli lanciò un bacio in maniera forzatamente effeminata, lanciandoglielo persino con la mano. 
«Oh, falla finita» lo ammonì il moro con una risata. 
«A me piacciono la recitazione e la musica» s’infilò nel discorso Valerie, mordicchiando il tappo della penna con la quale aveva iniziato a scribacchiare delle cose sul proprio diario personale. 
«A chi non piace la musica?» ribatté la bruna, stringendosi nelle spalle nell’osservare con disgusto la poltiglia di pasta presente nel proprio piatto. Le cuoche probabilmente erano peggiori persino di quelle della vecchia scuola, il che non la rincuorava affatto. 
«A me» ammise Isaac, sollevando una mano con estrema lentezza, attirando gli occhi dei presenti tutti su di sé. «Che c’è?»
«Fai sul serio?» chiese Valerie, sollevando finalmente lo sguardo da quelle pagine piene d’inchiostro. Rimase con la penna sospesa a mezz’aria, l’espressione interdetta e lo sguardo disorientato. 
«Che c’è di strano?» replicò sulla difensiva, accennando un’espressione disinteressata nel guardarsi intorno. «Sai a quanti di loro non piacerà la musica?» continuò, osservando scrupolosamente ogni individuo che fosse seduto al tavolo dietro il loro.
«A nessuno, idiota. Fanno tutti quanti parte del coro» esclamò Stiles scuotendo il capo con divertimento. 
«Fa lo stesso, a me non piace» borbottò frettolosamente, sbuffando. Il cipiglio formatosi sul suo volto pallido fece ridacchiare Emma, che era rimasta in silenzio ad ascoltare. Erano stati in grado di farla sentire a proprio agio senza neanche rendersene conto. 
«Sei strano» commentò Valerie, arricciando le labbra rossastre dopo aver richiuso il diario e averlo scansato per poter mangiare il proprio pranzo. Stiles allungò curiosamente una mano verso l’agenda della mora, prendendola tra le mani prima di sfogliare con innocenza mancata la prima pagina. 
«Che stai facendo?!» gracchiò lei, strappandogli l’oggetto dalle mani. «Non lo sai che i diari sono privati?»
Lui le rivolse un’occhiata disorientata e prima che potesse replicare, Scott lo precedette. 
«Ho saputo che ci sarà un nuovo coach» masticò le parole assieme alla pasta al sugo ancora presente nel piatto. «Secondo voi quanto dura Finstock fuori dal campo?» 
«Due ore?» rispose retorica Valerie, bevendo un sorso d’acqua dalla bottiglietta di Stiles. 
«Hey, quella era mia» la sgridò lui, puntandole contro l’indice. 
«Adesso è mia» esclamò con un sorriso appagato lei, sollevando le spalle prima di dedicarsi alla porzione d’insalata.
«Scommettiamo sull’identità del supplente del coach?» propose entusiasta Scott, guardandosi attorno per verificare chi fosse d’accordo. Nessuno rispose. Le sue ultime speranze andarono tutte su Stiles. «Non guardare me, non ho un soldo» replicò lui, sollevando entrambe le braccia come a non volersi immischiare nei suoi affari. 




Hello there!
Eccomi qui alle prese con la mia prima fanfiction dedicata ad uno degli show che più adoro in assoluto. Questo primo capitolo fa da introduzione, una breve presentazione dei personaggi principali, che si troveranno ad affrontare difficoltà e a condividere momenti importanti e toccanti. Spero di ricevere qualche parere da parte vostra, i consigli sono sempre ben accetti!
Senza dilungarmi troppo, vi auguro una buona giornata. Al prossimo capitolo! 
–    uhstilinski.

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Capitolo 2
*** Beauty and the Beast. ***


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Beauty and the Beast.


Appogiando entrambi i palmi sul vetro freddo, si avvicinò ad esso, osservando sconcertata la figura che aveva catturato prepotentemente la propria attenzione. Un giovane uomo dai lineamenti duri se ne stava in piedi di fronte al cancello scuro, la schiena poggiata contro il cofano di una Camaro nera e le braccia muscolose incrociate al petto. I capelli scuri e disordinati erano smossi dal vento fresco, e gli occhiali da sole le impedivano di attribuire una forma e un colore ai suoi occhi. 

«Emma» la voce di suo padre, Chris, risuonò spazientita per il corridoio. «Svegliati o farai tardi a scuola» borbottò come suo solito. La giovane si stropicciò gli occhi, realizzando di aver sognato di nuovo quello sconosciuto per la quinta volta quella settimana. Non aveva alcuna spiegazione logica da darsi ma qualcosa le suggeriva che ci fosse una precisa motivazione celata dietro quei sogni identici tra loro. Doveva solo trovarla.
L’ennesimo urlo da parte di suo padre le arrivò dal piano di sotto, probabilmente si stava cimentando nella preparazione della colazione, che consisteva nello scaldare del caffè al microonde e scartare una merendina alla vaniglia. Riusciva ad immaginarlo indaffarato tra tazze e cucchiaini, con la sua classica espressione sempre un po’ pensierosa ad incupirgli il volto non più fresco e riposato come una volta.
Per lei, ovviamente, sarebbe stato sempre il più bello tra tutti i papà. “Il papà di Kristen ha fatto il modello da giovane, ma tu per me sei più bello” gli aveva detto quando aveva solo sette anni e quello era stato per lui il regalo più bello per la festa del papà. L’aveva guardata commosso e l’aveva messa a letto, raccontandole una delle sue fiabe preferite: La bella e la Bestia. Tra l’altro, lo era tutt’ora. Emma l’adorava, secondo lei era quella che meglio rispecchiava la realtà. Belle era una semplice ragazza che nonostante le difficoltà e le sofferenze, alla fine trova l’amore in un uomo indurito dal tempo e dal male inflittogli da una vecchia strega con la quale aveva dimenticato di utilizzare le buone maniere, finendo vittima di un incantesimo. E nonostante l’aspetto esteriore da bestia, la giovane fanciulla scopre quanto il suo cuore, apparentemente di pietra, fosse in realtà grande e puro. Quella fiaba le aveva insegnato che non servisse essere belli per essere all’altezza, ciò che importava davvero era quello che si nascondeva dietro le apparenze.
«Sono sveglia, papà» esclamò, sperando che fosse in grado di sentirla. «Ci sono!» aggiunse prima di legare i capelli disordinati ed arruffati in uno chignon dall’aspetto alquanto discutibile. La giovane saltò giù dal letto – letteralmente, dato l’orario – e corse a lavarsi, passando di fronte al calendario a muro prima di realizzare che fossero già passate due settimane dall’inizio della scuola e che finalmente avesse smesso di essere riconosciuta come quella nuova. Le persone l’associavano alla cricca di Valerie e Scott, che erano considerati tra i più popolari, uno per via del suo posto fisso nella squadra di lacrosse e l’altra per la sua relazione con Aiden Young, anch’esso onnipresente in campo. Non le dispiaceva affatto essere spesso protagonista di chiacchiere o gossip, era fermamente convinta che essere invidiata fosse meglio di essere ignorata. Non era semplicemente fatta per la vita da lupo solitario. Come dicevano in molti: Bene o male, l’importante è che se ne parli. 
Valerie si era resa disponibile per qualsiasi cosa, un pomeriggio l’aveva aiutata persino a finire di sistemare gli ultimi scatoloni in garage. E come il resto delle persone entrate in casa sua, era rimasta affascinata dai numerosi fucili e armi da caccia di Chris, suo padre. Proiettili d’argento e balestre appese al muro erano senza alcun dubbio un’attrazione per chiunque. Chris vendeva le armi privatamente, anche se ormai quasi nessuno ne comprava più, per lo più venivano utilizzate da lui, il quale coltivava la passione per la caccia ormai da anni. Diceva sempre di aver ereditato quella particolare passione da suo padre, era una cosa di famiglia. Poi era nata Emma e la tradizione si era come interrotta. 
«Tesoro, sto uscendo. La macchina te l’ho tirata fuori dal garage, guida piano». La voce di Chris le giunse limpida e chiara, quasi come se non ci fosse il muro a dividerli. Quella sua premura fece sorridere la giovane, abituata ad essere la cocca del papà. 
«Va bene, papà», si strinse nell’accappatoio, rabbrividendo a contatto con l’aria fresca proveniente dalla finestra rimasta socchiusa. «Ci vediamo dopo».
Sentì la porta d’entrata sbattere e i passi di suo padre rumorosi e decisi lungo il viale piastrellato. Lanciò un’occhiata oltre la finestra e lo osservò entrare nella sua Audi nera e sgommare frettolosamente fuori dal vicinato. «Uomini» sospirò arresa, aprendo l’armadio alla ricerca di qualcosa da indossare. Un familiare beep proveniente dal proprio cellulare nascosto tra le coperte aggrovigliate le indicò la presenza di un messaggio non letto. Si affrettò a vestirsi, indossando un semplice vestitino lilla, un cardigan nero e degli stivaletti del medesimo colore. Recuperò lo zainetto da sotto la scrivania e il cellulare da sotto le coperte, che si limitò a sistemare in maniera frettolosa e poco ordinata. Non aveva la minima intenzione di fare tardi a lezione.

Nuovo messaggio da: Valerie.
“Puoi passarmi a prendere? Mia madre mi ha rubato l’auto perché la sua ha una gomma a terra”.

Emma ridacchiò al solo pensiero della reazione di Valerie nello scoprire di essere rimasta a piedi, riusciva quasi ad immaginare le imprecazioni che aveva trattenuto o la piccola ruga che le si formava tra le sopracciglia quando si arrabbiava. Ormai poteva dichiarare di conoscerla quasi a memoria. Spesso aveva previsto le sue reazioni e le aveva viste prender forma giusto qualche attimo dopo. Il rapporto di fiducia e intesa nato tra le due ragazze era incredibile. Scott aveva confidato alla bruna di non aver mai visto Valerie fare amicizia con tanta rapidità. Le piaceva senza alcun dubbio stare tra la gente e divertirsi, ma faticava parecchio a fidarsi delle persone: conquistare la sua fiducia non era affatto un’impresa semplice. 

Nuovo messaggio a: Valerie. 
“Passo da te tra cinque minuti”.

Emma parcheggiò affianco alla Jeep nera e celeste di Stiles, che se ne stava comodamente seduto sui gradini in marmo di fronte a loro. Giocherellava con le maniche della felpa bordeaux che indossava, guardandosi attorno, probabilmente alla ricerca di Scott. Quei due erano incredibili, sembravano quasi marito e moglie. E la cosa preoccupante era che dovunque ci fossero guai, c’erano anche loro. Le due amiche raggiunsero il castano, il quale si affrettò a salutarla con un cenno del capo. 
«Ciao Stiles» mormorò Valerie, rapita da una presenza fin troppo piacevole. «Quello chi è?» 
Gli occhi di Emma si posarono involontariamente su un ragazzo mai visto prima ma che le sembrò incredibilmente familiare. Assottigliò gli occhi, riducendoli a due fessure, realizzando poi di averlo effettivamente visto da qualche parte: era il protagonista di quel sogno ricorrente che la perseguitava ormai da numerose notti. Credette di impazzire per un secondo, com’era possibile sognare in maniera tanto dettagliata uno sconosciuto, che per giunta non aveva mai incontrato prima? Aveva gli stessi capelli scuri e un po’ disordinati a donargli un’aria intrigante e sbarazzina. Quella volta non indossava gli occhiali da sole però, permettendole di incrociare i suoi occhi grandi e di un colore verde bosco molto particolare e magnetico. Nonostante il viso fresco e giovane, la barba curata gli conferiva un’aria un po’ più matura: di certo non aveva diciassette anni. E, di certo, non frequentava la scuola, o almeno non nelle vesti di studente.
«Quello è Derek Hale. Si vocifera che abbia fatto la domanda per sostituire il coach in campo per un po’».
Gli occhi chiari di Valerie guizzarono da Derek fino a Stiles, quasi come se avesse appena detto un’eresia che l’avrebbe spedito dritto all’inferno. 
«Quel Derek Hale?» domandò sconcertata, lanciando al soggetto in questione l’ennesima occhiata furtiva. Quest’ultimo si voltò a guardare il gruppo di amici con freddezza glaciale prima di sparire tra i numerosi studenti che occupavano l’entrata in attesa del suono della prima campanella. 
«Proprio lui» rispose prontamente Stiles con un filo di disinteresse nel tono pacato e tranquillo della voce. Emma guardò i due amici con confusione, completamente estranea a quel piccolo scambio di informazioni. 
«Qualcuno può farmi capire di chi parlate? Che significa esattamente quel Derek Hale?» 
Valerie si assicurò di non essere in presenza di orecchie o occhi indiscreti e si avvicinò alla bruna, bisbigliandole all’orecchio. 
«Pare sia l’unico sopravvissuto ad un incendio che ha ucciso tutta la sua famiglia e distrutto gran parte della casa in cui vivevano» la informò la mora, allontanandosi lentamente. Emma spalancò gli occhi, voltandosi repentinamente verso i due amici. «Non crederete mica che l’incendio l’abbia appiccato lui, vero?» domandò, corrugando le sopracciglia. 
Stiles si strinse nelle spalle con noncuranza, infilando le mani fredde e screpolate nelle tasche della felpa. «L’hai detto tu» mormorò, arricciando le labbra in una smorfia furba. 
Emma scosse il capo, incrociando le braccia al petto. «Io non credo che sia stato lui» sentenziò prontamente, «come si fa a dare fuoco alla propria famiglia? È ridicolo».
Valerie la osservò con la coda dell’occhio, sospirando profondamente. «Non lo so, a me da i brividi» confessò pacata. 
«È un tipo un po’ losco, questo sì. Non mi stupirei se l’incendio l’avesse davvero appiccato lui» spiegò, gesticolando come d’abitudine.
«Avanti Stiles, non essere così prevenuto» lo rimproverò Scott, intrufolandosi nel discorso con un sorrisetto sghembo sulle labbra. 
«E tu da dove arrivi?» chiese Valerie, stupita di non averlo sentito arrivare. Lui si scambiò uno sguardo complice con Stiles prima di dargli un’amichevole pacca sulla spalla destra. «Vi ho sentiti parlare e non ho potuto fare a meno di ascoltare» ammise con un sorriso colpevole, indietreggiando in direzione della porta d’entrata. «Entriamo?» 
Il comportamento di Scott era sempre più strano, a volte si isolava completamente per poi sparire delle ore intere e ritornare come se niente fosse, senza alcuna spiegazione. Quando non si cacciava nei guai, era quasi impossibile indovinare dove fosse o cosa stesse facendo. 
«Un momento» mormorò Valerie più a se stessa che agli altri. Lo sguardo rivolto a qualcuno in lontananza. «Torno subito» informò il resto del gruppo, allontanandosi per raggiungere con una certa urgenza Aiden. Erano un paio di giorni che avevano smesso di vedersi per via di un litigio irrisolto e l’espressione infastidita e rigida del giovane la diceva lunga. Prima che Stiles potesse infilarci il naso, Emma lo tirò dalla manica della felpa extralarge, costringendolo a seguirla qualche armadietto più avanti. Era consapevole dell’interesse di Stiles nei confronti di Valerie e del profondo senso di protezione che egli provava verso quest’ultima, ma era giusto che lasciasse che si chiarissero da soli e senza intromissioni di alcun tipo. Se c’era una cosa che aveva capito riguardo l’amica, era che le piaceva sbrigarsi i suoi affari senza l’aiuto di nessuno ed Emma non poteva non concordare con quel suo pensiero. 
«Andiamo Stiles, accompagnami» esclamò, prendendoselo a braccetto. Scott, alla sua sinistra, ridacchiava sommessamente. «McCall, ridi poco» lo ammonì lei scherzosamente prima di rivolgergli un occhiolino giocoso. Era divertente il modo in cui il suo sopracciglio destro si sollevasse ogniqualvolta si sentisse chiamare per cognome. Non sapeva stabilire se si trattasse di irritazione o se fosse una semplice e involontaria reazione a quel suono. 
«Ho saputo da mio padre che hanno trovato un cadavere nel bosco, l’ennesimo» se ne uscì Stiles all’improvviso, catturando l’attenzione di entrambi. Scott impallidì e puntò lo sguardo sul volto del giovane Stilinski. 
«Il fatto preoccupante è che è stata ritrovata solo la parte inferiore. Come se fosse stato brutalmente tagliato a metà» sussurrò, facendosi ancora più preoccupato. Emma trattenne il fiato, terrorizzata al solo pensiero di una tale barbarie. Chi poteva essere tanto crudele da commettere un’azione simile? 
«Stiles» mormorò tremante la bruna. «Dimmi che stai scherzando». 
Il giovane scosse il capo, visibilmente provato. Scott era ancora sotto shock, sembrava quasi paralizzato. Il solito colorito bronzeo della sua pelle venne sostituito da un preoccupante pallore. «Dobbiamo andare a lezione» biascicò, afferrando il braccio di Stiles con urgenza.
«Ems, ci vediamo dopo» la salutò Stiles con un flebile sorriso, allontanandosi velocemente al fianco dell’amico. Emma corrugò la fronte, ricambiando il saluto, seguendoli con lo sguardo. C’era qualcosa che non quadrava nel loro comportamento, come se sapessero più di quanto lasciassero intendere. C’era qualcosa di ambiguo nelle reazioni di Scott, com’era possibile che ogni volta che si parlasse di omicidi o attacchi nel bosco, fuggisse via in stato confusionale? Insomma, era comprensibile che fosse scioccato, ma dietro quelle esagerazioni doveva per forza esserci dell’altro.
«Walker», Isaac comparve dal nulla e sembrò percepire all’istante il turbamento che l’avvolgeva. Si poggiò con la spalla contro i numerosi armadietti e le sollevò il mento con un dito, costringendola a guardarlo. «Stai bene?»
Lei annuì piano, sospirando a causa dei pensieri che le attanagliavano la mente. Isaac la scrutò con i suoi occhi grigio-blu, ai quali era quasi impossibile mentire. «Sicura?» insistette, preoccupato. 
«Stiles mi ha detto che hanno trovato un corpo squarciato a metà nel bosco» mormorò dopo qualche secondo, lanciandosi delle occhiate attorno per assicurarsi che nessuno la sentisse. Isaac spalancò la bocca, irrigidendosi a sua volta, proprio come aveva fatto Scott. 
«Scott dov’è?» domandò di getto, avvicinandosi di un passo. Emma sollevò le sopracciglia, osservandolo con serietà. Stranezza numero tre della giornata. «Che c’entra Scott?»
«Niente, ci vediamo dopo» si affrettò a troncare il discorso sul nascere, correndo in direzione del campo da lacrosse, lasciandola da sola di nuovo. La giovane sospirò profondamente, avviandosi al proprio armadietto, per niente pronta ad affrontare una nuova giornata in quel di Beacon Hills, dove le stranezze sembravano essere all’ordine del giorno.

Emma se ne stava seduta in terza fila, dietro la massa di folti capelli scuri di Alyssa, una ragazza con la quale aveva scambiato all’incirca due parole dall’inizio del semestre. Appuntava le parole del professore con disinteresse, sbuffando di tanto in tanto, annoiata quasi dalla lezione del giorno. Storia non le era mai piaciuta e nonostante ci avesse provato in tutti i modi a prestare attenzione, le risultava impossibile. Tra una parola e l’altra, si concedeva il lusso di disegnare qualche scarabocchio ai lati del foglio a righe che aveva strappato dal quaderno di economia, ripensando alle parole di Stiles. Non si spiegava come fosse possibile che nel bosco, che distava solo pochi minuti da casa propria, accadessero sempre i fatti più strani. Solo tre giorni prima un agente di polizia era stato ferito da quello che sembrava essere un leone di montagna, mentre nelle settimane precedenti erano stati rinvenuti ben due cadaveri appartenenti a due giovani ragazzi che pareva non vivessero nella contea. E poi, che diavolo ci faceva un leone di montagna nella radura? Beacon Hills era passata dall’essere una tranquilla cittadina immersa nel verde ad essere la scena del crimine di diverse e inspiegabili uccisioni.
«Dunque ragazzi, come dovreste sapere tutti, Abramo Lincoln fu un politico e avvocato statunitense. Pensate che fu il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti d’America e il primo ad appartenere al Partito Repubblicano, inoltr-»
Ad interrompere il signor Westover, la sirena dell’auto della polizia. Ad Emma, seduta vicino alla finestra, bastò sollevare il capo dal banco per capire cosa stesse accadendo al di fuori delle mura scolastiche. Lo sceriffo Stilinski, nonché padre di Stiles, aveva appena parcheggiato la sua volante nel cortile interno della scuola e si dirigeva a passo veloce in direzione del campo di lacrosse, seguito da due agenti stretti nelle loro uniformi verdi militare. Valerie, come il resto dei compagni di corso, si era alzata e osservava la scena quasi col naso spalmato contro il vetro. Gli occhi vispi e curiosi non intendevano perdersi neanche un istante di ciò che stava accadendo solo a pochi metri da loro.
«Perché lo sceriffo è a scuola?» sibilò un po’ preoccupata Emma, con lo sguardo ancora rivolto alla vettura parcheggiata nel bel mezzo del cortile.
«Non lo so», mormorò l’altra, crucciandosi. «Deve essere qualcosa di grosso».
«Mi chiedo perché ovunque mi giri ci sia la polizia. Inizio a rimpiangere Portland» ammise seria la bruna, inumidendosi le labbra secche.
«Non saprei, forse perché è stato ritrovato un cadavere tagliato a metà nel bel mezzo del bosco?» ribatté sarcastica, sollevando un sopracciglio.
«Dimentichi i due ragazzi e il vice sceriffo ferito» aggiunse Emma, passandosi una mano tra i capelli sciolti prima di stiracchiarsi sulla sedia.
«Ragazzi» esclamò l’insegnante, turbato. «Tornate a posto».
«Dobbiamo andare a vedere che succede, vanno al campo» bisbigliò Valerie afferrando il braccio della bruna, trascinandola con sé solo dopo aver recuperato entrambe le borse. 
«Walker, Butler!» la voce del professore ormai lontana, arrivò alle loro orecchie come un flebile lamento, al quale non avevano la minima intenzione di dare ascolto. Emma si ritrovò a correre dietro alla bella mora per i corridoi deserti e illuminati dalle lampade al neon, respirando affannosamente a causa della velocità raggiunta da quest’ultima, decisamente più sportiva di lei. Si maledisse silenziosamente per non essersi iscritta a qualche corso extra di pallavolo o educazione fisica. Raggiunsero in un battito di ciglia il campo e la visione che si presentò ai loro occhi fu del tutto inaspettata. Lo sceriffo aveva ammanettato Derek Hale, il nuovo aspirante coach di lacrosse in prova, sotto gli occhi sconcertati e curiosi dei presenti. L’aveva appena infilato con forza all’interno della volante nonostante quest’ultimo non avesse opposto alcuna resistenza, borbottando qualcosa tra sé e sé. Ad Emma bastò pochissimo per scorgere Scott e Stiles, che si guardavano attorno in stato confusionale. Sembravano due pesci fuor d’acqua. 
«Non c'è niente da vedere, tornate agli spogliatoi» esclamò con tono duro e severo lo sceriffo nel ritrovarsi suo figlio alle calcagna, il quale non voleva saperne di smetterla di fare domande su domande, tipicamente nel suo stile. 
«Scott, che diavolo succede?» 
La preoccupazione di Emma era salita alle stelle, com’era possibile che in quel piccolo e sperduto paese nella contea di Beacon non ci fosse un attimo di pace? La giovane Walker puntò gli occhi caramello nei suoi più scuri, alla ricerca di una risposta che potesse soddisfare le proprie curiosità. Sperava che almeno lui, che sembrava essere sempre un passo avanti a tutti, quella volta ne sapesse qualcosa di più. Stiles a quel punto si aggiunse ai tre e con le mani nelle tasche dei pantaloncini, espirò profondamente, creando una piccola e impercettibile nuvola di condensa davanti al viso pallido e stanco. 
«Mio padre non vuole parlamene ma sembra che abbiano trovato l’altra metà del corpo» abbassò sensibilmente il tono della voce, volgendo lo sguardo in direzione di suo padre, che sembrava avere qualche problema con l’indiziato, il quale continuava a porgli domande e a proclamarsi innocente e del tutto estraneo ai fatti. 
«E tu come lo sai?» domandò curiosa Valerie.
«Ho origliato la conversazione col vice sceriffo Grint» ammise lui, stringendosi nelle spalle, ostentando un’innocenza che in quel caso non gli apparteneva affatto.
«L’hai fatto?» spalancò gli occhi Emma, avvicinandosi di più al suo volto per evitare che qualcuno potesse sentirli.
«L’ho fatto» annuì con noncuranza, come se fosse la cosa più normale al mondo, incrociando le braccia al petto.
«E lo fai spesso?» continuò lei, sempre più interessata alla faccenda.
«Quanto basta», tagliò corto, guardando negli occhi uno per uno i tre amici. «La metà è ancora dietro casa Hale. Tra circa un’ora arriverà il dipartimento di polizia scientifica per esaminare i resti. Ma suppongo che abbiano preso Derek perché era seppellita proprio a pochi passi dal portico».
«Questo non fa di lui l’assassino» sbottò Emma, mordendosi la lingua un istante dopo aver parlato. «Intendo dire.. Perché ce l’avete tutti con lui?» domandò con tono decisamente meno aggressivo. 
«E tu perché ti ostini a difendere un potenziale serial killer che ha tutta l’aria di poterlo essere?» replicò sarcasticamente Valerie, forse con un pizzico di acidità di troppo. Scott le rivolse uno sguardo severo, quasi come a volerla rimproverare per i modi insolitamente sgarbati. 
«Io non lo sto difendendo, sto solo dicendo che magari non è come tutti lo dipingono. Non deve essere stato facile per lui sopportare la perdita della sua famiglia. Si è ritrovato solo all’improvviso, riesci a immaginare come possa sentirsi?» Emma provava una profonda tristezza per quel ragazzo. Aveva perso sua madre ad una tenera età ed era consapevole che le due perdite non fossero paragonabili, ma nonostante la presenza di suo padre, sapeva cosa significasse sentirsi sola nei momenti più bui e non avere nessuno a cui aggrapparsi quando sentiva di star per crollare. 
«Io credo che Emma abbia ragione» si intromise Scott, poggiando una mano calda sulla spalla della giovane, quasi a volerla rassicurare. «Credo che forse Derek sia incompreso dalla maggior parte di noi. E credo di voler capire cosa ci sia dietro tutto ciò, voglio aiutarlo. Per questo io e te» rivolse un’occhiata d’intesa a Stiles, «andremo nel bosco ad indagare». 
In tutta risposta, quest’ultimo scoppiò in una ilare e acuta risata, che lentamente si trasformò in un’espressione di puro terrore. «Aspetta, non stai scherzando» confermò Stiles prima di passarsi una mano dietro la nuca e sospirare. «Credo che ci cacceremo in un mare di guai» concluse seriamente, scuotendo il capo. 
«Cosa?!» sbottò Valerie a scoppio ritardato, guardando entrambi i ragazzi in cagnesco. «Dove credete di andare voi due?» le sue pupille chiare si dilatarono sempre di più. Era seriamente contrariata e avrebbe fatto di tutto pur di impedir loro di avventurarsi tra le fitte boscaglie.
«Scott, il tuo pensiero ti fa onore ma non potete andare nel bosco» sussurrò Emma, prestando attenzione a non farsi sentire dagli agenti, i quali stavano comunicando via ricetrasmittente con la centrale. «Staranno conducendo delle indagini e vi mettereste solo nei guai» continuò pacatamente, tentando in qualsiasi modo di farli ragionare. 
Scott ci pensò su, sospirò profondamente e aggrottò le sopracciglia folte. «Dobbiamo» concluse come se non ci fossero altre opzioni, scrollando le spalle. «Vi terremo aggiornate» promise con un sorriso rassicurante stampato sul volto spigoloso. E mentre il resto della squadra si affrettava a ritornare negli spogliatoi tra un mormorio e l’altro, i due sgattaiolarono di nascosto nel parcheggio e quando furono certi di non essere visti, sgommarono in direzione del bosco, con addosso la consapevolezza che niente sarebbe potuto andare storto. 
«Come mai non sono affatto tranquilla nel saperli nel bel mezzo del bosco?» domandò ad un tratto Valerie, calciando un sassolino che si era ritrovato sui suoi passi. Con una rapida occhiata al cielo grigiastro di quel lunedì, Emma espirò profondamente, condividendo un po’ di quella preoccupazione che le era fin troppo familiare. Si ritrovò a tirare su con il naso, stringendosi nel cardigan di lana alla ricerca di un po’ di calore. 
«Quei due sono troppo testardi, temo non ci sia niente che tu possa fare» le disse con arrendevolezza, osservando con la coda dell’occhio l’auto dello sceriffo allontanarsi con velocità moderata. 
«Amica mia» sorrise maleficamente la mora, cingendo le spalle della più bassa con un braccio. «Credo di avere appena avuto un’idea per aiutare quei due testoni». 
Emma spalancò gli occhi e le sue iridi calde ed espressive si dilatarono velocemente. Il solo pensiero del bosco le fece venire i brividi. «Scordati che io venga con te nel bosco» chiarì mettendo le mani avanti, scuotendo il capo con decisione. Valerie ridacchiò allegramente, giocherellando con una ciocca di capelli mossi. 
«Non andremo nel bosco, ma in centrale. Dobbiamo parlare con Hale, voglio scoprire quanto ne sappia lui di questo assassinio» la informò lei, facendole cenno di seguirla in auto. Emma sembrò pensarci su qualche istante, lanciò un’occhiata repentina all’edificio mattonato alle proprie spalle e sospirò pesantemente, affrettandosi a salire in auto, mettendola in moto e partendo all’istante prima di riuscire a pentirsi della decisione presa. 
«Ricordami per quale motivo io mi stia cacciando in questa situazione» borbottò, mettendo in moto con movimenti incerti.
«Perché noi siamo dalla parte della giustizia» asserì la mora con profonda convinzione.
«Se mio padre scopre una cosa del genere sono nei guai fino al collo» si lamentò, rivolgendo uno sguardo rapido in direzione dell'amica. 
«Non lo verrà a sapere. Isaac ci sta coprendo, ha detto agli insegnanti che ho avuto un forte mal di pancia» la informò quest’ultima, scrivendo l’ennesimo messaggio ad Isaac per assicurarsi che fosse tutto sotto controllo e che nessuno chiamasse i loro genitori.
 «Voglio sperare che Isaac non si lasci scappare nulla» aggiunse Emma, stringendo tra le dita fredde e sottili il volante della sua Range Rover nera. Valerie scosse il capo in maniera quasi automatica, sollevando le spalle. «Imparerai a conoscere meglio Isaac, a primo impatto può sembrare un tipo dal quale prendere le distanze, credo sia colpa della sua timidezza che a volte lo fa sembrare quello che non è. Ma col tempo capirai di poterti veramente fidare. Pensa che sa segreti di me che non ho detto nemmeno a Scott dopo dieci anni di amicizia». La bruna abbozzò una smorfia quasi incredula, sotto gli occhi divertiti e vispi dell’altra. 
«Che mi dici di Stiles?» se ne uscì Emma, cercando di restare nel vago. Valerie aggrottò la fronte e schiuse le labbra rosee, inclinando il capo da un lato. «Che intendi?»
«Dico... Lo conosci da tanto? Com’è il vostro rapporto?» tentò di svagare, svoltando a destra al secondo incrocio, premendo sull’acceleratore. 
«Ti piace Stiles?» domandò confusa Valerie, osservandola curiosamente. Emma scoppiò a ridere, gettando il capo all’indietro per un quarto di secondo, tornando nell’immediato con lo sguardo sulla strada poco trafficata. 
«Scherzi, vero? Ovvio che no, mi chiedevo solamente se avessi capito che ha una cotta mega galattica per te da fin troppo tempo» ridacchiò lei, dandole una gomitata. La mora iniziò a tossire convulsamente, strozzandosi con la propria saliva. Ci mise qualche secondo prima di riprendersi e scoppiare a ridere nervosamente. 
«Io e Stiles? No, siamo solo amici. E poi non ha una cotta per me» precisò, incrociando le braccia al petto, cercando di risultare il più convincente possibile. Emma decise di non insistere e fece spallucce, accelerando nuovamente, ritrovandosi a non rispettare un paio di segnali a causa della fretta. 
«Okay, questo forse era un po’ illegale» esclamò con espressione spaventata, facendo ridere vivacemente Valerie, che non riusciva a stare ferma e continuava a agitarsi involontariamente sul sedile del passeggero. «In ogni caso, credo che lui e Scott ci nascondano qualcosa» fece Emma, ritornando improvvisamente seria. Superò frettolosamente un’auto, tenendo ben saldo il volante tra le mani. 
«Che intendi?» domandò Valerie, sollevando le sopracciglia. 
«Oh, avanti» borbottò l’altra, rivolgendole un’occhiata. «Sono parecchio strani ultimamente. Soprattutto Scott».
«Sono sempre stati così» sbuffò la mora in risposta, facendo spallucce. «Ci siamo» esclamò poi nello scorgere a pochi metri la centrale di polizia circondata da numerosi alberi. La volante era parcheggiata fuori, Derek Hale sedeva al suo interno ma dello sceriffo nessuna traccia. Le due parcheggiarono dall’altra parte della strada, nei pressi dei nuovi appartamenti ancora sfitti e attesero per qualche minuto. Lo sceriffo Stilinski si affacciò dalla porta della stazione di polizia, controllando il sospettato con un’occhiata rapida e fugace, riprendendo la telefonata che sembrava essere parecchio urgente ed importante. Quando fu finalmente di nuovo all’interno dell’edificio, scesero frettolosamente dall’auto, avvicinandosi a quella dello sceriffo con cautela. 
«Me la sto facendo addosso» fu il commento di Emma, che lanciò un’occhiata oltre il finestrino leggermente oscurato. 
«Al mio tre entriamo. Uno, due» sussurrò Valerie, contando con le dita. «Tre» esclamò infine, facendo sobbalzare l’altra, che s’infilò con agilità dal lato del passeggero, sorprendendo Derek. Quando anche la mora fu nell’abitacolo, entrambe si voltarono verso l'indiziato, che le fissava freddamente. Il ghiaccio nei suoi occhi. Non lasciava trapelare alcuna emozione dalle sue iridi verde bosco, se non una profonda e immotivata irritazione.
«Senti, non ti conosco ma so che probabilmente stai per essere incastrato in qualcosa di cui non sai niente. Devo sapere quanto ne sai riguardo al corpo rinvenuto nei pressi di casa tua e, soprattutto, se sei coinvolto» le parole uscirono una dietro l’altra in maniera molto disinvolta dalla bocca di Emma, la quale ebbe quasi voglia di battersi il cinque da sola. Probabilmente l’adrenalina era entrata in circolo, fornendole la giusta dose di coraggio.
«Senti, ragazzina» Derek fece una pausa giusto per rimarcare il termine, «pensi che se avessi commesso un omicidio lo confesserei alla versione spicciola delle Spice Girls?» domandò sarcasticamente, stringendo i denti. 
«Non sarebbe la mossa più furba da fare» constatò soprappensiero Valerie, arricciando le labbra in una smorfia. «Aspetta un attimo» borbottò poi, ritornando presente a sé stessa. «Questo ammasso di muscoli ci ha appena dato delle sgualdrine o sbaglio?»  
Le vene sul collo di Derek sembrarono gonfiarsi a dismisura, facendo rabbrividire Emma, che lanciò un’occhiataccia all’amica. Non era quello il momento per iniziare un litigio, sicuramente non con un tizio del genere. Non ne sarebbero di certo uscite vincenti. Si maledisse all’istante per averle dato ascolto ma decise comunque di non darsi per vinta e mollare alla prima difficoltà. D’altronde si sa, tentar non nuoce.
«Dico davvero, se sei innocente possiamo aiutarti» insistette lei, puntando il proprio sguardo sul suo volto definito e spigoloso. Percorse velocemente la linea della mascella, soffermandosi sulle labbra serrate in una smorfia spazientita. 
«E come credereste di aiutarmi? Parlando con quell’idiota iperattivo del figlio di Stilinski? Lasciatemi in pace e tornate a scuola» disse loro duramente, senza preoccuparsi di celare quel suo lato scorbutico ed insopportabile. 
«Hey, Stiles non è affatto idiota» esclamò sulla difensiva Valerie, puntandogli un dito contro. «Forse solo un po’ iperattivo» ammise sottovoce, sospirando appena davanti a quell’ovvietà. 
Emma sbuffò pesantemente a causa dell’ostilità di Derek e si pentì all’istante di aver pensato di potergli dare una mano. 
«Arrangiati» borbottò tra i denti, rivolgendogli un ultimo sguardo serio prima di scendere dall’auto e allontanarsi a passi svelti, visibilmente seccata dal modo di fare di quel tipo. Se non voleva essere aiutato, poteva sbrigarsela da solo. Non le importava che potessero arrestare un innocente, se l’innocente in questione era troppo orgoglioso per ammettere di avere bisogno dell’aiuto di qualcuno. 



Hello there! 
Eccomi col secondo capitolo, ho aggiornato inaspettatamente presto. Ammetto di essere impaziente, voglio sapere i vostri pareri! La storia inizia a prendere vita e tra una lezione ed un’altra, ecco che i guai iniziano a bussare alla porta dei nostri cari amici. 
Non aggiungo nulla, vi dico solo che ce ne saranno delle belle, soprattutto tra due giovincelli a caso. Potete indovinare di chi parlo? #DEREMMAVIBES.
Spero di avervi incuriosite un po’, al prossimo capitolo.
–  uhstilinski
 
 

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Capitolo 3
*** The necklace. ***


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The necklace.

La classe di algebra non era mai stata tanto vuota, sembrava girasse un virus intestinale tra i giovani di Beacon Hills, anche se parecchi insegnanti sostenevano si trattasse di una semplice e sana dose di furbizia, che tra gli adolescenti non poteva mai mancare. Emma, seduta in seconda fila tra Valerie e Stiles, osservava rapita una collana che la sera precedente aveva suscitato in lei un particolare interesse. L’aveva trovata tra i vecchi ricordi di famiglia, in mezzo a cimeli, proiettili da collezione e documenti risalenti agli anni settanta. Sul ciondolo d’argento era raffigurato un lupo e al lato vi erano una mezzaluna, un proiettile e dei numeri romani: MCMXX. 
La bruna sfiorò la superficie levigata, prestando attenzione ai dettagli e ai minimi particolari. La cura con la quale erano incisi lasciava senza parole, doveva essere di grande valore per chiunque l'avesse posseduta prima di suo padre, il quale probabilmente l'aveva dimenticata da tempo. O forse lo voleva far credere.
«Stiles, Stiles» bisbigliò lei, tentando di nascondersi dietro le spalle ampie di Isaac. Stiles si voltò di scatto, quasi come se fosse stato bruscamente svegliato da un sogno ad occhi aperti. La guardò curioso, avvicinandosi col busto per cercare di capire cosa volesse. 
«Sai leggere i numeri romani?» domandò Emma a voce incredibilmente bassa, in modo da non disturbare la lezione. Stiles annuì come se fosse una cosa ovvia e lanciò un’occhiata vispa in direzione del professore prima di replicare. «Perché?»
La bruna gli passò semplicemente il ciondolo, facendogli cenno col capo di prestare attenzione ai numeri incisi sulla parte frontale. «Puoi dirmi a che periodo risale?»
Lui abbassò lo sguardo sulla collana, portandosela più vicino al viso per scorgerne i dettagli e la precisione con cui era stata forgiata. Le sue sopracciglia scure si aggrottarono e i muscoli del suo viso si tesero impercettibilmente quando con l’indice ne sfiorò la superficie. «Wow» mormorò, restituendo l’oggetto ad Emma. «Risale agli anni venti» la informò, alternando lo sguardo dai suoi occhi caramello a quelli neri e intimidatori del professore. 
«Wow» gli fece eco Emma, girando l'oggetto in questione tra le mani prima di indossarlo per assicurarsi di non perderlo. 
Quando la campanella suonò, segnando la fine di quella lunghissima e anche un po’ noiosa lezione sulle equazioni irrazionali, di cui probabilmente nessuno aveva capito niente, gli studenti balzarono in piedi e sparirono in men che non si dica, dileguandosi frettolosamente come se da quello potessero dipendere le loro vite. 
«Allora ci vieni alla festa di Lambert?» domandò Valerie, infilando il libro di algebra all’interno della sua borsa beige, in perfetto abbinamento con il vestitino floreale che indossava.
«Devo chiedere a mio padre» confessò Emma atona, accartocciando il foglio scarabocchiato sul quale avrebbe dovuto appuntare gli argomenti giornalieri. 
«Andiamo, ancora non glielo hai chiesto?» le chiese lamentosa la mora, ciondolando col capo. 
«Io e Scott ci saremo» si intromise Stiles, affiancandole. Isaac annuì, confermando in quel modo bizzarro – e totalmente nel suo stile, anche la sua presenza. 
«Vedi, bella brunetta?» fece Valerie con tono scherzoso, «verranno tutti, non puoi mancare». 
Emma sbuffò una piccola risata, seguendo il gruppetto fuori dall’aula ormai deserta. «E va bene» affermò arrendevole, lasciandosi prendere a braccetto dall’amica decisamente un po’ troppo allegra. «E sorridi, Emma. Qualcuno potrebbe innamorarsi del tuo sorriso».
I corridoi pullulavano di giovani chiassosi che sembravano non avere la minima intenzione di limitare i loro schiamazzi dovuti a chissà quale evento mondano organizzato in qualche locale appena fuori dalla contea di Beacon. Erano tutti così concentrati sul divertimento, da scordarsi del probabile coprifuoco richiesto dallo sceriffo per prevenire spiacevoli inconvenienti, il quale li avrebbe tenuti incollati col sedere sul divano a  guardare qualche film visto e rivisto una cinquantina di volte. Tanto rumore per niente.
«Hey ragazzi» li salutò Scott, solare. O almeno fin quando i suoi occhi scuri si posarono sulla collana indossata da Emma. La giovane si accorse subito di quel suo repentino cambio d’espressione e prima che potesse domandargli cosa non andasse, lui la precedette. 
«Quella dove l’hai presa?» domandò attonito, avvicinandosi di qualche centimetro al ciondolo che sembrava non voler smettere di fissare con aria confusa e anche un po’ stupita. 
«Che? Questa? L’ho trovata in una delle scatole di mio padre» spiegò, gesticolando come suo solito. «Perché?» 
Il moro fu come pietrificato, deglutì rumorosamente e si scambiò uno sguardo indecifrabile con Isaac che la diceva lunga sulla natura della sua domanda. Sembrava turbato da qualcosa, ma Emma non riusciva proprio a stabilire cosa ci fosse di tanto preoccupante nelle sue parole, o tantomeno in quella collana. «Tutto bene?» chiese loro, un po’ stranita da quel silenzio fitto e improvviso.
«Ragazzi?» li richiamò con tono canzonatorio Valerie, sventolandogli una mano davanti al volto. Scott si riprese solo quando Stiles lo afferrò dalle spalle, scuotendolo con delicatezza. «Scott, amico», il moro sembrava essere rimasto scottato dalle parole della ragazza, quasi come se non ci volesse credere, quasi come se quel semplice oggetto di bronzo rappresentasse per lui una minaccia.
«Volete dirmi che succede?» domandò la Emma alterata, incrociando le braccia al petto dopo aver nascosto all’interno della camicetta bianca l’oggetto che sembrava creare tanto scompiglio. 
«Niente» rispose Stiles al loro posto, affrettandosi a cambiare argomento, come al solito. «Scott ultimamente fa fatica ad addormentarsi, è solo un po’ più suscettibile del solito. Non fate caso al suo comportamento» mormorò poco convincente, avvicinandosi col busto, quasi come se stesse confidando un segreto che avrebbe potuto comprometterlo. 
«Bene» esclamò Valerie, fermamente convinta di non volersi immischiare nei discorsi da maschi. «Andiamo a pranzo?»
La sala mensa era più piena del solito e Emma, seguita dal gruppo, fece fatica a trovare un tavolo libero per tutti. Dopo un paio di minuti passati a cercare, riuscirono a sedersi e davanti ad un piatto di insalata e una fetta di pane, gli animi sembravano essersi già placati. La questione della collana sembrava essere passata in secondo piano e tra una chiacchiera e l’altra, si era ristabilita la quiete. Si era aggiunto a loro anche Jackson, in compagnia di Aiden, che sembrava aver chiarito con Valerie, dati gli sguardi dolci e le strette di mano fugaci. 
«Lo so, Stiles, ma lui è un Beta, non-» Scott e Stiles bisbigliavano l’uno all’orecchio dell’altro da almeno dieci minuti, sembravano discutere di qualcosa che preoccupava entrambi.
«Cos’è un Beta? Di che parlate voi due?» fece Valerie, riscuotendo tutti dai loro pensieri. 
«Oh» tossicchiò Stiles. «Niente. A proposito, mio padre mi ha detto che hanno rilasciato Derek Hale ma che probabilmente non tornerà in veste di coach» spiegò, masticando una patatina fritta rubata dal piatto dell’amico seduto accanto a lui.
«Sapevo che fosse innocente» sibilò a quel punto Scott, sorseggiando un po’ di tè alla pesca. Emma annuì alle sue parole, trovandosi pienamente d’accordo. Valerie invece abbassò il capo sulle proprie mani, tossicchiando nervosamente.
«Che c'è?» domandò incuriosito Isaac, poggiando entrambi gli avambracci muscolosi e scoperti sul tavolo, aggrottando la fronte.
«Ieri io e Emma gli abbiamo parlato» iniziò, giocherellando con le maniche del giubbotto di pelle marrone. «Ci siamo infilate di nascosto nella volante dello sceriff-»
«Voi cosa?» la interruppe allarmato Scott, spalancando gli occhi. Emma tirò un calcio da sotto al tavolo alla giovane Butler, rivolgendole un’occhiataccia. «Valerie!»
La mora abbozzò un sorriso colpevole nel sentirsi gli sguardi di tutti addosso. Tutti tranne Jackson, che sembrava fin troppo impegnato a comunicare con un compagno di corso seduto al tavolo affianco. Lui e Scott non si sopportavano affatto, anche un po’ a causa dei loro dissapori, Emma non aveva avuto l’occasione per conoscerlo meglio. Non sapeva molto, oltre al fatto che fosse il capitano della squadra di lacrosse e di nuoto, fosse uno studente brillante e avesse un passione più che evidente per le moto. E che fosse, senza ombra di dubbio, incredibilmente bello.
«Volevamo solo aiutare» spiegò Valerie sommessamente.
«Okay, voi non avreste dovuto saperlo» ammise Emma, ormai colta sul fatto. Si grattò il collo in imbarazzo, tentando di evitare il più possibile i loro sguardi indagatori. 
«Geniale!» esclamò elettrizzato Stiles, il quale sembrava essere l’unico a favore di quella missione suicida. «Davvero geniale». 
«Stiles! Se tuo padre le avesse scoperte sarebbero finite in guai seri» brontolò Scott, tirando una gomitata all’amico, che sembrava non voler proprio collaborare. 
«Disse quello che si è addentrato nel bosco alla ricerca di mezzo cadavere» puntualizzò Emma, sollevando un sopracciglio. 
«Mezzo» sottolineò Stiles con un sorriso sghembo sulle labbra. «Mezzo non è poi tanto grave» ironizzò, sventolando le mani di fronte a sé. La sua espressione mutò velocemente quando lo sguardo serio della bruna lo inchiodò alla panca. «Okay, devo stare zitto».
Scott accusò il colpo da parte dell’amica e sospirò, poggiandosi con entrambe le braccia sul tavolo. «Hai ragione. Avete scoperto qualcosa almeno?»
Entrambe le ragazze scossero il capo lentamente, nessuna buona notizia da parte loro. 
«No. Voi?» rispose Emma, riprendendo a masticare la sua insalata mista. 
«Negativo. Quando siamo arrivati c’erano già quelli della scientifica. Ma da quello che ho capito dovrebbe trattarsi di una parente di Derek, probabilmente sua sorella maggiore» bisbigliò Scott, in modo da farsi sentire solo dalle due giovani. Valerie spalancò gli occhi come se fosse stata appena morsa da un cane, mentre Emma si portò una mano alla bocca, incredula. 
«Ma non erano tutti morti i suoi parenti?» domandò frettolosamente, scansandosi da davanti il vassoio: aveva perso improvvisamente l’appetito. 
«Sì, ma sua sorella al momento dell’incendio non viveva più con loro. Si era trasferita in un altro paese» aggiunse Stiles, controllando l’orologio militare che aveva al polso. «Quello che non sappiamo è quanto Derek sia coinvolto e cosa sappia, ma a quanto pare ci ha pensato mio padre. Evidentemente è davvero innocente come pensavate» concluse seriamente. 

