Skywalker

di GirlWithTheGun
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blue Monday ***
Capitolo 2: *** What Happened? ***
Capitolo 3: *** Echoes ***



Capitolo 1
*** Blue Monday ***


Skywalker

 

 

 

“Quand’eri giovane, brillavi come il sole

Ora lo sguardo nei tuoi occhi

è come buchi neri nel cielo

Hai scoperto il segreto troppo presto

Hai pianto alla luna

Minacciato dalle ombre della notte

Splendi, folle diamante

Hai cavalcato il vento d’acciaio

Fatti avanti delirante, visionario profeta

Tu, prigioniero, e splendi”

 

 

I

Blue Monday

 

“Dovrei essere felice di essere vivo?”

 

Aprile 2005

Mesa, Arizona

 

È un pomeriggio così pieno di luce. Continuo a produrre pensieri elementari e questo credo sia il terzo in ordine d’importanza.

Il secondo pensiero elementare riguarda il dolore: il polso fa male, brucia a intervalli regolari.

Il primo pensiero elementare potrebbe essere riassunto in un sussulto di terrore. Mi sono appena fatta tatuare i suoi piccoli occhi in un posto dove potrò rivederli per sempre. Credo sia l’idea più raccapricciante che abbia mai avuto, eppure sono tragicamente soddisfatta della mia decisione. Sono identici alla foto originale, una delle poche che ho il coraggio di mostrare a chi mi chiede com’è laggiù – una delle poche in cui non ci siano pezzi di qualcuno sparsi nella polvere -. Facevamo tutti quelle stupide foto, come se avessimo paura di dimenticare. Oh, andiamo, avremmo dovuto capire che dimenticare sarebbe stato sostanzialmente impossibile. Il ricordo non ha niente a che fare con la volontà, compare all’improvviso, come un nemico ben mimetizzato, ti coglie alla sprovvista. Le speranze di sopravvivenza in un agguato ben costruito sono prossime allo zero. Le speranze di superare indenni lo sgambetto di un ricordo sono nulle. E se il ricordo è martellante, se il ricordo è onnipresente, sei un morto che cammina.

Da quando sono tornata, ogni giorno è il giorno più triste della mia vita. Non posso dire sinceramente che non me lo aspettassi, è che in realtà non c’è stato il tempo di fare delle previsioni. C’era un’immensa quantità di luce, anche nel pomeriggio in cui ho visto per l’ultima volta gli occhi che ora se ne stanno nascosti sotto al cerotto. Un’orgia di sole, una distesa di terra gialla e straniera, i suoi occhi sperduti che si avvicinano sempre di più. La normalità in cui credevo è finita lì, è fissata in quell’ultimo fotogramma rubato alla memoria. Ora so che forse non c’è mai stato niente di normale in me, in ciò che ho deciso di fare o nel modo in cui ho scelto di vivere. Magari ha ragione lo zio Mike: ora Abigail è solo un fantasma. Incontro il mio riflesso nella vetrina di un negozio e mi chiedo se è così. Abigail è un fantasma, è  davvero solo un fantasma?

 

*

 

“Ciao tesoro”.

La risposta è un grugnito distratto. Abigail, di ritorno da chissà dove, gli passa davanti e scompare oltre l'uscio, sbattendo la porta senza tante cerimonie.

Mike socchiude gli occhi, il fumo dell’ultimo tiro gli fluttua davanti al naso insieme a un pessimo pensiero. Da quando la ragazzina è tornata la casa si è trasformata in una bomba a orologeria e gli pare quasi di sentire il ticchettio del tempo che li separa dall’esplosione. Dire che gli dispiace è riduttivo: se gli avessero dato ascolto, ora, al posto del casino che ha nella testa, Abigail avrebbe una laurea e starebbe cercando un posto nel mondo come ogni sano giovane adulto. Invece Bobby – il saggio, granitico, affidabile Bobby – ha assecondato l’aspirazione folle, trasformandola in una realtà.

“Fanculo…” mormora, lanciando il mozzicone nel prato e calpestandolo.

Il cigolio della porta alle sue spalle annuncia un’altra visita e, a giudicare dal passo, non può che trattarsi di suo fratello.

“Cos’è quella roba che ha sul braccio?” ringhia Bobby.

“Eh?” risponde Mike, senza comprendere.

Bobby avanza con aria minacciosa, fino a mettersi di fronte a lui.

“Lo so che con te parla, non prendermi per il culo. Cos’è quella benda che ha sul braccio? Non starà mica cercando di auto lesionarsi o cazzate simili, perché ti giuro che…”.

“Ti prego” sospira Mike, interrompendolo “Stai girando a vuoto…”.

“Che cosa vorresti dire?”.

“Voglio dire che adesso dovresti sederti qui”.

Bobby obbedisce, piantandosi con poca grazia nella sedia di plastica sistemata accanto alla sua. Mike lascia trascorrere un lungo minuto di silenzio, godendosi il paesaggio che si estende oltre il giardino della casa. Laggiù in fondo, sull’orizzonte di Maricopa, si sollevano i contorni di Camelback, la montagna rossa. La vista è stordente, bellissima, l’esordio del tramonto colora d’oro tutto quanto e sembra quasi di essere in paradiso.

“Devi portare la ragazzina in un posto dove possano aiutarla” dice Mike, cercando un'altra sigaretta nelle tasche dei jeans.

“Vuoi dire uno psichiatra, è questo che intendi? Abigail non è una matta” mormora Bobby.

Ha questa fissazione assurda che lei li stia ascoltando in qualsiasi momento e, per Mike, è davvero snervante pensare che la creda così scema da non poter capire quali siano le loro preoccupazioni.

“Cerca di pensare un po’ oltre. Abigail non è pazza” dice, sforzandosi di restare tranquillo “Ma circola armata, si porta dietro quella pistola anche nel cesso. Che cosa stiamo aspettando, esattamente? Che succeda qualcosa di tragico? Perché credimi, succederà”.

Lo sguardo combattuto di Bobby vaga sul terreno, alla ricerca di risposte. Sembra un animale rinchiuso in gabbia.

“Ti ha detto se è successo qualcosa? Con me fa finta di niente”.

“Intendi qualcosa oltre all’andare in guerra?” la domanda scivola dalle labbra di Mike e il sarcasmo non passa inosservato.

“Non ho voglia di ascoltare un’altra predica. Sei l’ultima persona che può permettersi di dare consigli di vita” la replica di Bobby è tagliente.

Mike sorride senza allegria e si ritrova a pensare che il passato è come una fedina penale sporca: ti viene rinfacciato sempre, soprattutto quando vorresti mettere la testa a posto.

“La senti urlare, di notte? La senti urlare tutti quei nomi?”.

La mascella di Bobby si contrae e lui distoglie gli occhi dai suoi. Deve aver sentito per forza. I lamenti iniziano sempre con delle urla strazianti e poi si trasformano lentamente in preghiere piene di dolore. Nessuno di loro due ha ancora avuto il coraggio di risvegliarla dai suoi incubi.

“Dicono che il rientro è il momento più difficile, forse è normale”.

“Non c’è niente di normale in quello che le succede”.

Entrambi si soffermano su quel pensiero spaventoso. Solo diciotto anni prima, in quello stesso giardino, coccolavano una bambina con una massa spropositata di riccioli biondi. Sarah - la deliziosa, paziente Sarah - se n’era già andata, portata via da una malattia che aveva infranto ogni speranza di vera felicità, insieme al cuore ingenuo di Bobby. Mike lancia un’occhiata di sottecchi al fratello minore: anche con lui il tempo è stato impietoso. Gli anni hanno scavato solchi profondi che, come argini di un fiume morto, attraversano il suo viso dove sono passati lacrime, dolore, rassegnazione, qualche sorriso sporadico dedicato alla ragazzina. Sa di essere responsabile di parte delle sue cicatrici naturali, specie quelle dovute alla preoccupazione, tutte concentrate lungo la fronte corrucciata. Sa anche che in questo momento Bobby sta cercando la soluzione, disperatamente come l’ha cercata al capezzale di Sarah, fino all’ultimo istante di vita.

“Farò un paio di telefonate. Ho un amico su a Phoenix che forse può aiutarmi” sospira Bobby, a un certo punto.

Mike annuisce e accende la terza sigaretta del pomeriggio, in onore del sensazionale prodigio che Dio sta costruendo nel cielo.

“Mi dispiace, Robert. Non doveva andare così” dice.

Lui non risponde, nel suo sguardo passa il pensiero che ha nascosto nel silenzio: niente doveva andare così.

