II
What Happened?
“Il bambino è cresciuto
Il sogno è finito
E io sono diventato piacevolmente
insensibile”
“No, non ce la faccio”.
È colpa del traffico, dell’affollamento di macchine disordinato su e giù per la
strada, dei rumori – roboanti giganteschi rumori che rimbalzano nella mia testa
– e soprattutto della paura. Cosa dovrei fare, lì dentro? Maisie si agita
nervosa nella cintura, io rientro in auto e sbatto la portiera abbastanza forte
da comunicare le mie intenzioni: voglio andare via da qui e voglio andare via
subito. Papà e zio Mike ricambiano il mio sguardo, oltre il finestrino chiuso.
Vi prego, vi prego, portatemi via da qui. Papà lancia un’occhiata allo
zio, un ‘te l’avevo detto’ silenzioso, sconsolato, e fa per tirare fuori dalla
tasca le chiavi della macchina. Zio Mike lo ferma, posandogli una mano sulla
spalla, poi mormora qualcosa, voltandosi in modo che io non possa capire. Papà
scuote la testa, si allontana trascinando i piedi su per il marciapiede, fino a
fermarsi a una certa distanza: solo allora lo zio entra in auto, prendendo posto
davanti a me. Ci guardiamo per qualche minuto, senza parlare, mentre le mie
gambe tremano così forte da far vibrare l’abitacolo. Me ne accorgo ma non riesco
a fermarle e questa cosa mi fa così tanta rabbia, mio Dio… non ho più la forza
sufficiente neppure per questo?
Occhi negli occhi, io e zio Mike combattiamo una guerra mentale per la quale
avrei bisogno di tutta la sobrietà del mondo. Appena distolgo lo sguardo, lui
affonda il colpo decisivo.
“Devi farlo per lui” dice.
“Non ce la faccio”.
Vorrei spiegargli davvero come mi sento ma esprimermi è sostanzialmente
impossibile, con questa pietra che sembra aver trovato casa nella mia gola.
“Lo capisco, sul serio. So cosa vuoi dire”.
“CAZZO NON LO CAPISCI”.
Sto urlando. Quando me ne rendo conto, serro le labbra e ci premo sopra una
mano. Lo zio abbozza un sorriso comprensivo: non sembra spaventato né
arrabbiato, solo molto dispiaciuto. Passa le dita tra i capelli lunghi, raccolti
in una coda molle e disordinata, poi si siede di traverso nella poltrona
passeggero, appoggiando la schiena alla portiera chiusa e sistemando i piedi sul
sedile di papà. Ha le gambe lunghe e magre, le tiene piegate, i tacchi dei
camperos infilzati nel cuscino, nella precisa posizione che papà odierebbe,
quella che non mi è mai stato permesso di imitare.
“Quando tuo padre mi ha ripescato, ero finito” dice, allungando la mano tatuata
verso di me “è venuto a prendermi in uno schifo di appartamento che dividevo con
della gente uguale a me, in un momento pessimo. Il tempismo non è mai stato il
suo forte, te lo concedo”.
Lo zio mi sorride, scoprendo la finestra buia che sostituisce il canino
mancante. Cerco di riprendere a respirare normalmente, la mano ancora premuta
contro la bocca. Non ho mai sentito questa storia.
“Ero così in botta che mi ero fatto tutto addosso, me ne stavo in un materasso a
rotolarmi nella mia stessa merda con la bava alla bocca. È così che mi ha
trovato, te lo immagini? Tuo padre non sa neppure cosa vuol dire rollarsi uno
spinello… dannazione…”.
Lo zio sospira e abbassa la testa, interrompendo il racconto. Quando torna a
guardarmi, le lacrime gli hanno velato gli occhi con un sipario lucido.
“Mi pento ancora oggi di avergli procurato quel dispiacere. Non era la prima
volta, sai, aveva fatto diversi tentativi, con me, anche dopo aver sposato tua
madre. Ma quel giorno, in quel momento… lui avrebbe potuto decidere di avermi
perso per sempre. Invece mi ha avvolto in una coperta, mi ha portato a casa, mi
ha lavato pezzo per pezzo. Non si è mai lamentato, non mi ha mai umiliato. Non
puoi ricordare, eri troppo piccola, ma lui si alternava tra te, la mia
disintossicazione e le terapie di tua madre. Lei era già malata. Si è preso cura
di tutti noi ed è per questo che il mio culo è ancora qui”.