«Meglio il blu o il porpora?» domandò squillante Valerie, mostrando ad Emma due abiti completamente diversi. La bruna inclinò il capo, osservando rapita i dettagli fin troppo sfavillanti del vestito porpora. Non era convinta che fosse adatto ad una semplice festa in piscina.
«Dipende» rispose pacata, girandole attorno fino a ritrovarsela di fronte. «Il porpora se vuoi essere elegante, questo blu è decisamente più sportivo» commentò fingendosi una fashion blogger, ridacchiando sotto i baffi mentre alternava lo sguardo da una stoffa all’altra. 
«Vada per il blu» esclamò con convinzione l’altra, poggiandolo sul letto. Emma sospirò di sollievo: era pronta da quasi un’ora, aveva preso in prestito un vestito lilla di Valerie, abbinato ad un paio di stivaletti neri e ad un giubbotto di pelle dello stesso colore che si era portata dietro da casa. 
«Converse alte o basse?» fece la mora, sistemandosi le pieghe del vestito appena infilato davanti allo specchio. «Alte» ribatté prontamente Emma, porgendole le scarpe bianche con un sorriso complice stampato sulle labbra carnose ricoperte di gloss color pesca. 
«Io adoro le feste» commentò elettrizzata Valerie, legando accuratamente i lacci un po’ ingrigiti. 
«Anche a me non dispiacciono» ammise sottovoce l’altra, quasi come se fosse una confessione a sé stessa. Non era una tipa da vita mondana, però non le dispiaceva godersi un po’ di sano divertimento in compagnia di quel gruppo di svampiti. 
«Sai cosa penso, Em?» la voce di Valerie si affievolì pian piano, concludendo la frase in un sussurro. Emma la osservò incuriosita, studiando con attenzione le linee del suo volto pallido e grazioso. La sua pelle sembrava di porcellana, avrebbe fatto invidia persino ad una bambola e le ciglia folte contornavano perfettamente gli occhi di un colore simile al blu misto al grigio.
«Penso che stasera farai colpo sicuramente su qualcuno» gracchiò battendo le mani stupidamente, abbandonandosi poi ad una risatina. 
«Tu credi?» ribatté prontamente l’altra, sollevando un sopracciglio in una smorfia divertita. 
«Certo» annuì convinta Valerie, scostandosi i capelli dal viso con gesto teatrale prima di sparire in bagno per recuperare il cellulare che aveva messo a caricare. 
«Io invece credo che sarai tu a fare colpo. Su Stiles!» la punzecchiò Emma, ridendo sommessamente. «Stupida» fu l’unica risposta che ricevette da parte dell’amica. Nonostante entrambe fossero a conoscenza del feeling particolare che c’era tra i due, Valerie sembrava sempre voler cambiare discorso, quasi come se la timidezza prendesse il sopravvento, rubandole le parole di bocca. 
«Sei pronta?» domandò spazientita Emma, sbuffando in continuazione. Erano entrambe d’accordo che Valerie avesse una gran bella camera, ma dopo una lunga mezz’ora, persino la sua parete rosa cipria tappezzata di foto iniziava ad annoiarla. Aveva persino imparato a memoria l’ordine in cui erano posizionate: dalla più vecchia a quella più recente. 
«Sì, due minuti» esclamò, riempiendo di oggetti personali l’unica pochette blu in suo possesso. Si assicurò di avere tutto, fazzoletti, rossetto, cipria, chiavi di casa, specchietto, gomme, fazzoletti e cellulare.
«Chi hai detto che ha organizzato questa festa?» chiese ad un tratto la bruna, controllando gli ultimi messaggi ricevuti. Uno da parte di suo padre e uno da parte di Scott. 

Nuovo messaggio da: Papà.
“Tesoro, come va?”

Nuovo messaggio da: Scott(y).
“A che punto siete? Vi aspettiamo qui”.


Nuovo messaggio a: Papà.
“Tutto bene, sta’ tranquillo”.

Nuovo messaggio a: Scott(y).
“Scott(y), non ce la fai proprio a stare senza me?”

«Josh Lambert del corso di informatica» replicò prontamente Valerie, spruzzandosi del profumo dal retrogusto dolciastro. Emma corrugò le sopracciglia in una smorfia persa: non aveva la più pallida idea di chi fosse quel Lambert. «Beh? Andiamo?» continuò, facendole cenno col capo di seguirla al piano di sotto. I suoi genitori non c’erano, come la maggior parte delle volte: lavoravano entrambi come avvocati in uno studio fuori Beacon Hills ed erano soliti trascorrere le loro giornate lontani da casa. 
Emma percorse il viale di casa Butler, rabbrividendo ad ogni passo per via della brezza tipicamente autunnale che le scompigliava i capelli e smuoveva i rami degli alberi che circondavano la casa. Una sensazione di gelo avvolse la bruna, che si ritrovò a guardarsi attorno un po’ spaesata: era come se percepisse di essere osservata. Da quando era arrivata a Beacon Hills, non era ancora riuscita a sentirsi mai sola, persino nei momenti in cui, effettivamente, lo era. Probabilmente era l’atmosfera mistica e un po’ oscura che caratterizzava la centenaria cittadina situata al confine con i boschi, o forse era lei a lasciarsi influenzare dai romanzi fantasy e thriller che amava tanto leggere di notte, con la luna a tenerle compagnia. A disturbare la quiete serale solo il rumore dei loro passi contro l’asfalto. Improvvisamente, si aggiunsero anche i passi di un terzo individuo, che nessuna delle due fece in tempo a vedere. «Emma, atten-»
Un colpo alla testa, dopodiché, il buio. Nessun rumore, nessuna voce a rompere quell’assordante silenzio che attanagliava la mente di Emma, ormai priva di coscienza e stesa al suolo, affianco al corpo immobile della sua amica più fidata. Accadde tutto così in fretta da non concedere a nessuna delle due un istante per realizzare cosa fosse appena successo. Proprio come in un thriller, attorno a lei, solo l’oscurità.
Nel frattempo, alla festa. 
La casa di Lambert pullulava di adolescenti chiassosi e pronti a sbronzarsi come se non ci fosse un domani. Seduti su una panca poco lontana dalla piscina, Scott, Stiles e Isaac attendevano impazienti l’arrivo delle due amiche. Erano arrivati ormai da mezz’ora e oltre ad essere in netto ritardo, nessuna delle due rispondeva al telefono. Stiles si guardava intorno curiosamente, avvistando tra i numerosi invitati tante facce nuove, che tra l’altro non gli ispiravano per niente simpatia. Quanto avrebbe desiderato trovarsi sul suo letto a giocare a The Walking Dead. Curioso il fatto che giocasse ad un videogame sugli zombie e due dei suoi migliori amici fossero dei lupi mannari. A volte si chiedeva cosa sarebbe potuto succedere se Valerie, Emma e il resto dei loro compagni ne fossero venuti a conoscenza. Sarebbero scappati o avrebbero accettato la loro natura? Ricordava ancora il momento in cui Scott glielo aveva confessato, trascinandolo con sé in un viaggio senza fine nel mondo del soprannaturale. 
Isaac fischiettava spensierato, per una volta voleva abbandonare le vesti da lupo e godersi un po’ la serata. C’erano talmente tante belle ragazze davanti ai suoi occhi che sarebbe stato un peccato persino doverne scegliere una con cui ballare. 
Scott picchiettava nervosamente il piede sul terriccio, fiutava del pericolo ma non era in grado di stabilire chi, effettivamente, avesse bisogno di aiuto. Sentiva la frustrazione scorrergli nelle vene al posto del sangue, iniziava persino a sudare. C’erano volte in cui avrebbe preferito non essere mai stato morso, nonostante avesse acquisito velocità, forza e agilità – oltre ai sensi decisamente più sviluppati –, la sua vita non era affatto semplice. Aveva passato nottate intere nel bosco ad allenarsi con Derek Hale, che gli aveva insegnato a controllarsi in pubblico e a gestire le sue abilità nel migliore dei modi. Derek, il nipote del licantropo che l’aveva morso, condannandolo ad affrontare una realtà che fino a poco prima avrebbe considerato surreale. Non si aspettava che un semplice essere umano potesse comprendere la complessità e la profondità dei suoi pensieri: spesso il conflitto nella sua mente l’aveva quasi fatto impazzire, portandolo sull’orlo di una crisi di nervi. Inizialmente era sempre arrabbiato, infuriato col mondo. Si chiedeva perché, tra tanti altri, Peter avesse scelto proprio lui. Cos’aveva di tanto speciale, di diverso? Per lui quello era ancora un grosso mistero irrisolto. Ad un tratto, un grido acuto e impercettibile per l’udito umano echeggiò nell’aria, arrivandogli dritto all’orecchio, facendolo impallidire. Un grido proveniente da Emma, un grido quasi sovrumano, che nessuno oltre lui o Isaac a quella festa avrebbe potuto udire. Scott incrociò lo sguardo allarmato e consapevole di quest’ultimo, che scattò in piedi all’istante, «Emma» boccheggiò. 
«È con Valerie» lo informò il moro, scuotendo Stiles dal suo stato di trance. Sembrava catturato da una ragazza di bellezza indiscutibile che ballava sul tavolo e se non si fosse trattata di un’emergenza, Scott l’avrebbe volentieri lasciato sognare in pace un altro po’. 
«Stiles» lo richiamò ad alta voce, con una certa urgenza mal celata.
«Eh? Che c'è?» domandò allarmato lui, guardandolo negli occhi. Il pericolo che ne trapelava fu sufficiente per farlo balzare in piedi in meno di un secondo. L’intesa tra i due a volte era spaventosa.
«Valerie ed Emma sono in pericolo» disse solo, correndo verso l’uscita. Oltrepassarono il cancello di corsa, raggiungendo in pochi istanti l’auto di Stiles, che sembrava più confuso che mai. Avrebbe voluto fare mille domande e le parole parevano mischiarglisi in bocca. Aveva quasi perso il dono della parola. 
«Dove sono? Che è successo?»
Scott salì dopo di lui al posto del passeggero, allacciando la cintura con un gesto rapido. L’ultima cosa di cui avevano bisogno era una multa. «Le ha prese Deucalion, il capo del branco di Alpha di cui ti parlavo ieri. Insiste perché mi unisca a lui, vuole ricattarmi» disse a denti stretti, stringendo tra le mani il cellulare. «Le ha portate vicino alla vecchia fabbrica di giocattoli abbandonata dopo la centrale, ci sono dei garage sfitti».
Riprovò a chiamare entrambe le ragazze, ma nessuna delle due rispose. L’ansia nei loro corpi crebbe a dismisura, un silenzio inquietante calò nell'abitacolo, nessuno dei tre osava proferire parola. Il respiro nervoso e spezzato di Scott segnava lo scorrere del tempo come una lancetta. Isaac si torturava le mani, una montagna di pensieri gli attanagliava la mente. Stiles tentava invano di non cedere alla tentazione di mettersi ad urlare in preda ad un attacco di panico. Non aveva la più pallida idea di come avrebbero potuto salvarle, l’unica cosa di cui era certo era che Scott avrebbe, senza alcun dubbio, trovato un modo per farlo senza mettere a rischio la vita di nessuno. Credeva fermamente in lui, sapeva che ce l’avrebbe fatta. L’aveva visto sconfiggere un intero gruppo di lupi nel bel mezzo del bosco la settimana precedente, riuscendo ad uscirne solo con un paio di graffi. Gli costava ammetterlo e nonostante Derek non gli piacesse più di tanto, doveva riconoscere che avesse fatto un ottimo lavoro nell’addestrarlo. 

Un ruggito potente echeggiò nell’ampio garage dall’aspetto malmesso e trascurato. Un paio di sedie rovesciate, un paio di tegole e una trave di legno che sorreggeva una candela quasi del tutto consumata. Delle gocce d’acqua colavano dal soffitto, scandendo ritmicamente il passare del tempo. L’odore di muffa era quasi insopportabile. Legate a delle catene, alla fine della vecchia autorimessa, giacevano Valerie ed Emma, ancora prive di conoscenza. Quando una goccia colpì la guancia di quest’ultima, bastò qualche secondo perché aprisse gli occhi e balzasse all’indietro, ritrovandosi seduta con la schiena contro il muro ruvido e stinto. Il cuore prese a batterle talmente forte da sembrare che stesse per uscirle fuori dal petto. Centinaia di domande le offuscarono la mente, rendendola incapace persino di pensare razionalmente. Abbassò lo sguardo sulla caviglia scoperta stretta in una catena che si prolungava fino alla gamba di Valerie, che per un istante le sembrò morta. Iniziò a scuoterla, lasciandosi scappare un singhiozzo sommesso dovuto alla paura che iniziava a crescere dentro di lei. «Valerie» biascicò sottovoce, temendo che potessero sentirla. La mora aprì gli occhi e si guardò attorno intimorita e confusa prima di portarsi una mano alla testa sanguinante e dolorante per via del colpo ricevuto. «Em» sussurrò, gelandosi. «Dove siamo?»
Il terrore che trapelò dalla sua voce bastò ad agitare ancora di più Emma, che cercava disperatamente di trovare un appiglio per non andare fuori di testa. Anche respirare le creava disagio in quella situazione incredibilmente surreale. Cercò con lo sguardo la borsa, le serviva il cellulare, doveva avvisare la polizia. Sfortunatamente chiunque le avesse rapite, era stato tanto furbo da privarle di tutto. Le loro borse giacevano abbandonate in un angolo, fin troppo lontane per essere raggiunte da legate.  
«Non voglio morire» singhiozzò Valerle tremante, coprendosi il viso con entrambe le mani. 
«E non morirete» la voce di un uomo adulto rimbombò con potenza, «se farete quello che vi dico».
Dei passi resero sempre più reale l’immagine creatasi nella mente di Emma. Fecero la loro apparizione un gruppo di persone formato da quattro uomini e una donna. Il più anziano tra loro avanzò minacciosamente, lasciandosi gli altri alle spalle, schierati ordinatamente come soldatini. Doveva essere il leader di qualche banda di assassini o molestatori e il solo pensiero, rese Emma tesa come una corda di violino. Il fatto che fosse cieco e girasse con gli occhiali da sole e un bastone a guidarlo le fece intendere che non fosse stato lui a rapirle, bensì che avesse commissionato quel compito a qualcun altro. Nonostante la paura la rendesse incredibilmente debole, riuscì comunque a parlare. 
«Chi siete?» domandò tremolante Valerie, stringendosi le ginocchia al petto. Una lacrima le solcò la guancia, che a stento aveva trovato il coraggio di guardare in faccia quegli sconosciuti. «Cosa volete da noi? Volete dei soldi? Mio padre potrà darvene quanti ne volete, vi prego, chiamatelo» aggiunse poi, scossa da un tremito. L’uomo dai capelli grigi e la barba rada rise di gusto, deridendole, fermandosi a pochi passi da loro. 
«Trasformatevi» ordinò semplicemente a quelli che avevano l’aria di essere i suoi schiavi. Prima ancora che Emma potesse dare un senso a ciò che le sue orecchie avevano appena udito, zanne, artigli e peluria su volto e braccia si fecero spazio davanti al proprio naso. Non capiva se quello a cui i suoi occhi stessero assistendo fosse un semplice scherzo giocato dal suo cervello, che voleva spingerla alla pazzia, o se fosse effettivamente reale. Quel gruppo di persone si era appena trasformato in un branco di mezzi lupi. O meglio, licantropi. Le urla di Valerie echeggiarono nel piccolo spazio in cui erano intrappolate.
«C-Cosa» balbettò in preda al panico la bruna. «Cosa siete?» 
Una fitta sensazione di paura mista ad adrenalina le percorse la spina dorsale. Quello non era un sogno e lei non si sarebbe risvegliata nel proprio letto. 
«Cosa diavolo siete?» esclamò più forte, tenendo lo sguardo fisso sul capo branco, il quale aveva mantenuto le sembianze umane. 
«Povere sciocche. I vostri amichetti non vi hanno messo al corrente della loro natura mostruosa?» le schernì lui, senza neanche muovere un muscolo. 
«Il mio nome è Deucalion, questo è il mio branco di Alpha. So che le mie parole non hanno alcun senso per voi, ma probabilmente presto ce l’avranno».
La testa della bruna iniziò a girare, le parole di quell’uomo non avevano il minimo senso, aveva ragione. E cosa intendeva precisamente con la frase in cui nominava i loro amici? Per caso aveva preso anche loro? Erano in pericolo?
«Emma Walker» soffiò lui, prendendo un respiro profondo. «Ho un conto sospeso con il tuo caro paparino e con Scott McCall. Ora che ci penso, avrei da dirne quattro anche a Derek Hale. Ti dice niente il suo nome?» 
Emma sbiancò. Il cuore le batteva talmente forte da impedirle quasi di respirare correttamente. Cosa c’entrava suo padre? E Scott? 
«Ti sei mai chiesta il perché di quei sogni? Sono entrato nella tua mente durante la notte, ti ho controllata. Ho manipolato i tuoi sogni, plasmandoli secondo i miei bisogni. Derek ha qualcosa che io voglio e che tu puoi ottenere. Hai dei poteri nascosti in te e io voglio che mi aiuti ad attirare i tuoi amici qui» spiegò chiaramente, controllato ed incredibilmente pacato. Sembrava che nemmeno respirasse, il suo petto fasciato dalla camicia scura non accennava al minimo movimento. I singhiozzi irregolari di Valerie, accompagnati a qualche tremolio distolsero per un attimo l’attenzione di Emma dal suo interlocutore. 
«Che stai dicendo? Quali poteri? Hai sbagliato persona, io.. Noi siamo persone normali, nessuno di noi ha dei poteri» farfugliò lei in preda all’ansia, tentando in qualsiasi modo di regolarizzare il respiro. Quella situazione rasentava a dir poco il ridicolo. L’uomo abbassò gli occhiali, mostrando le iridi rosso sangue alle due ragazze con un sorriso compiaciuto e diabolico stampato sul volto ruvido segnato dal tempo e dalle rughe. 
«Basta! Basta! Lasciaci andare, noi non ne sappiamo niente» urlò Valerie presa da un impeto di rabbia, dimenandosi e tentando di rompere invano la catena saldata al muro.
Bastò un cenno del capo da parte di Deucalion per sguinzagliare due dei suoi licantropi, i quali corsero minacciosamente verso Emma e Valerie, tenendole prepotentemente ferme. La forza posseduta da quei due individui avrebbe potuto disintegrare una casa appena costruita o addirittura far crollare un intero palazzo. Deucalion si avvicinò, spazientito al volto di Emma, fermandosi a pochi palmi dal suo naso piccolo e all’insù. Lei sussultò, mordendosi violentemente le labbra per trattenere un urlo. 
«Sentimi bene, ragazzina. Tu, adesso devi urlare per me, devi attirare qui i tuoi amici. Devi attirare qui il tuo amico Scott. Ho un conto in sospeso con lui da quando ha rifiutato di entrare nel mio branco. Sai, lui è destinato a diventare un Alpha davvero potente e se non si unisse a me, potrebbe costituire una grossa minaccia per tutti quanti». La sua voce bassa e pungente infastidiva Emma da morire, non sopportava che le stesse così vicino, che non accennasse a spostarsi, a indietreggiare. Odiava il fatto che avesse tutto quel potere su di lei, tutti quel controllo immeritato. Per un istante credette di poterlo sfidare e così, stupidamente, si lasciò guidare dall’istinto. 
Bastò un impeto di rabbia a rovinarla. Diede uno schiaffo in pieno viso al licantropo che la teneva ferma, tentando di scalciarlo con i piedi. Quest’ultimo, dall’aspetto rozzo e sudicio, ringhiò e l’attaccò, mordendola al collo. 
Emma liberò un urlo disumano a causa del dolore lancinante provocato da quel morso. Iniziò a sentire delle fitte lungo tutto il corpo, il sangue pulsare e le vene gonfiarsi improvvisamente. I muscoli tesi si rilassarono all’improvviso e gli occhi prima spalancati, si chiusero. Deucalion impallidì per un secondo e indietreggiò, ringhiando a sua volta. 
«No, no, no. Evan, cristo santo» urlò, prendendosi la testa tra le mani. Il suo piano era andato in fumo. «Perché l’hai morsa, razza di idiota. Adesso è diverso, è tutto diverso. Abbiamo spezzato il patto, è caccia aperta, capisci? McCall non mi ascolterà mai» si disperò, tentando di reprimere la rabbia e non fare a pezzi uno dei suoi. In quel momento non poteva rischiare di perderne un altro. 
«Ce ne andiamo, non possono trovarci qui. Siamo troppo pochi e troppo deboli» ammise quasi più a sé stesso che al resto del branco. E in un batter d’occhio, sparirono nello stesso modo in cui erano arrivati. 
«Emma! Oh mio Dio» le urla spaventate e disperate di Valerie echeggiarono nel garage vuoto, mentre le mani piccole e tremanti cercavano di risvegliare l’amica ormai svenuta. Perdeva sangue dalla ferita profonda sul collo inflittale da quella bestia, della quale non avrebbe mai e poi mai potuto dimenticare le sembianze. 
«Emma» sussurrò poi, accasciandosi sul suo corpo debole e infreddolito, stringendole le mani tra le proprie. «Emma, resisti» la pregò piangendo, incapace di fare altro. Iniziava anche a sentire freddo e la paura di non essere trovate in tempo iniziava a tormentarla crudelmente. Aveva paura di perdere un’amica, forse una delle poche fidate che aveva. Aveva paura di dover essere la testimone della morte di una giovane ragazza con tante aspirazioni e sogni nel cassetto. Aveva paura di vedere una vita spegnersi davanti ai propri occhi e più di tutto, aveva paura di non poter essere in grado di fare niente. Valerie iniziò a urlare, delle urla disperate, terrorizzate e cariche di odio nei confronti di quei mostri. Non riusciva nemmeno a credere a ciò che aveva visto poco prima, sperava ancora che fosse tutto un incubo dal quale si sarebbe presto risvegliata. Urlava e piangeva, era straziata da quella scena: Emma priva di coscienza in un lago di sangue. Aveva persino paura a toccarle il polso, temeva di non sentire più il suo battito cardiaco. La voce le venne a mancare, non poté fare altro che singhiozzare in silenzio e quando sentì di aver terminato anche le lacrime, si abbandonò ad uno stato di trance. Si isolò completamente da tutto il resto, fissando un punto di fronte a sé, era come se fosse caduta in un coma volontario. Sembrava essere diventata un vegetale, stringeva le ginocchia al petto, tremando come una foglia. Non percepì nemmeno la presenza di Scott, Stiles e Isaac, accorsi in loro aiuto. Era totalmente sotto shock. 
«Ragazze» gridò Scott, correndo verso di loro. Quando i suoi occhi scuri si posarono sul corpo di Emma steso in un bagno di sangue fu il gelo. Per un istante fu come paralizzato, si fermò e tutta la vita gli passò davanti. Non poteva essere morta, non doveva esserlo. Si chinò sulle ginocchia, controllò il battito e un barlume di speranza si accese. 
«Oh mio Dio» sussurrò col fiato corto nel realizzare che il sangue provenisse dalla ferita di un morso. Isaac affiancò Scott, mentre Stiles corse da Valerie, prendendole il viso tra le mani per cercare di farla riprendere. 
«Valerie, hey» mormorò preoccupato, ispezionandola con lo sguardo alla ricerca di eventuali morsi. «Valerie, stai bene?» 
Valerie non rispose, non ne fu in grado. L’esperienza vissuta l’aveva scioccata a tal punto da renderla irriconoscibile.
«È viva? Dimmi che è viva» farfugliò Isaac, fissando spaventato Emma. Il battito controllato dell’amico lo precedette: era ancora viva. 
«Scott?!» lo richiamò Stiles, con voce tremante. Era terrorizzato. E come biasimarlo? Quella situazione era surreale persino per uno abituato agli scontri tra lupi. Continuava a stringere Valerie tra le braccia, infondendole un po’ di coraggio. 
«Dobbiamo portarla da Deaton» disse Scott. Il Dr. Deaton sarebbe stato l’unico in grado di aiutarli in una situazione del genere. Emma era stata morsa e data la quantità di sangue perso, doveva essere passato un po’ di tempo e il fatto che non avesse ancora ripreso conoscenza era allarmante. 
«Isaac, dobbiamo rompere le catene». 
Il riccio non se lo fece ripetere due volte, con un gesto secco tirò fuori gli artigli e con tutta la forza posseduta in corpo, ruppe brutalmente la catena, spezzando la cinghia di cuoio che teneva le ragazze legate ad essa. Scott si caricò addosso Emma e le loro borse, mentre Stiles portò Valerie, che non osava dare accenni di ripresa. Raggiunsero la Jeep di quest’ultimo prima di abbandonare il vecchio e maleodorante garage. 
Il livello di tensione all’interno dell’abitacolo era salito alle stelle: nessuno osava proferire parola, Stiles alla guida sembrava essere impazzito: guidava come un forsennato, niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo. Scott si era seduto dietro con Isaac ed Emma, mentre Valerie era stata legata saldamente al sedile del passeggero. La mora farfugliava delle frasi sconnesse ma allo stesso tempo collegate tra loro. 
«Scott.. Tu sei destinato ad essere l’Alpha. Lui cerca te e Derek. Lui ha qualcosa che Deucalion vuole. Siete in...» biascicò, fissando un punto indefinito di fronte a sé. Il trucco colato sulle guance, le labbra screpolate e i capelli in disordine erano niente in confronto al caos che stava vivendo nella sua testa. 
«Valerie, stai tranquilla» mormorò Scott, premuroso. «Andrà tutto bene». 
Ma le sue parole sembrarono servire a ben poco, era come se lei non lo sentisse, o forse si rifiutasse. Il suo cervello sembrava essersi isolato completamente, chissà se capiva di essere finalmente al sicuro. 
«Stiles, ti prego sbrigati» lo supplicò Isaac, terrorizzato dal fatto che l’amica potesse morirgli tra le braccia. Sentiva il respiro flebile diminuire ogni secondo che passava. Le teneva stretto al collo un lembo della sua camicia, che aveva strappato istintivamente per bloccare il flusso del sangue. Non si era ancora trasformata e se c’era una cosa che Derek gli aveva insegnato era che il morso o ti trasforma, o ti uccide. E lui non voleva neanche pensarci a quella seconda terrificante ipotesi.
«Ci siamo quasi» esclamò frustrato Stiles, svoltando a sinistra, dirigendosi verso l’ambulatorio veterinario in cui lavorava Deaton. L’avevano chiamato ed erano rimasti d’accordo che si sarebbero incontrati lì. Al telefono, una volta spiegate le condizioni di Emma, era sembrato parecchio preoccupato. E quel particolare, sfortunatamente, non aiutava nessuno di loro. 
«Emma, resisti» sussurrò Scott, stringendole la mano fredda e pesante. «Resisti», fu quasi un ordine. Era una priorità per lui in quel momento. Doveva farcela, non c’erano alternative. 
«Eccoci, eccoci» esclamò Isaac nel riconoscere l’ambulatorio a qualche metro di distanza. Sarebbe voluto saltare giù dall’auto prima ancora che si fermasse, l’ansia che attanagliava il suo giovane corpo lo rendeva quasi debole, o almeno più del solito. E non gli piaceva affatto sentirsi debole. Non faceva per lui, non era roba da lupi mannari. Lui e Scott portarono Emma all’interno, mentre Stiles perse un po’ di tempo a cercare di far riprendere Valerie. 
«Se non si trasformasse?» domandò Isaac, inquieto. La tensione si sarebbe potuta tranquillamente affettare col coltello. Scott non voleva assolutamente prendere in considerazione quell’opzione, si rifiutava anche solo di pensarlo. 
«Starà bene» affermò con convinzione, varcando la soglia della clinica deserta con una totalmente giustificata urgenza. 
«Deaton» lo chiamò ad alta voce, irrompendo nel retro, dove solitamente curava gli animali. Fortunatamente, lui si trovava già lì, circondato da antidoti e intrugli vari che avrebbero aiutato Emma. A fargli compagnia, Derek Hale. La sua presenza era del tutto inaspettata, Scott non credeva che avesse percepito il pericolo, ma come al solito, si sbagliava. Derek era sorprendentemente imprevedibile.
«Mio Dio» commentò proprio quest’ultimo nel momento in cui il più giovane fra i tre lupi adagiò Emma sul tavolo d’acciaio presente al centro della stanza. «Lo so» annuì poi, consapevole delle condizioni in cui si trovava la sua amica. Si allontanò per lasciare a Deaton lo spazio necessario di cui aveva bisogno per mettersi a lavoro. 
«Si può sapere che diavolo le è successo?» chiese duramente Derek e in quel momento, Stiles comparve sulla soglia: sorreggeva Valerie, ancora parecchio fuori di sé. «È stata morsa, genio mannaro» commentò sarcasticamente, sollevando un sopracciglio. 
«Sta’ zitto» ordinò con voce particolarmente piatta prima di tornare con lo sguardo su Scott, il quale osservava con apprensione il lavoro dedicato del dottore. 
«Il morso avrebbe potuto ucciderla sul colpo se solo fosse andato più in profondità» confessò Deaton, disinfettando la ferita prima di mescolare un liquido giallognolo all’interno di un bicchiere in vetro. «Non capisco perché non si trasformi» ammise poi, serio. «Data la quantità di sangue persa su questa camicia direi che dovrebbe essere già morta».
«Ma non lo è» precisò Isaac in fretta, guardandosi attorno per ricevere approvazione. «Giusto?»
«No, non lo è. Ma non si sveglia. È come bloccata in una specie di limbo» Deaton sembrava riflettere ad alta voce ed era ovvio che ci fosse qualcosa a preoccuparlo più del dovuto. 
«Sembra la sosia di Britney Spears durante il suo periodo di crollo psicologico» commentò serio Derek, osservando con attenzione il volto inespressivo e apatico di Valerie. 
«Davvero?» fece Stiles, prettamente retorico e con un filo di ironia. Derek aveva sempre qualche commento incredibilmente intelligente da voler condividere con il resto dei presenti. 
«Sul serio, che le prende?» chiese poi il moro, avanzando qualche passo verso i due. 
«Derek ha qualcosa che lui vuole» bisbigliò debolmente lei, tremando tra le braccia salde e accoglienti di Stiles. «De-» l’ennesimo fremito la scosse prima che svenisse, sorretta prontamente da quest’ultimo. 
«Scott, Scott» lo richiamò lui allarmato, stringendo la presa attorno alla vita di Valerie per evitare che cadesse a terra. Scott lo aiutò a farla sdraiare su un altro tavolo vuoto presente nella stanza, controllandole il battito cardiaco fortunatamente regolare.
«Lasciatela riposare, ha bisogno di dormire. È solo molto scossa» disse Deaton, sollevando entrambe le palpebre di Emma per controllare la dilatazione delle pupille. Non vi erano tracce di anormalità, la ferita era ormai disinfettata e fasciata e il respiro sembrava aumentare gradualmente; pareva quasi si stesse riprendendo con estrema ed estenuante lentezza.
«La buona notizia è che la ferita è disinfettata e non dovrebbe crearle troppi problemi» li informò sollevato, sfilandosi i guanti prima di gettarli nel cestino alla destra di Scott, che sembrò riprendere colore. Credeva di non essersi mai spaventato tanto in vita sua. Anche Isaac e Stiles avevano ripreso a respirare, era come se fino a quel momento fossero stati in apnea. 
«Diamo un’occhiata a lei» mormorò tra sé e sé Deaton, avvicinandosi a Valerie. Stesso procedimento: dilatazione delle pupille, controllo della salivazione, battito e temperatura corporea. Sembrava tutto nella norma e a parte la piccola ferita sulla testa che medicò in fretta, non c’era più da preoccuparsi. O almeno non per lei. 
«Credo si stia svegliando» bisbigliò Stiles, avanzando di un passo. Derek se ne stava tranquillamente poggiato con la schiena contro il mobiletto dei medicinali, le braccia incrociate e lo sguardo perso, mentre Isaac, Scott e Deaton trattennero il fiato per un istante. La mano di Stiles sfiorò quella di Emma, che balzò indietro dopo aver spalancato gli occhi, emettendo un urlo carico di terrore. Il più giovane tra i licantropi si avvicinò velocemente, lasciando che si stringesse contro il suo petto. Avrebbe percepito il suo battito accelerato persino a cinque chilometri di distanza. 
«Emma, ascoltami» sussurrò Scott, abbracciandola, «è tutto finito».
Il suo tono rassicurante tranquillizzò la giovane per qualche istante, fino a che quest’ultima non realizzò di essere stata morsa da una terrificante creatura della notte.
«Scott» biascicò senza fiato, allontanandosi per poterlo guardare negli occhi. «Lui mi ha morso. Era un licantropo... Aveva le zanne, gli artigli e brillava, lui e-» 
«Brillava?» rise flebilmente Derek, scuotendo il capo con estremo divertimento. «Sicura di non aver visto uno dei Cullen?» Non gli importava affatto di poter risultare uno stronzo insensibile, per lui non faceva alcuna differenza l’opinione altrui, o almeno non più. Aveva imparato a fregarsene di ciò che pensava la gente. Era diventato freddo e distaccato, aveva smesso di credere nel genere umano. 
«I suoi occhi» la voce di Emma si spezzò quando Derek avanzò di qualche passo, rendendosi visibile sotto la luce naturale della luna. Aveva cambiato look, la barba scura era sparita, donandogli un’aria più giovanile. Lo sguardo di Emma viaggiò dalla linea definita della mascella fino alle labbra carnose e a cuore. «Erano i suoi occhi a brillare» precisò un istante dopo, sorreggendo lo sguardo penetrante e magnetico del più grande. L’espressione nata sul volto di quest’ultimo sembrò parlare da sé: la determinazione di Emma nel non voler cedere per prima aveva dato il via ad una vera e propria sfida. I suoi occhi verdi brillarono, accesi dalla voglia di dimostrare chi fosse realmente Derek Hale. Lui non si lasciava intimidire da nessuno, figurarsi se una ragazzina del liceo sarebbe stata in grado di fargli abbassare la testa. Il gioco di sguardi durò ben poco, ma non per mancanza di coraggio da parte della ragazza, bensì a causa di una forte fitta alla testa che la scosse con prepotenza, facendole tornare alla mente frammenti di ricordi risalenti a poco tempo prima. Le voci nella sua testa si sovrapponevano in continuazione, rendendole impossibile comprendere cosa stesse realmente accadendo. Ad un tratto un silenzio cupo e raccapricciante la circondò, cullandola per qualche istante. Poi tutto prese forma come in un puzzle da completare: Scott e Derek erano come loro, non erano più totalmente umani. Com’era possibile nascondere qualcosa di così incredibilmente grande al mondo intero senza destare alcun sospetto?
«Oh mio dio» esclamò lei, tornando alla realtà. Sentiva i muscoli delle braccia e delle gambe tremare, mentre un senso di solitudine l’avvolgeva interamente. Confusione, incredulità e shock. Non sapeva più come sentirsi, non sapeva più di chi fidarsi. In più era stata morsa, cosa avrebbe significato? Sarebbe diventata come loro? O sarebbe restata una semplice umana tormentata da incubi e visioni riguardanti quella notte per il resto dei suoi giorni?
«Voi siete come loro» bisbigliò, ripetendolo ad alta voce per assorbirne la veridicità. «Voglio sapere come e perché».
Scott sospirò nervosamente, evitando per pochi istanti lo sguardo serio e deciso di Emma. «Chi di voi è ancora umano?» 
Stiles alzò la mano, piegando l’angolo delle labbra in una smorfia. Si sentiva in colpa per aver taciuto la verità tanto quanto Scott. La bruna alternò lo sguardo da quest’ultimo ad Isaac, che teneva le mani all’interno delle tasche, dondolandosi sui talloni, visibilmente a disagio. Sembrava che tutti avessero perso le parole. 
«Anche tu?» chiese lei quasi scettica. La situazione diventava sempre più ridicola e surreale. 
«Lascia che ti spieghi» avanzò Scott con espressione indecifrabile stampata sul volto bronzeo. «Sono stato morso, proprio come te. È successo nel bosco un po’ di tempo fa. Io mi sono trasformato in pochissimo tempo, al contrario di te. Il mio corpo non ha resistito, mentre tu sembri essere immune. Da quella notte ho acquisito come dei poteri, le mie abilità sono migliorate a vista d’occhio: ho un udito e un olfatto ultrasensibile, riesco persino a percepire il battito del tuo cuore. Derek, invece ci è nato. La sua era una famiglia di licantropi, gli hanno passato il gene concependolo. Isaac, come me, è stato morso a sua volta. Purtroppo non c’è scelta, non abbiamo avuto il tempo per decidere cosa volessimo, è accaduto. Non siamo mostri, noi non uccidiamo» spiegò, inumidendosi le labbra. Il suo sguardo era sincero, stava dicendo la verità. Emma chiuse gli occhi per un attimo e si massaggiò le tempie: nonostante la franchezza dell’amico, le sembrava ancora di sognare. Quando rialzò le palpebre, cercò di abbozzare un sorriso rassicurante, voleva che capisse che non fosse più tanto arrabbiata con lui. Era solo confusa, e forse anche un po’ turbata dalla serie di eventi ai quale aveva dovuto assistere in maniera tanto rapida e inaspettata.
«Chi ti ha morso?» si ritrovò a chiedere, con un filo di timore mal celato. In cuor suo sperava vivamente che non fosse stato Derek, le incuteva già abbastanza timore il solo pensiero di averlo ad una distanza tanto ravvicinata. 
«Peter Hale» confessò senza troppi preamboli, lanciando uno sguardo disinteressato al nipote del soggetto in questione, il quale si limitò a rivolgere ad entrambi un sorriso sornione di brevissima durata. 
«Voglio andare a casa» sospirò la bruna, lanciando un’occhiata alla propria destra, riconoscendo il corpo di Valerie adagiato sul tavolo, affidato alle mani esperte e sapienti del dottor Deaton. «Come sta?» domandò di getto, sforzandosi di ricordare cosa fosse accaduto nei minimi dettagli. 
«Bene, domani andrà meglio per entrambe» la rassicurò, rivolgendole un sorriso gentile. «Dovreste portarle a casa, hanno bisogno di riposo».