 

*

Uno, due, tre… il boccone di carne scivola giù lungo la gola e già sento lo stomaco irrigidirsi, poi chiudersi. Il secondo pezzo di pollo, degli otto che ho sistemato nel piatto, mi fissa. Lo so che è tecnicamente impossibile ma è così. Il pezzo di pollo mi fissa come mi fissa Maisie, che ora se ne sta quieta contro la mia schiena, dormiente. Ho inserito la sicura? Credo di averlo fatto, sono certa di averlo fatto. Uno, due, tre. Il pollo ritorna nella mia gola, lo stomaco gorgoglia una protesta. Zio Mike ha finito da un pezzo la sua cena, se ne sta con la testa appoggiata a una mano, a guardarmi. Mi dà ai nervi. Non posso dargli la soddisfazione di far capire che mi sta innervosendo e questo mi irrita ancora di più. Respira, Abigail, respira. Sto perdendo anche il mio ultimo talento, la capacità innata della faccia da poker, come l’ha sempre chiamata lo zio – con lui non ha mai funzionato granché, certo, ma con papà e con il resto del mondo sì –; intendo la competenza del dissimulatore consumato, l’infallibile mezzo con il quale ho nascosto tonnellate di emozioni dietro espressioni neutrali, gesti misurati, comportamenti normali. Ho iniziato a farlo da bambina, quando ho capito che la mia tristezza non piaceva a nessuno. Voglio dire, a chi piacciono i bambini tristi? Io ero triste per via di mia madre. Non l’ho mai conosciuta davvero, non ne ho memoria, eppure ne sentivo una mancanza infinita e avevo tante di quelle domande che non avrebbero mai trovato risposta… ma la mia tristezza per gli altri significava qualcosa di strano e, per papà, significava solo altro male. Così ho seppellito tutto da qualche parte, dentro di me, e ho continuato a farlo, come se si trattasse di un vizio. L’ho fatto con l’invidia, con la gelosia, con la frustrazione dell’adolescenza. Poi l’ho fatto con la confusione, lo smarrimento, il disagio del passaggio all’età adulta. Anche dopo l’incidente, ho scavato una buca profonda e l’ho riempita con tutto il terrore, gli incubi, il tremolio delle mie mani, il ricordo del sangue. Solo che, questa volta, sembra non aver funzionato. Da quella buca sento le cose peggiori premere per uscire da me, per esplodere e farmi a pezzi. La mia faccia da poker si sta sgretolando e, oddio, zio Mike lo sa. Lo capisco da come mi guarda. Terzo e quarto boccone di carne, due in una volta, sperando di non vomitare sulla moquette.

Rimpiango il mio sangue freddo più di qualunque altra cosa. Mi ha permesso di fare scelte che non avrei mai pensato di contemplare, di infrangere barriere che non avrei mai pensato di superare. Quando ho deciso di arruolarmi non sapevo fino a che punto mi sarebbe servito ma poi, con l’addestramento e in missione, ho scoperto che senza sangue freddo qualsiasi soldato è condannato alla pazzia. Gli occhi dello zio sono azzurri come quelli di papà e lui è la sua versione corrotta, almeno secondo la morale comune. Io non sono pazza, zio Mike, Abigail non è una pazza. Tu lo sai. Non ho il coraggio di dirglielo con le parole. È che ho obbedito agli ordini, ho combattuto con precisione, anche se ci avevano fatto capire che noi donne saremmo state esenti dallo scontro in prima linea. Era una cazzata. Laggiù la prima linea è ovunque, si estende dal buco in cui ti accovacci, sperando di pisciare senza che il nemico ti sorprenda con le mutande abbassate, al villaggio in cui pensi di svolgere una ricognizione di routine. La prima linea è anche nella tua testa, quando di stendi e cerchi di dormire, pensando che è passato un altro giorno e, wow, contro ogni previsione, sei ancora vivo. Ce la potevo fare, l’ho dimostrato, io non sono debole. Ho ucciso, prima dell’incidente, e l’ho fatto senza pentirmene. Ho ucciso qualcuno che voleva uccidermi, ho ucciso qualcuno che ci avrebbe volentieri uccisi tutti. Capisci, zio Mike? C’è qualcosa di nobile, in questo, anche se tu non ci crederai mai. Ti prego, smettila di guardarmi così. Dentro la mia mente deflagra un urlo straziante, che mi costringe a serrare gli occhi. Per un attimo, tutto è buio. Quando li riapro, la forchetta mi scivola dalla mano e si schianta nel piatto, facendo sobbalzare papà. Zio Mike non fa una piega.

“Smettila di fissarmi”.

Quello che mi è uscito dalla gola è un ringhio: quando me ne accorgo è già troppo tardi. Ho perso di nuovo il controllo e spero che la mia disperazione non sia così evidente. Dove sei, Abigail, dove sei andata a finire?

“Ti sto solo guardando, perché ti dà tanto fastidio?” risponde lo zio, tranquillo.

Lo sai, perché.

“Niente… è che io, ho solo…” le parole mi sfuggono, tento di afferrarle prima che spariscano dalla mia lingua ma è un battaglia persa.

Anche papà mi fissa, ora. Allontano il piatto e, mentre bevo un sorso d’acqua, i miei occhi incrociano i suoi. Ti prego, papà, ti prego. Non è colpa mia. Lo sai, lo sai che è così. È così triste, dannazione. Da quando sono tornata, ha proprio le sembianze di qualcuno che non sa che pesci prendere. Se avessi ancora la mia faccia da poker ora potrei alzarmi, abbracciarlo, dirgli che tutto andrà a posto. Tento un sorriso ma fallisco, gli angoli della bocca mi abbandonano prima che riesca a partorire una smorfia credibile, e lui si rabbuia ancora di più.

“Domani andiamo a Phoenix” dice, riprendendo a mangiare.

“Va bene” replico.

“Tieniti pronta per le nove”.

“Ok”.

Lui non mi guarda più. Se ne sta con il capo chino sul piatto, piegato. I suoi capelli sembrano diventare sempre più grigi ogni giorno, come se la mia presenza lo stesse privando della vita. Me ne accorgo, lo sento ma non riesco a parlare, spiegare, come se tra me e lui ci fosse un gigantesco vetro. Forse nemmeno papà vuole ammettere che la sua Abigail non c’è più.

Mi alzo di scatto ma stavolta nessuno si spaventa, balbetto un ‘buonanotte’, ritorno indietro, su per le scale, supero l’uscio della mia camera, poi quello del bagno. Quando la porta è chiusa, riprendo a respirare. Il mio riflesso è sospeso sopra al lavandino, è un ritratto pessimo di ciò che dovrei essere. I miei ventidue anni sembrano essere diventati cento, il cranio rasato mi trasforma in un teschio senza identità e le ombre scure delle occhiaie si allargano sulle guance. Cerco me stessa lì dentro, in questa sconosciuta che mi guarda impaurita, e non riesco a trovarmi. Maisie mi accarezza la schiena e un po’ mi rincuora. La sfilo dalla cintura dei jeans, dove la maglietta lunga l’ha tenuta nascosta fino a questo momento, rimuovo la sicura. La sua bocca metallica e nera bacia la mia tempia e finalmente c’è qualcosa di giusto. La vera Abigail avrebbe il coraggio di farlo, il suo sangue freddo glielo permetterebbe e non ci sarebbero esitazioni. Un colpo per un colpo, qualcosa che potrebbe cancellare tutto. Vorrei solo uscire da questo corpo, evadere dalla prigione. Accarezzo Maisie lungo il grilletto e lei, di nuovo, mi fissa. Sono qui, sembra dire, sono qui per te. Un colpo per un colpo…

“Tesoro?”.

La voce dello zio mi trascina a forza nella realtà. Puoi ancora farlo, Abigail. Puoi farlo.

“Tesoro, ti ho portato un po’ di gelato”.

Una maledizione mormorata mi passa tra le labbra. Maisie trema nella mia mano, poi scivola lungo la coscia. Quando reinserisco la sicura sembra rimproverarmi. La nascondo al suo posto, nella cintura, e apro la porta allo zio senza preparare una faccia presentabile. Lui mi aspetta insieme a un secchiello di gelato alla vaniglia, seduto sul mio letto. Gli vado accanto e accetto l’offerta di un cucchiaio. Nel silenzio, mangiamo un po’ di gelato ciascuno, a turno. Una cosa che mio padre non farebbe mai. Ingoiando una cucchiaiata alla vaniglia, penso distrattamente che due minuti fa ero sul punto di farla finita e non so che spiegazione dare a tutto questo disastro.  

“Scusa” dico, prendendo una pausa.

Zio Mike mi lancia uno sguardo divertito. È solo un secondo, regredisco allo stadio della quindicenne che confessa a suo zio di essere stata sverginata da uno sfigato. Il ricordo mi trascina indietro, al momento in cui lui mi ha guardato nello stesso modo e mi ha detto: “cose che capitano”.