Scuoto la testa, porto le mani dietro il collo, le gambe ancora percorse da
scosse violente.
“Non farmi questo, zio…” lo imploro.
“Lo devo fare, tesoro. Scusami ma non te lo posso permettere. Devi scendere da
qui ed entrare là dentro: ti ci porterò in braccio se sarà necessario. E se
vorrai dopo potrai spararmi un colpo in faccia con il tuo giocattolino” la voce
di zio Mike è sempre calma ma le parole sono affilate come rasoi “Ma ora non ti
permetto di tornare a casa. Devi fare il primo passo e lo devi fare per lui. Tu
sei la cosa più preziosa che ha”.
Oltre il suo profilo, la sagoma di papà si staglia contro un cartellone
pubblicitario immenso, che sembra quasi ingoiarlo. Se ne sta con la faccia
rivolta all’insù, verso la modella diafana che lo scruta dall’alto, e sembra
rivolgerle una domanda muta: la risposta sono le sue spalle piegate, il modo in
cui pare rimpicciolirsi ogni istante un po’ di più. In un solo momento, vorrei
poter sparire senza neppure essere mai esistita o avere la forza di fare
qualcosa per tornare a essere la bambina che lui vorrebbe con sé.
“Adesso io ti accompagnerò lì dentro. Poi ti aspetteremo qui tutto il tempo che
sarà necessario” spiega lo zio, pacato.
“Non posso entrare, non so… nemmeno cosa dire…” mormoro, inciampando nelle
parole.
“Magari non dovrai dire niente, almeno provaci, sarà già qualcosa”.
Non mi dà il tempo di replicare. Schizza giù dalla macchina con un saltello e
spalanca la mia porta.
“Forza” dice, porgendomi una mano.
La afferro, mentre realizzo di essere bagnata di sudore freddo dalla testa ai
piedi, e mi lascio trascinare fuori. Il panico mi attorciglia lo stomaco in un
nodo, non guardo né a destra né a sinistra mentre permetto allo zio di portarmi
dove vuole, cioè sugli scalini che conducono all’ingresso dello stabile. Il
posto l’ha trovato papà attraverso una sua conoscenza, come mi ha spiegato
nemmeno mezz’ora fa: una specie di centro sociale abusivo che offre terapie di
gruppo gratuite alla gente come me, i soldati che hanno fatto qualche stronzata.
Quando superiamo l’entrata non c’è nessuno ad accoglierci, l’androne è deserto e
fatiscente, un tavolo in laminato è sistemato contro il muro di destra, accanto
c’è una porta chiusa e poi le scale. Un foglio scritto a mano è attaccato alla
parete con lo scotch, pende tutto da una parte. Zio Mike si avvicina e decifra
la calligrafia illeggibile.
“Dobbiamo salire”.
Obbedisco. Ripenso a papà che se ne sta curvo in mezzo alla strada, mentre un
brivido mi percorre la schiena. Ormai riconosco i segnali della perdita del
controllo: iniziano sempre con una specie di tremolio nel sangue, che poi si
diffonde sulla pelle e alla fine nella mente. Provo a tenere a freno il mio
corpo ma è come tentare di domare un cavallo imbizzarrito. Per concentrarmi su
qualcosa, inizio a contare i miei passi.
Saliamo le scale. Sembro una bambina, pare che le gambe mi si siano accorciate
tutt’un tratto e che affrontare ogni gradino sia impossibile: zio Mike si
accorge delle mie difficoltà e mi prende di nuovo la mano, precedendomi sulla
rampa. Un passo alla volta, ragazzina, è come se mi dicesse. Un passo
alla volta, proprio come laggiù, un passo alla volta verso l’ignoto o la morte,
due strade obbligate che nessuno vorrebbe mai scegliere. Ho ripreso a sudare
freddo, la pelle delle braccia, lasciata scoperta dalla maglietta a maniche
corte, ha iniziato ad arricciarsi come il pelo di un cane rabbioso. Quanto
vorrei che questo schifo potesse finire all’improvviso come è iniziato.
