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Le pozzanghere, a terra, si
accumulano ai lati delle strade trafficate, sopra i marciapiedi, sulle soglie
dei negozi, alle uscite della metropolitana. Roma, quando piove è triste perché
si vede nera e non si ama, perché i suoi amanti non la possono ammirare,
coperti dagli ombrelli e con lo sguardo basso. Roma, con il sole, è una donna
piacente, vanitosa, egocentrica; ma con la pioggia, si mostra per quella che è
davvero: caotica, disorganizzata, capricciosa, distorta.
Roma non vuole bene ai suoi
amanti quando piove, ecco perché si concede le ottobrate, l’estate di San
Martino, la fredda tramontana che porta il sole e pulisce il cielo, le tiepide
giornate di febbraio e la primavera anticipata – ogni anno sempre un po’ di
più.
Il nove ottobre del duemilaquindici, a Roma pioveva e i vagoni della
metropolitana erano stati presi d’assalto dai turisti, dai lavoratori che
rientravano a casa, dagli adolescenti che avevano deciso di rimanere in giro, a
cazzeggiare, per godersi quella bella giornata.
La banchina della stazione Termini, centro
nevralgico e nodo importantissimo – vitale – per la viabilità romana
sotterranea, era gremita di persone come suo solito. Persone che, dall’alto del
loro qualunquismo che le indentifica come “massa”, ignorano il concetto di curva
gaussiana e distribuzione uniforme che permetterebbe loro di viaggiare più
comodi e senza sovraccaricarsi di stress inutili.
Erica deve fare solo quattro
fermate di metro A – direzione Battistini – prima di
affermare con sicurezza di stare tornando a casa. Erica era pendolare dal
lontano 2005, quando il mondo era ancora normale, aveva meno cicatrici e il
venerdì non era giorno di sciopero. Erica se li ricorda bene quei tempi, quando
sua madre la mise, per la prima volta, su un vagone della metropolitana e le
disse di scendere dopo quattro fermate, che la strada la conosceva perché
l’avevano fatta tante di quelle volte assieme che è impossibile, Erica, che non
te la ricordi e non piangere – ti prego – perché ormai sei grande ed è quello
che le ragazze grandi fanno: viaggiare da sole, fare attenzione ai pazzi che
parlano al cielo, agli uomini – tutti, qualsiasi età abbiano, Erica, non
avvicinarti mai ad un uomo – e ai disegnatori sui marciapiedi, quelli che
incontra mentre corre su Via del Corso, per tornare a casa.
Sono passati dieci anni, ormai
ed Erica ha visto l’espansione della linea della metro B, gli scioperi degli
autisti, i controsoffitti crollati delle stazioni, gli incidenti e l’intera
metropolitana bloccata. Erica, ormai, viaggia da dieci anni e il suo sguardo è
appannato, spento dalla consuetudine del percorso, dalla mono-tonicità della
gente. Vaccinata alla calca dei turisti, alla lentezza dei turisti,
all’impiccio per la viabilità pedonale dei trolley; Erica non guarda più in
viso nessuno ma osserva il suo cellulare, mentre digita messaggi alla velocità
della luce – no, mai così veloce perché è impossibile – o legge febbrilmente
sul suo e-reader. Erica, la metropolitana, quelle
quattro fermate, le persone su quei cinque vagoni le conosce a memoria perché
sono le stesse da dieci anni. I turisti cambiano, ma Roma è sempre quella – la
metropolitana, la curva di Gauss e la distribuzione uniforme sono sempre loro.
Erica non si stupisce più se viene
rubato il portafoglio a una signora innocente, non si indigna se il vigilante
le risponde che non può farci niente lui perché mica c’ha l’occhi sulla
capoccia, eccheccazzo.
Non fa più caso agli sguardi
ambigui del cinquantenne con la moglie a casa, che lo aspetta, tre figlie di
buona famiglia sedute su un sofà di pelle bianco e un iPad
fra le mani, a guardare Peppa Pig. Erica non si
chiede a quale fermata sia arrivata perché sa che, dopo otto minuti e
venticinque secondi è il suo turno di scendere dalla metropolitana. Si avvicina
alla porta, scosta i turisti aggrappati al pilone centrale, evita la signora in
tailleur e tacco alto dall’equilibrio precario e si avvicina alla porta
scorrevole.
Erica, però, fa il Grande
Sbaglio.
Erica
si pente solo quando si renderà conto di essere arrivata a Ottaviano e di aver
mancato la sua fermata.
Erica
si darà della stupida.
Erica ha alzato la testa e ha
incontrato due laghi verdi, come quello della serie che sua nonna segue in
televisione – quella con il prete che nel tempo libero fa la guardia forestale.
Erica alza lo sguardo dal
pavimento in linoleum, tra Spagna e Flaminio e la sua vita cambia
improvvisamente – per la seconda volta –, a quasi vent’anni, quando pensava che
tutto quello che doveva vedere lo aveva visto in quei dieci anni trascorsi in
bilico fra metro A e metro B, fra autobus in ritardo, tram datati e strade
affollate di turisti affamati di pseudo-storia.
Erica, quello sguardo lo
conosce perché c’ha vissuto insieme un terzo della vita. Davanti a quegli occhi
le sembra di sentire il ritorno della sua parte mancante, quella che prude
sempre se ripensa al passato, quella che le fa riempire la bocca di bile acida,
quella che le urla nelle orecchie che è ancora troppo giovane per avere gli
occhi appannati e la noia sulle spalle. Dopo tutti quegli anni, Erica si era
sempre detta fortunata di non averla incontrata sullo stesso tragitto che, a
quindici anni, erano solite fare assieme, quasi mano nella mano, quasi una con
la testa sulla spalla dell’altra. Quasi.
Michela aveva gli stessi occhi
verdi che Erica ricordava, i capelli – adesso molto più lunghi – le ciglia nere
e arcuate verso l’alto, le mani sottili e i polsi gentili. Michela teneva le
gambe accavallate, seduta nel vagone della metropolitana e in procinto di
alzarsi, e teneva gli occhi puntati su di lei.
Erica deglutì il vuoto. La
lingua schioccò, nel silenzio della sua bocca, contro il palato e il corpo ebbe
il riflesso di agganciarsi al supporto accanto alla porta, per non cadere a
terra. Michela la guarda e gli occhi di Erica cercavano, febbrili, i dettagli
di quell’adolescenza perduta, sregolata, distorta che le aveva accomunate alla
loro città, quando amavano viverla quasi mano nella mano. Quasi testa contro
spalla.
La metropolitana si ferma,
Michela le passa accanto e non alza la testa. Erica si scuote quando un uomo,
alle sue spalle, le dice di muoversi a scendere o di levarsi di mezzo, che non
ha tempo da perdere ed Erica scende e quasi cade in avanti, contro una signora
che riesce a sostenerla e le chiede se va tutto bene.
Gentile, pensa Erica e vede la
sottile figura di Michela sparire tra la gente. La vede svoltare a destra,
verso l’uscita e la immagina prendere l’uscita a un passo da Piazza del Popolo,
fuori tra le persone, con la camminata ancheggiante farsi spazio, attraversare
la strada e sparire.
Erica si scosta, prende la
borsa da terra, ringrazia la signora e si rende conto che il tempo, con Michela
di nuovo al fianco, si è dilatato. Erica vorrebbe piangere, vorrebbe
rincorrerla e sperare che non sia troppo tardi. Erica vorrebbe tante cose,
perché è passato un solo anno e anche se Michela le ha detto di no, anche se
Michela è fuggita spaventata da casa sua, anche se Michela la odia, da quel
giorno – da quel maledetto giorno in cui…
Anche Erica si odia.