“Fottiti. Per un attimo ho pensato che mi avresti sparato” dice ora, sarcastico.

Passo una mano sul viso, scuotendo la testa. La verità non è così lontana da quello che ha appena detto. Forse potrei arrivare anche a questo, chi lo sa? Ho sentito di gente, laggiù, che ha fatto di peggio. Rabbrividisco.

“Tesoro?”.

“Non sto bene” sussurro, prima che mi manchi di nuovo il coraggio.

Non lo guardo in faccia ma so che lui non sta più sorridendo.

“Lo so” dice, poi mi abbraccia “Ce la facciamo ragazzina, stai tranquilla. Ce la facciamo”.

Me ne sto qui, tra le sue braccia magre da ex tossico, e realizzo di trovarmi sull’orlo del baratro.

 

 

 

 

*

 

NdA: sono secoli che voglio scrivere qualcosa sul PTSD, il disturbo post traumatico da stress, con un’attenzione particolare dedicata agli individui nei quali questo disturbo si manifesta così frequentemente e violentemente, cioè i soldati coinvolti in combattimenti pesanti. Qualche anno fa avevo esordito con un tentativo che sembrava essere partito bene, ma la storia era collocata in un frangente temporale meno attuale del nostro, nel periodo subito successivo alla guerra del Vietnam. Ho preferito, anche grazie a un contest che me ne ha dato la possibilità, riprendere il tema in un contesto più vicino e del quale abbiamo sentito parlare anche in tv. Il contest dal titolo "This Is War II - Situations" indetto da ManuFury sul forum di efp (http://freeforumzone.leonardo.it/d/10981324/This-Is-War-II-Situations-/discussione.aspx) prevedeva i seguenti paletti: il protagonista doveva essere una ragazza di nome Abigail, e doveva provenire dagli Stati Uniti; doveva avere due genitori dello stesso sesso (e per ragioni di plot, ho inteso il “genitori” in senso piuttosto ampio, visto che comunque si tratta di due fratelli); doveva avere un tatuaggio sul polso; doveva parlare di sé in terza persona; doveva avere una fissa particolare per le armi e chiamarle per nome (ho preferito concentrare questa caratteristica su un’arma in particolare). Dal contest mi sono ritirata perché, come sempre, non sono riuscita a trovare la quadra in tempo: comunque questa storia ha visto la luce.

La citazione in apertura è la traduzione del testo Shine On You Crazy Diamond, dei Pink Floyd, ed è dedicata a un personaggio della storia. La citazione in apertura del capitolo è invece un estratto da un’intervista a un reduce italiano affetto da PTSD che mi ha colpito e che ho ritenuto pertinente. Il titolo del capitolo, Blue Monday, è una canzone dei New Order e anche un riferimento al “giorno più triste dell’anno”, così ribattezzato da qualche scienziato idiota.

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Capitolo 2
*** What Happened? ***


II

What Happened?

 

“Il bambino è cresciuto

Il sogno è finito

E io sono diventato piacevolmente insensibile”

 

 

“No, non ce la faccio”.

È colpa del traffico, dell’affollamento di macchine disordinato su e giù per la strada, dei rumori – roboanti giganteschi rumori che rimbalzano nella mia testa – e soprattutto della paura. Cosa dovrei fare, lì dentro? Maisie si agita nervosa nella cintura, io rientro in auto e sbatto la portiera abbastanza forte da comunicare le mie intenzioni: voglio andare via da qui e voglio andare via subito. Papà e zio Mike ricambiano il mio sguardo, oltre il finestrino chiuso. Vi prego, vi prego, portatemi via da qui. Papà lancia un’occhiata allo zio, un ‘te l’avevo detto’ silenzioso, sconsolato, e fa per tirare fuori dalla tasca le chiavi della macchina. Zio Mike lo ferma, posandogli una mano sulla spalla, poi mormora qualcosa, voltandosi in modo che io non possa capire. Papà scuote la testa, si allontana trascinando i piedi su per il marciapiede, fino a fermarsi a una certa distanza: solo allora lo zio entra in auto, prendendo posto davanti a me. Ci guardiamo per qualche minuto, senza parlare, mentre le mie gambe tremano così forte da far vibrare l’abitacolo. Me ne accorgo ma non riesco a fermarle e questa cosa mi fa così tanta rabbia, mio Dio… non ho più la forza sufficiente neppure per questo?

Occhi negli occhi, io e zio Mike combattiamo una guerra mentale per la quale avrei bisogno di tutta la sobrietà del mondo. Appena distolgo lo sguardo, lui affonda il colpo decisivo.

“Devi farlo per lui” dice.

“Non ce la faccio”.

Vorrei spiegargli davvero come mi sento ma esprimermi è sostanzialmente impossibile, con questa pietra che sembra aver trovato casa nella mia gola.

“Lo capisco, sul serio. So cosa vuoi dire”.

“CAZZO NON LO CAPISCI”.

Sto urlando. Quando me ne rendo conto, serro le labbra e ci premo sopra una mano. Lo zio abbozza un sorriso comprensivo: non sembra spaventato né arrabbiato, solo molto dispiaciuto. Passa le dita tra i capelli lunghi, raccolti in una coda molle e disordinata, poi si siede di traverso nella poltrona passeggero, appoggiando la schiena alla portiera chiusa e sistemando i piedi sul sedile di papà. Ha le gambe lunghe e magre, le tiene piegate, i tacchi dei camperos infilzati nel cuscino, nella precisa posizione che papà odierebbe, quella che non mi è mai stato permesso di imitare.

“Quando tuo padre mi ha ripescato, ero finito” dice, allungando la mano tatuata verso di me “è venuto a prendermi in uno schifo di appartamento che dividevo con della gente uguale a me, in un momento pessimo. Il tempismo non è mai stato il suo forte, te lo concedo”.

Lo zio mi sorride, scoprendo la finestra buia che sostituisce il canino mancante. Cerco di riprendere a respirare normalmente, la mano ancora premuta contro la bocca. Non ho mai sentito questa storia.

“Ero così in botta che mi ero fatto tutto addosso, me ne stavo in un materasso a rotolarmi nella mia stessa merda con la bava alla bocca. È così che mi ha trovato, te lo immagini? Tuo padre non sa neppure cosa vuol dire rollarsi uno spinello… dannazione…”.

Lo zio sospira e abbassa la testa, interrompendo il racconto. Quando torna a guardarmi, le lacrime gli hanno velato gli occhi con un sipario lucido.

“Mi pento ancora oggi di avergli procurato quel dispiacere. Non era la prima volta, sai, aveva fatto diversi tentativi, con me, anche dopo aver sposato tua madre. Ma quel giorno, in quel momento… lui avrebbe potuto decidere di avermi perso per sempre. Invece mi ha avvolto in una coperta, mi ha portato a casa, mi ha lavato pezzo per pezzo. Non si è mai lamentato, non mi ha mai umiliato. Non puoi ricordare, eri troppo piccola, ma lui si alternava tra te, la mia disintossicazione e le terapie di tua madre. Lei era già malata. Si è preso cura di tutti noi ed è per questo che il mio culo è ancora qui”.

Scuoto la testa, porto le mani dietro il collo, le gambe ancora percorse da scosse violente.

“Non farmi questo, zio…” lo imploro.

“Lo devo fare, tesoro. Scusami ma non te lo posso permettere. Devi scendere da qui ed entrare là dentro: ti ci porterò in braccio se sarà necessario. E se vorrai dopo potrai spararmi un colpo in faccia con il tuo giocattolino” la voce di zio Mike è sempre calma ma le parole sono affilate come rasoi “Ma ora non ti permetto di tornare a casa. Devi fare il primo passo e lo devi fare per lui. Tu sei la cosa più preziosa che ha”.

Oltre il suo profilo, la sagoma di papà si staglia contro un cartellone pubblicitario immenso, che sembra quasi ingoiarlo. Se ne sta con la faccia rivolta all’insù, verso la modella diafana che lo scruta dall’alto, e sembra rivolgerle una domanda muta: la risposta sono le sue spalle piegate, il modo in cui pare rimpicciolirsi ogni istante un po’ di più. In un solo momento, vorrei poter sparire senza neppure essere mai esistita o avere la forza di fare qualcosa per tornare a essere la bambina che lui vorrebbe con sé.

“Adesso io ti accompagnerò lì dentro. Poi ti aspetteremo qui tutto il tempo che sarà necessario” spiega lo zio, pacato.

“Non posso entrare, non so… nemmeno cosa dire…” mormoro, inciampando nelle parole.

“Magari non dovrai dire niente, almeno provaci, sarà già qualcosa”.