Superato l’ultimo gradino ci ritroviamo al primo piano, dove finalmente sembra
esserci qualcuno che ci aspetta. Un tizio afroamericano sulla settantina, con un
cappellino dei D-Backs* calcato in testa, ci guarda con aria infastidita dal suo
trono di legno – una sedia che deve aver visto il Proibizionismo -.
“Salve” lo saluta lo zio cordialmente “Siamo qui per il gruppo dei reduci”.
Il vecchio ci lancia un’occhiata laconica, soffermandosi soprattutto sullo zio.
“Se è per lei, tu devi aspettare qui” risponde, girando una pagina del giornale
che ha tra le mani.
“Va bene, certo, aspetto qui” dice lo zio “Nessun problema”.
Invece il problema c’è eccome. Un prurito ignobile mi scava le gambe e vorrei
solo strapparmi di dosso i vestiti e grattare fino a sanguinare.
“Non ce la faccio” mormoro.
Devo aver parlato cosi piano che zio Mike non ha sentito.
“Ascolta, sarà roba da poco, io resto qui con il signore e in qualsiasi momento
posso raggiungerti. Ce la facciamo?” mi prende per le spalle e mi costringe a
guardarlo in faccia.
Non ce la possiamo fare, zio, abbiamo già fallito.
Annuisco senza proferire parola, so già che se dovessi aprire la bocca, in
questo preciso momento, vomiterei qualcosa di incomprensibile.
“Di là” aggiunge serafico il vecchio.
Ancora un sorriso d’incoraggiamento dello zio, che produce il solo effetto di
aumentare la nevrosi, poi faccio un passo oltre la sua schiena e sono sola di
fronte alla porta bianca. Hai fatto cose peggiori, mi ripeto. Oltre
l’uscio c’è già qualcuno che mi aspetta: riconosco che si tratta di un soldato
dalla postura, anche senza divisa è impossibile non accorgersi dello stesso
manico di scopa che ci hanno infilato su per il culo. Lo portiamo ovunque con
orgoglio, noi, è il tratto distintivo di un addestramento impietoso, o
semplicemente una delle tante cose imparate di cui non riuscirai mai più a
liberarti.
Lui, quasi certamente, mi sta studiando da quando ho messo piede al piano,
perché mi guarda con tranquillità e fermezza e nei suoi occhi non c’è traccia di
dubbio. Sa già cosa fare e ora lo scoprirò anch’io.
“Ciao collega” dice amichevolmente.
Avrà una trentina d’anni e rappresenta perfettamente lo scontro tra la genetica
americana e quella messicana.
“Ciao”.
Oltre le sue spalle, in fondo alla stanza, c’è un gruppo di persone sedute in
cerchio, qualcuno si è girato verso l’entrata per scoprire chi è il nuovo
arrivato. Sono tutti uomini, naturalmente.
“Devo perquisirti” mi spiega il collega “Non si possono portare armi qui
dentro”.
Maisie inizia improvvisamente a pesare come un macigno sul margine della mia
cintura. Mi irrigidisco e lui se ne accorge subito, deve essere abituato a
trattare con gente come me. Nell’istante in cui realizzo di fargli pena penso
anche che vorrei solo spararmi un buco in testa e mettere fine a questo strazio.
Ancora una volta, il corpo non asseconda la mente, e allargo gambe e braccia,
ubbidendo all’ordine. Non so se è un bene, forse sto solo rimandando
l’inevitabile.
Maisie viene scovata quasi subito, lui me la sfila dai jeans con nonchalance e
non sembra colpito di aver trovato un’arma carica infilata nelle mie mutande.
Mentre prosegue la perquisizione, incrocio lo sguardo di zio Mike, fermo oltre
la porta: sta guardando fisso Maisie. Quando alza gli occhi su di me non riesco
a fare altro che un’alzata di spalle. Non è colpa mia, zio, mi hanno
insegnato a portare la mia amica con me, a portarla dappertutto.
“La metto qui” mi spiega, indicando il cassetto di una scrivania sistemata
nell’angolo “all’uscita potrai riprendertela”.