Erica si odia da 363 giorni, 5
ore e 22 minuti. Erica si odia, mentre la metropolitana scappa via
nell’oscurità del tunnel. Erica piange, quando alza lo sguardo e legge
“Ottaviano”, invece che Flaminio. Erica bestemmia contro Michela, contro quella
ragazza che le assomigliava così
tanto ma che non era lei, perché Michela sarebbe scesa a Flaminio e avrebbe
attraversato il piazzale e poi costeggiato via Flaminia e poi svoltato per via
Cesare Beccaria e poi…
La odia perché non aveva gli
occhi di Michela, ma lei se li era immaginati. Erica piange e si chiede quando
smetterà di fare male, con i pugni chiusi contro il rivestimento in marmo della
fermata, le lacrime a terra e quelle due spesse righe di matita e rimmel a
rigarle il volto, realizza che non smetterà mai di fare male perché Michela le
ha tenuto la mano. Perché Erica ha poggiato la testa sulla spalla di Michela.
Perché Erica l’ha baciata e Michela le ha sputato sul viso e non ha potuto far
altro che pensare a quanto Michela fosse bella anche mentre la uccideva.
≠
Il primo concerto al quale
andarono assieme, fu uno di Fedez, perché a Michela
piaceva. Michela ascoltava di tutto e quel suo mp3 scassato era pieno di quella
particolare musica che Erica classificava come immondizia. Michela ascoltava
solo ciò che la stimolava a scrivere, solo quello che le permetteva di
esprimersi e, incredibilmente, annoverava anche il rapper, o Nicki Minaj che
all’altra sembrava solo casino controllato da un paio di sintetizzatori.
Erica amava la musica classica,
l’ordine matematico di note una dietro l’altra, in un pentagramma calibrato.
Erica era di Bach, mentre Michela era dell’elettronica, disco music anni ’80 e
tanta pazzia incoerente con se stessa. Michela amava andare in discoteca e
ballare in mezzo alla pista, scuotere il sedere contro il bacino di qualche
sconosciuto e schiaffeggiarlo, poi, quando quest’ultimo le avrebbe messo le
mani sui fianchi e chiamata “troia”, perché Michela voleva solo ballare e
divertirsi, non farsi ingravidare nel bagno qualunque di una qualunque
discoteca in un sabato qualunque – un
sabato italiano.
Erica, mentre Michela ballava,
stava di lato, seduta ai divanetti, stretta in un vestito che non era il suo e
si arrotolava, agitata, le punte dei capelli e li mordeva non sapendo cosa
altro fare. Erica s’annoiava nelle discoteche, ne usciva con il mal di testa e
per passare il tempo fumava sempre troppo e vomitava la pizza, perché le
Marlboro le avevano dato alla testa troppo in fretta.
Fretta
di cosa, poi? Fretta di crescere e di farsi vedere dagli altri – dagli altri
chi? – dal mondo, dalla vita che era una bastarda perché le aveva fatto
spuntare un brufolo proprio quando Matteo l’aveva salutata.
Erica lo aveva capito subito
che Michela sarebbe stata il suo grande problema, quando l’aveva vista la prima
volta. Erica l’aveva capito, nel lontano 2010, quando Michela era arrivata con
la macchina dei suoi – una Mercedes, ma allora lo ignorava – ed era scesa con
il suo bel vestitino a fiori che le nascondeva le prime forme da adolescente,
con due trecce che le scendevano lungo il busto e le davano quell’aria di finta
innocenza che le dava ai nervi. Michela aveva i capelli neri e gli occhi verdi.
Michela sembrava uscita da un libro di favole dei fratelli Grimm ed era uno di
quei personaggi belli che, alla fine della storia, avrebbe ucciso tutti quanti,
con il sorriso sulle labbra rosa e morbide.
Nonostante abitasse a Roma, nel
quasi centro, in via Cesare Beccaria, a due passi dalla stazione di piazzale
Flaminio, ogni condominio era un piccolo paese a sé stante e tutti vociferavano
dell’arrivo dei nuovi inquilini del terzo piano, di Milano, lui banchiere e lei
giornalista, coi due figli piccoli e una figlia di quattordici/quindici anni.
L’amministratore del condominio, il dott. Greschi,
era così contento del fatto che avrebbero ospitato un nuovo nucleo famigliare
unito e sano e cattolicamente eterosessuale – non come gli inquilini del quinto
piano. Michela era fintamente innocente, Claudio Morente era ignotamente bisessuale,
Marianna Cresciulo era paranoica e nevrotica, i
gemelli erano completamente diversi dai genitori e dalla sorella. Erano come la
città in cui si stavano trasferendo; erano come Roma perché erano imbarazzanti,
scostanti, allegri e solari. Erano irriverenti e avevano solo dodici anni.
Erano l’incubo di tutti e il sogno di Erica.
I Morente arrivarono di
domenica, a Roma. Il giorno peggiore in cui potessero arrivare. Erano abituati
all’ordine metodico di Milano, al traffico intelligente, alla vita tranquilla
di una metropoli nordica ed elegante. Giunsero a Roma e Michela capì che non
era mai stata fatta per l’ordine e che Roma, in quaranta minuti di traffico, le
era già entrata nel cuore con quel suo sole caldo e il venticello gentile che
proveniva dal Tevere.
Erica era convinta che Milano
le sarebbe piaciuta. Erica era sempre stata diversa dai suoi genitori
tipicamente romani, da sua sorella così espansiva e libera. Erica era una
sinfonia di Bach: noiosa per i più, sublime per gli intenditori e vecchia per i
ribelli. Erica era vecchia già appena nata, nonostante fosse nata il 29
febbraio del 1996. Era sempre stata piccola, confronto ai suoi compagni di
classe. Capelli rossicci e marroncini, occhi piccoli e coperti da un paio di
occhiali da vista troppo grandi per il suo viso, bocca dalle labbra troppo
carnose e una pelle troppo pallida per risultare affascinante. Aveva sempre
avuto il profilo perfetto per la ragazzina rapita e la madre, a dieci anni,
decise di farla salire da sola sulla metropolitana ed Erica ha sempre pensato
che desiderasse che la rapissero, per sbarazzarsi di lei e di quella sua
diversità scomoda, troppo intelligente, troppo appariscente per una ragazzina
di dieci anni che avrebbe dovuto correre dietro le foglie rosse degli
ippocastani.
Raccontami
una storia.
Il dottor Greschi,
assieme alla sua famiglia, era sulla soglia del palazzo ad attendere la nuova
famiglia. Indossava un maglioncino color carta da zucchero, sotto aveva una
camicia bianca con il colletto perfettamente stirato e la riga dei capelli neri
tendeva verso sinistra, sopra le rughe d’espressione della fronte. Sua moglie,
Maria Greschi, aveva passato l’ultima ora a lisciarsi
la gonna di ciniglia color verde bottiglia, lunga fino al ginocchio e si era
sistemata il maglioncino color crema e il filo di pelle agganciato al collo. I
suoi due figli – Augusto e Cesare – sostavano dietro le sue spalle, uno a
destra e uno a sinistra, con i capelli ben pettinati, le scarpe lucide e le
camicie stirate. I Greschi, erano una di quelle famiglie
appena arrivate con una DeLorean dal 1960. Erano
atterrati in via Cesare Beccaria giusto per un inconveniente tecnico ma tutti
sapevano che non sarebbero ripartiti così presto.