Non mi dà il tempo di replicare. Schizza giù dalla macchina con un saltello e spalanca la mia porta.

“Forza” dice, porgendomi una mano.

La afferro, mentre realizzo di essere bagnata di sudore freddo dalla testa ai piedi, e mi lascio trascinare fuori. Il panico mi attorciglia lo stomaco in un nodo, non guardo né a destra né a sinistra mentre permetto allo zio di portarmi dove vuole, cioè sugli scalini che conducono all’ingresso dello stabile. Il posto l’ha trovato papà attraverso una sua conoscenza, come mi ha spiegato nemmeno mezz’ora fa: una specie di centro sociale abusivo che offre terapie di gruppo gratuite alla gente come me, i soldati che hanno fatto qualche stronzata.

Quando superiamo l’entrata non c’è nessuno ad accoglierci, l’androne è deserto e fatiscente, un tavolo in laminato è sistemato contro il muro di destra, accanto c’è una porta chiusa e poi le scale. Un foglio scritto a mano è attaccato alla parete con lo scotch, pende tutto da una parte. Zio Mike si avvicina e decifra la calligrafia illeggibile.

“Dobbiamo salire”.

Obbedisco. Ripenso a papà che se ne sta curvo in mezzo alla strada, mentre un brivido mi percorre la schiena. Ormai riconosco i segnali della perdita del controllo: iniziano sempre con una specie di tremolio nel sangue, che poi si diffonde sulla pelle e alla fine nella mente. Provo a tenere a freno il mio corpo ma è come tentare di domare un cavallo imbizzarrito. Per concentrarmi su qualcosa, inizio a contare i miei passi.

Saliamo le scale. Sembro una bambina, pare che le gambe mi si siano accorciate tutt’un tratto e che affrontare ogni gradino sia impossibile: zio Mike si accorge delle mie difficoltà e mi prende di nuovo la mano, precedendomi sulla rampa. Un passo alla volta, ragazzina, è come se mi dicesse. Un passo alla volta, proprio come laggiù, un passo alla volta verso l’ignoto o la morte, due strade obbligate che nessuno vorrebbe mai scegliere. Ho ripreso a sudare freddo, la pelle delle braccia, lasciata scoperta dalla maglietta a maniche corte, ha iniziato ad arricciarsi come il pelo di un cane rabbioso. Quanto vorrei che questo schifo potesse finire all’improvviso come è iniziato.

Superato l’ultimo gradino ci ritroviamo al primo piano, dove finalmente sembra esserci qualcuno che ci aspetta. Un tizio afroamericano sulla settantina, con un cappellino dei D-Backs* calcato in testa, ci guarda con aria infastidita dal suo trono di legno – una sedia che deve aver visto il Proibizionismo -.

“Salve” lo saluta lo zio cordialmente “Siamo qui per il gruppo dei reduci”.

Il vecchio ci lancia un’occhiata laconica, soffermandosi soprattutto sullo zio.

“Se è per lei, tu devi aspettare qui” risponde, girando una pagina del giornale che ha tra le mani.

“Va bene, certo, aspetto qui” dice lo zio “Nessun problema”.

Invece il problema c’è eccome. Un prurito ignobile mi scava le gambe e vorrei solo strapparmi di dosso i vestiti e grattare fino a sanguinare.

“Non ce la faccio” mormoro.

Devo aver parlato cosi piano che zio Mike non ha sentito.

“Ascolta, sarà roba da poco, io resto qui con il signore e in qualsiasi momento posso raggiungerti. Ce la facciamo?” mi prende per le spalle e mi costringe a guardarlo in faccia.

Non ce la possiamo fare, zio, abbiamo già fallito.

Annuisco senza proferire parola, so già che se dovessi aprire la bocca, in questo preciso momento, vomiterei qualcosa di incomprensibile.

“Di là” aggiunge serafico il vecchio.

Ancora un sorriso d’incoraggiamento dello zio, che produce il solo effetto di aumentare la nevrosi, poi faccio un passo oltre la sua schiena e sono sola di fronte alla porta bianca. Hai fatto cose peggiori, mi ripeto. Oltre l’uscio c’è già qualcuno che mi aspetta: riconosco che si tratta di un soldato dalla postura, anche senza divisa è impossibile non accorgersi dello stesso manico di scopa che ci hanno infilato su per il culo. Lo portiamo ovunque con orgoglio, noi, è il tratto distintivo di un addestramento impietoso, o semplicemente una delle tante cose imparate di cui non riuscirai mai più a liberarti.

Lui, quasi certamente, mi sta studiando da quando ho messo piede al piano, perché mi guarda con tranquillità e fermezza e nei suoi occhi non c’è traccia di dubbio. Sa già cosa fare e ora lo scoprirò anch’io.

“Ciao collega” dice amichevolmente.

Avrà una trentina d’anni e rappresenta perfettamente lo scontro tra la genetica americana e quella messicana.

“Ciao”.

Oltre le sue spalle, in fondo alla stanza, c’è un gruppo di persone sedute in cerchio, qualcuno si è girato verso l’entrata per scoprire chi è il nuovo arrivato. Sono tutti uomini, naturalmente.

“Devo perquisirti” mi spiega il collega “Non si possono portare armi qui dentro”.

Maisie inizia improvvisamente a pesare come un macigno sul margine della mia cintura. Mi irrigidisco e lui se ne accorge subito, deve essere abituato a trattare con gente come me. Nell’istante in cui realizzo di fargli pena penso anche che vorrei solo spararmi un buco in testa e mettere fine a questo strazio. Ancora una volta, il corpo non asseconda la mente, e allargo gambe e braccia, ubbidendo all’ordine. Non so se è un bene, forse sto solo rimandando l’inevitabile.

Maisie viene scovata quasi subito, lui me la sfila dai jeans con nonchalance e non sembra colpito di aver trovato un’arma carica infilata nelle mie mutande. Mentre prosegue la perquisizione, incrocio lo sguardo di zio Mike, fermo oltre la porta: sta guardando fisso Maisie. Quando alza gli occhi su di me non riesco a fare altro che un’alzata di spalle. Non è colpa mia, zio, mi hanno insegnato a portare la mia amica con me, a portarla dappertutto.

“La metto qui” mi spiega, indicando il cassetto di una scrivania sistemata nell’angolo “all’uscita potrai riprendertela”.

Lo guardo adagiare Maisie in un letto di legno, insieme a un coltello e a un taglierino. Le armi bianche non mi sono mai piaciute. Non appena lui chiude il cassetto il mio cervello lancia l’allarme. Sono scoperta. Il pensiero mi fa tornare a tremare, infilo le mani sotto le ascelle per nascondere le dita scosse dalla tensione.

“Puoi sederti lì con loro”.

Annuisco ancora un paio di volte e mi avvio. Ora mi guardano quasi tutti. Lo strizzacervelli si riconosce subito, è l’unico civile qui dentro e la cosa mi fa sorridere: qual è l’oggettiva visione che può avere qualcuno che non ha mai visto la guerra di un gruppo di spostati che hanno vissuto barbarie di ogni genere o, peggio, che le hanno compiute? È esattamente per questo che non volevo venire qui. Non resta altro che arrendermi all’idea che il pezzo più importante di me, un ingranaggio nascosto nelle mie sinapsi, si è ormai fottuto così a fondo da non avere più nessuna speranza di riabilitazione. È come aspettarsi che un invalido di guerra si veda ricrescere le gambe amputate. Ma come spiegarlo a papà, dannazione, come spiegarglielo?

“Benvenuta!” esclama il dottore con un sorriso “Come ti chiami?”.

“Abigail” rispondo, restandomene impalata fuori dal cerchio.

“Puoi sederti in uno dei posti liberi, scegli tu” dice lui, aggiustandosi gli occhiali sul naso.

Scelgo una sedia al riparo tra due vuote, abbastanza lontana sia dal dottore che dal tipo alla mia sinistra. Non ho ancora guardato nessuno in viso.

“Io sono Thompson” si presenta il dottore.

Cerco di trattenermi ma la risata esplode dalla mia bocca prima che possa filtrarla nel buonsenso.

Lui non si scompone per niente e continua a sorridere pacifico.

“Cos’è che ti fa sorridere?” chiede.

Scuoto la testa. Il riso mi abbandona con la stessa violenza con cui mi ha attraversato il corpo.

“Davvero, non farti problemi, qui puoi dire tutto quello che ti passa per la testa” mi incoraggia Thompson.

“Ride perché ti chiami con un cazzo di mitra, ecco perché”.

La voce appartiene a un soldato seduto dalla parte opposta del cerchio. Anche lui ha la testa rasata di fresco e due occhi azzurri iniettati di sangue. Mi chiedo distrattamente se ci assomigliamo.