Lo guardo adagiare Maisie in un letto di legno, insieme a un coltello e a un
taglierino. Le armi bianche non mi sono mai piaciute. Non appena lui chiude il
cassetto il mio cervello lancia l’allarme. Sono scoperta. Il pensiero mi fa
tornare a tremare, infilo le mani sotto le ascelle per nascondere le dita scosse
dalla tensione.
“Puoi sederti lì con loro”.
Annuisco ancora un paio di volte e mi avvio. Ora mi guardano quasi tutti. Lo
strizzacervelli si riconosce subito, è l’unico civile qui dentro e la cosa mi fa
sorridere: qual è l’oggettiva visione che può avere qualcuno che non ha mai
visto la guerra di un gruppo di spostati che hanno vissuto barbarie di ogni
genere o, peggio, che le hanno compiute? È esattamente per questo che non volevo
venire qui. Non resta altro che arrendermi all’idea che il pezzo più importante
di me, un ingranaggio nascosto nelle mie sinapsi, si è ormai fottuto così a
fondo da non avere più nessuna speranza di riabilitazione. È come aspettarsi che
un invalido di guerra si veda ricrescere le gambe amputate. Ma come spiegarlo
a papà, dannazione, come spiegarglielo?
“Benvenuta!” esclama il dottore con un sorriso “Come ti chiami?”.
“Abigail” rispondo, restandomene impalata fuori dal cerchio.
“Puoi sederti in uno dei posti liberi, scegli tu” dice lui, aggiustandosi gli
occhiali sul naso.
Scelgo una sedia al riparo tra due vuote, abbastanza lontana sia dal dottore che
dal tipo alla mia sinistra. Non ho ancora guardato nessuno in viso.
“Io sono Thompson” si presenta il dottore.
Cerco di trattenermi ma la risata esplode dalla mia bocca prima che possa
filtrarla nel buonsenso.
Lui non si scompone per niente e continua a sorridere pacifico.
“Cos’è che ti fa sorridere?” chiede.
Scuoto la testa. Il riso mi abbandona con la stessa violenza con cui mi ha
attraversato il corpo.
“Davvero, non farti problemi, qui puoi dire tutto quello che ti passa per la
testa” mi incoraggia Thompson.
“Ride perché ti chiami con un cazzo di mitra, ecco perché”.
La voce appartiene a un soldato seduto dalla parte opposta del cerchio. Anche
lui ha la testa rasata di fresco e due occhi azzurri iniettati di sangue. Mi
chiedo distrattamente se ci assomigliamo.
“Grazie Chase” risponde Thompson.
Dopo aver dato uno sguardo all’orologio, il dottore si siede più dritto e
schiarisce la voce.
“Dunque, direi che possiamo iniziare” annuncia, pacato “Ho portato i
questionari. Anche se c’è qualcuno che li ha già compilati negli scorsi
incontri, vi invito a rispondere nuovamente alle domande. Ricordate sempre che
il nostro è un percorso verso il miglioramento, perciò smetteremo di vederci
solo quando tutti i campi rimarranno vuoti”.
Thompson si alza e inizia a distribuire i fogli dal mio posto. Siamo in otto e
per ognuno di noi ha un sorriso diverso.
“Ed ecco le penne” dice al secondo giro, porgendoci una scatola dalla quale
tutti estraiamo una biro “Potete usare il banco della vostra sedia, si estrae
dal lato destro”.
Obbedisco con un momento di ritardo, già troppo assorbita dal decifrare le
scritte stampate sul mio foglio. Faccio fatica a mettere a fuoco, a
concentrarmi, penso insistentemente a Maisie rinchiusa nel cassetto. E se non
dovessero più restituirmela? Sbircio il soldato all’entrata, che se ne sta
placidamente seduto sul bordo della scrivania e sembra la persona più serena del
mondo.
Nella prima riga trascrivo nome e cognome, nella seconda età attuale, età di
entrata in servizio e campo di battaglia. La terza mi chiede il peso corporeo e
realizzo di non salire su una bilancia da almeno due anni, perciò lascio il
campo vuoto e passo alla domanda successiva. “Che tipo di trauma hai subito?”.
La penna bascula tra le mie dita e crolla sul banco, poi per terra. Mi chino a
raccoglierla e nascondo il viso tra le ginocchia, prendendo un respiro profondo.