Claudio era bello, ma Erica
quando lo vide pensò che fosse una cosa sul momento, causata dalla novità che
rappresentava, ma anche Marianna, quando scese dalla macchina, era bella come
l’estate e Michela sembrava gelida e ingannatrice come l’inverno, i gemelli
erano le rappresentazioni umane di Febo.
I Morente, nonostante il cognome,
erano belli ed Erica s’innamorò di tutti loro, quando li vide sul suo stesso
pianerottolo, davanti all’appartamento 13/B, mentre scaricavano le valigie
dall’ascensore.
Il padre di Michela, aveva
luminosi occhi azzurri ed il colore dei capelli era molto simile al suo – forse
più ramato, che marrone – mentre Marianna aveva i capelli neri e lunghi, come
quelli della ragazzina dietro di lei, alta e longilinea, con gli occhi verdi e
le labbra strette in un’espressione di fastidio.
Era domenica e la madre di
Erica l’aveva mandata a comprare le paste, come sempre. Il sole di inizio
autunno entrava dalle finestre sulla tromba delle scale e mitigava il classico
freddo che faceva sui pianerottoli. Il civico 23 di via Cesare Beccaria, era
stato costruito nel classico stile della tarda Art Noveau,
che accomunava quel quartiere con i Parioli, con
Viale Buenos Aires e tanti altri sparsi per l’intera città. Il dottor Greschi arrivò, ansimando, dalle scale e si accorse solo
dopo della muta presenza di Erica sul pianerottolo.
«Buongiorno,
Erica. La mamma ti manda a comprare i bignè anche oggi?».
L’altro
gruppo, dal lato opposto del pianerottolo, aveva iniziato a osservarla con
sguardi di curiosità. Marianna le sorrideva e i gemelli avevano smesso di
rincorrersi e di farsi i dispetti. Claudio stava solo aspettando il Greschi per aprire il loro nuovo appartamento, mentre
Michela se ne stava lì, appoggiata all’intonaco immacolato e la fissava.
Avevi gli occhi verdi.
Li ho ancora, gli occhi verdi.
Ma non verdi come quel giorno.
Sua
madre, Teresa, aprì la porta del loro appartamento e fece perdere l’equilibrio
alla piccola e occhialuta Erica che, per miracolo, riuscì a non cadere dalle
scale.
«Erica
ancora non…- buongiorno Tommaso! Come mai sei salito ai piani alti?».
Teresa,
una donna tipicamente mediterranea, dai capelli castano scuro e gli occhi color
castagna, con una presenza solare e per il dottor Greschi
estremamente molesta, dato il suo modo sempre fantasioso di imprecare, varcò la
soglia dell’appartamento e calamitò l’attenzione di tutti, ai danni del Greschi che tentava di svicolare.
«Piacere,
Teresa Borghese. Sono la madre di Erica e – Silvio?! Silvio vieni: ci sono i
nuovi vicini!» urlò all’interno dell’appartamento, battendo contemporaneamente
sulla porta. «Scusate tanto ma, sapete, c’è la partita della Roma» si
giustificò, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro.
L’uomo,
dopo un paio d’imprecazioni non sufficientemente ingoiate, raggiunse il
corridoio e l’uscita, ponendosi alle spalle della moglie che sovrastava di una
ventina di centimetri.
«Silvio
Leoni» si presentò, uscendo dall’appartamento e invadendo con il suo metro e
novanta, il pianerottolo del quarto piano. «Spero che vi… - cazzo, goooool!». Silvio rientrò, di corsa, nell’appartamento.
Teresa si voltò imbarazzata, ridacchiò nervosamente, fece gli ultimi saluti e
rientrò violentemente in casa. Si sentì un rumore di porcellana rotta.
Erica,
intanto, era rimasta bloccata sul pianerottolo non sapendo bene cosa ci si
aspettasse da lei. La madre, al suo rientro, non avrebbe mangiato i bignè
perché sarebbe stata incazzata con suo marito. Suo padre lo avrebbe ritrovato
ancora sul divano a guardare la partita e lei si sarebbe ritrovata fra i due,
senza nemmeno sua sorella come supporto, visto che era andata a Bomarzo, con il
“fidanzato dell’inverno”.
«Bene»
disse Tommaso Greschi, sbattendo le mani fra loro.
«Credo che possiamo entrare, per vedere se è tutto a posto».
L’amministratore
del condominio, però, venne interrotto di nuovo dal rumore della porta del
12/B, da cui ne uscirono Silvio Leone con la testa china e una battagliera
Teresa Borghese, con le mani sui fianchi.
«Saremo
felici» iniziò Silvio, «se poi, nel pomeriggio, voleste passare per un caffè,
un tè, un amaro, una birra…».
«Non
devi fare l’elenco delle cose che abbiamo, cretino» gli bisbigliò Teresa, alle
spalle.
«Sì,
insomma… qualsiasi cosa» e sorrise, per farlo sembrare un invito più
allettante.
Marianna
attraversò il lato neutro del pianerottolo e tese la mano verso Teresa: «Anche
mio marito fa le stesse cose, non si preoccupi. Saremo più che felici di
passare, più tardi».
Claudio
portò una mano dietro la nuca e si grattò la testa, colpevole. «Anche se non
con il calcio, ma con il rugby. Una birra me la farei volentieri, dopo tutte
queste valigie».
Silvio
gli sorrise, di rimando e batté il pugno sul palmo aperto dell’altra mano:
«Verso le cinque?».
«Sarà
ottimo» gli rispose Morente.
«Erica,
fa’ in fretta con quelle paste, mi raccomando».
Ancora non ci credevi.
Non ci ho mai creduto: è diverso.
Erica
riprese il controllo di sé, annuì con forza e prese a scendere, di corsa, le
scale reggendosi al corrimano di ferro che le grattava la pelle del palmo.
Gli anni passarono e le domeniche pomeriggio
vennero raggiunte dai sabati sera, che si distesero in interi giorni e poi
settimane e mesi e infine anni. Il tempo passava, in via Cesare Beccaria numero
23, all’interno 12 e 13 di quel bel palazzo che faceva tanto Torino, e invece
era la caotica Roma, appena si girava l’angolo con Via Flaminia, dove fa capolinea
il tram – uno dei tre ancora in circolazione.
Erica, quando Michela arrivò a Roma,
frequentava il secondo anno del liceo classico, all’Ennio Quirino Visconti come
voleva la tradizione della famiglia – non Leone, ma Borghese, quella della
madre. Suo padre, ai tempi, aveva fatto un professionale, aveva studiato da
tipografo e s’era ritrovato a lavorare dentro un cantiere edile fra le polveri
e sopra i ponteggi senza protezioni. Silvio, quando arrivava la sera, faceva
fatica a prendere sonno: si alzava dal letto, andava in cucina e scostava le
tende della finestra del soggiorno che davano su via Beccaria e respirava in
silenzio, per non svegliare la moglie e le figlie. Silvio era sempre stato un
uomo ansioso, con l’obiettivo di far vivere bene la sua piccola famiglia,
voleva la tranquillità che i suoi genitori non erano mai riusciti ad
assicurargli e Silvio era cresciuto ansioso, abituato ad alzarsi dal letto e a
respirare in silenzio, per non svegliare i suoi.