Hello there!
Eccomi qui anche col terzo, già scritto da un po’.
Ho inserito il primo colpo di scena, le ragazze hanno scoperto il grande segreto di Scott e compagnia bella. Che ne pensate?
Nel prossimo vedrete le diverse reazioni delle due donzelle, entrambe chiaramente motivate.
Non vedo l’ora di superare questi primi capitoli di introduzione per poter entrare nel vivo della storia! Vi chiedo di lasciare una piccola recensione per farmi sapere che ne pensate, ho bisogno di sentire anche le vostre opinioni.
Vi mando un abbraccio, un piccolo grazie a chi ha già recensito. Significa molto per me.
uhstilinski.

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Capitolo 4
*** The Hale Mansion. ***


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The Hale Mansion.




Il libro di letteratura inglese giaceva abbandonato sul banco scolorito dal tempo, affianco a numerosi evidenziatori già scarichi e post it mai scritti. La copertina verde e blu consumata agli angoli gli recava un aspetto vecchio e malmesso, nonostante l’avesse utilizzato un paio di volte. La piccola agenda bianca e lilla che utilizzava per segnare i compiti fungeva ormai da bloc-notes, data l’esagerata quantità di disegni e scarabocchi agli angoli delle pagine. Oltre le ampie finestre, numerose nubi scure e minacciose avevano oscurato completamente il sole in compagnia del quale Emma aveva avuto la fortuna di svegliarsi quella mattina. Un fastidioso chiacchiericcio di sottofondo le impediva di pensare troppo intensamente alla serata precedente, durante la quale era quasi morta. Sembrava essere ossessionata dalla volontà di ricordare tutto, ogni minimo particolare. Ne aveva bisogno per poter andare avanti, per poter affrontare quegli incubi terrificanti che le avevano impedito di dormire serenamente. Quella mattina si era alzata con un grande mal di testa, aveva guidato da sola fino a scuola ed era entrata evitando qualsiasi contatto col mondo esterno, filando dritta in classe. Non aveva incrociato nessuno dei suoi amici e in un certo senso, era meglio così. Aveva bisogno di tempo per assimilare il tutto, non sarebbe stata in grado di passarci sopra come se nulla fosse accaduto. Voleva essere sincera con se stessa e con gli altri, non riusciva a fingere che la notizia non l’avesse sconvolta neanche un po’. Era abituata a considerare i lupi e i vampiri creature fantastiche appartenenti ai libri e ai film, di certo non si aspettava che esistessero davvero e che di notte girassero indisturbati nel bosco dietro casa propria. Nonostante conoscesse Scott e Isaac e sapesse che fossero dei bravi ragazzi, voleva prendersi qualche giorno per rifletterci e sistemare i tasselli al loro posto.
Aveva sentito Valerie per telefono, la quale aveva deciso di saltare la scuola: sembrava essere parecchio seccata e arrabbiata con i ragazzi per averglielo tenuto nascosto per così tanto tempo. Non le piaceva sentirsi esclusa, d’altronde, nonostante l’avessero fatto solo per proteggerla, anche lei faceva parte del gruppo. 
«Stilinski» gracchiò infastidita la professoressa Miller, una donna sulla quarantina dai capelli biondi e i lineamenti fin troppo duri e marcati. «Sei in ritardo di venti minuti» lo rimproverò, segnando con la fedele penna nera qualcosa sul proprio registro. 
«Sai che odio i ritardatari».
Stiles chinò il capo, affrettandosi a prendere posto affianco ad Emma, in seconda fila. «Mi scusi, la macchina si è fermata» si giustificò con voce affaticata prima di liberare un sospiro profondo nell’aria. 
«Sbaglio o questa era la scusa della settimana scorsa?» lo incalzò lei sospettosa, assottigliando gli occhi scuri e intimidatori. L’intera classe prese a bisbigliare, tutti gli occhi puntati sul povero Stiles, che le bugie proprio non le sapeva dire.
«Ehm» balbettò in difficoltà, grattandosi la nuca imbarazzato. «La ruota, volevo dire che si è bucata la ruota» si riprese al volo, mettendosi seduto prima di cacciarsi in un altro pasticcio. La Miller finse di crederci e per evitare di rubare altro tempo alla lezione, chiuse un occhio e riprese la spiegazione del decadentismo, introducendone una particolare corrente: l’estetismo
«Hey» bisbigliò Stiles, tentando di attirare l’attenzione di Emma. La bruna era talmente presa dal racconto della vita di Oscar Wilde da non accorgersi in un primo momento dei placidi sussurri dell’amico. 
«Emma» insistette lui con urgenza. Temeva che fosse ancora arrabbiata, o peggio, che avesse deciso di ignorarli per il resto dell’anno scolastico. La giovane si voltò un attimo dopo, leggermente stranita. Le bastò incrociare le iridi dolci e sincere di Stiles per sciogliersi come un cubetto di ghiaccio al sole. Era impossibile tenergli il muso per più di un minuto. 
«Che c'è?» chiese con uno sbuffo non troppo convinto, abbassandosi appena per potersi nascondere dietro le spalle del giovane Fields. 
«Non sei ancora arrabbiata, vero?» le domandò lui con espressione innocente. Emma distolse lo sguardo, fissando la penna blu dal tappo mangiucchiato che teneva tra le dita esili. Ci pensò per qualche istante in più del necessario, nonostante in cuor suo fosse certa di non provare rabbia o rancore nei loro confronti, voleva farlo patire un po’, quasi come una piccola vendetta per averla tenuta all’oscuro di tutto.
«Non sono arrabbiata» borbottò senza guardarlo. «Ho bisogno di tempo» precisò poi, sperando che capisse la propria posizione. 
«Walker, Stilinski, vi dispiacerebbe andare a discutere dei vostri problemi fuori dalla mia classe?» 
Adesso sì che avevano superato il limite. Emma non era mai stata cacciata da nessun corso in vita propria e di quella prima volta non ne andava di certo fiera, anzi. Se avesse potuto si sarebbe sotterrata volentieri sotto un mucchio di libri. Stiles sembrava esserci abituato, invece. Non si era mosso di un centimetro, il suono del suo cognome non aveva suscitato alcuna reazione. Entrambi riempirono le loro cartelle e lasciarono l’aula in religioso silenzio, sotto lo sguardo seccato dell’insegnante. 
«Adesso però sono arrabbiata» esclamò Emma, rossa in faccia. Non era di certo in quel modo che si aspettava di passare l’ultima ora.
«Oh, avanti» si lamentò Stiles, cingendole le spalle con un braccio prima di rilasciare una risatina fintamente malvagia nell’aria. 
I corridoi liberi del piano terra incutevano un certo terrore, soprattutto per via della luce tremolante proveniente da una delle lampade al neon. Il circuito elettrico dell’edificio era fin troppo vecchio, Emma si domandava persino come potesse reggersi ancora in piedi l’intera struttura. 
«A chi importa di Oscar Wilde?», la voce armoniosa del giovane risuonò limpidamente, echeggiando nell’ampio corridoio. 
«A me» rispose prontamente lei, poggiandosi contro gli armadietti ordinatamente schierati alle proprie spalle. Stiles la imitò, giocherellando con la bretella del suo zaino nero contenente solo qualche quaderno.
«Quindi non sei arrabbiata» tentò nuovamente, torturandosi le mani. Quel gesto fece sorridere Emma, la preoccupazione che trapelava dai suoi movimenti era più che apprezzata.
«No» ammise, scrollando le spalle distrattamente. 
«E Valerie?» azzardò lui, contraendo i muscoli del viso. L’espressione della bruna mutò impercettibilmente, facendosi più seria: non era certa di avere una risposta da dargli. 
«Perché non ne parli con lei?» gli consigliò, indietreggiando fino al proprio armadietto. Lui soffocò un lamento dovuto all’ostilità della giovane: perché le donne dovevano essere tanto complicate? 
«Se solo si fosse presentata» le fece presente, schiettamente e senza giri di parole troppo enigmatici persino per uno come lui. Emma sollevò entrambe le sopracciglia curate e ripose i libri all’interno dell’armadietto, fingendo indifferenza. Forse per lui era difficile comprendere le ragioni di Valerie, essendo stato partecipe delle vicissitudini di Scott e compagnia bella durante le notti di luna piena.
«Stiles, seriamente» replicò aspra, con netto ritardo, «non mi riguarda. Ti ho detto come mi sento io, ma non posso garantirti che anche per lei sarà così» asserì duramente, richiudendo l’armadietto con la solita delicatezza che la caratterizzava.
«Abbiamo sbagliato» ammise finalmente, chinando il capo. Si osservò le scarpe, che al momento sembravano essere diventate parecchio interessanti. Emma non voleva affatto mortificarlo, desiderava solo che comprendesse. «Scott non voleva coinvolgervi, non ha mai voluto che veniste coinvolte come ieri sera» fu la risposta che le diede, sperando che le sarebbe bastata. 
«E pensava di proteggerci tenendoci all’oscuro di tutto» affermò lei alla fine, mettendosi per un solo istante nei panni dell’amico. Al suo posto, probabilmente avrebbe fatto lo stesso. Non avrebbe mai voluto che qualcuno del gruppo si facesse del male. Distolse lo sguardo per pochi attimi, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro. 
«Scott è davvero un buon amico» mormorò poi, con un sorriso sereno ad illuminarle gli occhi. E Stiles non poté fare altro che annuire, trovandosi pienamente d’accordo con le sue parole. «Non immagini quanto» sussurrò affettuosamente, ricambiando il sorriso.
«Oh» s’interruppe Emma nel ricevere un messaggio. «Devo andare» lo informò frettolosa solo dopo averlo letto: Valerie le aveva chiesto di incontrarsi in una caffetteria poco distante da casa propria. Decise di accettare il suo invito, avrebbe lasciato l’auto fuori casa e passeggiato fino al luogo dell’appuntamento. 
«Tutto bene?» domandò cauto Stiles, domandandosi il perché di tanta fretta. «Emma?»
La bruna ripose il cellulare in tasca e sollevò le palpebre, osservandolo interrogativa. «Come?»
«Va tutto bene?» ripeté lui, avanzando di un passo con fare circospetto. Le sue iridi scure studiarono con attenzione i movimenti delle mani di Emma, ormai aveva imparato che quando le strofinava tra loro o stava mentendo, o si trovava in difficoltà. A volte essere un buon osservatore non era poi tanto male come sembrava. 
«Sì, benissimo» sorrise lei in maniera fin troppo forzata, scostandosi una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio. Lui aggrottò la fronte, osservandola da sotto le ciglia fini e lunghe. Quel suo sguardo inquisitorio la faceva sentire quasi sotto pressione. 
«Devo solo incontrare... una mia amica al Karamel. E ora è meglio che vada» si lasciò sfuggire fin troppo e pregò allo stesso tempo che Stiles non avesse fatto caso al proprio tentennamento. 
«Okay, fa attenzione» la salutò lui, infilando le mani all’interno delle tasche dei jeans scuri, seguendola con lo sguardo fino a vederla scomparire oltre le porte di vetro della scuola. 

L’incessante temporale che aveva tormentato l’apparente quiete di Beacon Hills per giorni, sembrò placarsi improvvisamente, concedendo una tregua ai poveri cittadini costretti a girare perennemente con l’ombrello in borsa. Il cielo era stranamente sereno, nessuna tempesta in arrivo. Emma stava camminando in direzione del Karamel, la caffetteria in cui avrebbe incontrato Valerie. Il tragitto era di soli dieci minuti a piedi, una vera e propria passeggiata per un’amante della natura come lei. Le piaceva perdersi con lo sguardo tra le foglie ingiallite mosse dal vento, o alla ricerca di nidi di rondine. Da piccola era ossessionata dai volatili, se ne andava in giro per la casa sognando di poter diventare un uccellino per volare via quando sentiva il bisogno di stare da sola per un po’. 
Prima che potesse ricevere uno dei tipici messaggi intimidatori di Valerie nei quali si lamentava per i suoi soliti e immancabili cinque minuti di ritardo, si ritrovò magicamente di fronte all’insegna della caffetteria. Aprì la porta in legno scuro ed entrò senza indugiare, rabbrividendo dalla testa ai piedi per via della differenza – seppur lieve – di temperatura. Un accogliente tepore l’avvolse, riscaldandole le mani fredde e arrossate sulle nocche spigolose e sporgenti. Si guardò attorno con espressione un po’ spaesata, avanzando di qualche passo tra i tavoli disposti ordinatamente. Il locale non era troppo affollato, ma alla cassa si era già formata una piccola coda. Lanciò un’occhiata alla fine della sala, intravedendo Valerie seduta accanto all’ampia finestra, anch’essa in legno. Camminò con velocità moderata fino a raggiungerla, salutandola con un candido sorriso. 
La mora sembrò riscuotersi, sollevando lo sguardo perso in direzione dell’amica. L’espressione apatica presente sul suo volto non fu nulla di particolarmente inaspettato. 
«Hey» mormorò poco dopo, seguendola con lo sguardo mentre si sedeva, mettendosi comoda sulla panca di fronte a sé. Ci fu un lungo silenzio tra le due, un silenzio grazie al quale riuscivano a comprendersi senza la necessità di dire niente. Gli occhi meno vivaci del solito di Valerie erano il chiaro segno che non avesse dormito nemmeno lei e che i pensieri l’avessero massacrata tutta la notte. Emma poteva immaginare come si sentisse e cosa provasse, il solo ricordo di quella notte le faceva tremare le ginocchia. Se solo i loro genitori avessero saputo.
«Hai dormito?» le domandò premurosa, studiando attentamente il leggero tremolio delle sue mani.  
«Poco» confessò sinceramente, «continuavo a vedere strane cose nella mia camera, ai piedi del letto» abbassò gradualmente la voce fino a ritrovarsi a sussurrare. 
«Lo so. Ci ho pensato molto anche io» ammise l’altra, spostandosi i capelli sciolti sulla spalla sinistra.
«Non so se sarà facile perdonarli» mormorò con lo sguardo perso nel vuoto. Le dita sottili impegnate a giocherellare con un braccialetto celeste che le aveva regalato sua nonna. 
«Oggi ho parlato con Stiles» sospirò Emma, mordendosi l’interno della guancia, concentrando la propria attenzione su alcune fotocopie sparse sul tavolo, alle quali non aveva ancora fatto troppo caso. 
«Hai fatto delle ricerche sui licantropi?» domandò in un bisbiglio, sporgendosi col busto in avanti, ottenendo maggiore visibilità. 
«Sì» ribatté con freddezza la mora, riordinando i numerosi fogli, «Stiles che ti ha detto?»
«Gli dispiace», fece una breve pausa, volgendo lo sguardo fuori dalla finestra, «e molto, aggiungerei. Mi ha detto che non era loro intenzione farci sentire emarginate, volevano solo proteggerci» spiegò con tutta calma, giocherellando distrattamente col ciondolo a forma di perla che indossava. 
Valerie sbuffò sonoramente, incrociando le braccia sul tavolo. 
«Sono confusa e spaventata. Non so se riuscirò più a uscire di notte senza avere il terrore di essere colpita in testa e aggredita da creature soprannaturali che vogliono uccidermi. Non so se riuscirò più a dormire senza sognare di trovarmi nel bel mezzo del bosco circondata da lupi. Non so se e quando passerà la sensazione che ho di essere perennemente osservata da qualcuno», parlava a voce bassa, con calma, in netto contrasto con il chiasso che la circondava e con le emozioni che stava provando in quel momento. Emma leggeva nei suoi occhi rabbia, rancore, timore, paura, incredulità. 
«C’è una cosa che continua a tormentarmi da ieri, Deucalion ha tirato in mezzo anche mio padre e voglio escludere che possa essere un lupo mannaro. Insomma, vivendoci insieme me ne sarei accorta da un bel pezzo» sospirò quest’ultima, distogliendo lo sguardo. «Ma deve esserci qualcosa che mi sfugge, ultimamente mi sono sfuggite fin troppe cose. Tra lupi mannari e corpi squarciati ritrovati nel bosco non credo che riuscirò a chiudere occhio per un bel po’ nemmeno io».
Valerie seguiva con attenzione le sue parole, mantenendo gli occhi chiari puntati su una particolare fotocopia, quella che parlava del famoso morso
«Sei stata morsa, allora perché non ti sei trasformata come tutti gli altri?» domandò Valerie con tono apatico, percorrendo con lo sguardo le parole scritte nere su bianco, soffermandosi su una in particolare: morte
«Qui dice chiaramente che il morso può trasformarti o ucciderti. Perché non parla di una specie di immunità, qualcosa che possa aiutarci a capire cosa ti sia successo veramente dentro quel garage? Ho visto quanto sangue hai perso, Emma. Non credo sia una cosa normale...» bisbigliò infine, rivolgendole un’occhiata glaciale. 
«Non ne so nulla a riguardo, per questo ho bisogno di parlare con Derek. Ricordi quando Deucalion ha parlato di quei miei sogni ricorrenti? Derek ha qualcosa che lui vuole e aveva intenzione di servirsi di me per arrivarci» spiegò Emma, gesticolando con le mani, alzando un po’ di più la voce. 
«Io non ci capisco più niente» si lamentò Valerie, esasperata. Intrecciò le braccia sul tavolo e vi affondò il capo, borbottando qualcosa di incomprensibile. 
«Lo so, lo so. Ma presto andrà meglio, dovrà per forza andare meglio» la rassicurò la bruna, allungando un braccio verso di lei, accarezzandole una mano. 
«E se invece peggiorasse tutto? Se questo meglio non arrivasse mai?» sbottò nervosamente, sollevando il capo all’improvviso. «Emma, saresti potuta morire. Saremmo potute morire. E devo dire che ci siamo andate veramente vicino, soprattutto tu. Puoi immaginare la reazione di tuo padre? Non può permettersi di perdere anche te. E come minimo mia madre sarebbe finita in manicomio, mentre mio padre si sarebbe chiuso in casa per il resto dei suoi giorni».
«E cosa vuoi fare, Val? Ignorare Scott, Stiles e Isaac per il resto dei tuoi di giorni perché hanno cercato di proteggerci?» ribatté con tono duro e distaccato Emma, irrigidendosi all’improvviso. La mora non accennò a distogliere lo sguardo, bensì aggrottò la fronte e schiuse le labbra, boccheggiando prima di mordersele con forza. 
«Siamo quasi morte, Emma. Credi che abbiano fatto un buon lavoro nel proteggerci?»
«Io credo che tu debba metterti per un attimo nei loro panni. Dimmi: cosa avresti fatto tu?» continuò la bruna, scuotendo lentamente il capo, quasi incredula. Valerie sospirò, restando in silenzio. 
Non sembrava volesse cambiare idea, probabilmente voleva solo evitare di litigare anche con lei. Prima che Emma potesse aggiungere qualcosa, un rumore alle proprie spalle la fece desistere. Lo sguardo dell’amica balzò fino alle due figure appena entrate nella caffetteria: Scott e Stiles, in qualche modo, le avevano trovate.
«Parli del diavolo…» borbottò la mora, tossendo fintamente. «E spunta il licantropo».
Emma si voltò e non appena i propri occhi incrociarono i due ragazzi, si alzò, recuperò la borsa e indietreggiò velocemente. «Vado a cercare Derek, non dire niente a Stiles e Scott. Mi raccomando, non essere troppo dura» bisbigliò, guardandola dritta negli occhi prima di voltarsi e camminare a passo svelto e deciso verso l’uscita. Sperava davvero che Valerie potesse accorgersi di quanto loro le volessero bene e che la smettesse di nascondersi dietro ad un dito per paura di farsi troppo male. La vita era fatta di alti e bassi, non si poteva sempre pretendere il meglio. A volte bisognava anche accettare il peggio, imparando ad ingoiare quanti più bocconi amari possibile.
«Ragazzi», li salutò lei cordialmente, con un sorriso sincero, «devo scappare» aggiunse prima di aprire la porta e scomparire dietro l’angolo, sotto lo sguardo ancora confuso dei due. 
Nonostante fossero quasi le sei del pomeriggio, il sole era ancora alto nel cielo e i suoi raggi colpivano qualsiasi cosa intralciasse la loro traiettoria naturale. Il cielo completamente sereno sembrava quasi un miraggio, Emma, abituata ormai alla versione cupa e piovosa di Beacon Hills, si era quasi scordata cosa significasse poter girare a piedi, senza doversi preoccupare di aver portato l’ombrello. Dopo un paio di minuti passati a passeggiare nei pressi del confine con il bosco, le venne in mente di non avere la più pallida idea di dove Derek potesse vivere. Prese il cellulare dalla tasca dei jeans chiari che indossava e velocemente scrisse un messaggio a Valerie, sperando che lo leggesse al più presto. 

Nuovo messaggio a: Valerie
“Dimmi che sai dove abita Hale”.

Qualche minuto più tardi, una familiare vibrazione la scosse dai numerosi pensieri che l’avevano distratta, attirandola involontariamente al confine tra la strada sterrata e il mucchio di alberi che andava via via ad infittirsi sempre di più. 

Nuovo messaggio da: Valerie.
“Non ne ho idea. So solo che la sua vecchia casa, quella andata a fuoco, si trova da qualche parte nel bosco, più o meno a sud-est di casa tua”.

Sul volto abbronzato di Emma comparve un sorriso soddisfatto e anche un po’ impaziente. Aveva un disperato bisogno di risposte, non aveva alternativa e Derek, al momento, era l’unica fonte sicura. 
Era un licantropo dalla nascita, doveva pur sapere qualcosa in più rispetto agli altri e lei avrebbe fatto sì che si aprisse, confidandole i segreti più oscuri del suo mondo. Era anche consapevole del fatto che non si sarebbe spinta tanto oltre se solo suo padre non fosse stato coinvolto da Deucalion. Così, presa da una vampata di coraggio, si addentrò nel bosco, seguendo le vaghe indicazioni di Valerie. Gli alberi sembravano tutti uguali, alti e impetuosi nella loro maestosità. La luce filtrava dai rami lunghi e sottili, creando un’atmosfera tetra e anche un po’ inquietante. Pensò di essersi persa un paio di volte, il suo senso dell’orientamento era pari a quello di un bambino di due anni. Ebbe anche la sensazione di essere spiata, ma cercò comunque di non perdere la calma, ripetendosi che nessuno avrebbe avuto motivo di seguirla nel bel mezzo del bosco. Camminò per altri cinque minuti, avendo l’impressione di aver girato in tondo per tutto quel lasso di tempo, ma quando sentì di star per perdere le speranze, in lontananza scorse una casa, o meglio, ciò che ne restava dopo il violento incendio che ne aveva distrutto gran parte. Avanzò più velocemente e con passo un po’ più sicuro, raggiunse il portico. 
Si domandò più volte quale essere vivente ragionevole avrebbe voluto passare del tempo all’interno di quello stabile malmesso e bruciato. Aveva compreso che Derek non fosse tra le persone più ordinarie e prevedibili di Beacon Hills, ma non si aspettava di certo di trovarlo lì dentro. Probabilmente aveva comprato un’altra casa e la sua visita sarebbe stata più che inutile, ma dopo quella lunga camminata, decise comunque di tentare la sorte. 
Salì i quattro gradini in legno, che prontamente scricchiolarono sotto i propri passi e si avvicinò alla porta, anch’essa costruita con lo stesso materiale. Esitò per un attimo prima di bussare, temendo che così facendo la casa sarebbe potuta cadere a pezzi sopra la propria testa. Quel pensiero la terrorizzò talmente tanto da farla restare col pugno destro sospeso per aria, a qualche centimetro di distanza dalla superficie scura rovinata e consumata dal tempo. Dopo un secondo scosse il capo e sospirò profondamente, bussando un paio di volte con decisione. Un rumore proveniente dal bosco alle proprie spalle la fece sobbalzare e fece in modo che avanzasse ancora di un passo. Quando si voltò, non vide niente e si ritrovò a dare la colpa al vento, che continuava a muovere le foglie in maniera sempre più impetuosa. Dentro di lei, però, fremette dalla paura. Così, bussò di nuovo, questa volta però con più urgenza ad animare i colpi secchi contro il legno rigido. Stanca di quel silenzio piatto e snervante, presa da un lampo di irritazione mista a curiosità, impugnò la maniglia di metallo e la spinse, compiendo qualche passo all’interno dell’edificio buio e polveroso. La porta cigolò, richiudendosi da sola, facendo sussultare Emma per la seconda volta in pochi minuti. Imprecò a denti stretti e sottovoce, guardandosi attorno con fare cauto e circospetto, avanzando molto lentamente. Faceva attenzione persino a non respirare troppo spesso o troppo rumorosamente, aveva come il timore di poter svegliare qualcuno da un sonno centenario, o qualcosa di strettamente simile. Le scale di fronte a sé, che portavano al piano di sopra, sembravano stranamente fin troppo intatte. 
I mobili del salotto sopravvissuti all’incendio erano un’ampia vetrina dal vetro scheggiato, un paio di sedie gettate in un angolo, un tavolino di legno e un divano nero in pelle, fin troppo moderno per risalire all’epoca dell’incidente. La bruna si avvicinò a quest’ultimo, sfiorandolo con l’indice della mano sinistra prima di avanzare in direzione del tavolo, sul quale giacevano abbandonate alcune foto ancora incorniciate, che ritraevano una famiglia, una donna dai lunghi capelli scuri e dei bambini allegri e sorridenti. Prima che potesse prenderne una in mano ed esaminarla, un ruggito seguito da un fragoroso rumore le tolse letteralmente il fiato. Balzò in avanti, inciampando prima aggrapparsi agli angoli del tavolo, risparmiandosi una brutta caduta. 
«Oh mio dio» sussurrò nel voltarsi e ritrovarsi di fronte Derek, visibilmente infastidito da quella sua intrusione. Chiuse gli occhi per un istante e il colore di essi mutò da un particolare rosso brillante al solito verde bosco. Lo sguardo di Emma cadde inevitabilmente sul suo petto nudo, seguì le linee dei suoi muscoli, scendendo sugli addominali prima di risalire lungo le spalle ampie e forti. 
«Cosa vuoi?» sputò con impassibilità, fissandola stizzito con uno dei suoi tipici sguardi indecifrabili e penetranti. Derek era l’esatto esempio di uomo misterioso e imprevedibile, colui che non deve mai chiedere, colui che se vuole qualcosa, lo ottiene sempre. Lei, la classica ragazza dallo sguardo intenso e magnetico. Aveva sempre quell’aria un po’ superba e disinvolta che avrebbe mandato fuori di testa chiunque. Infondo quei due si somigliavano più di quanto volessero dare a vedere, pur essendo due soggetti molto differenti.
«Ho bisogno di risposte» rispose lei, con meno sicurezza di quanto avrebbe voluto, portandosi una mano sul petto per cercare di regolarizzare il battito cardiaco. Tentò disperatamente di non distogliere lo sguardo come la prima volta e dargliela vinta ancora, portandosi una ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio. Ormai, tra loro era guerra aperta, una guerra all’ultimo sguardo. Infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans, stringendosi nelle spalle, visibilmente a disagio. Iniziava a pensare che quella non fosse stata proprio una buona idea, anzi, poteva essere archiviata senza alcun dubbio tra le peggiori mai avute. 
Derek, a quel punto sollevò un sopracciglio, inclinando di poco il capo verso sinistra. Tese la mascella prominente, spazientito da quell’atteggiamento pretenzioso. La studiò a lungo in religioso silenzio, avanzando poi di due passi fino a raggiungerla. Le girò attorno con estrema ed estenuante lentezza e ad Emma sembrò quasi di impazzire. Percepì il suo respiro caldo e profondo a pochi centimetri di distanza dal proprio corpo debole e tremante. 
«Sei coraggiosa. Te l’hanno mai detto di non entrare da sola nella tana del lupo?» 
La sua serietà fu spezzata per pochi istanti dall’accenno di quello che sembrò un mezzo sorriso agli occhi speranzosi e anche un po’ intimoriti di Emma. Tuttavia, non gli avrebbe lasciato sapere quanto in realtà la sua presenza l’agitasse più del dovuto: non gli avrebbe lasciato prendere il sopravvento tanto facilmente, il suo orgoglio non glielo avrebbe permesso. 
«Tu non mi fai paura» esclamò accigliata. Non era del tutto un bugia, qualcosa le diceva che Derek non avrebbe mai osato farle del male. Era una sensazione che provava ogniqualvolta i loro sguardi si incrociassero anche solo per un istante. Nonostante le sue occhiate ostili e minacciose, sotto tutto quell’odio e quel rancore, batteva ancora il cuore di un essere umano. 
«Davvero? Posso sentire il tuo battito accelerato da questa distanza» le fece notare lui, sollevando il mento prima di incrociare le braccia al petto. La sensualità dei suoi movimenti continuava a mettere a dura prova Emma, che faticava a tenere lo sguardo puntato altrove. 
«Guardami» ordinò lui con aggressività. Lei strinse i pugni, sospirando profondamente, voltandosi solo poco dopo, accontentandolo. Il proprio cuore perse un battito quando dalle dita affusolate di Derek spuntarono degli artigli lunghi e affilati. Sentì l’impulso di indietreggiare ma qualcosa fu in grado di farla desistere. Restò immobile, con gli occhi nei suoi e le braccia stese lungo i fianchi. 
«Sarebbe un peccato se perdessi il controllo e ti rovinassi questo bel viso» la provocò poco dopo, avvicinando pericolosamente gli artigli alla sua guancia, arrivando quasi a sfiorarla. Nonostante il battito la tradisse, il corpo le restò fedele: riuscì a rimanere immobile al suo cospetto, nessun tentennamento o accenno a debolezze di alcun tipo. 
«Non credo che uno con la tua esperienza possa perdere il controllo tanto facilmente» ammise Emma, ancora tesa per via di quella vicinanza inaspettata.
«Saresti stupita di vedere quanto facilmente possa perderlo» la informò lui, allontanandosi nuovamente. Si poggiò contro la superficie in legno del tavolo, liberando un sospiro spazientito nell’aria. 
«Ti ho sognato» sbottò lei diretta, iniziando a passeggiare nervosamente avanti e indietro. Si mordicchiò le unghie sotto gli occhi vigili e diffidenti del giovane Hale, pentendosi immediatamente per aver formulato la frase in maniera tanto ambigua. 
«Mi hai sognato?» chiese lui, allibito. Sbatté le palpebre più volte, come a voler esternare la propria confusione e aggrottò le sopracciglia, allargando le braccia. «Che significa?»
Emma si ritrovò a sbuffare infastidita prima di fronteggiarlo coraggiosamente e a testa alta, guardandolo dal basso verso l’alto. Un formicolio la solleticò lungo la schiena quando gli occhi grandi di Derek la scrutarono con più attenzione, spostandosi curiosi sul proprio viso. 
«Mi è capitato di sognarti prima ancora di sapere della tua esistenza. Deucalion ha detto di essere entrato nella mia testa e aver manipolato i miei sogni ogni notte per farmi arrivare a te» spiegò tutto d’un fiato, gesticolando animatamente, col petto che le si alzava ed abbassava velocemente.
«Da quando Deucalion si interessa alle mie relazioni con l’altro sesso?»  scherzò lui, sollevando un sopracciglio con fare tranquillo e pacato. L’irritazione di Emma crebbe ancora di più, era possibile che nulla riuscisse a preoccuparlo? Quella sicurezza che si trascinava dietro prima o poi l’avrebbe portato senza ombra di dubbio all’autodistruzione. 
«So che ti è difficile, ma puoi prendermi per un attimo sul serio?» gli domandò stizzita, serrando le labbra e incrociando le braccia al petto. «Voglio solo aiutarti, dovresti darmi retta invece di-»
L'irascibilità di Derek la travolse come un tornado e prima ancora che potesse accorgersene, se lo ritrovò di nuovo ad un palmo dal viso contratto in un’espressione sorpresa. Era chiaro che non riuscisse a controllare la rabbia, ma non si aspettava di vederlo esplodere come una bomba ad orologeria ogniqualvolta qualcuno tentasse di dare semplicemente una mano. La guardò con espressione torva, carica di disprezzo immotivato. I suoi occhi erano illuminati da una luce nuova, sembravano due pozze d’acqua scura colmate da un freddo risentimento che bastò a gelarle il sangue nelle vene. 
«Ti sembra che io abbia bisogno di te?» scandì le parole con nauseante lentezza, serrando le labbra duramente. Emma indietreggiò, emettendo un sospiro strozzato a causa di quella sua reazione inaspettata. Come poteva passare dall’essere sarcastico e divertito ad essere così aggressivo nel giro di qualche minuto con tanta facilità? 
«Tu non mi conosci, non sai niente di me. Sei solo una ragazzina che vuole giocare a fare la detective. Sai quante ne ho viste come te? Sono tutte finite sotto terra. Ti consiglio di non mettere il naso in affari più grandi di te e tornare alla tua regolare vita da adolescente spensierata» aggiunse con una spietata schiettezza che colpì Emma in pieno. Se era davvero così cieco da pensare che tutta quella faccenda fosse dovuta a semplice curiosità adolescenziale, doveva proprio essere un cretino di prima categoria. Credeva davvero che un giorno, presa da uno slancio di coraggio, si fosse svegliata e avesse pensato di infilare il naso negli affari di pericolosi lupi mannari, che tra l’altro l’avevano quasi uccisa? 
«Stammi bene a sentire,» si alterò lei, «se non ti fosse chiara la situazione, sono stata rapita e intrappolata in uno schifosissimo garage puzzolente, sono stata minacciata e morsa da un pazzo schizofrenico con zanne e artigli, e tu credi che io mi stia divertendo? Sei così egocentrico da pensare che mi interessi sapere di più sulla tua vita e sul tuo passato? Non si tratta solo di te, Derek. Ormai ci sono dentro anche io e che ti piaccia o no, sei l’unico a sapere abbastanza per potermi dare delle risposte concrete» concluse con serietà e decisione, gesticolando animatamente. Lui sembrò riacquistare il controllo perso e con qualche sospiro profondo e rumoroso, prese a camminare avanti e indietro per la stanza. Sembrava pensieroso, con una mano si accarezzava il mento ruvido, come a voler riordinare le idee, mentre i muscoli della schiena si flettevano nervosamente. Le diede le spalle per qualche istante ed Emma non poté fare a meno di notare lo strano tatuaggio a forma di spirale impresso nero su bianco sulla pelle abbronzata e liscia. 
«Cosa vuoi sapere?» chiese semplicemente, con un velo di acidità mal celata, senza nemmeno degnarsi di voltarsi. La sua figura imponente e massiccia nascosta nell’ombra era resa visibile solo grazie ai deboli raggi solari che penetravano dalle crepe nelle pareti consumate. Emma accennò segretamente un sorriso vittorioso, la propria testardaggine era servita a qualcosa. Cercò comunque di non essere troppo avventata, tentando un approccio decisamente più cauto rispetto al precedente.
«Perché Deucalion conosce mio padre?» chiese piano, con un fil di voce. Quella era la domanda che più l’aveva tormentata e della quale aveva più paura. Temeva che la risposta potesse turbarla più di quanto non lo fosse già, facendole perdere tutta la fiducia che da sempre aveva riposto nell’uomo che l’aveva cresciuta.
«Stai scherzando?» le chiese lui, voltandosi di scatto. «Vuoi dirmi che davvero non lo sai?»
Emma riemerse da quello stato di preoccupazione nel quale si era rifugiata, studiando attentamente l’espressione macchiata di incredulità che nacque sul viso spigoloso del giovane. Si ritrovò a scuotere docilmente il capo, schiudendo le labbra rosee. 
«Tuo padre è il più grande nemico di quelli come me» asserì lui, impassibile. Si avvicinò con andatura svelta e decisa al tavolino, poggiandosi con entrambi i palmi sulla superficie scura e rigida. Sembrava stesse cercando di ricordare qualcosa di particolarmente doloroso, a giudicare dall’espressione contratta e sofferente spuntatagli sul volto. 
«La tua è una famiglia di cacciatori e mi stupisce il fatto che non ti abbiano coinvolta nei loro sporchi traffici» sputò lui, tagliente come la lama di un coltello. Emma corrugò la fronte a quell’assurdità: suo padre era un cacciatore di licantropi? Come poteva, suo padre, averle tenuto nascosta una cosa del genere? 
«Che cosa?» esclamò sbalordita, dipingendo nella propria mente la grande quantità di armi possedute da suo padre. Aggrottò le sopracciglia curate e si passò le mani tra i capelli, iniziando a camminare nervosamente. 
«Sono degli assassini» sbottò lui con tono accusatorio. Il risentimento presente nelle sue parole non era solo diretto alla più giovane della famiglia Walker, che fino a quel momento aveva ignorato il vero lavoro svolto dal padre, era bensì rivolto ai suoi antenati, che per anni avevano barbaramente ucciso qualsiasi esemplare di licantropo si fosse imbattuto nel loro cammino. A loro non era mai importato quanto innocenti potessero effettivamente essere le loro vittime, non si erano curati della bontà dei loro animi, avevano preferito caricare le loro pistole e farne fuori quanti più possibile. Derek li aveva sempre visti come dei senza cuore, dei bastardi calcolatori che pensavano solo a loro stessi, procurandosi da vivere massacrando delle intere famiglie. 
«Curioso il fatto che uno della tua razza si permetta di dare a qualcun altro dell’assassino» ribatté acida e risentita lei, nonostante ignorasse gran parte della storia e provasse un profondo senso di delusione nei confronti di suo padre per averle tenuto tutto nascosto, non le sembrava opportuno mancargli di rispetto e non difenderlo di fronte ad un estraneo. Derek ringhiò flebilmente, soffocando l’istinto di chiuderle la bocca una volta per tutte. Cosa poteva saperne lei, dall’alto della sua superbia ed inesperienza di lunghe guerre durate anni e battaglie finite in tragedia? Era solo una ragazzina un po’ troppo spavalda a cui piaceva giocare col fuoco, senza prendere in considerazione il fatto di potersi bruciare. Quel suo atteggiamento sicuro e arrogante gli ricordava un po’ i tempi non troppo lontani della propria adolescenza, anche lui spesso aveva osato troppo con le persone sbagliate, cacciandosi puntualmente nei guai. E nonostante tutta quell’ostilità, nel profondo del proprio cuore gelido, un po’ l’ammirava. Non aveva paura di affrontare la cruda realtà, prendendosi la piena responsabilità delle proprie azioni. Non si era preoccupata di addentrarsi nel bosco e di intrufolarsi da sola nella casa in cui per tanto tempo avevano vissuto dei licantropi, la stessa casa dove lui continuava a nascondersi, quasi come se volesse sfuggire dalla realtà dei fatti. E forse questo suo voler continuamente ostentare sicurezza, era una semplice maschera per celare la sua vera identità: si considerava un debole per non essere riuscito a salvare le persone alle quali teneva di più, le uniche persone per le quali avrebbe dato la vita. Per anni si era ridotto a biasimarsi per le azioni che avrebbe potuto compiere e per quello che avrebbe potuto evitare, avrebbe preferito rimanere ucciso lui in quell’incendio, avrebbe preferito che le sue sorelle avessero continuato a vivere al proprio posto. 
«Io non uccido innocenti» urlò, cogliendo di sorpresa Emma, che sobbalzò spaventata, trattenendo il fiato. Forse aveva esagerato nel provocarlo in quel modo, forse non era quello il giusto modo per rivolgersi a lui. 
«Devo andare» borbottò grattandosi il capo, indietreggiando piano verso la porta. «Non sarei mai dovuta venire», aggiunse subito dopo, quasi come a volersi scusare implicitamente. Derek restò immobile, il suo corpo non si mosse di un centimetro nel vederla allontanarsi. Si limitò a fissarla con esplicito disinteresse, serrando le labbra come per impedire alle parole di sgorgare liberamente. 



 

Hello there!
Ed ecco anche il quarto, pubblicato con inaspettato anticipo.
Avete assistito a due reazioni totalmente diverse da parte di Emma e Valerie, che volendo o meno, dovranno abituarsi a questa nuova realtà. Emma capisce quasi subito le ragioni dei ragazzi e non riesce a biasimarli del tutto, mentre Val si sente un po’ messa da parte. E come darle torto? Nessuno avrebbe accettato una verità simile con un sorriso sulle labbra, diciamocelo.
Infine abbiamo un piccolo confronto tra Emma e Derek, che sembra non perdere occasione per attaccarla e trattarla con sufficienza. Un piccolo indizio ve l’ho dato, più avanti comprenderete a fondo le ragioni del bell’Alpha.
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, per qualsiasi cosa potete scrivermi un MP, sono sempre disponibile per chiarimenti o curiosità.
Un abbraccio, a presto.
uhstilinski.

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Capitolo 5
*** Hunter. ***


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Hunter.