Quando torno dritta, le dieci righe vuote mi stanno ancora aspettando, in
agguato. Decido che non scriverò nulla, fingo che questa domanda non esista e
passo a quella successiva. “Descrivi i tuoi sintomi”. Li riporto quasi tutti,
nascondendo l’unico che potrebbe puntare il riflettore su quello che è successo.
Quando abbandono la penna mi rendo conto di essere l’ultima ad aver finito.
“Bene, ora, come al solito, leggeremo a turno. Lo scopo di questo esercizio è
condividere il trauma” dice Thompson, tirando fuori un block-notes dalla tasca e
aprendolo sul suo banco “Inizieremo dalla mia destra e continueremo in senso
antiorario. Prego Andrew”.
Andrew è molto giovane e ha un paio di tristi occhi all’ingiù. Legge senza
espressività, con poche pause. Anche lui era in Iraq, si scopre, gli avevano
assegnato uno dei compiti più ingrati che esistano: fotografare i cadaveri per
il riconoscimento d’identità. Ho conosciuto un collega che lo faceva, laggiù.
Non puoi restare normale a lungo se il tuo lavoro è immortalare pezzi di resti
umani. I suoi sintomi assomigliano ai miei, a eccezione delle allucinazioni
visive.
Il secondo è Chase, anche lui si rifiuta di rivelare il trauma. Faccio fatica a
seguirlo, soprattutto perché si agita sulla sedia come una pallina da pingpong,
rimbalzando da un fianco all’altro. Sull’avambraccio abbronzato ha tatuato un
nome, “Cindy”, e indossa ancora la piastrina identificativa. Io l’ho conservata
nel mio armadio, nella tasca della divisa, e, davvero, non ho nessuna voglia di
rivederla.
Quasi tutti gli altri sono reduci dall’Iraq e un paio dall’Afghanistan. La
lettura prosegue con tranquillità, interrotta da qualche risatina scema di
Chase, che sembra il più stronzo qui dentro. Prima che me ne renda conto è il
mio turno. Inizio a leggere dai miei dati personali, salto a piè pari le righe
bianche del trauma e finisco a elencare i sintomi.
“Immagini” leggo, rendendomi conto solo ora che questa parola non spiega niente
“Voglio dire, è come se vedessi alcune cose che sono successe, nei momenti
sbagliati”.
“Certo, è chiaro. Sono i flashback” mi rassicura Thompson.
Qualcuno degli altri annuisce.
“Ecco, flashback” riprendo, sentendomi stupida “Allucinazioni uditive, giusto,
si dice così? Mancanza di appetito, insonnia, rabbia. E poi beh, ecco, non ho
più il mio ciclo”.
Mi sembra di aver finito di leggere la lista della spesa. Chase è proprio
scoppiato a ridere, stavolta, e fatico a trattenere il fastidio.
“Grazie, Abigail” dice Thompson “Chase, gentilmente, puoi condividere con
noi…?”.
Chase scivola in avanti sulla sedia, le gambe larghe ben piantate a terra e i
gomiti appoggiati ai braccioli. I residui della risata si sono cristallizzati in
lacrime lungo i suoi occhi folli. È più pazzo di te, mi rassicuro.
“Che puttanata” dice, rivolgendosi direttamente a me e ignorando il dottore “Ma
ti sei ascoltata? Non ho più il mio ciclo”.
“Chase, per favore, modera i termini. È una cosa naturale, un sintomo come un
altro. Perché ti infastidisce?” interviene il dottore.
Chase mi guarda dritto negli occhi. So che dovrei abbassare lo sguardo, a questo
punto, so che sarebbe l’unico modo intelligente di evitare lo scontro. Ma non
voglio. La tensione che mi ha minacciato fino a questo momento inizia a
trasformarsi in collera. Non saprei enumerare le volte in cui sono stata
guardata così da un collega, con quell’aria di compatimento misto a irritazione.
L’ultimo che mi ha guardata così è stato il mio caporale, prima del congedo
forzato.
“È lei che mi infastidisce” grugnisce Chase.
“È solo perché sei una testa di cazzo” rispondo.
Qualcuno degli altri commenta sommessamente.