“Grazie Chase” risponde Thompson.

Dopo aver dato uno sguardo all’orologio, il dottore si siede più dritto e schiarisce la voce.

“Dunque, direi che possiamo iniziare” annuncia, pacato “Ho portato i questionari. Anche se c’è qualcuno che li ha già compilati negli scorsi incontri, vi invito a rispondere nuovamente alle domande. Ricordate sempre che il nostro è un percorso verso il miglioramento, perciò smetteremo di vederci solo quando tutti i campi rimarranno vuoti”.

Thompson si alza e inizia a distribuire i fogli dal mio posto. Siamo in otto e per ognuno di noi ha un sorriso diverso.

“Ed ecco le penne” dice al secondo giro, porgendoci una scatola dalla quale tutti estraiamo una biro “Potete usare il banco della vostra sedia, si estrae dal lato destro”.

Obbedisco con un momento di ritardo, già troppo assorbita dal decifrare le scritte stampate sul mio foglio. Faccio fatica a mettere a fuoco, a concentrarmi, penso insistentemente a Maisie rinchiusa nel cassetto. E se non dovessero più restituirmela? Sbircio il soldato all’entrata, che se ne sta placidamente seduto sul bordo della scrivania e sembra la persona più serena del mondo.

Nella prima riga trascrivo nome e cognome, nella seconda età attuale, età di entrata in servizio e campo di battaglia. La terza mi chiede il peso corporeo e realizzo di non salire su una bilancia da almeno due anni, perciò lascio il campo vuoto e passo alla domanda successiva. “Che tipo di trauma hai subito?”. La penna bascula tra le mie dita e crolla sul banco, poi per terra. Mi chino a raccoglierla e nascondo il viso tra le ginocchia, prendendo un respiro profondo. Quando torno dritta, le dieci righe vuote  mi stanno ancora aspettando, in agguato. Decido che non scriverò nulla, fingo che questa domanda non esista e passo a quella successiva. “Descrivi i tuoi sintomi”. Li riporto quasi tutti, nascondendo l’unico che potrebbe puntare il riflettore su quello che è successo. Quando abbandono la penna mi rendo conto di essere l’ultima ad aver finito.

“Bene, ora, come al solito, leggeremo a turno. Lo scopo di questo esercizio è condividere il trauma” dice Thompson, tirando fuori un block-notes dalla tasca e aprendolo sul suo banco “Inizieremo dalla mia destra e continueremo in senso antiorario. Prego Andrew”.

Andrew è molto giovane e ha un paio di tristi occhi all’ingiù. Legge senza espressività, con poche pause. Anche lui era in Iraq, si scopre, gli avevano assegnato uno dei compiti più ingrati che esistano: fotografare i cadaveri per il riconoscimento d’identità. Ho conosciuto un collega che lo faceva, laggiù. Non puoi restare normale a lungo se il tuo lavoro è immortalare pezzi di resti umani. I suoi sintomi assomigliano ai miei, a eccezione delle allucinazioni visive.

Il secondo è Chase, anche lui si rifiuta di rivelare il trauma. Faccio fatica a seguirlo, soprattutto perché si agita sulla sedia come una pallina da pingpong, rimbalzando da un fianco all’altro. Sull’avambraccio abbronzato ha tatuato un nome, “Cindy”, e indossa ancora la piastrina identificativa. Io l’ho conservata nel mio armadio, nella tasca della divisa, e, davvero, non ho nessuna voglia di rivederla.

Quasi tutti gli altri sono reduci dall’Iraq e un paio dall’Afghanistan. La lettura prosegue con tranquillità, interrotta da qualche risatina scema di Chase, che sembra il più stronzo qui dentro. Prima che me ne renda conto è il mio turno. Inizio a leggere dai miei dati personali, salto a piè pari le righe bianche del trauma e finisco a elencare i sintomi.

“Immagini” leggo, rendendomi conto solo ora che questa parola non spiega niente “Voglio dire, è come se vedessi alcune cose che sono successe, nei momenti sbagliati”.

“Certo, è chiaro. Sono i flashback” mi rassicura Thompson.

Qualcuno degli altri annuisce.

“Ecco, flashback” riprendo, sentendomi stupida “Allucinazioni uditive, giusto, si dice così? Mancanza di appetito, insonnia, rabbia. E poi beh, ecco, non ho più il mio ciclo”.

Mi sembra di aver finito di leggere la lista della spesa. Chase è proprio scoppiato a ridere, stavolta, e fatico a trattenere il fastidio.

“Grazie, Abigail” dice Thompson “Chase, gentilmente, puoi condividere con noi…?”.

Chase scivola in avanti sulla sedia, le gambe larghe ben piantate a terra e i gomiti appoggiati ai braccioli. I residui della risata si sono cristallizzati in lacrime lungo i suoi occhi folli. È più pazzo di te, mi rassicuro.

“Che puttanata” dice, rivolgendosi direttamente a me e ignorando il dottore “Ma ti sei ascoltata? Non ho più il mio ciclo”.

“Chase, per favore, modera i termini. È una cosa naturale, un sintomo come un altro. Perché ti infastidisce?” interviene il dottore.

Chase mi guarda dritto negli occhi. So che dovrei abbassare lo sguardo, a questo punto, so che sarebbe l’unico modo intelligente di evitare lo scontro. Ma non voglio. La tensione che mi ha minacciato fino a questo momento inizia a trasformarsi in collera. Non saprei enumerare le volte in cui sono stata guardata così da un collega, con quell’aria di compatimento misto a irritazione. L’ultimo che mi ha guardata così è stato il mio caporale, prima del congedo forzato.

“È lei che mi infastidisce” grugnisce Chase.

“È solo perché sei una testa di cazzo” rispondo.

Qualcuno degli altri commenta sommessamente.

Chase mi punta un dito contro.

“Voi non avreste mai dovuto mettere piede laggiù. Io l’ho sempre detto, non ho mai voluto una troia nella mia unità. Sei andata in guerra, di che cosa ti lamenti? Che ti aspettavi, di ricamare le iniziali sulla divisa del tuo fidanzato?”.

Thompson dice qualcosa riguardo al far intervenire qualcuno ma la sua voce si trasforma presto in un fruscio, come vento tra le foglie.

La rabbia è come una marea, si alza, ingoia tutto. A questo punto, in questo momento, non c’è niente di ideologico nel desiderio che ho di ferire Chase a mani nude: è solo un bisogno animale. Chino la testa, un fischio sottile inizia a diffondersi nella mente, come un allarme. L’ho sentito anche quel giorno, dopo aver scaricato il mitra contro di lui. Quel giorno l’allarme non è arrivato in tempo e oggi non lo voglio ascoltare, ha esaurito la sua utilità.

Piego il foglio, lo poso sulla sedia vicina, richiudo il banco. Credo tutti qui pensino che stia per andarmene e Thompson parla ancora, muove la bocca senza che io possa decifrare alcun suono, come un pesce rosso in una boccia. Quando mi scaglio contro Chase anche i contorni delle cose smettono di essere nitidi. Penso solo alla mia penna e al fatto che ora la userò per cavargli gli occhi.

Ci arrivo quasi, ai suoi occhi. La punta è a uno sputo dalla sua faccia da stronzo, quando qualcosa di pesante mi colpisce al fianco e mi schianta a terra, a un metro da Chase. Ora il fischio è così forte da assordarmi, è come se fosse appena esplosa una granata. Non riesco a realizzare cosa sta succedendo, sento la stessa forza afferrarmi per le spalle e tirarmi su come uno straccio. Fa male e il dolore mi risveglia, in parte. Realizzo che si tratta di due braccia, attaccate a un corpo che mi sovrasta.

“Adesso andiamo a farci una passeggiata”.

L’udito è tornato, insieme a una parvenza di capacità motorie. Faccio per divincolarmi ma lo sconosciuto mi pianta di nuovo una mano sulla spalla e stringe sul trapezio.

“Non costringermi a usare le maniere forti. Cammina”.

Rilevo distrattamente lo scompiglio che si è creato nel cerchio. Qualcuno è in piedi, Chase sta urlando altri insulti, Thompson cerca di dirigere il circo.

Non mi dispiace, non mi dispiace per niente.