«Quindi è vero? Tu.. tu sei un cacciatore?» balbettò Emma con incredulità, fronteggiando sfacciatamente suo padre. La mattina seguente al movimentato incontro con Derek, aveva sentito il bisogno di chiarimenti da parte sua, dall’uomo che le aveva insegnato ad essere coraggiosa e a non abbassare mai la testa, ma soprattutto ad essere sincera e a non nascondergli mai la verità. E allora perché lui lo aveva fatto? Perché si era sentito in diritto di manipolare la verità in quel modo, fingendo di svolgere tutt’altra professione?
«Emma, te lo chiedo per l’ultima volta: chi te lo ha detto?» il tono autorevole e impassibile di suo padre la fece andare fuori di testa. Come poteva essere così schifosamente razionale persino in un momento del genere? Lei era fin troppo impulsiva, aveva ereditato quel lato caratteriale da sua madre, Joanne.
E oltre a somigliarsi molto caratterialmente, potevano essere considerate quasi due gocce d’acqua. Emma era la sua esatta fotocopia e se lo sentiva ripetere ormai da anni durante le cene di famiglia che solitamente capitavano una o due volte l’anno. “Sei bella come tua madre e hai la stessa determinazione di tuo padre”, erano queste le parole preferite di sua zia Kate. Era la sorella minore di suo padre e avendo solo pochi anni in più di Emma, le aveva fatto quasi da sorella dal momento in cui sua madre era venuta a mancare. Per un paio d’anni, prima che si trasferissero a Beacon Hills, avevano anche vissuto insieme. 
«Non ha importanza chi me lo abbia detto, lo so e basta. Perché lo fai? Perché uccidi dei licantropi innocenti?» 
«Tesoro, temo che le parole licantropo e innocente non possano essere presenti nella stessa frase. Quei mostri sono degli assassini» replicò lui, puntando i suoi piccoli occhi azzurri in quelli grandi e scuri di Emma. 
«Non sono tutti dei mostri» lo rimproverò, risentita. Non avrebbe lasciato che parlasse in quel modo di Scott. E non avrebbe lasciato che facesse del male a lui o a qualcuno dei propri amici. 
«Adesso li difendi? Emma, devi stare lontana da quegli esser-» 
«L’unico da cui voglio stare lontano adesso sei tu! Mi hai promesso sincerità, io mi fidavo… e tu mi hai tenuto tutto nascosto per anni» esclamò lei, con le mani sudate e tremanti e il cuore che le batteva all’impazzata. Non aveva mai risposto a suo padre in quei toni, era una novità per lei e nonostante fosse consapevole di avere ragione, non si sentiva affatto fiera di sé. Dalla morte di sua madre erano sempre stati molto uniti, ma ultimamente era come se quel legame forte ed indistruttibile iniziasse a presentare delle crepe.
«L’ho fatto per proteggerti, aspettavo i tuoi diciott’anni per iniziare ad insegnarti ad usare le armi, almeno per… difenderti» mormorò Chris, scuotendo il capo confusamente. Quelle parole suonavano false e calcolate persino a lui. Come poteva convincere sua figlia di qualcosa in cui stentava a credere lui per primo? Inutile prendersi in giro, non si trattava solo di semplice difesa: desiderava che sua figlia imparasse l’arte della caccia e si appassionasse alle armi in modo da continuare la tradizione di famiglia.
Emma non attese oltre e dopo aver infilato il giubbotto, scese le scale come un razzo, tenendo stretta tra le mani la borsa colma di fotocopie e quaderni. Il risentimento che provava in quel momento la spinse ad andarsene, uscendo un quarto d’ora in anticipo rispetto al solito orario. Non avrebbe retto altri cinque minuti dentro quella casa. Era certa che se sua madre fosse stata ancora in vita, non avrebbe permesso tutto quello. La ricordava poco, più che altro custodiva gelosamente i ricordi altrui. Piccole storie che i suoi parenti le avevano raccontato in modo che non scordasse, in modo che il pensiero di sua madre l’accompagnasse sempre. Sapeva di quanto fosse buona e generosa, sapeva del suo debole per le persone chiuse e anche un po’ burbere – riferimento puramente casuale a suo padre, l’unico uomo del quale si fosse mai innamorata davvero. Sapeva del suo modo particolare e unico di vedere le cose e della sua passione per la fotografia. Non a caso, le aveva lasciato una Polaroid, conservata chissà dove per quando sarebbe diventata un po’ più grande e consapevole di quanto quel piccolo oggetto avesse significato per lei. Sapeva anche dell’ossessione per i gatti dal pelo fulvo e gli occhi verdi, o della strana abitudine che aveva di riporre i piatti e i bicchieri in ordine di grandezza. Tutte quelle piccole stranezze che l’avevano accompagnata nel corso degli anni, modellandola inconsciamente a sua immagina e somiglianza. Spesso suo padre la rimproverava per il disordine che lasciava in camera prima di uscire o per il fastidioso e singolare vizio di tenere la luce del bagno accesa durante le notti di tempesta, ma non era colpa sua, non del tutto almeno: aveva sentito talmente tante storie curiose e intime riguardo sua madre da finire per esserne influenzata in maniera del tutto involontaria.  
In quel momento di grande sconforto la scuola era l’unico posto in cui sarebbe voluta andare. Aveva bisogno di vedere delle facce nuove e vivaci, restando sola non avrebbe fatto altro se non peggiorare di gran lunga la situazione. Aveva bisogno delle parole confortanti di Scott, che con i suoi abbracci era in grado di tranquillizzarla. 
Dei lunghi e insensati monologhi di Stiles, che coi suoi occhi sapeva sempre come fare ad addolcirla. Dei soliti silenzi di Isaac, che forse tanto immotivati poi non erano e delle battute sarcastiche di Valerie, che riusciva sempre a trovare una parola di conforto che la facesse sentire a casa. Voleva solo non pensare per qualche ora, liberare la mente da tutti quei pensieri che la tormentavano. Non voleva pensare a suo padre con in mano un fucile che vagava nel bel mezzo del bosco alla ricerca di licantropi e, allo stesso tempo, non voleva ricordare con quale arroganza e aggressività Derek l’aveva accolta in casa propria. Desiderava solo poter passare un paio d’ore in pace, vivendo una vita normale, quella vita che fino a qualche giorno prima era convinta le appartenesse. 
Superò freneticamente il portico, lasciando che il vento le scompigliasse i capelli folti e lisci, che quella mattina parevano più indomabili che mai. Con uno sguardo freddo al cielo grigiastro di quel cupo e rigido giovedì, emise un sospiro provato, creando una soffice nuvoletta di condensa davanti al proprio volto. Poggiò la schiena contro lo sportello della propria auto, gettando il capo all’indietro con evidente frustrazione: odiava litigare con suo padre, la faceva sentire in colpa. E ciò che la preoccupava di più era quella sensazione di essersi ritrovata nel bel mezzo di due mondi ai quali, volendo o meno, apparteneva in egual modo. Non avrebbe mai potuto scegliere tra amici e famiglia. 
Quando si sentì tranquilla abbastanza per poter guidare, salì in auto e con un gesto rapido e deciso mise in moto, partendo a tutta velocità in direzione della Beacon Hills High School. Immersa nei propri pensieri, non si accorse di aver superato un paio di volte il limite di velocità, impiegando appena tredici minuti per giungere a destinazione. L’ampio parcheggio ancora semivuoto sembrava quasi un miraggio, i pochi studenti presenti se ne stavano ancora chiusi all’interno delle loro auto, beandosi del calore dei riscaldamenti accesi e lasciandosi cullare dalle note delle canzoni passate in radio. Dopo aver parcheggiato tra due auto nere sportive, lo sguardo le cadde sull’orario luminoso che lampeggiava sul cruscotto, segnando le sette e trentacinque. Strinse con entrambe le mani il volante in pelle, cercando di mantenere la calma e di non farsi cogliere impreparata da un attacco di panico. Ricordava di averne sofferto parecchio per un periodo, quando si svegliava nel cuore della notte, urlando talmente forte da svegliare puntualmente suo padre. Lo psicologo le aveva consigliato una terapia fatta di passeggiate in mezzo alla natura e picnic all’aria aperta, in compagnia di qualche amico fidato o semplicemente di un buon libro da leggere all’ombra di qualche quercia. Col tempo aveva anche imparato un trucchetto per diminuirne durata ed intensità: contare l’aiutava a distrarsi. Dopo i sedici anni, quegli attacchi sembrarono essere passati definitivamente, permettendole così di ritrovare la serenità persa. 
A distrarla da quei pensieri lontani, fu il rumore sordo provocato dal pugno di Scott che sbatté più volte contro il proprio finestrino. Emma si voltò quasi spaventata, ma quando i propri occhi incrociarono quelli scuri e vivaci dell’amico, un sorriso le increspò le labbra. Quest’ultimo indietreggiò, aprendo lo sportello per farla scendere e prima che potesse dire qualcosa, si ritrovò ad abbracciarla calorosamente. 
«Wow,» mormorò sorpresa, «e questo a cosa lo devo?»
«Prendilo come un modo per scusarmi» le rispose, allontanandosi subito dopo. «Come mai il tuo battito è così accelerato?»
Emma si ritrovò a sollevare gli occhi al cielo, sbuffando sonoramente prima di abbozzare un piccolo sorriso. «Cos’è, una cosa da lupi mannari questa?»
«Che intendi?» le chiese Scott confuso, aggrottando le sopracciglia folte e scure. 
«Avete tutti questo vizio di controllare il battito altrui» spiegò lei, richiudendo lo sportello prima di attivare l’antifurto e incamminarsi in direzione dell’entrata, realizzando troppo tardi di aver straparlato. Lui, che sembrava ancora più confuso e spaesato, le corse dietro, sfiorandole il braccio per attirare nuovamente la sua attenzione. «Tutti chi?»
Emma si ritrovò a mordersi la lingua, deglutendo a vuoto. Non aveva intenzione di raccontargli dell’incontro con Derek, o meglio, della vera e propria intrusione in casa di quest’ultimo. «Era un modo di dire» si giustificò, stringendosi nelle spalle. Scott assottigliò lo sguardo attento e riflessivo, consapevole del fatto che gli stesse nascondendo qualcosa. «Sicura?»
«Sì,» taglio corto lei, «Com’è andata ieri con Valerie?» continuò interessata, giocherellando con qualche ciocca di capelli.
«La conosci,» sospirò lui, «inizialmente era molto fredda, poi ha iniziato un po’ a sciogliersi. Ci sono volute ben due cioccolate calde e una razione e mezzo di biscotti al burro per strapparle un mezzo sorriso» ridacchiò poi, accomodandosi sull’ultimo gradino della scalinata in marmo. Emma rise di gusto, divertita da quel piccolo particolare. Si strinse nel cappotto verde militare, infilando entrambe le mani nelle tasche, abbassando le palpebre sugli occhi color caramello marcati da un lieve strato di eye-liner e mascara. 
«Ci passerà sopra», lo rassicurò prontamente, «sempre se non l’abbia già fatto» aggiunse con un sorriso allegro a dipingerle il volto. 
«Prima, quando eri in macchina, ho percepito dell’ansia. È successo qualcosa con tuo padre?» chiese Scott tornando serio, scrutandola attentamente. Per un attimo Emma pensò che potesse persino leggerle la mente.
«Hai fatto centro» ammise poi, abbassando nuovamente lo sguardo sulle proprie Converse bianche un po’ consumate sulla punta. «Stamattina l’ho affrontato e mi ha raccontato tutto… Aspetta un secondo, tu sapevi che fosse un cacciatore?»
«Non da molto tempo, due giorni al massimo. Ho riconosciuto la collana che portavi al collo, sapevo di averla vista da qualche parte. Sono andato da Derek e gliene ho parlato… Da quel momento tutto si è fatto più chiaro. Mi ha raccontato della tua famiglia e di tuo padre, all’inizio non potevo crederci». 
Dalle parole di Scott trapelava un sottile dispiacere, i suoi occhi l’avevano evitata per tutto il tempo, incastrandosi tra i particolari degli alberi che circondavano la scuola.
«Dovresti odiarmi» sussurrò Emma accigliata, prendendo posto al suo fianco. «La mia famiglia fa la guerra a quelli come te da anni ormai».
«Tu non c’entri niente, non sei come loro» rispose convinto lui, voltandosi per poterla guardare negli occhi e trasmetterle in quel modo tutta  la sua sincerità. 
«Non prenderei mai parte ad una cosa del genere, mi chiedo con quale coraggio si possa essere tanto crudeli da sterminare intere famiglie» ribatté lei a bassa voce, con un velo di tristezza mal celata. 
«È complicato, Em,» sospirò lui, «per quel che so, tuo padre segue un codice specifico: uccide chi prova ad ucciderlo. Ma purtroppo non è stato sempre così, sono morti tanti innocenti, da ambedue le parti».
Emma si ritrovò ad appoggiare il capo contro la spalla di Scott, che accolse quel gesto prontamente, lasciandole un piccolo bacio tra i capelli che profumavano di vaniglia. Il cortile della scuola iniziava a riempirsi a vista d’occhio, l’orario delle lezioni era ormai sempre più vicino. A qualche minuto di distanza l’uno dall’altro, li raggiunsero anche Stiles, Isaac ed infine Valerie. 


«Le nuove matricole sono così fastidiose» borbottò Valerie, rivolgendo un’occhiata infastidita e scontrosa in direzione dei ragazzini del primo anno. Molti di loro, se non tutti, avevano la cattiva abitudine di mangiare con la bocca aperta e parlare con tono decisamente troppo alto, arrivando a disturbare chiunque si trovasse all’interno della mensa. 
«Pensa che due anni fa eri così anche tu» la punzecchiò Stiles, trangugiando l’ultima coscia di pollo presente nel suo piatto. La mora lo fulminò con lo sguardo, sollevando un sopracciglio. «Scherzavo, tu non eri così rumorosa, però a volte non la smettevi mai di parlare delle tue cose e… Okay, la smetto» borbottò alla fine, abbassando il capo sul piatto. Valerie era ancora un po’ arrabbiata e coglieva qualsiasi occasione per farlo notare ai tre ragazzi. 
Emma si ritrovò a ridacchiare di nascosto prima di abbracciare affettuosamente Stiles – aveva tagliato i capelli e a dirla tutta ci stava proprio bene –, stringendoselo contro con un braccio a cingergli la vita. «Povero Stiles» esclamò con le labbra arricciate, quasi a voler formare un piccolo cerchio. Lui si ritrovò a strizzare gli occhi come un bambino quando le mani della ragazza gli pizzicarono giocosamente una guancia rosea. Al tavolo si aggiunse anche Scott, che fino a quel momento era stato trattenuto in classe dalla professoressa di letteratura. Con andatura lenta e sicura di sé, raggiunse gli altri e con un sorriso gioioso si fece spazio nella conversazione.
«Quella professoressa mi farà impazzire» si lamentò quest’ultimo, sospirando sonoramente prima di prendere posto tra Isaac e Valerie, ritrovandosi di fronte Stiles ed Emma, ancora stretti l’un l’altro. Sembravano quasi due bambini dell’asilo, complici e con gli occhi vivaci che sprizzavano allegria e spensieratezza.
«Che succede?» gli chiese l’altro licantropo, poggiandosi con entrambi gli avambracci sul tavolo. I capelli mossi gli ricadevano sulla fronte disordinatamente, donandogli un’aria un po’ ribelle. La luce del sole che filtrava oltre le nubi lo colpiva dritto in faccia, illuminandogli le iridi che ricordavano il mare in tempesta. L’attenzione di tutti era concentrata sul moro, che aprì la bottiglietta per bere un sorso d’acqua. Si strinse nelle spalle con noncuranza, piegando gli angoli della bocca verso il basso. 
«Niente di che, devo recuperare un test entro lunedì» li informò annoiato, domandandosi come avrebbe fatto ad imparare cinque capitoli di letteratura in così poco tempo. Purtroppo, i suoi poteri da lupo, in quel caso non avrebbero potuto aiutarlo. «Sono spacciato».
«Sei spacciato» gli fece eco Stiles, annuendo prontamente.
«Ti presto i miei appunti» si offrì Valerie, abbozzando un sorriso cortese decisamente meno tirato degli altri. Sembrava iniziar a fare dei passi in avanti. 
Emma sentì come un mormorio farsi spazio nella propria mente, tutto d’un tratto iniziò a sentirsi strana, sudata e incredibilmente agitata. Le voci iniziarono a sovrapporsi, più cercava di capirci qualcosa e più la sensazione di pesantezza sembrava avvolgerla. Sembrava come se qualcuno stesse lottando per la propria vita, non comprendeva cosa stesse accadendo, ma percepiva in quei suoni discordanti una chiara richiesta d’aiuto. Era come un attacco di panico, relativamente simile, ma d’intensità nettamente maggiore. La vista si appannò e gradualmente smise di sentire i suoi amici chiacchierare animatamente attorno a sé. Aprì la bocca ma da essa non uscì alcun suono: sembrava quasi che qualcun altro al proprio posto la stesse controllando, o forse guidando? Tentò disperatamente di aggrapparsi a qualche certezza, a qualche pensiero che potesse farla rimanere cosciente. Provò persino a contare, uno, due… Niente sembrava funzionare contro quella forza esterna che si stava impossessando del proprio corpo e della propria mente. Riuscì solo stringersi la testa tra le mani e tra un respiro affannato ed un altro, un urlo prese vita, rimbombando con violenza all’interno della mensa. Tutti gli studenti presenti si voltarono spaventati in direzione del gruppo, bisbigliando tra loro per capire cosa stesse succedendo: i loro sguardi allibiti parlavano da sé. 
Emma perse conoscenza nel giro di pochi secondi, scivolando dalla panca prima di accasciarsi al suolo con un tonfo secco. Un rivolo di sangue le uscì dal naso, sporcandole di un rosso vivo le labbra schiuse.
«Oh mio dio» gridò in preda al panico Valerie, balzando in piedi all’istante. Scott la imitò, seguito goffamente da Isaac e Stiles. 
«Che le è preso?» domandò allarmato quest’ultimo, con gli occhi puntati sulla bruna. 
«Non lo so, portiamola via da qui» si affrettò a mormorare Scott, prendendo tra le braccia Emma per sollevarla e dirigersi in infermeria. Era successo tutto così in fretta da non dargli nemmeno il tempo per accorgersi che stesse per svenire. Le domande che attanagliavano le menti dei quattro giovani erano fin troppe. 
«Quell’urlo.. Ha urlato in quel modo la sera in cui ho capito che eravate in pericolo, è stato solo grazie a quel grido disperato se sono riuscito a trovarvi subito» disse il licantropo dai capelli corvini, rivolgendosi a Valerie, che teneva lo sguardo fisso in direzione dell’amica. Sentiva il cuore battere talmente forte da sembrare che volesse uscirle dalla cavità toracica. 
«Sta… Sta riprendendo conoscenza» esclamò indicandola, continuando a camminare lungo il corridoio.
«Emma?» la richiamò con tono tranquillo e pacato Isaac, che tra tutti era il migliore a mantenere la calma nelle situazioni più improbabili. Le sventolò una mano davanti al viso, che riprese colorito velocemente. Le sfuggì un ansito strozzato e spalancò gli occhi, terrorizzata. Per qualche frazione di secondo non ricordò cosa fosse successo, ma le bastò poco per riacquistare la lucidità.
«Derek» disse solo, cercando lo sguardo serio e apprensivo di Scott. «Dobbiamo andare da Derek». Era affannata, si sentiva come se avesse percorso cinque chilometri a correre senza nemmeno una sosta per riprendere fiato. 
Valerie recuperò un fazzoletto dalla borsa e glielo porse, aiutandola a pulirsi dal sangue. Nessuno tra i presenti sembrò capire perché volesse andare da Derek in quel momento. «Derek?» ribatté sbigottito Stiles, sollevando un sopracciglio. 
«Mettimi giù, sto bene. Dobbiamo trovare Derek» insistette la bruna, tornando con i piedi a toccare il pavimento. Ebbe un lieve capogiro che la destabilizzò per pochi secondi che parvero durare quasi un’eternità. Sembrava fin troppo scossa, era chiaro che ci fosse qualcosa che non andasse. Qualcosa che gli altri non avrebbero potuto capire. 
«Si può sapere perché hai gridato in quel modo?» continuò imperterrito Stiles, percorrendo la breve distanza tra loro. Lei lo guardò ancora intontita, scuotendo il capo leggermente. Come avrebbe potuto spiegargli una cosa che a stento riusciva a capire lei?
«Non lo so, sentivo delle voci. Tante voci, così tante da avere solo voglia di urlare» biascicò confusa, fissando un punto astratto di fronte a sé. «Ma vi prego, datemi retta. Andiamo da Derek. Vi prego».
Scott sospirò angosciato, passandosi una mano tra i capelli: non era ancora abituato a tutte quelle stranezze soprannaturali e non, e probabilmente non sarebbe mai riuscito ad abituarcisi. Si scambiò uno sguardo d’intesa con Stiles prima di annuire lentamente alla richiesta della giovane. «Andiamo», dichiarò fermamente, «Isaac, Valerie, voi aspettate qui. Vi chiamo dopo». 

«Vuoi spiegarmi perché stiamo andando a casa – se così vogliamo chiamarla – di Derek?» domandò per l’ennesima volta Stiles, affacciandosi col capo dai due sedili anteriori della Range Rover di Emma. Scott aveva insistito per poter guidare, volendo evitare un altro incidente simile a quello accaduto poco prima. 
«Stiles» sbuffò scocciata lei, alzando gli occhi al cielo. Ancora non era riuscita a fermare quel fastidioso tremolio alla gamba che l’assaliva nei momenti di tensione. Non era nemmeno certa della motivazione per la quale li stesse portando lì, aveva solo avuto la sensazione che Derek si trovasse in pericolo. In grave pericolo. Era come se avesse stabilito una connessione col giovane Alpha per pochi istanti e il fatto di non sentire più nulla la spaventava a morte. E non sapeva nemmeno se tutto quello fosse normale, non le era chiaro il motivo del suo svenimento improvviso e di quella confusione creatasi nella propria testa, ma in quel momento non poteva far altro se non accertarsi che nessuno si fosse fatto del male. Era fermamente convinta del fatto che non sarebbe nemmeno stata in grado di spiegare a nessuno come si fosse sentita e cosa avesse provato durante quegli attimi infernali, voleva solo lasciare da parte per un attimo l’accaduto e concentrarsi su altro. In quel caso, quel famoso altro era proprio Derek Hale. Coincidenze? Forse. Destino? Probabile. 
«Io spero davvero che tu ti sia sbagliata e che tutto questo sia solo un errore. Spero davvero che Derek non si trovi nei guai e che, soprattutto, gli Alpha non abbiano deciso di fargli visita» disse Scott, più teso che mai. Stringeva il volante nelle sue grosse mani, faticando a mantenere il controllo. Il respiro corto e frammentario sembrava venirgli a mancare ogniqualvolta parlasse. La sua guida spericolata e spedita rappresentava perfettamente il mix di emozioni che lo stavano assalendo.
«E ci risiamo» commentò sarcastico Stiles. «Ecco qui che rischiamo di nuovo di essere sbranati vivi da un branco di lupi schizofrenici ed egocentrici per salvare quell’arrogante burbero di Derek». 
Emma sollevò le sopracciglia in una smorfia stupita: quindi avevano già aiutato Derek prima? Lo stesso Derek che conosceva lei? Quel Derek presuntuoso che si nascondeva dietro quell’insopportabile aria da duro aveva lasciato che qualcuno lo aiutasse in qualcosa? 
«Quindi avete già avuto a che fare con gli Alpha?» domandò stupita, voltandosi prima verso Scott e poi verso Stiles. Quest’ultimo annui, alzando le spalle. 
«Loro hanno combattuto» ammise, sincero. «Io ho fatto da palo, quello è più o meno il mio ruolo fisso». Emma si fece scappare una risata nervosa, scuotendo il capo: quel ragazzo era incorreggibile. 
«Ragazzi», li richiamò il licantropo con urgenza, «ci siamo. Voi restate in auto, io vado a controllare». Parcheggiò velocemente, ma prima che potesse abbandonare il veicolo, la mano fredda e tremolante della bruna gli afferrò il braccio.
«Io vengo con te» replicò, guardandolo intensamente negli occhi. Non avrebbe lasciato che entrasse da solo, lei gli avrebbe guardato le spalle. Dopotutto, era stata lei ad avvertire il pericolo.
«Emma, è pericoloso» le fece notare lui, rimarcando quell’ovvietà inutilmente: lei aveva già deciso.
«Non importa, vengo con te. Non avrò gli artigli e le zanne, ma ho questo» esclamò, tirando fuori da uno scompartimento laterale un coltellino da campeggio. Scott sorrise teneramente, col cuore che gli si riempiva d’orgoglio: nonostante fosse alta la metà di qualsiasi adolescente di sesso maschile e possedesse molta meno forza, il suo coraggio e la sua determinazione la rendevano grande. 
«E va bene, ma stai attenta» si raccomandò, aprendo lo sportello. Stiles si sistemò comodamente contro il sedile, alzando le mani al cielo. 
«Fate con calma, io resterò qui. Da solo, solo soletto fuori la casa del lupo cattivo, nel bel mezzo del bosco come cappuccetto rosso, circondato dal nu-» 
«Stiles» lo richiamò Emma, con sguardo serio e autorevole. «Fai attenzione» continuò, ammorbidendosi appena.
E prima che il giovane Stilinski potesse replicare con una delle sue battute sarcastiche, Emma saltò giù dal veicolo, richiudendosi la portiera alle spalle. 
«Stammi dietro, okay?» le intimò severamente il bel licantropo, incamminandosi in silenzio e a passo svelto verso l’entrata della grande dimora. Passo dopo passo, raggiunsero la porta, stranamente socchiusa. Derek non era il tipo che lasciava la porta di casa aperta, doveva per forza essere successo qualcosa. Scott afferrò la mano di Emma alle proprie spalle, stringendola come a volerle trasmettere coraggio. 
«Uno» sussurrò piano, afferrando la maniglia. «Due», continuò impugnandola saldamente. «Tre» esclamò infine, spalancando la porta. Un silenzio totalizzante li sorprese, nessun combattimento, nessun intruso e nessun particolare fuori posto, almeno apparentemente.
«Senti qualcosa?» domandò piano lei, riferendosi chiaramente alla sua abilità di percepire gli odori.
«Sono stati qui. Erano in tre» affermò lui, assottigliando la vista.
Varcarono la soglia polverosa e deserta, avanzando in due direzioni differenti. Scott esplorò il lato est della casa, mentre la bruna si diresse in salotto, la stessa stanza in cui si era scontrata col Derek fastidioso e scorbutico che tutti conoscevano. La casa era avvolta in una totalizzante penombra. Quel silenzio surreale e spaventoso le faceva venire i brividi. Sapeva che Derek non fosse un tipo ospitale e che la parola gentilezza fosse sconosciuta al suo vocabolario, ma sentendoli entrare perché non era uscito allo scoperto? D’altronde conosceva Scott, avrebbe dovuto fiutare la sua presenza da chilometri. 
«Derek?» azzardò lei, affacciandosi nel grande salone buio e malmesso. 
Avanzò ancora e la visione presentatale davanti le gelò il sangue nelle vene. Derek giaceva a terra in una notevole pozza di sangue, i vestiti tutti strappati e il volto graffiato. 
«Derek!» urlò in preda al panico, correndo in direzione del giovane Alpha ferito e dolorante, inginocchiandosi al suo fianco. Lui tentò di dire qualcosa, ma le parole gli rimasero bloccate in gola. Lo sguardo di lei percorse il labbro spaccato e gonfio, spostandosi poi dal sopracciglio tagliato e sanguinante fino agli occhi spenti e privi della solita insolenza che li caratterizzava. 
«Che ti hanno fatto» mormorò terrorizzata, esaminando tutte le ferite visibili. Lui sollevò appena il capo, respirando faticosamente. Era una sofferenza vederlo ridotto in quello stato, per quanto non si fossero simpatici, Emma detestava il suono del suo fiato spezzato ad ogni respiro. Non era affatto piacevole imbattersi in quella espressione sofferente dipinta sul suo viso.
«Scott!» urlò in preda al panico, abbassando lo sguardo sulle profonde ferite che gli erano state inflitte sull’addome. Non si era mai trovata in una situazione del genere, cosa avrebbe dovuto fare? Pressare la stoffa lacerata della sua maglia contro le ferite le sembrò la cosa più opportuna. Con un po’ di fortuna avrebbe bloccato la fuoriuscita del sangue spaventosamente scuro e denso. Il giovane licantropo corse da loro, spalancando gli occhi alla vista di tutto quel sangue.
«Derek, perché non guarisci?» domandò inquieto, avvicinandosi frettolosamente. «Aiutami a sollevarlo» mormorò alla giovane, che gli rivolse uno sguardo allarmato. 
«Tienilo premuto sulle ferite» gli consigliò con voce tremante e incerta.
«Andrà tutto bene» le sussurrò, facendole cenno col capo di uscire fuori dopo aver seguito le sue istruzioni. «Resisti Derek, ti portiamo da Deaton».
Scott trascinò con sé Derek, che continuava a perdere sangue e come se non bastasse, era diventato pallido come un lenzuolo, mentre i suoi occhi erano contornati da una strana sfumatura violacea. Di sicuro quello non era un buon segno.
Stiles, che intanto si era spostato nel sedile del passeggero, sembrava rapito da una canzone in radio. Quando si accorse della presenza dei due amici in compagnia di Derek,  che sembrava più morto che vivo, sobbalzò quasi sul posto. Emma corse ad aprire gli sportelli posteriori, aiutando quanto più potesse Scott a far sdraiare Derek, salendo dopo di lui e lasciando che poggiasse la testa sulle proprie gambe. Il suo sguardo si accese per fulminare debolmente la giovane di fronte a sé: per un attimo la bruna riconobbe il solito scostante e irriconoscente Derek. «Non azzardarti a morire nella mia auto» gli sussurrò guardandolo negli occhi, prima che potesse perdere conoscenza.
«Si può sapere che cavolo gli è successo? Perché non guarisce, Scott?» Stiles non riusciva a tenere a freno la lingua nemmeno in circostanze allarmanti come quella. Scott salì in auto, mettendo in moto e partendo in direzione dell’ambulatorio veterinario. 
«Non lo so. Chiama Deaton» esclamò, con la voce che gli venne a mancare per un attimo. «Ha smesso di sanguinare?»
Emma controllò con lo sguardo, sollevando appena la maglietta ormai ridotta in brandelli. Le ferite erano tanto profonde da farle provare quasi dolore per lui. 
«Non sanguina più ma le ferite sono davvero brutte» rispose frettolosamente lei, tornando a guardarlo in volto. Persino da svenuto non perdeva quell’espressione dura e sprezzante che lo caratterizzava. Emma non poté non pensare a quanto fosse effettivamente bello. Era quel tipo di bellezza da mal di pancia, quella bellezza da fiato corto e brividi lungo la schiena. Le labbra sembravano dipinte da uno dei migliori artisti esistiti: la bruna si ritrovò persino a chiedersi se fossero davvero morbide come sembravano. E se i suoi baci fossero irruenti e passionali o se tirasse fuori un po’ di dolcezza in intimità, mettendo da parte per un po’ quella corazza che si era costruito negli anni trascorsi in solitudine, circondato dai fantasmi del suo passato. Perché diavolo era passata dal dichiarargli odio a domandarsi che sapore potesse avere un suo bacio? Scosse il capo, come a voler scacciare quei pensieri del tutto surreali, concentrandosi sulla strada. Stiles aveva avvisato Deaton, che fortunatamente si trovava in città. Valerie ed Isaac avevano dato di matto, iniziando a fare mille domande, alle quali nessuno seppe rispondere. Perché Emma era riuscita ad avvertire il pericolo, pur non essendo un licantropo? Cosa possedeva Derek che Deucalion bramava in maniera tanto ossessiva? Come mai Derek non riusciva a guarire? 
«Siamo arrivati» esclamò Scott sollevato, parcheggiando l’auto. Stiles lo aiutò ad alzare Derek e a portarlo dentro, mentre Emma restò fuori a prendere una boccata d’aria. Quando la sua vita era diventata un film horror? Tutto quello era surreale, le bastava ricordare il proprio passato fatto di normalità e tranquillità. Quel passato in cui la cosa più bizzarra che potesse succedere era lasciare la porta socchiusa e ritrovarla aperta a causa del vento. E ora si ritrovava a dover convivere col pensiero di poter essere attaccata da creature soprannaturali in qualsiasi momento del giorno o della notte. 
Presa da un attacco d’ira nei confronti di sé stessa, tirò un pugno contro il cofano della propria auto, accasciandosi con la schiena contro di esso prima di scoppiare in un pianto silenzioso. Nonostante sapesse di non avere colpe, temeva di essere arrivata troppo tardi. Se Derek fosse morto dentro quella clinica probabilmente sarebbe stata tormentata da incubi per il resto della vita. Odiava lo stile di vita dei licantropi: la morte era all’ordine del giorno, a volte andava persino a bussar loro alla porta. Com’era possibile che non desiderassero vivere la loro vita in pace e tranquillità? Com’era possibile cacciarsi continuamente nei guai? Emma pianse, pianse per sé stessa e per i suoi amici. Pianse per suo padre e per quello di Stiles, per la mamma di Scott e per i genitori di Valerie. Pianse per Isaac, rimasto orfano da poco e per Derek, che invece lo era da molto più tempo. Pianse per tutte le persone coinvolte, per coloro che sapevano e coloro che ignoravano la realtà dei fatti. Si sfogò, mordendosi le labbra per trattenere le urla disperate e sconfortate. Coprendosi gli occhi con le mani, sperando di sconfiggere il dolore psicologico prima che la opprimesse totalmente. 
«Emma?» una testa bruna si affacciò dalla porta dell’ambulatorio, alla ricerca della giovane, nascosta dietro l’auto scura. 
«Che c’è?» domandò, tirando su col naso. Stiles si accorse immediatamente che ci fosse qualcosa di strano in quel tono di voce apparentemente freddo e distante. Percorse la breve distanza che li separava, raggiungendola silenziosamente. Le bastò uno sguardo per comprendere le ragioni per le quali Emma stesse piangendo. Si sedette semplicemente al suo fianco, avvicinandosi piano. Lei poggiò il capo contro la sua spalla, asciugandosi le lacrime con la manica del giubbotto. Stiles attese pazientemente come solo lui avrebbe saputo fare, fissandosi le scarpe. Sospirò e restò in ascolto, riuscendo persino a percepire i piccoli fremiti che scuotevano il petto dell’amica ad ogni singhiozzo. Era abituato ad essere il confidente delle ragazze, mentre Scott le conquistava, lui era più il tipo al quale avrebbero chiesto consigli sui vestiti. Un po’ come il classico amico gay del gruppo. Non che gli dispiacesse, anzi. Aveva sviluppato una sensibilità particolare, tipicamente femminile, che la maggior parte dei ragazzi non possedeva. Emma forse era l’unica, dopo Valerie, ad averlo visto per quello che era davvero, senza etichette o filtri. Ed era proprio per questo che le voleva così bene. 
«Starà bene, vedrai. E anche tu» sussurrò pacato lui, giocherellando col bordo della maglietta blu che indossava. «Ci sono passato anch’io».
«Davvero?» chiese Emma, sollevando il capo per poterlo guardare. 
«Sì, non è mai facile quando ti ritrovi un migliore amico licantropo che durante la sua prima notte di luna piena tenta di ucciderti», annuì lui, con un sorriso divertito a rallegrarlo un po’. Lei spalancò gli occhi come una bambina, sorpresa da quella confessione. «Davvero Scott ha cercato di ucciderti?» 
«Già» ribatté prontamente, tentando di riprodurre quelle immagini nella propria mente. «Non era allenato, non sapeva come controllarsi. Poi Derek lo ha convinto a farsi aiutare».
«Derek è così contraddittorio» sbuffò lei, incredula. Senza nemmeno accorgersene, aveva smesso di piangere solo grazie a Stiles. 
«Lo so» rise lui, volgendo lo sguardo in direzione della strada deserta. «E non hai ancora visto niente».
Lei si ritrovò a sorridere divertita, prima che un particolare pensiero si facesse spazio nella propria mente. 
«È sempre stato così scorbutico?»
«Con me? Sempre. Con Scott? Un po’ meno» esclamò lui, abbozzando una smorfia buffa. «Pare sia diventato così dopo la sua perdita. Vive in quella casa da solo, in mezzo al bosco ormai da anni. Davvero ti chiedi ancora come abbia fatto a prendere le sembianze dell’uomo delle caverne?»
Quell’ultima frase fece ridacchiare Emma, che gli tirò una gomitata. «Scemo, chissà quanto avrà sofferto. Ma quanti anni ha?» domandò dopo qualche secondo di riflessione. Era chiaro ormai che non fossero coetanei, ma non avrebbe saputo stabilire con precisione quanto fosse più grande di loro.
«Ventuno» rispose il giovane dopo un breve calcolo mentale. Aveva perso la sua famiglia più o meno alla loro età. E ne aveva passate talmente tante da essere quasi giustificato a comportarsi così. 
«Ventuno?» ribatté Emma con entrambe le sopracciglia alzate ed un’espressione esterrefatta stampata sul viso. Era evidente che fosse giovane, ma non gli avrebbe dato meno di venticinque anni. Probabilmente era dovuto ai suoi atteggiamenti da uomo vissuto e alla presunzione con la quale le si era rivolto, ostinandosi a darle ripetutamente della ragazzina.
«Sembra mio padre, lo so» commentò Stiles dall’alto della sua ironia sprezzante, accennando un sorriso beffardo.
«Stiles!» gracchiò lei, trattenendo una risata.
«Che c’è?» esclamò lui con espressione un po’ confusa. 
«Smettila» lo rimproverò, tirandogli un’altra gomitata nel fianco. 
«Ahia! Ma è vero» si giustificò lui, sulla difensiva. 
Un rumore metallico alle loro spalle li distrasse dai loro discorsi un po’ più leggeri, mentre uno Scott parecchio affannato varcava la soglia dell’ambulatorio per raggiungerli, con i capelli scuri e disordinati a svolazzargli davanti agli occhi. «Emma!» esclamò con un sospiro profondo. «Vuole parlare con te».
«Derek? È sveglio?» domandò lei con un velo di agitazione nel tono di voce, alzandosi in piedi rapidamente, scrollandosi la polvere di dosso con entrambi i palmi delle mani. Scott annuì semplicemente, seguendola con lo sguardo. Emma si fece coraggio e preso un bel respiro, entrò all’interno della clinica. Era tutto così silenzioso da farle venire i brividi lungo la schiena. Superò la scrivania ordinata e colma di documenti del dottore, bussando contro la porta bianca del laboratorio rimasta socchiusa. Deaton la invitò ad entrare, accogliendola con un sorriso di cortesia. Aveva appena sfilato il camice bianco e lo aveva accantonato su una sedia, dirigendosi verso il lavandino per potersi sciacquare le mani. 
«Come sta?» chiese flebilmente lei, avanzando un po’ intimorita in direzione del tavolo sul quale era sdraiato Derek. 
«Perché non lo chiedi a lui?» suggerì Deaton, voltandosi col capo per farle cenno di avvicinarsi maggiormente. La sua espressione serena le fece intendere che fosse andato tutto per il meglio. 
«Derek» mormorò lei, sempre più vicina, «come ti senti?» gli domandò subito dopo, vagando con lo sguardo lungo le ferite fasciate e medicate meticolosamente. Deaton doveva avere proprio delle mani d’oro, era riuscito a curarlo in meno di un quarto d’ora, servendosi solo degli oggetti posseduti da un semplice veterinario. 
Derek emise un grugnito e si toccò la testa con espressione crucciata, passando i polpastrelli lungo la ferita aperta sul sopracciglio. Sussultò appena a causa del lieve bruciore provocato da quel contatto, inumidendosi poi le labbra asciutte.
«Respiro ancora» constatò pungente, tirandosi su per mettersi a sedere. «Come hai fatto a sapere che fossi in pericolo?»
Deaton si voltò nell’immediato, improvvisamente interessato alla questione. Emma si ritrovò a grattarsi la nuca con fare impacciato e con lo sguardo volto verso la finestra, cercò di trovare le parole adatte per potersi spiegare nel migliore dei modi. E come la spieghi una tale confusione? Come le spieghi una ventina di voci sovrapposte che t’invadono la mente, portandoti quasi ad impazzire? Come lo spieghi un mancamento? E il sangue dal naso?
«Scott mi ha detto che sei svenuta e che hai sentito come delle voci» intervenne Deaton, facilitandole un po’ il lavoro. Sentiva lo sguardo allibito ed incredulo del licantropo bruciarle sulla pelle, era chiaro che faticasse a crederle. E se non l’avesse provato in prima persona, avrebbe sicuramente reagito allo stesso modo. 
«Era come se fossi isolata dal resto del mondo, sentivo solo un intenso vociferare all’interno della mia mente e poi ho percepito come una disperata richiesta d’aiuto» spiegò in parole povere lei, alternando lo sguardo dal dottore a Derek. 
«È strano» affermò Deaton. «Ma sicuramente non impossibile». Si accarezzò con l’indice e il pollice il mento, sfiorando con la punta delle dita la barba rada e scura. Stava cercando di ricordare qualcosa, forse era sulla buona strada per poterle dare una spiegazione a tutto quello che le stava succedendo. O forse tentava solamente di esaminare un po’ meglio i dettagli da lei forniti. A detta di Scott, era a conoscenza del loro segreto da parecchio tempo, probabilmente aveva avuto anche l’occasione di conoscere la famiglia Hale. 
«Quindi le voci nella tua testa ti hanno portato a casa mia?» domandò Derek ancora più scettico, interrompendo l’imbarazzante silenzio creatosi. Quel suo sguardo fastidiosamente diffidente iniziava ad  infastidire la bruna, che si aspettava un minimo di riconoscenza o almeno un ringraziamento per averlo salvato da morte certa. Possibile che avesse la sfera emotiva di un bradipo? Non poteva tenere per sé i commenti mostrare un po’ di gratitudine? Forse Emma si aspettava un po’ troppo da uno come lui, probabilmente non era abituato a quel tipo di cose. Probabilmente non lo era mai stato, o forse la disgrazia capitatagli lo aveva indurito a tal punto da scordarsi cosa significasse avere a che fare con un altro essere umano.
«Più o meno. Non so perché io, non so perché sia successo ma è andata così».
«Perché sei venuta? Mi sono comportato male con te l’ultima volta» disse serio, con un accenno di curiosità celata dietro quell’espressione fastidiosamente impassibile. 
«Pensavi che ti avrei lasciato morire?» domandò allibita, la sua domanda rasentava i limiti del ridicolo. Per chi l’aveva presa? Era chiaro che tra lui e la propria famiglia non scorresse buon sangue da anni, ma sbagliava di grosso nel pensare che condividesse gli ideali di suo padre.
«Avresti potuto» puntualizzò, indurendo la mascella. «Il fatto è che non capisco questo tuo gesto, sei una Walker. Non aspettarti la mia gratitudine» aggiunse sprezzante. La nota di rancore celata nel suo tono gelido e fermo la ferì nel profondo.
«Derek» sussurrò Deaton, intromettendosi cautamente. «Stai esagerando».
«Non immischiarti» lo avvertì l’Alpha. Quella sua aggressività era frutto dell’odio che provava nei confronti della famiglia Walker, Emma compresa. Ma lei non aveva colpa, se non quella di portare quel determinato cognome. Ai suoi occhi, probabilmente, sarebbe sempre stata la figlia di uno dei cacciatori più pericolosi di sempre.
«Non fa niente, ha ragione. Avrei potuto, viste le mie origini. Ma non l’ho fatto. Non sono come mio padre, non sono una di loro» esclamò Emma un po’ infastidita da quelle allusioni. Era giovane, questo sì, ma non stupida. Sapeva come rendersi giustizia da sola, non avrebbe lasciato che lui sputasse tutto quel veleno inutilmente. 
«Lo diventerai, ce l’hai nel sangue» le disse lui, arrogante come non lo era mai stato. O forse sì. 
Emma sospirò, massaggiandosi le tempie con estrema lentezza.
«Senti, io sono stufa di questo tuo comportamento da idiota. Non sono mio padre, non ero nemmeno al corrente dei loro traffici fino a ieri! Non mi importa quello che pensi di me, ma non ti permetto di insinuare nulla. Non ti piaccio? È un tuo problema, ma dovresti essere maturo abbastanza da riconoscere che saresti morto dissanguato se fossi rimasto in quella casa per altri cinque minuti» urlò adirata, in preda ad una crisi di nervi. 
«Ah, potrai anche non ringraziarmi, non importa. Non ho bisogno della tua gratitudine per vivere in pace con me stessa. Sei tu quello che fatica a contenere la rabbia e ad avere una semplice conversazione con un’altra persona».
Derek sembrava furioso, non credeva alle sue orecchie. Era impensabile che una ragazzina potesse dirgli delle cose simili. Come si permetteva? Non conosceva la sua storia, forse sapeva ciò che gli altri raccontavano per sentito dire, ma questo non le dava il diritto di parlargli così. Prima che potesse ribattere, però, quest’ultima aveva salutato il dottore e aveva alzato i tacchi, sparendo oltre la porta dell’ambulatorio.