Chase mi punta un dito contro.
“Voi non avreste mai dovuto mettere piede laggiù. Io l’ho sempre detto, non ho
mai voluto una troia nella mia unità. Sei andata in guerra, di che cosa ti
lamenti? Che ti aspettavi, di ricamare le iniziali sulla divisa del tuo
fidanzato?”.
Thompson dice qualcosa riguardo al far intervenire qualcuno ma la sua voce si
trasforma presto in un fruscio, come vento tra le foglie.
La rabbia è come una marea, si alza, ingoia tutto. A questo punto, in questo
momento, non c’è niente di ideologico nel desiderio che ho di ferire Chase a
mani nude: è solo un bisogno animale. Chino la testa, un fischio sottile inizia
a diffondersi nella mente, come un allarme. L’ho sentito anche quel giorno, dopo
aver scaricato il mitra contro di lui. Quel giorno l’allarme non è
arrivato in tempo e oggi non lo voglio ascoltare, ha esaurito la sua utilità.
Piego il foglio, lo poso sulla sedia vicina, richiudo il banco. Credo tutti qui
pensino che stia per andarmene e Thompson parla ancora, muove la bocca senza che
io possa decifrare alcun suono, come un pesce rosso in una boccia. Quando mi
scaglio contro Chase anche i contorni delle cose smettono di essere nitidi.
Penso solo alla mia penna e al fatto che ora la userò per cavargli gli occhi.
Ci arrivo quasi, ai suoi occhi. La punta è a uno sputo dalla sua faccia da
stronzo, quando qualcosa di pesante mi colpisce al fianco e mi schianta a terra,
a un metro da Chase. Ora il fischio è così forte da assordarmi, è come se fosse
appena esplosa una granata. Non riesco a realizzare cosa sta succedendo, sento
la stessa forza afferrarmi per le spalle e tirarmi su come uno straccio. Fa male
e il dolore mi risveglia, in parte. Realizzo che si tratta di due braccia,
attaccate a un corpo che mi sovrasta.
“Adesso andiamo a farci una passeggiata”.
L’udito è tornato, insieme a una parvenza di capacità motorie. Faccio per
divincolarmi ma lo sconosciuto mi pianta di nuovo una mano sulla spalla e
stringe sul trapezio.
“Non costringermi a usare le maniere forti. Cammina”.
Rilevo distrattamente lo scompiglio che si è creato nel cerchio. Qualcuno è in
piedi, Chase sta urlando altri insulti, Thompson cerca di dirigere il circo.
Non mi dispiace, non mi dispiace per niente.
*
Mike se ne sta appoggiato alla porta, a guardare quello che succede dentro la
stanza. La ragazzina si è seduta da poco e sembra che il peggio sia passato. Il
ragazzo di guardia gli ha permesso di assistere all’incontro da lontano, anche
se da quella distanza non può percepire niente più di qualche brusio. Non
pensare alla pistola che Abigail teneva infilata nei pantaloni è difficile,
cerca di concentrarsi sui dettagli, la lavagna di sughero appesa a una parete,
per esempio, con appuntate le foto di qualche volto sorridente, ma la pistola
continua a riaffiorare, un contorno all’interno del quale ogni altra immagine
sembra riflettersi. È faticoso ripetersi che tutto finirà per il meglio, più di
quanto lo sia stato convincere lei a entrare lì dentro. Bobby non riuscirebbe
mai a mentire con tanta convinzione e forse lui ha già iniziato ad arrendersi, a
rinunciare? Non vuole neppure prendere in considerazione l’idea. Ce la tireranno
fuori, anche sputando sangue. A costo di qualsiasi cosa, ce la tireranno fuori.
Mentre rimugina su questi pensieri lugubri, qualcuno lo affianca e poi supera la
porta. È un uomo sui trentacinque, alto e ben piazzato. Saluta il collega di
guardia con una pacca sul braccio e Mike si ritrova ad ascoltare la
conversazione.
“Tutto ok?” chiede il nuovo arrivato, lanciando uno sguardo al gruppo.
Ora tutti i componenti del cerchio sono intenti a scrivere.
“A posto” risponde l’altro “Ci sono due nuovi, la ragazza e il coglione accanto
a Fisher. Lo tengo d’occhio da quando è entrato”.