 

*

 

Mike se ne sta appoggiato alla porta, a guardare quello che succede dentro la stanza. La ragazzina si è seduta da poco e sembra che il peggio sia passato. Il ragazzo di guardia gli ha permesso di assistere all’incontro da lontano, anche se da quella distanza non può percepire niente più di qualche brusio. Non pensare alla pistola che Abigail teneva infilata nei pantaloni è difficile, cerca di concentrarsi sui dettagli, la lavagna di sughero appesa a una parete, per esempio, con appuntate le foto di qualche volto sorridente, ma la pistola continua a riaffiorare, un contorno all’interno del quale ogni altra immagine sembra riflettersi. È faticoso ripetersi che tutto finirà per il meglio, più di quanto lo sia stato convincere lei a entrare lì dentro. Bobby non riuscirebbe mai a mentire con tanta convinzione e forse lui ha già iniziato ad arrendersi, a rinunciare? Non vuole neppure prendere in considerazione l’idea. Ce la tireranno fuori, anche sputando sangue. A costo di qualsiasi cosa, ce la tireranno fuori.

Mentre rimugina su questi pensieri lugubri, qualcuno lo affianca e poi supera la porta. È un uomo sui trentacinque, alto e ben piazzato. Saluta il collega di guardia con una pacca sul braccio e Mike si ritrova ad ascoltare la conversazione.

“Tutto ok?” chiede il nuovo arrivato, lanciando uno sguardo al gruppo.

Ora tutti i componenti del cerchio sono intenti a scrivere.

“A posto” risponde l’altro “Ci sono due nuovi, la ragazza e il coglione accanto a Fisher. Lo tengo d’occhio da quando è entrato”.

“Ah, ok, lo conosco”.

“La ragazza aveva una M9** carica”.

“È mia nipote” si intromette Mike, infastidito dal tono.

“Jake” si presenta il nuovo arrivato, allungando una mano.

Mike gliela stringe, guardandolo dritto negli occhi.

“Ha fatto bene a portarla qui” dice Jake “Possiamo aiutarla”.

“Lo spero” dice Mike.

“Reduce dall’Iraq?” chiede Jake, dopo aver dato un’occhiata ad Abigail.

“Sì…”.

“Quando è rientrata?”.

“Un mese fa, circa. È una brava ragazza”.

Jake annuisce, dondolandosi sui talloni. Per qualche minuto la conversazione langue, mentre nel cerchio ognuno ha iniziato a leggere dal proprio foglio. Mike si concentra sulla ragazzina, seduta composta, con il foglio posato sul banco. Il velo dorato di capelli che le disegna il profilo del cranio sembra una corona o forse è solo il suo affetto a trasfigurare il taglio marziale in un’opera d’arte. Si è sempre sentito così, di fronte a lei, estasiato come lo sarebbe qualunque padre del mondo. In fondo è un po’ come se lo fosse davvero.

Stanno osservando tutti e tre l’incontro, quando l’atmosfera sembra cambiare improvvisamente. Il tono della conversazione si è fatto più acceso e il volume più alto. Mike è stupito nel constatare che tra i protagonisti dello scambio c’è Abigail, che ha indurito il volto in un’espressione aggressiva. L’altro interlocutore è qualcuno seduto al lato opposto del cerchio.

Jake ha fatto qualche passo avanti e non sembra più rilassato come gli è parso fino a questo momento. Mike, messo sull’attenti da un gesto di Abigail, lo segue a ruota.

“Ehi, amico, non puoi entrare qui” la voce del ragazzo lo lascia indifferente.

Jake si avvicina repentinamente al cerchio pochi istanti prima che Abigail si scagli sullo sconosciuto. Mike la vede tendersi come un elastico verso l’uomo e poi piegare un braccio per colpirlo. Quando Jake la ferma, con uno spintone che la butta a terra, si paralizza.

Il ragazzo lo afferra saldamente per un braccio prima che possa realizzare il desiderio di raggiungere Abigail e difenderla.

“Non le fa niente, non le fa niente” ripete, tirandolo indietro.

Mike tenta di divincolarsi ma l’avversario è troppo forte. Quando vede Abigail rialzarsi, il cervello sembra riprendere ossigeno. Cosa sta succedendo, dannazione? Assiste impotente al trattamento rude di Jake, che la afferra per le braccia e la costringe ad allontanarsi dal cerchio.

“Stai bene?” sfiata, quando entrambi gli passano davanti, diretti verso l’uscita.

Abigail si limita a scoccargli uno sguardo omicida, assecondando le istruzioni di Jake. Solo ora Mike si rende conto di quanto l’uomo sia forte rispetto a lei.

“La pistola” dice Jake, allungando una mano verso il collega.

Quello la estrae dal cassetto e gliela allunga, sotto gli occhi dardeggianti di Abigail, che non perde un passaggio.

“Quella è la mia arma” sibila, minacciosa.

“Non metterti a fare la voce grossa con me. Andiamo” risponde Jake, infilando la pistola nei pantaloni.

Entrambi si dirigono verso le scale e Mike li segue a ruota, ritrovando l’uso della parola.

“Non puoi trattarla così!” esclama.

“Non si azzardi a dirmi cosa devo fare” ringhia lui “Le sto salvando il culo”.

Negli occhi chiari dello sconosciuto Mike legge una verità innegabile: Abigail è pericolosa.

“Ha bisogno di aiuto” dice, attraversando l’ingresso principale.

“Lo so” risponde Jake.

All’esterno li aspetta Bobby che, non appena realizza il quadro, si fa avanti con un’espressione tra il confuso e il furioso.

“Che cosa…” farfuglia “Tira giù le mani da mia figlia”.

“E questo chi è?” chiede Jake, fermandosi.

“Suo padre” risponde Mike “Bobby, questo signore si occupa della terapia”.

Non ne è certo ma per il momento potrebbe essere l’unica giustificazione che impedirà a suo fratello di peggiorare esponenzialmente la situazione.

“Siete venuti in macchina?” domanda Jake a Bobby, che è ancora interdetto.

“Sì” risponde Mike.

“Bene” Jake sfila la pistola dalla cintura e gliela porge “Questa la tenga lei. Ha la sicura ma stia attento. Io e la ragazza andiamo a fare un giro”.

“Io non vado da nessuna parte” geme Abigail, tentando di sfuggire alla presa dell’uomo.

“Lei non va da nessuna parte!” Bobby si frappone tra Mike e l’uomo, sfidandolo apertamente.

“Signore, sua figlia ha appena tentato di sfregiare un uomo. Ha bisogno di aiuto. Può decidere se fidarsi di me e del fatto che in questo momento è pericolosa per se stessa e per gli altri, oppure rimetterle in mano quella pistola e riportarsela a casa nella consapevolezza che, nel migliore dei casi, tenterà di spararsi un colpo”.

Bobby si cristallizza, incastrato nell’orrore e nello spaesamento. Abigail abbassa la testa e, dopo un momento di silenzio, inizia a piangere.

“Dagli le chiavi” interviene Mike, atono.

Bobby non risponde. Fissa sua figlia come se volesse chiederle il permesso ma lei continua a scuotere la testa e piangere.

“Dagli le chiavi, Robert”.

Ancora un lungo istante di esitazione, poi suo fratello infila la mano in tasca e offre le chiavi a Jake.

“Ci rivediamo qui tra un’ora. Potete entrare, se volete” dice Jake, lasciando la presa sulla spalla di Abigail.

È indifferente al pianto della ragazza, e questo a Mike non piace, ma allo stesso tempo sembra riuscire a gestirla con sicurezza – una cosa in cui lui e Bobby, obiettivamente, sono stati delle frane -.

“La macchina è quella” mormora suo fratello, indicandola.

Jake non si trattiene oltre. Si dirige spedito verso l’auto, preceduto da Abigail, la invita a salire senza tante cerimonie, dopodiché si mette al volante e, in meno di cinque minuti, si allontana, immettendosi nel traffico.

Mike e Bobby restano inermi, ammutoliti, tragicamente soli.

 

*

 

 

 

 

NdA: la pazzia mi fa deragliare su sentieri sempre più improbabili – ma magari è un bene -. Sono riuscita a mettere mano alla bozza e ad aggiustare, aggiungere e togliere, rispetto al percorso originale (senza discostarmi, in realtà, semplicemente illustrando diversamente alcune situazioni).

Un paio di note tecniche:

*D-Backs: sta per Arizona Diamondbacks, la squadra di baseball di Phoenix.

**M9: è la pistola semi-automatica conosciuta anche come Beretta 92, in dotazione nell’arsenale dell’esercito statunitense.