 


Hello there!
Ed ecco anche il quinto, finalmente. Abbiamo affrontato la reazione di Emma e la piccola discussione con suo padre, che, non preoccupatevi, si risolverà.
La nostra brunetta avrà forse qualche potere soprannaturale? Chissà, coff coff.
Un’ultima cosa prima di andare, vorrei chiedervi di non avercela troppo con Derek per come tratta Emma, tutti i nodi molto presto verranno al pettine e anche il nostro bel lupo si calmerà un pochino… ma non troppo, intendiamoci! Pazientate un po’ e presto avete tutti (o quasi) i tasselli del puzzle al loro posto.
Ps: #SCEMMAVIBES, Giada, dico a te: so che mi adorerai per questo.
Un grazie va a chi ha recensito, a chi ha segnalato la storia come preferita, ricordata o seguita e anche a chi legge ma preferisce restare in silenzio.
Davvero, siete speciali, grazie di cuore.
uhstilinski.

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Capitolo 6
*** Wuthering Heights. ***


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Wuthering Heights.


Un’altra cupa e tempestosa nottata era passata e Beacon Hills sembrava risplendere sotto i raggi di un insolito e caldo sole spuntato a metà mattinata. Quel sabato la scuola era chiusa per disinfestazione, pareva avessero trovato dei topi nel bagno dei ragazzi al primo piano. Non che fosse qualcosa per cui preoccuparsi troppo, quando un branco di pericolosi lupi mannari si aggirava segretamente nei boschi, rapendo due giovani adolescenti e aggredendo uno degli Alpha più tenebrosi di tutti i tempi. 
Emma aveva approfittato delle prime luci dell’alba per recarsi in una delle librerie locali ed acquistare Cime Tempestose, pietra miliare della letteratura inglese. Ne aveva letto un pezzo su internet qualche tempo prima ed era rimasta incantata dai dettagli dei tormentati paesaggi della brughiera dello Yorkshire. Il tema principale era l’amore, quello vero, dal quale la giovane era sempre stata affascinata. Invidiava le protagoniste dei romanzi che era solita leggere e allo stesso tempo amava immedesimarsi in loro, cercando di comprendere la complessità dei loro caratteri il più possibile per poter concludere con un’analisi dettagliata sulle numerose personalità, spingendosi anche a confrontarle, per estrapolare il meglio da ognuna. 
Dopo aver terminato gli acquisti, era rincasata, consapevole del fatto che suo padre fosse già uscito di casa, diretto chissà dove. Non si erano rivolti parola dal giorno precedente, o meglio, Emma aveva evitato di incrociarlo nel rientrare a casa, chiudendosi in camera per tutta la serata. Non avrebbe saputo definire ciò che provava a parole, lo sentiva bruciare nel petto e le bastava. Quel mix di emozioni era letale: rabbia, rancore, tristezza, confusione. L’unica cosa della quale era fermamente sicura era che non fosse ancora pronta per parlarne con lui. Non era pronta a scusarsi per i modi, non era pronta ad ascoltare tutta la storia celata dietro agli scontri continui tra cacciatori e licantropi, tra Walker e Hale. Le costava ammetterlo ma la ferita inflitta dalle parole velenose di Derek era talmente fresca da bruciare ancora. Non era una persona che solitamente si curava dell’opinione altrui, ma probabilmente in quel caso era diverso. Non si trattava di un semplice giudizio frettoloso, lui le aveva dato dell’assassina, aveva insinuato chissà cosa sul suo conto e lo aveva fatto in un momento particolare. C’era davvero bisogno di trattarla con tale sufficienza e arroganza dopo quello che era successo? Quella domanda le ronzava in testa da ore, tormentandola come un martello pneumatico: senza sosta. 
Per tentare di allontanare qualsiasi pensiero che coinvolgesse Derek e il suo spropositato ego, Emma cercò un posticino caldo tra i cuscini del letto, ed incastrata tra questi ultimi ed il davanzale della finestra chiusa, sfogliò la prima pagina del libro appena acquistato.

“1801. — Sono appena ritornato da una visita al mio padrone di casa, il solo vicino col quale avrò a che fare. Questa è indubbiamente una bella contrada. Credo che in tutta l'Inghilterra non avrei potuto scegliermi un altro posto più lontano dal frastuono della società. È il paradiso del perfetto misantropo; e il signor Heathcliff ed io siamo fatti apposta per una simile desolazione. Un uomo veramente singolare! Non immaginava certo quale viva simpatia sentissi per lui quando vidi i suoi occhi neri ritrarsi così sospettosamente sotto le ciglia al mio avanzare a cavallo, e le sue mani rifugiarsi ancor più addentro nel panciotto, con gelosa risolutezza, all'annuncio del mio nome.
«Il signor Heathcliff» dissi.”

La bruna non fece in tempo ad immergersi nella lettura, che qualcuno decise di porvi prematuramente fine. Il campanello suonò un paio di volte, echeggiando tra le pareti chiare dell’entrata, giungendo ad Emma limpidamente. Con uno sbuffo, si alzò dal letto e trascinò i piedi fino al piano di sotto, impugnando la maniglia prima di aprire la porta e ritrovarsi di fronte una Valerie più che sorridente. 
«Ehilà» esclamò lei, stringendo tra le mani una busta di cartone che emanava un dolce profumo di latte e ciambelle. «Ho pensato di passare per portarti la colazione… e un po’ di compagnia, dato l’umore nero».
«Ehi» mormorò l’altra, spostandosi di lato per permetterle di entrare. «Grazie, ma sto benissimo, davvero».
Valerie sollevò un sopracciglio, consapevole che non fosse affatto così. Si fece strada in cucina, con la quale aveva familiarizzato parecchio nelle ultime due settimane, svuotando il contenuto della busta sul tavolo. 
«Certo, e io ho visto Derek Hale sorridere in sella ad un unicorno alato. Ma dai, non prendermi in giro» ribatté sarcastica, porgendole una ciambella glassata di cioccolato bianco e praline alla nocciola. «Cioccolato bianco e nocciole, la tua preferita».
Emma storse il naso nel sentir nominare Derek, afferrò poi la ciambella, sorridendo all’affermazione della mora. «Grazie» sussurrò teneramente, dando un morso a quella delizia. 
«A proposito di Hale, vuoi dirmi che ti ha fatto ieri per buttarti tanto giù?» borbottò lei con la bocca piena, risultando buffa agli occhi della bruna, che trattenne una piccola risata. «Quando sono arrivata eri appena andata via e lui era anche più scontroso del solito».
«Sei sporca di cioccolato» la informò quest’ultima, indicandole con l’indice l’angolo destro delle labbra. «E comunque non mi ha fatto nulla, ha solo parlato a sproposito. Come al solito, aggiungerei».
Valerie allungò il bicchiere di cartone contenente del cappuccino in direzione di Emma, osservandola attentamente. «Con del buon cappuccino passa tutto, persino il mal d’amore».
«Hai rag-», per poco non si strozzò con la propria saliva. «Che cosa?!»
Il tono di voce della bella Walker si alzò almeno di due ottave, risultando insolitamente stridula. L’altra scoppiò a ridere, puntandole un dito contro.
«Avresti dovuto vedere la tua faccia, avrei dovuto registrarti e mandare il video a tutta la scuola».
«Grazie tante, ti voglio bene anche io» commentò Emma, sospirando. Bevve un sorso di cappuccino ancora caldo, scuotendo il capo al solo pensiero delle sue parole. 
«Scherzavo, non a tutta la scuola. Solo a Scott e Stiles» precisò Valerie, dando un altro morso alla ciambella. 
«Di male in peggio» borbottò l’altra in risposta, distogliendo lo sguardo. «E comunque non ho il mal d’amore, tu sei matta. È di Derek che parliamo».
«Ti brillano gli occhi se qualcuno lo nomina» ridacchiò la mora, punzecchiandola volutamente. 
«Non dire idiozie» gracchiò nuovamente, poggiando sul grosso tavolo la colazione che le stava andando tutta di traverso. Valerie stava delirando.
«Lui ti piace» confermò con sicurezza quest’ultima, leccandosi le labbra. «Devi solo accorgertene. Io l’ho capito, sai? Un’amica ci fa caso a queste cose».
«Valerie, ti caccio a calci fuori di casa. Non è uno scherzo» esclamò con serietà ed astio Emma, allontanandosi dal tavolo per recuperare un elastico per i capelli dalla mensola affianco alla finestra. «Io e Derek, figuriamoci» sbuffò una risata finta, legando i capelli in maniera disordinata in uno chignon approssimativo.
«Te ne accorgerai presto, mia cara. E guarda che non è niente male, anzi» commentò Valerie con un sorrisetto malizioso a dipingerle il volto allegro. 
«Smettila» ordinò in tono lamentoso la bruna, tappandosi le orecchie. «Piuttosto sbrigati a finire la colazione, ho un lavoretto da sbrigare e mi servirà una mano».

«Questa chi è?» domandò curiosa Valerie, indicando una foto che ritraeva una ragazza ventenne che sorrideva spensierata all’obiettivo. «Un po’ ti somiglia».
Emma, seduta a gambe incrociate sul pavimento della propria stanza, stava riordinando delle foto rimaste chiuse in uno scatolone dopo il trasloco. 
«È mia zia Kate, la foto è di circa cinque anni fa» esclamò con un sorriso nostalgico. «Per un periodo ha vissuto qui e sì, somiglio più a lei che a mio padre».
Valerie le porse la foto in questione, prelevandone un’altra dalla piccola montagna di scatti sviluppati sparsi sul pavimento. 
«È tua mamma?» domandò con espressione sorpresa, avvicinando quel piccolo ricordo immortalato al volto della bruna. «Siete identiche».
«Me lo dicono spesso» sospirò, continuando a sorridere con aria leggermente malinconica. Non era la prima a dirle una cosa simile e sicuramente nemmeno l’ultima. La verità era che le riempiva il cuore di gioia sapere di essere uguale all’unica donna alla quale avrebbe voluto somigliare se fosse potuta rinascere. 
«Ti manca?» le chiese  piano Valerie, porgendole la foto con espressione dispiaciuta. 
«Vorrei poterti dire di sì» mormorò Emma, abbassando lo sguardo su quel pezzo di anima che custodiva gelosamente da anni. «E vorrei poterti dire di no. Il fatto è che non lo so. La sento affianco a me sempre, ma a volte mi capita di perdermi, di non sentirla più per ore, giorni o settimane. Ho pochissimi ricordi, il resto sono tutti racconti di familiari. Vorrei poterla avere qui per un giorno, per vedere come fosse davvero. Vorrei solo poterla ricordare».
«Em» sussurrò l’amica, sentendosi in colpa per aver suscitato quei pensieri tristi. Non voleva affatto deprimerla. «Mi dispiace».
«Non dispiacerti, in un modo o nell’altro l’avrò sempre con me» e un sorriso un po’ spento prese vita sul proprio volto, mentre con lo sguardo esaminava il resto delle foto che avrebbe riposto nuovamente all’interno dello scatolone: a nessun ospite, una volta entrato in casa, sarebbe interessato vedere il sedere di una bambina di un anno nella vasca da bagno o una delle solite facce buffe che aveva imparato a fare all’asilo durante il primo anno.
Un trillo proveniente dal cellulare di Valerie distolse entrambe da quei pensieri particolarmente personali: Scott voleva che raggiungessero lui, Stiles e gli altri a casa Hale, a quanto pareva Deaton sembrava avere delle informazioni da condividere col gruppo. 
«Em, prima che tu dia di matto: Scott e gli altri sono con Deaton, ha delle novità» spiegò pacatamente la mora, riponendo il cellulare nella tasca dei jeans. Emma la osservò un po’ confusa, perché avrebbe dovuto dare di matto?
«Va bene, dove sono?» domandò, richiudendo lo scatolone prima di infilarlo sotto al proprio letto. 
«A casa di Derek» borbottò l’altra, improvvisando un colpo di tosse per mascherare le proprie parole. 
«Eh?» sbottò Emma, spalancando gli occhi. «Io non vengo, te lo scordi». 
«Emma, ti prego, ragiona».
«Emma ti prego un bel corno, nossignora, non se ne parla» esclamò convinta, scuotendo il capo. Non avrebbe permesso a Derek di mortificarla ancora con i suoi modi irruenti e sgarbati. Piuttosto avrebbe preferito essere rapita nuovamente da Deucalion e compagnia bella. 
«Scott non avrebbe richiesto la tua presenza se non fosse stato strettamente necessario, ieri era abbastanza adirato nei confronti di Derek per come ti ha trattata» le confidò Valerie, alzandosi da terra prima di scrollarsi la polvere di dosso. 
«E va bene» borbottò rassegnata l’altra, sospirando profondamente prima di recuperare la giacca scura dall’armadio semiaperto. «Lo faccio solo per voi».
La mora sorrise vittoriosa, seguendola con rapidità fino al piano di sotto. Il silenzio rilassante presente in casa Walker era qualcosa di stranamente insolito: quando Chris era presente c’era molto più movimento. Lui non era affatto un uomo silenzioso e tranquillo, gli piaceva darsi da fare in casa, aggiustando oggetti dimenticati da tempo o semplicemente rispolverando vecchi oggetti comprati anni e anni addietro. 
Sono in giro con Val” si affrettò a scrivere Emma su un foglietto di carta che lasciò sul tavolo del salotto ben arredato. Non si preoccupò di prendere le chiavi dell’auto, sarebbero andate con quella di Valerie e poi si sarebbe fatta riaccompagnare una volta terminata quella specie di riunione. 

Superato l’ultimo tratto del sentiero sterrato tra le fitte boscaglie, arrivarono con un po’ di ritardo: si erano perse a causa della testardaggine di Valerie, la quale aveva insistito per prendere una scorciatoia, che nonostante le lamentele di Emma, aveva deciso di seguire. La sua ostinazione quella volta era servita a ben poco.
«La prossima volta guido io» esclamò quest’ultima, sbuffando nel saltare giù dalla Toyota blu della mora. 
«Uffa, ero convinta che fosse la strada giusta» cantilenò per l’ennesima volta l’altra, incrociando le braccia nel percorrere frettolosamente la breve distanza che le divideva dal portico di casa Hale. Emma prese un respiro profondo, ignorando le parole dell’amica per concentrarsi nel restare calma ed indifferente. Facile a dirsi, pensò. Poteva sentire l’ansia crescere a dismisura ad ogni gradino che saliva. Passo dopo passo, era come se stesse camminando sui carboni ardenti. 
«Hey» la richiamò Valerie, stringendole per pochi istanti la mano, «andrà tutto bene».
Emma deglutì a vuoto, con addosso la consapevolezza che, per quanto ci provasse, non sarebbe stata in grado di fingere indifferenza. Seguì i passi decisi e distesi della mora all’interno della casa bruciacchiata e semivuota. «Ragazzi?»
Entrarono in quello che aveva tutta l’aria di essere stato un salotto coi fiocchi, trovandosi davanti tutto il branco al completo. Una presenza sconosciuta agli occhi di Emma le fece domandare se quella fosse effettivamente una riunione a porte chiuse o meno. Un uomo sulla quarantina se ne stava poggiato contro il tavolo, con le braccia conserte e l’aria disinvolta e disinteressata. Le iridi chiare e glaciali le ricordavano parecchio il giovane Alpha che aveva sollevato lo sguardo per incrociare i loro occhi solo per pochi istanti. Aveva uno sguardo consapevole e tranquillo, evidentemente aveva fiutato il loro odore da prima che arrivassero. Nonostante Emma non fosse un lupo mannaro, riuscì a percepire un familiare clima di tensione. 
«Eccovi» esclamò sollevato Scott, andando incontro alle due per invitarle implicitamente ad unirsi alla conversazione iniziata da qualche minuto. 
«Meglio tardi che mai» borbottò Derek con un velo di fastidio fin troppo evidente. Emma stava per rispondergli a tono, quando la mano calda e confortante del giovane licantropo dai capelli scuri le si poggiò dietro la schiena, facendola desistere. Ringraziò mentalmente Scott per quel gesto, incrociando le braccia al petto senza proferire parola: voleva sapere le novità e fuggire via il prima possibile. 
«Quello chi è?» bisbigliò Valerie all’orecchio di Stiles, tirandogli la manica della felpa per attirare la sua attenzione su di sé. Quest’ultimo si voltò e con discrezione le mormorò qualcosa all’orecchio sotto lo sguardo attento e curioso di Emma.
«È Peter Hale, lo zio di Derek» la precedette Scott, prima che potesse porgergli la stessa domanda. La bruna spalancò gli occhi, volgendo le iridi caramello in direzione dell’uomo, che le sorrise sornione. 
«Quello che ti ha morso?» bisbigliò lei, distogliendo lo sguardo un po’ intimorita. Scott annuì semplicemente, consapevole che Peter stesse origliando spudoratamente quella breve conversazione. 
«Allora» iniziò Deaton, sfregando le mani tra loro. «Vorrei iniziare col dirvi che ho delle novità per quanto riguarda Emma» e nel pronunciare il suo nome, le lanciò uno sguardo. 
«Ho fatto numerose ricerche ieri notte e sono venuto a conoscenza di un determinato tipo di creature soprannaturali delle quali avevo dimenticato l’esistenza: le banshee. Le banshee sono creature leggendarie dei miti irlandesi e scozzesi, ma non per questo è detto che non possano esistere. Sono convinto che Emma possa essere una di loro» spiegò pacato, guardando i presenti, uno per uno, negli occhi. 
«Una banshee?» domandò proprio quest’ultima, sempre più confusa: non era ancora abituata a tutte quelle novità, credeva che i lupi mannari fossero le uniche creature soprannaturali presenti in tutta Beacon Hills. 
«Ti spiego, credo che dandoti il morso, chiunque sia stato, abbia risvegliato la banshee che è sempre stata in te. Le banshee non si trasformano, non hanno zanne e artigli, ma anch’esse possiedono delle capacità particolari. Esse, infatti, tramite le urla, predicono la morte» concluse con semplicità, quasi come se avesse appena sottolineato un’ovvietà. Gli occhi dei presenti si posarono su Emma, che fissava sconvolta il dottore. Quindi quel mostro che l’aveva morsa, aveva risvegliato una parte soprannaturale che risiedeva in lei dai tempi della nascita? Nonostante i pezzi da lui forniti non fossero estremamente difficili da mettere insieme, la bruna fece un po’ di fatica.
«In effetti hai urlato quando Deucalion vi ha rapite» commentò pensieroso Scott, assottigliando gli occhi come a voler riprodurre quel determinato ricordo nella propria mente.
«E hai urlato quando Derek è quasi morto» aggiunse prontamente Stiles, volgendo lo sguardo in direzione del bell’Alpha, che fino ad allora non aveva osato proferire parola. D’altronde, quella non era una novità. Derek era così e i suoi pensieri gli restavano incastrati tra le costole e il cuore, logorandolo con lentezza estenuante. Ciò che era suo, come sentimenti e ricordi, voleva che restasse dentro di sé, nascosto agli occhi di chiunque altro. 
«Quindi.. Sono una specie di Angelo della Morte?» azzardò Emma, cercando approvazione negli occhi saggi e buoni di Deaton. 
«Una specie, sì. Ma non hai uno spirito malvagio, tutt’altro. Col tuo aiuto potremmo salvare tante anime innocenti» ammise, abbassando lo sguardo su alcune fotocopie che stringeva tra le mani. 
«È un grande potere il tuo, ragazzina» s’intromise Peter, avanzando di qualche passo per poter guardare meglio la diretta interessata negli occhi. Ed ecco di nuovo quel fastidioso nomignolo, a quanto pare era un vizio degli Hale quello. «Ma devi imparare a controllarlo, o ti porterà dritta alla follia».
Un brivido le percorse la schiena nell’udire quelle parole, cosa intendeva precisamente? Conosceva per caso qualche banshee, i quali poteri l’avevano portata alla pazzia? O con le sue parole voleva solo spaventarla un po’? 
«Bene, passando ad altro» esordì Derek, poggiando una mano sul petto ampio di suo zio per farlo indietreggiare e ritornare nell’ombra. «La seconda notizia è che organizzeremo delle ronde notturne per setacciare il bosco. Dobbiamo trovare quei maledetti bastardi e non ho intenzione di aspettare un solo giorno in più».
«Cosa vuoi fargli?» domandò Isaac, infilandosi entrambe le mani nelle tasche dei jeans larghi e un po’ consumati. Non aveva aperto bocca fino a quel momento, pareva anche più silenzioso del solito. 
«Ucciderli» suggerì Peter, con un ghigno malvagio. Quell’uomo aveva tutta l’aria di essere un po’ fuori di testa. E la cosa non la rincuorava affatto. 
«No» lo contraddisse Derek con tono severo e rigido. «Gli faremo capire chi è che comanda a Beacon Hills».
«E che nessuno di noi si unirà al loro branco» aggiunse Scott deciso, volgendo lo sguardo in direzione dell’Alpha. 
«E noi cosa dovremmo fare?» chiese annoiato Stiles, sollevando un sopracciglio. 
«Tu proprio niente» ribatté Derek. «Sei utile come il sale nel budino» precisò acido, rivolgendogli un sorriso di sfida.
«Oh, grazie tante, Mr. Muscolo» commentò Stiles, sbuffando. Valerie trattenne una risata, mentre Scott si voltò a guardare Emma. «Tu però saresti utile».
«Scott, non metterò una ragazzina nel bosco da sola, aspettando che urli» chiarì immediatamente l’Alpha con fare diffidente. 
«Non starà nel bosco, dovrà solo chiamare in caso di pericolo, o semplicemente urlare» spiegò sbrigativo l’altro, ignorando la nota di fastidio presente nelle parole di Derek. Era abituato al suo atteggiamento scontroso. Era aggressivo, diretto, a volte insensibile. Ma come avrebbero fatto senza di lui? Non c’era branco senza Derek. Quando si era trattato di proteggerli e metterli al sicuro c’era sempre stato. Non si era mai tirato indietro e per questo Scott gliene sarebbe stato grato per tutta la vita. 
«Se questo è quanto, io ritornerei al mio studio. Sono parecchio occupato con alcuni clienti» disse Deaton, piegando accuratamente le fotocopie che aveva portato con sé. Emma si avvicinò prima che quest’ultimo potesse allontanarsi.
«È la ricerca sulle banshee?» 
Deaton annuì, porgendole i fogli prima che quest’ultima potesse aggiungere altro. «Per qualsiasi cosa, sai dove trovarmi» mormorò, sorridendole cordialmente prima di incamminarsi verso l’uscita.  
«Ragazzina». Il cuore di Emma perse un battito quando la voce di Derek le giunse in maniera tanto chiara alle orecchie. Tuttavia, restò ferma immobile, incerta se voltarsi o meno. «Emma», insistette, marcando quell’urgenza che aveva di parlarle. 
Quella era la prima che volta che il proprio nome venisse pronunciato dalle sue labbra e con stupore, la giovane dovette ammettere che suonasse davvero bene. 
«Che c’è?» domandò atona, sospirando prima di voltarsi e ritrovarselo pericolosamente vicino. In un altro angolo della stanza, Valerie, Scott, Stiles ed Isaac discutevano pacatamente sugli argomenti trattati.
«Volevo dirti una cosa» annunciò lui, serio in viso. Emma iniziò a chiedersi se fosse capace di cambiare espressione ogni tanto o se si fosse imposto quella per il resto dei suoi giorni. 
«Dimmi» lo incitò lei, incrociando le braccia al petto come a volersi proteggere. 
Lui sospirò e si passò una mano sul viso, distogliendo lo sguardo alla ricerca delle parole giuste, che non fossero equivoche, che non lo tradissero. Voleva scusarsi per i modi, non per ciò che aveva pensato. «Sono stato un po’ aggressivo, lo ammetto».
«Un po’?» fece lei, sbigottita. Era stato un incredibile ingrato, a dirla tutta. 
«Okay, un po’ troppo. Ma non sono pentito delle cose che ho detto, sia chiaro. Avrei dovuto andarci più piano con te» mormorò con tono roco e incredibilmente calmo. 
«Non sai proprio come si faccia a chiedere scusa, vero Derek?» domandò lei, sollevando gli occhi al cielo con uno sbuffo. 
«Non succede spesso, a dirla tutta mai» ammise impassibile, incrociando a sua volta le braccia al petto. La studiava con le sue iridi verdastre e per un momento Emma giurò di non percepire alcuna stizza nei propri confronti. 
«E cosa ti ha fatto cambiare idea, esattamente?» lo provocò, con un cipiglio a farsi spazio sul viso abbronzato. 
«Chi, vorrai dire» la corresse frettoloso. «È stato Scott».
«Quindi tu ti stai scusando perché Scott ti ha detto di farlo?» lo rimbeccò, risentita. Aveva appena fatto un passo avanti e altri due indietro. Scosse il capo e fece per allontanarsi, ma Derek, con un gesto rapido, le afferrò il polso.
«Lasciami» sibilò lei tra i denti, «mi stai facendo male».
«Non so essere molto delicato, ti avverto. Ti lascio se mi fai finire di parlare» disse lui, indurendo la mascella prominente, sulla quale era presente un lieve accenno di barba. Emma socchiuse gli occhi per un istante, ripetendosi mentalmente di stare calma. Si liberò con uno strattone dalla sua presa salda, fronteggiandolo come richiesto.
«Scott mi ha suggerito di farlo» precisò con attenzione, mentre i suoi occhi, guizzavano veloci sulla figura del giovane licantropo. «Io ho deciso di ascoltarlo».
Per quanto odiasse ammetterlo, ad Emma fece piacere quell’appunto. Quella era la chiara dimostrazione che anche Derek, infondo, riuscisse a mettere da parte quella sua corazza, anche se solo per poco. 
«Okay» annuì in risposta, abbassando per pochi secondi lo sguardo.
«Okay» sollevò le spalle lui, infilando le mani nelle tasche. Quel silenzio improvviso li fece irrigidire più del previsto. «Stai lontana dal bosco» le suggerì col suo solito tono autorevole. L’unica risposta che ricevette fu un cenno del capo e un’occhiata vagamente grata per quel suo consiglio. E a Derek bastò.
«La ferita come va?» domandò distratto, impacciato per la prima volta dopo anni. Non era abituato a mostrare interesse nei confronti del prossimo, sentiva come se, in quel modo, venisse meno la sua virilità. Emma avrebbe tanto voluto dirgli che essere uomo significava anche quello. Non era affatto segno di debolezza, bensì di una grandezza d’animo più unica che rara. Mostrarsi interessati, preoccuparsi per qualcosa o qualcuno era assolutamente normale, faceva parte della natura umana. 
«Meglio» ammise sincera, rilassando i muscoli fin troppo tesi del viso. 
«Posso vedere?» chiese lui, ammorbidendo appena lo sguardo. Emma tremò al solo pensiero che quell’attimo di quiete potesse terminare troppo presto. Si scostò lentamente i capelli dal volto, raccogliendoli sulla spalla sinistra. Abbassò il colletto del giubbotto, col quale era solita coprirsi, rivelando la cicatrice ancora un po’ fresca: erano visibili i segni lasciati dalle zanne del licantropo che l’aveva aggredita, probabilmente le sarebbero rimasti stampati sulla pelle come un tatuaggio. 
«È una brutta cicatrice» affermò Derek, avvicinando lentamente una mano al suo collo. Sfiorò con insolita delicatezza il punto dolente, aggrottando le sopracciglia. Era davvero una brutta cicatrice, non si addiceva per niente alla bellezza quasi di ceramica della giovane bruna che le stava davanti. 
«È più brutto il ricordo» ribatté con un sospiro profondo, rabbrividendo dalla punta dei capelli a quella dei piedi nel sentirsi sfiorare in maniera tanto gentile. In una maniera molto lontana dal solito temperamento irascibile e scontroso che gli apparteneva. Fece per aprire bocca, ma qualcosa la bloccò. Sentì sibilare il proprio nome alle proprie spalle, un sussurro flebile ma intenso.
 Si voltò sotto gli occhi confusi del bell’Alpha. Un altro sussurro, poi un altro ancora, tutti provenienti da diversi angoli della casa. Le voci si sovrapposero, di nuovo, come la prima volta. Emma schiuse le labbra secche, il respiro affannato fece accelerare i propri battiti cardiaci. 
«Emma, Emma!» la voce di Derek si mischiò alle altre, arrivandole come un suono distorto e interrotto. Si tappò le orecchie con entrambi i palmi delle mani, chiudendo gli occhi. Cercò di isolarsi, di chiudere le voci fuori dalla propria testa, ma quegli sforzi risultarono vani al primo tentativo fallito miseramente. 
«Basta, basta!» gridò in preda al panico, spalancando gli occhi alla ricerca della figura imponente di Derek. Si aggrappò con una mano alla sua maglietta scura per evitare di cadere, data l’instabilità delle proprie gambe tremanti e deboli.
«Fateli smettere!» implorò straziata, stringendo con forza il lembo di stoffa tra le dita. Derek l’afferrò con prontezza, stringendola dai fianchi, segretamente scottato da quel contatto tanto ravvicinato con una ragazza dopo anni di solitudine e freddezza. La osservava preoccupato, non comprendeva cosa stesse accadendo precisamente. 
«Emma» esclamò Valerie, accorta in aiuto insieme al resto del gruppo. «È di nuovo quella cosa… da banshee?» 
«Non lo so, temo di sì» commentò nervoso Scott, il pensiero che qualcuno stesse per morire s’insinuò nella propria mente con prepotenza.
«I fogli, prendi i fogli che le sono caduti» ordinò il Beta ad Isaac, che si chinò in fretta per recuperare le fotocopie lasciate alla giovane da Deaton. «Controlla se c’è scritto qualcosa che possa aiutarci a capire dove cercare le potenziali vittime. Controlla se c’è qualcosa che tralasciamo, qualcosa a cui non prestiamo attenzione. Deve esserci». 
Le iridi limpide di Isaac guizzarono lungo i fogli, esaminando frase per frase con una certa urgenza. Gli tremavano le mani e al contempo le sentiva sudare. Quello non era il momento per comportarsi come un bambino. Non doveva farsi prendere dall’ansia.
«Dice che è la banshee solitamente a conoscere il luogo in cui è avvenuta, o avverrà la disgrazia» lo informò lui, continuando a ricercare informazioni in maniera minuziosa. Prima che potesse aggiungere altro, Emma emise un grido di terrore e, esattamente come la prima volta, il suo corpo cedette ad un altro svenimento. Le braccia forti e muscolose di Derek la tennero stretta, evitandole di schiantarsi bruscamente contro il pavimento. 
«Dice qualcosa sugli svenimenti?» chiese Stiles, osservando preoccupato la giovane ragazza prima di sensi. Stava per iniziare a dare di matto, lo sentiva. Nell’ultima settimana era successo tutto così in fretta da mandargli in tilt il cervello.
«No» ribatté Isaac, un po’ deluso dalla mancanza di informazioni di tale importanza. Come avrebbero potuto aiutare Emma a controllare i suoi poteri, se ne sapevano meno di zero? Scott sospirò inquieto, incrociando le mani dietro la schiena prima di prendere a camminare nervosamente all’interno della stanza. Pensava talmente intensamente da arrivare a temere che i propri pensieri potessero sfuggirgli di mente e prendere vita. 
«Dobbiamo controllare in giro» asserì, pensieroso. Il suo sguardo si fece più serio. «Valerie, tu, Stiles ed Isaac andrete in città. Fate un giro, controllate tra i negozi, nei pressi della centrale, nei bar. Non addentratevi in posti pericolosi. Io e Peter setacceremo i boschi».
Derek a quel punto aggrottò le sopracciglia, sapeva già cosa avesse in mente il Beta.  «Io dovrei restare qui con lei?» fece lui, serrando le labbra nel conoscere già la risposta. 
«O potrebbe restare lo zio Peter» scherzò in maniera fin troppo seria Peter, improvvisando una risata un po’ forzata. Derek lo guardò con disprezzo mal celato. 
«Sei disgustoso» commentò schifato, sospirando prima di distogliere lo sguardo dall’uomo.
«Stavo solo scherzando, nipote caro» precisò l’uomo dall’andatura lenta. Era snervante per l’Alpha dover vivere con un soggetto del genere.
«Derek, tu sei l’unico in grado di poterla proteggere da solo. Non possiamo rischiare» riprese il discorso Scott, con gli occhi rivolti in direzione di Emma, ancora priva di sensi. «Se quando si sveglia, riesce a darti delle indicazioni, chiamami subito».
Derek emise un ringhio quasi impercettibile al pensiero di dover rimanere chiuso in casa invece di uscire a dare una mano. Non era una cosa da lui starsene chiuso dentro quattro mura a nascondersi. Era abituato a fronteggiare i pericoli, ma per quanto non gli andasse a genio quella situazione, una remota e minuscola parte di sé gli suggeriva che fosse la cosa più giusta da fare per tutti. Non voleva che morissero altre persone.
I due gruppi si divisero e si avviarono diretti verso la porta d’entrata, portandosi dietro tutta quell’ansia e quel timore come una densa nuvola di fumo. 
«Ah, Derek» si voltò Scott, inchiodando con lo sguardo l’Alpha dall’aspetto duro ed intimidatorio. «Non lasciarla mai da sola. Per nessun motivo».
Derek annuì impercettibilmente, consapevole della responsabilità che si stesse prendendo: sapeva che se fosse successo qualcosa alla ragazzina, Scott e compagnia bella non glielo avrebbero mai perdonato.
«Non lo farò» esclamò impassibile, attendendo che tutti fossero usciti per lasciarsi scappare un sospiro. Lo agitava il pensiero di non poter partecipare alle ricerche quella notte, lo agitava il pensiero di rimanere all’oscuro di tutto, lo spaventava l’idea di poter perdere qualcuno del gruppo. Nonostante la sua durezza d’animo smorzata solo dai ricordi provenienti dal proprio passato, era affezionato in maniera particolare e molto singolare e personale ad ognuno di loro. Erano le uniche persone che continuavano a tornare da lui nonostante avesse un carattere pessimo e i suoi modi fossero, per il novantanove percento dei casi, davvero inopportuni. Dopotutto, non era colpa sua, anzi, lo era nella maniera più assoluta. Per quattro lunghi anni si era incolpato per la morte della propria famiglia, per l’incendio, la scomparsa prematura di Paige… Aveva causato talmente tanta sofferenza da non riuscire a perdonarselo. Ci aveva provato, aveva provato ad andare avanti, a trasferirsi, a cambiare vita. Ma come poteva cambiare vita uno come lui? Non avrebbe mai potuto rinnegare la propria identità, la propria natura, che molti avrebbero definito mostruosa. Tutto, per lui, iniziava a Beacon Hills e finiva a Beacon Hills. Quello era l’unico posto nel quale si sentiva un po’ meno sbagliato. Quel posto che poteva ancora definire casa. 
Tu sei l’unico pezzo che non va, Derek”, quante volte se lo era sentito dire? Troppe per poterle contare sulle dita di una mano. Era lui l’unico pezzo del puzzle che stonava. Si era lasciato convincere dalle parole dei propri nemici, tanto da iniziare a diventare lui il peggior nemico di sé stesso. La solitudine l’aveva reso cieco, spesso non distingueva la realtà dalla fantasia. Era tormentato da incubi ricorrenti, vedeva sempre la stessa scena ripetersi all’infinito. La propria casa che bruciava, le urla dei propri familiari e lui che non riusciva a muoversi. I fantasmi del proprio passato l’avevano condannato ad un esistenza misera e priva d’amore. Quell’amore che gli era stato brutalmente sottratto alla tenera età di quasi diciassette anni. Diciassette anni, l’età della giovane ragazza che teneva tra le braccia. Quella ragazza così piccola e così determinata. Era sempre stato affascinato dalle donne forti, indipendenti ed intraprendenti. Dalle donne, non dalle ragazzine. E allora perché sentiva come una potente e pericolosa attrazione nei confronti di Emma che lo logorava dall’interno? Tentava di soffocarla con l’odio che provava verso la sua famiglia, sputandole addosso cattiverie che avrebbero ferito chiunque, persino un tipo come lui. Era solo che… odiava sentirsi in quel modo, odiava sentirsi vulnerabile di fronte ad un paio di semplicissimi occhi castani. Lo odiava, perché l’ultima volta non era finita come avrebbe sperato. 
Derek aveva portato Emma in camera propria e l’aveva sdraiata sul letto, dal lato che per anni era rimasto vuoto. Senza fraintendimenti, aveva avuto anche lui le classiche avventure di una notte sfociate in un addio a mezza bocca sussurrato alle tre del mattino. Mai nessuna era rimasta, o meglio, era lui a non averlo permesso. Si divertiva, sfogava le proprie frustrazioni e dopodiché, ognuno a casa propria. Non avrebbe lasciato a nessuna di quelle avventure senza valore di infilarsi nella propria vita con tale facilità. Quello era il proprio mondo, fatto di tanti fallimenti, più fallimenti che vittorie e sarebbe rimasto privato fino al giorno in cui sarebbe finito sotto terra. Questo se lo era giurato tempo addietro, quando il secondo grande amore della sua vita – o almeno così lui aveva creduto, gli aveva portato via tutto. E il fatto che quella donna fosse imparentata con la giovane bruna sdraiata proprio in quel momento sul proprio letto, lo spaventava a morte. Sapeva che tutto quello era sbagliato, sapeva che avrebbe dovuto tenerla lontana dal primo istante in cui aveva fiutato il suo odore – fin troppo simile a quello di sua zia Kate – a Beacon Hills, ma non ci era riuscito. Aveva fallito di nuovo, miseramente, calpestando ancora la propria dignità senza neanche pensarci due volte. Come era possibile tutto quello? C’era forse una spiegazione logica o era semplicemente un fatale scherzo del destino? 
«Ma cos-» Emma aprì gli occhi lentamente, borbottando qualche parola scollegata prima di rendersi conto dove si trovasse. Una camera che i propri occhi non ricordavano, una camera scura e malmessa, la camera di Derek. «Derek?».
Derek era rimasto seduto su una poltrona ai piedi del letto nuovo di zecca e osservava fuori la finestra con fare pensieroso e assorto. 
«Derek» insistette lei, richiamandolo nuovamente. «Che è successo?» 
L’Alpha le rivolse un’occhiata rapida, sospirando prima di tornare con lo sguardo fisso fuori dalla finestra priva di tende.
«Hai gridato e sei svenuta. Però prima sentivi delle voci, o almeno credo» spiegò senza mostrar troppo interesse. «Mi hai urlato in faccia di “farli smettere”».
«Scott e gli altri dove sono?» domandò disorientata, tastando la superficie morbida sulla quale era stata adagiata. Si sollevò per mettersi a sedere, poggiando la schiena contro i cuscini alle proprie spalle.
«Stanno setacciando il bosco e la città alla ricerca di una vittima».
Lei si portò una mano alla testa e prima che potesse proferire nuovamente parola, sentì un rivolo di sangue uscirle dal naso. Istintivamente catturò la goccia col palmo della mano, evitando di sporcare il letto e i vestiti. 
«Ti prendo un fazzoletto, vedi di non sanguinare ovunque» borbottò lui con fare un po’ meno rigido, ammorbidendosi appena.
«Disse quello che è quasi morto dissanguato sul mio cappotto» lo canzonò lei con ironia. Derek non rispose, si limitò a scuotere il capo con indignazione. 
Tornò dal bagno adiacente con della carta igienica, si sedette ai piedi del letto e le avvicinò la mano al viso, scrutando attentamente la reazione provocata. Emma trattenne il respiro e il battito accelerò di colpo: che avesse paura? Tentò comunque di avvicinarsi maggiormente, tamponandole piano il naso. Lei afferrò il pezzo di carta e nel farlo, sfiorò la sua mano. I loro sguardi rimasero incatenati l’un l’altro per pochi istanti, che bastarono a far capire alla ragazza che non dovesse essere spaventata da lui, da solo era più innocuo di un agnellino. Almeno fin quando restava umano. 
«Grazie» fece lei, abbozzando una smorfia lontana anni luce da quello che sarebbe dovuto essere un sorriso intimidito. Per la prima volta non si sentiva irritata dalla sua presenza, bensì in soggezione. Un tipo di soggezione particolare, che non implicava sensazioni negative.
«Vuoi dirmi perché mi odi tanto?» mormorò incrociando le gambe sul materasso. Sentiva che quello probabilmente sarebbe stato l’unico momento in cui Derek non avrebbe reagito come un cane al quale è stata appena morsa la coda. «Voglio dire, tralasciando la mia famiglia, ti ho fatto qualcosa di sbagliato? Perché sembrava una cosa fin troppo personale quando mi hai attaccata in quel modo da Deaton».
Lui, che in quel momento le dava quasi le spalle, fissava un punto fisso sul pavimento in legno scuro. Il messaggio era arrivato forte e chiaro. Emma poteva osservare liberamente il profilo del suo naso sottile e ben strutturato. Le labbra schiuse e gli occhi persi chissà tra quali pensieri. Teneva i pugni puntati contro il materasso, ai lati delle gambe. Sentiva il respiro profondo e regolare crescere e poi smorzarsi quasi crudelmente. 
«Se non vuoi parlarne va bene, lo capis-».
«Non è per te» sbottò lui, leggermente affannato. Si notava da lontano un miglio quanta fatica facesse nel dare voce ai propri pensieri. Era come se tentasse di afferrare le parole adatte, le quali continuavano a prendersi gioco di lui, sfuggendogli puntualmente quando cercava di metterle assieme.
«Non è te che odio» continuò cauto, piegandosi in avanti, a sorreggersi con gli avambracci poggiati contro le proprie cosce. I sospiri si fecero sempre più frequenti. L’attenzione di Emma puntata solo sul giovane uomo davanti a sé.
«Tutto l’odio che vedi, il rammarico, la frustrazione, la rabbia…» fece una breve pausa, lottando contro sé stesso per aprirsi un po’ di più. Tuttavia non sarebbe di certo morto nessuno, no? Non avrebbe fatto del male a nessuno, giusto? «Non è odio nei tuoi confronti quello che vedi nei miei occhi».
Emma trattenne il fiato, una malinconica tristezza l’avvolse assieme all’oscurità sempre più fitta. Percepiva della sofferenza nelle parole farfugliate da Derek.
«È me che odio» ammise finalmente, con un grosso macigno a bloccargli il petto. Era sempre più faticoso respirare, pensare e continuare a aprirsi in quel modo ad una ragazzina che a malapena conosceva. Nonostante questo, sentiva il bisogno di farlo, gli serviva come sfogo, come appiglio per non annegare nel mare di sensi di colpa in cui era naufragato. 
«Sai cosa significa guardarsi allo specchio e provare rabbia nei confronti del tuo stesso riflesso? Sai quante volte avrei voluto strapparmi il cuore dal petto per impedirgli di continuare a battere? Sai quante volte mi sono lasciato massacrare, sperando di perdere una volta per tutte i miei poteri per evitare di guarire miracolosamente dopo ogni pugno arrivatomi dritto in faccia? E sai quante volte ho provato a fuggire da questa casa? Non ci sono mai riuscito, sono sempre tornato qui. Il luogo dove tutto è iniziato, l’origine del bene e del male. Non riesco a staccarmi da questo posto». Ormai aveva sciolto i freni, parlando senza neanche pensarci troppo. Per quanto fosse complicato per lui condividere quei pensieri, forse gli avrebbe fatto bene parlarne. Forse era quella la terapia meno assurda che avrebbe dovuto seguire per tornare ad essere almeno un po’ più umano. Per tornare ad amare.
«Se solo non fosse successo tutto quello, a quest’ora avrei ancora una famiglia e un po’ meno di rabbia e sensi di colpa da smaltire». 
Emma quasi non pianse a quelle parole, la tristezza che ne trapelava bastava a spezzarle il cuore. La solitudine nella quale si era barricato Derek l’aveva portato ad indurirsi a tal punto da rifiutare qualsiasi tipo di aiuto. 
«Non dovresti essere qui, tu non sai niente di me» riprese a parlare con estenuante lentezza. «Tutti intorno a me… tutti si fanno del male». 
La giovane allungò un braccio verso di lui, poggiando il palmo della mano sinistra contro la sua spalla. A quel contatto lo sentì sussultare impercettibilmente, era sorpreso. Forse pensava che dopo quelle rivelazioni sarebbe fuggita a gambe levate il più lontano possibile, spaventata dalla realtà nella quale si era ridotto a vivere. 
I polpastrelli di Emma sfiorarono il tessuto leggero della maglia, trasmettendo un calore ormai poco familiare al giovane degli Hale. Voleva che smettesse di sentirsi così solo, voleva che sapesse che lei poteva capirlo. Restò in quella posizione per qualche altro secondo prima di scivolare in avanti e arrivare a poggiare la guancia contro la sua schiena leggermente piegata in avanti. A quel punto lo sentì irrigidirsi, forse aveva esagerato. Al contrario di quanto poté aspettarsi, però, non si allontanò. Restò immobile, assorbì quel poco di energia positiva che la ragazza emanava. Ma non sarebbe bastata, Derek lo sapeva. Non sarebbe bastata a mettere fine a quei lunghi e dolorosi anni fatti di tormenti interiori e solitudine. Non sarebbe bastata a cambiarlo, a renderlo migliore. Forse niente sarebbe stato in grado di migliorarlo, di farlo sentire un po’ meno in colpa. Forse era destinato ad odiarsi fino all’ultimo respiro, come punizione per gli errori commessi. Forse era giusto così.
«Cora» esclamò lui, balzando bruscamente dal letto. Aveva sentito l’odore di sua sorella, l’odore del suo stesso sangue. 
Emma sussultò, sollevando le sopracciglia confusamente. «Che succede?»
«Mia… mia sorella Cora, è ferita. È con Scott, vanno sicuramente da Deaton» spiegò, balbettando quasi di fronte a quella consapevolezza. Emma non era a conoscenza di una ipotetica sorella sopravvissuta, dove si era nascosta fino a quel momento?
«Dobbiamo andare da Deaton».
L’allarme Cora aveva coinvolto un po’ tutti, Scott e Peter erano riusciti a portarla da Deaton, mentre Valerie, Isaac e Stiles erano corsi in loro soccorso un attimo dopo aver ricevuto la notizia. Emma, aveva seguito in silenzio Derek, che una volta messa in moto la sua Camaro nera, non aveva più spiccicato parola. Si era limitato a guidare come un forsennato per le strade di Beacon Hills, imprecando a denti stretti ogniqualvolta incrociassero un semaforo rosso. Il suo respiro incontrollato echeggiava rumoroso all’interno dell’abitacolo e ad ogni sospiro, corrispondeva un battito perso. Raggiunsero l’ambulatorio prima di quanto credessero, parcheggiando alla bell’e meglio davanti alla grande porta d’entrata. 
«Se peggiora possiamo portarla in ospedale, Scott» suggerì Stiles.
«In ospedale? Come faremo a passare inosservati?» esclamò sconcertato il Beta. Il suo olfatto sviluppato fiutò l’odore di Derek: stava arrivando. E con lui c’era anche Emma, e fortunatamente, stava bene.
«Non ci ho pensato» ammise con uno sbuffo l’altro. Si mordicchiava nervosamente le unghie, camminando avanti e indietro per la sala d’attesa. Deaton li aveva gentilmente fatti accomodare fuori data la critica situazione della giovane Hale. 
«E come faremo a nasconderla dai medici? Mia madre non può chiudersi a chiave dentro e sperare di non essere sorpresa a curare un lupo mannaro» precisò Scott con un velo di preoccupazione celato nel tono serio e pacato. Nonostante sua madre, Melissa, sapesse tutto sui lupi mannari e compagnia bella, non avrebbe potuto rischiare in maniera tanto azzardata.
«Non ho pensato neanche a questo» mormorò a quel punto Stiles, gettandosi a peso morto su una delle sedie presenti.
«Confortante sapere che come al solito hai pensato a tutto» lo rimbeccò l’altro, passandosi una mano sul volto. 
«Va bene, voi due, adesso basta. Dobbiamo confidare nella bravura di Deaton, vedrete che la curerà. Non è di certo la prima volta che uno di voi si becca una freccia da parte di qualche cacciatore» s’intromise Valerie, tentando di mettere fine a quel battibecco inutile.
 Isaac si grattò il capo distratto, prendendo posto affianco a Stiles. «Spero solo che lo strozzalupo non abbia sfiorato gli organi interni».
«Me lo auguro» ribatterono Valerie e Stiles all’unisono, scambiandosi un piccolo sorriso confortante e complice.
«Cora!» Quel breve attimo di silenzio calato nella sala venne interrotto dalle grida impazienti e colme di preoccupazione di Derek. Quest’ultimo, infatti, entrò nell’ambulatorio con la violenza di una furia, seguito da Emma, pallida in viso e affannata. Aveva dovuto mettersi a correre per riuscire a tenere il passo del bell’Alpha.
«Dov’è mia sorella» esclamò ancora, facendosi spazio tra i presenti. 
«Derek» lo richiamò alla realtà Scott. «Derek, aspetta».
Il più grande ignorò del tutto quelle parole, spalancando la porta del laboratorio prima di raggiungere la povera Cora, sdraiata sul tavolo in metallo, ancora priva di sensi. 
«Cora» sussurrò lui, abbassando le iridi chiare sul corpo di sua sorella. «Cosa 
le è successo?»
«Cacciatori» ribatté Stiles, facendo capolino nella stanza, seguito a ruota dal resto del Branco. 
«L’abbiamo trovata nel bosco, ferita da una freccia impregnata di aconito» continuò cupo Scott. 
«Aconito?» chiese Emma, guardandosi attorno un po’ frastornata. 
«Strozzalupo, una sostanza velenosa per i licantropi» le spiegò Isaac, poggiandosi contro lo stipite della porta.
«I cacciatori le hanno fatto questo? Perché?» lo sguardo della bruna balzò dal giovane Beta a Derek, chinato in avanti sul corpo debole di Cora. Le stringeva la mano con espressione contratta, stava per esplodere. 
«Quei figli di puttana» urlò con tutto il fiato che aveva in gola, facendo sobbalzare le due ragazze presenti. Scott avanzò per tentare di calmarlo, ma prima che potesse toccargli la spalla, Derek si allontanò bruscamente, tirando un pugno contro il muro. Una piccola crepa spaccò parte del soffitto. 
«Derek, adesso calmati» esclamò rigido e composto Deaton, rivolgendogli uno sguardo indecifrabile. 
«Calmarmi? Mi dici di calmarmi?» esclamò stizzito. «Quei fottuti bastardi. Gliela farò pagare, uno ad uno. Li farò pentire di essere nati!»
Emma venne scossa da un fremito. Che fosse stato suo padre? 
«Tuo padre non c’era, conosco il suo odore, non è lui il colpevole» sussurrò premuroso Scott, avvicinandosi alla giovane in modo che sentisse solo lei. O chiunque possedesse un udito super sviluppato quanto il suo. 
«Grazie a Dio» biascicò lei, sospirando, profondamente sollevata a quel pensiero. Derek non glielo avrebbe mai perdonato.
«La ferita come sta?» domandò pacata Valerie, avanzando un piccolo passo in direzione di Cora e Deaton. 
«Meglio, in un paio di giorni sarà come nuova. Deve riposare» proferì lui, molto meno preoccupato. «Non è adatta la tua vecchia casa, Derek. C’è troppa polvere, deve respirare dell’aria pulita».
Derek, che fino a quel momento aveva rivolto loro le spalle, si voltò con lentezza. I suoi occhi studiarono la situazione con meno aggressività. 
«La porterò al loft, è un po’ che sto programmando di trasferirmici una volta per tutte» lo informò atono, tornando a fissare il nulla fuori la finestra. «Ma fino a che non li avrò trovati, Cora resterà con Peter, nella vecchia casa».
Deaton si trattenne dal sollevare gli occhi al cielo e si abbandonò ad un sospiro impercettibile. Derek era veramente testardo, era impossibile farlo ragionare. 
«Ha bisogno di cure, Derek. Spero solo che tuo zio sia in grado» commentò pensieroso il dottore, sfilandosi entrambi i guanti da lavoro utilizzati.  