“Ah, ok, lo conosco”.
“La ragazza aveva una M9** carica”.
“È mia nipote” si intromette Mike, infastidito dal tono.
“Jake” si presenta il nuovo arrivato, allungando una mano.
Mike gliela stringe, guardandolo dritto negli occhi.
“Ha fatto bene a portarla qui” dice Jake “Possiamo aiutarla”.
“Lo spero” dice Mike.
“Reduce dall’Iraq?” chiede Jake, dopo aver dato un’occhiata ad Abigail.
“Sì…”.
“Quando è rientrata?”.
“Un mese fa, circa. È una brava ragazza”.
Jake annuisce, dondolandosi sui talloni. Per qualche minuto la conversazione
langue, mentre nel cerchio ognuno ha iniziato a leggere dal proprio foglio. Mike
si concentra sulla ragazzina, seduta composta, con il foglio posato sul banco.
Il velo dorato di capelli che le disegna il profilo del cranio sembra una corona
o forse è solo il suo affetto a trasfigurare il taglio marziale in un’opera
d’arte. Si è sempre sentito così, di fronte a lei, estasiato come lo sarebbe
qualunque padre del mondo. In fondo è un po’ come se lo fosse davvero.
Stanno osservando tutti e tre l’incontro, quando l’atmosfera sembra cambiare
improvvisamente. Il tono della conversazione si è fatto più acceso e il volume
più alto. Mike è stupito nel constatare che tra i protagonisti dello scambio c’è
Abigail, che ha indurito il volto in un’espressione aggressiva. L’altro
interlocutore è qualcuno seduto al lato opposto del cerchio.
Jake ha fatto qualche passo avanti e non sembra più rilassato come gli è parso
fino a questo momento. Mike, messo sull’attenti da un gesto di Abigail, lo segue
a ruota.
“Ehi, amico, non puoi entrare qui” la voce del ragazzo lo lascia indifferente.
Jake si avvicina repentinamente al cerchio pochi istanti prima che Abigail si
scagli sullo sconosciuto. Mike la vede tendersi come un elastico verso l’uomo e
poi piegare un braccio per colpirlo. Quando Jake la ferma, con uno spintone che
la butta a terra, si paralizza.
Il ragazzo lo afferra saldamente per un braccio prima che possa realizzare il
desiderio di raggiungere Abigail e difenderla.
“Non le fa niente, non le fa niente” ripete, tirandolo indietro.
Mike tenta di divincolarsi ma l’avversario è troppo forte. Quando vede Abigail
rialzarsi, il cervello sembra riprendere ossigeno. Cosa sta succedendo,
dannazione? Assiste impotente al trattamento rude di Jake, che la afferra per le
braccia e la costringe ad allontanarsi dal cerchio.
“Stai bene?” sfiata, quando entrambi gli passano davanti, diretti verso
l’uscita.
Abigail si limita a scoccargli uno sguardo omicida, assecondando le istruzioni
di Jake. Solo ora Mike si rende conto di quanto l’uomo sia forte rispetto a lei.
“La pistola” dice Jake, allungando una mano verso il collega.
Quello la estrae dal cassetto e gliela allunga, sotto gli occhi dardeggianti di
Abigail, che non perde un passaggio.
“Quella è la mia arma” sibila, minacciosa.
“Non metterti a fare la voce grossa con me. Andiamo” risponde Jake, infilando la
pistola nei pantaloni.
Entrambi si dirigono verso le scale e Mike li segue a ruota, ritrovando l’uso
della parola.
“Non puoi trattarla così!” esclama.
“Non si azzardi a dirmi cosa devo fare” ringhia lui “Le sto salvando il culo”.
Negli occhi chiari dello sconosciuto Mike legge una verità innegabile: Abigail è
pericolosa.
“Ha bisogno di aiuto” dice, attraversando l’ingresso principale.
“Lo so” risponde Jake.
All’esterno li aspetta Bobby che, non appena realizza il quadro, si fa avanti
con un’espressione tra il confuso e il furioso.
“Che cosa…” farfuglia “Tira giù le mani da mia figlia”.
“E questo chi è?” chiede Jake, fermandosi.