Teresa Borghese aveva frequentato il liceo classico,
si era laureata in Lettere Antiche ed era diventata insegnante di greco nello
stesso liceo.
Teresa s’era innamorata di Silvio per caso, come si innamorano
sempre tutti: in gita di piacere con la sua compagnia universitaria di culi
incipriati e palloni gonfiati, in uno di quei paesi al nord della Capitale,
dall’aria bucolica e oraziana. Silvio stava al bar, con i compagni di una vita,
e il caso volle che non fosse andato all’Olimpico per la partita della Roma.
Silvio, da giovane, era bello con il suo metro e novanta d’altezza, i capelli
lunghi fino alle spalle e le mani grandi e rovinate. Teresa, nel suo diario del
1987, scrisse che aveva visto Alessandro Magno in un remoto paese e che il suo Efestione aveva passato il pomeriggio a fare il filo a Monica,
come solo i “galli ruspanti” sapevano fare.
Monica, l’Efestione
di Silvio l’aveva mollato dopo poco, mentre Teresa con il suo Alessandro ci si
era sposata – dopo tre anni di fidanzamento a confine tra Roma e Bucolic City.
Nel 1990, Teresa Borghese e Silvio Leone
convolavano a nozze nel paese di nascita di Silvio, ma sarebbero andati ad
abitare a Roma, nell’appartamento che Gianluigi Borghese aveva comprato alla
figlia. Nel 1993 sarebbe Selene e nel 1996 l’avrebbe seguita Erica, un piccolo
batuffolo avvolto nel rosa e tremante dal freddo. Erica si era annunciata da
sola, con uno dei pianti più poderosi che Silvio ebbe mai la possibilità di
sentire. Scalciò incredibilmente quando il dottore la prese in braccio e
l’affidò alle cure delle infermiere.
«È normale che faccia così?» chiese
preoccupato Silvio già dimentico, dopo soli tre anni, che anche Selene salutò
il mondo allo stesso modo.
Il
dottore l’aveva guardato con sufficienza, aveva guardato Teresa e le aveva
detto, bonariamente: «Tranquillizzi suo marito e gli dica che è così che andrà
per i prossimi nove mesi».
Teresa
aveva sorriso e aveva preso la mano di Silvio fra le sue.
Erica,
dopo aver annunciato al mondo la sua presenza, non pianse mai più.
Non
pianse quando i suoi nonni morirono, non pianse quando si ritrovò a un passo
dalla bocciatura al secondo anno, non pianse quando si accorse che sua madre e
suo padre erano in crisi per colpa del lavoro di Silvio. Non pianse quando sua
sorella smise di tornare a casa alle due del pomeriggio, né quando non l’aiutò
più con i compiti di greco perché aveva altro a cui pensare.
Erica
non pianse perché al suo fianco c’era sempre Michela Morente, i gemelli e
l’intera famiglia di Michela. Non pianse, Erica perché sapeva che Marianna
l’avrebbe sempre accolta a braccia aperte con una tazza di tè pronta per lei,
un orecchio amico che sarebbe stato in grado di ascoltare. A casa Morente,
nell’interno 13/B, non c’erano urla e piatti lanciati e porte sbattute. Al 13/B
c’era la pace, le chiacchiere conviviali, i sorrisi leggeri ed educati. Al 13/B
c’era Milano, mentre al 12/B c’era Roma ed Erica l’odiava.
Teresa
Borghese accettò il fatto che la figlia minore scappasse da casa sua – così
come lo aveva accettato per la maggiore. Teresa strinse i denti e cercò in tutti
i modi di mantenere in piedi quella famiglia in cui certe volte non credeva
nemmeno lei. Non lo faceva per Erica e Selene; lo faceva per quella ragazza del
1987 che si era innamorata di Alessandro Magno e in nome di quella
testardaggine mediterranea che l’aveva fatta sopravvivere a cinque anni di
lettere classiche. Teresa combatteva per se stessa, quando Silvio tornava a
casa nervoso per il lavoro e stanco morto dopo aver rischiato la morte anche
quel giorno. Silvio le rimproverava silenziosamente di essere una borghese con
il padre fascista e Teresa gli urlava contro che il padre fascista gli aveva
dato un tetto sopra la testa e che, se fosse stato per lui, sarebbero vissuti
in quel paese grande quanto il cesso di un russo bolscevico dei soviet. E
Silvio s’incazzava e gridava. E Teresa faceva altrettanto. Ed Erica era chiusa
in camera sua, con il vocabolario di greco aperto, che faticava a distinguere
una lettera dall’altra, una frase dall’altra, una vita dall’altra. Passava quei
momenti a chiedersi come si vivesse a Milano, dove tutto era ordinato, educato,
preciso e funzionante. Lì, sicuramente, la gente non si urlava addosso e i
piatti non volavano e i genitori non si mandavano a farsi fottere uno con
l’altro e i vicini non parlavano di loro e lei non veniva adocchiata come la
povera vittima in mezzo a due pazzi scriteriati.
Erica
odiava Roma e tutto quello che portava.
A
Milano c’era il lavoro.
Milano
era il Nord.
Il
Nord funziona bene, dicono tutti.
Milano
non è Roma, si dice, e forse è un bene che non lo sia perché lei sarebbe andata
a Milano, sarebbe fuggita da quella Roma che avvelenava gli animi e uccideva
suo padre e strozzava sua madre.
A Milano non c’è il Teatro Marcello.
A Milano non c’è il Colosseo, il Circo
Massimo, piazza di Spagna, Largo Argentina.
A Milano non ce l’hanno Campo de’
Fiori. A Milano non c’è la statua di Giordano Bruno, i gatti randagi fra le
rovine, le vecchiette fuori le porte, i vicoli bui e via della Conciliazione.
A Milano non c’è Roma.
A
Milano non c’era Roma; ed ecco perché Erica non sarebbe mai fuggita. Ecco
perché quella quindicenne con gli occhiali spessi, con il libro da leggere
nello zaino e i soldi nel portafoglio non avrebbe mai comprato un biglietto per
vedere Milano, per fuggire da quel caos sporco e da quel rumore di piatti
infranti.
La sua
Milano era casa Morente e a lei bastava.
In
casa Morente si mangiava il sushi e il kebab, si beveva il tè nero e la
coca-cola. Casa Morente era buddhista e cattolica, agnostica e islamica. Si
parlava di Marx e si ricordava il Duce, si venerava
Newton e si leggeva Nostradamus. Casa Morente era cosmopolita e bucolica.
«L’hai
fatta la versione di Sallustio?».
Erica
sbatté gli occhi e distolse lo sguardo dalla finestra, portandolo su Michela,
seduta accanto a lei, nella cucina di casa sua. Teresa era uscita mezz’ora
prima, per andare a fare la spesa, di Selene non c’era ombra da quella mattina
alle sei.
«Non è
per giovedì?».