Come avrò modo di spiegare con i capitoli successivi, l’incontro di terapia al quale Abigail partecipa non è di carattere istituzionale (cioè non è un’assistenza fornita dall’organismo preposto dall’esercito per i reduci di guerra): questo ha un’importanza fondamentale perché, come si vedrà poi, spesso gli organismi istituzionali (statunitensi e non) hanno difficoltà nel riconoscere ed inquadrare il PTSD, quasi demonizzando la patologia e attribuendola a fragilità psichiche preesistenti dei soldati che manifestano il disturbo. Attualmente, in quasi tutto il mondo – a eccezione forse dell’Olanda – il disturbo post traumatico da stress non è riconosciuto né trattato dovutamente e spesso i soldati si trovano ad affrontare in solitudine la malattia. Solo nel 2005 si stima che un quinto dei soldati americani rientrati dall’Iraq e dall’Afghanistan abbiano manifestato i sintomi del PTSD o di una profonda depressione e che, nello stesso anno, tali patologie abbiano portato al suicidio di più di 6.000 reduci.

Il testo citato in apertura è la traduzione di un verso di Comfortably Numb, dei Pink Floyd.

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Capitolo 3
*** Echoes ***


III

Echoes

 

“Estranei attraversano la strada, per caso due diversi sguardi si incontrano

Ed io sono te e ciò che vedo sono io

Ed io ti prenderò per mano”

 

 

Il mio cervello si è inceppato, le immagini precipitano davanti agli occhi, sono fotogrammi sfocati e non appartengono alla realtà contingente. Fisicamente so di essere seduta in auto, so che lo sconosciuto mi sta portando chissà dove, ma io non sono qui, sono nel ricordo fotografato delle mie ginocchia che si incastrano nella terra gialla, nella sensazione del grilletto che fa resistenza, nei suoi occhi, sono nei suoi occhi i suoi occhi i suoi occhi. Devo respirare. Devo respirare. Il segreto dell’incamerare ossigeno mi sfugge, ora è troppo, mi gira la testa. Respiro forte, non riesco più a fermarmi. Il petto mi fa male e ora ho la certezza di stare per morire.

Sento una voce urlarmi contro un ordine ma è come se avessi la testa immersa nell’acqua e recepisco nient’altro che suoni vibranti. La mia morte sembra durare un’eternità ed è fatta tutta di vertigini, eppure non c’è verso che lui sparisca, è davanti a me, mi guarda prima del peggio e sorride. So che sto per urlare il suo nome, serro le palpebre e la bocca, mi sento cadere indietro. Qualcosa mi colpisce forte al volto. Non so cosa sia ma è come riemergere dall’acqua. Di nuovo un colpo forte, sullo zigomo. Il suo nome scivola via dalla mia lingua, improvvisamente riesco a scioglierlo e allontanarlo. Ancora una sferzata contro la guancia destra, ora fa davvero male. Riapro gli occhi, mi rendo conto di riprendere solo ora a respirare e realizzo che lo sconosciuto mi sta prendendo a schiaffi così forte che non mi sento più la pelle addosso.

“Rieccoti” sbuffa, con una mano a mezz’aria.

Non ho la forza di ribattere, la faccia pulsa, mi sembra di essermi schiantata contro un muro e non ho ancora capito che cosa sia successo. Mi rendo conto di guardare tutto dalla prospettiva sbagliata, orizzontale. Invece che essere seduta, sono distesa sul sedile dell’auto di papà, reclinato fino al margine possibile, e il tizio mi guarda dall’alto, inginocchiato tra il suo sedile e il mio, piegato in avanti per non sbattere la testa contro il tetto.

“Ci sei? Rispondimi” dice.

Annuisco e tento di sollevarmi. Lui mi pianta una mano sulla spalla, di nuovo, e mi spinge giù senza fatica.

“Stai lì per cinque minuti, hai ancora le gambe in pappa” ordina.

Non so cosa intende, mi limito ad afflosciarmi come un sacco vuoto mentre lui torna seduto e reclina il suo sedile fino a renderlo quasi parallelo al mio. Lo guardo allungare le gambe sul cruscotto, di lato per evitare il volante, ed estrarre qualcosa dalla tasca. Ha aperto le portiere da entrambi i lati ma non riesco a capire dove ci troviamo, non conosco abbastanza bene Phoenix, vedo solo i profili di qualche montagna, in fondo, oltre il suo braccio. Mi sento improvvisamente tesa come una corda e tutto quello che vorrei è crollare nel sonno. Le gambe tremano ancora. Ora capisco cosa intendeva dire con ‘pappa’.

“Hai avuto una bella crisi” dice, armeggiando con una bustina trasparente “ti è già capitato altre volte?”.

Ripesco il ricordo del giorno in cui il caporale mi ha detto che mi avrebbero rispedito al mittente con un calcio in culo. Avevo tentato di soffocare un collega e poi c’era stato un episodio simile, solo che nessuno aveva pensato di prendermi a schiaffi, perché ero armata.

“Dov’è la mia pistola?”.

Avrei voluto essere più minacciosa di così ma sembra che mi si siano strette le corde vocali.

“Al sicuro” risponde lui, voltandosi.

Mi sorride, sembra che mi stia prendendo in giro e allo stesso tempo che sia molto triste. Non riesco a decifrare il suo sguardo, è contraddittorio o forse sono io a essere del tutto bruciata. In ogni caso, non mi piace. E la testa, oddio, sembra che debba scoppiarmi da un momento all’altro.

“Com’è che ti chiami?” chiede lui.

Decifro vagamente la domanda ma la risposta mi sfugge, continuo a guardarlo mentre passa la punta della lingua contro una cartina. Sigilla la sigaretta e mi deride con gli occhi.

“Allora?” incalza, mentre un accendino gli compare tra le mani come per magia.

“Abigail” rispondo.

“Abigail” ripete lui, la fiamma che gli accende un riflesso rosso sul profilo.

Con tranquillità infila la sigaretta accesa tra le labbra. Riconosco l’aroma che si diffonde solo dopo qualche secondo di quiete. L’odore dell’erba mi fa cadere in un altro ricordo, un pomeriggio lontanissimo, le iridi slavate di Jenkins, il ragazzo dei miei quattordici anni, che mi fissano mentre chiudo la bocca intorno al mio primo spinello.

“Tieni” dice il tizio, porgendomi la sua sigaretta ritoccata.

Non ne ho voglia per niente. In effetti non riesco a trovare nulla, nella mia testa, di cui abbia davvero desiderio in questo momento. Forse solo avere la forza di scappare.

“Muoviti” insiste, premendo il filtro contro le mie labbra “Devi rilassarti un po’, fidati”.

Obbedisco, faccio un tiro debole che non lo accontenta, poi un altro più energico.

“Io credo che Dio ce l'abbia con me, Abigail” mi dice, mentre mi aiuta a fumare “Ti sembra possibile?”.

Non aspetta la mia risposta, preme di nuovo lo spinello e io tiro, in questo strano e delirante rituale. Lui se ne sta appoggiato su un gomito e non mi sta guardando davvero, sembra perso in qualche pensiero terribile. Non sono sicura di quello che dovrei fare e seguire l’ordine delle sue mani mi sembra l’unica cosa sensata, al momento. Se papà sapesse che sto fumando nella sua macchina mi ammazzerebbe – l’idea fuori luogo mi attraversa le sinapsi –.

“Fa di tutto per rovinare i miei piani” dice lui, scuotendo la testa.

Questa volta sono io a tirare a lungo, senza staccarmi. Lui mi spinge indietro con una mano, facendomi tornare distesa sul sedile.

“Ehi, calma…”.

Se ci riuscissi, sul serio, potrei tirargli un pugno dritto in mezzo agli occhi. Se solo fossi ancora l’Abigail di qualche anno fa e se avessi la forza di ridergli in faccia…

“Sei troppo giovane” lo sento mormorare, sullo sfondo dei miei sensi appannati.

“Che puttanata” sfiato.

Lui sghignazza – dove sei, Abigail? Ti prego fallo smettere – poi accende la radio. Justin Timberlake invade l’abitacolo con un acuto, seguito da bassi incalzanti. Sento un palloncino gonfiarsi tra lo stomaco e il cuore, sollevarmi con una presa leggera. La canzone recita l’unica verità plausibile dell’intero testo: ‘tutto quel che fai, quel che fai, quel che fai, ti tornerà indietro’. Fino all’ultimo centesimo, Mr Timberlake. Forse sto morendo ancora, o forse mi sto solo addormentando.

 

Quando riapro gli occhi è buio. Non del tutto, certo, è un’oscurità lontana anni luce dal nulla totale che c’era laggiù. Una notte artificiale in mezzo a una città civilizzata. Ricostruisco il passato recente, guardo fuori dal parabrezza e non trovo neppure una stella, solo riverberi aranciati e bianchi delle illuminazioni urbane. Ho nostalgia. La sento, è come se qualcuno mi si fosse seduto sul cuore. Sono sola in macchina, lui non c’è più e forse la sua assenza è peggio della sua presenza. Lo so perché. È perché ho paura. Sono indifesa, vulnerabile all’attacco. Il nemico sta arrivando, lo sento incedere nei meandri della mia testa, avvicinarsi scalpitando. Fa tremare di nuovo tutto e cigola come un carro armato. Mi tiro su a sedere mentre la gola mi si restringe e l’aria riprende a mancare. L’angoscia mi fa rimpicciolire tutto attorno, così spalanco la portiera, esco. L’aria della sera è fredda, rabbrividisco, inizio a camminare. E se il nemico è dentro di te, Abigail? Se ti ha già sconfitto?