Hello there!
Sesto capitolo, yay!
Ecco spiegata la vera natura di Emma e devo dire che voi ci siete arrivate anche prima di Deaton, brave! #girlspower
Il nosto Derek si è ammorbidito, forse a causa di un momento di debolezza, chissà. Cosa avrà voluto dire quando pensava a Kate? Mistero. Sono certa che qualcuna di voi ci arriverà per logica, vedremo.
Ah, e ovviamente non potevo non far tornare Cora. Personalmente, l’adoro.
Come al solito, spero vi sia piaciuto il capitolo. Vi mando un bacio!
Grazie ancora per tutto il supporto, siete uniche.
uhstilinski.

 

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Capitolo 7
*** Hot Mess. ***


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Hot Mess.


Goccia dopo goccia, il temporale si abbatteva irruente e spietato sulla cittadina apparentemente tranquilla di Beacon Hills. Quel martedì mattina un particolare profumo di cornetti caldi e appena sfornati svegliò Emma, che aveva dormito stretta nel piumone fino all’ultimo secondo possibile. Stropicciò gli occhi stanchi, sbadigliando ripetutamente: si sentiva talmente fiacca da desiderare di poter passare l’intera giornata al caldo tra le coperte, tenendosi ben lontana dalla burrascosa tempesta scatenatasi improvvisamente.
«Scendi per la colazione?» domandò ad un tratto Chris dal piano di sotto. Non aveva nemmeno avuto bisogno di alzare troppo il tono della voce. Emma poteva sentirlo trafficare con gli utensili da cucina, indaffarato in chissà quale faccenda di casa. 
«Sì» replicò semplicemente lei, saltando giù dal letto con uno slancio insolito. Si chiuse in bagno per una ventina di minuti, tempo che impiegò per fare una doccia, lavare i denti, sistemare i capelli, vestirsi e truccarsi. Fu pronta in tempo record, tanto da stupire persino se stessa. Si controllò allo specchio un’ultima volta e con uno sbuffo rumoroso, si diresse di sotto. Sarebbe stato inutile continuare a pettinare i capelli nella speranza che una volta uscita, non si arruffassero a causa dell’umidità. Scese gli ultimi gradini con estrema lentezza, il solo pensiero di doversi confrontare con suo padre le faceva venire il mal di pancia. Non gli aveva rivolto parola dall’ultima discussione lasciata a metà e nonostante sapesse di avere ragione, quella situazione non giovava di certo a nessuno dei due. Non aveva senso continuare ad ignorarsi, sarebbe stato da stupidi nascondersi dietro ad un dito. Vivevano sotto lo stesso tetto, prima poi quel momento sarebbe dovuto arrivare. Si fece coraggio e prese un bel respiro, dirigendosi a passo diretto e sicuro in direzione della cucina, nella quale suo padre faceva colazione. Varcò la soglia e lo trovò seduto su uno sgabello a sorseggiare del caffè corretto con un po’ di latte, come suo solito. Il suo sguardo mortificato si spostò altrove quando Emma fece per avvicinarsi. 
«Ho cucinato dei cornetti surgelati» esordì lui, indicando il forno con un cenno del capo. Emma si ritrovò ad abbozzare una piccola risata e nel prendere la teglia ancora calda, si voltò verso di lui. 
«Ma papà, non li hai cucinati.. Al massimo li hai riscaldati» esclamò con un sorriso stampato sulle labbra.
«Già, sì, il tuo vecchio non sarebbe in grado nemmeno di preparare un uovo» replicò lui con una smorfia divertita.
«Non è vero, non dire così!» lo ammonì seria lei, afferrando un cornetto dall’aspetto alquanto discutibile. Sperò solo che fosse tanto profumato quanto buono. «Solo perché io sono più brava, non vuol dire che tu debba abbatterti in questo modo». Si scambiarono un altro sorriso giocoso, prima che Chris tornasse serio in volto e si schiarisse la voce con un colpo di tosse.
«Sai, penso che dovremmo parlare» mormorò, appoggiandosi sul tavolo con entrambi gli avambracci coperti dalla giacca di pelle. Emma annuì lentamente, riponendo la teglia nel forno prima di andare a sedersi proprio di fronte a lui.   
«Mi dispiace molto che tu ti sia sentita messa da parte da me. So bene che ti ho sempre chiesto chiarezza e sincerità, promettendotene altrettanta a mia volta, però questa è una faccenda molto più grande di te, nella quale avrei preferito non averti mai coinvolta. Tuttavia, è successo e non posso cambiare di certo le carte in tavola a questo punto. Tu stai crescendo, quella piccola bambina di sei anni che non andava dormire senza favola della buonanotte sta diventando una donna e per quanto sia dura doverlo accettare, prima o poi andrai via da me» disse l’uomo dagli occhi color ghiaccio e i capelli brizzolati, sospirando profondamente davanti a quella consapevolezza.
«Ma papà, io ci sarò sempre» lo interruppe lei, aggrottando la fronte nel sentirlo parlare in quel modo.
«Fammi parlare, per favore. Dicevo, per quanto non mi vada a genio l’idea di doverti vedere andar via, ho bisogno di sapere che quando lo farai, sarai forte abbastanza da poterti difendere da sola. Forse ho sbagliato a non dirtelo prima, è solo che ho sempre pensato che a diciassette anni si è così giovani ed ingenui, da non essere pronti ad affrontare una realtà del genere. Parliamoci chiaro, quanti altri adolescenti al di fuori di Beacon Hills si ritrovano a dover avere a che fare con dei licantropi e dei cacciatori?»
Il discorso di suo padre non faceva una piega, solo in quel momento Emma realizzò di aver reagito in maniera un po’ troppo impulsiva. Non poteva farci niente, quello era il proprio carattere, la propria natura, ed era certa che potendo tornare indietro, lo avrebbe rifatto altre cento volte.
«Hai ragione, è tutto molto strano per me, sto cercando di ambientarmi nel migliore dei modi in questo posto. È vero, è stato uno shock scoprire tutti i retroscena di questa cittadina apparentemente pacifica, di certo trasferendomi qui non avrei mai immaginato di dovere avere a che fare con tutto questo soprannaturale. Però, nonostante tutto, se vuoi saperlo mi trovo davvero bene con i miei nuovi amici e anche se le cose potrebbero andare meglio, cerco sempre di non scordarmi che potrebbero anche andare molto peggio» replicò tutto d’un fiato la giovane bruna, inumidendosi le labbra secche e asciutte per il tanto parlare. Chris sospirò, riflettendo sulle parole di sua figlia. 
«Devi promettermi che non ti metterai nei guai per nessun motivo al mondo» le ordinò serio, puntando i suoi occhi di ghiaccio in quelli color caramello di Emma. Era incredibile quanto gli ricordassero le iridi allegre e vivaci della donna che l’aveva messa al mondo. A dirla tutta, non c’era un particolare che non gli facesse pensare a Joanne quando la guardava, erano identiche, due gocce d’acqua.
«E tu promettimi che non ucciderai mai più nessun licantropo senza motivazioni valide».             
«Sei buona come tua madre» ammise sincero, con un sorriso ad illuminargli il volto stanco e provato.
«E determinata come mio padre» aggiunse lei furbamente, addentando il cornetto ormai freddo. «Pace?»
«Pace» annuì lui, alzandosi per sciacquare la tazzina. «Quindi sai anche che McCall è uno di loro» suppose dopo qualche istante, sorprendendola.          
«Come sai che conosco Scott?» domandò con un cipiglio. Non era un segreto che lei e Scott fossero amici, ma suo padre non era mai andato a prenderla a scuola, dove diavolo aveva potuto averli visti assieme?          
«Le voci tra quelli come me girano fin troppo velocemente, bambina mia» mormorò lui, con le mani insaponate. «Poi ho visto il modo in cui difendevi la sua razza l’altro giorno, eri troppo agguerrita… Non devo mica preoccuparmi, vero? Non vorrai mica che gli spari una pallottola in fronte, giusto?»
Emma si ritrovò a trattenere il fiato, spalancando gli occhi al solo pensiero di una scena simile. Non poteva fare sul serio.
«Papà! Tra me e Scott non c’è assolutamente niente. E scordati di fargli del male, è una brava persona» esclamò lei, alzandosi in piedi per gettare nel secchio la parte finale del cornetto, che proprio non riusciva a sopportare. Aveva quello strano vizio sin da piccola, probabilmente glielo aveva trasmesso sua madre, che di stranezze se ne intendeva fin troppo bene.
«Sto scherzando, seguo un codice ben preciso e non mi verrebbe mai in mente di uccidere un giovane ragazzino senza motivo. A maggior ragione se mi dici di tenerci tanto» le fece presente lui, asciugandosi le grandi mani con un pezzo di carta. La sua espressione rilassata le fece capire quanto fosse sincero nel dire quelle cose, conosceva suo padre, sapeva riconoscere quando mentiva e quando invece diceva la verità. Dopo tutti quegli anni potevano dire di conoscersi a memoria. 
«Molto bene, soldato. Mi fido» mormorò affettuosamente, rimarcando quel buffo soprannome che gli aveva dato a soli cinque anni e che continuava ad utilizzare in maniera scherzosa. Chris sorrise ampiamente nel sentirsi apostrofare ancora in quel modo, per quanto fosse fiero della figlia che da solo aveva cresciuto, gli mancavano un po’ i vecchi tempi privi di problemi e preoccupazioni tanto grandi.     
«La ringrazio, generale Walker, ma adesso sarà meglio che vada a scuola, altrimenti farà tardi» ridacchiò lui, controllando l’orario con un’occhiata rapida all’orologio a muro di fronte a sé. Emma liberò una risata acuta ed ilare prima di stampare un piccolo bacio sulla guancia ruvida di suo padre e sgattaiolare fuori di casa, munita di ombrello e chiavi dell’auto. 

La Beacon Hills High School non contava così poche presenze almeno da dieci anni, quando un professore aveva dato di matto e si era lanciato da una finestra del secondo piano, finendo brutalmente schiacciato contro l’asfalto. La segretaria lo ricordava ancora, per ben tre giorni si erano presentati a lezione solo i soliti trenta studenti, che di starsene a casa proprio non ne avevano avuto la minima intenzione. Quell’anno, però, era diverso: nessuno sfortunato evento aveva segnato la reputazione dell’antica scuola, semplicemente al notiziario mattutino avevano consigliato di non uscire di casa a causa di una seria allerta meteo. Erano previsti rovesci per tutta la giornata ed Emma si maledisse per non aver seguito il telegiornale quella mattina. Ovunque si girasse, c’erano decine di studenti adirati. C’era chi si lamentava per le scarpe nuove, chi per il libro di biologia che si era bagnato e chi, semplicemente, si godeva una sigaretta seduto al riparo dal temporale, che non aveva fatto altro che causare malcontento. 
La bruna tossicchiò e si ravvivò i capelli ondulati e bagnati sulle punte, nonostante l’ombrello, sembrava essersi inzuppata a dovere lo stesso. E probabilmente, si era beccata anche un brutto mal di gola, a giudicare dal fastidioso bruciore che percepiva all’altezza dell’ugola. Arrivò davanti al proprio armadietto e dopo aver inserito la combinazione, lo aprì e afferrò il libro di algebra. Il solo pensiero di dover passare un’ora ad ascoltare stupidi e incomprensibili ragionamenti matematici le provocò i crampi allo stomaco.
Sbuffò, infastidita dalle punte delle Converse bianche bagnate, domandandosi mentalmente perché avesse scelto delle scarpe del genere quella mattina. A volte faceva fatica persino a capire i propri ragionamenti. Anche se la verità era che ultimamente – da tre giorni, con precisione – aveva la testa da un’altra parte. E la causa di tutti quei pensieri, ahimè, era proprio Derek. Era sparito da ben tre giorni alla ricerca del branco di Alpha e dal momento della sua partenza silenziosa, nessuno aveva più ricevuto sue notizie. Scott diceva che fosse normale per uno come lui, “Non stupirti, è di Derek che stiamo parlando. È fatto così.” sembrava essere diventata la sua risposta preferita quando usciva fuori l’argomento. La cosa che la irritava di più, era il non riuscire a capacitarsi del perché fosse così in pensiero per lui. Continuava a ripetersi che lo avrebbe fatto con chiunque e forse per un po’ ci aveva anche creduto. Ma dopo un’attenta analisi aveva compreso quanto fosse inutile prendersi in giro in quel modo: per lei, Derek non era chiunque. Non sarebbe mai stato in grado di vederlo come uno dei propri migliori amici. Che poi, a pensarci bene, loro due cosa erano? Amici, forse? Ne dubitava altamente. Scott era suo amico, Stiles ed Isaac erano suoi amici. E Derek? Derek che cos’era?
«Emma!» la voce di quel citrullo di Stilinski la fece sobbalzare, finendo con la schiena spiaccicata contro l’armadietto ormai chiuso, i libri stretti al petto e le labbra schiuse per riprendere aria. 
«Stiles, dannazione» esclamò lei, col fiato corto a smorzarle la voce. «Potresti fare più rumore la prossima volta che ti avvicini?»
«Ma se ti stavo chiamando da due ore» borbottò lui, aggrottando le sopracciglia a mo’ di smorfia confusa. «A che stai pensando? Ancora al Lupo Cattivo
«Stiles» gracchiò inviperita lei. «Puoi smetterla con questa storia una volta per tutte? Altrimenti ti ci faccio sgozzare dal Lupo Cattivo».
L’aria minacciosa di Emma non fece altro che far ridere allegramente il ragazzo, che teneva fermo sulle spalle lo zaino e si dondolava sui talloni come un bambino divertito. 
«Non sei brava a nascondere le cose, Ems» la canzonò, apostrofandola con quel nomignolo, che aveva tanto l’aria di essere la versione un po’ più originale e moderna del solito vecchio soprannome col quale tutti erano abituati a chiamarla. 
«Non ti nascondo proprio niente, Stiles» ribatté a tono lei, sollevando il mento con fare orgoglioso. «Non penso assolutamente a nessuno in particolare».
Lui la studiò per pochi istanti di sottecchi, abbozzando un sorrisetto furbo. 
«Non sarò un licantropo, ma riesco a sentire l’odore della menzogna prima ancora che qualcuno ne dica una». 
«Ti va di dirmi questo che odore abbia?» domandò un istante prima di mostrargli il dito medio e superarlo con un sorrisetto, diretta nell’aula di algebra. 
«Oh, avanti» sbuffò lui, «non fare l’antipatica, occhi di gatto».
«Dovresti smetterla di frequentare Valerie, ti attacca tutte le sue manie strane. Per esempio, quella dei nomignoli più assurdi» esclamò lei sincera, nascondendo un velo di divertimento dietro uno sguardo troppo serio, che non le si addiceva affatto. 
«Hai ragione, candido bocciolo» la punzecchiò lui, affiancandola. Emma gli lanciò un’occhiata cupa, sbuffando più volte.
«Stiles» borbottò, continuando a camminare.
«Dimmi, pollo al curry» esclamò lui, con tono estremamente convinto. Emma storse il naso sottile e all’insù, aggrottando le sopracciglia curate. 
«Pollo… al curry?» lo guardò sconcertata, trattenendo una piccola risata per via della sua espressione buffa. 
«Che c’è? Non mi veniva in mente niente» si giustificò lui, entrando subito dopo di lei all’interno dell’aula, prendendo posto alla sua sinistra. 
«Sei incredibile» sogghignò lei, scuotendo il capo. Una volta trovato posto, alla destra di Stiles, aprì il quaderno di algebra, portandosi letteralmente entrambe le mani nei capelli alla vista dei numerosi esercizi che aveva lasciato incompleti, con tanto di punto interrogativo rosso e gigante disegnato affianco. 
«Ci hai capito qualcosa?» domandò la bruna con sguardo perso, avvicinando il quaderno alla faccia di Stiles, che sembrava stesse già per addormentarsi sul banco. Lui sollevò il viso pallido, lanciando un’occhiata rapida agli scarabocchi dell’amica.
«Ovvio» rispose, alzando le spalle. «Ma credo che a te serva una mano».
«Tu dici?» mormorò lei con ironia, sbuffando prima di puntare un gomito sul banco e poggiare il mento contro il pugno chiuso. 
«Posso darti una mano, se vuoi» si offrì con un bisbiglio, in modo da non farsi sentire dal professore appena entrato in aula. Lei annuì, abbozzando un sorriso come ringraziamento per essersi offerto.
«Sai dove possa essere Valerie? Non fa mai ritardo» gli fece notare dopo pochi istanti passati a guardarsi intorno. 
«No, volevo chiederlo a te» ammise Stiles, grattandosi la nuca con fare spaesato. Quei suoi grandi occhi color nocciola gli donavano un’aria da cucciolo smarrito. 
«Mandale un messaggio» suggerì lei, continuando a bisbigliare per non fare troppo chiasso. 
«Io? Perché io? Fallo tu» ribatté, contrariato da quella proposta. 
«Stiles, andiamo» alzò gli occhi al cielo lei, sospirando spazientita.
«Uffa» si lamentò il giovane, affondando il viso tra le braccia conserte.
«Stiles» continuò Emma, con tono più autorevole. Era ridicolo che fosse ancora infastidito a causa di Aiden e dell’uscita a quattro che Valerie avrebbe voluto organizzare per fargli conoscere una ragazza. Infondo era un pensiero carino.
«E va bene, ma mi firmo col tuo nome» le disse lui, serio. Prima ancora che Emma potesse replicare, inviò il messaggio. «Fatto», sorrise malefico.
«Ripeto, sei incredibile» ribadì lei, lanciando un’occhiata preoccupata al temporale fuori la finestra. Temeva con tutta sé stessa di poter rimanere bloccata a scuola quel pomeriggio.
«Mi sa che non ci è cascata» borbottò lui dopo un minuto, fissando lo schermo sbloccato del proprio cellulare. 
«Fa’ vedere» gli disse lei, allungando la mano. Afferrò il telefono e lesse i messaggi con espressione divertita.

A: Valerie (8.28)
“Come mai non sei a scuola? – Ems”.

Da: Valerie (8.29)
“Buongiorno anche a te, Stiles. Allerta meteo, ho preferito non rischiare. Salutami Emma”.

«Sei proprio scemo, non mi sono mai firmata così e in quel modo mi ci chiami solo tu» ridacchiò la bruna, restituendo il cellulare al proprio padrone. 
Stiles le rivolse un’occhiataccia e nascose nuovamente il viso tra le braccia conserte. 
 Il signor Roberts chiamò qualche volontario alla lavagna, iniziando la tanto temuta lezione. Emma fece attenzione a nascondersi dietro le spalle di Kevin, uno della squadra di nuoto alto quasi due metri. Per quel piccolo particolare, si risparmiò parecchia fatica: di solito nascondersi dietro Isaac era un pochino più impegnativo, nonostante nemmeno lui fosse poi tanto basso. 
«Chi sa risolvere questa equazione irrazionale? Prescott?» fece il professore, consegnando il gesso alla seconda volontaria, Amber Prescott, dai lunghi capelli biondi e l’aria un po’ da snob.
«Hey» la richiamò Stiles, probabilmente illuminato da un’idea delle sue. 
«Dimmi» mormorò Emma, lanciandogli un’occhiata di sfuggita. Stava adottando la tattica del sorridi e annuisci anche se non capisci un tubo e col professor Roberts sembrava funzionasse più che bene.
«Ho trovato un altro nomignolo. Che ne dici di Occhio di Bue?» ridacchiò sommessamente lui, sollevando un sopracciglio. Emma affondò il viso tra le mani, scuotendo il capo con la profonda convinzione che nessuno avrebbe potuto battere il livello di idiozia di Stiles. 
«Che ne dici se ti taglio la lingua?» ribatté lei, tentando invano di seguire la lezione. Che volesse ammetterlo o meno, parlare con Stiles, o sentirlo solo sparare stupidaggini, era più allettante di quelle stupide equazioni irrazionali.
Quando la campanella suonò, l’intera classe fu sgomberata nel giro di un minuto.
«Quindi non ti è più… ecco, capitato di sentire quelle voci?» domandò curioso Scott, aggiuntosi alla coppietta per fare il punto della situazione prima che suonasse la seconda ora. Per tre giorni non si era verificata nessuna anomalia, nessuna uccisione, niente di niente. E per quanto questo li allietasse, non potevano negare che fosse strano. Si erano abituati fin troppo a tutti quegli strani avvenimenti da sentirne inconsapevolmente, in un certo senso, quasi la mancanza. Quasi come se fosse troppo normale camminare per i corridoi della scuola senza avere addosso l’ansia di essere seguito o girare per il bosco senza dover temere di essere attaccato da qualcuno o qualcosa.
Era tutto nella norma, persino Derek si stava comportando da… Derek. Era sparito e secondo Isaac e Scott era una cosa normale, una cosa da aspettarsi da lui. Eppure Emma temeva che potesse trovarsi in pericolo e che i propri sensi da banshee fossero, come dire, difettosi. Non aveva fatto alcuna pratica, non sapeva nemmeno se ci fosse un modo per controllarli.
«No, non ho più sentito nessuna voce, niente. Nessuna cosa da banshee negli ultimi tre giorni» spiegò per l’ennesima volta, sotto lo sguardo incredulo di Scott. Sembrava come se volesse per forza estorcerle qualche informazione soprannaturale, nonostante lei gli avesse ripetuto almeno dieci volte che non fosse accaduto proprio un bel niente. 
«Strano» sbuffò infine. «Deve essere la quiete prima della tempesta, o qualcosa del genere. Dobbiamo tenerci pronti per un eventuale attacco da parte degli Alpha, ma senza Derek la vedo dura».
«Ancora non si è fatto vivo?» chiese un po’ turbata Emma, stringendo al petto il libro di letteratura.
«Come se si fosse volatilizzato» spiegò sbrigativo. «Ma non temere, starà sicuramente alla grande. È fatto per la vita da lupo solitario».

Erano passati ben venticinque minuti dal suono dell’ultima campanella, ma Emma non era ancora riuscita a ritornarsene a casa. Aveva fatto un salto in biblioteca alla ricerca di Lettere, famosa opera di Oscar Wilde, che racchiudeva tutte le missive da lui scritte. La fortuna parve assisterla quando scovò, tra un mucchio di libri polverosi, una tra le prime edizioni pubblicate. 
Il temporale pareva non essersi ancora calmato e lei, munita di ombrello, si fece coraggio e si avviò in direzione dell’auto. Con grande piacere aveva notato che per i corridoi o al di fuori, non ci fosse più nessuno, se non il bidello a svolgere il proprio lavoro. 
L’ombrello per poco non si spaccò a causa del forte vento che aumentava sempre di più. A completare il quadretto, numerosi tuoni e lampi presero a squarciare il cielo. Un brivido le percorse la schiena, facendole quasi rizzare i peli sulle braccia. Non aveva mai visto niente di simile, a Portland non aveva mai piovuto con tale violenza. Pareva come se il cielo volesse punirli per qualche peccato commesso, come se la natura si stesse ribellando. 
Quando fu seduta al caldo nella propria auto, cullata da un soffice tepore, fece per mettere in moto, ma una strana sensazione la fece desistere. Sentiva come una pesantezza strana, come se qualcuno la stesse osservando, o forse, cercando. Non si trattava dello stesso livello di pericolo che aveva percepito prima di svenire le volte precedenti, era qualcosa di più sottile e preciso. Il respiro irregolare la costrinse a mollare il volante e spegnere l’auto, per permetterle almeno di tranquillizzarsi. Nonostante i pensieri positivi che cercasse di trovare, il cuore si ostinava a batterle come un razzo. Respirò con lentezza e regolarità per un po’, lasciandosi consolare da pensieri un po’ meno cupi. Molte cose della propria natura non le erano ancora chiare, era consapevole di avere ancora un sacco di cose da imparare prima di potersi definire cosciente e sicura delle proprie abilità soprannaturali. 
Pochi istanti dopo, una grande mano insanguinata si poggiò poco delicatamente contro il proprio finestrino mezzo appannato. I battiti, a quel punto, sembrarono rallentare fino a sparire. Sentì tremare le ginocchia al solo pensiero di un’altra vittima. Com’era possibile che non avesse avvertito nessun tipo di sensazione anomala? Non appena il soggetto in questione si abbassò, cercando implicitamente aiuto, Emma smise di respirare. 
«Oh mio Dio» gridò spaventata nel riconoscere il volto malconcio di Derek. Cosa diavolo gli era successo? E, soprattutto, da dove spuntava?
«Derek» gracchiò in preda all’ansia, scendendo dall’auto senza preoccuparsi di recuperare alcuna protezione. Al diavolo l’ombrello. 
I propri occhi assistettero ad uno spettacolo per niente piacevole: Derek steso a terra, fradicio e ferito ovunque. Per un attimo si chiese perché loro due non potessero incrociarsi in maniera diversa, più normale. C’era sempre qualcuno che si apprestava a salvare l’altro. 
«Derek?!» lo scosse lei, chinandosi sulle ginocchia prima di schiaffeggiarlo piano, in modo da fargli aprire gli occhi. Si limitò ad un tocco delicato, non voleva peggiorare la situazione già critica, nonostante sarebbe servito ben altro per fargli ulteriormente del male. 
«Sono… sveglio. Portami a casa, sto guarendo» biascicò a fatica, sotto lo sguardo scettico della bruna. Ma che gli diceva il cervello?
«A me non pare che tu stia guarendo» commentò ad alta voce, tentando di sovrastare lo scrosciare della pioggia. Continuava a sfiorargli la guancia bagnata con i polpastrelli, come se quel contatto potesse aiutarla a non farsi prendere dal panico, come una specie di calmante. E si ritrovò persino a darsi della ridicola, vedere Derek come una fonte di tranquillità era più che assurdo, eppure quelle sensazioni erano così singolari da farle perdere per un momento il senso del tempo e dello spazio. 
«Sto guarendo, ascoltami. Ci… ci metto più tempo» soffocò un verso dolorante, che lo fece accucciare da un lato. Emma lo guardò apprensiva e preoccupata, sospirò e gli afferrò il volto con entrambe le mani. 
«Sentimi bene, voglio davvero sperare che tu stia guarendo, perché se stai mentendo e ti succede qualcosa mentre sei nella mia auto, giuro che… te la faccio pagare» borbottò infine, abbassando lo sguardo a causa dell’imbarazzo causatole dalle sue iridi chiare e penetranti. Derek abbozzò un’impercettibile smorfia simile ad un sorriso sghembo di sfida, che bastò a ricordarle di che pasta fosse fatto. Non c’era affatto da scherzare con lui, nonostante in quelle condizioni glielo avrebbe lasciato fare, troppo impegnato a cercare di non morire dissanguato. 
«Adesso alzati» sussurrò fin troppo vicina, afferrandolo dalle spalle per aiutarlo a sollevarsi senza fare troppa fatica. Lui ringhiò quasi quando entrambi i piedi furono saldi contro l’asfalto. Le ferite bagnate dalla pioggia bruciavano più del previsto. Emma tentò di sorreggerlo quanto più le fosse possibile, facendolo poggiare contro lo sportello del passeggero.
«Aspetta un attimo, prendo una coperta» gli disse, spingendolo con entrambe le mani con la schiena contro la fiancata della Range Rover. 
«Mi tratti come se fossi una femminuccia» si lamentò, gettando il capo all’indietro a causa di una fitta particolarmente dolorosa. 
Lei alzò gli occhi al cielo e recuperò la grande coperta, avvolgendoci Derek con la premura di una mamma. «Facciamo così, ti copro perché voglio evitare macchie di sangue sui miei sedili di pelle, mh?»
Lui abbozzò una smorfia poco convinta e si sforzò a scivolare all’interno dell’abitacolo, lasciandosi andare a peso morto contro il sedile scuro e morbido. La giovane fece il giro ed entrò a sua volta, maledicendo quella dannatissima pioggia. Legò i lunghi capelli ormai zuppi in uno chignon alto e poco ordinato, sfilandosi anche la giacca diventata appiccicosa, per rimanere con indosso solo una maglia chiara aderente, resa leggermente trasparente dal contatto con l’acqua.
«Dì un po’» azzardò, mettendo in moto, «la fai spesso questa cosa di sparire e tornare a brandelli?» continuò severa.
Lui grugnì quasi, arricciando le labbra in un’espressione per niente divertita. Ma ad Emma non importava, non voleva affatto divertirlo, bensì, fargli comprendere quanto li avesse fatti preoccupare.
«A volte» borbottò lui, col respiro affannato. Stava soffrendo più di quanto volesse dare a vedere. Tuttavia, lo spacco sullo zigomo sembrava stesse guarendo in maniera un po’ più rapida rispetto ai grossi tagli e che si era procurato sul petto. 
«Sei uno… uno… uno sconsiderato, ecco cosa sei» esclamò lei, tentando di non accelerare troppo per le strade scivolose della cittadina praticamente deserta. 
«Me lo hanno detto in molte» sogghignò, rivolgendole uno sguardo debole. In un certo senso, lo preferiva privo di forze e più silenzioso del solito, nonostante fosse un lato di lui al quale ancora doveva abituarsi. 
«Si può sapere che è successo?» sbottò con espressione dura, stringendo tra le dita sottili il volante in pelle nera. Derek fu scosso da un fremito, a dirla tutta non sembrava che il suo corpo avesse intenzione di migliorare. 
«Mi sono scontrato con due di loro» biascicò a fatica. «Erano tre, ne è rimasto uno… quello che mi ha attaccato. Mi ha dato la scossa e mi ha quasi impalato contro la corteccia di un albero. Preferirei risparmiarti i dettagli» spiegò con vaga lentezza. Il cuore della ragazza le balzò in petto al solo pensiero di suo padre al posto di quei due cacciatori e per qualche minuto, perse le parole. Continuava ad immaginarlo sdraiato in mezzo ad una pozza di sangue, freddo e privo di vita. Un respiro tremolante la tradì, rivelando a Derek la natura di quei pensieri.
«Sei spaventata» affermò, ricordandole di quel suo potere di percepire gli stati d’animo. «Pensi che ti farò del male?»
Lei scosse il capo, fermamente convinta. «Non si tratta di me».
«Oh» sussurrò lui tra un respiro affaticato ed un altro. «Temi per la vita di tuo padre» asserì con fermezza, sobbalzando appena a causa di una buca, che Emma, ovviamente, aveva preso in pieno. 
«Scusa» mormorò, lanciandogli uno sguardo angosciato. 
«Conti-» gemette a causa dell’ennesima fitta dolorosa, «continua a guidare».
Emma riprese a guardare di fronte a sé, svoltando per i boschi. Iniziò a pensare di dover avvertire Scott, giusto per fargli sapere che Derek era tornato ed era sano e salvo, o almeno quasi. Le ronzarono in testa un paio di domande: che ci faceva l’Alpha a scuola? Ma, soprattutto, perché era corso da lei? Probabilmente era l’unica rimasta nel parcheggio e lui era stato particolarmente fortunato ad imbattersi in lei. C’erano troppe coincidenze strane in quegli eventi, ma, dopotutto, a Beacon Hills niente era mai troppo scontato e i guai erano sempre pronti a travolgerli una volta svoltato l’angolo. Iniziò a pensare a cosa sarebbe successo se suo padre avesse scoperto la sua vera natura: una banshee. Probabilmente non era neanche a conoscenza dell’esistenza di queste ultime. Ma com’era possibile che non ne avesse mai sentito parlare? Aveva letto che i poteri erano solitamente ereditari, che qualcuno della sua famiglia le avesse passato il gene soprannaturale? Era tutto un mistero contorto ed irrisolto, un mistero che l’aveva colta in contropiede, come un fulmine a ciel sereno. 
La giovane non spiccicò parola fino all’arrivo a casa Hale, era troppo scossa e preoccupata da tutti quegli avvenimenti e temeva davvero per l’incolumità dell’uomo che l’aveva cresciuta e amata senza riserve, oltre che per la propria, che comunque tendeva a mettere in secondo piano quando si parlava di Chris. Non poteva permettersi di perdere anche lui, dopo sua madre. Quella perdita le aveva già sconvolto abbastanza la vita, nonostante avesse vissuto costantemente circondata dall’affetto smisurato di suo padre.
Parcheggiò frettolosamente e dopo aver lanciato un’occhiata a Derek, si affrettò a scendere dall’auto per andarlo a recuperare. Lui accettò di buon grado quell’aiuto solo a causa delle pessime condizioni nelle quali si trovava, in altre circostanze avrebbe lottato con le unghie e con i denti pur di dimostrare di potercela fare da solo. Non era un tipo a cui piaceva essere compatito da qualcuno, era abituato a convivere coi propri demoni interiori e non gli piaceva condividerli con altri. Questione di sopravvivenza: mostrarsi indistruttibile per evitare di essere fatto a pezzi. Era semplice, ci aveva fatto l’abitudine. 
«C’è qualcuno in casa che possa aprirci? Non mi aspetto che tu abbia le chiavi» fece lei, faticando a trascinarselo dietro fino al portico. La differenza di altezza e corporatura tra i due era evidente e per una ragazza di appena cinquanta chili per un metro e sessanta era una gran fatica tirarsi dietro un gigante che ne pesava minimo ottanta. 
«Chiavi?» rise flebilmente. «Non ci sono chiavi, la porta è sempre aperta».
Lei sollevò le sopracciglia a quella affermazione e tentò di testarne la veridicità: afferrò la maniglia esterna e spinse con un po’ troppa forza, ritrovandosi come per magia dentro casa. Derek si sorresse contro il muro, strisciando quasi in direzione del divano. Lei restò indietro, premurandosi di chiudere la porta.
«C’è nessuno?» domandò ad alta voce, in modo da arrivare anche al piano di sopra. Nessun rumore sospetto, nessuna apparizione dal nulla degna di un Hale. Niente di niente, regnava un inquietante silenzio. 
«Non c’è nessuno» la informò l’Alpha, tentando invano di sfilarsi la maglietta ormai lacerata ovunque. Emma nascose il rossore delle proprie guance ai suoi occhi vigili e attenti, avanzando a passo lento in direzione del divano.
«Lascia che ti aiuti» mormorò con un accenno di timidezza e timore, sedendosi al suo fianco prima di accertarsi che fosse d’accordo. L’espressione piatta e velata presente sul suo volto insolitamente pallido e stanco non accennava ad alcuna presenza di stizza. Con Derek di fronte era impossibile concentrarsi su qualcosa che non fossero i suoi occhi brillanti ed espressivi. Erano talmente magnetici e particolari, che la giovane si ritrovò a pensare di poterli fissare per ore senza mai stancarsi. Allo stesso tempo, però, nascondevano qualcosa. Celavano dolore, perdite, voglia di vendetta, insolenza, aggressività, negata debolezza, solitudine… Il tormento che ne trapelava era più che evidente se si prestava attenzione alla sostanza e non all’apparenza.
Emma portò le mani piccole e fredde sui lembi sporchi e umidi della maglia del ragazzo, tirandola su con delicatezza, per paura di infliggergli dell’altro dolore. Lui si limitò a contrarre i muscoli del viso a causa di un lieve bruciore all’altezza dell’addome. L’indumento logoro e vecchio finì accartocciato alla fine del divano, dietro le proprie spalle decisamente minute e strette in confronto a quelle ampie e ben strutturate dell’Alpha. 
«Hai bisogno di disinfettarle» affermò lei con voce debole e bassa. Si accorse di tremare solo quando sfiorò per sbaglio la sua mano grande e calda. Probabilmente i licantropi avevano una temperatura corporea più alta e non soffrivano il freddo. O probabilmente aveva la febbre.
«Non serve, sono un lupo mannaro» affermò come se ancora non fosse chiara la sua natura. «Guarisco da solo».
Lei percorse le ferite con lo sguardo, avvicinando lentamente l’indice a sfiorargli la spalla. E con stupore da parte propria, lui non accennò ad indietreggiare. 
«Non stai guarendo, Derek» sussurrò lei, in pensiero. «Chiamo Scott?»
«No, sto bene» si irrigidì appena, stringendo tra le mani la coperta nella quale era stato avvolto fino a poco prima.
«Hai degli asciugamani? Devi asciugarti» disse lei, ignorando la sua ultima reazione fin troppo prevedibile.
«Sali le scale, prima porta a sinistra» replicò lui, fornendole le indicazioni per il bagno. Emma annuì e si alzò dal divano, seguendo alla lettera il percorso da lui indicato. Salì le ampie scale scricchiolanti, l’unico rumore che l’accompagnava era quello dei propri passi piccoli e rapidi contro il legno. Quel silenzio surreale le infondeva una strana e piatta tranquillità. 
Giunse in bagno, faticando per trovare la luce, stupendosi del fatto che la corrente funzionasse in una casa malmessa e tecnicamente inutilizzabile come quella. Cercò degli asciugamani puliti all’interno di una cassettiera vecchia e cigolante, decidendo poi di seguire la propria volontà e munirsi anche di qualche benda e del disinfettante praticamente inutilizzato. 
Quando tornò di sotto, ritrovò Derek dove l’aveva lasciato, con lo sguardo perso nel nulla e l’espressione sofferente. 
«Non ti facevo un tipo da disinfettante senza alcol» ridacchiò sommessamente lei, tornando a sedersi affianco al giovane, che sollevò lo sguardo, sbuffando scocciato. Non l’aveva ascoltato e lui non era un particolare fan delle persone che si ostinavano a non dargli retta. 
«Quello è di Peter» disse serio, «ultimamente è diventato delicato». 
Emma abbozzò un sorriso, scacciando qualsiasi tipo di pensiero divertente dalla mente. Aveva intenzione di fasciargli le ferite prima di essere costretta ad amputargli qualche braccio.
«Puoi metterti sul tavolo? Qui è troppo buio» esordì con gentilezza, cercando di prenderlo nella maniera più delicata possibile: con le pinze, in poche parole.
I suoi occhi si alzarono al cielo per qualche istante, quella ragazza parlava troppo. Gli ricordava in maniera particolare Stiles, che non perdeva occasione per infastidirlo col suo temperamento da schizzato iperattivo. 
Nonostante desiderasse lamentarsi, si alzò a fatica, raggiungendo il tavolo non troppo distante, domandandosi se fosse realmente in grado di medicarlo o meno. Non appena fu seduto, con le gambe penzoloni e i pugni chiusi a sorreggersi ai lati di queste ultime, un tenue bruciore lo scosse appena. Emma si accorse di quel piccolo sussulto e non riuscì a trattenere un ghigno divertito.
«È freddo» borbottò cupo, volgendo le iridi chiare altrove, mentre lei continuava a riempirlo di disinfettante. 
«Certo» annuì la bruna, sollevando accidentalmente lo sguardo in direzione delle sue labbra. E come il più stupido dei cliché, prese a domandarsi di nuovo se fossero effettivamente così morbide come sembravano. Tutta quella vicinanza non era affatto un bene, la fantasia vagava libera, senza che lei potesse controllarla o, almeno, porvi un freno. Era colpa sua, di quell’aria tenebrosa e tormentata che l’attraeva in maniera pericolosamente intensa. Si morse la lingua e continuò a tamponare col cotone, iniziando a fasciargli il braccio sinistro all’altezza del bicipite. Era stupita da quanto i suoi muscoli sembrassero scolpiti con dedizione e cura da uno dei migliori artisti mai esistiti. Di tutte le cose che avrebbe potuto dire per mandare avanti la conversazione, nessuna le pareva opportuna: si sentiva una povera idiota con la i maiuscola. Di tutte le persone – o licantropi – di cui avrebbe potuto infatuarsi, perché proprio lui? Perché, ad esempio, non Scott? Scott aveva un grande carisma e una bellezza tipicamente del sud. Perché non Isaac? Infondo anche lui aveva un qualcosa di misterioso nello sguardo e forse dietro ai suoi silenzi si celava una spiccata profondità d’animo. O magari Stiles, col suo sarcasmo e i suoi grandi occhi scuri. Perché, tra tutti, proprio Derek? Cos’aveva di tanto speciale?
Con un sospiro profondo, Emma terminò anche l’ultima medicazione. Avvitò il tappo del disinfettante, sollevando lo sguardo in direzione di quello dell’Alpha, che la stava osservando attentamente. Se ne era accorta da un po’, ma non aveva voluto dargliela vinta così facilmente. Aveva finto indifferenza finché aveva potuto, per poi far annegare casualmente le proprie iridi calde nelle sue limpide e cristalline. Compensava quei lunghi silenzi in cui era solito chiudersi con gli sguardi: parlava con gli occhi. Non c’era nemmeno bisogno che aprisse bocca. Quando voleva, sapeva essere incredibilmente comunicativo. Altre volte, invece, era in grado di non far trapelare la minima emozione.
Si guardarono per quelli che parvero attimi infiniti, come se si stessero scambiando delle informazioni segrete solo con un semplice contatto visivo. 
«Derek, stai-» 
Cora sbucò dalla porta d’entrata come una furia: la preoccupazione che trapelava dai suoi occhi bastava a far intendere le proprie intenzioni. 
«Scusate» tossicchiò, spostando lo sguardo da Emma a Derek. «Se avessi saputo che ti trovassi in buona compagnia, non ci avrei messo così poco ad arrivare».
Emma si allontanò frettolosamente dal corpo torreggiante di Derek, che si irrigidì prima di addolcirsi in un sorriso. Uno di quelli veri, sentiti. 
«Oh, non fa niente, me ne stavo anda-»
«Ma no, puoi restare quanto vuoi, volevo solo abbracciare il mio fratellone» sorrise raggiante lei, dirigendosi frettolosamente in direzione di Derek. 
«Cora, stai bene?» sussurrò lui, lasciandosi stringere piano dalla ragazza.
«Io sì, tu, piuttosto? Sono morta di paura quando ho fiutato l’odore del tuo sangue. Si può sapere che ti è successo? E perché sei pieno di bende?»
L’Alpha rivolse uno sguardo furtivo ad Emma, che se ne stava in disparte ad osservare la scena. «Ha insistito tanto perché non guarivo».
«Oddio, che maleducata» trillò Cora come un campanellino. «Io sono Cora, sua sorella. Non ci somigliamo molto perché io sono più bella» ridacchiò allegra.
Emma abbozzò un sorriso poco convincente, specchiandosi nei suoi occhi castani. Aveva ragione sul fatto che non si somigliassero molto, ma entrambi vantavano di una particolare e singolare bellezza. 
«Piacere mio, Emma. E, davvero, sei gentilissima ma devo proprio scappare. Sono già in ritardo» ribatté la bruna, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans stretti e strappati sulle ginocchia. 
«Va bene, Emma. Ti accompagno alla porta, sono sicura che Derek si sia scordato le buone maniere anche con te» scherzò, premurandosi a farle strada con un cenno della mano. La bruna si voltò in direzione dell’Alpha, rimasto fermo immobile come lo aveva lasciato lei. Accennò un flebile sorriso e si apprestò a seguire Cora a passo svelto. 
«Grazie per aver curato quello scorbutico di mio fratello, sono stupita che si sia lasciato toccare da qualcuno» bisbigliò quest’ultima nell’aprire la porta. 
«Cora! Ti sento» gridò lui dall’altra stanza, scatenando nelle due, già complici, una debole risata. 
«Fatti gli affari tuoi, impiccione» lo rimbeccò in risposta sua sorella, tornando a sorridere cortesemente ad Emma. 
«Non è un problema, anzi» si lasciò sfuggire in risposta, arricciando gli angoli delle labbra. «Ci vediamo, Cora».
«Senz’altro, Emma». 