«E tu
vorresti farmi credere che ancora non l’hai fatta?» rispose l’altra,
maliziosamente e con il sopracciglio nero arcuato verso l’alto. Erica l’aveva
fatta la versione, ma non sapeva se passarla o meno a Michela. La
ragazzina c’aveva messo ben poco a capire che la coetanea dirimpettaia, che
dimostrava dieci anni per colpa di quegli occhi scuri troppo limpidi, era la
classica ragazzina che studiava tanto, che amava farlo perché piangeva dietro
alle storie raccontate dai tragediografi greci e rideva di gusto con le
commedie dei latini. Michela la sfruttava ed Erica se ne rendeva conto, ma
amava la sua voce, il suo naso che puntava all’alto, gli occhi verdi di malizia
e le labbra rosa e disegnate. Erica la sognava di notte e si sentiva strana,
quando succedeva. Erica si svegliava di soprassalto e respirava in silenzio,
per paura che sua madre la potesse sentire – che Michela potesse sentirla,
oltre le pareti, oltre le scale, oltre il pianerottolo. Erica sognava le dolci
forme di donna di Michela e si scoprì, un po’ alla volta, e si toccò, un po’
alla volta, immaginando che fosse Michela a farlo con le sue mani, che le punte
dei capelli che le sfioravano i capezzoli scoperti fossero neri e che le luci
che vedeva, alla fine, fossero i suoi occhi.
«Perché
mi guardi così?».
«Non
ti sto guardando in nessun modo» le rispose, in fretta, Erica. Prese il
quaderno dallo zaino e glielo passò, con noncuranza. «L’ultima versione è
quella del BellumIughurtinum.
Ti consiglio di cambiare qualche parola, altrimenti è troppo palese».
Michela
sbuffò. «Ovviamente lo avrei fatto, Ery. Non è la
prima volta che mi faccio passare una versione». E la guardava con malizia, mentre
glielo diceva, si scostava i capelli dal collo e continuava a guardarla mentre
si umettava le labbra con la punta della lingua. Erica deglutiva la saliva, la
gola era carta abrasiva e il fiato era fuoco. Michela sapeva, si diceva in quei
momenti. Michela sospettava e la stava punendo, altrimenti non avrebbe mai
fatto così. Michela non era amica sua, altrimenti non l’avrebbe torturata con
la cosa che desiderava di più.
Michela
era una puttana, a soli diciotto anni. Tutti lo sapevano, tutti lo dicevano.
Michela aveva aperto le gambe la prima volta che era piombata fra le mura del
Quirino Visconti, con i capelli intrecciati e la gonna ad altezza ginocchio.
Erica, alle spalle, l’aveva osservata ancheggiare e l’aveva invidiata perché
lei non c’era mai riuscita. Erano passati due anni, da quel primo giorno di
scuola di metà ottobre ed Erica era cresciuta.
Portava
ancora gli occhiali, aveva salutato con gioia l’avvento delle felpe nel suo
armadio, dei jeans larghi e sformati, dei capelli rasati sopra l’orecchio
sinistro e quel tatuaggio che si è fatta di nascosto con Michela, la scorsa
estate.
Erica
continuava a stare con Michela per colpa del 13/B e dell’aria che respirava
all’interno. Teresa aveva lasciato Silvio, in quei due anni. La casa era la sua
e lui era tornato a vivere al suo paese, con la nomina di “cornuto” e tutti lo
prendevano per il culo alle spalle, mentre gli aprivano la porta di casa e
ascoltavano le sue prediche da troppa birra. Il padre, in quei due anni, s’era
lasciato andare ed era completamente sparito dalle loro vite. Selene aveva
fatto lo stesso. Teresa non aveva pianto, ma aveva continuato a correggere le
sue versioni.
«Cristiano
mi ha chiesto di uscire, sabato».
Erica
sorrise, alzando amaramente un lato della bocca e stirando le labbra. «Sabato
dovevamo andare al cinema».
L’altra
sbuffò, come suo solito, mentre raccoglieva le sue cose e le infilava nello
zaino. «Ti avevo detto che non ne ero sicura, se ti ricordi».
«Io mi
ricordo, Michela. E mi ricordo che mi avevi promesso una serata al cinema, solo
io e te».
«Erica!»
esclamò duramente Michela, interrompendosi e guardandola negli occhi, «non
iniziare a cagare il cazzo con la storia del cinema, del “solo tu ed io”
perché, giuro, stavolta mi incazzo».
«Ah,
tu ti incazzi?» disse Erica, quasi urlando e puntandole l’indice contro. «Io mi
dovrei incazzare, che stai sempre con quella troia di Giada e io vengo usata
solo per le versioni, le interrogazioni e qualsiasi altra cosa di poco conto
per te!».
«Non
osare dirmi una cosa del genere, Erica! Lo sai che è una cazzata! Lo sai anche
tu, mentre lo dici». Michela mulinò di nuovo i capelli, che le finirono dietro
una spalla.
Erica
aveva fatto il giro del tavolo, le stava addosso. Le aveva messo le mani sulle
spalle e tentava di guardarla negli occhi, anche se una goccia di sudore freddo
le stava facendo bruciare quello destro. Sentiva il cuore battere forte, le
ciglia fremere e il respiro accelerato di Michela sulle guance e poi la lingua
di Michela che umettava le labbra, quegli occhi pieni di malizia da puttana del
Settecento con la voce roca e il seno imbellettato.
Tutti
avevano toccato Michela, tutti l’avevano avuta e nessuno l’aveva amata.
Lei,
invece, Michela l’aveva venerata da lontano, amata, confortata e aiutata nei
momenti di bisogno, quando lo stronzo di turno aveva smesso di giocarci e lei
che pensava fosse il vero amore c’era rimasta di merda. Erica c’era sempre per
Michela, mentre Michela l’abbandonava sempre solo perché non aveva un pene fra
le gambe.
Erica
le aveva stretto le spalle e doveva averle fatto male, perché Michela aprì la
bocca ed Erica non ci capì più niente se non che l’aveva baciata, che sentiva
la sua lingua sul palato e che giocava con la sua. Le mani aperte di Michela
sulla sua schiena e una gamba fra le sue, prepotente, a sfregarle il sesso e a
costringerla a respirare a bocca aperta.
Michela
sapeva farci, che fosse uomo o donna.
Erica
non sapeva cosa fosse, ma lo faceva bene.
Michela
portò una sua mano sul petto di Erica, lo prese forte, le sfregò il capezzolo
già ritto sotto il reggiseno.
Poi,
il cellulare suonò forte e la voce di Nicki Minaj si espanse prepotente.
Michela si scostò, con ancora un filo di saliva ad unire le loro bocche. I suoi
occhi verdi non avevano più malizia, le sue guance erano arrossate, le sue mani
ancora strette addosso a Erica e poi tutto le piombò addosso.
«Non
toccarmi!».
«Eri
tu che stavi…».
«Non
osare… lesbica!».
«Se
doveva essere un insulto-».
«Mi
fai schifo!».
E
Michela sputò.
E il
mondo finì.
E la
porta sbatté.
Ed
Erica morì.
Un
giorno.
Due
giorni.
Un
mese.
Sei
mesi.
Un
anno.
Quegli occhi verdi nascondevano il
balsamo per eludere i sogni – Luis Sepúlveda,
Diario di un killer sentimentale
Aveva puntato i piedi, nel 13/B, aveva urlato
addosso a suo padre e sua madre, aveva spinto uno dei gemelli contro il mobile
del salotto facendogli sbattere la testa e si era chiusa in camera sua. Michela
voleva tornare a Milano, con o senza di loro, perché odiava Roma, odiava la
gente, il traffico, la puzza, il tempo, le piazze, Erica. Michela pretendeva,
con il suo naso all’insù e le camicie ben stirate. Michela, con i suoi capelli
neri sempre ordinati, la borsa al braccio e le scarpe lucide, pensava di poter
governare il mondo perché glielo avevano fatto credere. Il mese dopo scappò a
Milano, tornò da sua nonna, che avvelenata diede tutta la colpa a sua nuora – a
quella comunista – e le disse che se il suo Claudio avesse sposato la Monferretto, come da programma, tutto ciò non sarebbe mai
accaduto. Michela si ripromise, sul treno diretto Roma-Milano, prima classe, wi-fi e aria condizionata, che Roma non l’avrebbe più
rivista. Erica, nei suoi piani, non avrebbe mai dovuto fare quello che aveva
fatto. Erica aveva esagerato, si era detta. Perché le cose non potevano
rimanere così? A cavallo fra l’amicizia e quel qualcosa in più che tanto faceva
paura. Perché non potevano essere normali – perché Erica non era normale.