Non so dove sono. Sotto ai miei piedi una distesa di sassi, a due metri da me qualcuno che saltella alla luce di un fuoco che non c’è. Faccio un passo avanti e il terrore mi paralizza. Finalmente riconosco il bambino che gioca con un aeroplano, perché il falò gli illumina la faccia allegra. Oh, Ahmed sorride ancora come il giorno prima del disastro. Mi sorprendo a pensare che è giusto che sia così, perché lui non è ancora morto. È vivo. È il responsabile del mio pensiero debole di questa sera, mentre indosso ancora la divisa e ho una pistola carica infilata nella cintura, in un posto dimenticato da dio. Vorrei un bambino mio, penso. Ahmed mostra orgoglioso il regalo agli altri, sopra di noi il cielo è una distesa immensa di stelle, il mondo è meraviglioso nonostante l’orrore che contiene. Ahmed è vivo. Io gli voglio bene. Non come a qualcuno che ti appartiene. So che ha una mamma, una povera donna sfasciata che comunica con noi solo con gli occhi. Gli voglio bene come a qualcosa di bello che trovi nel mondo e che ti sorprende. Ad anni luce da casa, insieme al sangue, io ho trovato un bambino, qualcosa di bello che non mi appartiene.

Gli vado incontro. So che sto piangendo ma voglio solo abbracciarlo un’ultima volta e invocare il suo perdono. Ti prego, perdonami, Ahmed. Non volevo farlo. Ho avuto troppa paura di morire. Ho eseguito un ordine. Ti prego, Ahmed, so che non è giusto. Ti prego dimmi che puoi portarmi con te e graziarmi da questa vita. Lui continua a ridere e rido anche io, in mezzo alle lacrime, come ho fatto quella notte. Chissà come fai a ridere, tu, dove trovi il coraggio. Mi inginocchio davanti a lui, al suo sguardo vivace e scuro, così vitale da fare male. Ti prego, abbracciami. Quella sera l’aveva fatto per ringraziarmi del suo regalo e io avevo scoperto che in tutto l’universo i bambini hanno lo stesso profumo. Quando allungo la mano, le lacrime mi appannano la vista. Incontro un corpo caldo, già so che non è il suo braccio ma ormai è tardi. Il nemico ha sferrato il suo primo colpo, mirato con precisione. Mi aggrappo alla maglietta del soldato, il mondo ritorna al suo posto.

Chiamo il suo nome. Così forte che forse, ovunque si trovi, potrà sentirlo. Il dolore mi piega a metà, mi affonda nella polvere. Annego. Vomito. Non sono più un essere umano da un pezzo e non riesco a provare pietà per me stessa. Mi vedo come dall’alto: un verme che rantola nella terra. La notte diventa sempre più densa, così densa che forse sono solo i miei occhi chiusi. Crollo.

 

Al secondo risveglio, è l’alba. Lo capisco dal colore ferroso dell’orizzonte, macchiato al suo margine da una lama rosata.

Sono di nuovo distesa sul sedile dell’auto di papà, trovo ad accogliermi un mal di testa e gli occhi del soldato, fissi su di me e pacifici come un mare in bonaccia.

“Buongiorno”.

Non rispondo. Vorrei cancellare la memoria, eppure è ancora tutto qui.

“Forse, adesso, con calma, dovrai raccontarmi” dice lui.

Mi giro sul fianco che mi garantisce il riparo dal suo sguardo. Davanti a me ho l’intelaiatura di plastica, ma al mio sguardo si sovrappone la vista della mente, nitida su quello che ricordo di questa notte. Io che afferro il soldato e gli piango addosso tutta la mia nauseante miseria. Qualche tempo fa mi sarei presa a calci da sola per una stronzata simile.

“Se lo fai, io ti aiuto” insiste lui.

“Non mi serve a niente il tuo aiuto” dico.

Ho le corde vocali che bruciano e la voce ridotta a un roco gracchiare.

“Sì che ti serve, se non vuoi morire”.

“Ma io voglio morire”.

“Sei patetica”.

“Vaffanculo”.

Lui ride di nuovo.

“Ascoltami, lo so cosa stai facendo” ribatte “L’ho già visto molte altre volte. Stai resistendo con le unghie e con i denti ma non sarà sufficiente. Se qualcuno non ti aiuta, crollerai. Non sei da sola al mondo e trascinerai con te tutti quelli che ti vogliono bene, li seppellirai. O magari farai loro del male. Lo stai già facendo”.

Stringo i denti fino a sentir male alle tempie.

“Ho visto il peggio. Raccontami cos’è successo e sappi che ho vissuto anche io quello che hai vissuto tu. La merda ci accomuna” aggiunge.

La merda ci accomuna. Pura poesia.

“Non è possibile” replico.

“Fidati” dice “Ho ammazzato un po’ di tutto: uomini, donne. Bambini”.

Il gelo mi cala addosso come una secchiata. Lo sa.

“Chi è Ahmed?”.

Il suo nome deflagra nell’abitacolo come una bomba.

“È uno che hai ucciso? Sai che l’abbiamo dovuto fare, vero? Sai che è per questo che siamo stati mandati lì?”.

“No” mormoro.

“No cosa?”.

Le parole mi si affollano nella mente, si accavallano, so che dovrò sputarle fuori per non impazzire, anche se non voglio farlo.

“Io non ero lì per questo” rispondo “Ero lì per proteggere donne e bambini”.

“Stronzate. È quello che ti racconti? Sai che eri lì per proteggere i tuoi compagni dalle donne e dai bambini”.

“Non aveva fatto niente di male!” esclamo rabbiosa.

Cala il silenzio. Poi la sua mano mi afferra per una spalla e mi invita a voltarmi. Obbedisco solo perché ho bisogno di qualcosa di vivo da inquadrare nello sguardo, o tornerò a vedere quello che non c’è. Lui ha l’aria disfatta e le occhiaie. Forse questa mattina abbiamo entrambi la stessa faccia.

“Chi, Ahmed?” dice, con voce più gentile.

Abbasso lo sguardo.

“È stato un incidente” la mia voce rimbomba in un’oasi di silenzio “Credevamo che gli avessero messo addosso una cintura esplosiva. Non si vedeva bene, piangeva e camminava verso di noi. Faceva molto caldo. Tre giorni prima avevano fatto lo stesso in un’altra base: un bambino imbottito di esplosivo saltato in aria in mezzo al campo, tre di noi morti sul colpo, due senza più le braccia. Avevamo paura. Avevamo sempre paura, laggiù, ma in quel momento avevamo iniziato ad averne anche dei bambini. Lui aveva un cavo che gli usciva dalla schiena e si avvicinava. Non potevamo correre il rischio. L’ho ucciso io. Il cavo era un pezzo di filo elettrico che gli era rimasto impigliato addosso mentre giocava”.

Mi sorprendo. La storia è già finita. Ritrattata senza le urla, senza la tensione, senza la pressione del tilt, del panico all’idea di finire in mille pezzi. Senza gli occhi di Ahmed pieni di lacrime, che mi fissavano, senza i suoi piccoli pensieri rivolti all’aeroplano che gli altri bambini avevano rotto. Senza la fotografia che conservavo ancora, il mostro seduto sorridente in mezzo ai bambini, con una pistola. E senza la stessa pistola carica che gli avevo puntato contro, senza il buco perfetto che gli avevo aperto nel cuore. Soprattutto senza le mie mani che frugano il suo corpo caldo e senza il sangue viscido tra le dita, senza le cariche esplosive che non sono mai esistite.

Incontro di nuovo gli occhi del soldato e lo sfido a dirmi che ho fatto la cosa giusta. Con mia sorpresa, lui non dice nulla. Mi guarda di rimando. Ora so che capisce davvero, so che condivide il mio disgusto e che forse un po’ di quel sangue innocente è stato anche sulle sue mani, di certo.

La merda ci accomuna.

Oh, sì.

Una vita per una vita, per una vita, per una vita…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

Note al volo: Echoes, altra canzone dei Pink Floyd.

Nessuna revisione, o così o non si pubblica fino al prossimo secolo. So che magari non interessa a nessuno, ma pazienza. Sto pensando alla tesi/voglio morire/chi lo desidera è il benvenuto. Saluti deliranti.

 

 

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