Hello there!
Aggiornamento lampo!
Iniziamo con uno Stiles particolarmente scatenato e chiacchierone, che non smette mai di essere così incredibilmente adorabile. Lo amo.
E poi ecco di nuovo Derek che si dissangua nell’auto di Emma. Di nuovo. E lei si appresta a salvarlo, di nuovo. #DEREMMAVIBES
La scena tra questi due è stata volutamente non troppo lunga in modo da tenervi un pochino sulle spine. Eheh.
Non trovate particolarmente divertente il fatto che sia sempre Cora ad interromperli? Io adoro questa cosa e adoro il modo in cui si è presentata ad Emma. L’ho immaginata come una piccola Campanellino di Peter Pan e non so nemmeno perché.
Idiozie a parte, ringrazio tutti quelli che seguono la storia e la recensiscono, mostrando interesse e apprezzamento per ciò che scrivo. Grazie infinite.
uhstilinski.

 

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Capitolo 8
*** Echo. ***


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Echo – Derek.



Hello, hello. Anybody out there? 
‘Cause I don’t hear a sound. Alone, alone.
I don’t really know where the world is but I miss it now.

Derek non ricordava quando fosse riuscito a prender sonno per l’ultima volta senza dover prima avere a che fare con quel senso di colpa che lo assaliva puntualmente ogni notte. Quando le luci si spegnevano e il sipario calava. Quando rimaneva incastrato tra i propri pensieri e i propri ricordi, proprio dietro a quel sipario che nessuno aveva mai avuto il coraggio di oltrepassare. Quel maledetto sipario, oltre il quale si presentava come un uomo dal passato tormentato, con la particolare abitudine di cacciarsi nei guai. Stando alle opinioni di chi lo conosceva, era uno che se li andava a cercare anche quando non ce ne fosse il bisogno. Soprattutto quando la quiete sembrava calare, troppa tranquillità non faceva per lui. O forse era solo spaventato dal pensiero di restare solo dietro quel sipario, di dover confrontarsi ancora con i mostri del proprio passato. Tendeva ad isolarsi, quello era vero, ma finché percepiva del movimento attorno a sé, non era poi tanto male. Il dolore lo sorprendeva di notte, quando faceva fatica persino a chiudere gli occhi, tormentato dal pensiero delle fiamme. Quelle stesse fiamme che da quattro anni non l’avevano mai lasciato solo. Non gli avevano lasciato mai un attimo di pace, un attimo per sé, un attimo di serenità. 
Derek da ben quattro anni, aveva perso il senso del tempo, non contava più i giorni, le ore, i minuti. Brancolava nel buio della propria mente senza neanche una meta precisa. Non aveva idea di cosa significasse vivere, scoprire nuovi posti, imparare nuove cose. Era come se si ostinasse a continuare la vita che gli era stata strappata di mano da allora. O meglio, come se stesse attendendo che qualcuno tornasse per restituirgliela. 
Non riusciva a guardarsi allo specchio senza provare odio, rancore, rabbia, tristezza, frustrazione… Si guardava ma non si riconosceva. Cosa era diventato? Un mucchio di ossa e carne contenente un’anima congelata. C’erano volte in cui si era chiesto persino se il proprio cuore battesse ancora o se si fosse semplicemente bloccato per sempre come quello dei propri cari. 
Era un miserabile, non provava nemmeno pena nei propri confronti. Non provava niente di tutto quello, era animato solo da una profonda e tagliente ira. Quante volte aveva pensato di raggiungere sua madre, che ovunque fosse, gli mancava da morire. Nonostante quello, non aveva mai versato una lacrima davanti agli altri, mai un cenno di cedimento, niente. In quel modo aveva iniziato a farsi la reputazione da duro. Un insensibile, un egoista. Il figlio sbagliato degli Hale. 
Ma non gli importava. Almeno, non più. Aveva imparato ad escludersi dal mondo, ignorando i commenti, le critiche, i pensieri altrui. Le persone avrebbero parlato in qualsiasi caso. Ma ricordava anche di averci sofferto inizialmente e proprio grazie a quella sofferenza, mattone dopo mattone, aveva costruito il muro indistruttibile dietro il quale continuava a nascondersi. Aveva imparato a fingere indifferenza dietro uno sguardo glaciale, a sembrare calmo, impassibile, di pietra.
Ma il problema si presentava quando qualcuno riusciva ad entrargli dentro con un solo sguardo, senza bisogno di alcun permesso. Quel qualcuno arrivava e tentava inconsapevolmente di abbattere quelle barriere che con tanta fatica lui aveva edificato. Un paio d’occhi ed un cuore scalpitante contro il proprio, freddo e indurito dal tempo. 

I’m out on the edge and I'm screaming my name like a fool at the top of my lungs.
Sometimes when I close my eyes, I pretend I’m alright but it’s never enough.

Ad alcune persone bastava chiudere gli occhi e pensare ad altro, distrarsi, viaggiare con la fantasia, dipingendo un mondo diverso, migliore. Altre, come lui, dovevano imparare a conviverci con i famosi mostri. E, purtroppo, non si trattava degli stessi mostri che scacciava da sotto il letto quando era ancora un ragazzino indifeso. Si trattava di altro, ben altro. Qualcosa di impossibile da scacciare, qualcosa che, giorno dopo giorno, tendeva ad indebolirlo e a renderlo una marionetta attaccata ai loro sporchi fili. Non importava quanta forza fisica possedesse, a Derek mancava la volontà. Per quanto gli facesse male quella situazione, non riusciva ad allontanarsi da quei pensieri. Si ostinava a rimanere in quella casa, continuando a domandarsi ogni dannato giorno cosa sarebbe accaduto se lui non si fosse infatuato di Kate Walker. Cosa fosse successo se al posto della sua famiglia, lì, a bruciare, ci fosse stato lui. Di sicuro, avrebbe fatto meno male. 
Non avrebbe sentito più niente, sarebbe morto, lo avrebbero pianto per qualche mese e poi sarebbero andati avanti. Loro sarebbero andati avanti anche senza di lui, loro avrebbero avuto la forza che a lui mancava per staccarsi una volta per tutte dal ricordo della famiglia unita e felice. Se ne sarebbero fatti una ragione. E allora perché lui non ci riusciva? Aveva persino rifiutato di presentarsi al funerale, perché “I funerali non sono per i morti, sono per i vivi”.

‘Cause my echo is the only voice coming back. 
Shadow, shadow is the only friend that I have.

Quante persone erano morte a causa sua? Quante avevano rischiato per lui? Quante aveva ucciso personalmente? Aveva portato via talmente tante vite da sentire la propria anima ridotta in brandelli. Come se ognuna di quelle persone avesse portato via da lui un po’ di amore, di vita, di libertà. Non aveva mai voluto che nessuno morisse a causa sua, soprattutto se si trattava di innocenti. Soprattutto quando si parlava di Paige. La prima anima innocente che aveva ridotto in mille pezzi, il primo amore, la prima vera volta in tutto. Ricordava il batticuore, le mani sudate e tremanti e la sensazione di avere lo stomaco praticamente rivoltato. Le famose farfalle di cui tutti parlavano. Lo ricordava in maniera vivida, sembrava fosse passato solo un giorno… Quanto era passato, invece, dall’ultima volta in cui aveva davvero amato una donna con tanto trasporto e passione? 

Listen, I would take a whisper if that’s all you had to give.
But it isn’t, is it?
You could come and save me and try to chase the crazy right out of my head.

Sarebbe diventato pazzo senza ombra di dubbio se non avesse smesso di farsi del male in quel modo, ma aveva scelta? Non riusciva a salvarsi da solo, forse aveva solo bisogno di essere aiutato. Di essere capito e amato di nuovo. Aveva bisogno di una persona che conoscesse a memoria tutti i suoi difetti e che riuscisse persino a farci l’amore con tutte quelle mancanze. Una persona che li accettasse tutte e che fosse in grado di attenuarle, in qualche modo. Una persona in grado di tirare fuori la positività che aveva nascosto anni e anni addietro, prendendosi anche la responsabilità di affrontarlo nei momenti più cupi e dolorosi. Perché era in quei momenti ad averne più bisogno, nonostante l’orgoglio lo spingesse ad isolarsi. 
E nonostante non lasciasse avvicinare nessuno, in cuor suo, sperava davvero di poter riuscire a respirare liberamente di nuovo. Era stanco di sentirsi in quel modo, aveva solo bisogno di tornare a vivere una vita degna di essere chiamata tale.

I don’t wanna be an island, I just wanna feel alive and get to see your face again.

Voleva sentirsi vivo, libero, un uomo migliore. Voleva potersi alzare la mattina e accettarsi per quello che era, per quello che non era mai riuscito ad essere prima. Tornare ad essere quel ragazzino spensierato dagli occhi vivaci e la battuta sempre pronta. 
Perché faceva male la solitudine, più di quanto volesse dare a vedere, più di quanto confessasse a sé stesso. Quella continua sensazione di star per affogare o di trovarsi sull’orlo di un precipizio senza paracadute iniziava a logorarlo giorno dopo giorno, respiro dopo respiro. E per quanto riuscisse ad isolarsi dalla montagna di pensieri che non avevano la minima intenzione di lasciare la propria testa durante il giorno, la notte si ritrovava faccia a faccia con quello che fino ad allora non aveva avuto il coraggio di mostrare a nessuno: se stesso. Le proprie debolezze, le paure, le sofferenze, i rimorsi, i rimpianti, le delusioni, le preoccupazioni. Il proprio dolore. La propria vita. 

Just my echo, my shadow. Hello, hello… Anybody out there?



Hello there!
Piccolissima introduzione riguardo i sentimenti contrastanti che tormentano il nostro povero Derek. Non è un capitolo, si tratta di una semplice parentesi che ho voluto aprire per farvi comprendere un po’ di più le ragioni dei suoi comportamenti. Inizialmente non era programmato, poi è scattata la lampadina e mi sono detta: perché non farlo?
Come vedrete, non è lungo quanto gli altri capitoli, proprio perché vorrei che il nostro bell’Alpha restasse sempre un po’ misterioso ai vostri occhi, proprio come a quelli di Emma. Non voglio rivelarvi troppo, preferisco restare fedele all’originale sempre e comunque.
Ps: ho cambiato il banner della storia, non so come immaginiate voi Emma, ma nella mia testa la vedo come la bellissima Nina Dovreb. Comunque, fatemi sapere quale preferite tra i due.
Grazie infinite a tutti coloro che continuano a supportarmi ogni volta, vi adoro.
uhstilinski.



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Capitolo 9
*** Triskele. ***


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Triskele.


«Con Indoari o Arii si indica un antico popolo nomade appartenente al gruppo indoiranico dei popoli indoeuropei, che penetrò nel Subcontinente indiano nel II millennio a.C., subentrando alla Civiltà della valle dell'Indo e imponendosi su un ampio territorio. Disperdendosi su un’area tanto vasta, la lingua di questo popolo, di matrice indoiranica, subì un processo di frammentazione, che diede origine alle varie lingue indiane antiche – come il sanscrito – e moderne – come l’hindi». 
Emma si lasciò sfuggire un piccolo sbadiglio, sollevando la testa dal banco solo per controllare che ore fossero. La storia le faceva venire un gran mal di testa, non riusciva a stare attenta più di cinque minuti consecutivi. Tutti quei popoli e quelle loro tradizioni, le guerre e i trattati di pace, le alleanze… Tutto troppo noioso. 
Si voltò in direzione di Valerie, che si apprestava a prendere appunti su appunti sul proprio quaderno, con sguardo attento e vispo a scrutare il professore. 
La bruna osservò affranta il proprio foglio, sul quale non aveva fatto altro che disegnare lo stesso simbolo, rappresentato in diverse dimensioni senza nemmeno accorgersene. Assottigliò lo sguardo e si morse il labbro inferiore per la concentrazione, domandandosi come mai fosse così convinta di averlo visto da qualche parte. 
«Un simbolo indoario è, ad esempio, il Triskele, chiamato anche Triscele o Triskellion. È una raffigurazione di un essere con tre gambe, più generalmente tre spirali intrecciate o per estensione qualsiasi altro simbolo con tre protuberanze e una triplice simmetria rotazionale. Il significato principale del Triskele è piuttosto oscuro, ma è comunque evidente che presso le popolazioni celtiche e in termini di simbolismo assoluto rappresenti nella sua versione destrorsa la stilizzazione del movimento del sole, quindi una sorta di ruota solare che ci riporta al dio irlandese Dagda, connotandosi perciò come simbolo positivo accanto alla svastica indoeuropea. La simbologia ternaria da esso rappresentata si presta a numerose interpretazioni: i tre momenti del movimento del sole, alba, zenith e tramonto; la triplice composizione del cosmo secondo la tradizione celtica, fuoco, terra e acqua, oppure il tempo stesso come passato, presente e futuro».
Tutto ad un tratto, Emma smise quasi di respirare: davanti a sé, decine di Triskele disegnati dalle sue stesse mani. Lo stesso simbolo tatuato sulla schiena di Derek, proprio quel simbolo che, involontariamente, aveva iniziato a sognare da un paio di notti. Quel sogno che faceva fatica a mettere a fuoco e a ricordare le mattine successive, in quel preciso istante sembrò prendere vita.
«Deucalion» borbottò a bassa voce, con le mani a massaggiarsi le tempie. Valerie girò il capo verso di lei, inclinandolo appena con fare interrogativo. 
«Che hai detto?» bisbigliò un po’ confusa, chiedendosi se avesse sentito bene. 
«Niente, credo di aver capito cosa vuole Deucalion da Derek» le disse un po’ agitata, ancora non troppo convinta della propria interpretazione personale. Poteva avere ragione, come poteva semplicemente sbagliarsi. Infondo non era poi tanto sicura che l’anziano licantropo continuasse a manipolarle la mente durante il sonno. 
«Come? Che intendi?» domandò Valerie, smettendo di scrivere.
«Ne parliamo a pranzo con Scott e gli altri» concluse sbrigativa Emma, piegando in fretta il foglio scarabocchiato prima di riporlo all’interno del libro. Infilò il tutto nella borsa, alzandosi e dirigendosi in direzione della cattedra.
«Posso uscire un attimo? Dovrei andare in bagno» esordì a qualche passo di distanza dal professore, che prese ad osservarla da sotto gli occhiali da vista spessi come due fondi di bottiglia. 
«Va bene, va’» rispose dopo una breve e attenta analisi, forse per stabilire se avesse davvero bisogno del bagno o se fosse una semplice scusa per uscire dieci minuti prima del suono della campanella. 
Emma abbozzò una smorfia simile ad un sorriso tirato e si affrettò ad uscire dall’aula, percorrendo il corridoio illuminato con una certa fretta. Sentiva di aver bisogno di prendere una boccata d’aria fresca. 
Spinse con entrambe le mani la porta d’entrata, lasciandosi colpire in faccia dal rigido vento autunnale, che la fece sentire subito un po’ meglio. Si sedette sul primo gradino di marmo e iniziò a pensare a tutta la propria vita, cercando di comprendere chi e perché avesse deciso che fosse adatta a possedere quei particolari poteri che una volta scoperti, non avrebbe più potuto ridare indietro. Come venivano scelte le persone in grado di poter sopportare tutte quelle stranezze? Era una cosa casuale, o dietro a tutto quel soprannaturale c’era una spiegazione logica da dover trovare? Forse Beacon Hills era il porto in cui sbarcavano tutti coloro che possedessero – consapevolmente o meno – delle capacità insolite. 
Si chiedeva come sarebbe stata la propria vita se non si fosse trasferita da Portland, se non fosse stata morsa da quell’essere, se suo padre non fosse stato un cacciatore e sua madre non fosse morta. Forse le cose sarebbero state un po’ diverse. Magari non migliori, solo diverse. 
«Sentivo odore di ansia e preoccupazione dagli spogliatoi» borbottò qualcuno alle proprie spalle, un qualcuno che riconobbe subito come Isaac. «Che ti succede?»
Emma attese qualche secondo prima di girarsi e fingere un sorriso, stringendosi nelle spalle. «Niente» trillò, con un tono di voce palesemente forzato. 
Lui inclinò il capo di lato e la scrutò silenzioso, infilando le mani in tasca prima di avvicinarsi e chinarsi di fronte a lei, in modo da fronteggiarla. «Non le sai dire le bugie, il tuo battito ti tradisce».
Lei sbuffò e abbassò lo sguardo sulle proprie mani, iniziando a giocherellare nervosamente con l’anello che portava all’anulare destro, finché Isaac non decise di poggiare il proprio palmo caldo e largo su di esse, infondendole un po’ di serenità. Era una delle sue abilità da lupo quella di riuscire a controllare lo stato d’animo altrui. 
«Stavo pensando un po’ alla mia vita e alla piega insolita che ha preso ultimamente» confessò la bruna, trovando finalmente il coraggio per specchiarsi nei suoi occhi chiari e lucenti. 
«Ti capisco in parte» ammise lui, sfiorandole il dorso delle mani col pollice, muovendolo circolarmente. «Però la mia decisione di cambiare è stata volontaria».
Emma annuì piano, quasi come se con quel gesto volesse spronarlo a continuare a parlarle: la sua voce roca le infondeva calma e tranquillità. 
«Mentre io non ho avuto nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo. E a dirti la verità, non ci capisco niente nemmeno adesso, nonostante sia passato qualche giorno, io continuo ad essere confusa» sospirò lei, inumidendosi le labbra rosee. «Quanto vorrei che mia madre fosse qui».
«È normale tutta questa confusione, non fartene una colpa. E posso capirti, anche io ho perso mia madre, sai? A dirla tutta ho perso anche un padre, ma lui non si è mai comportato da tale. Non è stato mai capace di fare il genitore» continuò con tono particolarmente distaccato. 
«Mi dispiace tanto, so cosa provi, nonostante io abbia ancora una figura paterna» mormorò lei con un altro sospiro flebile. 
«La mamma è la mamma» esclamò lui con un sorriso malinconico, nostalgico dei vecchi tempi. «Ma sono certo che questa non è l’unica cosa che ti turba così tanto, il mio istinto mi dice che c’è dell’altro».
Aveva fatto c’entro, Emma continuava a pensare a Deucalion e al fatto che potesse tornare ad attaccarla di nuovo se non avessero capito in tempo cosa volesse da Derek. Aveva compreso che, essendo lei una banshee, probabilmente era l’unica con cui egli avesse potuto stabilire un contatto forzato tramite i sogni, però doveva ancora capire cosa c’entrasse il Triskele in tutta quella faccenda. Derek possedeva forse qualcosa che prima era di proprietà di Deucalion o di qualcuno a lui caro? O forse c’era dell’altro? Che avessero una questione lasciata in sospeso? 
«Hai ragione, è un po’ complicato. Continuo a sognare questo simbolo, il Triskele» iniziò lei, tirando fuori dalla borsa il foglio spiegazzato di prima. «Forse Deucalion sta manipolando di nuovo i miei sogni, forse questo ha qualcosa a che fare con la necessità che avesse di vedere Derek». 
«Il suo tatuaggio» biascicò Isaac, fissando un punto fisso dietro le spalle della ragazza. «C’entra con Derek senza alcun dubbio, dobbiamo parlargliene».
«Spero solo non sia tornato ad essere il solito Derek» sussurrò lei, dando voce ai propri pensieri.
«Che intendi?» domandò perplesso il riccio, non potendo sapere a cosa si stesse effettivamente riferendo. 
«Come vi ho raccontato, ieri l’ho aiutato» spiegò lei, gesticolando. «Beh, più che altro mi è piombato davanti ferito e pieno di sangue, tanto per cambiare, aggiungerei. E niente, sembrava non fosse tanto infastidito dalla mia presenza. Non so se lo sai, ma le prime due volte che ho tentato di aiutarlo, mi ha quasi sbranata viva».
Isaac si fece sfuggire una risata palesemente divertita e per niente stupita: conosceva il proprio Alpha ed era consapevole di quanto sapesse essere burbero ed insopportabile. «È fatto così, cosa ci vuoi fare? Siamo tutti abituati al suo carattere e so che a volte potrà sembrarti aggressivo e avventato, ma è uno di cui potersi fidare. Forse uno dei pochi in questa stramba cittadina». 
Emma sollevò le spalle pensierosa, cosa avrebbe potuto farci? Assolutamente niente. Glielo avevano detto tutti, Derek era così e bisognava accettarlo, nel bene e nel male. 
«Secondo te ci è diventato così o lo è sempre stato?» fece lei, sollevando lo sguardo dalle loro mani ancora vicine e strette ai suoi occhi insolitamente più scuri.
«Io credo sia stato il dolore a cambiarlo, non è facile sopportare una tale perdita, soprattutto quando hai diciassette anni» le disse in un sussurro, facendosi più cupo in viso. Con quell’affermazione forse non si riferiva solo all’Alpha, probabilmente stava parlando anche di se stesso. 
«Mi sembra di riuscire a sentirlo quel dolore: lo vedo attraverso i suoi occhi, sempre spenti e privi di vitalità. È così brutto vedere qualcuno soffrire in quel modo… E  la cosa peggiore sai qual è? Sapere che non abbia nessuno che possa consolarlo o rendergli la vita un po’ meno amara».
Isaac pesò ognuna di quelle parole, sollevando un angolo delle labbra con fare furbo e malizioso.
«Che c’è?!» esclamò lei, sbalordita.
«Niente, è che il tuo cuore galoppa a velocità imbarazzante quando parli di lui» ridacchiò malefico, schivando prontamente un pugno sulla spalla da parte di Emma, che arrossì come un peperone.
«Non è vero!» replicò con prontezza lei, lanciandogli uno sguardo truce, che sicuramente non l’avrebbe spaventato.
«Ah no? E allora perché sei arrossita?» la punzecchiò, sollevando un sopracciglio in segno di sfida.
«Giuro che appena scoprirò come funzionano questi poteri da banshee, mi impegnerò per trovare un incantesimo che ti faccia trasformare da lupo a chihuahua» borbottò piccata lei, incrociando le braccia al petto.
«Sei una banshee, non l’aiutante di Mago Merlino» la schernì nuovamente il giovane Lahey, pizzicandole una guancia. 
«Sei quasi più idiota di Stiles» si lamentò lei, sbuffando sonoramente.
«Hey, così mi ferisci» esclamò con ironia lui, portandosi una mano sul petto con fare teatrale. 
«Ho detto quasi» gli fece l’occhiolino Emma, alzandosi dopo esserselo scrollato giocosamente da dosso. «Raggiungiamo gli altri, mancano pochi minuti alla pausa pranzo».
Isaac annuì silenzioso e si apprestò a seguirla all’interno dell’edificio. La campanella suonò con un minuto di anticipo, liberando decine e decine di alunni scalpitanti e impazienti di infilare qualcosa sotto i denti tra una lezione di storia ed una di chimica.
Emma stava camminando tranquillamente, quando all’improvviso qualcuno le andò addosso, rischiando di farla cadere. Le bastò sollevare lo sguardo per incrociare gli occhi vispi e brillanti di Scott, che sembrava andasse abbastanza di fretta. 
«Scott, dove vai così di corsa?» domandò lei curiosa, inclinando il capo di lato, scrutando con attenzione il suo abbigliamento particolarmente insolito. Indossava ancora la maglia da lacrosse, i pantaloncini e sembrava essersi scordato le scarpe.
«Amico, perché sei scalzo?» s’intromise Isaac, aggrottando la fronte. 
«Jackson si è divertito a buttarmi i vestiti e le scarpe da qualche parte, prima lo trovo e prima riavrò le mie cose» spiegò scocciato, con espressione dura a dipingergli il volto.
«Siete così stupidi voi maschi» commentò impassibile la bruna, scansandosi per permettergli di raggiungere la segreteria. Qualche istante dopo, un rumore stridente echeggiò per i corridoi.
«Quell’idiota di Jackson Whittemore è pregato di recarsi urgentemente in segreteria».
Isaac e Emma si guardarono negli occhi per qualche secondo prima di scoppiare in una fragorosa risata. 
«Dimmi che non ha davvero detto una cosa del genere al microfono» esclamò lei, con gli occhi ancora spalancati.
«L’ha fatto» fu la risposta che ricevette da parte del riccio, che scosse il capo con incredulità. «E quel microfono è collegato ad ogni altoparlante presente nella scuola, non so se mi spiego».
«Mi farò quattro risate quando il vicepreside gli darà sei ore di detenzione in biblioteca, a riordinare libri e fascicoli sulla vivisezione delle rane nella sezione di biologia» ridacchiò lei, intravedendo tra la folla due volti conosciuti. «Vieni, ci sono anche Valerie e Stiles».
«Hey, avete visto Scott? Mi pare di aver sentito la sua voce rimbombare casualmente per il corridoio» esordì Stiles, saltando i soliti convenevoli.
«Sì, Giulietta, sta’ tranquilla. Romeo ci raggiungerà in mensa» scherzò Emma, ridendo, seguita anche da Valerie. «Ha avuto un piccolo inconveniente con Jackson».
«Come sei simpatica, Cappuccetto Rosso» rispose lui, ghignando. La bruna lo fulminò, fingendo indifferenza davanti a quel nomignolo.
«Ho delle novità di cui parlarvi, ma voglio aspettare Scott».

«Quindi credi che dietro ai tuoi sogni ci sia ancora lo zampino di Deucalion?» domandò con scetticismo Stiles, sistemandosi a sedere sulla panca tra Valerie e Isaac.
«Ragazzi, avete presente le ricerche di Deaton sulle banshee? Quelle cadute ad Emma a casa di Derek. Beh, ho letto una cosa interessante: a quanto pare, un Alpha potente e competente può riuscire a controllare le menti altrui e riconoscere delle capacità soprannaturali anche prima che esse si manifestino. Ecco perché ha scelto te, Em. Lui sapeva dove colpire sin dall’inizio, sapeva di te e probabilmente sa di riuscire ad avere ancora il controllo sui tuoi sogni» disse Valerie con serietà, avvicinandosi col busto al tavolo, in modo da farsi sentire solo dai quattro amici.
«Quello che mi chiedo è cosa voglia davvero da Derek e cosa c’entri il Triskele in tutta questa faccenda» sospirò dubbioso Scott, giocherellando con la forchetta in plastica con la quale avrebbe dovuto mangiare il proprio pranzo a base di hamburger ancora mezzo congelato e insalata somigliante a cartapesta. 
«Me lo chiedo anche io, l’unico modo per ottenere una risposta è parlarne con lui» suggerì Emma, spostando lo sguardo dal giovane licantropo al resto dei presenti.  
«Credi davvero che sarà d’aiuto?» borbottò sbigottito Stiles, aggrottando le folte sopracciglia in una smorfia buffa. «Insomma, è di Derek che stiamo parlando, non vorrei che ve lo foste scordato». 
«Non ha tutti i torti» commentò seria Valerie, sistemandosi con cura il beanie blu sulla testa.
«Provarci non costa nulla, alla fine è di lui che si parla, è giusto che sia messo al corrente delle novità» le disse Isaac, cercando approvazione nelle iridi scure di Emma, che aveva spostato la propria attenzione su altro: fissava silenziosamente qualcosa al difuori delle grandi finestre della mensa. Qualcosa che avrebbe giurato le sembrassero due fari rossi puntarla da lontano, nei pressi delle fitte boscaglie al confine con la scuola.
«Emma? Che succede?» la richiamò il riccio, appoggiandole una mano sul braccio destro. 
«Che c’è? Che cosa hai visto?» continuò Scott, volgendo lo sguardo verso il bosco non troppo distante dal cortile interno. 
«Non lo so in realtà, mi sembrava di essere osservata» mormorò lei, abbassando le palpebre sulle iridi color caramello. «Forse mi sono lasciata impressionare dalla questione».
Non era troppo convinta delle ultime parole pronunciate, ma tentò comunque di non pensarci troppo e di concentrarsi sulla conversazione.
«Quindi che si fa, passiamo da Derek nel pomeriggio?» propose Scott, decidendo di non dare troppo peso al comportamento un po’ assente di Emma: era normale che fosse un po’ scossa, era accaduto tutto così velocemente da non darle neanche il tempo di metabolizzare il tutto. 
«Derek si sta trasferendo in un loft, probabilmente lo troveremo lì a sistemare le poche cose che gli sono rimaste» li informò Isaac, che tra tutti sembrava fosse quello più vicino all’Alpha ultimamente. 
«Sai l’indirizzo?» domandò Stiles, incrociando le braccia sul tavolo.
«Ve lo mando via messaggio quando arrivo a casa, così non lo scordate» li tranquillizzò il giovane Lahey, abbozzando un piccolo sorriso. 
«In ogni caso, credete che sarà possibile uscire per una sera tutti insieme senza doverci preoccupare di tutto questo soprannaturale?» sbuffò Valerie, rivolgendo al gruppo una smorfia imbronciata.
«Vuoi violare il coprifuoco?» domandò Emma intromettendosi nella discussione prima di dare un morso alla mela rossa che le aveva offerto Scott. 
«Ha ragione» ammise Stiles, indicandola. «Mio padre mi ucciderebbe».
«Come se non avessi mai violato una delle regole imposte da tuo padre» brontolò la mora, sollevando un sopracciglio. 
«Val, non appena riusciremo a venire a capo di questa situazione, avremo tutto il tempo del mondo per divertirci» le disse Scott, alzandosi subito dopo per svuotare il proprio vassoio. 
«Sembri mio padre» mormorò lei in risposta, scambiandosi uno sguardo divertito con Emma, che scosse appena il capo.