Erica e il 12/B, le disse il mondo onirico,
le sarebbero mancati. Quel caos tipicamente romano, quegli orari che non
coincidevano mai, quelle cene consumate in fretta e quei pranzi sotto casa con
un kebab o con quei cartocci di patate fritte e salse sconosciute.
Erica le sarebbe mancata e non era solo per
le versioni. Michela era una vergine sentimentale, lo sapeva, e non era mai
riuscita a farci niente. Erica non era a conoscenza del bene che le voleva,
perché aveva fatto in modo che non lo scoprisse mai perché con i suoi occhi
color cioccolata e quei capelli rossicci, Erica le avrebbe fatto del male.
Erica avrebbe rivelato al mondo che lei non era forte, che non era capace a
fare la puttana come Giada, che voleva solo tanto affetto e amore e coccole e
serate passate a guardare film brutti sotto un plaid. Erica le aveva dato tutto
quello. Erica le aveva aperto la porta di quella Roma di cento metri quadrati
calpestabili e le aveva dato i film dell’orrore che non facevano paura, fette
di pizza e popcorn al burro sotto un plaid e Michela si era innamorata. E
Michela aveva avuto paura perché Erica anche a quindici anni sarebbe stata
pronta a donarsi per un sentimento che non conosceva, che non aveva letto
perché non viene pubblicizzato. Michela l’aveva capito subito di essersi
innamorata e non poteva permetterselo. A quindici anni con una ragione
inesistente e una maturità fetale, Michela pensava di non essere fatta per
amare qualcuno, per avere una relazione.
Michela pensava che nessuno sarebbe
mai arrivato ad amarla veramente finché non incrociò lo sguardo Erica durante
una normale mattinata pre-autunnale del loro ultimo anno di liceo. Si era resa
conto che Erica la stava fissando, la stava disegnando senza staccare gli occhi
dal suo volto e non lo faceva con insistenza, non la infastidiva il fatto che
lo stesse facendo, che la stesse imprimendo sulla carta bianca. Michela si
sentì importante. Michela percepì tutto l'amore che Erica avrebbe potuto
donarle, se solo si fosse voltata di scatto e avesse interrotto il rumore costante
della mina contro il foglio bianco. Erica lo lasciò in bianco e nero, quel
disegno. Il ricordo di come i capelli che erano sfuggiti dallo chignon le
sfiorassero la nuca, le ombre, che il sole autunnale entrando dalla finestra
alla sua sinistra, le disegnava sullo spicchio di volto che riusciva a vedere
da quella angolazione. Le spalle piccole e dalla linea dolce, coperte dal
maglione color vinaccia di uno dei gemelli e la sua mano, con le dita sottili
da musicista, che sostava pigra nell’incavo del collo.
Michela, con Erica si sentiva incredibilmente
amata.
Michela, con Erica si sentiva al sicuro.
Michela non poteva permettersi così tanta
felicità, perché non se la meritava. Era nata infelice e non poteva corrompere
l’altra, così piccola, così nuova all’amore, così ingenua.
Era fuggita, quindi.
Aveva preso un treno e non aveva guardato in
faccia i suoi genitori, quando se n’era andata. Marianna, il giorno dopo, era
andata a trovare la piccola Erica e le aveva stretto le mani fredde, con le
unghie mangiate e le aveva detto che non era colpa sua ed Erica le aveva
confessato che si era innamorata della figlia, di essere lesbica, di essere
sbagliata e di averla fatta fuggire.
Marianna le aveva solo stretto più forte le
mani e Teresa, appoggiata al lavandino della cucina, le guardava, non sapendo
cosa dire. Erano giorni che Erica piangeva, non mangiava e non si dava pace per
ciò che aveva fatto. Teresa si aspettava che prima o poi la figlia minore si
sarebbe innamorata, ma perché proprio Michela.
Il problema non era che fosse una ragazza. Il
problema era Michela Morente. Era ciò che rappresentava, ciò che significava
per la sua piccola bambina che nasceva ogni quattro anni e che era talmente
piccola da non aver ancora capito la vita e aveva capito fin troppo bene
l’amore.
Passerà,
le aveva detto.
Deve
passare, le aveva risposto Erica.
E c’era riuscita.
I giorni finivano, le settimane si
accumulavano, i mesi cambiavano e le stagioni, l’armadio, la vita le passò
sotto le dita e arrivò giugno e gli esami di maturità. Marianna smise di
mentirle sullo stato di Michela ed Erica non chiese più quelle bugie. Claudio
si fece sempre più silenzioso e Silvio tornò nelle loro vite. I gemelli
scelsero di arruolarsi e Selene rimase incinta e fece adottare il bambino che
non voleva, perché era stato un incidente e lei aveva altro a cui pensare.
Anche Erica, con il tempo, ebbe altro a cui pensare. A ottobre iniziarono i
corsi di Filosofia, la facoltà che aveva scelto, un po’ a scatola chiusa, un
po’ perché doveva impegnarsi il cervello con le fisime degli altri per non
pensare ai drammi che si portava dietro e che le pesavano sul cuore.
A novembre iniziò anche ad uscire con qualche
ragazza. Un paio di drink, le classiche pomiciate sul lungotevere, qualche
uscita di pomeriggio e poi ci si lasciava perché tra due ragazze non ci si
poteva mentire a lungo.
Stava sempre in Cesare Beccaria.
Sempre al 12/B, al quarto piano.
Abitava da sola nella casa che nonno
Gianluigi aveva lasciato alla figlia, perché la madre era partita con l’ex
marito alla volta della Thailandia, per riscoprire
loro stessi, la loro fisicità e la loro spiritualità.
Era dicembre da una sola settimana, aveva
tirato fuori l’albero di natale di plastica dallo scatolone solo per dare più
allegria all’ambiente ma non ci credeva veramente. Erano le due della mattina
dell’otto dicembre e lei stava addobbando l’albero perché non riusciva a
prendere sonno dato che i gemelli erano tornati per un paio di giorni ed
assomigliavano incredibilmente a Michela. Erano cresciuti e avevano i suoi
occhi. Tutti e due. L’avevano guardata e lei si era sentita poco bene e aveva
chiesto scusa a Claudio e Marianna ma la mattina successiva si sarebbe dovuta
alzare presto per andare in facoltà.
È
festa domani, Erica.
Il
gruppo di studio…
Non
riposerai mai, così.
Non
posso fermarmi.
Non adesso che sembra tutto normale.
Era tardi e lei era seduta a terra, contro il
divano, illuminata solo dalle lucine dell’albero. Era tardi quando il telefono
decise di squillare e vibrare contro il piano del tavolino da caffè.