“Suo padre” risponde Mike “Bobby, questo signore si occupa della terapia”.
Non ne è certo ma per il momento potrebbe essere l’unica giustificazione che
impedirà a suo fratello di peggiorare esponenzialmente la situazione.
“Siete venuti in macchina?” domanda Jake a Bobby, che è ancora interdetto.
“Sì” risponde Mike.
“Bene” Jake sfila la pistola dalla cintura e gliela porge “Questa la tenga lei.
Ha la sicura ma stia attento. Io e la ragazza andiamo a fare un giro”.
“Io non vado da nessuna parte” geme Abigail, tentando di sfuggire alla presa
dell’uomo.
“Lei non va da nessuna parte!” Bobby si frappone tra Mike e l’uomo, sfidandolo
apertamente.
“Signore, sua figlia ha appena tentato di sfregiare un uomo. Ha bisogno di
aiuto. Può decidere se fidarsi di me e del fatto che in questo momento è
pericolosa per se stessa e per gli altri, oppure rimetterle in mano quella
pistola e riportarsela a casa nella consapevolezza che, nel migliore dei casi,
tenterà di spararsi un colpo”.
Bobby si cristallizza, incastrato nell’orrore e nello spaesamento. Abigail
abbassa la testa e, dopo un momento di silenzio, inizia a piangere.
“Dagli le chiavi” interviene Mike, atono.
Bobby non risponde. Fissa sua figlia come se volesse chiederle il permesso ma
lei continua a scuotere la testa e piangere.
“Dagli le chiavi, Robert”.
Ancora un lungo istante di esitazione, poi suo fratello infila la mano in tasca
e offre le chiavi a Jake.
“Ci rivediamo qui tra un’ora. Potete entrare, se volete” dice Jake, lasciando la
presa sulla spalla di Abigail.
È indifferente al pianto della ragazza, e questo a Mike non piace, ma allo
stesso tempo sembra riuscire a gestirla con sicurezza – una cosa in cui lui e
Bobby, obiettivamente, sono stati delle frane -.
“La macchina è quella” mormora suo fratello, indicandola.
Jake non si trattiene oltre. Si dirige spedito verso l’auto, preceduto da
Abigail, la invita a salire senza tante cerimonie, dopodiché si mette al volante
e, in meno di cinque minuti, si allontana, immettendosi nel traffico.
Mike e Bobby restano inermi, ammutoliti, tragicamente soli.
*
NdA: la pazzia mi fa deragliare su sentieri sempre più improbabili – ma magari è
un bene -. Sono riuscita a mettere mano alla bozza e ad aggiustare, aggiungere e
togliere, rispetto al percorso originale (senza discostarmi, in realtà,
semplicemente illustrando diversamente alcune situazioni).
Un paio di note tecniche:
*D-Backs: sta per Arizona Diamondbacks, la squadra di baseball di Phoenix.
**M9: è la pistola semi-automatica conosciuta anche come Beretta 92, in
dotazione nell’arsenale dell’esercito statunitense.
Come avrò modo di spiegare con i capitoli successivi, l’incontro di terapia al
quale Abigail partecipa non è di carattere istituzionale (cioè non è
un’assistenza fornita dall’organismo preposto dall’esercito per i reduci di
guerra): questo ha un’importanza fondamentale perché, come si vedrà poi, spesso
gli organismi istituzionali (statunitensi e non) hanno difficoltà nel
riconoscere ed inquadrare il PTSD, quasi demonizzando la patologia e
attribuendola a fragilità psichiche preesistenti dei soldati che manifestano il
disturbo. Attualmente, in quasi tutto il mondo – a eccezione forse dell’Olanda –
il disturbo post traumatico da stress non è riconosciuto né trattato dovutamente
e spesso i soldati si trovano ad affrontare in solitudine la malattia. Solo nel
2005 si stima che un quinto dei soldati americani rientrati dall’Iraq e
dall’Afghanistan abbiano manifestato i sintomi del PTSD o di una profonda
depressione e che, nello stesso anno, tali patologie abbiano portato al suicidio
di più di 6.000 reduci.
Il testo citato in apertura è la traduzione di un verso di Comfortably Numb, dei
Pink Floyd.
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