Il loft di Derek si trovava nel bel mezzo di Oakwood Road, a meno di due miglia di distanza dal Beacon Hills Memorial Hospital. Valerie era arrivata insieme ad Emma e parevano essere in anticipo di qualche minuto. I capelli di quest’ultima le svolazzavano liberi davanti al viso, mossi dal vento gelido di quel pomeriggio. 
«Mio padre inizia ad avere dei sospetti, mi chiede continuamente con chi stia uscendo, se farò tardi, dove andrò… È diventato un po’ iperprotettivo» disse Emma, con uno sguardo al cielo grigiastro che non sembrava promettere nulla di buono. 
«Beh, non deve essere facile per un cacciatore sapere che la sua bambina vada in giro con i lupi, è una fortuna che i miei non siano mai in casa» rispose Valerie, con gli occhi puntati in direzione dell’ultimo piano. «Deve essere quello il loft, dove vedi quella grande vetrata».
«Già» si limitò ad annuire la bruna, sospirando e creando una piccola nuvola bianca di condensa. «Wow, è bella grande».
«Lo è» affermò l’altra, camminando avanti e indietro di fronte all’ampio portone. «Ma quanto ci mettono? Meno male che sono le donne ad essere sempre in ritardo».
«Quei tre sono delle donne mancate» rise Emma, strofinando le mani fredde tra loro, rabbrividendo appena. Si maledisse all’istante per non aver indossato il cappotto invernale ed essersi limitata a seguire l’istinto e uscire con indosso solo il maglione rosa cipria. 
«Non hai tutti i torti» ridacchiò Valerie, volgendo un’occhiata speranzosa in direzione della strada. «Hai già deciso con chi andrai al Ballo Autunnale?» 
A quelle parole Emma si mordicchiò il labbro, incrociando le braccia al petto: si era dimenticata totalmente del ballo e non aveva la minima idea di chi potesse accompagnarla. Probabilmente se non avesse ricevuto alcun invito, lo avrebbe chiesto a Scott o ad Isaac.
«Veramente non ne ho idea, tu andrai con Aiden?» 
«Che significa che non ne hai idea? Mancano meno di due settimane» esclamò la mora, strabuzzando gli occhi. «E sì, è l’unico invito che ho ricevuto».
«Almeno tu ne hai ricevuto uno» borbottò con espressione pensierosa la bruna. «Aspetta, che intendi? Da chi altro ti saresti aspettata un invito?» 
Valerie sospirò, stringendosi nelle spalle. «Ma da nessuno, si fa per dire. E sono certa che riceverai qualche invito, se fossi un ragazzo, t’inviterei immediatamente!»
«Sicura? Non è che speravi in una richiesta da parte di Stiles?» ridacchiò allegramente Emma, lanciandole un’occhiata maliziosa. 
«Emma» la incenerì con lo sguardo l’altra. «Sai benissimo che non è affatto così».
«Lo so?» mormorò la bruna, sollevando le sopracciglia. 
«Lo sai» le fece eco Valerie, annuendo con convinzione. «Sì che lo sai».
Il suono di un clacson attirò l’attenzione di entrambe, che smisero di chiacchierare e si voltarono in direzione della Jeep di Stiles, dalla quale scesero tutti e tre i giovani. 
«Ragazze» le salutò Scott, «è tanto che aspettate?»
«Più o meno una vita, volete darvi una mossa?» esclamò Valerie, alzando gli occhi al cielo prima di sbuffare rumorosamente. 
«È colpa di Scott e le sue assurde manie igieniche» disse Stiles, infilando entrambe le mani all’interno del giubbotto blu. «Trentadue minuti e mezzo per una doccia, una dannatissima doccia!» 
Emma liberò una risata armoniosa nell’aria prendendo a braccetto Scott prima di annusargli il collo e sentirlo rabbrividire. «Però devo ammettere che profuma».
«È il minimo» fece Stiles, lanciandole un’occhiata fintamente scocciata. 
«Va bene, bambini» trillò Valerie, intromettendosi. «Vogliamo entrare? Non ci tengo a diventare una stalagmite».
«Ma non erano le stalattiti quelle?» chiese confuso Isaac, aggrottando le sopracciglia. 
«La stalattite è una formazione calcarea pendente dalla sommità delle grotte, mentre la stalagmite è l’esatto opposto, poiché risale dal suolo» gli fece presente la mora, sollevando un angolo delle labbra nell’imbattersi nelle espressioni stupite dei presenti. 
«Okay, Wikipedia, adesso possiamo andare» disse Scott, facendole cenno di seguirlo all’interno dell’edificio di recente costruzione. 
Superata la soglia d’entrata, i ragazzi si ritrovarono davanti a delle scale ampie e lucenti. Finalmente Derek aveva scelto un posto degno di un essere umano vivente in un’epoca più recente. Quel palazzo in confronto alla sua vecchia dimora, poteva essere considerato quasi fantascienza. 
«Per di qua, andiamo in ascensore» li informò Isaac, facendo loro un cenno col capo in direzione di un’ampia porta metallica.
«Però, il nostro Alpha si è evoluto» commentò sarcasticamente Stiles, osservando attentamente i tasti metallizzati all’interno del grande ascensore. 
«A quanto pare» annuì Scott, osservando la propria immagine riflessa nello specchio di fronte a sé. «Avrà sicuramente qualche bolletta in più da pagare, ma ne vale la pena».
Dopo neanche mezzo minuto, un suono simile ad un campanello li avvisò di aver raggiunto l’ultimo piano. Il gruppetto si affrettò a raggiungere l’unica porta presente, e Isaac si ritrovò a bussare contro il materiale ferreo di cui era formata, che prese a scorrere verso sinistra, rivelando l’interno del loft ai loro occhi curiosi.
«Wow» bisbigliò Stiles, spalancando gli occhi. 
«Vi ho sentiti arrivare», la voce di Derek echeggiò nell’ampia zona adibita a salotto, collegata da un’enorme crepa nel muro di mattoni ad un altro ambiente poco più piccolo, nel quale erano sistemati un letto nero matrimoniale ed una scrivania abbastanza larga. 
«Derek» lo salutò Scott, avanzando per primo, seguito subito dopo dagli altri. Valerie, che entrò per ultima, si premurò di richiudere la porta, trascinandola con forza fino a sentirla scattare. 
«A cosa devo questa visita?» domandò l’Alpha, ancora di spalle, intento ad osservare il paesaggio fuori dall’ampia vetrata che fiancheggiava il letto. 
«Dobbiamo parlarti» spiegò ancora il Beta, fermandosi a pochi passi dalla parete in mattoni probabilmente da lui personalizzata. «È un cosa abbastanza urgente».
«Ditemi» fu il suo invito a parlare. «Sono tutto orecchi».
«Em?» fece Scott, come a voler richiamare l’attenzione della giovane su di sé. «Diglielo».
«Dirmi cosa?» fu in quel momento che Derek si voltò, mostrando la propria maglietta grigia incrostata di sangue. 
«Cosa ti è successo?» domandò Emma preoccupata, percorrendo la breve distanza che la divideva da Scott. 
«Poco fa mi sono imbattuto in uno degli Alpha nel bosco, l’aveva mandato Deucalion a controllarci. La buona notizia è che sono riuscito ad ucciderlo».
«E la cattiva?» fece Stiles, intromettendosi nel discorso.  
«La cattiva è che ho fiutato altri odori. Deucalion ne ha trasformati almeno altri due» rispose lui, secco e deciso, senza mostrare il minimo cedimento. 
«Allora eri tu prima, nel bosco» mormorò Emma, ripensando ai due occhi rossi che aveva intravisto dalla finestra della mensa. 
Derek sospirò appena, incrociando le braccia al petto ampio e rigido. «Controllavo che nessuno di voi fosse in pericolo».
Quelle parole fecero sorridere appena la bruna, che rilassò i muscoli del viso fin troppo tesi. Era bello sapere che si preoccupasse per loro.
«Tornando a noi, cos’è che dovete dirmi?» chiese nuovamente Derek, fissandoli uno ad uno con la classica serietà che gli apparteneva.
«Beh, prima dovresti vedere questo» gli disse Emma, tirando fuori dalla tasca posteriore dei jeans un foglio stropicciato. 
«Mi hai fatto un disegno?» la schernì il più grande, accennando un breve sorriso ironico, che sapeva tanto di presa in giro. 
Lei sbuffò, alzando gli occhi al cielo prima di avvicinarsi maggiormente, in modo da porgergli il pezzo di carta.
«Stanotte ho fatto un sogno ben preciso e credo che sia stato proprio Deucalion a volerlo. Questo simbolo significa qualcosa per te? Intendo dire oltre al tatuaggio, c’è dell’altro? Qualcosa che lui possa desiderare a tutti i costi, tanto da spingersi a manipolare il mio inconscio?»
Derek osservò con espressione piatta i numerosi disegni, restando in religioso silenzio per lunghi istanti. Emma non riuscì a decifrare la sua reazione, non capiva cosa gli stesse passando per la mente, quali pensieri o ricordi gli suscitasse quel semplice simbolo.  
«Ma certo» sussurrò a se stesso, sollevando lo sguardo dal pezzo di carta che teneva tra le mani. «Deucalion sta formando un branco e vuole il medaglione della mia famiglia». 
«Derek?» lo richiamò Stiles, perplesso. «Ti dispiacerebbe parlare una lingua da noi tutti conosciuta? Che significa che Deucalion vuole il tuo medaglione?» 
«La mia famiglia era solita addestrare i giovani lupi mannari, aiutandoli a controllare i poteri durante i primi periodi. Si recitava un mantra per tentare di focalizzare l’attenzione sul proprio corpo e sul controllo esercitato su di esso dalla mente, utilizzando un semplice disco di metallo con inciso sopra il Triskele» spiegò con lentezza l’Alpha, socchiudendo gli occhi per pochi secondi, volendo forse ricordare i momenti in cui lui ne aveva fatto uso durante i suoi addestramenti. 
«Un mantra?» domandò incuriosito Isaac, avvicinandosi prima di poggiarsi con entrambe le mani sulla scrivania dietro la quale se ne stava Derek.  
«Alpha, Beta, Omega» continuò quest’ultimo, sospirando. «Il medaglione non ha alcun valore, se non affettivo. Deucalion è a conoscenza della vecchia tradizione e crede che sia magico, per questo vuole servirsene per addestrare in maniera più rapida i suoi nuovi Alpha».
«Tutto qui? Quel pazzo ci ha quasi uccise per un medaglione?» strabuzzò gli occhi Valerie, fissando sconcertata il resto dei presenti. 
«Ovviamente no» ribatté Scott, facendosi avanti. «Ci ha proposto diverse volte di unirci a lui, è assetato di potere e farebbe di tutto pur di raggiungere i propri obiettivi» continuò con un sospiro, cercando gli occhi del giovane Alpha. 
«Cosa farà se non vi unirete a lui?» chiese tremante Emma, temendo una risposta negativa, che non tardò di certo ad arrivare. 
«Ha minacciato di ucciderci» le disse Derek, impassibile. «E ci ucciderà tutti se prima non lo faremo noi». 
La giovane sentì il sangue gelarsi nelle vene e il silenzio calare nell’ampia abitazione. Valerie stringeva timorosa il braccio di Stiles, che a sua volta teneva lo sguardo basso. Isaac si limitò e sospirare, mentre Scott le rivolse un’occhiata più o meno confortante. 
«Non gli permetteremo di farvi del male» provò a rassicurarla, tornando a guardare Derek, che si limitò a sollevare gli occhi al cielo di fronte alle sue parole. «Quanti sono? Ne hai ucciso uno, giusto?»
«Sì, ma ne ha trasformati altri due. Sono sei in tutto con Deucalion. Mi pare di aver ucciso Ennis, lo conoscevo da ragazzino, era il figlio del macellaio. Brutta fine» disse Derek, ostentando un palese disinteresse nei confronti di quell’uomo: non si faceva alcun problema ad uccidere chiunque tentasse di minacciarlo. Era chiamato istinto di sopravvivenza, o qualcosa di strettamente simile. 
«E pensi che siano tornati in città?» azzardò Stiles, che fino ad allora era rimasto in silenzio ad ascoltare. 
«Non credo, il loro odore è sparso nella radura, si espande fino ai confini della contea» spiegò l’Alpha, poggiando il disegno di Emma sul tavolo. 
«Abbiamo un piano?» chiese Isaac, dando voce alla propria curiosità. 
«Per ora vorrei che facessimo delle ronde nel bosco a turni. Le coppie saranno formate da me e Peter e te e Scott. Cora deve ancora riprendersi del tutto, non me la sento di sottoporla ad un tale rischio».  
«È testarda almeno quanto te» commentò allora il riccio, riferendosi ad una delle ultime discussioni tra l’Alpha e sua sorella, alla quale aveva involontariamente assistito. «Credi che vorrà restare in panchina?»
«Lo farà» tagliò corto Derek, facendosi pensieroso. «Mi chiedo quando torneranno Boyd ed Erica». 
«Boyd e chi?» domandò confusa Valerie, cercando di fare mente locale, non troppo sicura di aver sentito nominare quei due prima di allora. 
«Boyd ed Erica, sono gli altri due Beta di Derek» fece Scott, lanciando un’occhiata ad Isaac. «Lui è il terzo ed ultimo». 
Emma osservò la scena un po’ confusa, aggrottando le sopracciglia a quelle parole: cosa significava esattamente tutto quello? 
Isaac sembrò cogliere l’espressione interrogativa della bruna e dopo aver accennato una piccola risata, le si avvicinò.
«Derek è l’Alpha che ci ha morsi e da quel momento siamo diventati i suoi Beta. È una cosa naturale, accade continuamente tra lupi mannari». 
Chiarito quel dubbio, Emma non sembrò più tranquilla, tutt’altro. Pensava a Derek e al fatto che avesse morso tre adolescenti, condannandoli ad una vita di lotte e sacrifici. Pensava a Deucalion e al suo branco di mostri, al fatto che volessero ucciderli e che sarebbero stati capaci di passare sopra chiunque pur di raggiungere il loro scopo.
«Io… mi chiedevo se non fosse più semplice dare il medaglione a Deucalion ed evitare di combattere, rischiando la vostra vita per niente» esordì la giovane dopo una breve analisi della situazione attuale. 
«Deucalion continuerebbe a tormentarci e una volta scoperta la vera natura del medaglione, credo che sarebbe due volte più furioso di quanto possa esserlo ora» disse Derek, camminando avanti e indietro davanti alla grande vetrata. «Forse dovremmo allenarci». 
«Derek, io rimango del mio pensiero» lo interruppe Scott, fronteggiandolo dall’altro capo del tavolo. «Combatterò con voi, vi aiuterò ma non sarò uno dei tuoi Beta». 
«Ma se non sei uno dei suoi Beta, allora cosa…» fece Valerie, che ormai si era allontanata da Stiles e aveva fiancheggiato Emma. 
«Un Omega», una voce familiare al gruppo echeggiò alle loro spalle, sorprendendoli. Peter aveva fatto la sua apparizione dal nulla, unendosi alla conversazione senza neanche essere interpellato. 
«Ed ecco anche lo psicopatico» commentò con sarcasmo Stiles, sollevando le sopracciglia alla vista dell’uomo. 
«Ragazzino» lo riprese con un sorriso sghembo Peter, «per tua informazione non sono psicopatico, o almeno non del tutto». 
«Già» borbottò il giovane Stilinski, guardandosi intorno. «Ovviamente quando ci hai quasi uccisi tutti volevi solamente dimostrarci quanto tu sia sano di mente, vero?»
«Oh avanti,» rise l’altro, «il rancore è un brutto sentimento». 
Stiles roteò gli occhi al cielo e smise di rispondergli, incrociando le braccia al petto prima di sbuffare. 
«Comunque, ho sentito che avete bisogno del mio aiuto» esclamò presuntuoso, gonfiando il petto. Raggiunse suo nipote, che non smise neanche per un attimo di fulminarlo con lo sguardo. 
«Non farti strane idee, qui non piaci a nessuno. Si tratta solo di necessità e se non vorrai morire, dovrai aiutarci».



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Capitolo 10
*** Don’t go in the woods. ***


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Don’t go in the woods.


Il buio aveva avvolto Beacon Hills ormai da qualche ora ed Emma aveva da poco iniziato a cucinare la cena per lei e suo padre, che sarebbe rientrato a casa da una delle sue numerose e segrete riunioni di lavoro. A quanto pareva, il consiglio dei cacciatori iniziava a domandarsi perché sua figlia girasse con i lupi mannari: quel piccolo particolare non sarebbe mai potuto sfuggirgli e, purtroppo, iniziava a creare qualche piccolo problema a Chris. Probabilmente credevano che facesse il doppio gioco o qualcosa del genere.
Embrace the wind with both arms, stop the clouds dead in the sky. Hang your head no more and beg no more. Brother wolf and sister moon, your time has come, brother wolf and sister moon”.
La giovane dai capelli bruni e lucenti canticchiava la canzone passata in radio, che in quel periodo della sua vita sembrava essere proprio azzeccata. Probabilmente il destino si divertiva a burlarsi di lei, insomma, quante possibilità c’erano che una stazione radiofonica locale passasse proprio una canzone riguardante la luna e i lupi?
Legò i capelli in una coda piuttosto approssimativa e si avvicinò ai fornelli, controllando che i funghi non si bruciassero. Il riso cuoceva a fuoco lento all’interno di un’altra pentola, ribollendo di tanto in tanto. 
Lanciò un’occhiata all’orologio a muro alle proprie spalle e iniziò a domandarsi dove suo padre potesse essersi cacciato, ma prima che potesse recuperare il cellulare dalla tasca della felpa grigia che utilizzava come pigiama, sentì infilare le chiavi all’interno della toppa ed una voce calda e profonda le giunse all’orecchio.
«Tesoro? Sono a casa» 
Il sorriso sulle labbra di Emma si allargò ancora di più davanti alla consapevolezza che suo padre stesse bene e che anche quella sera fosse ritornato a casa, da lei. Ultimamente viveva con la costante preoccupazione che potesse non rivederlo più da un giorno all’altro ed il solo pensiero bastava a farle mancare il respiro.
«Papà, sono in cucina» trillò lei prima di versare i funghi all’interno della pentola con il riso. «Ho preparato il tuo piatto preferito!»
In un attimo, Chris si ritrovò in cucina, a pochi passi da sua figlia. Le sorrise prima di stamparle un bacio affettuoso sulla fronte, annusando l’aria giocosamente. «Mhm, che buon profumino!» 
«Eh no, mascalzone!» esclamò lei non appena suo padre allungò una mano per assaggiarne un po’. «A lavare le mani e poi a tavola».
L’uomo rise calorosamente e scosse il capo con fare arrendevole, dirigendosi in bagno per lavarsi le mani come ordinato da Emma, che intanto riempì i piatti di entrambi, aggiungendo una piccola porzione extra per suo padre, il quale adorava fare il bis a tavola.
«Ultimamente ti comporti proprio da brava donna di casa, non è che devo iniziarmi a preoccupare?» le domandò lui, rientrando in cucina prima di prender posto a capotavola.
La giovane alzò gli occhi al cielo, piegando gli angoli delle labbra verso il basso. «Papà» brontolò, sedendosi dopo di lui. 
«Non fraintendermi, va bene che tu esca con i tuoi amici, ma ultimamente vai in giro più spesso e niente, mi chiedevo se ci fosse.. qualcuno» spiegò brevemente Chris, versandosi della birra fredda. 
«Non c’è nessuno, papà» si lamentò lei, bevendo un sorso d’acqua. 
«Ne sei proprio sicura? Sicurissima?» continuò lui imperterrito, gustando una cucchiaiata di riso prima di assottigliare gli occhi. 
«Più che sicura» disse seria. Alla fine dei conti non era proprio una bugia, lei non aveva nessuno, non era fidanzata ed era sicura di star bene così, da sola. Ma non poteva negare a se stessa di provare una profonda attrazione nei confronti del bell’Alpha dall’aria misteriosa e dagli occhi verde intenso. Nonostante lui non avesse mostrato segni di cedimento, sentiva come se tra loro ci fosse un legame particolare ed inspiegabile che li legasse l’uno all’altra come se fossero costretti da un filo invisibile. Le piaceva pensare che non fosse un caso che ogni volta che lui stesse male, finisse col trovarla, ovunque lei fosse.
«Mi fido, allora» borbottò Chris, per niente convinto.
«Allora, com’è il riso?» domandò lei, volendo cambiare discorso. 
«Buonissimo» fece lui, mangiando con una certa voracità. «Cucini proprio come tua madre… Se solo ti avesse vista crescere».
Emma abbozzò un sorriso vago e malinconico, anche lei si era ritrovata faccia a faccia con quei pensieri ultimamente, poteva immaginare quanto suo padre ne sentisse la mancanza. 
«Ti manca sempre molto, non è vero?» gli chiese intenerita, girando la forchetta all’interno del piatto, dividendo in parti uguali il riso. 
«Più di quanto faccia intendere» ammise lui, con lo sguardo basso.
«Non ti sei più innamorato?» se ne uscì lei un istante più tardi, masticando un paio di funghi. «Dopo la mamma, intendo».
Chris scosse il capo, sorseggiando dell’altra birra. «No, credo che dopo aver conosciuto tua madre, non potrò mai vedere nessun’altra donna allo stesso modo. Lei era unica».
«Papà» mormorò lei, prendendogli la mano. «Ti capisco, anzi, forse non posso capire perché non ho mai provato niente del genere, però… Forse meriti di essere felice di nuovo, non credi?»
«Tesoro» la guardò negli occhi, scuotendo appena il capo. «Sono felice insieme a mia figlia, mi basta».
Emma sorrise spontaneamente nell’udire quelle parole, intenerita dal suo sguardo dolce e sincero. «Lo so, ma io intendevo in maniera più… Romantica» precisò lei, riprendendo a mangiare. 
«Non ne sento il bisogno, ma se mai dovesse succedere qualcosa con qualche donna, sarai senza ombra di dubbio la prima a saperlo» la tranquillizzò lui, imitandola. 
La conversazione tra i due continuò fino alla fine della cena e tra una chiacchiera sui ragazzi della Beacon Hills High School ed un’altra sul consiglio dei cacciatori che intendeva assicurarsi che Chris non diventasse complice dei lupi mannari, si fece ora di andare a dormire, o almeno per quest’ultimo, che sembrava non riuscire più a tenere gli occhi aperti. 
«Tesoro, io vado a dormire. Non stare sveglia fino a tardi, domani hai scuola» si raccomandò lui, avvicinandosi per stamparle un bacio sulla fronte prima di lasciarle finire di lavare i piatti. 
«Tranquillo papà, finisco di pulire e filo dritta a letto» lo rassicurò lei, sorridendo in risposta. Insaponò l’ennesima posata e la sciacquò con attenzione prima di riporla nello scolapiatti.
Buonasera, eccoci di nuovo con un piccolo aggiornamento radiofonico riguardo alle ultime notizie. Beacon Hills sembra non essere più una cittadina tanto tranquilla, date le numerose ed inspiegabili uccisioni che sconvolgono gli abitanti da almeno due settimane”.
Emma tese l’orecchio in direzione della radio, assottigliando gli occhi come a volersi concentrare sulla voce della reporter. C’era per caso stato un altro omicidio da parte del branco di Deucalion? O forse si trattava di qualche cacciatore?
Asciugò le mani e dopo aver riposto anche l’ultimo bicchiere, si avvicinò alla radio e alzò di qualche tacca il volume.
Lo Sceriffo sostiene che si tratti di attacchi da parte di leoni di montagna e nonostante non si vedessero animali del genere nella contea ormai da anni, la sua sembra essere l’opinione più diffusa. Si raccomanda i cittadini di non uscire dopo il tramonto e di fare attenzione, soprattutto nelle ore notturne”. 
Emma si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo, fortunatamente non era morto nessun altro e nonostante il pericolo fosse sempre dietro l’angolo, quella consapevolezza l’aiutava a sentirsi più leggera. 
Spense la radio con un gesto rapido e risistemò le sedie attorno al tavolo, uscendo dalla cucina e dopo aver lanciato un’ultima occhiata per assicurarsi che tutto si trovasse al proprio posto, spense la luce e si diresse al piano di sopra. Salì le scale lentamente, cercando di fare il minor rumore possibile, entrando in camera e dirigendosi nel proprio bagno. Quella novità le piaceva parecchio, a Portland doveva dividerlo con suo padre e l’idea non l’aveva mai entusiasmata troppo. Aveva bisogno di troppo spazio per poter condividere quegli armadietti ristretti con qualcuno. 
Si spogliò velocemente e fece una doccia calda, rilassandosi e cercando di scacciare via tutti i pensieri che l’avevano accompagnata durante la giornata. Pensò che l’indomani avrebbe chiesto a Scott di accompagnarla al ballo, non avendo ancora ricevuto alcun invito. Si ricordò di dover tirar fuori i vestiti dall’asciugatrice e di dover caricare la seconda lavatrice. Poi, dal nulla, le venne il desiderio di poter adottare un cucciolo dal canile comunale: durante la lezione di algebra, Valerie le aveva raccontato di una sua cugina di secondo grado che abitava in Alabama e del fatto che avesse adottato un cane, accendendole così la famosa lampadina. Senza dubbio ne avrebbe parlato con suo padre. 
Dopo cinque minuti fu pronta per andare a letto, stretta nella sua felpa grigia e nei suoi nuovi pantaloni della tuta neri extralarge. Non appena fece per infilarsi sotto il piumone, un ululato proveniente dal bosco la fece quasi cadere all’indietro. Spalancò gli occhi e sentì come una stretta allo stomaco. «Scott» boccheggiò, pensando subito al peggio. «Non può essere».
Senza neanche pensarci due volte, balzò giù dal letto e infilò gli Ugg neri pelosi che indossava per casa, dirigendosi al piano di sotto senza fare troppo rumore. Era certa che suo padre non si sarebbe svegliato, era uno dal sonno abbastanza pesante lui. 
Afferrò le chiavi di casa e il cellulare, infilando tutto nelle tasche prima di iniziare a correre in direzione del bosco, presa da uno slancio di coraggio e disperazione. Non pensò neanche di essere disarmata ed indifesa, in quel momento tutto quello che riuscì a realizzare fu che uno dei suoi amici fosse in pericolo. Non importava se fosse Scott, Isaac o Derek, non avrebbe mai potuto restare in casa ad attendere loro notizie. Una volta superato il limitare con la radura, afferrò il cellulare, tentando di cercare segnale per poter chiamare. Sfortunatamente, in quella zona non prendeva, data la spropositata quantità di alberi, che sembravano fare da barriera naturale a qualsiasi rete telefonica esistente. Ormai era troppo tardi per tornare indietro e mettersi a fare il giro delle chiamate, sperando di rintracciare la persona che si trovasse effettivamente nei guai. Nonostante la paura le attanagliasse la mente, non si pentì neanche per un istante di essersi avventurata nel bosco, era certa che loro avrebbero fatto lo stesso per lei. 
Corse senza una meta ben precisa, sperando di imbattersi in un volto conosciuto e di uscire presto da quella situazione. Si faceva luce con la torcia del telefono, che muoveva a seconda delle necessità. Destra, sinistra, centro. E tutto ciò che i suoi occhi affaticati e stanchi riuscivano a distinguere erano masse di rovi e cumuli di foglie. 
«Scott» ansimò esausta, guardandosi attorno prima di girare su se stessa, trattenendo il fiato. «Scott!?» 
Per un attimo fu avvolta da un silenzio agghiacciante e la consapevolezza di essere osservata da qualcuno presto bussò alla sua porta. Indietreggiò fino a colpire con la schiena il tronco di un albero centenario, sussultando al contatto col legno fastidiosamente ruvido. Il buio fitto non l’aiutava affatto a sentirsi meno impaurita, anzi, rendeva le cose ancora più inquietanti. Si ritrovò a chiudere gli occhi e a pregare di non essere azzannata da qualche essere fuori di testa con artigli e peli su tutto il volto.
Sentì dei rumori sospetti alle proprie spalle e non appena si voltò, puntando quella luce accecante in direzione di chiunque ci fosse lì con lei, si sorprese a trattenere il fiato nel riconoscere Peter mezzo ferito e sanguinante a pochi metri di distanza. Fu un sollievo vedere il suo viso contratto in un’espressione di dolore mista a sorpresa. 
«Oh, ragazzina» mugolò, dolorante. «Abbassa quella luce».
«Peter? Sei stato tu a…»
«Ululare? Sì. Quei maledetti degli Alpha mi hanno attaccato, ma sono riuscito a scappare. Tu, piuttosto, che ci fai nel bosco? È pericoloso» disse tutto d’un fiato lui, accasciandosi contro un albero, ormai privo di forze. 
«Ho sentito l’ululato e pensavo fosse stato Scott, credevo ci fosse lui di ronda stanotte» spiegò un po’ scossa lei, con le mani che tremavano. 
«Oh, beh» tossì lui, poggiando il capo contro il la corteccia rovinata. «Spero tu non sia delusa di vedere me. Ti dispiacerebbe aiutarmi?» 
«Peter» la voce di Derek tuonò potente, facendo sobbalzare Emma, che indietreggiò fino ad inciampare contro delle radici, cadendo a terra con un imbarazzante tonfo secco.
«Ahi» mormorò, massaggiandosi la schiena prima di alzare lo sguardo e ritrovarsi davanti l’Alpha. 
«Che stai facendo?» avanzò lui, con i capelli disordinati e lo sguardo perso.
«Io…» balbettò lei, schiarendosi la voce con un colpo di tosse. «Beh, ho sentito l’ululato e credevo ci foss-».
«L’ho sentita quella parte, intendevo dire perché diavolo sei venuta nel bosco da sola sapendo cosa potrebbe aspettarti una volta superato il confine» la interruppe lui, visibilmente seccato. «Lo capisci che non posso badare anche ad una ragazzina che si aggira per i boschi perché crede stupidamente di poter aiutare i suoi amichetti?»
Emma strinse i denti e sospirò profondamente, aggrottando le sopracciglia nella smorfia più dura che riuscisse ad abbozzare. Non lo sopportava quando iniziava a parlare in quel modo velenoso. 
«Forza, alzati» si ammorbidì magicamente lui, porgendole una mano in segno di resa. Aveva rilassato la mascella e disteso i muscoli facciali, risultando decisamente meno scorbutico ed antipatico.
La giovane lo osservò stupita, alternando lo sguardo dai suoi occhi non più rossi come il fuoco alla sua mano sporca di sangue. Non si aspettava che si addolcisse in quel modo, soprattutto non in un momento del genere. 
Era davvero insolito per uno come Derek, ma non tanto insolito come il gesto appena compiuto. Non fu affatto facile decifrare il suo comportamento bizzarro, come mai all’improvviso voleva aiutarla?
Dopo qualche istante passato a guardarsi, si ritrovò ad accettare il suo aiuto, sfiorandogli il palmo coi polpastrelli prima di stringergli la mano e sollevarsi con facilità. Lui la tirò a sé in maniera forse un po’ troppo rude, costringendola ad aggrapparsi alle proprie spalle per evitare che gli cadesse addosso. Si scambiarono un’occhiata particolarmente intensa, gli occhi di lui sembrarono incatenarla a sé, mentre le sue mani andarono a stringerle il bacino in una morsa decisamente troppo stretta. 
Le labbra di Emma si schiusero, mentre il suo petto continuava ad alzarsi e ad abbassarsi velocemente, anche un po’ a causa di quel contatto inaspettato. «Grazie» mormorò, indietreggiando subito dopo a causa del lieve imbarazzo che la pervase nel ricordarsi della presenza di Peter. 
«Sono stata un po’ avventata, mi dispiace» si scusò a bassa voce, abbassando lo sguardo. Solo in quel momento realizzò di essere uscita di casa praticamente in pigiama e con i capelli tirati in una coda disordinata. Non che fosse la prima volta che Derek la vedesse in quello stato, anzi, probabilmente l’ultima volta il proprio aspetto doveva esser stato decisamente più discutibile, tra pioggia e trucco sbavato. 
«Qualcuno mi aiuta? Sono ferito» li richiamò Peter, toccandosi la gamba dalla quale perdeva sangue.
«Non fare il bambino, guarirà. Devo accompagnare lei a casa, pensi di poter stare da solo per cinque minuti senza farti uccidere?»
«E se dovessero tornare?» domandò allarmato il più grande tra i due, gesticolando animatamente. «Mi uccideranno».
«Sono andati via già da un po’, quando ti hanno ferito stavano scappando. Erano i due Alpha più giovani, non hanno il pieno controllo dei loro poteri, se la sono data a gambe dopo aver sentito il mio odore. Tu aspettami qui» gli disse Derek, lanciandogli un’occhiata disinteressata.
«Andiamo, ti riporto a casa» continuò, questa volta rivolgendosi ad Emma, sempre più scossa dalla situazione. 
«Posso tornare da sola, ce la faccio» tentò di convincerlo lei, infilando le mani nelle tasche ampie. 
«Chi mi dice che non ti metterai nei guai di nuovo? Non so se posso fidarmi di una ragazzina come te, sei pericolosa» le rispose lui, scuotendo appena il capo, palesemente contrariato dalle sue parole.
La bruna sospirò arrendevole e gli andò dietro, incamminandosi tra le fitte boscaglie. «Facciamo presto, la gamba di tuo zio non ha un bell’aspetto».
Derek si strinse nelle spalle con noncuranza, osservandola con la coda dell’occhio per assicurarsi che continuasse a seguirlo e che non si facesse male: era talmente scoordinata e sbadata da riuscire ad inciampare persino nei suoi stessi piedi.
«Non badare a lui, è esagerato. Gli passerà, ne ha viste di peggiori» mormorò, guardandosi intorno per assicurarsi di non essere in compagnia di ospiti da loro poco graditi.
«Anche tu sei ferito» sussurrò lei subito dopo, puntando la luce in direzione del suo petto. Non riusciva a spiegarsi perché si ferisse sempre negli stessi punti.
«Non è niente» fece lui, cercando di indietreggiare per sfuggirle.
«Derek» lo zittì lei, spostandogli la mano da davanti, in modo da vedere meglio. La maglietta era tutta strappata, proprio come se quattro artigli lo avessero colpito inaspettatamente, prendendolo in contropiede. «Ti hanno colpito» sussurrò, consapevole di quella verità, avvicinando di poco la mano prima di seguire il grosso squarcio con le dita che combaciavano perfettamente, quasi come se ne fosse stata lei l’artefice. 
«Loro stanno messi peggio, credimi. Non è nulla di cui preoccuparsi» insistette lui, abbassando con un gesto lento la torcia dal proprio torace sanguinante. «Sto bene» affermò con fermezza, specchiandosi nei suoi occhi da cerbiatta contornati da ciglia lunghe e scure, che persino da struccati non perdevano quel non so che di accattivante. Chiunque possedesse un paio d’occhi del genere sarebbe stato in grado di ipnotizzare persino uno come lui, nonostante non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce. Era consapevole dell’effetto che gli avrebbero fatto se fosse rimasto a guardarli per troppo tempo, si trattava di qualcosa che aveva seppellito tempo addietro, assieme ai ricordi del proprio passato non troppo lontano. Qualcosa di strano e forte, incredibilmente e spaventosamente forte.
Emma lo osservò attentamente, sentendo il cuore scalpitarle nella gabbia toracica come mai prima d’allora, ma non per la paura. L’intensità del suo sguardo la destabilizzava, facendola sentire una povera idiota.
L’espressione apparentemente impassibile sul volto di Derek mutò, facendosi più confusa. «Stai bene?» domandò, alludendo palesemente al battito accelerato e al fiato corto.
Lei si limitò ad annuire, scuotendosi da quei pensieri sciocchi. Non era quello il momento adatto per farsi coinvolgere dai sentimenti. 
«Sì, mi sono solo spaventata» biascicò, mentendo spudoratamente.
Il giovane Hale percepì l’odore della menzogna, ma decise di non insistere, probabilmente non aveva voglia di parlarne. 
«Non ne ho trovato nemmeno uno da queste parti, sei sicuro che ce ne siano davvero di lupi mannari?» fece una voce poco lontano da loro, rivolgendosi ad un ipotetico accompagnatore. 
La mano di Derek afferrò quella di Emma, tirandola nell’oscurità con sé. Dovevano nascondersi da quei cacciatori a qualsiasi costo, non era il momento per combattere ancora. Tra frecce impregnate di aconito e proiettili d’argento non l’avrebbe di certo avuta vinta lui. 
«Shh» le intimò, coprendole la bocca col palmo della mano nel percepire il suo respiro affannato. «Non fiatare» le bisbigliò all’orecchio, sfiorandole involontariamente il lobo con le labbra, sentendola fremere. 
La schiena di lei aderì perfettamente contro il petto di lui, teso come una corda di violino. Sentì come il dovere di proteggerla a qualsiasi costo, stringendola con un braccio a cingerle i fianchi sottili coperti dalla felpa pesante. Non seppe spiegarlo nemmeno a se stesso il motivo di quella preoccupazione che gli scorreva nelle vene al solo pensiero di poterla esporre ad un tale pericolo. 
«Non lo so, Hank, a quanto pare dovremo spostarci a est del paese» borbottò un uomo di mezza età, seguendo fedelmente il suo compagno, allontanandosi sempre di più nella direzione opposta alla loro. Quando sembrarono spariti, la mano di Derek si spostò dalla bocca serrata di Emma, che riprese a respirare correttamente e a pensare lucidamente.
«Oh mio Dio» sussurrò terrorizzata, voltandosi prima di puntare la luce dritta negli occhi del ragazzo di fronte a sé. «Scusa» borbottò subito dopo, abbassandola con fare impacciato e agitato. 
Lui sollevò il mento, puntando lo sguardo alle sue spalle e restando come in ascolto. I suoi sensi da lupo gli stavano comunicando qualcosa. 
«Peter sta bene, è nella vecchia casa» commentò, come a volerla tranquillizzare. «Ora posso accompagnarti a casa tua prima di imbatterci in qualche altro pericolo mortale?»
La bruna si limitò ad annuire velocemente, seguendo i suoi passi tra le foglie secche e i ramoscelli spezzati dal vento. Non proferì parola per tutto il tragitto, faticando un po’ per cercare di mantenere il passo sicuro e veloce del pensieroso Alpha.
I loro respiri erano l’unica cosa a rompere il silenzio innaturale della notte che li avvolgeva con prepotenza.
Una volta sorpassato il limitare della radura e raggiunto il portico di casa Walker, Emma si ritrovò a cercare le parole per ringraziarlo di quel gesto, per non averle permesso di essere attaccata da qualche cacciatore o licantropo fuori di sé. Aveva messo a rischio la vita di suo zio per assicurarsi che tornasse a casa sana e salva. Quello, per lei, valeva più di mille parole. Si era preoccupato, aveva smesso di trattarla con sufficienza e di esternare il fastidio che provasse nell’averla attorno inizialmente. E per Emma era già un bel traguardo, stava a significare che forse non era tutto perduto, forse anche a lui importava almeno un po’ di lei.
«Derek» sussurrò, illuminata dalla luce esterna del portico. «Grazie, davvero. Non so come avrei fatto se non ci f-»
«Dovere» la interruppe lui, fronteggiandola in tutta la sua innegabile bellezza mozzafiato. «Tuttavia ora fai parte del branco, no?»
La ragazza si ritrovò a nascondere un piccolo sorriso vittorioso, annuendo prima di liberare un sospiro nell’aria gelida. «Ci vediamo» gli disse, tirando fuori le chiavi prima di girarle lentamente nella toppa per non svegliare suo padre, non avrebbe saputo come spiegare tutta quella situazione surreale.
«Fammi un favore, non andare più nel bosco da sola» mormorò piano lui, assicurandosi comunque che lo sentisse bene. 
La vide annuire e fare un cenno con la mano prima di sparire in fretta in casa, lasciandolo solo davanti alla porta. 


Emma aveva corso letteralmente per tutto il cortile scolastico, stretta in una gonna bianca a vita alta, una maglia rosa pastello ed un cardigan di una tonalità leggermente più scura. Per la fretta aveva persino scordato di allacciare le Converse bianche, rischiando di inciampare più di una volta. Quella mattina si era svegliata venti minuti prima delle otto, il che le avrebbe fatto fare tardi al primo allenamento di lacrosse in cui giocava anche Stiles, al quale aveva promesso di esserci a qualsiasi costo. 
Si era fatta una doccia al volo e dopo essersi truccata alla bell’e meglio, si era vestita ed era corsa in auto senza neanche infilare le scarpe, portandosele dietro e abbandonandole sul sedile del passeggero per tutto il viaggio. Quella era la prima volta in cui si ritrovava a guidare scalza e per quanto potesse sembrare assurdo, non ci fece quasi caso. Sarebbe persino scesa senza, se non fosse stato per il vento piacevole che le accarezzò i piedi nudi una volta aperto lo sportello. Aveva la testa totalmente da un’altra parte quel giorno. 
«Ma insomma, finalmente! Stanno per iniziare e Stiles non la smetteva di chiedere dove fossi» esclamò Valerie dopo averla salutata con un cenno della mano dall’alto dei piccoli spalti improvvisati al lato del campo. 
«Valerie» boccheggiò la bruna, fermandosi qualche istante prima di riuscire ad aprire bocca. «Non sai che corsa ho fatto».
La giovane dagli occhi color del ghiaccio la guardò attentamente sistemarsi i capelli castani e lunghi dietro le orecchie, sbuffando una risata nell’aria piacevolmente tiepida. «Si vede».
«Beh, grazie tante» borbottò l’altra, lanciando uno sguardo in direzione del campo occupato già dalla squadra al completo, affiancata anche dalle riserve, che si allenavano in via straordinaria. Il coach era di nuovo il signor Finstock, che, come previsto, non era riuscito a resistere più di un periodo di tempo fuori dai giochi. 
«Hey, ma Stiles che num-» non fece in tempo a finire la frase, che il numero 24 in campo iniziò a sbracciare come un forsennato, facendo ridere di gusto entrambe.
«È il ventiquattro» sospirò divertita Valerie, sventolando la mano in segno di saluto, seguita subito dopo da Emma.
«Stilinski, non stai scacciando le mosche, occhi sulla palla» lo riprese il coach, fischiando ripetutamente per attirare la sua attenzione. «Chi diavolo me l’ha fatto fare a metterlo in campo», sbuffò.
La bruna scosse appena il capo e andò ad accomodarsi affianco alla sua migliore amica, cercando con sguardo attento gli altri due presenti in campo.
«Scott è il numero 11, Isaac è il 14» spiegò prontamente Valerie dopo essersi avvicinata al suo orecchio come se stesse confidando un segreto o se stesse spacciando della droga. 
«Scott è il capitano?» domandò Emma, seguendo il soggetto in questione con lo sguardo durante il suo allenamento mirato. 
«Co-capitano» precisò con un sorrisetto furbo l’altra, facendole cenno col capo di voltarsi.
Gli occhi della bruna si posarono su Jackson Whittemore in tutta la sua bellezza: stava entrando a passo sicuro e fiero in campo, gonfiando un po’ il petto nel ritrovarsi circondato da tutti i suoi compagni. Era un tipo che amava essere al centro dell’attenzione e non perdeva occasione per dimostrarlo. Tuttavia, Emma non riusciva proprio a farselo stare antipatico.
«Wow» commentò, fissandolo per attimi interminabili. 
«Già, è quello che dicono tutte a scuola» sospirò la bella mora, giocherellando con una ciocca di capelli mossi.
«Non è un mistero perché sia così gettonato tra le ragazze, basta guardarlo» fece l’altra, ancora con gli occhi puntati su di lui. 
«Ha il sedere più bello di tutta la Beacon Hills High School» esclamò lei, forse a voce un po’ troppo alta, visto che due ragazze davanti a loro si voltarono con espressione un po’ sconvolta, iniziando a scrutarla severamente. 
«Come se non avessero mai sentito dire sedere» sbuffò la diretta interessata in risposta, sollevando il mento con fare indifferente. «Dove vivono, in un convento di suore?»
«Sei terribile» la riprese giocosamente Emma, assottigliando gli occhi e lasciandosi andare ad una risata divertita e sincera.
L’allenamento era iniziato da venti minuti e Stiles era finito a terra almeno quattro o cinque volte, rialzandosi tuttavia con entusiasmo e voglia di continuare il gioco: nonostante ciò, sicuramente il coach lo avrebbe tenuto fisso in panchina, come al solito.
La gamba della giovane Walker non smetteva di tremare nervosamente, mentre lo sguardo era perso tra le fitte boscaglie attorno al campo. Stava ripensando alla nottata precedente, cercando un modo per raccontarlo agli altri prima che lo facesse Derek. 
«Cos’ha che non va la tua gamba?» chiese un po’ scocciata Valerie, poggiando una mano per fermare quel tremolio incessante.
«Oh» sollevò le sopracciglia l’altra, sorpresa da quel gesto. In realtà non si era nemmeno resa di conto di star tremando in quel modo. «Scusa, ero soprappensiero e mi sono lasciata prendere dall’ansia».
«Ansia? E per quale motivo?» domandò la mora con un pizzico di sorpresa nel tono della voce, continuando comunque a seguire l’allenamento. «Avanti, sputa il rospo».
«Ieri sera sono andata nel bosco» confessò a bassa voce Emma, guardandola con la coda dell’occhio, quasi spaventata. 
«Sei andata nel bosco?!» gracchiò l’altra in risposta, strabuzzando gli occhi nel voltarsi per cercare il suo sguardo. «Emma, sei impazzita per caso?» 
La bruna sospirò, stringendosi nel cardigan di lana. «Non capisci, ho sentito un ululato e pensavo ci fossero Scott e Isaac di ronda. Era così disperato e carico di dolore che non ho nemmeno ragionato».
In quel momento Emma sentì lo sguardo di Scott puntato addosso, stava sentendo la conversazione anche lui e non sembrava particolarmente felice. 
«Ma ovviamente non c’era nessuno dei due» la precedette Valerie, accorgendosi di quel rapido scambio di sguardi. 
«Era stato Peter ad ululare, due degli Alpha l’hanno attaccato e sono fuggiti nel sentire l’odore di Derek. Scott, non volevo cacciarmi nei guai, pensavo fossi in pericolo» sussurrò la bruna, consapevole del fatto che Scott fosse ancora in ascolto. Lui sospirò da lontano e riprese a correre dietro ai suoi compagni di squadra, raggiungendo Isaac, con quale intraprese una breve conversazione.
«Stava ascoltando anche lui» sospirò Emma, incrociando le braccia al petto, temendo che potesse essere arrabbiato con lei. «Sono stata impulsiva, ma pensaci, tutti loro, ognuno di loro sarebbe corso nel bosco al mio posto».
Valerie distolse lo sguardo, arricciando le labbra prima di cingerle le spalle con un braccio. «Hai ragione, Scott capirà. Sei stata coraggiosa… e anche fortunata, visto che hai incontrato il tuo bel lupo» ridacchiò subito dopo, dandole una gomitata scherzosa.
«Oh, ma smettila» arrossì lei, abbassando il capo in maniera quasi automatica, nascondendo l’imbarazzo dietro i folti capelli. «Mi ha accompagnata a casa, ma prima siamo quasi stati beccati da due cacciatori. È stato… movimentato».
«Alla faccia del movimentato» commentò ironicamente l’amica, scartandosi una gomma da masticare alla cannella. «Vuoi?»
Emma scosse appena il capo in risposta, odiava le gomme alla cannella. «No, grazie» aggiunse, imbattendosi nell’espressione interrogativa di Valerie, che so strinse nelle spalle e tornò a guardarsi intorno curiosamente, forse alla ricerca di Aiden.
«Lui ti piace» esordì all’improvviso, masticando la gomma con disinvoltura prima di accavallare le gambe fasciate da un paio di pantaloni grigi. 
«Cosa?» farfugliò la giovane Walker, fissandola contrariata prima di dover ammettere a se stessa di essere una pessima bugiarda. 
«Non mi freghi, Emma. È palese il tuo interesse nei suoi confronti».
«Si nota tanto?» bisbigliò arresa, iniziando a giocherellare nervosamente con una ciocca di capelli particolarmente ribelle. 
«Allora lo ammetti!» esclamò Valerie, battendo le mani con euforia. «Comunque io l’ho capito perché ti conosco, che razza di migliore amica sarei se non notassi certe cose?»
«Sembri entusiasta» mormorò con un sospiro. «È terribile».
La mora aggrottò la fronte, arricciando le labbra con fare perplesso. «Perché mai? Io dico che siete carini, mi ricordate un po’ Catullo e il suo dissidio interiore» ammise quasi a se stessa, gesticolando. «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior» recitò con teatralità, portandosi una mano sul petto con espressione crucciata. 
«Ma cosa…» borbottò confusa Emma, sbattendo le palpebre più volte, domandandosi di che diavolo stesse parlando. 
«Che c’è?» la guardò seria l’altra, sollevando un sopracciglio. «Io leggo» le fece presente con un sorrisetto compiaciuto, scostandosi i capelli dalla spalla con un rapido gesto della mano fin troppo nel suo stile.


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