Era tardi quando rispose alla chiamata di un
numero sconosciuto ed era tardi quando sentì la sua voce, che le chiedeva di aiutarla e di fare presto.
«Pronto?
Pronto, chi è?».
«…Sono
io…».
«Credo
che abbia sbagliato numero, signora».
«Erica,
sono Michela».
**Angolo autrice**
Potete
accusarmi di essere cattiva, ve lo concedo. E' molto tempo che non
aggiorno e dispiace molto anche a me ma... in quanti stavate aspettando
questo capitolo? In quanti pensavate che sarebbe finita oggi? E invece
no, perché tanta acqua deve passare sotto i ponti e non vedo
l'ora di farcela passare.
Tre parole appena sussurrate
con un forte rumore di fondo, frusciante, caotico, disturbante, sbagliato. La
voce di Michela si era fatta spazio cavalcando sinapsi elettriche e andando a
toccare nervi che pensava di aver nascosto alla vista, strappato via e gettati
sotto un antico tappeto persiano.
Erica,
sono Michela.
Si era alzata di scatto dal
pavimento ed era rimasta nel bel mezzo del salotto, con le felici lucine di
Natale ad illuminarle la figura, in quella notte di immacolate concezioni e
confusione. Subito le aveva attraversato la mente il pensiero che fosse uno
scherzo da ubriachi, un gioco di cattivo gusto, un modo per prendere il suo
cuore distrutto e immergerlo nel sale, ancora sanguinante e lo sentiva bruciare
nel petto, cattivo e amaro. Lo sentiva seccarsi e ingiallirsi.
«Che
è successo?» le aveva chiesto deglutendo forte. Si era portata una mano alla
fronte e poi in mezzo ai capelli, si era grattata la nuca e si sentiva nervosa,
sudata, bagnata, emozionata.
Silenzio,
dall’altra parte.
«Sei
ancora lì?».
«…Sì,
ci sono».
«Perché
mi hai chiamata, Michela?».
«Ho
fatto una cazzata, Erica».
Come
sbagliarsi, infondo.
Michela
l’aveva sempre e solo chiamata perché faceva cazzate, non per sentire come
stava. Michela correva a bussare alla porta di casa sua quando litigava con i
genitori, quando doveva lamentarsi dei gemelli, mai per sapere come stava
Erica, se voleva giocare, se le andava di uscire per farsi un giro, per andare
da Star Shop che non c’era mai stata, per fare qualsiasi cosa. Quella era
Erica.
Era
Erica che andava da lei, bussava timida alla porta del 13/B e chiedeva, giocando
con la punta delle scarpe, se Michela fosse in casa e se le andasse di uscire a
prendere un po’ di sole, a giocare con le foglie cadute dagli ippocastani, a mangiare
cioccolata da Castroni.
Qualsiasi cosa, Michela, qualsiasi cosa.
Claudio
le sorrideva, le carezzava una guancia e le diceva che Michela era già uscita,
che era venuta a prenderla qualche ragazzina di cui Erica dimenticava
immediatamente il nome, perché non importava, non veramente. Michela era uscita
un’altra volta e non le aveva chiesto niente perché non aveva litigato con
nessuno, non aveva puntato i piedi e nessuno le aveva detto di no. Allora, lei
ringraziava Claudio e lui per tirarla su di morale le dava un nuovo classico
che aveva acquistato, per farlo leggere prima a lei e per ascoltarne il
responso perché dentro il 12/B, Silvio non leggeva e Teresa, alla sera, era
troppo esausta anche per ricordarsi il nome. Erica ringraziava cercando di sorridere
un po’ di più, Claudio le sorrideva di rimando, sempre un po’ mesto, e sembrava
chiederle di lasciar perdere ma lei non sapeva cosa le facesse Michela, per
presentarsi al 13/B tutti i giorni, per bussare alla porta e per chiedere se
Michela ci fosse.
Si
era diretta verso il frigo, l’aveva aperto e aveva afferrato quella bottiglia
di birra che non aveva bevuto per cena. Si era seduta sul divano e aveva
aspettato che Michela la finisse di respirare e basta contro la cornetta, che
iniziasse a parlare davvero, a dirle come mai la sua vita stava andando di
merda ed Erica si stava preparando ad ascoltarla, ad inghiottire tutto quel
vomito che avrebbe dovuto gettarle addosso. Erica era stanca, ma amava Michela
e nemmeno dopo un anno di silenzio, di lontananza, di male e di lacrime sarebbe
riuscita a chiuderle il telefono in faccia e…
«Non
so da dove cominciare».
«Io
non ho capito perché hai chiamato me».
«Perché
tu non hai ancora attaccato».
E
non l’avrebbe mai fatto, si dice.
Erica
sospirò ed incrociò le gambe sul divano, posò la bottiglia di birra sul
tavolino e chiese a Michela di cominciare da cinque minuti prima, quando stava
componendo il numero per chiamarla.
Michela,
quella sera, aveva preso qualcosa in discoteca ma non riusciva a ricordarsi
cosa. Era una notte come un’altra, con quella sua compagnia di amici che non
erano realmente amici e che pretendevano di conoscerla e lei non voleva sapere
nulla di loro. Michela aveva passato un intero anno in quella maniera. Aveva
sostenuto gli esami di maturità da privatista, si era iscritta a tempo perso in
università e passava le serate a distruggersi il cervello, a farsi scopare da
ragazzi che non contavano niente e a farsi dare della puttana da sua nonna, che
lei mandava a farsi fottere per poi chiudere la porta con violenza. Marianna e
Claudio la chiamavano poco perché Michela non rispondeva, i gemelli erano
scomparsi e lei faceva finta che la vita andasse avanti, mentre era ferma
sempre allo stesso punto.
Michela
sentiva il bisogno di fermarsi, ma la vita continuava a scorrerle via dalle
dita e un anno intero aveva buttato via, mentre si lasciava trascinare dagli
eventi. Michela aveva bisogno di qualcuno che le dicesse che non era colpa sua,
era degli altri che non la capivano perché lei era troppo speciale per il mondo
nel quale si era ritrovata a vivere. Quello, però, era sempre stato il compito
di Erica e lei aveva interrotto i contatti con l’unica persona che sembrava
volerle bene davvero.
«Michela,
sono finiti i tempi in cui venivo a rincorrerti per sapere come stai» le
confessò stancamente Erica, lanciando un’occhiata sfuggente al cielo sereno.
«Volevo
solo sentire la tua voce, Erica» rispose l’altra, dall’altro capo d’Italia.
Michela
si era allontanata dalla discoteca, stava cercando le chiavi della macchina in
quella borsa piccolissima dove era impossibile perdere le cose perché non
c’entrava niente. Cercava di sorreggersi all’intonaco sporco e dipinto mentre
provava ad articolare le parole che le vorticavano nella testa, sempre loro,
sempre presenti. Quelle cose che avrebbe voluto chiedere ad Erica quando era il
loro tempo, quando l’altra glielo avrebbe permesso senza remore. Michela lo
sapeva che Erica l’avrebbe ascoltata comunque, ma sapeva che non sarebbe stato
come prima.
«Torno
a Roma, Erica. Sto andando alla stazione a prendere il notturno e…».
Michela le aveva mandato un
paio di messaggi da che era partita da casa sua per accertarsi che Erica non
avesse avvisato i suoi genitori, ma Erica lo sapeva che non avrebbe dovuto
farlo e aveva preferito seguire il suo istinto, lasciando dormire gli affittuari
del 13/B. Era uscita in fretta, un’ora dopo la chiamata di Michela, e aveva
preso la prima corsa della metropolitana da Flaminio, per raggiungere la
stazione Termini. Erica aveva preso la patente con fatica, ma non aveva più
guidato da allora perché aveva il terrore delle strade romane, della gente, del
traffico e dell’imprevedibilità del guidatore medio.
Era salita sulla metro, quindi,
ricordandosi che Roma, quel giorno, cambiava faccia perché sarebbe iniziato il
dannato Giubileo che le impediva di viaggiare tranquilla con tutti quei
militari che avevano l’effetto contrario su di lei, quella sicurezza ostentata,
quel leggero sentore di panico che accumunava i più sensibili che si
ritrovavano a guardarsi ogni volta che incrociavano lo sguardo di uno di quei
militari col fucile spianato.
Aveva deciso di vestirsi solo
perché avrebbe dovuto attraversare mezza stazione per rivedere Michela, ma
aveva ancora i capelli devastati da due giorni di incuria e le occhiaie viola
per quelle nottate di studio senza sosta. Ma per Michela questo e altro, e lo
sapeva.
Non aveva mai visto la stazione
così vuota. Alle sei della mattina non c’era davvero nessuno e dire che i treni
non avevano smesso un attimo di arrivare e ripartire sempre con qualche
viaggiatore a bordo. Se lo doveva aspettare che la fuga di Michela non sarebbe
durata in eterno. Michela non era fatta per i “per sempre”. Michela era incline
ai “per un po’ di tempo”, “prendiamoci una pausa”, “la prossima volta andrà
meglio”. Perché Michela ha paura di chiudere. Ha paura di chiudere qualsiasi
cosa; che siano relazioni umane, un libro appena finito, una conversazione.
Michela ha il terrore di apparire scortese, finendo di sua sponte qualcosa.
Michela vive nel terrore degli sbagli e nemmeno questa sua nuova partenza verso
Roma durerà in eterno, Erica lo sa mentre fissa il tabellone degli arrivi e
vede comparire il treno da Milano. E allora Erica non corre, perché sa che non
durerà affatto. Erica non corre perché è cresciuta e sa che verrà delusa di
nuovo, solo perché ha allungato la mano verso Michela, di nuovo.
Storia vecchia.
Capitoli già letti.
Trama desueta.
Michela,
probabilmente, si era cambiata nel bagno del treno perché non sarebbe mai
andata in discoteca con una tuta sformata e il trucco sbavato. Aveva pianto sul
treno, in quelle tre ore di vuoto e silenzio mentre tornava alle origini e
sapeva di aver sbagliato ancora una volta. Lo sa anche Michela, Erica glielo
legge negli occhi, che è solo provvisorio, momentaneo.
Michela
era provvisoria e momentanea.
Michela
ed Erica erano provvisorie e momentanee.
Erica
alza un mano e l’agita, per farsi vedere ma Michela l’ha già vista, la sta
guardando, ma non l’ha ancora salutata perché vuole godersi la visione di Erica
con quei capelli color noce moscata/marroni/rossicci, quell’aria da
menefreghista sociale e quel corpo da ragazzina cresciuta troppo in fretta.
Michela ama la figura di Erica. Michela ama Erica ed essere scesa a patti con
questa cosa, nel momento stesso in cui l’ha vista di nuovo dopo un anno e un
mese di distanza, non le fa più trattenere il fiato e sobbalzare lo stomaco.
È
rassicurante sapere di amare Erica.
È
rassicurante sapere di non amare più Michela; lo realizza nell’attimo stesso in
cui alza la mano e l’agita per salutarla. Michela continua ad essere bella,
come lo è sempre stata con i suoi capelli neri come l’inchiostro e gli occhi
verdi come il veleno. Stretta in quella tuta da ginnastica che comunque le
mette in risalto le forme, il trucco sbavato e rovinato, gli occhi lucidi di
pianto e il naso rosso per lo sbalzo termico, Michela è comunque bellissima ma
Erica crede di non amarla più come prima.
Erica
non sente più quel fuoco prepotente e distruttivo dentro che le impediva di
stare nella stessa stanza di Michela e non guardarla mentre arrotolava una
ciocca di capelli attorno all’indice.
«Non
sei cambiata per niente» le sussurra Michela, a poca distanza dal suo naso. Ha
il respiro freddo.
«È passato solo un anno» le risponde
Erica, trattenendosi dal toccarla. Michela lo nota e prende la mano di Erica
abbandonata lungo il fianco e la stringe forte, le bacia il dorso ed Erica si
costringe a non baciarla, a non saltarle addosso per sentire il corpo nervoso
di Michela contro il suo.
«Ti
si legge ancora tutto in faccia, Erica».
«Puoi
biasimarmi, forse?».
«No.
Non stavolta».
E
quando è Michela a baciare Erica, il mondo sembra fermarsi ed Erica realizza
che erano tutte cazzate perché Michela non è provvisoria.
Lei
accanto a Michela è per sempre. Questo loro contatto nuovo e vecchio come il
mondo, come l’uomo, come la vita, come la religione, come Dio è incredibilmente
giusto perché, altrimenti, gli uomini non ci avrebbero pensato a baciarsi e a
trovarlo fottutamente giusto ed eccitante. La lingua di Michela contro il suo
palato, le sue mani che stringono il maglione e se le sente sulla pelle della
schiena. Il respiro irregolare nella bocca, contro gli zigomi e poi sugli
occhi, quando glieli bacia e le chiede perdono in quella stazione Termini mezza
vuota.
E
quando è Erica a staccarsi da Michela, a riprendere fiato per prima, vede solo
le verdi paludi profonde che sono gli occhi dell’altra e si chiede come abbia
fatto a raccontarsi tante cazzate durante quell’anno passato a sentirsi
incompleta e infelice. Quando vede la sua bocca tumida e si chiede come cazzo
hanno fatto a finire in quella situazione, di nuovo. E improvvisamente hanno
senso anche i pomeriggi interi passati in facoltà a studiare senza capire, ad
ammazzarsi per rincorrere autobus e farsi spintonare sulla metropolitana. Con Michela
tutto acquista senso ed Erica si maledice e si benedice, si uccide e risorge
fra le braccia esili ancora strette attorno alla sua vita.
«Parlami»
la implora Michela, rincorrendo il suo sguardo di corteccia e terre umide. Ed Erica
rimane in silenzio, le accarezza la linea della mascella e va a morire nella
piega del collo, dietro l’orecchio, fra i capelli neri legati di fretta. La guarda
negli occhi e vede la tristezza, la gioia e l’infinito nelle iridi di veleno.
«Lo
sento che vuoi chiedermi qualcosa, Erica».
Abbassa
lo sguardo e guarda il loro abbraccio, senza parlare, per paura che possa
finire tutto, che possa svegliarsi da un momento all’altro e rendersi conto che
quello è stato solo un incubo bellissimo che le avvelenerà la mente perché ha
il colore degli occhi di Michela.
«Perché?».
Perché sei andata via. Perché sei
tornata. Perché vuoi farmi del male. Perché vuoi farmi sperare. Perché mi
abbracci. Perché mi baci.
Perché adesso e non quando ne avevo
bisogno.
Perché Michela.
«Perché
no».
Perché non dovrei farti del male.
Perché non dovrei farti bene. Perché non dovrei baciarti. Perché non dovrei
abbracciarti e sentirti dentro, fuori, ovunque.